I dannati della rivoluzione. Violenza politica e storia d'Italia negli anni Sessanta e Settanta 8860562171, 9788860562173

Perché le generazioni nate negli anni Sessanta e Settanta non hanno ancora la loro storia? Perché c’è un’evidente spropo

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I dannati della rivoluzione. Violenza politica e storia d'Italia negli anni Sessanta e Settanta
 8860562171, 9788860562173

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I dannati della rivoluzione

Violenza politica e storia d’Italia negli anni Sessanta e Settanta a cura di Angelo Ventrone

eum > società e politica

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I dannati della rivoluzione

Violenza politica e storia d’Italia negli anni Sessanta e Settanta a cura di Angelo Ventrone Perché le generazioni nate negli anni Sessanta e Settanta non hanno ancora la loro storia? Perché c’è un’evidente sproporzione tra l’attenzione suscitata nell’opinione pubblica dai libri di memorialistica, dalle ricostruzioni giornalistiche su quel ventennio, e il silenzio degli storici? Certamente, molto è dipeso dal fatto che quando quel periodo si è chiuso nel sangue, le ragioni di chi vi ha partecipato sono rapidamente precipitate nell’ombra. E mentre le ideologie del ’900 sopravvivevano sempre più faticosamente a se stesse, non è sembrato più possibile, né interessante, recuperare le ragioni di chi aveva creduto, sperato, combattuto per la rivoluzione. Eppure, se vogliamo capire quello che è stato e come è cambiato il paese dopo quegli eventi, alcune questioni non possono più essere eluse: tutto è iniziato con il ’68 o ancora prima? Piazza Fontana ha rappresentato veramente la «perdita dell’innocenza» per un’intera generazione che si è sentita costretta a difendersi dalla violenza dello Stato, come è stato tante volte ripetuto, o ci sono altre piste da percorrere? Estrema destra ed estrema sinistra sono stati nemici assoluti o invece hanno condiviso più cose di quanto a lungo abbiamo creduto? Come sono stati raccontati quegli anni dai loro protagonisti? E che pensano le nuove generazioni di quelle vicende così lontane? Sono questi alcuni degli interrogativi che questo lavoro si propone di esplorare, ponendo a confronto studiosi sia di diverse provenienze politiche e culturali che di generazioni differenti, con il comune obiettivo di mettere in discussione il senso comune che si è andato lentamente stratificando dopo trent’anni di letture parziali. Contributi di Emanuele Macaluso, Alberto Melloni, Giovanni Moro, Michela Nacci, Edoardo Novelli, Guido Panvini, Demetrio Paolin, Federica Rossi, Gianni Scipione Rossi, Ermanno Taviani, Angelo Ventrone, Vittorio Vidotto. Angelo Ventrone insegna Storia contemporanea all’Università di Macerata. Tra i suoi libri, La seduzione totalitaria (2003), Il nemico interno (2005), Piccola storia della grande guerra (2005), La cittadinanza repubblicana (2008). In copertina parte della vignetta: “Italiano quale dei tre vuoi essere? Vota Democrazia Cristiana”.

eum edizioni università di macerata

isbn

978-88-6056-217-3

€ 15,00

eum > società e politica

I dannati della rivoluzione

Violenza politica e storia d’Italia negli anni Sessanta e Settanta

a cura di Angelo Ventrone

eum

Isbn 978-88-6056-217-3 Prima edizione: aprile 2010 ©2010 eum edizioni università di macerata Centro Direzionale, via Carducci 63/a – 62100 Macerata [email protected] http://ceum.unimc.it Stampa: tipografia S. Giuseppe srl via Vecchietti, 51 - 62010 Pollenza [email protected]

Indice

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Introduzione di Angelo Ventrone

21

Gianni Scipione Rossi

L’influenza della guerra d’Algeria sull’estrema destra italiana 41

Vittorio Vidotto

Violenza politica e rituali della violenza 61

Guido Panvini

La pianificazione della violenza (1969-1972) 79

Angelo Ventrone

Dal Palazzo d’inverno ai quartieri liberati. La trasformazione dell’idea di rivoluzione 101

Ermanno Taviani

Il terrorismo rosso, la violenza e la crisi della cultura politica del PCI 127

Emanuele Macaluso

Il PCI e la rivoluzione in Italia 139

Alberto Melloni

“Pochino”. Un esame delle fonti e della ricerca su Paolo VI, la chiesa e i cattolici nella vicenda Moro 179

Edoardo Novelli

L’iconografia della violenza politica 199

Federica Rossi

Memorie della violenza, scritture della storia. Elementi per un’analisi delle controversie ri-letture degli anni Settanta

221

Demetrio Paolin

Una ipotetica purità. La violenza nella letteratura sugli anni di piombo 239

Giovanni Moro

Memoria e impazienza 251

Michela Nacci

Leggere Gramsci a destra 275

Appendice iconografica

287

Notizie sugli autori

293

Indice dei nomi

Introduzione di Angelo Ventrone

Perché le generazioni nate negli anni Sessanta e Settanta non hanno ancora la loro storia? Perché c’è un’evidente sproporzione tra il quasi silenzio degli storici e l’attenzione suscitata nell’opinione pubblica dai libri di memorialistica, dalle interviste ai protagonisti, dalle ricostruzioni giornalistiche su quel ventennio e sui temi centrali che l’hanno percorso interamente, la contestazione e la rivoluzione? In Italia, il fenomeno fascista ha cominciato ad essere considerato un oggetto indagabile con gli strumenti dello storico già alla fine degli anni ’50, cioè a circa quindici anni dalla sua conclusione. Così non è stato invece – e così non è – per il periodo di cui ci occupiamo in questo volume, un periodo separato ormai da noi da un numero di anni ancora maggiore, più di trenta, e che nonostante ciò è ancora sostanzialmente ignorato dalla storiografia italiana. Certo, qualche libro ha cominciato meritoriamente a sondare il terreno, ma siamo solo all’inizio1. Eppure, di fratture storiche nette, che ci potrebbero aiutare a gettare uno sguardo nuovo su quel periodo ormai concluso, ce ne sono state: basti pensare al crollo del Muro di Berlino, alla dissoluzione dell’Unione Sovietica e alla scomparsa, nel corso

1 Cfr. G. Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni ottanta, Roma, Donzelli, 2003; M. Tolomelli, Terrorismo e società. Il pubblico dibattito in Italia e in Germania negli anni Settanta, Bologna, il Mulino, 2006; G. Panvini, Ordine nero, guerriglia rossa. La violenza politica nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta (1966-1975), Torino, Einaudi, 2009 e U. Gentiloni Silveri, L’Italia sospesa. La crisi degli anni Settanta vista da Washington, Torino, Einaudi, 2009.

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degli anni Novanta, di tutti i partiti che avevano fatto la storia dell’Italia repubblicana fino a quel momento. È sempre difficile dire perché un argomento non è ancora entrato nell’agenda degli storici. E, in effetti, si potrebbero moltiplicare all’infinito le polemiche su questioni interessanti ma ancora ignorate dagli studiosi. Certo, i politologi si sono occupati di quegli anni, anche se si sono concentrati prevalentemente sulle dinamiche interne alle organizzazioni terroristiche2. Gran parte del lavoro è stato però svolto dai giornalisti; in effetti, se non ci fossero stati loro a parlare e a far parlare − attraverso la raccolta di testimonianze – i protagonisti di quel periodo, oggi ne sapremmo veramente poco. Sono stati poi sempre loro ad accendere discussioni che hanno avuto una grande importanza per l’idea che il paese ha sviluppato della sua storia recente3. Eppure, resta ancora in gran parte irrisolto un nodo di vitale importanza: il confronto ravvicinato con i documenti dell’epoca. «Troppa memoria e poca storia. Troppi ricordi e pochi documenti, troppi sentimenti e poca filologia», ha scritto giustamente a questo proposito Giovanni De Luna4. Qualche anno fa, il Senatore Giovanni Pellegrino, Presidente della Commissione parlamentare sulle stragi e il terrorismo, ha ricordato alcune osservazioni di Renato Curcio, uno dei fondatori delle BR, che aveva accennato a una sorta di «complicità fra noi e i poteri» che impedisce a questi ultimi «e a noi di dire cosa è veramente successo» negli anni Settanta, cioè in «quella parte di storia che tutti ci lega e tutti ci disunisce». A questo proposito, Pellegrino ha parlato di un «patto di indicibilità» che lega ancora oggi le istituzioni e i militanti dei vari gruppi armati5:

2 Fondamentali sono stati in particolare i lavori di G. Galli, tra cui Il partito armato. Gli “anni di piombo” in Italia, 1968-1986, Milano, Kaos Edizioni, 1993 (1986) e quelli promossi dall’Istituto Cattaneo di Bologna tra gli anni ’80 e ’90. 3 Per i riferimenti alle principali opere di taglio giornalistico, ricordo solo quello che ne può essere considerato il capostipite, il volume di S. Zavoli, La notte della Repubblica, Milano, Mondadori, 1992; per il resto rimando ai riferimenti bibliografici nei vari saggi del presente volume. 4 G. De Luna, Le ragioni di un decennio. 1969-1979. Militanza, violenza, sconfitta, memoria, Milano, Feltrinelli, 2009, p. 162. 5 G. Fasanella, C. Sestieri con G. Pellegrino, Segreto di Stato. La verità da Gladio al caso Moro, Torino, Einaudi, 2000, pp. 151-153.

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un «patto» che fa sì che gli uni e gli altri abbiano fatto calare il silenzio sugli aspetti più controversi di quella esperienza: le infiltrazioni dei servizi segreti italiani e stranieri, la loro opera di manipolazione dei gruppi stessi e di depistaggio delle indagini; i legami internazionali del terrorismo italiano; i rapporti con la criminalità comune. Ora, senza voler seguire la dietrologia in una rincorsa che non avrebbe mai fine, credo che questa espressione possa essere utilmente adoperata a proposito di un’altra questione: un’indicibilità di fondo, ma non esplicitata, che ha spinto finora a rifiutare il confronto con i documenti prodotti nel periodo di cui ci stiamo occupando. Un rifiuto che è venuto innanzitutto dalla generazione di storici che hanno attraversato, nella loro giovinezza, proprio quegli anni. Una delle difficoltà principali è stata certamente rappresentata dal fatto che gli anni ’70 sono apparsi indissolubilmente legati alla stagione degli «anni di piombo», con le centinaia di vittime che si sono portati dietro. Ciò ha fatto sì che una valutazione di tipo morale, il tentativo di capire come sia stato possibile uccidere, cosa abbia spinto a sparare, abbiano preso il sopravvento sullo studio dei «percorsi e delle ragioni», non solo personali, ma storiche, sociali e culturali, che hanno sollecitato una parte significativa di due generazioni a vedere nella rivoluzione – e nella violenza − lo strumento per realizzare il proprio sogno politico. Dunque, da una parte, le vittime hanno rivendicato le proprie ragioni e hanno condannato la spietatezza dei terroristi, dall’altra, questi ultimi, in modo speculare, hanno cercato di salvare i motivi – di ordine morale − che li hanno spinti verso la lotta armata. Sergio Segio, uno dei leader di Prima Linea condannato per vari fatti di sangue, ad esempio, ha dedicato il suo libro del 2006, Una vita in Prima Linea, a tutti i figli dei suoi compagni «perché, crescendo e cominciando a saperne e a capire, non gli venga mai meno la certezza che i loro genitori sono state persone buone e leali. Che hanno lottato, con errori spesso gravi, ma anche con generosità e coraggio, per un mondo migliore e più giusto»6. 6

S. Segio, Una vita in Prima Linea, Milano, Rizzoli, 2006.

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Il libro di Segio è una delle opere di memorialistica più attente a ricostruire la complessità di quegli anni, il contesto in cui ha preso corpo la rivolta sua e di tanti altri suoi coetanei. Anch’egli, però, non è riuscito a evitare di suggellare le sue riflessioni con una valutazione di tipo morale, per la necessità di spiegare – forse soprattutto ai propri occhi – come è stato possibile, per usare le parole di Valerio Morucci, superare la repulsione a «essere obbrobriosi anche combattendo l’obbrobrio»7. Ci sono poi altre ragioni che mi sembrano contribuiscano a spiegare perché ci si sia fermati a raccontare le vicende legate ai singoli protagonisti – spesso i più noti −, e alle loro testimonianze, e perché sia mancato il confronto con le fonti, con ciò che a livello collettivo è stato detto, scritto, disegnato, fotografato, cantato in quel periodo. Innanzitutto, subito dopo la chiusura della stagione del terrorismo, cioè negli anni ’80, è apparso impossibile recuperare il senso di ciò che gli interpreti di quella stagione dicevano a se stessi, le ragioni che si erano dati per motivare la scelta della lotta armata. I fattori che hanno impedito questo recupero sono stati numerosi: la loro sconfitta nello scontro con lo Stato; la degenerazione, a partire dalla fine degli anni Settanta, della competizione tra le varie organizzazioni terroristiche in una guerra tra bande; i feroci omicidi in carcere dei dissidenti o dei militanti sospettati di essere dei «traditori»; le rivelazioni dei pentiti e la ricostruzione non storiografica, ma giudiziaria, di quelle vicende nei processi alle organizzazioni armate. Tutto ciò ha fatto sembrare che quel periodo potesse riassumersi solo in un lungo elenco di fatti di sangue di cui era necessario individuare i singoli responsabili, ma di cui era impossibile, per molti versi anche inutile, recuperare le motivazioni originarie. Più tardi, quando sarebbe stato invece possibile discutere le ragioni dell’ondata di contestazione che aveva attraversato l’Italia, di nuovo non lo si è fatto. E perché? Perché, o almeno anche perché, a quel punto, coloro che provenivano da quel variegato mondo avevano ormai iniziato, nella loro grande maggioranza,

7 V. Morucci, Ritratto di un terrorista da giovane, Casale Monferrato, Piemme, 1999, p. 87.

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la propria «lunga marcia dentro le istituzioni». Si erano cioè inseriti nel sistema che in precedenza avevano cercato di abbattere − a volte abbandonando, a volte tenendo invece vivo l’impegno etico-politico che li aveva mossi − o avevano comunque avviato un percorso riabilitativo che li spingeva ad accreditare all’esterno e ai propri occhi l’immagine (non rispondente al vero) di una ribellione animata innanzitutto dall’obiettivo di affermare un’intransigente ed estrema coerenza tra i principi professati dal sistema democratico e la realtà del paese che, negli anni della contestazione, sembrava negarli. Quasi come se la loro rivolta fosse stata mossa dalla volontà di promuovere solo una sorta di democrazia radicale. D’altronde, come sappiamo, le contraddizioni della democrazia italiana in quegli anni erano effettivamente numerose e a volte drammatiche. E, in un certo senso, ciò valeva anche per gli altri paesi occidentali. Basti pensare agli Stati Uniti, alfieri della democrazia e nello stesso tempo terribile macchina da guerra capace di non arretrare neanche di fronte al coinvolgimento diretto della popolazione civile di un lontano paese del sud-est asiatico, il Vietnam, come raccontavano tante feroci immagini fotografiche e televisive che contribuivano ad alimentare la rabbia e lo sdegno di tanta parte del mondo giovanile dell’epoca. L’idea così diffusa, e ancora oggi così persistente a sinistra, che la scelta della violenza sia stata provocata dalla strage di piazza Fontana nel dicembre del 1969, quando prese l’avvio la strategia della tensione, è frutto anche del tentativo di confermare questa immagine edulcorata della propria esperienza. In questa prospettiva, la scelta della violenza è stata descritta come una necessaria difesa da uno Stato corrotto e pronto a usare ogni mezzo − comprese le bombe contro gli innocenti nelle piazze, sui treni, nelle stazioni − per costringere al silenzio chi rivendicava i propri diritti e lottava per ampliare le libertà di tutti. Oggi, però, sta crescendo il numero di coloro che mettono in discussione questa visione8. Anch’io credo che la violenza della 8 Sulla questione si soffermano vari contributi del presente volume. Un’interessante riflessione, a mio avviso però ancora poco attenta al nesso tra rivoluzione e pratiche violente negli anni ’70, è in L. Manconi, Terroristi italiani. Le Brigate Rosse e la guerra totale 1970-2008, Milano, Rizzoli, 2008, in particolare pp. 27-44.

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sinistra extraparlamentare abbia trovato anche – forse soprattutto − altre motivazioni; credo che piazza Fontana abbia svolto sì un ruolo importante, ma soprattutto nel senso che ha potentemente contribuito a rafforzare e a legittimare nella propria scelta coloro che già si erano avviati verso uno scontro sempre più duro con lo Stato e con i propri avversari politici sulla base di altre (e precedenti) ragioni: partecipare allo scontro planetario tra chi voleva la rivoluzione e chi vi si opponeva, smascherare i responsabili delle ingiustizie e di ogni forma di oppressione, emulare i capi mitici, come Che Guevara, Ho Chi Minh o Mao Tse-Tung, attualizzare l’epica della Resistenza, perpetuare la grande mobilitazione che si era stati capaci di suscitare nel corso del ’68, ed altro ancora. In effetti, se si esaminano i documenti dell’epoca, si resta stupiti dalle volte in cui la rabbia, lo sgomento, la voglia di vendetta, si sono ripresentate in tante altre occasioni e con la stessa forza, sia prima che dopo il dicembre del 1969. Dopo ogni scontro violento, dopo che morti e feriti si accumulavano nelle strade, le parole pronunciate, gli slogan urlati nelle manifestazioni, gli articoli scritti sui giornali e sui volantini erano sempre gli stessi. A sentire le testimonianze di allora, ogni volta era come se proprio in quell’occasione si fosse raggiunto il culmine dell’ingiustizia e dell’oppressione. E ogni volta si giurava che si sarebbe fatto di tutto per impedire il ripetersi di quei tragici fatti. Da questo punto di vista, il ruolo svolto dalla strage del 1969 nell’avviare tanti giovani verso una strada senza ritorno non va certo negato, ma va a mio avviso ridimensionato. Ciò che si rischia di dimenticare è che la violenza, in forme e gradazioni variabili a seconda del contesto, dei gruppi e dei singoli individui, era lo strumento necessario e naturale per proseguire e accelerare la strada verso la rivoluzione. Continuare a mettere l’accento sulla violenza difensiva significa quindi, a mio avviso, concentrare la propria attenzione solo su quello che chi lottava non voleva (uno Stato corrotto e stragista, una democrazia solo di facciata) per dimenticare ciò che invece voleva consapevolmente: la rivoluzione, per l’appunto. E fare storia partendo da questo presupposto, escludendo cioè dall’analisi metà del campo d’indagine, diventa impossibile.

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Anche per queste ragioni, dire che la violenza è stata necessaria per difendersi dall’aggressione di uno Stato tendenzialmente autoritario è stato pure un modo retrospettivo per autoassolversi, per non mettere in discussione le proprie scelte passate, per dire: «siamo stati costretti». Per non fare cioè i conti con se stessi e le proprie speranze rivoluzionarie dell’epoca. Così com’è peraltro successo sul versante opposto, quello della destra radicale, dove sono state dette cose non troppo diverse rispetto a una violenza difensiva necessaria per impedire la vittoria del comunismo e sconfiggere il suo piano di fare dell’Italia uno degli avamposti da cui partire per l’espansione nell’Europa occidentale. Ma una violenza indispensabile soprattutto per reagire alle aggressioni degli avversari. «Il partito deve darsi una nuova strategia rivoluzionaria», disse ad esempio a un giornalista nel 1975 Sandro Saccucci, deputato missino implicato nel tentativo di golpe del 1970 di Junio Valerio Borghese. «Di fronte agli attacchi dei gruppi di sinistra, non resta che il contrattacco più duro. Non dobbiamo porgere l’altra guancia. Non siamo dei parroci. Non possiamo continuare a piangere i nostri morti, la base non ne può più». Una versione spesso ripetuta ancora oggi9. D’altronde, l’interesse ad autoassolversi, proclamando la propria totale estraneità alla degenerazione violenta dello scontro politico, ha accomunato non solo le forze politiche extraparlamentari, ma anche quelle parlamentari, come ad esempio il Movimento sociale e il Partito comunista. Ciò non significa, naturalmente, dire, con il senno di poi, che PCI e MSI possano essere messi sullo stesso piano, né che abbiano svolto lo stesso ruolo storico. Significa solo sottolineare che entrambi hanno avuto interesse a non rivisitare criticamente le proprie radici ideologiche e culturali da cui erano germinate la contestazione sia di destra che di sinistra, e più tardi, anche se non in modo deterministico, era nata la lotta armata. Da questo punto di vista, ha ragione chi sostiene che la mancata riflessione sulla violenza politica in generale e su quella « rivoluzionaria» o «reazionaria»

9 Cfr. L. Telese, Cuori neri. Dal rogo di Primavalle alla morte di Ramelli. 21 delitti dimenticati degli anni di piombo, Milano, Sperling&Kupfer, 2008 (2006); la cit. è alle pp. 430-431.

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in particolare, si sono sostenute nel passato e continuano a sostenersi tutt’oggi10. La stessa cosa si può dire a proposito della cultura cattolica, sia nel suo intreccio con il marxismo − che ha contribuito ad alimentare il senso di rabbioso scandalo nei confronti delle ingiustizie del mondo, come testimoniano tante biografie di terroristi provenienti da quell’esperienza – sia nel sostegno dato a una visione tradizionalista e diffidente (se non ostile), nei confronti della democrazia. E ciò vale anche per le forze governative, che hanno avuto interesse a far dimenticare le coperture certamente offerte da settori delle istituzioni alle trame golpiste e forse anche al terrorismo di sinistra, in modo da farlo crescere e sviluppare, e quindi favorire nell’opinione pubblica una reazione di rigetto in senso anticomunista. Anche in questo caso, ciò non vuol dire che se sono tutti colpevoli, allora nessuno è colpevole. La storia non ha infatti l’obiettivo di determinare le colpe, ma quello di rendere chiaro il contesto in cui gli eventi sono maturati, i condizionamenti che gli uomini di una determinata epoca hanno subito dal contesto politico, economico, sociale, culturale in cui vivevano, quali erano i loro spazi di libertà da tali condizionamenti; vuol dire tentare di comprendere le loro ragioni e in che modo le ragioni degli uni si sono intrecciate con quelle degli altri. A proposito del ventennio di cui ci occupiamo, significa quindi capire le motivazioni di quel silenzio che ha coinvolto tutti. Per ragioni diverse, ma ha coinvolto tutti. A favorire questa mancata analisi delle ragioni della violenza, si è aggiunta poi la frattura, che definirei epocale, provocata nel corso degli anni ’80 dall’accelerazione dei processi di secolarizzazione legati alla società dei consumi e dall’affermazione dell’ondata neo-liberista, che hanno reso quanto mai inattuale l’idea di rivoluzione, cioè del pilastro politico su cui si reggeva la legittimazione stessa della violenza politica. Mentre l’Italia degli anni ’80 esportava la sua modernità ovunque, mentre il post-

10 Manconi, Terroristi italiani, cit., pp. 141-142, e per alcune considerazioni sulla povertà dell’elaborazione critica del rapporto politica/violenza, anche A. Bravo, A colpi di cuore. Storie del sessantotto, Roma-Bari, Laterza, 2008, pp. 242-243.

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moderno si affacciava sulla scena mondiale e le ideologie del ’900 sopravvivevano faticosamente a se stesse, non sembrava più possibile, né interessante, recuperare le ragioni di chi aveva creduto, sperato, combattuto per la rivoluzione. Anche per questo motivo, quel periodo è stato raccontato prevalentemente attraverso le vicende umane, personali, dei singoli protagonisti, di chi ha colpito e di chi è stato colpito. Le radici, il contesto, in cui quel sogno era nato, sono scomparsi. L’idea di rivoluzione è sembrata così precipitare in un passato ormai lontano e incomprensibile, insieme a buona parte di quel periodo storico. Infine, hanno contato i procedimenti penali contro le organizzazioni armate, che hanno spinto molti imputati a cercare di separare la fase (buona) della violenza di strada della prima metà degli anni ’70, in cui si riconoscevano, dalla successiva fase (cattiva) della lotta armata vera e propria, a cui la stragrande maggioranza si è naturalmente dichiarata, se non altro per ragioni giudiziarie, del tutto estranea. La fase iniziale degli scontri di piazza e dei servizi d’ordine è stata così nettamente separata da quella successiva dell’organizzazione sistematica e programmata della violenza volta a destabilizzare e ad abbattere lo Stato. A questo proposito, l’ex-brigatista Enrico Fenzi ha giustamente sostenuto, a mio parere, che scindere gli Anni di piombo in due parti non comunicanti tra loro, come ancora oggi si usa fare, per cui la responsabilità del clima che ha portato all’uso della violenza cade solo sui gruppi armati, mentre i movimenti extraparlamentari sono una sorta di universo parallelo, in contatto sporadico e comunque non voluto con gli attori della lotta armata, fa sì che le generazione che hanno partecipato a quella stagione di protesta si trovino nell’incapacità e nell’impossibilità – per non smentire questa ricostruzione postuma − di fare la storia di quel periodo11. Faccio un esempio che credo significativo. Un ex-esponente politico di Potere Operaio fiorentino, Francesco “Pancho” Pardi, in un recente libro-intervista ha ricordato quando alla se-

11 E. Fenzi, Armi e bagagli. Un diario dalle Brigate Rosse, Milano, Costlan, 2006 (1987), pp. 100-101.

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conda Conferenza d’organizzazione di Roma, nel settembre del 1971, nel suo «bruttissimo» intervento, come l’ha definito lui stesso, arrivò «precipitosamente a dire che il convegno doveva ratificare il passaggio alla dimensione del lavoro illegale». E poi ha aggiunto che, dopo aver compiuto una serie di salti logici, sbagliò per di più termine: «volevo dire illegalità e dissi, invece, clandestinità. Lì per lì ebbi perfino un certo successo di platea, ma sapevo di aver detto una cazzata»12. Ora, se leggiamo i documenti, ci rendiamo conto che le cose andarono in modo ben diverso. Dalla registrazione del congresso, fatta dallo stesso Potere Operaio e in seguito sequestrata dalle forze dell’ordine che l’hanno usata in vari processi, in quell’occasione risulta infatti che egli sostenne la necessità di produrre un’organizzazione armata capace di trasformare Potere Operaio in un vero e proprio partito rivoluzionario; di arrivare a realizzare una centralizzazione dell’organizzazione capace di «dislocare delle forze ingenti, assolutamente ingenti» sul piano della clandestinità; di «armare l’appropriazione», cioè le azioni come gli espropri proletari; di costruire un «pugno bolscevico» che fungesse da traino nelle lotte parziali, in vista del momento insurrezionale. A suo avviso, c’era insomma bisogno di combinare – sono parole sue − «clandestinità» e «illegalità», come elementi entrambi necessari per progettare l’avvio di una fase di guerriglia urbana13. La prospettiva della clandestinità lanciata in quell’occasione non fu dunque un banale errore linguistico, dovuto all’emozione del momento o all’inesperienza, ma fu pronunciata consapevolmente, fu ribadita dal consenso della platea che si trovò ad applaudire l’intervento e da altri dirigenti, come ad esempio Lanfranco Pace, che affermò: «diciamo sì alla clandestinità, sì alla violenza, sì alla militarizzazione», aggiungendo poi che la sezione romana dell’organizzazione si aspettava che si facesse esattamente ciò che «il compagno Pancho» aveva espresso molto bene: attuare il passaggio alla «clandestinità». Una clandestinità da intendere come «l’ingresso in forma organizzata, massic-

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A. Grandi, Insurrezione armata, Milano, Rizzoli, 2005, pp. 283-284. Commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage di via Fani, sul sequestro e l’assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia, vol. LXXX, pp. 199-200. 13

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cia, lucida e consapevole sul terreno della lotta rivoluzionaria». Franco Piperno, infine, sempre a proposito della questione affrontata dal compagno di Firenze, disse che pur essendo la clandestinità una prospettiva forse «affrettata», era comunque condivisibile nel merito, in vista della militarizzazione del gruppo e della presa del potere per realizzare la «dittatura operaia»14. Ma da cosa è nata questa versione deformata dei fatti? Innanzitutto, dobbiamo tenere conto del fatto che in quegli anni la soglia di tolleranza verso l’utilizzo della violenza verbale era quanto mai alta; c’era infatti una sorta di assuefazione che coinvolgeva gran parte della società e in particolare le generazioni più giovani. Escludendo poi una precisa volontà mistificatrice, possiamo ritenere che, oltre alla lontananza dagli eventi, abbiano pesato proprio tutte quelle ragioni di cui abbiamo parlato finora. In effetti, basta leggere i periodici e il materiale di vario genere prodotti sia dall’estrema destra che dall’estrema sinistra in quegli anni, per accorgersi di quanto le testimonianze postume siano assolutamente insufficienti e fuorvianti. Penso, ad esempio, da un lato, al silenzio veramente assordante del libro di memorie scritto da Pierluigi Concutelli (un testo pur a suo modo intenso in alcuni passaggi) e alle reticenti testimonianze di altri protagonisti dell’estrema destra rispetto a tutto ciò che ruotava attorno al loro mondo15. Dall’altro, penso alla complessità di rapporti e complicità che emerge invece dallo studio diretto dei documenti oggi disponibili (compresi quelli raccolti dalle numerose inchieste giudiziarie che si sono susseguite nel corso degli ultimi decenni)16. Ma penso anche al clamoroso errore di chi vuole separare nettamente, come abbiamo visto, la stagione buona dei movimenti da quella cattiva della violenza armata. Basta anche solo sfogliare «Potere Operaio», una delle riviste principali dell’estrema sinistra, per accorgersi che se i due momenti del movimento 14

Ibid., pp. 199-204. P. Concutelli, Io, l’uomo nero. Una vita tra politica, violenza e galera, a cura di G. Ardica, Venezia, Marsilio, 2008 e le numerose testimonianze raccolte in Telese, Cuori neri, cit. 16 Cfr. M. Franzinelli, La sottile linea nera. Neofascismo e servizi segreti da piazza Fontana a piazza della Loggia, Milano, Rizzoli, 2008. 15

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e dell’organizzazione terroristica non possono certamente essere sovrapposti e identificati, è comunque impossibile sostenere che la loro distinzione sia chiara e definita. Allo stesso modo, è difficile concordare anche con chi ritiene che l’«assoluta mancanza di forze politiche organizzate che potessero far confluire nel movimento, dall’esterno, una teoria della violenza», sia la prova della sostanziale «spontaneità» del rapporto con la violenza da parte del movimento studentesco del ’68, una violenza incontrata ma mai teorizzata. D’altronde, è stato detto a questo proposito, «operaisti e marxisti-leninisti, oltre al PCI ovviamente, bollavano allora come piccolo-borghese ogni accenno alla radicalizzazione delle forme di lotta»17. Anche in questo caso, è però sufficiente prendere in mano le annate di «Classe operaia» tra il 1964 e il 1967, o «Il Potere Operaio» diretto da Adriano Sofri, per rendersi conto che non era così. Gli inviti a muovere «guerra» ai «padroni», a rifiutare la democrazia parlamentare in quanto solo maschera legalitaria di un sistema dietro cui si nascondevano «manganello e mitra»18, l’esaltazione dei movimenti guerriglieri in Vietnam e in America Latina, così come del regime maoista e di quello cubano, ma soprattutto le riflessioni su come creare un partito di avanguardia che potesse trascinare le masse verso la presa del potere, erano all’ordine del giorno ben prima del ’68. La storia di quegli anni non può dunque essere fatta utilizzando solo le testimonianze successive ai fatti, né può prescindere dal confronto diretto con i documenti, che pure sono abbondanti e ormai disponibili in molti archivi. È questa la sfida che i contributi presenti in questo volume intendono affrontare. Tutto è iniziato con il ’68 o ancora prima? Piazza Fontana ha rappresentato veramente la «perdita dell’innocenza» per un’intera generazione che si è sentita costretta a difendersi dalla violenza dello Stato, come è stato tante volte ripetuto? O ci sono altre piste da percorrere per capire ciò che è realmente avvenuto? Estrema destra ed estrema sinistra sono stati nemici assoluti

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De Luna, Le ragioni di un decennio, cit., pp. 71-72. Studenti e operai nella piazza e nella fabbrica apprendono dal capitalismo la stessa lezione: la violenza, «Il Potere Operaio», n. 7, 21 novembre 1967. 18

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o invece hanno condiviso più cose di quanto a lungo abbiamo creduto? Come sono stati raccontati quegli anni dai loro protagonisti: vittime e carnefici, innanzitutto, ma anche storici, giornalisti, magistrati, scrittori? E che pensano le nuove generazioni di quelle vicende così lontane? Sono questi alcuni degli interrogativi che questo lavoro a più voci si propone di esplorare ponendo a confronto studiosi sia di diverse provenienze politiche e culturali che di generazioni differenti, con il comune obiettivo di mettere in discussione il senso comune che si è andato lentamente stratificando dopo trent’anni di letture parziali.

Il Convegno che ha dato origine a questo volume, Violenza e storia d’Italia. Conflitti e contaminazioni ideologiche nel secondo ’900, si è svolto presso l’Università di Macerata dal 22 al 24 maggio 2008; ad esso hanno partecipato anche Giovanni Bianconi, Roberto Chiarini, Ida Dominianni, Giordano Bruno Guerri, Salvatore Lupo e Marco Tarchi, che con i loro interventi hanno contribuito ad animare il dibattito. Devo ringraziare Paola Bucceroni e Stefano Properzi per la preziosa collaborazione nella riuscita dell’iniziativa; un sentito ringraziamento va anche a Guido Panvini, per la collaborazione nella realizzazione del presente volume, e a Cinzia De Santis e Carla Moreschini delle eum, che con impegno (e pazienza) vi hanno lavorato fino all’ultimo minuto. Il Convegno è stato concepito come parte di un programma più vasto che si collega alle attività del «Centro di documentazione sui partiti politici», costituito presso la stessa Università anche grazie ai finanziamenti della Fondazione Cassa di Risparmio di Macerata e della Provincia di Macerata. A questo proposito un sentito ringraziamento va al Rettore Prof. Roberto Sani e all’On. Roberto Massi, che ci hanno creduto sin dal primo momento, oltre che alla Dottoressa Serenella Sperandini per la costante attenzione che vi ha dedicato. Il Centro si è specializzato nella raccolta di materiale – documenti d’archivio, ma anche libri, opuscoli, riviste, volantini, manifesti – prodotto direttamente dalle forze politiche dell’Italia repubblicana e quindi difficilmente reperibile nelle Biblioteche pubbliche del nostro paese. Anche grazie alla scelta di raccogliere documenti che coprano l’intero arco politico, dall’estrema destra all’estrema sinistra, esso rappresenta ormai una realtà rilevante e certamente originale nel panorama nazionale.

Gianni Scipione Rossi L’influenza della guerra d’Algeria sull’estrema destra italiana

1. Dall’occidentalismo critico all’atlantismo radicale La diaspora del personale politico fascista e saloino tra il 25 luglio 1943 e il primo dopoguerra è ormai sufficientemente documentata1. Solo un segmento minoritario di tale personale s’impegnò prima nella cosiddetta “resistenza fascista” nell’Italia liberata e, poi, nella costruzione di movimenti dichiaratamente neofascisti. Il processo di riaggregazione a destra, con l’eccezione di gruppuscoli marginali e della riedizione dei FAR (Fasci d’Azione Rivoluzionaria), si concluse nel dicembre del 1946 con la costituzione del MSI, partito di raccolta sia dei fascisti non coinvolti nella guerra civile sia dei reduci della RSI. Prima con le amministrative romane del 1947, poi con le politiche del 1948, il MSI di fatto si accreditò come partito democratico parlamentare, pienamente inserito nel quadro costituzionale. Una quota maggioritaria dei quadri fascisti (con esclusione dei gerarchi di vertice) si disperse all’interno dei partiti antifascisti, segnatamente nella DC meridionale, nell’Uomo Qualun-

1 Cfr. N. Tranfaglia (a cura di), Come nasce la Repubblica. La mafia, il Vaticano e il neofascismo nei documenti americani e italiani, 1943-1947, Milano, Bompiani, 2004; G. Casarrubea, Storia segreta della Sicilia. Dallo sbarco alleato a Portella della Ginestra, Milano, Bompiani, 2005 e Id., Tango connection. L’oro nazifascista, l’America latina e la guerra al comunismo in Italia, 1943-1947, Milano, Bompiani, 2007; G. Parlato, Fascisti senza Mussolini. Le origini del neofascismo in Italia, 19431948, Bologna, il Mulino, 2006.

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que, ma anche significativamente nel PCI, nel PSI e nei sindacati operai2. Sono sostanzialmente documentati anche i contatti che elementi fascisti – definibili per semplificazione “di destra” – ebbero o tentarono di avere con i servizi segreti alleati, americani e inglesi, con l’obiettivo di fare fronte comune in senso anticomunista. Nonostante il terzaforzismo tra i blocchi sia stata una opzione molto diffusa, soprattutto tra i reduci della RSI, in realtà si arrivò in tempi relativamente brevi – alla luce delle passioni dell’epoca e dei lasciti drammatici della guerra – a una formale accettazione politica della collocazione atlantica dell’Italia democratica. L’anticomunismo prevalse su ogni revanscismo anti-americano e, soprattutto, anti-inglese. Toccò ad Augusto De Marsanich, il 28 novembre 1951, motivare alla Camera il sì missino alla ratifica del Patto Atlantico, chiudendo almeno formalmente una disputa durissima, che durava dalla fondazione del partito3. È significativo come a posteriori il principale esponente della sinistra interna del MSI, il geoeconomista Ernesto Massi, giustificò la svolta come politicamente ineluttabile. Come ha ricordato egli stesso: Alla vigilia del congresso di Roma, nel 1949, vi era una forte avversione al Patto, soprattutto nel Nord. E poi il dibattito continuò a lungo. A costo di scontentare la base io facevo un ragionamento complesso […]. Era una posizione di grande realismo. Se non stiamo con gli americani – pensavo – facciamo un favore agli altri […]. In realtà non si poteva evitare l’adesione al Patto Atlantico […]. Comunque l’adesione era per me uno stato di necessità. Contrario in linea di principio, non potevo esserlo in linea pratica.

2 Cfr. P. Neglie, Fratelli in camicia nera. Comunisti e fascisti dal corporativismo alla Cgil, 1928-1948, Bologna, il Mulino, 1995; P. Buchignani, Fascisti rossi. Da Salò al PCI, la storia sconosciuta di una migrazione politica, 1943-1953, Milano, Mondadori, 1998; G. Parlato, La sinistra fascista. Storia di un progetto mancato, Bologna, il Mulino, 2000. 3 Cfr. S. Finotti, Difesa occidentale e Patto Atlantico. La scelta internazionale del MSI (1948-1952), «Storia delle relazioni internazionali», n. 1, 1988; R. Chiarini, “Sacro egoismo” e “missione civilizzatrice”. La politica estera del MSI dalla fondazione alla metà degli anni cinquanta, «Storia Contemporanea», n. 3, 1990; P. Neglie, Il Movimento Sociale Italiano fra terzaforzismo e atlantismo, «Storia Contemporanea», n. 6, 1994.

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Anzi, proposi che gli ex combattenti si mettessero in regola con la posizione militare, perché in caso di mobilitazione si potesse fare il nostro dovere4.

È dunque in un quadro che si può definire di occidentalismo critico che si sviluppò in una prima fase l’azione politica del neofascismo italiano, pur in presenza di correnti, interne ed esterne al MSI, fortemente coinvolte da una prospettiva teorica di europeismo autosufficiente. In una seconda fase, a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, questa posizione evolve in occidentalismo convinto e talvolta oltranzista, pur in presenza di persistenti posizioni minoritarie terzaforziste. Nel congresso nazionale del 1970, il primo dopo il suo ritorno alla segreteria, Giorgio Almirante chiarì in modo definitivo la posizione ufficiale del partito: «Noi siamo l’Occidente; lo rappresentiamo, siamo la punta avanzata dell’Occidente. Non esistono, non esisteranno mai, si pone fuori dal partito chi lo sostiene, posizioni terzaforziste in seno al MSI»5. Già nel 1968, con la segreteria di Arturo Michelini, il MSI aveva salutato con «viva soddisfazione» l’elezione di Richard Nixon alla Casa Bianca. «Con Nixon – scrive il quotidiano del partito – si apre un orizzonte nuovo. L’Occidente può finalmente riprendere il suo cammino in avanti»6. Quando pochi mesi dopo Nixon venne in Italia, il «Secolo d’Italia» pubblicò un’intera pagina bilingue: «Attenzione Nixon! L’Italia si prepara a tradire gli impegni atlantici sottoscritti con gli Stati Uniti e a portare i comunisti al potere»7. Che fosse necessario, nel quadro della guerra fredda, collaborare con gli americani, era una considerazione che non apparteneva soltanto al neofascismo italiano. Era una consapevolezza che trovava autorevoli sostenitori anche in Francia, e in particolare nel “padre nobile” dei petainisti, Maurice Bardèche. Cognato del poeta e scrittore Robert Brasillach, fucilato per collaborazionismo il 6 febbraio 1945, Bardèche fu animatore – significativamente – della rivista «Défense de l’Occident» e 4 E. Massi, Nazione sociale. Scritti politici 1948-1976, a cura di G.S. Rossi, Roma, Isc, 1990, p. 44. 5 G. Almirante, Discorsi al IX Congresso Nazionale del MSI, Roma, 1970, p. 92. 6 «Il Secolo d’Italia», 29 settembre 1968. 7 «Il Secolo d’Italia», 27 febbraio 1969.

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delle edizioni Le sept couleurs (dal titolo del più famoso romanzo di Brasillach), nonché autore del primo pamphlet negazionista, Nuremberg ou la Terre promise (1948). Un secondo libro, Nuremberg II ou les Faux-Monnayeurs (1950), gli costò la condanna a un anno di prigione per apologia dei crimini di guerra. La sua influenza culturale sul neofascismo italiano era rilevante e nel 1952, per i tipi di Longanesi, ne venne subito tradotto il pamphlet L’Uovo di Colombo. Lettera aperta a un Senatore Americano, pubblicato a Parigi l’anno precedente. L’obiettivo del saggio era spiegare ai “camerati” europei perché fosse necessario mettersi a disposizione degli Stati Uniti e, contestualmente, fissare i limiti di tale collaborazione. Il ragionamento di Bardèche è tutto sommato semplice. Poiché «L’infiltrazione per mezzo dell’antifascismo [era] stata la maggiore arma politica dei comunisti durante e dopo la guerra», gli americani in Europa sbagliavano strategia8. «Camminate – li avvertiva – fra i traditori, e non li vedete. Bisogna che noi vi si dica: nella guerra che si prepara gli Stati Uniti, nonostante la loro potenza materiale, saranno infallibilmente vinti se non cambiate metodo radicalmente»9. Per poi concludere: «Invece di appoggiarvi alle forze antifasciste e alle parole d’ordine antifasciste, appoggiatevi sulle forze nazionali, anticomuniste da sempre, e sulle parole d’ordine nazionali»10. Bardèche non arrivava al punto di essere favorevole al Patto Atlantico. I nazionalisti europei non potevano legarsi le mani per troppo tempo. Tra europei e americani valeva la comunanza di interessi, non di destino. Il destino dei popoli europei era, in prospettiva, quello di un continente politicamente unito e alternativo ai due blocchi. Ma, in questa fase storica, i terzaforzisti avevano torto: «Quel che i ‘neutralisti’ non vogliono vedere, è che la neutralità è una posizione chimerica. Noi riconosciamo dunque la necessità temporanea di uno stanziamento di truppe americane in Europa, e questa presenza ci sembra anche indispensabile durante un certo periodo»11. 8 M. Bardèche, L’Uovo di Colombo. Lettera aperta a un Senatore Americano, Milano, Longanesi & C., 1952, p. 17. 9 Ibid., p. 36. 10 Ibid., p. 105. 11 Ibid., pp. 151-152.

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Anche Bardèche, dunque, sia pure assumendo una posizione più sfumata rispetto a quella del MSI in Italia, s’inseriva nel filone dell’occidentalismo critico, che avrebbe influenzato le posizioni del radicalismo di destra italiano: ne fu anzi una sorta di precursore. A suo modo, anche Bardèche prendeva atto che l’esito della guerra mondiale era definitivo, che una prospettiva revanscista non era nell’ordine delle cose, almeno nel medio periodo. Non arrivava fino al punto di immaginare per i petainisti un inserimento diretto nella nuova democrazia francese, quell’inserimento che invece i fascisti – anche grazie a una base molto più solida – avevano perseguito e ottenuto. In Italia, d’altra parte, la situazione era diversa. L’eredità del fascismo pesava, ma non era paragonabile a quella del nazismo che aveva occupato la Francia, aveva sostenuto il regime di Vichy ed era stato punto di riferimento ideologico degli intellettuali collaborazionisti. I neofascisti italiani si dimostrarono immediatamente più manovrieri, a cominciare dal tentativo – riuscito – di influire sull’amnistia Togliatti. Protagonista di questa fase fu Pino Romualdi, già vicesegretario del Pfr, leader di quel “senato” che lavorava alla costruzione di un partito di destra laico-conservatore capace di porsi come alternativa alla DC. Arrestato in circostanze mai chiarite durante la latitanza, scrisse in carcere, tra il luglio e il novembre del 1948, un testo, pubblicato solo nel 1962, nel quale, argomentando intorno alla Tecnica del colpo di Stato di Curzio Malaparte12, sostanzialmente avvertiva che “spallate” al sistema democratico erano impossibili, non essendoci le condizioni politiche: «sembra dire Malaparte, non è l’ambiente, non la preparazione o il programma politico, ma solo la tecnica a fare il colpo di Stato»13. Romualdi, al contrario, riteneva «che la tecnica è sì elemento necessario, ma non sufficiente alla realizzazione del colpo di Stato; che il Catilina che tutto fida sulla tecnica è destinato a fallire…»14.

12 C. Malaparte, Tecnique du coup d’État, Paris, Grasset, 1931. Del libro fu vietata la traduzione italiana. 13 P. Romualdi, L’ora di Catilina, Roma, T.E.R., 1962, p. 26. 14 Ibid.

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Erano dunque altre le prospettive dei neofascisti che si stavano trasformando in post-fascisti e, spesso, in semplici antiantifascisti, sulla scia di Montanelli e Longanesi. Come ha rilevato Giuseppe Parlato, «l’opzione di destra, atlantica e nazionale, anticomunista e moderata, è alla base delle ragioni che consentirono la nascita del MSI e quindi essa non appare come il frutto di necessità contingenti, quanto il percorso più lineare del passaggio dal fascismo di Salò al neofascismo». Un percorso che, in una prima fase, i dirigenti furono costretti a dissimulare con i militanti: «si trattava di un lungo percorso di educazione all’uscita dalla nostalgia»15. Esso, tuttavia, fu perseguito con costanza – fatta salva la breve prima segreteria di Almirante, piuttosto indirizzata verso la costruzione di un partito “identitario” – in particolare con la lunga segreteria di Michelini. Il suo “entrismo”, la sua capacità di dialogare con i monarchici e con la DC, portò il MSI nelle giunte di numerose amministrazioni meridionali e raggiunse il suo culmine con il sostegno ai governi Pella e Tambroni, salvo poi declinare dopo il luglio 1960, quando la violenta opposizione di piazza organizzata dal PCI impedì lo svolgimento del congresso nazionale convocato a Genova. 2. L’opzione autoritaria e la destra extraparlamentare I fatti di Genova segnano una frattura che pesa sugli anni successivi. Giovanni Pellegrino ha notato: Pensiamo a come abbiano vissuto la caduta di Tambroni molti giovani vicini al MSI o a formazioni della destra radicale. Ebbero la prova che alla destra era inibita la possibilità di arrivare democraticamente al governo. Si rafforzò quindi la convinzione che fosse necessaria una svolta autoritaria16.

La linea politica micheliniana aveva determinato, nel 1956, la fuoriuscita dal MSI di due componenti, quella di “sinistra nazionale” raccolta intorno a Massi, e quella di “destra spiritualista” che, con il gruppo di Ordine Nuovo, aveva raccolto l’eredità dei 15 16

Parlato, Fascisti senza Mussolini, cit., pp. 253-254. G. Fasanella, G. Pellegrino, La guerra civile, Milano, Rizzoli, 2005, p. 42.

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giovani protagonisti della seconda stagione dei FAR e aveva come riferimento culturale il pensatore tradizionalista Julius Evola. Teoricamente ancorato a una prospettiva di neutralismo europeo, ma contestualmente anticomunista, Ordine Nuovo era altresì suggestionato dalla lettura evoliana del nazismo, e in particolare delle SS come “ordine” politico-militare impegnato nella ricostruzione del Sacro Romano Impero. In linea di principio, dunque, l’atlantismo non apparteneva a questo gruppo, ma in realtà i fatti del 1960 maturarono mentre era in corso la guerra d’Algeria, vero snodo cruciale per la destra radicale, che operò una rilettura della situazione politica parallela a quella della destra parlamentare17. Anche per il MSI la crisi algerina, culminata, nell’aprile del 1961, nel colpo di stato militare e nella creazione dell’OAS, rappresentò un importante punto di svolta. Sostanzialmente in odio alle potenze europee vincitrici della seconda guerra mondiale, in un primo momento il partito aveva sostenuto i nazionalismi arabi e quindi il movimento per l’Algeria francese non trovò inizialmente nel MSI alcuna solidarietà. Come l’Italia aveva perso la Libia, la Francia poteva perdere l’Algeria. Come i coloni italiani a Tripoli rischiano di perdere case e lavoro, i pieds noirs ben potevano subire lo stesso trattamento. Ma una parte della destra, soprattutto giornalistica e culturale, restò affascinata dalla resistenza armata dei francesi di Algeri, dalla prospettiva di una soluzione di forza dei problemi delle democrazie. E anche dalla prospettiva che l’Algeria finisse con lo svincolarsi dalla Francia e riuscisse a diventare indipendente con un governo forte in mano ai pieds noirs. Come scriveva «Il Borghese», «i paracadutisti di Algeria […] sono in realtà il simbolo di quanto di meglio la nostra civiltà occidentale riesca ancora a esprimere nel suo seno» e per questo – continuava – «sull’altra sponda del Mediterraneo può nascere, forse, una Repubblica algerina che sarà nostra amica»18. Nel caso algerino, la simpatia era facilitata da quel che si muoveva nella estrema destra postfascista francese, politica-

17 Cfr. G.S. Rossi, La destra e gli ebrei. Una storia italiana, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003, pp. 78-88. 18 La rivolta di Algeri, n.f., «Il Borghese», 27 aprile 1961.

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mente inconsistente se non nel transitorio fenomeno poujadista – che avrebbe visto apparire il giovane deputato Jean Marie Le Pen19 – ma feconda di microgruppi e altrettanto marginali iniziative culturali. Un settore della destra italiana, ancora nel ’58, preferiva, quindi, assistere con malcelata soddisfazione alle difficoltà della Francia, senza parteggiare per De Gaulle o per i generali. Tutt’al più avvertendo che l’eventuale parità assoluta dei diritti in Algeria avrebbe significato «portare a Palais Bourbon oltre 100 deputati musulmani i quali [avrebbero deciso] non già dei destini dell’Algeria, ma di quelli della Francia»20. Un altro settore della destra, invece, da un lato coglieva il senso anticomunista della lotta contro il Fronte di Liberazione algerino, finanziato da Mosca, e dall’altro seguiva la svolta dei reduci petainisti francesi, che di fronte alla crisi misero da parte il loro originario antigaullismo e sostennero il generale della Resistenza, persino nella richiesta dei pieni poteri21. Altalenante tra neofascismo, nostalgie collaborazionistiche, maurassismo e integralismo cattolico, la destra radicale francese scopre, a cavallo del 1960, la “soluzione militare” e la “guerra rivoluzionaria”, tanto più che i militari d’Algeria, erano impregnati delle idee diffuse – attraverso cellule semisegrete – dalla rivista «La Cité Catholique» del convertito Jean Ousset22. D’altra parte, l’OAS, appoggiata in Spagna dai falangisti ormai marginali nel franchismo, avrebbero saputo unificare «appartenenti alla Resistenza ed ex collaborazionisti, reduci dai lager ed ex Waffen SS»23, rimettendo in qualche modo in gioco i “per19 Sarà Le Pen, con Georges Bidault, all’Assemblea Nazionale, a rendere pubblico omaggio all’OAS. Cfr. P. Henissart, OAS. L’ultimo anno dell’Algeria francese, Milano, Garzanti, 1970, p. 234. 20 E. Canevari, L’Italia è inerte, «Meridiano d’Italia», 10 giugno 1958 e Id., La crisi algerina, ivi, 3 giugno 1958. 21 Cfr. F.M. D’Asaro, L’antifascismo è stato liquidato. A colloquio con gli amici del maresciallo Petain, «Il Secolo d’Italia», 6 giugno 1958; Id., In piedi la Francia contro i comunisti. Intervista a Maurice Bardèche, ivi, 7 giugno 1958; Id., Le forze ‘fasciste’ di Parigi si incanalano nel solco di Algeri, ivi, 14 giugno 1958. 22 G. Tassani, La cultura politica della destra cattolica, Roma, Coines, 1976, p. 80. Cfr. anche, A. Cattabiani, Un’esperienza controrivoluzionaria dei cattolici francesi, in La guerra rivoluzionaria, Roma, Volpe, 1965, pp. 143-147. 23 Ibid., p. 116. Cfr. anche E. de Boccard, Lineamenti e interpretazione storica della guerra rivoluzionaria, in La guerra rivoluzionaria, cit., p. 46.

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denti”. Si pensi al ruolo avuto nell’organizzazione, sul territorio francese, dall’ex SS belga Jean Thiriart, che proprio nei frangenti della crisi algerina fondò la sua organizzazione Jeune Europe, con ramificazioni anche italiane24. Secondo Julius Evola, nell’OAS particolarmente attive erano le ex guardie di ferro rumene. «In Francia – scrive – figurano fra coloro che avevano preparato una ideologia d’impronta anche spirituale e tradizionale pel movimento militare tradito e poi soffocato da De Gaulle, e che dopo di ciò passarono all’OAS e in organizzazioni affini»25. Tra gli altri, sarebbe stato Guido Piovene a semplificare, definendo gli uomini dell’OAS «fascisti di Algeri»26. Mentre è noto che dalle ceneri dell’Organisation de l’Armèe Secrète sarebbero nati in Francia i nuovi movimenti della destra radicale degli anni Sessanta, a cominciare dal Mouvement Occident e dalla Fédération des Etudiants Nationalistes, per finire con Ordre Nouveau, non abbiano significative testimonianze della partecipazione di ex fascisti italiani alle vicende algerine27. Ci furono solo, almeno all’interno del MSI, “contatti segreti” di singoli militanti. «Ma […], preoccupato per le conseguenze che potevano derivarne, intervenne prontamente il vertice del Partito imponendo ai dirigenti giovanili di troncare immediatamente qualsiasi legame»28 con gli uomini dell’OAS. Legami e contatti che vennero contestati insistentemente al MSI. Il segretario, Arturo Michelini, dovette prendere posizione formalmente in una «Tribuna Politica» televisiva, pronunciando «una esplicita smentita di qualsiasi contatto con l’OAS», che «nessu-

24 Su “Jeune Europe” e sulle sue filiazioni italiane cfr. A. Del Boca, M. Giovana, I “figli del sole”. Mezzo secolo di nazifascismo nel mondo, Milano, Feltrinelli, 1965, pp. 133 ss.; O. Ferrara, Il mito negato. Da Giovane Europa ad avanguardia di popolo la destra eretica negli anni Settanta, Sarno, I Dioscuri, 1996. 25 J. Evola, Il mio incontro con Codreanu, «Il Secolo d’Italia», 24 gennaio 1964, rifuso «Civiltà», a. I, n. 2, settembre-ottobre 1973. 26 G. Piovene, La coda di paglia, Milano, Baldini&Castoldi, 2001, p. 387. 27 Sul percorso politico della destra radicale francese dopo la fine dell’OAS, cfr. M. Rallo, Dall’Action Française a Ordre Nouveau, Roma, Europa, 1971. Cfr. anche M. Tarchi, P. Gauchon, La destra in Francia, «Civiltà», a. II, n. 5, marzo-aprile 1974. 28 G. Ruggiero, Un uomo di destra, Napoli, Azione Meridionale, 1979, pp. 72-73.

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no ha potuto provare»29. L’illazione nasceva da un incontro, in Spagna, tra Filippo Anfuso e Ramon Serrano Suñer. Il «Secolo d’Italia», di cui Anfuso era direttore, avrebbe definito «fanfaluche» le notizie di rapporti con i ribelli30. Probabilmente, gli unici italiani ad Algeri furono i pochi arruolati nella Legione Straniera, anch’essa un mito per la destra, come Massimiliano, il protagonista del romanzo Dalla X Mas alla rivolta di Algeri di Franco Grazioli, combattente della Rsi realmente vissuto nel paese africano alla fine degli anni Cinquanta, ma solo come imbarcato su navi-recupero italo-francesi31. Della Legione la destra in genere aveva ammirato il “sacrificio” indocinese a Dien Bien Phu. In mancanza di “eroi” italiani, un settore del postfascismo si appassionava dunque agli eroi dei paesi europei, dimenticando la guerra perduta quindici anni prima, essendo facilitato, nel caso francese, dal fatto che il generale Salan, avversario di De Gaulle nella questione algerina, rifugiato in Spagna grazie alla solidarietà del falangista Serrano Suñer, era difeso in tribunale dall’avvocato petainista Jean Louis Tixier-Vignancour. In questa fase il MSI si divise in sostanza tra chi continuava a sostenere la tesi anticolonialista e filo-araba in funzione di una logica strettamente nazionalistica e revanscista, e chi, invece, ragiona in termini “europei”. Il deputato romano Giulio Caradonna ha ricordato di essere andato, nel 1961, ad Algeri, a sostenere la causa dei pieds noirs, accolto con manifestazioni di consenso nel quartiere popolare della città nordafricana. Era sul piano della scelta di campo “occidentale” che Caradonna impostava il ragionamento. E criticava la classe dirigente italiana «che strizza l’occhio al mondo arabo, senza ricordarsi di avere in altri e più idonei tempi a tal politica, schernito la ‘spada dell’Islam’, e soprattutto senza tener conto che, adesso come adesso, il mondo arabo […] è la pedina avanzata di Mosca»32.

29 «Tribuna Politica», 4 ottobre 1961; il resoconto stenografico «Il Secolo d’Italia», 5 ottobre 1961. 30 L.S., Una lezione ai provocatori, «Il Secolo d’Italia», 5 ottobre 1961. 31 F. Grazioli, Dalla X Mas alla rivolta d’Algeri, Roma, Settimo Sigillo, 2002. 32 G. Caradonna, Validità del Fascismo, s.i.e., s.l. 1963, p. 130.

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La simpatia per il movimento colonialista francese sembrava comunque in Italia limitarsi a un livello teorico e sentimentale. Ma non coinvolgeva l’intero mondo della destra. Neppure di quella ormai esterna al MSI: «i coloni d’Algeria – avrebbe detto Ernesto Massi − potranno suscitare simpatia e ammirazione per la loro disperata battaglia ma essi non rappresentano l’Europa più di quanto non la rappresentassero ieri i coloni italiani della Cirenaica e dell’Eritrea»33. Un arruolamento ideologico nella Legione Straniera gli appariva «insensato»34. 3. Un esercito di “centurioni” Diverso era l’atteggiamento di Ordine Nuovo, la più forte tra le organizzazioni della destra extraparlamentare. «In nome dell’antifascismo – lamentava Adriano Romualdi – la coscienza dei vecchi partiti è insorta contro il tentativo dell’OAS di mantenere le posizioni europee nel Nord Africa», e i governi europei avevano «abbandonato l’Africa ai negri»35. Pino Rauti avrebbe ricordato che il tempo dell’OAS «fu anche per noi – e personalmente per l’autore di questa nota – un periodo intensissimo». Un periodo «con le sue luci intensissime e con le sue ombre fosche»36. A Evola, sicuramente, gli uomini dell’OAS piacevano. Gli si presentavano come nuovi esponenti di un «ordine guerriero», una sorta di reincarnazione, per quanto imperfetta, delle SS. Il fenomeno, confessava, era «ricco di un certo stile tendente a ristabilire una scala di valori se pur generica»37. Per la destra radicale esterna al MSI, quello per l’OAS fu un vero e proprio innamoramento, al di là dell’esito fallimentare. 33 E. Massi, L’Europa e la crisi africana, in Id, Nazione sociale. Scritti politici 1948-1976, cit., p. 474; sulla stessa linea si veda Id., Algeria, «Continuità», a. I, n. 6, dicembre 1960. 34 Ivi, p. 492. 35 A. Romualdi, prefazione a M. Prisco, G. Giannettini, A. Romualdi, Drieu La Rochelle. Il mito dell’Europa, Roma, Edizioni del Solstizio, 1965, p. 16. 36 P. Rauti, Intervista con Alain De Benoist, «Linea», a. I, n. 9, 1-15 luglio 1979. 37 E. Gay, Incontro con Julius Evola, «I quaderni neri», a. I, n. 2-3, ottobre 1963. L’autore ha incontrato Evola insieme con Salvatore Francia, uscito da Ordine Nuovo per seguire Tirhiart in Jeune Europe.

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Ordine Nuovo sperò di importare in Italia il modello del «soldato politicizzato», da utilizzare, questa volta – scriveva Clemente Graziani – in senso anticomunista, «in una congiuntura favorevole della politica internazionale» – la guerra fredda – assente nel caso algerino, nel quale la CIA aveva evitato di rispondere alle avances dell’OAS38. Proprio Clemente Graziani fu nominato dal generale Salan responsabile dell’OAS per l’Italia39. E proprio Graziani teorizzò la necessità di un’alleanza tattica della destra radicale con gli Stati Uniti: Si dirà che l’OAS ha comunque perso la partita. Ciò è senz’altro esatto riferendosi alla situazione algerina, ormai irreversibile, e prescindendo dalla considerazione che l’Armata Segreta ha, più di quanto possa apparire, saldamente affondato le sue radici nel territorio metropolitano e, pertanto, non sia ancora disposta a considerare definita e superata la “controversia” con il generale De Gaulle. Da un’analisi non troppo superficiale delle vicende dell’OAS risulta chiaro, comunque, che questa organizzazione è stata sconfitta in Algeria, nonostante avesse realizzato il pieno controllo delle masse sia sul piano psicologico che su quello terroristico per aver trascurato un fattore che è di vitale importanza per il successo di un’azione rivoluzionaria. Tale fattore può individuarsi nell’appoggio, almeno politico, di una nazione di grande prestigio internazionale40.

Era dunque tale appoggio che la destra radicale doveva riuscire ad acquisire nel caso italiano. E, archiviando l’antiamericanismo – anche filosofico – era verso gli Usa che si doveva guardare. D’altra parte, altre forze in campo – secondo Graziani – non ce n’erano: Con la frana a sinistra della diga democristiana al comunismo viene a mancare all’azione controrivoluzionaria l’appoggio di un forte schieramento politico […] Lo stesso MSI, che su questo piano poteva rappresentare la punta di diamante di un vasto movimento rivoluzionario antibolscevico, ha dimostrato chiaramente i sui limiti nel luglio del ’60, soggiacendo, senza nemmeno combattere, ai moti di piazza […] Bisogna comprendere e far comprendere che il comunismo può essere sconfitto solo sul terreno di lotta che esso stesso s’è scelto: il terreno dell’azione rivoluzionaria. […] È assur-

38 C. Graziani, La guerra rivoluzionaria, «I Quaderni di Ordine Nuovo», Roma 1963, p. 17. 39 Tessera OAS n. 21, rilasciata il 10/1/1962, riprodotta in appendice a S. Forte (a cura di), Clemente Graziani. La vita, le idee, Roma, Settimo Sigillo, 1997. 40 Graziani, La guerra rivoluzionaria, cit., pp. 16-17.

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do pensare all’Italia come paese membro dell’Alleanza Atlantica mentre nei suoi confini prospera e si organizza il più forte partito sovietico del mondo libero.

Bisognava dunque coinvolgere «ambienti dell’esercito e delle forze dell’ordine», in un quadro atlantico, anche a costo di una «involuzione nella direzione di un regime autoritario […]. una tale involuzione non ci rattrista»41. «Il variegato mondo neofascista – ammette a posteriori un dirigente di Ordine Nuovo coperto da pseudonimo – cercò appoggi e coperture da questi corpi (polizia e carabinieri) e più specificatamente dalle forze armate cercando di influenzare politicamente i militari con lo scopo di “aprire gli occhi” a questi ultimi, specialmente alla metà degli anni Sessanta, sulla pericolosità della guerra rivoluzionaria»42. «In quel frangente di guerra fredda, di battaglia per il dominio del mondo, una buona parte dell’ambiente neofascista – aggiunge – compresi uomini appartenenti alle organizzazioni fuori del partito, aveva assunto posizioni filoamericane»43. Il fatto che Ordine Nuovo auspicasse un’azione coordinata con la CIA non vuol dire ovviamente che ci siano stati contatti. Graziani avrebbe potuto semplicemente essere stato suggestionato dal politologo Giorgio Galli, che alla crisi algerina aveva dedicato il saggio I colonnelli della guerra rivoluzionaria, cui Graziani faceva espresso riferimento. Galli scriveva: «la mia opinione è […] che la CIA […] si sia messa sulla strada indicata dalla teoria della guerra rivoluzionaria, e cioè alla ricerca di una possibile classe dirigente in grado di combattere la “nuova” guerra in tutti i paesi del caso»44. Anche se si trattò solo di un tentativo di approccio da parte di Ordine Nuovo, e quali che siano stati gli sviluppi negli anni successivi sul piano operativo, Graziani non teneva conto di un elemento fondamentale nell’analisi di Galli, e cioè che il «problema della decolonizzazione non è solo quello della rinuncia a 41

Ibid., pp. 30-31. F. Reiter, Ordine Nuovo, Roma, Settimo Sigillo, 2007, p. 176. 43 Ibid. 44 G. Galli, I colonnelli della guerra rivoluzionaria, Bologna, il Mulino, 1962, ora rifuso in Id., La democrazia e il pensiero militare, Gorizia, Libreria Editrice Goriziana, 2008, p. 138. 42

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un impero, ma anche quello della smobilitazione di un grande esercito coloniale. Questo esercito si distingue da tutti gli altri proprio perché è professionale e politicizzato»45. Un caso che riguardava la Francia, e poteva riguardare anche l’Italia solo a certe condizioni. L’eventuale politicizzazione degli ufficiali italiani avrebbe dovuto essere determinata ex novo, mentre gli ufficiali francesi dei paracadutisti e della Legione Straniera avevano introiettato la politicizzazione nella guerra d’Indocina, entrando in relazione con i Vietcong comunisti, fino al punto di poter essere definiti, in qualche modo, di cultura social- nazionale. Ha scritto Gianfranco Peroncini: L’esperienza della guerra rivoluzionaria aveva profondamente cambiato i quadri operativi francesi. […] Le dottrine assimilate nel Sudest asiatico permettevano a questi uomini di vedere le contraddizioni della guerra che erano stati mandati a combattere in Algeria. […] si andava mettendo a fuoco una nuova figura di combattente, socialmente motivato e assai versatile, in netta antitesi, esistenziale e politica, con le tradizioni del passato46.

Il tempo dell’agnosticismo politico dell’esercito francese era finito. Il “socialismo caki”, il socialismo militare, si precisava sempre più: «Si parla sempre più frequentemente di nuove opzioni politiche, una sorta di nazional-comunismo, patriota e totalitario, che vuole l’indipendenza dagli alleati, un governo autoritario, forse il partito unico…, la nazionalizzazione delle banche, del petrolio, dell’acciaio»47. Quella che in Algeria si manifestava in realtà come ambigua suggestione politica anti-atlantista veniva paradossalmente presa a modello nell’illusione di poter importare in Italia il “soldato politico”, da impiegare in prima istanza in senso anticomunista, salvo riconvertirlo in senso radicalmente europeista una volta vinta la guerra fredda. La “soluzione militare” entrò dunque tatticamente in quel periodo nella prospettiva politica di Ordine Nuovo e si sviluppò successivamente nella collabo45

Ibid., p. 158. G. Peroncini, Il sillogismo imperfetto. La guerra d’Algeria e il “piano Pouget”, un’alternativa dimenticata, Milano, Mursia, 2007, pp. 207-208. 47 Ibid., p. 455. 46

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razione con il Capo di Stato Maggiore della Difesa Giuseppe Aloia all’interno del suo conflitto teorico e di potere con il comandante generale dei Carabinieri Giovanni De Lorenzo (futuro deputato monarchico e missino). Ne scaturì il pamphlet Le mani rosse sulle Forze Armate, redatto da Rauti, Guido Giannettini ed Eggardo Beltrametti, coperti dallo pseudonimo Flavio Messalla48. Come ha rilevato Virgilio Ilari, gli autori erano estranei alla tradizione politico-culturale fascista […]. Essi respiravano un’atmosfera ideologica che li avvicinava semmai all’ultimo hitlerismo: il sentimento di una involuzione della storia (il rovescio esatto della concezione fascista) e una vocazione piccolo-borghese all’elitismo ingigantivano ai loro occhi l’esperienza ‘rivoluzionaria’ vissuta dall’OAS […]. Pensarono di trovare in Aloia l’uomo che avrebbe permesso loro di indottrinare le Forze Armate […]. L’esercito che essi vagheggiavano era un’armata di ‘centurioni’: relativamente poco numeroso, dotato di armamento professionale e politicizzato in senso anticomunista […]49.

4. Le tentazioni “golpiste” La destra parlamentare non condivideva il progetto di politicizzare i militari. Analizzando la conclusione della crisi algerina, Pino Romualdi ribadisce il suo pensiero dell’immediato dopoguerra sulla inutilità di un’azione di forza in mancanza delle necessarie condizioni politiche, e in sostanza la sua sfiducia verso la classe militare: «L’errore dei generali della rivolta d’Algeri, o per lo meno l’errore principale, è stato quello di aver dimenticato, o di aver ignorato, che il colpo di Stato, la rivoluzione, la conquista del potere, insomma, e la stessa guerra sono fatti politici»50.

48 F. Messalla, Le mani rosse sulle Forze Armate, Roma, Centro Studi e Documentazione sulla Guerra psicologica, 1966. L’identità degli autori è stata confermata in E. Beltrametti, Il colpo di Stato in Italia, Roma, Volpe, 1975, pp. 175 ss. 49 V. Ilari, Le Forze Armate tra politica e potere 1943-1976, Firenze, Vallecchi, 1978, pp. 67-68. 50 Romualdi, L’ora di Catilina, cit., pp. 261-262. Il testo è apparso originariamente come Trestelle, L’errore dei Generali, «L’Italiano», a. III, n. 4-5, aprile-maggio 1961. Nello stesso fascicolo si vedano anche, del medesimo tenore: J. Evola, La scelta della Francia e G. Torchia, Un’altra Patria finisce.

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Per Romualdi non sarebbero stati dunque i generali a salvare l’Europa dal comunismo. E in generale il MSI, che nell’immediato dopoguerra aveva comunque individuato nelle Forze Armate ‘badogliane’ le responsabili della guerra perduta e del crollo del fascismo, aveva sempre mantenuto nei confronti dei militari un atteggiamento di sostegno e di rispetto, pur considerando i vertici troppo compromessi con il governo. Nessun «antimilitarismo preconcetto» ma, per esempio, nei confronti del comportamento delle gerarchie nel caso De Lorenzo-Espresso, come era stato detto: «la nausea soffoca le narici»51. Tuttavia per il MSI le Forze Armate restavano istituzioni sane e andavano difese sia dalla penetrazione comunista sia dalla disattenzione del centrosinistra. All’inizio degli anni Settanta, nel quadro di una forte offensiva delle sinistre a favore dell’obiezione di coscienza e di una enfatizzazione del pericolo comunista, nei quadri militari medio-bassi era sensibile una propensione al voto per il MSI, ma – ha sottolineato Ilari – «si può affermare con una certa sicurezza che le simpatie dei militari per il MSI avevano motivazioni politiche non molto diverse da quelle per la DC o il PSDI: essi apprezzavano l’anima conservatrice, non quella fascista e rivoluzionaria della destra»52. I quadri militari rimasero in sostanza impermeabili alla fascinazione per il “soldato politico” auspicato dalla destra radicale. Il fenomeno fu marginale ed ebbe esiti paradossali: «Molti ufficiali che erano stati in passato affascinati dalle teorie politico-filosofiche della destra si scopersero un’improvvisa vocazione filocomunista: un fenomeno psicologico ben noto nella sindrome piccolo-borghese»53. La strategia politica della destra radicale raccolta intorno a Ordine Nuovo (che alla fine del 1969 si spaccò e, in parte, rientrò nel MSI) si risolse dunque in un fallimento. Tuttavia la riflessione sulla “guerra rivoluzionaria” scaturita dalla crisi algerina si era sviluppata con un convegno sul tema “Guerra politica dei sovietici” (Roma 1961) e poi, grazie al finanziamento garantito

51 52 53

«Il Secolo d’Italia», 9 gennaio 1968. Ilari, Le Forze Armate, cit., p. 166. Ibid., pp. 167-168.

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dal reparto D del Sifar, nella costituzione dell’Istituto Alberto Pollio di studi strategici e militari, che tra il 3 e il 5 maggio 1965, all’Hotel Parco dei Principi di Roma, aveva organizzato il convegno sulla “Guerra rivoluzionaria”. Vi parteciparono Rauti, Giannettini, Beltrametti e altri giornalisti e intellettuali dell’area radicale, alcuni dei quali già attivi nei Far: de Boccard, Finaldi, Accame, Cattabiani. In borghese, osservarono i lavori il colonnello Enzo Rocca del Sifar, che fungeva da collegamento tra Rauti e Aloia, e un inviato di De Lorenzo che tuttavia – ha ammesso a posteriori Beltrametti – «non aveva approvato l’iniziativa»54. Al centro delle riflessioni la guerra rivoluzionaria in Indocina e in Algeria e, naturalmente, le misure politico-militare per contrastare la “sovversione comunista” e la penetrazione sovietica in Occidente. L’OAS fu presa a modello di “esercito politico”. In un testo pubblicato dieci anni dopo, Beltrametti ha rivendicato la piena legittimità dell’iniziativa: «Il Convegno non ha avuto altro scopo che favorire, a tutti i livelli, la valutazione del pericolo comunista […]. Esso fu aperto al pubblico senza obbligo di inviti personali, tant’è che, per errore, entrò nella sala dei lavori un notissimo deputato socialcomunista e ministro»55. Lo scopo dell’intervento di Beltrametti, curatore degli atti del convegno56, era negare che vi fossero stati in Italia tentativi di colpo di Stato: Il “golpe” che prende il nome dal principe Valerio Borghese non ha alcuna analogia con il pretestuoso e non avvenuto “golpe” attribuito a De Lorenzo. Quest’ultimo aveva, per lo meno, i contorni della credibilità; i contorni del “golpe” Borghese sono assurdi con un risvolto caricaturale e un altro enigmatico ed equivoco57.

«Probabilmente – ha rilevato da destra Nicola Rao – non sarà mai accertato il nesso diretto tra il convegno del Parco dei Principi e la stagione dei golpe e delle bombe. Non c’è dubbio, però, che ci sia un nesso politico o, come si direbbe oggi, 54

Beltrametti, Il colpo di Stato, cit., p. 47. Ibid. 56 La guerra rivoluzionaria, cit. Contemporaneamente era stato pubblicato anche il trattato “teorico” G. Giannettini, Tecniche della guerra rivoluzionaria, Roma, I Gialli politici, 1965. 57 Beltrametti, Il colpo di Stato, cit., p. 96. 55

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ambientale. Nel senso che l’humus culturale che ha prodotto la strategia della tensione è lo stesso a cui fanno riferimento i promotori del convegno e i suoi partecipanti»58. Questa riflessione, tuttavia, non restituisce alcuna verità. Certo è che quello che partì dall’OAS era un filone che produsse una “cultura politica”, attraversò le allucinazioni golpiste59 e finì con la simpatia diffusa per il colpo di Stato dei colonnelli greci nel 1967 e per il pronunciamiento di Pinochet in Cile nel 197360. Non per caso al “Giardino dei Supplizi”, il cabaret della destra romana nato da una scissione del “Bagaglino”, alla fine degli anni Sessanta, si cantava: «Occidente sbagliato/ se ancora ci sei/ batti un colpo di Stato./ Occidente good-bye»61. D’altra parte, ha ammesso Rauti, «in quel contesto storico e politico era per noi inevitabile cedere a suggestioni golpiste. Ma non avemmo alcun rapporto con Borghese […]. Io conoscevo Borghese. Ci andai a parlare e gli dissi che volevo saperne di più sul suo progetto. Per questo inviai da lui una delegazione di tre elementi guidata da Clemente Graziani […]. Graziani mi delineò un quadro negativo»62. Qualcosa però non torna nei ricordi di Rauti. Il “golpe” avrebbe dovuto essere attuato nella notte tra il 7 e l’8 dicembre 1970. Da un anno Rauti era rientrato nel MSI e Graziani aveva costituito il Movimento politico Ordine Nuovo, che sarebbe stato poi sciolto per ricostituzione del partito fascista. Dall’interno di questa organizzazione, d’altronde, Reiter ha confermato che «il Mpon fu contrario alla

58

N. Rao, Il sangue e la celtica, Milano, Sperling&Kupfer, 2008, p. 52. Cfr. G. Galli, La Destra in Italia, Milano, Gammalibri, 1983. 60 Da notare il vivace dibattito che si sviluppa nelle riviste d’area su questo argomento. Cfr. G. Accame, «Nuova Repubblica», n. 37, 14 ottobre ’73; P. Vassallo, «Civiltà», a. II, n. 4, gennaio-febbraio 1974; M. Magliaro, «Rivista di Studi Corporativi», a. IV, n. 1, gennaio-febbraio 1974 e ivi, a. IV, n. 4, luglio-agosto 1974, contrario alla soluzione militare. Evola sottolinea come «a valori di tipo “militare” si può concedere una preminenza rispetto a tutto ciò che è genericamente “borghese”». Cfr. J. Evola, Soldati, società, Stato, «Civiltà», a. II, n. 5, marzo-aprile 1974. Sulla destra parlamentare ed extraparlamentare cfr. G.S. Rossi, Alternativa e doppiopetto. Il MSI dalla contestazione alla Destra nazionale (1968-1973), Roma, Isc, 1992. 61 Il testo della canzone Occidente in L. Cirri, Dizionario dei sentimenti nobili e ignobili, a cura di F. Chiocci, Roma, Ciarrapico, 1987, p. 105. 62 Cit. in N. Rao, Neofascisti, Roma, Settimo Sigillo, 1999, p. 156. Ora rifuso in Id., La fiamma e la celtica, cit. 59

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prospettiva Borghese e a qualsiasi altra cospirazione o tentativo golpista»63. Suggestioni che, semmai, nel quadro dei dissensi anche acuti tra extraparlamentari di destra, sono state attribuite ad Avanguardia Nazionale di Stefano Delle Chiaie. Nonostante abbia ammesso di essere stato in contatto con il Fronte Nazionale di Borghese, anche Pierluigi Concutelli, futuro comandante militare di Ordine Nuovo clandestino, ha negato qualunque rapporto tra ON e il presunto golpe64. Ma tutto questo atteneva alla destra extraparlamentare, che aveva apprezzato il colpo di Stato dei colonnelli greci, con i quali Ordine Nuovo aveva avviato una collaborazione organica65. Diverso è stato il percorso del MSI, anche nei confronti delle ipotesi golpiste, che venivano apprezzate come extrema ratio anticomunista all’estero, e segnatamente in Grecia, ma rifiutate all’interno. In particolare, per quel che riguarda il “golpe” Borghese66. È stato Adriano Monti, collaboratore del “comandante” a confermare che sarebbe stato proprio un dirigente del MSI ad avvertire la Prefettura di Roma di quel che stava per accadere67. Ed è stato Giulio Andreotti a ricordare: «Contro i colpi di Stato però vigilavano non solo DC e PCI ma anche il MSI, non a caso considerato da questi elementi come un gruppo di traditori. Sono convinto che la notte dell’8 dicembre 1970 fu Almirante ad informare la polizia delle mosse di Borghese per evitare che il partito ne venisse coinvolto»68.

63

Reiter, Ordine Nuovo, cit., p. 177. Cfr. P. Concutelli, G. Ardica, Io, l’uomo nero. Una vita tra politica, violenza e galera, Venezia, Marsilio, 2008, pp. 51-57. 65 Cfr. G. De Lutiis, Storia dei servizi segreti in Italia, Roma, Editori Riuniti, 1985, p. 97. 66 Nel giudizio sul golpe di Atene il vertice del MSI è sempre prudente, ma a livello periferico si esprime apertamente «apprezzamento per il colpo di Stato, vero colpo di bisturi nella cancrena pseudo-democratica di quel Paese». Cfr. L.M. Imperatore, Orientamenti, Napoli, Federazione MSI, 1970, p. 15. 67 A. Monti, Il “Golpe Borghese”. Un golpe virtuale all’italiana, Bologna, Lo Scarabeo, 2006, p. 81. 68 A. Cazzullo, Non fu strage di Stato. E resta il giallo Valpreda, intervista con G. Andreotti, «Corriere della sera», 29 aprile 2005. 64

Vittorio Vidotto Violenza politica e rituali della violenza

La violenza politica ha bisogno di una definizione e di una cronologia1. Soprattutto se pensiamo agli anni ’70 del Novecento italiano, gli anni della conflittualità, della lotta armata e del terrorismo. La categoria “violenza politica” si affaccia negli studi storici solo in tempi recenti2: in genere con un’accezione prevalentemente descrittiva, con un’estensione ampia ed elastica e, forse, non sempre sufficientemente definita. La storiografia del resto rifugge dall’impiego troppo rigoroso delle categorie, preferendone un uso pragmatico, talora evocativo e allusivo. La riflessione sulla violenza è invece ovviamente un tema classico della filosofia politica, da Hobbes a Sorel a Schmitt. Ed è al centro di molte ricerche e classificazioni della sociologia e della scienza politica. Numerose declinazioni sul tema della violenza emergono negli Stati Uniti dagli studi di sociologia urbana e si ripropongono con forza in seguito alle rivolte degli

1 Non credo sia sufficiente adottare quella di «violenza politicamente motivata»: cfr. M. Tolomelli, Terrorismo e società. Il pubblico dibattito in Italia e Germania negli anni Settanta, Bologna, il Mulino, 2006, p. 9, anche se può rappresentare un’indicazione di partenza. 2 Tra i primi, A. Ventrone, L’assalto al cielo. Le radici della violenza politica, in G. De Rosa, G. Monina (a cura di), L’Italia repubblicana nella crisi degli anni settanta. Sistema politico e istituzioni, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003, pp. 181-201, e, per altro periodo, Id., La seduzione totalitaria. Guerra, modernità, violenza politica (1914-1918), Roma, Donzelli, 2004, pp. 233-255; B. Armani, Italia anni settanta. Movimenti, violenza politica e lotta armata tra memoria e rappresentazione storiografica, «Storica», n. 32, 2005, pp. 41-82. Vedi una recentissima valutazione del ritardo degli studi storici, rispetto ad altri campi disciplinari, nell’importante bilancio critico di L. Bosi, M.S. Piretti, Violenza politica e terrorismo: diversi approcci di analisi e nuove prospettive di ricerca, «Ricerche di storia politica», n. 3, 2008, pp. 3-10.

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anni ’60, nell’intento di affrontare i nessi tra violenza politica e risposta istituzionale e, più in generale, i modelli di trasformazione dei sistemi politici3. Più o meno negli stessi anni, in un contesto di sociologia storica comparativa, Charles Tilly, allievo di Barrington Moore jr., analizza dalla fine del Settecento, con il pionieristico studio sulla Vandea, e poi lungo tutto il corso dell’Ottocento e del Novecento, le varie dinamiche della violenza collettiva sviluppando il tema della conflittualità (contentious politics) e aprendosi in seguito agli studi sulle collective actions e sui relativi repertori4: in una visione propulsiva della dinamica storica in funzione, ma non sempre, dei processi di democratizzazione5. La concettualizzazione di fondo e l’impianto di questi studi viene largamente ripreso anche in Italia nelle ricerche pubblicate dall’Istituto Carlo Cattaneo di Bologna tra il 1983 e il 19906 nella serie “Ricerche e studi sul terrorismo e la violenza politica” e nel volume del 1990 di Sidney Tarrow, amico e collaboratore di Tilly, dedicato al ciclo di protesta italiano degli anni 1965-19757. Ma già nel 1986 in un importante saggio dello stesso Tarrow con Donatella Della Porta ne venivano anticipati 3 Cfr. ad es. H. Hirsch, D.C. Perry (a cura di), Violence as Politics. A Series of Original Essays, New York, Harper&Row, 1973. E si veda anche la recente riconsiderazione complessiva di questi temi compiuta da un punto di vista sociologico nel volume di V. Ruggiero, La violenza politica. Un’analisi criminologica, Roma-Bari, Laterza, 2006. 4 Ch. Tilly, The Vendee. A Sociological Analysis of the Counter-Revolution of 1793, Cambridge, Harvard Universiy Press, 1964; trad. it. La Vandea, Torino, Rosenberg&Sellier, 1976. 5 Da ultimo cfr. Ch. Tilly, Contentious Performances, New York, Cambridge University Press, 2008 e i precedenti volumi tradotti in italiano Conflitto e democrazia in Europa, 1650-2000, Milano, Bruno Mondadori, 2007 e Ch. Tilly, S. Tarrow, La politica del conflitto, ivi, 2008. La politica del conflitto comprende una serie di forme particolari del conflitto: «movimenti sociali, ondate di scioperi, rivolte e rivoluzioni, per non parlare del terrorismo organizzato», p. VII. 6 D. Della Porta, G. Pasquino (a cura di), Terrorismo e violenza politica. Tre casi a confronto: Stati Uniti, Germania e Giappone, Bologna, il Mulino, 1983, e cfr. in questo vol. C. Tilly, Violenza e azione collettiva in Europa. Riflessioni storico comparate, pp. 51-87; G. Pasquino (a cura di), La prova delle armi, Bologna, il Mulino 1984; infine le raccolte, entrambe curate da R. Catanzaro La politica della violenza, Bologna, il Mulino, 1990 e Ideologie, movimenti, terrorismi, Bologna, il Mulino, 1990. 7 S. Tarrow, Democracy and Disorder. Protest and Politics in Italy, 1965-1975, New York, Oxford University Press, 1989; trad. it Democrazia e disordine. Movimenti di protesta e politica in Italia, 1965-1975, Roma-Bari, Laterza, 1990.

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le ipotesi di ricerca, i risultati e le interpretazioni8. Più in generale, quanto sia ampia l’attenzione ai temi della violenza politica negli Stati Uniti è confermata dalla pubblicazione, a partire dal 1989, di una rivista trimestrale, «Terrorism and Political Violence» diretta da David C. Rapoport, che ha ospitato nelle sue prime annate diversi contributi dedicati all’Italia. La violenza politica, in stretta relazione con il terrorismo, diviene campo di analisi anche in Italia alla fine degli anni Settanta, in coincidenza con il culmine della lotta armata. Nel 1979 il politologo Luigi Bonanate cura una bibliografia sulla violenza politica nel mondo contemporaneo e vi ricomprende il terrorismo, i movimenti di ribellione, la guerriglia urbana, le guerre di liberazione, le lotte antimperialistiche9. Qualche anno dopo il sociologo Gianni Statera raccoglie in un volume i risultati di una ricerca sulla violenza sociale e la violenza politica condotta sui resoconti della stampa quotidiana10. Nel frattempo si apre una riflessione nella nuova sinistra: la violenza del resto è entrata ormai da anni nella normalità della pratica politica. Luigi Ferrajoli prova ad introdurre delle distinzioni nella violenza politica, quella che va «dal terrorismo delle Brigate Rosse [...] alla violenza armata diffusa e para-spontanea [...] dei movimenti collettivi»11: Se da un lato il terrorismo delle BR sembra riprodurre schiettamente e in forma estrema il paradigma della più esasperata «autonomia del politico», non tutte le altre forme di violenza anti-istituzionale sembrano riconducibili allo schema più rassicurante della violenza «sociale» o

8 D. Della Porta, S. Tarrow, Unwanted Children. Political Violence and the Cycle of Protest in Italy, 1966-1973, «European Journal of Political Research», nn. 5-6, 1986, pp. 607-632. 9 L. Bonanate (a cura di), La violenza politica nel mondo contemporaneo. Bibliografia internazionale sul terrorismo, i movimenti di ribellione, la guerriglia urbana, le guerre di liberazione, le lotte antimperialistiche, Milano, FrancoAngeli, 1979. 10 G. Statera (a cura di), Violenza sociale e violenza politica nell’Italia degli anni ’70. Analisi e interpretazioni sociopolitiche, giuridiche, della stampa quotidiana, Milano, FrancoAngeli, 1983 e, in particolare, L. Ciampi, Violenza sociale e violenza politica: analisi e interpretazioni socio-politiche, pp. 35-66 e G. Losito, La violenza politica nella stampa quotidiana italiana. Principali risultati di una ricerca di analisi del contenuto, pp. 107-154. 11 L. Ferrajoli, Critica della violenza come critica della politica, in L. Manconi (a cura di), La violenza e la politica, Roma, Savelli, 1979, p. 39.

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«spontanea» o «di massa», del tipo fino a ieri esemplificato dagli scontri di piazza con la polizia o con i fascisti [...]12.

Dunque bisogna distinguere tra violenza politica e violenza sociale. Io credo che un connotato specifico e distintivo della violenza in quanto «politica» può essere identificato nel fatto che la violenza politica è sempre ideologizzata e accompagnata da un’intenzionalità strategica. La violenza è «politica» [...] in quanto essa è prescelta o prescritta o esaltata come forma specifica e necessaria dell’azione rivoluzionaria, nel cui modello ideologico essa è contenuta come elemento normativo13.

Dove questo imperativo ideologico manca, la violenza è sociale. In termini weberiani si potrebbe dire che nella violenza politica il «senso dell’agire» è prevalentemente la violenza medesima, mentre nella violenza sociale il «senso dell’agire» non è affatto la violenza ma solo i bisogni e gli interessi perseguiti dall’azione14.

Ferrajoli distingue quindi la violenza «politico-giacobina» dalla violenza «polititico-attivistica» che corrisponde alla violenza politica diffusa, citando i casi di via Acca Larentia, e le pratiche degli assalti e degli incendi di quegli anni. In questo caso la violenza è intesa «non come mezzo, ma come fine, come essa stessa “valore”»: e il riferimento è anche alle pratiche dell’Autonomia e al suo teorico Toni Negri15. Sono spunti di un dibattito tutto interno a un’area politica consapevole ormai di una esplosione dei movimenti in gran parte sfuggiti al controllo intellettuale e interpretativo. Venuto meno il primato dell’intellettuale militante, ha campo libero il militante tout court, forte della pratica e delle tecniche della violenza, in grado di imporre la supremazia del linguaggio dei fatti.

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Ibid., pp. 39-40. Ibid., p. 49. 14 Ibid., p. 50. 15 A. Negri, Il dominio e il sabotaggio, Milano, Feltrinelli, 1978, ora in Id., I libri del rogo, Roma, DeriveApprodi, 2006, pp. 245-301. Si veda anche Ciampi, Violenza sociale e violenza politica, cit., pp. 35-37. 13

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Quando è avvenuto questo scarto? E ha senso inseguirne una genesi teorica? Non credo. Penso invece che sarebbe importante riflettere sul fatto che la violenza sia oggetto, a sinistra, per tutti gli anni del dopoguerra, di una grande rimozione, frutto a sua volta di una sostanziale doppiezza ideologica. I partiti storici della sinistra comunista e socialista (e poi anche psiuppina), tutti invariabilmente intenti a distinguersi dalla socialdemocrazia europea, da decenni ragionano sulla ipotesi del superamento del capitalismo e del sistema occidentale, e del passaggio al socialismo. Gran parte dei dirigenti e dei militanti procede per automatismi verbali e ripetitivi ossequi alla tradizione. Anzi, mentre nella sinistra non si ragiona su quali strumenti adottare per realizzare questo passaggio, si ipotizzano e si attuano alleanze con partiti che si mantengono senza incertezze sul terreno della democrazia liberale. Alcune minoranze intellettuali cercano insistentemente le precondizioni economiche e sociali, rileggendo i classici del marxismo e del leninismo per rifondare le ragioni dell’azione politica. Nessuno tuttavia compie una riflessione operativa e un’analisi degli strumenti per attivare la transizione. Tutto il castello ideologico che si costruisce in innumerevoli scritti e interventi opera in una dimensione di totale autoreferenzialità e di sostanziale incapacità di leggere le trasformazioni politiche e sociali del Paese. È la consapevolezza di un’impotenza o una ricorrente arroganza dell’ideologia? O la seconda discende inevitabilmente dalla prima? Provo a ricordare appena due casi esemplari. Ancora nel dicembre 1978 il Progetto di tesi per il XV Congresso nazionale del PCI, dopo aver dichiarato di lottare «per un profondo rinnovamento del Paese, per la salvezza e il progresso della democrazia, secondo la linea tracciata dalla Costituzione repubblicana» mira ad avviare «la trasformazione dell’Italia in una società socialista fondata sulla democrazia politica», impegnandosi a dare «il proprio contributo all’avanzata degli ideali della pace e del socialismo in Europa e nel mondo»16. Cosa fosse questa società socialista non è ovviamente chiarito. Del resto il contributo

16 Progetto di tesi per il XV Congresso nazionale del PCI, Roma, Editori Riuniti, 1978, p. 9.

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di parte socialista si collocava da tempo sul terreno del puro antagonismo, spesso interamente strumentale, nei confronti dei comunisti. Appena qualche mese prima, nell’agosto 1978, uno scritto a firma Bettino Craxi17 operava un artificioso recupero di Proudhon nel pantheon socialista al fine di rivendicare la diversità/superiorità del socialismo rispetto al leninismo e alla sua concezione dello Stato e del partito. La difesa del pluralismo socialista come superamento del pluralismo liberale appariva in quel testo privo di ogni aggancio teorico e storico. Nonostante l’evidente pretestuosità delle argomentazioni socialiste si avviò una sequenza di discussioni teoriche che dilagò sulle pagine dei quotidiani in quei giorni di tarda estate18. A poco servirono i distinguo di Norberto Bobbio a riportare su corretti binari una discussione chiaramente deragliata in contrapposizioni di schieramento politico: anche se nella ridondante produzione di quegli anni non sempre lo stesso Bobbio era rimasto all’altezza della sua lucidità, come quando si spingeva a ipotizzare la positività di una democrazia dei consigli19. Nel rileggere a distanza di anni quei testi del 1978 appare paradossale, anche se non troppo sorprendente nel bizantinismo imperante del dibattito ideologico, che a pochi mesi dall’uccisione di Aldo Moro, nell’anno del dilagare del terrorismo diffuso, in una fase delle più drammatiche della storia italiana rimanesse così alto lo scarto tra le urgenze della politica e il dibattito teorico ridotto a pratica discorsiva conflittuale e simbolica. Mentre rimaneva irrilevante se non inesistente la riflessione teorica sul tema della violenza politica dominante nel Paese20. Non si tratta evidentemente di rinverdire qui la polemica pubblicistica liberaldemocratica sul tema del ritardo e/o della doppiezza del PCI (doppiezza peraltro largamente estendibile anche al PSI), ma di riflettere sulla necessità di misurare il pos17 Ma attribuito a Luciano Pellicani, cfr. B. Craxi, Il Vangelo socialista, in P. Mieli, Litigio a sinistra, I Libri de l’Espresso, s.l., 1978, pp. 62-72. 18 In gran parte raccolta in Mieli, Litigio a sinistra, cit. 19 N. Bobbio, Quale socialismo? Discussione di un’alternativa, Torino, Einaudi, 1976, p. 100. 20 Anche i saggi presenti nei due volumi di L. Graziano, S. Tarrow (a cura di), La crisi italiana, Torino, Einaudi, 1979, non toccano il problema se non in una mezza pagina di Tarrow, Aspetti della crisi italiana: note introduttive, p. 19.

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sibile sistematico e durevole effetto di fastidio intellettuale che queste pratiche ideologiche (in corso da oltre un quindicennio) esercitavano sui giovani militanti e intellettuali di sinistra, dove il bisogno di autenticità o la presa di distanza dai padri e/o la ricerca di tradizioni diverse di lotta aveva cominciato da tempo a farsi strada. Ma in una prima fase queste esigenze si traducono in una riflessione prevalentemente teorica. Dal ’68 invece prende avvio una fase connotata in primo luogo dall’esigenza del fare, e la violenza comincia a farsi strada e a essere sperimentata direttamente. Fino ad allora la violenza si presentava in varie declinazioni, dotate tutte di una loro legittimità storica e politica. La violenza legittima dei partigiani e quella antifascista, quella di piazza contro i soprusi padronali o contro il governo Tambroni, la violenza rivoluzionaria della lotta anticoloniale o quella antiamericana nel Vietnam, o le lotte di liberazione a Cuba e in America Latina. Ma la violenza non faceva parte del vocabolario politico di quegli anni: il termine corrente era lotta o lotte. La violenza era semmai quella delle istituzioni o degli Stati, o quella dell’avversario politico. Vi erano stati, nell’immediato passato politico, due episodi epocali: le lotte di piazza del luglio 1960 e quelle di piazza Statuto a Torino del luglio 1962, in cui si erano visti in campo i giovani con le “magliette a strisce” mescolarsi ai militanti tradizionali negli scontri di Porta S. Paolo a Roma nel 1960 e ai giovani operai della Fiat ribelli alle regole sindacali a Torino. Ma queste vicende entrano prevalentemente nella biografia di quanti erano politicamente già attivi agli inizi degli anni Sessanta, mentre col ’68 fa i suoi esordi una nuova e più numerosa generazione. Gli studenti diventano protagonisti del ciclo di protesta: del resto, secondo Della Porta e Tarrow la prima impennata degli episodi violenti coincide appunto con il ’6821. Su 1922 episodi di protesta che vedono gli studenti come protagonisti, nell’arco temporale che si chiude nel ’73, il 53% hanno carattere violento22. Dal ’68 il protagonismo studentesco e giovanile di sinistra, se non 21 22

Della Porta, Tarrow, Unwanted Children, cit., p. 618. Ibid., p. 621.

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di massa, certo di grandi numeri, conosce una crescita esponenziale e si differenzia sempre più, come capacità mobilitatrice dai giovani dell’estrema destra23. Alla cronologia del ciclo della protesta suggerita da Tarrow − 1965-1975 ma in realtà 1966-1973 − che tocca solo gli inizi della violenza politica, e a quella proposta dai volumi curati dal gruppo di Carlo Schaerf, 1969-198824, a mio avviso è più convincente sostituire quella 1968-198125, corrispondente quasi per intero agli anni della conflittualità, 1968-198026. La categoria “violenza politica” credo che vada impiegata come un contenitore ampio27. Nella realtà degli anni Settanta individua una serie di eventi − dal grande terrorismo al terrorismo diffuso, a tutti i comportamenti volti a neutralizzare gli avversari politici di destra e di sinistra, agli agguati e alle spedizioni punitive, agli scontri di piazza, ai cortei ‘militanti’, agli espropri proletari, alle lotte per la casa − ma comprende altresì gli interventi delle forze di polizia quando si pongono al di là

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Ha caratteri diversi la rivolta di Reggio Calabria. C. Schaerf, G. De Lutiis, A. Silj, F. Carlucci, E. Bellucci, S. Argentini (a cura di), Venti anni di violenza politica in Italia, 1969-1988. Cronologia e analisi statistica, Roma, Isodarco, 1992: la cronologia è condotta secondo uno spettro molto ampio e talora discutibile (vi sono compresi fatti di mafia, terrorismo internazionale, di ordine pubblico), ma proprio la ricchezza delle informazioni e la successiva elaborazione statistica ne suggerirebbero una utilizzazione più ampia di quella finora compiuta. 25 Questo arco temporale corrisponde alla numerosità degli eventi registrati in Venti anni di violenza politica, cit. 26 Dalla battaglia di Valle Giulia alla “marcia dei quarantamila”, che chiude la stagione delle violenze di fabbrica. È la periodizzazione della conflittualità proposta da chi scrive nel saggio La nuova società, in G. Sabbatucci, V. Vidotto (a cura di), Storia d’Italia, L’Italia contemporanea, vol. VI. Dal 1963 a oggi, Roma-Bari, Laterza,1999, pp. 66-74 e confermata in V. Vidotto, Italiani/e. Dal miracolo economico a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2005, pp. 99-110. In questo saggio, e in particolare nella parte relativa alla conflittualità e al terrorismo, non compare mai la categoria della “violenza politica”. 27 Senza distinguere tra stragismo, terrorismo e violenza politica, come propone Giovanni Moro in Anni Settanta, Torino, Einaudi, 2007, pp. 46-47. Si vedano anche le definizioni dei “servizi” italiani: «L’atto di terrorismo, a differenza di quello di “violenza politica” (ascrivibile ad individui o gruppi che tendono ad agire a “viso aperto”) e di quelli di “guerriglia” (attuati con strumenti e logiche paramilitari) viene di solito compiuto da individui o gruppi operanti in clandestinità o sotto copertura o comunque in condizioni di mimetismo all’interno delle società colpite», «Gnosis. Rivista italiana di intelligence», n. 1, ottobre-dicembre 2004, p. 178. 24

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della corretta difesa dell’ordine pubblico e al di fuori dei canoni di una democrazia equilibratamente conflittuale. L’ipotesi che qui si presenta di una cronologia della violenza politica a partire da Valle Giulia, Roma 1° marzo 1968, differisce nettamente da quella della vulgata, avallata anche dagli storici con un occhio prevalente al terrorismo di destra, che ne sposta l’inizio in avanti di oltre un anno a partire dalla strage di piazza Fontana (12 dicembre 1969). Luigi Manconi, tra i protagonisti della prima fase della violenza politica di sinistra, politico di lungo corso e acuto studioso dei fatti sociali, ragionando sull’anomalia italiana e sul terrorismo in un recente e importante volume, consapevole dei rischi derivanti sia da un’esperienza «vissuta negli anni della giovinezza e in ragione della sua particolare intensità» che da un’ottica potenzialmente segnata da un forte soggettivismo, ritiene tuttavia di poter individuare nella «perdita dell’innocenza e [nella] Grande Menzogna quali effetti della strage di piazza Fontana [...] la prima delle cause del terrorismo italiano». Indica poi, nell’ordine, le altre possibili cause: Il blocco di sistema, la sua impermeabilità e sordità rispetto alle domande collettive [...]. L’elevato tasso di ideologizzazione del senso comune delle culture di massa [...]. La permanenza delle subculture tradizionali e delle comunità politico-ideologiche [...]. L’epica della Resistenza e del comunismo [...]. Il trascinamento e la perpetuazione del Sessantotto e l’influenza delle culture dei movimenti sociali [...]. L’assolutizzazione della «lotta contro l’ingiustizia» e la legittimazione morale e religiosa della «violenza giusta»28.

Tornerò su questi aspetti più avanti, ma la scelta periodizzante appare molto netta. Anche se è lo stesso Manconi, poco più avanti a citare alcune considerazioni tratte da un’intervista ad Adriano Sofri del 2004: Lo choc della strage per noi fu fortissimo, un colpo che ti fa tramortire: ma tuttavia eravamo militanti politici con una grande voglia di fare la rivoluzione da tanti anni. Questo rende contraddittoria e parziale quella definizione di innocenza. Per carità, per un verso ne conserva intatta la

28 L. Manconi, Terroristi italiani. Le Brigate Rosse e la guerra totale, 1970-2008, Milano, Rizzoli, 2008, pp. 24-25.

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validità. Ma per un altro la trasforma in una specie di autoassoluzione un po’ troppo indulgente. Mi chiedo: senza la strage di piazza Fontana, avrei tirato la mia prima pietra o no? Secondo me sì. Anzi forse l’ avevamo già tirata [...]. Noi non abbiamo cominciato a credere non solo nella necessità ma addirittura nella virtù della violenza dopo il 12 dicembre. Noi ce ne riempivamo la bocca da molto tempo prima. Ed eravamo soltanto epigoni di una lunghissima tradizione del movimento operaio, delle lotte politiche borghesi, della rivoluzione francese, del Risorgimento. Cioè di una tradizione in cui il culto della violenza ribelle e liberatrice era una parte assolutamente essenziale della filosofia politica. Non era soltanto la rassegnazione alla necessità della violenza, alla legittima difesa (se il nemico non rinuncia alle sue armi violente e sopraffattrici, tu ti devi mettere in grado di reagire). Ma era qualcosa di più. Un’ idea della violenza come passaggio decisivo e costitutivo dell’uomo nuovo: la violenza emancipatrice, la violenza come levatrice della storia. Un forcipe che deve per forza portare alla luce un mondo nuovo29.

Quella prima pietra era stata già tirata il 1° marzo 1968 a Valle Giulia o, meglio, il 29 febbraio a via Nazionale30. Alcuni giorno dopo, il settimanale «La Sinistra» pubblica in prima pagina il disegno di una bottiglia molotov con le istruzioni per fabbricarla e nell’interno, in una doppia pagina sovrastata da un grande titolo «CONTRO LA VIOLENZA, VIOLENZA», sono dettagliatamente descritte «le armi per l’autodifesa»: sassi e bastoni, biglie di metallo, barricate e, appunto, la molotov, «la regina della difesa violenta»31. Gli articoli della «Sinistra» suggeriscono che vi era già un progetto di violenza, anche se teorizzato come difensivo, che vi era un legame mitico con le tradizioni di piazza del luglio 1960, che i fatti del 29 febbraio-1° marzo rappresentavano una

29 Tutto partì da piazza Fontana. Poi lanciammo la prima pietra, Intervista di Roberto Delera ad Adriano Sofri, «Corriere della sera», 2 aprile 2004, anche in Archivio storico del Corriere on-line. 30 Sull’iniziazione alla violenza degli studenti di sinistra, ad imitazione e in concorrenza con quelli neofascisti durante la manifestazione del 29 febbraio, cfr. Vidotto, Italiani/e, cit., p. 101. 31 «La Sinistra», n. 10, 16 marzo 1968, pp. 1, 8-9. Rivista di orientamento trozkista, diretta da Silverio Corvisieri: accanto al titolo recava una falce e martello girata verso destra con mitra e fucili. La rivista era stata diretta fino alla fine del 1967 dal filosofo Lucio Colletti e a lui per anni fu attribuita la responsabilità politica e morale di aver propagandato l’uso della molotov. Alla «Sinistra» facevano capo alcuni esponenti di spicco del movimento studentesco romano tra cui Paolo Flores d’Arcais.

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prima educazione alla violenza in un episodio coronato da successo: non per l’esito finale della battaglia, ma per l’iniziativa di attaccare la polizia. Gli studenti di sinistra, borghesi e piccoloborghesi, avevano cominciato a picchiare e a non scappare più. Numerosi altre giornate seguiranno in quei mesi e il 31 maggio a Campo dei Fiori verranno lanciate le prime molotov32. Il 19 novembre 1969 a Milano viene ucciso l’agente Antonio Annarumma. A quella data si sono largamente consolidati l’uso delle spranghe, delle chiavi inglesi, dei caschi, delle armi e delle divise di piazza. Proporre una diversa cronologia, svincolandola dalla genealogia virtuosa suggerita dai protagonisti di quella stagione, significa riflettere sull’autonomia della violenza, sulla forza mobilitatrice delle ideologie, sul peso delle parole, sul potere aggregante dei rituali. Provando a periodizzare gli anni Settanta. Non solo per evitare di appiattire sulla violenza politica un periodo segnato anche da molte trasformazioni politiche e riforme sociali33, ma anche per distinguere cesure e/o linee di continuità tra una prima fase in cui la violenza di sinistra appare dominata dalla giustificazione dell’antifascismo militante, da una seconda segnata, sullo sfondo, dal “tradimento” del PCI. Sempre più la violenza si giustifica in se stessa e anche il nuovo terrorismo di destra appare caratterizzato dallo stesso percorso. Numerose conferme di questa lettura della violenza si trovano nelle interviste raccolte dall’Istituto Cattaneo tra un campione di terroristi dissociati.

32 La molotov è rimasta nella tradizione dei movimenti della sinistra estrema: vedi la canzone S’addà appiccià (1994) versione live dall’album Incredibile opposizione tour dei 99 Posse, un gruppo napoletano, con le istruzioni per la fabbricazione della bottiglia incendiaria: «Piglia a butteglia e ferrarelle / và addò benzinaro spienne doje lirelle / miettece pure nà mappina n’ copp / statte accorto ca nisciuno se l’ammocca e / se pure i fascisti mò devono parlare / sai compagno cosa dobbiamo fare dico / Boccia boccia boccia bam bam / appicciamm’ e fascisti cù tutto o’ viminal [ma “quirinal” nel testo cantato]». 33 Dal referendum al divorzio, al diritto di famiglia, alla riforma sanitaria, a quella del sistema carcerario, all’equo canone, alla legge Basaglia, all’istituzione delle regioni e degli organi di governo collegiale delle scuole; cfr. Armani, Italia anni settanta, cit., p. 66 e Moro, Anni Settanta, cit, pp. 31-33.

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Dal garantire i cortei all’imparare l’uso delle bottiglie molotov, dalla preparazione in anticipo di strategie «provocatorie» finalizzate ad attizzare scontri di piazza all’addestramento all’uso delle armi, dagli espropri proletari alle prime rapine o incendi di auto, ai sequestri e agli attentati alle persone, tutte queste tappe tendono ad essere rivissute − scrive Raimondo Catanzaro − come un percorso senza soluzione di continuità, quasi naturale e obbligato34.

E un intervistato chiarisce «Per cui, ecco, il problema della violenza non...non si discute neanche, passa proprio come cosa assolutamente normale, data dallo stato di cose in sviluppo»35. Mentre un altro aggiunge: Il tema dell’antifascismo è sostanzialmente un tema che contiene in sé un discorso aprioristico di legittimazione della violenza, anche non difensiva... perché picchiare i fascisti era sempre giusto per il movimento torinese...; non eravamo solo noi che urlavamo slogan di morte contro i fascisti, c’erano i cortei che li urlavano a migliaia...36.

Ancora più chiara delle voci dei dissociati, registrate a qualche anno di distanza, è quella di un militante della zona Nord di Roma amico di Walter Rossi (ucciso dai fascisti il 30 settembre 1977) raccolta quasi in presa diretta. Parlare di violenza in sé è molto difficile, non so, la lotta armata organizzata è una cosa che mi è molto lontana: magari mi è più vicina l’idea di fare altre cose che possono essere anche molto pesanti, tipo procurare la morte di alcune persone...37.

Dalla metà degli anni Settanta, e certamente dal ’77, la violenza presenta caratteri diversi, svincolati dai repertori ideologici precedenti o semplicemente ripetuti in automatismi verbali. La forza interna del gruppo, le reti amicali, l’esigenza imitativa, la concorrenza tra i movimenti, l’esperienza rituale della violenza vanno ricostruite con la stessa cura con cui si analizzano i testi program-

34 R. Catanzaro, Il sentito e il vissuto. La violenza nel racconto dei protagonisti, in Id. (a cura di), La politica della violenza, cit., p. 207. 35 Ibid. 36 Ibid., p. 213. 37 «C’è un clima di guerra...». Intervista sul terrorismo diffuso, a cura di M. Lombardo-Radice, M. Sinibaldi, in Manconi (a cura di), La violenza e la politica, cit., p. 124.

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matici e i documenti rivendicativi (relativamente pochi, salvo quelli delle Brigate Rosse), o le posteriori autorappresentazioni38. Fu come se ogni gruppo organizzato, ogni comitato di lotta, ogni collettivo di quartiere (o di scuola o di reparto o di sezione...) volesse fare la sua «esperienza armata» − una sorta di «rito di passaggio» di natura bellica, proprio di alcune società, non solo premoderne − e, in un numero elevato di casi, la sperimentasse davvero39.

E ancora Manconi ricorda la rilevanza di una pratica tipica delle Brigate Rosse nella prospettiva di un riconoscimento politico. Da qui l’accentuazione − fino all’esasperazione retorica − dei connotati e dei riti contro-statualistici: processo/controprocesso; prigione statale/ prigione del popolo; esercito della borghesia/esercito del proletariato (e molte altre coppie di termini speculari): con una sottolineatura esasperata del linguaggio simbolico e del suo intento didascalico40.

Siamo sul terreno, potremmo dire, dei rituali ‘istituzionali’ ma assai più significativi sono i rituali ‘comportamentali’. In questo campo è possibile individuare analogie tra estrema destra ed estrema sinistra, ma è ancora più importante sottolinearne gli aspetti differenziali41. In entrambi gli schieramenti sono diffuse le armi, ma i pugnali e i coltelli sono tipici della tradizione fascista dell’agguato. A sinistra dalle armi corte, la P38, si passa, nel ’77, alle armi lunghe dell’Autonomia. Le armi si esibiscono e il gesto delle tre dita della P38 diventa un logo dei cortei del ’77. Alcuni militanti sono preda del feticismo delle armi a destra come a sinistra, da Giusva Fioravanti a Valerio Morucci. A destra vi è un ritualismo delle uccisioni: Cristiano Fioravanti e Alessandro Alibrandi si passano l’arma durante la sparatoria

38 Sulla base delle interviste ai dissociati, interessante l’analisi degli incentivi proposta da D. Della Porta, Gli incentivi alla militanza nelle organizzazioni clandestine di sinistra, in Catanzaro (a cura di), Ideologie, movimenti, terrorismi, cit. 39 Manconi, Terroristi italiani, cit., pp. 84-85. 40 Ibid., p. 80. 41 Sul tema vedi le osservazioni di Ventrone, L’assalto al cielo, cit., pp. 182 ss.

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che porterà alla morte di Walter Rossi; e tutto il gruppo dei Nar spara a turno contro il traditore Mangiameli42. La violenza politica è quasi sempre un’esperienza di gruppo, collettiva, con una funzione aggregante che consolida relazioni amicali e affettive, non solo di complicità. Diverso è il modo di tenere la piazza, tra destra e sinistra, anche per la diversa entità numerica dei cortei. Canti e cori sono un collante, anche emozionale decisivo: la scenografia sonora è un momento molto importante nelle grandi manifestazioni di sinistra. Qui nel tempo gli slogan si fecero sempre più duri. A Roma nel ’77 si sentì intonare «Il Movimento di lotta non si tocca / Settimio Passamonti t’abbiam sparato in bocca!» e «Compagno Walter te lo giuriamo / d’ora in avanti anche noi spariamo!»: uno slogan che occultava la verità, perché erano almeno quattro anni che i ‘compagni’ avevano impugnato le armi. Anche le analisi ideologiche, le proposte di mobilitazione, l’indicazione delle prospettive sono segnate da clichés ripetitivi: tanto più automatici e rituali quanto più lontani da una analisi realistica dei rapporti di forza esistenti in Italia. I militanti terroristi, e in primo luogo le BR, si presentano come possessori di una capacità di analisi più profonda come portatori di verità. Per essi «la violenza [è una] forma di intelligenza politica»43. Ma in generale le formazioni militanti, salvo le BR appunto, non pensano di “stare nella storia”, almeno non in quella segnata dai paletti di uno storicismo definito e progressivo. La destra guarda a un passato da restaurare, a sinistra domina una generica vocazione utopistica e palingenetica. Si è notato spesso l’assenza di un progetto politico. Ma la mancanza di un progetto politico non significa mancanza di un progetto tout court. Si ha la sensazione, dai pochi dati disponibili, che le pratiche violente si collochino in una dimensione esistenziale, in un gigantismo momentaneo dell’io, in un nichilismo provvisorio del fare. Che per molti, probabilmente tantissimi, l’esperienza violenta sia da collocare nel tempo breve di

42 G. Bianconi, A mano armata. Vita violenta di Giusva Fioravanti terrorista neo-fascista quasi per caso, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2007, pp. 268-269. 43 Ventrone, L’assalto al cielo, cit., p. 181.

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una sola stagione, di pochi atti violenti, anche se estremi. E che la straordinaria dimensione del terrorismo diffuso sia il risultato di una somma di innumerevoli piccoli casi. Un indizio in questa direzione è il proliferare delle sigle rivendicative che si addensano tra il 1977 e il 198044. Mentre potrebbe essere interessante cercare delle correlazioni tra questi fenomeni e l’esperienza delle droghe pesanti che si stanno diffondendo negli stessi anni. L’analisi dei rituali, degli stereotipi verbali, dei repertori della violenza è un criterio, una via per sganciarsi dalle narrazioni mistificate e/o virtuose e tornare all’autenticità dei fatti e per dar vita a un approccio post-ideologico sgombrato anche da quell’«epica (auto)biografica» così diffusa nei tanti lavori di testimoni e giornalisti in grado di catturare l’attenzione del pubblico45. Un altro dei temi che merita maggiore attenzione è quello delle lotte per la casa. Il conflitto sociale più diffuso nel Paese nel corso degli anni Settanta è ancora lontano dall’essersi guadagnato l’attenzione degli storici, nonostante la sua rilevanza per la varia e complessa mobilitazione delle risorse politiche e istituzionali messe in campo per la sua soluzione. Tutte le grandi città conobbero episodi di guerriglia urbana. A Roma nel gennaio e febbraio 1974 violenti scontri si ebbero al Tufello e a Casal Bruciato, mentre nel settembre dello stesso anno nella borgata periferica di San Basilio per tre giorni fu combattuta una battaglia tra ‘insorti’ locali, carabinieri e polizia, che fece un morto, lo studente Fabrizio Ceruso, e molti feriti tra le forze dell’ordine. Le lotte per la casa furono uno degli esiti più praticati alla domanda di impegno sociale degli studenti politicizzati e dei movimenti della nuova sinistra, registrando una partecipazione straordinaria con una larga adesione dei cattolici di base. In questa esperienza si confrontarono linee d’intervento spesso antagoniste, creatrici di forti tensioni tra i gruppi, alimentando 44 Secondo il prezioso, ma forse troppo precoce, calcolo di D. Della Porta, M. Rossi, Cifre crudeli. Bilancio dei terrorismi italiani, Bologna, il Mulino, 1984, pp. 43 ss. 45 Fatti salvi almeno i libri di G. Bianconi, Mi dichiaro prigioniero politico. Storie delle Brigate Rosse, Torino, Einaudi, 2003 e di P. Gallinari, Un contadino nella metropoli. Ricordi di un militante delle Brigate Rosse, Milano, Bompiani, 2006.

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destini diversi ma divenendo per molti palestra di addestramento alle pratiche della violenza politica. Anche in relazione a queste vicende, un altro grave ritardo si registra negli studi sulla politica dell’ordine pubblico nell’Italia repubblicana e in particolare sugli anni Settanta. Ritardo appena attenuato, ancora una volta, dalle ricerche della sociologia politica46. Rimangono tuttavia non indagate le scelte politiche e le direttive del governo e del ministro degli Interni a partire dall’applicazione del criterio degli opposti estremismi. Se dal lato dei protagonisti delle iniziative violente appare diffusa la sensazione di un rischio limitato e di una possibile impunità, legata anche ai confini incerti della illegalità, dall’altro non è verificabile l’ipotesi controfattuale dei possibili effetti di una politica di repressione più accurata e più determinata che non si esaurisse nelle pratiche di contenimento della piazza. Né è chiaro in che modo i problemi dell’ordine pubblico fossero oggetto di analisi e di valutazione delle alternative tra le forze di governo e nell’amministrazione, al di là della successiva delega incondizionata concessa al generale Dalla Chiesa per la lotta contro il terrorismo. Tema complesso che investe anche l’analisi dei ruolo della magistratura e le forme e gli ambiti di applicazione della legislazione speciale sui dissociati e i pentiti. Ma le fonti archivistiche su questo tema non sono ancora disponibili, salvo qualche fascicolo all’Archivio centrale dello Stato, mentre i fondi delle questure e dei carabinieri attendono nel primo caso di essere versati negli archivi provinciali, nel secondo di essere resi disponibili agli studiosi. A quasi trent’anni dal culmine della violenza politica sappiamo molto sul grande terrorismo delle Brigate Rosse, qualcosa su Prima Linea, poco sulle altre grandi formazioni, ad esempio i NAP, pochissimo sulle formazioni piccole, niente o quasi niente sul terrorismo diffuso.

46 D. Della Porta, H. Reiter, Polizia e protesta. L’ordine pubblico dalla Liberazione ai no global, Bologna, il Mulino, 2003 e il successivo La protesta e il controllo. Movimenti e forze dell’ordine nell’era della globalizzazione, Berti, Piacenza, 2004. Si veda anche M. Grispigni, Figli della stessa rabbia. Lo scontro di piazza nell’Italia repubblicana, «Zapruder», n. 1, maggio-agosto 2003, pp. 50-71 e l’interessante nota finale sulle fonti.

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Un rinnovamento concettuale e una riattivazione delle ipotesi di ricerca passano attraverso un ritorno alle fonti coeve accompagnato da una rivisitazione critica delle narrazioni giornalistiche posteriori e da una rilettura delle fonti orali raccolte negli anni Ottanta sollecitandole con nuove domande. E attivando una nuova campagna di storia orale con testimoni diversi. Il ricco intreccio tematico, la varietà dei registri suggeriti, l’attenzione alla dimensione della creatività e delle soggettività segnalati dal bel saggio di Barbara Armani impongono tuttavia una scelta delle priorità e una verifica delle rilevanze a vantaggio di un’auspicabile ricostruzione d’insieme, scontando l’inevitabile rischio di una perdita in sottigliezza interpretativa47. Ma agli storici spetta anche il compito di fare i conti con le interpretazioni fornite da oltre un ventennio dai sociologi e politologi legati alle ricerche dell’Istituto Cattaneo di Bologna. Un quadro interpretativo che in sommaria sintesi si articola lungo due assi portanti, in due nodi esplicativi in una certa misura collegati tra loro: il ciclo della protesta e il blocco di sistema. Il ciclo della protesta proposto da Tarrow è segnato da alcune aporie metodologiche: in parte ha già in sé forme diffuse di violenza politica non assorbibili nei caratteri del ciclo della protesta; inoltre la cronologia proposta sembra più legata all’ipotesi della ricerca che all’andamento reale delle cose, documentato tra l’altro con l’utilizzazione di un’unica fonte giornalistica il «Corriere della sera», giornale nazionale ma inevitabilmente lacunoso nella raccolta e interpretazione delle notizie. L’unicità della fonte è del resto procedura inaccettabile per la ricerca storica contemporanea. Infine la ricerca è imprigionata dalle simmetrie strutturali caratteristiche della modellistica adottata. Questo stesso carattere è presente nel quadro esplicativo della smobilitazione che chiude il ciclo di protesta del «Maggio italiano», dettata dalle modalità contrapposte dell’istituzionalizzazione e dell’escalation: L’istituzionalizzazione allontana chi, nella propria partecipazione alla vita pubblica, si sente insoddisfatto delle routine della politica ordinaria, portandolo al rifiuto [...] e spingendolo all’estremismo; l’escalation spaventa 47

Armani, Italia anni settanta, cit.

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i meno combattivi e li induce a optare per la politica istituzionale o a rifluire nella relativa sicurezza della vita privata. Il risultato è la polarizzazione, cioè l’ampliarsi della forbice fra le ali di una componente del movimento prima unita, la nascita di divisioni tra i suoi leader e, in alcuni casi, la deriva terroristica. Il ciclo della protesta in Italia sfociò in un’ondata di violenza organizzata ma anche nella “routinizzazione” del conflitto: escalation e istituzionalizzazione, entrambe alimentate dalla repressione, costituirono, insomma, le due facce della stessa medaglia, quella della smobilitazione48.

Consensi in settori più ampi di quelli della sociologia politica ha riscosso e continua a riscuotere la teoria del blocco di sistema alle origini della violenza politica e del terrorismo italiano. Per Gianfranco Pasquino, «un sistema politico bloccato contiene in sé alcuni dei germi del terrorismo» ma, aggiunge, «non è di per sé la causa unica, esclusiva e neppure fondamentale della insorgenza terroristica», e questo non significa che un sistema politico dinamico, efficiente e democratico non possa costruire l’antidoto al terrorismo [...], non fornisca la più importante risposta politica alle prime manifestazioni di disponibilità alla lotta armata e non riesca soprattutto a ridurre drasticamente gli spazi di reclutamento e di fiancheggiamento dei progetti terroristici, confinandoli e quindi creando le possibilità per un loro rapido fallimento49.

Se così non è accaduto in Italia, sembra di poter concludere, è perché quel sistema dinamico e aperto non c’era, anzi era bloccato dall’accordo di sistema tra DC e PCI, dalla teorizzazione del compromesso storico e dalla politica dei governi di solidarietà nazionale. Questa lettura degli eventi, sostenuta tra gli altri in chiave giustificazionista dai protagonisti della violenza politica di quegli anni, si limita a sottolineare la sottorappresentazione dei nuovi movimenti collettivi e omette di ricordare che queste forze non volevano e non potevano essere rappresentate secondo le regole della legalità democratica e nelle procedure consolidate di interazione tra spinte di base e vertici politici. Portatrici di un discorso rivoluzionario prima ancora dell’adozione della pratica della lotta armata avevano bruciato, salvo qualche

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Tilly, Tarrow, La politica del conflitto, cit., pp. 132-133. G. Pasquino Sistema politico bloccato e insorgenza del terrorismo: ipotesi e prime verifiche, in Id. (a cura di), La prova delle armi, cit., p. 220. 49

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transitorio momento di opportunismo politico, tutti i ponti di un possibile incontro con le forze tradizionali della sinistra. Il radicale reciproco antagonismo poneva gli interlocutori sui due piani contrapposti della radicalizzazione movimentista e della moderazione operaia e sindacale. Proprio mentre sul terreno politico la mobilitazione di sinistra aveva raggiunto i suoi maggiori successi sul piano delle riforme politiche e del welfare nella fase della politica di incontro tra DC e PCI. Sotto la spinta di un’opinione pubblica, non solo di sinistra, avversa al compromesso storico, di cui i governi di solidarietà nazionale erano appena una parvenza, riemersero con forza i miti della diversità/superiorità comunista. E il PCI fu la prima vittima di questa retorica, di un sistema comunicativo fondato sul primato del rigore ideologico e su una pedagogia dei comportamenti − l’austerità − da imporre a una società in piena trasformazione consumista: trascinato da un leader carismatico ma irresoluto, come Berlinguer, tra la fine del ’78 e gli inizi del ’79 fu dato avvio alla politica dell’alternativa democratica che consuma in poco tempo il consenso elettorale guadagnato a metà degli anni Settanta. Evocare il blocco di sistema non mi pare indicare la via più feconda alla comprensione della conflittualità e della violenza degli anni Settanta. Anni segnati, dicono alcuni, da un profondo conflitto sociale e dai prodromi di una guerra civile generalizzata. Percorsi invece, io credo, da molti − individui e gruppi − lungo il confine incerto dello scambio tra realtà e metafora della realtà sotto la guida, solo apparentemente sicura, di un sovrainvestimento ideologico, rivelatosi alla lunga illusorio e autodistruttivo.

Guido Panvini La pianificazione della violenza (1969-1972)*

1. L’estrema destra e la sinistra extraparlamentare nella crisi del centro-sinistra La crisi del centro-sinistra che si aprì con le elezioni politiche del 19 maggio 1968 e che esplose, in tutta la sua drammaticità, con l’acuirsi della protesta studentesca e la mobilitazione operaia dell’autunno caldo del 1969, portò ad un periodo di forte instabilità politica1. Non era chiaro se dall’empasse si sarebbe usciti abbandonando l’esperienza dei governi di centro-sinistra in favore di una soluzione centrista o di centro-destra, o se ci sarebbe stato uno slittamento a sinistra con una maggiore apertura nei confronti del Partito comunista2. In realtà, il risultato delle elezioni del 19 maggio 1968, con il positivo risultato della Democrazia cristiana e il crollo del Partito socialista unificato, stavano ad indicare una svolta moderata nella vita politica del Paese3. I conflitti nel mondo del lavoro, tuttavia, suscitarono

* Per le immagini cui si fanno riferimento in questo contributo (figg. 26-30) – tutte fornite dall'autore – si veda all’Appendice iconografica, pp. 284-285. 1 P. Ignazi, I partiti e la politica dal 1963 al 1992, in G. Sabbatucci, V. Vidotto (a cura di), Storia d’Italia, 6, L’Italia repubblicana, Roma-Bari, Laterza, 1999, pp. 110-117. 2 E. D’Auria, Gli anni della difficile alternativa. Storia della politica italiana (1956-1976), in R. De Felice (a cura di), Storia dell’Italia contemporanea, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, vol. 6, 1983, pp. 253 ss. 3 S. Colarizi, Storia politica della Repubblica. Partiti, movimenti e istituzioni, 1943-2006, Roma-Bari, Laterza, 2007, p. 98.

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molta impressione, soprattutto tra i ceti medi spaventati per le conseguenze economiche della crisi. Il Movimento sociale, in particolar modo, temeva un eccessivo accrescimento del potere da parte del PCI e dei sindacati, e una sua marginalizzazione dal gioco politico, dopo i cattivi risultati ottenuti nelle ultime elezioni4. L’invasione sovietica della Cecoslovacchia nell’agosto del 1968, l’acuirsi della guerra in Vietnam, i conflitti in Africa, in America Latina e in Medio Oriente, insieme al diffondersi di disordini sociali e delle rivolte studentesche negli Stati Uniti e nel resto dell’Europa occidentale, portarono l’estrema destra a ritenere che anche in Italia stesse per scatenarsi la “guerra rivoluzionaria”, un’espressione che sintetizzava la nuova strategia di sovversione su scala internazionale attribuita al comunismo5. Questo timore portò ad un riavvicinamento dei diversi gruppi del neofascismo, come Ordine Nuovo ed Avanguardia nazionale, al Movimento sociale italiano, dopo che negli anni del centro-sinistra e in seguito alla contestazione studentesca del 1968 erano proliferati i gruppi e i movimenti che avevano contestato al MSI il dialogo con la Democrazia cristiana e l’eccessivo moderatismo6. Il passaggio dalla segreteria di Arturo Michelini a quella di Giorgio Almirante fu caratterizzato dall’adozione di una politica più radicale, capace di tenere insieme i movimenti estremisti, i gruppi filogolpisti, gli ambienti militari ostili al centro-sinistra e i settori del partito che auspicavano una svolta autoritaria per il Paese7. La nuova linea adottata dal MSI si caratterizzò dunque per la dura contrapposizione al Partito comunista e per l’utilizzo della violenza contro gli avversari politici e il governo8. 4 Sui risultati elettorali del MSI nelle elezioni politiche del 1968 e i timori che questi suscitarono nell’area neofascista cfr. G. Galli, Il difficile governo, Bologna, il Mulino, 1972, pp. 185-211. 5 Questa locuzione nacque dall’incontro di alcuni settori delle forze armate e la destra radicale nel corso del convegno organizzato, nel maggio del 1965, dall’Istituto Pollio di studi militari. Cfr. La guerra rivoluzionaria. Atti del Primo Convegno organizzato dall’Istituto Pollio, Roma, Volpe Editore, 1965. 6 A. Baldoni, Noi rivoluzionari. La destra e il caso italiano. Appunti per una storia, 1960-1986, Roma, Settimo Sigillo, 1986, pp. 26-37. 7 P. Ignazi, Il polo escluso. Profilo storico del Movimento Sociale Italiano, Bologna, il Mulino, 1998, pp. 133-134. 8 Impegno per una concreta azione politica, «Il Secolo d’Italia», 9 settembre 1969.

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Agli occhi della sinistra extraparlamentare, la crisi del centro-sinistra mise a nudo le logiche di sfruttamento che avevano governato lo sviluppo italiano. I gruppi extraparlamentari videro nel centro-sinistra una grave minaccia perché artefice di un progetto di modernizzazione volto a controllare il conflitto sociale e a integrare la classe operaia nel sistema capitalistico9. L’instabilità del quadro politico e la ripresa della conflittualità operaia furono interpretate, così, come il segnale che anche in Italia – dopo le agitazioni studentesche e le occupazioni delle fabbriche in Francia nel maggio-giugno del 1968 − fossero maturi i tempi per una radicalizzazione della lotta politica10. Questo passaggio fu segnato dall’incontro tra i movimenti studenteschi e il dissenso cattolico con i gruppi che si erano posti alla sinistra del movimento operaio storico e del Partito comunista (gli operaisti, i marxisti-leninisti, i trotzkisti, il Manifesto, ecc.)11. La nascente sinistra extraparlamentare aveva alle spalle una lunga tradizione teorica che aveva esaltato la violenza come suo repertorio d’azione. Nella rilettura che i gruppi rivoluzionari fecero del leninismo venne riproposto il problema di fondo che aveva attraversato la storia del marxismo: la relazione tra l’iniziativa politica e i processi economici e sociali di cui la violenza era considerata un possibile acceleratore12. Nella sinistra extraparlamentare, inoltre, era sedimentato il mito dell’insurrezione − su cui agiva la memoria della Resistenza, delle giornate del luglio ’60, l’esempio delle guerre di decolonizzazione in Africa e in Asia, della guerriglia in Sud America, l’influenza esercitata dal rivoluzione culturale cinese e la guerriglia urbana del black power nei ghetti delle grandi metropoli nordamericane13. Vi erano state poi le esperienze degli 9 L. Colletti, Le ideologie, in Dal ’68 a oggi. Come siamo e come eravamo, Roma-Bari, Laterza, 1979, p. 129. Si veda, inoltre, Contro il riformismo, «Operai e studenti», a. I, n. 2, 25 marzo 1969. 10 Cfr. C. Donolo, ’68+’69. Ripensando alla stagione dei movimenti, in Millenovecentossessantanove, «Parolechiave», n. 18, dicembre 1998. 11 F. Ottaviano, La rivoluzione nel labirinto. Sinistra e sinistrismo dal 1965 agli anni Ottanta. Critica al revisionismo e nuova sinistra, Soveria Mannelli, Rubettino, 1993, parte prima, pp. 129-146. 12 Su questa problematica del marxismo cfr. le osservazioni di H. Arendt, On Violence, New York, Harcourt Brace & Company, 1969, trad. it. Sulla violenza, Parma, Guanda, 2001, pp. 14-15. 13 Sulla dimensione globale dei movimenti del ’68 cfr. M. Revelli, Movimenti

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scontri tra gli studenti e le forze dell’ordine, come nel caso della battaglia di Valle Giulia del 1° marzo 196814. La violenza divenne, quindi, una scelta strategica, uno strumento di cui si dotarono sia i neofascisti che la sinistra extraparlamentare per esasperare il clima di tensione e far degenerare la conflittualità politica e sociale15. Quella che venne messa in pratica dall’estrema destra e dall’estrema sinistra fu una vera e propria strategia del conflitto − dispiegata prima dell’autunno caldo e della strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969 − orientata all’abbattimento del governo di centro-sinistra e al sovvertimento delle istituzioni repubblicane16. L’instabilità del quadro politico portò i neofascisti ad accusare la sinistra extraparlamentare di essere un’emanazione del Partito comunista, mentre i gruppi rivoluzionari considerarono l’estrema destra come l’elemento di un vasto piano presente all’interno di una parte della Democrazia cristiana e dello Stato per attuare una svolta autoritaria nel Paese17. I neofascisti e la sinistra extraparlamentare si percepirono così come avanguardie di un nemico in procinto di prendere il potere. La reciproca paura portò prima ad affievolire le possibili convergenze e le contaminazioni culturali che, per un momento, avevano avvicinato i movimenti giovanili di destra a quelli di sinistra sulla scia della contestazione studentesca18. La polarizzazione dello scontro avvenne tra la primavera e l’autunno del 1969, si acuì sociali e spazio politico, in Storia dell’Italia repubblicana. La trasformazione dell’Italia: sviluppo e squilibri, Istituzioni, movimenti, culture, Torino, Einaudi, 1995, vol. II, t. 2, pp. 388-389. 14 P. Ortoleva, Saggio sui movimenti del 1968 in Europa e in America, Roma, Editori Riuniti, 1988, pp. 175-181. 15 Sull’utilizzo della violenza nei conflitti politici cfr. H.L. Nieburg, La violenza politica, Napoli, Guida Editori, 1974, p. 215. 16 Per un dibattito, in sede storiografica, attorno all’utilizzo della violenza nei primi anni Settanta rimando al numero monografico della rivista «Passato e Presente», n. 26, 1991 e intitolato Azione collettiva, violenza e conflitto nella costruzione dell’Italia repubblicana. 17 S. Tarrow, Democracy and disorder. Protest and Politics in Italy 1965 - 1975, New York, Oxford University Press, 1989, pp. 282-308. 18 Sulle contaminazioni tra estremismo di destra e di sinistra negli anni Sessanta e Settanta cfr. A. Ventrone, L’assalto al cielo, Le radici della violenza politica, in G. De Rosa, G. Monina (a cura di), L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta, Soveria Mannelli, Rubettino, 2001, vol. IV, pp. 183-201.

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in seguito alla strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969 ed acquistò le forme più drammatiche durante le elezioni regionali del giugno 197019. I neofascisti e la sinistra extraparlamentare funestarono la campagna elettorale, nella quale intervennero, per la prima volta, anche i gruppi terroristici neri e rossi, determinati a condizionare il voto20. Questa strategia venne ripetuta in occasione delle elezioni amministrative e regionali del giugno 1971 e durante le elezioni politiche del maggio 1972 che videro l’avanzata elettorale del Movimento Sociale. Il bilancio fu grave: decine di comizi si trasformarono in veri e propri momenti di guerriglia, mentre si registrarono, da una parte e dall’altra, le prime vittime dello scontro21. Le voci circa l’imminenza di un colpo di Stato, le notizie sul tentato golpe Borghese del dicembre 1970, i discorsi pubblici dei neofascisti sulla necessità di un intervento dei militari, assieme all’acuirsi della conflittualità sociale e alla degenerazione violenta delle manifestazioni di piazza, portarono i gruppi extraparlamentari di sinistra e i neofascisti ad adottare repertori d’azione sempre più radicali22. All’aumento della tensione politica, infatti, corrispose una specializzazione della violenza che venne sistematicamente organizzata23. 19 Sull’impatto della strage di piazza Fontana sulla sinistra extraparlamentare cfr. A. Rapini, Antifascismo sociale, soggettività e strategia della tensione, «Novecento», n. 1, 1999. 20 Come il Movimento armato rivoluzionario, un gruppo composto da ex-fascisti ed ex-partigiani bianchi, comandato da Carlo Fumagalli, e i Gruppi d’azione partigiana di Giangiacomo Feltrinelli. Sulle azioni dei Gap durante la campagna elettorale delle elezioni regionali del giugno 1970, vedi Gruppi d’azione partigiana, in La mappa perduta, Roma, Cooperativa editoriale Sensibili alle Foglie, 1995, p. 33. Sul Mar cfr. l’inchiesta di A. Silj, Malpaese. Criminalità, corruzione e politica nell’Italia della prima Repubblica, 1943-1994, Donzelli, Roma, 1994, pp. 122, 137. 21 Sul rapporto tra elezioni e violenza politica cfr. il volume di D.C. Rapoport e L. Weinberg, Elections and Violence, in Id, (a cura di), The democratic experience and political violence, London and Portland, Frank Cass, 2001. 22 Sui progetti golpisti vedi l’inchiesta di G. Flamini, L’Italia dei colpi di Stato, Roma, Newton Compton Editori, 2007; il clima di fermento e di timore nei gruppi della sinistra extraparlamentare è ben descritto nelle ricostruzioni di L. Bobbio, Lotta Continua. Storia di una organizzazione rivoluzionaria. Dalla fondazione del partito al congresso di autoscioglimento di Rimini, Roma, Savelli, 1979, pp. 101-102 e A. Grandi, La generazione degli anni perduti. Storie di Potere Operaio, Torino, Einaudi, 2003, pp. 158-163. 23 D. Della Porta, Movimenti collettivi e sistema politico in Italia, 1960 – 1995, Laterza, Roma-Bari, 1996, pp. 70-77.

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La formazione del governo Andreotti-Malagodi, il 26 giugno 1972, provocò sia nell’estrema destra che nell’estrema sinistra uno spiazzamento strategico: dopo i ripetuti attacchi la democrazia non solo era rimasta saldamente in piedi, ma si profilava all’orizzonte l’intesa tra la Democrazia cristiana e il Partito comunista24. Di fronte a questi scenari, l’estremismo politico entrò in crisi con un’ulteriore radicalizzazione della violenza che provocò, a sua volta, un processo di frammentazione all’interno dei gruppi di estrema destra e di estrema sinistra25. L’assassinio del commissario Luigi Calabresi, il 17 maggio 1972, accusato dalla sinistra extraparlamentare della morte di Giuseppe Pinelli, e la strage di Peteano del 31 maggio, ad opera di una cellula terroristica neofascista, segnarono una seconda fase26: i gruppi extraparlamentari di sinistra si spaccarono sull’eventualità dell’imminente scontro armato contro lo Stato, ma una parte della base era già irrimediabilmente sedotta da questa prospettiva e si avvicinò ai gruppi terroristi con i quali aveva condiviso la lotta violenta contro i neofascisti. Allo stesso modo i gruppi della destra radicale rimproverarono al Movimento Sociale, che fino a quel momento era stato il loro più importante punto di riferimento, di non aver saputo rompere con il sistema democratico. Molti militanti neofascisti, soprattutto tra i più giovani, si allontanarono dal partito, rilanciarono la lotta rivoluzionaria e si prepararono ad entrare in clandestinità, alla quale, del resto, molti di loro si erano preparati durante gli scontri con l’estrema sinistra27.

24 Cfr. G. Galli, Il partito armato. Gli anni di piombo in Italia, 1968-1986, Milano, Kaos Edizioni, 1993, pp. 59-60. 25 D. Della Porta, Protesta e violenza politica, Processi di radicalizzazione nelle organizzazioni dei movimenti collettivi in Italia e Germania, «Storia e problemi contemporanei», n. 11, 1993. 26 Su questa fase cfr. le considerazioni di A. Giannuli, Bombe a inchiostro, Milano, Rizzoli, 2008, pp. 157-194. 27 Su questo passaggio, cfr. le testimonianze raccolte nelle storie di vita negli studi di M. Fiasco, La simbiosi ambigua. Il neofascismo, i movimenti e la strategia delle stragi, in R. Catanzaro (a cura di) Ideologie, movimenti, terrorismi, Bologna, il Mulino, 1990, pp. 153-190 e E. Pisetta, Per una storia del terrorismo nero, «Il Mulino», XXXII, n. 289, 1983.

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2. I repertori d’azione nell’estrema destra La centralità della violenza nella strategia politica del MSI divenne un programma politico esplicito, con l’assunzione di precise responsabilità pubbliche sul suo utilizzo28. Il neo-eletto segretario del MSI Giorgio Almirante era consapevole della sproporzione delle forze in campo: i neofascisti non avrebbero potuto competere da soli con la mobilitazione delle sinistre. L’utilizzo della violenza, infatti, non puntava all’applicazione efficiente di una forza reale, quanto al dispiegamento di una forza potenziale. Venne formulata una strategia del conflitto basata sulla deterrenza: minacciando lo scontro frontale in realtà si rafforzava una posizione negoziale29. In questo modo, l’utilizzo della violenza si adattava ad una situazione fluttuante che apriva a diversi scenari – dalla radicalizzazione del conflitto sociale alla possibilità di nuove elezioni − consentendo, al contempo, di accumulare una risorsa spendibile in un’ipotetica situazione di crisi irreversibile nel Paese30. Con la violenza il Movimento sociale, inoltre, puntò a consolidare la sua posizione di riferimento dell’area neofascista mirando, allo stesso tempo, a raccogliere consensi che andavano al di là del proprio tradizionale bacino elettorale tra i ceti medi spaventati dalla crisi31. L’utilizzo della violenza, infine, consentì di attaccare il governo di centro-sinistra. Il MSI sottolineò, in questo modo, l’incapacità dell’esecutivo di affrontare i problemi dell’ordine pubblico: era il governo ad essere ritenuto responsabile dell’eventuale re-

28 Sul discorso pubblico attorno all’utilizzo della violenza, ma in riferimento alla nascita del movimento fascista, rimando al saggio di G. Albanese, Dire violenza, fare violenza. Espressione, minaccia, occultamento e pratica della violenza durante la Marcia su Roma, «Memoria e Ricerca», 13, maggio-agosto 2003, pp. 52-53. 29 T.C. Schelling, The Strategy of Conflict, Cambridge (Ma.) e London, Harvard University Press; trad. it. La strategia del conflitto, Milano, Bruno Mondadori, 2006, pp. 5 ss. 30 Sull’utilizzo della violenza in una fase fluttuante della crisi si veda R. Schnur, Geschichtsphilosophie und Weltburgerkrieg: Deutungen der Geschichte von der Franzosischen Revolution bis zum Ost-West-Konflikt, Heidelberg, C. Winter, 1959; trad. it., Rivoluzione e guerra civile, Milano, Giuffrè, 1986, pp. 138 ss. 31 Sulla strategia del Movimento sociale in questi anni cfr. il volume di G.S. Rossi, Alternativa e doppiopetto. Il MSI dalla contestazione alla destra nazionale, (1968-1973), Roma, Istituto di studi corporativi, 1992.

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pressione e non le forze dell’ordine che, anzi, furono invitate a solidarizzare con i militanti del MSI32 (fig. 26). L’ambiguità di questa strategia emerse nel complesso rapporto del Movimento Sociale con la contestazione studentesca, dove l’impiego della violenza rivelò la sua dinamica più ambigua: da un lato lo scontro frontale con i gruppi extraparlamentari, dall’altro il recupero delle istanze rivoluzionarie espresse dalla base giovanile dei movimenti e dei gruppi di destra con la promozione di una violenta mobilitazione antisistema33. Questa ambiguità della politica del Movimento Sociale continuò fino al 1972: alle aperture alla Democrazia cristiana e alle altre forze anticomuniste per la formazione di un governo che garantisse ordine e stabilità faceva da contrappeso una sempre più spiccata organizzazione della violenza. Già a partire dalla fine del 1968, per iniziativa di diversi movimenti di estrema destra, in molte città italiane si erano formati gruppi e associazioni pronti ad intervenire a fianco delle forze dell’ordine in caso di incidenti di piazza34. Nel 1969 il Movimento Sociale divenne il referente più importante di questi gruppi, promuovendo esso stesso una razionalizzazione e una riorganizzazione dei propri servizi d’ordine. L’obiettivo, come abbiamo visto, era quello di delegittimare il governo di centro-sinistra sottraendogli una delle sue più importanti funzioni, quella cioè, di garantire l’ordine pubblico35. Il Movimento Sociale, inoltre, invitò i cittadini all’autodifesa mettendo in discussione, così, il monopolio statale della violenza e alimentando pericolose spinte centrifughe36. Queste ultime si manifestarono in occasione della visita di Richard Nixon a Roma il 27 ed il 28 febbraio 1969, quando 32 Messaggio agli italiani. Relazione del segretario nazionale del Movimento sociale italiano Giorgio Almirante, Roma, 27-28 settembre 1969. 33 Su questo tema vedi A. Gasparetti, La destra e il ’68, Roma, Settimo Sigillo, 2006; F. Germinario, Evola davanti al ’68, «Annali Istituto Gramsci Emilia-Romagna», 2-3/1998-1999, pp. 99-112. 34 F. Ferraresi, Minacce alla democrazia. La destra radicale e la strategia della tensione in Italia nel dopoguerra, Milano, Feltrinelli, 1995, p. 28. 35 Sulla perdita del monopolio statale della violenza in seguito alla nascita di corpi extrastatali si leggano le considerazioni di N. Elias, I tedeschi. Lotte di potere ed evoluzione dei costumi nei secoli XIX e XX, Bologna, il Mulino, 1991, pp. 228-229. 36 Cfr., ad esempio, F.R. di Calabria, Autodifesa e stato di necessità, «Il Secolo d’Italia», 9 gennaio 1969.

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i neofascisti si scontrarono con i manifestanti del Partito comunista che protestavano contro la visita del presidente americano e assalirono le facoltà occupate dagli studenti del Movimento, causando la morte di uno studente, Domenico Congedo, in una città presidiata dalle forze dell’ordine37. È bene notare che queste iniziative precedettero l’autunno caldo del 1969. Mario Tedeschi, il direttore del «Borghese» promosse poi la nascita dei “Gruppi di azione nazionale”, che dovevano intervenire in caso di necessità a fianco delle forze dell’ordine e impedire gli scioperi. Nel luglio del 1969, sempre per iniziativa del «Borghese», nacque il “Soccorso Tricolore” per i giovani e i militanti che negli scontri contro gli avversari politici e contro le forze dell’ordine avessero avuto bisogno di un supporto legale38. A queste iniziative si affiancarono, infine, quelle prese dal Movimento Sociale. Nel settembre del 1969 il 3° corso di aggiornamento organizzato dal MSI per i giovani dirigenti del partito e per la Giovane Italia, che si tenne sulla montagna abruzzese del Terminillo, vide giornate di attività fisica, con lezioni sulle arti marziali orientali e seminari sulla genesi e le tecniche del colpo di Stato39 (fig. 27). La tensione raggiunse il culmine in occasione dello sciopero generale per la casa, il 19 novembre del 1969: a Milano, la manifestazione dei sindacati degenerò in gravi incidenti tra i manifestanti e le forze dell’ordine che causarono la morte dell’agente di polizia Antonio Annarumma. Il Movimento Sociale tentò di sfruttare l’emozione suscitata dalla morte del giovane poliziotto e si arrivò, addirittura, al linciaggio dei giovani di sinistra perpetrato dai neofascisti nel giorno dei funerali40. Il tentativo di promuovere una piazza di destra, tuttavia, fu frustrato dalla manifestazione dei metalmeccanici, che si svolse a Roma il 28 novembre del 1969. Dopo la strage di piazza Fontana

37 F. Socrate, Una morte dimenticata e la fine del Sessantotto, «Dimensioni e problemi della ricerca storica», n. 1, 2007, pp. 157-190. 38 Il Soccorso Tricolore, «Il Borghese», n. 29, 17 luglio 1969. 39 Al Terminillo il terzo corso di aggiornamento politico per dirigenti giovanili del MSI e della Giovane Italia, «Il Secolo d’Italia», 4 settembre 1969. 40 G. Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni ottanta, Roma, Donzelli, 2003, pp. 356-362.

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del 12 dicembre 1969, il MSI provò nuovamente la mobilitazione di piazza. Il Movimento Sociale accusò esplicitamente i comunisti di essere coinvolti nell’organizzazione degli attentati e programmò una manifestazione da tenersi a Roma per il 14 dicembre (fig. 28). I partiti di sinistra e i gruppi extraparlamentari credettero che la mobilitazione della piazza di destra fosse propedeutica al golpe e, dopo le loro reiterate proteste, la manifestazione fu rinviata di qualche giorno41. A far desistere il Movimento Sociale contribuì, inoltre, la mobilitazione degli operai che a decine di migliaia parteciparono a Milano ai funerali delle vittime dell’attentato di piazza Fontana42. Di fronte al fallimento nel promuovere una mobilitazione di piazza, la violenza dei neofascisti tese sempre più a specializzarsi, assumendo i contorni dell’azione premeditata e organizzata. La fenomenologia della violenza neofascista in questa fase fu molto complessa: dalle aggressioni ai singoli, agli assalti alle sedi dei partiti e alle facoltà occupate dagli studenti, fino alla realizzazione di attentati contro le sezioni dei partiti avversari, spesso realizzati da militanti di base. I rari studi statistici sulla violenza politica negli anni Settanta registrano un maggior peso dell’estrema destra nel periodo compreso tra il 1969 e il 1974. In questo periodo gli episodi di violenza ascrivibili ai neofascisti ammonterebbero, addirittura, al 95% sul totale, sebbene tali cifre andrebbero aggiornate con i dati oggi disponibili nelle carte del Ministero dell’Interno conservate presso l’Archivio Centrale dello Stato43. Nei neofascisti, inoltre, fu frequente l’utilizzo delle armi da fuoco per bilanciare quello che veniva avvertito come un rapporto di forze impari. Man mano che lo scontro nelle strade e nelle piazze si andava radicalizzando, l’estrema destra accentuò sempre di più il ricorso alla violenza. Nacquero gruppi indipendenti, sia dai partiti che dai movimenti, perfino

41 G. Boatti, Piazza Fontana. 12 dicembre 1969: il giorno dell’innocenza perduta, Torino, Einaudi, 1999, p. 30. 42 V. Zevi, Milano: novembre-dicembre 1969. Tre funerali simbolo della crisi della società italiana, «Memoria e ricerca», n. 13, 2003. 43 Cfr. M. Galleni, Rapporto sul terrorismo, Milano, Rizzoli 1981, p. 111 e D. Della Porta, Cifre crudeli. Bilancio dei terrorismi italiani, Bologna, il Mulino, 1984, p. 25.

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da quelli più estremisti, che si rivelarono presto una spina nel fianco del Movimento Sociale. Le elezioni politiche del maggio 1972 segnarono il massimo storico del MSI con l’8,7% dei voti e una buona affermazione nelle grandi città del nord44. La formazione del governo Andreotti-Malagodi, il 26 giugno 1972, escluse, tuttavia, il MSI da ogni intesa con la Democrazia cristiana e le altre forze moderate. Il contraccolpo per il Movimento Sociale fu durissimo. Con il mancato riconoscimento della legittimità del MSI come forza politica nazionale, infatti, esplosero le contraddizioni della politica seguita da Almirante. Conciliare la ricerca del compromesso parlamentare e la strategia della violenza divenne sempre più difficile. Si generò un corto circuito che portò l’anima eversiva ad essere preponderante e a condizionarne le scelte stesse del partito. Se l’utilizzo della violenza si era rivelato uno strumento decisivo per l’affermazione elettorale del giugno 1971 e del maggio 1972, se era stata una fattore di accelerazione della crisi del centro-sinistra, il suo impiego cominciò a sfuggire al controllo della dirigenza, rivelandosi una componente fondamentale e causa stessa della delegittimazione subita dal Movimento Sociale45. In questa fase maturò quella che Piero Ignazi ha definito la rottura del «compromesso almirantiano»46: la non governabilità della violenza portò il Movimento Sociale a perdere gradualmente l’egemonia sull’area neofascista e a non controllare più le iniziative dei gruppi e dei movimenti satelliti. Un processo che favorì la compenetrazione della base missina con le formazioni della destra radicale e − in non pochi casi − con i gruppi terroristici veri e propri47 (fig. 29).

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P. Corbetta (a cura di), Elezioni in Italia, Bologna, il Mulino, 1998, pp. 84 ss. F. Ferraresi, La destra eversiva, in Id. (a cura di), La destra radicale, Milano, Feltrinelli, 1984, pp. 54-118. 46 Ignazi, Il Polo escluso, cit., pp. 166-174. 47 R. Mimma, Il terrorismo di destra, in D. Della Porta (a cura di), Terrorismi in Italia, Bologna, il Mulino, 1984, pp. 21-72. 45

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3. La radicalizzazione della violenza nella sinistra extraparlamentare Nonostante i diversi riferimenti ideologici, come abbiamo visto, che spaziavano dal maoismo all’operaismo, dal castrismo al trotzkismo, la sinistra extraparlamentare convergeva verso la medesima interpretazione del quadro politico che si era delineato con la crisi del centro-sinistra: solo una decisa radicalizzazione dello scontro politico poteva accelerare la crisi e creare le condizioni affinché le contraddizioni presenti nella società potessero esplodere48. La gestione dell’ordine pubblico da parte del Ministero dell’Interno, che proprio tra la fine del ’68 e gli inizi del ’69 vide i suoi momenti più drammatici con l’eccidio di Avola e i fatti della Bussola, alimentò tra i gruppi extraparlamentari la convinzione dell’inevitabilità di una contrapposizione frontale, facendo esplodere una fortissima carica di risentimento contro le istituzioni e la classe politica49. Ben presto comparvero pubblicazioni che diffondevano le norme su come attrezzarsi per gli scontri di piazza e di strada50: dal corretto utilizzo dei bastoni, all’impiego delle biglie di metallo e dei chiodi a tre punte per fermare le cariche della polizia a cavallo o in jeep, fino alla redazione delle istruzioni tecniche per confezionare le bombe molotov51. Conseguentemente, nelle manifestazioni e nei cortei della sinistra extraparlamentare comparvero i primi servizi d’ordine, muniti di caschi e di bastoni52. 48 Su questa visione comune a tutti i gruppi della sinistra extraparlamentare e a quelli della nascente lotta armata cfr. Gruppo di Ricerca su “Società e conflitto”, La decisione armata. Il ruolo politico delle Brigate Rosse negli anni ’70, «Società e conflitto», a. II, n. 1, pp. 77-144. 49 Il 1 dicembre 1968, ad Avola, un centro agricolo in provincia di Siracusa, la polizia aprì il fuoco contro i contadini che avevano denunciato l’iniquità dei contratti lavorativi voluti dai proprietari terrieri, uccidendo due braccianti. Il 31 dicembre, la contestazione organizzata dal Potere Operaio di Pisa, nella notte di capodanno, davanti al locale “La Bussola” di Marina di Pietrasanta degenerò in scontri con le forze dell’ordine che aprirono il fuoco ferendo alle spalle uno studente che fuggiva. 50 Sulla conflittualità di piazza cfr. M. Grispigni, Il ritorno della piazza, «Zapruder», n. 1, maggio-agosto 2003, pp. 50-71. 51 Cfr., ad esempio, Le armi per l’autodifesa, «La Sinistra», a. III, n. 10, 16 marzo 1968. 52 V. Vidotto, La nuova società, in Sabbatucci, Vidotto (a cura di), Storia d’Italia, cit., pp. 66-74.

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Gli attentati del 12 dicembre 1969 rappresentarono un importante elemento di radicalizzazione per la sinistra extraparlamentare, ma non provocarono, nell’immediato, un escalation della tensione tra estrema destra ed estrema sinistra53. Il vero detonatore delle violenze, infatti, fu l’aspra campagna elettorale che accompagnò la nascita delle Regioni. I comizi del Movimento Sociale provocarono spesso l’intervento dei partiti di sinistra e delle associazioni antifasciste, in particolar modo nei luoghi dove era più vivo il ricordo della guerra di Liberazione. Di contro, le sezioni dei partiti di sinistra, le Camere del Lavoro, le sedi sindacali furono assalite con sistematicità in una riedizione della «guerra dei vessilli» che aveva caratterizzato lo squadrismo degli anni Venti54. Di fatto, queste azioni si configuravano come un «rituale di conquista» volto ad estirpare la presenza dell’avversario politico. I comizi del Movimento Sociale rivestirono un ruolo analogo: la scelta di effettuarli nelle città “rosse” fu il tentativo di sfidare la sinistra non solo sul suo stesso campo, la piazza, ma anche nel suo territorio per appropriarsene, seppure su un piano simbolico. La reazione dei partiti di sinistra non tardò a venire, anche perché il PCI, il PSI e il PSIUP infusero un particolare impegno nella campagna elettorale. A questa forza si aggiunse anche la partecipazione della sinistra extraparlamentare decisa ad impedire l’agibilità politica dei neofascisti. Le elezioni regionali furono viste dalla sinistra extraparlamentare come un’occasione di scontro con l’estrema destra e come un momento di accelerazione della crisi che ci si riprometteva di approfondire grazie alla violenza di piazza55. In questa fase assistiamo alla militarizzazione dei servizi d’ordine in grado, adesso, di reggere lo scontro sia con la polizia che con gli avversari politici.

53 Sull’impatto della strage di piazza Fontana sui movimenti studenteschi vedi A. Rapini, Antifascismo e cittadinanza. Giovani, identità e memorie nell’Italia repubblicana, Bologna, Bononia University Press, 2005, pp. 153-167. 54 M. Ridolfi, La contrapposizione amico/nemico nella celebrazione delle festività nazionali, in Ventrone, L’ossessione del nemico, cit., p. 48. 55 G. Panvini, Ordine nero, guerriglia rossa. La violenza politica nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta (1966-1975), Torino, Einaudi, 2009, pp. 107-115.

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Lo spostamento delle inchieste giudiziarie per gli attentati del 12 dicembre sulla pista nera, la rivolta di Reggio Calabria dell’estate del 1970 e quella dell’Aquila del febbraio del 1971, le manifestazioni della Maggioranza silenziosa e le rivelazioni sul tentato golpe Borghese del successivo marzo portarono la sinistra extraparlamentare ad un’ulteriore radicalizzazione56. Si affermò l’idea che tra la violenza organizzata dell’estrema destra e il terrorismo neofascista vi fosse un rapporto organico, strategicamente orientato verso il medesimo obiettivo. L’antifascismo militante nacque, allora, su iniziativa di Lotta Continua e degli altri gruppi della sinistra extraparlamentare come risposta alla politica dell’estrema destra, descritta come un’offensiva pianificata e militarmente organizzata contro il movimento rivoluzionario. Tra il 1970 ed il 1972, l’antifascismo militante generò un sostanziale cambiamento nell’utilizzo della violenza da parte della sinistra extraparlamentare: si passò rapidamente da azioni di carattere difensivo ad azioni offensive, fino alla pianificazione e all’organizzazione di operazioni mirate a colpire e ad atterrire gli avversari57. Questo passaggio fu segnato da due momenti: l’intensificarsi degli scontri con l’estrema destra e l’inizio delle inchieste di controinformazione sugli attentati del 12 dicembre 196958. Nei giornali dei gruppi extraparlamentari cominciarono a comparire delle lunghe cronologie che riportavano le violenze di destra: elencate in successione, in modo da dare l’impressione non solo di un’escalation ma anche della simultaneità degli attacchi. Le notizie erano raccolte in dossier, pubblicati a mezzo stampa, spesso nella forma di libretti o di volantini, che denunciavano il ripetersi delle azioni squadriste. I manifesti e i 56 Sugli effetti della divulgazione della notizia del golpe Borghese cfr. M. Dondi, Giornalisti e stampa di fronte al golpe Borghese, in Id. (a cura di), I neri e i rossi, Terrorismo, violenza e informazione negli anni Settanta, Nardò, Edizioni Controluce, pp. 169-204. Per la rivolta di Reggio Calabria cfr. L. Ambrosi, «Boia chi molla, siempre!». La rivolta di Reggio Calabria nella memoria di un protagonista comune, «Zapruder», n. 16, maggio-agosto 2008. 57 G. Panvini, «Lotta Continua» e i terrorismi di sinistra in Italia (novembre 1969-marzo 1978), in Dondi, I neri e i rossi, cit., pp. 126-165. 58 Su questo tema cfr. M. Veneziani, Controinformazione: stampa alternativa e giornalismo d’inchiesta dagli anni Settanta ad oggi, Roma, Castelvecchi, 2006.

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tazebao sui muri delle scuole o delle università adempivano alla stessa funzione: amplificavano la sensazione della sinistra extraparlamentare di essere sotto assedio. In questo modo, la cronaca diveniva un bollettino di guerra che raccontava l’avanzata del nemico, descrivendone le direttrici e la finalità strategica59. La sensazione di essere sotto assedio da parte dei neofascisti si accompagnò alla certezza che le organizzazioni di estrema destra, responsabili degli atti squadristici, fossero le stesse che pianificavano e realizzavano gli attentati terroristici nel quadro della strategia della tensione. Questa lettura della realtà ebbe una forte ripercussione sulla diffusione della violenza: qualsiasi attivista o simpatizzante di destra diveniva potenzialmente il referente della “trama nera”, un’espressione con la quale i collettivi di controinformazione erano soliti indicare la rete di poteri e di complicità che stava dietro agli attentati60. Controinformazione e violenza politica furono, per questo motivo, intimamente legate. Il lavoro investigativo aveva spesso come risvolto la pubblicazione, sulle testate della sinistra extraparlamentare così come sui volantini e sui manifesti murari, dei nominativi, degli indirizzi delle abitazioni e di notizie concernenti i militanti di destra61. In questo modo, i neofascisti venivano esposti sia agli attacchi degli avversari, e sia alla pubblica condanna nel caso di una loro eventuale partecipazione ad attentati o azioni terroristiche. La pubblica opinione non veniva semplicemente informata riguardo all’attività dei neofascisti ma era portata a conoscenza dei loro nomi, degli indirizzi dove abitavano e delle loro abitudini: gli estremisti di destra divenivano, in questo modo, l’obiettivo per azioni mirate, dei nemici che andavano scovati e colpiti. L’insieme di questi episodi mostra una volontà diffusa nell’estrema sinistra all’organizzazione della violenza. Le informative delle Questure e delle Prefetture testimoniano un’ampia diffusione di questa pratica ed indicano come la rac59 Si veda, ad esempio, Basta con i fascisti. Inchiesta sullo squadrismo a Roma, suppl. a «Lotta Continua», 12 gennaio 1973. 60 Cfr. Fare la controinformazione, dicembre 1973, suppl. a «Notiziario del centro di documentazione», anno IV, n. 24, pp. 3-5. 61 Su questo tema cfr. l’inchiesta giornalistica, Sergio Ramelli. Una storia che fa ancora paura, Milano, Effedieffe Edizioni, 1997.

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colta di informazioni era spesso propedeutica alla costituzione di veri e provi archivi dove erano contenute centinaia – se non migliaia – di schede sugli avversari politici, con tanto di schede, fotografie, annotazioni, dovute ad appostamenti, con studio di abitudini ed indicazioni di targhe, descrizioni di locali pubblici frequentati e di sedi politiche62. In questa prospettiva i gruppi della sinistra extraparlamentare condividevano, nonostante le numerose divergenze teoriche, buona parte dei repertori d’azione adottati dalle nascenti formazioni terroristiche di estrema sinistra63. Fin dall’autunno del 1970 le Brigate Rosse, ad esempio, indicarono nel neofascismo una componente della “guerra di classe” scatenata dalla borghesia contro il proletariato64. Nei volantini, analogamente a ciò che succedeva nei gruppi extraparlamentari, comparvero i nomi, gli indirizzi e i numeri telefonici di persone individuate come militanti o simpatizzanti di destra che bisognava colpire. È da notare, inoltre, che tutti i nascenti gruppi terroristici – come i GAP di Feltrinelli o il Gruppo XXII Ottobre di Genova − esordirono, tra il 1970 e il 1972, con azioni riconducibili alla pratica dell’antifascismo militante, che divenne, in questo modo, l’esperienza formativa fondamentale per il passaggio alla lotta armata65 (fig. 30). Allo stesso modo fu sul terreno della lotta ai neofascisti che nacquero le prime strutture clandestine all’interno dei gruppi della sinistra extraparlamentare, in parte confluite, negli anni successivi, nelle fila dei gruppi terroristici66. Sempre sul terreno dell’antifascismo militante iniziò, poi, il processo di specializzazione e di organizzazione della violenza che avrebbe portato, di lì a poco, i servizi d’ordine a rendersi

62 Per una rassegna delle fonti cfr. G. Panvini, Alle origini del terrorismo diffuso. La schedatura degli avversari politici negli anni della conflittualità (1969-1980). Tracce di una fonte, «Mondo contemporaneo», n. 3, 2006, pp. 141-164. 63 A. Ventura, Il problema delle origini del terrorismo di sinistra, in Della Porta (a cura di), Terrorismi in Italia, cit., p. 85. 64 V. Tessandori, BR. Imputazione: banda armata, Milano, Baldini&Castoldi, 2000, p. 47. 65 Cfr. la collezzione di volantini e documenti delle organizzazioni terroristiche di sinistra contenute in Le parole scritte, Roma, Sensibili alle foglie, 1996, p. 34. 66 L. Manconi, Terroristi italiani. Le Brigate Rosse e la guerra totale, 1970-2008, Milano, Rizzoli, 2008, pp. 59-67.

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sempre più autonomi e indipendenti dalla direzione dei gruppi. Nel periodo di incubazione del fenomeno terroristico, dunque, i confini tra i gruppi extraparlamentari e le formazioni armate divennero sempre più labili, in particolar modo in riferimento all’organizzazione della violenza. La “spontaneità” e il “carattere di massa” della violenza rivendicate dalla sinistra extraparlamentare andrebbero riviste, quindi, alla luce delle nuove fonti.

Angelo Ventrone Dal Palazzo d’inverno ai quartieri liberati. La trasformazione dell’idea di rivoluzione*

Leggendo i documenti degli anni Sessanta e Settanta, ciò che salta agli occhi è che una parte significativa delle giovani generazioni di allora credeva di vivere in un’epoca rivoluzionaria, credeva nella rivoluzione, nell’abbattimento e non nel miglioramento del sistema. Certo, non esisteva un’idea sola di rivoluzione, ce n’erano tante, e tutte declinate in modo diverso, a seconda dei momenti, dei gruppi, del loro orientamento ideologico e della collocazione nel sistema politico. Ma non dare il giusto rilievo al tema della rivoluzione e alle sue implicazioni significa non riuscire a comprendere il senso di quegli anni. Partiamo allora dalla Rivoluzione sognata, progettata e vissuta dall’estrema sinistra. In questo ambito emerge subito una contraddizione. In nessun documento si parla di cosa sarebbe accaduto dopo, una volta preso il potere. È questa la prima questione su cui mi vorrei soffermare. Una questione di grande rilievo perché, a mio avviso, rimanda alla frattura che, nel corso degli anni ’60 e ’70, si è consumata rispetto alle interpretazioni della rivoluzione che l’Occidente ha prodotto a partire dal 1789. Se l’idea stessa di rivoluzione era nata da uno scenario di miseria generale in cui, per dirla con Marx, lo sfruttato non aveva altro «da perdere che le proprie catene», se ogni rivoluzione si era fino ad allora prefissata l’obiettivo di liberare l’umanità innanzitutto dall’indigenza, l’avvento della società del benessere *Questo saggio riprende e sviluppa un mio precedente scritto, La «guerra civile di lunga durata» e l’idea di Stato nell’Italia degli anni Settanta, in Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento, XXXIV, 2008, Bologna, il Mulino, 2009.

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aveva cambiato tutto. «Il nostro errore in sostanza qual era?», ha scritto significativamente Patrizio Peci, prima dirigente e poi pentito delle Brigate Rosse: «Credere che l’Italia fosse un paese adatto a una rivoluzione comunista. Non abbiamo considerato per niente che l’Italia è una società a capitalismo avanzato, cioè una società completamente diversa da tutti i paesi dove le rivoluzioni comuniste hanno avuto successo. In Italia mancava l’elemento fondamentale: mancava la fame. Senza la fame, senza una forte maggioranza della popolazione che sta veramente male non si fanno le rivoluzioni»1. Credo che questa contraddizione contribuisca a spiegare perché nei documenti prodotti dall’estrema sinistra non ci sia mai un’idea in positivo dello Stato da costruire, né delle misure da prendere – se non in modo estremamente generico − per creare quella nuova società che è l’obiettivo fondamentale di ogni dottrina rivoluzionaria. Persino le Brigate Rosse non hanno mai chiarito quale fosse il loro progetto di disarticolazione e di distruzione dello Stato, e neanche le modalità della presa del potere, le tappe, i passaggi, i risultati intermedi di questo possibile processo. Dopo l’abbattimento dello Stato, ci sarebbe stata una presa del potere? Un governo rivoluzionario? E prima ancora, ci sarebbe stata una guerra civile? Una lotta armata aperta?2 I brigatisti hanno riconosciuto che non avevano alcuna idea precisa a riguardo; che pensavano a vincere, e che solo dopo la vittoria si sarebbero occupati dell’assetto futuro del potere e del nuovo modello di società da costruire3. Alcune acute osservazioni di Italo Calvino sull’apparire delle prime forme di contestazione, ci possono aiutare a riflettere meglio su questo punto. Calvino scriveva, all’inizio degli anni ’60: «Credo che una parte predominante, nella formazione della

1 P. Peci, Io l’infame, premessa di L. Telese, prefazione e cura di G. Bruno Guerri, Milano, Sperling&Kupfer, 2008, p. 55, questo testo è uno dei libri di memorialistica più significativi sull’esperienza delle BR. 2 Cfr. La violenza e la politica, introduzione e cura di L. Manconi, Roma, Savelli, 1979, pp. 16-17. 3 Cfr., tra le tante, la testimonianza di Angela Vai, in G. Bianconi, Mi dichiaro prigioniero politico. Storie delle Brigate Rosse, Torino, Einaudi, 2003, p. 76.

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mentalità beat […] l’abbia la tranquilla certezza nella prosperity della affluent society», ovvero nella prosperità della società dell’abbondanza4. Lo sfondo della protesta giovanile gli appariva infatti il «sentirsi al riparo dal bisogno». Solo un’economia altamente razionalizzata e una società così ricca da garantire ampi margini per le attività improduttive potevano produrre la beat generation. Mi sembra che queste considerazioni possano essere estese anche alla fase successiva della contestazione. In questo contesto paiono infatti collocarsi alcune idee centrali nell’elaborazione teorica di gruppi come Potere Operaio e poi Autonomia Operaia, come il «rifiuto del lavoro» e la convinzione che lo sviluppo tecnologico e l’automazione avrebbero potuto emancipare una volta per tutte l’umanità dalla fatica, cioè dal lavoro ripetitivo e alienante, se fossero stati finalmente utilizzati per liberare e non per opprimere gli esseri umani5. Il «bisogno di comunismo», avrebbe detto Autonomia Operaia, non nasceva perciò dalla ribellione alla miseria, bensì dalla nuova ricchezza delle relazioni sociali che la modernità rendeva possibile6. Come scriveva Toni Negri, uno dei suoi leader principali: «siamo una realtà che non dalla disperazione ma dal desiderio, dal godimento, dalla ricchezza traiamo ragione di odio per i padroni e di inflessibilità di lotta»7. In effetti, non era forse proprio la società del benessere, per la sua inedita e straordinaria capacità di produrre abbondanza di beni, che rendeva possibile permettere ormai di immaginare la rivoluzione come pura rottura, come negazione, come una rivoluzione che non doveva più preoccuparsi di progettare il futuro, visto che l’abbondanza sembrava assicurata una volta per tutte?8 4 I. Calvino, I beatniks e il sistema, in Id., Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Torino, Einaudi, 1980, p. 78. 5 Testimonianza di Franco Piperno, in Gli operaisti. Autobiografie di cattivi maestri, a cura di G. Borio, F. Pozzi, G. Roggero, Roma, DeriveApprodi, 2005, pp. 256-257. 6 Cfr. N. Balestrini, P. Moroni, L’orda d’oro. La grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed esistenziale, Milano, Feltrinelli, 2003 (1988), pp. 448-457. 7 A. Negri, Partito operaio contro il lavoro, in S. Bologna, P. Carpignano, A. Negri, Crisi e organizzazione operaia, Milano, Feltrinelli, 1974, p. 126. 8 Calvino, L’antitesi operaia, in Id., Una pietra sopra, pp. 102 ss.

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«Dobbiamo poter esemplificare il processo rivoluzionario – scriveva ad esempio «Potere Operaio» nel 1971 – come progressiva, sistematica appropriazione di cose necessarie agli sfruttati, di tutto quanto i proletari vogliono prendere e possedere»9. È sulla base di queste considerazioni che diventa più comprensibile perché nessun gruppo, ad eccezione di quelli che si limitavano a ripetere l’ortodossia leninista, abbia mai definito la propria idea di rivoluzione, se non come fenomeno, per così dire, processuale10. Una rivoluzione, cioè, che si sarebbe risolta nel processo stesso, attraverso le manifestazioni nelle piazze, l’occupazione delle Università e delle case, gli scioperi, gli espropri proletari, lo scontro con le forze dell’ordine, la destabilizzazione del sistema. Un’idea − si potrebbe dire, se volessimo collocarla nelle categorie novecentesche − di matrice più anarco-sindacalista che leninista. Come ha d’altronde ricordato Adriano Sofri, il leader dell’organizzazione più movimentista, Lotta Continua: «Non mi sono mai prefisso risultati nelle lotte cui partecipavo o che capeggiavo». Il «risultato», infatti, era la lotta stessa11. Naturalmente, contavano anche altri elementi, come la crisi delle categorie classiche del marxismo-leninismo, la consapevolezza cioè che le relazioni tra sfruttati e oppressori erano ormai molto più articolate di un tempo e che la società era molto più complessa e stratificata rispetto alla struttura sostanzialmente binaria proletari/capitalisti ipotizzata dalla vulgata marxista. Inoltre, la lotta per il potere si svolgeva anche fuori dalla fabbrica e perciò la questione della liberazione collettiva non poteva più essere risolta solo con la conquista del palazzo d’inverno. Il potere, infatti, non era più accentrato e verticistico, ma diffuso, così come l’espropriazione di sé – l’alienazione − che tradizionalmente aveva colpito l’operaio di fabbrica ora si era estesa all’insieme della società e ogni forma di lavoro tendeva a proletarizzarsi. «La prospettiva rivoluzionaria – scriveva ancora “Potere Operaio” – 9 Unità dei proletari sul programma del salario politico, «Potere Operaio», n. 38/39, 17 aprile-1° maggio 1971, p. 5. 10 Per l’attualizzazione degli insegnamenti di Lenin, cfr. L. Della Mea, Stato e rivoluzione ieri e oggi, Milano, Feltrinelli, 1968. 11 Cit. in A. Cazzullo, I ragazzi che volevano fare la rivoluzione. 1968-1978: storia di Lotta Continua, Milano, Mondadori, 1998, p. 71.

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non è dunque “l’ora X” della insurrezione, ma la lotta armata di lunga durata, fondata sullo sviluppo del potere delle masse proletarie intrecciato all’azione propulsiva dell’avanguardia»12. Questi temi, naturalmente, dovevano molto anche alla grande risonanza che ebbero in quegli anni le critiche all’industria culturale, legate in particolare all’opera della Scuola di Francoforte di Adorno, Horkheimer e Marcuse. Pensiamo, ad esempio, alle riflessioni di Pier Paolo Pasolini sulla silenziosa rivoluzione conformista, sulla vera e propria «omologazione culturale» che a suo avviso si stava verificando nel paese. Per lo scrittore, era in atto una vera e propria «mutazione antropologica» che, cancellando progressivamente ogni diversità, stava trasformando gli italiani in un’unica Nuova classe media, in una nuova Piccola Borghesia totale. Attraverso il neocapitalismo, la borghesia, oramai, tendeva dunque a «coincidere con la storia del mondo». Per questo, a suo avviso, si poteva parlare di un vero e proprio «genocidio» culturale in atto, attraverso l’eliminazione non solo di ogni alternativa, ma addirittura di ogni alterità13. Con parole analoghe, come facevano allora tanti, tantissimi altri, anche Edoarda Masi, esponente di rilievo di «Quaderni piacentini», una delle riviste di punta della cosiddetta Nuova sinistra, aveva ad esempio scritto, nel 1967, che la società borghese, nata sulla base della libertà individuale si era trasformata nella «programmazione sempre più generale» a livello planetario, nella «predeterminazione del comportamento di ciascuno, nella più radicale esclusione della libertà che si sia mai verificata», dato che il «condizionamento» avveniva ormai «all’interno della stessa coscienza individuale», spinta ad adeguarsi «a un modello uguale per tutti»14. D’altronde, la lotta contro la «colonizzazione delle menti» fu, com’è noto, uno dei cavalli di battaglia dell’intero ciclo di protesta degli anni ’60 e ’70.

12 Il convegno di Potere Operaio, «Potere Operaio del lunedì», n. 14, 18 giugno 1972, p. 3. 13 P.P. Pasolini, Lettere luterane, Torino, Einaudi, 1976, pp. 39, 154-155. 14 E. Masi, Note sulla Rivoluzione Culturale Cinese, «Quaderni Piacentini», n. 30, aprile 1967. A dimostrare la centralità di questo tema, va sottolineato che esso era stato affrontato da Vittorio Foa già nel primo articolo, Lotte operaie nello sviluppo capitalistico, del primo numero di «Quaderni rossi» (settembre 1961).

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È su questo terreno che alcuni intellettuali di sinistra – penso in particolare a Mario Tronti e Massimo Cacciari – si cimentarono con la riscoperta di grandi autori fino ad allora appannaggio quasi esclusivo della destra reazionaria − Nietzsche, Sombart, Spengler – e delle loro critiche alla disumanizzazione prodotta dalla società mercantile, spietatamente egoistica e competitiva. Una società che produceva l’illusione della libertà e, nello stesso tempo, la dura realtà dell’isolamento sociale, la rottura dei vincoli solidaristici, il brutale livellamento, l’enfatizzazione degli interessi materiali e l’irrilevanza dei valori etici e morali15. In effetti, a partire dagli anni ’60, questi temi erano stati ripresi e sviluppati secondo nuove suggestioni, in particolare, dai cosiddetti operaisti – raccolti attorno a riviste come «Quaderni rossi», «Classe operaia», «Contropiano» – che avevano cominciato ad elaborare i concetti di «operaio sociale» e di «fabbrica sociale». Gli operaisti avevano infatti ripreso da Marx il concetto di «capitale sociale» per indicare il dominio capitalistico che stava uscendo dalla fabbrica per estendere il proprio controllo su tutto il corpo sociale16. L’«operaio sociale» e la «fabbrica sociale» erano le logiche conseguenze di questo processo, perché, appunto, le condizioni che caratterizzavano la vita di fabbrica si erano ormai estese all’intera società (che era così diventata una «fabbrica sociale») e più nessuno, ormai, poteva dirsi immune dall’alienazione, dall’oppressione, dall’azione di disciplinamento che avevano tradizionalmente colpito gli operai. Da qui, l’elaborazione anche del concetto di «operaio sociale», che indicava il processo per cui ogni tipo di impiego tendeva ad omologarsi alle stesse condizioni del lavoro di fabbrica, tendeva, cioè, a proletarizzarsi. Nella loro prospettiva, questa straordinaria capacità invasiva del potere aveva reso ormai inservibile l’accezione classica di insurrezione, che doveva perciò essere sostituita dal concetto di «guerra civile permanente», ovvero da un crescendo di lotte e di tensioni che avrebbero dovuto preludere alla presa 15 Per alcune interessanti osservazioni da parte di un intellettuale di destra, cfr. G. Accame, Adorno, Marcuse & C. La nuova sinistra rivoluzionaria, «Il Borghese», 29 febbraio 1968. 16 M. Tronti, Il piano del capitale, «Quaderni rossi», n. 3, giugno 1963, pp. 52-53.

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del potere17. In questo senso, la vera battaglia si svolgeva all’interno della società; era qui che era fondamentale essere presenti, non nelle sedi della decisione politica. La partita decisiva per il potere si giocava dunque nella capacità del proletariato «sociale» − cioè di tutti coloro che vivevano in una condizione di alienazione paragonabile a quella del proletariato di fabbrica − di esprimere nuovi bisogni, di appropriarsi di nuovi spazi e di nuovi beni, di creare nuove opportunità. Era questo, in definitiva, anche il senso della campagna «prendiamoci la città», lanciata da Lotta Continua nel 1970 con queste parole: «In questa società schifosa che distrugge la voglia di vivere, l’intelligenza delle masse, la natura – In questa società schifosa che vive dello sfruttamento di milioni e milioni di uomini, donne, bambini e vecchi da parte di un pugno di padroni bastardi – In queste città trasformate in galere […] Tutto ciò che esiste, l’intera società, la ricchezza delle nazioni, l’abbiamo costruito noi, è il prodotto del nostro lavoro sfruttato, della nostra miseria. È TUTTO NOSTRO. PRENDIAMO TUTTO, PRENDIAMO LA SOCIETÀ, PRENDIAMOCI LA CITTÀ – Prendiamoci le case, le scuole, i trasporti, gli asili»18. La convinzione tradizionale che la rivoluzione politica e la conquista dello Stato fossero le premesse per modificare i rapporti di potere si rovesciava così nel suo contrario. La rivoluzione andava attuata nella società, per costringere lo Stato ad adeguarsi ai nuovi rapporti di forza e ad arretrare progressivamente di fronte all’avanzata del nuovo proletariato. La visione dei compiti affidati alla rivoluzione fu ben descritta nel 1977 da «A/traverso», la rivista dell’Autonomia bolognese, che scriveva: «Il movimento che riuscirà a distruggere la gigantesca macchina burocratica capitalistica sarà a fortiori sicuramente capace di costruire un altro mondo – la capacità collettiva gli verrà strada facendo, senza che sia necessario […]

17 A. Negri, La fabbrica della strategia. 33 lezioni su Lenin, Padova, Cleup, 1977, pp. 102-103, 172, 181. 18 Prendiamoci la città, «Lotta Continua», a. II, n. 22, 11 dicembre 1970, p. 1, e Prendiamoci la città, Ibid., a. III, n. 10, 11 giugno 1971, p. 19.

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architettare dei “progetti di società” di ricambio»19. La rivoluzione, cioè, non doveva più essere imposta da un centro decisionale, il partito-guida, ma realizzata dal basso, in una convergenza spontanea di esperienze volte a distruggere il vecchio mondo e a produrre quello nuovo. In modo non troppo lontano, Alberto Franceschini, uno dei fondatori delle BR ha detto: «Noi eravamo convinti di essere “il piccolo fuoco che incendia la prateria”, il detonatore che avrebbe provocato la grande esplosione». Le azioni delle Brigate Rosse avrebbero cioè dovuto mettere in moto forze e intelligenze di gran lunga superiori a quelle del piccolo movimento rivoluzionario dei primi tempi; e a queste forze sarebbe spettata la costruzione del futuro20. Questa visione in effetti caratterizzava le Brigate Rosse delle origini; anch’esse rifiutavano l’insurrezione leninista e teorizzavano una «guerra civile di lunga durata», attraverso l’unione della lotta politica con quella militare21. Ma, di fronte alla durezza dello scontro militare con lo Stato, le BR sarebbero presto tornate alle vecchie modalità della lotta gestita dall’alto, dall’avanguardia cosciente che si autoproclamava rappresentante delle masse. Una sorte in parte simile sarebbe toccata anche a Prima Linea. Ad ogni modo, prima della piena militarizzazione dello scontro politico, un’azione molecolare di massa era considerata la vera chiave di volta per provocare il corto circuito del sistema e sanare la contraddizione che il mondo della tecnica aveva prodotto: da una parte, quest’ultimo aveva infatti reso pensabile una vita dalle potenzialità enormemente più ampie del passato, ma, dall’altra, creava un universo seriale, omologante, che ambiva ad estendersi fino alle sfere intime dell’individuo. Non posso soffermarmi sulle differenze interne alle varie anime del movimento e su quelle tra i vari gruppi armati. Ma credo co19 Cit. in F. Berardi, V. Bridi (a cura di), 1977 l’anno in cui il futuro incominciò, Roma, Fandango Libri, 2002, p. 168. 20 Intervista ad Alberto Franceschini, in C.C. Lo Re, La destra eversiva, Chieti, Solfanelli, 1994, p. 89. 21 A. Franceschini, P.V. Buffa, F. Giustolisi, Mara, Renato e io. Storia dei fondatori delle BR, Milano, Mondadori, 1988, p. 24.

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munque che, senza voler appiattire le loro specificità, si possa dire che questa sensibilità fosse in sostanza uno degli elementi fondamentali che rendeva possibile il dialogo tra di loro, che permetteva di riconoscersi come appartenenti allo stesso universo politico. La strada da percorrere sembrava dunque quella di alzare progressivamente il livello di scontro con lo Stato. All’inizio di questo percorso, ebbero un certo rilievo anche le riflessioni sviluppate sull’esempio delle altre formazioni armate europee. A proposito di un opuscolo della RAF, il Rotbuen n. 29, «Potere Operaio» scriveva, già nei primi anni Settanta, di condividerne la concezione della rivoluzione attuata non più attraverso lo sciopero generale e poi l’insurrezione militare, ma attraverso «azioni di commando» e «centri di resistenza» che, senza perdere il collegamento con la lotta delle masse, portassero «alla formazione di milizie capaci di logorare in una lunga guerra di guerriglia, di demoralizzare e distruggere le forze militari dell’oppressione». A proposito dell’IRA, valutava inoltre positivamente quei settori dell’organizzazione che concepivano la creazione di quartieri liberati come base di partenza «da cui irraggiano le azioni di attacco contro il nemico ovunque e su tutti i terreni, per farlo continuamente vivere nel terrore e alla fine costringerlo ad ammainare bandiera»22. Ma c’era una questione da risolvere. Poiché la classe operaia tradizionale − che per più di un secolo aveva rappresentato l’unica realistica antitesi al sistema dominante – appariva ormai presa nel gioco sindacale della contrattazione tra le parti, e quindi sostanzialmente integrata, a chi ci si poteva rivolgere per abbattere il sistema? Evidentemente, si poteva contare solo su chi ne era restato ai margini, solo su chi non era ancora stato catturato dallo sforzo dell’ordine esistente di cancellare ogni alternativa a se stesso. A livello internazionale, il nuovo soggetto rivoluzionario era rappresentato innanzitutto dai popoli dei paesi ancora esclusi dallo sviluppo, come aveva suggerito Franz Fanon in un testo

22 Comunismo e Terrorismo, «Potere Operaio del Lunedì», n. 13, 4 giugno 1972, p. 2.

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di straordinario successo23. In Italia questo ruolo sembrò invece poter essere svolto innanzitutto dai contadini da poco inurbati, che a centinaia di migliaia si stavano spostando dal Mezzogiorno o dalle campagne arretrate verso le grandi città industriali. Ex-contadini trasformatisi, dunque, in «operai-massa», che avrebbero dovuto unirsi a tutti gli esclusi – i nuovi proletari − prodotti dalla società contemporanea. La fabbrica, dunque, restava il luogo in cui le condizioni di sfruttamento erano più pesanti; ed era sempre qui che si concentravano, perciò, come voleva la tradizione marxista, le tensioni più forti che avrebbero potuto portare al corto circuito finale del sistema. Ma i soggetti rivoluzionari erano mutati: non erano più gli operai che dall’alto della coscienza di sé e delle proprie competenze avrebbero dovuto guidare gli altri verso un futuro migliore e una società più giusta. Al contrario, le speranze erano ora affidate proprio a coloro che odiavano la fabbrica e il lavoro di fabbrica, e che nella società contemporanea vedevano solo un inestricabile groviglio di ingiustizie e di oppressione da superare. Negli anni ’70 una formazione armata di estrema sinistra come i Nuclei armati proletari nacque, ad esempio, proprio con il proposito di attirare nella lotta anche carcerati o ex-carcerati, sottoproletari delle grandi metropoli, disoccupati, ecc.24. Anche da queste convinzioni derivavano alcune delle ragioni che spinsero molti a passare all’uso diretto della violenza; in particolare, la volontà di accelerare i tempi e scatenare la rivoluzione prima che il sistema riuscisse ad annichilire le ultime isole di resistenza. Paradossalmente, l’escalation della violenza che si verificò a partire dai primi anni ’70 sollecitò però, come abbiamo visto, il rapido recupero del repertorio tradizionale derivato dall’esperienza marxista-leninista (e maoista) come, ad esempio, la prospettiva di trasformare la lotta di classe in guerra civile aperta per giungere alla dittatura del proletariato. Naturalmente, anche le forme organizzative ne risentirono. Tutti i gruppi, infatti, finirono ben presto per assumere come modello la tipica

23 24

I dannati della terra, prefaz. di J.P. Sartre, Torino, Einaudi, 1962 (1961). Cfr. Le parole scritte, Roma, Sensibili alle foglie, 1996, pp. 230-243.

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struttura bolscevica, pur rifiutando, formalmente, il ruolo trainante dell’avanguardia cosciente ma esterna alle masse25. Non a caso, come disse nell'ottobre del 1978 Franco Piperno, uno dei principali leader di Autonomia Operaia, il terrorismo italiano era riuscito ad ottenere i risultati «tecnicamente più efficienti» in Europa proprio perché non aveva evitato di fare i conti con «il contributo fondamentale dell’elaborazione leninista»: la necessità di organizzarsi da subito «sul terreno della distruzione dell’apparato statale»26. A questo progressivo recupero della tradizionale prospettiva marxista-leninista, si accompagnava l’immagine – tutta in negativo − dello Stato da abbattere. L’immagine dello Stato che l’estrema sinistra continuava a diffondere era infatti quella di una «democrazia borghese» che portava annidato in sé il germe della degenerazione reazionaria e fascista. Una preoccupazione tuttavia più forte in Lotta Continua (come mostravano anche le campagne contro il «fanfascismo» e poi contro la «fascistizzazione» dello Stato dei primi anni ’70) e meno presente in Potere Operaio. Preoccupazione principale di quest’ultima organizzazione era infatti riflettere sulle trasformazioni del capitalismo contemporaneo per capirne i punti deboli e colpirlo con precisione, secondo la lezione appresa da molti dei suoi intellettuali nel corso della militanza nelle riviste «Quaderni rossi» e soprattutto «Classe operaia» negli anni ’60. Potere Operaio non era infatti interessato ad occuparsi del pericolo di un possibile ritorno del fascismo perché era convinto che il capitale avesse ora trovato armi molto più seducenti per conquistare il consenso – la crescita dei consumi, una legislazione sociale più avanzata che però non metteva in discussione i rapporti di potere consolidati, la manipolazione dei mezzi di comunicazione di massa – e non aveva quindi più bisogno di ricorrere alla brutalità di un regime autoritario. Il tanto sbandierato pericolo di un ritorno al fascismo era considerato solo una sorta di specchietto per le 25 Cfr. S. Bologna, La tribù delle talpe, in Balestrini, Moroni, L’orda d’oro, cit., pp. 356-357. 26 Così in un intervento pubblico a Cosenza, la cui trascrizione è in Commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage di via Fani, sul sequestro e l’assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia, vol. LIII, Roma, 1990, pp. 802-803.

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allodole che distraeva l’attenzione dai veri, e più sottili, piani del capitale27. Nella prospettiva di chi invece riteneva il sistema politico italiano vicino a una svolta totalitaria (non bisogna dimenticare che in Spagna e Portogallo governavano dittature parafasciste, e che nel 1967 in Grecia erano andati al potere con un colpo di Stato i Colonnelli), la lotta al fascismo internazionale si combatteva sentendosi vicini ai vietcong, ai guerriglieri latino-americani, ai popoli africani che lottavano contro il colonialismo. Sul piano interno, la lotta si rivolgeva, invece, contro la democrazia parlamentare, considerata sostanzialmente un fascismo debole, in cui il partito al potere, la Democrazia cristiana − priva della forza e della decisione del suo predecessore nel Ventennio, ma non meno pericolosa – agiva per interposta persona attraverso i neofascisti, la mafia, gli americani28. Dopo la proposta del Compromesso storico, le stesse accuse di fascismo si rovesciarono persino sul PCI di Berlinguer. Uno degli slogan che meglio sintetizzava queste convinzioni era: «Lo Stato si abbatte e non si cambia». E in un altro slogan: «Poliziotto fai fagotto, arriva la compagna P38», la P38 – cioè la pistola che i partigiani sottraevano durante la Resistenza ai tedeschi per usarla come trofeo di guerra − diventava il simbolo della rivolta contro uno Stato considerato diretto erede di quello fascista. In definitiva, forse per il desiderio di essere riconosciuti dal nemico contro cui ci si sentiva in guerra29, ma forse anche per questo intreccio tra un’accettazione acritica del modello leninista e la mancata riflessione sui concetti di rivoluzione e di Stato – ovvero, su come superare l’ordine attuale e come costruire quello futuro − l’estrema sinistra, e tanto più i gruppi armati come le BR, si ritrovarono ad utilizzare gli stessi strumenti e lo 27 Cfr. M. Tronti, Noi operaisti, in L’operaismo degli anni Sessanta. Da «Quaderni rossi» a «classe operaia», a cura di G. Trotta e F. Milana, Roma, DeriveApprodi, 2008. Sulla denuncia del pericolo fascista nelle Brigate Rosse delle origini, cfr. invece Brigate Rosse, Autointervista, 1971, in Le parole scritte, cit., pp. 35 ss. 28 Tra i tanti documenti, cfr. A tre mesi dal golpe in Cile – A quattro anni dalla strage di Stato. Grande manifestazione internazionale: tutti in piazza il 16 dicembre a Milano, in Fondazione Lelio e Lisli Basso – Issoco, Roma, Fondo Mariuccia Salvati, scat. 02, b. 2, f. 4. 29 Cfr. L. Manconi, Terroristi italiani. Le Brigate Rosse e la guerra totale 19702008, Milano, Rizzoli, 2008, p. 80.

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stesso linguaggio degli apparati statuali contro cui pure si battevano: «l’arresto» dei colpevoli, il loro «processo», la «libertà provvisoria» per coloro che venivano rilasciati, la creazione delle «prigioni del popolo», la «giustizia proletaria», per finire con le «esecuzioni» dei condannati a morte. Passiamo ora ad esaminare l’idea di rivoluzione nell’estrema destra. Anche in questo caso esistevano posizioni diversificate tra le varie formazioni; posizioni che dipendevano certamente dagli orientamenti ideologici specifici (l’anima più sociale e movimentista, quella più tradizionalista, quella più istituzionale, ecc.) e, com’è naturale, anche dal variare del contesto, delle circostanze e degli individui. In generale, tuttavia, anche l’estrema destra, come l’estrema sinistra, affidava alla politica un compito rigenerante. E la visione della società contemporanea non era troppo distante da quella dei suoi avversari prima della fase dell’attacco al «cuore dello Stato» e della radicale militarizzazione dei settori armati. Come ha scritto Pierluigi Concutelli, esponente di rilievo del Movimento politico Ordine nuovo, successivamente condannato a quattro ergastoli per vari omicidi: «Una piovra. Ecco l’immagine che avevo del nemico, quel “regime” democratico che pensavo ci stesse soffocando e annientando. Una bella piovra come siamo abituati a vederla al cinema, nei vecchi film di fantascienza […]. Una testa al centro, dura e coriacea. I tentacoli, verso la fine, lunghi, deboli e fragili. Secondo me, allora, la priorità non era quella di colpire al “cuore” lo Stato, come predicavano le Brigate Rosse di Renato Curcio. Bisognava tagliare le cinghie di trasmissione, i tentacoli di quella piovra che sembrava così forte e invincibile. Ero convinto che bisognasse agire soprattutto in periferia: periferia culturale, politica, sociale e geografica. Tante sigle ma con un unico “cervello”, per centrare obiettivi il più possibile lontano dalla “testa”. Solo dopo, in un secondo momento sarebbe stato possibile arrivare al centro, per dare la tanto sognata “spallata”. Un cammino che doveva essere fatto lentamente, senza sussulti, passo dopo passo, avanzando quando si poteva, fermandosi quando era necessario»30. 30 P. Concutelli, Io, l’uomo nero. Una vita tra politica, violenza e galera, a cura di G. Ardica, Venezia, Marsilio, 2008, p. 73.

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In questi settori, il compito di guidare la rigenerazione collettiva veniva però ora affidato a un’aristocrazia – non di sangue, ma per merito – che avrebbe dovuto governare la società anche con la violenza, pur di assicurarne l’omogeneità interna e quindi la compattezza. Di contro ai processi di atomizzazione sociale messi in moto dalla società industriale e secolarizzata, i neofascisti sostenevano un modello di società organico, anti-individualista e antimaterialista, che rifiutava «la democrazia bottegaia, il materialismo comunista e l’edonismo occidentale»31. In fondo, nella loro visione, il materialismo borghese e quello socialista condividevano, per usare le parole di uno dei principali teorici di quel mondo, Franco Freda, la centralità «ossessiva del tubo digerente», anche se si differenziavano per due diverse concezioni della «voracità»: per la società socialista, i tubi digerenti erano tutti uguali; per quella borghese, alcuni erano più grossi, e quindi avevano maggiori esigenze da soddisfare, e altri più piccoli32. Questa concezione si richiamava a una lunga tradizione. Infatti, già Mussolini, nel gennaio del 1915, di fronte alla scelta neutralista del Partito socialista, contraria all’ingresso in guerra del paese, aveva detto: «Degenerazione adiposa, grassa, preludio alla putredine inevitabile. È il ventre che ha ucciso l’anima. È il calcolo che ha distrutto l’ideale. La vita degli uomini resta così compendiata nel breve ritmo dell’animalità: nutrirsi e digerire»33. In effetti, se la tradizione della sinistra si basava su una concezione egualitaria che si opponeva, come scriveva una rivista di quest’area, «Ombre rosse», al «principio capitalistico basato sulla selezione e la competizione, per cui devono sopravvivere, nella lotta per la vita, solo i “migliori”, cioè i più forti»34, non era così per la destra, che al valore della compattezza sociale affiancava il diritto al dominio permanente dell’élite, dei più capaci. Una concezione che in uno studio sulle origini della cultura 31

G. Accame, Adorno, Marcuse & C. La nuova sinistra rivoluzionaria, cit. F. Freda, La disintegrazione del sistema, a cura di F. Ingravalle, Padova, Edizioni di Ar, 2000, p. 26. 33 B. Mussolini, Anima e ventre, «Il Popolo d’Italia», 20 dicembre 1914. 34 Per un dibattito sulla militanza, «Ombre rosse», n. 15-16, 1976, p. 6. 32

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fascista mi è sembrato di poter definire della «fratellanza gerarchica», proprio perché volta ad assicurare, accanto a pari diritti sociali per tutti i componenti della comunità, anche il diritto al comando, appunto, per i «migliori»35. Le differenze tra uomini e gruppi umani, d’altronde, avevano un fondamento addirittura ontologico; per questa ragione, nel «vero Stato» preconizzato da Freda, non vi sarebbero stati più «individui» tutti formalmente uguali e con gli stessi diritti, ma «uomini differenziati» a ciascuno dei quali competevano «un diverso rango, una distinta responsabilità, un diverso dovere, un differente grado di libertà»36. Il progetto da attuare, in questi ambienti, si presentava tuttavia divaricato. Da una parte, c’era chi vedeva la necessità di fare fronte comune con l’intera galassia anticomunista per difendere l’Occidente, e quindi immaginava uno sbocco autoritario, sul modello spagnolo o greco, come la soluzione più adeguata per ripristinare l’ordine e liberarsi dei comunisti. Dall’altra, c’era chi invece vedeva nell’attualizzazione del fascismo la risposta adeguata alla democrazia che ormai, ridotta alla paralisi e contestata da più parti, si rivelava un’ideologia sconfitta, appartenente al passato37. In comune, c’era però l’idea di uno Stato da restaurare, attraverso la presa del potere, per via politica e militare, e l’imposizione dall’alto di un nuovo modello di organizzazione sociale. È comunque negli scritti di Franco Freda che, già a partire dagli anni ’60, si trova la proposta della destra radicale forse più elaborata rispetto alla questione dello Stato futuro. Uno Stato «organico», «popolare», che traeva la sua fisionomia di fondo addirittura dalla Repubblica di Platone, oltre che dall’esperienza dei regimi fascisti e nazisti, ma che si arricchiva anche di elementi «comunistici». Questo Stato avrebbe assunto vesti veramente degne di 1984 di Orwell, con l’eliminazione della proprietà privata «in tutte le sue espressioni», con l’unica eccezione dei beni di consumo individuali; l’abolizione della libertà d’intrapresa e di commercio, 35 A. Ventrone, La seduzione totalitaria. Guerra, modernità, violenza politica (1914-1918), Roma, Donzelli, 2003, pp. 270 ss. 36 Freda, La disintegrazione del sistema, cit., pp. 30-31. 37 Cfr., ad esempio, M. Tedeschi, Il «camerata» Mao all’Università, «Il Borghese», 21 marzo 1968.

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la programmazione statale dei consumi individuali, l’assegnazione dall’alto a ogni individuo del corso di studi da seguire in relazione «all’equilibrio economico dello Stato», l’educazione dei giovani affidata principalmente allo Stato e solo «in misura ridotta» alla famiglia, con l’istituzione di «Case della gioventù» statali tra gli 8 e i 20 anni e «istituti affini» per chi aveva meno di 8 anni. Anche le «nascite dei giovani membri dello Stato popolare», diceva il progetto, sarebbero risultate «rigorosamente programmate in relazione all’equilibrio sociale dello Stato popolare». Infine, erano previsti sia il ripristino dei lavori forzati e della pena di morte, che la responsabilità – e quindi la punizione − collettiva in caso di reato commesso da un singolo membro dell’unità di lavoro38. È evidente qui tutta la distanza che separava l’estrema sinistra dall’estrema destra. E tuttavia, nonostante la netta contrapposizione ideologica, le analogie tra di esse erano molto più forti di quanto si creda, poiché trovavano una radice comune nella ribellione contro alcuni aspetti della società «borghese». I due schieramenti erano inoltre entrambi portatori di una cultura che si potrebbe definire della coesione sociale, che estremizzava cioè l’unità come fondamento della vita sociale. «Nessuno di noi s’illudeva di poter vincere, di poter sovvertire quel sistema politico così apparentemente forte e compatto […]. Al massimo potevamo confluire in un movimento più vasto», ha scritto con parole sorprendenti Concutelli. «Se, per esempio, le Brigate Rosse (anche con il nostro “concorso” parallelo) avessero davvero portato il paese sull’orlo della guerra civile, in quel caso avremmo combattuto dalla loro parte. E quando fosse arrivata l’ora di presentare il conto, ci saremmo stati anche noi. D’altronde, il nemico per noi fascisti e per le Brigate Rosse, non era poi così differente. Anche noi, “neri”, volevamo abbattere lo Stato borghese. Anche noi volevamo distruggere il fantomatico Sim (sigla inventata dalle Brigate Rosse), lo Stato imperialista delle multinazionali: il mostro che, secondo noi, governava il mondo in modo cieco e spietato, schiacciando sotto il proprio tallone nazionalità, valori e idee»39. 38 39

Freda, La disintegrazione del sistema, cit., pp. 39-43. Concutelli, Io, l’uomo nero, cit., p. 80.

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In effetti, sin dai primi momenti, Freda – teorico del cosiddetto nazimaoismo − aveva aperto alla collaborazione con chi criticava il sistema da sinistra, per una «leale unità di azione nella lotta contro la società borghese». Addirittura, aveva manifestato «ammirazione per l’opera statuale di Mao Tse-Tung», che a suo avviso si richiamava solo strumentalmente al marxismo, perché in realtà propugnava «una visione del mondo quasi “spartana”; un senso della vita sobrio, duro, militare […] un ritmo organico di fedeltà che vincola al capo tutta la comunità nazionale e favorisce quella tensione solidaristica la quale, a sua volta, riflette nel lavoro di un popolo intero i caratteri di volontaria disciplina di milizia libera e sproletarizzata […]. Nel “Comunismo” cinese – aggiungeva – io ho visto sopra tutto il trionfo della responsabile differenziazione dei compiti sull’atomismo egualitario; della disciplina sul lassismo borghese; dell’ordine totalitario sull’incompostezza dell’individualismo; ho scorto la vittoria dei ranghi del soldato politico […] sulle oligarchie mercantili e burocratiche dell’occidente (Russia compresa)»40. Con lo scoppio del ’68 anche riviste eterodosse come «L’Orologio» e «La Sfida» avevano iniziato un fitto dialogo con la contestazione studentesca e il cammino sarebbe continuato anche alla fine del decennio successivo, quando alcuni punti di contatto sarebbero stati evidenziati ancora più esplicitamente. Un gruppo come Costruiamo l’azione, riprendendo e sviluppando la lezione di Freda, avrebbe infatti guardato con attenzione a quella che la Scuola di Francoforte aveva chiamato l’«area del rifiuto», tanto da spingersi a considerare soggetti rivoluzionari – e quindi potenziali alleati – sia l’Autonomia Operaia, di estrema sinistra, che tutte le cosiddette «aree devianti»: dalla criminalità all’emarginazione sociale delle periferie. C’era infatti, ai loro occhi, una profonda consonanza tra i propri obiettivi e le battaglie dell’Autonomia sul rifiuto del lavoro, la distruzione della scuola, il «rifiuto dell’eldorado consumistico»41.

40 Id., Due lettere controcorrente, 1972, Ibid., pp. 112-117. Cfr. anche N. Rao, La fiamma e la celtica, Milano, Sperling&Kupfer, 2006, pp. 249-273. 41 Così la testimonianza di uno dei fondatori del gruppo, Sergio Calore, e un volantino dell’organizzazione, cit. in Lo Re, La destra eversiva, cit., pp. 54-55.

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La volontà di opporsi strenuamente ad un modello di società – materialista, meccanica, disumanizzante, portatrice di un individualismo competitivo e quindi disgregatore della solidarietà sociale – ha d’altronde contribuito ad animare la passione rivoluzionaria delle giovani generazioni lungo tutto il ’900. «Che fare?» si domandava così un periodico neo-fascista: «Fare delle città un rogo, fare delle fabbriche macerie, passare e ripassare con l’aratro e il sale, a perenne ricordo della follia dell’uomo»42. Tutto questo, per raggiungere la fine dei «borghesi», cioè di coloro che avevano creato quella società che produceva «le masse degli uomini senza volto», la fine di quel mondo «ignobile perché disumano» − il cui dio era il denaro − e delle banche, ovvero dei templi dove venivano celebrati gli «immondi» riti di tale società43. Il dominio della dimensione economica e il benessere materiale venivano accusati di zittire la dimensione ideale, spirituale, dell’uomo. L’affermazione di lottare contro un società «vecchia» e «degenerata» era quindi comune ai giovani di entrambe le sponde44. Ma c’era una differenza rilevante: a destra non si cercava, come invece accadeva a sinistra, una democrazia sostanziale, contro quella presente considerata vuotamente formale. Ma c’era il rifiuto netto del regime democratico, considerato un regime debole perché si basava sul compromesso, sull’estenuante mediazione. Quest’ultimo veniva dunque accusato di provocare la svirilizzazione degli spiriti, di negare il ruolo positivo svolto dallo scontro violento e radicale e dalla sua capacità

42 Per quale mondo. Vogliamo poco: La nostra vita, «Costruiamo l’azione», n. 1, aprile 1978; cfr. anche Lotta e vittoria, «Terza Posizione», novembre-dicembre 1979, p. 1, e Crisi di dimensione, «Lotta studentesca», n. 1. s.d. (ma autunno 1977), periodico della stessa area, oltre a E. Pisetta, Militanza partitica e scelte eversive nei terroristi neofascisti, in Ideologie, movimenti, terrorismi, a cura di R. Catanzaro, Bologna, il Mulino, 1990. 43 Contro quale mondo. Vogliamo molto la vostra fine, Ibid., n. 2-3, maggiogiugno 1978. Della metropoli come una «giungla» o un «deserto», dove imparare a vivere e sopravvivere ha parlato anche Giorgio Semeria, in S. Zavoli, La notte della repubblica, Milano, Mondadori, 1992, p. 98. 44 Cfr., ad esempio, M. Lombardo-Radice, Giovani senza rivoluzione, «Ombre rosse», n. 15-16, 1976, in particolare il paragrafo I giovani e la nuova morale, pp. 17-19.

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di gerarchizzare, cioè di definire, le differenze qualitative tra gli uomini e tra i popoli. Nella democrazia parlamentare, la vitalità giovanile veniva soffocata dalla razionalità, la fede veniva distrutta dall’enfatizzazione degli interessi individuali, il coinvolgimento emotivo cedeva il passo allo sguardo critico, distaccato, frutto dello scetticismo indotto dal pluralismo delle opinioni e dall’assunto che ogni individuo – e ogni opinione – avessero gli stessi diritti e dunque lo stesso valore. Quel regime era perciò considerato un regime senile, cioè dubbioso, pavido, tollerante perché privo di fede e di capacità di azione. Infine, nella democrazia parlamentare il potere dipendeva dal numero di voti ottenuti, non dalle effettive capacità individuali, e dunque la classe dirigente veniva selezionata in base a un dato quantitativo, non qualitativo. Arriviamo dunque alle conclusioni. Come abbiamo visto, negli anni ’60, e soprattutto nel decennio seguente, ampi settori delle giovani generazioni si rifiutarono di essere considerate una merce da vendere sul mercato e si impegnarono per sottrarsi al destino di isolamento sociale e di perdita di senso che la modernità sembrava portare con sé45. Ma non era questa la stessa dialettica tra espansione e dispersione dell’Io che accompagnava da quasi un secolo le polemiche sulle trasformazioni moderne? Da questo punto di vista, andrebbero forse estese all’intero mondo della contestazione – di destra e di sinistra − le parole di Renato Curcio sulle Brigate Rosse «figlie del ’900»46. Certo, ciò non vuol dire cancellare le differenze tra uno schieramento e l’altro, anzi. Come abbiamo visto, il neo-fascismo continuava infatti a vedere nella modernità innanzitutto decadenza e disgregazione, tanto da provare aperta ammirazione anche per coloro che da sponde ideologicamente opposte, come i guerriglieri latino-americani, i nord-vietnamiti, i terroristi palestinesi, per il loro stile di vita «sobrio, spartano, eroico», erano considerati molto più vicini alla sua visione della vita rispetto agli americani, all’uomo intestinale occidentale, per usare le pa-

45

M. Flores, A. De Bernardi, Il 68, Bologna, il Mulino, 1998, pp. 165 ss. R. Curcio, A viso aperto. Vita e memorie del fondatore delle BR, intervista di M. Scialoja, Milano, Mondadori, 1993, p. 210. 46

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role di Freda47. Eppure, il modello di società immaginato da vasti settori della destra radicale non era puramente tradizionalista. Il neofascismo, infatti, mi sembra ancora tutto interno alla sfaccettata visione che il fascismo aveva avuto della modernità. Per sintetizzare un po’ schematicamente: apprezzava l’espansione del sé che la società della tecnica rendeva possibile – perché forniva i mezzi per espandere la volontà di potenza dell’uomo e dei popoli − ma rifiutava, nello stesso tempo, la dispersione delle energie che ne sarebbe potuta derivare. Nella modernità borghese, la diffusione dell’individualismo, dell’egoismo competitivo, del culto del benessere materiale, infatti, impedivano il raggiungimento dell’obiettivo primario: rafforzare la coesione della comunità, nazionale o popolare che fosse48. Era questa una delle prime ragioni che legittimavano, ai suoi occhi, la struttura gerarchica e militare da imporre alla società. La contestazione di sinistra guardava invece all’orizzonte della tecnica in modo diverso: come una possibilità, sempre più concreta nell’epoca contemporanea, di ampliare le proprie esperienze esistenziali, di vivere tante vite in una sola vita. La rinuncia a tutto ciò doveva essere solo temporanea, doveva durare il tempo della lotta, perchè dopo la vittoria sarebbe venuto meno il timore che questa espansione del proprio Io potesse diventare incontrollabile, che potesse entrare in conflitto con gli interessi della comunità. Da qui, l’enfasi sulla liberazione sessuale, sulla parità dei diritti tra tutti gli esseri umani, persino, in alcuni settori, sull’uso delle droghe come mezzo per espandere la propria esperienza interiore. Una prospettiva – quella della libera espansione del sé in un ordine non gerarchizzato ma egualitario − sempre presente persino nei settori più legati all’ortodossia marxista-leninista e maoista, quelli più militarmente disciplinati, anche se nel loro caso rimandata a un futuro lontano e indeterminato.

47 Freda, La disintegrazione del sistema, cit., pp. 18-19, ma anche P. Buscaroli, La bandiera dei vietcong e la nostra, «Il Borghese», n. 10, 7 marzo 1968. 48 Sulla riscoperta del «popolo» e l’allontanamento dall’idea di «nazione» da parte di alcuni settori dell’estrema destra tra anni ’60 e ’70, cfr. Rao, La fiamma e la celtica, cit.

dal palazzo d’inverno ai quartieri liberati. la trasformazione dell’idea di rivoluzione

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Pur partendo da un terreno comune, la sinistra, a differenza della destra, vedeva nella morale austera legata alla fase della lotta un fatto provvisorio, temporaneo, necessario per vincere, ma non una finalità in sé. Inoltre, se la destra, con la parziale eccezione dei settori più movimentisti, come Costruiamo l’azione, guardava con nostalgia a un ordine organico ormai passato e infranto dalla comparsa della modernità, la sinistra privilegiava la dimensione del futuro, vedendo nella liberazione dal bisogno che la tecnica rendeva possibile l’occasione di procedere sulla strada di un arricchimento potenzialmente infinito del proprio Io, ormai libero di esprimersi perché non più mortificato dalla scarsità di beni e quindi dalla necessità di subordinare le proprie esigenze alla sopravvivenza materiale della propria comunità. Tuttavia, se non nelle modalità di azione, certo nella denuncia dei nemici, così come nella legittimazione dell’utilizzo della violenza come strumento politico, le differenze tra l’una e l’altra tendevano nei fatti a scomparire.

Ermanno Taviani Il terrorismo rosso, la violenza e la crisi della cultura politica del PCI

In un tornante decisivo come fu quello della seconda metà degli anni Settanta in Italia il terrorismo rosso e la violenza politica di sinistra furono due potenti fattori che, non da soli, portarono alla definizione di un nuovo quadro politico e sociale. Il PCI entrò in quegli anni in una crisi profonda, non tanto di consensi (fino al 1987 espresse quasi un terzo dell’elettorato), quanto sul terreno della strategia. Furono «colpiti la credibilità della strategia comunista, il collante del blocco sociale che aveva nella possibilità e capacità di trasformare il Paese le ragioni della propria coesione»1. La sua stessa azione di garante degli spazi democratici risultò inadeguata: l’estremismo di sinistra e il terrorismo ridussero la possibilità di mediare le spinte provenienti dalla sua base politica e sociale. Né, pur vedendo il partito e i suoi militanti impegnati in molte delle battaglie che potremmo definire di cittadinanza, venne pienamente compresa la dinamica nuova – innescata dal 1968 e dalla nuova dimensione della politica che aveva imposto – nel rapporto tra lo Stato e una società civile da cui emergevano nuove domande di autonomia. Come ha scritto G. Moro, cominciò a venire meno «il legame organico, o dell’isomorfismo, tra la società e i soggetti politici, per cui cominciarono a muoversi e a calcare la scena organizzazioni, movimenti e comportamenti che non trovavano più riscontro in

1 F. De Felice, Nazione e crisi: le linee di frattura, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. III, L’Italia nella crisi mondiale. L’ultimo ventennio, t. 1, Economia e società, Torino, Einaudi, 1996, p. 80.

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parlamento e nella politica ufficiale»2. Emerse, accanto al tradizionale conflitto politico, legato alla guerra fredda, un nuovo tipo di conflitto, quello di cittadinanza, che «riguardava la democrazia come fatto quotidiano, costituito di relazioni, ruoli e poteri, valori e simboli, diritti e doveri, beni e servizi, processi di comunicazione»3. In questo senso si può dire che tra la fine dei Settanta e l’inizio degli Ottanta entrò in crisi la “repubblica dei partiti”: perché il ruolo di mediazione e pedagogico dei partiti entrò in crisi, anche se l’occupazione degli spazi crebbe proprio in seguito talvolta a quelle riforme che avrebbero dovuto allargare gli ambiti della democrazia. Recuperando una suggestione di Franco De Felice si può dire che con la fine degli anni Settanta, finì, in un certo senso, il dopoguerra perché venne meno l’assedio reciproco tra PCI e Democrazia cristiana che – in modo conflittuale ma anche propositivo – aveva contrassegnato la vicenda politica dei decenni precedenti4. Si può parlare quindi di un 1989 ante litteram: la questione comunista per molti versi uscì di scena come elemento portante della dialettica politica italiana, anche se il sistema politico restò bloccato e approfondì i suoi caratteri degenerativi. Le cause sono molteplici e rimandano sia a fatti di carattere nazionale che di carattere internazionale: gli effetti della grande crisi che fece saltare la sintesi tra liberalismo dei mercati e welfare state all’interno dei contesti nazionali; la fine del fordismo e la ristrutturazione industriale che determinarono un nuovo panorama sociale; la nuova fisionomia che andavano assumendo gli Stati; la crisi definitiva del “socialismo reale”; la trasformazione dei “soggetti generali” della politica; le scelte politiche maturate nel PCI e nelle altre forze politiche dopo il 1978, ecc. Ma tra questi fattori va posto sicuramente il terrorismo rosso e l’impatto sconvolgente del caso Moro. 2

G. Moro, Anni Settanta, Torino, Einaudi, 2007, p. 36. Ibid., p. 66. 4 Cfr. F. De Felice, cit. Sul sistema politico italiano negli anni Settanta cfr. per tutti: S. Colarizi, Storia dei partiti nell’Italia repubblicana, Roma-Bari, Laterza, 1997; G. Crainz, Il Paese mancato. Dal miracolo economico agli anni Ottanta, Roma, Donzelli, 2003; P. Craveri, La Repubblica dal 1958 al 1992, Milano, Tea, 1995; P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi, Torino, Einaudi, 1989; S. Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana, Venezia, Marsilio, 1992; S. Lupo, Partito e antipartito. Una storia politica della prima Repubblica (1946-1978), Roma, Donzelli, 2004. 3

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La violenza – una delle tre gravi emergenze della società italiana di quegli anni (assieme alla crisi dell’economia e a quella del sistema dei partiti) – mise a nudo non da sola alcune aporie della cultura politica del Partito comunista italiano. Innanzitutto perché l’estremismo di sinistra aveva radici ideologiche comuni con quelle del PCI, sebbene il quest’ultimo non le riconoscesse in quanto tali. Questo rapporto irrisolto con l’estremismo di sinistra, inoltre, era riscontrabile anche su altri piani: fino al 1975, ad esempio, vennero mantenuti dei legami concreti a livello di organizzazioni territoriali5. D’altro canto era una questione che non si poneva solo su di un piano ideologico. Migliaia di studenti e di lavoratori militavano nei “gruppi” e nei movimenti. Evitare un confronto avrebbe significato rompere con una parte importante del mondo giovanile. Questa scelta venne compiuta di fronte al movimento del 1977 e dopo il 19776. Il problema va visto nel contesto di un partito che – unico in Europa tra i grandi partiti della sinistra – instaurò un rapporto difficile, contrastato, ma su alcuni terreni fecondo, con il ’68 e con i movimenti che da esso presero le mosse7. E questo nonostante la tradizionale ostilità di matrice terzinternazionalista che il PCI manifestava per tutte le forze politiche che si muovevano 5 Su questo aspetto mi permetto di rinviare a E. Taviani, PCI, estremismo di sinistra e terrorismo, in G. De Rosa, G. Monina (a cura di), L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta, vol. IV, Sistema politico e istituzioni, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003, pp. 235-275. Sulla nuova sinistra, alcuni dei testi più recenti: A. Cazzullo, I ragazzi che volevano fare la rivoluzione. 1968-1978: storia di Lotta Continua, Milano, Mondadori, 1998; F. Fiume, Verso un Futuro Assoluto. La Nuova sinistra in Italia fra utopia e tradizione, Napoli, Giannini, 2007; A. Grandi, La generazione degli anni perduti. Storie di Potere Operaio, Torino, Einaudi, 2003; R. Lumley, Dal ’68 agli anni di piombo. Studenti e operai nella crisi italiana, Firenze, Giunti, 1998; S. Tarrow, Democrazia e disordine. Movimento politici di protesta e politica in Italia 1965-1975, Roma-Bari, Laterza, 1990. 6 Sul movimento del 1977 cfr.: F. Berardi, Dell’innocenza. 1977: l’anno della premonizione, Verona, Ombre corte, 1997; S. Bianchi, L. Caminiti (a cura di), Settantasette. La rivoluzione che viene, Roma, Castelvecchi, 2004; S. Bianchi, L. Caminiti (a cura di), Gli autonomi. Le storie, le lotte, le teorie, 3 voll., Roma, DeriveApprodi, 2007; C. Del Bello (a cura di), Una sparatoria tranquilla. Per una storia orale del ’77, Roma, Odradek, 1997; T. De Lorenzis, V. Guizzardi, M. Mita, Avete pagato caro. Non avete pagato tutto. La rivista Rosso (1973-1979), Roma, DeriveApprodi, 2008; M. Grispigni, Il Settantasette, Roma, Manifestolibri, 2006. 7 Cfr., per tutti, A. Höbel, Il PCI di Longo e il ’68 studentesco, «Studi storici», 2004, n. 2, pp. 419-460.

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alla sua sinistra. Il Partito comunista, in un certo senso, adottò su questo terreno una politica articolata e fragile: cercò di separare i movimenti dalle loro proiezioni politiche, cercò di dare voce alle domande sociali ma evitò di stabilire rapporti ufficiali, formali, con le organizzazioni politiche della nuova sinistra. Sul rapporto tra i comunisti italiani e il terrorismo di sinistra è stata coniata la famosa metafora dell’“album di famiglia”8. Essa appare però pienamente convincente. Non da conto, infatti, delle variegate origini del terrorismo italiano e della sua componente cattolica, nonché di altre tradizioni culturali. Trascura, inoltre, l’influenza che ebbero le esperienze guerrigliere degli anni Sessanta e Settanta, nonché i fenomeni come quello del terrorismo palestinese. Forse, accanto al principale album di famiglia, se ne dovrebbero aprire degli altri. Tuttavia era innegabile che – pur in un contesto di riferimenti che andavano oltre quelli propri del PCI – era presente, e prevalente, nel terrorismo di sinistra quella stessa tradizione marxista condivisa dal maggiore partito della sinistra. La crisi italiana, insomma, chiamava in causa il bagaglio ideologico e culturale del comunismo italiano che aveva rinnegato la violenza nella sua strategia (nella via italiana al socialismo) ma non nei suoi riferimenti ideologici di fondo. L’idea stessa della “violenza rivoluzionaria” restava un perno centrale della dottrina. Si poneva il problema se fosse possibile considerare la violenza come uno strumento di lotta politica, così come facevano non solo le organizzazioni armate negli anni Settanta ma anche le organizzazioni della cosiddetta “nuova sinistra”. Tutto ciò va inquadrato in quell’incredibile processo di militarizzazione della politica che l’Italia conobbe in quegli anni; un processo che fece abbassare la soglia di attenzione rispetto alla violenza, determinando un’atmosfera quasi da tempo di guerra9. Tra l’altro, non va dimenticato che, accanto alla violenza politica, ci fu l’esplosione di quella riconducibile alla criminalità organizzata.

8 L’incipit della discussione sul cosiddetto “album di famiglia” fu data, com’è noto, da R. Rossanda, Album di famiglia, «Il Manifesto», 2 aprile 1978. 9 Su questo punto, alcune considerazioni interessanti in A. Bravo, Noi e la violenza. Trent’anni per pensarci, «Genesis», III, 2004, pp. 17-56.

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Insomma, furono anche le sigle, le rivendicazioni, i colpi di pistola stessi sparati in nome del comunismo a imporre una revisione, se non una cancellazione, di una parte della cultura politica del PCI. Nei fatti, ma spesso non nei documenti ufficiali, perché in definitiva la difesa della legalità democratica e la contrapposizione all’estremismo non determinarono una revisione culturale all’altezza della situazione. D’altronde, un partito che rifiutava “corrività socialdemocratiche”, come si ebbe a dire, si muoveva con difficoltà quando si investiva il terreno dell’identità10. Quella che fu avviata fu una dolorosa ricerca, che se da una parte non giunse su molti snodi delicati ad approdi sicuri, dall’altra parte risultò affrettata, forzata dall’escalation del terrorismo rosso che rese inservibile un certo patrimonio teorico marxista e leninista. La debacle principiò sul terreno iconologico: i simboli furono i primi ad essere screditati. Quello che non era del tutto avvenuto per lo stalinismo – cioè l’identificazione degli emblemi del comunismo italiano con una delle più sanguinarie dittature della storia del Novecento – si verificò, per alcuni versi, a causa del terrorismo. Le stelle a cinque punte, le falci e martello, le deliranti rivendicazioni del “partito comunista combattente”, ecc. furono accostate a volti di sequestrati, a uccisioni, ferimenti, attentati dinamitardi. Cioè a una violenza che a gran parte dell’opinione pubblica appariva come insensata. L’amplificazione di questi fatti da parte dei mezzi di comunicazione di massa e la serialità della violenza terroristica di sinistra, che si dispiegò virulenta tra il 1976 e il 1982, inflissero un colpo durissimo al patrimonio simbolico comunista. A risultare intaccato non fu solo l’immaginario politico della sinistra, ma anche il suo vocabolario, e non solo quello del PCI. I comunicati dei terroristi, apparivano, per molti versi, una drammatica e grottesca caricatura del linguaggio tipico della burocrazia terzinternazionalista, anche se erano presenti riferimenti pure ad altre tradizioni politiche. Anche per tutte queste ragioni − non ultima la delusione per il fallimento del comuni10 Caro Berlinguer. Note e appunti riservati di Antonio Tatò a Enrico Berlinguer 1969-1984, Torino, Einaudi, 2003, p. 239. Sulle note di Tatò cfr. P. Craveri, L’ultimo Berlinguer e la «questione socialista», in Id., La democrazia incompiuta. Figure del ’900 italiano, Venezia, Marsilio, 2002, pp. 297-349.

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smo fattosi stato − l’idea stessa di “rivoluzione”, già superata nei fatti, sia pure per un partito che voleva essere rivoluzionario nella democrazia, venne definitivamente spazzata via anche sul piano ideologico. Il profilo del comunismo internazionale e il terrorismo di sinistra contribuirono a dissolvere una parte importante della cultura politica del PCI. Quella meno legata alla sua concreta azione nella società italiana, fondata sull’attuazione della Costituzione, sulle riforme, sulla difesa dei lavoratori, sul buon governo a livello locale, ecc. Il colpo finale sarebbe stato dato dallo scioglimento della questione comunista all’inizio degli anni Ottanta11. La presenza dei comunisti nella maggioranza tra il 1977 e il 1979 – e poi l’azione responsabile contro il terrorismo tesa al suo isolamento − contribuì a far uscire il Paese dal punto più alto della crisi, ma rese evidente che la marcia verso il socialismo era più complicata del previsto e che la macchina dello Stato era più complessa di come era concepita nella cultura della sinistra, non solo comunista. I deludenti risultati dei governi di “solidarietà nazionale” misero in conflitto il partito con una parte del suo elettorato che aveva chiesto altro con il voto del 1975-76. Evidenziò, inoltre, la tensione irrisolta tra il finalismo comunista e le riforme. Il PCI non abbandonò l’idea di una transizione al socialismo pur se i connotati di questa società socialista restarono nebulosi. Dopo il 1975 le discussioni sul rapporto tra il marxismo e lo Stato, e la contestazione della sua incapacità di comprendere gli sviluppi delle scienze sociali e le trasformazioni politiche e sociali del Novecento avevano largamente incrinato molte certezze. Anche se molte critiche, come una parte di quelle avanzate da Bobbio, si fondavano su una concezione riduttiva di Gramsci e della storia del PCI: Gramsci era solo quello della “vulgata” e la storia del PCI era schiacciata su quella del comunismo internazionale. La presenza del “partito armato” faceva arretrare, anche sul piano culturale, la ricerca di risposte avanzate alla crisi del si-

11 F. De Felice, Nazione e crisi, cit.; Id., La nazione italiana come questione. Appunti sul decennio 1979-1989, «Dimensioni e problemi della ricerca storica», 1993, n. 1, pp. 55-90.

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stema politico, che diveniva sempre più acuta. Come ammise Tatò in documento recepito da Berlinguer nella seconda svolta di Salerno del 1979: «che cosa abbiamo fatto, in ultima analisi, dal giugno ’75 al gennaio ’79? Nella sostanza abbiamo cooperato a mantenere le condizioni minime (economiche, finanziarie, democratiche) per la sussistenza del sistema esistente e abbiamo identificato, esclusivizzato e ridotto a questa opera e a questo scopo la funzione nazionale della classe operaia, il ruolo dirigente e di governo del Partito comunista»12. Il PCI – in sostanza − si era appiattito sull’uscita dall’emergenza e la sua presenza nella maggioranza non aveva trasformato magicamente l’acqua in vino. La congiuntura era resa ancora più difficoltosa per il PCI dalla situazione economica e internazionale. L’approfondimento della “via italiana al socialismo” e la crisi del comunismo mondiale spinsero verso revisioni importanti nei rapporti con il “socialismo reale”, con le socialdemocrazie, sulla Nato e sul posto dell’Italia in essa. Revisioni che non furono portate alle estreme conseguenze (anche secondo Silvio Pons non potevano esserlo13). Era ormai evidente che, salvo che per alcuni settori della base comunista, il rapporto con il socialismo reale – tranne che sul piano finanziario (almeno fino al 1979) – era tutto in perdita. Al tempo stesso la crisi del capitalismo e della società italiana, se motivarono un atteggiamento responsabile, rappresentarono un freno rispetto a un compimento di alcuni di questi processi di ripensamento. Un capitalismo in crisi e un welfare in crisi (che postulava il fallimento della “via socialdemocratica”), riconfermarono nel PCI l’idea che se il capitalismo non rischiava un crollo ma al tempo stesso non era in grado di risolvere le proprie contraddizioni14. Fu una partita coraggiosa e al tempo stesso irrisolta fondata sulla scommessa di un’evoluzione positiva 12 Caro Berlinguer. Note e appunti riservati di Antonio Tatò a Enrico Berlinguer 1969-1984, cit., p. 118. 13 S. Pons, Berlinguer e la fine del comunismo, Torino, Einaudi, 2006. Cfr., inoltre A. Agosti, Bandiere rosse. Un profilo dei comunismi europei, Roma, Editori Riuniti, 1999. 14 Mi permetto di rinviare a E. Taviani, Il PCI nella società dei consumi, in R. Gualtieri (a cura di), Il PCI nell’Italia repubblicana, Roma, Carocci, 2001, pp. 285-326.

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della situazione internazionale. Alla fine degli anni Settanta però questo impianto non reggeva più, come avrebbe testimoniato il fallimento della prospettiva eurocomunista. In questo contesto l’affermazione – per dirlo in una parola − della “società dei consumi” ridusse la forza dell’antifascismo tradizionale, una cultura politica fondante per i comunisti e per la stessa democrazia italiana. Questo fondamento andava ricalibrato alla luce del mutamento nella società. Cambiava lo Stato, cambiavano la società e le modalità stesse dell’agire politico. La cultura del PCI non si mostrò pronta a reggere questo rivolgimento. Su questo terreno l’“eredità della Resistenza” presentò anche un aspetto, relativamente meno importante, ma doloroso. Si verificò – fu tentata più che altro − una saldatura tra alcuni ex partigiani e i movimenti estremisti nonché terroristi. Furono soprattutto questi ultimi a rivendicare una continuità con la resistenza armata15. Questi legami, insomma, toccavano un nervo scoperto della cultura politica del PCI che sulla Resistenza e sulla nascita della Repubblica fondava la propria legittimazione. Il punto non era quello dell’antitesi tra l’antifascismo e il comunismo, quanto quello della presenza di piccoli gruppi di ex partigiani delusi e disponibili a “investire” sui giovani estremisti. C’è da notare però come questo dato non deve essere enfatizzato, visto il carattere residuale di quella tradizione nello stesso PCI, che nel dopoguerra aveva liquidato in fretta le velleità rivoluzionarie delle minoranze più accese16. Anzi, in questo senso bisognerebbe discutere del tema della “rivoluzione tradita”, che fu 15 Vedi, ad esempio, l’insistenza su questo punto di Franceschini: G. Fasanella, A. Franceschini, Che cosa sono le BR, Milano, Rizzoli, 2004. In questo libro si dice riguardo a Moranino e alla Valsesia: «erano legati a lui quasi tutti i nostri compagni di quella zona: Enrico Levati, il medico, Alfredo Bonavita e poi un gruppo piuttosto consistente di ex partigiani. Erano quasi tutti seguaci di Moranino e iscritti al PCI. Sulle montagne della Valsesia ci addestravamo io, Renato e Mara. Più precisamente, la nostra base era proprio il casolare in cui, durante la guerra di Liberazione, era insediato il comando militare della Brigata Garibaldi», (ibid., pp. 105-106). Inoltre, Franceschini ricorda come questi rapporti con gli ex partigiani continuassero anche quando i fondatori delle BR entrarono in clandestinità. Sul gruppo di Reggio Emilia cfr. P. Pergolizzi, L’appartamento, Reggio Emilia, Aliberti, 2006. 16 Per tutti, R. Martinelli, Storia del Partito comunista italiano. Il Partito nuovo. Dalla liberazione al 18 aprile, Torino, Einaudi, 1995; M. Mafai, L’uomo che sognava la lotta armata. La storia di Pietro Secchia, Milano, Rizzoli, 1984.

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in primo luogo una parola d’ordine della cultura di ascendenza azionista. Del resto, Torino fu una delle culle del Sessantotto e della sinistra extraparlamentare (che quel tema riprese), oltre che del terrorismo di sinistra. Ad ogni modo, se nel PCI era forte la tradizione resistenziale – che era anche quella dei GAP, ecc. – era presente anche quella di un partito che in venti anni di fascismo non aveva sparato un colpo di pistola contro un regime che aveva mandato in galera e al confino migliaia di comunisti. Un partito che, in definitiva, non aveva adottato una linea di confronto militare con il fascismo neppure durante la guerra civile del 1920-22, in nome di un lavoro politico all’interno della società italiana. Il rifiuto di una prospettiva rivoluzionaria immediata quindi non trasse origine nel 1945 solo dal pericolo di una “prospettiva greca”, da un realismo politico di marca staliniana. Quando apparve il terrorismo di sinistra − o meglio quando se ne ebbe una percezione forte a livello di opinione pubblica con il caso Sossi nel 1974 – i comunisti videro in quel fenomeno essenzialmente una variante della strategia della tensione. Venne interpretato come una proiezione in Italia di forze oscure, come opera di una regia reazionaria unica. Naturalmente, in questo senso pesava la convinzione di un’avversione di fondo alla democrazia da parte delle classi dirigenti italiane, con in più il peso della guerra fredda e delle centrali di potere ad essa legate. Le stragi e la violenza neofascista produssero anche nel PCI una reviviscenza di un certo tipo di “antifascismo militante” e talvolta l’identificazione, molto poco convincente, del pericolo autoritario con la minaccia tout court di un ritorno del fascismo. Come si scriveva nel 1976 in una nota interna Sulle questioni dell’ordine pubblico – un esempio tra tanti documenti del genere: L’insieme dei fatti degli ultimi mesi e lo stesso succedersi dei fatti nell’ultima settimana portano un altro anello alla considerazione che il cervello, se non la mano, che presiede al tutto muova le file secondo le opportunità del momento, utilizzando di volta in volta destra e “sinistra”. Restano da definire con precisione complicità e collegamenti internazionali17.

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Non firmato, Roma 22 dicembre 1976 in IG, Archivio Ugo Pecchioli, b. 31.

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Prese dunque le mosse una tradizione interpretativa che vide nell’avvicinamento del PCI al governo l’unica spiegazione della violenza terroristica che si dispiegò negli anni Settanta. Negli anni più duri del terrorismo di sinistra, e non solo perché era l’ultimo arrivato nell’area di governo, il PCI, tra la difesa del proprio spazio politico e la difesa della democrazia e della Costituzione, scelse coraggiosamente – e talvolta rigidamente − la seconda strada. E non era un percorso facile, come fu rilevato in una riunione romana sui problemi della violenza: a) Problemi di orientamento. Molta insistenza circa la necessità di una grossa battaglia sulla centralità della difesa e sviluppo del terreno democratico. La consapevolezza che muovendoci su questo terreno siamo a un terreno “alto” della lotta (candidatura alla direzione dello Stato) non è omogenea. C’è stata attenuazione del respiro ideale, della costante capacità di aggancio del giudizio politico alle radici profonde della nostra strategia e tensione teorica. L’uscita da certe “gabbie” ideologiche è stata positiva ma talvolta percepita in termini pragmatici. Di qui derivano certe difficoltà a capire il ruolo del terrorismo per la rottura del rapporto classe operaia-democrazia ed anche limiti nella lotta per battere posizioni economicistiche, corporative alle quali l’estremismo si salda. L’esperienza romana conferma che l’azione eversiva incide più laddove prevalgono spinte corporative. Altri problemi di orientamento: dubbi sul fatto che il movimento popolare possa essere colpito da un indebolii dello Stato; certe tendenze a considerare l’attacco all’ordine democratico come diversivo per coprire l’attacco fondamentale sul terreno economico; Anche quando il problema politico dell’estremismo è visto come centrale si evita spesso di affrontarne la specificità (“sono fascisti”, tutte trame dei servizi segreti, ecc.)18.

Tra l’altro, sulla politica dei comunisti di quegli anni alcuni stereotipi vanno probabilmente rivisti19. La Costituzione era stato il collante della proposta di “riforme di struttura” del PCI, il suo quadro di riferimento. Inoltre, soprattutto dopo l’avvio delle regioni e dopo i risultati elettorali del 1975-76, il PCI era fortemente presente nelle istituzioni. Per usare un’espressione di allora, “si era fatto Stato”. La sua credibilità come soggetto 18 Nota sulla riunione alla Federazione romana sui problemi dell’estremismo, 29 novembre 1977 in IG, Archivio Ugo Pecchioli, B. 31. 19 Ad esempio − come ha scritto M. Gotor – il Partito comunista dette il suo tacito assenso al pagamento di un riscatto per Moro; M. Gotor, Le possibilità dell’uso del discorso nel cuore del terrore: della scrittura come agonia, in Aldo Moro. Lettere dalla prigionia, a cura di Id., Torino, Einaudi, 2008, pp. 268-269.

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politico capace di contribuire all’uscita dell’Italia dalla crisi e al suo rinnovamento derivava dal “buon governo” a livello locale. Questi argomenti furono messi in campo di fronte alle accuse di aver contribuito a determinare l’estraneità, se non l’ostilità, della masse rispetto allo Stato, di aver coltivato l’ideologia da cui si sarebbe mosso il terrorismo. Tuttavia dal 1968 il PCI si muoveva realmente tra due fuochi, ovvero tra l’accusa di aver tradito una prospettiva rivoluzionaria e, di contro, di non essere affidabile sul piano democratico. In effetti, pareva un ossimoro ideologico presentarsi come un partito comunista e rivoluzionario ma al tempo stesso difensore della democrazia parlamentare. Esisteva un problema reale sia rispetto a quale modello di Stato che immaginava e proponeva, ma anche quale Stato bisognava difendere. L’emergenza successiva al 1977 schiacciò effettivamente la prospettiva del partito su questi temi, facendo venire meno nei fatti – non nei programmi, che continuarono a invocare una profonda riforma delle istituzioni – l’azione per una riforma dello Stato. In una parola, il PCI diventò un “partito dell’ordine”. Se fino all’inizio degli anni Settanta si chiedeva il disarmo della polizia, in un breve lasso di tempo il PCI diventò un sostenitore della legge Reale e delle misure emergenziali. I punti di svolta furono due il 1974-75 quando – almeno a livello nazionale – si decise di rompere con l’estrema sinistra (ma i nessi continuarono ad essere forti nel sindacato, a livello di quartiere, ecc.), in base ai successi che anche a livello giovanile il PCI cominciava a mietere e, soprattutto, sulla base della linea del compromesso storico. Il secondo punto di svolta fu il 1977 quando in quel movimento – pur in presenza di elementi creativi, ecc. – sembrò saldarsi estremismo e terrorismo, violenza di piazza e terrorismo diffuso. Si vide non a torto una svolta. Il movimento del ’77, al di là della sua violenza e della creatività “avanguardistica”, fece emergere tutta una serie di temi che si collocavano oltre le colonne d’Ercole della cultura comunista. La scelta della difesa di istituzioni per molti versi screditate non costituì un passaggio facile e venne pagato a caro prezzo. Le resistenze nel partito furono significative sia rispetto alla difesa delle istituzioni – anche nel PCI era passata l’idea che il terrorismo di destra era stato per molti versi un terrorismo di Stato – sia rispetto, ovviamente a un accordo di governo con la DC.

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In una riunione interna alla fine del 1977, Ugo Pecchioli definì chiaramente il passaggio di fase e i pericoli che presentava, e quindi il difficile equilibrio in cui si doveva tenere la linea comunista20. La citiamo ampiamente perché da conto di molte questioni. Pecchioli disse ai segretari della maggiori federazioni del partito: «non vi sia equivoco sulla natura del terrorismo»: «esiste un terrorismo di sinistra diverso dal terrorismo fascista», «da una superficiale analogia deriverebbero conseguenze pratiche sbagliate»21. Finalmente si prendeva atto che non si trattava solo di “provocazioni” – la linea ufficialmente adottata fino a quel momento. Chiariva poi il dirigente comunista: «sono oggettivamente analoghe le finalità, anche se vi sono distinzioni da fare». Rispetto ai tanti dubbi che emergevano nelle organizzazione del Partito, spiegava: Inoltre evitare la tesi fuorviante che sempre e comunque ci sia dietro la macchina dello Stato […]. Nella collaborazione con le istituzioni dello stato ci sono certo pericoli da cui guardarsi. I contatti devono essere ben governati. Ma il pericolo è soprattutto l’altro: quello che si continui a considerare con ostilità le forze dell’ordine. Rettificare queste posizioni significa anche spingere avanti i processi di rinnovamento interno a questi corpi 22.

Questa linea avrebbe avuto successo solo – come poi effettivamente si sarebbe verificata nel corso del 1978-79 – se fosse stata accompagnata con un’azione politica: È valida la costruzione di strumenti che diano continuità (Comitati per l’ordine democratico per la difesa delle istituzioni democratiche ecc.). Creare con la forza, l’ampiezza delle iniziative e del dibattito una vera “prevenzione di massa”. Vi è urgenza di avere un impianto definito per questo

20 Una riflessione di Pecchioli su quegli anni è in: U. Pecchioli (con G. Cipriani), Tra misteri e verità. Storia di una democrazia incompiuta, Milano, Baldini&Castoldi, 1995. 21 Come ammise Ugo Pecchioli nel 1981: «si sono manifestati in anni passati in aree del movimento operaio e anche del PCI giudizi errati, spesso soprattutto ingenuamente increduli di fronte al fatto che terminologie e simboli della lotta operaia potessero essere utilizzati nel corso di azioni delittuose. Verso incomprensioni di questo genere (...) abbiamo non solo pubblicamente polemizzato ma lavorato per condurre ad una corretta analisi dei fenomeni terroristici»; U. Pecchioli, Introduzione, cit., p. 8. 22 Corsivo nostro.

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lavoro con un compagno idoneo allo studio dei problemi, ai contatti, alla proposta politica.

C’erano anche elementi nuovi: il più dirompente era quello relativo alle fabbriche, nel cuore dunque dell’insediamento sociale del PCI. Elemento di novità, la consistenza non indifferente delle organizzazioni terroristiche tra la classe operaia. Non si tratta soltanto dell’operaio disgregato, ma di quadri intermedi e superiori. Quali possono essere gli sviluppi e la strategia? Vi sarà una escalation verso sbocchi gravi se la risposta è debole. La forza della risposta crea impaccio, fa decrescere l’attacco terroristico che ha bisogno di un largo riflesso.

Alfa Romeo, Fiat, Marelli, Enel, Siemens, Italcable, ecc. La mappa della presenza delle BR e delle violenze toccava le principali cittadelle operaie. Pecchioli perciò rilevava la preoccupante intensificazione nelle fabbriche di atti di sabotaggio alle macchine, di violenze e danneggiamenti vari, di intimidazioni (oltre ai fatti più clamorosi riportati dalle cronache: incendi, ferimenti di capi e tecnici, ecc.). Vi sono stati d’animo di preoccupazione e di paura non solo nel personale dirigente, ma anche fra i lavoratori. Le Direzioni non intervengono mai (prima per interesse a gettar fango sui lavoratori, ma ora per paura fisica)23.

D’altronde, come era stato sottolineato in un altro incontro sui temi dell’estremismo e del terrorismo, quasi con le stesse parole, erano cresciute le basi che l’estremismo armato (a partire dalle Brigate Rosse) ha nelle grandi fabbriche. Tra Siemens, Marelli, Falk, Alfa Romeo si contano 20-30 elementi arrestati o latitanti per azioni di violenza armata o perché scoperti

23 Intervento di Ugo Pecchioli in Verbale della riunione del 24.11.77 sui problemi dell’ordine pubblico alla luce dei recenti avvenimenti, in IG, Archivio Ugo Pecchioli, B. 31. Alla riunione – che rappresentava la conclusione di un ciclo di incontri sui problemi dell’estremismo e del terrorismo – erano presenti dirigenti delle federazioni di: Torino, Milano, Genova, Roma, Napoli, Reggio Calabria. Questa intensificazione della raccolta di informazioni e della battaglia politica contro l’estremismo e il terrorismo erano state decise nella Segreteria del PCI del 3 novembre e, subito dopo, nella Direzione dell’11 novembre 1977, aperta da una relazione dello stesso Pecchioli (Ordine del giorno: Situazione dell’ordine pubblico); IG, APCI, 1977, MF 309. Si veda il documento, del novembre 1977, Note su riunioni in varie città circa il problema dell’estremismo, ibid.

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con armi. Soltanto per la Siemens vi sono 8 brigatisti rossi incriminati di cui due latitanti. Ma sono diversi fra gli estremisti quelli sospettabili di collegamenti con i gruppi armati, come dimostra – fra l’altro – la frequente diffusione di materiali a firma Brigate Rosse e NAP. (inoltre è dato per certo che vi sia gente che non viene “allo scoperto”: ad es. il “brigatista” Alasia di Sesto era considerato fra i più aperti e disponibili alla discussione). La preoccupante intensificazione nelle fabbriche di atti di sabotaggio alle macchine, di violenze e danneggiamenti vari, di intimidazioni (oltre ai fatti più clamorosi riportati dalle cronache: incendi, ferimenti di capi e tecnici, ecc.). Vi sono stati d’animo di preoccupazione e di paura non solo nel personale dirigente, ma anche fra i lavoratori. Le Direzioni non intervengono mai (prima per interesse a gettar fango sui lavoratori, ma ora per paura fisica)24.

Come si può rilevare anche da molti altri documenti di quegli anni, venivano mosse critiche severe e circostanziate al modo in cui i sindacati affrontavano il problema della violenza e del terrorismo nelle fabbriche dell’Italia Settentrionale: - rapporto estremismo-sindacato. È stata da più interventi segnalata con esempi concreti una deliberata tendenza della UIL a reclutare personale di stampo estremista (gente del MLS o di “autonomia”). Alla Siemens si segnalano pressioni UILM (ed anche FIM) per introdurre nell’esecutivo del Consiglio di fabbrica elementi sospetti di legami con le Brigate Rosse. Un dirigente provinciale della UILM di cui è stato fatto il nome, è ritenuto un organizzatore delle Brigate Rosse. Sono stati segnalati casi di difficoltà verificatisi nella stessa FIOM di fronte alla proposta di espellere dall’organizzazione elementi pur clamorosamente coinvolti in azioni provocatorie. - infine è stato osservato: a) gli elementi più attivi dell’estremismo di fabbrica sono soltanto in parte operai non qualificati; vi è una presenza assai notevole di tecnici e di livelli professionali qualificati (dal V in su); b) il fatto che are operaie come quella di Sesto producano notevole violenza nonostante la contentezza dei fattori di disgregazione sociale, dimostra che al di là degli schematismi sociologici, vi sono scelte predeterminate verso località dove i fatti terroristici possono assumere più forte risonanza politica; C) sono state espresse varie critiche ai comportamenti della polizia e degli organi dello Stato (con sottolineatura però anche dei limiti della nostra azione mobilitativi e di pressione) per passività variamente giustificate; ed anche per situazioni tipo quella di Arese dove in alcuni stabili attorno alla Alfa Romeo sono state concentrate decine di soggetti sottoposti a

24 Nota sulla riunione di Milano sul problema dell’estremismo, 3 novembre 1977, ivi.

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soggiorno obbligato. Ciò crea oggettive occasioni per inquinamenti vari anche tra gli operai (violenza, droga ecc.)25.

D’altronde, non è un mistero che ci furono reazioni positive ad attentati contro dirigenti di fabbrica o esponenti della DC. Rispetto a questo problema i primi risultati importanti per contrastare queste tendenze saranno colti solo dopo il 1978. Soprattutto dopo l’omicidio di Guido Rossa. Allora si consumerà la rottura con i frutti avvelenati – anche a livello di comportamenti violenti – della stagione iniziata con l’“autunno caldo”. Più in generale, secondo il PCI il terrorismo rappresentava una minaccia capitale per la linea politica del partito. Come ricordava Pecchioli nella citata riunione del novembre 1977:

25 Cfr. la Nota sulla riunione di Milano sul problema dell’estremismo, 3 novembre 1977, ivi. Alla riunione erano presenti, oltre a un dirigente della Sezione Problemi dello Stato), quadri dell’Alfa Romeo, Magneti Marelli, Siemens, delle fabbriche di Sesto S. Giovanni e Monza. «Accolta con soddisfazione la riunione. Diversi interventi hanno detto che di fronte alla gravità ed entità dei fenomeni, si hanno ritardi, talvolta tolleranze e che in genere il nostro quadro non è sufficientemente attrezzato alla battaglia politica verso l’estremismo. In effetti, sono emersi alcuni dati preoccupanti anche se c’è da tener conto che questo tipo di riunione – per la sua stessa angolazione – si presta a qualche unilateralità e squilibrio di valutazione rispetto alla complessa realtà del partito. Le più importanti questioni emerse: 1) Fabbriche. Il fronte dell’estremismo non può essere sottovalutato. In tutte le grandi fabbriche vi sono nuclei interni organizzati molto attivi che si richiamano alle varie formazioni: Avanguardia Operaia, Autonomia Operaia, LC, MLS. Anche nei Consigli di fabbrica sono presenti elementi dell’area estremista: Ad es. alla Siemens 15-20 delegati appartengono a gruppi estremistici. La pericolosità non sta nel numero, ma nella costante, rabbiosa agitazione che fa leva su aree di malcontento, su interventi di gruppo o settoriali, su problemi aperti e complessi, per mettere in discussione il quadro politico, le scelte sindacali, del partito. Nelle votazioni in assemblea (Breda, Alfa, Siemens) non vanno oltre i 50-100 voti, ma mentre parlano sono ascoltati e su taluni punti applauditi. In questo clima diventa più difficile valorizzare i risultati della difficile lotta sindacale e politica. Altri dati preoccupanti: […] Per quanto riguarda l’azione del partito e del sindacale sono state assai rimarcate le deficienze e i limiti. Ma tutti gli interventi hanno espresso una carica positiva. Sono state segnalate esperienze interessarti di lotta all’estremismo e iniziative in corso come quella della Siemens dove ad opera della FIOM è in preparazione un opuscolo di documentazione sulla violenza in fabbrica da porre a base di una campagna e lotta anche ideale. È stata avanzata la proposta di costituire nelle fabbriche comitati antifascisti e per l’ordine democratico».

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Aver presente le possibilità di attacco al PCI nel momento che vede crescere la tendenza a prepararlo ideologicamente [sic] Tanto più se si va a uno sviluppo del quadro politico complessivo che veda l’avvicinamento del PCI al governo. La progressione terroristica punta a disarticolare il rapporto classe operaia-democrazia, spingendo all’abbandono del terreno democratico e allo sviluppo di manovre scissionistiche all’interno del movimento operaio26.

Ma qual’era la visione del terrorismo di sinistra nel PCI e sui suoi rapporti con l’estremismo? Nel partito vi era sempre stata una conoscenza diretta e molecolare del mondo dell’estremismo di sinistra, della sua stampa, della sua propaganda e un ossessiva intelligence sulle sue fonti di finanziamento, per capire se vi fossero soprattutto dei Paesi stranieri dietro o la pura e semplice provocazione reazionaria. Questa attività di intelligence era stata una costante da prima del 1968, con un accelerazione dalla rottura con la Cina che si temeva potesse promuovere gruppi di sinistra e frazioni nel partito. Dopo il 1968-69 si ebbe un’ulteriore potenziamento di questa attività e dell’analisi di questi fenomeni, anche se all’inizio puntò sui cavalli sbagliati (e si concentrò sulla galassia marxista-leninista piuttosto che su Lotta Continua, Potere Operaio o Avanguardia Operaia). Fino a che nel 1974-75, con un grande convegno, venne deciso di chiudere con l’estremismo27. Ma sarebbe stata una transizione lenta, contro cui cospiravano i molti terreni di lotta comuni con la sinistra extraparlamentare (come sul terreno dell’antifascismo) e la maggiore permeabilità del sindacato. Dal 1976 l’attività di indagine si fece più capillare: come emerge dai documenti vennero intuiti molti dei caratteri che il movimento avrebbe assunto l’anno successivo28. Con il ’77 il 26 Intervento di Ugo Pecchioli in Verbale della riunione del 24.11.77 sui problemi dell’ordine pubblico alla luce dei recenti avvenimenti, cit. 27 Seminario sull’estremismo, Frattocchie 3-4 gennaio 1975 in IG, APCI, 1975, Mf 221 28 Cfr. il dossier Potere Operaio, in IG, APCI, Fondo Bertini, b. 3814 e anche la lunga analisi della situazione padovana, Padova, in ibid. Cfr., inoltre, Riunione a Padova sull’estremismo, 4 novembre 1977. In questa riunione emerse un dato singolare: data la capacità di tenuta dell’Autonomia Operaia padovana, le Brigate Rosse e il terrorismo non avevano ancora sviluppato una presenza significativa. La violenza era presente non ancora quella omicida. «Negli “autonomi” della città di Padova si allineano 2-3 posizioni differenti: un gruppo più teorico che fa capo a Toni Negri

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quadro interpretativo del PCI si precisò: venne individuato un piano eversivo che andava dall’Autonomia alle organizzazioni armate, con il supporto di gruppi di intellettuali. Si cercò anche un’interazione con gli apparati di pubblica sicurezza che procedeva dal massimo livello (Pecchioli e Cossiga) fino alle federazioni e alle Questure. Come dimostrò, ad esempio, − solo per citare un caso clamoroso – il famoso questionario distribuito a Torino nel quale la domanda relativa alle informazioni utili fu formulata da Giuliano Ferrara («avete da segnalare fatti concreti che possano aiutare gli organi della magistratura e le forze dell’ordine ad individuare coloro che commettono attentati, delitti, aggressioni, ecc.?»)29. Secondo i comunisti, il confine tra estremismo e terrorismo, in sostanza, si era dissolto. Come venne rilevato in un’altra delle riunione periodiche su questo fronte di lotta: ed è in collegamento con Scalzone; un’area legata ai “collettivi padovani” che si rifà ai marxisti-leninisti”; infine la frangia della cosiddetta “area creativa” disposta alla violenza (drogati, freak, ecc.). L’uso e il possesso di armi si è generalizzato. Alla casa dello studente gestita da “autonomia” sono stati ospitati brigatisti rossi. Da verificare il rapporto fra “Autonomia” e gli ultimi episodi di violenza variamente siglati. Si può parlare di 200-300 persone». 29 Domande del questionario piemontese sul terrorismo. «1) Quali sono, a vostro giudizio, le cause del terrorismo? 2) Quali gli ostacoli da rimuovere e le cose da fare per ottenere non solo l’isolamento morale ma la scomparsa del terrorismo? 3) Cosa dovrebbero fare le istituzioni (governo nazionale, Comuni, Province, Regioni)? 4) Potete segnalare fatti accaduti a voi personalmente o ad altri nel rione che rientrino nella criminalità politica (aggressioni, minacce, intimidazioni, attentati, incendi di auto o sedi, ecc.)? 5) Avete da segnalare fatti concreti che possano aiutare gli organi della magistratura e le forze dell’ordine ad individuare coloro che commettono attentati, delitti, aggressioni ecc.? 6) Avete delle concrete proposte da fare per migliorare la situazione nel nostro quartiere». Sui dossier e questionari cfr., tra le altre pubblicazioni Dossier sulla violenza eversiva a Roma, a cura della Federazione romana del PCI, Roma, 1977; Primo rapporto sull’inchiesta di massa sul terrorismo, a cura della Sezione Problemi dello Stato, Roma, Fratelli Spada, s.d. (aprile 1982); Direzione PCI − Sezione Problemi dello Stato − Federazione milanese, Commissione Problemi dello Stato, Primo Rapporto sull’Inchiesta di massa sul terrorismo, Milano, maggio 1982; L’Ordine Pubblico a Milano e in Provincia. Proposte per la convivenza civile e la sicurezza dei cittadini, n.f., s.d., (ma 1980-1), in Fondo Bertini, b. 3810. Cfr., inoltre, gli altri documenti contenuti in Fondo Bertini, b. 3815.

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a) Le fabbriche dove c’è una presenza delle BR sono quelle del gruppo Ansaldo (in particolare Meccanico nucleare e Ansaldo-San Giorgio); altrove basi di appoggio e di solidarietà. Risultano esservi legami anche all’ospedale di S. Martino. Sintomo dell’estensione dell’area è stato il passaggio di volantini depositati furtivamente a pacchi, ad una loro distribuzione. Il merito del volantino diffuso dopo l’attacco a Castellano denota un “salto”: dall’attacco ai dirigenti aziendali “fascisti” si è passati all’attacco al dirigente “riformista” con tentativo di collegarsi ad aree operaie di contestazione e perplessità nei cfr della politica del PCI, e di rompere l’alleanza con i nuovi dirigenti aziendali “avanzati”. Inoltre si assiste a un processo di nuovi “agganci” fra BR e mondo pur variegato dell’estremismo. SI stabilisce una “catena” progressiva di omertà. Non bisogna smarrite [sic] le distinzioni per poter suscitare “contraddizioni”, ma in questo momento i confini fra BR e autonomia, fra autonomia e LC, fra LC e AO sembrerebbero diventare più fluidi e ambigui. Ciò in relazione anche ad un tentativo di decentramento dell’azione nei quartieri. Su questo processo “aperto” occorre intervenire perché i nuovi “salti” di qualità nell’azione delle BR diverranno possibili solo se crescono le loro basi di massa30.

Dopo il 1977 il lavoro di indagine degli anni precedenti venne ulteriormente ampliato e messo al servizio di una lotta al terrorismo che vide il PCI affiancato alle forze di PS: la documentazione in questo senso è ampia e significativa31. Lo dimostrano, ad esempio le segnalazioni ad personam che si ritrovano nell’archivio del partito. L’analisi dei documenti brigatisti fu puntuale, furono istituite appendici della Sezione Problemi dello Stato in

30 Nota sulla riunione a Genova per i problemi dell’estremismo, 28 novembre 1977, in IG, Archivio Ugo Pecchioli, b. 31. Corsivo nostro. 31 Cfr. IG, APCI, Fondo Bertini. Si vedano i tanti documenti di analisi che la Sezione Problemi dello Stato, anche sulla base della sue sottosezioni create in tutte le principali federazioni del Partito, redasse in quegli anni. Si cfr., solo per citare i principali, quelli del 1978-79: Direzione PCI, Sezione Problemi dello Stato, Note per un aggiornamento sul fenomeno del terrorismo e della violenza, Roma, Settembre 1978; Id., Dossier, contratti e classe operaia nei quotidiani e periodici dell’estremismo e nei fogli dell’area eversiva, Roma, Ottobre 1978; Id., Nota sull’ultimo documento delle BR (settembre 1978), Roma, Ottobre 1978; Id., Nota sul documento delle Brigate Rose dedicato alla Fiat di Torino (Ottobre 1978), Roma, Dicembre 1978; Id., Nota sul documento delle Brigate Rosse dedicato all’Ansaldo e all’Italsider di Genova (Ottobre 1978), Roma, Gennaio 1979; Id., Nota sui nuovi sviluppi del terrorismo, Roma, Giugno 1979; “Attacco eversivo oggi, area estremista, scelte di lavoro”, Relazione del compagno Bruno Bernini [sic] alla riunione del gruppo di studio sul terrorismo e sui problemi dell’estremismo (21 settembre 1979).

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tutte le principali federazioni del partito32. La battaglia fu condotta però in primo luogo, faticosamente, sul terreno politico cercando di isolare il terrorismo. Non senza battute d’arresto. Come ricordò Borghini, illustrando la situazione in Lombardia nel 1978: Non siamo riusciti a creare un effettivo isolamento attorno ai terroristi. Per questo obiettivo necessita una grande campagna nazionale. Difficoltà fra gli studenti: in un liceo è stata “votata” l’espulsione della FGCI, altrove ci sono applausi per gli attentati, si mettono in minoranza nostri documenti […]. Alla conferenza di produzione dell’Alfa risono sentiti fischi alla lettura del documento di condanna per l’attentato al consigliere d.c. Vigili urbani sono spesso disarmati senza che vi siano proteste. Alla Marelli un elemento noto quale “brigatista” è stato più volte rieletto “delegato” finché non è stato arrestato sorpreso con armi33.

Anche in Piemonte, come emerse in quella stessa riunione, la situazione era estremamente difficile. Negli anni tra il 1975 e il 1979 si svolse infatti la drammatica vicenda del processo ai capi storici delle Brigate Rosse, che innescò – soprattutto dopo i reiterati e fallimentari tentativi di costituire una giuria popolare – un dibattito a livello nazionale (vedi, ad esempio, la discussione tra Giorgio Amendola e Leonardo Sciascia). Ma proprio da Torino, con un’azione che vide il concorso del PCI, degli altri partiti, della magistratura, delle amministrazioni locali, si profilò un modello di azione antiterrorismo fondata in primo luogo su una risposta politica34. Definire le parole d’ordine appropriate e mobilitare il movimento risultò però un compito arduo.

32 Una delle prime messe a punto sul terrorismo e sul suo rapporto con l’estremismo venne tentata al Seminario delle Frattocchie su Estremismo, terrorismo, ordine democratico, (cfr. «L’Unità», 23 dicembre 1977). Cfr. anche B. Bertini, P. Franchi, U. Spagnoli, Estremismo, terrorismo ordine democratico, Roma, Editori Riuniti, 1978. 33 IG, Archivio Ugo Pecchioli, Verbale della riunione del 24.11.77 sui problemi dell’ordine pubblico alla luce dei recenti avvenimenti , cit. 34 Cfr., inoltre, solo per citare alcuni titoli, M. Cavallini, Il terrorismo in fabbrica, interviste con gli operai della Fiat, Sit-Siemens, Magneti Marelli, Alfa Romeo, Roma, Editori Riuniti, 1978; B. Mantelli, M. Revelli, Operai senza politica - Il caso Moro alla Fiat e il «qualunquismo operaio» - Le risposte degli operai allo Stato e alle BR registrate ai cancelli della Fiat durante i 55 giorni del rapimento di Aldo Moro, Roma, 1979; D. Sanlorenzo, Gli anni spietati. I comunisti nella lotta contro il terrorismo. Torino 1972-1982, Roma, Edizioni Associate, 1989.

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Se non si va a una svolta c’è da presumere che la prossima volta il terrorismo colpirà quadri sindacali e comunisti. Torino prescelta perché sede del processo alle BR, ma soprattutto perché grande dentro di concentrazione operaia. Conoscere meglio le finalità. Non c’è chiarezza. Tendenza a identificare terrorismo e fascismo. Anche se si tratta di nemici entrambi mortali, tale posizione rischia di non essere credibile. Fino a un certo partito c’è convergenza di obbiettivi. Ma poi c’è peculiarità. Fabbriche: alla Fiat-presse 5 dirigenti su 19 sono stati colpiti; alla Singer c’è nucleo simpatizzante; alla Olivetti dopo Casalegno, alcuni delegati distribuivano volantini di solidarietà con i “coraggiosi”, pur negando l’utilità dell’attentato (il Consiglio dei delegati non è riuscito a prendere posizione per resistenza della CISL e di parte della CGIL; si sono pronunciati soltanto PCI e UILM). Per l’attentato Ferrero: i 2 terroristi saltati in aria avevano contatti con esuli cileni collegati ai sindacati. Distinguere fra terroristi – area di sostegno e più larga area simpatizzante. Alle manifestazioni contro la chiusura dei “covi” o altre circostanze, scendono in piazza 3-4000 (l’area più larga di militanza). Già conseguiti effetti e guasti né è giusto pensare si tratta di “colpi di coda” (Levi). Di fronte al terrorismo vi è stata crescita di iniziative delle istituzioni democratiche (Consiglio regionale, Comune di Torino), anche se vi è qualche rischio di ritualismo. Più unità fra i partiti. Cresciuta la partecipazione DC. C’è “tenuta” della borghesia torinese (La Stampa). Vi è stato un “salto” nelle reazioni35.

In più di un’occasione emersero lagnanze rispetto alle difficoltà incontrate nei rapporti con le forze dell’ordine; con più di un sospetto che terroristi neri e rossi venissero, malgrado le segnalazioni, lasciati liberi di operare, o che addirittura ci fossero 35 «Ai funerali di Croce c’erano poche centinaia, dopo Ferrero non ci fu sciopero ma “fermate” e la manifestazione fu un “attivo”di partito. Con la morte di Crescenzio si ha un primo “salto”: sciopero di un quarto d’ora, forte partecipazione operaia ai funerali, massiccia quella degli studenti. Per Casalegno la manifestazione in piazza S. Carlo è stata abbastanza forte. Ma permane sfasatura fra grado di impegno e crescita dei guasti ad ogni atto terroristico. Segni di incrinatura e di allarme. Per Casalegno c’è stato sciopero di 1 ora (per la prima volta) fatto in molte fabbriche: non riuscito a Mirafiori, Olivetti, Ceat. Si è troppo spesso “mitizzato” la Mirafiori dove in realtà i tre sindacati organizzano solo il 38%. L’assemblea di ieri ha confermato quanto scritto da Pansa. Colpisce la impunità (“non li prendono”); emergono problemi di orientamento pol. Dilaga la paura anche per l’intreccio con la crescita di reati comuni. Ripercussioni in tutta la regione: parecchi si armano. Su 19 avvocati estratti per il processo alle BR solo tre hanno accettato: un comunista, un liberale di destra, uno dell’area di sinistra (tra i rifiuti, quello del capogruppo socialista al Consiglio comunale). È necessario che il governo dia dei segnali politici: ad esempio, “scorte” per avvocati e giurati». Intervento di Ferrero, ivi.

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– come affermò un dirigente veneto – degli “inquinamenti”36. Colpiva l’impunità dei terroristi. L’impunità ha provocato paura e guasti. Ma soprattutto: non del tutto chiara a noi stessi la tattica e la strategia del terrorismo: esistono inoltre zone d’ombra nelle forze di sicurezza. Gli iscritti delle BR rivelano scelte oculate e prefigurano tappe successive. Al di là della lotta armata si cerca di far leva sul malcontento operaio azienda per azienda con azione che si integra a quella dei gruppi di opposizione operaia (ad es. a Genova “Lotta comunista” che ora ha abbandonato le intemperanze ha 18 sedi, attrezzature ecc.). Vi è spesso un linguaggio comune e più estesa presenza dei gruppi dove maggiori le aree di malcontento, la debolezza FLM.

L’interrogativo è se si può parlare, almeno per i primi anni del terrorismo di sinistra, di una “doppiezza” interpretativa dei comunisti rispetto al terrorismo. Il terrorismo di sinistra era essenzialmente “provocazione” o qualcosa di più? La mole di notizie raccolte andava in questa seconda direzione. Il PCI sapeva di più di quanto appariva sulla sua stampa; alcuni terroristi erano noti sicuramente di più di quanto venisse dichiarato ufficialmente: alcune vicende personali (come quelle di alcuni ex militanti della Fgci di Reggio Emilia) e le carte confermano in parte questo giudizio. Si erano avuti dei contatti come nel caso, di Malagugini nel 1974. Più che di una doppiezza parlerei di un doppio inganno che si scioglie quando, malgrado la constatazione della “sostanza oggettivamente provocatoria” del terrorismo rosso, si prese atto del carattere ampio e articolato delle organizzazioni armate. Alcune motivazioni della cautela con cui si affrontò questo argomento sono evidenti. Rispetto, ad esempio, ai suoi ex militanti di Reggio Emilia vi fu il timore che i bandoli della matassa delle Brigate Rosse portassero al Partito, e che questo fatto potesse rappresentare, insieme ai condizionamenti internazionali, un ostacolo rispetto all’ingresso nell’area di governo. Da qui anche l’insistenza, ad esempio, sulle figure

36 «Per i corpi dello Stato è in atto uno scontro fino a scambiarsi accuse e informazioni inquinate. Indagini che pure hanno basi probanti restano ferme. La Magistratura è ferma, e c’è un clima di sospetto (si dice che non ci si può fidare di nessuno). La Magistratura ha rifiutato il mandato di cattura per Azzolini, richiesto dalla PS Nonostante le segnalazioni non c’è mai stata presenza della polizia nei punti dove si è soliti distribuire volantini delle BR».

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dei “cattolici” Curcio e la Cagol sulla stampa. Ci fu poi il timore che all’Est i terroristi avessero trovato appoggi e incoraggiamento (e sappiamo come l’Urss fosse attivamente e tenacemente avversa alla linea di Berlinguer), da cui la famosa missione informativa a Praga per capire se i terroristi rossi fossero attivamente addestrati, armati e appoggiati dal blocco orientale. Oltre ad affermare l’estraneità della tradizione comunista (italiana) rispetto al terrorismo, si considerava infine la violenza come il frutto di una società viziata dagli squilibri, come la conseguenza dell’incapacità del capitalismo di dare risposte ai problemi, «della crisi di fiducia nella ragione che generava angoscia e rabbia»37. L’antidoto rispetto a una compromissione ideologica con il terrorismo e le posizioni più violente dell’estremismo fu trovato, in ultima analisi, nell’enfatizzare l’originalità della via italiana al socialismo e del pensiero di Gramsci, anche in contrapposizione con letture di sinistra della storia del movimento operaio. Non bisogna poi dimenticare che nel PCI si pensava che il terrorismo, per le classi dirigenti, per chi la utilizzava politicamente, svolgesse la stessa funzione della strategia della tensione. Convinzioni confermate dal fatto che quando le BR balzarono al centro dell’attenzione finirono le stragi e i complotti golpisti, almeno quelli di impostazione tradizionale, come dire. Del resto lo shock di piazza Fontana e della strategia della tensione – l’idea che la democrazia (che la si considerasse solo una facciata o meno poco importa) fosse a rischio − non era stato vissuto solo dagli estremisti di sinistra. Com’è noto già dopo il colpo di Stato nel 1967 dei “Colonnelli” in Grecia, la Direzione del PCI aveva discusso di possibili pericoli golpisti ed aveva inviato militanti fidati del partito in Urss perché fossero addestrati ad attività di “difesa attiva” (preparazione di documenti falsi, uso di ricetrasmittenti, ecc.). È altrettanto noto – come testimoniano anche gli “allarmi” discussi presso la Segreteria del Partito – 37 Su questo punto cfr. tra i tanti documenti possibili: Istituto Gramsci, La crisi della società italiana e gli orientamenti delle nuove generazioni. Atti del Convegno tenuto a Roma il 7-9 ottobre 1977, a cura di F. Ferri, Roma, Editori Riuniti, 1978; U. Pecchioli, Prefazione, in M. Galleni (a cura di), Rapporto sul terrorismo. Le stragi, gli agguati, i sequestri, le sigle 1969-1980, Milano, Rizzoli, 1981, pp. 5-44.

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che le segnalazioni di minacce alla democrazia furono frequenti negli anni Settanta, tanto da costringere i dirigenti ad adottare misure precauzionali38. Come venne scritto ancora in un documento interno del 1977: Il terrorismo quindi, nel suo complesso, è oggettivamente collegato ad un disegno reazionario e in questo senso si colloca contemporaneamente contro il sistema democratico e contro il movimento operaio e il nostro partito. A questa finalità oggettiva del terrorismo corrisponde certamente anche una utilizzazione, una guida che lucidamente vuole la strategia della tensione. Al di là di ogni illusione o follia “rivoluzionaristica” degli adepti del terrorismo e di molti teorizzatori della violenza contro lo stato borghese, ci sono i finanziamenti e la serie di cerniere attraverso le quali i burattinai, anche di estrazione internazionale, fomentano, utilizzano e in parte dirigono questi fenomeni per finalità autoritarie o anche per sbocchi di carattere golpista. Non possiamo certo illuderci che le forze le quali hanno ieri sognato e organizzato il colpo di Stato siano state definitivamente sconfitte39.

Tale era la forza di questa convinzione che si arrivava ad affermare – come nel caso di Sesto S. Giovanni che: «il fatto che 38 Come affermò Luigi Longo in un incontro con i sovietici del 1970: «se applichiamo bene la linea democratica seguita fino adesso il pericolo di colpo di stato non lo vedo. Il pericolo del colpo di stato o di una sterzata a destra può venire dall’esterno, dall’America, dal patto Atlantico per l’influenza che esso esercita sullo stato. Certo, da quella parte ci è più difficile operare e solo relativamente ci può venire in aiuto l’azione internazionale. Un peso decisivo assume la nostra politica nel senso di stabilire collegamenti politici e operativi con le altre forze di sinistra per premere sulle autorità stesse. Noi vediamo il formarsi di gruppi fascisti. Si tende a organizzare queste forze. Contro tutto questo dobbiamo premere perché questo stesso governo lo impedisca. Abbiamo conquistato la democrazia, la costituzione, dobbiamo premere perché questi strumenti siano utilizzati. Avverrà il ricorso alla forza? Noi dobbiamo essere preparati a possibili tentativi. Dobbiamo avere una iniziativa di difesa e di attacco; dobbiamo saper reagire con la forza delle masse nelle piazze per la difesa della legge. Credo che questo problema debba essere visto dai nostri organismi dirigenti, e si debbano fare dei piani più concreti. Non dico che si debbano accumulare armi negli scantinati. Io ho qualche esperienza in merito agli inizi del fascismo. Ma siccome il fascismo era appoggiato dagli organi dello stato, le poche pistole e i fucili arrugginiti che riuscimmo a mettere insieme servirono solo per farci arrestare»; IG, APCI, MF 57, Verbale dell’incontro conclusivo tra le delegazione del PCUS guidata dal compagno Pelsce e del PCI guidata dal compagno Longo, Roma 1.12.1970. 39 Contributo al dibattito e all’orientamento del Partito sui temi della criminalità, del terrorismo e dell’ordine democratico, s. d., in IG, Archivio Ugo Pecchioli, b. 31.

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aree operaie come quella di Sesto producano notevole violenza nonostante la contenutezza dei fattori di disgregazione sociale, dimostra che al di là degli schematismi sociologici, vi sono scelte predeterminate verso località dove i fatti terroristici possono assumere più forte risonanza politica», cioè un orientamento anticomunista40. Questa interpretazione si trasformava, per molti versi, in un’esorcizzazione di un problema complesso. Rilevare – come si faceva nella Sezione problemi dello Stato − la base relativamente ampia del terrorismo (circa mille terroristi, diecimila sostenitori attivi, e molti altri alla finestra a guardare come sarebbe finita) collideva con l’idea di un grande complotto. I complotti, le azioni segrete, difficilmente trovano basi di massa. A quel punto anche se strumentalizzato da queste regie reazionarie, il terrorismo di sinistra e l’estremismo armato si saldarono, nella visione del PCI, in un unico complotto a cui sembrò dare ragione l’inchiesta del magistrato Pietro Calogero. Dal caso Moro in poi – con un’accelerazione dopo l’omicidio di Rossa – il PCI cominciò a fare terra bruciata intorno ai terroristi, all’estremismo e a quella che considerava l’area di fiancheggiamento intellettuale. Segnalando a Berlinguer una serie di ragioni per non trattare con le Brigate Rosse, nei giorni del sequestro Moro, Tatò affermava che era anche per non «fornire l’avallo alla grande mistificazione che sta tentando di mettere in piedi l’area di opportunistica compiacenza e di torbida simpatia creata attorno alle BR dai Bocca e dai Galli, dagli Sciascia e dai Foa, dai Pannella e dai Muscetta, da “Lotta Continua” e da “Autonomia”, ecc.». Il disegno di quella «gentaglia» era per Tatò «giungere a dimostrare che solo grazie a loro, solo alla loro politica demenziale e criminale si riesce finalmente a mettere a nudo l’inganno del PCI e a mostrare a tutti la DC “per quella cosa sporca che è”»41. In un documento della Sezione problemi dello Stato si ricostruiva la genealogia del terrorismo in Italia:

40 Nota sulla riunione di Milano sul problema dell’estremismo, 3 novembre 1977, cit. 41 Caro Berlinguer, cit., pp. 67-68.

il terrorismo rosso, la violenza e la crisi della cultura politica del pci

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La nascita del terrorismo nel nostro Paese ha una data abbastanza precisa: il dicembre del 1969, la strage di piazza Fontana. O meglio l’anno 1969, perché piazza Fontana è preceduta di qualche mese da altre azioni, in parte fallite, nelle quali la qualità del terrorismo è ben visibile […]. L’obiettivo fondamentale da battere è il nostro partito. Sono gli anni in cui la classe politica al potere, anche se non è direttamente coinvolta in un progetto anti-democratico, affida le proprie speranze di sopravvivenza e stabilizzazione alla strategia degli opposti estremismi, cerca di cavalcare strumentalmente l’estremismo di destra da un lato e di indicare dall’altro come componente di quello di sinistra il nostro partito, attraverso un miserabile tentativo di mistificazione della funzione reale, democratica e nazionale, che appartiene a tutta la nostra storia” […]. Che la struttura stesso del sistema capitalistico italiano tende a riprodurre, per autoconservarsi nei suoi aspetti più retrivi, il fascismo e che è funzione storica delle classi popolari, e della classe operaia innanzi tutto, garantire il sistema democratico che, per ciò stesso, diviene insieme il terreno e lo strumento per il cambiamento e la trasformazione della società. A partire dal 1974 vengono emergendo nuove forme di terrorismo contraddistinte da sigle e formazioni che si autodefiniscono “rosse” e “di sinistra” […]. Il fenomeno del terrorismo “rosso” appare più complesso del primo, si appoggia su determinate aree di solidarietà ed è sostenuto da notevoli tentativi di teorizzazione ideologica e culturale.” Attorno “prima area di “consenso attivo” rappresentata dalla cosiddetta “autonomia”, che pratica e afferma la violenza come strumento di lotta politica, ricorre all’uso delle armi assai spesso e rappresenta un potenziale campo di reclutamento per le formazioni clandestine, oltre a garantire ad esse copertura ed informazioni. Ma vi è anche un’area più esterna, che potremmo definire di “consenso condizionato”, la quale si interroga sulla produttività del terrorismo ma ha, in comune con esso, un programma di destabilizzazione del sistema democratico presentata come “necessaria” e conduce una battaglia molto decisa contro la linea del movimento operaio organizzato e del nostro partito, spesso considerando i terroristi “compagni che sbagliano”42.

42 «Certamente il nostro giudizio politico non può arrestarsi qui. La realtà del terrorismo è complessa, ed erroneo sarebbe vederla come quella di una costruzione creata, architettata e voluta dall’alto. Essa ha radici nei mali profondi della società italiana, che la crisi che stiamo attraversando rende particolarmente drammatici: squilibri, emarginazioni dal processo produttivo di gran parte della gioventù, ingiustizie, contrasto fra ricchezza e miseria, malgoverno, scandalo,iniquità di ogni genere. La punta terroristica, come abbiamo già visto, ha collegamenti con un’area in cui disperazione e schematismo fanno individuare la violenza come mezzo prevalente per la lotta politica; e di questa violenza esiste una teorizzazione che la giustifica ideologicamente e culturalmente” […]. Liberarsi da riserve mentali. “Occorre quindi che ad

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Emergeva l’ossessione tipica del gruppo dirigente del PCI di quegli anni che il Partito comunista e la sua avanzata fosse l’unico movente del terrorismo. In realtà, il PCI e lo spostamento a sinistra della società italiana era uno degli obiettivi del terrorismo, ma non l’unico.

ogni livello il Partito si liberi da ogni residua remora del passato ancora oggi presente, e cioè dal settarismo, dall’operaismo, dall’economicismo e dal mito stesso della classe operaia come forza sempre e comunque demiurgica della società moderna: la classe operaia è in grado di cambiare la società non per innata virtù, ma se partendo dai propri interessi è, nella concreta realtà storica, in grado di fare sempre più un salto verso una funzione generale e universale; di investirsi – assumendone la direzione – dei problemi generali della società». Contributo al dibattito e all’orientamento del partito sui temi della criminalità, del terrorismo e dell’ordine democratico, cit.

Emanuele Macaluso Il PCI e la rivoluzione in Italia

Nel corso del mio intervento affronterò la questione della violenza in rapporto alla politica del Partito comunista. La prima cosa da dire è che, quando nel 1944 Togliatti tornò in Italia dall’Unione Sovietica, nel primo discorso che fece a Napoli pose dei punti fermi che a mio avviso costituiscono anche oggi una sorta di rifondazione del Partito comunista rispetto alle ragioni che avevano portato alla sua nascita nel 1921. In quell’occasione, la parola d’ordine che campeggiava nel teatro Goldoni di Livorno, dove ebbe luogo la scissione dal Partito socialista, era: «faremo come in Russia», cioè faremo la rivoluzione. E furono accettati i dieci punti dell’Internazionale comunista, tra i quali quello che prevedeva la separazione con i socialisti riformisti: dominava una concezione della violenza rivoluzionaria come levatrice della storia. Nel 1944, a Napoli Togliatti invece disse: «Non faremo come in Russia». In altre parole, disse che in Italia non ci sarebbe stata una rivoluzione comunista, ma un’altra cosa, ciò che più tardi avrebbe definito la via italiana al socialismo. In quel primo discorso, inoltre, il leader politico delineò anche quali erano i cardini della sua strategia: innanzitutto, la necessità di arrivare al socialismo percorrendo la via democratica e parlamentare. Quindi il parlamento non era più inteso, come nella visione leninista, in quanto tribuna da cui fare propaganda, luogo da utilizzare ai fini della strategia rivoluzionaria, ma diventava la sede di una lotta politica per realizzare riforme capaci di trasformare il paese e, attraverso le riforme, approdare al socialismo. Inoltre, Togliatti si attivò per costruire il partito

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di massa, superando la concezione del partito leninista, cioè del partito di quadri addestrato a guidare una rivoluzione, a prendere il potere attraverso la rivoluzione. Il leader comunista voleva infatti un partito simile a quello dei socialdemocratici tedeschi, presente in tutti i gangli della società e capace di condurre una lotta di massa per trasformare, attraverso il riverbero di queste lotte nel parlamento, l’economia, la società e per conquistare, secondo le intuizioni di Antonio Gramsci, un’egemonia politico-culturale. Quindi una strategia che escludeva l’uso della violenza. Nel 1944-1945, ci furono delle jacquerie, delle insurrezioni nel Mezzogiorno molto violente. Io ho assistito ad alcune di queste manifestazioni. Ricordo che nel 1944 (lavoravo già nel sindacato presso la Camera del lavoro di Caltanissetta) andai al comune di Mezzanino, un grande centro feudale. I contadini stavano incendiando tutti i palazzi baronali − il comune, l’esattoria, la caserma dei carabinieri, tutti i centri del potere − con una ferocia e con una determinazione impressionante. Ci fu anche la rivolta di Caulonia, in Calabria, dove fu addirittura proclamata la repubblica. Togliatti, proprio riferendosi a questo episodio, in un discorso a Roma disse che i suoi autori – che erano, diciamo così, di matrice comunista – dovevano essere tutti arrestati e puniti perché l’Italia democratica non avrebbe dovuto sopportare queste forme di lotta. Nell’agrigentino, per fare un altro esempio, c’erano dei comunisti armati che mettevano anche falce e martello stampata sul calcio del fucile. Questi andarono in montagna a fare i Robin Hood, nel senso che avevano in mente di espropriare le proprietà e di distribuirle al popolo. Anche questi furono combattuti dal Partito comunista e vennero denunciati, perché fosse evidente che queste forme di insurrezionalismo erano radicalmente divergenti dalla politica del partito. Ma vorrei ricordare altri due momenti per sottolineare la coerenza di Togliatti nel combattere questa battaglia. Nel 19451946, quando Scelba sostituì i prefetti ed i questori nominati dai CLN, a Milano ci fu una specie di insurrezione. I partigiani si recarono immediatamente con i camion in prefettura per difendere Ettore Troilo − che era un prefetto di nomina politica, anche se non militava nel PCI ma nel Partito d’azione – e im-

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pedire il tentativo di sradicare dalle istituzioni i rappresentanti della Resistenza. Giancarlo Pajetta, che era uno dei massimi dirigenti del PCI, dall’ufficio di Troilo telefonò a Togliatti e gli disse: «Abbiamo preso la prefettura, siamo nella prefettura», e Togliatti gli rispose: «E ora che te ne fai?». Anche quando il segretario del Partito comunista subì l’attentato nel luglio del 1948, quando gli spararono riducendolo in fin di vita, la prima cosa che disse fu: «Calma, attenzione a quello che si fa». Sappiamo che ci furono, anche in quel momento, delle forme di lotta di tipo insurrezionale. Furono disarmati i carabinieri in molte zone, furono occupate le loro stazioni (in Sicilia, a Riesi, nella caserma dei carabinieri al posto del maresciallo andò a sedersi un vecchio bracciante che era stato tanti anni in carcere durante il fascismo: era convinto di aver preso il potere). Ci furono poi le occupazioni delle fabbriche, fu proclamato un sciopero generale senza data conclusiva, quindi non uno sciopero di 24 ore o di 48 ore di protesta, ma uno sciopero senza un termine preciso. Fu Di Vittorio, ad un determinato momento, d’accordo con Scelba − questo è stato raccontato da loro due stessi nelle proprie memorie – che ad un certo punto andò alla radio a dire che lo sciopero era finito. Nonostante gli arresti di massa che ci furono, lo sciopero finì, e finì con un intervento forte del PCI, delle sue organizzazioni, dei suoi dirigenti, perché non corrispondeva appunto alla strategia che il partito si era dato. Ho voluto fare questo quadro perché non c’è dubbio che dopo la Resistenza, come è stato ricordato da Taviani e da altri in questa occasione, ci fu qualcuno che parlò di Resistenza tradita. La Resistenza tradita perché, come nel libro di Claudio Pavone sulla Resistenza è detto giustamente, la Resistenza ebbe tre componenti: la guerra di liberazione dal fascismo, la guerra civile e una guerra di classe, cioè di una parte che partecipava alla Resistenza con l’intento di arrivare al socialismo, di espropriare i padroni, di colpirli1.

1 C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1991.

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Quando il Comitato di liberazione nazionale, quando il Partito comunista dissero, dopo il 25 aprile, che la Resistenza era finita, la Resistenza in realtà non finì. Ci fu la Volante rossa, continuarono le uccisioni non solo dei fascisti ma anche di proprietari terrieri, di alcuni considerati fascisti ma che in realtà erano semplici borghesi, nello spirito di una lotta di classe che doveva continuare in nome della Resistenza. E quando qualcuno dice che gli uomini delle Brigate Rosse, soprattutto quelli provenienti dalla zona di Reggio Emilia, raccolsero questo messaggio – che la Resistenza era stata tradita e che era quindi necessario dare una risposta armata alla borghesia − è perché proprio nel reggiano questa idea della Resistenza tradita ebbe un forte impatto. Da questo punto di vista c’era indubbiamente una contraddizione. Una contraddizione che anche io penso dipendesse dalla responsabilità politica del Partito comunista. Qual è questa responsabilità? Che la linea elaborata da Togliatti non si affermò attraverso una revisione ideologica; anzi, non ci fu nessuna revisione ideologica. Del resto Togliatti fece quella scelta non perché considerasse la violenza un fatto negativo, qualcosa a cui non bisogna mai ricorrere. Egli, infatti, restò sempre dentro la logica leninista. Togliatti partiva da una concezione realista della politica: aveva ben presenti gli esiti delle vicende rivoluzionarie nei vari paesi europei, il loro fallimento, e sapeva che dopo Yalta era impensabile comportarsi diversamente. Non a caso fu uno di quelli che per primi condannò la guerriglia greca, considerandolo un esempio negativo in quanto la violenza era continuata anche dopo la conclusione della guerra di liberazione. Egli non partiva quindi da una revisione ideologica, ma da una visione politica che gli faceva dire: «questa fase è chiusa». E infatti, se la rivoluzione sembrava possibile in Algeria, a Cuba o in altre parti del mondo, i comunisti non avevano problemi a sostenerle in quanto rivoluzioni nazionali e sociali. La rivoluzione cinese, ad esempio, nel 1948-1949, me lo ricordo benissimo, fu seguita con grande partecipazione dai comunisti italiani. In Sicilia c’erano alcune sezioni contadine del PCI che avevano la carta geografica della Cina. Questi contadini segnavano i punti dell’avanzata di Mao Tse-Tung e dell’armata cinese con una partecipazione dovuta anche al fatto che quella era una rivo-

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luzione contadina, oltre che una rivoluzione comunista e una rivoluzione nazionale. Erano i contadini cinesi i rivoluzionari e ciò li spingeva a una compartecipazione profonda. La nuova strategia del PCI non era quindi l’approdo ad un’altra linea, cioè alla linea socialdemocratica. Fu, diciamo così, un ragionamento sull’impossibilità di una rivoluzione in Europa attraverso la violenza. Non a caso questa strategia togliattiana aveva un altro punto di riferimento: il rapporto, come lui stesso diceva «di ferro», con l’Unione Sovietica, con il paese dove c’era il «socialismo reale». Siamo quindi di fronte ad un quadro in cui la strategia della via italiana al socialismo – che era una strategia irreversibile, non tattica ma strategica – non si dispiegò nel quadro di una revisione ideologica capace di far approdare il partito alla sponda socialdemocratica. E, del resto, non dobbiamo dimenticare che questa restò la linea fondamentale del PCI fino a Berlinguer. Ci sono poi altri fatti che vorrei segnalare. La strategia togliattiana non solo combatteva la prospettiva rivoluzionaria, ma combatteva anche quelle forme che richiamavano la strategia rivoluzionaria senza avere la possibilità di dar loro uno sbocco. Si è molto discusso, anche nella storiografia, del ruolo che nel gruppo dirigente del PCI ebbe Pietro Secchia, il responsabile dell’organizzazione del PCI fino al 1954. Pietro Secchia era un uomo di grande temperamento che godeva di un grande prestigio all’interno del partito; era stato tanti anni in carcere e aveva una capacità di lavoro straordinaria. Egli aveva una linea politica diversa da quella di Togliatti, perché riteneva che la via parlamentare, il «parlamentarismo» di Togliatti, fosse un freno all’azione di massa e che si dovesse quindi spostare l’accento su quest’ultima – con grandi scioperi, grandi movimenti di massa − perché solo questi erano capaci di modificare i rapporti di forza e di permettere il passaggio al socialismo. Secchia espose le sue convinzioni a Stalin e tentò di scavalcare Togliatti proprio invocando l’autorità del leader sovietico. Ma Stalin disse «no», perché non rientrava nemmeno nella sua strategia la possibilità di dar vita a movimenti rivoluzionari. Nel 1954, dopo lo scandalo che travolse Secchia, il quale amministrava anche le finanze del PCI, a causa del fatto che l’uomo di

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cui si fidava fuggì portando con sé la cassa del partito, fu sostituito nel compito di responsabile dell’organizzazione. Ecco qui il punto. Chi scelse Togliatti come responsabile dell’organizzazione in sostituzione di Secchia? Scelse Giorgio Amendola. In quegli anni, nel gruppo dirigente del PCI c’era una parte che proveniva dalla scissione di Livorno – ed era la parte fondamentale del partito, con Togliatti, Longo, Scoccimarro, Colombi, tutti molto legati all’Unione Sovietica e alla sua storia – e una parte che, come Giorgio Amendola, arrivava da una strada diversa. Amendola era un liberale, era figlio di Giovanni, frequentava la casa di Croce, era un crociano, e, come ha raccontato nel suo bellissimo libro Una scelta di vita, ad un certo momento scelse il Partito comunista non perché si era convertito al marxismo, ma perché il PCI era il partito che combatteva più decisamente il fascismo. Era l’unico partito che aveva capito che non bisognava mollare, anche nel paese, e continuare a lottare contro la dittatura. Insieme a Giorgio Amendola, fecero la stessa scelta anche altri antifascisti: Manlio Rossi-Doria – che poi uscì dal PCI – Emilio Sereni e poi tutti i più giovani, Paolo Bufalini, me stesso e tanti altri ancora. Io sono entrato nel Partito comunista nel 1941, durante il fascismo, ma non sono entrato nel PCI perché avevo letto Karl Marx e non sapevo nemmeno che esistesse Antonio Gramsci. Sono entrato nel PCI perché da ragazzo avevo maturato un forte odio nei confronti del fascismo, della guerra, delle condizioni di vita nella mia città, Caltanissetta, e della Sicilia in generale. Dopo che avevo cominciato ad orientarmi contro il fascismo, un giovane con qualche anno più di me – che era invece dentro l’organizzazione clandestina del PCI – mi attirò dentro la cellula del partito, che era diretta allora da un minatore che era stato in carcere con Terracini e con altri a Civitavecchia. Il transito verso il partito per molti non fu quindi dovuto a una precisa scelta comunista, ma all’antifascismo. La scelta cadde sul Partito comunista, perché negli anni della clandestinità era il partito che combatteva, che stampava giornali come «l’Unità», che faceva attività politica e culturale, distribuiva libri, che «impegnava i giovani in un combattimento». Amendola questa scelta l’aveva fatta negli anni ’30 e quindi anche lui aveva vissuto il carcere, il confino, ma aveva una matrice, diciamo

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così, diversa da quella di Secchia o degli altri componenti del gruppo dirigente. Ho fatto queste osservazioni perché la nuova generazione – la generazione mia, di Enrico Belinguer, di Giorgio Napolitano, di Gerardo Chiaromonte, di Aldo Tortorella che sostituì la vecchia guardia che si era esaurita con la segreteria Longo – ha vissuto diversamente la «via italiana al socialismo». Una strategia che si voleva seguire fino in fondo e che vedeva il rapporto con l’Unione Sovietica in modo del tutto diverso da quello di chi l’aveva preceduta. Ma diverso fino a che punto? Qui vengo all’ultima parte, gli anni ’70. Sappiamo che Berlinguer provocò strappi importanti nei confronti dell’Unione Sovietica. Io penso che l’atto più importante da lui compiuto in quel decennio fu l’intervista al «Corriere della sera» rilasciata a Giampaolo Pansa, alla vigilia delle elezioni del 1976. In quell’occasione, disse che la lotta per il socialismo era più giusto farla «sotto l’ombrello del Patto atlantico» che non sotto il Patto di Varsavia. Fece cioè una precisa scelta di campo; una scelta che rappresentava una vera rottura. Inoltre, nel 1976, nell’anniversario della Rivoluzione d’ottobre, andò a Mosca, dove parlò nella Sala delle colonne, il luogo in cui si svolgevano le celebrazioni dell’anniversario, e fece un’altra affermazione netta, dicendo: «La democrazia è un valore universale, per tutti». Non ci sono cioè eccezioni. Fu un’affermazione decisiva. Per Berlinguer non era pensabile che la democrazia potesse essere sospesa a vantaggio delle ragioni della rivoluzione sociale, del socialismo. La democrazia era un valore universale in ogni momento. É chiaro che questa scelta non aveva più alcun rapporto con la strategia comunista precedente. Furono queste, secondo me, le due scelte fondamentali. Per questo, a proposito del governo di Solidarietà nazionale e del rapporto tra Aldo Moro e Berlinguer, penso che quella scelta fu strategica. Fu strategica per Berlinguer e lo fu per Moro. Lo fu per Moro perché nel 1976 avvenne una cosa importante. Il governo di solidarietà nazionale nacque dopo una crisi del centro-sinistra che sembrava irreversibile. L’ultimo governo di centro-sinistra era stato il governo Moro-La Malfa, che era finito nel gennaio del

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1976, dopo che il segretario del Partito socialista, che ormai appoggiava il governo dall’esterno, pubblicò una lettera su «l’Avanti!», il giorno dopo Capodanno, affermando che non avrebbe più sostenuto il governo perché la collocazione del suo partito doveva essere identica a quella del PCI. Parlò quindi di «equilibri più avanzati». Da qui, la crisi, lo scioglimento del parlamento, le elezioni del 1976, in cui qualcuno pensava che si sarebbe verificato il sorpasso del PCI sulla DC. Il quotidiano «la Repubblica», di Eugenio Scalfari, fece quel titolo Le elezioni del sorpasso. Ma il sorpasso non ci fu; la DC guadagnò voti e arrivò al 38%, il PCI crebbe ma si fermò al 34,5%, mentre il PSI scese intorno al 9%. Era chiaro che il centro-sinistra era frutto della strategia inclusiva di Aldo Moro, da lui definita di «allargamento dell’area democratica». Moro aveva una strategia che andava oltre la tattica. Quando alla fine degli anni ’50 il centrismo non aveva più retto, escluse infatti la possibilità di andare a destra e si impegnò per realizzare il centro-sinistra. E non è un caso che all’interno del PCI si accese uno scontro politico molto forte tra chi pensava, come Pietro Ingrao, Rossana Rossanda ed altri, che quell’atteggiamento era un’operazione del neocapitalismo per includere una parte della classe operaia a sostegno del capitalismo stesso, e chi invece riteneva – e fu una parte importante del PCI, compreso Togliatti e Amendola – che il centro-sinistra non era certo una scelta da appoggiare, ma che comunque permetteva un confronto nuovo e più avanzato sul terreno delle riforme. Quella scelta, tuttavia, si esaurì. Qualcuno dice che si esaurì già nel ’68, con la fine della legislatura e il movimento studentesco. C’è qualcosa di vero in questo, però è anche vero che gli anni ’70 furono importanti per il centro-sinistra, perché ci fu il referendum sul divorzio, perché si fecero le Regioni, alcune riforme sociali, lo Statuto dei lavoratori. Quindi, a mio avviso, il 1976 rappresentò un tentativo strategico per Moro non perché, come si è detto, lo scopo principale fosse quello di portare i comunisti al governo, ma perché avrebbe permesso di riformare il sistema, ponendo fine alla conventio ad excludendum e facendo diventare i comunisti una delle alternative di governo possibili. Era quindi una scelta strategica di fondo, che è stata poi interrotta dalla tragica uccisione di Moro.

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Abbiamo anche parlato di quale sia stata la posizione del PCI nei confronti delle Brigate Rosse e dell’uccisione di Aldo Moro. É noto che il PCI − e qui sono stati ricordati i limiti e le contraddizioni con cui il PCI affrontò la questione del terrorismo, con una parte della sua base nelle fabbriche, com’è stato ricordato, che anche se non si identificava con i terroristi, riteneva che, in ogni caso, fossero, come si disse allora, compagni che sbagliano, compagni che sbagliano ma compagni – fece una battaglia molto dura e aspra per rompere questo clima di tolleranza. Non c’è dubbio che ci fu una lotta politica interna che si concluse solo con l’uccisione di Guido Rossa. Rossa fu ucciso perché aveva portato fino in fondo quella distinzione, pur con la consapevolezza dei rischi che avrebbe corso denunciando i brigatisti. Ma quel rischio fece schierare il PCI in modo netto e definitivo nella battaglia contro il terrorismo. E tuttavia il PCI fu anche per la fermezza. Ancora oggi si discute di questo tema; ci si chiede se fu giusta o no la linea della fermezza del partito, o se invece non fosse più giusta la linea della trattativa per salvare la vita di Moro. Qualcuno dice dobbiamo guardare al clima di allora e a quali furono le scelte obbligate in quella situazione. Ho visto anche che ci sono dei comunisti che allora sostennero la linea della fermezza – Piero Fassino e Pietro Ingrao, ad esempio – che ora dicono che ci hanno ripensato. Io c’ho pensato, ma non c’ho ripensato. In altre parole, penso che quella scelta fu giusta. Fu giusta non solo perché ricollocava il PCI dal punto di vista della battaglia democratica e dal punto di vista del «ritratto di famiglia», come aveva scritto la Rossanda2. Ma anche perché quella scelta riguardava il futuro del paese, perché costringeva a chiarire se, in un contesto in cui alcune trattative erano state comunque avviate – come da parte della Chiesa, che ad un certo punto raccolse dei fondi e Berlinguer commentò: «Noi non c’entriamo, è un problema che riguarda la Chiesa, non è lo Stato che fa la trattativa» – si dovesse legittimare nel paese la presenza di un partito armato.

2 Nel 1978 Rossana Rossanda introdusse la discussione su questo argomento, con l’articolo Album di famiglia, «Il Manifesto», 2 aprile 1978.

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Si poteva legittimare la presenza di un partito armato con cui lo Stato avrebbe dovuto trattare, anche di traverso, anche con i metodi più laschi che si potevano immaginare? Sono convinto che ciò avrebbe creato nel nostro paese una situazione molto grave. La sconfitta delle BR è stata dovuta anche, a mio avviso, a questo atto di fermezza che, se non ci fosse stato, avrebbe fatto sopravvivere la domanda, anche nella base popolare, se le BR fossero qualcosa a cui pensare come un punto di riferimento. Non credo poi che le BR fossero pilotate. Credo che sono state una formazione nazionale, autonoma. Abbiamo ascoltato cose interessanti, su quali culture, quali pezzi della società sono stati da loro espressi e rappresentati. Tuttavia, penso che durante il sequestro Moro, sia nella società nazionale sia a livello internazionale, ci fosse una certa compiacenza nei loro confronti in quanto in quel periodo né gli Stati uniti né l’Unione Sovietica volevano quel mutamento del sistema che l’ingresso del PCI al governo avrebbe necessariamente provocato. E lo dissero apertamente. L’ambasciatore americano di allora ha pubblicato un volume sui rapporti che ebbe in quella fase anche col Partito comunista, ha raccontato anche di alcuni incontri con me e con Giorgio Napolitano, il tentativo che facemmo di spiegare che l’ingresso del PCI nell’area di governo avrebbe certamente segnato la fine di una stagione, di una storia, e di come il partito fosse radicato nella storia occidentale. Ma gli americani restarono fermi nel dire no, come i sovietici. Quindi non c’è dubbio che ci sia stata una convergenza da questo punto di vista. Inoltre, va ricordato che anche settori della classe dirigente italiana guardavano a questa prospettiva come alla fine di un sistema fondato sulla contrapposizione comunismo/anticomunismo. E ciò li spaventava, perché c’era sì l’anticomunismo democratico, ma c’era anche un anticomunismo dietro cui si riparavano interessi e privilegi oscuri. Non penso perciò che le BR fossero guidate, telecomandate, ma sono convinto che in quella situazione sia forze nazionali che internazionali presero una posizione di «neutralità attiva» per far sì che le cose andassero a finire come poi è finita. In conclusione, non credo che la Prima repubblica sia finita con la morte di Moro. Ma la nuova fase che si aprì negli anni ’80 è stata profondamente condizionata da quel tragico evento

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e dal fatto che Berlinguer, il quale fece quegli strappi a cui ho accennato, non sviluppò comunque una revisione di fondo. Una revisione che avrebbe dovuto riguardare il rapporto con il capitalismo: se era possibile immaginare, come ha detto Taviani, un «capitalismo democratico». La socialdemocrazia aveva scelto, lo sappiamo bene, una forma di lotta che attraverso il welfare, attraverso il sindacato, attraverso i governi, lavorasse ad una riforma del capitalismo. Il Partito comunista non arrivò mai a questo punto, perché riteneva – come disse anche Berlinguer nei suoi ultimi anni, esprimendo la ragione per cui non si era mai organicamente diretto verso la socialdemocrazia – che il capitalismo doveva comunque essere superato. Anche quando ruppe con l’Unione Sovietica, ruppe fino ad un certo punto, non fino alla sconfessione. Perché riteneva che nel mondo la presenza dell’URSS, con tutte le sue contraddizioni, con tutte le sue tragedie, con quei gruppi dirigenti, con quella illibertà, era comunque il luogo in cui il capitalismo era stato sconfitto, il paese che rappresentava una contraddizione per il capitalismo mondiale ed evitava che esistesse una sola superpotenza nel mondo: gli Stati Uniti. Questa visione, che era anche una visione legata al ruolo del Terzo mondo, spinse il PCI a non fare quella revisione che poteva – e a mio avviso doveva – fare per entrare nei grandi partiti socialisti europei. Penso che la matrice della crisi italiana sia questa.

Alberto Melloni “Pochino”. Un esame delle fonti e della ricerca su Paolo VI, la chiesa e i cattolici nella vicenda Moro

Il modo in cui la chiesa cattolica vive la stagione del terrorismo italiano dai suoi albori, nella piazza d’ingresso dell’arcivescovado di Milano nel 1969, fino al suo oggettivo culmine del 1978, è rilevante non perché costituisca genericamente un momento di “difficoltà” (ben altre sono state le “difficoltà” nel Novecento ad altre latitudini e longitudini), ma perché mette a dura prova idee, generazioni e istituzioni che supponevano di avere una chiara conoscenza del Paese e che invece, in quella parabola, hanno visto confondersi analisi e concezioni apparentemente solide. Mette alla prova una platea di fedeli non aliena dal ricorso al massimalismo; un clero in piena effervescenza; un episcopato che è alle prima armi con la collegialità; una curia romana ancora fortemente segnata dall’ipoteca italiana; e infine, non certo ultimo, il papa Paolo VI, che muore nel 1978, come schiacciato da quel muro di violenza politica giunto al culmine col rapimento, la prigionia e poi l’uccisione di Aldo Moro. Uccisione che, non a caso precede la fine del papato montiniano e, nell’arco di poche settimane, segna la fine del papato italiano per oltre un trentennio. Tre lacune Per affrontare un tale tema è necessario essere consapevoli che non solo il materiale archivistico esente dal filtro giudiziario o da quello delle commissioni parlamentari d’inchiesta è raro, ma che ci sono almeno tre ambiti di studio in attesa di trovare i propri cultori.

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Il primo è quello che riguarda il rapporto fra magistero cattolico e violenza politica così come esso si presenta nel n. 31 dell’enciclica di Paolo VI Populorum progressio. Uscita il 26 marzo del 1967 e minutata da mons. Pietro Pavan (già redattore della Pacem in terris1) essa affronta, com’è noto, il tema del sottosviluppo e dell’ingiustizia strutturale che affligge le grandi masse umane del mondo povero, proponendo una versione aggiornata della dottrina sul tirannicidio e sulla guerra giusta del tradizionale magistero latino2. Dopo aver chiesto di respingere la tentazione di rispondere con la violenza alle ingiurie contro la dignità umana create dalla miseria, e prima di riproporre la via delle riforme sociali come unico rimedio duraturo ai mali strutturali, il papa denuncia l’illusione rivoluzionaria3. Ma, seppure per via concessiva («salvo nel caso»), offre anche una legittimazione dell’insurrezione rivoluzionaria in una situazione che sia segnata da cinque caratteri – una 1) tirannia 2) evidente 3) prolungata 4) che attenti gravemente ai diritti della persona 5) e nuoccia pericolosamente al bene comune della nazione. Quelle condizioni che per Paolo VI era ovvio dovessero sommarsi, svolsero un ruolo esplosivo in quei contesti d’America Latina nei quali lo stesso pontefice – lo farà a Bogotà nell’estate del 1968 – cercherà invano di reintrodurre una netta differenza fra il rifiuto della “violenza istituzionale” e l’accettazione della

1 Su questo cfr. A. Melloni, Pacem in terris. Appunti sull’origine, in Pacem in terris. Tra azione diplomatica e guerra globale, a cura di A. Giovagnoli, Milano, FrancoAngeli, 2003, pp. 129-145. 2 Cfr. D. Menozzi, Chiesa pace e guerra nel Novecento. Verso una delegittimazione religiosa dei conflitti, Bologna, il Mulino, 2008, pp. 277-288. 3 Nella versione italiana: «E tuttavia sappiamo che l’insurrezione rivoluzionaria − salvo nel caso di una tirannia evidente e prolungata che attenti gravemente ai diritti fondamentali della persona e nuoccia in modo pericoloso al bene comune del paese − è fonte di nuove ingiustizie, introduce nuovi squilibri, e provoca nuove rovine. Non si può combattere un male reale a prezzo di un male più grande». Nel testo latino: «31. Est quidem res pernota, seditiones et motus − nisi agatur de tyrannide aperta ac diuturna, qua primaria iura personae humanae laedantur et bono communi alicuius civitatis grave iniungatur detrimentum − novas parere iniurias, novas ingerere inaequalitates, ad novas strages homines accendere. Malum autem, quod revera est, non ea licet condicione propulsari, ut maior inducatur calamitas».

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“violenza rivoluzionaria” che aveva trovato in quelle righe una legittimazione morale4. Una seconda mappa, tutta italiana, che sarebbe di somma utilità è quella del mondo rubricato sotto l’etichetta del “dissenso” – coevo, contiguo, giustapposto, ma comunque vicino alla biografia di una generazione nella quale la migrazione dall’ideologismo alla lotta armata è più frequente. Questo suolo e sottosuolo è fatto di strati nei quali si mescolano tradizionalismo e radicalismo, rivoluzione e pacifismo, intellettualismo e solidarietà, spostando a sinistra e dentro il lessico marxista una tendenza alla politicizzazione della fede ben radicata in Italia. Raccolte di fonti e studi sono stati avviati5, ma quanto resti da fare lo ha fatto intendere una inchiesta sulla chiesa cattolica negli anni di piombo e sui “pensieri parole opere e omissioni” che la connotano6. 4 S. Scatena, In populo pauperum. La chiesa latinoamericana dal concilio a Medellín (1962-1968), Bologna, il Mulino, 2008, pp. 430-436, 469-489 e 512-514. 5 Si vedano i risultati L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta − Culture, nuovi soggetti, identità, a cura di F. Lussana e G. Marramao, Soveria Mannelli, Rubettino, 2003. 6 A. Valle, Pensieri, parole, opere e omissioni. La Chiesa nell’Italia degli anni di piombo, Milano, Rizzoli, 2008. Da questo racconto-inchiesta, che si prefigge di non essere opera storiografica e si esonera da riferimenti alle fonti orali, affiorano ad esempio tre elementi relativi alla storia della Brigate Rosse che hanno bisogno di una più posata e attenta considerazione. a) Il primo riguarda quella che diventerà la colonna reggiana delle Brigate Rosse: la biografia dei suoi membri e in primo luogo quella del loro membro più influente, Alberto Franceschini, rivela interessanti contiguità culturali ed esistenziali. In primo luogo, con quegli ambienti del PCI che – a partire dalla riflessione storiografica sulla “resistenza tradita” – sognano una evoluzione rivoluzionaria del massimalismo e dello stalinismo che in quella federazione avevano trovato albergo. Ma non è meno significativa la vicinanza ad esperienze di radicalismo e di massimalismo cristiano: ad esempio quello della libreria Nuova Terra che alcuni ragazzi del movimento One Way e alcuni dei futuri brigatisti condividono come strumento di preparazione culturale di futuri cambiamenti sociali; inoltre il cosiddetto “appartamento” – un luogo di riunione, seminari e celebrazioni liturgiche in via Emilia san Pietro – trova ragioni di discussione comune sull’esperienza rivoluzionaria del clero sudamericano e nell’impegno rivoluzionario; infine la casa di Corrado Corghi, uomo di contatti con il cattolicesimo latino-americano e gestore di una rete di giovani uditori che si radunavano nella sua abitazione per discutere delle diverse situazioni e per ascoltare i suoi racconti di viaggio, diventa un luogo di incontro e reclutamento, che sfocerà, il 1° novembre 1969 nella riunione di Chiavari (città di un altro One Way e dove il vescovo Francesco Marchesani ben conosce l’esperienza di GS) dove il Collettivo politico metropolitano che Curcio ha avviato a Milano in

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Una terza indagine che sarebbe necessaria riguarda la parte assunta dalla chiesa nell’elaborazione liturgica e dunque pubblica dei fatti di sangue che segnano il breve tratto di storia italiana che va da piazza Fontana a via Caetani. Un enchiridion delle omelie esequiali – sia quelle per le vittime che per i terroristi morti – consentirebbe di collocare con precisione il discorso funebre di Paolo VI per Moro – su una scala che lentamente s’emancipa dalla forma d’elogio dei caduti in guerra e approda alla sponda della protesta credente proprio con quella celebre frase sul silenzio di Dio7.

semiclandestinità produce un primo documento condiviso di progettazione della lotta armata (sulla formazione di Franceschini in Alternative la rivista di Adriano Vignali, coordinatore dei giovani DC di Reggio Emilia, cfr. A. Franceschini, A. Fasanella, Cosa sono le BR. Le origini, la nascita, la storia, Milano, Bur, 2004). b) Il secondo elemento riguarda la biografia di Mara Cagol, moglie di Curcio dal 1969, formatasi negli ambienti del cattolicesimo trentino: come documenta il suo epistolario famigliare c’è in lei lo sforzo di poter e dover spiegare ai genitori la coerenza, se non la continuità, fra la sua scelta “rivoluzionaria” e la sua rigorosa educazione religiosa. Non è difficile scorgere nei suoi scritti le stesse ingenuità nell’analisi del mondo che, puta caso, si possono trovare nei documenti di Mani tese. A partire dalle stesse rudimentale analisi sul capitalismo, però, la Cagol passa alla legittimazione della lotta armata ed individua nelle fabbriche l’epicentro della lotta sociale (sulla formazione di Mara Cagol incide, sia prima che dopo il matrimonio con Renato Curcio del 1969, il rapporto con don Bolognani e il cattolicesimo trentino: su questo cfr. le lettere ai genitori, ivi, pp. 140, 145). c) Il terzo elemento – terzo nel tempo, ma analogo al primo – riguarda Alessio Casimirri – membro del gruppo di fuoco di via Fani, non ancora in clandestinità nel marzo 1978 e poi sfuggito alla cattura in Nicaragua. Quella di Casimirri non è la vita di un ragazzo comunista che bazzica ambienti cattolici e nemmeno quella di un giovane cattolico nel quale l’ideale di rottura della vita cristiana arriva al paradosso rivoluzionario marxista-leninista: Casimirri è figlio di Maria Labella e di Luciano Casimirri, vicedirettore della sala stampa vaticana, l’uomo che diede il comunicato di morte di Giovanni XXIII. Lavora in una scuola cattolica e così sua moglie di allora, Rita Algranati, con la quale fugge nel 1982, un soffio prima dell’arresto. Sulla sua fuga Malpica – non certo un galantuomo, dunque – accusò un non meglio precisato ecclesiastico, quasi che ci fosse una Ratline per terroristi o almeno per alcuni di essi capace di sottrarli alla prigione. 7 Solo dopo l’omelia di Paolo VI in morte di Moro e la inaudita denuncia papale del silenzio di Dio stesso, il nodo dell’applicazione della vita cristiana ai fatti in oggetto diventa decisiva e sarà un ragazzo, Giovanni Bachelet, che introdurrà per la prima volta l’amore nei confronti dei nemici come testimonianza cristiana che non può disgiungersi dal lutto di chi piange un ucciso, cfr. Valle, Parole opere e omissioni, cit.

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La vicenda Moro Quelli appena accennati sono lavori di cui è essenziale tener presente la mancanza nel momento in cui ci si ripromette di comprendere il ruolo di Paolo VI e della chiesa cattolica nei giorni che separano il cruentissimo rapimento di Aldo Moro, il 16 marzo 1978, dalla sua uccisione il 9 maggio successivo. La storiografia su quell’episodio-spartiacque della storia repubblicana è appena agli inizi: i processi e le inchieste parlamentari hanno prodotto un immenso materiale documentario edito negli atti parlamentari delle commissioni d’inchiesta; molte ricostruzioni hanno preso corpo dentro o accanto a quei lavori in una sequenza – Flamigni, Pellegrino, Fasanella, ecc.8 – in cui si è dibattuto facendo ricorso al più perfetto paradigma indiziario. Le infinite contraddizioni, omissioni, lacune, mistificazioni, depistaggi, menzogne, affabulazioni che hanno segnato il trentennio apertosi il 16 marzo del 1978, danno corpo infatti ad ogni ipotesi o sospetto. Presenze e assenze sulla scena della strage del 16 marzo, errori nelle indagini, ingenuità investigative e poi, infine o soprattutto, la mancanza di serietà che accomuna sedute spiritiche e comitati d’esperti, idiozie giornalistiche e vigliaccherie dei secondini della prigione del popolo – tutto sembra richiedere una spiegazione in più, una ipotesi connettiva che renda conto della plausibilità di ciò che a tutta prima appare implausibile. Una spiegazione in più sulla quale si è interrogata in modo rigoroso anche la storiografia, prima con un lavoro di Agostino Giovagnoli, che ha lavorato sulle carte dei partiti politici (e che s’occupa di quelli, più che di Moro9); poi di Miguel Gotor, che ha spremuto dall’edizione critica dell’epistolario tutto ciò che vi si poteva trovare10. Questi autori e tutti gli altri che non cito segnalano e conoscono un’azione vaticana per la liberazione di Moro: azione tutt’altro che stupefacente se già durante il sequestro del magistrato 8 Ne fa stato e ne dà un elenco il racconto di G. Bianconi, Eseguendo la sentenza, Torino, Einaudi, 2008. 9 A. Giovagnoli, Il caso Moro. Una tragedia repubblicana, Bologna, il Mulino, 2005. 10 M. Gotor (a cura di), Aldo Moro. Lettere dalla prigionia, Torino, Einaudi, 2008.

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genovese Mario Sossi (iniziato il 18 aprile del 1974) la Santa Sede aveva dato copertura all’azione di quel Corrado Corghi per ottenere lo scambio di prigionieri che avrebbe salvato la vita dell’ostaggio delle Brigate Rosse11. Anche in quella circostanza il papa Paolo VI aveva scritto un messaggio ai sequestratori che va letto in sinossi con quello steso per Moro e se la trattativa in certo modo “fallì” (Sossi fu liberato, ma i detenuti ai quali era stata promessa la libertà rimasero in carcere per l’impugnazione dell’atto da parte del procuratore Francesco Coco, che pagò con la vita questa sua iniziativa) non fu certo per colpa ecclesiastica. Così pure Alfredo Carlo Moro quando aveva trattato nel sequestro di Giuseppe di Gennaro, messo in opera dai NAP il 6 maggio 1975 per “punire” il magistrato che aveva processato Pasolini, aveva avuto una sponda sicura nell’extraterritorialità vaticana12. Dunque nulla di anomalo nel “ruolo” che la chiesa cercò di assumere in un rapimento iniziato in modo tragico e che nel suo finale prevedeva l’uccisione di una persona che era stata vicinissima al papa regnante e che nella sua vita di cattolico adulto aveva avuto rapporti tanto intensi quanto burrascosi con le autorità ecclesiastiche13. E nulla di strano in ciò – a mio avviso con argomenti convincenti e un’analisi delle fonti accurata – che sostiene Gotor: e cioè che il Vaticano fu protagonista di una delle trattative poste in essere in quelle settimane, quella cioè che cercava di salvare il prigioniero riscattandolo con una somma di danaro ingente. 11 Franceschini racconta addirittura di un sondaggio previo suo e di Curcio a casa del docente reggiano; sulla vicenda cfr. Valle, Pensieri, parole, opere e omissioni, cit., pp. 94-127. 12 M. Gotor, Le possibilità dell’uso del discorso nel cuore del terrore, in Aldo Moro. Lettere dalla prigionia, cit., pp. 279-280 evoca questo episodio e, ritenendo incredibile che Moro non abbia mai scritto al fratello magistrato per attivarlo sul tema, sospetta una perdita di lettere, almeno fra quelle trattenute dai brigatisti rossi. 13 La liquidazione della questione che Andreotti fa di Macchi morto sulla sua rivista 30 giorni mi pare una riprova dell’importanza della cosa; Macchi vide Andreotti, accompagnato da p. Carlo Cremona, senz’altro la sera del 25 e del 30 aprile, e venne informato almeno a grandi linee del tentativo di don Cesare Curioni, cappellano di san Vittore. Il ruolo di don Curioni viene illustrato a voce, molti anni dopo, da don Fabio Fabbri a Vladimiro Satta, Caso Moro: le vie della Chiesa. Una testimonianza sulle trattative per la liberazione del leader DC, «Nuova storia contemporanea», n. 2, marzo-aprile 2005, pp. 99-114.

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Una cronologia fine Una estrapolazione attenta delle molteplici posizioni e iniziative cattoliche di quel periodo, e delle stesse lettere di Moro, ricavata da un’attenzione rigorosa alle cronologie fini, mi pare però che arricchisca e “complichi” questo primo indiscutibile risultato storico-critico. Infatti, fin dal giovedì 16 marzo, giorno dell’agguato di via Fani, la chiesa appare immersa nella grande impreparazione che tocca tutto il paese. Un uomo esperto come il cardinal Siri non si trattiene dal dire che Moro «ha avuto quello che si meritava» parlando in confidenza al telefono con Giulio Anselmi, suo antico pupillo e dunque capace meglio di altri di ridimensionare l’oscenità di quella battuta e di trasmettercela quasi come un reperto14 dell’antagonismo di cui Moro è stato vittima negli anni precedenti: Moro, naturalmente, non conosce la frase del cardinale di Genova, anche se dentro il loculo in cui lo rinchiudono non può non ricordare le ostilità nei suoi confronti di cui proprio Siri era stato megafono15. Ma un altro genovese, don Gianni Baget Bozzo, riconoscerà in una frase di Moro contro Taviani l’allusione all’opposizione contro l’elezione di Moro stesso al Quirinale che quel parlamentare aveva condotto in nome proprio, ma anche degli ambienti conservatori genovesi ai quali era legato16. Lo stesso 16 marzo il vicario di Roma si reca in via Fani, la mattina, per rendere omaggio alle vittime e per poter riferire ciò che ha constatato de visu: lo accompagna don Luigi Di Liegro, uno dei protagonisti dell’ideazione e della conduzione di quel convegno sui “mali di Roma” che pochi anni prima segna un momento di discussione aperta e spietata sulle connivenze che avevano legato anche la diocesi del papa a convenienze politiche e di corrente. È in un gruppo che dalla data del convegno ha preso nome, Febbraio 74, che militano alcuni dei congiunti e dei Valle, Pensieri, cit., p. 34. P. Totaro, L’azione politica di Aldo Moro per l’autonomia e l’unità della DC nella crisi del 1960, «Studi storici», n. 46, 2005, 2, pp. 436-514. 16 Bianconi, Eseguendo la sentenza, cit., p. 207 e Gotor, Aldo Moro. Lettere, cit., § 21, pp. 40-49. 14 15

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più giovani amici di Aldo Moro17. Poletti riceve, come d’uso, una lettera del papa e un messaggio alla famiglia che recapita in giornata18. Agli antipodi di Siri, questi ragazzi sono quelli che si mobiliteranno più avanti in uno sforzo negoziale di cui Paolo VI sta cercando di capire le analogie e le differenze con situazioni non meno gravi: in altre occasioni il papa si è offerto come ostaggio di scambio (come nel dirottamento di Mogadiscio19), in altri casi ha mosso tramite mons. Pignedoli contatti locali utili al rilascio del più illustre prigioniero, prima di Moro, delle BR20. Del papa si sa che il mercoledì 22 marzo incontra Villot21, Caprio e «soprattutto Casaroli»22 – indicazione non scontata dalla quale si deduce che il navigato negoziatore piacentino, uomo chiave dell’Ostpolitik vaticana, potrebbe essere nella visione del pontefice la pedina decisiva in un episodio che risulta difficile comprendere tutto dentro il gusto grossolano del sangue dei brigatisti. «un preventivo passo della S. Sede» Non devono essere molto diversi i pensieri che Moro allinea nella sua cella e che trovano forma nella più decisiva di tutte le lettere del politico democristiano: quella indirizzata a Francesco Cossiga, il 29 marzo. Come ha puntualmente dimostrato Miguel Gotor, le più ovvie delle manipolazioni – quelle che invertono le polarità fra segreto e pubblico, quelle che non consegnano ciò

17 Sulla proposta di Giancarlo Quaranta, leader di Febbraio 74, gruppo di cui fa parte Giovanni Moro, di un coinvolgimento della Croce Rossa cfr. l’intervista allo stesso militante su «Il Corriere della sera» 28/4/1978, nella quale Quaranta dice che l’iniziativa è «di una persona vicina a noi»; secondo Gotor, Le possibilità, cit., p. 231 potrebbe essere il segnale di una corrispondenza recapitata e perduta fra Moro e i famigliari. 18 P. Macchi, Paolo VI e la tragedia di Moro. 55 giorni di ansie, tentativi, speranze e assurde crudeltà, Milano 1998, pp. 14-15. 19 Sul dirottamento cfr. la testimonianza di P.J. Boock, L’autunno tedesco. Schleyer-Mogadiscio-Stammheim, Roma, DeriveApprodi, 2003. 20 Sulla liberazione di Sossi, Valle, Pensieri, cit., pp. 112-113. 21 Villot aveva mandato ad Andreotti un messaggio di cordoglio per la scorta e di apprensione per il sequestrato, Macchi, Paolo VI e la tragedia Moro, cit., p. 16. 22 Macchi, Paolo VI e la tragedia Moro, cit., p. 20.

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che viene scritto per essere letto: tutto all’oscuro dell’ostaggio – non vengono quasi prese in considerazione nei momenti nei quali il piano di “contenimento” delle eventuali comunicazioni di Moro è già stato messo in opera annunciando il rifiuto di un negoziato che non è stato offerto e denunciando l’inattendibilità “morale” di ciò che Moretti e i suoi subalterni decidono di far avere. Il punto, però, è la violazione della consegna di segretezza: violazione che riguarda in primo luogo la lettera-madre, quella recapitata a Cossiga il 29 marzo nella quale c’erano indicazioni sul modo di procedere con il dovuto riserbo. Una sopra a tutte, quella che suggeriva l’impegno diretto della S. Sede (se mai con altri, non senza!) evitando astrattezze ed errori: Penso che un preventivo passo della S. Sede (o anche di altri? di chi?) potrebbe essere utile. Converrà che tenga d’intesa con il Presidente del Consiglio riservatissimi contatti con pochi qualificati capi politici, convincendo gli eventuali riluttanti. Un atteggiamento di ostilità sarebbe una astrattezza ed un errore. Che Iddio vi illumini per il meglio, evitando che vi impantaniate in un doloroso episodio dal quale potrebbero dipendere molte cose23.

Credo si possano lasciare definitivamente da parte le sciocchezze enigmistiche di Leonardo Sciascia che aveva dedotto da questa ed altre espressioni l’idea di un Moro chiuso in Vaticano24: per Moro il problema non è dare segnali alla polizia, ma guidare politicamente i suoi, come fa da quasi vent’anni in ogni passaggio difficile della vita politica. E che abbia ragione lo dimostra il fatto che, pur nella violazione del segreto che le BR organizzano scientemente e che Moro invece ritiene voluto da Cossiga, la sua indicazione ha successo. Dopo settimane di interventi scontati25, già l’indomani della lettera di Moro, giovedì 30 marzo, una dichiarazione di Pierfranco Pastore, vicedirettore della sala stampa vaticana (come Casimirri Senior) conferma ciò che già era noto. Cioè che la Santa Sede non si è mai «tirata inGotor, Aldo Moro. Lettere, cit., § 3, p. 8. L. Sciascia, L’affaire Moro, Milano, Adelphi, 20013, pp. 18-23. 25 Macchi, Paolo VI e la tragedia Moro, cit., p. 18 per l’Angelus delle domenica delle Palme in cui depreca la violenza e prega per Moro e p. 22 per il Regina cœli del 2 aprile nel quale il papa fa un «appello vivo e pressante» perché venga data «libertà al prigioniero». 23

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dietro quando si è trattato di compiere azioni umanitarie»26. E un corsivo anonimo dell’«Osservatore» (steso dal neodirettore Valerio Volpini e ispirato da Paolo VI) ripeteva che «la richiesta di un passo preventivo non può certo lasciare indifferente la Santa Sede» e ricordava come anche in altre circostanze «nel riserbo discreto o palesemente» sia il papa in persona sia «gli organismi della Santa Sede» avessero intrapreso l’opera27. «ancora... anche...» L’opera, in questo caso, è ancora imprecisa: denaro, o accoglienza di cittadini espulsi, o altro ancora. Il lunedì 3 aprile Berlinguer appunta di aver dato parere favorevole ad Andreotti sull’eventualità del pagamento di un riscatto28: segno che questo tipo d’azione “umanitaria” vaticana, rimasta coperta da segreto e dunque praticabile, è nell’agenda di qualche ecclesiastico. Le conferme sono almeno due. La prima, indiretta, viene dal comunicato delle BR del 4 aprile che parla di «trattative segrete, misteriosi intermediari, mascheramento dei fatti»29: pur presentandosi come un rifiuto di queste tre operazioni, le cita come se il gruppo dovesse o volesse mostrarsi edotto su ciò che si può tentare. Un’altra conferma, diretta questa volta, viene dallo stesso Moro: nella lettera del giovedì 6 aprile alla moglie – la prima nella quale decide di coinvolgere la famiglia fino a quel momento tenuta al di fuori di ogni questione – Moro scrive che il Vaticano va ancora sollecitato anche per le diverse correnti interne, si deve chiedere che insista sul governo italiano30.

La frase di Moro contiene due (volute) ambiguità e due (volute) precisioni. La prima risiede nell’espressione “Vaticano”: Valle, Pensieri, cit., p. 37. Osservatore Romano, 30/4/1978. 28 Li riassume Giovagnoli, Il caso Moro, cit., p. 137. 29 Crede all’esistenza di due trattative – una per le carte, una per l’ostaggio – Gotor, Le possibilità, cit., p. 259; il comunicato in M. Clementi, La “pazzia” di Aldo Moro, Milano, Rizzoli, 2006, p. 358. 30 Gotor, Le possibilità, cit., p. 197 per la posizione rispetto alla famiglia; Valle, Pensieri, cit., p. 45. 26 27

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Moro è perfettamente in grado di distinguere fra chiesa, curia romana, segreteria di Stato; se decide di usare ancora una volta l’espressione “Vaticano” non è per rozzezza sua, ma per rendere il testo intelligibile ai suoi secondini e al tempo stesso per proteggere la persona che lui sta immaginando possa essere un intermediario31. Inoltre, nel chiedere che “il Vaticano” prema sul Governo dà soddisfazione a quella ossessione che Moretti propugnerà nei giorni successivi come l’unica via d’uscita per Moro: e senza sposarne in alcun modo le prospettive indica quei canali che da ex presidente del Consiglio sapeva bene come e quanto funzionassero in caso di necessità. Per altro verso Moro è chiarissimo su due questioni: in primo luogo, sollecitare ancora il Vaticano significa sapere o che il proprio appello originariamente segreto è arrivato a destinazione e che dunque su qualcosa d’altro (la segretezza, ad esempio) è opportuno che qualcuno si spieghi meglio; in secondo luogo, se Moro scrive di sollecitare anche per le diverse correnti (ancora una volta un linguaggio impreciso, ma comprensibile ai carcerieri), significa che egli sa o crede di sapere che una sollecitazione è arrivata al papa, ut in votis. No al ricatto? Perciò una breve cronaca di Zizola del sabato 8 aprile che Moro legge insieme al messaggio della moglie ospitato da «Il Giorno» lo fa incupire e gli fa pensare che se fallisce la via negoziale che sta sperando sia stata almeno avviata dall’amico Montini, quello che lo attende sarà solo un «Calvario»32. Non sono in grado di capire se la presenza dell’articolo di colui che Moro

31 In queste prime fasi la fiducia nel card. Poletti affiora più volte: una spiegazione è forse nella dura omelia pronunciata in morte del giudice Palma ucciso il 14 febbraio 1978, su cui G. Zupo, V. Marini Recchia, Operazione Moro. I fili ancora coperti di una trama politica criminale, Milano, FrancoAngeli, 1984, pp. 168-169. 32 Così alla moglie il pomeriggio del 7 aprile, Gotor, Aldo Moro, Lettere, cit., §17, p. 31: questa lettera, intercettata all’atto del recapito tramite Tritto, verrà consegnata in originale alla moglie; Andreotti si attribuisce il merito di tale scelta di “buon senso”, G. Andreotti, Diari 1976-1979. Gli anni della solidarietà, Milano, Rizzoli, 1981, p. 203.

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definisce «il solito Zizola»33 e la possibilità concessa a Moro dai suoi aguzzini di leggerlo obbediscano a qualche logica o alla mera casualità giornalistica che accorrenta il detenuto sulle posizioni prese sull’«Osservatore Romano»34: certo la notizia trova da parte di Moro una reazione più articolata che dura, basata sulla scommessa (Moro non sa quante volte perduta, ma per sua fortuna non in questo caso) che i carcerieri diano corso alle sue lettere. «I tempi stringono», scrive aprendo la seconda parte della lettera alla moglie dedicata a commentare la notizia di Zizola, per poi passare ad un j’accuse contro i suoi compagni di partito: in coda, però, torna sulla questione della posizione della Santa Sede. Il brano è noto: Nel risvolto del “Giorno” ho visto con dolore ripreso dal solito Zizola un riferimento all’Osservatore Romano (Levi). In sostanza: no al ricatto. Con ciò la S. Sede espressa da questo Sig. Levi, e modificando sue precedenti posizioni, smentisce tutta la sua tradizione umanitaria e condanna oggi me, domani donne e bambini a cadere vittime per non consentire il ricatto. È una cosa orribile, indegna della S. Sede. L’espulsione dallo Stato è praticata in tanti casi, anche nell’Unione Sovietica, e non si vede perché qui dovrebbe essere sostituita dalle stragi di Stato. Non so se Poletti può rettificare questa enormità / in contraddizione con altri modi di comportarsi della S. Sede. Con queste tesi si avalla il peggior rigore comunista ed a servizio dell’unicità del comunismo. È incredibile a quale punto sia giunta la confusione delle lingue35.

La lettera si distingue dalle precedenti36 e specialmente da quella “capostipite” a Cossiga perché rinuncia alle semplifi33 Il «solito» ha una coloritura negativa, forse legata al fatto che nell’articolo (a differenza di quanto Moro si aspettava?) Zizola non rileva l’anomalia e in certo senso l’enormità del passo compiuto con apparente disinvoltura dal quotidiano vaticano. 34 Si tratta dell’articolo di V. Levi, L’ora della verità, «L’Osservatore Romano», 7 aprile 1978, in prima pagina. 35 Gotor, Aldo Moro. Lettere, cit., § 17, p. 32. 36 È questa la lettera nella quale Moro aggiunge la frase «il mio sangue ricadrà su di loro», in un interlinea che, a mio avviso, potrebbe indicare la sua resistenza ad usare un’espressione che gli è stata imposta e il tentativo di rivelare che è questo ciò che gli aguzzini vogliono. Un credente spiritualmente fine come Moro, infatti, conosce benissimo il racconto evangelico di Mt 27, 25 nel quale sono coloro che consegnano Gesù che invocano il sangue del giusto su di loro per accelerarne la crocifissione; usarlo come una minaccia maledicente sta al di fuori della fine tessitura spirituale che connota anche queste pagine estreme di Moro.

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cazioni ad uso di carcerieri poco avvezzi alle articolazioni del mondo ecclesiastico e si posiziona esattamente al centro di quelle, con tutta l’esperienza che Moro ha. Quando Moro scrive che il quotidiano vaticano esprime delle «posizioni» della «S. Sede», gioca quasi sul filo dell’ironia: gli era capitato a molte riprese, infatti, di dover decifrare in attacchi e sgambetti provenienti dal quotidiano vaticano chi davvero prendeva posizione dalle sue colonne al riparo dell’autorevolezza della testata37. Che don Levi esprima una tesi sua è cosa impossibile e Moro lo sa; ma decide di usare lui – spregiativamente qualificato come «signore», quasi a sottolineare il fatto che se il presidente della Fuci nel 1939 non lo conosce, vuol dire che si tratta di persona di modestissimo rango e di sconosciuta carriera – per accendere un confronto, forse un conflitto. Moro di fatto apre una dialettica fra due poli decisionali con i quali sa che il papa si consulta (cioè la Segreteria di Stato e il Vicario di Roma) e all’interno della stessa Segreteria di Stato. Chiedendo a Poletti di «rettificare» il quotidiano, Moro suggerisce di valorizzare non solo un uomo pacifico, ma anche colui che, dal convegno del 1974 in poi, forse ex officio grazie alla rete di contatti del Vicariato, può offrire al papa contatti utili al negoziato in cui Moro spera. Ma anche dentro la Segreteria di Stato Moro tenta di aprire una discussione: fra una linea di cui Levi è stato solo l’eco – alla quale rimprovera incoerenza rispetto a ciò che la chiesa ha fatto in occasione di sequestri “comuni” – e la linea seguita dalla Ostpolitik vaticana negli ultimi quindici anni con la quale ha chiesto il rilascio e l’espulsione a Roma di prelati incarcerati dai regimi comunisti. Moro non sa assolutamente nulla delle

Sembra più qualcosa che gli viene richiesto e che egli scrive, distanziandosene con un uso goffo e irreale dalla frase stessa (quando vorrà invece far pesare sulla DC il peso delle scelte compiute dal partito si servirà dell’espressione «segno di contraddizione», che si presta senza tortuosità allo scopo). Su analoga improprietà (per «strategia della tensione» o «stragi di Stato»), ad es. cfr. Sciascia, L’affaire Moro, cit., pp. 144-147. 37 Il caso più clamoroso era stato quello dei Punti fermi usciti il 18 maggio 1960 per intimare ai democristiani di sottomettersi all’autorità della chiesa che respingeva l’intesa coi socialisti, e che poi si scoprirono essere usciti contro la volontà del papa e con sua grande irritazione; cfr. Totaro, L’azione politica di Aldo Moro per l’autonomia e l’unità della DC nella crisi del 1960, cit.

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riunioni vaticane e delle udienze di consultazione che Paolo VI sta compiendo: ma intuisce che Casaroli – l’uomo a cui si deve se non il rilascio del metropolita Slipij nel 1963, senz’altro quello del cardinale Mindszenty da Budapest e di mons. Beran dalla Cecoslovacchia – è colui che può indicare a Montini il precedente di riferimento e mostrargli il rischio di avallare sia «il peggior rigore comunista» (quello che alla fine ucciderà Moro), sia l’«unicità del comunismo» (che è proprio ciò che il papato ha cercato di disarticolare per far guadagnare un po’ d’aria ai cattolici sotto il patto di Varsavia)38. Ignaro della via pecuniæ, Moro pensa dunque ad altre soluzioni e soprattutto cerca di evitare che anche dentro le mura vaticane si arrivi precipitosamente ad una «cristallizzazione» di posizioni – e ci riesce: Poletti, chiamato in causa l’8 aprile, l’indomani fa visita alla famiglia; il navigatissimo cardinale Confalonieri dice lo stesso giorno a Benny Lai che nella chiesa c’è «il medesimo contrasto» che si registra nell’opinione pubblica39; Valerio Volpini rettifica il suo vicedirettore in una intervista su Famiglia cristiana s’esprime a favore alla “mediazione” che allude alle polemiche sulle mancate trattative di Pio XII40. Quel riferimento del direttore dell’«Osservatore Romano» doveva apparire misterioso anche a chi avesse colto nell’appello a farsi consul Dei, presente nella lettera alla moglie, un riferimento al “modello Mindszenty”41 e anche in chi avesse mai avuto conoscenza della lettera più formale scritta a don Levi il 7-8 aprile e mai consegnata, in cui s’insisteva sul lato umanitario42.

38 Cfr. Il filo sottile. L’Ostpolitik vaticana di Agostino Casaroli, a cura di A. Melloni, Bologna, 2006. 39 Valle, Pensieri, cit., p. 47. 40 Cfr. Famiglia cristiana, ripreso da Valle, Pensieri, cit., p. 49. 41 Nella lettera alla moglie per questo chiede se Cossiga abbia «saputo immaginare»? Cfr. Aldo Moro. Lettere, cit., ed. Gotor § 17, p. 33. Sul primate ungherese G. Barberini, L’Ostpolitik della Santa Sede. Un dialogo lungo e faticoso, Bologna, 2008, pp. 158-164. 42 La Braghetti sostiene che fu trattenuta per ragioni di merito..., Valle, Pensieri, cit., p. 52.

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«Il gesto efficace di SS. Pio XII» Non sarebbe stato misterioso per chi avesse letto la prima lettera di Moro a Paolo VI, stesa dopo l’8 aprile che, se ci si attiene al carteggio43, potrebbe essere rimasta in mano brigatista come quella alla moglie alla quale era allegata44, oppure recapitata separatamente. La missiva a Noretta, tuttavia, va esaminata per prima (come Moro aveva immaginato sarebbe stato se gli aguzzini avessero provveduto al recapito) anche perché contiene indicazioni molto aperte su ciò che poteva essere accaduto e su come reagire: quando Moro scrive «Credo che la chiave sia in Vaticano»45 non sta dando indicazioni sul luogo di detenzione come arzigogolava cervelloticamente lo Sciascia de L’affaire Moro, ma sta dando un suggerimento, nell’ipotesi di comunicazioni confidenziali e segrete per risolvere il dilemma impossibile fra negoziato e fermezza. Moro non sa se il papa «abbia scelto Poletti» (cosa che egli ritiene plausibile o preferibile?), ma indica alla moglie vie alternative: il card. Pignedoli, responsabile del segretariato per il dialogo con i non-cristiani e partecipe dei contatti fra il suo antico amico reggiano Corrado Corghi e le BR durante il caso Sossi, di cui Moro dice che «dovrebbe avere qualche buon ricordo»; poi Maria Righetti, suocera dell’ambasciatore Pompei che, parlando col papa e venendo di corsa da Parigi («dovrebbe arrivare ad horas»), potrebbe avere udienza da Paolo VI e «gli potrebbe spiegare tutto»46. Per Moro è essenziale che l’«Osservatore Romano» non faccia altri errori e consiglia alla moglie di telefonare a Raimondo Manzini, ex direttore del quotidiano vaticano nomi43 Pubblicata su Panorama il 5/12/78 (cioè quattro mesi dopo la morte di Paolo VI) di cui si dice essere stata “custodita” da don Macchi (cosa ovvia, se il segretario la trattò come corrispondenza privata): l’originale, mi dice il presidente dell’Istituto Paolo VI di Brescia Camadini, non si trova fra le carte che quel centro detiene. Equivoca sull’origine dell’appello papale del 22 aprile, M. Moretti, Brigate Rosse. Una storia italiana, Milano, Anabasi, 1994, pp. 153-154. 44 Aldo Moro. Lettere, cit., ed. Gotor § 20, p. 38; l’editore critico, invece ritiene che la lettera al papa possa essere giunta senza l’accompagno di quella alla moglie. 45 Valle, Pensieri, cit., p. 36. 46 Le stesse indicazioni nella lettera forse del 20 aprile e non divulgata (potrebbe essere un’altra versione della precedente?) in Gotor, Aldo Moro. Lettere, cit., § 41, p. 77.

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nato da Giovanni XXIII e sostituito da Volpini tre mesi prima del rapimento di Moro, al quale attribuisce maggiore conoscenza e saggezza47. Come dicevo questa lettera doveva avere un allegato – la lettera a Paolo VI – che potrebbe essere stata recapitata separatamente, come l’inspiegabile allusione a papa Pacelli di Volpini potrebbe far ritenere: infatti non è evidente come nella discussione interna alle mura vaticane fosse potuta entrare la figura del pontefice dei giorni dell’occupazione nazista di Roma. La lettera a Montini, collocabile dopo e a ridosso dell’8 aprile, s’apre con il ricordo struggente della loro quarantennale frequentazione e i rapporti “fucini” di lui, pugliese poco più che ventenne, con l’ex assistente bresciano, estromesso nel 1933 dall’assistenza ecclesiastica, ma rimasto il punto di riferimento per il giovane che dai 23 ai 29 anni fu presidente di quella associazione. Moro cita quei rapporti – non quelli costituenti, tanto meno quelli democristiani e per nulla quelli legati al passaggio al centrosinistra e alla solidarietà nazionale. Dà voce alla formula che le BR esigono si usi «scambio di prigionieri politici»; insiste sulla sua categorizzazione (sua?) del terrorismo rosso come «guerriglia» e non come «guerra», che suggerisce altri scenari e chiede che sia la chiesa a «rompere le cristallizzazioni che si sono formate», in un contesto nel quale l’ex presidente del consiglio non ha difficoltà ad immaginare «le ansie del Governo»48. In nome degli affetti famigliari prega l’autorità del papa: l’unica che possa piegare il Governo italiano ad un atto di saggezza. Mi auguro che si ripeta il gesto efficace di SS. Pio XII in favore del giovane prof. Vassalli che era nella mia stessa condizione.

La vicenda di Giuliano Vassalli, prigioniero delle SS nella Roma occupata del 1944 è nota: Pio XII nel trattare con il comandante Wolff l’uscita dei tedeschi dalla città chiede e ottiene dall’ufficiale nazista la liberazione di quel giovane partigiano, figlio del famoso giurista Filippo Vassalli che era stato legato per professione e amicizia a Francesco Pacelli, fratello del papa. Come sempre, le lettere di Moro dalla prigionia sono di difficile interpretazione:

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Aldo Moro. Lettere, cit., ed. Gotor § 20, p. 39. Aldo Moro. Lettere, cit., ed. Gotor § 19, p. 37.

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è un puro cortocircuito della memoria quello che gli fa evocare un episodio che il sostituto di allora conosceva in ogni piega? Oppure è un messaggio che Moro spera di far giungere indicando un’altra via? Ma con chi avrebbe potuto parlare Montini di simile a Wolff? E la trattativa «mancata» citata da Volpini – che altro non può essere che quella attorno al massacro delle Fosse Ardeatine – come si inserisce? O ancora si tratta di una citazione colta che deve servire a denegare l’autenticità della richiesta di «piegare» il governo? Nulla ce lo può dire al momento e il massimo che si può sperare – ammesso e non concesso che la lettera sia arrivata al pontefice – è che qualche documento vaticano dica come quel passaggio viene interpretato entro le mura leonine. La tentazione di legger quell’allusione a Vassalli come una indicazione attualistica ad entrare in contatto o a fidarsi del giurista socialista è comune: anche perché Vassalli, fra il 14 e il 15 aprile, si reca a Firenze e soprattutto a Castelgandolfo49, luogo che ha fatto pensare a più d’uno, anche a Gotor da ultimo50, che egli fosse là ospite della villa papale e dunque parte della trattativa sui soldi. Cosa che Vassalli nega, spiegando che nella campagna romana c’era anche un luogo di seminari del Ministero di grazia e giustizia. «...forse...» Comunicata la condanna a morte del 15 aprile51, Moro si prepara al suo destino con una serie di lettere ai famigliari e di testamenti (non recapitati) che non sono frutto di depressione, ma di riflessione lucida, di una preparazione – in cui qualcuno vede messaggi oscuri52 – fatta sulla Bibbia del Diodati che i briZupo, Marini Recchia, Operazione Moro, cit., pp. 353-366. Gotor, Le possibilità, cit., p. 260. 51 Clementi, La “pazzia” di Aldo Moro, cit. 52 Il riferimento a Beniamino è stato letto da A.C. Moro, Storia di un delitto annunciato. Le ombre del caso Moro, Roma, 1998, pp. 225-226 come l’indicazione che le BR hanno fatto credere a Moro di poter rapire il nipotino Luca; Gotor, annotando Aldo Moro. Lettere, cit., p. 61, accoglie l’ipotesi che si tratti di un’incoraggiamento a procedere nella trattativa segreta; Clementi, La “pazzia” di Aldo Moro, cit., p. 19 ritiene invece si tratti di un’espressione del dolore per la mancanza dei figli. 49

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gatisti gli hanno già fornito e di un accordo con gli assassini in base al quale ha avuto assicurazione che questi «restituiranno il corpo»53. Probabilmente persuaso che la moglie avesse visto la sua lettera precedente e il papa l’allegato, Moro riflette sull’inno In Paradisum deducant te Angeli della liturgia esequiale e su Col 1, 24: Ho solo capito in questi giorni che vuol dire che bisogna aggiungere la propria sofferenza alla sofferenza di Gesù Cristo per la salvezza del mondo. Il Papa forse questa mia sofferenza non l’ha capita54.

Nel momento in cui pensa di prendere congedo dalla vita, il fallimento delle sue speranze o illusioni sulla Santa Sede viene sigillato in modo mesto, da una incomprensione di cui il «forse» che aleggia sulle umane cose è l’unico sigillo possibile e da una preghiera a La Pira che ha innescato le più selvagge dietrologie55. La babele Il comunicato delle BR n. 6 di Moro apre una serie di iniziative ardue da censire e in parte accavallate: fra il 20 e il 24 aprile, infatti, i brigatisti infittiscono le comunicazioni, che poi sospenderanno per giorni, offrono lo scambio dei prigionieri, comunicano la lista dei tredici nomi dei detenuti da liberare; insomma forniscono a Bettino Craxi e alla “via socialista” di negoziato uno spazio insperato56. La chiesa cattolica, in questo frangente, si trova esposta su almeno tre fronti. 53 La citazione di Gen 44, 29ss messa in esergo alla lettera in Aldo Moro. Lettere, cit., ed. Gotor § 33, p. 59 rivela che gli è stata procurata una Bibbia del Diodati nella revisione di Luzzi del 1925 e non una versione di quelle postconciliari della Cei. 54 Aldo Moro. Lettere, cit., ed. Gotor § 33, p. 60. 55 La ragione è la seduta spiritica con la quale alcuni economisti bolognesi dicono di aver chiuso la serata trascorsa con le famiglie nella casa di Zappolino: Alberto Clò e la moglie, Romano Prodi e la moglie, l’allievo di Andreatta Mario Baldassarri raccontarono di aver evocato lo spirito di La Pira per sapere dove era Moro e di aver ottenuto, prima in lettere la parola Gradoli, poi su una mappa lo stesso paesino viterbese. La notizia uscì l’indomani dell’elezione di Giovanni Paolo II, 17 ottobre 1978, sul «Corriere della sera», p. 7. Per le deposizioni cfr. Bianconi, Eseguendo la sentenza, cit., e Giovagnoli, Il caso Moro, cit., p. 331. 56 Su questo Giovagnoli, Il caso Moro, cit.

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Il primo è quello che vede figure di spicco del cattolicesimo puntare su una mediazione di Amnesty International: se ne parla in una riunione del 16 aprile a casa del cognato di Zaccagnini con Corrado Belci, a cui partecipano non solo dirigenti DC come Umberto Cavina, Beppe Pisanu, Guido Bodrato, ma anche Roberto Gaia ex ambasciatore a Washington, il rettore della Cattolica Giuseppe Lazzati e il braccio destro di Casaroli, mons. Achille Silvestrini. L’idea è di mettersi in contatto a Ginevra con Amnesty attraverso il delegato mons. Bruno B. Heim, diplomatico ancora di scuola roncalliana57. Andreotti, nell’edizione a stampa del suo diario, annota l’esito di una riunione dedicata alla ricerca di mediatori adatti alla tragica situazione, che pare approdare in modo autonomo allo stesso esito: Basso è scartato per il timore di vederlo partecipe di richieste impossibili; Poletti per non clericalizzare; la Croce Rossa di Ginevra per non internazionalizzare e “bellicizzare”. Si accenna a don Dossetti, ma si pensa più adatto Lazzati, rettore della Cattolica, per un appello ad Amnesty International. Preghiamo il Vaticano di appoggiare l’iniziativa per mezzo dell’arcivescovo di Canterbury che è il protettore di Amnesty. Il Vaticano lo fa immediatamente con il massimo beneplacito, cioè sentito il papa. Lazzati parte subito per Londra, accompagnato dall’ambasciatore Gaja58.

La versione fornita dal diario andreottiano è falsa: Rana ricorda di aver dovuto convincere Andreotti andando da lui59; Galloni distingue l’iniziativa dall’informazione60; e Lazzati, deponendo davanti alla Commissione Moro dice una cosa assai diversa: La domenica 16 aprile [1978] fui raggiunto a Milano da una telefonata dell’on. Zaccagnini, segretario della DC, che mi pregò di recarmi col primo aereo possibile da lui, a Roma, per necessità urgente. Lo raggiunsi nel tardo pomeriggio a casa sua. Gli erano accanto amici ed estimatori dell’on. Moro; e Zaccagnini, a nome di tutti, mi pregò di recarmi a Londra con l’Ambasciatore Roberto Gaja per verificare se fosse possibile ottenere l’interessamento di Amnesty International ai fini della liberazione di Aldo Valle, Pensieri, cit., p. 57. Andreotti, Diari, cit., p. 207. 59 Anna Chiara Valle (4 maggio 2008) mi conferma di aver consultato “un brogliaccio riepilogativo di gran parte delle iniziative e degli incontri” di un ex senatore. 60 G. Galloni, 30 anni con Moro, prefazione di M. Almerighi, Roma, Editori Riuniti, 2008, p. 258. 57 58

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Moro. Sembrò a tutti che il tentativo dovesse esser fatto e in serata l’Ambasciatore Gaja ed io raggiungemmo Londra. Il giorno appresso si ebbero due colloqui, mattino e pomeriggio, con il Sig. Ennals, Segretario Generale e alcuni funzionari dell’Organizzazione. Si chiese, quali amici dell’on. Moro e a nome della famiglia, che Amnesty prendesse contatto, se possibile, con i rapitori o almeno rivolgesse un appello per la salvezza dell’on. Moro. Quello che si ottenne, data la denunciata impossibilità istituzionale di Amnesty di esercitare forme di mediazione o di negoziato con i rapitori, fu che fosse diramato un comunicato il cui testo fu concordato nel pomeriggio e diramato appunto nella serata del 17. La sera del 17 si rientrò in Italia.

Il sen. Franco Mazzola, all’epoca dei 55 giorni delegato a coordinare i servizi segreti, ritiene che questa iniziativa non fu concordata con nessuno, se non con gli «amici di Moro» menzionati nella deposizione, proprio per evitare incidenti con il PCI61. Iniziativa infruttuosa, questa londinese, che consente al diario andreottiano di apparire ancora ignaro, al 16 aprile, del fatto che Paolo VI ha messo in moto mons. Curioni, cappellano delle carceri a Milano62 e responsabile dell’associazione nazionale dei cappellani, e che questi è già in contatto con malavitosi che affermano di negoziare uno scambio in denaro. Anziché domandare come prova dell’affidabilità una frase di Moro (come farà Craxi, chiedendo che Moro scriva autografo il titolo shakespeariano “misura per misura”), don Curioni accetta come riscontro il fatto che l’indomani sarebbe uscito un comunicato falso sull’uccisione

61 Nel libro intervista a Sandro Fontana su Donat-Cattin, si dice che «dopo le riunioni del vertice democristiano (nei 55 giorni del sequestro la direzione non è mai stata convocata) di solito era Donat-Cattin a scrivere i comunicati. Al termine di una di quelle riunioni, su richiesta della famiglia Moro, Donat-Cattin stese un comunicato e in un periodo inserì il verbo “accertare”. La richiesta era stata fatta per vie traverse alla famiglia Moro dalle BR, e la sua accettazione avrebbe potuto aprire la via a una nuova fase del sequestro. Prima che fosse reso pubblico il comunicato, Bodrato chiese che il testo venisse fatto conoscere a Berlinguer. Gli fu letto, e il segretario del PCI chiese, e ottenne, che il verbo “accertare” fosse tolto. In quella occasione, mi disse Donat-Cattin, si convinse che alcuni settori del partito erano quanto meno psicologicamente succubi anche di particolari aspetti della linea oltranzista del PCI, nonostante fosse la DC a essere direttamente colpita dall’iniziativa brigatista», N. Guiso, Carlo Donat-Cattin. L’anticonformista della sinistra italiana. Intervista a Sandro Fontana, Venezia, Marsilio, 1999, pp. 70-71. 62 Il 17 viene ucciso il maresciallo Francesco De Cataldo, vicecomandante di san Vittore, dove nasce l’operazione Curioni, cfr. Zupo, Marini Recchia, Operazione Moro, cit., p. 148.

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di Moro63. Sarà il falso comunicato n. 7, prodotto il 18 aprile da Toni Chicchiarelli e dai falsari della banda della Magliana, sciacalli in cerca del denaro del papa o forse di un ruolo di tramite fra istituzioni e violenza politica al quale si sentivano preparati e che farà da sfondo alle “rivelazioni” di Mino Pecorelli64. Ma il 18 aprile è anche la scoperta del covo di via Gradoli, della prova che Moro è vivo, della disponibilità di Amnesty – e dunque della convinzione generalizzata che proprio ora è il momento di trattare65. Si muovono i cattolici di sinistra, con un appello che – apparentemente in parallelo con l’appello “pugliese” del 1366 – raccoglie firme di grande peso, ma che uscirà solo su «Lotta Continua» il 19 aprile: lo firmano i vescovi Riva, Magrassi e Bettazzi, preti come Baget, Di Liegro, religiosi noti come Balducci, p. Pio Parisi, Turoldo, il presidente dell’Azione cattolica Mario Agnes (autorizzato dal sostituto mons. Caprio), il presidente della Fuci Monni, il presidente delle Acli Domenico Rosati67; lo firmano p. Mongillo e Giuseppe Alberigo, che ottengono l’adesione di alcuni fra i massimi teologi: Hans-Urs von Balthasar, Marie-Dominique Chenu e Jürgen Moltmann, certo ignaro di essere stato l’ultima lettura di Moro libero68. Sulla stessa scia si muove anche la Conferenza episcopale italiana che con un comunicato del 20 aprile lancia un appello perché si sappia «desistere e cercare vie giuste»69; ancor più seccamente l’indomani il quotidiano della conferenza episcopale chiede allo Stato di «riacquistare» lineamenti umani, nonostan-

Giovagnoli, Il caso Moro, cit., p. 175. Carmine Pecorelli pubblicherà su «OP» diversi articoli che mirano a screditare, come titolerà il 12 settembre 1978, la “gran Loggia vaticana”; ora in S. Flamigni, Le idi di marzo. Il delitto Moro secondo Mino Pecorelli, Milano, Kaos edizioni, 2006, pp. 253-292. 65 Giovagnoli, Il caso Moro, cit., p. 259. 66 Il 13 aprile «La Gazzetta del Mezzogiorno» pubblica in prima pagina un Appello a trattare per salvare la vita dell’on. Moro, ora anche in Giovagnoli, Il caso Moro, cit., p. 328. 67 Maliziosamente, secondo Zupo, Marini Recchia, Operazione Moro, cit., p. 157, Andreotti scrive che se la DC farà una dichiarazione conforme alle richieste di «Rosati e C. [...] libereranno senz’altro Moro». 68 Giovagnoli, Il caso Moro, cit., pp. 177, 331 n. 28; Valle, Pensieri, cit., pp. 62-63. 69 Giovagnoli, Il caso Moro, cit., p. 176. 63 64

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te il comunicato che fissa un ultimatum di 48 ore in scadenza il 22 aprile70. «Voglia intercedere» È in questo clima che Moro scrive la seconda lettera a Paolo VI: diversa dalla precedente (e forse mai recapitata), questa supplica pare scontare il fatto che l’altra non abbia raggiunto il destinatario per ragioni di cui Moro veniva edotto solo dai carcerieri, i quali gli avevano fatto spesso credere che le forze dell’ordine avessero sequestrato i suoi messaggi. Infatti Moro la indirizza «alla stampa», mostrando di aver creduto alla teoria dei sequestri di polizia e cercando così di aggirare quello che ritiene l’ostacolo. Com’è noto, le BR fecero invece esattamente il contrario, recapitando attraverso un prete romano il messaggio alla moglie e al papa che evitarono entrambi di renderne noto il contenuto nel tentativo di ripristinare il segreto che proprio Moretti aveva voluto rompere all’inizio, quando sarebbe stato più utile. La consegna avviene attraverso don Antonello Mennini, viceparroco di Santa Lucia e soprattutto figlio di uno dei banchieri dello Ior: il che alla lettura vaticana appariva confermare il fatto che i soldi non erano per nulla cosa ininfluente nello sviluppo della vicenda. Rientrato da Lourdes quel giovedì 20, Mennini riceve una telefonata71; ritira la lettera – l’aveva già fatto?72 – e la consegna come da istruzioni alla signora Moro che la legge e lo prega di portarla al papa73. Egli la consegna al vicario di Roma alle 21.30.

Giovagnoli, Il caso Moro, cit., pp. 331-332, n. 33. Valle, Pensieri, cit., p. 67 dice via Melozzo da Forlì, Gotor, nell’ed. di Aldo Moro. Lettere, cit., p. 69 dice via Vignola con gli atti della commissione. 72 Massimo Masini era stato contattato da Mennini per consegne «qualche giorno dopo il sequestro», Zupo, Marini Recchia, Operazione Moro, cit., p. 104. 73 Mennini è informato da Eleonora dell’indicazione di lui come postino per il papa e quando nega, mente (Gotor, Le possibilità, cit., p. 229). Nemmeno Guerzoni sa di Mennini, che entra dal retro a casa Moro (Ibid. e p. 249, n. 9). 70 71

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In giornata Il 21 aprile è un venerdì delicatissimo nel quale si affollano episodi difficili da collocare e soprattutto da collegare: la telefonata del papa a don Curioni74, l’annuncio del direttore della Caritas Internationalis, mons. Georg Husserl , di una disponibilità a trattare75, la bozza della lettera alle BR di Dossetti chiesta da Giovanni Moro e Carlo Forcella al monaco di Monteveglio76, la confidenza di mons. Re a Flaminio Piccoli al quale annuncia un messaggio «forte e angosciato» del papa77, l’affermazione consolatoria e rinunciataria di mons. Marcello Rossetti («si è fatto tutto quello che si poteva fare») a don Mennini78. È evidente però che Paolo VI ha fatto tutte le considerazioni che Moro si augurava e ha fatto anche una scelta, di uomini e di mezzi: se Mennini è il runner, Poletti il postino, Re l’anticipatore, Curioni lo stetoscopio dell’underground carcerario – l’uomo del negoziato papale è Agostino Casaroli. Sarà lui che nelle dodici decisive ore assisterà il pontefice e lo assisterà nel decifrare la situazione di cui conosciamo qualcosa tramite la versione dei diari Andreotti e non molto altro in termini di carte o testimonianze79.

74 Il papa chiama don Curioni a casa la notte, cfr. Gotor, Le possibilità, cit., p. 263; in Vladimiro Satta, Il caso Moro e i suoi falsi misteri, Soveria Mannelli, Rubettino, 2006, p. 171, riporta la testimonianza di mons. Fabbri sull’ingente volume di contanti ammassati a Castello per l’eventuale pagamento di un riscatto. 75 Valle, Pensieri, cit., p. 68. 76 Così la testimonianza di Carlo Forcella raccolta da Valle, Pensieri, cit., p. 65, che come sempre non indica le proprie fonti; sull’episodio anche un intervento di R. Beretta su «L’Avvenire» 29/10/2008. 77 M. Pedini, Tra cultura e azione politica. Quattro anni a Palazzo Chigi, 1975-1979, II, (Luglio 1977-Luglio 1979), Roma, Istituto Acton, 2002, pp. 571, 573 riferisce dei contatti tra Flaminio Piccoli e mons. Giovan Battista Re che informa il dirigente DC che «uscirà in giornata un appello angosciato e forte di Paolo VI». 78 Mons. Marcello Rossetti dice a “primula rossa” Mennini, che «si è fatto tutto quel che si poteva fare», in Gotor, Le possibilità, cit., pp. 261, 291, n. 21; l’intercettazione del 22 aprile in Zupo, Marini Recchia, Operazione Moro, cit., p. 106. Rossetti diventerà Cavaliere di gran croce della Repubblica il 6 marzo 2000 insieme a Mennini, Pietro Principe e Gianfranco Piovano. 79 Un racconto in Bianconi, Eseguendo la sentenza, cit., pp. 270-271.

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Alle 13 del venerdì 21 aprile Casaroli è da Andreotti con una proposta e una richiesta di Paolo VI: a) anche i diari Andreotti, infatti dicono che il papa voleva mandare la lettera al presidente della Repubblica, Giovanni Leone80; in realtà è questa la mossa che il papa sta tentando: cioè evitare una delle cose che Moro chiedeva («intercedere presso le competenti autorità governative») per palese inutilità dell’atto e invece massimizzare l’altra indicazione del condannato («porre di fronte alle esigenze dello Stato, comprensibili nel loro ordine / le ragioni morali e il diritto alla vita») saltando palazzo Chigi ed aprendo un dialogo diretto col Quirinale; b) la visita, però, ha anche un altro oggetto: Casaroli, infatti, è lì «per chiedergli quali passi [devono] ancora compiere»81 il papa e/o il governo82. I diari di Andreotti riferiscono le due risposte che mostrano come il presidente del consiglio opponga un fin de non recevoir evasivo, ma terribilmente fermo alle due ragioni dell’incontro: Spiego a Casaroli quali siano i limiti che i nostri doveri ci impongono. Stiamo tentando tutto il possibile, ma ci troviamo di fronte a criminali che vogliono distruggere la convivenza democratica dell’Italia. Se il papa lo vuole invii pure al Quirinale la lettera, ma la situazione non può cambiare per questo. A mia volta informo Leone che rimane sconcertato per questo83.

Casaroli incassa il niet andreottiano, e ne domanda verifica chiedendo al presidente del consiglio di mettere per iscritto l’atteggiamento del Governo84: cosa che Andreotti fa tacendo del colloquio in una lettera che Casaroli riscontra con un biglietto in cui ossequiando cita «il colloquio di venerdì 21 aprile u.sc.»85.

Giovagnoli, Il caso Moro, cit., p. 337, n. 122. Giovagnoli, Il caso Moro, cit., p. 196 congettura la necessita di aggiungere un “poteva” a mio avviso non indispensabile e che, se aggiunto, indebolisce il testo. 82 Macchi, Paolo VI e la tragedia Moro, cit., p. 29 è il governo soggetto dei passi. 83 Andreotti, Diario, p. 211. 84 Giovagnoli, Il caso Moro, cit., p. 337, n. 123. 85 Caso Moro, cit., XXVII, pp. 21-22 e Gotor, p. 70 80 81

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«Senza condizioni» Il pomeriggio del venerdì il papa non si trova semplicemente solo davanti alla lettera di Moro, ma si trova anche isolato dall’indisponibilità di Andreotti ad ogni assist: e come ha giustamente rilevato Agostino Giovagnoli è da questo che nasce l’appello ai brigatisti, quasi un’extrema ratio davanti all’impossibilità di ottemperare a ciò che Moro gli ha chiesto e che il papa non vuole fare scrivendo agli uomini del Governo. Mons. Macchi ha ricostruito minuto per minuto l’iter di redazione della lettera: una prima bozza dopo la cena alle 21.30, inviata a Casaroli verso le 23.30. In tre quarti d’ora arrivano alcune correzioni del diplomatico che il papa incorpora nel suo testo. Dopo mezzanotte la richiesta a Macchi di rileggerla ad alta voce; la correzione ancora di una parola nel testo e la scelta di farsela ridettare per intero per poterla comunicare come autografo del pontefice86. La chiusura alle 2.45 del mattino del sabato e, dopo che il sostituto Caprio lo ha «mostrato» al Segretario di Stato – tagliando dunque fuori tutto l’ufficio – la diffusione la mattina del sabato 22 aprile87. Macchi, Paolo VI e la tragedia Moro, cit., p. 29-30. «Io scrivo a voi, uomini delle Brigate Rosse: restituite alla libertà, alla sua famiglia, alla vita civile l’onorevole Aldo Moro. Io non vi conosco, e non ho modo d’avere alcun contatto con voi. Per questo vi scrivo pubblicamente, profittando del margine di tempo, che rimane alla scadenza della minaccia di morte, che voi avete annunciata contro di lui, Uomo buono ed onesto, che nessuno può incolpare di qualsiasi reato, o accusare di scarso senso sociale e di mancato servizio alla giustizia e alla pacifica convivenza civile. Io non ho alcun mandato nei suoi confronti, né sono legato da alcun interesse privato verso di lui. Ma lo amo come membro della grande famiglia umana, come amico di studi, e a titolo del tutto particolare, come fratello di fede e come figlio della Chiesa di Cristo. Ed è in questo nome supremo di Cristo, che io mi rivolgo a voi, che certamente non lo ignorate, a voi, ignoti e implacabili avversari di questo uomo degno e innocente; e vi prego in ginocchio, liberate l’onorevole Aldo Moro, semplicemente, senza condizioni, non tanto per motivo della mia umile e affettuosa intercessione, ma in virtù della sua dignità di comune fratello in umanità, e per causa, che io voglio sperare avere forza nella vostra coscienza, d’un vero progresso sociale, che non deve essere macchiato di sangue innocente, né tormentato da superfluo dolore. Già troppe vittime dobbiamo piangere e deprecare per la morte di persone impegnate nel compimento d’un proprio dovere. Tutti noi dobbiamo avere timore dell’odio che degenera in vendetta, o si piega a sentimenti di avvilita disperazione. E tutti dobbiamo temere Iddio vindice dei morti senza causa e senza colpa. Uomini delle Brigate Rosse, lasciate a me, interprete di tanti vostri concittadini, la speranza che ancora nei vostri 86 87

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Gli elementi di rilievo della lettera sono molti, le indicazioni per la trattativa esplicite e i contenuti anche politici di primissimo rango: Paolo VI assicura di non avere «alcun contatto» con le BR, cosa che corrisponde al vero e che mostra come nel papa ci fosse tutta la prudenza necessaria nel seguire i contatti di Curioni; precisa di «non avere alcun mandato» col che dichiara l’esito fallimentare dell’incontro Andreotti-Casaroli88; mettersi «in ginocchio» davanti agli «uomini delle Brigate Rosse» (con la doppia maiuscola di rispetto della cancelleria pontificia) e accreditandoli di una sensibilità al «progresso sociale» fornisce loro un riconoscimento imprevedibile e disorientante per i riceventi; parlando a nome dei «vostri concittadini» li accredita, come Moro cerca di fare sognando una cooptazione redentrice del terrorismo nella dialettica politica nazionale, come controparte dello Stato che combattono; infine, al di là della pur forte espressione d’amore, domanda «la prova» della loro umanità – che Paolo VI non si attende ingenuamente da una liberazione immediata, ma dall’accredito dei canali aperti. Ciò nonostante la lettera del papa è stata considerata come un’adesione alla linea della fermezza e come un accesso della santa Sede alla posizione che Andreotti aveva espresso da subito, all’indomani della strage di via Fani e del rapimento di Moro: al punto che lo stesso presidente del consiglio di allora si è sentito a più riprese in dovere di difendersi dall’accusa di essere colui che aveva ispirato la frase chiave della lettera: «senza condizioni»89. La stessa decisione di Dossetti di non rendere nota la sua lettera su Moro – così come la racconta l’unico testimone di quella reazione, Carlo Forcella – ha più elementi di attendismo («vediamo cosa può sortire la lettera del papa, non interferiamo») che non accenti negativi che pure non sarebbero stati stupefacenti nel politico e monaco italiano90. E anche il ringraziamento della animi alberghi un vittorioso sentimento di umanità. Io ne aspetto pregando, e pur sempre amandovi, la prova», in Macchi, 55 giorni, cit. 88 Rileva giustamente il tentativo del governo di mettersi al riparo della “fermezza” papale, Satta, Caso Moro: le vie della chiesa cit., p. 100n. 89 Giovagnoli, Il caso Moro, cit., p. 199. 90 Dossetti si trova a Sovere il 16 marzo per un ritiro, dove il sabato lo raggiungono don Mario Prandi e il parroco dell’Ospizio don Ferrarini da Reggio E.; rientrato a Monteveglio per la Pasqua, Dossetti trascorre alcune settimane del

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famiglia al papa91, sentire che il senso di quelle parole montiniane nel contesto è diverso da quello che potrà assumere mesi dopo, alla luce del fallimento delle trattative e dell’assassinio di Moro stesso. Mai come in questo caso la confusione totale che regna fra i brigatisti è l’indicatore di un certo dinamismo: per Lanfranco Pace Paolo VI fa sbandare l’organizzazione perché divarica quei militanti che pensano di aver ottenuto il più alto riconoscimento politico attraverso la voce del papa dai duri che invece coltivano quella che Giovagnoli chiama l’ossessione democristiana di Moretti; per Anna Laura Braghetti l’inciso senza condizioni fa precipitare la situazione e di fatto condanna a morte Moro; per Barbara Balzerani quel documento dimostra che il nemico è caduto nella rete e che la strategia brigatista è in grado di smascherare la rete di connivenze dello Stato92. Se mons. Macchi ricorda con precisione, però, la lettera coincide col massimo sforzo per portare a buon fine la trattativa per la vita dell’ostaggio prima della scadenza dell’ultimatum: nei colloqui fra don Curioni e l’avv. Edoardo De Giovanni, secondo Macchi93 si definisce anche una sorta di modus procedendi in base al quale Curioni sarebbe condotto nella prigione di Moro, e da lì porterebbe Moro dentro le mura leonine facendo dire che è in territorio Vaticano che è avvenuta la liberazione. Sono le stesse ore che Bodrato passa a Trastevere negli uffici della Caritas: il dirigente democristiano attende lì un contatto telefonico che non arriva94, così come attende lì una conversazione col marito la Eleonora Moro, alla quale però parlerà soltanto un brigatista diffidente verso la voce eccessivamente giovanile della signora. tempo pasquale a Lesignana, nei pressi di Monteveglio. Da qui scrive una lettera a Pignedoli, ancora inedita, nella quale dice che si dovrà arrivare ad una trattativa con uno scambio e si offre – a detta di alcuni dei lettori – per sostituire l’ostaggio (cosa che pare irrealistica a chi conosca la lucidità politica del monaco) o nel parere di altri per seguire lo scambio (cosa che spiegherebbe anche i contatti di fine aprile fra Alberigo, mandato da Dossetti, con Craxi, di cui infra). 91 Bianconi, Eseguendo la sentenza, cit., p. 279. 92 Giovagnoli, Il caso Moro, cit., p. 199. 93 Gotor, Le possibilità, cit., p. 264. 94 22/4 ore 15 Bodrato convocato alla Caritas di Trastevere allo scadere dell’ultimatum del vero comunicato n. 7 del 20, ore 15 / AG336n113 sui telefoni Caritas e Bodrato, cfr. Valle, Pensieri cit., p. 72.

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«non pagando niente» Dal 22 aprile in poi la situazione mostra inattese possibilità di soluzione: cosa Moro abbia appreso dal cosiddetto “canale di ritorno” che gli porta informazioni in cella o dai brigatisti non è dato sapere, ma è chiaro che o per illuminata fantasia o per capacità di lettura, il prigioniero si rende conto che il movimento in atto gli allunga la vita ed aumenta le chanches di salvezza. E mostra di essere l’unico ad aver capito l’ambiguità della lettera papale, assai più grande della sua nettezza: in una lettera per Mennini lo dice chiaramente, tornando ad invocare Poletti come mediatore95: S.Em. Poletti potrebbe far osservare a S.S che il suo bellissimo messaggio, equivocando tra restituzione umanitaria e scambio di prigionieri si presta purtroppo ad essere utilizzato contro di me.

Sottolineo il «purtroppo» perché mi pare chiaro che Moro intuisce la possibilità di usare il messaggio per fini del tutto diversi; e dunque spera in un segnale pontificio, che, invece, non verrà. Anzi vedrà comparire sulla bocca del papa, al Regina Cœli del 23 aprile, la parola «carnefici» rivolta contro coloro che aveva prudentemente chiamato «uomini»96. Moro, però, pare non saperlo, ed è fiducioso. Anche l’appello di Kurt Waldheim, segretario generale dell’Onu e firmatario da ministro degli Esteri austriaco di un protocollo col suo omologo Moro che mise fine al terrorismo irredentista altoatesino, porta ottimismo a un prigioniero meno aggiornato su una situazione che comunque si va, felicemente per lui, complicando. Moro, naturalmente, non sa che la «chiesa è turbata» dall’iniziativa Onu97, ma probabilmente sa che l’appoggio Onu alla tesi dello scambio potrebbe aprire quella via pecuniaria che non si sa se ha saputo o subodorato nelle intenzioni vaticane. Egli non si rende conto che non tutti i negoziati e i tentativi di abboccamen-

Aldo Moro. Lettere, cit., ed. Gotor § 61, p. 113. Macchi, Paolo VI e la tragedia Moro, cit., p. 26. 97 Pedini p. 573, commentato da Giovagnoli, Il caso Moro, cit., p. 337, n. 127. 95 96

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to hanno come obiettivo quello di salvare lui98. Non solo, probabilmente confonde la linea della grazia ad un detenuto che ne abbia alcuni requisiti oggettivi e soggettivi patrocinata da Craxi, con gli sforzi per stabilire un riscatto che prendono le mosse da Castelgandolfo: ne dà la riprova, quasi sul filo dell’autoironia, la lettera scritta il 22-23 aprile all’ambasciatore Cottafavi per cercare di favorire la venuta di Waldheim e per aprire un altro canale di negoziazione ginevrino con la Croce Rossa, che potrebbe essere semplicemente un appello a Fanfani tramite la moglie Maria Pia: E bisogna aggiungere che [Waldheim] non avrà un compito facile per le resistenze del governo che vorrebbe risolvere in termini umanitari (cioè non pagando niente) la questione [...]. PS. E un incontro a Ginevra sotto l’egida della Croce Rossa sarebbe possibile?99

In realtà, Giuliano Vassalli, per conto di Craxi e con contatti a vasto raggio, sta cercando dal 23 in poi di stilare una lista di detenuti per reati di terrorismo che possano essere beneficiati dalla grazia presidenziale con qualche ragionevolezza: Cesare Maino della XXII ottobre già nella lista del rapimento Sossi ed ora semicieco, Paola Besuschio gravemente inferma, Nadia Mantovani e Vincenzo Guagliardo in scadenza di pena sono alcune delle ipotesi fornite al segretario socialista, che in quei giorni incontra anche Alberigo, inviato da Dossetti, al Raphael100. Non è una mossa dilatoria e decorativa, ma un vero impegno di cui Moro, nell’insonorizzazione informativa in cui viene tenuto, coglie solo qualche frammento e sul quale prende posizione solo d’intuito. E mostrare un Moro incerto101, fa parte dello spietato gioco d’informazione di cui tutti si servono in questa settimana. Fa senz’altro parte di quello delle Brigate Rosse che col comunicato n. 8 del 24 aprile – quello che ricusa la Caritas

98 Gotor, Le possibilità, cit., pp. 257, 259 sui due negoziati, uno per le carte e uno per il prigioniero, come dice il comunicato del 4 aprile. 99 Aldo Moro. Lettere, cit., ed. Gotor § 43, p. 80. 100 Valle, Pensieri, cit., p. 79. 101 Attorno al 25 aprile, quando vede la lettera del papa, Moro scrive alla moglie: «il Papa non può fare niente neppure dimostrativamente, in questo caso?», Aldo Moro. Lettere, cit., ed. Gotor § 67, p. 123.

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Internationalis come mediatore – fanno la lista dei tredici nomi di “compagni” da scarcerare e riescono, dosando le consegne delle carte morotee, a creare confusione nel campo avverso, che è quello della trattativa per l’ostaggio. Proprio mentre l’attività di Mennini (che sarà intercettato dal 22 al 27 aprile e poi dal 3 maggio in poi) si fa più intensa, un documento steso dal card. Pellegrino e firmato da numerosi accademici che si dichiarano “amici” di Aldo Moro prende posizione contro l’autenticità morale delle sue lettere: insieme al porporato torinese lo firmano mons. Zama, mons. Rossano, mons, Ferrari Toniolo, Vivaldo, Ciattaglia, Pietro Scoppola, Paolo Prodi, Gabriele De Rosa, Fausto Fonzi, Giuseppe Lazzati, Pazzaglia, Benevolo, Franco Bolgiani, Pierluigi Castagnetti, vi aderisce dall’esterno Giovanni Spadolini e lo firmano anche Vittorino Veronese e p. Rovasenda che avevano firmato l’appello di «Lotta Continua», suscitando lo sdegno di Turoldo che dell’altro appello era stato protagonista102. Lo stesso giorno Andreotti incontra mons. Macchi, segretario del papa e, a differenza di Casaroli, totalmente disarmato sul piano politico-diplomatico davanti al presidente del consiglio: è questi che esclude ogni forma di liberazione o salvacondotto (un metodo ampiamente usato ad esempio con i terroristi dell’Olp) e suggerisce la liberazione di un detenuto in altro paese, cosa che non avrebbe cambiato di nulla la posizione di Moro103. Non accenna a questo la lettera che il presidente del consiglio invia al papa quello stesso giorno, 25 aprile – cioè due giorni dopo che il papa in un Angelus non chiama più le BR uomini, ma «carnefici»104. Con sprezzo del pericolo, Andreotti tenta di mettere a verbale una versione che lo esonera da ogni responsabilità, dopo aver impedito al papa di comunicare la lettera di Moro a Leone: scrive che «il papa ha fatto per la liberazione di Moro più

102 Su La Repubblica il 4/5 Turoldo li accusa di «concezione ateistica», cfr. Giovagnoli, Il caso Moro, cit., p. 350, n. 10. 103 A questo non fa cenno la lettera del 25 aprile al papa nella quale Andreotti ripropone la linea della fermezza, spiegando che l’ordinamento giuridico italiano non consente il «proscioglimento di comodo», Macchi, Paolo VI e la tragedia Moro, cit., pp. 36-37. 104 Macchi, Paolo VI e la tragedia Moro, cit., p. 26.

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dell’immaginabile con forza e insieme con delicatezza» e spiega che «la durezza dei cuori dei destinatari ha resistito anche a questo eccezionale appello, non accettando il rapporto fondato su considerazioni cristiane e umanitarie». Ribadisce che lo scambio dei prigionieri è inaccettabile «per l’assurda equiparazione di un rapito ad opera di un gruppo criminale con quanti debbono rispondere di delitti gravissimi»; sostiene che «ipotizzare che si sia in guerra è un espediente miserevole per giustificare uccisioni e attentati», ripete la tesi sull’impossibilità nell’ordinamento di «scarcerazioni di comodo». Ma il centro è un altro e punta ad inchiodare Paolo VI105: il Parlamento italiano è su una linea di fermezza [...] altrimenti si aprirebbero davvero pagine di avventura in una irrefrenabile spirale di violenza.

La parola chiave – spirale – esclude ogni altra soluzione che non sia quella per la quale ha già dato via libera a Macchi: i soldi. Su cui si verrà poco dopo. «fare di più» Il fatto che dal 27 aprile al 4 maggio le intercettazioni di Mennini siano interrotte (rectius: “ufficialmente perdute”106) è la riprova che in questo momento quella via sta registrando progressi che non dipendono e non interferiscono con altre iniziative: come quella dei ragazzi di Febbraio 74 che chiedono la mediazione della Croce Rossa facendo eco alla lettera di Moro a Cottafavi107; come quella un po’ estemporanea di mons. Bettazzi che il 29 a Bologna chiede al presidente della Cei, card. Poma, un via libera per offrirsi come prigioniero in cambio di Moro

105 Contro il papa c’era stata una campagna denigratoria: Viktor Marchetti, La CIA e il culto dell’intelligence nel 1974 aveva indicato Montini come beneficiario dell’Agency. Marco Fini e Roberto Faenza, nel libro Gli americani in Italia, anticipato da Panorama il 3 febbraio 1976 indicavano in Montini un uomo CIA; la reazione de L’Avvenire era stata indignata e isolata, secondo Zupo, Marini Recchia, Operazione Moro, cit., pp. 317-320. 106 Gotor, Le possibilità, cit., p. 261. 107 Gotor, Le possibilità, cit., p. 231.

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e che cerca di avere dall’avv. Guiso, difensore degli imputati brigatisti del processo di Torino, contatti che non avrà. Moro aveva già chiesto a Mennini, in una lettera non recapitata del 24 aprile108, di fare una commissione presso il vicario di Roma: Dì al Card. Poletti che mia moglie purtroppo non sta bene. Che supplichi il Papa di fare di più, insistendo personalmente con Andreotti e non lasciandosi convincere dalla Ragion di Stato. Altre volte è stata superata109.

E torna sull’argomento in una lettera di poco successiva, quando si rende conto che le sue lettere sono state sequestrate (non dallo Stato, con procedure di cui suggerisce l’impugnazione in sede amministrativa tramite i buoni uffici del suo ex capo di gabinetto, prefetto Manzari, ma da Mario Moretti): nemmeno questa lettera arriverà al sacerdote romano, col quale immaginava di aver avuto il permesso di combinare un incontro (e al quale dà consiglio perché depositi il plico in qualche luogo sicuro senza passare dalla residenza parrocchiale?): Ho pensato dunque di unire il tutto, di chiamarti, di darti il pacchetto, perché lo tenga per te. Evidentemente, sorpassando casa, si rischia la perquisizione. Terrai tutto per te e, a tempo debito, ne parlerai a voce con mia moglie per vedere il da farsi110.

In questa lettera ripete la lamentela su Paolo VI, con un accenno di speranza su azioni riservate della S. Sede di cui si dimostra comunque conscio: «Il papa non poteva essere un po’ più penetrante? Speriamo lo sia stato anche senza dirlo»111.

108 Il 24 aprile don Mennini parla con Nicolai, e secondo Zupo, Marini Recchia, Operazione Moro, p. 105, sono persone che si conoscono. 109 Aldo Moro. Lettere, cit., ed. Gotor § 65, p. 121. 110 Aldo Moro. Lettere, cit., ed. Gotor § 81 p. 138. 111 Aldo Moro. Lettere, cit., ed. Gotor § 81, p. 139; il 26 aprile all’udienza generale Paolo VI dice parole di grande preoccupazione per il paese determinate dall’episodio del sequestro Moro, cfr. Macchi, Paolo VI e la tragedia Moro, cit., p. 40.

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«umilmente mi permetto di sottoporre al Santo Padre» Prigioniero delle Brigate Rosse e vittima inerme degli inganni e della disinformazione con le quali esse lo torturano, Moro continua a produrre ipotesi di lavoro per i suoi corrispondenti – a volte inerti semplicemente perché la censura brigatista non consegna le buste, altre volte perché assai più lenti di Moro nel vedere vie pratiche di azione. Il 28 aprile, nella lettera al partito che le BR consegnano, Moro prende posizione contro gli “amici” che hanno disconosciuto l’autenticità delle sue missive, esprime giudizi sul partito che in parte devono chiaramente servire a lubrificare il canale di consegna brigatista, e offre un consiglio diverso da quelli fino a quel momento circolati fuori e sulle pareti della sua cella: In concreto lo scambio giova (ed è un punto che umilmente mi permetto di sottoporre al S. Padre) non solo a chi è dall’altra parte, ma anche a chi rischia l’uccisione, alla parte non combattente, in sostanza all’uomo comune come me. Da che cosa si può dedurre che lo Stato va in rovina, se, una volta tanto, un innocente sopravvive e, a compenso, altra persona va, invece che in prigione, in esilio?112

La frase in corsivo è nella versione più ampia e diretta, mentre non figura in quella che Moro stesso definisce «più stringata e prudente»: non potendo far altro, ormai edotto dall’esperienza e probabilmente anche consapevole della censura in uscita delle BR, Moro rimette loro le due versioni affidando al loro giudizio la scelta su quale delle due versioni render nota – ed era chiaro che volendo diffonderne una le BR avrebbero scelto quella meno stringata e meno prudente... Craxi colse subito l’accenno a un non-detenuto – è tale l’«altra persona» che la frase fa supporre a piede libero – al quale applicare i precedenti utilizzati in favore dei terroristi palestinesi in Italia. Cosa abbia colto il papa quando la lettera arriva sui giornali il 30 aprile non è facile dirlo anche perché attorno a lui – e al negoziato di cui è parte – brulicano iniziative sul filo del dilettantesco: ne conosciamo, ad oggi, tre113. Una è quella che fa capo 112 113

Gotor, Aldo Moro. Lettere, cit., ed. § 81, p. 141. Nella telefonata del 28 aprile Massimo [Masini] parla di «vari pretonzo-

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all’inutile contatto diretto fra Andreotti e il segretario personale del papa, mons. Macchi, di cui costituisce un culmine il colloquio del 30 aprile: Andreotti accetta una trattativa per il riscatto usando o i soldi che p. Enrico Zucca ofm, fra gli iniziatori della Fondazione Balzan, ha a disposizione per una operazione tutta sua e tutta inutile114 o quelli che l’israeliano Flatto Sharon ha raccolto o altri ancora115. Insomma, per l’Andreotti dei diari: Denaro: sì (tenendo conto del presunto tentativo con Schlesinger − Banca popolare di Milano)116.

Altra iniziativa è quella di Corrado Corghi, lo studioso reggiano già entrato in contatto con Franceschini e Curcio al tempo del rapimento Sossi: se in quella occasione c'era stato l’appoggio del card. Pignedoli, a fine aprile 1978 Forlani dà uno stop a queste spericolate esplorazioni117. Infine c’è il tentativo avviato da p. Camillo de Piaz, che il 1° maggio raggiunge Bettazzi a Camaldoli per insistere sullo scambio: cosa che il sostituto mons. Caprio, interpellato il 3 maggio, esclude con parole durissime anche per evitare che una mossa improvvisata distrugga il contatto che la S. Sede ha, o almeno crede di avere118.

li» nella trattativa, cfr. Zupo, Marini Recchia, Operazione Moro, cit., p. 362. 114 La notizia viene da un settimanale, Satta, Caso Moro: le vie della chiesa, cit., p. 101n; la tesi di Andreotti (Stefano Frayini per ANSA, 9 maggio 2008) secondo cui sarebbe stato un incontro decisivo fissato proprio il giorno dell’uccisione di Moro fa evidentemente confusione con la trattativa vaticana di cui p. Cremona è al corrente e di cui F. Cossiga ricorda un accenno («speriamo bene») confidatogli da Andreotti, ivi, p. 111n. 115 Gotor, Le possibilità, cit., pp. 291, 263; Andreotti, Diari, p. 217, 30 aprile. 116 Andreotti, Diario, cit., pp. 214-215; Gotor, Le possibilità, cit., p. 263. 117 Valle, Pensieri, cit., p. 86. 118 Valle, Pensieri, cit., pp. 29-33: ciò che uscirà sarà una offerta di scambio pubblica, resa nota il 4 maggio dal settimanale diocesano di Ivrea, Risveglio popolare, ove il vescovo si dichiara disposto a farsi «eco di tutte le istanze umanitarie, tese, in primo luogo – come ha fatto il Santo Padre con la sua nobilissima lettera – a toccare la ragione e se possibile il cuore dei carcerieri». L’intervista in tv è del sabato 6 maggio, TG2 ore 13, in Teche Rai.

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L’ultima illusione Il lavoro di fino compiuto da Miguel Gotor sulle lettere conferma che nelle veritiginose oscillazioni di prospettiva che Moro pratica nei suoi giorni di prigionia, quelli compresi fra il 30 aprile e il 3 maggio sono caratterizzati da un barlume di speranza, che gli fa presentire vicina la liberazione. Dopo aver chiesto da presidente del Consiglio nazionale della DC la sua convocazione e aver delegato Misasi a rappresentarlo119, Moro enuncia nelle ultime pagine del Memoriale120 e nelle ultime lettere ai dirigenti DC le intenzioni di uno che sopravvivrà all’esperienza: rinuncia alla militanza democristiana, si propone di passare al gruppo misto, enuncia il “successo politico” delle BR, come chi sa che la prigionia volge al termine121. È anche la convinzione dei secondini, che però decidono solo il pomeriggio del 3 maggio, con una votazione che vede Moretti, Balzerani e Seghetti per l’uccisione e Morucci e Faranda contrari. Il 5 maggio, quando l’ultimo ambiguo comunicato annuncia che le BR chiudono il sequestro «eseguendo la sentenza», la maggior parte dei protagonisti crede ancora al miracolo, anzi, lo trova preannunciato dal gerundio. Macchi ed Andreotti si scambiano rassicurazioni sul fatto che se fosse necessario denaro, sia lo Stato che il Vaticano sarebbero «all’altezza»122. Messa per la terza volta davanti all’imminenza dell’esecuzione la chiesa continua a cercare il gesto penetrante che Moro auspicava dal papa: sarà mons. Benelli, ex sostituto e ora arcivescovo di Firenze, a chiedere ed ottenere il trasferimento del brigatista Alberto Buonconto da Trani a Napoli il giorno 6123. Quando il 7 Bartolomei anticipa l’intervento di Fanfani per chiedere la convocazione del consiglio nazionale del 9124, quando l’8 Andreotti

Aldo Moro. Lettere, cit., ed. Gotor §§ 86 e 89. Il memoriale di Aldo Moro rinvenuto in via Monte nevoso a Milano, a cura di F.M. Biscione, Roma, 1993. 121 Gotor, Le possibilità, cit., pp. 273-278. 122 Andreotti, Diari, p. 220. 123 Valle, Pensieri, cit., p. 90. 124 Valle, Pensieri, cit., p. 89. 119 120

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sussurra a Cossiga “speriamo bene”125, quando p. Carlo Cremona il 9 si apposta innanzi ad un telefono riservato in attesa che Curioni porti Moro libero in Vaticano126, quando Mennini pensa che i “nomi” siano tutti chiari127, Moro ha già scritto una nuova struggente lettera di addio, che i brigatisti assemblano, incuranti di una qualche incoerenza filologica dovuta alle riscritture di un Moro ormai privo di alcune speranza che non sia quella cristiana. «pochino» Le ultime pagine del carteggio Moro segnano la presa di coscienza che dopo «un momento di esilissimo ottimismo, dovuto forse ad un mio equivoco circa quel che mi si veniva dicendo, siamo ormai, credo, al momento conclusivo». Ancora una volta Moro pensa ad una via negoziale – ancora una volta diversa: «Cento sole firme raccolte avrebbero costretto a trattare. E questo è tutto per il passato». Ancora una volta la dimensione spirituale emerge prepotente in una obbedienza di fede davanti alla «prova assurda e incomprensibile» nella quale ci «sono le vie del Signore». Poi il finale a tutti noto: Tutto è inutile, quando non si vuole aprire la porta. Il Papa ha fatto pochino: forse ne avrà scrupolo.

125 Gotor, Le possibilità, cit., p. 291, n. 33 e p. 264. Su Cossiga che si presenterà dimissionario al consiglio dei ministri cfr. 55 giorni di piombo. Lettere dal carcere di Aldo Moro. I ricordi di F. Cossiga, Claudio Martelli, Agnese Moro, Eugenio Scalfari, a cura di A. Spiezie, Roma, ElleU, 2000, p. 122. 126 P. Cremona aspetta il segnale per mandare Curioni da Moro e liberarlo Cfr. C. Cremona, Paolo VI, Milano, 1991, pp. 261-262; Gotor, Le possibilità, cit., p. 292, n. 35 e p. 265 si riferisce anche ad un’intervista radiofonica del religioso. 127 Parlando con un monsignore, nella bobina perduta del 9 maggio, Mennini dice che «si poteva fare ancora qualcosa perché la Segreteria sapeva di quel nome»: o meglio gli era «sorto il dubbio di quel nome su quella lettera, però la Segreteria lo sapeva», Zupo, Marini Recchia, Operazione Moro, cit., p. 105, che sbaglia nel credere che il viceparroco non potesse aver contatti d’alto livello se non per ragioni famigliari.

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Conclusione Quel giudizio di Moro, il suo rifiuto di un funerale di Stato, costringerà Paolo VI a pronunciare l’omelia del 13 maggio 1978, nella quale la distruzione interiore che il papa ha patito affiora trasparente a preannunciare la fine non solo dell’esistenza di un uomo sottoposto ad una prova terribile128, ma anche la fine di una stagione nel rapporto fra Stato repubblicano e chiesa romana. Di lì a poco il fine sismografo del conclave ne avrebbe preso atto sancendo la fine del pontificato italiano – una fine che ha coperto metà, ad oggi della storia repubblicana. I messaggi di cordoglio, il colloquio pubblico del papa con l’altissimo, quel rimprovero a Dio di aver fatto lui «pochino», davanti alla preghiera del successore di Pietro129 restano come una misura pacata e severa di ciò che effettivamente era accaduto nella chiesa italiana davanti al progressivo indebolimento del quadro politico, davanti all’emergenza della strategia della tensione, davanti alle lacerazioni terroristiche e davanti all’apostasia democratica di una generazione: «pochino» fu questo e lo dice il discorso a braccio all’udienza generale del 17 maggio, discorso dove affiora tutto il pessimismo del Montini disilluso sul progresso del mondo e tutta l’elaborazione teologica sulla libertà con cui la mano di Dio sa trarre il bene dal male130. Lo dice anche nel discorso che giustamente mons. Macchi mette a conclusione d’una raccolta di interventi montiniani sulla tragedia Moro: La nostra riflessione su tale avvenimento richiama a tutti pensieri molto seri e pratici circa la nostra partecipazione [...] alla vita sociale del nostro tempo, la quale deve farci sentire non solo partecipi, ma in parte responsabili del suo svolgimento, nel senso che dobbiamo tutti procurare che la nostra mentalità ed il nostro costume siano guidati da una forte coscienza morale. Bisogna che la bontà delle idee e delle opere di tutti sia più presente e più operante nel nostro mondo, affinché gli sia risparmiata la degenerazione di cui l’ingiusta e tragica fine di un uomo di Stato buono, sereno, colto e pio come fu Aldo Moro, è un segno che ci fa paura e rossore.

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diale». 129 130

Macchi, Paolo VI e la tragedia Moro, cit., p. 44 parla di un «colpo miciMacchi, Paolo VI e la tragedia Moro, cit., pp. 44-51. Macchi, Paolo VI e la tragedia Moro, cit., pp. 54-58.

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In questo «pochino», l’azione del papa Paolo VI per salvare la vita di Aldo Moro non fu affatto tiepida o neghittosa: una volta che Andreotti aveva messo con le spalle al muro Casaroli, restavano solo vie traverse, ingombre di trappole e comunque lente da percorrere, che Moro tenta di seguire chiamando Poletti in scena, ma inutilmente: perché l’orologio di Mario Moretti batte sempre più veloce di quello degli altri. Una discrasia accelerante che Moro capiva e alla quale cercava di rispondere suggerendo vie diverse e nuove, soluzioni e varianti, cambi di rotta e formule d’azione, ad una velocità che è tripla rispetto a quello che il quadro ecclesiastico (oltre a quello politico) erano in grado di recepire: per questo il quantum della chiesa fu «pochino». Un pochino che per ragioni sue Andreotti ha inteso omologare al suo agire, come farà poi per tanti elementi politici. E «pochino» – più per la forza di quella omologazione che per l’oggettività delle cose – quell’azione apparve anche in seguito davanti ai tribunali, alle commissioni d’inchiesta, al lavoro storico; mentre la cosa che davvero fu poca fu la volontà, a Paolo VI ormai morto, di far uscire dal riserbo quell’azione e quella dei singoli cattolici. È così che non si è voluto parlare dei dieci miliardi accumulati a Castelgandolfo per il riscatto131, della missione di don Curioni, del canale di ritorno di don Mennini, della lettera di Dossetti, del viaggio di Lazzati, della telefonata di Benelli, di p. Zucca, perfino delle visite del cardinal vicario alla famiglia Moro. Con una discrezione che talora si confonde con l’omertà, come se in quel capir poco ci fossero delle colpe nascoste o gli intrighi che rendono la vicenda Moro la palestra per una produzione giallistica ancora inesausta, in carta e in celluloide. Giacché, a dispetto di tutto, qualcosa di straordinario, qualcosa che non è “pochino” il papa, la chiesa e i cattolici italiani potrebbero vantarlo: e cioè la tenuta “spirituale” di un uomo come Moro che sa di essere ucciso, che per varie volte viene esposto all’annuncio di un’imminente esecuzione, che probabilmente viene terrorizzato con la minaccia di rapire o uccidere 131 La cifra è quella di Fabbri che li ha veduti, cfr. Satta, Caso Moro: le vie della chiesa, cit., p. 113.

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uno dei famigliari adulti o addirittura un nipotino. Un uomo che si trova davanti un muro assai più alto di quello che era stato concesso di scavalcare a terroristi palestinesi non meno spietati e non meno pericolosi dei brigatisti, che non riesce a veder fiorire nessuna delle soluzione che gli pare di aver individuato – e che in tutto questo conserva come proprio tesoro una fede semplice e solidissima, formatasi alla libertà negli anni del fascismo, affinata dagli studi e dalle letture nonostante la militanza politica, rimasta limpida e severa nonostante l’esercizio continuato del potere.

Edoardo Novelli L’iconografia della violenza politica*

Il XX secolo è stato di volta in volta definito il secolo dei totalitarismi e della violenza politica, il secolo della propaganda e il secolo delle comunicazioni di massa. Letture molto differenti fra loro, basate su argomentazioni politiche, sociali, tecnologiche, che non solo non risultano in contraddizione ma, anzi, si integrano e ben coesistono, nel definire la specificità e la peculiarità del secolo scorso. Politica, immagine, violenza, sono l’oggetto di questo percorso interno all’iconografia della violenza politica in Italia che, muovendo dalla domanda se relativamente alla seconda metà del secolo scorso sia possibile parlare di una estetica e una rappresentazione visiva condivise della violenza politica, intende interrogarsi su quali ne siano eventualmente stati il linguaggio visivo, la grammatica iconica, alle quali le diverse forze politiche, nei differenti momenti storici, hanno attinto e si sono rifatte, contribuendo in questo modo ad alimentarle e a rinnovarle. La violenza politica in Italia ha elaborato un proprio linguaggio simbolico oppure, in assenza di quello che potrebbe essere definito un repertorio storico, un dizionario sedimentato, si è servita di volta in volta di una creatività estemporanea, legata a elementi contingenti e momentanei? Muovendo da questi obiettivi, il presente articolo intende proporsi come un primo percorso di analisi sul campo, focalizzato su specifici momenti della recente storia italiana, condotto attraverso il costante riferimento a do-

* Per le immagini cui si fanno riferimento in questo contributo (figg. 1-25) – tutte fornite dall'autore – si veda all’Appendice iconografica, pp. 277-283.

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cumenti iconografici. La difficoltà a comparare e far dialogare documenti visivi realizzati in periodi differenti, senza il conforto di esperienze di riferimento elaborate all’interno degli studi storici o di comunicazione, così come il difficile accesso alle diverse tradizioni e patrimoni iconografici, ancora poco definiti e documentati, hanno contribuito a rendere il percorso più difficoltoso e volutamente prudente. La ricorrenza nel corso dei secoli e fra diverse culture di immagini e stilemi per rappresentare scene di guerra, conquista o barbarie, testimonia come anche in epoche a relativamente bassa circolazione dell’immagine fosse presente un’iconografia condivisa della violenza, sulla quale popoli e culture intervenivano introducendo a loro volta nuovi e specifici elementi1. Il supplizio, l’esecuzione o l’esposizione del corpo dell’avversario, sono alcuni dei momenti riprodotti al fine di esaltare la propria violenza; come il trionfo, la conquista o la celebrazione, rappresentano alcuni dei modelli utilizzati per celebrare la propria forza. Una coerenza nell’uso di codici e significati visivi che si realizza all’interno di culture nelle quali l’immagine ricopriva forzatamente un ruolo ed un peso secondari rispetto alla parola e alla scrittura. Rispetto a questa iconografia, che si serviva principalmente della pittura, della scultura, dell’architettura, la rivoluzione nella produzione e nella circolazione dell’immagine che si è realizzata nel corso del Novecento ed in particolare nella seconda metà, hanno comportato anche nella comunicazione politica e del potere la prevalenza della dimensione visiva su quella verbale e scritta. Mentre la riproducibilità dell’immagine e la sua manipolabilità, consentite oggi dagli strumenti informatici e tecnologici, hanno reso facilmente accessibile a tutti un linguaggio rimasto per secoli limitato nei suoi usi e nella sua disponibilità a ristrette elites politiche. Una nuova dimensione che ha coin-

1 Sull’uso e sul riutilizzo nel tempo delle immagini e di modelli visivi e del loro valore di prova storica, P. Burke, Testimoni oculari, Roma, Carocci, 2002. Per una esemplificativa documentazione fotografica: R. Bianchi Bandinelli, ROMA. L'arte romana nel centro del potere, Milano, Rizzoli, 1969; M. Heimbürger, La figura umana nell'arte europea: dalla preistoria al 2000 d.C., Roma, Palombi, 2006; F. Marzatico, P. Gleirscher (a cura di), Guerrieri Principi ed Eroi tra il Danubio e il Po dalla Preistoria all'Altomedioevo, Trento, Editrice Temi, 2004.

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volto, trasformandolo, anche il rapporto fra politica, violenza, immagine. Con quali effetti sui modelli e sulle forme della rappresentazione iconografica? Rispetto alla parola, alla razionalità del discorso e della scrittura, l’immagine è più evocativa, rapida, diretta2. Strumento in grado di accendere animi e suscitare passioni, perché capace di agire sull’inconscio, di colpire sul piano emotivo anziché razionale. Con simili caratteristiche, l’immagine rappresenta una forma d’espressione privilegiata e congeniale per esaltare o condannare un comportamento emotivo profondo, talvolta incontrollabile, quale la violenza. Nell’iconografia politica italiana della seconda parte del XX° secolo la rappresentazione della violenza non risulta un soggetto privilegiato dalla politica, se non in alcune e ben delimitate stagioni e con precise valenze ed intenzioni. Se gli anni in questione sono stati caratterizzati dalla durezza dello scontro sociale e da una diffusa e persistente violenza politica, al punto di portare a parlare di democrazia incompiuta o polarizzata, di una visione dogmatica e demonizzante dell’avversario considerato nemico, di scontro frontale fra due contrapposte visioni del mondo, a tutto ciò non corrisponde un’altrettanto diffusa rappresentazione e, ancor meno, esaltazione della violenza attraverso l’immagine. Questo non significa che, per ragioni diverse, talvolta opposte, la violenza non sia stata mostrata e raffigurata, grazie ad una grammatica visiva, una pluralità di simboli, icone, significanti, che – come vedremo – in alcuni casi hanno finito per passare da un fronte politico ad un altro o per cambiare senso e significato. Ma nel complesso la rappresentazione della violenza, tanto con finalità esaltatorie, quanto critiche, è una componente marginale nella storia dell’immagine politica italiana della seconda metà del Novecento. Un lemma secondario nel vocabolario iconografico della politica e con poche occorrenze nel linguaggio delle immagini. 2 Sull’impatto delle immagini nella nostra cultura e sulla loro superiorità espressiva in confronto al testo si colloca l’area di ricerca dei visual studies e il concetto di visual culture. Si veda anche C. Branzaglia, Comunicare con le immagini, Milano, Bruno Mondadori, 2003; M. Carboni, L'occhio e la pagina, tra immagine e parola, collana “Di fronte e attraverso, 606”, Storia dell'arte/estetica 20, Milano, Jaca Book, 2002.

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Ben più presente, praticamente costante, è invece nell’iconografia politica la rappresentazione di un altro soggetto: la forza. La celebrazione, l’esibizione della forza, vera o presunta, militare o politica, numerica o morale, rappresenta infatti un modello ricorrente, un luogo comune, frequentato nelle diverse stagioni e dalle diverse formazioni politiche. Tanto l’iconografia dei Comitati Civici e del Fronte Democratico Popolare nel 1948, quanto quella della Democrazia Cristiana e del Partito Comunista negli anni Settanta o, ancora, quelle dell’estrema sinistra come dell’estrema destra e di tutti gli altri partiti e movimenti attivi sulla scena politica nei vari periodi, hanno sempre puntato ad avvalorarne le ragioni, la funzione, la forza. Un fine comune, perseguito però da ciascuno secondo il proprio linguaggio, il proprio immaginario, il proprio universo simbolico. Forza e violenza, per quanto prossimi e separati talvolta solo dalla patente di legittimità, risultano dunque nell’iconografia politica italiana della seconda metà del ’900 due temi ben distinti, utilizzati in maniera diversa e, soprattutto, finalizzati a obiettivi e narrazioni differenti. La forza è sempre un valore positivo, da esaltare, e in quanto tale viene solitamente riferita o attribuita a se stessi. Una forza più attiva e dinamica nel caso dei partiti di sinistra e d’opposizione: quella delle masse, dei lavoratori, delle principali categorie sociali; più passiva e rassicurante nel caso della DC e dei partiti conservatori3: quella dello Stato, della fede, delle istituzioni. In entrambi i casi però sempre legittimate, anche tramite la rappresentazione iconografica, dalla connotazione popolare o democratica. Non altrettanto nettamente definita e univocamente connotata risulta invece la rappresentazione iconografica della violenza ed il suo utilizzo. Negativa, da condannare e, in quanto tale solitamente attribuita all’avversario, nella maggior parte dei casi. Ma non mancano situazioni e momenti storici nei quali è

3 Una delle metafore iconografiche più praticate in questo senso è stata quella della diga, che si ritrova nei manifesti di differenti partiti italiani di centrodestra nel corso di tutta la seconda metà del Novecento.

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stata rappresentata una violenza positiva, giusta, rassicurante, propria. Ed è lungo questa doppia contrapposizione fra forza e violenza da un lato e fra violenza nemica-negativa e violenza amica-positiva dall’altro, che è possibile una prima riflessione sulle stagioni e sulle modalità dell’iconografia della violenza politica in Italia. L’utilizzo fatto dal fascismo dell’iconografia e dell’immagine per esaltare la propria forza politica, militare e anche fisica − forse uno dei tratti di maggiore modernità del regime − è stato ampiamente sottolineato e studiato4. Le fotografie dell’Istituto Luce, i manifesti disegnati da Boccasile, i quadri di Sironi, principale ispiratore del Manifesto della pittura murale, ma anche la definizione di una estetica, una grafica, una moda ben precise, collocano il fascismo alla confluenza di quell’incontro fra politica ed immagine che costituisce uno degli aspetti caratterizzanti il secolo scorso. A fianco della celebrazione della propria forza è presente anche una produzione iconografica che, coerentemente con l’ideologia e il pensiero del fascismo, esalta apertamente la violenza, la sopraffazione fisica dell’avversario, la prevaricazione muscolare. Messa in secondo piano ogni velleità artistica ed estetica, viene qui proposta una rappresentazione nella quale le squadracce ed il manganello costituiscono gli strumenti per purificare il paese, così come le bastonature e l’olio di ricino servono a purificare gli oppositori. È questa una violenza salvifica, salutare, ovviamente positiva, ma ancora attenuata e sfumata nella rappresentazione dall’utilizzo del disegno, di figure infantili, di rime e poesie, dall’estetizzazione dell’illustrazione rispetto alla brutalità del messaggio (figg. 1, 2). Una aperta esaltazione della violenza tramite una rappresentazione edulcorata, che propone 4 Molti, e secondo differenti indirizzi di ricerca, i lavori in tal senso, per tutti: P. Cannistraro, La fabbrica del consenso: fascismo e mass media, Roma-Bari, Laterza, 1975; M. Argentieri, L’occhio del regime. Informazione e propaganda nel cinema del fascismo, Firenze, Vallecchi, 1979; L. Malvano, Fascismo e politica dell’immagine, Torino, Bollati Boringhieri, 1988; A. Russo, Il fascismo in mostra, Roma, Editori Riuniti, 1999; S. Luzzatto, L’immagine del Duce, Roma, Editori Riuniti, 2001; E. Sturani, Le cartoline per il Duce, Torino, Edizioni del capricorno, 2002; A. Villari (a cura di), catalogo della mostra, L’arte della pubblicità. Il manifesto italiano e le avanguardie 1920-1940, Cinisello Balsamo (Milano), Silvana Editoriale, 2008.

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alcuni temi ricorrenti: l’oltraggio dell’avversario, la sua umiliazione fisica, l’esaltazione e la celebrazione dello squadrismo e del manganello. Ben più cruda e volutamente oscena è invece l’esibizione della morte, del corpo dei nemici del fascismo e della RSI straziati e profanati con scritte e cartelli, proposta in una lunga e lugubre galleria di immagini tristemente famose, solo di alcuni anni successive5. Siamo in questo caso di fronte ad una violenza aperta e brutale, non trasfigurata attraverso il disegno, l’illustrazione, ma documentata e si potrebbe dire amplificata, dalla forza delle fotografie scattate dagli stessi autori. Nessuna edulcorazione, nessuna dissimulazione è presente in queste immagini che elevano la brutalità della violenza, la morte, a momento esemplare e monito, riproponendo una iconografia che richiama nella forma, anche se con significato opposto, quella del martire cristiano, del San Sebastiano. Ma anche molto simile alle fotografie di Cesare Battisti dopo l’impiccagione fatte circolare alcuni anni prima dagli austriaci. Le immagini dei corpi esibiti dei partigiani, oltraggiati e vilipesi con scritte, rientrano infatti in quel filone di scatti di guerra finalizzati alla profanazione del nemico, già presenti in altre epoche e sui differenti fronti bellici, a partire dalla guerra di Crimea documentata da Roger Fenton6. Ed è una iconografia non molto dissimile a sancire ufficialmente la fine del fascismo. Le immagini dei corpi di Mussolini e della Petacci appesi a testa in giù al distributore di Piazzale Loreto a Milano. L’esposizione e la profanazione fisica e simbolica dei loro corpi, segnano però non solo la conclusione politica di quell’esperienza, ma anche, almeno per un certo periodo, dell’idea di una violenza positiva, apertamente da esaltare e di un suo possibile impiego simbolico figurativo. Con la fine del fascismo e della guerra, si ristabilisce così per l’iconografia politica una netta distinzione fra rappresentazione della forza e della violenza, conferendo una connotazione positi5 Una rassegna di queste immagini è contenuta in G. De Luna, A. Mignemi, Storia fotografica della Repubblica Sociale Italiana, Torino, Bollati Boringhieri, 1977. 6 Sul tema: S. Sontag, Davanti al dolore degli altri, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2003; G. De Luna, Il corpo del nemico ucciso, Torino, Einaudi, 2006.

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va alla prima e negativa alla seconda. Come annuncia un famoso manifesto socialista: “il bestiale fascismo è vinto”7, e con esso anche la celebrazione della violenza attraverso le immagini, che torna ad essere sottoposta a una precisa linea di confine fra bene e male. Nell’iconografia e nella simbologia politica italiana degli anni Quaranta e Cinquanta non è presente infatti una violenza positiva. Il modello narrativo adottato da pressoché tutte le forze politiche è simile: la nostra forza, si contrappone alla violenza e alla brutalità dei nostri avversari. E simili sono le figure retoriche e i simboli utilizzati. Spade, lance, pugnali, nelle mani amiche perdono la loro valenza offensiva, diventando simboli di forza, portatori di pace e serenità (fig. 3). Mentre nelle mani degli avversari tornano ad essere terribili strumenti di morte e di violenza. Uno stereotipo, un modello narrativo utilizzato su tutti i fronti: cattolico, social comunista, neofascista (figg. 4, 5, 6). A seconda dei casi, dunque, baluardo insormontabile, liberatore o strumento dell’aggressione, dell’oppressore. La raffigurazione della violenza ha dunque una connotazione sempre negativa, non viene mai esaltata ed appartiene sempre all’avversario. I comunisti sono coloro che nell’ombra nascondono le armi; i democristiani sono direttamente responsabili dei morti ammazzati dalla polizia nelle piazze e dai mafiosi nelle campagne (figg. 7, 8). Quanto l’accusa di far ricorso alla violenza sia così offensiva lo dimostra la vicenda di un manifesto realizzato nel 1948 dalla CGIL raffigurante Scelba circondato dalle croci dei 36 esponenti delle camere del lavoro siciliane uccisi dalla mafia negli ultimi mesi (fig. 9). Pur nella vivace e tesa campagna elettorale di quell’anno, nel corso della quale si registrano frequenti e gravi episodi di violenza ed i toni del confronto sono particolarmente accesi8, quel manifesto, che si rifà ad un famoso fotomontaggio del 1940 di Albe Stainer con Mussolini circondato da croci, suscita forti reazioni e proteste al punto da essere prima vietato dalle autorità locali e solo in seguito autorizzato, ma accom-

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Cfr, A. Ventrone, Il nemico interno, Roma, Donzelli, 2005, p. 167. Cfr. E. Novelli, Le elezioni del quarantotto. Storia, strategie e immagini della prima campagna elettorale repubblicana, Roma, Donzelli, 2008. 8

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pagnato da una durissima nota del Ministro dell’Interno alla segreteria della Cgil. L’immagine degli impiccati o dei fucilati si riavvicina adesso all’iconografia del martire anziché a quella del nemico o del traditore giustiziato, che prevede pietà per le vittime ed orrore per gli autori. Una lettura anche in questo caso condivisa da tutte le forze politiche e, come dimostrano i manifesti, utilizzata dai differenti partiti (figg. 10, 11, 12). Come già notato a proposito del fascismo, la violenza disegnata è ben diversa da quella riprodotta. La documentazione fotografica della morte quando avviene, non molto spesso in verità, segna anche in questo caso un salto in avanti nella brutalità della rappresentazione, sempre però all’interno di una condivisa cornice di significato e di generale condanna. Si tratta infatti, senza alcuna esitazione, di esposizioni non apologetiche bensì finalizzate a documentare e suscitare orrore (figg. 13, 14). Mentre la considerazione negativa della violenza e la sua non esaltazione attraverso l’immagine è dunque un tratto che, almeno sulla carta dei manifesti, accomuna tutti i principali soggetti politici della nuova scena repubblicana, un netto cambiamento nella concezione della violenza politica e nella sua rappresentazione è costituito dal ’68. Il movimento studentesco la violenza “non l’ha inventata, ne scoperta. La riceve”9 e affianca alla contestazione e alle dimostrazioni di piazza, la pratica di una violenza difensiva, apertamente rivendicata e celebrata. Una violenza spontanea, ancora lontana da quella teorizzata e praticata dai servizi d’ordine che di li a pochi anni segneranno un’altra stagione politica. “La violenza, la violenza, la violenza, la rivolta, chi ha esitato questa volta, lotterà con noi domani”10, si canta nelle piazze e nei cortei11. In realtà, una qual certa forma di violenza difensiva era contemplata e organizzata anche nei cortei e nelle manifestazioni sindacali e della sinistra degli anni precedenti, so9

G. Viale, Il Sessantotto, Milano, Mazzotta, 1978, p. 79. P. Pietrangeli, Ballata di Valle Giulia. 11 Ancora sul tema del rapporto reale e simbolico fra violenza e Sessantotto, fra i molti i contributi: G. Crainz, Il paese mancato, Roma, Donzelli, 2003; G. De Luna, Le ragioni di un decennio, Milano, Feltrinelli, 2009; A. Bravo, A colpi di cuore. Storie del Sessantotto, Roma-Bari, Laterza, 2008. 10

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vente segnati da duri scontri con le forze dell’ordine o sostenitori di opposte fazioni politiche. Difficilmente però all’interno di quei cortei si sarebbe udita una rivendicazione così aperta e gioiosa della violenza come forma di lotta e di aggregazione politica, quale è, di fatto, la canzone di Valle Giulia. È questo un cambiamento che si ripercuote anche nell’iconografia del ’68, nella quale la violenza torna ad assumere una valenza positiva. Consapevole che contenuti nuovi necessitano nuovi segni, immagini, significanti e capace di dialogare con il sistema dell’informazione, il maggio francese fa della rottura dei codici espressivi e comunicativi un elemento qualificante della propria proposta politica e della propria iconografia. La ribellione contro il sistema riguarda anche i suoi linguaggi. Il tradizionale linguaggio visivo della politica e la sua grammatica iconica vengono sovvertiti dall’introduzione di un nuovo stile e di nuovi simboli elaborati in Francia dall’Atelier Populaire, grazie anche al nuovo procedimento della serigrafia. Nell’ampia produzione di quella breve stagione creativa, destinata a rimanere come un momento aureo e ad influenzare profondamente l’iconografia politica degli anni a venire, “la grafica rassicurante e composta della propaganda tradizionale apparve frantumata in forme che volevano convincere seminando inquietudine e disagio che polemizzavano con l’avversario usando lo sberleffo e l’ironia”12. La lotta, la forza e anche quella quota di violenza espressa e rivendicata dal movimento degli studenti, seppero esprimersi attraverso la ricerca di nuovi segni e linguaggi. Come nel caso del pugno chiuso che, già utilizzato ai tempi della Comune di Parigi, era ben lontano dall’iconografia classica del movimento operaio e della tradizione bolscevica e leninista. Nei manifesti del maggio il pugno è il principale protagonista, crea sconquasso, colpisce, minaccia. Ritorna così una rappresentazione costruita su un universo dicotomico nel quale sono presenti due violenze: una buona,

12 G. De Luna, La politica sui muri. I manifesti del ’68, in F. Freddi (a cura di), L’arte per la strada. I manifesti del maggio francese, Torino, Giulio Bolaffi Editore, 2008, p. 50.

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la propria e una cattiva, quella dello stato, della polizia, degli altri. Anche se, grazie alla forma e allo stile di questi manifesti la violenza è ideale, astratta, non fisica. Ben lontana da quella esaltata nei volantini del fascismo o denunciata nei manifesti dell’immediato dopoguerra. Il passaggio della nuova iconografia dal maggio francese al ’68 italiano è lineare, diretto. Anche da noi la satira e l’ironia sono componenti fondamentali13 ed il pugno, in varie versioni e forme, è il simbolo più utilizzato e diffuso. Rispetto alla produzione francese, i toni sono però già più minacciosi e meno ironici. Sebbene inserito in una rappresentazione grottesca e satirica, in uno dei più famosi manifesti del ’68 − quello realizzato dagli studenti di Palazzo Campana a Torino da dove prende il via il Sessantotto italiano − torna un pugnale usato in funzione offensiva e non difensiva (fig. 19). Un raffronto diretto fra l’iconografia francese e quella italiana lo propone anche la sostituzione del pugno con la bottiglia molotov (figg. 15, 16) che lascia presagire quel passaggio da una violenza spontanea e disarmata ad una organizzata ed armata che si realizzerà in seguito. Questa nuova iconografia del movimento può essere fatta rientrare in un più ampio discorso sull’uso simbolico della violenza, che coinvolge anche altri aspetti, quali il linguaggio. “Si ha l’impressione, ha scritto De Luna, che ai suoi esordi il movimento si sia riferito agli atteggiamenti aggressivi e alle parole violente come ad una forma di differenziazione, quasi che certe intemperanze verbali − e iconografiche aggiungiamo noi (n.d.a.) − fossero un segno di riconoscimento”14. A confronto con la grande crescita di violenza politica teorizzata e praticata che si verifica in Italia negli anni Settanta15, la sua rappresentazione iconografica è ben poca cosa. Ma, soprattutto, quella capacità di dialogare con il sistema dell’infor13 Su questo aspetto una ampia testimonianza è contenuta in L. Passerini, Autoritratto di gruppo, Firenze, Giunti, 1988. 14 G. De Luna, 2009, cit, p. 72. 15 Cfr. M. Galleni (a cura di), Rapporto sul terrorismo, Milano, Rizzoli, 1981; D. Della Porta, M. Rossi, Cifre crudeli. Bilancio dei terrorismi italiani, Bologna, Istituto di Studi e Ricerche Carlo Cattaneo, 1984.

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mazione su piani simbolici e culturali, al punto da creare nuove immagini, di sovvertire i codici figurativi, che aveva caratterizzato il movimento del ’68, sembra essersi dispersa. La serrata e puntuale azione di controinformazione messa in atto dal movimento studentesco a Torino contro La Stampa a colpi di lettere, contro-articoli ed interviste, era addirittura arrivata a costringere il quotidiano torinese a riconoscere un falso giornalistico. In perfetta logica di controcultura, “non si trattava, data la disparità dei contendenti, di una gara per la conquista dell’opinione pubblica, ma di una spina, un cuneo nell’esistente sfera pubblica”, e a tal fine le immagini e una nuova simbologia si erano rivelati strumenti molto efficaci16. La campagna promossa dalla sinistra extraparlamentare contro la “strage di Stato”17 che segue la bomba di piazza Fontana ed i primi sviluppi dell’indagine, rappresenta un momento significativo nella capacità di dialogo fra il movimento e il mondo delle comunicazioni di massa, ma ben presto questo terreno di confronto viene abbandonato. Dal punto di vista della comunicazione la nuova sinistra parla una lingua vecchia e all’innovazione nelle forme dell’organizzazione e nella concezione politica, corrisponde una concezione dell’uso della violenza e del linguaggio – coincidenza questa fortemente significativa – che ripropongono modelli preesistenti e del tutto interni alla logica ed alla storia del Novecento18. Non solo i documenti e i volantini, ma anche i manifesti e le scritte sui muri costituiscono a tal fine un’ottima ed esauriente documentazione19. Sono gli anni nei quali in vasti settori politici, per usare una citazione dell’epoca: “l’arma della critica viene sostituita dalla critica delle armi”. E la critica delle armi pare bastare a se stessa, 16 Per la documentazione della campagna di controinformazione nei confronti de La Stampa, L. Passerini, op. cit., la citazione è di p. 105. 17 Cfr. AA.VV., La strage di stato. Controinchiesta, Roma, Samonà e Savelli, 1970, per una documentazione delle attività di “controinformazione” messe in atto nei primi anni Settanta, G. Crainz, op. cit. 18 Cfr. G. De Luna, 2009, p. 86. 19 Cfr. E. Novelli, G. Vasta (a cura di), Alberto Negrin. Niente resterà pulito. Il racconto della nostra storia in quarant’anni di scritte e manifesti politici, Milano, Bur Rizzoli, 2008.

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non aver bisogno della forza creativa o sovvertitrice delle immagini. Vero è che a sinistra nasce una nuova estetica della violenza e mitra, armi, chiavi inglesi, assieme a immagini tratte dagli scenari della guerriglia internazionale affiancano o sostituiscono i simboli tradizionali del comunismo20. Nel complesso però, poche e piuttosto deboli sono le immagini fissate dai movimenti e dai differenti soggetti politici protagonisti degli anni Settanta. Di provenienza internazionale sono l’icona di Che Guevara, che vivrà un percorso longevo e straordinario, tanto da superare l’ambito politico e invadere quello sportivo e commerciale, cosi come alcune immagini legate alla guerra del Viet Nam. Mentre, relativamente al contesto italiano, il segno più forte è quello della P38, che più che un’immagine è un gesto da esibire nei cortei, una sigla da tracciare velocemente sui muri. L’esplosione di violenza che si verifica in quel decennio non elabora una altrettanto forte rinnovamento del vocabolario iconografico-visivo, salvo che per la deriva fantasiosa degli indiani metropolitani e della cosiddetta ala creativa del movimento21. Rispetto alla prima fase repubblicana, ma anche al movimento del ’68, il salto nella rappresentazione della violenza politica è netto. Al punto che, all’interno della già sottolineata difficoltà a gestire il piano simbolico e iconografico, capita di ritrovare sorprendenti analogie con linguaggi appartenenti a stagioni politiche molto lontane. L’irrisione fisiologica dell’avversario, l’esaltazione del manganello e della spranga, la sottomissione dei simboli dell’avversario (figg. 18, 19, 20). Esempi di una iconografia celebrativa ed esaltatoria della violenza, non solo simile, ma addirittura corrispondente, nei concetti e nelle forme a quella proposta nelle immagini del fascismo esaminate (figg. 2, 1). In un percorso che affronta il tema dell’iconografia della violenza politica e dei suoi utilizzi, gli anni Settanta pongono anche la questione del rapporto fra immagine e terrorismo.

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Cfr. G. Panvini, Ordine nero, guerriglia rossa, Torino, Einaudi, 2009, p. 26. Cfr., C. Salaris, Il movimento del Settantasette. Linguaggi e scritture dell’ala creativa, Bertiolo, AAA Edizioni, 1997. 21

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Per quanto riguarda la comunicazione visiva dei soggetti estranei a questo fenomeno – gli avversari o le vittime dei terrorismi– pur con alcune variazioni, l’iconografia utilizzata per rappresentarlo e condannarlo rientra all’interno di formule espressive e retoriche tradizionali. La gravità dell’attacco e della minaccia sembra ben conciliarsi con immagini e simboli collaudati, quasi a svolgere un’azione di ricontestualizzazione di un fenomeno nuovo e allarmante, all’interno di modelli conosciuti, con effetto di rassicurazione. I terrorismi, rosso, nero o di stato, e la loro violenza sono i nemici da battere, spesso rappresentati in maniera funzionale ai propri avversari politici. All’interno di una produzione iconografica che nel complesso rivela poca originalità e una scarsa vena creativa, il linguaggio visivo talvolta ripesca immagini e soluzione dal passato – come nel caso della patria tradita, del colpo alla nuca, che affondano nell’immaginario e nella cultura politica e iconografica del Movimento sociale (figg. 21, 22). In altri casi muove da fronti politici opposti verso soluzioni clamorosamente simili (figg. 23, 24). Mentre nelle rare volte che si ricercano soluzioni grafiche e simboliche orginali, il risultato lascia spesso a desiderare. Come nel caso del Pli che in un manifesto dei primi anni Settanta tratta il tema della violenza con un linguaggio vagamente beat, quasi giocoso, che contrasta con la gravità del tema (fig. 25). Altro è il discorso sull’impiego e l’utilizzo dell’iconografia sul fronte opposto, quello cioè dei terroristi. Lo stragismo merita a questo proposito un discorso a parte, in quanto volutamente anonimo e senza volto. Non vi sono firme o sigle che rivendicano l’attentato di piazza Fontana, la bomba a piazza della Loggia o la strage alla stazione di Bologna. A queste azioni non fanno seguito documenti o comunicati. Ai loro autori non interessa parlare né, tanto meno, diffondere immagini. Anzi, il silenzio e l’anonimato sono parti integranti di un disegno politico che tende a diffondere una paura generalizzata e l’impressione che ognuno possa essere vittima di azioni cieche che colpiscono non obiettivi e bersagli, bensì nel mucchio. Meno si sa, meno si vede di un simile mostro, più il mostra sembrerà forte e potente. Differente il discorso per quanto riguarda il terrorismo nero e rosso. La stella a cinque punte delle BR, la sigla dei NAP, la

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scritta Prima Linea, la runa del guerriero stilizzata affiancata alle iniziali di Terza Posizione, l’acronimo dei Nar, non solo firmano volantini, comunicati, rivendicazioni, ma sono ben presenti sui muri italiani. Il terrorismo nero e quello rosso hanno in comune la rivendicazione delle proprie gesta, l’importanza della firma, l’azione militare come strumento non solo per colpire o eliminare un avversario ma anche, e in alcuni casi si potrebbe dire soprattutto, per conquistare visibilità, diritto di parola22. Una parola, come dimostrano i comunicati e le rivendicazioni, autoreferenziale, astratta, che col procedere dell’”innalzamento del livello di scontro”, del dispiegarsi della “geometrica potenza”, imprigionata in formule e slogan, comunica sempre meno23. Cosa di meglio dell’immagine quindi per supplire a questi limiti comunicativi, a questa afonia, ed uscire dalla gabbia delle lunghissime risoluzioni strategiche e dello Stato Imperialista delle Multinazionali? Ma il terrorismo italiano degli anni Settanta e d Ottanta, rosso o nero che sia, è dal punto di vista della comunicazione ancora gutenberghiano, totalmente legato alla parola scritta. Tanta è infatti l’attenzione ad affermare il proprio linguaggio inteso come una celebrazione della propria potenza − che in effetti penetra nel vocabolario ufficiale della politica e della società di quel periodo sia ridefinendo termini ed espressioni come “prigione del popolo”, “risoluzione strategica”, sia introducendo dei neologismi quali “gambizzare”- tanto è sottovalutato l’aspetto iconografico. Non facendo propria l’esperienza del ’68, il terrorismo prosegue il percorso intrapreso dai gruppi più estremi del movimento, all’interno dei quali peraltro matura, e a fianco della logica celle armi impone il proprio lin-

22 Cfr. C. Marletti, Media e politica, saggi sull’uso simbolico della politica e della violenza nella comunicazione, Milano, FrancoAngeli, 1984; G. Pasquino (a cura di), La prova delle armi, Bologna, il Mulino, 1986. 23 Cfr. V. Dini, L. Manconi, Il discorso delle armi, Milano, Savelli, 1981; E. Novelli, Rappresentazione della realtào e strategie comunicative nei volantini delle Brigate Rosse, dal 1970 al 1978, Passato e Presente, n. 16, 1988. Una prima testimonianza sui limiti della comunicazione delle BR e sul rapporto fra terrorismo e comunicazione, media e spettacolo è in G. Bocca, Noi terroristi, Milano, Garzanti, 1985. Per una analisi del linguaggio brigatista recente, A. Benedetti, Il linguaggio delle Brigate Rosse. Frasari, scelte stilistiche e analisi comparativa delle rivendicazioni dei delitti D’Antona e Biagi, Genova, Erga, 2002.

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guaggio più che una iconografia, rinunciando deliberatamente alla forza evocativa e simbolica dell’immagine. In un percorso comune ai terrorismi di natura politica, che prevede la supremazia delle armi sulla parola e della parola sulle immagini, le Brigate Rosse sono la sola organizzazione terroristica a utilizzarne e produrne qualcuna, sempre però in maniera occasionale e non sistematica. E questo non certo per problemi organizzativi, visto che l’organizzazione è capace durante un sequestro di far recapitare contemporaneamente lo stesso comunicato a quattro redazioni giornalistiche in quattro città diverse, registra e sbobina decine di ore di interrogatorio di Aldo Moro, scrive e diffonde con cadenza regolare le risoluzioni strategiche. Le fotografie realizzate dalle BR sono quelle dei sequestrati, ritratti secondo un’iconografia precisa che non muta nei suoi elementi essenziali nel corso degli anni: da quella di Macchiarini nel 1972, a quella famosissima di Moro nel 1978, passando per quella di Sossi nel 1974. L’esposizione del nemico ridotto all’impotenza, alla mercè dei suoi rapitori, spesso oltraggiato con scritte, cartelli, simboli. Una gogna che va ben oltre la mera funzione di documentazione, di certificazione fotografica − che rimane comunque quella primaria di scatti fatti solo perché necessari a testimoniare la paternità dell’azione o la buona salute del sequestrato −, ma serve a ribadire il potere assoluto sull’avversario e a confermare a se stessi, e ai propri seguaci, la propria forza. Una cupa galleria di immagini dalle prigioni del popolo alla quale nel 1981 si aggiunge anche un filmato. È quello dell’interrogatorio, della lettura della sentenza e dell’esecuzione di Roberto Peci, brigatista rapito e ucciso dalle Brigate Rosse con l’accusa di tradimento. Una novità solo per quanto riguarda l’aspetto tecnologico, non certo per quanto riguarda invece l’aspetto formale, rispettoso in tutto e per tutto della scarna scenografia tradizionale: cartelli, drappi, armi. Sia nelle poche foto, che nell’unico filmato, è presente una iconografia che non trova riferimenti diretti nella tradizionale marxista-leninista o della sinistra rivoluzionaria ed extraparlamentare e totalmente estranea ai loro immaginari. Non ci si riferisce soltanto al prigioniero davanti al drappo – che non ha rimandi diretti con altri contesti e situazioni −, ma anche all’as-

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senza di simboli tradizionali come la falce e il martello e i padri del marxismo o, cronologicamente più vicini, il pugno del movimento studentesco, la P38 dell’Autonomia o l’effige di rivoluzionari guerriglieri quali Che Guevara o Ho Chi Minh. Gli episodi di “gogna proletaria” ai danni di capireparto o di impiegati nell’autunno del 1969 e, successivamente, di esponenti neofascisti, quest’ultimi documentati fotograficamente e pubblicati sui quotidiani24, costituiscono indubbiamente dei precedenti a sinistra, ma non così diffusi e noti da poter rappresentarne l’origine, né ribaltarne la matrice. Pur con tutte le differenze e i distinguo del caso, il riferimento iconografico e simbolico più prossimo, l’analogia più immediata, sono invece le immagini dei partigiani trucidati dai fascisti, legati e con i cartelli al collo25. Le foto dalle prigioni delle BR ripristinano “quella valenza pedagogica attribuita all’annientamento fisico degli avversari che nel corso della guerra civile era appartenuta all’universo morale e politico del fascismo di Salò”26. Un’analogia di forma e composizione e lo stesso intento pedagogico, ma una notevole diversità nell’origine e nelle motivazioni. Mentre infatti per i fascisti quelle foto rientravano in una precisa strategia comunicativa, erano materiale da diffondere e divulgare per la loro forza esemplare, le fotografie delle Brigate Rosse sono poco più di foto tecniche, scattate per la necessità di rivendicare e documentare le loro azioni dalla clandestinità e che non rientrano, se non secondariamente, in una strategia comunicativa attraverso l’immagine della violenza. A conclusione di questo rapido percorso nell’iconografia politica italiana della seconda parte del XX secolo, all’interno di una generale crescita del ruolo dell’immagine e di una sua sempre più marcata autonomia dalla parola, emergono differenti stagioni nelle forme e nei fini della rappresentazione della vio-

24 Il merito di aver documentato questo fenomeno spetta a G. Panvini, 2009, op. cit.; una dettagliata cronaca di uno di questi fatti svoltosi a Trento è in C. Vecchio, Vietato obbedire, Milano, Bur Rizzoli, 2005. 25 Ma se, anziché volgere lo sguardo all’indietro, si guarda in avanti, l’analogia e la similitudine con le immagini della prigionia e dell’esecuzione dei sequestrati diffuse da Al Queada è sorprendente. 26 G. De Luna, 2009, op. cit., p. 93.

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lenza, corrispondenti alle diverse fasi storico-politiche ed ai loro tratti. Molte inoltre sono le prove di un repertorio iconografico sedimentato, un linguaggio visivo condiviso fatto di simboli, metafore, segni, al quale attingono indistintamente forze politiche mosse da obiettivi e finalità comunicative contrapposte. Tanto per condannarla, quanto per esaltarla e celebrarla, un’iconografia della violenza politica è esistita, con le sue regole e i suoi stereotipi (molti) e le sue eccezioni e le sue innovazioni (poche). Fra le quali spicca il ’68, capace di un linguaggio iconografico nuovo nelle forme, prima ancora che nei contenuti. Per il resto il linguaggio dell’immagine della violenza si è rivelato fortemente legato a stili e modelli collaudati, efficaci per la loro semplicità al limite dell’ovvio, e a soluzioni sperimentate nel tempo, e proprio per questo dirette, immediate, univoche. Un linguaggio poco articolato, ma per questo ben adatto a trattare un argomento poco sfumato quale la violenza, tanto più se stretto nella morsa della propaganda e della lotta politica. Bibliografia AA.VV., La strage di stato. Controinchiesta, Roma, Samonà e Savelli, 1970. Mino Argentieri, L’occhio del regime. Informazione e propaganda nel cinema del fascismo, Firenze, Vallecchi, 1979. Amedeo Benedetti, Il linguaggio delle Brigate Rosse. Frasari, scelte stilistiche e analisi comparativa delle rivendicazioni dei delitti D’Antona e Biagi, Genova, Erga, 2002. Ranuccio Bianchi Bandinelli, ROMA. L'arte romana nel centro del potere, Milano, Rizzoli, 1969. Giorgio Bocca, Noi terroristi, Milano, Garzanti, 1985. Carlo Branzaglia, Comunicare con le immagini, Milano, Bruno Mondadori, 2003. Anna Bravo, A colpi di cuore. Storie del Sessantotto, Roma-Bari, Laterza, 2008. Peter Burke, Testimoni oculari, Roma, Carocci, 2002. Philip Cannistraro, La fabbrica del consenso: fascismo e mass media, Roma-Bari, Laterza, 1975.

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Federica Rossi Memorie della violenza, scritture della storia. Elementi per un’analisi delle controverse ri-letture degli anni Settanta

La produzione letteraria sugli anni Settanta in Italia appare ampiamente dominata da saggi d’opinione, da inchieste giornalistiche, e da una rilevante produzione memorialistica. La grande maggioranza delle autobiografie e memorie sono opera di ex militanti di estrema sinistra mentre sono praticamente assenti i militanti di estrema destra; circa una ventina sono pubblicazioni ad opera di vittime (compresi famigliari o associazioni), un’altra ventina sono scritti di uomini politici e solo qualcuna di esponenti delle forze dell’ordine. Il tema della violenza, nelle sue diverse manifestazioni, sembra accomunare la quasi totalità delle pubblicazioni. Anche gli studi accademici, relativamente pochi rispetto alla pletora di libri pubblicati sul medesimo periodo storico, si focalizzano sulla violenza mentre rimangono in minoranza gli studi sulle dinamiche sociali, sugli aspetti culturali, sulla circolazione internazionale delle idee, dei modelli teorici e pratici di lotta e di contestazione. L’analisi della letteratura di tipo memoriale, autobiografico pone diverse difficoltà, d’ordine prevalentemente metodologico, al ricercatore che si accinge a tale lavoro, in particolare per quanto riguarda la produzione relativa a questo periodo storico ancor oggi così controverso. Una prima difficoltà è legata alla definizione stessa di memorialistica e quindi alla delimitazione dell’oggetto di studio. Il dizionario Zingarelli nella sua edizione del 2000, la definisce «genere letterario comprendente memorie, memoriali, diari, autobiografie e sim.»; ciò implica dunque una grande diversità di ge-

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neri e una non minore difficoltà di distinzione. A ciò si aggiunge l’incredibile confusione che caratterizza la letteratura italiana sui cosiddetti «anni di piombo»: autobiografie romanzate, romanzi che partono dal vissuto, ricostruzioni storiche elaborate da attori implicati nei fatti passati, libri scritti a quattro mani, ecc. La definizione di “terrorismo” pone un altro problema alle scienze sociali. Tale termine non verrà usato in questo breve saggio se non tra virgolette perché politicamente connotato e perché non esiste una definizione stabile, consensuale, né in sociologia né tantomeno a livello giurisprudenziale nazionale e internazionale. Saranno quindi preferite le espressioni «violenza politica» o «lotta armata», in quanto più neutri e meno controverse in tale contesto, e capaci quindi di preservare dal rischio di scivolare fuori dalla ricerca accademica. Un’ulteriore difficoltà è quella di capire in che modo lo studio della memorialistica possa aiutare a comprendere gli eventi storici. Non si può certo pretendere dalle memorie e dai testimoni una ricostruzione precisa dei fatti, la verità sul passato, ma solamente una tra le tante verità, una memoria, uno sguardo personale su un periodo storico complesso. Tale questione ha suscitato numerose discussioni tra gli storici a proposito del complicato rapporto tra storia e memoria, della loro “tensione dinamica”, della relazione spesso concorrenziale che associa il testimone e lo storico. Se la memoria è, come la definisce Enzo Traverso, «una visione del passato sempre filtrata dal presente [...] ciò che è avvenuto è in gran parte plasmato dal presente, in quanto è la memoria che stabilisce i fatti»1, confrontarsi con la memoria significa inevitabilmente confrontarsi con il presente e con l’uso pubblico e politico della storia2. Per il ricercatore confrontarsi con questo tipo di materiale – lo stesso vale per le fonti orali – è dunque importante, ma non può limitarvisi proprio perché la memoria è selettiva; per cogliere a pieno il clima dell’epoca e in seguito restituirlo è dunque necessario ricorrere all'archivio. Tale immersione è allo stesso modo indispensabile per chi, dif1

E. Traverso, Le passé, mode d’emploi, Paris, La Fabrique, 2005, p. 20. Cfr. N. Gallerano, Le verità della storia, Roma, Manifestolibri, 1999; H. Rousso, Vichy. L’événement, la mémoire, l’histoire, Paris, Gallimard, 2001 e La hantise du passé, Paris, Textuel, 1998. 2

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ferentemente dallo storico, non tenta una ricostruzione precisa e dettagliata dei fatti, e senza voler denunciare gli errori della memoria, si pone come obiettivo quello di analizzarne le modalità di espressione, le amnesie, le autocensure, l’indicibile, gli scarti rispetto al passato come verità (plurale) del presente. Un approccio di tipo sociologico qualitativo della produzione letteraria, quale sarà qui privilegiato, tende quindi ad analizzare sia lo studio del contenuto del libro sia ciò che non è direttamente espresso, del testo e del con-testo3. Lo studio del contesto nel quale s’inserisce il libro preso in esame spesso fornisce chiavi di comprensione maggiori, intendendo per contesto sia l’autore stesso (traiettoria personale, itinerario militante e giudiziario, riposizionamenti sociali successivi), che la congiuntura sociopolitica più generale in cui si colloca la pubblicazione dell’opera (sorti editoriali, ricezione, eventuali dibattiti suscitati). A tale proposito Bourdieu ricordava che ogni racconto biografico si presenta come un’occasione per dare un senso, una logica al contempo retrospettiva e prospettiva alle varie fasi di una vita mostrandole in una relazione di causa-effetto che le fa apparire come tappe di uno svolgimento necessario, selezionando gli eventi significativi e strutturando delle connessioni tra loro che permettono di giustificarne l’esistenza e la coerenza4. Per lo studioso si tratta quindi d’incrociare i dati individuali con quelli macrosociali per cogliere, al di là di ciò che il libro esprime nel corso della narrazione, il significato che la redazione e la pubblicazione di un testo-testimonianza può assumere per l’autore, cercando di capire al contempo a quali logiche macrosociali cor-risponde. Condurre una ricerca di questo tipo sulla memorialistica italiana degli anni Settanta, rappresenterebbe un lavoro di grande portata e di arduo svolgimento; questo breve saggio si limiterà quindi ad individuare alcune piste di ricerca e interrogativi, delineando delle tendenze generali della memorialistica dei militanti 3 Un esempio di questo tipo di approccio è la biografia di Sartre pubblicata da A. Boschetti, L’impresa intellettuale. Sartre e “Les Temps modernes”, Bari, Dedalo, 1984. 4 P. Bourdieu, L’illusion biographique, «Actes de la Recherche en Sciences Sociales», n. 62/63, 1986, pp. 69-72; trad. it. L’illusione Biografica, in P. Bourdieu, Ragioni Pratiche, Bologna, il Mulino, 1995, pp. 71-79.

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e rilevando alcuni aspetti e tematiche che emergono dai ricordi e dalle ricostruzioni della violenza. Ci si focalizzerà sulle memorie degli ex militanti di estrema sinistra, prendendo in esame diversi testi: quelli prettamente autobiografici, quelli scritti a quattro mani o strutturati in forma d’intervista e quelli in forma romanzata. Oltre questi scritti si farà ricorso ad un materiale empirico vario come interviste lunghe semi-strutturate e racconti biografici di ex “lottarmatisti”, archivi giornalistici, letteratura grigia e riviste specializzate. 1. Alla ricerca di una coerenza biografica, tra auto-analisi e ricostruzione storica Il passaggio ad una organizzazione armata, spesso clandestina, negli anni Settanta e il coinvolgimento in azioni politiche violente costituisce un’esperienza di vita totalizzante da cui è stato molto spesso difficile, doloroso uscire. L’identità, individuale e di gruppo, intesa anche come sistema di valori e da cui almeno in parte deriva la scelta della lotta (armata o meno) appare come spezzata dalla fine della militanza; sia essa una scelta obbligata (interruzione a causa di arresti o fuga all’estero) o, almeno in parte, voluta (scelta motivata da cambiamenti della vita privata, progressivo abbandono dell’impegno politico). La scrittura autobiografica appare spesso come un mezzo per tentare di ristabilire un legame, una coerenza biografica nella vita dell’autore e al tempo stesso riconciliare quest’identità spezzata, dare legittimità alla posizione presente. Ed è in questo senso che si può parlare di scrittura auto-analitica, non nel senso di un ricorso a dei procedimenti di tipo psicanalitico, ma nella stessa prospettiva in cui Bernard Pudal e Claude Pennetier analizzano le autobiografie di ex militanti del Partito Comunista Francese: Le autobiografie auto-analitiche sono quelle di militanti che sono stati progressivamente portati a prendere le loro distanze e che cercano, nella e attraverso la scrittura autobiografica, di capire un itinerario fondato sulla devozione a una “giusta causa” che si rivela un enigma. Per autobiografia auto-analitica non s’intendono qui le autobiografie i cui schemi d’interpretazione si rifanno alla psicanalisi, ma un tipo di racconto autobiografico nel quale l’autore, dopo aver realizzato il suo lutto, tenta di considerare se

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stesso come oggetto di ricerca; ciò implica uno sdoppiamento fondato sul distacco5.

La scrittura prende quindi le sembianze di «una forma di continuità con gli impegni passati, una continuità meno ideologica che etica» e dell’«elaborazione di un racconto capace di dare senso a questa storia personale compromessa dallo stalinismo»6. I significati che assume l’autobiografia per gli ex militanti italiani delle varie organizzazioni extraparlamentari sono molteplici; diversamente da come spesso vengono presentati i loro scritti, non sono quasi mai né richieste pubbliche di perdono, né tantomeno intenzioni rivendicative o sobillatrici. Le motivazioni più personali emergono spesso solo da interviste e racconti di vita approfonditi con ogni singolo autore in quanto permettono di poter capire, al di là dell’analisi introspettiva, le esperienze significative individuali che conducono alla scelta letteraria, comprese le aspirazioni letterarie pre-esistenti all’esperienza politica o maturate in seguito ad essa, spesso in carcere. 1.1 Auto-analisi e motivazioni della scrittura Per gli ex-militanti di estrema sinistra, la scrittura di memorie e autobiografie appare come una necessità per riordinare la propria vita, processo spesso doloroso: un modo per volgersi indietro, capire, spiegare, talvolta per opporsi alla criminalizzazione di cui si sentono oggetto e un modo per esprimere ciò che è stato pensabile e praticabile ieri e che oggi si rivela indicibile. Scrivere quindi per capire e spiegare (agli altri e a se stessi) i motivi, le ragioni, la scelta della lotta armata, per ritrovare il senso di allora che non può essere il senso di ora. Si domanda ad esempio Gallinari: « Usare il senno di poi? Raccontare attingendo a critiche, autocritiche, scomuniche, valutazioni o giudizi maturati a posteriori? Ho scelto un’altra strada»7. E Enrico Fenzi aggiunge:

5 C. Pennetier, B. Pudal, Autobiographies, autocritiques, aveux dans le monde communiste, Paris, Belin, 2002, p. 234 (traduzione dell’autore). 6 Ibid., p. 234. 7 P. Gallinari, Un contadino nella metropoli, Milano, Bompiani, 2008, p. 9.

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Troppo spesso mi sono sentito domandare: “perché l’hai fatto?” (curiosamente, mai dagli amici). E può darsi che questo sia pure il tema nascosto di queste pagine: un lento paziente giro attorno alle risposte possibili. C’è infatti qualcosa di fittizio nella risposta diretta, immediata, per me e, credo, anche per gli altri. [...] Ci sono perché per qualsiasi cosa, una volta che sia accaduta, ed è incessante il lavorio degli effetti che continuamente creano a ritroso, le loro proprie cause8.

È solo ritrovando il “senno di prima” che possono ri-emergere i fattori individuali e collettivi che hanno condotto alla lotta armata, come ricorda Valerio Morucci: Un tentativo per riavere indietro i colori di un mosaico ricoperto dal grigio bitume del rimpianto. La contraddittoria verità della gioia e delle lacrime. Della ragione e della passione. Soprattutto della passione. Ciò che cercavo era il senno di prima [...]. Non volevo lenire il dolore dello smarrimento ma, semmai, liberarmi della zavorra del presente per andare a ritrovare l’esultanza dell’esserci. La sua realtà e la sua verità. Quelle in cui, o per cui, aveva agito e vissuto [...]. La mia non vuole essere né un’apologia né un’agiografia. Questa storia non ha un lieto fine. Ha avuto, semmai un lieto inizio. Ho tentato se possibile, di ritrovare cos’era e non è più. Un mondo di passioni prima gioiose e poi estreme, e di conflitti. Quelli, da subito, spietati. Di errori e di eccessi. Un mondo infuocato di fedi accese; di contro al mondo d’oggi, illuminato dal fuoco vacuo di una raccogliticcia “laicità”. Riportarlo in vita per scrostare la memoria di chi c’era, e renderne coscienza a chi non c’era. Per dare un senso a ciò che di tragico c’è stato, e non confinarlo nell’ambito di una follia passeggera9.

L’auto-analisi si coniuga quindi con un salto nel passato che resta inevitabilmente legato al presente, ai posizionamenti e ai dibattiti presenti; ripercorrere il percorso individuale è anche riflettere sul presente e confrontarsi con una società che attribuisce un’etichetta difficile da assumere, che relega, che dispone per categorie: «capire per reinnestare l’autoriflessione di questa società su se stessa, perché l’illusione di poter espellere da sé le proprie contraddizioni non la costringa a ricorrere a sempre più galere, più ghetti, più frontiere, più esclusioni», ha scritto Barbara Balzerani10. 8

E. Fenzi, Armi e bagagli, Milano, Costa&Nolan, 1998, p. 22. V. Morucci, Ritratto di un terrorista da giovane, Casale Monferrato (To), Piemme, 1999, pp. 7-8. 10 B. Balzerani, Compagna luna, Milano, Feltrinelli, 1998, p. 121. 9

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Molti libri testimoniano la formazione ideologica e politica, che spesso inizia all’interno delle famiglie già politicizzate, con genitori spesso aderenti al Partito comunista o al sindacato, o con la militanza nelle strutture giovanili del PCI. Un altro filo rosso sottolineato di frequente è quello con la resistenza, incarnato da incontri, scambi, trasmissione di memoria, d’esperienze, e in alcuni casi anche di armi, come racconta Alberto Franceschini11. La clandestinità o la lotta armata sono presentate quindi quasi sempre come interne a un percorso lineare, graduale, che conduce dalla formazione politica giovanile alla scelta delle armi. Come rammenta Barbara Balzerani: La mia scelta di entrare in un’organizzazione armata è stata il frutto di un lungo, lento corteggiamento, un avvicinamento graduale, passo per passo. Come un meccanismo che, prima di mettersi in moto, faccia scattare tanti clic impercettibili, uno dopo l’altro, fino al momento finale quando ogni passaggio è compiuto e la macchina è avviata in tutta la sua potenza. Forse il periodo in cui sono stata una spettatrice in platea mi è servito a decidere se farmi o no da parte definitivamente. Era un tempo d’attesa, cercavo un modo per cambiare il modo per cambiare il mondo e tentavo di capire se le Brigate Rosse fossero o meno uno strumento per far diventare realtà il sogno rivoluzionario12.

1.2 Il percorso individuale nel contesto storico Se le autobiografie ci permettono di comprendere i processi individuali di formazione intellettuale e politica, questi singoli percorsi riflettono in egual modo un contesto sociopolitico più generale, le strutture e le dinamiche sociali collettive. Il racconto dell’itinerario personale non è mai disconnesso dalle circostanze in cui si inserisce; anzi, il riferimento ad avvenimenti, fatti, incontri, è costante e mette in luce l’effetto determinante di alcune congiunture sulle scelte personali. Per molti quindi, capire la propria decisione di adesione alla lotta armata passa inevitabilmente attraverso la ricostruzione di un periodo storico particolare che ha reso possibile questa opzione. 11 12

A. Franceschini, Mara, Renato e io, Milano, Mondadori, 1988. Balzerani, Compagna luna, cit., p. 19.

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Dalle interviste, così come dai testi, emergono spesso date o fatti indicati come “momento di svolta” o che hanno agito come “fattore decisivo”: primi tra tutti per numero di citazioni è l’anno 1969, nella grande maggioranza dei casi per la strage di piazza Fontana del 12 dicembre, momento di «perdita dell’innocenza di tutta una generazione» come molti l’hanno definito. Criticato da altri come un «mito giustificazionista», il 12 dicembre del 1969 permane una data che “fa senso” a posteriori per molti degli ex militanti degli anni ’70 (che abbiano essi fatto la scelta armata o che siano rimasti nelle organizzazioni extraparlamentari non clandestine) e che simboleggia una sorta di “ragion d’essere” della paura di trame golpiste nell’Italia di quegli anni. Ma per alcuni il ’69 non è solo piazza Fontana, come ricorda, ad esempio, Moretti, intervistato da Carla Mosca e Rossana Rossanda, descrivendo il movimento nelle fabbriche e il suo consolidamento, dalla nascita dei Cub in poi, il 1969 è «l’anno del contratto nazionale dei metalmeccanici. E decisivi sono i contratti integrativi della primavera seguente. Molte delle cose che accadranno negli anni a venire nascono in quell’onda»13. Altre date ed altri eventi si affiancano alla strage del 12 dicembre. Per Sergio Segio che nel suo libro Una vita in Prima Linea riprende un’affermazione di Aldo Cazzullo, il «primo anello della catena» è l’uccisione di Calabresi nel maggio del 1972, «è lo sparo che riaccende la guerra civile italiana, combattuta con le armi nel biennio 1943-1945, rinfocolata nelle piazze nel tempo della guerra fredda, e poi mimata a cavallo tra gli anni ’70 e gli anni ’80»14. Ma lo stesso Segio rammenta come siano anche gli eventi nazionali e internazionali che fanno crescere la convinzione che sia in preparazione un golpe fascista contro cui bisogna fare resistenza: dalla Grecia dei colonnelli al colpo di Stato di Pinochet, dalle stragi ai vari tentativi di colpo di Stato in Italia, la scelta delle armi sembra delinearsi per molti come una necessità storica.

13 M. Moretti, C. Mosca, R. Rossanda, Brigate Rosse: una storia italiana, Milano, Anabasi, 1994, p. 11. 14 A. Cazzullo citato da S. Segio, Una vita in Prima Linea, Milano, Rizzoli, 2006, p. 21.

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2. Scelta della violenza, violenza della scelta: l’incomunicabilità dell’esperienza armata Se la scelta della violenza è spesso uno degli argomenti centrali nella memorialistica degli ex militanti, questo tema assume diverse forme e dimensioni. Per coloro che l’hanno perseguita essa appare anche come una forma di violenza subita in differita, a posteriori. Dalle forme di «violenza legittima» esercitata dallo Stato sui militanti e incarnata in tribunali, carceri, e persino in violenza fisica (ferimenti, torture o uccisioni), la violenza di tale scelta passata si traduce in diversi modi nella vita degli ex militanti dopo l’uscita dalla lotta armata, e in molti casi una volta riacquistata la libertà dopo il carcere. Il marchio “terrorista”, “criminale”, “assassino”, ecc., loro attribuito al momento degli arresti e dei processi, si rivela una stigmate permanente che ha un’incidenza su tutta la vita posteriore (dal controllo giudiziario anche dopo l’estinzione della pena alle polemiche legate alla loro partecipazione ad occasioni pubbliche anche per ragioni indipendenti dalla loro identità «di piombo»)15. Questa stimmate, insieme alla coscienza dei propri errori, all’esperienza del carcere e alla perdita almeno parziale di un’identità che era stata “totale”, rende incomunicabile tale vissuto16. Una incomunicabilità che traspare nelle parole e nei silenzi dei protagonisti, nel malessere e nella difficoltà di parlare dell’esperienza della violenza, come è evidente nel fatto che la questione non è quasi mai esplicitamente menzionata, tanto che le domande sul livello di coinvolgimento diretto in azioni violente diventano una sorta di tabù anche per il ricercatore17.

15 Per la labelling theory cfr. H. Becker, Outsiders. Studies in the sociology of deviance, New York, The Free Press, 1973. 16 Franceschini ricorda come l’esperienza della militanza nelle BR fu totalizzante: «Ma non ce la facevo a lasciare le BR: erano il mio mondo, tutto ciò che avevo», in Franceschini, Mara, Renato e io, cit. p. 162. 17 Questa «incomunicabilità» dell’esperienza politica armata degli anni Settanta è stata analizzata anche da Isabelle Sommier, sociologa francese, che ha svolto uno studio comparato sul passaggio alla lotta armata nel post-’68 in Italia e in Francia. Cfr. I. Sommier, Une expérience “incommunicable”? Les ex militants d’extrême gauche français et italiens, in O. Fillieule (a cura di), Le désengagement militant, Paris, Belin, 2005, pp. 171-188.

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Io credo – ha scritto Sergio Segio − vi sia anche quel silenzio, quell’incapacità di dire, quella fatica di ricordare che appartengono a quanti hanno patito carcere, persecuzioni e torture essendo stati sconfitti e trovandosi anche dalla parte del torto [...]. Sconfitti e dalla parte del torto. Sto parlando del torto storico, dell’errore politico. E dell’averne coscienza postuma. E questo riguarda i cominformisti, ma ha riguardato anche la nostra, assai diversa, esperienza. Nella quale inseguendo un sogno ad occhi aperti dell’eguaglianza e della giustizia, siamo precipitati sino in fondo nel pozzo dell’abbaglio e della mancanza di libertà18.

Il ritorno alla vita normale, la fine della militanza e quella dell’esperienza della lotta (armata o meno) si presenta come una rottura, uno strappo spesso difficile da ricucire e soprattutto da comunicare, proprio perché la militanza è stata profondamente costitutiva dell’identità, collettiva come di quella individuale. Identità difficile da assumere, da difendere, da ri-costruire, e cosa ancor più difficile, almeno per alcuni, da rinnegare. Come ha testimoniato Moretti: «C’è qualcosa di peggio dello stare in galera. Che cosa è peggio? Perdere la propria identità, rinnegare quel che si è stati, dibattersi per apparire diversi da quel che eravamo»19. Le memorie sono scritte a distanza di anni, una volta conclusa sia l’esperienza personale della lotta armata che quella collettiva. Sono memorie scritte in carcere o dopo aver scontato la pena, in una fase delicata della vita individuale in cui si tenta di ricostruire una traiettoria biografica. La scrittura sovviene quindi al bisogno di dare coerenza al proprio percorso, di analizzare la scelta di adesione alla lotta (armata o non), di allontanarsi da una stigmatizzazione sociale, di rifiutare un’identità “criminale”. Queste memorie s’inseriscono però in un contesto sociale e politico completamente mutato rispetto a quello che raccontano, in cui la lotta politica è tornata a “pacificarsi”: è proprio questo cambiamento che, almeno in parte, determina un rapporto problematico con la violenza e la sua incomunicabilità. A quarant’anni dal ’68 e a trenta dall’omicidio di Aldo Moro, la griglia di lettura marxista della società e dei rapporti di forza 18

S. Segio, Una vita in Prima Linea, cit., pp. 75-76. M. Moretti, C. Mosca, R. Rossanda, Brigate Rosse: una storia italiana, cit., p. 169. 19

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all’interno di essa non è più diffusa come lo era allora, gli esempi delle lotte di liberazione (nazionali e internazionali) sono ormai lontani e spesso oggetto di revisioni storiche, la rivoluzione non è più pensabile, non è più parte dell’orizzonte dei possibili. Come poter spiegare a un figlio o a un lettore, la scelta delle armi, le ragioni di un omicidio politico, in un contesto in cui la pratica politica legittima si identifica col solo voto? Il tema dell’incomprensione e della comunicazione è, ad esempio, quello che guida il libro per ragazzi di Geraldina Colotti Il segreto. Ma la necessità di spiegare, di trovare delle attenuanti o delle giustificazioni o semplicemente di capire, di accusare e di difendere sono presenti anche in una stessa persona dall'«identità ferita», come la definisce Micheal Pollak, sociologo e storico viennese, e caratterizzano molta della memorialistica20. Anche Stefano Tassinari, nel suo libro L’amore degli insorti, tratta il tema dell’incomunicabilità di un’esperienza politica, dell’impossibilità di far comprendere a chi non ha vissuto quelle circostanze storiche certe scelte indissolubilmente legate ad esse: Con quali occhi mi guarderebbero, e con quali occhi li guarderei io, travolto dal senno di poi e senza alcuna possibilità di spiegare loro il senno di prima? [...] Anni dopo ci ritroviamo da soli, a balbettare una scusa, a giustificare una mossa sbagliata ritenuta corretta, a cercare invano di spiegare contesti che gli altri non potranno mai capire [...]. Eravamo tutti pazzi? Non credo proprio, ma vallo a raccontare a un ragazzino del Duemila qual era il nesso tra Pol Pot e la liberazione dell’umanità, tra la deportazione delle masse e le masse al potere, tra il divieto di ascoltare Beethoven e la nostra idea di “riprenderci la musica”, tra i gulag siberiani e la nostra battaglia per smantellare i manicomi21.

L’esempio più illuminante di una lacerazione interiore dovuta all’incomunicabilità e alla ricerca della comprensione delle proprie scelte è rappresentato dal testo teatrale di Roberto Silvi, Le ragioni dell’altro. Attraverso una tecnica narrativa particolare, il percorso a ritroso trova nella figura dell’altro il modo per mettere a distanza il se stesso passato. L’opera mette in scena un dialogo-confronto tra un giovane e un vecchio, tra Stefano 20

M. Pollack, Une identité blessée, Paris, Métailié, 1993. S. Tassinari, L’amore degli insorti, Milano, Marco Tropea Editore, 2004, pp. 123-124. 21

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il giovane impegnato nella lotta clandestina armata degli anni Settanta, e Stefano il vecchio, sulla sedia a rotelle, che vede nella sua malattia l’espressione del proprio «desiderio nascosto di autodistruzione, di espiazione» che ha iniziato a roderlo dentro con la fine dell’esperienza della lotta politica perché «ho dovuto accettare col cuore e non solo con la mente, che non potevo risolvere i mali del mondo e che non esiste una verità assoluta»22. Nonostante il confronto tra due generazioni, il testo riesce ad evitare il rischio di una spiegazione-giustificazione della scelta delle armi in termini di “gioventù” e del desiderio di rivolta che vi sarebbe legato. Diversamente da altri ex militanti che tendono a rileggere la propria scelta come un “errore di gioventù”, Roberto Silvi, in un altro suo libro, La memoria e l’oblio, mostra il grado di politicizzazione dei giovani e meno giovani dell’epoca, e attraverso il proprio percorso – giovanissimo militante dapprima a Lotta Continua, poi vicino ai NAP e in seguito militante dei PAC – la radicalizzazione progressiva delle forme di lotta nell’Italia degli anni ’60 e ’7023. 2.1 Come raccontare la violenza? La rivoluzione pensabile, la violenza indicibile La questione della violenza, la “possibilità” di uccidere, ma anche di essere uccisi, nei pieni anni ’70, era ormai diventata intrinseca alla militanza nelle organizzazioni extraparlamentari. Franceschini racconta con queste parole il primo omicidio delle BR subito dopo l’uccisione di Mara Cagol: «era il primo omicidio programmato delle BR, ma non mi sentii assassino. Non perché non avessi sparato, ma perché ormai, come dicevamo “si era alzato il livello dello scontro” e i morti erano prevedibili, da tutte e due le parti»24. Mentre Faranda ricorda come in quegli anni la questione della violenza «ci ha impegnati e ci impegna in estenuanti discussioni, la sua necessità è ormai assunta da 22 R. Silvi, C. Calvi, Le ragioni dell’altro, Paderno Dugnano (Mi), Ed. Colibrì, 2004, p. 36. 23 R. Silvi, La memoria e l’oblio, Paderno Dugnano (Mi), Ed. Colibrì, 2009. 24 Franceschini, Mara, Renato e io, cit., p. 138.

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anni come presupposto ineliminabile, si è imposta sulle pagine dei nostri giornali e sui fogli di propaganda»25. Diversi scritti mostrano come essa sia divenuta progressivamente pensabile – attraverso una radicalizzazione crescente dei movimenti, delle organizzazioni, degli scontri –, come si siano im-posti gli interrogativi e le discussioni all’interno delle organizzazioni sulla sua praticabilità e sulle sue eventuali e diverse forme: Alcuni pensano ad un braccio armato separato e clandestino per risolvere il problema della lotta rivoluzionaria, altri ritengono necessario progettare l’organizzazione della violenza direttamente là dove lo scontro sociale la esprime. Due livelli di violenza? Uno nascosto, per finanziare il gruppo e attaccare con le armi il nemico, e un altro palese, di massa, reso legittimo e consentito dalla sua stessa diffusione, molotov e sassaiole, scontri di piazza, autodifesa delle case occupate, sabotaggio e fazzoletti rossi in fabbrica a pestare i capi?26

È sempre tramite il racconto della vita in un’organizzazione, delle discussioni che vi si tenevano che gli ex-militanti parlano dell’esperienza pratica della violenza. Raramente, o appena accennate, appaiono le allusioni al coinvolgimento intimo, all’atto individuale: la violenza – cocktail molotov, scontri di piazza, omicidio politico, gambizzazione, sequestro, ecc. – viene quasi sempre descritta, o lasciata intendere, come un atto collettivo, mentre l’esecutore materiale è di rado direttamente e, individualmente menzionato, così come l’azione non viene quasi mai descritta dettagliatamente. Gli omicidi e gli atti politici violenti vengono in molti casi raccontati quasi come fatti di cronaca, con accanto ragioni politiche che li hanno provocati e solo sporadicamente trovano spazio dubbi, paure ed esitazioni personali di fronte a un atto compiuto o da compiere. Se da una parte, come abbiamo visto, ciò può corrispondere a un’incomunicabilità che genera una sorta di autocensura o di lacerazione interiore, dall’altra, escludere il racconto diretto della violenza può riflettere ugualmente il bisogno di spersonalizzare il nemico; un atto indispensabile per affrontare il lato umano di un omicidio o di

25 S. Mazzocchi, Nell’anno della Tigre. Storia di Adriana Faranda, Milano, Baldini&Castoldi, 1994, p. 51. 26 S. Mazzocchi, Nell’anno della tigre. Storia di Adriana Faranda, cit., p. 51.

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un ferimento che mai si riesce totalmente a eludere nonostante la forte convinzione politica: «Ci misi un po’ per superare lo choc. Mi ripetevo che la violenza era una necessità ineludibile, che per arrivare a cambiare le cose bisognava passare attraverso quella durissima esperienza e accettarla. Che noi eravamo nel giusto e che eravamo legittimati a odiare e agire di conseguenza», racconta ancora Adriana Faranda27. La violenza è percepita come una necessità storica, perché inserita in un contesto che la fa apparire come tale, ma la sua pratica si confronta comunque con domande di carattere etico: Sul piano etico e politico, il nodo l’ho sciolto nel momento stesso in cui ho deciso di lottare anche con le armi per la causa in cui credo. Sul piano storico, il problema l’ho collocato ben presto nel percorso secolare dell’umanità e delle feroci e ineludibili contraddizioni che ne hanno scandito lo sviluppo. Ma tutto questo non rende meno pesante il fatto umano, il fatto individuale, di decretare in modo irreversibile il destino di un proprio simile. Un macigno che solo la convinzione politica dei propri atti può sorreggere28.

Se questo tipo di discorso può essere considerato una strategia per giustificare un’azione gravosa da assumere a livello individuale, è possibile affermare che la volontà di sottolineare la “necessità storica” della violenza deve essere intesa anche come il tentativo di restituire il clima dell’epoca. La violenza è infatti descritta come una necessità creata tanto dalla certezza di una rivoluzione imminente, quanto dalla convinzione di una “contro-rivoluzione” in atto, come indicava la minaccia di colpi di stato fascisti e la politica repressiva. 2.2 L’altra faccia della violenza «La nostra violenza armata, prima di ambire a disarticolare gli apparati statali, si presentava come intenzione di giustizia alternativa. Come supplenza alle inadempienze di quella borghese, che mandava impuniti fascisti, stragisti, poliziotti e poli-

27 28

Ibid., p. 54. Gallinari, Un contadino nella metropoli, cit., p. 176.

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tici corrotti. Avendo con ciò la propria legittimità», ha scritto Prospero Gallinari29. La violenza si presenta, dunque, da un lato come un modo per ristabilire la giustizia sociale e di opporsi alla violenza dei rapporti sociali nel sistema capitalista, e dall’altro come risposta a quella strumentale dello Stato colluso con i “fascisti”. La violenza non è quindi univoca, non è solo pratica rivoluzionaria, ma anche risposta o anticipazione della violenza del nemico e interazione con altri gruppi o attori politici : quella dei “fascisti”, delle loro aggressioni, delle stragi, quella del sistema e quella “legittima” dello Stato30. La violenza, dicono coloro che hanno scelto la lotta armata, è anche quella di uno Stato che reprime nelle strade, che umilia e tortura nei commissariati e che uccide; è la violenza del potere che condanna, reclude e priva. Franceschini non è il solo a parlare della paura di morire in prigione, delle possibili ritorsioni della polizia carceraria, in particolare al momento rapimento Moro e quando nelle menti riecheggia il ricordo dei compagni tedeschi della Rote Armee Fraktion (RAF) trovati morti a Stammheim nelle loro celle. Le descrizioni di violenze all’interno delle carceri si mescolano a quelle delle condizioni di vita al loro interno, dei tentativi di evasione, delle rivolte e delle rappresaglie, delle aggressioni programmate e “tollerate”» dalle autorità carcerarie, della violenza tra militanti incarcerati che scelgono strade (giudiziarie) diverse o che appartengono a gruppi diversi. 3. Scelte individuali e percorso collettivo: tra “illusione biografica” e controversie storiografiche La questione della responsabilità individuale emerge inevitabilmente nelle memorie, benché in modo più o meno diretto. Tuttavia, come abbiamo visto, il coinvolgimento personale non è mai estrapolato dal contesto a cui sono legate le scelte e le azioni dell’attore-autore. L’invocazione costante del contesto 29

Segio, Una vita in Prima Linea, cit., p. 203. Cfr. M. Weber, Le savant et le politique, Paris, La découverte, 2003 e Economie et société, Paris, Pocket, 2003. 30

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sembra da una parte far eco alla formazione intellettuale degli autori stessi − si pensi alla frase di Marx de Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte «gli uomini fanno la propria storia, ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che essi trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalla tradizione»31, − e dall’altra rivendicare, o perlomeno rammentare, nonostante i differenti percorsi giudiziari perseguiti, l’aspetto eminentemente collettivo della lotta e il processo storico di radicalizzazione progressiva dei gruppi extraparlamentari32. Moralmente non c’è nessuna differenza tra decidere la morte di qualcuno e somministrarla personalmente. Chi ci tiene a precisare di non aver commesso reati di sangue pur militando in un’organizzazione armata manca d’onestà, perché tutti hanno contribuito alle morti e alla violenza di quegli anni. D’altra parte, in quella stagione cruenta, prima o poi toccava a tutti uccidere33.

Questa citazione di Anna Laura Braghetti mette in luce quanto i dibattiti sulla responsabilità storica collettiva e/o individuale siano ancora vivi e aspri anche tra gli stessi ex militanti. Le leggi prima citate, ma anche i ri-posizionamenti sociali successivi degli ex militanti extraparlamentari hanno innescato una logica di differenziazione forte tra loro che si riflette nella lettura dominante della storia di quegli anni. Le dinamiche generali e collettive sono quasi sempre omesse nei pubblici dibattiti, favorendo l’emergenza di una lettura dominante della lotta armata in chiave patologica e terrorista, che tende a costruire la distinzione tra i movimenti, le organizzazioni e gli attori del ’68 e quelli degli anni ’70, come fondamentale ed essenziale, prendendo come metro di misura e come argomento di validità gli “atti violenti” 31

K. Marx, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, Roma, Editori Riuniti, 2006. Il diritto sottolinea la responsabilità penale dell’individuo, che nonostante – o in ragione – della sua appartenenza a gruppo è comunque giudicato singolarmente. Per «percorsi giudiziari» intendiamo le diverse opzioni giudiziarie individuali perseguite dai militanti, istituite dalla legge sui pentiti del 1982, dalla legge sulla dissociazione del 1987 e dalla legge Gozzini del 1986. Queste leggi mirano a rompere i legami di solidarietà tra i detenuti politici in quanto instaurano la possibilità di abbreviarne la reclusione (per le prime due) o di agevolarne il reinserimento sociale e lavorativo sulla base delle decisioni, dichiarazioni e comportamento individuali. 33 A.L. Braghetti, P. Tavella, Il prigioniero, Milano, Feltrinelli, 2005, p. 130. 32

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e più precisamente un certo tipo di violenza. È questo che nota ad esempio Segio parlando del ruolo che hanno svolto i pentiti in tale ricostruzione storica: Pure non si può seriamente dare a meno di calare i giudizi del poi dentro un’analisi complessiva che tenga conto, e si ricordi con uno sforzo di obiettività, anche del prima. Gli esordi dei movimenti sovversivi e della lotta armata sono stati resi, però, quasi incomprensibili e irrintracciabili nei libri di storia, sono scomparsi dagli archivi o vi rimangono sepolti [...]. I pentiti sono invece serviti a congelare la propria storia in un punto, a svuotarla del suo carattere di processo, di dinamica interattiva. A ridurre una vicenda collettiva e politica a un semplice elenco di reati34.

Le memorie e le autobiografie permettono dunque di riflettere anche su un altro tema difficile da affrontare e oggetto di controversie forti: quello del legame tra il ’68 e gli anni Settanta. Come afferma Luisa Passerini, «le connessioni tra movimento del ’68 e terrorismo sono uno dei problemi storici più difficili degli ultimi decenni. Alla scarsità di indagini si assomma una nebulosa avversione a parlarne, un carico di pregiudizi e rancori, un senso di tabù. La memoria dei miei intervistati arriva a lambire la questione, non giunge a porla»35. La rottura tra i “formidabili anni” del ’68 e gli oscuri anni del “terrorismo” è spesso sottolineata nelle ricostruzioni che ne fanno i protagonisti della generazione del ’68 per allontanare e rifiutare l’etichetta di “cattivo maestro” che si sentono attribuita; l’uso della violenza sembra infatti fare da spartiacque tra due epoche che vengono definite come completamente isolate e diverse. Se ci si sofferma sugli scritti del primo periodo (volantini e giornali delle organizzazioni extraparlamentari), la violenza risulta presente nella gran parte dei discorsi e delle argomentazioni, anche se il rapporto con essa è caratterizzato da una certa ambiguità. Senza voler entrare nel dibattito sull’uso della violenza in tutte le sue forme nel ’68 e nei primi anni Settanta, è interessante evidenziare che la “rivoluzione” fa parte già dal ’68, se non prima, dell’orizzonte del possibile comune a tutte le organizzazioni di sinistra: non solo pensabile, ma obiettivo concreto da raggiungere. La vio34 35

Segio, Una vita in Prima Linea, cit., pp. 22-23. L. Passerini, Autoritratto di gruppo, Firenze, Giunti, 1988, p. 188.

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lenza rivoluzionaria, la “violenza d’avanguardia” è già al centro dei dibattiti nel ’68, come ricordano alcune memorie e come testimoniano gli archivi stessi, oltre che la ricostruzione della carriera di numerosi militanti. I percorsi individuali mostrano in modo chiaro come sia stato possibile per molti, in precisi momenti, allontanarsi dalle organizzazioni legali per orientarsi verso quelle armate e clandestine, in particolare da Lotta Continua e Potere Operaio verso le Brigate Rosse e Prima Linea. La legittimazione della violenza, al di là dell’uso reale, è dunque da analizzare come un processo di lunga durata, che comincia con la fine degli anni ’60. Studiare il periodo tra il ’68 e i primi anni ’80 senza vedervi alcuna soluzione di continuità non significa negare le trasformazioni dei dibattiti e del contesto all’interno di un lungo decennio, ma al contrario esaminarlo in tutte le sue forme, nelle sue dinamiche complesse che consentono di comprendere la radicalizzazione come processo di legittimazione progressiva delle forme violente di lotta. Se si elude questa legittimazione progressiva della violenza rivoluzionaria da parte delle diverse organizzazioni dei gruppi militanti, e nel mondo, non risulta possibile comprendere né spiegare un’adesione così diffusa, nelle fila dell’estrema sinistra, alla lotta armata. Gli esempi delle rivoluzioni all’estero, delle guerre di liberazione, delle resistenze armate (Cuba, Vietnam, Algeria, Palestina, ecc.), ma anche dei gruppi armati rivoluzionari negli altri paesi occidentali (RAF, IRA, ETA, ecc.), sono ampiamente citati nella memorialistica dei militanti e testimoniano l’importanza che hanno ricoperto sia come modelli teorici e pratici di riferimento, sia come effettivi legami di solidarietà instaurati in quegli anni a livello internazionale. Conclusioni. Tra storia e memoria, amnesie e usi politici del passato In conclusione, alcuni aspetti restano da prendere in esame, alcune piste di ricerca rimangono inesplorate, e alcune domande sono ancora da porre. Il primo aspetto che colpisce nella lettura della memorialistica degli ex-militanti è la tendenza all’individualizzazione della sto-

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ria, delle storie. Se ciò può sembrare «normale», dal momento che sono prese in esame memorie, testimonianze e autobiografie, cioè produzioni per definizione individuali, lo è in realtà di meno se si pensa a quanto la vita collettiva per i militanti dell’epoca fosse preponderante e a quanto vita politica e vita privata tendessero a fondersi e confondersi. Ci si può quindi chiedere come da un’«identità totale» collettiva, da una storia collettiva e rivendicata come tale, si sia passati ad una individualizzazione e una frammentazione (a volte contraddittoria) delle singole memorie; come da un progetto politico collettivo si sia passati all’(auto)analisi delle ragioni individuali del passaggio all’atto. Senza potersi soffermare su questo punto, si potrebbe comunque ipotizzare che la soluzione giudiziaria del conflitto politico di quegli anni ha avuto un profondo impatto sulle loro riletture successive. Alla scelta di una soluzione politica collettiva come l’amnistia per uscire dalla crisi o come strumento di “riconciliazione”, sono stati preferiti degli strumenti giudiziari che hanno distinto le diverse storie individuali: dal pentito al dissociato, fino al detenuto “scientificamente osservato” come dice la legge Gozzini del 1986, l’apprezzamento della condotta fisica e morale individuale dell’ex-militante determina il suo percorso giudiziario e favorisce o meno il suo ritorno a una vita “normale”. In che misura quest’individualizzazione delle colpe, comprese quelle morali, impone dei silenzi alla memoria? In che misura questo fenomeno giudiziario tende a cancellare o attenuare la dimensione politica della violenza degli anni Settanta? In che modo i contesti sociopolitici influenzano e determinano un’interiorizzazione dell’“indicibile” che opera come vera e propria autocensura? E, ancora, perché gli ex-militanti di estrema destra non hanno scritto, o pochissimo, a differenza di quelli di sinistra? È necessario a questo punto, tornare alla domanda posta all’inizio di questo lavoro, ovvero quali sono gli apporti e i limiti di uno studio della memorialistica per una ricostruzione storica degli anni Settanta. Le versioni retrospettive di storie individuali non possono in generale restituire il contesto d’incertezza nella quale gli attori o i gruppi hanno agito all’epoca : il rischio diventa quello di cadere nella trappola di una lettura finalistica della storia che vede, nell’esito dell’evento, la necessità e la certezza

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dello svolgimento dello stesso. In altre parole, sussiste il rischio di prendere il risultato come principio esplicativo, che non ha altro effetto se non quello di legittimare innanzitutto l’ordine sociale e politico presente. E questo può divenire un assunto per chi è coinvolto in usi “strategici” del passato, non certamente per uno storico. Ripensare la storia degli anni Settanta e la questione della violenza non significa interpretarla come realizzazione pratica e irrazionale di un’ideologia estremista e intrinsecamente violenta, ma necessita probabilmente di essere pensata come un processo sociale di lunga durata, nazionale e internazionale. La dinamica dello scontro tra attori e gruppi d’attori (la loro interazione conflittuale e concorrenziale) determina un concatenamento di eventi il cui svolgersi e il cui esito sono ben lungi dall’essere evidenti e scontati. Bisognerebbe quindi restituire lo stato di incertezza in cui hanno vissuto gli attori coinvolti36, la configurazione d’interdipendenza, per usare un concetto elaborato da Nobert Elias37, anche all’interno delle singole organizzazioni e tra i diversi gruppi sociali. A questo ben poco probabilmente possono contribuire le interviste, i racconti di vita o la memorialistica, perché fonti troppo filtrate, troppo coinvolte nel presente in cui si esprimono e il ricorso all’archivio si rende quindi indispensabile. Dal punto di vista dei cosiddetti “anni di piombo”, lo studio della memorialistica potrebbe quindi portare luce sulle controversie, le posizioni e le prese di posizione sul passato, ma solo ad alcune condizioni. Prendere ad esempio in esame la produzione memoriale, non solo degli ex militanti, ma anche dei giudici che con essi si sono confrontati, delle vittime e dei loro famigliari, ricontestualizzare questi scritti attraverso la ricostruzione della congiuntura storico-politica in cui sono stati 36 È ciò che ad esempio sottolinea lo storico americano Timothy Tackett a proposito della rivoluzione francese nel suo studio Becoming a Revolutionary: The Deputies of the French National Assembly and the Emergence of a Revolutionary Culture (1789-1790), Princeton, N.J., Princeton University Press, 1996; trad. it. In nome del popolo sovrano, Roma, Carocci, 2000. Basandosi su importanti archivi e in particolare sulle lettere e i diari dei deputati e ricostruendo il loro itinerario biografico, lo storico mostra come la violenza e il terrore poi, lungi dall’essere iscritti nell’ideologia della rivoluzione o peggio ancora in una sua supposta natura, è prodotto dalle circostanze e dal concatenarsi degli eventi, da un dipende da un fatalistico destino. 37 Concetto elaborato dal sociologo tedesco Norbert Elias.

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prodotti e integrare nello studio i dibattiti svoltisi al contempo in parlamento, nei media e nello spazio pubblico in genere. A condizione, cioè, di analizzare gli “usi strategici” del passato in tutte le loro dimensioni.

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1. Responsabilità, scrittura e «l’altro» Nell’attuale dibattito sulla letteratura italiana e del suo ritorno di interesse al reale, è assente una accurata ricognizione su di un tema centrale come quello della violenza. Eppure è proprio la violenza a rendere esorbitanti due testi che hanno modificato la percezione della letteratura italiana degli ultimi anni: Gomorra e Sappiano le parole del mio sangue1. Ovviamente i due titoli non hanno nulla a che fare con il tema del mio saggio, ma mi pare interessante che le incomprensioni critiche che hanno generato (si pensi solo allo statuto letterario del libro di Saviano: romanzo, reportage, testimonianza; o al totale silenzio critico che ha accolto l’esordio della scrittrice milanese) si possano riassumere in una mancata riflessione su cosa sia la violenza, in che modo essa venga raccontata e recepita dai letterati e dagli intellettuali italiani. La violenza, pari al denaro, è il tema tabù della nostra letteratura. Non deve quindi stupire che nella riflessione sugli anni ’70 spesso – per non dire sempre – la violenza sia costantemente elusa, come giustamente viene messo in evidenza da Anna Bravo in suo saggio, che rimane – per ora – una delle poche lucide analisi di questa mancanza2. 1 R. Saviano, Gomorra, Milano, Mondadori, 2007 e B. Jones, Sappiano le parole del mio sangue, Milano, Rizzoli, 2007. 2 È da notare come forse uno dei pochi autori che coniughi tali tematiche sia

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La storica tocca un nervo scoperto: Vorrei aggiungere il rapporto irrisolto con la violenza. Non la violenza, che lo stato e i gruppi neofascisti hanno rovesciato sui movimenti, non la violenza esercitata contro il corpo delle donne, ma quella di cui in vario grado portiamo una responsabilità per averla agita, tollerata, misconosciuta, giustificata – una questione che è rimasta fuori o ai margini estremi della ricerca storica e della riflessione politica3.

Durante la redazione del mio libro, Una tragedia negata, mi sono reso conto, incontrando alcuni degli autori dei romanzi, che l’orizzonte di violenza non era stato escluso a priori dal racconto4. Anzi, soprattutto parlando a lungo con Luca Rastello, lo scrittore più lucido rispetto agli eventi di quel periodo, mi sono convinto che la letteratura italiana ha cercato di mettere in luce lo stringente rapporto tra scrittura, violenza e responsabilità, ma con risultati non sempre all’altezza delle aspettative. Facciamo un salto indietro del tempo in un Palasport a Torino. Migliaia di persone urlano con rabbia contro due ragazzi, che fino al giorno prima erano con loro a sfilare nei cortei. Alcuni, forse quelli più inferociti, erano anche amici loro e solo la sera prima s’erano trovati nelle bettole lungo il Po o nelle vie attigue a cenare insieme. Ora, subitaneo, questo sbotto di violenza. Un giorno al Palasport di Torino ho assistito ad un processo popolare contro due ragazzi del movimento. Gli stessi amici che il giorno prima cenavano con loro all’osteria il giorno dopo li deridevano mettendoli in mutande davanti a tutti e malmenandoli. Il quel periodo era così: scattava un relè, sconosciuto e nascosto, che faceva di te o un bersaglio o un nemico. È chiaro che questo depotenziava un’idea di responsabilità nei confronti degli altri, e si legava strettamente al nostro modo di vedere la violenza5.

Gli anni ’70 sono stati un’esperienza di violenza, un habitus comune fin dagli anni del liceo.

Federigo Tozzi, penso in particolare a Tre croci e Il podere. 3 A. Bravo, Noi e la violenza trent’anni per pesarci, «Genesis», III, 2004 , p. 1. 4 D. Paolin, Una tragedia negata. Il racconto degli anni di piombo nella narrativa italiana, Nuoro, Il Maestrale, 2008. 5 Ibid., pp. 165-166.

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È difficile spiegare quello che ci frullava per la testa… c’era un’assimilazione della violenza che non si può capire adesso… era un’atmosfera che coinvolgeva tutti, un po’ belfastiana e un po’ sudamericana. Bande, bombe, sbarre e tombe erano il pane quotidiano per le redazioni di tutti i giornali. Pane e companatico6.

Il sentimento di violenza era generalizzato, un vero e proprio orizzonte d’essere. Nel ripercorrere gli scioperi degli anni Settanta, è usuale trovare testimonianza di attivisti che raccontano come per far riuscire meglio la mobilitazione si bloccassero i binari con delle pietre (nella mia Torino, in via Monginevro, capitava spesso a quanto mi viene raccontato) in modo che i tram non potessero neppure uscire dal deposito. Questo è un primo grado di violenza. Il secondo è rappresentato dai servizi d’ordine ai cortei, nei quali la violenza verbale dell’uccidere un fascista non è reato si salda con l’idea che la migliore difesa è l’attacco. Il racconto si trasforma: siamo davanti ai fotogrammi, opportunamente corretti, de Il mucchio selvaggio, una delle pellicole fondanti dell’immaginario di quegli anni e del modo in cui sono stati percepiti e raccontati. Emblematico di questa tendenza è La banda Bellini, il romanzo di Marco Philopat. La scrittura diviene nervosa e vive di brevi illuminazioni. Lì davanti c’è una svolta – comunque vada cambierà – in ospedale o in questura – feriti a casa o vittoriosi in centro – quando ho pensato alla parola “vittoriosi” – i nervi sono scattati – la mia mano è entrata nel trench. Dall’altoforno della gola mi sono uscite parole roventi come acciaio fuso – “Avanti – sono poveri cristi abituati a inseguire [i reparti della celere] – ma non a essere attaccati – avanti AVAAANNTIIIH”. Dopo una decina di metri, quelli hanno iniziato a indietreggiare – hanno poi voltato le spalle scappando come conigli – che GIOIAAAHHAHHHHHHhhhh!!!7.

Per Philopat la violenza è un sentire mistico. Il corteo si muove come le membra di un unico corpo e fa indietreggiare e fuggire il nemico. L’io narrante, alla fine del suo percorso esistenziale,

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G. Marconi, Io non scordo, Roma, Fazi, 2004, p. 101. M. Philopat, La banda Bellini, Torino, Einaudi, 2007, pp. 123-124.

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immagina la propria morte. Inutile sottolineare che sia violenta e gloriosa. «Bellini ma tu come vorresti crepare?» Mi sembra chiaro, non l’avete ancora capito? «No!» Davanti al plotone di esecuzione per salvare cento, mille giovani cafoni. Si proprio così. Chiederei una poltrona e l’ultima sigaretta, Pall Mall senza filtro, poi un bicchiere colmo di whisky torbato… Comodamente seduto direi al capo: «Lasciatemi finire branco di maiali e non sbagliate mira, beccate solo me! Quelli dietro non c’entrano»8.

Non si faccia l’errore di vedere in tale atteggiamento una semplice posa, un modo di rappresentarsi rispetto agli altri, ma il modo con il quale Bellini affronta, sogna e desidera la propria morte afferma la necessità d’essere violenti. La violenza politica era intesa come legittima. C’è poco da fare, era così. Era un’eredità. Anzi, la violenza, fino all’uccisione del nemico, era uno strumento ritenuto oltre che valido fondamentale. Ma ciò avveniva in un mondo di violenza diretta di cui ci siamo dimenticati. In quel mondo prendere un fracco di botte da un tuo compagno di scuola elementare più grosso non era bullismo, era quello che ti poteva succedere ogni giorno se non stavi attento. Così la violenza era esplicita nei rapporti sociali (nelle campagne si teneva il fucile appeso al muro della cucina, si girava con la roncola in tasca). Questa violenza era anche l’ultimo residuo di un mondo aristocratico: si era inattaccabili per rango. La violenza diretta richiede coraggio, distinzione tra lealtà e slealtà, un codice d’onore. Così ha senso il “rango”, nel senso più ampio, anche quello intellettuale 9.

Ecco, nelle parole di Villalta possiamo vedere germinare il seme della scelta che alcuni fecero in favore della lotta armata. Mi sono chiesto spesso, leggendo questi romanzi oppure osservando le immagini televisive, non ultime quelle in cui per l’ennesima volta veniva raccontato il delitto Moro, se quegli anni furono anni di vera e propria guerra. Si viveva in un clima di guerra strisciante, certamente asimmetrica e sghemba ma non per questo meno terribile. Alla radice di tale sentimento c’era – almeno dalle dichiarazioni degli autori dei romanzi da me investigati – l’irrisolta ferita della guerra ci8 9

Ibid., p. 202. D. Paolin, Una tragedia negata, cit., pp. 166-167.

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vile e partigiana. Giacomo Sartori, che nel suo Anatomia della Battaglia ha forse fornito l’analisi più spietata di questo rapporto tra fascismo, lotta partigiana e terrorismo, mette in chiaro questo atteggiamento10. La violenza dei gruppi eversivi di sinistra e la violenza in molti casi pilotata dall’alto della destra avevano riattualizzato la non risolta contrapposizione tra repubblichini e partigiani. Nelle azioni violente dei terroristi di sinistra e di destra risorgeva la contrapposizione mai davvero estinta dell’ultimo periodo della guerra, questa sì – guerra civile. Una guerra civile che nessuno ancora nominava in quanto tale, una guerra civile nemmeno conscia – visto che appunto nessuno ne parlava – di se stessa. Mi sembra molto difficile spiegare perché solo in Italia il terrorismo abbia assunto le proporzioni che ha avuto, senza riferirsi a come l’Italia è uscita dal fascismo, a come ha voltato pagina senza regolare i conti con esso. Mi sembra che chi parla di guerra civile a proposito degli anni di piombo, come fa ad esempio De Luca, non riesce a staccarsi dalla visione dell’epoca, non riesce a non vedere quanto quel periodo appartenesse in realtà al passato, sopravvivesse ormai come puro fantasma11.

L’essere immersi nella violenza, fino a farne – per dirla con Marconi – il companatico dell’esistenza, non ha prodotto, però, nessuna riflessione sia dal punto di vista sociale che letterario. Una mancanza di comprensione, come cercherò di dimostrare nel corso del mio intervento, che ha prodotto narrazioni monche, consolatorie, in cui il tragico è completamente assente. La violenza è il nervo scoperto dei racconti, delle memorie e dei romanzi sugli anni ’70. La letteratura scopre una povertà di parole e di elaborazione rispetto a questo fenomeno, che porta a dire che il nodo violenza/anni Settanta è completamente irrisolto. Molti dei romanzi e delle narrazioni di quegli anni si soffermano sulla violenza come un fenomeno subìto: è lo scontro di piazza contro il nemico, sono le manganellate prese durante la manifestazione. La violenza si patisce. Una caratteristica tipica dei romanzi sul terrorismo è quella di non mostrare mai un’azione di violenza direttamente ma di smontarla in brevi flash back così da disinnescare la pericolosità 10 11

G. Sartori, Anatomia della Battaglia, Milano, Sironi, 2005. D. Paolin, Una tragedia negata, cit., p. 166.

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del racconto, situandolo in un passato remoto. Allo stesso modo, sminuzzarlo in piccoli spot ben distinti ha la funzione di addomesticare il fatto e di renderlo meno presente, meno inquietante. Un esempio di questo atteggiamento può essere visto ne La guerra di Nora di Antonella Tavassi La Greca, dove il racconto dell’omicidio di un giudice ci viene diluito per l’intera durata del romanzo. La protagonista ammette e confessa l’omicidio durante una seduta psicanalitica: «Sono stesa sul lettino di Fernad e ho gli occhi chiusi. La luce nello studio è liquida, rossastra, studiata perché i pazienti si rilassino»12. Nella luce soffusa dello studio Nora è pronta a raccontare i suoi accadimenti sanguinosi. Il bersaglio è lì, con il suo spolverino color fango, gli occhiali spessi, la borsa di cuoio logora che tra pochi istanti spruzzerà di sangue. Capisco al volo che non c’è tempo da perdere […]. Con il silenziatore il rumore è appena uno scatto, un rantolo. Voglio essere certa che sia morto e sparo altre due volte. Il bersaglio si ripiega su se stesso, come un fantoccio13.

Abbiamo davanti agli occhi un omicidio, ma la costruzione del racconto ci porta a sospendere il giudizio. E ciò avviene per una serie di fattori. In primo luogo è il contesto dove il racconto avviene: lo studio dello psicanalista, che è una zona franca dove l’indistinzione tra bene e male permette a Nora, la protagonista del romanzo, una estrema libertà nel raccontare ciò che ha compiuto. Quindi lo sfasamento temporale, il romanzo è in prima persona, quindi Nora sta spiegando ai lettori adesso di quando alcuni anni or sono raccontò al suo psicanalista di un omicidio commesso tempo prima. Infine abbiamo un diverso trattamento tra i due soggetti protagonisti dell’azione. Nora, come vediamo, tende a presentarsi come una paziente, una persona in pena, che soffre di una malattia dell’anima. Porta il lettore a provare verso di lei una empatia, cerca di fargli indossare i propri panni. Nelle poche righe che abbiamo letto, la vittima dell’attentato è definita per ben due volte bersaglio e per una fantoccio. A destare stupore 12 13

A. Tavassi La Greca, La guerra di Nora, Venezia, Marsilio, 2004, p. 137. Ibid., p. 138.

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è l’assoluta mancanza di particolari che definiscono questa persona come vittima: è anonimo, non lascia in chi legge minima traccia di ricordo. L’autrice presenta la vittima svuotata, ne fa veramente un fantasma, la cui presenza è giustificata soltanto come un relè narrativo: serve per far proseguire la storia, ma la vittima non ha nessuno spessore reale. Spesso mi ha colpito notare che la strategia del racconto di questi romanzi rassomigli a certi passaggi dei documenti elaborati dai terroristi, in particolare a quelle che in gergo sono chiamate le indagini conoscitive. Quando un gruppo terroristico decide di compiere un attentato, un rapimento, mette in opera una serie di pedinamenti e studi dei comportamenti della vittima, che servono per far riuscire l’operazione al meglio e non fa correre rischi al commando. I terroristi scrivono delle relazioni, dove annotano abitudini, orari, spostamenti e percorsi della persona. Una delle caratteristiche principali di questi scritti è il fatto che la persona pedinata venga definita un obiettivo. Assistiamo, quindi, ad un progressivo svuotamento dell’uomo, che diventa un semplice target, un simbolo, a cui è facile sparare e contro il quale è facile incrudelire. È importante notare che il primo scalino di questa chenosi sia un atto linguistico, ovvero la cancellazione del nome della vittima, che ritroviamo intatto nei romanzi di cui mi sono occupato e il racconto di Nora né è un esempio chiarificatore. Molti dei libri, che narrano gli anni Settanta, hanno completamente dimenticato, messo da parte, la figura della vittima. La violenza, paradossalmente, poteva essere un modo per mettere in scena il rapporto con l’altro, sia esso definito come “nemico” o “vittima”. Questa occasione mancata produce la nascita di narrazioni diverse, che Luca Rastello così descrive: In quel periodo scompare il luogo dove poter esercitare in maniera condivisa la responsabilità, che diventa un gioco linguistico. Entriamo nel post-moderno della narrazione, che costruisce un modello immaginario di responsabilità. Possiamo dire che quindi la responsabilità diventa una narrazione. Questo succede in una qualunque comunità di lavoro organizzata. Prova ad immaginare un giornale, una multinazionale, una fabbrica: devi licenziare uno, non sei tu che lo fai fuori, ma costruisci una narrazione che ti

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permetta di licenziare chi devi; però, lo fai stando all’interno di una razionalità narrativa; questo atteggiamento è iniziato proprio negli anni Settanta14.

Le parole di Rastello mettono in stretta relazione violenza/ narrazione/esperienza dell’altro. Questo nodo, purtroppo, è risolto dagli scrittori italiani in maniera assolutamente convenzionale. L’atto violento viene descritto nella sua superficialità. Della violenza ci viene ostentata l’epidermide, come accade in questo stralcio di Antonio Moresco, tratto dal suo libro Gli esordi15: I piumanti stavano con gli occhi sbarrati, contro il muro. “Ecco… il tronchese!” sentii che stava sussurrando al mio fianco la voce, un po’ assonnata. Un guerriero era arrivato balzando in silenzio contro il muro. Fece volare via con un calcio l’elmo di un piumante che si era lasciato cadere a terra, e stava seduto in silenzio, la schiena abbandonata contro il muro e le gambe disarticolate e allargate sul selciato. Sollevò molto in alto, con entrambe le mani, un tronchese. Si chinò improvvisamente in avanti. Un istante dopo capii che stava tranciando di netto il gozzo del piumante, e che l’esofago stava schizzando fuori come un tubo di gomma dalle carni16.

La scena descritta da Moresco ci ricorda una sorta di fumetto, che snatura la violenza, la fa diventare altro, la estirpa dal reale e la sposta in una dimensione più comoda. In questo modo l’autore elude la portata tragica. È un racconto tanto più eufemistico e reticente quanto più sottolinea una certa compiacenza verso i dettagli più crudi che finiscono per disinnescare la violenza in questione: “Hai visto? Gli ha conficcato tutto quell’ago in una narice…” sentii bisbigliare al mio fianco. “No, no, non può essere…” pensavo senza più spostare la testa, senza respirare. La suora nera aveva sfilato già tutto l’ago dalla narice. Ci stava passando sopra due dita, per pulirlo, si stava portando alle labbra i frammenti di cervello rimasti appiccicati, prima di rimetterlo ancora una volta, pazientemente, nelle maglie17.

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D. Paolin, Una tragedia negata, cit., p. 165. A. Moresco, Gli esordi, Milano, Feltrinelli, 1998. Ibid., p. 248. Ibid., pp. 249-250.

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Queste due citazioni fanno comprendere in maniera chiara come quel nodo, che Rastello ha individuato come centrale per la comprensione della violenza, cioè il rapporto con l’altro, è in realtà completamente accantonato. La narrativa italiana ha obliato l’altro, che sia esso la vittima, il nemico, il poliziotto, il sindacalista (tutti personaggi che non trovano cittadinanza nei romanzi sugli anni di piombo). Proprio la rappresentazione della violenza mi ha portato più volte a riflettere su quale genere letterario potesse contenere la tensione generata tra la scrittura, la responsabilità e l’altro. La tragedia è a mio parere l’unico genere letterario che s’addice a questi anni e al loro racconto. Se in Una tragedia negata mi sono soffermato in particolare sulla elaborazione della colpa e del suo progressivo svuotamento di significato in senso di colpa, ora vorrei soffermarmi su cosa fa di un personaggio un personaggio tragico. 2. Personaggio vs Figura Se pensiamo ai personaggi protagonisti della tragedia greca mi sembra interessante notare come l’attenzione dei drammaturghi sia di farli agire come semplici uomini. Sono re, grandi guerrieri, alcune volte sono dei, ma nella tragedia vengono raccontati nella loro umanità. Edipo, Medea, Antigone, solo per fare alcuni nomi, non sono tragici perché “speciali”, ma perché a loro, per un motivo imperscrutabile del destino, è accaduto qualcosa che rileva appieno la sorte di ogni uomo, che mostra il significato più nascosto dell’essere umano. Non sono simboli astratti di una narrazione a tema, ma vengono mostrati in tutta la loro umanità e in ogni loro singola sfaccettatura. Tale atteggiamento, mi pare chiaro, serve a favorire l’immedesimazione del pubblico con il protagonista del dramma. Il fine ultimo della tragedia, non solo genere letterario ma anche rito collettivo, era quello della catarsi: affrontare, vedendoli rappresentati, i propri demoni. Lo spettatore seduto a teatro deve, quindi, sentire come propria l’esistenza che vede rappresentata, sapere che quello che succede ad Antigone lo riguarda. Deve poter dire che lui, spettatore, è Antigone. Penso che questo tipo di tensione dovrebbe essere ricercata

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anche nei romanzi che raccontano il terrorismo. Tale atteggiamento potrebbe essere decisivo anche per chiudere i conti con quel periodo così tremendo. Perché questo avvenga è necessaria la catarsi e quindi è importante l’immedesimazione di chi legge. Mi sembra quindi interessante parlare del modo in cui vengono trattati i personaggi; in particolare mi vorrei soffermare su Aldo Moro, la cui vicenda ha rappresentato il culmine emotivo, di quegli anni. Questa scelta è dovuta all’obiettivo di fare un regesto di atteggiamenti narrativi, che sanciscono l’impossibilità per questi romanzi di essere tragici. La mia tesi, che anticipo, è che per Aldo Moro e gli altri attori dei romanzi sugli anni di piombo sono trattati come figure. L’interpretazione “figurale” stabilisce una connessione fra due avvenimenti o due personaggi, nella quale connessione uno dei due significa non solamente se stesso, ma anche l’altro, e il secondo include il primo e lo integra. I due poli della figura stanno ambedue entro il tempo come fatti o persone vere, stanno ambedue nel fiume scorrente che è la vita storica; e soltanto l’intelligenza, lo “intellectus spiritualis” della loro connessione costituisce un atto spirituale18.

Il brano è tratto da Mimesis di Auerbach e chiarisce subito la differenza di trattamento che ritroveremo nei romanzi sugli anni di piombo, rispetto alle tragedie greche. Mi soffermerò in particolare ad analizzare Nemici Amici19 di Spinato e Un paese senza20 di Arbasino, mettendoli a confronto con L’affaire Moro21 di Sciascia. L’Aldo Moro di Spinato vuole essere un personaggio tragico, ma risulta solo grottesco. Per capire meglio questa affermazione cerchiamo di spiegare come è strutturato il romanzo. Ogni capitolo s’apre indicando nel titolo chi prende la parola. Aldo Moro viene sempre indicato come Il Presidente. Le generalità dell’uomo sono già passate in secondo piano, viene subito alla mente un passaggio del libro di Sciascia che sottolinea 18 E. Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Torino, Einaudi, p. 81. 19 G. Spinato, Nemici Amici, Roma, Fazi, 2004. 20 A. Arbasino, In questo stato, Milano, Garzanti, 2008. 21 L. Sciascia, L’affaire Moro, Milano, Adelphi, 2004.

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come Moro subito dopo il rapimento scompaia come persona, come individuo, e diventi semplicemente uno “statista”. Il nome non viene pronunciato, ancora una volta i libri presi in esame paiono seguire la strategia comunicativa dei terroristi, la vittima viene degradata, non ha più un nome o un cognome, ma diventa un funzione, un ruolo. Non si rapisce l’uomo, il nonno, il marito, ma si tiene prigioniera la carica politica, il simbolo che essa rappresenta. Spinato nel suo raccontare Moro si spinge ancora oltre e riscrive le lettere dalla prigionia. Una scelta legittima, che però proprio per come è costruito il libro finisce per avere un effetto deleterio. Le lettere di Moro sono le lettere di un uomo, di una persona che ha affetti, amori, appuntamenti e un lavoro. Nella finzione romanzesca, dove all’uomo Moro è stato sostituita la figura Aldo Moro; queste lettere così grondanti di umana nostalgia, di una sofferenza pudica e trattenuta, suonano grottesche e fuori luogo. Il potere, viene da dire, non scrive così. Il romanzo quindi fallisce, così come fallisce Arbasino nel suo In questo stato, anche la fallibilità è sottointesa alla genesi del testo, che vuole essere una sorta di fotografia istantanea di quei giorni. Aldo Moro è una scusa, in questo libro. Il suo rapimento e il suo dramma servono ad Arbasino per mettere in scena ancora una volta la su scrittura squisitissima e colta, che dà l’immagine di un Italia, durante il sequestro Moro, molto diversa da quella che solitamente ci sentiamo raccontare. È emblematico il finale del racconto. L’ultimo capitolo si apre con la descrizione di un “seminario riservato” dal titolo L’Europa oggi: ostacoli e speranze22. A parlare è il gotha dell’intellighenzia italiana. Ci sono Umberto Agnelli, Napolitano, ci sono Lama, Carli, Andreatta, Rodotà, Scalfari. Nella sala si discorre dell’Europa decadente, si parla lungamente della crisi della scuola e della «valorizzazione di ogni senso di diplomi e del rischio che oggi sostituisce ogni aspettativa un tempo legata alle lauree».

22 I diversi riferimenti virgolettati in questa parte di brano sono tratti da Arbasino, In questo stato, cit., pp. 181-182.

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Si parla quindi di tematiche serie e importanti, ma che suonano stonate se leggiamo la data riportata all’inizio del capitolo: 9 maggio 1978. È il giorno del ritrovamento del cadavere di Aldo Moro. La R4 lasciata in via Caetani, il cadavere Moro abbandonato nel bagagliaio, la ressa delle persone, gli agenti di polizia, i fotografi, la gente comune. Tutti ammassati in quella via stretta di Roma. Nulla di tutto questo nell’explicit di Arbasino. Siamo nei suoi soliti salotti, dove si discute di argomenti complicatissimi e assoluti (qui nel senso latino stringente di ab soluto). Si fanno diverse ipotesi sul termine decadenza e si «sente forse una certa mancanza dell’asse Nietzche-Cavani-Cacciari, ma del resto nessuno ha neanche mai proposto come Presidente della Repubblica più adatto in questo momento Mario Praz». Infine «si esce in giardino per i drink: sta per piovere, piccola tromba d’aria; allora la colazione viene servita dentro; si rientra…». E così mentre si taglia uno sformato di spinaci e ognuno cerca le posate per mangiare, ecco il colpo di teatro: «Due ceffi stravolti, si avvicinano ai più autorevoli tra gli onorevoli, sussurrano agli orecchi che è stata trovata la macchina con il corpo in via Caetani»23. Il corpo. Si noti che non viene neppure detto il nome, e il cadavere dell’onorevole viene evocato alla fine come un semplice stratagemma da scuola di scrittura. Aldo Moro non conta come personaggio, ma come simbolo, da una parte come simbolo del potere per Spinato, dall’altra come semplice flatus vocis per Arbasino, utile al più a produrre le lunghe e articolate considerazioni di costume di cui è costellato In questo stato. In entrambi i casi siamo lontanissimi dalla profondità con cui Sciascia ne L’affaire Moro dipinge la psicologia dell’uomo rapito. Proprio nel corso del libro, l’autore siciliano ci dà conto di come Moro passi da personaggio a creatura: «da personaggio a “uomo solo”, da “uomo solo” a creatura»24. In questo modo, Sciascia affronta il tragico, affronta questo passaggio. Cosa che sia Arbasino che Spinato (ma anche la maggior parte degli 23 24

Ibid. p. 182. L. Sciascia, L’affaire Moro, cit., p. 76.

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autori di storie sugli anni di piombo) evitano del tutto, applicando all’estremo quella rimozione del nemico e della vittima che avevamo visto essere centrale già nel nodo irrisolto con la violenza e il suo racconto. Sciascia fa una scelta coraggiosa, il suo libro è uno scandaglio minuzioso e di quello che sentono e pensano i brigatisti e di cosa sente e pensa Aldo Moro. Questo atteggiamento permette una profonda immedesimazione da parte del lettore, che comprende come quello che accade nel libro lo riguardi. Il lettore è Aldo Moro. Il lettore sono gli uomini delle Brigate Rosse. «Non credo abbia paura della morte. Forse di quella morte: ma era ancora paura della vita. “Secoli di scirocco” era stato detto “sono nel suo sguardo”. Ma anche secoli di morte. Di contemplazione della morte, di amicizia con la morte»25. L’Affaire Moro, diversamente da molti romanzi sugli anni di piombo, è la contemplazione laica del destino di uomo che si sa segnato. Moro, così come Edipo o Giocasta o Medea o Oreste, non è un personaggio tragico perché vive una situazione fuori norma, ma perché gli è capitato in sorte un avvenimento che mostra cosa è la vita. Il libro di Sciascia è un testo tragico perché ci consegna una esperienza di verità che simile alla limatura di ferro resiste imperterrita sotto le unghie. 3. Il vuoto tragico Il libro di Sciascia rappresenta un apax nella letteratura italiana26. Il tragico sembra essere lontano dalle corde della nostra letteratura, come se fosse un buco, un vuoto che non si riesce a colmare. Mi sembra interessante sottolineare, sempre rimanendo nell’ambito dei tentativi di racconto sulla vicenda di Aldo Moro, l’immagine di questo vuoto. Vorrei raccontare la copertina di un libro e partendo da questa provare a finire con una proposta. La copertina è quella di Corpo di Stato di Marco Baliani27. Prima alcune parole sul 25 26 27

Ibid., p. 53. Se escludiamo G. Vasta, Il tempo materiale, Roma, Minimum Fax, 2008. M. Baliani, Corpo di Stato, Milano, Rizzoli, 2003.

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libro in questione. Corpo di Stato è il testo della rappresentazione teatrale che Baliani tenne nel ’98, trasmessa anche dalla Rai nel ventennale del sequestro Moro, con in appendice un interessante diario di lavorazione. Inizialmente, come apprendiamo dal diario, lo spettacolo doveva essere una sorta di tragedia; Baliani infatti riflette sulla figura di Antigone e sulla sua scelta di dare sepoltura al corpo del fratello violando le leggi dello Stato (in parallelo con i funerali di stato di Aldo Moro senza il corpo). La scelta enunciata nel diario, però, non trova riscontro nel testo, che invece si apre più tradizionalmente con un “come eravamo”. E anche lo spettacolo diventa più un amarcord di quella generazione, una sorta di fotografia del «dove eri quando fu rapito Aldo Moro», che non una riflessione su quello che significò quell’attentato. Baliani nel raccontare Moro fa poi un’altra operazione, inserisce anche il ricordo della morte di Peppino Impastato, ucciso anche lui dalla mafia il 9 maggio del 1978. Questo non fa, a mio parere, che creare confusione dal punto di vista del racconto. La domanda che nasce spontanea è perché unire queste due morti? Baliani nel diario si risponde dicendo che Peppino era uno di “noi”, uno dei movimenti, chiarendo che ancora una volta non gli interessa raccontare la vicenda del sequestro Moro, che è solo una sorta di clic per raccontare se stessi, la propria giovinezza, gli amici che ce l’hanno fatta e quelli che si sono persi nel viaggio. Moro rappresenta una scusa narrativa per raccontare altro. E questo è ben mostrato nella copertina del libro. L’immagine è quella classica, che ha fatto il giro del mondo, che ognuno di noi, anche chi è nato dopo quel 9 maggio 1978, possiede nella propria memoria. È l’istantanea del bagagliaio della R4. Se però guardiamo bene quello scatto, notiamo che il corpo non c’è. Il morto corpo di Aldo Moro non è nella copertina, al suo posto c’è un vuoto, un vuoto tragico. L’immagine è chiarificatrice di tutto un atteggiamento che abbiamo scelto di tratteggiare in questo breve saggio. La tragedia è abbandonata, messa da parte. Moro diventa comprimario. Il cadavere dello statista non c’è, è l’ultima concreta prova di rimozione ed elusione della tragedia e del tragico, che tali romanzi mettono in atto.

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Una tragedia negata si concludeva con una proposta, ovvero quella di promuovere, per quanto riguarda i letterati e gli intellettuali italiani, una Commissione per la Verità e la Riconciliazione, simile a quella sudafricana. Mi preme chiarire alcune cose, rispetto a quella mia provocazione. In Sud Africa la scelta di creare questa Commissione aveva, ovviamente, uno scopo politico e sociale. Facendo la proposta agli scrittori voglio spostare tutto sul piano squisitamente narrativo, perché penso che la struttura che sta alla base della Commissione ha un potente e prodigioso potere narrativo. Proviamo ad immaginare una seduta di questa commissione. C’è un uomo seduto in mezzo ad un aula di tribunale. Il pubblico, che gli sta intorno, è composto da altre persone di colore. L’uomo non è agitato, dichiara le sue generalità e poi incomincia a raccontare. Elenca una serie di atti criminali, dice i nomi, spiega la metodica del suo modo di tortura. Continua con precisione. Racconta e sa che nel pubblico sono presenti i parenti delle vittime e le vittime stesse (questo solo nei casi più fortuiti). Parla e viene invitato a non omettere niente, a non dimenticare nessun particolare. Nessuno lo obbliga, nessuno ha puntato contro di lui un fucile o un’arma. È ben lavato, rasato, non ha subito restrizioni o altro. La stanza non sembra, e non è, un’aula di tribunale. In questa occasione non ci sono pene da dare, ma è tutto molto più semplice: le vittime, che sono state ascoltate, non chiedevano alla Commissione una verità giudiziaria né una verità morale o politica. Chiedevano la verità dei fatti: in che modo il loro familiare era stato ucciso, da chi, dove e come era stato torturato, in che luogo era stato sepolto e dove, eventualmente, restava traccia del suo corpo. Chiedevano cioè la ricostruzione dei fatti Qual è il meccanismo che la Commissione ha messo in atto verso i colpevoli? Prima di tutto la richiesta d’amnistia non è generale, ma è individuale: chi ne fa richiesta deve compilare un modulo, e quando sarà chiamato davanti alla commissione dovrà attenersi al racconto dei propri misfatti. Ogni caso è singolo, la colpa è colpa personale. Davanti alla Truth and Reconciliation Commission la dichiarazione di De Luca «chiunque avrebbe potuto uccidere Calabresi» non avrebbe avuto ragione d’essere: ognuno è chiamato a dire solo ciò che ha fattivamente

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commesso. Questo è un aspetto tragico: il colpevole guarda la sua colpa che è pura davanti a sé, non ci sono implicazioni politiche o giudiziarie (gli è stata concessa l’amnistia), ma è costretto a raccontarla davanti alle vittime o ai parenti, è obbligato a vedere il suo nome e il suo cognome associato nei verbali, che sono pubblici, a nomi e i cognomi delle sue vittime e alle azioni che ha compiuto, che risultano tutte dettagliatamente elencate. Le vittime non sono più corpi del reato, ma sono persone che chiedono verità ed esigono che gliela si racconti direttamente e alla presenza di terzi. Chi ha commesso una colpa è chiamato a assumersi la responsabilità di quello che ha fatto, a tracciarne i limiti precisi (Edipo è colpevole di aver ucciso suo padre e aver giaciuto con sua madre, i confini dei suoi delitti sono chiari, netti). Tutto acquista forza perché viene detto, si fa narrazione. È questo secondo me il tema principe del dibattito culturale, narrativo e politico sugli anni ’70 e sulla stagione del terrorismo: come poter mettere in scena racconti, narrazioni che non servano a consolare o a giustificare, ma mettano in primo piano le colpe commesse da ognuno. Il compito è quindi arduo e io non credo di avere soluzioni a portata di mano. Con il mio libro ho avuto la possibilità di fare molte presentazioni e incontro con lettori. Ho sempre scelto di chiudere questi incontri con uno stralcio del mio libro. È un brevissimo apologo, che non vuole per nulla rubare la scena agli scrittori. È il mio personale modo di provare a scrivere la parola FINE. Una donna cammina tre le rovine di un campo di battaglia, tra i corpi riconosce il padre. L’uomo è un fagotto posato per terra, rannicchiato nei suoi abiti ormai vecchi. La donna lo vede e incomincia a coprirlo con un pugno di sabbia. La sabbia passa tra le dita, mentre il braccio, che tiene teso sopra il corpo, corre dai piedi fino alla testa e all’inverso. Il gesto avviene nel silenzio irreale. L’uomo è Aldo Moro, veste i medesimi panni che aveva il giorno in cui è morto, la donna che pietosamente gli dona questa infinita e lentissima sepoltura, è sua figlia. Compie un gesto antico. Mentre la terra cade, arrivano gli uomini del commando delle Brigate Rosse. Stanno di fronte alla donna e al fagotto che hanno visto molte volte nei loro pensieri. Rimangono stupefatti nel silenzio, vedono il gesto della donna. Sanno che la sepoltura li riguarda. Li chiama in causa.

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Sono turbati, ma ad inquietarli non è la donna: gli uomini delle Brigate Rosse sono abituati a vedere i parenti delle vittime, li conoscono, ne riconoscono una componente umana, che, invece, non hanno mai riconosciuto ai loro familiari. Loro sono disposti, davanti a questa lunga inumazione, a riconoscere alla figlia il fatto che lei sia una donna e un essere umano. Il loro è uno stupore denso. Non è difficile immaginarla sulle spalle del padre, vederla giocare: non hanno difficoltà gli uomini delle Brigate Rosse a farsi un’immagine di questo. Lei non era un obiettivo, non era stata oggetto di un’inchiesta che poco per volta aveva spersonalizzato l’uomo a target da colpire. La sabbia corre lungo il cadavere di Aldo Moro, che sembra un lunghissimo infinito piano; ogni manciata compre una parte del corpo dello statista e richiama i brigatisti ad una verità che non riescono ad accettare: Aldo Moro non è la Democrazia Cristiana, ma un uomo. S’erano illusi loro, portandosi un’intera generazione appresso, che lui fosse fuggito dalla prigionia, e che il bagagliaio della R4 fosse vuoto. S’erano illusi di aver sparato una raffica ad un’icona. La sabbia, invece, si ferma, non lo trapassa da parte a parte, trova nella carne un ostacolo: è reale. Hanno tenuto prigioniero e ucciso un uomo, che aveva figli. Uno di essi, una donna, come Antigone, lo seppellisce. Ora si presentano uno per volta davanti e dicono. Io ho rapito suo padre, Aldo Moro. Io ho tenuto prigioniero suo padre, Aldo Moro. Io ho interrogato suo padre, Aldo Moro Io ho sparato a suo padre, Aldo Moro, uccidendolo. Io ho guidato la macchina e l’ho parcheggiata, e dentro c’era il cadavere di suo padre Aldo Moro. Dopo queste parole la terra ha coperto interamente il corpo. E forse qualcuno potrà trovare il coraggio di scrivere la parola F I N E28.

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D. Paolin, Una tragedia negata, cit., 2008, pp. 156-157.

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Il seguente testo può essere considerato alla stregua di un promemoria di temi che ho registrato partecipando nell’ultimo triennio al dibattito in corso in Italia sugli anni ’70. Questa partecipazione è avvenuta attraverso la scrittura e la pubblicazione di un piccolo libro di riflessioni (Anni Settanta, Einaudi 2007) al centro del quale c’era la questione della memoria, difettosa o del tutto assente, su quel periodo. A questo proposito, il libro conteneva un insieme di considerazioni o, se si preferisce, di provocazioni: dall’esistenza di “ricordi senza memoria”, agli atteggiamenti di silenzio, di vergogna e di nostalgia sul quel periodo; dalla coesistenza di parole chiave positive e negative connotanti il decennio, alla relazione a sua volta conflittuale e non risolta di un “conflitto di cittadinanza” nascosto e concorrente con il ben più visibile “conflitto di sistema”; dalla inquietante presenza di fantasmi che ritornano a reclamare doveri di verità e quindi di giustizia non onorati, alla esistenza di sopravvivenze e pietre d’inciampo legate a un passato che non passa. Dai feedback che il libro ha ricevuto – espressi in recensioni, presentazioni, blog – ho avuto l’opportunità di cogliere e discutere ulteriormente temi e aspetti del dibattito sulla memoria degli anni ’70 collegati direttamente o indirettamente al libro stesso. A cinque di essi vorrei dedicare queste note.

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Dopo trent’anni Un primo punto che mi sembra importante rimarcare è quanto sia ancora difficile parlare degli anni ’70 in Italia. Questa difficoltà si compone di due elementi diversi ma connessi. Da un lato, specialmente nei media e nel dibattito pubblico, ancora oggi occuparsi di quel periodo significa toccare un nervo scoperto, che suscita emozioni, polemiche, furori ideologici e più in generale lo slittamento da un discorso razionale, di carattere storico, politico e civile, a un discorso quasi magico-religioso, in cui scompare la distinzione tra parole e cose e in cui pronunciare parole equivale a scatenare forze sacre che acquistano vita propria. Discutere degli anni ’70, pur dopo trent’anni, sembra insomma evocare potenze occulte e incontrollabili, il nostro lato oscuro – e non nel senso caro alla dietrologia e al cospirazionismo. Chi allora c’era, o chi oggi ha avuto modo di ritornare alle fonti, sa che questa specie di concezione magica della parola è una caratteristica tipica, e tra le meno commendevoli, di quel decennio. Che questo atteggiamento riemerga oggi quando si parla di allora, è un indicatore significativo di una non sana prossimità. Dall’altro lato, e di conseguenza, è molto difficile occuparsi di quel periodo tenendo le giuste distanze, ossia essendo fino in fondo consapevoli che da esso ci separano tre o quattro decadi. La tendenza dominante – dominante non perché maggioritaria, ma perché egemone – è invece opposta: c’è una coazione a parlare degli anni ’70 come se fosse sempre il 1° gennaio del 1980, come cioè se quel passato fosse prossimo e non remoto. È fatale che, in questo modo, temi e stili della discussione siano talmente contigui con gli eventi, da rendere inutile se non dannoso un tale esercizio. Una evidenza di questa situazione è l’abnorme spazio concesso sui media ai protagonisti dell’epoca, che siano responsabili politici, intellettuali o autori e ispiratori delle violenze, ai quali, come è naturale che sia, interessa soprattutto dare ragione dei propri comportamenti di allora, se non proprio giustificarli. Essi tendono inoltre a reagire con fastidio, quando non in modo violento e quasi intimidatorio, ai tentativi di parlare di quel decennio prendendo sul serio la loro distanza temporale. Lo spazio occupato dai protagonisti dell’epoca – intendo proprio il

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numero di pagine o i minuti di trasmissione – va proprio a scapito della possibilità che voci e punti di vista più legati all’oggi si possano esprimere. Un ruolo estremamente negativo, sotto questo profilo, è stato e viene svolto dai media (con le dovute eccezioni, s’intende), i quali dovrebbero favorire nuove visioni e in particolare diffondere i risultati della ricerca storiografica che pure sta procedendo, e invece tengono il Paese inchiodato al suo passato. Non so dire se ciò sia dovuto – come pure ho sentito ripetutamente affermare – al fatto che a loro volta i media sono ispirati e gestiti da personale che all’epoca ebbe parti non irrilevanti nei processi e negli eventi più controversi. Resta che quanto è stato fatto nel corso dell’ultimo triennio per aprire una seria discussione sugli anni ’70 ha dovuto misurarsi, tra gli altri, con questo rilevante ostacolo. Quanto tale prossimità a quel periodo sia paradossale è dimostrato dalla circostanza che essa convive con quelle “patologie del ricordo” sugli anni ’70 che ho menzionato sopra. Il paradosso insomma sta nel fatto che il massimo di vicinanza del dibattito pubblico a quel periodo corrisponde a un massimo di amnesia su di esso. I giovani Un giovane intervenuto a una presentazione del mio libro ha definito la situazione che ho appena citato come “dittatura dei testimoni”: solo chi c’era ha diritto di parlare. Questa sindrome non ha solo l’esito, anch’esso paradossale, che come collettività saremmo senza passato, perché non potremmo considerare come “nostri” eventi dei quali non ci sono più testimoni, dalla Prima guerra mondiale (e presto la Seconda) a ritroso; ma soprattutto tende a negare il diritto di parola a chi non c’era. È proprio questo diritto di parola, invece, che ho ascoltato rivendicare ed esercitare nel corso del dibattito di questo triennio. I giovani che in esso sono intervenuti hanno variamente manifestato la volontà di essere parte del processo di costruzione di una memoria collettiva su quell’epoca e di esserlo in modo non passivo o puramente ricettivo. L’accento sull’aggettivo “collettiva” (o “comune”, se si preferisce) qui è necessario, perché è evidente

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che i giovani non sentono come loro la problematica della “memoria condivisa”, essendo al momento semplicemente esclusi da qualsivoglia memoria e non avendo oltretutto niente da condividere. In ogni caso, questa presenza nel dibattito sugli anni ’70 non è davvero di poco conto, in un Paese nel quale ignorare o stigmatizzare i giovani è una specie di sport nazionale. In questo atteggiamento espresso dai giovani, mi pare, si mescolano due tipi di domande: una domanda di conoscenza e informazione e una di comprensione di quell’epoca dal proprio punto di vista attraverso l'inclusione nel processo interpretativo. Tra queste domande e queste focalizzazioni sugli anni ’70 che vengono, per così dire, dal futuro, ne voglio menzionare tre, riguardanti rispettivamente il rapporto dei giovani con i portatori dei ricordi e il loro approccio alla costruzione della memoria di quegli anni; la domanda di conoscenza e interpretazione che viene da loro posta; i temi sui quali essi formulano domande che attendono risposta. Veniamo al primo, quello del rapporto con la memoria. Gli anni ’70 sono qualcosa che è vissuto per lo più attraverso i ricordi dei genitori, portatori qualche volta di uno spirito da reduci e di un conseguente atteggiamento sintetizzabile nella espressione: “Non potrai mai capire perché non c’eri”. Questo modo di porsi di chi c’era è giudicato come una forma di “gelosia della memoria”. In ogni caso la costruzione di una memoria comune viene considerata non un obiettivo ma un metodo, perché la posta in gioco nella querelle su che cosa sia stato quel periodo è la definizione stessa della democrazia italiana. Si ritiene, cioè, e niente affatto a torto, che gli anni ’70 non si siano mai conclusi proprio perché in essi è emersa e non è stata risolta la questione della natura e dello sviluppo del sistema democratico. È questo il problema, e quello di costruire una memoria collettiva è una condizione per risolverlo e insieme un metodo per affrontarlo. L’immagine degli anni ’70 che i giovani restituiscono a noi, che abbiamo contribuito più o meno consapevolmente a costruirla, appare segnata dall’ambiguità. Ciò riguarda innanzitutto i sentimenti legati al senso di fascinazione esercitato da quel periodo e, contemporaneamente, di scampato pericolo. È il dualismo degli anni ’70 che colpisce i giovani che ho ascoltato, ossia

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il fatto che quegli anni siano caratterizzati nel contempo dalla violenza e dalla creatività, dalle stragi e dalla vivacità intellettuale, dalla crisi politica e istituzionale e dalla partecipazione popolare: un periodo nello stesso tempo tragico e magico. Di fronte a questo dualismo, o forse a questa schizofrenia, i giovani osservano che i luoghi della memoria degli anni ’70 sono tutti dolorosi e ci chiedono se ci siano stati anche luoghi non caratterizzati da questa carica negativa. È, questo, un punto sul quale non mi era capitato di riflettere ed è invece della massima importanza, perché non c’è memoria senza luoghi che la rendano presente. Eppure non è facile identificare i luoghi della memoria degli aspetti progressivi, o se si preferisce solari, degli anni ’70, o perché essi sono scomparsi – ad esempio la miriade di strutture e aree di aggregazione e condivisione di esperienze, idee e progetti – oppure perché gli stessi luoghi portano con sé impronte di entrambi i segni, essendo però rimaste visibili solo quelle legate al dolore e alla negatività (strade, piazze, fabbriche, scuole, università). A queste considerazioni sui soggetti, i luoghi e la cifra della memoria degli anni ’70 si accompagnano pressanti domande di sapere e capire che i giovani esprimono. Ad esempio, perché i loro coetanei di allora avessero un peso infinitamente più rilevante di quello che essi hanno oggi. Oppure perché e come i primi soggetti del nuovo attivismo civico (associazioni di volontariato, comunità di accoglienza, organizzazioni di cooperazione internazionale, movimenti per i diritti) siano emersi proprio in quegli anni, quali fossero le loro ragioni d’essere e motivazioni, quali i fattori di facilitazione e gli ostacoli che hanno incontrato. O, infine, e in un certo senso soprattutto, che cos’era l’Italia prima degli anni ’70 e in che modo e in quale misura ciò che avvenne in quel periodo contribuì a cambiarla. Per concludere su questo punto, ci sono elementi di speranza in questo coinvolgimento dei giovani per la liberazione di quell’epoca dalla “dittatura dei testimoni”. Credo che l’esempio migliore al riguardo sia il libro dal titolo Sedie vuote, che raccoglie interviste a vittime della violenza degli anni ’70. Esse sono state preparate, realizzate e scritte da ragazzi dei licei di Trento, grazie alla iniziativa della casa editrice Il Margine. Si tratta in

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fondo di un libro di solidarietà tra persone e tra generazioni, ma soprattutto del simbolo di una determinazione dei giovani a non essere tagliati fuori dalla costruzione non solo del proprio futuro, ma anche del proprio passato, altrettanto importante. Tutto il resto Un terzo punto che merita di essere menzionato è lo stupore espresso da molti – non solo tra gli assenti, ma anche tra i presenti dell’epoca – per il fatto che gli anni ’70 non sono stati solo violenza e terrorismo, ma anche partecipazione, riforme, nuovi diritti, emergere di soggettività sociali, mutamenti nella cultura di massa – tutto ciò che alla fine ebbe sbocco nella “modernizzazione civile” del Paese, incerta anche perché non accompagnata dal superamento della democrazia bloccata. Questa era, del resto, la intenzionalità del libro che ho scritto: restituire agli anni ’70 una parte rilevante e dimenticata della sua identità storica, politica e civile, non accettando che il fatto che essa non faccia tornare molti conti sia una buona ragione per ignorarla. Questo stupore, tuttavia, a sua volta stupisce perché “tutto il resto” non è mai stato un segreto inaccessibile, per scoprire il quale fosse necessario attendere l’apertura degli archivi di stato, ma è stato sempre disponibile sia attraverso i ricordi degli individui, sia attraverso le memorie extrasomatiche. È curioso come la parte degli anni ’70 che ha coinvolto direttamente milioni – se non decine di milioni – di persone sia stata così facilmente dimenticata, mentre quella che ha riguardato alcune centinaia di esse sia al contrario ricordata così bene. Direi che si tratta di una situazione emblematica di quelle “patologie del ricordo” di cui ho parlato nel mio libro. A proposito del ricordare bene la violenza, tuttavia, va aggiunto un elemento critico. Esso consiste nel fatto che con “tutto il resto” che è stato dimenticato è andata finora persa anche la possibilità di dare una adeguata interpretazione – o almeno di farsi una ragione – degli stessi fenomeni connessi a terrorismo, stragi e violenza politica. Di questi, infatti, ciò che è scomparso dalla memoria costituisce parte essenziale del contesto in cui si sono manifestati. Di conseguenza, in Italia abbiamo avuto finora non solo il

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ricordo esclusivo di una sola parte degli anni ’70, ma anche la impossibilità di comprenderla a causa della perdita di memoria sull’altra parte. Circa il rapporto tra le due parti degli anni ’70, o più precisamente tra ciò che fino a oggi abbiamo ricordato e “tutto il resto”, è stata discussa con una certa attenzione la proposta, che avevo formulato nel mio libro, di guardare il carattere ambiguo e apparentemente schizofrenico degli anni ’70 come espressione dell’esistenza di due tipi di conflitto, ciascuno con la sua agenda e le sue priorità: uno visibile e ben ricordato, e l’altro nascosto e completamente dimenticato, in cui tutti siamo stati coinvolti. Il primo l’ho definito “conflitto di sistema” per indicare che esso aveva per oggetto il regime politico dell’Italia e come posta in gioco aveva quella di superare i limiti imposti dalla Guerra fredda. In esso si misuravano spinte alla rivoluzione ma anche alla reazione, oltre al tentativo di costruire una democrazia capace di discontinuità e di alternanza. Ho definito invece “di cittadinanza” un secondo conflitto, misconosciuto ma della massima importanza, che aveva come posta in gioco la costruzione di una dimensione della democrazia capace di mettere al centro i cittadini, di una democrazia, cioè, della cittadinanza. Il tentativo – particolarmente evidente ad esempio nella riflessione e nell’azione di Aldo Moro a partire dal 1968 – di comporre questi due conflitti non ebbe successo e, malgrado un faticoso e tardivo mutamento nell’assetto politico e istituzionale e malgrado la già citata, parziale “modernizzazione civile”, il nostro Paese vive ancora in e di questi due conflitti. Non ho mai pensato che questa fosse una compiuta proposta interpretativa, per costruire la quale occorrerebbero ben altre risorse e competenze. Tuttavia, essa resta un tentativo di ipotizzare come potrebbe essere spiegato più e meglio ciò che avvenne negli anni ’70, senza accettare la logica del “tutto e il suo contrario”. Non posso che augurarmi che, confrontandosi con questa ipotesi, il lavoro degli storici possa utilizzarla, criticandola e superandola con proposte più efficaci, consistenti e corroborate in modo rigoroso. Sono convinto d’altro canto che alla difficoltà di cogliere e mettere in relazione i due conflitti possano essere ricondotti fenomeni attuali, che segnano la crisi di capacità dinamica

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della democrazia italiana: la difficoltà per i cittadini di incidere sull’assetto e gli stili della politica, soprattutto dopo l’abrogazione della legge sui collegi uninominali; il divorzio tra partecipazione civica e partecipazione politica, il quale fa sì che allo sviluppo della prima corrisponda un decremento della seconda, ma anche che la enorme energia sociale generata dall’attivismo civico non abbia effetti sull’assetto della politica; la sindrome di sfiducia dei cittadini nei partiti e la conseguente scelta di questi ultimi di legittimarsi non più attraverso il consenso popolare ma attraverso l’acquisizione o la gestione di risorse per via pubblica, anche illegale, anziché attraverso il consenso popolare; il fatto che il cambiamento politico sembri affidato più all’iniziativa dei giudici che ai meccanismi fisiologici della democrazia rappresentativa; l’affermazione del populismo come scorciatoia per eludere il problema della riforma della politica; un ruolo dei partiti funzionale al rafforzamento di piccole patrie escludenti anziché alla costruzione dell’interesse generale, pur attraverso il conflitto; l’egoismo che viene proposto al Paese, per la prima volta nella storia della Repubblica, come orizzonte comune e di cui si avvantaggiano in pochi con il consenso entusiasta di molti. “Tutto il resto” degli anni ’70, insomma, per quanto in modo implicito o nascosto, è davvero molto più presente nel discorso pubblico di quanto noi non pensiamo. Il silenzio della politica Tra coloro che avrebbero dovuto prendere la parola nel dibattito sugli anni ’70, in special modo, va da sé, nel trentennale dei fatti del 1978, c’è il mondo politico, e in particolare gli eredi delle forze che in quel periodo dominarono la scena. Di essi, tuttavia, e salvo lodevoli eccezioni di poche voci di “grandi vecchi” fuori dal coro, è brillata l’assenza. Poco prima della sua morte Pietro Scoppola ha scritto che le vicende del 1978 hanno scavato quel solco che a tutt’oggi separa la classe politica dai comuni cittadini (La coscienza e il potere, Laterza, 2007). Quasi contemporaneamente, e senza conoscere quello scritto, nel mio libro avevo sostenuto che il modo in cui i partiti hanno risposto in generale agli eventi di quegli anni ha

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comportato che a tutt’oggi la nostra sia una “democrazia in condominio tra partiti senza fiducia e cittadini senza rilevanza”. Temo che il silenzio della politica nel dibattito sugli anni ’70 confermi queste diagnosi e non sia una buona notizia. Una partecipazione al dibattito coraggiosa e senza remore sarebbe stata invece della massima utilità, sia per i partiti stessi che per il Paese. Per i primi, infatti, sarebbe stata la occasione per riflettere su scelte e comportamenti dell’epoca che non sono mai stati seriamente discussi, forse per imbarazzo o forse per la presunzione che una eventuale autocritica avrebbe avuto effetti devastanti sull’intero sistema democratico. Quale che sia la ragione, invece, è evidente che la considerazione del pubblico per il sistema dei partiti è così bassa che niente avrebbe potuto o potrebbe peggiorarla. Al contrario, una seria partecipazione alla discussione l’avrebbe solo potuta migliorare. Va notato, peraltro, che questo atteggiamento è una clamorosa smentita della pretesa e rivendicata discontinuità tra i partiti di oggi e quelli di allora. Se tale discontinuità ci fosse davvero, infatti, non dovrebbe manifestarsi alcuna resistenza a una rilettura critica di comportamenti altrui. Per il Paese, invece, la presa di parola della politica sugli anni ’70 avrebbe potuto essere la occasione per avviare un percorso di visioni e intenzioni con essa e per porre le basi di un nuovo patto di fiducia tra governanti e governati. Ciò non è avvenuto ed è inevitabile parlare in proposito di una occasione persa. È sicuramente anche al silenzio della politica e alla mancata soluzione di continuità delle classi dirigenti attuali con quelle dell’epoca, infatti, che si deve il deficit di verità che ancora il Paese soffre a proposito di stragi e terrorismo, e soprattutto di azioni e omissioni delle istituzioni pubbliche in relazione a quegli eventi. Mi pare evidente che questo silenzio legittimi e favorisca la mancata chiarificazione di fatti che ancora avvelenano la vita pubblica. Ciò è tanto più grave quanto più – come tutti, ormai, riconoscono – l’unico modo per conseguire un obiettivo di giustizia su quegli anni è quello di fare verità su di essi, liberando il dibattito pubblico dalla falsa alternativa tra dietrologia e “revisionismo”. Più in generale, l’assenza della politica dal dibattito sugli anni ’70 sembra confermare che il problema principale che il Paese

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si porta dietro – secondo alcuni addirittura dal Risorgimento – non sta nel popolo, ma nelle élite: nella loro continua fuga dalle responsabilità, nella loro sfiducia nella intelligenza e nelle risorse del popolo, nella loro incapacità di dare un’impronta alla identità del Paese. È anche a questo che si deve – come ha scritto in una recensione un caro amico scomparso, Armando Marchi – se gli anni ’70 e ciò che ne seguì confermano alcuni caratteri “eterni” delle classi dirigenti italiane: l’incapacità di discontinuità; il cambiamento sempre necessario e sempre impossibile; il vecchio che sta sempre per morire ma non muore mai e il nuovo che è sempre lì lì per nascere ma non nasce mai. Le voci delle vittime Una voce inattesa e positiva, invece, si è finalmente ascoltata ed è quella delle vittime del terrorismo. Nel nostro Paese per decenni questa voce era stata tacitata o derubricata a espressione di rancore e di domanda di vendetta. Essa era stata quindi implicitamente o esplicitamente considerata meno attendibile anche da un punto di vista morale rispetto a quella dei responsabili dei fatti di sangue, trattati con compiacenza da una parte del mondo cattolico e della sinistra e utilizzati dai media e dagli editori per fare cassetta. Qualcosa è davvero cambiato, invece, su questo fronte. La voce delle vittime si è finalmente ascoltata, e con essa si è ottenuta la loro testimonianza su quegli eventi, ma anche la possibilità di comprendere il senso di vite comunque interrotte dai fatti in cui esse sono state coinvolte loro malgrado – qualcosa che non può essere assolutamente ridotto alla dimensione privata. È questo, in particolare, il senso di libri come quelli di Mario Calabresi (Spingendo la notte più in là, Mondadori, 2007), Sabina Rossa (Guido Rossa, mio padre, Rizzoli, 2006) e Agnese Moro (Un uomo così, seconda edizione, Rizzoli, 2008) o di quello, già citato per il suo particolare significato, dei ragazzi delle scuole di Trento. Questa nuova presenza costituisce indubbiamente una delle condizioni necessarie per superare il deficit di memoria sugli anni ’70. Si potrebbe dire al riguardo che, senza i ricordi delle

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vittime e senza la comprensione del peso della storia del Paese che le loro vite hanno sopportato, nessuna operazione di approfondimento e interpretazione di quel passato potrebbe avere successo. È certamente di incoraggiamento che, grazie alla iniziativa del Presidente Giorgio Napolitano, sia stata istituita la Giornata della memoria. Essa, al di là dei suoi rilevanti significati morali e civili, può costituire il punto di partenza di una vera e propria politica pubblica, cioè di un impegno strategico delle istituzioni per favorire la costruzione di una memoria degli anni ’70 che non perpetui torti e serva per il futuro. Non è una condizione sufficiente, ma certamente è necessaria. Pensando ai comportamenti delle istituzioni in queste decadi a proposito dei fatti che il Presidente della Repubblica ha deciso di mettere al centro dell’attenzione, anche l’istituzione di questa giornata si può considerare un segno di netta discontinuità con il passato. Proprio guardando a questi comportamenti risalta in tutta la sua portata il ruolo giocato in questi decenni dalle vittime delle violenze degli anni’ 70 per far progredire la giustizia attraverso la verità, o se si preferisce per ottenere attraverso la verità l’unica giustizia possibile. Questo ruolo sussidiario rispetto alle responsabilità dello Stato, giocato, in forma individuale o associata, dalle vittime di quegli eventi, costituisce una indiscutibile smentita e un superamento del paradigma, primitivo ma tuttora vigente nel nostro ordinamento e nella nostra cultura pubblica, che inchioda le vittime alla pretesa del sangue del colpevole e nega loro qualunque ruolo positivo nel conseguimento di quell’interesse generale che è appunto la verità. Vale citare al proposito un verso di Alda Merini, ossia la voce di una persona sequestrata dalle istituzioni psichiatriche (L’altra verità. Diario di una diversa, Libri Scheiwiller, 1986), che è in perfetta sintonia con quella delle vittime di cui qui parliamo: La memoria che è anche impazienza vuole giustizia di tutte le ombre che cadono tra l’uno e l’altro capitolo forme di violenza fisica e morale.

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Per concludere Il lettore naturalmente trarrà da queste note le conclusioni che ritiene più opportune e consentanee con il proprio punto di osservazione. Per quanto riguarda il mio, posso sottolineare come il dibattito che si è sviluppato nell’ultimo triennio a proposito degli anni ’70 in Italia abbia aperto alcuni spiragli ma non ancora spalancato le porte; o, utilizzando un’altra metafora, abbia suscitato delle promesse ma non le abbia ancora onorate. Perché questo avvenga, occorre che si realizzino alcune essenziali condizioni da parte degli attori che, volenti o nolenti, sono interpellati da questo dibattito. Tra queste mi sembra evidente che possano essere annoverate lo sviluppo della ricerca storica; una piena assunzione di responsabilità da parte dei media; la decisione del mondo politico di praticare una vera discontinuità con il passato; un impegno generalizzato delle istituzioni per sostenere attivamente e non boicottare lo sforzo di memory building; la disponibilità di tutti i protagonisti dell’epoca a superare silenzi, omissioni e bugie; la costruzione nella società italiana di un ambiente favorevole alla realizzazione di questo obiettivo di interesse generale. Alcune di queste condizioni mi sembrano più vicine ad essere realizzate; altre ancora lontane. In ogni caso, il merito di quanto è accaduto nell’ultimo triennio non consiste solo nell’aver dato una decisiva spinta in questa direzione, ma anche nell’aver reso chiari ed espliciti gli stessi problemi insuperati, proprio grazie alla rottura della conventio ad tacendum che finalmente ha avuto luogo. Non è facile dire, tuttavia, se questo compito scientifico, civile e politico di costruzione della memoria sarà alla fine realizzato. È diventato però chiaro che dal soddisfacimento di queste condizioni dipende non solo la possibilità di chiudere i conti con il passato, ma anche quella di costruire il futuro. Come suggeriscono i giovani che hanno preso la parola in questo dibattito, infatti, nella costruzione della memoria degli anni ’70 è racchiusa la possibilità di definire la identità della democrazia italiana per il domani e il dopodomani.

Michela Nacci Leggere Gramsci a destra

Che cosa ha a che fare la lettura di Antonio Gramsci da posizioni di destra (una destra radicale e metapolitica), come quella che si è verificata tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, con la violenza nella storia d’Italia alla quale è dedicato questo volume? Ha a che vedere in modo senz’altro più evidente con i rapporti fra destra e sinistra: rapporti che, improntati all’avversione più forte nell’immediato dopoguerra, hanno attraversato varie vicende nel corso del tempo, per riconfigurarsi in modo inedito proprio negli anni di cui parliamo. Destra e sinistra, a loro volta, hanno qualcosa a che vedere (anche in questo caso, qualcosa di piuttosto evidente) con la violenza considerata sia come metodo di lotta politica sia nei rapporti che le due parti politiche intrattengono fra loro. In politica lo spazio della violenza nasce quando i diversi soggetti presenti nello schieramento non si riconoscono reciprocamente: una parte politica può non condividere le posizioni di una parte diversa, ma riconoscerla in quanto soggetto politico, tributarle cioè rispetto e concederle una sorta di autorizzazione a svolgere un’azione politica. Ma un soggetto politico può non riconoscere una parte politica lontana (anche solo di poco) da sé: in questo caso, si creano le condizioni perché il conflitto – sempre presente e del tutto legittimo in tale arena politica – si trasformi in azioni di natura diversa da un dibattito pubblico pacifico e ragionevole nel quale, anche quando fa ricorso ad argomentazioni di tipo emotivo, l’aggressività viene tenuta a freno e controllata, e degeneri in violenza. In queste pagine ricostruiremo il passaggio dalla fase di non riconoscimento reciproco (anche se non perfettamente simme-

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trico) fra destra e sinistra, che caratterizza il dopoguerra, a quel momento (individuato fra anni Settanta e Ottanta) nel quale i rapporti fra queste due parti politiche cambiano: la lettura a destra di Gramsci è considerata qui come il segno evidente di tale cambiamento. Quel momento ha messo fine definitivamente a un modo di relazionarsi fra la destra e la sinistra dello spettro ideologico e politico, e dato avvio a un’altra fase, che – con qualche scossa e qualche assestamento − stiamo ancora vivendo: il fatto che si possa ipotizzare un Presidente della Repubblica proveniente da Alleanza Nazionale, e che lo stesso personaggio politico abbia oggi la carica di Presidente della Camera, non sono dovuti solo allo “sdoganamento” della destra operato dalla discesa in campo di Silvio Berlusconi, né solo a una evoluzione interna alla destra, ma, oltre a queste circostanze innegabili, anche a una trasformazione dei rapporti fra destra e sinistra che si è verificata nel nostro Paese, una trasformazione che ha avuto inizio probabilmente nel Sessantotto e che ha conosciuto con il “gramscismo di destra” uno snodo emblematico. Iniziamo da lontano. L’Italia che esce dalla seconda guerra mondiale ha un problema enorme nei confronti della violenza dal momento che deve confrontarsi con tipi differenti di violenza presenti nella realtà e nella memoria storica più e meno recente: si tratta prima di tutto della violenza esercitata dal regime fascista sugli oppositori e i dissidenti, una violenza esibita a tutte lettere nei discorsi del Duce sotto forma di virilità e di amore per la guerra, ma evidente fin dal simbolo fascista del moschetto dove le armi si mischiano virtuosamente con la dottrina (fascista, ovviamente) simbolizzata dal libro. La violenza della dittatura si è manifestata in modo non fisico, ma egualmente molto forte sul piano della libertà politica e della circolazione delle idee, nell’abolizione dei sindacati e dei partiti politici, nel controllo della stampa e della radio, nella censura di libri e film, nella proibizione delle associazioni, delle riunioni, di una vita pubblica non gestita dall’alto. È la violenza che spinge gli oppositori ad andarsene dall’Italia, che conduce all’assassinio del deputato Giacomo Matteotti, all’uccisione dei fratelli Rosselli, all’intimidazione di chi non si allinea, alle distruzioni, alle percosse, all’olio di ricino. L’amore per il combattimento, il corag-

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gio, il sacrificio di sé, la preferenza per la strada spiccia dei fatti piuttosto che per la tortuosità e la lentezza delle discussioni, la celebrazione dell’ardimento, dell’aggressività, della prepotenza, della provocazione, si mischiano all’esaltazione dottrinale della lotta quale meccanismo fondamentale che sta alla base della vita e della società. Fin dall’immediato dopoguerra, è proprio la violenza fascista uno dei temi sui quali si incentra la riflessione di coloro che hanno partecipato alla lotta di Liberazione e che, essendo intellettuali, provano ad analizzare quello che è accaduto. Leo Valiani, Aldo Garosci, Guido Calogero, Aldo Capitini, insieme a molti altri, nel ricostruire la storia italiana lungo i vent’anni della dittatura, si interrogano anche sul ruolo che la violenza vi ha svolto: che ha svolto nell’affermarsi del regime fascista, nel suo funzionamento normale e nella sua fine. Nel far questo si pongono domande basilari che permarranno a lungo nelle coscienze degli italiani e degli storici: il regime fascista ha esercitato un vasto e duraturo consenso nel Paese oppure ha potuto sopravvivere solo grazie all’intimidazione e alla repressione del dissenso? Rileggono il modo in cui si è svolto il conflitto tra fascismo e antifascismo, e soprattutto la lotta antifascista, anche se al riguardo non paiono sorgere dubbi sulla sua legittimità e sul suo valore. In questo modo sollevano un problema di carattere più generale: che ruolo ha avuto la violenza nella storia dell’Italia che precede il 1922? Che ruolo ha svolto nell’unificazione della penisola? All’immagine di un convergere spontaneo di tutto il Paese nel processo di unificazione nazionale si sostituisce, non da ora ma ora con un significato ulteriore che si riverbera anche sulla vicenda fascista, l’immagine di un processo che emana dall’alto e che non coinvolge tutti gli strati sociali né tutte le regioni italiane, che proviene da quella parte del Paese che anche in seguito ne rappresenterà la guida e la parte più avanzata. È – si nota − una unità che viene imposta al Sud da parte del Nord senza alcun tentativo di coinvolgerlo in una storia comune. Quanto peso ha svolto nell’accettazione del fascismo da parte degli italiani la loro secolare abitudine a subire tutto ciò che proviene dall’alto? Ma in questo andare all’indietro alla ricerca di spiegazioni, forse non è possibile fermarsi al XIX se-

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colo: ed ecco che si ripercorre la storia italiana fino all’età delle conquiste napoleoniche, del dispotismo illuminato, della nascita dell’età moderna, dei principati, del Rinascimento, fino ad arrivare all’età dei comuni. Quanto ha contato la frammentazione politica nella storia italiana? Quanto importante anche per la capacità di autodeterminazione di ognuno è stato il fatto che in Italia non abbia avuto luogo la Riforma protestante ma, al suo posto, la Controriforma cattolica? Sono alcuni dei problemi che, come è noto, danno luogo alle riflessioni sui caratteri costitutivi della storia d’Italia contenuti negli scritti dei maggiori intellettuali italiani, e in particolare di Piero Gobetti e nei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci. Quelle riflessioni vengono riprese con forza nel dopoguerra per cercare di dar risposta alla domanda: che cosa è stato il fascismo nella storia d’Italia se esso ha rappresentato più di un caso? C’è una qualche necessità che presiede alla sua comparsa proprio in questo Paese? Il suo accadere non dipende forse dai caratteri costitutivi dell’Italia, nei quali è inscritta una certa violenza di fondo, un certo autoritarismo da un lato, e l’accettazione passiva di tutto ciò che proviene dal potere dall’altro? Che cosa ha rappresentato la violenza che, su vari piani, il fascismo ha esercitato per tanti anni? Si è trattato dell’invasione degli HYKSOS (come aveva sostenuto Benedetto Croce) oppure ha rivelato l’identità profonda e i difetti storici del carattere nazionale? Se è così, non è forse vero che il fascismo è l’autobiografia della nazione (come sosteneva Gobetti), che l’ha espressa appieno nelle sue mancanze e nei suoi guasti irrimediabili, che ha messo in evidenza ed esaltato le sue debolezze? Oppure, al contrario, la violenza che il fascismo ha espresso è solo una febbre dovuta a circostanze particolari ed eccezionali: qualcosa che poteva accadere ovunque? E, per parlare del momento attuale, nel dopoguerra che fa seguito alla Liberazione la violenza va evitata, espunta il più in fretta possibile dalla vita nazionale e dalla politica in modo che si passi dalla lotta al confronto, oppure la violenza va lasciata sopravvivere, magari in qualche nicchia, a scopo di monito, di sfogo, di definitiva e completa catarsi? E, ancora più in generale, la violenza è la levatrice della storia, secondo la celebre tesi marxiana che anche Croce apprezza-

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va? O invece la storia nasce già adulta e senza bisogno di travagli, come Minerva dalla testa di Giove? La violenza è la forma naturale in cui gli eventi vengono alla luce oppure ne rappresenta solo la malattia, la degenerazione, la forma patologica da debellare per sempre? Se così fosse, la violenza dovrebbe essere estromessa solo dalla politica e dai rapporti fra i cittadini, oppure anche dai rapporti reciproci fra gli Stati? Poiché la guerra appartiene indubbiamente alla categoria della violenza, anche se su un piano speciale, le domande riguardavano anche questo tema: la guerra va eliminata o conservata? Nel primo caso, qual è il metodo migliore per farla scomparire? È possibile distinguere fra una guerra giusta e una guerra ingiusta? La presente divisione del mondo in Stati separati e sovrani aiuta la scomparsa della guerra o, al contrario, la provoca? Se la provoca, la federazione su base geografica degli Stati in grandi unità governate in modo democratico (ad esempio l’Europa) potrebbe rappresentare uno strumento utile a generare concordia? La vita italiana ha fatto esperienza anche della violenza antifascista, che si è espressa come guerra partigiana, come presenza certo non lieve dei liberatori americani, come miriade di vendette, di giustizie pubbliche e private che si verificano negli anni finali del fascismo, della guerra e della Liberazione. Il Duce viene ucciso e appeso per i piedi a testa in giù, insieme a Claretta Petacci. Anche Giovanni Gentile, il filosofo che ha legato il suo nome al Regime, viene ucciso. Morti esemplari a cui ne seguono molte altre, più e meno esemplari, più e meno significative. Modi abbreviati di fare i conti con quello che è accaduto. In quel momento si ricomincia a fare esperienza, inoltre, di un elemento che era stato assente per vent’anni: lo scontro politico. Nell’arco delle posizioni che possono di nuovo essere presenti alla luce del giorno, presentano il maggior interesse dal nostro punto di vista la destra e la sinistra: qui la violenza è presente a vario titolo, sia come mancato riconoscimento della parte avversa sia come strategia politica. Infatti, la sinistra e la destra contemplano nella loro ideologia (all’epoca ancora molto forte) un capitolo che riguarda la presa del potere: per i primi (la sinistra) la violenza è la levatrice della storia, e se anche la strategia prevede l’egemonia teorizzata da Gramsci e la via nazionale

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al comunismo teorizzata da Togliatti, con la piena accettazione del sistema elettorale e della vita parlamentare, e se dunque il potere sarà raggiunto con il conseguimento della maggioranza, permane a lungo la convinzione neppure troppo implicita che la via parlamentare rappresenti solo una copertura della strada autentica che dovrà condurre la sinistra a impadronirsi del potere: la strada parlamentare è pensata come una affermazione nella quale i leader credono solo in parte, ovvero come una via che è necessario percorrere, ma solo per un tempo limitato. I secondi (la destra) sono gli eredi forzatamente impliciti del fascismo: la pubblica professione di convinzioni fasciste rappresenta un reato introdotto immediatamente nella Repubblica italiana (apologia di fascismo), e per questo occorre usare attenzione nell’esprimere le proprie idee. Ma sono pur sempre, in modo evidente per tutti, gli eredi della dittatura appena sconfitta: a quella data non hanno abiurato a nessuna parte della storia fascista; di essa hanno semplicemente subito il fallimento. Tengono il busto di Mussolini in soffitta, esattamente come i comunisti tengono nelle case del popolo o nelle sezioni del partito il busto di Stalin. Continuare a dichiarare la propria fede nell’ideologia del fascismo rappresenta per loro un segno di coerenza e di coraggio, anche se devono farlo sottotono e sempre insieme all’accettazione della Repubblica italiana, che trova nell’antifascismo un pilastro su cui basarsi. Abbiamo anticipato che la delegittimazione fra destra e sinistra non era diretta e non era perfettamente simmetrica. È vero, di fatto, che non esisteva quasi dialogo fra destra e sinistra: mentre oggi siamo abituati a iniziative comuni, al confronto su una grande quantità di argomenti, all’epoca la sinistra non riconosceva alla destra missina la legittimità di esistere, e ne svelava la vera natura che stava sotto l’apparente adeguamento al regime parlamentare in termini di nostalgia del Ventennio. La destra, invece, poteva anche denunciare le malefatte della sinistra e il fatto che prendesse gli ordini da Mosca, ma si trattava di una denuncia che colpiva solo all’interno della ristretta zona di voto che il MSI copriva. La denuncia di una sinistra asservita alla Russia sovietica che aveva efficacia ed era di gran lunga preponderante era piuttosto quella proveniente dalla Democra-

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zia Cristiana e da alcuni dei cosiddetti partiti “laici”. Roberto Chiarini ha mostrato molto bene in questo convegno il gioco speculare che ha luogo nella storia dell’Italia repubblicana tra antifascismo e anticomunismo. Le due opposizioni non sono simmetriche ma sfalsate sia in negativo che in positivo: mentre il contrario del fascismo è la democrazia, il contrario del comunismo non è il fascismo, ma ancora una volta la democrazia. Va notato che le due democrazie sono molto diverse fra loro: ma ciò che è importante è che l’opposto dell’una parte politica non coincide affatto con l’altra parte. In questo panorama finora non abbiamo menzionato le estreme: da una parte e dall’altra dello spettro politico la violenza viene teorizzata e, quando è possibile, messa in pratica, ma certamente molto più evocata a parole che non utilizzata. Inoltre, bisogna aspettare alcuni anni perché a lato della sinistra e della destra parlamentare si formino raggruppamenti più estremi: discorso diverso è da fare, ovviamente, per le formazioni extraparlamentari e per le idee espresse dagli intellettuali. La violenza viene decisamente messa in pratica durante il Sessantotto, di nuovo da una parte e dall’altra: gli scontri, infatti, non avvengono solo fra manifestanti, occupanti, studenti, e forze dell’ordine, ma anche direttamente fra militanti di destra e militanti di sinistra. Ci si richiama da una parte al fascismo e ai suoi metodi, dall’altra alla Resistenza e alla sua funzione, cercando di riattualizzare un antifascismo che argini ogni possibile traduzione nella pratica di una nostalgia storica. Attentati, pestaggi, morti segnano questo confronto diretto fra l’una e l’altra parte. Tutta leggibile sotto il segno della violenza è poi, ovviamente, la storia del terrorismo, in cui essa si presenta come una scorciatoia che rende la politica, intesa nella sua forma tradizionale, inutile e superata. Arriviamo così al periodo che abbiamo individuato come quello del cambiamento di rapporti fra destra e sinistra. Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta accade infatti qualcosa che riguarda la definizione di queste due parti politiche, e che riguarda contemporaneamente la violenza: qualcosa che è certamente in relazione con il fatto che quegli anni abbiano rappresentato ciò che è stato definito con esattezza la fine del dopoguerra. In quel momento nasce un ibrido ideologico che

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va sotto il nome di “gramscismo di destra”. Alain De Benoist scopre Gramsci e adotta per la Nuova Destra il suo concetto di egemonia. Chi è De Benoist? Padre della Nouvelle Droite e politologo di fama, scrittore prolifico sospeso tra Rivoluzione conservatrice e antioccidentalismo no-global, tra pre-moderno e oltre-moderno, De Benoist appartiene chiaramente, nonostante i suoi funambolismi e la sua spregiudicatezza intellettuale, a una famiglia ideologica certamente lontana e perfino antitetica rispetto a quella gramsciana. Eppure, De Benoist “scopre” Gramsci: lo legge e ne rimane folgorato. Estrae dai suoi scritti l’idea di egemonia e la introduce nella sua area di riferimento, nella formazione politica (o parapolitica) alla quale ha dato vita. Lancia così, in risposta alle difficoltà del suo movimento, alle ambiguità presenti forse fin dalla nascita in esso, quello che definisce il “gramscismo di destra”. Che cosa scopre il francese nei Quaderni del carcere? Vi trova soprattutto il concetto di egemonia: cercheremo di mostrare i motivi che rendono tale idea utile e perfino centrale nella vita di questa particolare destra, e al tempo stesso tenteremo di capire in che modo questa adozione a destra di una basilare idea gramsciana possa dar conto di una trasformazione nei rapporti fra destra e sinistra che inizia proprio ora. Com’è noto, Gramsci intende con egemonia un ruolo dominante all’interno della società che non coincide con il dominio di classe: questo, da solo, non è sufficiente a una classe per svolgere una funzione storica. La borghesia, infatti, ha elaborato anche una cultura, una ideologia, un progetto educativo, un carattere nazionale (o meglio: nazional-popolare): tutto questo serve a forgiare gli uomini e le classi, cioè a svolgere un ruolo complessivo nella storia di un Paese, in una società. Già prima del carcere, Gramsci si pone il problema di una cultura che sia propria della classe operaia: senza di essa la classe operaia potrà esercitare un ruolo importante, potrà perfino rovesciare i rapporti di forza esistenti e prendere il potere, ma non potrà svolgere quel ruolo dirigente che solo l’elaborazione di una sua propria cultura può permetterle. Nel pensiero di Gramsci, questo coincide con l’accentuazione – che è tipica del suo pensiero – del momento sovrastrutturale rispetto alle trasformazioni strutturali, cioè

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economiche, e alla collocazione dell’azione politica su questo piano, come mostra bene anche l’idea di blocco storico: la cultura operaia, infatti avrebbe avuto anche una importante funzione politica poiché avrebbe proposto la classe operaia come possibile classe di governo, come classe alternativa rispetto a quella borghese. La conquista del potere non si poneva dunque per Gramsci solo in termini di lotta di classe, ma anche – e soprattutto – come lotta di idee, di differenti visioni del mondo e di differenti culture. Gramsci sottolineava dunque l’importanza degli intellettuali: essi sono da sempre i mediatori e portano alla lotta politica quell’elemento essenziale che è il consenso dal momento che, appunto, nella società non c’è dominio bruto ma consenso all’esercizio del potere di una classe da parte di tutti i cittadini. Il consenso proviene dal resto della società, anche da coloro che non fanno parte della classe al potere, ed è reso possibile proprio dal fatto che tale classe ha elaborato una cultura e non esercita il potere per mezzo della violenza. Gramsci avvertiva la necessità di inserire organicamente gli intellettuali nella storia d’Italia creando per la prima volta il blocco storico che in Italia non si era verificato (secondo la sua tesi della rivoluzione mancata nel nostro Paese), e attribuiva questo compito al partito della classe operaia. Era in questo quadro che l’intellettuale sarebbe passato da intellettuale tradizionale, succube del potere ma formalmente autonomo da esso così come da qualunque parte politica e sociale, a intellettuale organico alla classe operaia. Quando De Benoist compie la sua lettura di Gramsci, a colpirlo è l’accentuazione, che vi trova, del piano culturale sul quale deve avvenire la lotta politica affinché sia una lotta che conduce a esercitare una egemonia sulla società: a colpirlo in Gramsci è la sottolineatura, che vi trova in abbondanza, del ruolo e dell’importanza degli intellettuali e della cultura non di per sé, ma per la politica. In questo riconosce molti aspetti di consonanza con la formazione alla quale ha dato vita alcuni anni prima e con le motivazioni che ne stanno alla base: la Nouvelle Droite, infatti, si poneva esplicitamente sul piano non politico, ma metapolitico, e il suo compito precipuo era definito non come l’azione politica, ma come la creazione di una cultura. Come la sua omologa italiana Nuova Destra, ha sempre avuto

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una concezione quasi mitica della cultura secondo la quale dalla cultura dipende totalmente la vera politica (che è cosa diversa dalla politica dei politici). Ed è altresì sempre stata convinta della subordinazione dell’economia (attività inferiore, bassa, spregevole perfino) alla politica, alla quale invece viene riconosciuta nobiltà e altezza, anche se fino a un certo punto. È la politica a decidere dell’economia, a svolgere rispetto a essa un ruolo superiore, ad affrontare piani, temi, compiti, di maggior valore e di più vaste conseguenze. L’economia in questa prospettiva appare come puro mezzo, strumento, attrezzo, non come un fine a cui guardare: nessuna politica che sia davvero tale può proporsi il piano dell’economia come fine da raggiungere. I fini per cui vale la pena di lottare fanno parte del piano elevato della politica, non di quello materiale e vile dell’economia. Ma, a sua volta, la politica non è l’attività più alta, più forte, più decisiva che esista; non costituisce il livello superiore a ogni altro. Il livello supremo – e prioritario – è quello della cultura. Sopra di sé, la cultura non ha niente: è l’attività più fondamentale che si possa svolgere, non superata da nessun’altra. In grazia di questa sua fondamentalità, è la cultura a decidere della politica. Questo accade in un duplice senso: da un lato De Benoist, come tutta la Nuova Destra non solo francese, è convinto che il lavoro davvero importante sia quello che si svolge sul piano della elaborazione delle idee, del chiarimento mentale, della dotazione di strumenti concettuali adeguati, della creazione di un corpus di concezioni che servono a interpretare il mondo e a immaginare un mondo diverso da quello esistente. Se questa parte è assente, non esiste politica autentica: esiste solo l’eterno scambio di favori e di interessi, la vista a corto raggio, la mancanza di grandi piani e di concetti con i quali pensare il presente, che ha sempre caratterizzato quella attività abbastanza disprezzabile che è per la Nuova Destra la politica dei politici, la politica senza una cultura che la sostenga. Dall’altro lato, a De Benoist e alla sua creatura metapolitica è proprio quell’atteggiamento che vede nel pensatore l’autentico politico: profondo, lungimirante, efficace perché è il solo che applica alla sfera dell’azione il pensiero, le idee, l’elaborazione concettuale. Nel primo dei due significati, la cultura rappresenta la base sulla quale poggia la politica, che da

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essa riceve guida e direzione. Nel secondo significato la cultura è politica tout court. Ma non lo è nel senso in cui i giovani del Sessantotto definivano come politica, cioè di parte, la cultura anche più astratta, ma nel senso che è la cultura a costituire davvero la politica. Per la Nuova Destra la cultura non rappresenta un piano separato rispetto alla politica, ma incarna la vera, l’autentica politica, con una identificazione dei due piani in uno solo: quello culturale, che si traduce automaticamente in politico. Nelle riviste della Nuova Destra, infatti, non si dibattono le idee per parlare d’altro, per distrarsi o ritemprarsi o per trovare ispirazione, ma appunto per fare politica: dibattendo di idee si fa già politica autentica. E così il vero politico per la Nuova Destra è l’intellettuale: colui che analizza, vede, prevede, intuisce, riunisce in un’immagine efficace il compito che attende di essere intrapreso, la direzione nella quale muoversi, colui che infuoca l’immaginazione, parla all’intelligenza, disseziona con gli strumenti della ragione e crea con gli strumenti dell’inventiva, dell’irrazionale, della fantasia. L’intellettuale è dotato di una vista superiore: la penetrazione con la quale pensa la realtà, conosce la storia, fa rivivere il mito, gli fornisce uno sguardo che va ben oltre quello dei comuni mortali e, ovviamente, quello dei politici di professione. Si potrebbe dire, appunto, che mentre la politica per il politico è un mestiere, la divinazione del futuro nascosto sotto il presente è per l’intellettuale una missione, un dono, una facoltà posseduta per natura. La vera politica è dunque quella creata dall’intellettuale, non quella praticata dal politico senza alcuna base culturale. È attività superiore a quella umana, nella quale il sacrificio si mischia con la visione del vero, e con doti di intuito e penetrazione quasi paranormali. L’intellettuale è vate più che lavoratore della penna e della mente, dio più che impiegato. La politica segue: la buona politica, la politica che accetta di farsi guidare dalla verità, va dietro alle idee che vengono dall’intellettuale. O meglio, esiste già dentro le sue parole, le sue visioni, i suoi miti. La destra che scopre Gramsci e l’idea di egemonia è una destra radicale e metapolitica. Che cosa significano queste due caratterizzazioni? “Radicale” è utilizzato in opposizione a “moderata”: è radicale quella destra che non punta alla lotta parlamen-

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tare per affermarsi, che nutre nei confronti dell’ordine esistente propositi eversivi (magari solo ideologicamente eversivi), che dispiega una critica sociale e politica molto forte nei confronti del mondo borghese identificandolo con un regime della quantità, del materialismo, del calcolo, della distruzione di tutto ciò che è umano. È una destra le cui posizioni ideologiche sono nettamente contrarie alla democrazia. La democrazia, per la destra radicale, è il regime più ingannevole che si possa immaginare: partendo dall’idea che gli esseri umani sono tutti costitutivamente diversi l’uno dall’altro, la forma di governo democratica risulta illusoria in quanto considera i cittadini uguali fra loro. Si realizza in questo modo una omologazione del corpo sociale, sul quale la società di massa esercita ulteriormente i suoi effetti livellanti: il risultato è il regime peggiore che si possa avere, individualista alla superficie e in realtà massificante, dittatoriale sotto le sembianze della libertà, materialista dietro il richiamo ai valori. I nemici maggiori della destra radicale sono il liberalismo e la borghesia intesa più come forma spirituale che come classe: lo spirito borghese è un modo d’essere filisteo e calcolatore, legato solo alle forme inferiori della realtà e del tutto disinteressato a quelle più alte, è spirito di dominio e sfruttamento della natura, è utilitarismo che mira a volgere ogni conquista, ogni gesto spirituale, in guadagno e tornaconto. Il liberalismo, poi, è inganno puro: la critica più feroce che proviene dalla destra radicale non si rivolge contro la sinistra, la sua politica e le sue ideologie, ma proprio contro il liberalismo. Questo, espressione della borghesia, dotato delle sue stesse caratteristiche e mirante ad esaltarne i tratti storici e le conquiste, mette al centro l’individuo, che considera un essere razionale dotato della capacità di scelta e della possibilità di autodeterminazione: l’individuo è posto al centro di un sistema di garanzie e diritti tesi a rendere possibile la sua libertà. Anche la destra radicale è individualista, ma non accetta certo l’esaltazione dell’uomo comune che il liberalismo fa sua: piuttosto, si identifica con uomini eccezionali che si elevano per coraggio, penetrazione o eroismo, sopra gli esseri umani medi. Si tratta di un individualismo eroico o superomistico che disprezza l’uomo comune e ama invece le personalità che si elevano sopra la massa, che si distinguono, che

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si pongono al comando, che vedono nel futuro e si impongono sugli altri. Non è un caso che la civiltà che la destra radicale percepisce come più lontana da sé sia la civiltà americana: mondo dell’ordinary people, delle merci tutte uguali e delle idee prodotte in serie, appare alla destra radicale come un modello da evitare ma anche come il destino della democrazia e del materialismo nel quale vive tutto l’Occidente. Non vi è infatti molta differenza, per la destra radicale, fra modello americano e modello sovietico, fra modello economico privatista ed economie stataliste, fra l’ideologia comunista fortemente politicizzata e la non-ideologia del consumismo statunitense e dei Paesi sviluppati. L’alternativa è rappresentata dal mondo altro e alternativo del Terzo mondo, povero e non contaminato dall’ideologia dello sviluppo, del progresso economico, del consumismo, del modo di pensare razionalista, materialista e borghese. L’aggettivo “metapolitica” attribuito a questa destra riguarda invece il rapporto che essa intrattiene con la politica: mentre l’aggettivo “radicale” non è molto ben accetto da questa destra, il termine “metapolitica” è assunto in proprio come descrizione esatta della propria natura e delle proprie ambizioni. Ed è proprio sul piano della metapolitica che è da rintracciare l’attenzione per Gramsci e per la sua idea di “egemonia”. Le nuove destre ritengono, tutte, che la politica non sia il piano sul quale propriamente esse devono muoversi: vedono un “oltre” nel quale collocarsi, che sta sopra e precede la politica, ed è la cultura. È all’interno della cultura che è opportuno e necessario collocarsi: il lavoro intellettuale prepara infatti a idee nuove, a visioni originali, disincrosta la mente dall’abitudine e dalla sottomissione a modelli dominanti, apre a nuovi orizzonti. Non è ben chiaro in questa prospettiva chi sarà il soggetto che metterà in pratica le idee intraviste dai metapolitici: non viene detto, e neppure ipotizzato, ma rinviato a un momento ulteriore. La politica è osservata con quel misto di condiscendenza e disprezzo con i quali si considera un fratello minore, un amico che non ce la fa a innalzarsi fino alla nostra altezza, una persona che resta indietro e non capisce ciò che noi comprendiamo. Appare come un’attività non particolarmente rispettabile, nient’affatto affascinante, un mondo non illuminato dalla luce dell’intelligenza, e neppure

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necessario. Pure, se ci si definisce metapolitici, è legittimo domandarsi chi sono i politici rispetto ai quali si è “meta”. In ogni caso, e senza chiarire questo dubbio, “metapolitica” indica che la propria azione è fondamentale per la politica e allo stesso tempo che si colloca su un piano superiore rispetto a essa. Per la Nouvelle Droite (e poi a ruota per la Nuova Destra italiana di Marco Tarchi) l’incontro con Gramsci si traduce non nella conoscenza di un autore appartenente alla parte avversa, ma piuttosto in una maggiore consapevolezza di se stessi, di che cosa è e a che cosa può ambire il movimento che è stato creato da poco con qualche successo, molto rumore, qualche apprezzamento in Francia anche da parte dell’establishment culturale, in Italia da parte di qualche guru della sinistra. Le Nuove Destre danno tanto risalto al gramscismo proprio perché ne sono illuminate sulla loro essenza e le loro potenzialità: il loro compito non è fare politica direttamente, è anzi accentuare la distanza dalla politica, e fare piuttosto azione intellettuale a tutto campo, con libertà e curiosità, perfino con spregiudicatezza, andando a pescare anche nel patrimonio intellettuale e ideologico di quella sinistra nella quale stava nascosta una perla così preziosa. Le Nuove Destre non devono lavorare con i politici o con le forze sociali, ma con gli intellettuali, attraverso gli intellettuali e sugli intellettuali. E così riusciranno ad avere (proprio per i rapporti elucidati fra politica e cultura) una importanza politica ben più grande di coloro che fanno politica da politici. In fondo erano già così, ma ora lo sapevano meglio: Gramsci li rivelava a se stessi. Nella Presentazione italiana del testo in cui De Benoist scopre Gramsci, Le idee a posto, Tarchi scriveva: «Ecco dunque prender corpo il tanto, e spesso distortamente, evocato ‘gramscismo’ debenoistiano». E spiegava in che cosa consisteva, dandone al tempo stesso una interpretazione molto netta: «Inteso come una specificazione della scelta metapolitica, come una proiezione di volontà e di principii nel cuore della società civile, per influenzare mentalità e costumi, per vincere pregiudizi, per saldare un consenso in profondità al progetto di rovesciamento dei valori oggi imposti dalla consuetudine e difesi dagli opinion makers». Fa una certa impressione leggere la progettata egemonia gramscia-

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na tradotta nei termini dell’inevitabile radicamento dell’individuo, del dare un senso antico al mondo moderno, del sovvertire schelerianamente i valori, del costruire non un blocco storico ma una civiltà. Tarchi affermava che non si trattava di rimettere la dialettica hegeliana sulle sue gambe: «Alla schermaglia filosofica con un autore (Hegel) e la sua scuola, qui si contrappone il progetto di ridare un senso al mondo: inedito nelle sue forme di espressione, antico nelle radici». È un procedimento tipico delle nuove destre fino a oggi quello di superare sempre in avanti gli autori o le correnti ideali che utilizzano: Marx criticava Hegel? Bazzecole filosofiche! Noi invece vogliamo dare senso al mondo. Peccato che ridare senso al mondo sia diventato con il passar degli anni un progetto verboso e inconsistente che si è accompagnato a collocazioni pubbliche molto tradizionali. Scriveva ancora Tarchi: «Dalle nuove, imprevedibili intersezioni delle ideologie sfuggite alla tirannide dell’anonimato e dell’omologazione può forse nascere l’unica possibile reazione al fascino abbagliante della decadenza, che pare avere ipnotizzato i popoli d’Europa». Esplicitando la posizione di De Benoist, Tarchi metteva in rilievo un elemento: il fatto che il francese da Gramsci avesse estratto solo l’idea di egemonia. Il ruolo della cultura e degli intellettuali viene da De Benoist, come da tutta la Nuova Destra europea, isolato da tutto il resto delle concezioni gramsciane: il ruolo organico dell’intellettuale, il blocco storico, le vie nazionali alla rivoluzione, l’umanismo, l’accento sulla prassi, l’interpretazione del marxismo. E viene fatto giocare con concetti come: la decadenza dell’Occidente, la rivolta contro il mondo mercantile, la via europea allo sviluppo, l’opposizione all’imperialismo statunitense, la critica del pensiero liberale, il rovesciamento dei valori borghesi, il differenzialismo, la concezione unitaria e identitaria delle culture, la mancanza di senso del mondo moderno, la critica del contratto sociale e dello scambio, il rifiuto dell’homo oeconomicus. Ed è chiaro che allora egemonia assume tutt’altro significato rispetto a Gramsci: non la ricerca del governo della società da parte di una concezione del mondo (oltre che di un partito e una classe), ma la creazione di una politica generata da una cultura, determinata da una classe di intellettuali liberi, voluta da volontà ferree e tempre d’acciaio in lotta con il proprio

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tempo, inattuali e decisive. In fondo, si esprimeva qui il sogno infantile (per citare Lenin, ma anche Freud) di ogni intellettuale. Proprio quello che Gramsci, nutrito a Croce e positivisti, non poteva nemmeno concepire. Questo incontro fra De Benoist e Gramsci, fra Tarchi e Gramsci, coincide con due fenomeni di rilievo. Il primo è la rinuncia delle Nuove Destre a esercitare una vera, effettiva azione politica: all’inizio − con i campi giovanili, le riunioni, le discussioni semipubbliche, le feste, la vendita di libri − avevano avuto l’idea di formare un gruppo politico; ora, nei primi anni Ottanta, era evidente che ciò non era possibile. È il momento in cui le ambizioni politiche vengono messe nel cassetto (prime fra tutte quelle di Tarchi), inaugurando quella linea di distacco e parallelismo rispetto alla politica che è proseguita fino a oggi. Il secondo fenomeno è la dinamica dei rapporti fra destra e sinistra, e non solo nel nostro Paese: la crisi della concezione assiale della politica messa in rilievo dalle Nuove Destre e allo stesso modo da una parte autorevole della sinistra intellettuale ha fra i suoi esiti l’apertura del bagaglio culturale proprio di ogni parte ideologico-politica alla parte opposta. Mentre De Benoist scopre Gramsci e vi si riconosce, mentre Tarchi e De Benoist valorizzano e usano Weber e Baudrillard, Mauss e Latouche, Habermas e Althusser, Simmel e Bauman, il dono e la critica della globalizzazione, la sinistra legge avidamente Heidegger, Schmitt, Céline, Jünger, Dumézil, Eliade, perfino Julius Evola, scopre che il progresso è un’idea illusoria e la democrazia un inganno o il governo dei peggiori, che la modernità è il totalitarismo dei tempi moderni e il liberalismo una illusione, in uno scambio delle parti che − con motivazioni diverse − è comune alla destra e alla sinistra (e questo si diffonde dalle nuove destre alle destre e sinistre tradizionali); se a sinistra, infatti, si pensa di capire meglio e in modo diverso traendo spunto dalle teorie politiche conservatrici e reazionarie, di avere una lettura importante della modernità perché è una lettura radicalmente critica della modernità, della secolarizzazione, della democrazia, a destra si ritiene di poter utilizzare autori importanti volgendoli a significati diversi da quelli originari. Del resto, molti temi di quegli anni, che arrivano fino a noi, sono caratterizzati dalla

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trasversalità, non sono cioè etichettabili come di destra o di sinistra, ma trovano posto in entrambi gli schieramenti allo stesso modo: l’anti-globalismo, il terzomondismo, l’ecologia, la critica della modernità, l’analisi severa della democrazia, l’opposizione alla scienza e alla tecnica moderne, la critica dell’universalismo, il comunitarismo, l’anti-individualismo, il neo-paganesimo (di derivazione nietzscheana; mentre si è per l’umanismo, contro la lezione di Nietzsche), la critica senza appello del capitalismo e del liberalismo. È paradossale che De Benoist si allontani dalla politica, e con lui il movimento della Nouvelle Droite, proprio quando viene in contatto con il pensiero di Gramsci. Ma forse non è poi troppo paradossale. Fino a quel momento, in fondo, De Benoist aveva trattato temi di destra con strumenti di destra: la Rivoluzione conservatrice, la tradizione, Nietzsche, un virulento antiamericanismo, il paganesimo. È con gli anni Ottanta che invece diventa meno di destra, o lo diventa in un modo meno riconoscibile come di destra: trasversale, sul piano della cultura, nell’intreccio continuo fra destra e sinistra. Tutto questo è stato reso possibile anche da uno spostamento parallelo che è avvenuto nella sinistra: il passaggio dal marxismo economicista, dall’attenzione per lo strutturale, al sovrastrutturale, e la trasformazione del sovrastrutturale in qualcosa che è divenuto via via sempre più leggero e poi, alla fine, addirittura immateriale. Se il muro di Berlino non fosse caduto e il comunismo crollato, con l’effetto di dissoluzione sulle convinzioni marxiste che conosciamo per averlo osservato in due decenni, l’incontro e le contaminazioni fra destra e sinistra non sarebbero probabilmente stati possibili nella misura in cui è avvenuto: ma è solo un’ipotesi che non è possibile verificare. Quello che si è verificato fra il momento di cui parliamo e il 1989 è stato il primo spostamento di una lunga serie a catena al termine della quale possiamo leggere uomini della destra non istituzionale (politica o metapolitica) che scrivono con grande risalto presso editori storicamente di sinistra, e viceversa possiamo vedere politici di sinistra che si oppongono alle novità della scienza in materia di concepimento artificiale o si richiamano all’ordine naturale della società. Molti, di fronte a questi smottamenti ideologici, rimpiango-

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no l’epoca nella quale le contrapposizioni erano nette, le ideologie ben distinte fra loro, il mondo diviso in amici e nemici che non si assomigliavano in niente; attribuiscono lo smorzarsi delle differenze a un processo di universale omologazione nel “pensiero unico”, nella società consumista, nella standardizzazione delle menti, e incolpano la bassezza del tempo presente di una situazione di opacità, di confusione, di contaminazione, di perdita di ogni punto di riferimento chiaramente individuabile. La storia del pensiero politico mostra però che questa condizione di ibridazione reciproca, di intreccio fra posizioni lontane e anche diametralmente opposte, rappresenta una eccezione talmente frequente da essere quasi la regola. La nettezza delle dottrine trova posto nei manuali, costretti a schematizzare, ma la realtà della riflessione politica è piena di scambi, prestiti, parentele insospettate, scivolamenti. Invece che dare giudizi su ciò che è avvenuto fra destra e sinistra, invece di incolpare la globalizzazione di un processo di osmosi e scambio delle parti che si è verificato non solo da noi, rimane preferibile osservare e cercare di comprendere quello che è accaduto. Si ha l’impressione che il futuro ci riserberà un numero sempre maggiore di temi trasversali (non amiamo il termine perché inflazionato, ma non sappiamo trovarne un altro equivalente altrettanto efficace), come il clamore suscitato dal New Age ha mostrato anni fa. Questo avverrà non solo su temi marginali – come erano quelli –, ma su questioni centrali: l’identità, le radici, il confronto tra culture, il posto del sacro nelle civiltà, l’individuo, il mercato, la cura per la Terra, l’atteggiamento verso la manipolazione tecnico-scientifica degli organismi viventi. Ad esempio, il nucleare e gli Ogm rappresentano due argomenti che si collocano chiaramente in questa prospettiva. È già difficile spiegare ai propri figli quando si assiste a un dibattito su questi temi o su quelli che si definiscono “eticamente sensibili” chi è di destra e chi di sinistra: ci chiediamo se noi stessi ci riusciremo in futuro. Sarebbe importante che la politica e le istituzioni registrassero questo mutamento che si è verificato fra destra e sinistra, fra posizioni e problemi che superano le appartenenze politiche tradizionali, le contraddicono e talvolta le rovesciano. Questo

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non significa che non esistono più destra e sinistra: solo che sono cambiate, così come è mutato il loro rapporto reciproco. Il mutamento avvenuto ha conseguenze non secondarie per la politica e per le stesse istituzioni. Concludendo, si può affermare che il gramscismo di destra abbia rappresentato per la destra radicale e metapolitica un metodo di conquista del potere alternativo alla violenza. Da allora a oggi, si è verificato in campo culturale e ideologico un processo di scambio delle parti continuo fra destra e sinistra che è corso parallelo alla discussione sulla concezione assiale della politica e sulla sua crisi. Dal conflitto anche violento fra destra e sinistra si è passati alla convivenza, alla ibridazione, a nuove contrapposizioni. Di fronte a tutto questo, l’analisi politico-ideologica tradizionale sembra debba ricorrere a nuovi strumenti, come la categoria di inclusione/esclusione. Molte e diverse sono state nel corso degli anni, e anche di recente, le categorie e le coppie di opposti proposte per interpretare le differenze fra destra e sinistra: conservazione/innovazione, tradizione/emancipazione, passato/futuro, ordine/libertà, gerarchia/uguaglianza. Il legame fra classi, status sociale, e opzioni di destra o di sinistra, è tenue, oggi non diversamente da altri periodi. Inoltre, si è verificata l’emergenza di una grande quantità di temi che non sono definibili di destra o di sinistra, come la questione femminile. Il ruolo della violenza come levatrice della storia (concezione classicamente di sinistra, ma anche propria di ogni visione realista della politica, moderata e perfino reazionaria) o come forma abituale di lotta politica si è modificato da una parte e dall’altra: la sinistra ha abbandonato la concezione marxista salvo che in un piccolo numero di vetero-marxisti, crede fermissimamente nel parlamento e nella democrazia, mentre elementi di marxismo sono spesso presenti a destra (Nuova Destra), e una parte della destra radicale ha accettato che la conquista della società debba realizzarsi con l’egemonia invece che con la violenza. Non si tratta di un fenomeno sconosciuto: le ideologie non sono affatto sistemi unitari e compatti perfettamente riconoscibili e distinti nettamente gli uni dagli altri, anche se talvolta alla loro origine vi è qualcosa che è possibile individuare in questi termini. Le ideologie molto spesso vengono spezzettate, utilizza-

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te in modo parziale, unite a spezzoni provenienti da altre, fuse per creare qualcosa di originale. Pensiamo alle ideologie con cui il socialismo si combina tra la fine dell’Ottocento e la prima guerra mondiale, alle convergenze fra Georges Sorel e Charles Maurras, fra rivoluzionari e antisemiti, fra militanti dell’Action Française e cattolici antiborghesi, pensiamo al ni droite ni gauche del periodo fra le due guerre in Francia, pensiamo alla frantumazione del marxismo e alla sua combinazione con le idee più svariate, pensiamo agli autori reazionari che sono sempre apparsi (a Marx per primo) critici acuti della modernità, del capitalismo, del mondo borghese. D’altra parte, è vero che negli anni su cui ci siamo fermati un personaggio di estrema destra come Franco Freda era molto attento alla Cina, ai Vietcong, che gli apparivano nazionalisti e frugali, anticonsumisti, spartani, autentici guerrieri. È vero che nel pre-Sessantotto usciva un testo come quello di Piero Buscaroli (di estrema destra) dal titolo Capire la Cina. È vero che esisteva un gruppo che si chiamava Lotta di popolo, ed era nazimaoista. E Lotta di popolo partecipa al Sessantotto. La simpatia per le rivoluzioni antioccidentali è una costante nella destra estrema, dalla Palestina al Nicaragua. Un fenomeno attuale (che inizia anch’esso nei tardi anni Settanta) e che meriterebbe di essere studiato con attenzione, è quello della musica metal: nel metal infatti si mischiano destra e sinistra, oltre che Dio e Satana. Della storia culturale italiana, del resto, fanno parte intellettuali che secondo le categorie di destra e sinistra risultano inclassificabili: Pier Paolo Pasolini era di destra (come una parte del Sessantotto affermava, come il PCI sosteneva all’epoca delle polemiche sugli scontri di Valle Giulia e della scomparsa delle lucciole) o di sinistra (come si afferma oggi)? La critica al progresso, allo sviluppo, all’industrialismo, alla borghesia come forma mentis, al denaro, all’omologazione, alla civiltà di massa, è di destra o di sinistra? Oggi si parla del pensiero unico: un modo di pensare che accomunerebbe tutte le parti politiche salvo le frange estreme e chi denuncia l’esistenza del pensiero unico. Un modo di vedere le cose che coincide con l’accettazione dell’Occidente, del capitalismo, della liberaldemocrazia come unica forma possibile di

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governo, del mercato come regolatore supremo degli scambi, dell’individualismo come filosofia sociale, della crescita economica come criterio di valore. Molti affermano che è scomparsa ogni differenza fra destra e sinistra, omologate dal gioco del potere, ovvero conformate dal mantenimento e dalla difesa dell’esistente. Il caso del gramscismo di destra rappresenta un’occasione per riflettere su queste questioni. Da un lato, è proprio da parte delle Nuove Destre che ha trovato sostegno l’idea che la concezione assiale della politica era entrata in crisi: una parte degli studiosi e della sinistra lo ha ripetuto, ma solo in un secondo tempo. Dal punto di vista della Nuova Destra la crisi della concezione assiale era del tutto plausibile: se è la cultura la vera politica, non aveva senso distinguere la sinistra come uguaglianza e la destra come differenza. Quello che contava erano le idee: e allora sia a destra sia a sinistra erano presenti coloro che credevano all’uguaglianza e coloro che credevano alla differenza. Le fratture erano da individuare piuttosto dentro la destra e la sinistra, non fra destra e sinistra. D’altra parte, tracciare una linea di separazione chiara fra destra e sinistra sulle questioni che hanno occupato con prepotenza la scena in questi anni, dalla preservazione dell’ambiente alla manipolazione tecnico-scientifica del vivente, dalla critica allo sviluppo all’introduzione di elementi di gratuità nelle nostre società utilitarie, è impossibile: bisogna riconoscere che gli argomenti si sono moltiplicati e le posizioni mischiate fino all’inverosimile. Leggere opere fino ad allora “proibite” ha avuto certamente un effetto liberatorio, da una parte e dall’altra. Probabilmente, però, la mistura di idee di destra e di sinistra alla quale da allora in poi assistiamo non è dovuta solo a questo, ma a una trasformazione interna della destra e della sinistra. Unendosi ad altri fattori, quali il ruolo sempre più ridotto svolto dall’ideologia in politica, tale trasformazione ha fatto sì che vedesse la luce una critica del presente che attaccava insieme la globalizzazione, la modernità, il dominio dell’economia, l’arido razionalismo, la divinizzazione della tecnoscienza e dello sviluppo a tutti i costi, il pensiero unico liberal-capitalista, l’occidentalismo: una critica del presente completamente accettabile da destra e da sinistra.

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Appendice iconografica

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Fig. 1. Fascismo, cartolina, dis. Aurelio Bertiglia. L’esaltazione del manganello e dello squadrismo

Fig. 3. Comitato Civico, manifesto 1948, dis. Zef. La difesa della famiglia dai pericoli esterni tramite l’arma del voto cristiano

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Fig. 2. Fascismo, cartolina. L’irrisione e l’oltraggio dei simboli dell’avversario

Fig. 4. Blocco Nazionale, manifesto 1948. La Patria pugnalata dal comunismo

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Fig. 5. Partito socialista, Fronte democratico Popolare, 1948. Lo smascheramento dell’anima violenta e sanguinaria dei democristiani

Fig. 7. Democrazia Cristiana, manifesto 1948. La denuncia della violenza avversaria

Fig. 6. Movimento Sociale Italiano, manifesto 1953. Fra le varie aggressioni la pugnalata comunista alle spalle

Fig. 8. Partito Comunista, manifesto 1950. La denuncia della violenza avversaria

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Fig. 9. CGIL, manifesto 1948. La denuncia della violenza avversaria

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Fig. 10. Partito Comunista Italiano, manifesto 1948, dis. Nieri. Il martirio partigiano

Fig. 11. Comitati Civici, manifesto 1950. Il martirio della patria

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Fig. 12. Edizioni Asso di Bastoni, cartolina n. 5, serie Dux, anni ’50. Il martirio dei patrioti

Fig. 13. Partito Comunista Italiano, manifesto 1948. L’orrore della morte, la violenza degli avversari

Fig. 14. Democrazia Cristiana, volantino 1948. L’orrore della morte, la violenza degli avversari

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Fig. 15. Movimento Studentesco, manifesto 1968, dis. Paolo Grasso

Fig. 17. Movimento Studentesco, manifesto 1968

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Fig. 16. Atelier Populaire Ex Ecole de Beaux-Art, manifesto 1968

Fig. 18. Gasparazzo, fumetto pubblicato su «Lotta Continua», 1972, dis. Roberto Zamarin. L’irrisione e l’oltraggio ai simboli dell’avversario

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Fig. 19. «Rosso», n. 17/18, 1977. L’esaltazione della spranga e della violenza nei cortei

Fig. 20. Lotta Continua, manifesto anni settanta, fotografia Alberto Negrin. La sottomissione fisica e simbolica dell’avversario

Fig. 21. Movimento Sociale Italiano, manifesto anni settanta

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Fig. 22. Repubblica Sociale Italiana, volantino 1944

Fig. 24. Partito Comunista Italiano, manifesto 1979, Bruno Magno

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Fig. 23. Democrazia Cristiana, manifesto 1979

Fig. 25. Partito Liberale Italiano, manifesto 1972

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Fig. 26. «l’Assalto», a. I, n. 1, 13 aprile 1969. L’estrema destra richiede misure da stato d’assedio per contrastare la conflittualità sociale

Fig. 27. «l’Assalto», a. I, n. 5, 11 maggio 1969. Il neofascismo e la propaganda tra le Forze Armate

Fig. 28. «Il Candido», a. III, n. 2, 8 gennaio 1970. Il neofascismo e la campagna di criminalizzazione dell’estrema sinistra dopo la strage di piazza Fontana

appendice iconografica

Fig. 29. «Il Candido», a. VII, n. 23, 6 giugno 1974. Il «Candido» denuncia la continuità tra la Resistenza e il terrorismo rosso

Fig. 30. «Il Candido», a. VI, n. 18, 3 maggio 1973. L’utilizzo politico dell’odio. Nell’immaginario dei neofascisti, la violenza contro i caduti delle forze dell’ordine e i giovani di destra è riconducibile alla medesima matrice ideologica

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Emanuele Macaluso, ex dirigente del Partito Comunista Italiano, è da decenni uno dei protagonisti della vita politica italiana. Già Senatore della Repubblica, attualmente dirige la rivista «Le nuove ragioni del Socialismo». Alberto Melloni è nato a Reggio Emilia nel 1959. Ordinario di storia del cristianesimo nell’Università di Modena-Reggio, è titolare della Cattedra Unesco sul pluralismo religioso e la pace dell’Università di Bologna e segretario della Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII di Bologna. Fra le sue opere recenti La storia che giudica, la storica che assolve, con Odo Marquard (2008); Papa Giovanni, un cristiano e il suo concilio (2009) e l’edizione critica delle redazioni di Pacem in terris (2010). Giovanni Moro è nato a Roma nel 1958. È presidente di FONDACA, Fondazione per la cittadinanza attiva, e insegna Sociologia dei fenomeni politici alla Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Macerata. Tra le sue pubblicazioni più recenti vi sono Anni Settanta (1978); La società civile tra eredità e sfide. Rapporto sull’Italia del Civil Society Index (con Ilaria Vannini, 2008) e Cittadini in Europa. L’attivismo civico e l’esperimento democratico comunitario (2009). Michela Nacci è professore associato di Storia delle dottrine politiche presso l’Università de L’Aquila, dove ha ideato e diretto dal 2004 al 2006 il Master in “Comunicazione istituzionale”. Nel 1998 ha ottenuto il Premio Anna Maria Battista per il volume La barbarie del comfort. Il modello di vita americano nella cultura francese del Novecento (1996). Ha pubblicato inoltre: L’antiamericanismo in Italia negli anni Trenta (1989); Pensare la tecnica. Un secolo di incomprensioni (2000); Politiche della tecnica. Immagini, ideologie, narrazioni (2005); Storia culturale della Repubblica (2009); Figure del liberalsocialismo (2010). Edoardo Novelli è ricercatore in Sociologia dei Processi Culturali e Comunicativi presso il DAMS di Roma Tre, dove insegna “Comunicazione Politica e opinione pubblica” e “Teorie e tecnica delle comunicazioni”. I

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suoi campi di interesse sono la comunicazione politica, la storia e i linguaggi della propaganda, con particolare attenzione alla dimensione visiva e iconografica, ed il rapporto fra media e politica. Fra le sue ultime pubblicazioni: La Turbopolitica. Sessant’anni di scena pubblica e di comunicazione politica in Italia 1945-2005 (2006); Le elezioni del quarantotto. Storia, strategie e immagini della prima campagna elettorale repubblicana (2008). Guido Panvini è dottore di ricerca presso l’Università della Tuscia (VT) e svolge attività di ricerca presso l’Università degli Studi di Macerata. Studioso della violenza politica e del terrorismo nell’Italia degli anni Settanta, è autore di Ordine nero, guerriglia rossa (2009). Demetrio Paolin vive ha Torino. Ha pubblicato nel 2009 per Transeuropa il romanzo Il mio nome è legione, tra le altre sue pubblicazioni Una tragedia negata. Il racconto degli anni di piombo nella letteratura italiana (2008) e il pasto grigio (2005). Alcuni suoi racconti sono apparsi su «Nuova Prosa» e su «Nuovi Argomenti». Federica Rossi è dottoranda in Scienze Politiche presso l’Università di Paris X – Nanterre (Francia) dove ha svolto per quattro anni attività d’insegnamento per i corsi di “Introduzione alla sociologia politica” (primo anno della Laurea in Diritto e scienze politiche) e di “Analisi sociale delle ideologie” (Laurea specialistica in Sociologia politica comparata). I suoi ambiti di ricerca sono il ’68 in Italia e in Francia, gli anni Settanta e i movimenti politici, gli usi politici della storia. Ha pubblicato articoli in Francia e partecipato a diverse conferenze internazionali su questi temi. Gianni Scipione Rossi è giornalista. Studioso del Novecento e della destra italiana, ha pubblicato: Storia di Alice (2010); Cesira e Benito (2007); Il razzista totalitario (2007); Mussolini e il diplomatico (2005); La destra e gli ebrei (2003); Alternativa e doppiopetto (1992); Una scommessa per l’Europa (1987); Atleti in camicia nera (1983). Ha curato: L’islam e noi (2002); La rivolta (1991); Nazione sociale (1990). È vicepresidente della “Fondazione Ugo Spirito”. Ermanno Taviani insegna Storia contemporanea presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Catania. Ha studiato la storia dei partiti e delle culture politiche dell’Italia repubblicana, con particolare attenzione agli anni sessanta e settanta. Si è occupato, inoltre, del rapporto tra cinema e storiografia, svolgendo anche ricerche audiovisive per film di finzione e documentari. Fa parte del Comitato scientifico della Fondazione Istituto Gramsci e del Consiglio d’amministrazione dell’Archivio audiovisi-

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vo del movimento operaio e democratico. Ha diretto il progetto sulla storia della propaganda politica in Italia. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Togliatti nel suo tempo (a cura di, 2007); L’opinione pubblica e la politica italiana contro il terrorismo («Annali dell’Istituto italo-germanico di Trento», 2008); Franco De Felice. Saggi sul comunismo (in corso di pubblicazione). Angelo Ventrone è professore Ordinario di Storia contemporanea presso l’Università degli Studi di Macerata. Studioso di storia dei partiti e delle culture politiche, si è occupato dell’incontro tra modernità, tecnica e violenza, delle origini della cultura fascista, del ruolo dei partiti di massa nella fondazione e nel consolidamento della democrazia italiana, del rapporto tra mass-media e società, della rappresentazione dell’avversario politico in Italia e in Europa dall'inizio del ’900 a oggi, della contestazione politica giovanile negli anni ’60 e ’70. Ha pubblicato, tra l’altro, La cittadinanza repubblicana. Come cattolici e comunisti hanno costruito la democrazia italiana (1943-1948) (2008, nuova edizione); La seduzione totalitaria. Guerra, modernità, violenza politica (1914-1918), (2003); Il nemico interno. Immagini, parole e simboli della lotta politica nell’Italia nel ’900 (2005). Vittorio Vidotto è professore di Storia contemporanea all’Università di Roma La Sapienza. Ha pubblicato numerosi studi dedicati alla storia d’Italia e a quella di Roma. Tra le sue pubblicazioni: Roma capitale (a cura di, 2002); Italiani/e (2005); Roma contemporanea (2006); Guida allo studio della storia contemporanea (20084); con Giovanni Sabbatucci: Storia d’Italia (sei volumi, a cura di, 1994-1999); Storia contemporanea. Il Novecento (n.e., 2008); Il mondo contemporaneo (n.e., 2008); Storia contemporanea. L’Ottocento (n.e., 2009); con Renata Ago, Storia moderna (2010).

Indice dei nomi

indice dei nomi

A Accame, Giano 37, 38, 84, 92 Adorno,Theodor 83, 84, 92 Agnelli, Umberto 229 Agnes, Mario 159 Ago, Renata 291 Agosti, Aldo 107 Albanese, Giulia 67 Alberigo, Giuseppe 159, 165, 167 Algranati, Rita 142 Alibrandi, Alessandro 53 Almerighi, Mario 157 Almirante, Giorgio 23, 26, 39, 62, 67, 68, 71 Aloia, Giuseppe 35, 37 Althusser, Louis 264 Ambrosi, Luigi 74 Amendola, Giorgio 119, 132, 134 Amendola, Giovanni 132 Anderson, Perry 270 Andreatta, Beniamino 156, 229 Andreotti, Giulio 39, 66, 71, 144, 146, 148, 149, 157, 159, 161, 162, 163, 164, 168, 170, 171, 172, 173, 175, 176 Anfuso, Filippo 30 Annarumma, Antonio 51, 69 Anselmi, Giulio 145 Antigone 227, 232, 235 Arbasino, Alberto 228, 229, 230 Ardica, Giuseppe 17, 39, 91 Arendt, Hannah 63 Argentieri, Mino 181, 193 Argentini, Stefania 48 Armani, Barbara 41, 51, 57 Auerbach, Erich 228 Azzolini, Lauro 121 B Bachelet, Giovanni 142

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Baget Bozzo, Gianni 145 Baldassini, Cristina 270 Baldoni, Adalberto 62 Balducci, Ernesto 159 Balestrini, Nanni 81, 89 Baliani, Marco 231, 232 Balthassar, Hans Urs von 159 Balzerani, Barbara 165, 173, 202, 203 Barberini, Giovanni 152 Bardèche, Maurice 23, 24, 25, 28 Basaglia, Franco (legge) 51 Basso, Lelio 90, 157 Basso, Lisli 90 Battisti, Cesare 182 Baudrillard, Jean 264 Bauman, Zygmunt 264 Becker, Howard S. 205 Bedeschi, Giuseppe 270 Belci, Corrado 157 Bellini (banda) 221, 222 Bellucci, Emilio 48 Beltrametti, Eggardo 35, 37 Benedetti, Amedeo 190, 193 Benelli, Giovanni 173, 176 Benevolo, Leonardo 168 Beran, Josef 152 Berardi, Franco 86, 103 Berlinguer, Enrico 59, 90, 105, 107, 122, 124, 131, 133, 135, 137, 148, 158 Bernini, Bruno 118 Bertiglia, Alberto 277 Bertini, Bruno 119 Besuschio, Paola 167 Bettazzi, Luigi 159, 169, 172 Bianchi Bandinelli, R. 178, 193 Bianchi, S. 103 Bianconi, Giovanni 19, 54, 55, 80, 143, 145, 156, 161, 165 Bidault, Georges 28 Biscione, Francesco M. 173

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indice dei nomi

Boatti, Giorgio 70 Bobbio, Luigi 65 Bobbio, Norberto 46, 106, 270, 272 Bocca, Giorgio 124, 190, 193 Boccasile, Gino 181 Bodrato, Guido 157, 158, 165 Bolgiani, Franco 168 Bologna, Sergio 81, 89 Bonanate, Luigi 43 Bonavita, Alfredo 108 Boock, Peter Jürgen 146 Borghese, Junio Valerio (o Juno) 13, 37, 38, 39, 65, 74 Borio, Guido 81 Boschetti, Anna 199 Bosi, Lorenzo 41 Bourdieu, Pierre 199 Braghetti, Anna Laura 152, 165, 212 Branzaglia, Carlo 179, 193 Brasillach, Robert 23, 24 Bravo, Anna 14, 104, 184, 193, 219, 220, 270 Breschi, Danilo 270 Bridi, Veronica 86 Bruno Guerri, Giordano 19, 80 Bucceroni, Paola 19 Bufalini, Paolo 132 Buffa, Pier Vittorio 86 Buonconto, Alberto 173 Burke, Peter 178, 193 Buscaroli, Piero 98, 268 C Cacciari, Massimo 84, 230, 270 Cagol, Mara 122, 141, 142, 208 Calabresi, Luigi 66, 204, 233 Calabresi, Mario 246 Calogero, Guido 251 Calogero, Pietro 124 Calore, Sergio 95 Calvi, Cecilia 208 Calvino, Italo 80, 81 Caminiti, Lanfranco 103 Canevari, Emilio 28 Cannistraro, Philip 181, 193 Capitini, Aldo 251 Caprio, Giuseppe 146, 159, 163, 172 Caradonna, Giulio 30 Carboni, Massimo 179, 194 Carli, Guido 229 Carlucci, Francesco 48

Carocci, Giampiero 270 Carpignano, Paolo 81 Casalegno, Carlo 120 Casaroli, Agostino 146, 152, 157, 161, 162, 163, 164, 168, 175 Casimirri, Alessio 142 Casimirri, Alesssio 142 Casimirri, Luciano (o Casimirri Senior) 142, 147 Castagnetti, Pierluigi 168 Catanzaro, Raimondo 42, 52, 53, 66, 96 Catilina, Lucio Sergio (Catilina) 25, 35 Cattabiani, Alfredo 28, 37 Cattaneo, Carlo (Istituto) 8, 42, 51, 57, 186, 194 Cavallini, Massimo 119 Cavani, Liliana 230 Cavina, Umberto 157 Cazzullo, Aldo 39, 82, 103, 204 Céline (Louis-Ferdinand Destouches) 264 Ceruso, Fabrizio 55 Chenu, Marie-Dominique 159 Chiarini, Roberto 19, 22, 255, 270 Chiaromonte, Gerardo 133 Chicchiarelli, Antonio detto Tony 159 Chiocci, Francobaldo 38 Ciampi, Lucia 43, 44 Ciattaglia, Clemente 168 Cipriani, Gianni 112 Cirri, Luciano 38 Clementi, Marco 148, 155 Coco, Francesco 144 Cofrancesco, Dino 270 Colarizi, Simona 61, 102 Colletti, Lucio 50, 63 Colombi, Arturo Raffaello 132 Colotti, Geraldina 207 Concutelli, Pierluigi 17, 39, 91, 94 Confalonieri, Carlo 152 Congedo, Domenico 69 Conti, Giuseppe 270 Corbetta, Piergiorgio 71 Corghi, Corrado 141, 143, 153, 172 Cossiga, Francesco 117, 146, 147, 150, 152, 172, 173 Crainz, Guido 7, 69, 102, 184, 187, 194 Craveri, Piero 102, 105 Craxi, Bettino 46, 156, 158, 165, 167, 171 Cremona, Carlo 144, 172, 173

indice dei nomi

Crescenzio, Roberto 120 Croce, Benedetto 120, 132, 252, 264 Curcio, Renato 8, 91, 97, 122, 141, 142, 144, 172 Curioni, Cesare 144, 158, 161, 164, 165, 173, 176 D D’Asaro, Franz Maria 28 D’Auria, Elio 61 Dalla Chiesa, Carlo Alberto 56 Dard, Olivier 270 De Benoist, Alain 31, 256, 257, 258, 262, 263, 264, 265, 270 De Bernardi, Alberto 97 De Boccard, Enrico 28, 37 De Cataldo, Francesco 158 De Felice, Franco 101, 102, 106, 286 De Felice, Roberto 61 De Giovanni, Edoardo 165 Del Bello, Claudio 103 Del Boca, Angelo 29 Delera, Roberto 50 Della Mea, Luciano 82 Della Porta, Donatella 42, 43, 47, 53, 55, 56, 65, 66, 186, 194 Delle Chiaie, Stefano 39 De Lorenzis, Tommaso 103 De Lorenzo, Giovanni 35, 36, 37 De Luca, Erri 223, 233 De Luna, Giovanni 8, 18, 182, 184, 185, 186, 187, 192, 194 De Lutiis, Giuseppe 39, 48 De Marsanich, Augusto 22 De Rosa, Gabriele 41, 64, 103, 168 Di Gennaro, Giuseppe 144 Di Liegro, Luigi 145, 159 Dini, Vittorio 190, 194 Di Vittorio, Giuseppe 129 Dominianni, Ida 19 Donat-Cattin, Carlo 158 Dondi, Mirco 74 Donolo, Carlo 63 Dossetti, Giuseppe 157, 161, 164, 165, 167, 176 Dumézil, Georges 264 E Edipo 227, 231, 234 Eliade, Mircea 264 Elias, Norbert 68, 216

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Ennals, Martin 158 Evola, Julius 27, 29, 31, 35, 38, 68, 264 F Fabbri, Fabio 144, 161 Faenza, Roberto 169 Fanfani, Amintore 167, 173 Fanfani, Maria Pia 167 Fanon, Franz 87 Faranda, Adriana 173, 210, 211, 212 Fasanella, Giovanni 8, 26, 108, 141, 143 Fassino, Piero 135 Feiertag, Olivier 270 Fenton, Roger 182 Fenzi, Enrico 15, 201, 202 Ferrajoli, Luigi 43, 44 Ferrara, Giuliano 117 Ferrara, Orazio 29 Ferraresi, Franco 68, 71, 270 Ferrari Toniolo, Agostino 168 Ferrero, Nino 120 Fiasco, Maurizio 66 Fillieule, Olivier 205 Finaldi, Gianfranco 37 Fini, Marco 169 Fioravanti, Cristiano 53 Fioravanti, Giuseppe Valerio detto Giusva 53, 54 Fiume, Fabrizio 103 Flamigni, Giovanni 143 Flamigni, Sergio 159 Flores d’Arcais, Paolo 50 Foa, Vittoria 83, 124 Fontana, Sandro 158 Fonzi, Fausto 168 Forcella, Carlo 161, 164 Forte, Sandro 32 Franceschini, Alberto 86, 108, 141, 144, 172, 203, 205, 208, 211 Franchi, Paolo 119 Franzinelli, Mimmo 17 Frayini, Stefano 172 Freda, Franco 92, 93, 94, 95, 98, 268 Freddi, Fabio 185, 194 Fumagalli, Carlo 65 G Gaia, Roberto 157 Galleni, Mauro 70, 122, 186, 194

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Gallerano, Nicola 198 Galli, Giorgio 8, 33, 38, 62, 66 Gallinari, Prospero 55, 201, 210, 211 Galloni, Giovanni 157 Garosci, Aldo 251 Gasparetti, Alessandro 68 Gauchon, Pascal 29 Gaulle, Charles (André Joseph Marie) de 28, 29, 30, 32 Gay, Emilio 31 Gentile, Giovanni 253 Gentiloni Silveri, Umberto 7 Germinario, Francesco 68, 270 Giannettini, Guido 31, 35, 37 Giannuli, Aldo 66 Giocasta 231 Giovagnoli, Agostino 140, 143, 148, 156, 159, 160, 162, 163, 164, 165, 166, 168 Giovana, Mario 29 Giovanni Paolo II (Wojtyła Karol Józef, papa) 156 Giovanni XXIII (Roncalli Angelo Giuseppe, papa) 142, 154, 284 Giove 255 Giustolisi, Franco 86 Gleirscher, Paul 178, 194 Gobetti, Piero 252 Gotor, Miguel 110, 143, 144, 145, 146, 147, 148, 149, 150, 152, 153, 154, 155, 156, 160, 161, 162, 165, 166, 167, 169, 170, 171, 172, 173 Gozzini, Mario (legge Gozzini) 212, 215 Gramsci, Antonio 6, 68, 106, 122, 128, 132, 249, 250, 252, 253, 256, 257, 259, 261, 262, 263, 264, 265, 271, 285 Grandi, Aldo 16, 65, 103 Grasso, Paolo 281 Graziani, Clemente 32, 33, 38 Graziano, Luigi 46 Grazioli, Franco 30 Grispigni, Marco 56, 72, 103 Guagliardo, Vincenzo 167 Gualtieri, Roberto 107, 271 Guevara, Ernesto de la Serna detto El Che 12, 188, 192 Guiso, Giannino 169 Guiso, Nicola 158 Guizzardi, Valerio 103

H Habermas, Jürgen 264 Heidegger, Martin 264 Heim, Bruno Bernard 157 Heimbürger, Minna 178, 194 Henissart, Paul 28 Hirsch, Herbert 42 Hobbes, Thomas 41 Höbel, Alexander 103 Ho Chi Minh 12, 192 Horkheimer, Max 83 Husserl, Georg 161 I Ignazi, Piero 61, 62, 71, 271 Ilari, Virgilio 35, 36 Imperatore, Luigi M. 39 Ingrao, Pietro 134, 135 Ingravalle, Francesco 92 J Jünger, Enrst 264 L Labella, Maria 142 Lai, Benny 152 La Malfa, Ugo 133 Lama, Luciano 229 Lanaro, Silvio 102 La Pira, Giorgio 156 Latouche, Serge 264 Lazzati, Giuseppe 157, 168, 176 Lenin, Nikolaj (pseudonimo di Vladimir Ilic Uianov) 82, 85, 264 Leone, Giovanni 162, 168 Le Pen, Jean Marie 28 Levi, Virgilio 120, 150, 151, 152 Lombardo-Radice, Marco 52 Longanesi, Leo 26 Longo, Luigi 103, 123, 132, 133 Lo Re, Calogero Carlo 86, 95 Losito, Gianni 43 Lumley, Robert 103 Lupo, Salvatore 19, 102 Lussana, Fiamma 141 Luzzatto, Sergio 181, 194 M Macchi, Pasquale 144, 146, 147, 153,

indice dei nomi

162, 163, 164, 165, 166, 168, 169, 170, 171, 173, 174, 175 Mafai, Miriam 108 Magliaro, Massimo 38 Magno, Bruno 283 Magrassi, Mariano 159 Maino, Cesare 167 Malagodi, Giovanni 66, 71 Malaparte, Curzio 25 Malvano, Laura 181, 194 Manconi, Luigi 11, 14, 43, 49, 52, 53, 76, 80, 90, 190, 194 Mantelli, Brunello 119 Mantovani, Nadia 167 Manzari, Giuseppe 170 Manzini, Raimondo 153 Mao, Tse-Tung 12, 95, 130 Marchetti, Viktor 169 Marconi, Gabriele 221, 223 Marcuse, Herbert 83, 84, 92 Marini Recchia, Vincenzo 149, 155, 158, 171, 174 Marletti, Carlo 190, 194 Marquard, Odo 289 Marramao, Giacomo 141 Martelli, Claudio 173 Martinelli, Roberto 108 Marx, Karl 79, 84, 132, 212, 263, 268 Marzatico, Franco 178, 194 Massi, Ernesto 22, 23, 26, 31 Matteotti, Giacomo 250 Maurras, Charles 268 Mauss, Marcel 264 Mazzocchi, Silvana 209 Mazzola, Franco 158 Medea 227, 231 Melloni, Alberto 5, 139, 140, 152, 284 Mennini, Antonello 160, 161, 166, 168, 169, 170, 173, 174, 176 Menozzi, Daniele 140 Merini, Alda 247 Messalla, Flavio 35 Michelini, Arturo 23, 26, 29, 62 Mieli, Paolo 46 Mignemi, Adolfo 182, 194 Milana, Fabio 90 Mimma, R. 71 Mindszenty, Joseph 152 Minerva 255 Mita, Massimiliano 103 Moltmann, Jürgen 159 Mongillo, Dalmazio 159

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Monina, Giancarlo 41, 64, 103 Monni, Giuseppe 159 Montanelli, Indro 26 Monti, Adriano 39 Moore, Barrington jr. 42 Moranino, Francesco 108 Moresco, Antonio 226 Moretti, Mario 147, 149, 153, 160, 165, 170, 173, 175, 204, 206 Moro, Agnese 173, 246 Moro, Aldo 5, 6, 8, 16, 46, 48, 51, 89, 101, 102, 110, 119, 124, 133, 134, 135, 136, 139, 142, 143, 144, 145, 146, 147, 148, 149, 150, 151, 152, 153, 154, 155, 156, 157, 158, 159, 160, 161, 162, 163, 164, 165, 166, 167, 168, 169, 170, 171, 172, 173, 174, 175, 176, 191, 206, 211, 222, 228, 229, 230, 231, 232, 234, 235, 237, 243, 246, 284 Moro, Alfredo Carlo 155 Moro, Giovanni 6, 48, 101, 102, 146, 161, 237, 284 Moroni, Primo 81, 89 Morucci, Valerio 10, 53, 173, 202 Mosca,Carla 204, 206 Muscetta, Carlo 124 Mussolini, Benito 21, 26, 92, 182, 183, 254, 270, 285 N Nacci, Michela 6, 249, 270, 271, 284 Napolitano, Giorgio 133, 136, 229, 247 Neglie, Pietro 22 Negri, Alberto 282 Negri, Antonio detto Toni 44, 81, 85, 116 Nieburg, Harold Leonard 64 Nieri 279 Nietzsche, Friedrich Wilhelm 84, 265 Nixon, Richard 23, 68 Novelli, Edoardo 5, 177, 183, 187, 190, 194, 284 O Oreste 231 Ortoleva, Peppino 64 Orwell, George 93 Ottaviano, Franco 63 Ousset, Jean 28

300

indice dei nomi

P Pace, Lanfranco 16, 165 Pacelli, Francesco 154 Pajetta, Giancarlo 129 Pannella, Marco 124 Pansa, Giampaolo 120, 133 Panvini, Guido 5, 7, 61, 73, 74, 76, 188, 192, 194, 285 Paolin, Demetrio 6, 219, 220, 222, 223, 226, 235, 285 Paolo VI (Montini Giovanni Battista Enrico Antonio Maria, papa) 5, 139, 140, 142, 143, 144, 146, 147, 148, 149, 152, 153, 154, 155, 158, 160, 161, 162, 163, 164, 165, 166, 168, 169, 170, 173, 174, 175, 176 Pardi, Francesco detto Pancho 15 Parisi, Pio 159 Parlato, Giuseppe 21, 22, 26 Pasolini, Pier Paolo 83, 144, 268, 271 Pasquino, Gianfranco 58, 195, 271 Passomonti, Settimio 54 Passerini, Luisa 186, 187, 194, 213 Pastore, Pierfranco 147 Pavan, Pietro 140 Pavone, Claudio 129, 271 Pazzaglia, Riccardo 168 Pecchioli, Ugo 109, 110, 112, 113, 115, 116, 117, 118, 119, 122, 123 Peci, Patrizio 80 Peci, Roberto 191 Pecorelli, Carmine detto Mino 159 Pedini, Mario 161, 166 Pella, Giuseppe 26 Pellegrino, Giovanni 8, 26, 143, 168 Pellicani, Luciano 46 Pennetier, Claude 200, 201 Pergolizzi, Paolo 108 Peroncini, Gianfranco 34 Perry, David C. 42 Petacci, Claretta 182, 253 Philopat, Marco 221 Piccoli, Flaminio 161 Pietrangeli, Paolo 184 Pignedoli, Sergio 146, 153, 165, 172 Pinelli, Giuseppe 66 Piovano, Gianfranco 161 Piovene, Guido 29 Pio XII (Pacelli Eugenio Maria Giuseppe Giovanni, papa) 152, 153, 154 Piperno, Franco 17, 81, 89

Piretti, Maria Serena 41, 271 Pisanu, Giuseppe detto Beppe 157 Pisetta, Enrico 66, 96 Poletti, Ugo 146, 149, 150, 151, 152, 153, 157, 161, 166, 170, 175 Pollack, Michael 207 Pollio, Alberto 37, 62 Pons, Silvio 107 Pozzi, Francesca 81 Prandi, Mario 164 Principe, Pietro 161 Prisco, Mario 31 Prodi, Paolo 168 Prodi, Romano 156 Properzi, Stefano 19 Proudhon, Pierre Joseph 46 Pudal, Bernard 200, 201 Q Quaranta, Giancarlo 146 R Rallo, Michele 29 Ramelli, Sergio 13, 75 Rana, Nicola 157 Rao, Nicola 37, 38, 95, 98 Rapini, Andrea 65, 73 Rapoport, David C. 43, 65 Rastello, Luca 220, 225, 226, 227 Rauti, Pino 31, 35, 37, 38 Reale, Oronzo (legge Reale) 111 Re, Giovan Battista 86, 95, 161 Reiter, Fulvio (pseudonimo) 33, 38, 39 Reiter, Herbert 56 Revelli, Marco 63, 119, 271 Ridolfi, Maurizio 73, 271 Riva, Clemente (Vescovo) 159 Robin Hood 128 Rocca, Enzo (Colonnello) 37 Rodotà, Stefano 229 Roggero, Gigi 81 Romualdi, Adriano 31 Romualdi, Pino 25, 35, 36 Rosati, Domenico 159 Rossa, Guido 115, 124, 135, 246 Rossanda, Rossana 104, 134, 135, 204, 206 Rossano, Pietro 168 Rossa, Sabina 246 Rosselli, Carlo 250

indice dei nomi

Rosselli, Franco 250 Rossetti, Marcello 161 Rossi-Doria, Manlio 132 Rossi, Federica 5, 197, 285 Rossi, Gianni Scipione 5, 21, 23, 27, 38, 67, 285 Rossi, Maurizio 55, 186, 194 Rossi, Walter 52, 54 Rousso, Henry 198 Rovasenda, Enrico da 168 Ruggiero, Gennaro 29 Ruggiero, Vincenzo 42 Russo, Antonella 181, 195 S Sabbatucci, Giovanni 48, 61, 72, 286 Saccucci, Sandro 13 Salaris, Claudia 195 Salsano, Alfredo 271 Salvadori, Massimo L. 271 Sani, Roberto 19 Sanlorenzo, Dino 119 Sartori, Giacomo 223 Sartre, Jean-Paul 88, 199 Satta, Vladimiro 144, 161, 164, 172, 176 Saviano, Roberto 219 Scalfari, Eugenio 134, 173, 229 Scatamacchia, Rosanna 270 Scatena, Silvia 140 Scelba, Mario 128, 129, 183 Schaerf, Carlo 48 Schelling, Thomas C. 67 Schmitt, Karl 41, 264 Schnur, Roman 67 Sciascia, Leonardo 119, 124, 147, 151, 153, 228, 230, 231 Scoccimarro, Mauro 132 Scoppola, Pietro 168, 244 Sebastiano (Santo) 182 Secchia, Pietro 108, 131, 132, 133 Segio, Sergio 9, 10, 204, 206, 211, 213 Sereni, Emilio 132 Serrano Suñer, Ramon 30 Sestieri, Claudio 8 Setta, Sandro 271 Sharon, Flatto 172 Silj, Alessandro 48, 65 Silvestrini, Achille 157 Silvi, Roberto 207, 208 Simmel, George 264

301

Sinibaldi, Marino 52 Siri, Giuseppe 145, 146 Sironi, Mario 181 Slipij, Josyp 152 Socrate, Francesca 69 Sofri, Adriano 18, 49, 50, 82 Sombart, Werner 84 Sommier, Isabelle 205 Sontag, Susan 182, 195 Sorel, Georges 41, 268 Sossi, Mario 109, 143, 144, 146, 153, 167, 172, 191 Spadolini, Giovanni 168 Spagnoli, Ugo 119 Spengler, Oswald 84 Sperandini, Serenella 19 Spiezie, Annalisa 173 Spinato, Giampaolo 228, 229, 230 Stainer, Albe 183 Stalin, Iosif Vissarionovic 131, 254, 272 Statera, Gianni 43 Sturani, Enrico 181, 195 T Tackett, Timothy 216 Tambroni, Fernando 26, 47 Tarchi, Marco 19, 29, 262, 263, 264, 272 Tarrow, Sidney 42, 43, 46, 47, 48, 57, 58, 64, 103 Tassani, Giovanni 28 Tassinari, Stefano 207 Tatò, Antonio 105, 107, 124 Tavassi La Greca, Antonella 224 Tavella, Paola 212 Taviani, Ermanno 5, 101, 103, 107, 129, 137, 285 Taviani, Paolo Emilio 145 Tedeschi, Mario 69, 93 Telese, Luca 13, 17, 80 Terracini, Umberto 132 Tessandori, Vincenzo 76 Thiriart, Jean 29 Tilly, Charles 42, 58 Tixier-Vignancour, Jean Louis 30 Togliatti, Palmiro 25, 127, 128, 129, 130, 131, 132, 134, 254, 286 Tolomelli, Marica 7, 41 Torchia, Giorgio 35 Tortorella, Aldo 133

302

indice dei nomi

Totaro, Pierluigi 145, 151 Tozzi, Federigo 222 Tranfaglia, Nicola 21 Traverso, Enzo 198 Troilo, Ettore 128, 129 Tronti, Mario 84, 90 Trotta, Giuseppe 90 Turoldo, Davide Maria (Giuseppe) 159, 168 V Valiani, Leo 251 Valle, Anna Chiara 141, 142, 144, 145, 146, 148, 152, 153, 157, 159, 160, 161, 165, 167, 172, 173 Vannini, Ilaria 289 Vassalli, Filippo 155 Vassalli, Giuliano 154, 167 Vassallo, Piero 38 Vasta, Giorgio 187, 194, 231 Vecchio, Concetto 192, 195 Veneziani, Marcello 74, 272 Veneziani, Massimo 74 Ventrone, Angelo 5, 7, 41, 53, 54, 64, 73, 79, 93, 183, 195, 286 Ventura, Angelo 76 Veronese, Vittorino 168 Viale, Guido 184, 195 Vidotto, Vittorio 5, 41, 48, 50, 61, 72, 286 Vignali, Adriano 141 Villari, Anna 181, 195 Villot, Jean-Marie 146 Vivaldo, Lorenzo 168 Volpini, Valerio 148, 152, 154, 155 W Waldheim, Kurt 166, 167 Weinberg, Julius 65 Wolff, Karl 154, 155 Z Zaccagnini, Benigno 157 Zama, Antonio 168 Zaslavsky, Victor 272 Zavoli, Sergio 8, 96 Zef 277 Zevi, Valeria 70 Zizola, Giancarlo 149, 150 Zucca, Enrico 171, 176

Zunino, Pier Giorgio 272 Zupo, Giuseppe 149, 155, 158, 159, 160, 161, 169, 170, 171, 174