Uomo
 9788840020815, 8840020810

Citation preview

Luca Grecchi

UOMO

Q U E S T IO N I DI F IL O S O F IA ANTICA

Q

Collana diretta da Marcello Zanatta

Comitato scientifico: • Micfiael Basti!

(Université de Bourgogne) • Enrico Berti

(Accademia dei Lincei) • Jean Baptiste Gourinat

(CNRS, Sorbonne, Paris) • Maurizio Migliori

(Università di Macerata) • Cristina Rossitto

(Università di Padova)

EDIZIONI UNICOPLI

Q uesto volum e raccoglie oltre d ieci seco li di riflessioni d el p en siero antico sull’uomo. Trattandosi di un tem a vastissim o, i riferim enti saranno non solo al p en siero filosofico, ma anche, s e b b e n e in misura m inore, al p en siero scientifico e letterario. L’uomo, in siem e alla natura, rapp resenta uno d ei d ue tem i portanti d ella cultura antica. La natura costitu isce lo sfondo all’interno d el qu ale tutto, com preso l’uomo, p ren d e forma. L’uomo tuttavia, e sse n d o il solo e n te im m an en te in grado di attribuire sen so e valore alla realtà, nonch é di porsi in rapporto ad e s s a con risp etto e cura, è sem p re stato consid erato un e n te fondam entale. In q u esta com p leta ricostruzione della cultura um anistica antica assum eranno grande im portanza anche i contenuti etici e politici, ch e m ostreranno, insiem e alla loro g en esi, la loro p eren n e attualità.

Luca Grecchi (Università di Milano Bicocca) è autore di diversi libri sulla antica filosofia greca. In q u esta collana ha p u bblicato il volum e Natura (2018). Fra i suoi testi, A partire dai filosofi antichi (2009, con Enrico Berti), La filosofia della storia nella Grecia classica (2010) e Gli stranieri nella Grecia classica (2011). È curatore di tre im portanti volumi d ed icati al p en siero aristotelico: Sistema e sistematicità in Aristotele (2016), immanenza e trascendenza in Aristotele (2017), Teoria e prassi in Aristotele (2018).

Q U E S T IO N I DI F IL O S O F IA ANTICA Collana diretta da Marcello Zanatta La collana raccoglie una serie di volumi, redatti da specialisti di storia della filosofia antica, ciascuno dei quali presenta uno dei concetti ba­ silari del pensiero filosofico greco e latino. Di ognuno si indica lo sp es­ sore teorico rivestito nei principali autori e nelle fondamentali scuole e indirizzi di pensiero. Si delinea così in maniera sobria e al tempo stesso puntale e rigorosa la storia del concetto e la relativa problem a­ tica, attraverso un continuo riferimento ai testi e alla più accreditata bibliografia critica.

ISBN-978-88-400-2081 -5

€ 35,00

9 788840

020815

I prossimi temi: Autosufficienza Bello Causa Dialettica Differenza Divenire Essere Felicità Giustizia Il divino Infinito Luogo Numero Opposizione Tempo Uno e molti Vero Virtù Vuoto

Luca Grecchi

UOMO

EDIZIONI UNICOPLI

In copertina: Diogene Cinico di Jules Bastien-Lepage (1873) ISBN: 9788840020815 Prima edizione: settembre 2019 Copyright © 2019 by Edizioni Unicopli, via Andreoli, 20 - 20158 Milano - tei. 02/42299666 http://www.edizioniunicopli.it

INDICE

.

9

Introduzione

21

I. I MITI E L’ORFISMO

21 28

1. I miti 2. L’Orfismo

33

IL EPICI, LIRICI, TRAGICI

33 33

l. 2. 3456. 7-

60 70

77 80 86

L’epica Omero Esiodo La lirica I Sette sapienti Solone Il teatro

103

IH. MEDICI, STORICI, FISICI

103 112 122

1. La medicina 2. La storia 3. I fisici presocratici

Indice

6

p. 147 IV. SOFISTI, RETORI, SOCRATE E LE SCUOLE SOCRATICHE 147 148 173 183

1. 2. 3. 4.

195

V. I CLASSICI. PLATONE ED ARISTOTELE

195 223

1. Platone 2. Aristotele

255

VI. ELLENISMO. SCETTICI, EPICUREI, STOICI

255 256 272 289

1. 2. 3. 4.

Note generali La Sofistica e la Retorica Socrate Le Scuole socratiche

Ellenismo Scetticismo Epicureismo Stoicismo

305 VI. LA CULTURA LATINA 305 306 311 319 330 339

1. 2. 3. 4. 56.

Note generali Lucrezio Cicerone Seneca Epitteto Marco Aurelio

345 VII. LA CULTURA POSTELLENISTICA 345 346 359 367

1. 2. 3. 4.

Note generali Filone di Alessandria Galeno Plotino (e il Neoplatonismo)

399

Bibliografia

477

Indice dei nomi

A mia figlia Benedetta

«Bisogna difendere nei limiti delle proprie forze coloro che patiscono ingiustizia, e non lasciar correre: giacché un tale at­ teggiamento è giusto e coraggioso, l’atteggiamento contrario è ingiusto e vile» (Democrito, B261).

INTRODUZIONE

Perché un libro sull’uomo nella cultura antica? Questo libro sull’uomo si pone in stretta relazione al precedente volume sulla natura nella presente collana1. La natura infatti costi­ tuisce l’intero all’interno del quale tutto, compreso l’uomo, prende forma2. L’uomo tuttavia, essendo il solo ente in grado di pensare l’intero, nonché di porsi in rapporto ad esso con rispetto e cura, fu sin da subito ritenuto dai Greci un ente speciale, cui dunque dedi­ care studi specifici. Rispetto alla natura, tematica su cui mancavano ricostruzioni complete del pensiero antico, non altrettanto si può dire per l’uo­ mo. Su questa tematica infatti, anche in italiano, sono presenti, per citare solo i principali, quanto meno i volumi di Werner Jaeger3, Rodolfo Mondolfo4 e Max Pohlenz5. Questi testi splendidi, ancora ampiamente condivisibili nelle loro linee generali, risultano tutta­ via datati, risalendo le loro edizioni originarie mediamente ad oltre settanta anni fa. Per questo motivo, pur senza pretesa di avvicinar­ si a queste opere magistrali, speriamo che il presente libro possa assumere una qualche utilità, oltre che per la complessiva inter­ pretazione offerta, anche come testo di aggiornamento scientifico e bibliografico. L’utilità principale di lavori come il presente consiste tuttavia non tanto nel descrivere tutti i fili, anche recenti, che compongono

1 Grecchi 2018 a. 2 Scrive correttamente Sassi 1988 (p. 16) che «nella riflessione scientifica greca può risultare particolarmente difficile distinguere fra studio dell’uomo e studio della natura». 3Jaeger 2004. 4Mondolfo 2012. 5 Pohlenz 2006.

10

Introduzione

la matassa enorme ed intricata degli oltre mille anni di pensiero antico con relativi commenti. Essa consiste soprattutto nel cercare, sul piano storico e teoretico, di tirare i fili giusti affinché poi la ma­ tassa, lentamente, si dipani. Per questo motivo, come per il volume Natura, può essere im­ portante esplicitare sin da subito l’idea di fondo intorno alla quale verrà ad assumere forma l’intera trattazione. Questa idea di fondo, come emergerà dalla analisi dei principali autori, è che il pensie­ ro antico tentò sempre di comprendere l’uomo, pur attraverso la molteplicità delle sue manifestazioni, in modo unitario. Esso cioè ne ricercò in maniera costante - anche tramite la problematizza­ zione dialettica dei principali contenuti - l’essenza, la natura, la definizione, ossia quei caratteri costitutivi che lo rendono compiu­ tamente tale6. Si tratta di una tendenza, quella della ricerca della definizione, che il nostro tempo, attratto dal fascino del diveniente e del molteplice più che dalla chiarezza dello stabile e dell’unitario, ha ormai quasi abbandonato. Per il pensiero antico, invece, solo comprendendo l’uomo per ciò che è, nella sua essenza, sarebbe stato possibile comprendere il migliore modo in cui vivere, all’in­ terno di una riflessione che fu sempre insieme teorica e pratica7. In generale, solo avendo chiara la forma ideale dell’uomo, sarebbe stato possibile porre in essere le migliori modalità sociali in grado di condurre alla migliore realizzazione dell’uomo. La conclusione cui giunse di massima il pensiero antico fu che l’uomo possiede una natura razionale e morale, nel significato che nelle prossime pagine espliciteremo. Ciò non significa, come detto, che non ci siano stati autori o scuole che abbiano negato la possibilità di definire l’uomo, o che lo abbiano definito in maniera differente rispetto a quella qui in­ dicata. Pensiamo soprattutto, nel primo caso, ad una parte della Sofistica ed allo Scetticismo; nel secondo caso alla poesia lirica e ad un’altra parte della Sofistica. Era del resto naturale che fosse così. Ricercare la definizione dell’uomo, come di ogni altro ente, in base ai dati disponibili, è come cercare di comporre un puzzle senza avere davanti la figura di riferimento, ossia una operazione dall’esito non scontato.

6 Come scrisse Pohlenz 2006 (pp. 571-572), il fine degli uomini «non viene stabilito dal di fuori, da parte di una potenza superiore, ma è fissato dalla loro stessa natura di uomini». 7Rinviamo, in merito, a Grecchi 2005 a, con introduzione di Mario Vegetti.

Introduzione

li

Ferma restando questa importante dialettizzazione, la tendenza a definire l’uomo come ente razionale e morale, ossia come ente che per realizzarsi deve ricercare la verità ed il bene, rimase nei secoli prevalente, e fu variamente articolata. Definire l’uomo fu in­ fatti una operazione costitutiva per la cultura greca, poiché proprio conoscendo l’uomo nella sua essenza si sarebbero potute porre in atto pienamente le strutture necessarie alla realizzazione delle sue potenzialità. Per questo il tema della definizione dell’uomo man­ tenne nel pensiero greco una costante centralità, anche quando esso fu lasciato implicito, problematizzato o volutamente negato. I Greci ebbero sempre chiaro, come scrisse correttamente Gio­ vanni Reale, che «non è l’essenza dell’uomo che muta nei diversi tempi e nelle diverse zone, ma i modi in cui essa si esplica»8. Con questa tesi concordava anche Werner Jaeger, per il quale «l’ori­ ginalità dei Greci consiste nella loro scoperta dell’uomo», ossia nella «coscienza delle leggi universali della natura umana»9. Per lo studioso tedesco, «il principio spirituale dei Greci non è l’indi­ vidualismo, bensì l’umanesimo»10, termine che indica la centrale «educazione dell’uomo alla sua vera forma, alla vera umanità»11. Infatti «non si dà cultura senza una immagine, presente allo spiri­ to, dell’uomo quale deve essere»12. Sostenere che la natura dell’uomo è razionale e morale, signi­ fica come detto sostenere che l’uomo realizza la propria essenza ricercando la verità ed il bene, i quali costituiscono non a caso i due concetti più importanti della filosofia greca classica13. Per i Greci la formazione educativa conduce l’uomo fuori dalla propria condizio­ ne animale originaria, orientandolo culturalmente verso la propria condizione compiuta. Si ripete spesso, sulla base delle famose affermazioni di Platone ed Aristotele, che la filosofia nasce dalla meraviglia (thauma)14. Con questo termine è tuttavia da intendersi, etimologicamente, quella condizione di stupore ed insieme angoscia per sottrarsi alla quale

8Reale 1999, p. 43. 9Jaeger 2004, p. 15. 10Id., p. 15. 11 Id., p. 15. 12 Id., p. 27. 13Ci permettiamo di rinviare, in merito, a Vigna-Grecchi 2011, con introdu­ zione di Enrico Berti e postfazione di Costanzo Preve. 14 Su questa tematica - ma ancor più, come recita il sottotitolo, per una trattazione pregevole di tutte le grandi questioni della filosofia antica - rinvia­ mo a Berti 2007, anche per le relative citazioni.

12

Introduzione

l’uomo, sin dagli inizi, ha cercato di orientarsi nel mondo mediante la conoscenza e l’azione. La condizione di thauma costitusce infat­ ti la condizione “originaria” dell’uomo, che non coincide tuttavia con la sua condizione “naturale” nel senso aristotelico del termine, ovvero con la compiuta realizzazione della sua natura, la quale co­ stituisce appunto la sua condizione “finale”, consistente nella rea­ lizzazione del suo fine. L’uomo, in effetti, non è felice in uno stato di thauma, per cui ricerca lo stato contrario ad esso, che è quello della liberazione dal thauma15. Questo stato può realizzarsi soltan­ to mediante la conoscenza della verità e la realizzazione del bene. Questo libro indicherà, passo dopo passo, come i Greci siano giunti a questa concezione, senza omettere di trattare i vari punti critici che si sono nei secoli susseguiti. Nonostante, infatti, la cul­ tura antica abbia sempre principalmente pensato l’unità del genere umano16, sono emerse in essa anche notevoli riflessioni sulle diffe­ renze presenti nel medesimo. Su tali differenze hanno insistito in particolare, negli ultimi decenni, alcuni studiosi francesi (Detienne, Vernant, Vidal Naquet)17, nonché pensatori italiani come Mario Vegetti18. All’interno dell’unitario genere umano, il pensiero greco si è in effetti soffermato anche sulla distinzione fra uomo e donna19, greco e barbaro20, libero e schiavo21, giovane e vecchio22, per indi­ care solo le principali. Più che queste partizioni interne al genere umano, di cui pure tratteremo, ci è parso tuttavia maggiormente rilevante, nel pensiero greco, il confronto con ciò che all’uomo ri­

15 Se, come scrive Severino 2018 (p. 149), «la filosofia conduce nello stato contrario a thauma, e se è la filosofia a rendere l’uomo felice, allora thauma significa innanzitutto l’assenza della felicità, l’assenza che gli uomini sperimen­ tano da quando nascono, perché sin da allora imparano a conoscere il dolore e a presentire la morte». 16Tale tesi è stata ben argomentata da Baldry 1983. 17 Detienne 2008; Vernant 1978, 1981, 1993, 2000, 2009; Vidal Naquet 1988. 18 Esempi tipici sono Vegetti 1979 e 1983, recentemente riediti dalla casa editrice Petite Plaisance. 19 Emblematiche sono in merito le raccolte Campese-Gastaldi 1977 e Campese-Manuli-Sissa 1983. 20 Ci permettiamo in proposito di rinviare a Grecchi 2011 c, oltre che a Bearzot 2012 e Seveso 2018. 21 Sul tema della schiavitù greca rinviamo fra gli altri, per due visioni diffe­ renti, a Garlan 1984 e Meiksins Wood 1994. Per un sintetico punto della situa­ zione, ci permettiamo di rinviare a Grecchi 2010 b, pp. 13-54. 22 Sul tema della vecchiaia nella cultura antica, rimandamo all’ottima rac­ colta Mattioli 1995, a Brandt 2002, ed al più sintetico, ma molto accurato, Se­ veso 2013 ed alla relativa bibliografìa.

Introduzione

13

sultava esterno. Ci riferiamo in merito a quei due limiti estremi della condizione umana costituiti da un lato dalla condizione ani­ male, da cui distanziarsi23, e dall’altro dalla condizione divina, a cui avvicinarsi24. La cultura greca, in particolare quella filosofica, cercò inoltre sempre di rapportarsi all’intero in maniera onto-assiologica, ossia tentando di attribuire un senso ed un valore alla realtà, senza li­ mitarsi a descriverla, ma appunto valutandola e, ove necessario, modificandola. Per questo l’approccio della cultura greca si può definire, in certo senso, di «antropologia filosofica»25, nonostante come noto l’antropologia come scienza non si fosse ancora costitu­ ita nella antica Grecia26. L’approccio “antropologico-filosofico” di matrice greca risulta ancora oggi importante se si considera che, come scriveva Martin Heidegger, «nessun’epoca ha avuto, come la attuale, nozioni così numerose e svariate sull’uomo [...], ma nessun’epoca ha saputo, meno della nostra, che cosa sia l’uomo»27. In effetti, come ha af­ fermato anche Battista Mondin, «l’antropologia filosofica è impor­ tante perché dall’idea che ci si fa dell’uomo dipende tutto il resto [...]. Le grandi battaglie pedagogiche, etiche, politiche, sociali [...] si combattono sul fronte della concezione dell’uomo, del suo fine, della sua dignità, del suo valore»28. Un sapere unitario insieme umanistico e filosofico - non meramente antropologico e scientifi­ co - è necessario in quanto, come scriveva Max Scheler, «le scienze

23 Celebre in merito l’affermazione di Aristotele, per cui l’uomo non è «né bestia né dio» (Politica, 1253 a 29). 24 Come scrisse giustamente Reale 2004 (voi. IX, p. 341), «il concetto filo­ sofico di uomo si determina: 1) considerando l’uomo in sé e per sé; 2) raffron­ tandolo con ciò che è a lui superiore; 3) differenziandolo da ciò che gli è inferio­ re, ossia dall’animale, e quindi 4) stabilendo quale posto occupi nell’universo». 25 Basti 2008 (p. 62) ha parlato in merito giustamente di «antropologia filosofica come studio trascendentale dell’ente uomo». Sulla antropologia filo­ sofica, buoni testi di riferimento, caratterizzati da approcci diversi ma in buona parte complementari, sono Mondin 1989, Coreth 2004, Vanni Rovighi 2007 e Campodonico 2013. Di Donato 2006 (p. 25) ha affermato comunque correttamente che «la nozione di antropologia è declinata in sensi tra loro abbastanza lontani entro le diverse culture europee e degli Stati Uniti». 26 Ottimo, in merito al tema della antropologia nella Grecia antica, Gernet 1983. Come scrisse tuttavia Detienne 2007 (p. 12), «che il termine antropolo­ gia derivi dal greco non significa che nell’antichità esistesse una scienza o un discorso, un logos sull’essere umano in generale, tenuto da antropologi». 27 Heidegger 1992, pp. 275-276. 28 Mondin 2006, p. 16.

14

Introduzione

sempre più specializzate che si occupano dell’uomo, anziché chia­ rirla, ci nascondono sempre più la sua essenza»29. Significativo è che l’arte classica, la quale ha costituito per secoli un modello, si sia basata a lungo sul famoso Kanon di Policleto, trattato composto nel V secolo proprio per descrivere le corrette proporzioni dell’uomo. Il Kanon, sul piano artistico, fu indicativo di quella rigorosa ricerca della giusta misura come modello natura­ le di riferimento, che si trattava di porre in atto in maniera compiu­ ta, nell’arte come nella vita30. Da notare in merito che l’arte classica non si limitò a rappresentare la perfezione esteriore del corpo, ma rappresentò anche la perfezione interiore dell’anima, ossia quella armonia psicofisica che costituì il fine ultimo dell’opera culturale greca.

L ’uomo nella cultura antica Come si è argomentato nel volume Natura, l’uomo ha pressoché sempre occupato un ruolo centrale nella cultura antica. La natura, infatti, ha sovente costituito lo sfondo, nel senso della struttura di riferimento entro cui si è svolta la scena culturale umana. L’uomo ha tuttavia sempre occupato il centro della scena, essendo egli l’en­ te filosofico per eccellenza, ossia il solo ente in grado di compren­ dere il senso ed il valore della realtà. Per questo motivo Yanthropos è spesso stato considerato dal pensiero antico come il solo fonda­ mento onto-assiologico immanente della verità dell’essere31. Senza comprendere l’uomo nella sua essenza, dunque, non si poteva, per il pensiero antico, comprendere compiutamente l’essere. Questo il motivo principale per cui, come mostreremo, l’uomo costituì il ful­ cro di tale pensiero, oltre che il suo tema iniziale32.

29 Scheler 1970, p. 157. Scheler fu comunque anche sostenitore della tesi per cui «l’uomo è un ente così vasto, vario e poliforme che ogni definizione si dimostra troppo limitata. I suoi aspetti sono troppo numerosi» (Id., p. 98). 30 Sulla figura di Policleto, è possibile rinviare alla breve sintesi di Bianchi Bandinelli 1990. Sull’arte classica, una visione complessiva della quale agevo­ la sicuramente la comprensione dell’uomo greco, rimandiamo a Bianchi Bandinelli-Paribeni 2006. Sulla estetica antica, un buon riferimento è Lombardo 2014. 31 Rinviamo in merito, per una giustificazione teoretica di questa tesi, a Grecchi 2002, 2005 b e 2017 b. 32 Nei poemi omerici, come abbiamo mostrato in Grecchi 2018 a (pp. 3444), la natura venne considerata principalmente come sfondo ambientale e

Introduzione

15

In un volume del 2007, intitolato L ’umanesimo della antica f i­ losofia greca, abbiamo mostrato come non la natura, non il divino, non l’essere abbiano costituito il tema cardine della Grecità33. Ri­ prenderemo qui, in maniera molto sintetica, alcune di quelle con­ siderazioni, perché capire che si sta trattando ora del contenuto centrale della cultura greca, non è indifferente per la comprensio­ ne della medesima, che abbiamo appunto definito «umanistica»34. Procediamo comunque con ordine. Il principale argomento a supporto della tesi della centralità dell’uomo nel pensiero greco, consiste in un attento esame dei testi e delle tematiche in esso presenti. Brevemente, si può ricordare che la maggior parte dei pensatori greci, dai poeti ai tragici, dai medici agli storici, dai sofisti ai retori, dai filosofi ad alcuni fisici, si occupa­ rono soprattutto della vita dell’uomo all’interno della totalità natu­ rale e sociale. La testimonianza più significativa in merito rimane probabilmente quella di Werner Jaeger, per il quale «la posizione dell’uomo nell’universo è il tema centrale della filosofia greca»35; «sin dalle prime tracce che abbiamo dei Greci, troviamo l’uomo al centro del loro pensiero. Gli dèi antropomorfi, il predominio assoluto del problema della figura umana nella plastica greca e nella pittura stessa; il procedere conseguente della filosofia dal problema del cosmo a quello dell’uomo, nel quale culmina con Socrate, Platone ed Aristotele; la poesia, il cui tema inesauribile, da Omero in poi e per tutti i secoli seguenti, è l’uomo in tutta la estensione del termine; infine lo Stato greco, di cui comprende la natura solo chi lo intenda quale plasmatore dell’uomo e di tutta la sua esistenza: tutti questi sono raggi di un medesimo lume. Sono le manifestazioni di un sentimento umanistico della vita che non trova ulteriori derivazioni o spiegazioni, e che compenetra ogni creazione dello spirito greco. I Greci furono così il popolo antropoplasta per eccellenza»36.

come fonte di metafore per rappresentare le azioni umane. Gli stessi dei furono descritti, come noto, in maniera antropomorfica. 33 Grecchi 2007, pp. 9-35. 34 «Umanesimo», come noto, non è termine di conio greco. In merito, tut­ tavia, riteniamo condivisibile la considerazione di Dario Del Corno, per il quale «in linea di massima si può ritenere che, in qualsivoglia cultura, la mancanza di vocaboli specifici per una nozione non comporta necessariamente la mancanza della nozione stessa, 0 almeno di un ambito di idee ad essa affine» (in Uglione 1997, p. 95)35Jaeger 2004, p. 114. 36 Id., p. 114.

i6

Introduzione

È parere assai diffuso che la forma più compiuta di umanesimo si ebbe, in Grecia, con la riflessione di Socrate, Platone ed Aristo­ tele37. Tutto il pensiero greco antecedente però, con le sue diverse trattazioni, ha costituito una lenta marcia di avvicinamento verso questo umanesimo. Non deve distogliere da questa consapevolezza la discreta presenza di riflessioni sulla natura, sul divino e sull’es­ sere nelle opere rimaste. Queste riflessioni, infatti, non furono né quantitativamente né qualitativamente maggioritarie afl’interno del pensiero greco, e sono comunque spesso umanisticamente in­ terpretabili. È necessario tuttavia soffermarsi un poco su questo tema, in quanto tuttora le principali interpretazioni del pensiero greco, se si escludono quelle poc’anzi citate di Jaeger, Pohlenz, Mondolfo e po­ che altre38, risultano essere differenti rispetto a quella umanistica. La maggioranza degli studiosi ha infatti optato per interpretazioni fisiocentriche, teocentriche od ontocentriche della Grecità, secondo la priorità da essi attribuita, rispettivamente, alla natura, al divino o all’essere come tema centrale della riflessione greca. Ecco, in sin­ tesi, i contenuti principali di queste tre differenti interpretazioni: l) La maggior parte degli studiosi, condizionati dalla lettura ari­ stotelica - e poi dielsiana39 - della filosofia, ponente come inizio della medesima la riflessione dei cosiddetti pensatori presocratici (di cui ci rimangono, come noto, soprattutto testimonianze sulla physis) 40, ha ritenuto che la filosofia greca sia stata non solo ini­ zialmente, ma anche globalmente fisiocentrica. Questa è stata ad esempio la lettura effettuata, sulla scorta anche del pensiero me­ 37 Ci permettiamo di rinviare, in merito, a Grecchi 2008 a e 2008 b. 38 Una menzione particolare spetta a Louis Gernet, che, pur su un piano prevalentemente antropologico, argomentò la tesi della centralità dell’uomo nel pensiero greco antico. Significativa una sua affermazione tenuta in una conferenza ad Algeri nel 1939: «In quel che è trasmesso, c’è qualcosa che è molto banale richiamare, ma che non è inopportuno analizzare: è quel che si esprime, o piuttosto quel che si riassume con il termine umanesimo. Se si cerca di definire la parola in rapporto con l’antichità classica, si intenderà in primo luogo che nell’opera intellettuale di questi antichi [...] l’uomo è un punto di riferimento centrale quasi costante» (Gernet 1983, p. XII). 39II riferimento è alla nota raccolta di Diels e Kranz (da cui la abbreviazione DK), che si occupa come noto del primo pensiero greco cosiddetto “presocrati­ co”, e che qui citeremo sempre nella traduzione italiana a cura di Reale 2006. Ad essa faranno riferimento, come consuetudine, i codici alfanumerici presenti nelle citazioni dei Presocratici. 40 Ci permettiamo ancora di rimandare, in merito, a Grecchi 2018 a, pp. 69-150.

Introduzione

17

dievale, da Hegel41 e Zeller42, che si è poi diffusa nella quasi totalità della manualistica moderna. La tesi fisiocentrica afferma in sostan­ za la centralità, nel pensiero greco, della physis, e considera l’uomo come una mera componente della physis. Analizzando tuttavia il pensiero greco nella sua totalità, l’uomo, per i motivi sopra ricordati, assume in esso un ruolo di riferimen­ to centrale rispetto alla natura. Fuorvianti sono pertanto tutte le letture volte a centralizzare il ruolo cardine dei filosofi naturali­ sti intesi come contemplatori disinteressati del cosmo. La ricerca scientifica greca fu infatti sempre anche una ricerca interessata alla buona vita umana. 2) Un numero minore di studiosi, fra cui Bruno Snell, ha inve­ ce interpretato la Grecità come epoca essenzialmente teocentrica, tanto da affermare la necessità di «tenersi al divinum dei Greci piuttosto che aìYhumanum»43. Tale tesi, nonostante la grande ricchezza della originaria rifles­ sione greca sul divino (in primis sul mito)44, risulta tuttavia a no­ stro avviso non corretta. Occorre infatti ricordare che la religione greca non derivava da un dogma rilevato, sicché non conteneva norme assolutamente vincolanti per gli uomini, in quanto si basava principalmente sulla elaborazione poetica confluita poi soprattut­ to nelle opere di Omero ed Esiodo45. Questi miti rappresentava­ no o forze naturali operanti nel cosmo, 0 forze psichiche operanti nell’uomo, per cui erano in varia misura riconducibili o alla natura o, appunto, all’uomo. Occorre infatti sempre tenere presente, nel pensiero greco, l’i­ nestricabile intreccio fra piano divino, naturale ed umano. Il divino tuttavia fu espresso nella cultura antica principalmente in maniera

41 Hegel 1947, voi. II, pp. 182-193. 42Zeller-Mondolfo 1923-1967, parte I, voi. II, p. 46. 43 Snell 1963, p. 348. 44 Come ha notato Sai'd 2012 (p. 19), «i Greci non si sono accontentati di creare miti. Sono anche stati i primi a farne la critica ed a proporne alcune interpretazioni che hanno influenzato i moderni più di quanto non si sospetti generalmente». 45 Scrive correttamente in questo senso Brelich 2010 (p. 38) che «la Grecia antica non ci ha lasciato un solo mito in un contesto rituale: la mitologia greca ci è pervenuta per i tramiti della poesia, dell’arte figurativa e della letteratura erudita, cioè in documenti di carattere profano». Sulla religione greca rinvia­ mo, alfinterno di una letteratura vastissima, a Nestle 1973, Bianchi 1975, Ja­ eger 1982, Harrison 1996, Otto 2004, Migliori-Fermani 2005, Burkert 2010 e Di Donato 2014.

i8

Introduzione

antropomorfica, dal che si può dedurre che operò spesso implicita­ mente, in tali espressioni, la natura razionale e morale dell’uomo. L’uomo greco risultava del resto tanto più “divino” quanto più cu­ rava la propria umanità. Per questi ed altri motivi il pensiero greco non può essere definito teocentrico, ossia caratterizzato da una di­ mensione prevalentemente religiosa. 3) Una minoranza di interpreti, fra cui - sebbene con modalità fra loro differenti - Martin Heidegger ed Emanuele Severino, con­ dizionati dalla effettiva presenza nel pensiero di Parmenide, Plato­ ne ed Aristotele della tematica dell’essere, ha ritenuto di conside­ rare la Grecità come epoca sostanzialmente ontocentrica. Questa interpretazione afferma in sostanza la centralità della tematica on­ tologica nel pensiero greco. Essa risulta tuttavia poco supportata in quanto, come ha correttamente sostenuto Umberto Galimberti, «la filosofia greca si muove su una matrice antropologica, essa sì real­ mente centrale [...]. Essa non si occupa principalmente del destino dell’essere. Non mi pare che l’essere sia la parola egemone della Grecità [...]. La genealogia della filosofia greca è da ricercarsi nel tentativo dell’uomo di vivere nonostante la prospettiva della morte e del nulla. La filosofia greca è molto centrata sull’antropologia e sulla educazione»46. Il concetto di essere, così come il concetto di natura e di divino (ma in misura ancora maggiore, data la sua dimensione “interale”), si è sempre mostrato aperto ad una molteplicità di interpretazioni nel pensiero greco. Esso ha tuttavia occupato nel medesimo, per la propria astrattezza, un ruolo non centrale, né quantitativamen­ te (la riflessione ontologica costituisce una parte minoritaria sul totale), né qualitativamente (non l’essere ma l’uomo costituisce il riferimento primo di senso e di valore nel pensiero antico). Non dunque la domanda Che cosa è l’essere? si pose come centrale nella Grecia antica, bensì la domanda Quale è la vita migliore per l’uo­ mo?, e dunque, inevitabilmente, Che cosa è l’uomo?47.

46Galimberti-Grecchi 2005, p. 62. 47 Per Pohlenz 2006 (p. 3), «il greco muove dall’uomo, e da ciò che natu­ ralmente lo condiziona». A suo avviso, infatti, il compito di descrivere il pen­ siero greco potrà dirsi «veramente assolto solo quando si arriverà al più inti­ mo nucleo dell’uomo, che si manifesta in tutti quei tratti particolari e li rende intelligibili alla luce di un principio unitario» (Id., pp. 8-9). Pohlenz ritenne che l’elemento caratterizzante la Grecità classica fosse la descrizione delle «ca­ ratteristiche permanenti dell’essere» dell’uomo greco, il quale ebbe «sicura co­ scienza della propria personalità, ed un chiaro sentimento dell’io» (Id., p. 14).

Introduzione

19

Considerazioni conclusive Come per il precedente Natura, può essere opportuno anche qui porre in evidenza alcuni limiti di questo libro (quelli, almeno, di cui siamo consapevoli). Il lettore potrà facilmente immaginare quanto, alla fine della scrittura di un testo caratterizzato da un tema così vasto, sia elevata la sensazione di avere dimenticato qualcosa, di avere commesso sviste, o più semplicemente di non avere scritto in quella maniera migliore possibile tale per cui, pure rileggendosi dopo molti anni, non si vorrebbe più cambiare nulla. L’esperienza insegna che questo desiderio è irrealizzabile, anche dedicando ad un simile libro - e questo, come Natura, lo avrebbe meritato - una intera vita48. Diremo allora soltanto che si è cercato di non trascurare nulla, lasciando adeguato spazio non solo alla sempre prioritaria temati­ ca filosofica, ma anche alla tematica letteraria e scientifica. Qualche autore antico, purtroppo, lo si è per ragioni di spazio potuto solo accennare. Ciò nonostante, abbiamo quasi sempre supplito a que­ sta mancanza con adeguati rimandi bibliografici, i quali, pur assai numerosi, risultano per molti aspetti minimali49. In merito alle scelte, la ripartizione degli spazi può forse - come in Natura - essere ritenuta un poco sbilanciata in favore del primo periodo della cultura greca. Ciò, in Natura, si giustificava con il fatto che ai Presocratici si devono le prime riflessioni rilevanti sulla physis, dalle quali poi sono derivate le altre; trattare le medesime ampiamente in quella sede ha consentito di abbreviare le succes­ sive esposizioni. Per Uomo, la grande attenzione al primo periodo della cultura greca si giustifica con il fatto che alla poesia (in senso ampio) si devono le prime riflessioni rilevanti sull’anthropos, dalle quali poi sono derivate le altre.

Lo studioso affermò inoltre che, nell’età classica, «la natura umana sviluppò, portandola ad armoniosa compiutezza, le sue più nobili qualità» (Id., p. 851). 48Come scrisse Snell 1991 (pp. 125-126), «se qualcuno tiene alla sua reputa­ zione, vorrebbe eseguire tutto con diligenza e scrupolo, ragione per cui proprio le cose più importanti vengono rimandate [...]. Non sono rare le opere prepara­ te con tanta meticolosità da non venire mai alla fine, dato che già i preparativi superavano le forze del loro autore. Dopo la sua morte un prezioso lascito ma­ noscritto emigra nella più vicina biblioteca per divenire ricettacolo di polvere e muffa, senza che un altro utilizzi mai questi materiali [...], tesori senza valore, tristi testimoni del fatto che per tanto senso del dovere, per tanto amore per i particolari e per tanto approfondimento metodico, alla fine il risultato per la scienza è pressoché nullo». 49 La bibliografia, pur di circa duemila titoli, comprende i soli testi citati.

20

Introduzione

Circa il conseguente relativo minore spazio concesso alla cultu­ ra tardoantica, occorre invece svolgere un altro tipo di discorso. Al di là delle preferenze e delle competenze, che sicuramente influi­ scono nelle scelte, è parso opportuno anche in questo caso - come in Natura - limitarsi ai soli tre autori massimamente significativi (in questa sede Filone, Galeno e Plotino). Ciò in quanto, a nostro avviso, la citazione di numerosi autori i quali hanno sovente so­ prattutto commentato contenuti precedenti, avrebbe incrementato il livello di erudizione del volume, ma avrebbe tolto spazio ai nodi centrali della riflessione. Per lo stesso motivo abbiamo evitato lun­ ghe trascrizioni della letteratura primaria, sia in lingua originale che in traduzione, non certo per dispregio ai testi, ma per il sempli­ ce fatto che ottime edizioni degli stessi sono ormai facilmente repe­ ribili anche in lingua italiana. È sicuramente vero che il buon inter­ prete dovrebbe principalmente far parlare i testi. Ciò nonostante in questo caso, ossia in un volume in cui già ci siamo spinti fino ai limiti massimi concessi, riportare ogni volta per esteso il riferimen­ to citato avrebbe comportato una riduzione drastica degli spazi di analisi, cui questa collana è costitutivamente votata. Non abbiamo invece lesinato nel riportare citazioni dalla letteratura secondaria.

Ringraziamenti Desidero ringraziare il Prof. Marcello Zanatta per avermi concesso la opportunità di realizzare, dopo Natura, anche questo volume su un altro tema portante della cultura antica. Ringrazio inoltre alcuni amici che mi hanno fornito utili suggerimenti: Giulia Angelini, Claudia Baracchi, Enrico Berti, Francesca Eustacchi, Arianna Fermani, Carmine Fiorillo, Alessan­ dra Indelicato, Alberto Jori, Giulio Lucchetta, Maurizio Migliori e, in ma­ niera particolare, Francesco Verde. Ringrazio infine la mia famiglia e mia moglie Sara, per il costante affetto.

I I MITI E L’ORFISMO

l. Im iti La prima riflessione sull’uomo, in Grecia, assunse la forma della elaborazione mitica1. Al termine mythos, come noto, non è pos­ sibile attribuire un significato univoco2. Ad esso tuttavia i Greci ricorsero per fare riferimento al patrimonio dei loro racconti sugli dei, nonché sulla genesi del cosmo e dell’uomo. Tali racconti, per quanto per molti aspetti inverosimili3, contenevano un profondo contenuto veritativo. Al di là, infatti, del rimando religioso, impor­ tante ma non centrale, i miti furono ricchi di importanti considera­ zioni per la comprensione dell’uomo greco4. Essi accolsero al pro­ prio interno, in effetti, i molteplici fenomeni del mondo naturale ed umano, rappresentando sia le forze più attive della vita (Zeus,

1 La bibliografia sul mito greco è oramai, come suol dirsi, sterminata. Per limitarci ad alcune segnalazioni, privilegiando la pubblicistica in italiano, ri­ mandiamo a Otto 1983, Kirk 1984, Graf 1987, Edmunds 1991, Detienne 1994 e 2014, Ferrari 1999, Morgan 2000, Lefkowitz 2008, Guidorizzi 2009-2012 e Bettini 2015. 2 Come scrisse anche Untersteiner 1946 (p. 22), «fissarne i termini con una definizione non è possibile». Ciò nonostante, lo studioso rilevò giustamente che il mythos fu il primo tentativo di dare risposta alle domande circa l’essenza e l’origine delle cose, ovvero di «dar forma a ciò che ne è privo» (Id., p. 23). «La traduzione nell’umano e la costruzione razionalistica sono i caratteri che distinguono i miti greci» (Id-, pp. 67-68) da tutti gli altri miti dei popoli coevi. 3 Già lo storico Ecateo (VI-V a.C.) dichiarò che «i logoi degli Elleni sono, come appaiono a me, molti e ridicoli» (fr. 1 a Jacoby). 4 Non entriamo qui nel merito della questione della derivazione orientale, in particolare egiziana, di molti miti greci, su cui ha particolarmente insisti­ to Bernal 2011, e che del resto indicava già Erodoto (Storie, II, 50, 53). Testi importanti sull’argomento dei rapporti fra cultura orientale e filosofia greca oltre a quelli più specifici che citeremo fra breve per Esiodo - sono West 1993, Duchemin 1995 e Burkert 1999-

22

C a p ito lo I

Hera, Efesto, ecc.), sia quelle più nascoste (Gaia, Poseidone, Ti­ fone, ecc.); sia gli aspetti più luminosi (Apollo, Eos, Helios, ecc.), sia quelli più oscuri (Nyx, Ade, le Kere, ecc.); sia le potenze unitive (Afrodite, Eros, Himeros, ecc.), sia quelle distruttive (Ares, Eris, Ate, ecc.); sia le forme della bellezza (Afrodite, Charites, Muse, ecc.), sia quelle della bruttezza (Graie, Stige, Echidna, ecc.); e lun­ gamente si potrebbe continuare. Al termine mythos, dopo Platone, siamo soliti attribuire il signi­ ficato di “favola, racconto”. In epoca arcaica tuttavia mythos, assai più di logos, indicava qualunque tipo di discorso, in particolare il discorso veritiero, sensato, importante56 . Mythos e logos origina­ riamente erano dunque termini quasi sovrapponibili, in quanto non era ancora presente la distinzione fra mythos come “racconto di fantasia” e logos come “discorso razionalmente fondato”. Essa venne tematizzata solo a partire da Pindaro5 ed Erodoto7, e poi so­ prattutto con Platone, il quale comunque, come noto, non fu insen­ sibile ai contenuti onto-assiologici del mito8. I miti esprimevano del resto un bisogno di spiegazione dei fenomeni naturali e sociali, da parte di un consesso umano che sentiva l’urgenza di passare, sul piano dei significati, ad un discorso sempre più dotato di validità9. Il mythos greco, per quanto strutturato in maniera tale da rappor­ tarsi alla ambivalenza simbolica del reale, non fu infatti mai privo 5 In questo senso, fra gli altri, De Fidio 1969, Starr 1968 e Levet 1976, non­ ché Severino 1984 (p. 19). In Omero, mythos si colloca sovente nella sfera del pensiero, alludendo al riflettere, ad un parlare interiore (Iliade, I, 545; VII, 358; Odissea, XI, 510 ss.), ad un progetto (Odissea, IV, 676). 6 Nella Olimpica I {vv. 28-29) Pindaro constata amaramente che i miti, ornati di belle menzogne dai poeti, trionfano sulla verità agli occhi della opi­ nione pubblica. 7 Nelle Storie, Erodoto utilizza il termine mythos per screditare una spie­ gazione non verificabile (II, 23) o una descrizione inverosimile (II, 45). In maniera analoga, come mythodes, Tucidide screditerà poi, in maniera molto severa, proprio Erodoto (La guerra del Peloponneso, I, 21-22). 8 Sul frequente utilizzo di miti da parte di Platone ci soffermeremo in se­ guito. Anche Aristotele, nonostante le note perplessità circa l’utilizzo del mito e della metafora nel discorso razionale (su cui Lucchetta 2010), nella Poetica (1450 a 4 ss. et al.) ricordava come, nella tradizione antica, ciò che si trovava al di fuori del mytheuma era alogos, ossia irrazionale. Per questo a suo avviso, ossia per il contenuto veritativo che implicitamente veicolavano, i miti non an­ davano modificati. Come egli scrisse anche nella Metafisica (1000 a 5 ss.; 1074 b 1 ss.), il philomythos è un philosophos in nuce. 9 Come ha scritto in merito Vernant 1981 (p. 208), il mito è tale solo «a condizione di iscriversi nella sua linea, di sottomettersi [...] a un certo numero di regole, di rispettare un insieme definito di temi, associazioni, accostamenti e contrasti al di fuori dei quali il messaggio cesserebbe di essere intelligibile».

I miti e l’Orfismo

23

di logos10. Ciò è mostrato dal fatto che le sue costruzioni, per quan­ to svolte per immagini e racconti anziché per astrazioni e concetti, orientarono per secoli l’uomo a relazionarsi in maniera adeguata alla vita. Non è casuale, in merito, che i miti non siano scompar­ si con l’elaborazione delle prime scienze 0 con la formazione della filosofia. Le esigenze che portarono alla nascita dei miti furono in effetti in buona parte le medesime che portarono alcuni secoli dopo alla nascita del pensiero scientifico e filosofico11. Il mito dunque, con la sua ricerca insieme razionale (di com­ prensione dei fenomeni) e morale (di guida dei comportamenti), si strutturò in Grecia come la prima modalità con cui iniziò a prende­ re forma la riflessione sull’uomo. Il carattere razionale del mito è implicito anche nel fatto che già la prima esposizione di cui abbia­ mo notizia, ossia i poemi epici, avvenne mediante una narrazione ciclica, ossia mediante gruppi di testi fra loro collegati che, nel loro insieme, racchiudevano il senso di una intera tradizione cultura­ le12. Fra quelle rimaste, ricordiamo le narrazioni della saga degli Argonauti, delle vicende di Eracle, dei Titani, della unione di Urano con Gea, fino a giungere alle vicende del ciclo tebano di Edipo e dei suoi discendenti, del ciclo troiano di Agamennone e dei suoi di­ scendenti, e ad altre saghe locali che purtroppo ci sono rimaste solo in pochi frammenti ed in un sintetico resoconto conservato nella Crestomazia di Proclo13. Il fatto che i miti fossero fra loro connessi, indica che la composizione dei medesimi era caratterizzata da una riflessione complessiva sul mondo e sull’uomo. I miti servirono in Grecia, così come in altre civiltà antiche, per elaborare problemi di vario tipo che sorgevano all’interno del­ la comunità14. Questi miti non ebbero peraltro un unico centro di

10 Non è casuale che la sapienza del pensiero mitico abbia potuto riuni­ re Apollo e Dioniso, nonostante le loro grandi differenze, sotto lo stesso tetto sacro di Delfi, quasi a voler rappresentare due momenti complementari della coscienza umana. Su questa tematica, rinviamo fra gli altri a Pesce 1968 e Colli 2010. 11 Come scrive giustamente Gentili 1995 (p. 98), perla cultura greca il mito fu «il tessuto connettivo [...] dall’epica alla lirica, al testo drammatico del V secolo, alla storiografia, alla filosofia e infine aH’arte figurativa, configurandosi come un vasto repertorio comune di usi, costumi, comportamenti e valori» 12 Aristotele affermò che il mythos era «la composizione dei fatti in siste­ ma» (Poetica, 1450 a 15). 13Per alcuni studiosi si tratta di un grammatico del II secolo d.C., per altri del più famoso neoplatonico del V secolo d.C. 14Come ha scritto giustamente Casertano 2009 (p. 21), il mito è un raccon­ to che entra a far parte di una tradizione in quanto portatore «di un messaggio

24

C a p ito lo I

irradiazione, il che fece sì che, sebbene per alcuni aspetti simili, essi furono anche per altri aspetti differenti. Eoli, Ioni, Dori, po­ poli portatori di culture e sensibilità diverse, elaborarono infatti ciascuno i propri miti, rendendo ricca ed aperta fin dalle origini la riflessione greca sull’uomo. È da rilevare peraltro che nel mito ogni divinità, pur talvolta non essendo lineare nei comportamenti15, esprimeva comunque sempre una personalità riconoscibile, ossia una essenza definita. Non deve stupire nemmeno che gli dei fossero all’epoca così ca­ ratterizzati da imperfezioni. La riflessione mitica fu infatti essen­ zialmente una riflessione originaria sull’uomo nella sua effettua­ lità, dunque caratterizzato anche da imperfezioni, costituendo la prima fase della elaborazione umanistica che giunse solo in seguito a tematizzare l’uomo più compiutamente nella sua idealità. Per ar­ rivare in effetti a comprendere l’uomo per come deve essere, occor­ reva prima comprendere l’uomo per come era, ossia per come ce lo si trovava innanzi in un determinato momento storico, ovvero anche gravato da difetti. La conoscenza della idealità onto-assiologica dell’uomo passa inevitabilmente per la conoscenza della sua effettualità storico-sociale. Come ha chiosato in maniera corretta Aldo Lo Schiavo, «il mito antico è rappresentativo dell’essere, non del dover essere»16, ossia non è ancora in grado di mostrare quella compiutezza umana che, solo dopo alcuni secoli, costituì il frutto finale della elaborazione filosofica greca. Come detto, nascendo i miti da molteplici esigenze - spiega­ re l’umano, il naturale ed il divino nei loro vari aspetti - , non è possibile una teoria unica del mito17. Quanto ci interessa in questa sede è comunque principalmente rimarcare la funzione originaria del mito per l’uomo. Essa, come è stato da più parti argomenta­ to, risulta sovente essere stata quella di esplicitare paure, porre

importante per la vita, e in particolare per la vita nell’ambito di un certo tipo di società». 15Significativi - oltre naturalmente a Dioniso, emblema di ambivalenze ed opposizioni - il caso di Apollo, dio risanatore ma che può anche recare morte (Detienne 2002); di Afrodite, al tempo stesso amorevole e vendicativa; dello stesso Zeus, noto per i suoi repentini mutamenti di umore. 16Lo Schiavo 2003, p. 155. 17Come scrive correttamente Kirk 1984 (p. 11), «non può darsi alcuna defi­ nizione comune, alcuna teoria monolitica, alcuna risposta semplice e trionfale a tutti i problemi e alle incertezze relative ai miti». «I miti sono una categoria vaga e incerta, e ciò che per uno è un mito per un altro è una leggenda, o una saga, o un racconto popolare, o una tradizione orale» (Id., p. 13). Sulla stessa linea Graf 1987, p. 1.

I miti e l’Orfismo

25

in luce desideri inconsci, favorire condizioni emotive auspicabili: una funzione, dunque, in larga parte caratterizzata dalla necessità di conoscere e governare le emozioni. Come ha scritto in merito Maurizio Bettini, Colpa (Afe), Giustizia (Dike), Vergogna ([Aidos), Contesa (Eris), Punizione (Nemesis), ed altre «figure personifica­ te, non sono meri concetti, ma forze che hanno una loro oggettiva realtà [...]. Ciò che nel greco successivo diviene un concetto, nel­ la mentalità arcaica ha un risvolto anche concreto: ogni concetto astratto ha un suo doppio di natura demonica che opera per conto suo sulla scena della vita, e non dentro la mente, ma indipenden­ temente, come una figura a tre dimensioni. Il risultato è un mec­ canismo di grande suggestione psicologica: si proietta all’esterno ciò che sta dentro, si trasferiscono su entità demoniche o divine fenomeni psicologici o idee morali»18, come l’esperienza del teatro mostrerà poi in maniera magistrale. Risulta dunque chiaro che, per comprendere la formazione antica dell’uomo greco, occorre partire dal mito. Esso infatti costituisce una modalità di approccio al reale che la storia della filosofia non può permettersi di trascurare, con­ finandolo nella storia della letteratura 0 della religione19. Come ben colse Nietzsche ne La gaia scienza [143], miti ed eroi greci furono le prime espressioni della “personalità” di questo popolo. Chiarito che la conoscenza del mythos non è secondaria per una corretta comprensione dell’uomo greco, occorre anche non at­ tenersi alla desueta descrizione - che pure, naturalmente, contiene elementi di verità - della nascita del pensiero greco come passag­ gio dal mythos al logos, da intendere come passaggio da una forma di pensiero primitiva ad una forma di pensiero matura. Su questo tema ha scritto parole chiarificatrici, totalmente condivisibili, Mar­ cello Zanatta, sostenendo che la tesi del «passaggio dal mito al lo­ gosi...] come passaggio dalla non verità alla verità»20risulta oramai una esegesi inaccettabile della prima fase del pensiero greco. «In particolare è inaccettabile la univocità del modello di verità che vi

18Bettini 2010, p. 120. 19Come ha scritto giustamente ancora Bettini 2014 (p. 8), «non vi è dubbio che nel mondo antico la religione costituisse una produzione culturale a tutti gli effetti; anzi, un luogo in cui se ne intrecciavano molteplici forme». I moder­ ni abitatori dell’Occidente scientifico ritengono invece talvolta di porsi su livelli di conoscenza molto più avanzati rispetto a quelli degli antichi elaboratori di miti. Tuttavia, come scrisse Cari Gustav Jung, spesso non si è ancora in grado di venire a capo di quei fatti psichici che già tremila anni fa si erano compresi essere causa di problemi e patologie (Jung-Wilhelm 1981, pp. 13-67). 20Zanatta 2012, pp. 16-17.

26

C a p ito lo I

soggiace, ed al quale il mito stesso è ricondotto, senza prendere atto, invece, che esso possiede una verità propria, perché ha moda­ lità autonome di espressione e di organizzazione della esperienza. Mito è infatti la narrazione di un accadimento importante nell’or­ dine dell’esistere, sia umano che cosmico, la quale si propone come per sé plausibile e vera. Per sé [...] ossia senza necessità alcuna di esibire le ragioni del suo essere tale, vale a dire di giustificare o fondare quel che dice. Le basta narrarlo, perché il racconto è già pregno della cosa»21. Circa il rapporto fra il mito e l’uomo greco, rilevante risulta an­ che il fatto che l’elaborazione mitica si sia occupata per prima di ricostruire la storia della nascita del genere umano. Come ha scrit­ to in merito Nicole Loraux, in Grecia «non esiste una Genesi che assegni una volta per tutte all’uomo greco un proprio Creatore e un giorno di nascita, e sulle origini dell’umanità non è mai stato scritto in Grecia alcun poema che abbia avuto l’autorità della Teogonia, il poema di Esiodo sull’origine degli dei»22. Ciò nonostante i miti ellenici più antichi hanno ritenuto l’uomo «nato dalla terra», mo­ strando il forte radicamento autoctono dei Greci23. Esistono infatti addirittura due descrizioni di questa nasci­ ta dell’uomo dalla terra. Pur senza soffermarci troppo su questo tema, che sarà in parte ripreso in seguito, occorre in merito almeno ricordare che in alcuni miti, come il mito platonico dei gegenis, l’uomo usciva dalla terra come una pianta esce dal suolo24. In altri miti, come quello esiodeo sulla creazione della donna, la creatura umana fu invece considerata fatta di terra e modellata da un dio artigiano, Efesto25. Una tradizione posteriore, anch’essa discussa, fece nascere l’umanità da Prometeo, ma sempre come opera di un gesto tecnico in rapporto alla natura. Da ricordare infine i miti or­ fici, di cui accenneremo nel prossimo paragrafo, che fecero nascere l’umanità dalle ceneri dei Titani, i quali furono fulminati da Zeus per avere ucciso il di lui figlio Dioniso.

21 Id., p. 17. Scrive correttamente Lo Schiavo 1993 (p. 10) che «pensiero mitico e pensiero logico si intersecano più spesso di quanto comunemente si creda; e ciò, per la verità, non solo nel mondo letterario e filosofico della Grecia antica». 22 Loraux 1998, p. 23 23Autochthon significa appunto nato dal suolo - chthon - stesso - autos - della patria. 24 Platone, Politico, 270 e-271 c. 25 Su questo mito, rinviamo all’agile trattazione di Vernant 2008.

I miti e l’Orfismo

27

Molteplici sarebbero gli argomenti da approfondire sul mito greco in rapporto all’uomo, che saranno in parte ripresi in mol­ ti dei prossimi autori, dato che come detto il mito costituì una presenza costante in quasi tutta la riflessione filosofica greca26. Può tuttavia essere interessante, con riferimento al nostro tema, approcciarci, sebbene sinteticamente, almeno ad un mito, quello di Proteo, una divinità minore i cui tratti forniscono però utili spunti di riflessione27. Nel mito, infatti, quando i personaggi mutano forma, non è mai per compiere azioni positive verso gli uomini. Un esempio ti­ pico è costituito dalle trasformazioni di Zeus per sedurre malca­ pitate mortali, cui sovente toccava una infelice sorte. La stabilità della forma, della essenza di ciascun mito, dunque in certo senso della sua personalità, rappresentava una garanzia di prevedibilità nei comportamenti, assai utile peraltro ai narratori di storie ed al pubblico in un’epoca di prevalente cultura orale28. Non è casuale in merito che Platone, nella Repubblica, abbia criticato quei poeti, come Omero, che descrivevano divinità mutevoli nella forma, e che lo stesso Aristotele, nella Poetica, abbia criticato quegli autori che stravolgevano i caratteri fissi dei personaggi della tradizione29. Tra le divinità mutanti forma, una delle più note fu comunque appunto Proteo, divinità marina che sfuggiva ai pericoli proprio in questo modo30. Proteo, certo, utilizzava il mutamento di forma prevalentemen­ te come modalità difensiva, come fanno appunto alcuni animali di cui fra breve, metaforicamente, ci occuperemo. Zeus, invece, utilizzava il mutamento di forma prevalentemente come modalità offensiva, di inganno ed attacco, come avviene purtroppo spesso anche nel nostro tempo, in cui persone di aspetto apparentemente rispettabile si rivelano - proprio per il loro non possedere una per­ sonalità stabile - ambigue e pericolose31.

26 La presenza del mito nella letteratura greca posteriore a quella arcaica, compresa quella filosofica, è stata ben delineata in Buffière 1956. 27 Di Proteo si parla per la prima volta in Omero, Odissea, IV, 406 ss. 28 Sulla tematica della oralità della prima cultura greca, rinviamo a Kirk 1976, Finnegan 1977, Thomas 1992 e soprattutto Havelock 1995. 29 In questo senso, Aristotele concorda con Platone nel criticare quei poeti che si adeguano nelle loro opere alle richieste del pubblico (Poetica, 1452 a 34 ss.). 30Sulla storia di questa figura, rinviamo a Scuderi 2012. 31 Scuderi 2012 ha esaminato in merito come, dal pensiero antico proce­ dendo nei secoli, la metamorfosi sia stata associata dalla Patristica alla figura di Satana, ed in generale quasi sempre considerata in modo negativo, sovente

28

C a p ito lo I

Vi sono certo anche versioni più positive, nella mitologia, della divinità omerica di Proteo. Ci premeva tuttavia solo rilevare, ac­ cennando in maniera cursoria a questa figura, di come già col mito cominci, con varie problematizzazioni, quel processo di determina­ zione e stabilizzazione della forma ideale dell’uomo, che costituirà poi il carattere più proprio della cultura greca classica.

2. L ’Orfismo Una delle più antiche testimonianze della cultura greca, vero­ similmente anteriore al VI secolo a.C.32, è costituita daU’Orfismo. Con questo termine si indica un movimento religioso-culturale le cui origini sono fatte risalire alla figura semimitica di Orfeo, can­ tore, musico e poeta ritenuto dotato di qualità eccezionali, come quella di soggiogare la natura e far muovere, col proprio canto, gli enti inanimati33. Sull’Orfismo sono necessarie, per iniziare, alcune precisazioni34. Le testimonianze maggiori su questo movimento, che ha lasciato poche tracce scritte, sono costituite dai cosiddetti inni orfici, i quali sono di epoca notevolmente posteriore rispetto a quella origina-

connessa alla ricerca di denaro e potere. In età moderna poi la mancanza di una identità definita è spesso stata abbinata a fragilità culturale e valoriale. Solo in età postmoderna la figura adattiva della «personalità multipla» ha ini­ ziato ad essere rivalutata, verosimilmente in quanto la capacità di prendere la forma (capitalisticamente richiesta) della società-recipiente in cui ci si trova, costituisce un vantaggio competitivo. Qualcosa di simile era comunque a no­ stro avviso in atto già nel Rinascimento: ci permettiamo in merito di rinviare a Grecchi 2016 b, pp. 79-90. 32 Come scrive Sorel 1993 (p. 24), «i Greci hanno ritenuto Orfeo e Museo, suo discepolo, più antichi di Omero. Dal punto di vista degli Orfici, questa ri­ vendicazione di antichità rendeva il loro cantore una figura più venerabile di Omero, simbolo per eccellenza della religione ufficiale». In diverse testimo­ nianze antiche, vi è in effetti la successione Orfeo, Museo, Esiodo, Omero (Ippia, B 6; Aristofane, Rane, w . 1032 ss.; et al.). 33 Come ha sottolineato West 1994 (p. 15), «Orfeo era una figura del mito; una figura insolita, in termini greci, per la sua assenza dalla rete di genealogie grazie alla quale quasi tutti coloro che, presumibilmente, vissero nella età eroi­ ca erano collegati l’uno all’altro nella tradizione esiodea e logografica». Egli fu introdotto negli orizzonti culturali della Grecia come figlio di Apollo e della Musa Calliope. 34 Importante testo di riferimento sull’Orfismo è ancora Guthrie 1935. Ot­ timo ed aggiornato Tortorelli Ghidini 2006. Interessanti saggi sono presenti anche nel volume collettaneo Masaracchia 1993.

I miti e l’Orfismo

29

ria35. Gli inni orfici affermano, come contenuto principale, la tesi della immortalità dell’anima, purché si seguano le norme ascetiche previste dal bios orphikos, tuttavia non agevole da definire36. Siamo in effetti di fronte a diverse difficoltà conoscitive ed interpretative, dovute principalmente al fatto che l’unico reale elemento unifican­ te di queste testimonianze - fra cui le cosiddette lamine orfiche ed il papiro di Derveni37 - è il nome di Orfeo, unito ad un piccolo nucleo di dottrine comuni. Da quanto riportano le testimonianze, Orfeo fu sicuramen­ te una figura sciamanica, entrata nella mitologia greca tramite la Tracia, proprio come Dioniso, al quale lo avvicinano diverse cita­ zioni38. Orfeo e Dioniso presentano infatti tutti i tratti delle figure magiche presenti nelle tradizioni di diverse zone del pianeta. In particolare, Orfeo risulta in grado di entrare in uno stato in cui lo spirito abbandona il corpo, di intrattenere rapporti con gli dei in favore della comunità, e di conversare con le anime dei defunti39. Come dimostra anche la posteriore figura di Empedocle40, lo Sciamanesimo non fu una presenza isolata all’interno del mondo greco, ma costituì il contesto originario da cui nacque una discreta parte della riflessione mitica41. Orfeo, comunque, divenne più di una semplice figura del mito. Sotto il suo nome furono infatti composti poemi, che da tale nome acquisirono autorità pure nei secoli successivi. Ciò accadde anche ad altre figure mitiche come Museo, ma, a partire già dal tardo VI

35 Per gli inni orfici, rinviamo a Brisson 1993 e West 1994. La datazione degli Orphicorum Fragmenta, ossia di tutto ciò che rimane delFOrfismo in base alla tuttora valida raccolta di Kern (Verzura 2011), presenta una notevole complessità. West 1994 (p. 14) ha lamentato in merito che «negli ultimi cin­ quantanni [...] l’analisi di questo corpus letterario è rimasta largamente tra­ scurata. 36 II bios orphikos comprendeva sicuramente abluzioni catartiche, proibi­ zione della alimentazione carnea ed astensione dai sacrifici cruenti: occorreva, insomma, allontanarsi dall’assassinio primordiale di Dioniso compiuto dai Ti­ tani. Su questi temi rinviamo a Moulinier 1955. In maniera sintetica, ma sem­ pre lucida e rigorosa, Pugliesi Carratelli 1976, pp. 235-246. 37Sulle lamine d’oro orfiche, rinviamo a Pugliese Carratelli 1993. Sul papiro di Derveni, risalente al V secolo a.C., rinviamo a Laks-Most 1997 e Piano 2016. 38 Come testimoniano fra gli altri Euripide (Reso, fr. 943) ed Aristofane (Rane, w . 1032 ss.), Orfeo fu molto vicino al mondo iniziatico di Dioniso. Su Dioniso, che così profondamente ha influenzato la tradizione filosofica succes­ siva, rinviamo a Privitera 1970, Detienne 1983, Otto 1990 e Kerenyi 2010. 39Su queste tematiche rimandiamo ad Alderink 1981. 40 Rinviamo in tal senso a Kingsley 1995. 41 In questa direzione anche Radice 2018.

30

C a p ito lo I

secolo a.C., Orfeo fu il riferimento più autorevole per i vari poemi pseudoepigrafici di natura esoterica, alcuni dei quali connessi - in misura tuttora assai dibattuta - al Pitagorismo42. I pochi dati che possediamo, spesso derivati dalle lamine orfi­ che43, rendono come detto molto difficoltoso parlare in maniera chia­ ra di Orfismo e tradizione orfica. Alcuni contenuti chiave sull’uomo risultano tuttavia, nella tradizione, identificabili. L’Orfismo infatti, innanzitutto, costituì un contenuto teorico-pratico finalizzato ad ottenere la salvezza degli iniziati, mediante la metempsicosi44. Que­ sto contenuto consente di focalizzare la centralità di un argomento che sarà più volte ripreso dal pensiero greco successivo: il tema del­ la morte45. La centralità di questo tema si evince anche dal fatto che, nonostante i Greci disponessero di altri termini per definire l’uomo (aner, anthropos), il termine «mortale» (brotos, thnetos) fu il più utilizzato in pressoché tutta la letteratura antica. Con riferimento all’uomo, «l’autentica innovazione introdotta dall’Orfismo consistette soprattutto nella costruzione di un mito antropogonico»46. In effetti, come poi mostreremo, né la religione olimpica omerica, né il mito di Esiodo delle cinque stirpi umane succedutesi sulla Terra47, contengono un chiaro discorso relativo alla nascita dell’umanità48. Per gli Orfici invece tutti gli uomini pro­ vengono dal medesimo evento mitico, che ora descriveremo. 42Ha affermato ad esempio Tortorelli Ghidini (in Id. et al. 2000, p. 16) che «nelle testimonianze del V-IV secolo a.C. su Orfeo e sulla sua religione non vi è cenno a relazioni col Pitagorismo». 43 Da notare che queste lamine, rinvenute in alcuni casi fuori dai confini della Magna Grecia, parlavano direttamente al morto, contenendo istruzioni per il passaggio da un luogo ad un altro dell’aldilà, indicando all’anima del defunto cosa dire e fare nelle varie fasi. Naturalmente queste laminette, di pic­ cole dimensioni, potevano portare incise solo poche parole, ed anche per que­ sto oggi ci sembrano così criptiche. Si tratta tuttavia di una tematica che non possiamo in questa sede approfondire: rinviamo in merito all’ottima raccolta Tonelli 2015. 44Come ha affermato comunque in merito ancora Tortorelli Ghidini (in Id. et al. 2000, p. 14), «è diffìcile credere che quando gli antichi parlavano di se­ guaci di Orfeo, di corpi dottrinari attribuiti ad Orfeo, di uno stile di vita orfico non avessero in mente un’idea unitaria». Tale idea, verosimilmente, coincise con «la promessa di salvezza, fondata originariamente sulla autorità di una parola rivelata». 45 Su questo tema nel pensiero antico rinviamo a Casertano 2003 e Grecchi 2014. Sul panorama dell’aldilà nel mondo greco, rinviamo a Rohde 1970 e Fabiano 2019. 46D.M. Cosi, in Tortorelli Ghidini et al 2000, pp. 155-156. 47 Esiodo, Opere e giorni, 109 ss. 48Su questi temi, rinviamo a Cosi 1976.

I miti e l’Orfismo

3i

Come accennato nel paragrafo precedente, gli Orfici, in meri­ to al tema antropogonico, non ritenevano che gli uomini fossero nati dalla terra, bensì dalle ceneri dei Titani, fulminati da Zeus per avere ucciso e fatto a pezzi il di lui figlio Dioniso49. Essendo di ori­ gine divina, per TOrfismo ogni uomo deve cercare di espiare questa colpa originaria per ricongiungersi, mediante la sua componente più nobile rappresentata dall’anima, al costitutivo spazio celeste. Come ha commentato Giovanni Reale, questo mito, menzionato anche da Platone50, segna l’atto di nascita della prima concezione oppositiva di anima e corpo, rappresentando quest’ultimo come una prigione per l’anima. Sulla base di questo mito si costituisce, come ricorda ancora Reale, «la base di una nuova etica [...]. Esso spiega la costante tendenza al bene e al male presente negli uomini: la parte dionisiaca è l’anima (a cui è legata la tendenza al bene), quella titanica è il corpo (a cui è legata la tendenza al male). Di qui deriva il nuovo compito morale di liberare l’elemento dionisiaco (l’anima) da quello titanico (il corpo). La reincarnazione e il ciclo delle rinascite sono la punizione di questa colpa, e sono destinate a continuare finché l’uomo non si liberi dalla colpa medesima»51. La separazione dell’anima dal corpo, con tutto ciò che ne con­ segue, fu forse la più originale dottrina antropologica dell’Orfismo, nonché il principale tratto orfico passato nel successivo Platoni­ smo52. In questo senso l’Orfismo si pose ad una grande distanza dalla religione olimpica presente nei poemi di Omero, di cui ora andremo a parlare. Ambedue queste forme tuttavia, sebbene con differenti modalità, influenzarono la nascita della filosofia nel mondo greco, nella quale trovarono sempre spazio sia l’elemento

49 Olimpiodoro, Commento al Fedone di Platone, 61 c, p. 2, 21 Norvin. Per una esposizione complessiva di questo mito, ed i relativi riferimenti bibliogra­ fici, è possibile rinviare a Reale 2004, voi. I, pp. 59-68. 50Leggi, 701 a-c. 51 Reale 2004, voi. I, p. 72. 52 Platone fa esplicito riferimento ad Orfeo nel Cratilo (400 c), in cui affer­ ma che «per i seguaci di Orfeo» il corpo, soma, è tomba, sema. Non deve stupi­ re il fatto che nella Repubblica (364 e-365 a) Platone se la prese duramente con quei ciarlatani che, utilizzando confusamente i nomi di Museo e Orfeo, bussa­ vano alle porte di individui e città promettendo - a pagamento - purificazioni da atti ingiusti «mediante sacrifici e giochi gradevoli, sia per i viventi sia per i trapassati», minacciando terribili pene a coloro che non vi si fossero sottopo­ sti. Platone disprezzava solo le mistificazioni delPOrfismo, tanto che evitò di nominare Orfeo in quella ed altre occasioni, parlando semplicemente di «una antica tradizione» (Fedone, 70 c). Ciò nonostante, come mostreremo, non si può attribuire a Platone alcun orfico dualismo di anima e corpo.

32

C a p ito lo I

apollineo collegato alla religione olimpica, sia l’elemento dionisia­ co collegato alla religione orfica53. Una ultima notazione è da riservare al fatto che il culto orfico, non discriminando gli appartenenti al genere umano per sesso54, razza o censo, contribuì a determinare quella impronta universali­ stica della filosofia greca che la accompagnerà nei secoli55.

53 Come ha scritto correttamente anche Jaeger 2004 (p. 310) il pensiero orfico, «nella ricerca di un senso superiore della vita, si incontra con lo sforzo del pensiero razionale per intendere filosoficamente una norma universale og­ gettiva nell’esistenza cosmica». 54 Come ricorda Sorel 1993 (p. 36), «gli scavi archeologici hanno dimostra­ to che le donne beneficiavano del viatico consegnato sulle lamelle orfiche, pro­ vando che la misoginia non era una concezione rappresentativa del movimen­ to». Ciò nonostante, con Sorel (Id., p. 106), occorre notare che per gli Orfici «la salvezza è una vicenda individuale, concessa a forza di rinuncia personale, strappata in modo solitario». 55 Come scrive giustamente D.M. Cosi, anche nella sua epoca «Orfeo ri­ marrà sempre lo straniero che proviene dalla Tracia, così come i suoi seguaci rimarranno sempre separati dalla società e dalla cultura. [...] Non deve dunque stupire se l’Orfismo, ancora una volta tra continuità e innovazione, ha trovato il terreno più propizio al suo sviluppo lontano dal centro della grecità» (In Tortorelli Ghidini et al., 2000, p. 159).

II EPICI, LIRICI, TRAGICI

1. L ’epica Ricostruire il mito e la poesia greca originaria equivale a de­ scrivere gli inizi della cultura occidentale. La scrittura alfabetica in Grecia comparve intorno al IX -V ili secolo1, epoca immediata­ mente antecedente a quella cui è fatta risalire la prima composizio­ ne orale dei poemi omerici, intorno alla metà del VII secolo. La tradizione letteraria greca è fatta iniziare con Omero ed Esio­ do in quanto, come ha scritto correttamente Sotera Fornaro, «qua­ lunque cosa fosse venuta prima, essa era stata assimilata, per così dire, dai due poeti, dai quali ogni discorso doveva avere inizio»2. Per questo motivo inizieremo qui proprio trattando di Omero ed Esiodo, ossia della poesia epica, lasciando in seguito ampio spazio alla poesia lirica e sapienziale. Chiuderemo questo capitolo con la trattazione della esperienza poetica e sociale del teatro ateniese.

2. Omero La prima implicita concezione di “uomo” Sintetizzando la secolare «questione omerica»3, è possibile dire che Omero costituisce tuttora il nome cui è attribuita la com-

1 Per una sintetica ma accurata analisi della questione, rinviamo a Trabattoni 2005, PP- i l ss., il quale si sofferma sulla nascita della alfabetizzazione e della cultura in Grecia. 2 Fornaro 2003, p. 27. 3 Una buona sintesi della questione omerica si trova nella introduzione di Giovanni Cerri ad Ercolani 2016, pp. 13-31. Testi utili sono Dihle 1970, Codino 1976, Broccia 1979 e Nagy 1996.

34

Capitolo II

posizione, o quanto meno la sistemazione, dei due grandi poemi ri­ masti del ciclo epico, ossia l’Iliade e l’Odissea4. Ad essi dobbiamo, come noto, le prime rappresentazioni dell’uomo nel pensiero gre­ co5. Come ha scritto infatti correttamente Jaeger, «in tutto Omero si manifesta una larga veduta filosofica della natura umana»6, in quanto «Omero conferisce nel modo più deciso all’uomo e alla sua sorte un interesse preminente, considerandolo sempre secondo la prospettiva delle idee universali»7. Non entreremo qui nel merito del contesto storico-sociale de­ scritto dai poemi, che in vario modo illumina i cinque secoli (dal XII allVIII)8 che segnano il passaggio dalla civiltà aristocratica, avente come centro il palazzo nobiliare, alle prime forme di aggre­ gazione politico-sociale che condurranno alla nascita delle poleis9. Ci occuperemo soltanto della trattazione omerica dell’uomo, inse­ rendo la sua opera in una sorta di «corrente ideale prefilosofica», come fatto anche da diversi altri interpreti del pensiero antico10. Giovanni Reale, ad esempio, ha affermato che i poemi omerici «portano in sé alcuni di quei caratteri dello spirito greco che cree­ ranno la filosofia. In primo luogo [...] l’immaginazione omerica si struttura già secondo quel senso dell’armonia, dell’euritmia, della proporzione, del limite e della misura, che si rivelerà poi una co­ stante della filosofia greca [...]. Inoltre, è stato anche rilevato come, nella poesia di Omero, l’arte della motivazione sia una costante,

4 Per uno studio di questa fase dell’epica greca arcaica, rinviamo, fra gli altri, a Finley 1975, Di Donato 1999 e Debiasi 2004. Molto utili anche Morris-Powell 1997 e Montanari 2002. Buone introduzioni ad Omero sono Codino 1965, Montanari 1990, Latacz 1990 e Miralles 1992. Circa le varie notazioni omeriche di queste pagine, ci sembra corretta la affermazione prudenziale di Ercolani 2016 (p. 34): «In Homericis poco è certo, molto è dubbio, moltissimo è ignoto». 5 Su questo tema, anche se in una direzione parzialmente diversa da quella da noi indicata, Galiano 1955. 6Jaeger 2004, p. 108. 7 Id., p. 114. 8 Negli ultimi decenni si è venuta rafforzando l’ipotesi (Morris 1986) che i poemi omerici descrivano una società più vicina a quella dell’epoca in cui hanno preso forma scritta che a quella dei secoli precedenti, di cui comunque si conosce assai poco (rinviamo in merito, fra gli altri, a Carlier-De Vido 2014 e Santucci 2016). 9 Interessanti sono in merito le considerazioni di Cantarella 2013 (p. 9), secondo cui Itaca, in quell’epoca, era «una comunità che stava per diventare una polis, e che di questa presentava i primi elementi». Una tesi simile è stata espressa anche da Kook 1962, pp. 37-38. 10In Italia, l’opera in tal senso più significativa rimane Lo Schiavo 1983.

Epici, lirici, tragici

35

nel senso che il poeta non narra solo una catena di fatti, ma ne ri­ cerca, sia pure a livello fantastico-poetico, le ragioni. Questo modo poetico di vedere le cose è esattamente l’antecedente della ricerca filosofica della causa, del principio, del perché delle cose. E una ter­ za caratteristica dell’epos omerico prefigura la filosofia dei Greci: nell’uno e nell’altra la realtà è presentata nella sua totalità»11. La ricerca di ordine, di ragione, di comprensione dell’intero, lasciano infatti ritenere che già in Omero l’uomo greco iniziasse ad assume­ re quella forma razionale che venne poi strutturalmente tematizza­ ta da Platone ed Aristotele. Nel 2012 abbiamo pubblicato un volume intitolato L ’umanesi­ mo di Omero12. Alcuni interpreti hanno ritenuto un po’ eccessiva la qualifica di “umanista” ad Omero, sia per la assenza del termine nella sua opera, sia per la assenza nel suo pensiero di una defini­ ta concezione di uomo. L’uomo è infatti in Omero, come fra breve mostreremo, filologicamente caratterizzato da una pluralità di fun­ zioni fisiche e psichiche, associata ciascuna ad uno o più organi, ma non definito nella sua essenza13. Nonostante si tratti di un uma­ nesimo iniziale, manchevole e problematico, iniziava già a nostro avviso a delinearsi, nei poemi, una concezione unitaria dell’uomo caratterizzata da precisi contenuti razionali e morali. Ciò emerge, come ora mostreremo, anche dalla valutazione etica che il poeta chiaramente attribuisce ai comportamenti dei vari eroi, i quali si pongono come veri e propri modelli di riferimento, positivi se pon­ gono in essere contenuti razionali e morali, negativi nel caso op­ posto. Facendo tuttavia un passo indietro, occorre ricordare che la centralità dell’uomo nei poemi omerici è stata universalmente am­ messa dagli interpreti proprio per il contenuto dei poemi stessi, i quali anche quando trattano degli dei o della natura, tendono sempre a parlare dell’uomo. Vi è invece una forte discordanza, fra gli interpreti, in merito alla questione di una eventuale presenza implicita del concetto di “uomo” nell’opera omerica, ed alla conse­ guente questione se a tale concetto possano essere attribuiti i ca­ ratteri della “persona”. Di fronte a questo “esame di maturità” cui da decenni è sottoposta l’opera di Omero, l’esito finale pare tuttora essere negativo. La maggior parte degli interpreti, quasi sempre 11 Reale 2001, p. 6. 12 Grecchi 2012 a. Riprenderemo qui, opportunamente rielaborati, alcuni contenuti di quel volume, cui rinviamo anche per una più ampia bibliografia. 13 II testo in cui questa tesi, su cui poi ampiamente torneremo, risulta me­ glio argomentata è Snell 1963, pp. 54-71-

36

Capitolo II

letterati (Omero rimane ancora patrimonio quasi esclusivo della letteratura), in base al prevalente taglio filologico dei loro studi, tende infatti solitamente ad affermare che in Omero si trovano al più nominate una molteplicità di parti del corpo e di corrisponden­ ti funzioni fisiche, non un sostantivo unico che le raggruppi tutte, appunto, in una sostanza unitaria definibile come “uomo”14. Questi interpreti hanno sicuramente delle buone ragioni, che ora esamineremo, in quanto in effetti sul piano filologico le cose stanno in maniera molto simile a come vengono descritte. Ciò no­ nostante, il piano filologico non è, sul piano filosofico, decisivo. Con un minimo di astrazione concettuale non si può infatti non notare che le singole parti del corpo di un personaggio, o le sin­ gole funzioni fisiche, sono comunque sempre riferibili alla unità del personaggio in questione, il quale presenta peraltro nei poemi omerici quasi sempre una propria ben definita personalità, ovvero precise caratteristiche individuali15. Mele (membra), gyia (brac­ cia), gounata (ginocchia) ed altre parti del corpo, sono spesso les­ sicalmente protagoniste nei poemi omerici, in quanto è mediante il corpo che, soprattutto nélYIliade, gli eroi omerici si esprimono. È tuttavia evidente che queste parti sono tali solo nella loro interre­ lazione, poiché, almeno per quanto concerne l’uomo, è solo l’unità complessiva di un intero che consente alla molteplicità delle sue parti di essere parti. La tesi che Omero avrebbe saputo solo pensare all’uomo come ad un insieme disomogeneo di organi e funzioni, è stata come detto sostenuta da diversi interpreti16. Ciò nonostante, l’attribuzione ad Omero di questa tesi, la quale a rigore non gli avrebbe nemme­ no consentito di considerare come uomini i singoli eroi, creava già

14Questa tesi è ben sintetizzata, fra gli altri, in Sarri 1997, pp. 37-49. La tesi è addirittura estesa alla intera «filosofia greca» da Coreth 1976 (p. 149). 15 Come ha affermato in merito Frànkel 1997 (p. 131), in Omero «ogni sin­ golo organo dipende direttamente dalla persona [...]. L’uomo, in quanto è un tutto, è ugualmente vivo in ognuna delle sue parti; quell’attività che noi chia­ meremo spirituale può essere attribuita ad ognuna delle sue membra [...]. Ogni singolo organo dell’uomo omerico [...] rappresenta nello stesso tempo la per­ sona nel suo complesso». 16 Per Mario Vegetti, ad esempio, «in Omero è assente [...] una qualsiasi concezione unitaria e integrata del complesso psicosomatico vivente. La vita, l’emozione, il gesto, appaiono disaggregati in una pluralità di esperienze non accentrabili intorno ad un io consolidato» (in Vegetti 1992, voi. II, p. 201). Scrive tuttavia correttamente Long 2016 (p. 22) che «questa interpretazione così influente di Omero, sviluppata dal filologo tedesco Bruno Snell, è ora am­ piamente caduta in discredito».

Epici, lirici, tragici

37

per Platone effetti comici, come quelli che egli attribuiva ad Aga­ mennone il quale, prima che Palamede inventasse i numeri sotto le mura di Troia, non avrebbe saputo neppure «quanti piedi aveva»17. La stessa totale assenza di un concetto di uomo unitariamen­ te inteso risulta del resto anche filologicamente criticabile. Scrive bene in merito Èva Cantarella che non è affatto vero che «il voca­ bolario omerico non conosce parole che indicano il corpo e l’anima intesi nella loro interezza»18. Per quanto riguarda il corpo esiste infatti la parola demas, più volte in questo senso utilizzata19. Snell considerava tale termine «un ben povero sostituto della parola cor­ po»20, ma in effetti, indicando esso di volta in volta le fattezze, la statura ed in generale tutte le caratteristiche del corpo nella sua to­ talità, demas sembra rendere, per quanto in maniera manchevole, almeno la unità corporea dell’essere umano. Pure psyche, che so­ litamente in Omero indica l’anima dell’uomo quando lascia la vita, talvolta rappresenta anche l’anima del vivente, con tutto il portato di unità psicofisica che ciò comporta21. Quand’anche in ogni caso queste parole non esprimessero compiutamente l’unità dell’uomo, questo non vorrebbe ancora dire, di per sé, che l’uomo omerico non aveva una percezione unitaria di sé stesso. In effetti, come scrive sempre Èva Cantarella, «a sostegno dell’ipotesi che l’individuo omerico avesse coscienza di sé come di un tutto organico sta un ar­ gomento difficilmente confutabile: egli indicava sé stesso e gli altri attraverso dei pronomi personali, e l’uso di questi pronomi presup­ pone necessariamente la identificazione di un io, di un tu o di un lui intesi come persone nella loro interezza fisica e psichica»22. In effetti, come già avveniva per molti miti che Omero riprese, ogni figura omerica risultava caratterizzata da una ben precisa persona­ lità. Per questo quando ad esempio si parlava di dei come Atena, Apollo, Hermes, piuttosto che di eroi come Achille, Agamennone, Odisseo, il pubblico sapeva bene come questi avrebbero reagito nelle varie circostanze, a riprova anche del ruolo di modelli etico-e­ ducativi che aedi e rapsodi attribuivano a queste figure.

17Repubblica, 522 d. 18Cantarella 2013, pp. 49-50. 19Iliade, V, 801; V ili, 305; Odissea, III, 468; II, 268 et al. 20Snell 1963, p. 24. 21 Ad esenpio Iliade, XXI, 569. 22 Cantarella 2013, p. 52. In questo senso, ci pare, anche Migliori 2017 (p. 202), per il quale «in Omero [...] non siamo di fronte a una povertà lessico-con­ cettuale: la scoperta della molteplicità che segna l’individuo suscita meraviglia e chiede definizioni e nomi, che però indicano sempre l’intero».

38

Capitolo II

La tesi della assenza di un concetto unitario di “uomo” nel pen­ siero omerico è stata recentemente sostenuta, nella maniera più articolata, da Giovanni Reale. Il compianto studioso ha infatti so­ stenuto che l’uomo omerico non seppe nemmeno pensarsi come «corpo», per cui sicuramente non avrebbe saputo pensarsi come «uomo». Ciò accadde a suo avviso in quanto «solo a partire dal VI e soprattutto dal V secolo a.C.»23, ossia «solo con la nascita del pensiero filosofico, si è imparato a considerare la molteplicità delle cose e dei loro vari aspetti nell’ottica dell’unità concettuale»24. Reale coglie giustamente che i termini corretti per impostare il problema non sono quelli filologici, bensì quelli filosofici. Se tutta­ via è indubbio che la comprensione teoretica del rapporto fra unità e molteplicità si ebbe solo con la filosofia, ci pare eccessivo elimina­ re ogni consapevolezza di questo genere da un pensiero implicita­ mente universalistico - come Reale stesso rilevava25 - quale quello omerico. Del resto, solo per fare un esempio fra innumerevoli altri possibili, nel contesto storico-sociale omerico gli scambi economici erano gestiti, in assenza di moneta, tramite unità di misura quali buoi, grano o altro. Ebbene: le unità di misura avevano appunto il compito di unificare, in termini di valore, la molteplicità delle mer­ ci. Esse non sarebbero nemmeno state pensabili come tali qualora fosse mancata, al pensiero omerico, una minima consapevolezza del rapporto concettuale fra molteplicità particolari ed unità uni­ versale in grado di raggrupparle. Pur affermando correttamente, come detto, che la questione della presenza o meno di una concezione unitaria di uomo nel pen­ siero omerico deve essere affrontata sul piano filosofico e non filo­ logico, ci pare che Reale sia caduto vittima, in questo caso, di una sorta di errato filologismo. Il fatto cioè che Omero nominasse più frequentemente mani, avambracci, piedi, ecc. rispetto all’intero corpo, non deve indurre a ritenere che egli non sapesse unificare quelle parti e le loro funzioni con riferimento ad un tutto unitario26. 23 Reale 1999, p. 15 24 Id., p. 17. 25 Reale 2001, p. 6. 26 In maniera analoga, il fatto che nell’arte arcaica le parti furono raffigu­ rate più dell’intero (tema su cui Reale 1999 insiste soprattutto alle pp. 18-27: rimane tuttavia troppo poco dell’arte arcaica, a nostro avviso, per poter trar­ re conclusioni così generali) pare prova non dirimente della tesi che in epoca omerica mancasse una concezione unitaria di uomo. A ben pensare, infatti, già nel VI secolo a.C., dunque prima dell’avvento dell’arte classica con Fidia e Policleto, l’arte greca rappresentava la figura umana come una perfetta unità fra le varie parti del corpo, raffigurate in adeguato rapporto le une con le altre ed

Epici, lirici, tragici

39

Infatti, come lo stesso Reale rimarca, «Omero fa riferimento ad or­ gani particolari del corpo [...] per esprimere mediante essi un sen­ so assai più ampio»27, che giunge «all’intero dell’organismo fisico, e addirittura anche all’intero dell’uomo sia in senso fisico sia spi­ rituale»28. Omero sapeva bene infatti che, quando ad esempio nei combattimenti un eroe veniva colpito in una parte del corpo, era comunque l’uomo intero, l’unità psicofisica che veniva colpita, e che talvolta periva. Reale giunge addirittura a contraddirsi quando è costretto ad affermare, dopo una lunga disamina di passi omerici, che in Omero «quella che noi chiameremmo unità della persona, anche se non viene teorizzata ed espressa concettualmente, di fatto non viene mai compromessa»29. Ciò accade in quanto «qualsiasi sia la parte dell’uomo chiamata in causa, è sempre l’insieme dell’uomo che entra in gioco: la parte è sempre, in larga misura, espressione di tutto l’uomo»30. Per questo, in Omero, «ciascun organo rappre­ senta la persona»31. Per Reale tuttavia, essendo il discorso mitico-poetico meramen­ te «narrativo, dispiegantesi in una successione di eventi scanditi nel tempo [...] con l’emergere in primo piano di una gran quantità di personaggi, di fatti e di episodi presentati in una molteplicità di aspetti»32, è impossibile che in esso si delinei un discorso uni­ tario e stabile sull’uomo. Con questa tesi non ci è però possibile concordare. Non ci pare infatti che dalla presenza nei poemi epici - così come nel teatro ateniese o nei dialoghi platonici - di «una gran quantità di personaggi, di fatti e di episodi», si possa dedurre l’assenza in essi di una implicita concezione di uomo. Omero, in effetti, non si limitò a narrare, ma volle anche descrivere e valutare i comportamenti umani, sulla base di un principio onto-assiologico costituito, ad avviso di chi scrive, da una implicita iniziale conce­ zione della natura razionale e morale dell’uomo33. Risulta evidente infatti come in Omero, nella quasi totalità degli episodi, sia lodato, e viva in maniera maggiormente felice, chi si comporta in modo

in funzione di una precisa relazione con l’intero che le rendeva armonicamente connesse. 27 Reale 1999, p. 32. 28Id., p. 34. Tesi simili anche alle pp. 64-65. 29Id., p. 69. 30Id., p. 69. 31 Id., p. 95. 32Id., p. 51. 33 Come ha scritto correttamente Jaeger 2004 (p. 85), «il poeta non narra soltanto fatti; egli vanta e loda ciò che vi è al mondo degno di lode e di vanto».

40

Capitolo II

ragionevole e buono, mentre sia criticato chi si comporta in modo opposto34. Indubbiamente Omero non operò ancora, sul piano te­ oretico, la riduzione concettuale della molteplicità alla unità, come farà in seguito la filosofia classica. Sta tuttavia all’interprete non fermarsi ai dati testuali, bensì fare emergere ciò che in essi rimane implicito. La dimensione “pre-filosofica” dell’opera di Omero, con cui concordiamo con Reale35, non consiste infatti in una assenza di contenuti umanistici nei suoi poemi. Essa, al contrario, consiste nella presenza di questi contenuti, che rimangono però, in larga parte, non ben definiti: per questo parliamo di una “pre-filosofia”, non di una vera e propria “filosofia”. In Omero dunque, per quanto in maniera ancora incerta, inizia ad emergere il carattere unitario della natura razionale e morale dell’uomo. In effetti, nelYIliade e nell’Odissea la conoscenza e l’a­ zione sono sempre considerate in maniera consequenziale36. Que­ sto fatto non può essere considerato un elemento secondario. Ciò in quanto, in poemi “prefilosofici” in cui l’aspetto teoretico viene raramente esplicitato, è la prassi, ossia l’azione, che fornisce le in­ dicazioni per effettuare poi tale esplicitazione, ossia per mostrare la concezione dell’uomo ad essi sottostante. La natura dell’uomo omerico si esprime infatti nel suo agire e nella valutazione che, di questo agire, il poeta lascia trasparire. È però proprio questo il punto in cui vi è la maggiore distan­ za con quegli studiosi i quali negano che al pensiero omerico, ed in generale al pensiero greco, possa farsi risalire il concetto di “persona”. Nonostante la presenza di molti passi omerici37 in cui il termine menos «esprime addirittura il carattere essenziale della persona»38, infatti, Reale, insieme ad altri interpreti, nega poi la

34 Pensiamo, in negativo, alla vita miserevole di Polifemo e dei Proci, ed in positivo alla vita felice di Ettore, almeno prima dello scontro con Achille. 35 Reale 1999, p. 56. 36 Ricordiamo ad esempio che il vecchio Fenice, precettore di Achille, in­ segnava la necessità di «essere, insieme, oratore di discorsi ed operatore di azioni» (Iliade, I, 443-444). Il noos nei poemi omerici è del resto l’organo più elevato dell’uomo. Nei poemi, inoltre, la «persona» viene spesso indicata col termine «testa», kephale (Iliade, XVIII, 112-114; XXIII, 94-98). L’epos non è infatti solo azione, ma ancor prima noos, riflessione, come la figura di Odisseo mostra in maniera emblematica. 37 Iliade, V, 124-126; VI, 123-127; XI, 264-272; XIV, 414-418; Odissea, II, 270-273 et al. 38 Reale 1999, p. 96.

Epici, lirici, tragici

41

presenza di tale concetto nell’opera omerica, attribuendola esclusi­ vamente al pensiero cristiano39. Persona: coscienza e responsabilità La riflessione sulla presenza di una idea di “uomo” nei poemi omerici porta inevitabilmente con sé anche la riflessione sulla pre­ senza di una idea di “persona”. Il tema della “persona”, a sua volta, porta inevitabilmente con sé il tema della “coscienza”. Affinché ci sia “personalità” occorre infatti non solo che l’uomo sia in grado di riflettere razionalmente su sé stesso e sul mondo, ma anche che egli sia consapevole di tale riflessione, pertanto in grado di risponder­ ne, quindi di essere responsabile di ciò che dice e fa. In merito, come ha sostenuto anche Antonia Cancrini, «costan­ te e tipico motivo della storiografia sul mondo classico è l’idea che il concetto di coscienza morale sia una scoperta del cristianesimo, assente nella tradizione greca più antica»40. L’estraneità dell’idea di coscienza al mondo greco è stata infatti asserita in modo pe­ rentorio da molti autorevoli studiosi, fra cui Jaeger, il quale, pur convinto sostenitore dell’umanesimo greco, ha affermato che «nel pensiero greco antico manca un concetto paragonabile alla nostra [cristiana; L. G.] coscienza personale»41. Della stessa idea Julius Stenzel, per il quale «parlare di coscienza [...] presso i Greci signifi­ ca introdurre qualcosa di estraneo, anche per Platone»42. Si tratta di tesi, a nostro modo di vedere, discutibili, in quanto spesso scaturiscono dalla assunzione preliminare di un concetto particolare di coscienza (quello cristiano) che, effettivamente as­ sente nel mondo greco, conduce indebitamente questi studiosi a negare per il mondo greco l’esistenza di qualunque forma generale di coscienza43. Ciò è stato ben compreso da Rodolfo Mondolfo, il quale, con riferimento al rimprovero fondamentale rivolto all’etica

39 Oltre a Reale 1999, un altro esempio di questa tendenza è Mondin 1998, voi. II, pp. 10-12. 40Cancrini 1970, p. 25. 41Jaeger 2004, p. 68. 42Stenzel 1966, p. 33. 43 II termine coscienza (syneidesis) neH’originario significato che emerge dai testi omerici, allude al «sapere insieme con pochi altri, e quindi, all’estre­ mo, solo con sé stessi» (Cancrini 1970, p. 7). Di questo sapere è sicuramente emblema Odisseo. Scrive comunque correttamente la studiosa che in epoca omerica, e non solo, manca sia una vera e propria definizione, sia «una teoria della coscienza»; vi fu tuttavia «un vario e diverso modo in cui questa espe­ rienza umana, che sogliamo designare col termine di coscienza, fu intuita ed

42

Capitolo II

greca per la presunta mancanza di una nozione di coscienza mora­ le, ha fornito una estesa dimostrazione documentata dello sviluppo di teorie della coscienza morale nell’etica antica, a partire appunto da Omero44. Come per il concetto di “uomo”, anche per il connesso concetto di “coscienza” la questione può essere affrontata in diversi modi, uno dei quali è sicuramente quello filologico. Non vi è dubbio che il termine greco più simile al latino conscientia, ossia syneidesis, compaia per la prima volta, in Grecia, solo nel frammento B 297 di Democrito. Gli studi di Carlo Del Grande hanno tuttavia riscontrato un tema analogo già in Omero. Significativa è in pro­ posito la sua affermazione, a nostro avviso condivisibile, secondo cui nel mondo omerico, ed ancor prima nel mito, Aidos era già «la dea simbolo della coscienza individuale»45. Molteplici sono inoltre i passi omerici46 in cui è evidente la riflessione su sé stessi e sul mondo: questi passi, ma soprattutto la splendida figura di Odisseo, segnalano inequivocabilmente la presenza della coscienza anche nel pensiero omerico47. Il concetto di “coscienza” rinvia comunque, necessariamente, al concetto di “persona”, per cui la negazione della esistenza di una umanità cosciente nel pensiero omerico conduce anche, a maggior ragione, alla negazione nello stesso del concetto di “persona”. Tale tesi è stata ad esempio sostenuta da un altro grande studioso catto­ lico del pensiero greco, ossia Enrico Berti. In un libro-dialogo con noi realizzato, Berti ha infatti affermato che «il concetto di persona può nascere solo dove si insista sulla singolarità, sulla irripetibilità di ogni specifica esistenza», e che «ciò si verifica soprattutto nella religione cristiana». Principalmente nella Bibbia infatti, comun­ que non nel pensiero greco, «il singolo uomo è davvero conside­ rato come unico, insostituibile, e la insostituibilità è alla base del concetto di persona»48.

espressa dagli antichi Greci» (Id., p. 13). Questa tesi è stata ampiamente argo­ mentata da Williams 2007, pp. 31-90 44 Mondolfo 2012; Mondolfo i960. 45 Del Grande 1947, p. 27. 46Ad esempio Odissea, X, 515; XV, 526; XVII, 152; XX, 92 47 Sulla figura di Odisseo, ci permettiamo di rinviare a Grecchi 2012 a, pp. 173-190. Concordiamo anche con la ottima interpretazione di Privitera 2005, la quale ha ampiamente mostrato che «l’Odisseo bugiardo, fraudolento, insi­ dioso, evocato da più parti nel corso dei secoli, è un Odisseo estraneo ai due po­ emi omerici» (pp. 25-26). In tutta l’opera omerica infatti Odisseo è posto sotto la tutela di Atena, la dea del saggio consiglio, non di Hermes (Id., pp. 35-44). 48Berti-Grecchi 2009, p. 59.

Epici, lirici, tragici

43

La argomentazione di Berti si basa sulle note affermazioni evan­ geliche secondo cui il nome di ciascuno di noi è scritto nel Regno dei Cieli, o che perfino i capelli del nostro capo sono contati, nel senso che Dio ci conosce uno ad uno, ed ha cura di noi nella nostra individualità. Ora: è indubbiamente vero che queste tematiche, in attinenza al divino, sono tipiche del pensiero cristiano, come emer­ ge ad esempio negli scritti di Antonio Rosmini, Emmanuel Mou­ nier e Jacques Maritain. Ancora una volta, però, il fatto che tali tematiche siano state maggiormente trattate dal pensiero cristiano non può condurre ad affermare che esse furono totalmente assen­ ti nel pensiero greco, o che comunque non raggiunsero in Omero quella massa critica tale da poter parlare, anche nella sua opera, di un concetto di “persona”49. Per esplicitare il tema in esame nel modo più corretto, ossia sul piano filosofico, è necessario tuttavia cercare di delineare le princi­ pali caratteristiche che consentono di definire il concetto di perso­ na. Ci viene in aiuto in merito la storia della filosofia, in particolare quella del periodo medievale. In quest’epoca, ancor prima della nota definizione di Severino Boezio (personae est naturae rationalis individua substantia), vi fu una definizione meno nota ma a nostro avviso altrettanto importante, ovvero quella di Giovanni Damasceno: «Persona è quell’ente che, esprimendo sé stesso per mezzo delle sue azioni e proprietà, porge di sé una manifestazio­ ne che lo distingue dagli altri della sua stessa natura»50. Ebbene: è evidente che queste «azioni e proprietà», declinate da ogni persona in maniera distinta, furono presenti anche nelle figure degli eroi dei poemi omerici. Se così non fosse infatti, ovvero se nel pensiero omerico fossero assenti forme di “personalità” individuale caratte­ rizzate da tratti specifici, ci troveremmo di fronte ancora una volta ad aporie inspiegabili. Perché ad esempio Odisseo decise con gran pericolo di tornare proprio dalla amata Penelope, e non si accontentò di Calipso o di Nausicaa, che pure erano in vario modo bellissime e virtuose? Per­ ché Achille decise di continuare a combattere, pur dopo la morte di tanti compagni, solo dopo che venne ucciso l’amico Patroclo? Perché Priamo, dopo tanti lutti fra i suoi figli, fu disposto a rischia­ re la vita solo per riavere il corpo di Ettore? È evidente che l’amata

49 Come scrive Frànkel 1997 (p. 107), in Omero anche «le grandi divinità Atena ed Apollo appaiono [...] come personalità indipendenti e libere», poiché «quanto più grande è un dio, tanto più esso è per l’epos una persona». 50Dialectica, c. 43: in Migne, PG94 col. 63.

44

Capitolo II

Penelope, l’amico Patroclo, il figlio Ettore, possedevano per Odis­ seo, Achille, Priamo qualità umane personali insostituibili. E dav­ vero gli esempi, nei poemi omerici, potrebbero moltiplicarsi51. Per questo motivo reputiamo non corretto che ancora oggi si possa sostenere, nelle più importanti enciclopedie filosofiche, che «la filosofia dei Greci [...] manca del concetto di persona»52. Consi­ deriamo in tal senso molto più corrette affermazioni come quella di Aldo Brancacci, secondo cui «le idee di coscienza personale e di coscienza morale furono tutt’altro che ignote alla antichità clas­ sica»53. L’attribuzione ad Omero di un concetto di “uomo”, così come - per quanto in maniera differente dal pensiero cristiano - di “co­ scienza” e di “persona”54, è rilevante anche per l’attribuzione al me­ desimo di una riflessione morale. È evidente infatti che se l’uomo omerico è (anche) una coscienza pensante, ovvero una persona che riflette sulle proprie azioni cercando di scegliere bene e di svolgerle al meglio, egli è (anche) una persona razionale ed eticamente re­ sponsabile. Questo è in effetti ciò che fanno, in primo luogo, gli eroi maggiori, ossia Odisseo, Ettore ed Achille. Per questo motivo è errato anche affermare, come pure spesso è stato fatto, che nei poemi omerici gli uomini erano totalmente subordinati al volere degli dei, ed in quanto tali privi di responsa­ bilità per le proprie azioni55. Come ha scritto correttamente Max

51 Porro-Lapini 2017 (p. 51) hanno sottolineato ad esempio come «Ecuba, Penelope, Calipso, Circe, Nausicaa [...] sono personalità connotate con molta precisione, talvolta persino caratterizzate psicologicamente». Fornaro 2003 (p. 119) è giunta addirittura ad affermare, trattando della personalità di Achille modellata dal rapporto con la sua ira, che «Ylliade finisce per essere anche opera antesignana del romanzo di formazione». La personalità di alcune figure omeriche, in primis Odisseo, è ben trattata, con riferimento alla tematica del pianto, in Faranda 1992. 52 L. Stefanini, nella voce Persona, in Aa.Vv. 2006, p. 8519. 53 In Giannantoni-Narcy 1997, p. 284. 54 II termine «persona», nel latino precristiano, traduceva essenzialmente il greco prosopon, con cui come noto si indicava la maschera teatrale. Ci sem­ bra tuttavia errato ridurre la concezione greca della individualità, ossia della persona, al prosopon, come se i Greci avessero saputo riconoscere il soggetto solo come un ente «legato al ruolo e dunque alle relazioni che l’individuo era in grado di instaurare con gli altri» (Basti 2008, p. 345). 55 Questa tesi è stata ad esempio sostenuta da Mondin 1993 (p. 253), secon­ do cui la cultura greca sarebbe affetta da «servo arbitrio», ossia da «fatalismo», ovvero da «una concezione della realtà che fa dipendere eventi ed azioni del mondo e dell’uomo unicamente da una causa assoluta più o meno consapevo­ le, cui comunemente si dà il nome di Fato». Errata ci sembra anche la tesi di

Epici, lirici, tragici

45

Pohlenz, molti autori hanno da questa tesi indebitamente «tratto la conclusione che l’uomo omerico ignori nel modo più assoluto il li­ bero atto di volontà, facendo risalire le proprie decisioni ad una po­ tenza soprasensibile. In realtà, nemmeno in tali momenti [ovvero quando intervengono le divinità; L. G.], egli si sente uno strumento privo di volontà in mano agli dèi»56. Quando infatti, ad esempio, Atena venne a placare la collera di Achille, ed egli accettò di far­ si calmare da lei, nulla nei testi omerici lascia pensare che Achille debba essere considerato come un fantoccio nelle mani di Atena. Egli scelse di ascoltarla e di non affrontare direttamente Agamen­ none mediante una decisione volontaria57. Questo episodio - ma molti altri se ne potrebbero citare - mostra la presenza dei temi della coscienza e della responsabilità nei poemi omerici58. In essi infatti gli dei svolgevano indubbiamente un ruolo importante, ma ponevano il più delle volte solo di fronte a delle alternative, in cui la scelta ultima era lasciata agli uomini. L’uomo descritto da Omero può infatti sempre opporsi al desti­ no ed alla divinità, e spesso nei poemi omerici decide di compor­ tarsi proprio in questo modo, rivendicando la propria autonomia,

Storoni Piazza 1999 (p. 31), secondo la quale Omero «non ci presenta perso­ nalità autosufficienti, responsabili delle proprie azioni, dei propri giudizi, ma attribuisce agli dèi la responsabilità delle colpe degli uomini». In maniera ana­ loga Jellamo 2005 (p. 141), secondo cui «dall’orizzonte etico di Omero rimane esclusa l’idea di responsabilità: i personaggi omerici possono essere colpevoli, ma non responsabili». È evidente, però, la ambiguità di tesi come questa, poiché ad ogni colpa si accompagna sempre la responsabilità, che costituisce del resto il tema centrale dell’etica (Da Re 2008, p. 258). Come colse già Mondolfo i960 (pp. 40-41) con riferimento al 1 libro dell’Odissea, la polemica di Zeus contro gli uomini «sup­ pone già la preesistenza di una viva discussione sulla responsabilità dell’operare [...]. L’uomo è responsabile del suo operare, e diventa così creatore del proprio destino». 56 Pohlenz 2006, p. 21. 57Aveva ragione Vegetti 1989 (pp. 26-27) ad affermare che «si può parlare di responsabilità laddove l’individuo si pensi, e venga pensato, come un ful­ cro personale di decisione, come una soggettività autonoma da cui dipendono intenzioni, scelte e comportamenti; solo allora esso potrà venire considerato, e considerarsi, giudicabile, imputabile, insomma valutabile per le azioni com­ piute e le intenzioni soggiacenti». Errava tuttavia, ad avviso di chi scrive, nel sostenere che «nulla di tutto questo può avere senso per Agamennone e le altre figure eroiche della società omerica. Esse si concepiscono come determinate nei comportamenti, oltre che dalla pressione dell’attesa sociale, dalPinflusso iperpotente di agenti esterni, la divinità in primo luogo» (Id., p. 27). 58In questo senso anche Pasquali 1929 e Mondolfo 1935, pp. 3-9.

46

Capitolo II

anche pagandone il prezzo59. Come ha scritto correttamente Aldo Magris, il destino, nella Grecia omerica, «di regola non impedisce al soggetto di ponderare ed eseguire autonomamente le sue scel­ te [...]. Esso non toglie libertà all’agire»60. Nei poemi omerici, in effetti, non esiste un unico destino in cui tutto risulti già scritto. La Moira disegna per ciascuno una pluralità di trame, ovvero una serie definita di alternative, fra le quali esercitare la propria scelta in base ad una adeguata riflessione ed alla specificità del proprio carattere. Il destino, dunque, appare nei poemi omerici come un ventaglio di possibilità, pur non sempre facili da comprendere61. Per questo tale presenza, nei poemi, non comportò mai una dere­ sponsabilizzazione dell’uomo62. Il destino, nei poemi omerici, può quindi essere presentato come la cornice entro cui opera la liber­ tà di ciascuno, ed in cui ogni uomo determina il proprio progetto di vita. Esso è diverso per Agamennone, Ettore, Achille, Odisseo, ma solo in quanto, appunto, ciascuno di questi eroi è dotato della propria personalità. Come ha scritto giustamente Anna Ferrari, «la mitologia propone attraverso le vicende esemplari dei suoi eroi l’i­ potesi che ciascuno generi da sé il proprio destino, e che si renda in parte artefice di ciò che gli succederà, nel bene come nel male, nel momento stesso in cui compie in piena libertà e per propria volontà una scelta che provocherà però conseguenze ineludibi­ li»63. Come ha scritto correttamente anche Rodolfo Mondolfo, fu presente in Omero «un destino che non esclude la responsabilità dell’uomo, cui spetta determinarne con la sua azione il corso»64. Poiché questa responsabilità consapevole si ha solo all’interno di orizzonti culturali non dominati dal destino o dagli dei, bensì da autonome scelte personali, possiamo sostenere che la tesi secondo cui gli uomini omerici sarebbero in balia del destino o degli dei, costituisce un luogo comune ermeneutico fortemente discutibile. Il fatto che l’uomo omerico - come mostreremo nel prossimo paragrafo - dovesse accettare il limite della propria condizione mortale, e dovesse per conseguenza porre molta attenzione alla

59 Iliade, III, 59; VII, 487; XVII, 321; XX, 30; XXI, 517; Odissea, IX, 352; XIV, 509. 60In Aa.Vv. 2006, p. 2742. 61Iliade, XVI, 849. 62Iliade, XIX, 187; Odissea, XXII, 303 63Ferrari 1999, p. 320. 64 Mondolfo i960, p. 49. Anche per Magris 1984 (voi. I, p. 248) «è il con­ cetto che l’uomo porta la responsabilità dei suoi atti [...] a dare il la a tutta l’Odissea».

Epici, lirici, tragici

47

misura negli atti della propria vita, è assolutamente compatibile con la sostanziale libertà che caratterizzò la vita dei vari eroi greci. Per questo motivo riteniamo non corretta anche la tesi espressa, ad esempio, ancora da Reale, secondo cui «le regole di base secondo le quali l’uomo omerico cerca di attuare pienamente sé medesimo sono sostanzialmente due: ascoltare la parola degli dei, ed inoltre accettare la sorte e il destino che tocca a ciascuno, qualunque esso sia, in quanto esso è voluto dagli dei»65. La presenza di questa dop­ pia regola etica è infatti, con riferimento al contesto omerico, più volte smentita66. Non si può, certo, escludere che molti uomini dell’epoca pen­ sassero di essere in balia degli dei e del destino. Tuttavia, i poemi che hanno fatto per secoli di Omero l’educatore della Grecia, non avrebbero potuto in questo caso - ossia se si fossero realmente li­ mitati a raccomandare l’accettazione del destino qualunque esso fosse - essere stati pensati come tali67. Odisseo, infatti, riesce a ri­ tornare a casa dopo un pericolosissimo viaggio di dieci anni, non certo per l’aiuto degli dei (Atena scompare in molte delle sue av­ venture), quanto per avere assunto decisioni consapevoli in ma­ niera responsabile. Allo stesso modo, la vita di Achille fu quella che fu proprio per la sua decisione di condurre una esistenza breve ma illustre, rispetto alla vita lunga ma oscura per la quale avrebbe po­ tuto optare. Gli dei omerici peraltro mostrano più volte di non essere onni­ potenti, e questo vale anche per la più potente delle divinità olim­ piche, ossia Zeus. È lo stesso Zeus, all’inizio dell’Odissea, ad affer­ mare che gli uomini tendono sovente ad incolpare gli dei per le loro errate decisioni, ma in realtà la colpa - la responsabilità - è degli uomini, ossia della loro cattiva umanità68. Molteplici, soprattutto nell’Iliade, sono i casi in cui gli dei sono accusati di provocare le azioni degli uomini69, o addirittura descrit­ ti nell’atto di causare queste azioni70. Gli dei tuttavia che, volta per 65 Reale 1999, p. 124. 66 Come ha scritto correttamente Adkins 1964 (p. 183), l’uomo omerico fu «ben poco propenso a credere che gli dei gli fornissero un pretesto per i suoi misfatti o i suoi errori». Per «le proprie azioni e decisioni, l’uomo è pienamente responsabile» (Id., p. 184). 67 Come noto, non sempre, anche in epoca antica, Omero è stato ritenuto un educatore. Note sono in merito le critiche ad Omero di Platone (su cui Labarbe 1976) e di Aristotele (su cui Sanz Morales 1994). 68 Odissea, I, 32 ss. 69Ad esempio Iliade, III, 154-165; XIX, 85-97; et al. 70Ad esempio Iliade, III, 390-420; XVIII, 310-313; XIX, 85-97; et al.

48

Capitolo II

volta, illuminano o accecano la mente degli uomini, devono essere più verosimilmente interpretati, nei poemi omerici, come rappre­ sentazioni della ragione morale che, se ben strutturata, illumina gli uomini, e se mal strutturata li acceca71. In questo senso concor­ diamo pienamente con Silvio Accame quando affermava che «l’antropomorfismo degli dei omerici è una forma di razionalismo»72, ossia di quella ricerca di verità-bene propriamente greca presente già in nuce, evidentemente, nella Grecia omerica. Hegelianamente gli dei omerici esprimevano, per quanto ancora in maniera confu­ sa, la necessità della presenza di principi insieme razionali e mo­ rali, il rispetto dei quali rappresentava per l’uomo la vera libertà, coincidendo con il dispiegamento compiuto della propria umanità. Questi principi, incarnati da alcuni modelli umani (Odisseo, Etto­ re, Penelope ed altri), erano “necessari” da seguire per una buona vita, ma l’uomo era “libero” di seguirli o meno, e per questo “re­ sponsabile”73. Umanesimo omerico: e la violenza? Dato che la interpretazione prevalente dell’uomo omerico tut­ tora ne nega personalità, coscienza e responsabilità, ne consegue che la interpretazione prevalente dell’etica omerica rimane ancora quella delineata oramai parecchi anni fa da Simone Weil, che in­ dicò Ylliade come «il poema della forza»74. Diversi studiosi, sulla scorta di Weil e del motivo bellico prevalente neWIliade, hanno in­

71 Come scrive correttamente Montanari 2017 (voi. I, p. 75), «gli dei fanno la loro comparsa laddove gli eventi non possono essere spiegati sufficientemente nei termini umani e con l’azione degli uomini». È tuttavia vero che nei poemi omerici, talvolta, «il quadro complessivo non è coerente [...] si oscilla fra responsabilità umana e volontà divina» (Id., p. 76). 72Accame s.d., p. 123. 73 Scrive infatti correttamente, in merito, Cantarella 2009 (pp. 185-187) che «in Omero esiste già il concetto [...] di responsabilità. Di questo concet­ to gli uomini e le donne omerici hanno una coscienza ancora essenzialmente empirica, ma non del tutto irriflessa [...]. L’individuo omerico distingue chia­ ramente l’atto volontario daH’atto involontario [...] I poemi ci pongono di fron­ te al momento della prima apparizione dei concetti etici moderni nel mondo greco. Ed è un’apparizione che rivela un lungo travaglio di pensiero, di cui i poemi riportano al tempo stesso le posizioni più tradizionali e le acquisizioni più avanzate». Nella medesima direzione Lesky 2005 (voi. I, p. 80), per il quale sostenere che l’uomo sia «una semplice marionetta, mossa dall’impulso divino [...] fraintenderebbe completamente la struttura del mondo omerico, introdu­ cendo una distinzione che per quel mondo è completamente estranea». 74Weil 1999, p. 31. Significativo soprattutto Weil 2014, pp. 31-64.

Epici, lirici, tragici

49

fatti evidenziato, nella descrizione dell’uomo omerico, la centralità del momento agonale, lasciando così implicitamente intendere che la natura dell’uomo omerico fosse conflittuale, prevaricatrice, com­ petitiva. Così facendo, tuttavia - come mostra chiaramente il finale pacificatore dell’Odissea75 - , si compie a nostro avviso un errore grave, in quanto ci si allontana irrimediabilmente dalla corretta comprensione della finalità umanistica dell’opera omerica. Per chiarire questo punto, può essere utile approcciarsi alla pre­ valente interpretazione dell’uomo omerico fornita da uno dei più grandi antichisti, il compianto Mario Vegetti. Lo studioso aveva sostenuto in merito che la «virtuosità» in Omero, ossia l’eccellenza dell’uomo, «si esprime soprattutto ed essenzialmente nell’agone guerriero, nella capacità di far prevalere la propria forza su nemici e rivali»76. A suo avviso, nell’Iliade arete era essenzialmente coin­ cidente con bia. Nonostante quanto afferma Vegetti sia talvolta vero77, sostenere questo in generale equivale a descrivere il mondo omerico come una società ferina78, cosa, a nostro avviso, fortemente contraria al vero. Se è infatti corretto affermare che il coraggio è la grande virtù dei mitici personaggi omerici (Achille, Odisseo, Diomede, Aiace, ecc.), è ancor più corretto rimarcare che il poeta elogia implicita­ mente questi personaggi solo quando essi fanno buon uso di questa virtù, mentre implicitamente li biasima quando ne fanno cattivo uso, ovvero quando eccedono, trasformando l’eroismo in prevari­ cazione (pensiamo, in positivo, al ripetuto elogio della moderazio­ ne di Odisseo, ed in negativo alla ripetuta critica della efferatezza di Achille). Le virtù infatti, per l’uomo greco, rimangono tali solo finché mantengono, nel rapporto con la situazione, una giusta mi­ sura, ossia una conformità a quei contenuti razionali e morali che Omero colse implicitamente caratterizzare l’uomo nella sua com-

75 Scrive in merito giustamente Zampagliene 1967 (p. 22), rimarcando pe­ raltro l’esistenza di vari istituti paragiuridici volti ad umanizzare gli aspetti di maggiore durezza della guerra, che «se Ylliade si concludeva con una tregua, l’epilogo dell’Odissea si risolveva in un vero e proprio invito alla pace, quasicché da tante sofferenze e traversie dovesse sgorgare l’ammonimento, rivolto agli uomini, ad amarsi reciprocamente come prima e l’augurio alla ricchezza e alla pace di fiorire nuovamente» (Odissea, XXIV, 485-486). 76Vegetti 1989, p. 17. 77Ad esempio IX, 498 ss.; XIII, 277 ss.; XV, 642 ss. 78 Come lo stesso Vegetti 1989 (p. 18) afferma, «il carattere fondamental­ mente agonale della virtù eroica, la difesa ad oltranza della propria time, non possono accettare i vincoli [...] della stessa condizione umana [...]. L’afferma­ zione di sé richiede la negazione dell’altro».



C a p ito lo II

piuta umanità. Smarrendo la giusta misura, le virtù si trasformano invece in vizi, quali sono, in quanto tali, tutti gli eccessi. Per questo motivo discordiamo dalla tesi di Vegetti secondo cui nella società omerica non esisterebbero «presupposti di una concezione mora­ le collaborativa, fondata sulla comunanza dei valori»79. Tale tesi si scontra infatti con molte descrizioni della società omerica presenti appunto sia nell’Iliade che nell’Odissea80. Pensiamo ad esempio alla più grande comunità descritta dall’7liade, vale a dire la città di Troia. Si tratta di un contesto in cui regna grande armonia fra governanti e cittadini, dato che la città resiste unita, nella descrizione omerica, a dieci anni di assedi e privazio­ ni. Ettore in effetti, figlio del re Priamo e designato erede al trono, decise di affrontare la probabile morte in battaglia con Achille per amore della propria gente, dalla quale anch’egli era amato, e con la quale condivideva una evidente comunanza di valori. Come ha rimarcato in merito Bruno Snell, «la società omerica sta insieme perché nel suo complesso gli uomini hanno una concezione unita­ ria di ciò che è buono e cattivo. I Greci, e allo stesso modo i Troiani, sanno che cosa sia un uomo buono. Per loro, non è dubbio in cosa consiste la virtù»81, ed essa non coincide con bia. Nessuno infatti, nei poemi omerici, è disposto a considerare virtuoso Achille men­ tre infierisce sul cadavere di Ettore, o Agamennone mentre esercita in modo tracotante il proprio potere contro le più elementari nor­ me comunitarie di giustizia. La interpretazione maggioritaria che caratterizza i poemi ome­ rici come «poemi della forza» coglie una parte della verità (la «vir­ tù agonale» nella forma del coraggio), ma tende indebitamente a farla diventare l’intera verità, trascurando i molti contenuti uma­ nistici presenti nell’opera omerica. Anche nell’Iliade furono infatti preponderanti valori etici di condanna della bia - la quale, se ec­ cessiva e mal rivolta, fu considerata hybris82 - , e furono prima­ riamente proposti valori comunitari, come prova il ruolo di primo piano della figura di Ettore. Pensiamo inoltre al tema della difesa dei deboli e degli stranieri, più volte ribadito soprattutto dall’Odis­ sea (e presente anche in Opere e giorni di Esiodo83). Come ebbe

79Vegetti 1989, p. 20. 80 Come ha ben colto fra gli altri Valgimigli 1951 (p. 299), «la poesia greca classica [...] è creata entro e per la vita comunitaria». Significativo in merito anche Bonanni 1992. 81 Snell 1971, p. 26. 82 In tal senso anche Del Grande 1947, pp. 9-26. 83 Opere e giorni, w . 327 ss.

Epici, lirici, tragici

5i

giustamente a scrivere Geoffrey Murray, «qualsiasi lettore sensi­ bile alla poesia greca antica noterà l’importanza, 0 addirittura la santità, che viene considerata come caratteristica di tre categorie di esseri umani: stranieri, supplici e persone anziane. Cosa c’è in co­ mune tra queste tre categorie? [...] Nient’altro che il fatto di essere indifese»84. Può essere questa l’etica di una cultura che si incentra sulla forza? Per questi motivi riteniamo non corretto affermare, come appunto faceva Vegetti, che Ylliade «canta ed elogia la vendet­ ta e il massacro, l’accumulo di bottini infiniti, gli interminabili banchetti, l’uso dei corpi femminili»85. L’Iliade canta effettiva­ mente «l’eccesso e le passioni», come «l’ira, la collera, l’avidità di ricchezza, la brama dei piaceri del cibo e del sesso»86, ma non le elogia. Al contrario, vi sono molti passi in cui queste passioni sono esplicitamente biasimate. Pensiamo ad esempio ai versi con cui Achille insulta Agamennone proprio accusandolo di avidità87; o pensiamo ancora, nell’Odissea88, a quando Odisseo, nell’iso­ la dei Feaci, si sdegnò in quanto provocatoriamente accusato di essere un mercante. Circa poi il presunto elogio della vendetta, se essa fu nei poemi omerici tollerata ed in alcuni casi ritenuta giusta, va ribadito che fu duramente criticata quando eccessiva, ossia sfociante in massacro89. In questo senso, nella disfatta fi­ nale dei Proci, anche Odisseo non pare esente da biasimo, pur impedendo ad Euriclea di esultare sui nemici uccisi. Circa invece gli «interminabili banchetti», essi sono accettati solo come mo­ menti conviviali e comunitari, mentre sono mal visti (pensiamo ai banchetti dei Proci) quando predatori e dissoluti. Circa, infine, «l’uso dei corpi femminili», se pure esso pare comprovato con serve ed ancelle, era comunque in generale precluso con mogli e donne libere non consenzienti. In epoche in cui la considerazione sociale della donna non era rilevante, in alcune magistrali figure

84 Murray 1964, p. 114. 85Vegetti 1989, p. 33. 86 Id., p. 33. 87Iliade, I, 48 ss. 88Odissea, Vili, 158-164. 89 In merito al tema della vendetta, ci pare sostenga bene Zambarbieri 2002 (voi. II, p. 750) che «prima di Solone e delle sublimi fantasie tragiche di Eschilo, il poeta dell’Odissea chiude il poema con una novità [...] la scena celeste del colloquio tra Zeus ed Atena (XXIV, 472-476) sancisce la necessità che l’antica legge della vendetta, fonte di interminabili lutti all’interno delle famiglie, delle tribù, delle città, venga sostituita con una legge più umana e civile, fondata sul valore morale della giustizia tutelata dalla polis nascente».

52

C a p ito lo II

femminili (pensiamo nell’Odissea ad Arete, Nausicaa e Penelope) Omero rappresentò un atteggiamento di grande stima per l’altro sesso, verosimilmente auspicando che esso potesse diffondersi. Omero infatti in diversi casi assegnò alle donne un posto di relati­ vo rilievo, sebbene non ancora quella sostanziale parità auspicata poi da Platone nella Repubblica. Mostrata l’etica omerica come comunitaria più che come con­ flittuale, occorre ancora sottolineare la sua “continuità” con l’etica classica. La continuità del resto era ritenuta un valore anche da Omero, che nella Odissea rimarcò più volte l’importanza di cono­ scere molte cose antiche90, dato che esse conducono ad avere pen­ sieri onesti91, amichevoli92, giusti93, saggi94, benevoli95. Lo stesso va­ lore fu rivendicato appunto, come mostreremo, dall’etica classica nei confronti di buona parte dell’etica antica. La continuità mag­ giore presente nel pensiero greco fu peraltro il ripetuto tentativo di tematizzare la natura razionale e morale dell’uomo. Come ha ben colto Jaeger ponendo l’accento sull’Odissea, emerge infatti già nella Grecia arcaica il senso di una quotidiana umanità, tanto che anche l’eroe non era principalmente il guerriero violento, quanto «l’uomo colmo di saggi consigli, che in ogni situazione sa trovare le parole opportune»96. Alla luce di queste considerazioni, sembra lecito concludere che anche l’etica omerica difese, così come in generale tutta la successiva etica greca, i concetti di limite e di misura in rapporto alla potenziale sfrenatezza delle passioni. In questo senso, l’insi­ stito riferimento dell’Iliade e dell’Odissea alla vita armonica degli dei olimpici, segna la distanza - come hanno rimarcato diversi autori97 - rispetto ad una vita ferina condotta in balìa delle forze della natura, quale appunto quella dei Ciclopi. Più volte infatti i personaggi omerici, in primis Odisseo, affermano che «la giusta misura, in ogni cosa, è meglio»98, e sono pronti a criticare dura­ mente chi non la rispetta. Pensiamo ad esempio, nélYIliade, alle già citate critiche di Achille ad Agamennone per la propria smo­

90Iliade, II, 188; VII, 156; IX, 281; XII, 188. 91 Id., XIX, 248. 92 Id., Ili, 277. 93 Id., Il, 231; V, 9; XIV, 433. 94 Id., IV, 696; IV, 711; V ili, 586. 93 Id., XIII, 405; XV, 557. 96Jaeger 2004, p. 60. 97Ad esempio Snell 1963, p. 47. 98Odissea, VII, 309-310; XV, 70.

Epici, lirici, tragici

53

data avidità, oppure, nell’Odissea, alla dura reprimenda appunto verso Ciclopi, Lestrigoni ed altri popoli dotati di scarsa o nulla umanità. Molti studiosi sostengono che il concetto di metron, in Omero, esprimesse ancora solo l’unità di misura, e che esso as­ sunse il significato di “giusta misura” solo in Esiodo. In realtà, i contenuti presenti negli episodi qui menzionati ed in diversi altri, mostrano la rilevanza del tema della “giusta misura” anche nell’u­ manesimo omerico. Per questo ed altri motivi Omero, lungi dal promuovere l’uso della violenza e della forza nei rapporti umani, potè per secoli esse­ re considerato l’educatore dell’Ellade". Nella Grecia antica infatti, come noto, Ylliade e l’Odissea furono non solo i testi su cui i giova­ ni impararono a leggere ed a scrivere, ma anche, grazie alla grande presenza di modelli etici, i testi su cui si formarono. La paideia comunitaria rimanda inevitabilmente alla vita so­ ciale e politica. Anche su questo tema non possono sfuggire spunti molto interessanti presenti nei poemi per la corretta comprensio­ ne dell’uomo omerico. Il mondo che i poemi epici rappresentano era in effetti tutt’altro che primitivo. Il vivere sociale era retto da chiare norme etiche e politiche, affidate alla comunità che si fa­ ceva custode severa delle stesse. Spesso si afferma essere ancora mancante, nell’epoca omerica, una sviluppata cultura giuridica, in quanto la punizione sociale di colpe molto gravi, come l’omi­ cidio, era lasciata sostanzialmente alla vendetta privata9 100. Anche 9 tuttavia dove latitava la sanzione giuridica, era comunque presen­ te la sanzione sociale, in termini almeno altrettanto forti. Come ha correttamente sostenuto Ettore Ciccotti, infatti, già dall’Iliade si ha lo «specchio di una società largamente sviluppata; nelle for­ me politiche semplicemente abbozzate già spuntano i rudimenti del più complesso posteriore ordinamento dello Stato», oltre che «concetti progrediti del diritto e della convivenza civile»101. Per il pensiero greco, fin da Omero, l’uomo ideale fu in effetti colui che non mira solo ad eternare la propria gloria, ma pensa anche alla realizzazione del bene comune. Come ha scritto giustamente Storoni Piazza cogliendo la sottostante natura razionale e morale dell’uomo omerico, in Omero «per l’essere umano è naturale vi­ vere secondo l’ordine civile, sottoporsi alle norme di convivenza 99 Platone, Repubblica, 606 e; Isocrate, Panegirico, 159. Ancora all’epoca di Eustazio, nel XII secolo, i poemi omerici erano considerati un testo molto importante sul piano educativo. 100Rinviamo in merito a Cantarella 1978 e 1994, nonché a De Romilly 1995. 101 Ciccotti 1952, p. 61.

54

C a p ito lo II

volute da Zeus: proteggere i deboli [...], rispettare i vecchi, amare le donne, educare i figli, offrire ospitalità agli stranieri. La società che si attiene a questo criterio di giustizia naturale è prospera, ordinata, armoniosa»102. Il tema umanistico principale dei poemi omerici fu in effetti quello etico, ossia il fornire indicazioni morali non tanto tramite la argomentazione razionale, quanto soprattutto tramite gli esem­ pi, ossia mediante modelli comportamentali. Ciò è stato sottoline­ ato da diversi interpreti, fra cui R. Caut e G. Scarpat, per i quali «l’essenza dell’epos omerico» fu quella di costituire «paradigmi di virtù»103. La stessa tesi è stata sostenuta da un altro intelligente interprete del pensiero omerico, M. Zambarbieri, il quale, ponendo l’accento sulla personalità degli eroi omerici, ha rimarcato che «i personaggi di Omero non sono figure tipiche, ma individualità in­ confondibili, scolpite a tutto tondo nei loro sentimenti, senza nes­ suna indulgenza verso la ritrattistica [...]. I personaggi deM’Iliade sono creazioni morali»104. Nonostante la sostanziale correttezza di queste interpretazioni, occorre rimarcare come esse siano sempre state minoritarie nelle riprese moderne, e soprattutto contemporanee, di Omero. Il moti­ vo principale, come detto, è che oggi gli studiosi di cose omeriche sono soprattutto eruditi filologi accademici, portati a considerare YIliade e l’Odissea non come bacini di modelli etico-educativi, ben­ sì come enciclopedie di tipo storico-letterario, da cui trarre princi­ palmente spunti per approfondimenti. Si dimentica così di rilevare che, tramite i suoi miti, Omero produsse e trasmise in pubblico un patrimonio di saggezza tramandato da secoli, che gli uomini dove­ vano imparare, custodire e mettere in pratica se volevano almeno conservare quel determinato livello di civiltà105.

102 Storoni Piazza 1999, p. 66. 103 Caut-Scarpat 1961, p. 10. 104Zambarbieri 1988, vol.II, pp. 1004-1005. 105Aveva ragione Jaeger 2004 (pp. 114; 136) ad affermare che «YOdissea è un’opera di un’epoca il cui pensiero era già in alto grado razionalmente e siste­ maticamente ordinato [...]. In Omero si trovano spunti di una interpretazione filosofica dei singoli miti».

Epici, lirici, tragici

55

L ’uomo e la morte Come ricordato, l’uomo greco - il “mortale”106 - sentì molto il limite della esistenza, il che tuttavia non decretò una concezione pessimistica della vita. Al contrario i grandi eroi omerici, in primo luogo Odisseo, furono sempre carichi di progetti. Fu infatti proprio in risposta alla definitività della morte che emerge pianamente l’es­ senza razionale e morale dell’uomo greco. Conoscere la propria natura mortale aiutò in effetti sicuramente l’uomo omerico ad accettare la propria condizione. Ciò nonostante, egli dovette lungamente elaborare l’argomento, tanto che la rifles­ sione sulla morte divenne una componente costitutiva della rifles­ sione antropologica ellenica. Realmente numerose sono in effetti le citazioni che potremmo portare come esempi, ma, per brevità, ci limitiamo a menzionare le principali presenti nei poemi omerici: «Tale e quale la stirpe delle foglie, è la stirpe degli uomini»107. «Non c’è niente di più miserevole dell’uomo tra tutti gli esseri, quanti respirano ed arrancano sulla faccia della terra»108. «Nessun essere nutre la terra di più meschino dell’uomo, fra quanti respirano e vi si aggirano»109.

È rilevante rimarcare che questa consapevolezza tragica della vita umana non condusse mai la riflessione omerica al nichilismo. Ciò fu correttamente colto, fra gli altri, da Erwin Rohde, per il quale «non viene in mente a nessun uomo omerico di volgere in tutto e per tutto le spalle alla vita»110. Nei progetti di Odisseo, nella ener­ gia di Achille, nelle speranze di Penelope pulsa infatti pienamente

106Questa definizione risulta particolarmente significativa in quanto, per la maggior parte delle lingue indoeuropee (Dumezil 1924, pp. XV-XVT), l’uomo è il “terrestre" - anche in latino: homo da humus - , non il “mortale”. Questo a riprova di come il tema della morte fosse centrale per l’uomo greco. 107Iliade, VI, 146. L’immagine delle foglie è più volte ripresa nell’Iliade ma anche, come noto, in autori di secoli successivi pure molto diversi fra loro, fino a Pirrone ifr. 20 Decleva-Caizzi). 108Iliade, XVII, 466-467. Potremmo citare, per Ylliade, anche i passi XXI, 461-468.; XXIV, 518-533 et al. 109 Odissea, XVIII, 130-131. 110 Rohde 1970, voi. I, p. 2. Nella medesima direzione anche Pohlenz 2006 (p. 141): «Pessimisti i Greci? Il popolo dalle cui opere si irradia ancora oggi tanto entusiasmo per la bellezza, tanta pienezza di vita? Contro questa teoria il

56

C a p ito lo II

un desiderio di vita che costituisce l’essenza dell’umanesimo greco: questo nonostante i morti siano tutti ombre (schiai), sogni {oneiroi), fumo (kapnos)Ui. Donne, supplici e stranieri Fra i luoghi comuni più diffusi riferiti alla cultura omerica, vi è sicuramente quello secondo cui in essa vi sarebbe stata una scarsa considerazione verso donne e stranieri. Come tutti i luoghi comuni, anche questo possiede una parte di verità. Occorrerà tuttavia en­ trare maggiormente nel dettaglio della questione per comprendere come questa descrizione dei fatti non si attagli ai poemi omerici. Per quanto concerne le donne, come già accennato, l’Iliade e l’Odissea mostrano figure femminili dotate di elevato valore uma­ no, ed in ruoli peraltro anche gerarchicamente rilevanti. Penelope, ad esempio, regge nella maniera migliore la dimora di Odisseo re di Itaca nella sua lunghissima assenza, ed è considerata da Antinoo come una donna che ha avuto molti doni da Atena, fra cui «opere belle a sapersi e valida mente»112. Il kleos, ossia la fama di Penelo­ pe, è in alcuni brani addirittura assimilato a quella di un sovrano che esercita con giustizia, in maniera virtuosa, la propria funzione. Agamennone nell’Ade, elogiando proprio Penelope, pone anch’egli la fama di alcune donne sullo stesso piano di quella degli uomini, e così in un certo senso fa Odisseo113. È impossibile infatti dimen­ ticare la rilevanza della regina Arete nell’isola dei Feaci, o ancora le virtù di Andromaca, la fedeltà di Euriclea, ed altri casi minori di figure femminili di cui Omero esprime apertamente una ottima valutazione114. Fermo restando questo, risulta comunque non corretto affer­ mare che tutte le donne dei poemi omerici siano libere e rispettate. Come ha a più riprese rilevato Èva Cantarella, le stesse Penelope ed Andromaca furono figure il cui ruolo non fuoriusciva da quello

nostro intimo non tarda a ribellarsi. Con buona pace del Nietzsche, l’esperien­ za ci attesta che il pessimismo è qualcosa di paralizzante». 111 Emblematiche sono le parole di Achille nell’Ade: «Non abbellirmi, illu­ stre Odisseo, la morte! Preferirei da bracciante servire un altro uomo, un uomo povero e senza podere, piuttosto che dominare tra tutti i defunti» (Odissea, XI, 488-491). 112 Odissea, II, 117. 113 Id., XXIV, vv. 192-202; XI, vv. 225-326. 114 Rinviamo, per una panoramica sulla tematica femminile in Odisseo, a Cesareo 1984.

Epici, lirici, tragici

57

della casa. Ed anche gli altri personaggi femminili, «quando non sono personaggi mitici (in questo caso comunque insidiosi e peri­ colosi, come Circe e le Sirene), sono in realtà immagini socialmente e intellettualmente pallide e subordinate, escluse o nel migliore dei casi ignorate dal mondo maschile»115. Il marito, in effetti, aveva in epoca omerica il potere di castigare la moglie infedele infliggendole anche pene corporali. È emblema­ tico il caso di Zeus, che non solo percuoteva abitualmente la moglie Era, ma la sottoponeva a punizioni molto dure, come quando la in­ catenò e la sospese nel vuoto, legandole due grossi incudini ai pie­ di116. Questo quadro mitico, unito ai dati storici in nostro possesso, induce chiaramente a ritenere che, nel contesto sociale omerico, le donne si trovarono in una posizione di grave subordinazione al ca­ pofamiglia, marito o padre che fosse. Occorre tuttavia rilevare che, in ogni epoca storica, le grandi opere culturali, come appunto fu quella omerica, servivano anche a favorire un ideale miglioramen­ to della situazione, il che poteva avvenire mostrando ad esempio il valore di alcune figure femminili. Per quanto concerne invece gli stranieri, è necessario ancora chiarire che nel mondo omerico, ed in generale nel mondo greco, non vi fu alcuna forma di discriminazione “razziale” verso i mede­ simi, essendo peraltro lo stesso concetto di “razza”, in quell’epo­ ca, inesistente117. Nonostante si trovi proprio nelYIliade la prima presenza documentata del termine «barbaro»118, occorre da subi­ to chiarire che questo vocabolo non sanciva per gli Elleni alcuna differenza antropologica. Esso indicava invece semplicemente -

115 Cantarella 2010, p. 50. 116Iliade, XV, 16-21. 117 Come ha affermato Bourgeois 1971 (p. 125): «I Greci, sia di epoca omeri­ ca, che classica, che alessandrina, poeti, storici e moralisti, hanno, da vicino o da lontano, conosciuto ed apprezzato gli altri popoli [...] senza il minimo pre­ giudizio razziale, e con i sentimenti più favorevoli [...]. È confortante vedere che, in rapporto a tanti popoli che hanno guardato all’Africa solo per le sue ricchezze d’oro, avorio e manodopera, i Greci oltre due millenni fa abbiano guardato ai neri in quanto uomini, fraternamente». Significativo che ancora in epoca ellenistica, quando un ricercatore con interessi etnografici come Posidonio tentò una classificazione delle famiglie di popoli, il concetto di “razza” gli rimase estraneo. Anche ad Alessandria Eratostene si ribellò apertamente alla suddivisione degli uomini in Elleni e barbari, poiché non si dovevano distin­ guere gli uomini in base alla provenienza, ma solo in base al loro valore. 1181 popoli della Caria sono definiti barbarophonoi (Iliade, II, 867).

58

C a p ito lo II

mediante il suono onomatopeico bar bar - la poco comprensibile parlata dei popoli non greci119. Si potrebbe certo affermare che il noto disinteresse dei Greci per le lingue straniere deponga in sfavore di sentimenti di philoxenia, ed in generale di apertura reale verso i popoli stranieri. In realtà gli Elleni, oltre a non essere xenofobi, furono sempre molto attenti alla cultura degli altri popoli, apprezzando notevolmente, come nel seguito più volte mostreremo, le culture orientali120. L’atteggiamento di cura verso stranieri e persone in difficoltà (spesso le due categorie coincidevano, per le problematiche ineren­ ti il viaggio in epoca antica)121, nei poemi omerici, balza del resto più volte in evidenza. Omero cita ad esempio l’eroe Assilo, il quale «era amico degli uomini: infatti, abitando in una casa sulla strada, era solito ospitare tutti»122. Pensiamo inoltre, sempre come esempi paradigmatici, alla già citata accoglienza ricevuta da Odisseo dap­ prima da Nausicaa nell’isola dei Feaci, e poi da Eumeo nell’isola di Itaca, in cui si presentò (grazie all’artificio posto in essere da Atena) nella parvenza di straniero mendico. Il pensiero greco dunque, a partire da Omero, non giunse mai come vedremo - se si escludono isolate affermazioni, dovute più che altro al clima ideologico creatosi durante e subito dopo la guer­ ra greco-persiana (490-478) - a pensare gli stranieri come an­ tropologicamente inferiori. Nemmeno giunse mai ad emarginarli all’interno della polis, anche in quanto in pressoché tutte le poleis greche la maggioranza della popolazione era di origine straniera. Nei confronti degli stranieri, anzi, il sentimento di gran lunga più diffuso, dall’epoca arcaica fino all’epoca ellenistica, fu quello della ospitalità123. Se si escludono infatti le già citate fasi belliche, la con­ trapposizione culturale fra Greci e non Greci non assunse mai un

119 A dire il vero, Strabone aveva sostenuto (Geografia, XIV, 2, 28) che, secondo Apollodoro, il termine assunse, con riferimento ai Carii, valore spre­ giativo, in quanto costoro erano conosciuti come mercenari. Ciò è verosimile, in quanto il poeta omerico usava sempre, per qualificare coloro che parlano un’altra lingua, il termine allothroos. Tuttavia, anche in questo caso, non sa­ rebbe l’etnia ad essere condannata, bensì il comportamento posto in essere. 120 Come ha affermato infatti, fra gli altri, Cozzo 2014 (p. 11), «il mondo omerico [...] è sulla linea del rispetto dello straniero». Molto documentato, in merito, Costantino 2005. 121 Circa il viaggio in epoca antica, rinviamo a Camassa-Fasce 1991. 122Iliade, VI, 14-15. 123 Come ha sottolineato anche De Sanctis 1975 (p. 167), «in Atene la li­ beralità verso gli stranieri formava un vanto della città», sancito da apposite convenzioni giuridiche.

Epici, lirici, tragici

59

ruolo centrale in terra ellenica. Ciò fu dovuto anche alla diffusa se­ colare presenza, fra la Grecia e l’Asia, di popoli bilingui di definizio­ ne mista, come quelli dell’Epiro, dell’Acarnania, dell’Etolia, della Macedonia, della Tracia, di Creta, di Cipro e di altri luoghi ancora, in cui si era costituito un mondo di pacifica convivenza fra abitan­ ti originari ed Elleni. Furono frequenti inoltre, nella tradizione, i viaggi attribuiti ai sapienti (Solone, Pitagora, Platone, ecc.) in Egit­ to in particolare ed in generale in Oriente, proprio per apprendere da una cultura ritenuta già allora più antica e migliore. Chi volesse sostenere la tesi di un presunto etnocentrismo gre­ co, ossia di una presunta pretesa superiorità “etnica” dei Greci - al di là del senso di appartenenza identitaria comune a pressoché tut­ ti i popoli - , dovrebbe prima mostrare la esistenza, all’interno del pensiero greco, di un concetto almeno analogo al moderno concet­ to di “razza”. Di esso però non vi è traccia124, come è stato confer­ mato, fra gli altri, da Enrico Berti, il quale ha in merito addirittura sostenuto che «sia in Platone che in Aristotele si trovano argomenti che negano qualsiasi fondamento teorico al concetto di razza»125, e che ciò vale sia per la tradizione antecedente alla loro, sia per la tra­ dizione ellenistica successiva. Nonostante, dunque, fossero sentite (come accaduto ad ogni civiltà) differenze fra abitanti originari e stranieri, esse non condussero mai a ritenere lo straniero come un “non uomo”, a causa della comune appartenenza, presente già in Omero, di tutti gli uomini al genere umano, senza distinzione. Per questo motivo è da ritenere molto discutibile la tesi di interpreti come Mauro Moggi, secondo cui «la definizione di tutti i non Greci con il termine barbaroi è da ricondurre ad una concezione ellenocentrica, che presuppone una connotazione negativa del termine fin dalle sue origini»126. Da rilevare è infatti che, fra le differenze maggiori che i Greci sentirono con gli stranieri barbaroi (non con gli xenoi, ossia con gli

124 Come ha correttamente sostenuto Montagu 1966 (p. 34), «i Greci [...] non nutrirono alcun sentimento che possa in qualche modo identificarsi col pregiudizio razziale». Come ha rimarcato anche Gernet 1986 (p. 360), «i Greci non hanno mai conosciuto quel che noi chiamiamo razzismo», e questo a causa del loro universalismo. 125 Berti 2004-2010, voi. Ili, p. 268. La tesi, basata soprattutto sulla argo­ mentazione per cui il concetto di razza sarebbe un concetto moderno, come tale non rintracciabile, nemmeno per analogia (genos, ethnos, ecc.) nel pensie­ ro antico, è stata peraltro confermata anche da un importante volume collettaneo: Ward-Lott 2002. 126In De Finis 1991, p. 37. Per una critica di questa tesi, rimandiamo a Grecchi 2011 c, pp. 133-146.

6o

C a p ito lo II

abitanti delle altre poleis127), non vi furono differenze etniche, bensì differenze linguistiche. Già dai tempi di Omero, gli stranieri furono dunque pressoché sempre, nella maggior parte delle poleis (ecce­ zion fatta per Sparta), considerati in modo benevolo in Grecia, es­ sendo la philoxenia niente altro che un aspetto della più generale philanthropia128tipica dell’umanesimo greco.

3. Esiodo Note generali Esiodo, fra l’VIII ed il VII secolo a.C., fu autore soprattutto di due poemi, Teogonia ed Opere e giorni129, che ci sono giunti so­ stanzialmente integri. Questi due poemi sono in certo senso rap­ presentativi della totalità degli argomenti presenti nella cultura greca, trattando il primo principalmente del divino e della natura, ed il secondo principalmente dell’uomo. Con riferimento all’uomo, che è il tema che qui ci interessa, le interpretazioni prevalenti hanno rilevato soprattutto le differenze fra Omero ed Esiodo. Esse già in epoca antica furono evidenziate dal famoso Certame, opera in cui si immaginava una gara poetica fra i due autori, con Esiodo trionfatore in quanto sostenitore del­ la pace, ed Omero sconfìtto in quanto sostenitore della guerra130.

127Va ricordato che in alcune occasioni (ad esempio in Erodoto, Storie, IX, 11, oppure Plutarco, Aristide, X, 7), nella letteratura greca, xenos è utilizzato come sinonimo di barbaros, a riprova di come a quest’ultimo termine non fos­ se attribuibile una connotazione etnica spregiativa, ma solo una connotazione linguistica e culturale. 128 In molte famiglie, addirittura, si mettevano ai nascituri nomi propri composti con la parola xenos, oppure - come ad esempio fece Cimone (Plutar­ co, Vita di Cimone, 1 0 ,7 )- si davano ai figli nomi di città o popoli stranieri, per manifestare appunto quella vocazione universalistica propria, come già abbia­ mo accennato, dell’umanesimo greco. 129 Come noto, alle Opere, Erga (vv. 1-764), si ritengono aggiunti più tardi i vv. 765-828 dei Giorni, Hemerai, che costituiscono un vero e proprio calenda­ rio di periodi più o meno adatti per certe specifiche attività agricole. Sull’opera di Esiodo, rimane utile Lamberton 1988. Sempre interessanti i saggi presenti in Arrighetti 1975. 130 II Certame di Omero e di Esiodo, il cui nucleo originario pare risalente al V secolo a.C., narrava di una presunta tenzone fra i due antichissimi poe­ ti, dopo la quale il re dell’Eubea, giudice della gara, incoronò vincitore Esio­ do. Indipendentemente dalla scarsa verosimiglianza dell’evento, Beltrametti 2005 (p. 28) ha giustamente sottolineato che questo racconto significava che

Epici, lirici, tragici

61

Come noto infatti, a differenza della vita bellica maggiormente trattata in Omero (nell’Iliade), Esiodo si occupò soprattutto della vita contadina (in Opere e giorni), parlando peraltro in prima per­ sona e fornendo notizie su sé stesso. Ne risulta sicuramente uno scandaglio dell’uomo condotto secondo una diversa prospettiva. In Esiodo sono tuttavia presenti anche alcuni contenuti umanistici in primis una implicita trattazione della natura razionale e morale dell’uomo131 - comuni con i poemi omerici132. Continuità fra Omero ed Esiodo Molti studiosi come detto, fin dalla antichità, hanno sostenuto che «il mondo di Esiodo è assai diverso dal mondo di Omero»133, essendo quello di Esiodo un mondo in cui la giustizia ed il dirit­ to avevano cominciato ad assumere la propria forma, ed essendo quello di Omero un mondo in cui la violenza e la vendetta ancora dominavano. Le argomentazioni di questi studiosi, basate soprat­ tutto sul diverso contesto descritto (vita contadina versus vita bel­ lica), alla luce di quanto finora affermato sull’umanesimo omerico, paiono tuttavia non del tutto convincenti. Ferma restando la scarsa distanza temporale tra i due autori, una analisi comparata del con­ testo storico omerico ed esiodeo mostra infatti che diritto ed etica contadina erano presenti anche in epoca omerica, così come guerra e violenza erano presenti anche in epoca esiodea134. La differenza

«i due poeti, per gli antichi, non venivano da mondi differenti, e nemmeno da un mondo di prima e da un mondo di poi, ma cantavano secondo diverse prospettive e con funzioni diverse» tematiche appartenenti ad un mondo so­ stanzialmente unitario. 131 Scrive correttamente Baldry 1983 (p. 37) che «è solo dopo Omero che la nozione di specie umana diviene oggetto di una formulazione condotta a livello cosciente, sebbene molti dei tratti che le vengono attribuiti siano i medesimi [...] deli’Iliade e dell’Odissea». 132 Dicono bene Porro-Lapini 2017 (p. 62) che «si è soliti definire la poesia di Esiodo didascalica, cioè di insegnamento, ma tutta la poesia arcaica era, nella sostanza, depositaria della sapienza tradizionale e strumento di educazio­ ne collettiva, anche quando il genere attraverso cui si esprimeva era narrativo, come nel caso dell’epica omerica». 133Jellamo 2005, p. 44. 134 Come scrive giustamente Cantarella 1978 (p. 304), «il mondo greco ri­ flesso dall’epos [...] svela già il momento della prima apparizione di un diritto, inteso come espressione delle valutazioni collettive, il cui carattere distintivo consiste nell’uso della forza [...] esercitato dalla collettività». Ci siamo occupati di questo tema in Grecchi 2011 b (pp. 21-71), al quale rinviamo anche per qual­ che ulteriore indicazione bibliografica.

62

C a p ito lo II

riguarda semmai l’ambiente sociale descritto, che nel caso omeri­ co è l’ambiente aristocratico dei re eroi, mentre nel caso esiodeo è l’ambiente contadino del villaggio di Ascra, in Beozia, nel quale Esiodo condusse pressoché tutta la sua vita. Sul piano dei contenu­ ti umanistici, tuttavia, le differenze non furono così elevate, come dimostra il fatto che emerge sovente nei quattro poemi sia il biasi­ mo verso la ingiustizia, nelle forme della prevaricazione, sia la lode verso la giustizia, nelle forme della costruzione di comunità. In Esiodo è infatti netta l’affermazione - emblematizzata dalla cosiddetta «favola dello sparviero e dell’usignolo»135 - secondo cui gli animali si distinguono dagli uomini in quanto fra i primi regna la legge del più forte, mentre fra i secondi può regnare la giustizia comunitaria. Non sempre viene però ricordato che questo princi­ pio fu presente anche in Omero, come quando ne\YIliade emergo­ no il biasimo per il «leone» Achille e la sua disumana ferocia, ed insieme l’elogio per «l’uomo» Ettore e la sua educata civiltà136. I temi della comunità e della giustizia furono dunque compre­ senti nelle opere di Omero ed Esiodo. Ciò è dimostrato anche dalla centralità, nelle stesse, della famiglia, tema che sarà ripreso anche dalla successiva cultura classica137. Tale centralità - pur con tutte le problematiche in precedenza accennate relative al ruolo della don­ na - è a più riprese ribadita nei poemi omerici. Ne\YIliade, infatti, perfino il «duro» Achille, ogni volta che parla con la madre Teti, si commuove138. Famoso è inoltre l’episodio con cui Ecuba, madre di Ettore, cerca in ogni modo dalle mura di Troia di convincere il figlio a non combattere con Achille139. Celeberrimo anche il commovente addio di Ettore alla moglie Andromaca ed al figlio Astianatte140. Nell’Odissea poi, come dimostra il fatto che tutto il viaggio di ri­ torno di Odisseo fu guidato dal desiderio di riabbracciare la moglie Penelope ed il figlio Telemaco, la centralità dei rapporti famigliari emerge con anche maggiore rilevanza. Odisseo afferma infatti più volte, ricordando i propri genitori, di essere «nato né da quercia 135 Opere e giorni, vv. 201-212. Si tratta della prima «favola» greca cono­ sciuta. Non possiamo occuparci in questa sede, per motivi di spazio, di Esopo, il più grande favolista greco, su cui comunque rinviamo all’ottimo Jedrkiewicz 1989. 136 Per quanto riguarda le figure di Achille ed Ettore ed i relativi riferimenti testuali, rimandiamo a Grecchi 2012 a, pp. 135-146. 137 Sul tema della famiglia nell’antica Grecia, rinviamo a Lacey 1968 e Gernet 1997. 138Iliade, 1,357; XVIII, 35 ; XXIV, 95. 139Id., XXII, 78 ss. 140 Id., VI, 369-439.

Epici, lirici, tragici

63

né da pietra»141, mostrando nell’Ade un incontro particolarmente toccante con la madre Anticlea142. Come ha ricordato anche Alfonso Mele, «la famiglia appare in Omero partecipe di una comunità di culto [...] e di una comunità di cultura, di cui è specchio la circola­ zione dei miti e la formazione dell’epos stesso»143. Nonostante la lite giudiziaria che lo vide contrapposto al fratello Perse, di cui tratta in Opere e giorni, la famiglia risulta centrale anche in Esiodo. Gli insegnamenti morali che egli rivolge a Perse, uniti alla ripetuta indicazione di avere cura del focolare domestico e dei genitori, lo dimostrano in maniera emblematica144. La poesia esiodea, così come quella omerica, rappresentò inol­ tre una elaborazione di quelle esperienze sociali ritenute rilevanti per favorire la buona vita della comunità. Opere e giorni in parti­ colare è ricca di precetti etici incardinati sulla necessità del lavoro quotidiano145, voluto da Zeus come via maestra verso la giustizia146. La poesia infatti, soprattutto in epoca arcaica, non costituiva un mero ornamento estetico, bensì una produzione culturale volta a diffondere la conoscenza di quei contenuti onto-assiologici essen­ ziali, con riferimento all’uomo, tali da consentire una esistenza il più possibile felice147. Dato l’intreccio presente, anche in Esiodo, fra naturale, divino ed umano, occorrerà, come per Omero, entrare nel prossimo paragrafo maggiormente nel merito anche dei miti esiodei.

141 Id., IX, 163. 142 Id., XI, 193-212. 143 Mele 1968, p. 42. 144 Opere e giorni, 331-334. 145A questa necessità fanno implicito riferimento anche i miti di Prometeo e Pandora: Opere e giorni, 47-105; 298-319. Una analisi filosofica di questi miti nella tradizione esiodea è in Casanova 1979. 146Non a caso il fratello Perse, che ricerca la via dell’inganno (la fraudolenta appropriazione dei beni ereditari, con la complicità di giudici corrotti) anziché quella del duro lavoro per procurarsi il sostentamento, diventa nel poema sim­ bolo di ingiustizia (Opere e giorni, 27-41) 147 Come scrive Ercolani 2010 (p. 39), «le Opere sono rapportabili alle tra­ dizioni sapienziali del Vicino Oriente [...]. Per letteratura sapienziale si deve intendere quella elaborazione testuale che fissa in maniera duratura questo bagaglio culturale, che non è astrazione teorica, ma repertorio di nozioni (an­ che tecniche), di spunti di riflessione su problemi concreti, di indicazioni com­ portamentali volte a regolare i rapporti interpersonali».

64

C a p ito lo II

Fra divino ed umano Gli dei di Esiodo, sebbene in misura minore rispetto a quelli di Omero, furono sovente antropomorfi. Nella Teogonia infatti il regno di Zeus, a sua volta derivante da quelli di Urano e Crono, prende forma solo con la serie delle sue unioni e della sua discen­ denza, variamente rappresentativa dei diversi aspetti della condi­ zione umana. La riflessione sul mito è infatti fondamentale anche in Esiodo per la comprensione dell’uomo. Come in Omero, nemmeno in Esiodo vi fu una vera e propria trattazione antropogonica, relativa cioè alle modalità della nascita degli uomini148. Esiodo parla infatti degli uomini solo a partire dal verso 535 della Teogonia, in cui nella remota Mecone essi sembra­ vano convivere amabilmente con gli dei149. Tratteremo a breve del mito di Prometeo, che ha attinenza con questa tematica. Il raccon­ to in questo senso più significativo risulta tuttavia in Esiodo quel­ lo delle cinque stirpi umane, di verosimile derivazione dal Vicino Oriente150. Secondo questo mito, la storia umana si sarebbe svolta in cin­ que periodi distinti, in ciascuno dei quali la Terra sarebbe stata occupata da una stirpe di uomini con caratteristiche differenti151. La prima stirpe abitava l’età dell’oro152, in cui gli uomini vivevano come dei, liberi da ogni male e fatica; la terra produceva i frutti spontaneamente, senza vecchiaia né morte dolorosa, la quale giun­ geva dolcemente nel sonno. La seconda stirpe abitava l’età dell’ar­ gento153, di gran lunga inferiore a quella dell’oro; ogni bambino tra­ scorreva un centinaio di anni sotto le vigili cure della madre, senza capacità di fare alcunché di utile, ma quando raggiungeva la virilità

148 Una buona analisi dei miti delle origini inerenti all’uomo è in Guthrie 1957. Interessante anche Blaise 1995. 149 Una situazione analoga, a dire il vero, pare in certo senso delineata neWIliade da Nestore, il quale (I, 260-267) afferma di avere frequentato veri e propri eroi dalle qualità irraggiungibili dagli uomini della sua epoca; uomini non, certo, collocabili ai tempi di Crono (tuttavia anche Esiodo inizia a parlare degli uomini ai tempi di Zeus), ma sicuramente i vari Piritoo, Driante, Caineo, Essadio, Polifemo, Teseo di cui parla Nestore, sembrano situarsi in un passato lontanissimo rispetto a quello del suo tempo. 150Su questa tematica rinviamo a Walcot 1966, Pucci 1977 e Penglase 1994. Utili spunti in Debiase 2008. Sulle tradizioni sapienziali coeve del Vicino Oriente, ottima l’antologia commentata Ercolani-Xello 2013. 151 Opere e giorni, 109 ss. 152 Id., 109-126. 153 Id., 127-142.

Epici, lirici, tragici

65

il resto della sua vita era breve e pieno di sventure, dato che questa stirpe non riusciva a tenersi lontana dalla violenza, vivendo nella trascuratezza degli dei. Per questo motivo Zeus si adirò con loro e fece nascere la terza stirpe, quella della età del bronzo154, composta da uomini forti e violenti nati dagli alberi o dalle ninfe degli alberi. Costoro però si distrussero l’un l’altro, e furono seguiti dalla quarta stirpe, quella degli eroi e semidei155, e poi dall’ultima, quella degli uomini dell’età del ferro156. Esiodo lascia chiaramente intendere che essa, cui anch’egli appartiene, è la più infelice di tutte, sem­ pre immersa nella fatica, nella sofferenza e nella preoccupazione. Il quadro descritto, per quanto non totalmente «discendente»157, è comunque di crescente imbarbarimento dei rapporti umani, con trionfo della ingiustizia e della prepotenza158. Anche questa stirpe alla fine, secondo Esiodo, sarà distrutta da Zeus159. Questo quadro pessimista - verosimilmente rispecchiante l’ab­ brutimento di un contesto storico-sociale sempre più crematistico - non condusse tuttavia la posizione esiodea verso il nichilismo. La Teogonia del resto mostrava che all’inizio vi furono Notte, Chaos e Violenza, nonché figure mostruose come i Centimani. Nella vittoria di Zeus contro il mondo violento dei Titani, si ravvisa infatti un mi­ glioramento, se non altro per l’ordinata ripartizione dei compiti fra

154 Id., 143-155155Id., 156-173. 156Id., 174-201. 157 Scrive correttamente Montanari 2017 (voi. I, p. 127) che «non bisogna interpretare questo mito come l’espressione di una semplice idea di lineare decadenza nella storia del mondo, da una originaria condizione di felicità per­ fetta alla totale negatività del presente: ogni razza contiene in sé, accentuati in misura diversa, elementi positivi e negativi, e soprattutto sembra emergere al contrario anche una linea di sviluppo, si direbbe intellettuale, per cui la perdita della primitiva e incosciente beatitudine corrisponde all’acquisto di una con­ sapevolezza riflessa e capace di scegliere, ed è colpa degli uomini se vengono volte al male le potenzialità che essi possiedono». 158 Id., 106-201. Come Esiodo afferma nei vv. 177-195, in quest’epoca «né il padre sarà concorde coi figli, né i figli col padre; /né l’ospite all’ospite, né l’amico all’amico, / e nemmeno il fratello sarà caro come prima;/ ma ingiuria faranno ai genitori appena invecchiati; a loro diranno improperi rivolgendo parole malvagie,/ [...] Il diritto starà nella forza: l’uno all’altro saccheggerà la città./ Né il giuramento sarà rispettato, né lo sarà chi è giusto/ 0 per bene; piuttosto l’autore di mali e l’uomo violento/ rispetteranno; la giustizia {dike) sarà nella forza, e rispetto (aidos) non ci sarà». Su questa tematica, rinviamo a Cairns 1993. 159Ercolani 2010 (p. 160) nota giustamente che la durezza della condizione umana nella età del ferro deriva da «una degenerazione progressiva imputabile all’uomo medesimo».

66

C a p ito lo II

i vari dei impostata dallo stesso Zeus. In maniera analoga, fra gli uomini, Esiodo lascia chiaramente intendere che essi possono mi­ gliorare la propria situazione tramite l’educazione comunitaria160. Essa infatti può porre ordine ed armonia nei rapporti sociali, favo­ rendo la realizzazione della natura razionale e morale degli uomini. Ancor più che in Omero, fu presente in Esiodo una chiara con­ sapevolezza che la ricerca di denaro, onori e potere costituisce una attività innaturale per l’uomo, cui necessitano invece regolarità e stabilità. Il poeta di Ascra, in questo senso, non aborrì la ricchezza, su cui comunque ribadì che «non deve essere frutto di rapina»161. Da essa tuttavia serve grande distacco, sicché occorre imparare ad accontentarsi di poco, dato che «il guadagno travia la mente degli uomini»162. Esiodo ebbe infatti chiaro, come Omero, che la crematistica, finalizzata alla illimitatezza del guadagno, conduce alla con­ flittualità sociale se non si pone un limite (peras) alle pretese delle parti. Per questo motivo in Esiodo l’etica, ossia la indicazione dei corretti comportamenti da tenere, assunse una centralità addirit­ tura maggiore rispetto ad Omero. Dura è in particolare, nel poeta della Beozia, la condanna verso chi non mantiene la parola data (in quanto ciò va a ledere la fiducia comunitaria), ma soprattutto verso chi, utilizzando la propria forza, cerca di prevalere sul più debole163. Esiodo, come Solone - del cui pensiero ci occuperemo fra poco - , riteneva in effetti necessaria Yeunomia, ovvero l’ordine sociale conforme a giustizia. Per questo invitava a dare ascolto non alla prepotenza ma alla giustizia, ossia a Dike figlia di Zeus. Quest’ultima nel suo poema era insieme forza umana e divina, ideale espres­ sione, sebbene in fieri, di quell’ordine razionale e morale che era auspicabile regnasse anche nella società164. Sorelle di Dike erano in­ fatti Eirene ed Eunomia165. Esiodo affermò in merito, con linguag­ gio assai eloquente, che solo chi è amato dalle Muse ed a sua volta le ama, ovvero chi rispetta verità e giustizia, sa esprimere eque sen­ tenze ed essere, così facendo, amato dalla propria comunità, dato che ne favorisce il bene, ovvero appunto la coesione comunitaria166.

160 Opere e giorni, 293-297; Teogonia, 488-491. 161 Opere e giorni, 321. 162 Id., 326. 163 Id., 201-212. 164 Id., 277-285. 165 Opere e giorni, 248-273; Teogonia, 901-903. 166 Teogonia, 68-74. Come scrive giustamente Ercolani 2010 (p. 142), in Esiodo «la sfera del pensare e quella dell’agire tendono a coincidere. Nella con­ cezione arcaica la linea di separazione non è affatto netta».

Epici, lirici, tragici

67

Bersaglio principale della critica di Esiodo furono, come detto, i cheirodikai («gente per cui il diritto sta nella forza delle mani»167, sia nel senso della materiale violenza, sia nel senso della frode), ossia i re divoratori di doni (basiles dorophagoi), gli spergiuri, i giudici dai giudizi non retti. Chi ruba infatti, per Esiodo, «gela il cuore»168 della vittima, ossia raffredda i rapporti comunitari, e dunque non li pone in quella giusta mite temperatura che sola con­ sente loro di fiorire169. In assenza di Dike, in effetti, non possono sussistere pudore e rispetto (Aidos), né la giusta reazione al male perseguendo il malfattore (Nemesis), ma può solo regnare la vio­ lenza (Bia). Nella sua epoca, per Esiodo, i più potenti sono necessa­ riamente destinati a trionfare, in questo modo però perdendo ogni rapporto con la vera umanità. La opposizione fra dike e hybris assunse per la prima volta, in Esiodo, quella centralità che diverrà poi una costante nel pensiero greco successivo170. In Opere e giorni Esiodo tematizzò infatti che la via della prevaricazione conduce inevitabilmente alla sofferenza sé stessi e gli altri171. La via della moderazione viceversa rende fe­ lice la città intera, creando appunto comunità. Sono rilevanti, in questo senso, i versi in cui Esiodo descrive la legge che Zeus impose agli uomini, la quale intimava di evitare la hybris della vicendevole conflittualità172. Non è infatti con la violenza più o meno celata, né con la viltà della prevaricazione, che si può sfuggire al male. Si pre­ cipiterà anzi, seguendo hybris, in un male ancora peggiore, per sé e per gli altri. Ha pienamente ragione in merito Mauro Bonazzi a ritenere Esiodo «il poeta della giustizia», ovvero colui che afferma, «per la prima volta in modo consapevole, una idea universale di giustizia come qualcosa che vale per tutti»173. In effetti, «Esiodo ri­ badisce con forza la convinzione che la giustizia non è più soltanto il risultato degli accordi tra gli uomini; essa è qualcosa di perma­ nente e immutabile, che non è creato dagli uomini né dipende sol­ tanto da loro; al contrario, la giustizia è ciò cui essi debbono con­ formare le proprie decisioni, rispettando l’equilibrio delle parti e concedendo a ognuno quello che gli spetta [...]. Anche l’uomo deve conformarsi a questo giusto ordine delle cose, perché anche l’uomo

167 Opere e giorni, 189 168Id., 360. 169 Id., 317-335170Rinviamo in merito a Fisher 1993. 171 Opere e giorni, 213-247. 172 Id., 247-285. 173In Trabattoni-Vegetti 2016, voi. I, p. 66.

68

Capitolo II

è parte di questa realtà ordinata. Alla concezione della realtà corri­ sponde dunque una antropologia ben definita, che riconosce come tratto distintivo dell’essere umano la giustizia»174. La natura razionale e morale dell’uomo Quanto qui affermato mostra dunque che anche in Esiodo, come in Omero, sebbene con diverse declinazioni, la natura dell’uomo inizia a definirsi come razionale e morale. L’uomo comincia cioè a comprendere che solo ricercando la verità ed il bene può realizzarsi in modo compiuto ed essere felice. Indubbiamente, non avendo il logos ancora assunto nella sua opera centralità rispetto al mythos, il carattere razionale della natura umana fu posto un poco in se­ condo piano rispetto al carattere morale, ossia appunto alla con­ vinzione che, per realizzare una buona vita, occorre porre in essere comportamenti improntati a rispetto, misura e giustizia. Emblematica in merito l’etica del lavoro agricolo quotidiano, che presuppone una attività costante svolta nei limiti delle leggi naturali, e radicalmente opposta agli eccessi, ai conflitti ed ai pe­ ricoli della crematistica. Significativa anche la sua diffidenza verso il commercio per mare, che Esiodo fortemente sconsiglia - come il fare debiti, o l’ampliare troppo la propria impresa - in quanto attività innaturale per l’uomo, non essendo il mare un luogo adat­ to alla vita umana. L’attività agricola invece, a stretto contatto con quella terra che sola consente la vita umana, risulta faticosa ma nobilitante, in quanto attività naturale caratterizzata da importanti contenuti etici (l’utilità di conoscenze adeguate, il rispetto dei tem­ pi necessari, la convivenza comunitaria coi vicini, ecc.)175. Alcuni studiosi hanno colto nella conflittualità fra uomini della età del ferro in Opere e giorni, così come nella conflittualità fra dei in Teogonia, una sorta di pessimismo antropologico esiodeo. Il pensiero di Esiodo sarebbe cioè in sostanza, secondo questi inter­ preti, caratterizzato dall’intima convinzione che gli uomini avreb­ bero connaturata quella bia che li conduce ad una esistenza infe­ lice176. In realtà questo pessimismo antropologico non fu presente in Esiodo, come dimostra il fatto che egli si pose sempre essen­ zialmente come un educatore, consapevole che corrette indicazioni etiche possono portare a retti comportamenti comunitari, in grado

174Id., voi. I, p. 67. 175 Opere e giorni, 289-319; 383-694. 176Sul tema della bia nella antica cultura greca, rinviamo a D’Agostino 1983.

Epici, lirici, tragici

69

appunto di condurre l’uomo alla felicità177. Su questo Esiodo non ebbe il minimo dubbio, così come non lo ebbe in seguito Solone, e come non lo avrà poi - pur consapevole dei limiti della condizione umana - l’intera filosofia classica. Fu anzi nello sforzo di compren­ dere la natura dell’uomo, e di agire coerentemente per la sua realiz­ zazione, che si sostanzierà l’essenza di quella paideia greca la quale permarrà immutata, nella sua essenza, per secoli. La donna Pur all’interno di questo quadro sostanzialmente umanistico, non possono essere taciuti alcuni aspetti critici dell’opera cultura­ le di Esiodo, rispecchianti alcuni pregiudizi tipici della sua epoca178. Emblematica è in merito la sua negativa concezione della donna, evidente soprattutto nel mito di Pandora179. Essa, la «prima don­ na»180, era etimologicamente «tutta doni», in quanto possedeva bel­ lezza, grazia, abilità nei lavori domestici181. Il mito tuttavia insiste principalmente sul fatto che essa possedeva un carattere infido, il quale poteva al massimo fare di lei una collaboratrice domestica generatrice di figli182.

177 Opere e giorni, 276-282. 178Ad Esiodo nella antichità era attribuito anche il cosiddetto Catalogo delle donne, la cui paternità è ritenuta tuttavia molto incerta. Per tutte le notizie in merito, rimandiamo a Hunter 2005. 179 Opere e giorni, 47-105; Teogonia, 533-593. Sulla donna in Esiodo, rin­ viamo a Rudhardt 1986. 180 Come scrive Kirk 1984 (p. 63), è problematico chiamare Pandora la pri­ ma donna, in quanto «sembra che gli uomini nascessero anche prima di lei. I miti greci erano vaghi e ambivalenti a proposito della creazione del genere umano». Come scrive ancora Kirk (Id., p. 143) «sembra che i Greci non aves­ sero un mito universalmente riconosciuto sulla creazione dell’uomo che venne senza dubbio per primo. Nelle fonti posteriori [...] questa venne attribuita a Prometeo, che divenne il protettore dei vasai di Atene, e che aveva fabbricato gli uomini servendosi della creta, come si riteneva secondo un diffuso modello mesopotamico». 181 Efesto la modellò con terra e acqua, Atena la vestì, Afrodite la rese attra­ ente, Hermes tuttavia le diede una natura sfacciata e falsa. 182Pandora è definita «un male molto bello», da cui discende «il genere ma­ ledetto, la tribù delle donne» (Teogonia, v. 585). In maniera analoga si espres­ se il poeta Semonide, per il quale le donne possedevano l’indole degli animali: scrofa, volpe, cagna, asina, gatta, cavalla, scimmia sono alcuni degli epiteti che rivolge loro (fr. 7,2-20; 43-82 West). Raramente vi sono donne che si salvano, ma solo in quanto simili ad api operose: si salvano, insomma, solo per la loro utilità concreta.

70

Capitolo II

Prima che Pandora fosse mandata agli uomini da Zeus per pu­ nirli dell’inganno posto in essere da Prometeo, la vita umana non conosceva dolore, malattia, vecchiaia. Dopo che ella sollevò il co­ perchio della famosa giara, invece, tutti i mali si riversarono sugli uomini, peraltro giungendovi inevitabili, dato che non potevano essere previsti, essendo invisibili e muti1® 3. Indubbiamente, la descrizione della donna presente nei poemi di Esiodo lascia pensare ad una qualche forma di misoginia. Tale tematica era del resto diffusa in molte culture antiche, come dimo­ stra il fatto che l’origine della sofferenza umana quale esito della sconsiderata azione di una donna risulta presente in vari miti coe­ vi (pensiamo ad Èva nell’Antico Testamento). Ciò nonostante, pur rimarcando il cattivo carattere delle donne, Esiodo afferma anche - sebbene sempre in ottica “utilitaristica” - che l’uomo che vive senza contrarre matrimonio è atteso da una triste vecchiaia, senza eredi né persone che si prendano cura di lui, mentre chi prende in sposa una buona moglie ha quanto meno un misto di male e bene nella vita1® 4. Al di là di questi limiti, l’opera di Esiodo rappresenta, per i mo­ tivi sopra ricordati, un passo importante sulla via della formazione di una idea di uomo come ente razionale e morale.

4. La lirica Note generali Il termine “lirica” riferito alla poesia greca non epica né tragi­ ca, è di conio ellenistico. Esso comprende una discreta varietà di forme poetiche, che gli antichi distinguevano essenzialmente sulla base del contesto in cui erano rappresentate, delle diverse modalità di esecuzione e delle istanze sociali che ad esse davano luogo1® 5. Con18 5 4 3 183 Opere e giorni, 90-104. 184Opere e giorni, 405 ss. Esiodo afferma che componenti essenziali di una buona vita sono «una casa innanzitutto, una donna e un bue per arare». La donna non è in sostanza mai considerata da Esiodo come una compagna spiri­ tuale (in questo senso anche Id., 602 ss.). 185Eviteremo la consueta descrizione parcellizzata della poesia greca in poe­ sia giambica (Archiloco, Semonide, Ipponatte), elegiaca (Callino, Tirteo, Mimnermo, Teognide, Solone), lirica monodica (Saffo, Alceo, Archiloco, Anacreonte) e lirica corale (Alcmane, Stesicoro, Ibico, Simonide, e, in pieno V secolo, Bacchilide e Pindaro), per soffermarci solo sui contenuti più importanti della medesima in relazione alla tematica dell’uomo.

Epici, lirici, tragici

71

tale espressione intenderemo qui questa ampia produzione poetica sviluppatasi in diverse regioni parlanti greco, dall’Asia minore alla Magna Grecia, fra i secoli V ili e V185. Si tratta di una produzione strettamente connessa con la musica (la lira, appunto, accompa­ gnava spesso tali opere), per cui, avendo smarrito quasi del tut­ to la componente musicale, la nostra possibilità di comprendere compiutamente tali opere risulta in parte compromessa. A questa perdita si è aggiunta la procedura di selezione dei filologi alessan­ drini, nonché la corruzione del tempo, per cui di molti lirici ci sono rimasti davvero solo pochi frammenti. Essi, per quanto possano sembrare univoci nel trattare determinati argomenti, vanno sem­ pre - proprio in quanto frammenti di un’opera complessiva che non conosciamo - interpretati con prudenza. Due considerazioni si possono comunque effettuare con rela­ tiva certezza, con riferimento alla trattazione dell’uomo da parte della poesia lirica. La prima, inerente soprattutto la sua compo­ nente monodica, è che essa ebbe una vocazione introspettiva, come emerge dal fatto che i singoli autori parlano sovente di sé stessi, dei propri sentimenti e della propria vita18 187. Nemmeno questa tesi va 6 certo assolutizzata188, ma è indubbio che, rispetto all’epica, la lirica non corale si sia occupata di temi più propriamente individuali, quali appunto l’amore, la morte, il piacere, la sofferenza, la vec­ chiaia. Sono queste, in effetti, le tematiche più presenti in Saffo, Archiloco, Alceo, Anacreonte, per indicare solo alcuni dei nomi principali, autori di un processo di crescente emersione del nucleo intimo della personalità. La seconda considerazione riguarda invece soprattutto la cosid­ detta lirica corale. Essa infatti, sul piano etico, si attenne strettamente alla morale comune, sicché risultò essere molto conserva­ trice. In effetti, principalmente nel VII-VI secolo, il poeta corale divenne interprete dei gruppi sociali dominanti incarnandone le idee, i valori di riferimento e le aspirazioni189.

186 Sulla lirica greca, rinviamo a Sikes 1931, West 1974, Gentili 1995, De Martino-Vox 1996, Neri 2004 e 2011 e Gentili-Catenacci 2010. 187 Come scrive Snell 1963 (p. 89), «la differenza più notevole fra l’antica epica greca e la lirica che da essa deriva sta [...] nel fatto che nella lirica i poeti ci fanno conoscere per la prima volta la loro individualità». 188 Come ricorda infatti Montanari 2017 (voi. I, p. 147), «quando si afferma che la lirica greca si differenzia dall’epica per l’emergere della personalità in­ dividuale del poeta, occorre fare molta attenzione a non lasciarsi condizionare dalla concezione moderna di soggettività lirica». 189 In tal senso, correttamente, Porro-Lapini 2017, pp. 90 ss.

72

Capitolo II

Questo aspetto fu presente in primo luogo nell’opera di Pinda­ ro, il quale, come poi i retori, scrisse spesso su committenza. La lirica corale era infatti costituita da canti composti in elogio di un certo atleta, di una certa famiglia o di una certa polis. In questo modo venne ad affermarsi, accanto ad una concezione dell’uomo individualistica propria della lirica non corale, una concezione dell’uomo adattiva, tendente a conformarsi ai valori prevalenti, che erano oramai quelli del denaro e del potere190. In questo senso, per quanto esso sia stato davvero poco indagato, vi è un chiaro legame fra le concezioni dell’uomo proposte dalla poesia lirica e quelle che emergeranno, di lì a poco, nella Sofistica. Nella lirica infatti, come poi nella Sofistica, si strutturarono alcuni fra i maggiori momenti problematizzatori della tendenza generale della cultura greca a definire l’uomo come ente razionale e morale. Analizziamo allora queste tendenze distinguendo lirica non corale e lirica corale. La lirica non corale Archiloco (VII secolo), per quanto sappiamo della sua opera191, fu sostenitore di una concezione polimorfa dell’uomo. Egli affermò infatti, mostrando in sostanza la estrema variabilità dei desideri umani, che «ognuno in guisa diversa il cuore si riscalda»192, ossia che i tratti individuali quasi prevalgono nell’uomo sulla natura comune193. Anche in un altro passaggio egli così si rivolse all’ami­ co Glauco: «Vario è l’animo degli uomini [...]: muta a seconda del giorno che Zeus manda loro, e il pensiero solo al proprio interesse accorda»194. L’uomo fu insomma rappresentato da Archiloco in ma­

190Platone, nel Protagora (347b-348 a), lasciò chiaramente intendere che, se ci si educa in base ai poeti, come allora avveniva, ci si limita a confermare e trasmettere le opinioni correnti. Nel Gorgia (501 e-502 e) attribuì ai principali generi di poesia una funzione adulatoria, assimilandoli alla retorica. Nella Re­ pubblica incluse i poeti fra coloro che lodano la virtù in modo insincero, giun­ gendo addirittura ad elogiare chi ha successo prevaricando (363 e ss.). 191 Due buoni testi di riferimento sono Rankin 1977 e Bossi 1984. 192Fr. 41 Diehl. 193Snell 1963 (p. 96) vide in tal senso una continuità anche col famoso detto di Saffo, secondo cui «la cosa più bella è quella che piace». Tale concetto fu presente pure in Anacreonte, che come Saffo riprese spesso il pensiero dell’avvicendarsi alterno della tyche, ossia della fortuna, tematica che non a caso di­ verrà centrale nellancor più individualistico clima dell’epoca ellenistica. 194Fr. 68 Diehl.

Epici, lirici, tragici

73

niera mutevole ed utilitaristica195. Ciò lascia chiaramente compren­ dere come, in un’epoca di rottura - a causa dello sviluppo della crematistica: il denaro fece il proprio ingresso nel mondo ellenico proprio in quei decenni - coi valori epici tradizionali, una idea di uomo come ente razionale e morale iniziò ad essere considerata sempre meno funzionale, e venne dunque sempre più problematiz­ zata, lasciando sostanzialmente il posto ad una idea di uomo come ente adattivo ed egoista. Per questo anche gettare lo scudo e sal­ vare la propria vita senza curarsi dei compagni - comportamento sicuramente inaccettabile nell’etica omerica - venne da Archiloco ritenuto preferibile rispetto al morire per la patria196. Come ben colse Hermann Frankel, Archiloco «mette in pratica l’idea della docile plasmabilità della natura umana». Per lui «l’ani­ mo dell’uomo è così perfettamente mutevole [...] che la condizione momentanea della propria persona assume una importanza deter­ minante»197. «Entusiasmo e depressione, in reciproca alternanza, sono per Archiloco la legge della nostra esistenza. Così, infatti, il dolore può essere vinto solo con i piaceri»19819 . Non è un caso che, come poi Teognide, anche Archiloco abbia sostenuto, almeno se­ condo una buona parte degli interpreti, posizioni edonistiche. Per lui l’uomo era in effetti caratterizzato non dalla compostezza olim­ pica, ma dalla instabilità dionisiaca che conduce a repentini pas­ saggi da uno stato d’animo a quello opposto. Ciò inevitabilmente conduceva a concentrarsi sull’istante, dunque sul piacere sensibile più che su una spiritualità razionale e morale di lungo termine. Anche in Teognide di Megara (VI secolo a.C.)1" , aristocratico amante dei banchetti e dei piaceri sensuali, si legge - anticipando un tema che sarà poi ripreso dal Rinascimento, in ulteriore ana­

195Anche Del Grande 1947 (p. 37) scrisse che «dalla maggioranza dei lirici [...] il problema dell’hybris fu sentito scarsamente. Archiloco pare scrolli da sé ogni cura di male e di bene». In maniera analoga Snell 1963 (p. 102), per il quale Archiloco «non sente la giustizia come meta dell’azione, come base dell’ordine statale». 196Fr. 6 Diehl. Come scrive Zampagliene 1967 (p. 95), la personalità di Ar­ chiloco «fu quella di un soldato di fortuna, incapace di accettare una disciplina, ansioso di battersi più per ubbidire a un trasporto di attivismo che per servire un movente ideale». 197 Frankel 1997, p. 212. 198Id., p. 223. 199 Di Teognide ci rimangono quasi 1400 versi, cioè una quantità di opera superstite molto superiore a quelle degli altri lirici arcaici, sicché si può essere un poco più precisi nella attribuzione di alcune tesi.

74

Capitolo II

logia con la Sofistica200 - quanto segue: «Animo mio, adatta il tuo carattere cangiante in base a ciascuno degli amici, contemperando la tua indole con quella che ha ciascuno di loro. Cerca di avere l’in­ dole del polipo a molte spire, lui che, se si accosta a uno scoglio, vi appare, ad osservarlo, tale e quale. E anche tu ora conformati in tal modo ed ora, invece, cambia di colore. L’abilità, senza dubbio, è più forte della coerenza»201. Si tratta di tesi davvero emblematiche per comprendere la con­ cezione dell’uomo di buona parte della poesia lirica. Qui Teognide afferma infatti che l’uomo non ha una natura ben definita, o meglio che la sua essenza - dunque il suo bene - consiste nell’adattarsi al contesto, qualunque esso sia, e neH’assumere all’interno del mede­ simo i comportamenti più funzionali. Evidente che, se così fosse202, all’uomo non sarebbe attribuibile alcuna natura razionale e morale, in quanto solo il comportamento adattivo - il quale sempre viene posto in essere, in modalità sociali crematistiche, in dispregio della ragione e dell’etica - sarebbe da ritenersi naturale e raccomanda­ bile. Non è casuale che il modello di riferimento di Teognide risulti essere il polipo, nello stesso senso per cui nel Rinascimento Pico della Mirandola fece riferimento al camaleonte203. Si tratta come detto di una “tesi antropologica” di rottura con quella che in nuce era emersa in Omero ed Esiodo, e che negli stessi anni fu esposta da Solone. La tesi dell’epica era infatti quella per cui non ci si deve adattare al contesto se esso non consente di rea­ lizzare la propria umana eccellenza. La cultura greca infatti, come

2°o per aicune analogie, ci permettiamo ancora di rimandare a Grecchi 2016 b, pp. 77-88. 201Elegie, vv. 213-218. 202 In Teognide sono tuttavia presenti anche spunti in direzione opposta, come quando afferma, in rapporto agli uomini ricchi ma vili, che «noi non ba­ ratteremmo mai la nostra virtù con la loro ricchezza, perché la virtù resta salda per sempre» (Elegie, vv. 315-318), a differenza del denaro. In Teognide appare dunque in nuce anche la struttura razionale e morale dell’uomo, come quando sostiene che «medita pensieri giusti l’uomo nel cui petto è radicata intelligenza retta» (Id., w . 394-395): o quando ricorda che «un uomo non possiede dentro di sé nessun bene più alto della ragione, e nessun male peggiore [...] della stol­ tezza» (Id., vv. 985-986); o ancora quando dice che «l’intelligenza è la qualità suprema che gli dei hanno concesso ai mortali [...]. Essa tiene a freno la male­ detta tracotanza e la sciagurata avidità [...], delle quali vizio peggiore non c’è, e da cui [...] deriva ogni bassezza» (Id., vv. 997-999). 203 Nel nostro tempo la metafora forse più in voga è invece quella della «società liquida» di Zygmunt Bauman, la quale va nella medesima direzione: occorre essere liquidi come l’acqua proprio in quanto essa è priva di forma, assumendo quella del recipiente che la contiene.

Epici, lirici, tragici

75

mostrerà poi in maniera emblematica la filosofia classica, non si accontentò quasi mai di descrivere la effettualità della realtà sto­ rico-sociale accettandola per come è, ma cercò quasi sempre di te­ matizzare la realtà per come essa dovrebbe essere nella sua perfe­ zione onto-assiologica, tentando di realizzare tale idealizzazione204. La lirica corale La lirica corale greca a partire dal VII secolo, con Alcmane, Stesicoro, Ibico, Simonide205, Bacchilide e soprattutto Pindaro, si ca­ ratterizzò per essere una poesia encomiastica e celebrativa, priva anch’essa di progettualità etico-politica. Ebbero in effetti una gran­ de importanza, in quell’epoca di tirannidi, gli agoni sportivi, in cui l’atleta vincitore vantava il diritto di essere festeggiato in vari modi per avere dato pregio alla propria casata206. In questa ricerca del kleos sociale, ma soprattutto personale, la parola poetica destinata a cantare la gloria dell’atleta (e del ricco committente della polis da cui l’atleta proveniva) possedeva una importanza paragonabile - con nota metafora - a quella del marmo destinato ad ospitare il nome del vincitore per eternarne la gloria207. Con Pindaro, come egli stesso affermò nella II Pitica, la poe­ sia divenne «merce»208, il che andava di pari passo con il fatto che l’uomo si percepiva essenzialmente come «denaro»209, essendo quest’ultimo divenuto oramai supremo criterio di senso e di va­ lore. In questo modo anche la lirica corale si pose in opposizione all’epica, nella quale il poeta si considerava invece servitore delle Muse, dunque del vero e del bene, ossia di quei valori comunitari

204 L’esempio emblematico di questa tendenza fu indubbiamente la Repub­ blica di Platone, ma fu sempre molto vivo all’interno del pensiero greco, come poi mostreremo, un filone utopico. 205 Simonide di Ceo (556-468 c.a.), come ci narra Aristotele nella Retori­ ca (1405 b 23-28), fu poeta itinerante fra i più disparati offerenti, noto per la smodata avidità (Aristofane, Pace, vu. 697-698). Famoso è un suo frammento in cui afferma che «sull’uomo fa forza, contro la sua volontà, l’irresistibile desi­ derio di guadagno» (fr. 36 Page, vv. 8-10). 206 Rinviamo in merito al documentato Angeli Bernardini 2016. 207 II testo di riferimento su questa tematica è Svenbro 1984. 208Pitiche, II, vv. 67-68. 209 Istmiche, II, vv. 10-11. Come ha sostenuto in merito Canfora 2001 (p. 103), «è qui la differenza sostanziale rispetto alla lirica monodica (Saffo, Alceo, ecc.): il lirico corale ha una lucida visione del mercato e del guadagno». Da notare in merito come nelle Pitiche I, 92-100 e III, 68-79, Pindaro non lesinò di ricordare il pagamento a chi gli aveva commissionato il canto.

76

Capitolo II

che, per essenza, rifiutavano ogni privatizzazione e mercificazione del pensiero. La poesia epica doveva infatti avere una utilità pub­ blica, sicché i poeti epici come Esiodo (ed i poeti sapienziali come Solone) furono sostanzialmente radicati nella propria polis, e non furono itineranti come i lirici, i quali invece condussero spesso re ­ sistenza alla perenne ricerca di committenti. Significativo in merito è l’utilizzo, sia da parte di Simonide che di Pindaro, di metafore artigianali per designare la propria opera. In loro infatti, come ricordato, il poeta divenne “produttore” di una sorta di merce210, la cui acquisizione doveva appunto essere regola­ ta da un contratto. Il problema, di cui questi autori furono solo in parte consapevoli, è che purtroppo ogni merce, se prodotta solo per denaro, come tale aliena chi la produce dalla propria opera, dagli altri ed in ultima analisi da sé stesso211, con tutto ciò che ne conse­ gue per la derealizzazione della propria umanità. Come Teognide, che non ignorava le vie della dissimulazione212, anche Pindaro invitava a «conformare il proprio carattere alla pelle dell’animale marino attaccato alle rocce», ed a «saper vivere [homilei) con le genti di ogni paese, concedere il proprio assenso al compagno del momento, e variare i propri sentimenti da un giorno all’altro»213. Con una metafora - quella del polipo - che avrà lunga fortuna, Pindaro affermava insomma che non era importante la co­ munità di appartenenza, in quanto si poteva vivere ovunque, se in grado di trarre utilità dalle circostanze214. In effetti, le liriche di Pindaro erano perfettamente in grado di adeguarsi al contesto215. Rispetto ad alcune strutture metriche sta­

210Come ricorda Svenbro 1984 (p. 14), «i poeti corali parlano dei loro carmi come di sculture, di monumenti, di marmo, ne parlano come di tessuto, intrec­ cio, cucito; essi stessi, e primo fra tutti Pindaro, si presentano come scultori, costruttori, tessitori, insomma poeti nel significato originario della parola, che è quello di produttore (in senso artigianale)». 211 Come scrive Bowra 1964 (p. 154), «il poeta corale era pagato per convin­ cere: se egli condivideva le opinioni del suo committente, tanto meglio; non era tuttavia per questo che egli otteneva l’ordinazione, ma per la sua [...] abilità poetica, grazie alla quale egli sapeva trasformare qualsiasi materia in poesia». Come Bowra commenta acutamente, tuttavia, «non solo la materia sembrava estranea al poeta, ma anche il prodotto finito del suo lavoro» (Id., p. 155). 212Elegie, vv. 213 ss.; 419 ss. 213Fr. 235 Bowra. 214In maniera analoga, come mostreremo, i Cirenaici sostennero che si può vivere ovunque, in quanto si può trarre piacere da ogni circostanza. 215Scrive correttamente, in merito, Angeli Bernardini 1983 (p. 39), che «l’e­ pinicio presuppone una situazione che in senso lato si può definire di tipo re­ torico. Le sue strutture e le sue funzioni sono infatti quelle proprie del discorso

Epici, lirici, tragici

77

bili e ripetute dei poemi omerici, o ancor più all’inno di Archiloco intonato ad Olimpia sempre uguale dopo ogni vittoria, le odi di Pindaro (come egli stesso dichiara nella Olimpica IX) mutavano infatti adattandosi alle diverse esigenze, poiché ogni elogio dove­ va essere effettuato in maniera diversificata, adatta alla specifica committenza216. Ci rendiamo conto del carattere davvero troppo sintetico di que­ sto excursus sulla poesia lirica. Esso tuttavia non ha come scopo una sintesi della medesima, per la quale dobbiamo necessariamen­ te rinviare alla letteratura specifica, quanto quello di comprendere una particolare fase del pensiero greco in relazione alla definizione dell’idea di uomo. Questo processo infatti, come già ricordato, non fu un cammino continuo verso una progressiva messa in chiaro della sua natura razionale e morale, la quale avvenne anzi prin­ cipalmente rispondendo alle problematizzazioni poste in essere prima dalla poesia, poi dalla Sofistica ed infine, come mostreremo, dallo Scetticismo.

5 . 1 Sette sapienti Occorre ancora segnalare, nel percorso che conduce alla for­ mazione dell’uomo greco, la presenza di una poesia di carattere sapienziale, caratterizzata da precetti che da etico-individuali di­ vennero sempre più politico-comunitari. Gli autori che la tradizio­ ne denominò poi come “Sette sapienti” compresero infatti, prose­ guendo in questo senso il lavoro svolto da Omero ed Esiodo, che solo all’interno di un contesto comunitario l’uomo avrebbe potuto trovare la realizzazione individuale delle proprie costitutive com­ ponenti razionali e morali. Il quadro in cui si svolse la loro rifles­ sione fu del resto quello della polis nascente, che fiorì in maniera compiuta in epoca classica. orale tendente a convincere, dilettare, esortare colui che ascolta, sempre in vi­ sta di uno scopo che in questo caso si identifica con l’elogio del committente». L’elogio - in questo consiste l’aspetto retorico - doveva avvenire mediante il coinvolgimento del committente e dell’uditorio. Emblematiche, in merito, le Pitiche I, IV e V e YOlimpica VII. 216 La lode dell’atleta e del committente fa in Pindaro tutt’uno con la stessa lode del poeta corale, il quale deve spesso elogiarsi, anche in maniera eccessiva, per dare maggiore importanza al proprio canto. Non è casuale che in alcune odi (Pitiche, II, 96; Nemee, III, 40-42) Pindaro si accomuni all’atleta vincitore. Su questi temi, ed in particolare sul narcisismo di Pindaro, si sofferma Gianotti 1975-

78

C a p ito lo II

Procediamo comunque con ordine. Con la denominazione di “Sette sapienti” si indica comunemente un gruppo di poeti, vissuti tra il VII ed il VI secolo, che spesso furono anche legislatori delle loro poleis, i quali espressero molti precetti utili a favorire la buona vita personale e sociale. Si parla, solitamente, di “sette” sapienti, ma il loro numero è in realtà più ampio, dato che gli elenchi dei medesimi forniti nel mondo antico non coincidono. Platone ad esempio, nel Protagora, statuisce il seguente elenco: Talete, Pittaco, Biante, Solone, Cleobulo, Misone, Chilone217. Stobeo invece, seguendo Demetrio Falereo, anziché Misone pose Periandro, ma le varianti sono diverse. Tramite Demetrio Falereo ci è pervenuta comunque la più ricca raccolta di queste massime218, nelle quali è evidente la priorità della tematica etica, intesa in senso ampio. Si tratta infatti, in larga parte, di sentenze schierantisi in favore della misura, dell’armonia e della giustizia da tenere nei comportamenti. La natura razionale e morale dell’uomo costituisce dunque l’impli­ cito riferimento della riflessione sapienziale, la quale contribuì no­ tevolmente alla messa in luce della medesima nel mondo classico. Non è questa la sede per analizzare in dettaglio tutte le senten­ ze, ma un breve elenco delle medesime può essere utile per ave­ re quanto meno un’idea del carattere insieme umanistico ed anticrematistico di questa riflessione. Eccezion fatta per Solone, cui dedicheremo il prossimo paragrafo, il primo autore di riferimento può essere considerato Chilone. Costui ci lascia il motto «Conosci te stesso», simbolo della ricerca umanistica greca219, oltre all’em­ blematico rimando alla conoscenza che deve sempre precedere la parola: «La tua lingua non corra avanti al pensiero»; occorre infatti sempre «dominare l’impulso», per realizzare quella unità raziona­ le e morale in grado di realizzare compiutamente l’uomo. Chilone inoltre ci lascia: «Venera colui che è più vecchio»; «Scegli il danno piuttosto che il guadagno turpe: per il primo ti addolorerai una sola volta, per il secondo tutta la vita»; «non desiderare l’impossibile». In questi detti, oltre al richiamo alla moderazione, vi è una chiara

217Protagora, 343 a. 218 La raccolta originaria è quella di Stobeo, Antologia, 1, 172. Citeremo le massime da Reale 2004, voi. II, pp. 28-35, in cui si trova un elenco pressoché completo delle medesime. 219Sulla storia di questo motto, reso famoso da Socrate, rinviamo alla docu­ mentata ed estesa trattazione di Courcelle 2001.

Epici, lirici, tragici

79

esposizione del rifiuto della crematistica che, come mostreremo, costituisce il trait d’union di pressoché tutta la riflessione antica220. Un ulteriore sapiente fu Cleobulo, che ci lascia, fra le altre, le seguenti sentenze: «Bisogna rispettare il padre»; «Consiglia il me­ glio ai cittadini»; «Sii amico della virtù e nemico della ingiustizia»; «Non far nulla con violenza»; «Componi le inimicizie»; «Conside­ ra nemico chi è contro il popolo». Questi frammenti mostrano tutti la dimensione politica della riflessione sapienziale. Anche Solone, oltre all’opera poetica e legislativa di cui fra breve ci occuperemo, lasciò una serie di sentenze morali: «Nulla di trop­ po»; «Fuggi il piacere, che genera afflizione»; «Conserva la probità del carattere»; «Occupati di cose oneste»; «Se ritieni giusto che gli altri rendano conto, assoggettati anche tu». Queste sentenze sono tutte rivolte ad enunciare i supremi valori della nascente Grecità classica: la misura, il rispetto, la giustizia. Tesi analoghe furono espresse anche da Talete (che ritroveremo in seguito fra i fisici presocratici), per il quale «malleveria porta sventura». Egli affermò inoltre: «Ricordati degli uomini presenti e assenti», in quanto ciò fa bene soprattutto alla propria anima, di cui è necessario avere massimamente cura. Prova ne è un’altra testimonianza lui attribuita, che ricorda molto da vicino la rifles­ sione socratica: «Non abbellire il tuo aspetto, ma sii bello in ciò che fai». La moralità è in effetti esito dei buoni comportamenti, i quali sovente sono caratterizzati da reciprocità: «Quali benefici arreche­ rai ai genitori, tali tu stesso riceverai in vecchiaia dai figli». Talete ricorda inoltre la necessità dell’impegno di vita («Cosa molesta è l’inazione»), ed anche quella del pudore, conforme alla giusta mi­ sura («Nascondi i mali in casa»). Una discreta opposizione alla crematistica emerse inoltre in Pittaco, per il quale «il guadagno non sazia». Occorre infatti evitare la brama di ricchezza («possedere le cose proprie») e non lasciarsi trasportare dalla hybris («sopporta di essere danneggiato un poco dai vicini»). Anche Biante parve consapevole degli effetti negativi della cre­ matistica («Non lodare l’uomo indegno per la sua ricchezza»). La razionalità unita alla moralità deve infatti essere al centro del pen­ siero del saggio («Pensa a ciò che hai fatto»), insieme alla costanza

220 Su questo tema abbiamo in preparazione un libro, che speriamo possa vedere la luce nel 2021, che dovrebbe intitolarsi Ricchezza e povertà nella f i­ losofia antica.

8o

Capitolo II

dell’opera di vita («Lentamente poniti all’opera, ma perdura in ciò che hai cominciato»). Temi analoghi si ritrovano infine in Periandro. Anche per lui, «turpe è il guadagno». Preferibile è invece «occuparsi di tutti», an­ che perché «la democrazia è meglio della tirannide». La crematistica antidemocratica si opponeva in effetti proprio alla comunità di vita, che massimamente stava a cuore a Periandro: «Sii lo stesso con gli amici, nella buona e nella cattiva sorte»; «Rimprovera in modo tale da diventare subito amico». Più organica e strutturata risulta l’opera letteraria e politica di Solone.

6. Solone Solone (630-560 c.a.)221, poeta e legislatore ateniese, risulta come detto figura emblematica della cultura greca. Egli infatti si trovò a vivere ed operare nel contesto sempre più crematistico del­ la Atene del VI secolo, in cui la polis fu animata da notevoli conflitti interni. Tali conflitti erano dovuti principalmente ad un processo di crescente privatizzazione delle risorse pubbliche, di crescente impoverimento dei ceti medi e di crescente messa in schiavitù per debiti con conseguente vendita di molti cittadini ateniesi222. Dell’o­ pera di Solone ci resta un totale di oltre 200 versi223, in cui l’autore cerca di indirizzare i comportamenti dei concittadini, sia attraverso l’esposizione di contenuti morali, sia motivando le ragioni delle ri­ forme politiche da lui poste in essere. Solone, come arconte di Atene, cercò infatti principalmente di ridurre il dominio dei potenti con leggi universali e condivise, che garantirono diritti minimi per tutti. Come scrisse Jaeger, «inve­ ce di profondersi come i lirici dell’età sua, profondamente agitati

2211 dati cronologici su Solone sono piuttosto incerti, anche in quanto vi è una quasi totale assenza di notizie sul suo conto prima del IV secolo a.C. Esprime molti dubbi sulla possibilità di conoscere qualcosa di preciso sulla vita di Solone Flament 2007. In favore di una datazione più bassa di una ventina d’anni, Pinotti 2006, pp. 199-244. 222Come scrive Sassi 2009 (p. 61), Solone individua la causa principale della crisi politica e morale della sua epoca «nella avidità e prevaricazione dei ricchi a scapito delle classi povere: le sue riforme mirano coerentemente a una me­ diazione dei conflitti sociali, e sono ispirate a un ideale di moderazione». 223 Citeremo qui da Maehler-Noussia 2001, talvolta con piccole modifiche formali. Spunti molto interessanti, sull’opera di Solone, in Blok-Lardinois 2006.

Epici, lirici, tragici

81

dal problema del dolore nel mondo, in melanconici e rassegnati lamenti circa il destino umano e la sua ineluttabilità, Solone esorta l’uomo all’azione responsabile ed egli stesso, con la sua condotta morale, ne dà un esempio. Ciò nonostante, anche in Solone [...] non mancò affatto l’elemento contemplativo»224, strutturando egli quel nesso fra teoria e prassi che costituirà poi il caposaldo di tutto il pensiero greco. Svolte queste premesse generali per inquadrare meglio la figu­ ra di Solone, entriamo ora nel merito dell’umanesimo soloniano, ovvero di quella sua ricerca volta a favorire la realizzazione della natura razionale e morale dell’uomo, intervenendo nel contesto storico-sociale. Solone in questo senso, ricercando primariamente la verità con approccio onto-assiologico, può definirsi “pre-filosofo” in quanto, se è vero che la filosofia nasce dalla meraviglia, egli fu tra i primi a “meravigliarsi” - a “sgomentarsi” - non tanto di fronte al mistero della natura, quanto di fronte ad una situazione di gra­ ve sofferenza sociale, ricercando una risposta razionale ed insieme morale, ossia filosofica ed insieme politica. È verosimile, in base agli studi più accreditati, che sia rimasto in proporzione poco della vasta produzione letteraria, soprattutto poetica, di Solone. Si può tuttavia con certezza sostenere che, nella sua opera, egli riprese e sviluppò la tendenza umanistica - pre­ sente, come detto, già in Omero ed Esiodo - di condanna drastica di hybris e di riproposizione universalistica di dike225. Per Solone infatti il metron, ossia la giusta misura nella distribuzione della ric­ chezza, era qualcosa di necessario per favorire quella armonia co­ munitaria che sola avrebbe potuto consentire la realizzazione della natura razionale e morale dell’uomo226. La filosofia, intesa come ri­ flessione sul senso e sul valore della realtà, ebbe forse questo «ini­ zio»227 proprio in quanto, in una situazione storico-sociale dram­

224Jaeger 2004, p. 126. 225Sin da Omero, dike designa un insieme di regole di buon comportamento sociale la cui violazione si configura come hybris. In Solone, rispetto ai prede­ cessori, l’ambito semantico di dike si sposta decisamente verso la sfera politi­ co-giuridica: il termine inizia infatti a designare la legalità cittadina, il tribunale che la amministra e le sentenze che esso pronuncia. In ogni caso, dike continua ad indicare una conformità delle azioni umane alle norme comunitarie. 226Per mantenere tale armonia, oltre alla limitazione di alcuni eccessi nella ostentazione del lusso, Solone richiese anche la eliminazione del parlar male degli altri in luoghi pubblici (Plutarco, Vita di Solone, XXI,1). 227 È questa la tesi originalmente argomentata da Preve 2007, pp. 5-28. Lo stesso Aristotele sostenne tuttavia, nella Metafisica (983 a 1-10), che la filosofia «fu ricercata solamente dopo che furono conseguite, pressoché interamente,

82

Capitolo II

matica per la vita delle persone, caratterizzata da una dura lotta per la sussistenza, essa si rivelò come la prima risposta in grande stile al thauma derivante dalla insensatezza della esistenza crematistica. L’opera di Solone rappresentò pertanto, sul piano teorico ed insieme pratico, uno dei primi tentativi di strutturare quel primato della cultura e della politica sulla economia (sulla crematistica), la cui assenza si iniziava a comprendere come il massimo male per la comunità. I frammenti principali di Solone mostrano la centralità del con­ tenuto etico-politico nella sua opera. Solone evidenziò infatti che mentre «la ricchezza che danno gli dei», ovvero la ricchezza deri­ vante da una attività giusta, «giunge salda all’uomo dalle estreme basi fino alla cima [...], quella che gli uomini ossequiano con la loro violenza non viene secondo un ordine, ma controvoglia si sottomet­ te alle azioni ingiuste, e presto a essa si mescola la rovina [...]. Non durano infatti a lungo, per i mortali, i risultati della tracotanza»228. La ricerca smodata di potere e denaro era infatti per Solone contraria al volere divino, così come alla natura in generale - la quale non costituisce un fondo da saccheggiare - ed alla natura dell’uomo in particolare. Lungi infatti dal favorire la comprensione razionale della realtà e l’armonia comunitaria della vita, la crema­ tistica conduceva l’uomo alla tracotanza, la quale a sua volta, es­ sendo violazione della giusta misura, lo portava alla rovina229. Tale messaggio non costituì affatto, in Solone, una semplice “tirata” contro la hybris, quali ve ne furono molte, come accennato, nella poesia sapienziale precedente. Come ha notato infatti H. Maehler, «Solone, nella sua poesia elegiaca, fece una vera e propria analisi della filosofia alla base dei suoi provvedimenti»230, ponendo la na­ tura dell’uomo come implicito fondamento del proprio progetto. Egli comprese infatti che il contesto crematistico, finalizzato alla illimitatezza dei guadagni, era strutturalmente inadatto alla natura

sia le cose necessarie alla vita che quelle utili al conseguimento delle comodità e del benessere», il che indica chiaramente che la considerazione politico-so­ ciale, che di quel conseguimento si pone come condizione necessaria, ben diffì­ cilmente può essere omessa dagli inizi della filosofia. Per questo motivo, anche ad avviso di chi scrive, Solone può essere considerato “primo filosofo” assai più di Talete, di cui fu appunto contemporaneo. Rinviamo in merito a Orecchi 2008 c. 228Fr. 1 West. 229 Anche per Vernant 1978 (pp. 404-405), «a causa della sua saggezza il filosofo è chiamato a proporre i rimedi alla sovversione provocata dagli inizi di una economia mercantile». 230 Maehler, in Maehler-Noussia 2001, p. 6.

Epici, lirici, tragici

83

di un ente limitato come l’uomo, cui necessitano poche cose per vivere bene, non certo una quantità smisurata di beni. Il bersaglio principale dell’umanesimo anticrematistico di So­ lone fu dunque il denaro posto come fine della vita umana. Un si­ mile fine riduce infatti l’uomo a strumento, a merce, in maniera completamente innaturale rispetto al giusto ordine delle cose. So­ lone criticò per questo in più di una occasione i suoi concittadini «proni alle ricchezze»231, che coi loro comportamenti producevano devastanti effetti sociali232. Egli comprese davvero con grande pre­ veggenza che la mercificazione di tutto cui conducono le strutture proprietarie privatistiche è contraria alla natura umana, e pertanto la derealizza, creando modalità di vita non comunitarie. Solone infatti, nel sostenere che la ricerca crematistica di dena­ ro non ha limiti, anticipò di parecchi secoli addirittura Karl Marx, molto debitore verso la cultura greca, il quale appunto affermò, nella sua opera principale, che il capitale non ha limiti nella sua tendenza alla accumulazione233. Come scrive infatti Solone, «per la ricchezza non esiste alcun limite visibile tra gli uomini: quelli che hanno più mezzi si danno da fare il doppio [...] ma dai guadagni spunta la rovina»234. Ciò accade peraltro proprio per i motivi sopra ricordati, ossia che il denaro, come argomenterà poi ottimamente Aristotele, può al più servire come mezzo per realizzare fini, ma non può assolutamente costituire un fine. Come lo Zeus di Omero, Solone non incolpò gli dèi per i mali che affliggevano la polis, ma appunto gli uomini, o meglio il modo di produzione crematistico della Atene del suo tempo: «La no­ stra città non perirà mai per decisione di Zeus e per le intenzioni dei beati dei immortali [...]. Sono i cittadini stessi che per la loro stoltezza, proni alle ricchezze [...] possono distruggere una gran­ de città»235. 1 più colpevoli erano a suo avviso i più potenti, i quali «arricchiscono sedotti da azioni ingiuste», e «senza rispettare mi­ nimamente né i beni sacri né i beni pubblici rubano razziando chi da una parte chi dall’altra, non rispettando gli altari sacri di Dike,

231Fr. 3, 6 West. 232 Secondo le parole di Gigante 1956 (pp. 7-8), l’epoca di Solone fu l’epo­ ca in cui «l’interesse economico o edonistico, eretto a nuovissimo nomos [...], determinava la violenza del più forte sul più debole, perseguiva la creazione di teorie [...] nate dal disfacimento della coscienza morale, ed agiva per le vie oblique del raggiro e della adulazione». 233 Su questi temi ci permettiamo di rinviare a Preve-Grecchi 2005. 234Fr. 1, 71-76 West. 235 Fr. 3,1-6 West.

84

Capitolo II

che nel suo silenzio è testimone delle cose che sono e di quelle che furono, e col tempo in ogni caso viene a far pagare il fio. Questo sta arrivando, ormai, come piega inevitabile per tutta la città, ed in un attimo essa cade nella malvagia schiavitù, che desta la sedizione civile e la guerra sopita»236. In un contesto storico-sociale che, come l’attuale, ragionava ponendo la ricchezza come supremo criterio di valore, chi, come Solone, esprimeva tesi umanistiche ed anticrematistiche poteva apparire “folle”. Di ciò egli fu consapevole, ma fu anche consapevo­ le che la “follia” attribuita al suo pensiero era semplicemente “inat­ tualità”237. Ciò sarebbe risultato evidente a tutti, a suo avviso, «non appena la verità si fosse messa nel mezzo»238, ovvero non appena fosse stata da tutti compresa e realizzata la giustizia, «la invisibile misura che è la sola a disporre dei termini di tutte le cose»239. La riflessione su dike impegnò in effetti tutto il pensiero pre­ classico greco240. Fu del resto proprio con Solone che la riflessione greca sul diritto potè dispiegarsi in maniera strutturata. La famosa affermazione di avere «scritto leggi ugualmente valide per gli umili e per i potenti, adattando a ciascuno la retta giustizia»241, mostra come il principio di uguaglianza davanti alla legge (isonomia) fos­ se a suo avviso essenziale per realizzare una buona comunità. Di fronte alla prepotenza dei ricchi, egli ristabilì la certezza norma­ tiva, nonché la realizzazione di un sistema giudiziario popolare in grado di consentire a tutti i cittadini di far valere in sede pubblica i propri diritti242. In Solone fu fondamentale l’idea per cui il diritto deve avere un posto di primo piano all’interno dell’ordinamento complessivo. Egli non si stancò in effetti mai di affermare che è im­ possibile calpestare dike, giacché essa finisce sempre per trionfare, assicurando il castigo agli ingiusti e ristabilendo così la comunità. L’anticrematistica di Solone fu dovuta dunque non ad una aprioristica antipatia verso le strutture privatistiche e mercificate, bensì alla comprensione che tali strutture non favoriscono la rea­ lizzazione della natura razionale e morale dell’uomo. La struttu­

236Fr. 3,11-20 West. 237Fr. 14 West. 238Fr. 14 West. 239Fr. 20 West. Fino ad allora, gli Ateniesi e la loro città sarebbero rimasti nella contingenza della menzogna: «Tale, infatti, è la ricchezza dei mortali» (fr. 18, 7 West), priva di verità e giustizia. 240Citiamo solo, a titolo di esempio, Havelock 2003. 241Fr. 30,18-19 West. 242Aristotele, Politica, 1274 a 3 ss.

Epici, lirici, tragici

85

ra umanistica del pensiero del grande legislatore è stata colta in questo senso da diversi studiosi, fra i quali Agostino Masaracchia. Quest’ultimo, pur sottolineando che Solone non giunse mai ad ef­ fettuare una redistribuzione egualitaria della proprietà terriera, ha evidenziato come il tema fosse per lui centrale per riequilibrare il modo di produzione ateniese. Con corretta notazione, lo studioso ha rimarcato infatti che «la parola d’ordine, da Solone pronunciata, del ritorno alle venerande norme di Dike, si traduceva [...] nel ri­ chiamo ad un’epoca lontana in cui tutti i liberi avevano uguale por­ zione della terra patria, e non esistevano privilegi di proprietà»243. La medesima tesi fu sostenuta, qualche anno prima, da Louis Bengtson, per il quale quello di Solone fu «un attacco alla proprietà privata straordinariamente forte, quale l’Attica e tutta la Grecia, prima, non avevano mai provato»244. L’umanesimo di Solone si evince anche dal fatto che egli, come ricorda Maria Noussia, utilizzò l’atteggiamento propriamente filo­ sofico «di fissare concetti astratti di validità atemporale [...], tali da poter essere assunti a binari della vita politica»245. È evidente infatti «l’interesse di Solone per i contenuti di verità della poe­ sia» 4 . Diogene Laerzio cita in merito l’aneddoto, assai dubbio per motivi cronologici, secondo cui Solone avrebbe «impedito a Tespi la rappresentazione delle proprie tragedie, ritenendo non utili le menzogne»247. Tale aneddoto mostra in ogni caso la secolare com­ prensione del suo rivolgimento alla verità onto-assiologica, ossia alla ricerca di senso e valore della realtà, conformemente appunto alla natura razionale e morale dell’uomo. Il rivolgimento di Solone ad una verità di tipo onto-assiologico è stato colto da diversi interpreti, anche se non da tutti, essendo So-

243 Masaracchia 1958, p. 184. Anche Massimo Bontempelli ha rimarcato come, ai tempi di Solone, «la proprietà privata delle terre e degli uomini, lo scambio dei beni mediante il denaro, e il peso determinante dei detentori della nuova ricchezza monetaria sulle decisioni assembleari, avevano prodotto un mondo sociale spaventosamente privo di vincoli comunitari» (Bontempelli-Bentivoglio 1996, p. 24). 244 Bengtson 1948, voi. I, p. 112. Come ebbe a rimarcare, del resto, lo stes­ so Aristotele nella Politica (1266 b 14-17), «che l’equilibrio della proprietà ab­ bia una influenza sulla comunità politica sembra che sia stato riconosciuto da qualcuno nell’antichità, come per esempio da Solone nella sua legislazione, ed anche presso altri esiste una legge che proibisce di avere tanta terra quanto si vuole». 245 In Maehler-Noussia 2001, p. 317. 246 Id., p. 328. 247 Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, 1, 59.

Capitolo II

86

Ione, come Omero ed Esiodo, patrimonio dei letterati ben più che dei filosofi. Fra questi interpreti vi è sicuramente K. A. Raaflaub per il quale, correttamente, «Solone non fu il primo riformatore in campo sociale e politico della storia della Grecia [...], ma fu il pri­ mo a basare la sua legislazione su fondamenti teorici chiaramente formulati, ed a costruire la sua teoria in primo luogo su concetti di ordine politico, non etico-religioso»248. Tesi analoghe furono pe­ raltro sostenute, molto tempo prima, anche da G. De Sanctis, per il quale Solone fu «l’uomo che per primo dimostrò che la politica deve avere a suo fondamento una visione filosofica»249. Queste tesi sono molto importanti, in quanto unite alle prece­ denti notazioni su Omero ed Esiodo, ed alle successive notazioni filosofico-politiche sui Presocratici, mostrano - al netto delle ine­ vitabili problematizzazioni, come quelle appunto della poesia lirica - una sostanziale continuità del pensiero umanistico prefilosofico greco. Questa interpretazione è stata peraltro recentemente con­ fermata da un ottimo volume complessivo sulla figura di Solone realizzato da Nicola Reggiani, il quale ha giustamente posto in evi­ denza che l’antico legislatore chiedeva alle Muse «la corretta sa­ pienza, la possibilità di dare il giudizio più giusto [...] dike come saggezza, come conoscenza della verità dunque»250, ossia un sapere onto-assiologico. Dato che la causa prima della crisi sociale della Atene della sua epoca era costituita, per Solone, dalla diffusa ignoranza del vero e del bene, e dato che essa si contrapponeva alla natura razionale e morale dell’uomo, il suo pensiero non potè che essere, al contem­ po, insieme teorico e pratico, ossia filosofico e politico, volto alla ricerca ed al ripristino della verità e del bene.

7. Il teatro Note generali L’esperienza della poesia, come poc’anzi ricordato, si è diretta nel tempo sempre più verso tematiche culturali, politiche e sociali. Per questo essa trovò in un certo senso ad Atene la propria naturale

248In Settis 1996, voi. IV, p. 1058. 249 De Sanctis 1954, p. 176. 250 Reggiani 2015, pp. 4; 8.

Epici, lirici, tragici

87

evoluzione nella esperienza del teatro251, inteso come modalità in­ sieme culturale, politica e sociale di educazione della polis252. È molto difficile fornire una descrizione dell’idea di uomo che emerge nel teatro greco. Come per la poesia, ci rimane infatti solo una piccola parte delle tragedie e delle commedie realizzate. In più la rappresentazione tragica, per la stessa natura dello spettacolo teatrale, che pone in campo diverse voci, rende molto soggettivo attribuire determinati contenuti ad un autore. Essa consente infatti solo di cogliere alcuni temi generali del dibattito dell’epoca, i quali risultano comunque fortemente indicativi. Non conosciamo bene le modalità della nascita delle prime esperienze teatrali ateniesi, intorno alla metà del VI secolo253. Fino alla fine del V secolo, quando in sostanza si esaurì - per la morte ravvicinata di Sofocle ed Euripide - l’esperienza del teatro tragi­ co, gli autori che si succedettero furono tuttavia un gruppo molto nutrito. Si calcola infatti che vennero composti in poco più di un secolo circa 1700 drammi (di cui interi ne rimangono 32) e 600 commedie (di cui intere ne rimangono 9). Non entreremo nel dettaglio dei contenuti e delle forme delle rappresentazioni teatrali ateniesi, tematica su cui la letteratura è abbondante254. Ci preme però sottolineare, per rimarcare l’impor­ tanza che tali rappresentazioni ebbero sulla formazione dell’uomo greco, che la loro diffusione ad Atene fu ampia, trattando esse di tutti i grandi temi della vita, ossia la verità e la menzogna, la giu­ stizia e la ingiustizia, le passioni, la famiglia, ed in generale di tut­ ti i contenuti più importanti per la comunità. La tragedia toccava

251 De Romilly 1996 (p. 20) ha mostrato la continuità fra poesia e teatro: «Esprimere il senso della vita, suscitare terrore e pietà, coinvolgere in una sofferenza o un’ansia erano sempre state caratteristiche dell’epica e da essa le appresero i tragici». 252 Scrive correttamente Vegetti 1989 (p. 49) che «il teatro ha una doppia azione simultanea: esso interpreta la città e insieme educa e forma il cittadino militante, lo mette in condizione di pensare, comprendere, controllare i pro­ blemi che la pratica sociale e il suo orizzonte ideologico gli pongono ogni gior­ no nel momento della decisione e della riflessione». Già in un frammento di Simonide (53 Diehl) si leggeva del resto che polis andra didaskei, ossia che «la città educa l’uomo». 253Come scrisse De Romilly 1996 (p. 13), «la nascita della tragedia è avvolta nell’ombra», caratterizzata dalla medesima oscurità di quel culto dionisiaco che stava all’origine delle sue prime manifestazioni (per le quali rinviamo a Winkler-Zeitlin 1990, Berti F. 1991, Carpenter-Faraone 1993 e Massenzio 1995)- Per una complessiva ricostruzione della storia del teatro antico, riman­ diamo a Mastromarco-Totaro 2008 e Rodighiero 2013. 254Rinviamo in merito, anche per la relativa bibliografia, a Susanetti 2003.

88

Capitolo II

infatti le corde principali dell’esistenza e, data la complessità della esistenza, le toccava in modo profondo ed elaborato. Non è un caso che uno dei temi centrali del teatro greco sia stato il conflitto inter­ no all’uomo tra la sua componente razionale e la sua componente passionale255, la cui elaborazione influì molto sulla successiva con­ cezione platonica dell’anima256. L ’umanesimo del teatro greco Scrive correttamente Mario Gennari, in merito ai contenu­ ti umanistici del teatro greco, che «la tragedia è pervasa da una sottile vocazione pedagogica, poiché educa la coscienza dell’uomo ateniese del V secolo a.C. a soppesare la tradizione mitica, a cor­ reggere le debolezze della ragione, a considerare l’imprescindibilità della giustizia»257. La tragedia, avendo come scopo principale quel­ lo di dare espressione alle emozioni, nonché di porre sotto esame alcuni problemi della comunità258, non si occupò di tematizzare sul piano teoretico la forma compiuta dell’uomo, come farà successi­ vamente la filosofia. Ciò nonostante, presentando - nella forma della «esperienza protetta» della rappresentazione scenica - storie in cui accadimenti della vita suscitavano pathos, aiutò ad elaborare riflessioni in grado di far governare agli uomini questi stati d’ani­ mo, conducendoli ad una maggiore consapevolezza259. Scrive infatti correttamente Daniele Guastini che «per l’uomo del dramma attico

255 Esempio tipico è la Medea di Euripide, che nella omonima tragedia (uu. 1078-1080), prima di uccidere i figli, riconosce di essere consapevole del mi­ sfatto che sta per compiere, ma che in lei l’impeto passionale (thymos) risulta più forte di ogni deliberazione razionale. 256 Platone come noto, soprattutto nel libro X della Repubblica, rimproverò duramente il teatro di promuovere una frammentazione dell’io dello spettato­ re, coinvolgendolo eccessivamente, senza una adeguata guida razionale delle emozioni, nei drammi dei protagonisti delle storie. Per questo motivo, con ri­ ferimento alla poesia ed appunto alla tragedia, Platone invitò a bandire dalla città tutti gli autori ed i testi portatori di modelli etici negativi (Repubblica, 395 d-e), ritenendo auspicabile una «nuova mitologia», in grado di aiutare la ragio­ ne a governare le passioni (Id., 382 d). Su queste tematiche platoniche, buoni testi di riferimento sono Cupido 2002 e 2004, e soprattutto Palumbo 2008. 257 Gennari 2017, p. 110. 258 «La tragedia è, per la cultura greca classica, il luogo della messa in di­ scussione ultima dei legami tra gli individui appartenenti alla stessa comunità» (L.M. Lombardi Satriani, introduzione a Bindi 1999, p. 13). 259 Significativo è in merito il titolo (La disciplina dell’emozione: Lanza 1996) del bel libro del compianto Diego Lanza, in corso di riedizione per i tipi della casa editrice Petite Plaisance.

Epici, lirici, tragici

89

il problema fondamentale è [...] come vivere bene, come divenire, essendo uomo e mortale, eudaimon, felice. Il problema è, in una parola, ciò che i Greci denominavano praxis, l’azione etica finaliz­ zata al bene umano»260, che la tematizzazione del teatro aiutava a definire. Il tema del dolore e della morte risultava centrale anche nella tragedia greca, così come lo era stato nell’epica e nella lirica. An­ cor più che nella poesia precedente, tuttavia, nel teatro la cultura greca si rivelò in grado di effettuare analisi ricche ed approfondite, chiarendo sempre più la natura razionale e morale dell’uomo261.1 contenuti proposti dal teatro greco furono infatti molteplici, ed af­ frontanti un orizzonte umanistico notevolmente ampio. Un contenuto significativo fu inoltre la cura verso gli stranieri, il quale a sua volta presupponeva la consapevolezza della sostanziale unità del genere umano. Circa metà delle tragedie di cui conoscia­ mo qualche contenuto parlano infatti di stranieri, o sono ambien­ tate in contesto non greco, o ambedue le cose262. Eschilo, il primo grande autore tragico, compose le proprie opere - in particolare I Persiani, rappresentata nel 472 - dopo aver combattuto contro i Persiani nelle famose guerre difensive di pochi anni antecedenti, in cui perse peraltro un fratello. Ciò nonostante, come fra breve mostreremo, il suo atteggiamento fu di grande solidarietà verso gli invasori sconfitti. In Grecia infatti si rimase sempre consape­ voli dell’ampio debito culturale nei confronti delle grandi civiltà orientali, sicché non vennero mai posti in essere, come anche in precedenza rilevato, atteggiamenti di tipo discriminatorio in base all’efhnos263. Nelle numerose tragedie ambientate da Eschilo in ter­ ra straniera, infatti, il quadro che egli fornisce dei vari popoli risul­ ta ricco e particolareggiato, molto distante dall’uso generalizzato

260Guastini 1999, p. 57. 261 Dicono bene Vernant-Vidal Naquet 1994 (p. 47) che «affinché vi sia azio­ ne tragica occorre che si sia già sviluppata la nozione di una natura umana avente caratteri suoi propri [...]. Il senso tragico della responsabilità sorge al­ lorché l’azione umana fa posto al dibattito interiore del soggetto, all’intenzione, alla premeditazione». 262 Hall 1989, p. 11. 263 Da notare peraltro che il termine ethnos per definire l’identità di un popolo, ha un significato che è prima di tutto culturale (riassumibile princi­ palmente con i termini di lingua e tradizione, dunque elementi aperti al dive­ nire ed al mutamento, non deterministicamente chiusi: ad esempio, Pausania, Viaggio in Grecia, 1,39,5)- In questo senso, fra gli altri, Santucci 2016 (p. 12), nonché più in generale Hall 1997.

90

Capitolo II

del termine “barbaro” che ci si potrebbe aspettare all’interno di un pensiero ellenocentrico264. Un ulteriore significativo contenuto umanistico del teatro greco fu sicuramente una presenza per larghi tratti positiva del genere femminile. In una situazione sociale in cui la donna rimaneva pres­ soché esclusa dalla vita cittadina, la tragedia - ma in questo senso, come detto, una utile funzione avevano avuto anche i poemi ome­ rici - iniziò a proporre al pubblico immagini di donne intelligenti, etiche, forti. Si è da alcuni autori sostenuto che la tragedia, come tutta la letteratura classica, avrebbe riflesso un mal celato disprezzo per le donne, testimoniato da personaggi negativi quali Clitemnestra e Medea265. In realtà occorre considerare le esigenze comples­ sive della rappresentazione teatrale, che dovevano porre in scena appunto anche passioni negative, e che lo facevano sia con donne che con uomini266. Per questo ci sembra più importante rimarcare la presenza di personaggi femminili positivi come Antigone in So­ focle o Alcesti in Euripide, per avere una visione maggiormente si­ gnificativa della presenza femminile nel teatro greco. Quello che si può affermare con certezza è comunque solo la rilevante presenza delle donne nella tragedia, forse anche in quanto la natura fem­ minile, ritenuta dai Greci istintiva, passionale e profonda, ben si prestava a mettere in scena quelle emozioni forti che dominavano il teatro attico267. Passiamo ora ad analizzare con maggiore dettaglio il tema dell’essere umano nei tre grandi autori tragici di cui possediamo parte delle opere, ossia Eschilo, Sofocle ed Euripide.

264 Milik 1998 (p. 314) ha peraltro fatto notare che nelle tragedie il coro appare sovente in veste di stranieri, schiavi, donne, comunque non di cittadi­ ni ateniesi a pieno titolo. Ciò nonostante, le sentenze del coro erano ritenute rappresentative della morale popolare, tanto da venir registrate negli archivi pubblici della città. 265Non si può in effetti tacere che nell’immaginario mitico dei Greci, larga­ mente ripreso dal teatro, la maggior parte dei “mostri” (Arpie, Erinni, Sirene, Gorgoni, ecc.) erano al femminile. È presente inoltre un vasto campionario di modi con cui le donne annientarono gli uomini: dalla strage delle Danaidi alla trappola di Clitemnestra, sono infatti diffuse nelle tragedie donne che distrug­ gono con la calunnia (Ippolito), avvelenatrici [Medea, Trachinie, Ione), ed ad­ dirittura cause della rovina di un intero popolo (Elena nelle Troiane). 266 In questo senso, ad esempio, Ritto 1973, pp. 255 ss. 267 In questo senso, ad esempio, Cupido 2002, p. 93.

Epici, lirici, tragici

91

Eschilo Eschilo (525-456 c.a.), autore di una novantina di drammi di cui, integri, ce ne rimangono solo sette (oltre ad un notevole nume­ ro di frammenti)268, è stato, per la maggior parte degli interpreti, il più grande tragediografo greco. In merito, va subito rimarcato che la rilevante presenza di miti e divinità nel suo pensiero (presenza assai più ridotta in Sofocle, mentre in Euripide si giunse addirit­ tura alla critica verso la fede negli dei) non deve condurre a rite­ nere il medesimo come teocentrico. Gli dei presenti nelle tragedie eschilee, ossia Zeus, Dike, Atena, Apollo, Prometeo e tutti gli altri, costituiscono infatti soprattutto incarnazioni di contenuti umani, come del resto era accaduto sin dagli inizi per le rappresentazioni del mito greco. Un tipico valore umanistico difeso da Eschilo fu quello della dignità dell’uomo, in particolare in quella figura così indifesa rap­ presentata dal supplice269. Eschilo lo propose appunto soprattutto nelle Supplici, ossia nella tragedia in cui rappresenta le 50 figlie di Danao venute dall’Egitto a chiedere protezione ad Argo per sfuggi­ re ai cugini, i quali avrebbero voluto prenderle come spose contro la loro volontà. La risposta della città fu in tal senso unanime e ge­ nerosa: pur di difendere le ragazze, essa andò infatti incontro alla distruzione nella conseguente guerra appunto con gli Egizi. Una presenza di temi per certi aspetti analoghi vi fu anche nei già citati Persiani, in cui la difesa della dignità del più debole prese la forma del rispetto dello straniero, anche se invasore. Serse, che pochi anni prima aveva invaso la Grecia, e con lui il padre Dario, furono infatti da Eschilo rappresentati come consapevoli dei mali cui conduce la tracotanza. Infine, nel Prometeo (di attribuzione a dire il vero incerta)270, la cura per il più debole venne addirittura estesa a tutti gli uomini, cui il Titano donò il fuoco ed altre tecniche proprio per migliorare la loro vita. La presenza di contenuti umanistici nell’opera di Eschilo è stata evidenziata, nel secolo scorso, da diversi interpreti, fra i quali due dei principali sono Emanuele Severino e Jan Patocka. Quest’ultimo in particolare ha sostenuto, a nostro avviso correttamente, che «in Eschilo si pongono già le stesse domande con le quali lotteranno 268 Per una ottima edizione dei frammenti di Eschilo, rinviamo a Ramelli 2009. 269 «L’ira di Zeus protettore dei supplici attende chi resta insensibile ai ge­ miti del sofferente» (Supplici, uv. 381-386). 270In merito a tale attribuzione, rinviamo a Pattoni 1985.

92

Capitolo II

Socrate e Platone»271. Ed ancora: «Il supremo potere dell’universo [...] per Eschilo è nello stesso tempo la sapienza e la verità»272. Solo la verità, infatti, può lenire il dolore dell’uomo, come il Nostro af­ ferma più volte273. Il dolore giunge in effetti, per Eschilo, soprattutto se si è pre­ da di hybris. Seguire hybris anziché dike, per il male che chi la segue arreca anche a sé stesso, è chiaramente segno di ignoranza. L’umanesimo di Eschilo si manifesta in merito principalmente nel consiglio di seguire la giusta misura, che è sempre appunto misura di dike. Non urtare «contro lo scoglio di Dike»274 era, a suo avviso, condizione necessaria per la felicità275. Le modalità del teatro per trasmettere questi contenuti uma­ nistici furono naturalmente differenti dalle modalità successive della filosofìa, che in quei decenni non aveva ancora preso forma. Il teatro di Eschilo tuttavia rappresentò anch’esso norme etiche universali, sebbene invitasse ad accettarle non mediante l’argo­ mentazione razionale, bensì mettendone in scena la trasgressione, e facendone così comprendere per contrasto la rilevanza ai fini del mantenimento dell’armonia sociale. È tipico dell’intreccio tragico infatti mostrare i personaggi di fronte ad una scelta, o meglio a due possibilità entrambe dolorose. In questo modo la tragedia proponeva al contempo il tema della scelta libera dell’uomo e quello della sua finitezza. Contrariamente a quanto talvolta si ritiene, nel teatro tragico questo dissidio non era solito trasformarsi in angoscia, nel senso che il personaggio in questione non si sentiva mai totalmente privo di una via d’usci­ ta (solo in casi eccezionali essa poteva essere costituita dal suici­ dio)276. L’eroe tragico era anzi tale perché non subiva passivamente le circostanze, bensì agiva, accettando come necessarie le conse­ guenze della sua azione, e sopportando come inevitabile il relativo

271 Patocka 2003, p. 12 272 Id., p. 151. 273Ciò emerge in maniera evidente soprattutto nei versi 568-615 dei Sette a Tebe. Su questo tema insiste molto anche Severino 1988. In direzione per molti aspetti (non tutti) simile a quella di Severino rinviamo a Grecchi 2006. 274Eumenidi, v. 564. 275 «Chi è giusto non sarà infelice» (Id., vv. 550-551). 276 Scrive giustamente Bianchi 1975 (p. 107) che «una concezione della fa­ talità che governi inesorabilmente e ciecamente gli eventi è estranea ai drammi eschilei, e questo appare sia dall’esame complessivo delle singole tragedie, sia dall’analisi dei caratteri e delle situazioni. Un altro è invece l’elemento che pre­ siede allo svolgersi dell’azione tragica: il concetto che l’ingiustizia» provoca la reazione divina per il ripristino di dike.

Epici, lirici, tragici

93

carico di patimento. Agendo infatti, come Eschilo insegna, si pati­ sce sempre. Ma, dalla sofferenza, si impara. Proprio l’imparare dal­ la sofferenza costituiva la cifra emblematica del teatro di Eschilo, in cui né gli dei né il destino occuparono il ruolo di protagonisti277, il quale venne sempre lasciato all’uomo278. Il contesto storico-sociale della polis crematistica ateniese spin­ se anche Eschilo, come Solone, a cercare di favorire, con le proprie riflessioni, la realizzazione della natura razionale e morale dell’uo­ mo, implicitamente presente come tema di fondo anche nella sua opera. Come risulta infatti dalla convincente interpretazione di Emanuele Severino279, episteme e dike, ossia sapere e giustizia, ra­ gione e morale, costituiscono i due binari umanistici del pensiero di Eschilo, il quale pone sempre al centro l’uomo consapevole del­ la propria fragilità280. L'episteme, certo, non può mai salvare dalla morte (nemmeno Zeus può farlo)281, ma può rendere più sopporta­ bile il dolore della esistenza, dato che la conoscenza aiuta sempre ad attribuire il giusto senso e valore alla realtà. Nella fattispecie, la comprensione della definitività della morte agevola, nel pensie­ ro di Eschilo, la accettazione del limite mortale della vita. Proprio

277 Scrivono bene in merito Porro-Lapini 2017 (p. 243) che «la critica si è spesso rappresentata i personaggi di Eschilo come poco più che marionette in mano agli dei, come funzioni della divinità, meri esecutori di ordini. In realtà essi sono animati da volontà e progetti propri, nonché da profili psicologici inconfondibili [...]. Le loro scelte in definitiva sono libere e mai viene messa in dubbio la loro responsabilità personale». Come afferma giustamente anche De Romilly 1996 (p. 60), «l’idea stessa di giustizia divina presuppone che gli uomini siano responsabili dei loro atti. E nel teatro di Eschilo essi lo sono in­ teramente». 278Anche Ramelli 2009 (p. 22) ha sostenuto, pur sottolineando il profondo intreccio tra umano e divino presente nelle tragedie di Eschilo, che nell’opera di questo autore è centrale «il ruolo degli esseri umani nella determinazione degli eventi e la loro responsabilità, tanto da giungere a una delle primissime enunciazioni del principio del libero arbitrio». Lo sviluppo della coscienza mo­ rale in Grecia è descritto, centralizzando appunto YOrestea, anche da Kuhns 1962. 279 Severino 1988. 280Agamennone, vv. 762 ss. 281 Nell’intero pensiero pagano Zeus (a differenza di quanto accadeva con le divinità del ciclo mediterraneo pregreco) non può far nulla contro la morte. Quando infatti la morte raggiunge qualcuno, Eschilo afferma che «non è più possibile alcuna resurrezione» (Eumenidi, v. 648). L’uomo è «completamente distrutto» (Supplici, v. 96). La morte è infatti un «sonno senza fine» (Agamen­ none, v. 1451), dove non esiste nemmeno «l’angoscia di non risorgere più» (Id., v. 569). «Il nero sangue mortale di un uomo, una volta caduto a terra, chi mai potrebbe di nuovo farlo rivivere?» (Id., vv. 1018-1021).

94

Capitolo II

il concetto di limite (peras), insieme a quello di misura (metron), costituisce in effetti, come già abbiamo mostrato, uno dei due con­ cetti centrali della riflessione sapienziale dell’epoca. L’accettazione del proprio limite mortale induce infatti l’uomo greco a rifuggire la hybris, o quanto meno a temerla, prendendo atto che ogni ricerca di potere e ricchezza è «troppo più debole della necessità»282, ossia si oppone, senza poterne vincere la forza, alla physis razionale e morale dell’uomo. Per Eschilo dunque, come per tutto il pensiero greco classico, la verità della morte in certo modo illumina il cammino della vita. Nonostante sia talvolta forte la tentazione di rimuovere la morte (anche Prometeo, nel verso 248 dell’omonima tragedia, afferma di aver tentato di impedire «che i mortali prevedessero di essere de­ stinati alla morte»), la consapevolezza del limite della condizione umana, con tutto ciò che ne consegue, rimane il principale «far­ maco»283 contro le «cieche speranze»284 offerte dalle tecniche. Esse infatti a lungo andare condannano, prive come sono di una stabile verità, ad una illimitata angoscia. Il «sommo rimedio»2® 5 a questa angoscia era per Eschilo costituito solo dal sapere epistemico, che necessariamente induce alla consapevolezza che l’Ade «non ha fine e non ha uscita»286. Eschilo nelle sue tragedie non cessò mai di rappresentare il do­ lore, da quello dei Persiani a quello delle Danaidi, da quello dei Tebani a quello degli Atridi, interrogandosi sempre sulle cause del medesimo, così onnipresente nelle vicende umane2® 7. Esso per lui non derivava dai capricci degli dei, ma dagli errori degli uomini, causati soprattutto, oltre che dalla condizione mortale, dalla man­ canza di sapere288. La conoscenza principale di cui si doveva pren­ dere atto, per Eschilo, era che dike prevale su hybris, e che hy-

282Prometeo incatenato, v. 514. 283Agamennone, v. 249. 284Prometeo incatenato, v. 250. 285Supplici, v. 594. 286Prometeo incatenato, vv. 153-154. Così come Esiodo, Eschilo centraliz­ zava infatti il tema della sofferenza che caratterizza la vita umana. NellAgamennone ad esempio si legge: «Chi, alfinfuori degli dèi, resta intatto da do­ lore per tutta la vita? » (u. 554); «vicende dei mortali: se c’è felicità, è simile a un’ombra» (u. 1328) 287Come ha mostrato Stanford 1983, le emozioni costituiscono il tema etico centrale della tragedia greca. 288 Id., vv. 176-183; 249-250. Il dolore è il fulcro della tragedia greca ad esempio nella trattazione di Loraux 2001. Spunti in tal senso anche in Cittì 1994.

Epici, lirici, tragici

95

bris «genera sempre hybris»289, e pertanto sventura290. Dike era talmente centrale in Eschilo che il poeta la cita più di trenta volte nelle tragedie rimaste291. Con la morte di Eschilo, la tragedia greca venne a perdere alcu­ ni dei suoi contenuti essenziali: la ricerca della verità, la centralità della giustizia, il primato della comunità. Gli abitanti di Atene, che nel teatro di Eschilo avevano trovato il luogo ideale in cui la cit­ tà sapiente guardava l’essenziale, si ritrovarono d’un tratto, con la morte del loro poeta, privi di un riferimento educativo fondamen­ tale292. I contenuti sull’uomo di Sofocle ed Euripide, come ora mo­ streremo, risulteranno infatti per diversi aspetti non dotati delle medesime caratteristiche. Sofocle L’umanesimo di Sofocle (496-406 c.a.), come quello successi­ vo di Euripide, espresse, secondo buona parte degli interpreti, una maggiore vicinanza coi contenuti individuali della poesia che con quelli comunitari della tragedia eschilea293. Indubbiamente, anche in Sofocle ed in Euripide furono trattate grandi tematiche colletti­ ve. Ciò nonostante, fu soprattutto lo scandaglio dell’animo umano a porsi al centro della loro opera294. 289 Coefore, v. 313. La tracotanza è sicuramente, per Eschilo, un errore in­ consapevole, che si produce quando non si agisce alla luce di episteme e di dike. Dice bene in merito Snell 1969 (p. 86): «Nei Persiani di Eschilo per la prima volta viene a mancare la soddisfazione di veder precipitare gli stolti che hanno commesso una colpa. Il giudizio diventa incerto, perché Eschilo cerca di approfondire le cause». Nonostante l’assenza di colpa, la punizione è comun­ que un «destino inevitabile» (Eumenidi, v. 334), ed «ogni rimedio è comple­ tamente vano» (Agamennone, v. 387). Deve in ogni caso patire il mortale che, «senza giustizia» (Id., v. 464), si è sollevato «al di sopra del limite» (Id., u. 467) 290Eumenidi, vv. 526-537. 291 Sul rapporto fra Zeus e la giustizia, rinviamo a Lloyd-Jones 1971, in cui tuttavia viene data rilevanza più allo Zeus del Prometeo; utile anche, per uno sguardo di insieme sul mondo greco circa i rapporti fra hybris e dike, Fisher 1993292Ne Le rane Aristofane mostra Dioniso, il dio del teatro, sceso agli inferi, in quanto dopo la morte assai ravvicinata nel tempo di Euripide e Sofocle (av­ venuta nel 406, circa cinquant’anni dopo quella di Eschilo), Atene era rimasta priva di grandi tragediografi. Aristofane evidenziò che Dioniso non cercava nell’Ade un autore di «passatempi», bensì un educatore morale come appunto Eschilo. Il tempo non aveva scalfito il valore del suo messaggio. 293 In tal senso, fra gli altri, vari saggi presenti in Diller 1967. 294 II riferimento alla natura umana rimase comunque presente anche in Sofocle. Infatti, come egli fa affermare a Neottolemo nelle Trachinie (uu. 1097-

96

Capitolo II

Non bisogna tuttavia eccedere nel rimarcare le differenze con Eschilo, né indulgere con chi parla di “decadenza” progressiva del teatro ateniese. In continuità infatti con i contenuti classici della tragedia, vi fu anche in Sofocle una forte attenzione alla giustizia, che prese la forma di una vivace critica alla crematistica295, eviden­ te soprattutto nell’Antigone296. Anche la riflessione sulla morte se­ gna un ulteriore tratto di continuità con Eschilo e con il suo grande predecessore, Omero297. La soluzione eschilea della episteme come risposta all’angoscia potenzialmente presente nella consapevolezza della finitudine, si fece comunque in Sofocle meno forte. Non è un caso, a tal propo­ sito, che egli abbia ridotto il ruolo del coro, portavoce in Eschilo di tematiche sapienziali collettive. In Sofocle emergono infatti figure di eroi isolati (Filottete, Antigone), sovrani tiranni (Creonte), uo­ mini astuti (Odisseo) o folli (Aiace). Mentre il Prometeo di Eschilo ricercava per gli anthropoi verità e giustizia, ossia rimedi universa­ li per favorire il bene, l’Edipo di Sofocle si incentra quasi da subito sul proprio dramma personale298. Ciò non stupisce in quanto, in un clima storico-sociale di crescente individualismo299, Sofocle, come Euripide, presentò personaggi attenti - salvo eccezioni, come An­ tigone - più alla loro condizione soggettiva che ai grandi temi co­ munitari300. Indubbiamente, come scrisse Vincenzo Di Benedetto, 1098), «tutto è disagio se l’uomo tradisce la sua natura, e fa ciò che non deve». 295 Sugli effetti del diffondersi della crematistica nella mentalità del primo pensiero greco fino all’epoca classica, rimandiamo a Seaford 2004. 296 «Per l’uomo nulla ha poteri così tristi e larghi come il denaro, che città devasta, uomini strappa dalle case, istruisce le menti pure a concepire il male, le perverte e le muta. Del delitto indica il passo, e l’esperienza schiude ad ogni empietà» (Sofocle, Antigone, vv. 374-381). 297«Attinta appena, ogni cosa è trascorsa» (Trachinie, vv. 169-170). «Nulla, se non vane parvenze, io vedo essere tutti noi viventi umani; nulla, noi tutti, se non ombra lieve» (Aiace, vv. 144-146). «Tu dovevi o stanco, tu dovevi un gior­ no anima inflessibile, gli infiniti affanni chiudere in un triste limite di morte» (Id., vv. 1043-1048). 298In questa direzione, fra gli altri, Segai 1981. 299 Sul contesto politico ateniese all’epoca di Sofocle, rinviamo a Ugolini 2000. 300 Questo emerge, ad esempio, nel quadro della famiglia rappresentato nelle opere di Sofocle. Essa infatti appare come luogo di disordine, in cui si deteriorano i legami comunitari (come nell'Antigone o nelYEdipo a Colono), tale da porre in crisi anche lo Stato (come nell’Edipo re). Considerazioni non molto differenti valgono per Euripide, in cui appunto la famiglia appare luo­ go di tensioni irrisolte (Ippolito) che coinvolgono l’intera comunità (Ifigenia inAulide, Elettra, Andromaca). Molto corretta in merito la lettura di Seveso 2010, pp. 49-51.

Epici, lirici, tragici

97

«Sofocle non intendeva affatto negare l’istituto della polis, e di una polis bene ordinata»301. Ciò nonostante, non si può non rimarcare come la tragedia greca si sia nel tempo sviluppata in termini sem­ pre meno politici. In merito all’uomo, la tesi centrale di Sofocle rimane verosi­ milmente quella espressa nelYAntigone, secondo cui nel mondo le cose mirabili sono molte, ma la più mirabile è indubbiamente l’uo­ mo. In questo coro l’uomo è infatti definito deinos, che a seconda dei casi può significare «straordinario nel bene» come «straordi­ nario nel male»302. Si tratta in sostanza di una concezione “aperta” dell’uomo303, il quale può volgere la propria realtà verso la civiltà ed il progresso (ad esempio la tecnica), ma anche verso la inciviltà ed il regresso (ad esempio la crematistica). La principale eccezione in questo senso pare esser e Antigone304. La ragazza, come noto, fu condannata a morte per avere contravve­ nuto ad un decreto del tiranno della propria polis, Creonte, pur di dare sepoltura al fratello combattente in campo avverso. In questa condanna, e soprattutto nel relativo dibattito, in gioco era il diritto naturale, ovvero quella serie di norme generalmente ritenute giu­ ste in quanto conformi alla natura umana, che il diritto positivo espressione del potere vigente - tende sovente a contrastare. Come Antigone giustamente sostiene, infatti, non poteva essere Zeus a volere impedire la sepoltura di un fratello, essendo impossibile che il dio, padre di Dike, emanasse norme in opposizione alle più na­ turali esigenze umane. Per questo motivo Antigone decise di farsi «legge a sé stessa»305, ossia di seppellire ugualmente il fratello, per non contravvenire a quelle leggi naturali che rendono tale un esse­ re umano306. Il comando che Antigone sfidò fu infatti non una legge di natura, bensì l’irresponsabile decreto di un tiranno, che della propria hybris venne poi come noto a patire le conseguenze. Per tornare al tema dell’uomo, è significativo che, verso la fine del canto corale de\YAntigone poc’anzi citato, l’uomo deinos, quan­ 301 Di Benedetto 1983, p. 137. 302Antigone, vu. 332-383. 303Come scrivono Porro-Lapini 2017 (p. 259), in Sofocle l’uomo si può qua­ si indifferentemente «orientare verso fini buoni o fini cattivi». 304 Sul mito di Antigone, rinviamo a Fornaro 2012. Utili spunti sul piano antropologico in Oudemants-Lardinois 1987, e sul piano giuridico in Ciara­ melli 2017. 305Antigone, v.821. 306 Emblematico in Antigone anche il tema della scelta, che è forse il tema morale centrale della riflessione teatrale. Nel testo si contano ben sessanta espressioni che fanno esplicito riferimento all’atto del decidere.

98

Capitolo II

do compie il male, venga da Sofocle definito apolis (privo di polis, dunque di comunità), mentre quando compie il bene venga defini­ to hypsipolis, ossia al vertice della polis, ovvero incarnazione dei supremi valori di verità e giustizia di cui aveva parlato Eschilo. In Sofocle in effetti, così come in Eschilo, gli dei della polis ri­ mangono giusti, ma la loro giustizia si esprime in modi talvolta in­ comprensibili307, così appunto come misteriosa, ossia ambivalente, aperta sia al bene che al male, risulta essere la natura umana. Non è un caso che nelle sue tragedie si ritrovino diverse enunciazioni pes­ simistiche circa la condizione dell’uomo308. Come scrivono Porro e Lapini, in Sofocle repentinamente «l’uomo passa dalla grandezza alla miseria, dalla fortuna alla infelicità»309. Uno scenario dunque di ambivalenza che, per quanto non ceda al nichilismo, risulta mol­ to diverso rispetto a quello stabilmente determinato delineato da Eschilo310. Euripide Euripide (485-406 c.a.)311 procedette ulteriormente nella dire­ zione di una riduzione della dimensione collettiva intrapresa da Sofocle. Si ebbe nella sua opera pertanto una minore centralità di dike. Emblematico di questa tendenza è il fatto che, neìYAlcestì come nella Medea, emergano spesso uomini «che amano sé stessi più del loro prossimo»312. Medea risulta inoltre centrale anche per il fatto che in questa tragedia viene apertamente messo in questio­ ne il cosiddetto “intellettualismo socratico”, ossia la tesi per cui si può commettere il male solo per mancanza di conoscenza. Medea, prima di uccidere i suoi figli, affermò infatti chiaramente di essere a conoscenza che ciò che si apprestava a compiere era un male, ma

307 Montanari 2017 (voi. I, p. 383) afferma, in maniera però solo per alcu­ ni aspetti condivisibile, che in Sofocle «gli dei determinano il destino uma­ no, talvolta funesto in modo angoscioso, disarmante e inspiegabile: all’uomo impotente non resta che prendere dolorosamente coscienza dell’ineluttabile volontà superiore e accettarla», come effettivamente accade in Filottete, Aiace, Trachinie, Edipo re ed Edipo a Colono. 308Ad esempio Edipo a Colono, vv. 1224-1238; Antigone, uv. 1186-1192. 309 Porro-Lapini 2017, p. 255. In maniera opposta Tonelli 2009 (pp. 9596), secondo cui vi sarebbe nei personaggi di Sofocle la «capacità di accertare incondizionatamente l’enigmatico volere [degli dei; L.G.], ottenuta alla fine di un lungo processo che mette in gioco la vita stessa del ricercatore di verità». 310 In questa direzione anche Hòsle 1986 e Susanetti 2011. 311 Per una esposizione complessiva, rinviamo a Susanetti 2007. 312Medea, v. 86.

Epici, lirici, tragici

99

che, ciò nonostante, lo thymos dominava i suoi boulemata, ossia - anche se i termini sono stati variamente tradotti ed interpretati che la ragione non dominava sulle sue passioni313. In questo senso la filosofia platonica risulterà chiaramente, come argomenteremo, un tentativo di rispondere alla problematizzazione psichica aper­ ta proprio da Euripide, nel quale appunto era presente la tragica consapevolezza che la ragione non può compiutamente governa­ re le passioni314. Tyche, la capricciosa “fortuna”, giunse in effetti ad occupare un posto rilevante nelle tragedie di Euripide, rispetto agli umanistici dei di Eschilo. Rispetto ad essi, significativamente, Euripide fece affermare ad uno dei suoi personaggi che «il potere degli dei è inferiore a quello del caso»3153 . 16 Indubbiamente, anche in Euripide le tematiche classiche (l’a­ pertura al prossimo315, la difesa dello straniero317, la tutela del de­ bole318) non furono abbandonate, sicché sarebbe errato proporre della sua opera interpretazioni troppo individualistiche319. Va in ogni caso rimarcato, con Jacqueline De Romilly, che in Euripide «la nuova importanza assunta dai personaggi si traduce in un maggio­ re sviluppo della analisi psicologica. [...] i personaggi incominciano

313Medea, w.1078-1080. Nella Poetica (1453 b 26-29) Aristotele menziona proprio Medea come caso esemplare di consapevolezza da parte del personag­ gio tragico. Nel suo caso, a differenza che nei personaggi di Eschilo, la sofferen­ za precede l’azione anziché seguirla, ma non è per questo meno intensa. 314 Come scrive giustamente Cupido 2002 (p. 78) con riferimento a Medea ed a Fedra (che neWlppolito decide come noto di togliersi la vita, convinta che questa sia oramai per lei, dopo il male commesso, la soluzione migliore), «è proprio la consapevolezza del dominio esercitato sull’uomo da elementi arbi­ trari, siano essi forze esterne o interne, a rendere il razionalismo euripideo estremamente tragico». 315 Ciclope, vv. 606-607. Critiche agli dei furono comunque sviluppate già da Teognide nelle Elegie [vv. 373-380; vv. 743-752), in cui si rimproverava a Zeus che ai malvagi le cose vanno spesso bene, mentre ai buoni vanno male. 316 «Il giusto è nato per il suo prossimo» (Eraclidi, vv. 1-2). 317 «Empio uno Stato che trascuri la supplice preghiera di stranieri» (Id., vv. 80-81). 318 «Sempre questa terra [Atene; L.G.] è disposta ad aiutare con spirito di giustizia i deboli» (Id., vv. 329-330). 319 Zurcher 1947 (p. 72) affermava comunque non senza ragione che uno stabile ethos nei personaggi, quale quello ancora presente negli eroi di Sofo­ cle, non era in Euripide più pensabile, per la estrema mutevolezza delle figure da lui rappresentate. In direzione simile anche Vernant-Vidal Naquet 1976 (p. 63), per i quali «invece che riflettere l’azione, come faceva in Eschilo e in Sofo­ cle, la tragedia scivola, con Euripide, verso l’espressione del patetico».

100

C a p ito lo II

a spiegarsi, a giustificarsi, persino a monologare su ciò che pensano e sentono»320, interessandosi meno delle vicende collettive. Importante, circa il tema dell’uomo, è soprattutto cercare di comprendere cosa pensavano e sentivano le figure delineate da Eu­ ripide, per cercare di trarre da ciò alcune considerazioni generali. Questo tuttavia, per il Nostro autore, non si presenta affatto facile. Aristotele, nella Poetica, notava infatti che i personaggi della Ifige­ nia in Aulis - ma tutto il teatro di Euripide sembra preso in carico da questo giudizio - mutavano idea con grande facilità. In effetti, uno dei maggiori motivi tragici delle opere di Euripide, come ricor­ dato, era proprio quello per cui i personaggi risultavano sovente sopraffatti dalle circostanze321. Il caso, l’arbitrio, l’equivocità domi­ navano spesso le sue tragedie, le quali si opponevano sovente ai due principi classici della poetica aristotelica: quello per cui i buoni non devono mai diventare infelici, e quello per cui anche i fatti ina­ spettati devono essere logicamente connessi. È Euripide in effetti ad essere il probabile bersaglio anche delYEutifrone platonico. In questo testo Platone criticava infatti i tragici per il fatto che costo­ ro, mettendo sullo stesso piano gli argomenti dei vari personaggi, senza porre alcun criterio onto-assiologico fondativo, non favori­ vano delle corrette vie d’uscita ai problemi posti dalla realtà322. Viene meno insomma in buona parte dell’opera di Euripide, verosimilmente influenzata da quella coeva della Sofistica323, la centralità della natura razionale e morale dell’uomo presente inve­ ce nell’opera di Eschilo. Come scrive ancora De Romilly, «i perso­ naggi di Euripide obbediscono ai vari impulsi della loro sensibilità: essi non agiscono in funzione di un ideale chiaramente definito,

320De Romilly 1996, p. 35. 321 De Romilly 1996 (p. 127) ricorda che in Euripide «l’uomo non è padrone del proprio destino. Mai come nel teatro euripideo lo si sente in balia di av­ venimenti che sopraggiungono insapettatamente». Sull’utilizzo di tematiche e terminologie psicologiche nel teatro di Euripide, rinviamo a Sullivan 2000. In Sullivan 1997 e 1999 sono trattate le medesime tematiche anche per Eschilo e Sofocle. 322 Emblematica, come poi mostreremo, anche la critica della Repubblica (394 d SS4604 d ss.), in cui Platone accusa i poeti ed i tragici di indulgere trop­ po sulla sofferenza, invitando implicitamente ad abbandonarsi al dolore ed alla sventura, presentando come non ricomponibili i conflitti che lacerano l’anima. Significativo è anche il fatto che Platone volesse espellere dalla kallipolis quei poeti caratterizzati «da attività bivalente o polivalente», capaci «di tramutarsi in tutte guise e di imitare ogni cosa» (Id., 398 a). 323Su questo tema, interessanti considerazioni in Di Benedetto 1978 e 1981.

Epici, lirici, tragici

101

ma in funzione di paure e desideri»324. Per questo motivo verosi­ milmente, nelle Baccanti - una tragedia in cui è messo a tema il rapporto tra ragione e follia - , si celebra con Dioniso l’ambivalenza simbolica dei significati325. Contrariamente a quanto riteneva Nietzsche, dunque, non ci pare si possa dire che fu Euripide a far morire la tragedia inoculan­ dole il virus del Socratismo. A nostro avviso infatti essa morì non per eccesso di razionalismo, ma per il crescente smarrimento della ragione onto-assiologica che era ancora presente nella polis eschi­ lea. Il Socratismo in questo senso fu assai più presente in Eschilo, il quale cronologicamente precedette Socrate, che in Euripide, il quale pure lo frequentò. Indubbiamente diversi personaggi di Euripide, soprattutto quelli femminili326, furono molto antitradizionalisti, come accade ad esempio neWEolo (perduto), in cui si descrivevano matrimoni fra fratelli e sorelle, o nei Cretesi (perduto), in cui si raccontava l’a­ more fra una donna (Pasifae, moglie di Minosse) ed un toro. Non va tuttavia dimenticato che nelle sue opere si elogiarono anche, come detto, valori umanistici come l’amicizia (Pilade e Oreste nell’Ore­ ste), l’amore materno (Giocasta nelle Fenicie), la fedeltà coniuga­ le (Elena verso Menelao neìYElena), ed in generale altri contenuti propri di quella tradizione che sarà più avanti definita classica.

324De Romilly 1996, p. 118. 325 In merito, rinviamo a Winnington-Ingram 1948. 326 Sul rapporto di Euripide con la figura femminile, rinviamo all’ottima raccolta Powell 1990.

Ili MEDICI, STORICI, FISICI

1. La medicina Intorno alla metà del V secolo - le prime riflessioni mediche sono tuttavia più antiche1: per questo motivo abbiamo anteposto questa trattazione a quella del pensiero presocratico, col quale vi sono significativi nessi di continuità - assunse forma scientifica la medicina greca, incentrata sulla figura fondatrice di Ippocrate di Cos2. La trattazione della medicina antica è in effetti non sepa­ rabile dalla questione del cosiddetto Corpus Hippocraticum, una settantina di trattati in lingua ionica collegati in modo diretto o indiretto all’ambiente di Ippocrate3.1 trattati più antichi risalgono all’epoca fra la metà del V e la metà del IV secolo, ma la raccolta, che si compone anche di varie opere posteriori, fu costituita nel III secolo a.C., allorché i diversi testi furono riuniti presso la biblioteca di Alessandria4. I trattati del Corpus sono fra loro eterogenei per 1 La presenza di medici è attestata sin da Omero, sebbene con un livello di competenza poco più che “artigianale” (ad esempio Iliade, II, 729; IV, 188; IX, 833; XI, 514; Odissea, XVTI, 381). L’opera intitolata Sul regime delle malattìe acute (1) afferma inoltre che, ben prima della comparsa di Ippocrate, una rudi­ mentale letteratura medica - di cui si sono perse quasi tutte le tracce - era già presente nell’opera collettiva delle cosiddette Sentenze Cnidie. Per uno sguar­ do di insieme sulla medicina antica, rinviamo, fra gli altri, a Latronico 1956, Edelstein 1967, Flashar 1971, Ey 1981, Corvisier 1985, Grmek 1993, Jori 1996, Mazzini 1997 e Nutton 2013. 2 Sulla figura di Ippocrate, rinviamo, all’interno di una letteratura ormai vastissima, ai due ottimi lavori di Jouanna 1994 e Di Benedetto 1986. Sulla cosiddetta “questione ippocratica”, sempre valido Lloyd 1975. 3 1 trattati sono 70 nella edizione ancora canonica di Littré 1839-1861, ma sono di numero lievemente differente in altre edizioni. 4 Per varie notizie sul Corpus è possibile consultare, oltre a Vegetti 1976, anche Ducatillon 1977, Potter-Maloney-Desautels 1990, Lopez Férez 1992 e Ayache 1992.

10 4

C a p ito lo III

stile, finalità e contenuti, ma omogenei per il comune spirito della ricerca razionale5. Uno dei testi più antichi del Corpus, Sull’antica medicina, la cui redazione viene attribuita allo stesso Ippocrate, tese a contrap­ porre la nascente medicina alla filosofia presocratica6. In un noto passo si criticano infatti quei medici che si affidano ai filosofi, per il fatto che essi ritengono necessario conoscere teoreticamente «che cosa è l’uomo»7. Ciò ha condotto diversi interpreti contemporanei a ritenere Ippocrate una sorta di critico ante litteram del modello “essenzialista”. Per quanto sicuramente questa interpretazione possieda aspetti da considerare - dato che il modello prevalente nel Corpus, come mostreremo, fu quello “funzionalista”, caratterizzante cioè l’uomo nella sua relazione dinamica con la natura - , non si può a nostro avviso affermare che Ippocrate si sia schierato contro il modello essenzialista. Tale modello infatti, ai suoi tempi, era ancora lon­ tano dal costituirsi, dato che non si può parlare della presenza di un simile modello prima di Platone. Ippocrate, semmai, si schierò contro la trattazione fisica dell’uomo come mero riduttivistico composto di elementi materiali, propria del pensiero presocratico. La natura dell’uomo fu intesa infatti da Ippocrate, fra i primi, come culturale, dato che l’uomo, a differenza degli altri animali, non può sopravvivere tramite la mera fruizione immediata della natura. L’uomo deve trasformare la natura mediante la cultura: in particolare, deve lavorare e cuocere gli elementi naturali che utiliz­ za come cibo. Questa caratteristica fu tuttavia da lui intesa corret­ tamente come stabile, costante, ontologica, caratterizzante appun­ to l’essenza dell’uomo, la cui esistenza pertanto egli implicitamente riconobbe. Uno dei testi principali del Corpus presenta in merito il titolo assai emblematico, per il nostro tema, di La natura dell’uomo. In esso si afferma che ciò che garantisce la salute dell’uomo è l’armo­ nia fra gli elementi che costituiscono il corpo, per la quale esercita un ruolo rilevante l’equilibrio complessivo dell’uomo con l’ambien­ te naturale e col contesto sociale. Come testimoniato anche da Pla­

5 Insistono su questo tema vari saggi in Lasserre-Mudry 1983. 6 Non così accadde nei trattati Sulle carni e Sul regime, che trattarono dell’uomo e della sua costituzione da un punto di vista che potremmo definire naturalistico-compositivo (inquanto l’uomo è ridotto a composizione dei suoi elementi primari), cercando di ricostruire le modalità mediante le quali l’uomo si è originato. 7 Sull’antica medicina, XX, 1-2.

Medici, storici, fisici

10 5

tone, l’approccio ippocratico fu infatti di tipo olistico, ossia rivolto all’uomo considerato all’interno della totalità8. Emblematico della visione “funzionale” della medicina ippocra­ tica è anche il trattato Sulle arie, le acque e i luoghi, che abbiamo già analizzato nel volume sulla natura9. In esso si afferma che di­ versi aspetti della physis contribuiscono a realizzare il benessere dell’uomo, sicché anche sui medesimi, nel limite del possibile, oc­ corre intervenire. Pur considerando tutti i fattori, naturali e sociali, l’uomo deve comunque innanzitutto, per la medicina ippocratica, intervenire su sé stesso, sulle proprie abitudini di vita, sulla pro­ pria dieta (ovvero sul proprio complessivo regime di vita, non solo alimentare)10. In questa innovativa forma di cura della condizio­ ne umana, l’antica medicina si costituì come sapere epistemico accompagnante, come ricordato, l’evoluzione dell’uomo da uno stato “naturale” ad uno stato “culturale”. Quest’ultimo ne rappre­ senta infatti, come poi mostrerà la filosofìa classica, la compiuta realizzazione. Come scrive correttamente Jouanna, «la natura per i medici ippocratici è la natura umana, che si definisce come una organizzazione normale (elementare, anatomica 0 fisiologica) e un normale potere di reazione alle influenze esterne (regime, ambien­ te). Lo stato naturale e lo stato di buona salute sono normali»11, ossia esprimono la giusta natura e norma dell’uomo in equilibrio dinamico con l’ambiente. La natura razionale dell’uomo, che ne costituisce la caratteri­ stica più significativa, emerge nella medicina ippocratica soprat­ tutto per l’importanza che essa attribuisce alla ricerca causale. Al­ lontanandosi infatti da credenze diffuse di tipo magico, Yepisteme ippocratica mostra che il medico è colui che meglio sa riflettere

8Circa l’approccio olistico di Ippocrate, rinviamo a Lopez 2004. 9Grecchi 2018 a, pp. 60-68. 10Antica medicina, III, 8. La scoperta del fuoco come modalità di cottura degli alimenti, e dunque di allontanamento dalla vita ferina, centrale già nel mito di Prometeo, fu sottolineata anche da Democrito, a riprova di una certa vicinanza fra pensiero presocratico e pensiero medico. In Antica medicina si ritrova in effetti la più antica citazione di Empedocle, nonché la presenza del magistero anassagoreo. Tuttavia, come scrisse Vegetti 2018 a (p. 7), «è pruden­ te non immaginare una intensa circolazione di libri e dottrine fra due aree così intellettualmente e professionalmente lontane come la filosofia e la medicina delle origini, e fra ambiti geografici distanti come la Magna Grecia e la costa ionica dell’Asia minore». 11 Jouanna 1994, p. 349-

io6

C a p ito lo III

sull’uomo per mantenerne o ripristinarne la salute12. Il cervello viene identificato da Ippocrate come il centro funzionale dell’uo­ mo, ossia come quel nucleo che organizza tutti i dati provenien­ ti dai sensi. L’autore ippocratico, ne La malattìa sacra, esaminò peraltro nel loro complesso - anche se questa operazione venne poi messa a punto soprattutto da Galeno - i problemi della psiche, con particolare riferimento ai suoi disordini13. Si trattò di una ope­ razione molto importante, in quanto la medicina tradizionale, in quei tempi, tendeva ancora ad associare la malattia psichica all’e­ sito della possessione da parte di un demone14. La medicina ippo­ cratica pose invece il cervello come centro della vita psichica, il cui benessere o malessere veniva fatto dipendere dagli equilibri degli umori del corpo. Può, indubbiamente, apparire eccessiva una assimilazione fra il medico ippocratico, che cerca di conservare la salute umana me­ diante una operazione soprattutto “naturale”, ed il filosofo, che cerca di attribuire all’uomo la giusta forma mediante una opera­ zione soprattutto “culturale”. Ciò nonostante, se si comprende che la natura dell’uomo è caratterizzata dalla cultura, ossia che l’uomo si realizza solo ponendo in essere compiutamente la propria essen­ za razionale e morale in rapporto con l’ambiente, tale differenza fra le due figure - come apparirà poi anche nell’opera di Galeno - risulta essere molto più sfumata. Il pensiero ippocratico non si occupava infatti solo del corpo, così come il pensiero platonico non si occupava solo dell’anima. La stessa diaita proposta dal medico ippocratico costituiva anche una operazione “culturale”, così come il bios proposto dal filosofo platonico costituiva anche una opera­ zione “naturale”. Il medico ippocratico, a differenza del filosofo platonico, non ave­ va il fine ideale di realizzare l’uomo perfetto. Ciò nonostante, anche egli aveva un fine concreto, che era quello di perseguire l’equilibrio psicofisico della persona, tenendo conto sia delle leggi universali

121 rapporti fra medicina e filosofia sono ben trattati in Jones 1979, Viano 1985 e Wittern-Pellegrin 1996. 13Su questa tematica, rinviamo all’ottimo Pigeaud 1981. 14 Lanata 1967, pp. 28-39. Ippocrate colse correttamente che l’epilessia è una malattia del cervello, e che pertanto, ben diagnosticata, può essere curata e guarita. Come egli afferma nel trattato La malattia sacra (1): «Questa ma­ lattia non è affatto più divina o più sacra delle altre malattie, ma ha la stessa natura da cui provengono anche le altre. Però gli uomini hanno creduto che la sua natura e la sua causa fossero in qualche modo divine per ignoranza e per la sua natura straordinaria, dato che non somiglia per niente alle altre malattie».

Medici, storici, fisici

io 7

della natura che del vissuto individuale di ciascuno, considerando a tutto tondo l’uomo come un ente insieme universale (dotato di ca­ ratteristiche comuni a tutti gli appartenenti alla medesima specie) ed individuale. Nessuna diagnosi, infatti, può essere corretta senza tenere conto di entrambi questi fattori, così come nessuna terapia può funzionare senza essere condivisa col paziente. Il medico ippocratico non era inoltre privo di un proprio sguar­ do filosofico e politico generale, come dimostra il trattato Sulle arie, le acque, i luoghi, testo non a caso considerato come riferi­ mento implicito nell’opera sia di Platone che di Aristotele. Platone infatti, quando affermava che la comunità ideale tematizzata nella Repubblica dovrebbe sentirsi «il più possibile prossima alla con­ dizione di un solo uomo»15, in cui il dolore di una parte è sentito dall’intero corpo, si appoggiava verosimilmente, oltre che a quel trattato, ad un altro autorevole testo ippocratico, i Luoghi dell’uo­ mo. In esso si sosteneva che «le parti del corpo, quando la malattia si scatena nell’una o nell’altra di esse, immediatamente la trasmet­ tono ciascuna alle altre»16; «così il corpo prova dolore o piacere anche a causa della sua parte più piccola»17. Le analogie della medicina ippocratica col contenuto umanistico della nascente filosofia classica non finiscono qui. In assenza di ogni sistema sanitario pubblico, infatti, il medico ippocratico era fautore di una vocazione filantropica sicuramente in linea coi contenuti del precedente pensiero sapienziale, trasmessosi in larga parte nell’ope­ ra di Socrate, Platone ed Aristotele. In Precetti ad esempio, tenendo conto della natura morale dell’uomo, si legge: «Se occorre curare uno straniero o un povero, è il caso di venirgli in aiuto: perché là dove c’è amore per gli uomini, c’è anche amore per l’arte»18. L’elemento solidaristico fu in effetti anch’esso uno degli elementi costitutivi dell’umanesimo ippocratico, il quale si sostanzia soprat­ tutto, come già rimarcato, in una attenzione totale all’uomo che non trascura nulla della sua storia, del suo carattere, della sua condi­ zione, del suo ambiente, per cercare di porre in essere un miglio­

15Repubblica, 462 c. 161 luoghi dell’uomo, I, 2. Molteplici, in ogni caso, sono i dialoghi platonici in cui la medicina ippocratica è assunta come riferimento, fra cui, oltre al Carmide (156 b-c), il Fedro, il Gorgia, la Repubblica, il Politico e le Leggi. Sulla medicina in Platone, sempre fondamentale Vegetti 1988. 171 luoghi dell’uomo, I, 5. 18Precetti, VI. Commenta giustamente Jouanna 1994 (p. 120) che «queste belle massime risalgono ad un’epoca posteriore a quella di Ippocrate. Però non c’è ragione di dubitare che esse perpetuino una tradizione ippocratica».

io 8

C a p ito lo III

ramento sostanziale e duraturo della sua esistenza19. Celeberrimo in questo senso è il cosiddetto giuramento ippocratico, che preve­ de, fra i vari comportamenti richiesti, la gratuità dell’insegnamento medico, il legame inscindibile tra maestro e allievi e degli allievi tra loro, il divieto di intrecciare relazioni con i pazienti, la definizione di un onorario corretto, l’obbligo al segreto professionale protratto, la limitazione al gesto medico in cui si è competenti20. In questo sen­ so, aveva pienamente ragione Jouanna ad affermare che la ricerca ippocratica «offre una ricca materia di riflessione a tutti quelli che vogliono conoscere le radici fondamentali dell’umanesimo»21. A parte questi spunti umanistici, pur molto importanti, l’ap­ porto maggiore della medicina ippocratica allo studio dell’uomo riguardò la sua struttura fisica, con particolare riferimento alle fun­ zioni del corpo. Questo apporto non deve tuttavia essere esagerato in quanto, come poi mostreremo, Galeno dovette intervenire su più di un tema del Corpus ippocratico per correggerlo. La medicina ippocratica, non praticando la dissezione, ebbe in­ fatti scarse conoscenze anatomo-fisiologiche, le quali si strutturaro­ no solo in epoca ellenistica22. Essa in effetti pensò sempre il corpo sostanzialmente come un recipiente, entro il quale scorrono fluidi che si combinano a vicenda, in cui gli ingressi e le uscite risultano essere i principali elementi di controllo organico23. Il soma non fu infatti compiutamente pensato, nella medicina ippocratica, come un insieme funzionale di parti, ma appunto come un contenitore in cui cibi, arie e umori devono comporsi in equilibrio per dar luogo alla salute24. Non esiste peraltro, nella medicina ippocratica, alcuna uni­ taria concezione della psyche in grado di produrre una unificazio­

19Significativo il trattato Epidemie. Scrive bene Vegetti 2018 a (p. 178) che per Ippocrate il medico deve avere sempre la consapevolezza che il paziente è innanzitutto un uomo, da rispettare e da capire: «Attraverso il sapere e le tec­ niche, l’uomo diventava protagonista del proprio destino, prendeva possesso del proprio ambiente storico-naturale [...]. Ciò spiega la vastissima eco cultu­ rale della medicina ippocratica sullo scorcio del V secolo: non vi è praticamente documento letterario in cui l’atteggiamento dell’uomo nuovo, dell’uomo auto­ diretto, non sia in qualche modo rapportato al modello della medicina». 20In merito, rinviamo a Gazzaniga 2014, pp. 64 ss. 21 Jouanna 1994, p. 126. 22 Rinviamo in merito a Duminil 1983. 23 Questa fisiologia raggiunge il suo livello di sistemazione più coerente nell’opera già citata su La natura dell’uomo, composta forse da Polibo, genero di Ippocrate, nel IV secolo. Sulla tradizione ippocratica, rinviamo a Smith 1979. 24 Sui rapporti fra medicina e antropologia nella tradizione antica, rinvia­ mo all’ottima antologia commentata Manuli 1980.

Medici, storici, fisici

10 9

ne, gerarchica 0 funzionale, di questa dispersione fluida dei processi corporei, nonostante il ruolo primario attribuito al cervello25. Rimane il fatto che l’uomo fu pensato dalla medicina ippocra­ tica sempre come un ente unitario, dato che la malattia, anche quando colpisce singoli organi, coinvolge l’intero organismo. Per questo la terapia ippocratica, mediante l’idea di regime (ginnastica, dieta, attività mentale, ecc.), non considerava mai la malattia come un episodio isolato nella vita di una persona, bensì tendeva sem­ pre a ripristinare la fisiologia normale in funzione dell’armonico ristabilimento del benessere. In conformità alla natura razionale e morale dell’uomo, la scienza medica divenne, come scrisse giu­ stamente Vegetti, «un progetto razionale di intervento sulla realtà. [...] La cultura contemporanea poteva riconoscere, nella medicina ippocratica, l’idea di una scienza a lungo ricercata, una scienza che dimostrava ad un tempo la validità del sapere umano e la possibili­ tà di una sua proiezione etico-pratica a trasformare, nel modo più giusto, il mondo e la vita dell’uomo»26, ancora una volta in maniera analoga a quanto elaborerà poi la filosofia classica. Vi furono come ovvio anche diverse differenze fra la medicina ippocratica e la filosofia platonica, dovute soprattutto al ruolo del corpo e del piacere ad esso connesso. Pur essendo la posizione pla­ tonica sul piacere niente affatto ascetica27, si può comunque af­ fermare con sicurezza che il medico ippocratico non avrebbe mai accettato la definizione del Timeo del piacere come «grandissima esca del m ale»28. Ciò in quanto, per Ippocrate, piaceri, desideri e passioni non erano nemici da combattere, ma normali vicende del corpo, da gestire nel modo migliore per la duratura massimizzazio­ ne del proprio benessere. Il piacere, per la medicina ippocratica, derivava infatti all’uomo dal soddisfacimento del complesso dei suoi bisogni, all’interno di una logica di misura e di equilibrio. Per la medicina ippocratica insomma, come scrive I.C. Corniglione, «il bene è proprio il piacere del corpo»29, pur considerando quest’ul­ timo all’interno di una concezione psicofisica unitaria.

25 Sul dibattito relativo al cervello in epoca antica, rinviamo a Manuli-Vegetti 2009. 26Vegetti 20i8a, p. 65. 27 Sul Filebo di Platone, dialogo esplicitamente dedicato al tema del piace­ re, rinviamo alla raccolta Cosenza 1996 e soprattutto all’ottimo commentario Migliori 1998. 28 Timeo, 69 d. 29 In Montoneri 1994, p. 53.

110

C a p ito lo III

Rimane da aggiungere che, in concomitanza con la riflessione degli storici (in particolare di Erodoto), la medicina ippocratica fu artefice di una delle prime tematizzazioni etnografiche della storia occidentale. Il già citato Sulle arie, le acque e i luoghi costituì in merito un’opera epocale, creando un dibattito che coinvolse l’inte­ ra cultura greca da Erodoto fino alFEllenismo30. Tale dibattito, in­ centrato su temi antropologici e culturali, fu sicuramente suscitato dalla guerra coi Persiani, ma in generale fu mosso da un sostanziale interesse dei Greci verso i popoli del Vicino Oriente, ampiamente documentato31. Nel testo citato, l’autore ippocratico afferma che le città esposte ad Oriente hanno un clima temperato, e sono più salubri di quelle esposte sia a Settentrione che a Meridione. I popoli orientali per­ tanto, per la buona influenza del clima, risultano a suo avviso do­ tati di una intelligenza più pronta, sebbene caratterizzati da una maggiore indolenza. Nei capitoli 12-23 in particolare, in netta op­ posizione ad ogni presunto etnocentrismo ellenico32, è chiaramen­ te espressa una sorta di “superiorità ambientale” del continente asiatico rispetto a quello europeo. La vicinanza al luogo del sorgere

30 Per Borea 2003 (p. 11) questo testo, insieme alle Storie di Erodoto, «co­ stituisce la prima base delle nostre conoscenze relative alla etnografia antica; non si tratta, beninteso, di un inizio assoluto: si tratta però della prima testi­ monianza a noi pervenuta in forma non frammentaria [...]. In questo scritto ippocratico troviamo enunciata in maniera compiuta e sistematica la dottrina del cosiddetto determinismo geo-climatico, che teorizza l’influsso, costante e prevedibile, esercitato dalle condizioni ambientali sulla forma fisica e psichica degli abitanti». 31 Momigliano 1980, con riferimento soprattutto all’epoca ellenistica, af­ fermò che lo scarso interesse dei Greci nell’apprendere lingue differenti era sintomatico di una volontà di comprendere gli altri popoli solo, al più, come specchi di sé stessi (è questo anche, in estrema sostanza, l'approccio che Hartog 1992 attribuì ad Erodoto). Tale tesi ci sembra tuttavia discutibile. 32 Come scive ancora Borea 2003 (p. 78), «l’etnocentrismo esprime una vi­ sione del mondo in cui una società si costituisce come tale distinguendosi dalle società esterne, colloca sé stessa al centro dell’universo, e organizza, valuta e classifica tutte le altre culture in rapporto a sé [...]. Certo, anche gli antichi Gre­ ci tendevano a identificare sé stessi con i veri uomini, possessori della natura umana nella sua pienezza nonché abitanti del centro del mondo, e si distingue­ vano così dai barbari, che incarnavano invece una forma inferiore di umanità ed erano pertanto relegati ai margini del mondo [...]. Ma di tutto ciò, appunto, in Arie acque luoghi non esiste alcuna traccia visibile». Come ricordava del resto Erodoto, un minimo di «etnocentrismo» fu comune a tutti i popoli: gli stessi Persiani si sentivano al centro del mondo (Storie, 1, 134), così come gli Egizi definivano «barbari» tutti quelli che non parlavano la loro lingua (Id., II, 158), esattamente come i Greci.

Medici, storici, fisici

ili

del Sole e la lontananza dal freddo producevano infatti in Asia, per l’autore ippocratico, un equilibrio complessivo da cui derivavano molteplici qualità positive per il territorio e per la popolazione. Quest’ultima risultava infatti caratterizzata da gentilezza e carat­ tere bonario, sebbene possedesse anche qualità negative, come appunto indolenza e viltà. Le caratteristiche climatiche scostanti dell’Europa avrebbero invece prodotto sulla popolazione, sempre per l’autore ippocratico, tratti di maggiore selvatichezza, irrifles­ sività, irascibilità, ma anche un carattere combattivo ed operoso. In epoca moderna, per avere delineato una differenziazione fra popoli asiatici ed europei su basi “naturali”, il testo ippocratico è stato da alcuni studiosi tacciato di “razzismo”33. Esso avrebbe in­ fatti, secondo questi autori, declinato un determinismo stretto tra fattori ambientali esterni e caratteristiche comportamentali inter­ ne dei diversi popoli, le quali, principalmente nei capitoli 12,16, 23 e 24, sarebbero state interpretate come nettamente più favorevoli agli Europei rispetto agli Asiatici34. Non entriamo, ovviamente, nel complesso e diversificato dibat­ tito sulla etnografia antica35. Ci pare comunque avesse anche in questo caso ragione Mario Vegetti ad affermare che «si è spesso parlato, a proposito di questa tesi, di uno slittamento del consue­ to etnocentrismo greco in direzione di un vero e proprio razzismo deterministico a base biologica. Si tratta però di un’accusa sempli­ cistica e infondata, per due ragioni decisive. La prima consiste nel fatto che il condizionamento ambientale e climatico agisce su tutti i popoli che vivono nella stessa regione: dunque, per quanto riguar­ da l’Asia minore, esso coinvolge sia i barbari sia gli stessi Greci. Essi condividono gli stessi caratteri psico-fìsici imposti dall’am­ biente, e non c’è alcuna differenza su base etnica. Non esiste nes­ suna superiorità di una ipotetica razza greca in quanto tale rispetto agli altri popoli a base biologica, ma solo diversità fra abitanti di regioni diverse quale che sia la loro origine. La seconda ragione, e per noi la più importante, è che in Arie acque luoghi al determini­ smo ambientale si affianca un altro determinismo, che potremmo definire politico»36. In effetti l’autore ippocratico, come in seguito Erodoto e Platone, constatava che i nomoi, ed in misura non pic­

33 Un panorama di queste posizioni si trova in un saggio di Claude Calarne intitolato Nature humaine et environment: le racisme bien tempéré d’Hippocrate, in Berard 1986, pp. 75-99. 34 Sull’immagine del mondo ippocratica, rinviamo a Desautels 1982. 35 Un buon testo generale in merito è Skinner 2012. Utile anche Jacob 1991. 36Vegetti 2018 a, pp. 222-223.

112

C a p ito lo III

cola, in aggiunta ai fattori ambientali e climatici erano influenti nel determinare la psicologia sociale dei popoli37. Influenti ma non, ap­ punto, determinanti, essendo tali fattori molteplici e combinantisi variamente fra loro38. Ci si potrebbe ancora lungamente soffermare su molti temi della medicina ippocratica, in primis sulla considerazione della donna, che nel Corpus emerge come una sorta di «maschio mancato»39 per la sua diversità, interpretata come manchevolezza rispetto all’uomo. Torneremo tuttavia su molti di questi temi nel seguito soprattutto trattando di Galeno, il quale come noto si presentò esplicitamente come continuatore di Ippocrate.

2. La storia Note generali La storia, insieme alla medicina ed in parte alla fìsica, fu una delle prime materie trattate in prosa, forma assai più agevole per trasmettere i contenuti della nascente ricerca greca40. Possediamo poche notizie su Ecateo, primo rappresentante del­ la historie ionica vissuto fra VI e V secolo, oltre a 333 frammenti della sua opera41. Tale opera fu costituita dalle Genealogie e da una Carta geografica accompagnata da una Periegesi della Terra, dato che in quei tempi la storia e la geografia - forme della conoscenza

37 In effetti, come ricorda sempre Vegetti 2018 a (p. 224), in pressoché tutti gli autori che si sono occupati di etnografia «il condizionamento politico non è più solo giustapposto a quello naturale, ma assume rispetto ad esso una posizione dominante: le istituzioni possono trasformare e anche contrastare in senso positivo gli influssi ambientali, e ad esse spetta l’ultima parola nella formazione dell’assetto psicologico ed intellettuale di individui e popoli». Già Erodoto del resto aveva spiegato la vittoria dei Greci, così inferiori di forze ri­ spetto ai Persiani, in base alla superiorità politica del loro regime democratico CStorie, V, 78). 38 Facciamo peraltro in merito notare come Sulle arie, le acque e i luoghi non proceda mai con l’accetta nel distinguere Europa ed Asia. Insistiti sono infatti, già nei primi due capitoli, i riferimenti alla unicità di ogni luogo, alla specificità di ogni persona, alla particolarità di ogni contesto, ecc. 39 Gazzaniga 2014, pp. 119 ss. 40 Concordiamo con Canfora 1999 (p. 26) quando afferma che «la storio­ grafia greca afferma sé stessa attraverso il chiarimento della propria distanza dal mito. Essa si è perciò subito trovata di fronte alla necessità di stabilire dove finisca il mythologein e dove incomincia lo spatium historicum». 41 Jacoby 1923-1958.

Medici, storici, fisici

113

temporale e spaziale - erano strettamente connesse42. Poco pos­ siamo tuttavia dire del suo metodo e dei principali problemi da lui analizzati, se non, per il nostro tema, che egli si applicò alla descri­ zione delle popolazioni conosciute, dei loro costumi e delle varie leggende sulla fondazione delle città43. Erodoto Per la scarsità di notizie su Ecateo si è soliti fare iniziare la ri­ flessione storica greca con Erodoto (490-425 c.a.), generalmente appunto considerato «padre della storia»44.1 9 libri in cui ci sono pervenute, dopo la catalogazione alessandrina, le sue Storie, si oc­ cuparono in buona parte, come noto, della grande guerra fra Gre­ ci e Persiani, in precedenza menzionata. Una discreta quota della trattazione venne tuttavia riservata a comparazioni etnografiche fra vari popoli, le quali costituiscono l’aspetto della sua opera dal nostro punto di vista più interessante454 . 6 Erodoto di Alicarnasso45, città dorica dell’Asia minore, è noto in effetti, a causa anche della scomparsa delle opere precedenti, come

42 Rinviamo in merito a Cohn-Haft 1956 e Pearson 1975. Sulla geografia degli antichi, ancora utile la raccolta di Cordano 1992. 43 Montanari 2017 (voi. I, p. 263) ricorda che «tutte le opere dei primi sto­ rici greci ci sono pervenute in forma molto frammentaria: un calcolo approssi­ mativo stima che quanto ci è rimasto sia circa un quarantesimo della produzio­ ne totale. Ciò che rimane delle opere di molti storici non basta per consentirci di valutarle adeguatamente: per ragioni quantitative, data la scarsità di quello che è rimasto; per ragioni qualitative, a causa della deformazione operata dagli autori che hanno conservato le informazioni sulle opere perdute». 44 Myres 1953. Sebbene polemizzi sovente con Ecateo, soprattutto per la sua ricostruzione della materia egizia, Erodoto lo considerò come la fonte più accreditata (Storie, II, 21; V, 36; VI, 137), e fu molto debitore verso la sua ope­ ra. Del resto, Erodoto respirò lo stesso clima culturale ionico di Ecateo. Come ha affermato infatti Miletti 2008 (p. 14), «Erodoto si pone nella scia dei lo­ gografi ionici. Pur prefiggendosi lo scopo di riportare vicende relativamente vicine alla sua epoca, egli dedica ampie digressioni alla storia greca precedente e alla descrizione di terre anelleniche, incarnando l’immagine [...] dell’uomo di confine, mediatore tra la propria cultura e quella degli altri». 45 Sull’opera storica di Erodoto e sul suo metodo, rinviamo a Immerwahr 1966, Benardete 1969, Drexler 1972, Wood 1972, Hart 1982, Waters 1985 e Lateiner 1989. 46 Nell’esordio della sua opera egli tuttavia preferisce presentarsi come Erodoto di Turi, di cui assumerà la cittadinanza negli ultimi anni della vita. Per diverse notizie sul «mondo di Erodoto», rinviamo a Derow-Parker 2003.

114

C a p ito lo III

il fondatore dell’etnografìa antica47. Egli fornì una mole enorme di notizie molto preziose sui popoli stranieri, avendo soprattutto in mente, come egli stesso afferma sin dal proemio della sua opera, non tanto la descrizione di fatti e comportamenti, quanto la ricerca delle cause dei medesimi48. Un esempio tipico di questo suo modo di procedere è costituito dalla trattazione dei costumi sociali dei Persiani operata nel primo libro, su cui fra breve ci soffermeremo49. Un altro esempio è rappresentato dalla trattazione degli Egizi, cui Erodoto dedica in proporzione la maggior quota della propria ope­ ra, sia in quanto essi - perfino il Nilo - si comportano in gran parte in modo contrario rispetto a quanto l’umanità fa comunemente, sia in quanto gli Egizi erano il popolo più antico, da cui i Greci hanno derivato larga parte delle loro conoscenze50. Non entreremo qui, naturalmente, troppo nei dettagli delle de­ scrizioni dei vari popoli. Vi sono tuttavia alcune considerazioni da svolgere circa il carattere universale dell’uomo descritto da Ero­ doto, dato che egli, che pure analizza specificamente usi e costu­ mi di popoli non greci, si rivela privo di quell’etnocentrismo che sovente viene invece imputato alla riflessione greca. Ciò si evince, tra le altre cose, dal fatto che egli riconosce sovente ai «barbari» - che peraltro non denomina mai genericamente, sempre appun­ to rispettoso della specificità dei vari popoli51 - qualità identiche o addirittura superiori a quelle dei Greci52. Gli Etiopi, ad esempio, vengono apprezzati per il loro contegno, gli Arabi per la loro af­

47 Molto interessanti in merito, oltre a Fehling 1971 e Gould 1989, diversi saggi presenti in Nenci-Reverdin 1990. 48 In questo senso ha a nostro avviso ragione Masaracchia 1976 (pp. 184185) a parlare di «filosofia della storia erodotea». Nella medesima direzione, oltre a Lachenaud 1978, anche Daniels 1946, il quale - come poi più accura­ tamente Harrison 2000 - pose in primo piano il legame fra storia e religione in Erodoto. Mora 1985 (pp. 15-16), con riferimento all’universalismo stori­ co-filosofico erodoteo, ha sostenuto che «il principale e più maturo contributo erodoteo è da riconoscere nella volontà di un sapere totale e di una ricerca universale, legata alla individuazione di profonde interconnessioni tra diverse vicende». 49Storie, 1, 131-137. 50Id., II, 35; II, 81. 51 Tralasciando le descrizioni minori, Erodoto nelle Storie si soffermò am­ piamente sui Lidi (1, 6-94), sui Medi e sui Persiani (1, 95-117 ed oltre), sui Babi­ lonesi (1, 178-200), sui Libi (IV, 145-199) e sugli Sciti (IV, 5-82; 99-117). Molte notizie in merito in Dewald-Marincola 2006. 52 Questo non toglie che talvolta Erodoto descriva popoli diversi dai Greci come caratterizzati da un livello bassissimo di umanità, quali ad esempio i po­ poli del Caucaso (I, 203) ed alcuni popoli dell’India (III, 101), il cui comporta-

Medici, storici, fisici

115

fidabilità, gli Sciti per il loro senso di giustizia53. Erodoto mostra peraltro stabili giudizi di valore, verosimilmente in quanto alla loro base vi era una stabile concezione della natura umana54, che anche nel suo caso, come mostreremo, può definirsi essenzialmente ra­ zionale e morale. Nelle Storie, Erodoto mostra una tale apertura verso i popoli stranieri, da essere in epoca successiva stato definito da Plutar­ co, addirittura, philobarbaros55. In particolare, nei confronti dei Persiani, egli ricorda che costoro accolgono costumi stranieri più di tutti gli altri popoli, e che sono sempre pronti a valutare con rispetto pratiche di altre culture56.1 costumi educativi dei Persiani furono inoltre positivi per Erodoto, in quanto, ad esempio, inse­ gnavano ai figli a dire sempre la verità e ad utilizzare la clemenza57. In merito, approvando esplicitamente i nomoi persiani, Erodoto rimarca come in Persia «per una sola colpa neppure il re può uc­ cidere alcuno, né alcuno degli altri Persiani può infliggere pena ir­ rimediabile ad alcuno dei suoi servi»58. Dei Persiani, inoltre, Ero­ doto elogia l’uso di esaminare due volte le decisioni prese, nonché il fatto di destinare i criminali ai lavori socialmente utili invece che alla morte59. Proprio per il suo grande rispetto verso gli altri popoli, si è spes­ so sostenuta la tesi che Erodoto sarebbe stato fra i primi sostenitori di una sorta di “relativismo” culturale ed etico. Egli avrebbe cioè considerato dotati di uguale valore, ciascuno appunto relativamen­ te al proprio contesto, i comportamenti dei vari popoli60. In realtà,

mento sessuale è paragonato a quello delle bestie (probata) avvenendo davanti a tutti {emphanes). 53 Su questi aspetti della etnografia erodotea, rinviamo a Thomas 2000. 54 Come scrivono Porro-Lapini 2017 (p. 179), per Erodoto due popoli, nell’essenziale, «messi di fronte a identiche situazioni, si comportano allo stes­ so modo». Per questo possiamo trovare sia Greci che ragionano come barbari, sia barbari che ragionano come Greci (Storie, VII, 46; 1, 207). Vi è infatti nell’o­ pera erodotea anche «una dimensione sostanzialmente atemporale, che non conosce modifiche» (Dorati 2000, p. 122). 55De Herodotus Maligniate, 12, p. 857 a. 56 Questo avvenne nonostante il loro atteggiamento, comune tuttavia a quasi tutti i popoli, fu quello di considerare i popoli «più lontani come i peg­ giori di tutti» (Storie, 1 ,134). 57Storie, 1, 136. 58Id., 1 ,136. 59 Id., 1, 133; 1, 137. 60 Su questo tema, che lo avvicinava alla Sofistica, Dihle 1962. Notevoli furono del resto i riferimenti di Erodoto alla cultura del proprio tempo, fra cui anche quella medica: in merito, Brandenburg 1976.

h

6

C a p ito lo III

come mostrano i suoi frequenti giudizi di valore, egli non sostenne aifatto questa tesi. Egli sostenne invece che, siccome ogni popolo ha i propri nomoi, tutti quanti plasmanti Yethos, ogni popolo tende ad adattarsi ai propri nomoi e per conseguenza a preferirli61. Ciò non significa che egli considerasse tutti i nomoi culturalmente ed eticamente equivalenti. Erodoto insistette sulle differenze fra i vari popoli proprio in quanto le differenze possiedono il maggiore interesse storico per un etnografo quale egli era. Il fatto tuttavia che, per determinare tali differenze, egli così spesso utilizzasse lo strumento della analo­ gia, il quale punta come noto a cogliere gli elementi comuni fra due situazioni, lascia chiaramente intendere che vi era a suo avviso una comune natura umana a caratterizzare la physis di tutti i popoli62. Occorre ancora sottolineare che Erodoto non si limitò a de­ scrivere i vari usi e costumi, accumulando tutte le testimonianze disponibili. Egli utilizzò sempre la ragione anche solo come discri­ mine per valutare la veridicità dei fatti, oltre che come base per la effettuazione dei propri giudizi di valore63. Come scrive giusta­ mente Marco Dorati, l’etnografia erodotea non mirava infatti ad essere una scienza meramente descrittiva, ma, con le sue tipiche modalità narrative, costituiva «ritratti etnici fortemente orientati in senso etico»64. Anna Beltrametti, in un ottimo volume del 1986 dall’eloquente sottotitolo «il racconto morale come forma della

61 Storie, III, 38. 62 Come scrive Corcella 1984 (p. 73), che analizza in maniera compiuta il tema della analogia in Erodoto, emerge nella sua opera «una vera e propria mentalità comparativa, che, partendo dalla esperienza della alterità, quanto mai ampia per la grande quantità di dati raccolti, cerca, mediante il confronto, di organizzare il reale e renderlo così pienamente comprensibile. In particolare, la ricchezza di paragoni indica che, per Erodoto, al di là delle enormi differenze alFinterno dei vari aspetti del reale, è possibile individuare delle uniformità, di struttura, di funzione, di processo, che rendono possibile la comparabilità e la traduzione. D’altra parte, nello stesso fatto di parlare di realtà diverse in lingua greca è implicita la interpretatio secondo certe categorie fondamentali». 63 Sicuramente Erodoto si propone sempre di «riferire quanto si dice» (Storie, VII, 152), ma il fatto che si senta in dovere di svolgere questa preci­ sazione mostra la sua esigenza di analizzare in vista della verità. Su questioni incerte, infatti, Erodoto riferisce le varie versioni, ma sa bene che fra esse al massimo una sola può essere quella vera, il «racconto reale da riferire» (tori eonta legein logon: I, 95,1; in tal senso anche II, 9, 2). È infatti spesso la gno­ me (opinione, conoscenza) a guidarlo verso certe ipotesi, che poi la historie si trova a confermare (II, 18,1; II, 104,1). 64 Dorati 2000, p. 55.

Medici, storici, fisici

n7

memoria»65, ha in effetti - come altri autori, i quali hanno rimar­ cato l’importanza degli excursus e delle apparenti digressioni nar­ rative erodotee66 - ben posto in evidenza come l’opera di Erodoto fosse intrisa di valutazioni morali. Solo per fare alcuni esempi, ba­ sti considerare la storia di Gige e Candaule nel libro I; la condanna della guerra in I, 87; l’elogio della misura nel confronto tra Solone e Creso in I, 3267; l’elogio del coraggio comunitario dello spartano Leonida68; la netta condanna della hybris di Cambise nel libro III, e di Serse nel libro VII; ecc. Circa sempre l’assenza di relativismo in Erodoto, riteniamo avesse ragione Brusa Zappellini ad affermare che «nella storio­ grafia erodotea gli avvenimenti sembrano sempre sul punto di emanciparsi dalla loro particolare contingenza per proporsi come simboli universali, discorsi generali sulla condizione umana, a pre­ scindere dalla specificità storica in cui si attuano. Erodoto indaga sui motivi che spingono gli uomini all’azione [...]. Se le motivazioni sono molteplici, la tipologia comportamentale, però, sembra poter­ si ricondurre entro alcuni moduli invariabili, destinati a riproporsi costantemente nella logica che governa la prassi umana. La convin­ zione antropologica di una invarianza comportamentale dell’agire, che presiede e regola la dinamica interattiva, convinzione in linea generale comune a tutto il pensiero antico, tende a far assumere ad ogni discorso intorno all’uomo [...] una fisionomia e un valore universali, di carattere paradigmatico»69. Nonostante, insomma, i nomoi dei vari popoli andassero sem­ pre per Erodoto in primo luogo compresi e rispettati, egli non fece alcuna concessione né al relativismo né al cosiddetto “multicultu­

65 Beltrametti 1986. 66 Significativo in merito Cobet 1971. 67 Solone, fautore della ricerca del metron comunitario, risulta figura di riferimento importante per comprendere il punto di vista di Erodoto su diversi contenuti etico-politici. Nelle sue parole, come in quelle - simili - di Artabano nei confronti di Serse, «spesso si fa luce il giudizio ex eventu dello storico sui singoli fatti» (Masaracchia 1976, p. 26). 68 In questo senso anche Vandiver 1991. 69 Brusa Zappellini 1990, pp. 96-97. La studiosa afferma anche che, in ge­ nerale, l’approccio di Erodoto «non è né scettico né, tanto meno, relativistico. La sua visione morale si stacca, infatti, in modo deciso dalla elaborazione dei sofisti che, in quegli stessi anni, dalla constatazione della pluralità delle tradi­ zioni deducevano la totale relatività del nomos [...]. Erodoto riconosce dunque, nella dimensione storica, il luogo di nascita e di legittimazione dei differenti contenuti dei nomoi il cui valore però, in quanto imperativo morale assoluto, va al di là di ogni relativismo storico» (Id., pp. 163-164).

n8

C a p ito lo III

ralismo”, ossia a quella corrente di pensiero volta sostanzialmente ad affermare che tutti i popoli, indipendentemente dai loro nomoi, possono sempre convivere insieme. Nonostante, infatti, la comune natura umana, Erodoto era consapevole che, siccome i nomoi for­ mano negli uomini una sorta di “seconda natura”, assai diffìcile da modificare, la convivenza fra appartenenti a popoli diversi può in alcuni casi risultare impossibile. Emblematico in merito il caso del­ le Amazzoni, che dichiarano agli Sciti: «Noi non potremmo vivere con le vostre donne, perché non abbiamo gli stessi nomaia»7°. In particolare, erano i costumi sessuali e le usanze funebri (so­ prattutto il cibarsi dei propri morti)7 71 a costituire i fattori di mag­ 0 giore criticità, che come detto indussero Erodoto a prendere talvol­ ta posizione in favore dei costumi greci, ritenuti più ragionevoli ed etici72. Come ha in effetti sostenuto Aldo Corcella, «è tipico della mentalità erodotea il fatto che, accanto al riconoscimento della va­ rietà e della autonomia dei nomoi, ognuno valido per un popolo, ci fosse una tendenza a giudicare tali nomoi, a individuare ciò che in essi è migliore o peggiore»73. Ciò era possibile, come detto, pro­ prio in quanto al fondamento di tale valutazione vi era, implicita, la concezione di una comune natura umana, quale quella che si anda­ va appunto in quei decenni formando nel pensiero greco74. Tucidide Sarebbe interessante soffermarsi su molti storici e commenta­ tori successivi ad Erodoto, come Senofonte, Polibio, Diodoro Si­ culo, solo per citare alcuni fra i principali. La storiografia greca è infatti, come noto, fortemente connessa, nel senso che spesso i vari storici iniziarono il loro discorso da dove aveva concluso lo stori­

70Storie, IV, 114, 3. 71 Id., Ili, 38; III, 101,1; IV, 180,5. 72 Concordiamo in merito con Mora 1985 (p. 166), per cui «Erodoto con­ stata la grande varietà di usi, rimanendo attaccato a un modello culturale deri­ vato da quello greco». In tal senso anche Fornara 1971 e vari saggi presenti in Giangiulio 2005. 73 Corcella 1984, pp. 86-87. 74 In diversi casi (ad esempio Storie, III, 118-120; IV, 82, 2; ecc.) Erodoto afferma esplicitamente che il comportamento naturale per l’uomo è l’utilizzo della ragione, postulando implicitamente una natura razionale dell’uomo, e verosimilmente anche una natura morale, alla luce appunto delle indicazioni etiche contenute ad esempio nella dichiarata vicinanza a Solone (I, 30, 2). Il tema della ricerca veritativa in Erodoto è ben messo in evidenza da Erbse 1991 ed Evans 1991.

Medici, storici, fisici

119

co principale che li aveva preceduti75. Tali autori peraltro, anche quelli di epoca ellenistica, non si limitarono a semplici narrazioni, ma in alcuni casi realizzarono vere e proprie “filosofie della storia”, materia solitamente ritenuta di conio moderno76 ma che, a nostro avviso, ritrova anch’essa le proprie radici in Grecia in epoca classi­ ca77. Ci limiteremo tuttavia in questa sede, anche per l’ambito cro­ nologico in cui si situa questo paragrafo, a menzionare Tucidide, tuttora ritenuto il maggiore storico della antichità78. Tucidide (460-399 c.a.) si caratterizza rispetto ad Erodoto per il rigore “realistico” delle sue analisi79, ossia per il suo tentativo, colto anche da Nietzsche nel Crepuscolo degli idoli, di offrire un re­ soconto descrittivo spassionato delle vicende degli uomini, carat­ terizzati a suo avviso da una natura prevaricatrice80. Dal punto di vista della analisi dell’uomo, l’opera di Tucidide risentì molto della influenza del pensiero della Sofistica, che fra breve analizzeremo, ed in particolare di Antifonte, da cui egli sembra trarre buona parte delle tesi. Tucidide volle porre comunque la propria opera come una «acquisizione perenne» finalizzata, mediante la conoscenza del passato, ad orientare gli uomini per il futuro, dato appunto il carattere anche a suo avviso stabile - per quanto non morale - del­ la «natura umana»81. All’interno di un clima politico-sociale caratterizzato da una forte conflittualità, Tucidide pose come oggetto principale della propria trattazione la guerra del Peloponneso82. Così fu verosimil­

75 Sulla storiografia greca fino all’epoca ellenistica, ottimi testi di riferi­ mento sono Musti 1979, Momigliano 1984, Meister 1992, Ampolo 1997. 1 Greci furono peraltro i primi a formulare una teoria della storiografia, dato che nel Peripato Teofrasto e Prassifane scrissero libri Sulla storia, purtroppo perduti. Sul ruolo della storiografia nella educazione antica, rinviamo a Nicolai 1992. 76 È questa ad esempio la tesi di Enrico Berti in Berti-Grecchi 2009, p. 46. 77 Ci permettiamo di rinviare, in merito, a Grecchi 2010 a. 78 Sull’opera di Tucidide, per un accurato sguardo di insieme, rinviamo a Dover 1973, Sonnabend 2004 e soprattutto Rengakos-Tsakmakis 2006. 79In tal senso rinviamo a Crane 1998. 80La guerra del Peloponneso, I, 22, 4; I, 76, 2-3; III, 82, 2. Per Tucidide infatti «tutti, in pubblico e in privato, per natura sono portati a fare il male, e non vi è legge che possa proibirlo» (I, 20). La legge di natura mostra che il for­ te comanda e il debole cade (I, 45). Vi è a suo avviso «una natura necessaria» (physis anankaia, V, 105) che spinge gli uomini ad esercitare violenza contro le leggi comuni, a causa di una naturale philotimia. 81La guerra del Peloponneso, I, 22,4. De Romilly 1995, pp. 95 ss., ha par­ ticolarmente insistito sulla stabilità della natura umana delineata da Tucicide. 82 In Tucidide non vi è pressoché traccia di ricerca etnografica. Rimane co­ munque una idea molto più marcata, rispetto ad Erodoto, della superiorità del

120

C a p ito lo III

mente anche in quanto il fenomeno patologico della guerra, per quanto eccezionale, si mostrava a suo avviso rivelatore della natura conflittuale dell’uomo83. Tucidide infatti ritenne valido il presup­ posto sofìstico per cui i fatti politici, economici, giuridici sono sem­ pre mossi dalla parte più forte della società, e che ciò è naturale, in quanto naturale è appunto l’uso della forza84. Ci soffermeremo come detto nel prossimo capitolo su questo presupposto. Quanto tuttavia si può fin da subito affermare è che, se il conflitto e la prevaricazione fossero realmente i contenuti fon­ damentali della natura umana, le guerre non dovrebbero essere considerate fenomeni eccezionali e patologici, bensì abituali e fi­ siologici, ossia appunto naturali, normali, quasi desiderabili. Vice­ versa, il fatto che anche Tucidide esprima chiaramente il carattere eccezionale della guerra, cercando appunto, fin dal proemio della sua opera, di istruire gli uomini ad evitare in futuro il dramma del conflitto, mostra implicitamente che anche a suo avviso la vita ar­ monica era quella più naturale per l’uomo, ossia la più felice85. Limitandoci comunque a quanto emerge nella sua opera, l’ana­ lisi “autoptica” di Tucidide della realtà umana fu fortemente de­ bitrice, come da più parti è stato rilevato, anche verso il metodo ippocratico86. La storia umana fu infatti da lui sempre interpretata

mondo ellenico rispetto a quello barbaro (emblematico il discorso di Pericle, II, 35-46). In questo senso anche Hunter 1982 e Biraschi 1989. 83 Sul tema della guerra in Grecia, la letteratura è molto vasta: da menzio­ nare in merito almeno Garlan 1989, Payen 2012 e Vernant 2018. Molto utile risulta, per contrasto, anche l’analisi del tema della pace, per il quale rimandia­ mo, fra gli altri, all’ottimo Lana 1991, a Uglione 1991 e Ciccotti 2014. 84 Rinviamo in merito a Hornblower 1987. 85 Nel primo libro de La guerra del Peloponneso si riporta la seguente posizione: «Degni di lode sono coloro che, pur esercitando, conformemente alla natura umana, il dominio su altri, si dimostrano però più equi di quanto non comporterebbe la loro forza» (I, 76, 3). Il pensiero corre inevitabilmente al celeberrimo dialogo fra gli Ateniesi ed i Meli (Id., V, 84-113; rimandiamo in merito al commento di Viansino 2007). La conclusione della vicenda - l’uc­ cisione di tutti i Meli adulti catturati, e la schiavitù per donne e bambini: Id., V, 116, 4 - confermava la legge del più forte, ma non dava per Tucidide neces­ sariamente ragione ad Atene. Come scrive in merito Ambaglio 2008 (p. 45), «come è stato osservato da più parti, né l’uno né l’altro contendente prevale davvero nel dialogo, sicché la visione tucididea delle azioni umane appare alla fine soltanto pessimistica e sconsolata». 86 Sui rapporti fra il discorso storico tucidideo ed il discorso medico ippo­ cratico, buoni riferimenti sono Weidauer 1954 e Rechenauer 1991; interessanti note in Pugliese Carratelli 1976, pp. 460-473. Meno risaputo è che anche Ero­ doto (ad esempio Storie, II, 77, 3) manifestò un discreto interesse per la scien­ za medica, oltre che per tutte le questioni relative alla salute umana (Thomas

Medici, storici, fisici

121

come una storia clinica per cui, dati certi sintomi, è possibile rile­ vare le patologie in atto e le relative cause. Nei capitoli iniziali sulla cosiddetta archeologia, ma anche in altri contesti, Tucidide parla in effetti ripetutamente di sintomi (semeia) e di indizi (tekmeria)87. Conducendo appunto la propria analisi politica secondo il procedimento tipicamente ippocratico basato su osservazione, anamnesi, diagnosi e prognosi, egli fece leva sulla analogia tra processi fisiologici e sociali. La conoscenza storica serviva infatti, a suo avviso, soprattutto per comprendere la natura umana che, in quanto stabile, consentiva previsioni attendi­ bili ed uno sguardo universale88. In effetti, come scrive giustamen­ te Stefano Ferrucci, «la natura umana è l’epicentro della analisi»89 di Tucidide, cui egli appunto in ultima analisi attribuiva le cause dei principali fenomeni politici, economici e sociali. La ricerca delle cause, della vera ragione (prophasis alethestate) delle cose, anche quando è nascosta, costituiva infatti il fine ultimo della ricerca di Tucidide, in evidente continuità anche con la ricerca presocratica di matrice ionica. Non stupisce pertanto che egli, indicando sem­ pre i rapporti di forza e di potere alla radice dei principali fenomeni sociali, ne individuasse la causa prima implicita nella «aspirazione al dominio per cupidigia e ambizione (pleonexia)», a suo avviso insita appunto nella natura umana90. Nonostante il pessimismo per la presenza di questi caratteri ne­ gativi nell’uomo, Tucidide, come una buona parte dei suoi quasi contemporanei Sofisti, non perse mai la fiducia circa la possibilità

2000, pp. 28-74). In tutto il IV libro, in particolare, Erodoto si espresse nel solco della concezione ippocratica. 87Ad esempio La guerra del Peloponneso, II, 48 e III, 52. 88 Come scrive Bonazzi (La giustizia, la forza, l’uomo: qualche osservazio­ ne a proposito di Tucidide, in Palumbo 2011, p. 235), «come il medico parten­ do da uno stato particolare e alterato si propone di comprendere il funziona­ mento dell’organismo nella sua complessità, così Tucidide, partendo da alcune situazioni particolari, si propone di comprendere le cause ultime dell’uomo e del suo operare, della storia e della natura dell’uomo. L’obiettivo di fondo non è quindi la ricostruzione dei fatti, ma una comprensione dell’uomo». 89 In Bettalli 2009, p. 77. 90 La guerra del Peloponneso, III, 82, 8. Sulla tematica della pleonexia in Tucidide, rinviamo a Balot 2001, pp. 136-168. Emblematiche in merito le parole degli Ateniesi ai Meli: «Non solo tra gli uomini, come è ben noto, ma, per quanto se ne sa, anche tra gli dei, un necessario e naturale impulso spinge a dominare su colui che puoi sopraffare. Questa legge non l’abbiamo stabilita noi né siamo stati noi i primi a valercene; l’abbiamo ricevuta che già c’era e a nostra volta la consegneremo a chi verrà dopo, ed avrà valore eterno» (Id., V, 105,1-2).

122

C a p ito lo III

di fornire all’uomo, tramite la conoscenza storica, indicazioni ade­ guate per migliorare la propria vita. Rimane tuttavia il fatto che, basandosi su una natura umana siffatta, le possibilità di successo di tali indicazioni risultava scarsa, il che spiega la sostanziale carenza di elementi progettuali nell’opera tucididea. Riteniamo infatti ab­ bia ragione Mauro Bonazzi ad affermare che «ad un livello più pro­ fondo Tucidide si rivela nel pessimismo di chi comunque sente che lo spazio di intervento è destinato a richiudersi su sé stesso [...]. La filosofìa politica di Platone nasce proprio come risposta a posizioni come quella espressa da Tucidide»91.

3 .1 fisici presocratici Note generali Sintetizzare i pensatori “presocratici”92 come fìsici, ovvero come studiosi della physis, è sicuramente, come in queste pagine mostreremo, riduttivo. Può essere utile farlo, nel contesto di que­ sto capitolo, solo per mostrare come una serie di scienze nascen­ ti proprio in quei decenni, quali appunto la storia, la medicina ed appunto la fisica (intesa in senso ampio), trattarono tutte anche dell’uomo, sebbene ovviamente ciascuna secondo la propria spe­ cificità93.

91 In Palumbo 2011, p. 242. Per una simile interpretazione in chiave tragica di Tucidide, testi significativi sono Stahl 2003 e Cornford 1907. 92 Vengono come noto così definiti un discreto numero di pensatori, i cui frammenti rimasti sono stati catalogati nel secolo scorso con questa “dicitu­ ra” da Hermann Diels e Walther Rranz (la cui raccolta sarà qui sempre citata nella edizione Reale 2006). Sulla problematicità di questa definizione riman­ diamo, fra i vari possibili, a Leszl 1982. Un buon commentario al Diels-Kranz rimane Freeman 1946. Alcuni validi testi dedicati al pensiero presocratico sono Allen-Furley 1970-1975, Hussey 1977, De Martino-Rosati 1981, Kirk-Raven-Schofield 1983, Barnes 1983, Legrand 1987, Navia 1993 (bibliografia an­ notata), Laks-Louguet 2002, Caston-Graham 2002, McCoy 2003, Sassi 2006, Curd-Graham 2008, Warren 2009, Casertano 2009 (di questo autore anche il recentissimo Casertano 2019, con nostra introduzione) e McKirahan 2010. 93 Scrive correttamente Romano 2004 (p. 26) che «da un lato occorre oggi contestare sul piano metodologico la legittimità della categoria unitaria di Presocratici consolidatasi col Diels, dall’altro lato è necessario anche [...] destrutturare la stessa categoria unitaria di pensiero presocratico». Ci occupe­ remo specificamente del pensiero presocratico in un volume di prossima pub­ blicazione, dal titolo Presocratici, per l’editore La Scuola, che speriamo possa vedere la luce nel 2020.

Medici, storici, fisici

12 3

Una antica tradizione tuttavia, risalente come noto ad Aristo­ tele ed al Peripato, associa ai Presocratici quasi esclusivamente lo studio della natura. In realtà questi pensatori, peraltro spesso assai diversi tra loro, anche in quanto provenienti da contesti culturali diversi (Mileto, Elea, Efeso, Agrigento, Clazomene, Abdera, Apol­ lonia...), non si occuparono solo della natura, ma anche degli altri due grandi temi della tradizione filosofica, ossia il divino94 e l’uma­ no95. Sarà ovviamente solo di quest’ultimo tema - nonostante gli inestricabili intrecci fra i tre contenuti - che ci occuperemo qui, per cui di alcune di queste figure tratteremo poco, essendoci rimasto poco delle loro considerazioni sull’uomo, mentre di altre trattere­ mo a lungo, per il motivo opposto. Non discuteremo in questa sede nemmeno la tesi se la filosofia presocratica si sia occupata più dell’uomo, della natura o del divino, che abbiamo in parte trattato altrove96.1 frammenti rimasti, indub­ biamente,'riportano per la maggior parte temi naturalistici. Occorre tuttavia rimarcare che, a parte l’opera di selezione posta in essere dai filologi alessandrini, più interessati ai temi naturalistici che a quelli sociali, spesso il mondo naturale fu utilizzato dai Presocratici come metafora per parlare del mondo sociale97, sicché questi pensatori non possono essere considerati esclusivamente come fisici. Molto si è dibattuto, inoltre, se i principali concetti con cui è stato interpretato il mondo greco siano nati dalla analisi del mondo naturale oppure del mondo sociale: se l’uomo, insomma, sia stato il primo oggetto della propria riflessione, oppure se egli si sia rivolto prima alla natura per poi comprendere sé stesso98. Come abbiamo già scritto in Natura, la questione è sostanzialmente indecidibi­ le, poiché fra uomo, natura e divino vi furono, nel primo pensiero

94 Su questa tematica rinviamo a Zeppi 2003. 95 Come noto, semplificando all’estremo, nel tempo i Presocratici sono sta­ ti oggetto di almeno tre tipi di interpretazioni: a) fisico-naturalistica (Zeller, Gomperz, Tannery, Burnet, ecc.), ovvero come pensatori che si sarebbero oc­ cupati principalmente della natura; b) mistico-aurorale (Nietzsche, Heideg­ ger, Colli, Galimberti, ecc.), ovvero come pensatori che si sarebbero occupati principalmente del divino (inteso in senso ampio); c) politico-sociale (Mondolfo, Farrington, Capizzi, Preve, ecc.), ovvero come pensatori che si sarebbero occupati principalmente dell’uomo. 96 Grecchi 2012 b. Il testo era tuttavia esplicitamente indirizzato, come si evince dal titolo, a ricercare i contenuti umanistici e politici del pensiero pre­ socratico. 97 In questo senso, vari saggi in Capizzi-Casertano 1987. 98Su questo tema si è particolarmente occupato Mondolfo 1956 e 2009.

124

C a p ito lo III

greco, continue sovrapposizioni". L’uomo, del resto, costituisce una parte della natura, sicché non può pensarsi separatamente dal contesto da cui è derivato9 100. Questa vicinanza fu percepita anche 9 allora in maniera talmente forte, che il principio base della gnose­ ologia presocratica consistette nel ragionamento analogico, nella convinzione appunto che uomo e natura, microcosmo e macroco­ smo, fossero regolati da processi analoghi101. Ciò giustificava l’uti­ lizzo di metafore naturali per descrivere il cosmo sociale, così come l’utilizzo di metafore sociali per descrivere il cosmo naturale. Quanto ci preme in questa sede ribadire è solo che sono ormai da ritenere superate tesi come quella esposta da Giovanni Reale, secondo cui la filosofia presocratica avrebbe «trascurato, o almeno lasciato in ombra, l’essere dell’uomo [...]; per conseguenza, non ha saputo né potuto comprendere Yarete, ossia la virtù dell’uomo, né ha saputo filosoficamente giustificare le leggi, le regole e le prescri­ zioni alle quali l’uomo cerca di conformarsi nel suo agire. Natural­ mente, anche l’uomo fa parte del cosmo, e la physis, che da Talete in poi si era ricercata, e che spiegava tutte le cose, spiegava, in un certo senso, anche l’uomo; ma - questo è il punto su cui bisogna porre l’attenzione - lo spiegava solo come cosa accanto alle altre cose, os­ sia come oggetto e non come soggetto»102. Cercheremo di mostrare, nelle pagine seguenti, che le cose non stanno in questo modo. Prima tuttavia di iniziare la trattazione particolareggiata di al­ cuni - i principali - fra questi pensatori, ricordiamo soltanto che disponiamo per ciascuno di essi per lo più di scarni frammenti e testimonianze indirette103 di epoca molto successiva, i quali ben difficilmente possono consentire di ricostruire in maniera comple­ 99 In quella occasione abbiamo comunque rilevato come sia verosimile che lo “sfondo naturale” abbia costituito il bacino originario da cui attingere con­ cetti e modelli, che poi l’uomo avrebbe applicato anche alla interpretazione del mondo sociale. 100 Frànkel 1997 (p. 379) scrive: «per i cosiddetti Presocratici l’uomo è an­ cora parte della natura; egli non fronteggia un mondo a lui estraneo, ma è un elemento dell’unico mondo esistente; egli vive in, e per, il medesimo ordine che domina dappertutto, anche nelle stelle del cielo». 101 Su questo punto risulta utile la lettura di Calenda 2011 e Montano 2014. 102 Reale 2001, p. 59. 103Circa la distinzione fra frammenti, testimonianze e citazioni, scrive bene Fronterotta 2013 (p. IV) che «una simile distinzione appare soggetta a note­ voli incertezze e oscillazioni, perché nulla impedisce [...] che il testimone, o citatore, manipoli in varie forme, innanzitutto per errore oppure per ragioni ideologiche, il brano che cita». Per questo ed altri motivi «negli ultimi decenni è emersa la tendenza a marginalizzare la nozione stessa di frammento in favore di un uso estensivo di quella di citazione» (Id., p. VII).

Medici, storici, fisici

125

ta il pensatore esaminato. Ciò nonostante, pur con la consapevo­ lezza che coi Presocratici, a differenza ad esempio che con Platone ed Aristotele, è assai più diffìcile «far parlare i testi»104, cerchere­ mo comunque di mostrare come anche nella loro opera continui a prendere forma quel processo di tematizzazione della natura razio­ nale e morale dell’uomo di cui già abbiamo discusso. I Milesi: Talete, Anassimandro, Anassimene Come noto, una buona parte delle testimonianze sui Presocrati­ ci che ci sono rimaste proviene da Platone105 ed Aristotele106, oltre che da alcuni commentatori di epoca postellenistica. Fu soprat­ tutto la ricostruzione aristotelica posta in essere nel I libro della Metafisica ad influenzare la storia della filosofia successiva, carat­ terizzando i Presocratici come i primi ricercatori delle cause prime della realtà, ovvero del principio primo (arche) della physis nella sua interezza. Physis in effetti, soprattutto in epoca presocratica, non indicava solo la realtà fisica naturale, ma l’intero essere, come si è mostrato abbondantemente nel volume Natura. Sulla affidabilità di Aristotele come testimone dei Presocratici, nonché sulla correttezza della sua interpretazione, si è come noto a lungo discusso, e verosimilmente si continuerà a discutere107. Quanto importa qui rimarcare è solo che l’opera culturale dei tre grandi pensatori di Mileto, ossia Talete, Anassimandro ed Anassi­ mene, attivi tra il VI e il V secolo a.C., per quanto verosimilmente incentrata sulla physis, non trascurò di considerare Yanthropos. Si è già visto in precedenza come Talete fosse presente nell’elen­ co dei cosiddetti Sette Sapienti, i quali furono autori di massime di carattere etico e politico108. Di lui sappiamo che partecipò alla vita politica della sua città, e alla lotta delle colonie ioniche alleate del re della Lidia Creso contro il re dei Persiani Ciro, il quale voleva an­ nettere tutta l’Asia minore109. È nota poi la storia leggendaria della

104 Come ha sostenuto giustamente Leszl 1982 (p. 47): «Nei nostri libri sui preoscratici, le pagine bianche dovrebbero essere più di quelle scritte». 105 Rinviamo, circa le testimonianze platoniche sui Presocratici, a Dixsaut-Brancacci 2002. 106 Rinviamo, circa le testimonianze aristoteliche sui Presocratici, a Laks 2007. 107II rinvio d’obbligo è a Cherniss 1964 ed alla letteratura conseguente, par­ te della quale sintetizzata in Leszl 1982. 108Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, I, 35-37. 109Id., I, 25.

12 6

C a p ito lo III

sua “caduta nel pozzo” per osservare le stelle, oltre all’altra aned­ dotica della acquisizione dei frantoi110, la quale lo descrive come sapiente disinteressato al denaro, volto solo a sviluppare la propria conoscenza e pertanto la propria natura razionale. Molto oltre non si può andare sul piano dell’uomo, ma sicuramente questi pochi spunti sono coerenti nella direzione che abbiamo indicato111. Ancor meno si può dire per Anassimene, sul quale non esisto­ no frammenti o testimonianze significativi circa la nostra tematica, mentre un discorso a parte si deve svolgere per Anassimandro. Già nel volume Natura112 abbiamo mostrato come il principale fram­ mento rimasto della sua opera, il famoso frammento Bi, fosse ve­ rosimilmente da interpretare in senso fisico113. Sono pertanto da ritenersi suggestive, ma arbitrarie, interpretazioni come quella di Martin Heidegger, che rendono Anassimandro un pensatore mi­ stico-aurorale114. Viceversa, non si può escludere un utilizzo della natura anche come metafora politico-sociale da parte di Anassi­ mandro, per il fatto che Bi contiene diversi termini di ambito “giu­ ridico” (adikìa, arche, apeiron)115. L’anthropos infatti - vivendo, dunque agendo, ma anche patendo - non può fare a meno di com­ mettere ingiustizie116. Per questo pare implicito nei frammenti il consiglio di porre come principio del proprio agire il metron, poi­ ché di ogni agire, ma soprattutto di ogni violazione della isonomia 110Aio. 111 Per uno sguardo di insieme sulla sua figura, rinviamo a 0 ‘Grady 2002, Panchenko 2005, Marcacci 2008 e Wòhrle 2009. 112Grecchi 2018 a, pp. 83-92. 113 Esso recita, per come riportato da Simplicio: «Anassimandro ha detto che principio [arche] degli esseri [fon onton] è l’infinito [apeiron] [...]; da dove infatti gli esseri hanno origine [genesis], lì hanno anche la dissoluzione [phthora] secondo necessità [katà to chreon]: essi pagano infatti reciprocamente [allelois] la pena ed il riscatto [didonai diken] dell’ingiustizia [adikia], secondo l’ordine [taxis] del tempo [chronos]». La traduzione di questi frammenti pos­ siede come noto una lunga tradizione. Le principali traduzioni italiane alterna­ tive sono riportate, ad esempio, da Moscarelli 2005. 114 Emblematico il saggio intitolato II detto di Anassimandro, in Heidegger 1968. Sulla influenza di Heidegger su molte interpretazioni dei Presocratici, rimandiamo a De Cecchi Duso 1970 e Jacobs 1999. Come ha rimarcato tuttavia Giannantoni 1963 (p. 68), «in queste parole non c’è alcun misticismo, come a lungo si è creduto: l’ingiustizia (adikia) non consiste infatti in una culpa individuationis, ma nella sopraffazione (pleonexia) che ciascuna cosa attua sulle altre. In questo senso la vicenda cosmica è simile a quella umana di fronte alla legge». 115 In questo senso, fra gli altri, anche un insospettabile Colli 1990-1993, voi. II, p. 29. 116 Rimandiamo in merito a Riedel 1985.

Medici, storici, fisici

12 7

naturale, si viene prima o poi a subire le conseguenze, secondo ap­ punto la legge eterna di dike117. Un invito almeno implicito, quello di Anassimandro, a conoscere le leggi della physis per rispettarle, quindi a porre in atto concretamente la propria natura razionale e morale di uomini118. Sul piano più propriamente antropologico, di Anassimandro è possibile citare anche una sorta di “teoria evolutiva” ante litteram. Secondo la medesima, in base almeno a quanto è possibile dedur­ re dalle scarne testimonianze rimaste, il mondo iniziò ad evolvere da una massa caotica originaria di materia. Quest’ultima produsse, per l’azione del calore solare sul fango, delle escrescenze parago­ nabili ad uteri, descritte come membrane simili a bolle. Il calore favorì al loro interno una sorta di fermentazione, da cui nacque­ ro per Anassimandro le prime creature viventi119. AH’interno delle stesse, verosimilmente simili a pesci, trovarono la loro genesi ed una iniziale ospitalità i primi embrioni umani120. Senofane Senofane di Colofone (570-475 c.a.), figura assai diffìcilmente classificabile, realizzò una significativa sintesi di poesia e filosofia, che dal punto di vista dei contenuti umanistici si caratterizzò per un atteggiamento critico verso i valori etici maggiormente condivi­ si dalla tradizione epica e lirica. Della sua opera poetica itinerante, svolta fino a tarda età, ci ri­ mangono una settantina di versi, caratterizzati da una polemica

117 Dice bene Casertano 2009 (p. 48) che «anche l’accenno alla giustizia e alla ingiustizia, ammesso che sia effettivamente anassimandreo, se, da un lato, fa riferimento a una legge che è propria del mondo umano e non dei fe­ nomeni naturali, dall’altro esprime tuttavia l’idea di una ananke, cioè appunto di una legge necessaria che regola tutto il cosmo, mondo umano compreso, e che potremmo inscrivere nel principio moderno che dice che ad ogni azione corrisponde una reazione». 118 Per uno sguardo di insieme sulla figura di Anassimandro, rinviamo a Laurenti 1986 e Wòhrle 2012, che si occupano anche di Anassimene. 119 Una sintetica trattazione di queste testimonianze si trova in Guthrie 1957, PP- 35-62. 120Interessante in merito l’ampio studio di G. Naddaf, Anthropogony and Politogony in Anaximander ofMiletus, in Couprie-Hahn-Naddaf 2003, pp. 9-72.

12 8

C a p ito lo III

serrata contro il conformismo. Esso infatti conduceva a suo avviso ad una visione non veritiera della realtà121. Uno dei suoi bersagli principali fu in merito l’elogio dell’atleti­ smo, status symbol del ceto aristocratico ed al tempo stesso mezzo di organizzazione del consenso delle masse. A tal proposito, egli in­ vitava gli uomini a non anteporre la prestanza fisica al valore della sapienza, in quanto la prima poteva dare qualche utilità individua­ le, mentre la seconda era utile a tutti122.1 frammenti elegiaci ci ri­ velano in effetti un autore molto consapevole del peso della propria responsabilità sociale. Nei Siili (questo il titolo attribuito in epoca successiva ad una delle sue opere), in particolare, Senofane criticò la concezione re­ ligiosa tradizionale di derivazione omerica. Il poeta, anticipando in certo senso Platone, attaccò duramente la visione antropomor­ fica della divinità, soprattutto in quanto essa attribuiva agli dei i peggiori difetti123. Molto celebri sono anche i due frammenti B15 e B16, in cui Senofane affermava, ancora una volta ridicolizzando la mitologia precedente, che «se buoi, cavalli e leoni avessero le mani e sapessero usarle come gli uomini per dipingere e plasmare oggetti, i cavalli con aspetto di cavallo e i buoi con aspetto di buoi raffigurerebbero e modellerebbero gli dei, proprio così come sono essi stessi». Allo stesso modo, «gli Etiopi affermano che i loro dei hanno il naso camuso e sono neri di pelle, e i Traci che hanno oc­ chi azzurri e capelli fulvi». Un invito indiretto agli uomini, dunque, non solo a pensare non arbitrariamente il divino, ma soprattutto a valutare correttamente la propria umanità. Pitagora e il Pitagorismo Come noto, possediamo conoscenze molto incerte sulla vita e sulla dottrina di Pitagora di Samo (572-494 c.a.)124, il quale non ha lasciato scritti ma solo insegnamenti orali, pervenutici soprat­

121 Per uno sguardo di insieme sulla sua figura, rinviamo a Lumpe 1952, Eisenstadt 1970, Lesher 1992 e Schafer 1996, oltre che a Wiesner 1997, Corbato 1997, Di Marco 1998 e Vitali 2000. 122 Fr. 2 West. Nel poema perduto La fondazione di Colofone (fr. 3 West), vi è anche uno spunto polemico contro il lusso eccessivo, evidentemente rite­ nuto, come da Solone, anticomunitario. 123 Bit. 124 Sulla figura e sull’opera di Pitagora, rimandiamo anche a Philip 1966, Abse 1979, Navia 1990 (bibliografia annotata), Mattei 1993, Riedweg 2007 e Zhmud 2012.

Medici, storici, fisici

12 9

tutto dalla lontana epoca postellenistica125. La “questione pitago­ rica”, così come la “questione omerica”, rappresenta del resto un problema antico se già lo stesso Aristotele, per riferire il pensiero di Pitagora, poteva parlare solo dei «cosiddetti Pitagorici»126. Ciò nonostante, dalle varie testimonianze di cui disponiamo, le quali hanno dato luogo nel tempo ad interpretazioni fra loro anche mol­ to differenti, il quadro del suo pensiero sull’anthropos127 emerge a nostro avviso in maniera chiara. Tale quadro conduce anch’esso, come cercheremo ora di mostrare, alla indicazione di una natura umana sostanzialmente razionale e morale. Le indicazioni pitago­ riche sull’uomo infatti, caratterizzate dai temi della misura e del­ la armonia, spaziano dal campo filosofico-scientifico a quello eti­ co-politico, ma sono sempre caratterizzate dall’invito alla ricerca della verità ed alla realizzazione del bene128. Per entrare maggiormente nello specifico, occorre subito ri­ marcare che vi sono diverse concordanze - nonostante un legame diretto sia tuttora non comprovabile - fra la dottrina di Pitagora e la dottrina orfica. Il Pitagorismo infatti stabilì anch’esso un net­ to dualismo fra anima e corpo, attribuendo importanza priorita­ ria all’anima rispetto al corpo129. È proprio cercando di mantenere

125 Sui Pitagorici, ed in genere sul Pitagorismo, riferimenti imprescindibili sono Centrone 1996, Kahn 2001, Cornelli-McKirahan-Macris 2013 e Huffman 2014. Importanti, come testimonianze posteriori inerenti al nostro tema, sono soprattutto un gran numero di sentenze etiche pseudopitagoriche, ottimamen­ te raccolte e commentate in Centrone 1990. 126Metafisica, 985 b 23. 127 II termine anthropos appare, soprattutto nel Pitagorismo, ancora più indicato della imperfetta traduzione “uomo”, data la elevata presenza di donne nella scuola pitagorica testimoniata fin dalle fonti antiche. Su questa tematica, rinviamo a Sirianni Artese 2013. 128 Come scrive giustamente Vegetti 2018 d (pp. 44-45), «le dottrine fon­ damentali del Pitagorismo si possono racchiudere nell’arco di due opposizioni, che riflettono l’opposizione fondamentale fra il bene e il male: quella fra anima e corpo, e quella fra limite (ordine) e illimitato (disordine, caos). [...] La vita del saggio è appunto la pratica dell’ordine e della misura nei riguardi degli istinti, dei desideri, di tutte le pulsioni corporee; il suo dovere è di indurre tutti, con la persuasione o con la forza del potere politico, a rispettare questi stessi canoni d’ordine». 129 Chiarendo meglio questo rapporto, Reale 2001 (p. 32) osserva che «se gli Orfici onoravano Dioniso e i Pitagorici Apollo, ciò si spiega bene, giacché il Pitagorismo riforma l’Orfismo in alcuni punti essenziali, e anzi proprio in quei punti che rendono possibile la sua congiunzione con la filosofia e quindi il mutamento del nume tutelare: invece di Dioniso, cui è sacra l’orgia entusiasti­ ca, Apollo, cui sono sacre la ragione e la scienza. [...] Gli Orfici ritenevano che i mezzi di purificazione fossero le celebrazioni e le pratiche religiose dei sacri

130

C a p ito lo III

quanto più pura possibile l’anima, attraverso la contemplazione e la moderazione, che risulta possibile per il Pitagorismo conseguire già in vita - assecondando appunto la natura razionale e morale dell’uomo - una condizione simile a quella compiutezza che l’a­ nima potrà assumere solo in morte, reincarnandosi in forme su­ periori fino a ricongiungersi come ultimo atto al divino, cessando così il ciclo delle rinascite130. Da qui l’importanza di una vita dedita alla teoria e ad una virtuosa comunanza col cosmo in tutte le sue forme131, armonia che andava in vario modo ricercata, come mo­ stra in particolare lo studio della musica, per i Pitagorici presente nell’intero universo132. Pitagora ed i Pitagorici si posero come continuatori della tra­ dizione sapienziale precedente, anche per il carattere etico-poli­ tico della loro opera, che è quello che qui più ci interessa133. Tale carattere, che in passato si tendeva a ridimensionare per attribu­ ire maggiore importanza ai contenuti scientifici e religiosi, è stato oramai definitivamente comprovato, ed ha assunto una corretta rilevanza nelle complessive interpretazioni del Pitagorismo. Nella politica pitagorica fu peraltro sempre centrale il tema della co­ munità dei beni per favorire la philia fra gli uomini134, nonché la opposizione alla crematistica, considerata fonte di innaturale di­ sarmonia e derealizzazione umana, in quanto appunto allontana dal vero e dal bene135.

misteri [...], e pertanto, rimanevano legati a una mentalità magica, affidandosi quasi interamente alla taumaturgica potenza dei riti. I Pitagorici, invece, addi­ tarono soprattutto nella scienza la via della purificazione». 130 Considerando le testimonianze più antiche (Erodoto II, 81; II, 123; IV, 95; Senofane B7; Empedocle B129), Giovanni Casertano (in Tortorelli Ghidini et al. 2000, pp. 222 ss.) ritiene tuttavia che non sia sufficientemente motivata la attribuzione a Pitagora della dottrina orfica della trasmigrazione delle ani­ me, la quale si basa su testimonianze molto tarde, in genere neoplatoniche. 131 Giamblico, Vita di Pitagora, 58; 85. 132Rinviamo su questa tematica a Barbone 2009 133 Le vicende storiche di Pitagora e di molti Pitagorici sono rigorosamente ripercorse in Mele 2013. 134 «Gli amici hanno tutto in comune» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Vili, 10), e «l’amicizia è uguaglianza» (Giamblico, Vita di Pitagora, 162) sono due tesi fortemente connesse, in quanto solo in un contesto sociale in cui non domina la conflittuale crematistica possono regnare l’armonia e la comunità. Di questo fu pienamente consapevole Platone, che appunto riprese la nota espressione pitagorica koina ta tori philon in diversi luoghi della sua opera (Repubblica, 424 e; 449 c; Leggi, 739 c; Liside, 207 c). 135 Giamblico, Vita di Pitagora, 167-168.

Medici, storici, fisici

131

Può sicuramente essere eccessivo affermare, come ha fatto cir­ ca un secolo fa Rostagni, che «se vogliamo penetrare nel profondo spirito della filosofia pitagorica, dobbiamo [...] rifarci a quello che ne fu il punto generatore, vale a dire la nozione di uomo»136. Tut­ tavia, alla luce della rilevanza dell’etica e della politica nell’inse­ gnamento filosofico di Pitagora, si può sicuramente sostenere che la considerazione della natura razionale e morale dell’uomo, per quanto in parte “misticizzata” nella tematica dell’anima, rivestì un ruolo molto importante nella sua opera e nella sua scuola137. Alcmeone di Crotone Un approfondito studio dell’uomo non troppo distante, nel metodo, da quello ippocratico, fu svolto da Alcmeone di Crotone (540-?), spesso avvicinato al Pitagorismo, anche se le fonti sul­ la sua vita e sul suo pensiero sono davvero molto incerte138. Egli fu dagli antichi conosciuto come studioso di tematiche naturali inerenti all’uomo. Schierandosi, da medico, contro ogni supersti­ zione, Alcmeone realizzò una accurata indagine delle cause dei mali basata sulla osservazione della fisiologia dell’organismo (ef­ fettuando peraltro le prime dissezioni animali del mondo greco), identificando nel cervello il centro delle principali attività vita­ li139. Egli scoprì infatti che gli organi di senso sono tutti connessi al cervello, sicché trasse la conseguenza che è compito appunto del cervello elaborare, organizzare e dotare di significato cono­ scitivo i dati sensoriali140. La conoscenza insomma non costituiva per Alcmeone una mera ricezione passiva di stimoli esterni, bensì una attività di costruzione mentale. La scoperta di Alcmeone, per una chiara comprensione dei pro­ cessi psicofisici dell’uomo, risultò molto importante. Occorre infat­ ti considerare che la tesi allora prevalente (in voga peraltro fino ad Aristotele) riteneva ancora che fossero il cuore, il sangue e le vene 136Rostagni 1924, p. 75. 137 Circa il ruolo della politica nel pensiero pitagorico, oltre ai datati Fritz 1940 e Minar 1942, rinviamo all’ottimo saggio recente di Bruno Centrane, in­ titolato Il Pitagora politico e la comunione dei beni nel primo Pitagorismo, in Fronterotta-Masi 2018, pp. 31-48. 138 Rinviamo, in merito, a Perilli 2001. 139Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, V ili, 83. 140Avendo peraltro presupposto che la musica si depositava nei nervi acu­ stici, egli formulò, secondo alcune testimonianze, la prima concezione della musica a scopi terapeutici. Per la musica come terapia nella Grecia antica, rin­ viamo al documentato Provenza 2016.

132

C a p ito lo III

a svolgere il ruolo centrale nei processi psicofisici, con conseguen­ te concezione della conoscenza come passiva ricezione della realtà da parte dell’uomo. Come ha scritto in merito giustamente Mario Vegetti, ciò che fece Alcmeone, ossia «distinguere fra sensazione e conoscenza, e collocare quest’ultima nel cervello, significava at­ tribuire un carattere attivo ai processi conoscitivi, concepirli come uno sforzo di appropriazione da parte del soggetto umano di un oggetto che in sé stesso permane opaco, e dunque va decifrato, in­ terpretato, pensato secondo ipotesi di organizzazione»141. Evidente il legame con la scienza ionica dei Milesi e di Senofane, la quale costituì, come si è mostrato soprattutto in Natura, un faticoso pro­ cesso di ricerca mediante il quale l’uomo, senza alcun aiuto divino, cercò di scoprire le cause prime della realtà. Con riferimento ad una testimonianza di Clemente Alessandri­ no, è probabile che Alcmeone si sia occupato anche di tematiche morali142, ma su questo tema è realmente difficile esprimersi. Parmenide Una concezione sostanzialmente razionale e morale dell’uomo emerge in Parmenide di Elea (515-445 c.a.)143. Autore di un poema anch’esso denominato, come quello di altri Presocratici, Sulla na­ tura144, in realtà della physis Parmenide si occupò soprattutto nella cosiddetta seconda parte del medesimo, quella meno conosciuta145. La prima parte del poema fu invece quasi tutta dedicata al tema della verità dell’essere, strettamente connesso al tema della neces­ sità della giustizia: una concezione onto-assiologica dunque, quel­ la di Parmenide, volta a ricercare insieme la verità ed il bene per

141 Vegetti 2018 d, p. 24. 142 In base ad essa, Alcmeone avrebbe detto che «è più facile guardarsi da un nemico che da un amico» (Stromata, VI, 16). In questo senso, fra gli altri, Di Giovanni 2013, p. 77. 143 Sulla figura di Parmenide, che ha negli ultimi anni conosciuto una gran­ de fioritura di studi (soprattutto, a dire il vero, per gli aspetti naturalistici e scientifici del suo pensiero, in passato trascurati), rinviamo a Corderò 1984, Couloubaritsis 1986, Aubenque 1987, Wiesner 1996, Curd 1997, Popper 1998, Robbiano 2006, Rossetti-Marcacci 2008, Palmer 2009, Ruggiu-Natali 2011, Ruggiu 2014, Sachot 2016 e Rossetti 2017. 144 Sulle motivazioni di questa denominazione, Rossetti 2006. Inerenti al tema anche Rossetti 2010, Gemelli Marciano 2007 b e Schmalzriedt 1970. 145 Rinviamo, per una sintesi della stessa, a Grecchi 2018 a, pp. 115-123 ed alla relativa bibliografia. Nei frammenti rimasti sono presenti anche diversi spunti embriologici.

Medici, storici, fisici

133

l’uomo, che mostra implicitamente, come appunto mostreremo, il carattere razionale e morale dell’anfhropos parmenideo. Dike, in effetti, fu intesa dal pensatore di Elea come la norma che guida il pensiero lungo binari veritativi universali, favorendo una buona realizzazione della vita. Parmenide scrisse in merito che Dike detiene le chiavi della porta dei sentieri del Giorno e della Notte146, ovvero dell’Essere e del Nulla, nel senso che comportan­ dosi secondo giustizia ci si comporta necessariamente in maniera conforme all’essere, ossia alla realtà per come onto-assiologicamente deve essere147. Peccato che questa realtà vera e buona, per Parmenide, fosse «lontana dal percorso abituale degli uomini»148. Per questo egli accettò l’incarico di legiferare ad Elea149. Dike, come in tutto il pensiero preclassico greco, lungi dall’es­ sere una mera convenzione sociale, era da Parmenide considerata come una norma universale rappresentativa del giusto modo di vi­ vere, valida per tutti gli uomini in ogni tempo e luogo, in quanto conforme a verità150. Come scrisse alcuni anni fa Enzo Paci, «la pro­ blematica dell’Eleatismo e dei naturalisti [...] è spesso umanisti­ ca»; «essere e non essere non sono in sé, ma in funzione dell’uomo: chi dichiara 0 decide se una cosa è o non è, è l’uomo»151. L’attenzione umanistica di Parmenide, come quella di Pitagora, si rivela comunque soprattutto da alcuni particolari della sua vita che ci sono giunti. Egli fu infatti legislatore della sua polis, volto a favorire nella stessa un ordine comunitario di fronte al disordine

146 Bi. Sulla effettiva esistenza di questa porta e di questa strada, Capizzi 1986 (p. 15) ricorda che, durante gli scavi archeologici condotti a Velia nella seconda metà del Novecento, emerse come esse fossero realmente esistite nei tempi in cui Parmenide scriveva; la strada, in particolare, attraversava i tre quartieri della città, esprimendone simbolicamente il legame. 147 B8. 148Bi. 1491 dati storici più accreditati riportano che Parmenide fu chiamato a svol­ gere il ruolo di legislatore ad Elea intorno al 480 a.C. (A12), quando la città si trovò innanzi una doppia minaccia di dissoluzione, esterna ed interna. Dall’e­ sterno, infatti, Ierone, tiranno di Siracusa, dopo aver battuto gli Etruschi nelle acque di Cuma, aveva proprio in quegli anni fondato una colonia nell’isola di Ischia, minacciando la sicurezza di diverse città campane, fra cui Elea; dall’in­ terno, la città di Elea, un po’ come la Atene dei tempi di Solone, era spaccata in diverse fazioni, con il rischio della disgregazione sociale e di una feroce guerra civile. Parmenide, per le sue qualità di sapiente, fu chiamato proprio a raffor­ zare l’unità della polis, favorendone l’armonia comunitaria. In merito, signifi­ cativi gli studi di Capizzi 1975. 150Rinviamo, in merito, a Paresce 2006. 151 Paci 1957, p. 66; p. 126.

134

C a p ito lo III

sociale prodotto dalla crematistica152. Coerente in questo senso la tradizione antica secondo cui Parmenide sarebbe stato seguace del pitagorico Aminia153, ed in base a cui le sue leggi furono considerate talmente giuste che i suoi concittadini si impegnarono a non modi­ ficarle per lungo tempo154. Per entrare comunque più nello specifico del suo poema, Par­ menide immaginò di essere guidato dalle dee che lo avevano pre­ scelto ad abbandonare «le case della notte» abitate dai «mortali» per giungere ad una porta155. Tale porta - chiara metafora di una apertura conoscitiva - era tale per cui da sempre e per sempre il suo superamento consentiva di separare il Giorno dalla Notte, os­ sia la luce dalle tenebre, l’essere dal nulla. La porta era protetta dalla dea Giustizia, che impediva l’accesso ai non prescelti. Sopra la Giustizia regnava comunque una prima dea, ossia appunto Verità (Necessità). Per comprendere correttamente la «via dell’Essere», è utile pensare che l’Essere fu verosimilmente per Parmenide, oltre che una struttura concettuale, anche una sorta di “metafora onto-assiologica”, volta ad indicare l’unità, la compattezza e la immutabi­ lità che devono caratterizzare la buona legislazione comunitaria. Essa infatti deve essere tale per consentire, all’interno della polis, una vita armonica e, all’esterno della polis, una adeguata capaci­ tà di difesa. Come ha ricordato in merito Antonio Capizzi, tutte le caratteristiche dell’Essere parmenideo non sono altro che «le ca­ ratteristiche inscindibili di tutto ciò che veramente esiste (e quin­ di non possono mancare - questo il sottinteso - in una polis che voglia veramente esistere e continuare ad esistere)»156. Per questo a suo avviso emergono dal poema di Parmenide le seguenti indica­ zioni politiche: «Se Velia vorrà sopravvivere, dovrà avere una costi­ tuzione unitaria ed immutabile, seppellire i vecchi rancori, evitare alleanze pericolose come quella cartaginese, e tollerare ogni classe sociale ed ogni opinione»157. La interpretazione di Capizzi, che pure presenta aspetti di forte arbitrarietà, coglie a nostro avviso, su questo punto, nel segno. Essa

152 Diogene Laerzio, Vite deifilosofi, IX, 23. In questa direzione soprattutto Capizzi 1986, pp. 35-36. ‘53 Al. 154 Plutarco, Adversus Colotem, XXXII, 1126 a-b. 155Diversi autori hanno come noto colto parallelismi fra il poema esiodeo e quello parmenideo: in merito, Pellikaan-Engel 1978. 156 In Bianchi Bandinelli 1977, voi. Ili, p. 425. 157 Id., p. 425.

Medici, storici, fisici

135

sostiene infatti che il poema di Parmenide costituì un invito rivolto ai concittadini a realizzare compiutamente la propria natura razio­ nale e morale all’interno della comunità sociale. Tale interpretazio­ ne è stata fatta propria, peraltro, anche da Massimo Bontempelli, per il quale «la nozione di Essere elaborata da Parmenide di Elea rappresenta, come il logos eracliteo, la concettualizzazione onto­ logica della [...] verità ultima della appartenenza comunitaria»158, la quale può mantenersi appunto solo se strutturata su contenuti razionali e morali di verità e giustizia, in perfetta continuità con la riflessione sapienziale di Esiodo, Solone e Pitagora. Eraclito Eraclito di Efeso (540-480 c.a.) è noto anch’egli, come Par­ menide, per essere l’autore di un solo poema Peri physeos159. Su quanto il titolo realmente si conformi al contenuto della sua opera, si dovrebbe forse maggiormente considerare la testimonianza di un grammatico alessandrino, Diodoto, verosimile lettore del testo originario, il quale affermò che in esso la natura fu utilizzata princi­ palmente come modello (paradeigma), ma che lo scritto eracliteo in realtà si occupava di tematiche politiche {peri politeias)160. Ad oggi, nonostante i vari tentativi recenti di porre ordine nel materiale rimasto, non siamo in grado di ricostruire compiutamente il testo dell’Efesino161. Da quello che rimane comunque, no­ nostante le note difficoltà interpretative dovute soprattutto alla sua oscurità162, ci sembra si possano cogliere alcune indicazioni piut­ tosto univoche circa la natura razionale e morale che caratterizze­ rebbe, anche per Eraclito, l’uomo. La sophia infatti, ossia la cono­

158Bontempelli 1989, p. 25. 159 Per uno sguardo generale sulla figura di Eraclito, rinviamo aU’ottimo Laurenti 1974, nonché a Spinelli 1984, Heidegger 1993, Dilcher 1995, Gadamer 2004 e Gianvittorio 2010. 160 Diodoto affermò inoltre che il libro di Eraclito era «una guida perfetta per la dirittura della vita» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX, 12-15). 161 Rinviamo in merito, per una buona sintesi di questi temi, a Fornari 2017. Scrive bene Fronterotta 2013 (p. XCV) che «siamo troppo poco informati, da un punto di vista storico e biografico, per poter suggerire una sistemazione organica dei materiali che sembrano appartenere alla sua riflessione etica, po­ litica e religiosa». 162Sia Socrate, sia Aristotele, sia Teofrasto parlarono della «oscurità» (skoteinotes) di Eraclito. In merito, significative le testimonianze di Diogene La­ erzio (Vite dei filosofi, IX, 6; IV, 22; Vili, 42; V ili, 55). Su questa tematica, rimandiamo a Pozzoni 2014.

136

C a p ito lo III

scenza veritativa della realtà163, era da Eraclito considerata come la condizione più importante per la buona vita dell’uomo, poiché solo essa poteva consentire di approcciarsi in modo corretto a dike164. Peraltro, nel famoso frammento B94, il filosofo di Efeso ricorda come «il Sole non oltrepasserà la misura assegnatagli, altrimenti lo sapranno ritrovare le guardie di Dike», in quanto la giusta misura nei comportamenti, dunque anche il rispetto per la natura, costi­ tuisce la suprema legge per l’uomo165. Le leggi naturali che garanti­ scono la buona vita comunitaria erano infatti fondamentali anche per Eraclito, tanto che a suo avviso «il popolo deve lottare in favore della legge come per le mura della città»166. Il nomos per cui Eracli­ to invitava a combattere era in effetti assimilabile allo stesso logos, termine caratterizzato da polivalenza semantica ma che nell’Efe­ sino significava, insieme, ragione universale, linguaggio dialogico e calcolo comunitario, tutti contenuti necessari alla buona vita167. Alcuni ottimi studiosi, anche recentemente, hanno ribadito la tesi di un Eraclito “relativista”, sia sul piano ontologico che gnoseo­ logico, per la famosa tesi eraclitea - ma, come noto, non di Eraclito - secondo la quale «tutto scorre (panta rei)»168. Questa tesi farebbe dell’Efesino una sorta di precursore poetico della Sofistica, sosteni­ tore implicito di una sostanziale indefinibilità dell’uomo. Ciò por­ terebbe tuttavia a concludere che non vi è alcuno spazio, nella sua teoria, per una visione stabile della natura umana, essendo l’uomo, come ogni altro ente, qualcosa di continuamente mutevole, come accade appunto all’acqua di un fiume169. Vi sono però, nell’opera dell’Efesino, diversi contenuti che vanno in direzione opposta. Ci sembra infatti che, nella sua ottima interpretazione comples­ siva, abbia pienamente ragione Francesco Fronterotta ad afferma­ re che, in Eraclito, l’uomo «il quale si colloca dal punto di vista del logos che coglie l’unità del tutto, non sembra soggetto a nessuna forma di relativismo»170. In Eraclito, come in parte in Pitagora, l’a­

163B22; B35; B40. 164 «Massima virtù è essere saggi, e la sapienza consiste nel dire e nel fare cose vere, comprendendole secondo la loro natura» (B12). «A tutti gli uomini è data la possibilità di conoscere sé stessi ed essere saggi» (B116). 165 «La dismisura va spenta come le fiamme di un incendio» (B43). 166 B44. 167Come riteneva Giannantoni 1969 (voi. I, p. 195), in Eraclito il termine lo­ gos risulta fra i pochi sostanzialmente intraducibili, per assenza di equivalenti univoci nella lingua italiana. 168 Rinviamo ad esempio a Jori 2017, pp. 60-75. 169 B49 a. 170Fronterotta 2013, p. LXV.

Medici, storici, fisici

137

nima inizia già in effetti a presentarsi come la stabile sede del lo­ gos, tema che condurrà l’Efesino a tematizzare la sostanziale unità del genere umano e la necessità della conoscenza di sé stessi171. Anche sul famoso frammento B45172, assai torturato dagli inter­ preti e che ha sovente fatto ritenere Eraclito un pensatore misti­ co-aurorale, ha a nostro avviso scritto correttamente Fronterotta che, tramite esso, l’obiettivo dell’Efesino sembra piuttosto «quello di intraprendere un esame volto alla determinazione della natura dell’anima attraverso la comprensione del suo logos»173, non di af­ fermare la inconoscibilità dell’anima e del logos. Per Eraclito, come per larga parte della tradizione precedente, risulta dunque da più indizi presente la implicita concezione di una natura insieme razionale e morale dell’uomo174. L’Efesino affermò infatti, fra le altre cose, che «se la felicità consistesse nei piaceri del corpo, dovremmo considerare felici i buoi quando trovano foraggio da mangiare»175. La felicità, tuttavia, non dipende dai beni di cui si fruisce 0 dai piaceri del corpo176, bensì da precise qualità dell’anima CYethos)177. Per questo occorre temperare sia la tracotanza che il desiderio178. L’umanesimo eracliteo fu rilevante anche sul piano politico, nel solco dell’umanesimo anticrematistico presente in pressoché tut­ to il pensiero presocratico179. Eraclito scrisse infatti - ripetendo il concetto in più occasioni - che «bisogna seguire ciò che è uguale per tutti, ossia ciò che è comune»180. Si è spesso ritenuto Eraclito pensatore aristocratico, come tale non convinto della natura razionale e morale degli uomini tutti. In realtà, come ha scritto Giovanni Casertano con riferimento soprat­ 171B115; B116; B101. 172 «I confini deU’anima non potrai mai raggiungerli, per quanto tu proceda fino in fondo nel percorrere le sue strade: così profondo è il suo logos». 173 Fronterotta 2013, p. 231. Sulla tematica del logos in Eraclito, rimandia­ mo a Brann 2011. 174 Fronterotta 2013 (p. XLIX) scrive giustamente, sottolineando la con­ tinuità della cultura greca originaria, che «la riflessione di Eraclito è natural­ mente influenzata dall’eredità culturale dei poeti e dei saggi della tradizione greca arcaica, e, d’altra parte, dagli esiti della ricerca fisico-naturalistica della prima filosofia ionica». 175 B4. 176B9; B13. 177 B119. 178 B43; B85. 179 «Pluto agisce da cieco, in quanto è causa non di virtù, ma di vizio» (B125 a). 180 B2. In questo senso soprattutto Capizzi 1979.

138

C a p ito lo III

tutto ai frammenti B113 e B116, «la sapienza di Eraclito, anche se si presenta come qualcosa di non facilmente e da tutti raggiungibi­ le, non esclude per principio che possa essere acquisita da tutti: e sotto questo aspetto essa si differenzia nettamente dalla sapienza di tipo oracolare e misterico, della quale pure egli assume toni e accenti. Tutti gli uomini, infatti, hanno la possibilità, purché eser­ citino la propria intelligenza e il proprio pensiero, di giungere alla conoscenza vera»181, ossia a quella conoscenza in grado di condurre alla propria realizzazione e dunque al raggiungimento della mag­ giore possibile felicità. Empedocle La composita figura di Empedocle (492-432 c.a.), medico, filo­ sofo, poeta, politico, è stata variamente interpretata dagli studiosi, che hanno spesso fornito letture opposte della sua opera182. Pur avendo egli prestato una grande attenzione alla physis, l’uomo, in­ teso come ente più rappresentativo di quel grande organismo vi­ vente costituito dal cosmo, ebbe una discreta presenza nella sua opera. I frammenti che la tradizione assegna al suo poema intitola­ to Purificazioni (Katharmoi)183 possiedono infatti, ad una attenta interpretazione, un contenuto di tipo prevalentemente etico, nella forma di esortazioni rivolte ai concittadini. Non è inoltre casuale, in merito, che le forze universali che per Empedocle avvicinano o allontanano gli elementi primi (acqua, aria, terra, fuoco) di cui si compone il cosmo, furono da lui denominate Amore e Odio. Que­ ste forze non sono infatti nel suo discorso interamente riducibili 181 Casertano 2009, p. 115. 182 Significativo in merito il volume collettaneo Casertano 2007. Sulla figu­ ra di Empedocle, oltre all’ottimo Laurenti 1999, rimandiamo a Bollack 19651969, 0 ‘ Brien 1981, Inwood 1992, Rossetti-Santinello 2004 e Trépanier 2004. 183 Si sono talvolta pensate le presunte due opere di Empedocle (Peri physeos e Katharmoi) in opposizione, per la presenza di caratteri più scientifici nella prima e più mistici nella seconda. In realtà i titoli dei due poemi appar­ vero solo in epoca ellenistica, e verosimilmente non sono originali. È discusso peraltro anche che si tratti di due libri distinti, dato che Aristotele cita tutti i testi di Empedocle genericamente come Physika, ed il recente Papiro di Stra­ sburgo (su cui Martin-Primavesi 1999), che riunisce insieme frammenti con­ siderati prima sia dell’uno che dell’altro poema, induce a pensare che forse vi fu un’unica opera, forse divisa in due sezioni come quella di Parmenide. Scrive comunque correttamente Casertano (in Tortorelli et al 2000, p. 220) che non vi è «necessariamente un contrasto tra le due opere [...] la complessa persona­ lità empedoclea comprende tratti e caratteristiche che solo ad una coscienza posteriore possono apparire in contraddizione».

Medici, storici, fisici

139

ai principi fisici di attrazione e repulsione, in quanto sono dotate di un più profondo significato morale, essendo l’armonia dell’A ­ more, per il pensatore agrigentino, un contenuto assiologicamente positivo (per l’uomo e per il cosmo), e la disarmonia dell’Odio un contenuto assiologicamente negativo (per l’uomo e per il cosmo). La storia dell’uomo è in effetti per Empedocle strettamente in­ corporata nella storia del cosmo, all’inizio strutturato come regno di Amore, sferico e perfetto. L’intervento di Odio, altra forza pri­ mordiale, indusse tuttavia la disgregazione e la lotta implacabile di ogni radice - ossia di ogni elemento costitutivo della realtà - con le altre. Da qui il ciclo Amore-Odio, che per Empedocle si ripete nel cosmo, dunque anche fra gli uomini, all’infinito con ferrea ne­ cessità, creando una alternanza di armonia e disarmonia. Molto significativo in merito il frammento B26184, in cui si afferma che la disarmonia prevale fra gli uomini fino a quando la separazione prevale sulla concordia, sicché per favorire la philia è necessario favorire quanto più possibile l’armonia nel contesto sociale. Come i suoi predecessori, Empedocle intuì che la causa principale del con­ flitto nelle questioni umane era da ricercare nelle modalità sociali crematistiche, dominanti anche nel suo tempo, che occorreva per­ tanto cercare di arginare. Pur non distinguendo in modo netto l’anima dal corpo, Empe­ docle difese inoltre una concezione dell’anima assai simile a quella orfico-pitagorica. L’uomo doveva infatti, a suo avviso, purificarsi nella esistenza terrena, ossia vivere in modo ascetico ed etico, per rendersi il più possibile simile al divino. Solo questo comporta­ mento lo avrebbe condotto alla maggiore felicità possibile e forse alla salvezza. L’uomo, certo, non poteva giungere alla compiutezza razionale e morale del divino, ma non per questo doveva cessare di porre in atto la propria natura, ossia di ricercare la verità ed il bene. Doveva, anzi, lottare contro tutte quelle tendenze che lo osta­ colavano in rapporto a questo compito, fossero esse individuali o sociali185*18 . È presente inoltre nel pensiero di Empedocle una stretta con­ nessione fra teoria e prassi, come mostra il fatto che egli escogitò,

184 «A vicenda predominano [Amore e Odio] in ricorrente ciclo, e fra loro si distruggono e si accrescono nella vicenda del destino. Son dunque questi che sono [gli elementi], e passando gli uni attraverso gli altri divengono uomini ed altre stirpi ferine, talora per l’Amicizia convenendo in unità d’armonia, talal­ tra invece separatamente ognuno portati dalla inimicizia della contesa, finché dopo essersi accresciuti nell’unità del tutto, ancora si inabissano». 188Al.

140

C a p ito lo III

in ambito agricolo, ingegnosi stratagemmi per alleviare la fatica del duro lavoro nei campi, e, in ambito medico, per ridurre le molte sofferenze degli uomini. Empedocle infatti sapeva che la vita uma­ na era composta in larga parte di dolori, mali e sofferenze186, che i dolori offuscano il pensiero187, e che solo una conoscenza vera po­ teva consentire all’uomo di alleviarli188. Nei frammenti B22, B130, B136-137 in maniera particolare, Empedocle lasciò inoltre chiara­ mente intendere che, come rimedio generale ai mali, nulla vi era di meglio che il favorire, nella maniera maggiore possibile, una vita armonica tra tutti gli enti che abitano la terra. A tale fine era ne­ cessaria anche la politica dato che, come ha scritto correttamente Casertano, per Empedocle «la conoscenza, che è il fine più alto che un uomo possa proporsi, non è fine a sé stessa, e non è limitata a pochi: ha e deve affermare una valenza etica, ed anche politica, per il concreto miglioramento della vita umana»18 189. 17 6 La implicita presenza del carattere razionale e morale della na­ tura umana nel pensiero di Empedocle, è stata sottolineata anche da uno studioso pur attento soprattutto agli aspetti più mistico-au­ rorali del pensiero dell’Agrigentino, ossia Angelo Tonelli: «L’aspi­ razione di Empedocle è vivere in un mondo in cui non vi sia spazio per Contesa, e quindi per il dolore e la violenza [...]. Che egli aspi­ rasse a tradurre anche in realtà politica questo desiderio di armo­ nia e di pace, lo rivelano i suoi ideali di nemico della prevaricazione e della ingiustizia»190, e di fautore della democrazia. Anassagora Anassagora di Clazomene (500-428 c.a.) visse e svolse la pro­ pria attività, sin dagli anni giovanili, pressoché sempre ad Atene, divenuta nel frattempo centro eminente della Grecità191. Qui fu consigliere di Pericle almeno fino al 437, quando, verosimilmente per i forti contrasti sociali che scoppiarono nella polis, fu condan­ nato per empietà. L’opera di Anassagora fu prevalentemente di tipo fisico, per cui le sue considerazioni sull’uomo rinvenute, ad eccezione di alcune

186 B124. 187B110. 188B129; B132. 189In Tortorelli Ghidini et al. 2000, p. 234. 190Tonelli 2009, p. 78. 191 Per uno sguardo di insieme sull’opera di Anassagora, rinviamo a Zafiropulo 1948, Lanza 1969, Romano 1974, Schofield 1980 e Silvestre 1989.

Medici, storici, fisici

14 1

analisi dei fenomeni della percezione e della conoscenza192, sono piuttosto scarse. Come ha scritto in merito F. Forcignanò, «l’uo­ mo, la sua conoscenza e il suo agire sembrano esclusi dall’inda­ gine anassagorea»193, tanto che «non abbiamo notizie di un’etica anassagorea». Ciò nonostante, da diverse «fonti emerge la figura di un uomo dalla grande curiosità, che si è dedicato indefessamente alla ricerca e alla conoscenza»194, sicché si deve desumere che egli ponesse quanto meno nella ragione la caratteristica più propria dell’uomo, in grado di realizzarne l’essenza195. La tesi forse centrale, o comunque quella più discussa trattando dell’uomo in Anassagora, risulta tuttavia quella - su cui si soffer­ mò come noto anche Aristotele196 - secondo cui «l’uomo è il più sapiente dei viventi perché ha le mani»197. La presenza delle mani, quindi il fare tecnico, avrebbe infatti per Anassagora fortemente determinato l’evoluzione della intelligenza umana198. Sul piano an­ tropologico, se ne deduce che per il Clazomenio l’uomo era in certo senso un animale “tecnico”, in grado al contempo di pensare ed operare. Ed anzi, meglio, di pensare proprio in quanto opera. Evi­ dente in tal senso l’influsso della attività tecnico-artigianale della Atene dell’epoca. Su questa tematica Anassagora riprese verosimilmente le tesi di Alcmeone di Crotone e di alcuni medici ippocratici, nella parte in cui, ponendo il cervello come organo coordinatore del corpo, attri­ buivano all’uomo una eminente capacità tecnica. Anassagora affer­ mò inoltre, recuperando i contenuti del mito di Prometeo, che «in

192A92. 193In Trabattoni-Vegetti 2016, voi. I, p. 160. 194Id., p. 161. 195 Un pensatore talvolta associato, per le sue teorie fisiche, ad Anassagora è Diogene di Apollonia (su cui Zafiropulo 1957 e Laks 1983), il quale dedicò un intero scritto alla natura umana, ma di cui è tuttavia rimasto assai poco. In ogni caso, nella sua grande opera Sulla natura egli esibì una enorme cono­ scenza della anatomia umana, affrontando peraltro il problema biologico della procreazione. L’opera rimasta di questo autore è ottimamente commentata in Laks 2008. 196 De partibus animalium, 687 a 7 ss. Per Aristotele, contrariamente a quanto ritiene Anassagora - per il quale l’uomo è divenuto intelligente grazie all’uso delle mani - , le mani sono state fornite dalla natura all’uomo in quanto intelligente, quindi in grado di usarle, non viceversa. 197A102. 198 Su questa tesi “materialistica”, iniziata verosimilmente con Democrito (B5) e ripresa nel mito platonico del Protagora, si soffermò anche Vitruvio, per il quale grazie alle mani l’uomo diventò fabbro di sé stesso {De architectura, II, 6).

14 2

C a p ito lo III

tutto siamo inferiori agli animali: sappiamo però usare esperienze, memoria, sapere e tedine»1" . Cervello, mani e linguaggio erano dunque per il Clazomenio ciò che aiutava l’uomo a superare la propria debolezza di dotazio­ ni istintuali e di difese, come colse anche Platone nel famoso mito del Protagora. In tale mito tuttavia - cosa che non appare invece nell’opera superstite di Anassagora - una antropologia di tipo me­ ramente tecnico era ritenuta insufficiente per garantire la buona vita umana, essendo la natura dell’uomo caratterizzata da una più complessa struttura morale. Il carattere essenzialmente “tecnico” dell’uomo che sembra emergere dai frammenti rimasti di Anassagora non si oppone co­ munque, a nostro avviso, alla tesi secondo cui l’uomo risulta essen­ zialmente un ente razionale19 200. Pur senza occuparci della teoria fìsi­ ca di Anassagora, su cui già ci siamo soffermati in Natura201, non si può infatti tacere, in questo senso, della centralità da lui attribuita al Nous nel cosmo, ed in particolare in tutti quegli enti - in primis l’uomo - che, composti dei medesimi “semi”, lo pongono in essere. Secondo anche la testimonianza socratico-platonica, del resto, il Nous costituì la radicale innovazione del naturalismo di Anassa­ gora rispetto alla precedente tradizione presocratica202. Non è un caso, forse, che tale riflessione si chiuda proprio con Anassagora, e che si pongano con lui le basi, grazie al ruolo fondamentale della

199 B21 b. Come ha sottolineato anche Vegetti 1979 (p. 130), in Anassagora «il primato della tecnicità nella condizione umana diviene marcato». 200 Come scrive giustamente Vegetti 2018 d (pp. 27-28), «Anassagora ri­ prende naturalmente la linea tracciata da Senofane ed Alcmeone, quando con­ cepisce la conoscenza come ricerca e il cervello come suo organo centrale. Ma vi reca un’importante innovazione, affermando che la conoscenza si sviluppa attraverso l’esperienza, la memoria, il sapere e la tecnica. L’esperienza e la sua accumulazione nella memoria sono quindi le fonti del sapere. Ma il sapere non è fine a sé stesso, anzi culmina nelle applicazioni tecniche [...]. Anassagora non esprime qui soltanto l’ideologia della città giunta al suo pieno sviluppo; egli si ricollega piuttosto direttamente a quel demos artigianale che pone ormai la sua candidatura, contro l’aristocrazia, ad una egemonia di fatto e di diritto sul­ la città stessa. Non fa meraviglia, allora, che nell’astronomia di Anassagora il cielo non sia più popolato da astri divini ma da pezzi di metallo incandescente, proprio come queli che il fabbro maneggia nella sua bottega; ed è logico dun­ que che Anassagora sia stato il primo bersaglio di una offensiva aristocratica». 201 Grecchi 2018 a, pp. 135-143. 202 Fedone, 97 e ss. Testimonianza conforme anche in Aristotele, Metafisi­ ca, 985 a 18 ss.

Medici, storici, fisici

143

Intelligenza, per la tematizzazione del ruolo ordinatore dell’anima che diverrà un perno delle dottrine sia di Socrate che di Platone203. Democrito Democrito (460-370 c.a.)204 è noto soprattutto per essere sta­ to il sistematizzatore della dottrina atomistica fondata da Leucippo2052 . La sua opera, che si compose di numerosi libri, fu caratte­ 6 0 rizzata principalmente da studi di carattere fisico-naturalistico205. Per quanto riguarda l’uomo, nonostante a suo avviso l’anima fosse della stessa natura atomica del corpo, Democrito giunse tuttavia a sostenere la sua preminenza rispetto al corpo, invitando a curare i beni dell’anima più dei beni del corpo207. Dubbioso circa la possibilità di giungere ad una conoscenza compiuta della verità208, in quanto considerava la sensazione - pri­ ma fase della conoscenza - soggettiva ed opinabile, il “materiali­ sta” Democrito affermò che, sul piano epistemologico, la priorità andava indubbiamente attribuita alla conoscenza intellettiva209.

203 Sedley 2011 ha attribuito ad Anassagora una teoria finalistica antropo­ centrica. A suo avviso (p. 43), infatti, «in ultima analisi sembra implicito nel testo di Anassagora che il nous costruisca e, per così dire, coltivi i mondi in pri­ mo luogo allo scopo di generare gli esseri umani. La teleologia mostra di avere una propensione antropocentrica». Su questa attribuzione non vi è tuttavia concordanza fra gli interpreti. 204 Una sintetica trattazione commentata di alcuni elementi biografici di Democrito, è in Solaro 2012. 205 Sulla figura di Leucippo, per la scarsità di informazioni disponibili, non è facile esprimersi (un buon riferimento è comunque Taylor 1999). Rinviamo, per una accurata raccolta dei testi dei primi Atomisti, a Leszl 2009. Sull’Atomi­ smo antico in generale rimandiamo ad Alfieri 1979, Romano 1980, Salem 1997, Morel 2000 e Gemelli Marciano 2007 a. 206Per uno sguardo di insieme sull’opera di Democrito, rinviamo a Caserta­ no 1983 b, Salem 1996, Morel 1996 e Cartledge 1998. 207 Un agile volume di sintesi, che pone correttamente insieme la “filosofìa della natura” e la “filosofia dell’uomo” di Democrito, è Martini 2002. Sulle fonti della antropologia democritea rimandiamo invece a Cole 1967 e Bertelli 1980. 208 g vero gjjg Democrito afferma che la verità si trova nell’abisso, ma è anche vero che a suo avviso «la verità è nell’apparenza» (B69), sicché si può scoprire. 209 Casertano 2009 (p. 195) ha parlato giustamente di «notevole influenza di Parmenide su Democrito. Tra sensi e ragione vi è dunque un rapporto di continuità; vi è anche un salto qualitativo, ma comunque non vi è mai una frattura, sia perché la conoscenza razionale deve muovere da quella sensibile, sia perché deve ritornare a quella sensibile nel darne, appunto, le ragioni e le giustificazioni».

144

C a p ito lo III

Come per il suo predecessore Leucippo, peraltro, anche per Demo­ crito la conoscenza delle cause dei fenomeni costituiva la maggiore fonte di gioia, ossia l’attività che maggiormente contribuiva alla re­ alizzazione della sua natura razionale di uomo210. Di Democrito, come detto, si centralizza di solito la dottrina atomistica, per cui, per il nostro tema, si ricorda sovente la presen­ za nella sua opera di una teoria “evolutiva” simile a quella che si trova abbozzata in Anassimandro, secondo cui la vita nacque sulla Terra a partire dalla iniziale indistinzione delle specie211. Democrito svolse tuttavia alcuni passi ulteriori rispetto al suo predecessore, affermando che, dopo essersi formati, i primi uomini condussero per molto tempo una vita senza leggi simile a quella degli animali feroci. Per difendersi dai medesimi, essi impararono a collaborare, spinti dalla ricerca di utilità, creando via via istituzioni stabili che consentirono loro di elaborare un linguaggio articolato (ciascun gruppo in modo autonomo). Pian piano, gli uomini iniziarono ad accantonare riserve, ad apprendere le varie tecniche agricole e ad impadronirsi dell’uso del fuoco, grazie alle possibilità offerte dalle mani e soprattutto dalla mente. Con lentezza, nel tempo, vennero a formarsi la famiglia e le istituzioni politiche212. Rilevanti ai nostri fini risultano inoltre i numerosi frammenti eti­ ci di Democrito rimasti213. Essi, per quanto fra loro non strettamente collegati, mostrano chiaramente che per il filosofo di Abdera l’uomo non possedeva solo una natura razionale, ma anche una natura mo­ rale. Per quanto l’opera etica di Democrito non possa propriamente definirsi come una filosofia morale214, dai frammenti rimasti si evin­ ce chiaramente che a suo avviso, per quanto in maniera differente

210B118. In Grecchi 2018 a, pp. 143-150, vi è un approfondimento di queste tesi dal punto di vista naturalistico. 211 Diodoro siculo, Biblioteca storica, I, 8. 212 Esiste, oltre a quella di Diodoro Siculo, un’altra testimonianza, quella del filologo bizantino Giovanni Tzetzes (1110-1180 c.a.), contenuta negli Scolii ad Esiodo, a cui è solitamente attribuita una minore validità. La variante prin­ cipale di questa seconda versione è costituita dalla condizione originaria non ferina dell’uomo. 213 Rinviamo in merito a Luria 2007. 214 Se, come Reale 2001 (p. 60) scrive giustamente, «la filosofia morale si costituisce riportando le norme di vita dell’uomo a un principio», e se «questo principio non potrà che essere dato dalla natura o essenza dell’uomo» (Id., p. 60), implicitamente esso fu presente, a nostro avviso, nella riflessione del filo­ sofo di Abdera. In generale, ci pare eccessivo il giudizio di Reale secondo cui le riflessioni presocratiche sarebbero solo riflessioni «slegate le une dalle altre», «non sorrette da un principio», e quindi «non giustificate» (Id., p. 62).

Medici, storici, fisici

145

rispetto agli altri Presocratici, l’uomo deve esercitare la propria ra­ gione e la propria etica comunitaria per realizzare la propria essenza. Per Democrito, infatti, «il vero e il bene sono identici per tutti gli uomini»215, sicché devono essere ricercati da tutti in modo simile, al di là delle specifiche inclinazioni di ciascuno216. Democrito, dunque, sostenne il carattere razionale e mora­ le della natura umana. Egli infatti affermò che la felicità è il fine dell’uomo217, che essa appartiene all’anima218e che «gli uomini non sono resi felici né dalle doti fisiche né dalle ricchezze, ma dalla ret­ titudine e dalla avvedutezza»219. Egli manifesta inoltre una delle prime professioni di cosmopolitismo della Grecità: «Ogni paese della terra è aperto all’uomo saggio: perché la patria dell’animo virtuoso è l’intero universo»220. Notevoli sono anche i frammenti B250 («Soltanto se c’è la concordia, si possono compiere le grandi opere») e B251 («La povertà sotto un governo democratico è tanto preferibile al cosiddetto benessere che offrono i governi tirannici, quanto è da preferirsi la libertà alla servitù»), che pongono in luce lo spirito comunitario del nostro autore221. Democrito, da studioso che tenne in grande considerazione la struttura fisica degli enti e dei fenomeni, ricercò anche la spiegazio­ ne fisiologica dei processi psichici che caratterizzano la vita degli uomini222. Più interessante risulta tuttavia, dal nostro punto di vi­ sta, rimarcare come questo processo cognitivo dovesse a suo avviso essere posto al servizio della buona vita. Egli infatti, tra i Presocra­ tici, fu tra i primi a rendersi conto che gli uomini hanno un fine in vista del quale fanno tutto, che consiste nella ricerca della felicità. Per realizzare la stessa devono porre in essere comportamenti con­ formi alla loro natura223, i quali producono anche una stabile tran­ quillità dell’anima (euthymie).

215 B69. 216 Come chiosa Spinelli (in Trabattoni-Vegetti 2016, voi. I, p. 189), per raggiungere Yeudaimonia Democrito consiglia di rivolgersi unicamente verso «valori davvero buoni e veri, universalmente validi». 217 B69. 218B170. 219 B40. 220B247. 221 Significativo anche il seguente frammento: «In un pesce in comune, non ci sono spine» (B151). 222 Con le parole di Spinelli, (in Trabattoni-Vegetti 2016, voi. I, p. 189) «il nostro essere ben indirizzati moralmente non può che coincidere con il modo corretto in cui noi siamo e sussistiamo sul piano fisico-materiale». 223 B69.

146

C a p ito lo III

Evidente dunque come in Democrito, al di là del naturalismo di fondo tipicamente presocratico, si riprendano in sostanza i conte­ nuti sapienziali della tradizione precedente, incentrati sul rispetto della giusta misura etica nei comportamenti da praticare. Il metron in particolare risulta centrale nel filosofo di Abdera, in quanto la nostra anima deve evitare movimenti eccessivi, stabilizzando così i suoi atomi verso l’equilibrio. Da qui gli inviti ad accontentarsi di ciò che si ha, ad evitare la pleonexia ed a non desiderare l’impos­ sibile224. Necessarie anche per Democrito, come poi per Aristote­ le, sia la philia, ossia l’amicizia fondata sulla affinità del sentire225, sia la didache, ovvero lo sforzo educativo che «trasforma l’uomo e trasformandolo ne costituisce la natura»226. La natura umana è dunque anche per Democrito cultura, come prova il fatto che l’e­ ducazione può addirittura, a suo avviso, attribuire alla psyche una migliore struttura materiale227. L’umanesimo di Democrito, come quello di diversi altri autori greci, risulta inoltre fortemente caratterizzato in senso anticrematistico, come testimoniano alcuni dei suoi più famosi frammenti: «Accumulare troppe ricchezze per i figli è un pretesto che maschera avidità»228; «Un desiderio di ricchezza che non venga mai limitato dalla sazietà è molto più penoso della povertà estrema»229; «Impara a donare agli indigenti ciò che possiedi»230; «Non potrà mai essere retto chi si lascia completamente sopraffare dalle ricchezze»231; «Se tu non bramerai di avere molte cose, il poco ti sembrerà molto»232; «La ricchezza conforme a natura consiste nel pane, nell’acqua e nei vestiti per il corpo. Invece, la ricchezza superflua è legata al-deside­ rio smisurato»233. Ed a lungo si potrebbe continuare234.

224 B70-B74. 223 Bl86. 226 B33. 227 B138-139.

228 B626. 229 B631.

230B635. 231 B639.

232 B653. 233 B750 a. 234 Scrive correttamente Zeppi 1962 (p. 505) che il fatto che «l’etica demo­ critea sia rigorosamente antiegoistica e comunitaria, è largamente documen­ tato».

IV

SOFISTI, RETORI, SOCRATE E LE SCUOLE SOCRATICHE

1. Note generali Unificare nel titolo di un capitolo Sofisti, Retori, Socrate e i So­ cratici, risulta sicuramente piuttosto ardito1. Ciò in quanto, in primo luogo, risulta problematico definire cosa sia la Sofistica, es­ sendo i vari Sofisti caratterizzati da profili fra loro anche piuttosto differenti. In secondo luogo, risulta difficile distinguere tra Sofisti e Retori, sicché ad esempio è arbitrario includere Gorgia in questa seconda categoria, e non nella prima (o in un’altra propriamente filosofica). In terzo luogo, tra i cosiddetti Socratici vi sono molte differenze: pensiamo, per menzionare solo le due scuole socratiche più significative, alla grande distanza esistente fra scuola cinica e cirenaica. In quarto luogo - last but not least - , inserire la figura di Socrate a fianco dei Sofisti, nonostante già nella antichità egli ven­ ne talvolta assimilato a queste figure2, risulta sicuramente proble­ matico, dato che, almeno nella rilevante interpretazione platonica, Socrate fu il principale avversario dei Sofisti. Detto questo, passiamo ad analizzare con maggiore dettaglio le scuole ed i pensatori di cui abbiamo poc’anzi accennato.

1 Lo era, del resto, anche unificare epici, lirici e tragici, così come storici, medici e fisici. Abbiamo tuttavia cercato di fornire le argomentazioni a suppor­ to di queste unificazioni le quali, come del resto le stesse “etichette”, possiedo­ no un mero scopo di “catalogazione” ai fini di una più fruibile lettura del testo. 2 Ciò accadde soprattutto, come noto, nell’opera di Policrate, così come ne Le nuvole di Aristofane. Su questo autore, ed in generale sulla commedia antica, rinviamo a Cornford 2007, Zimmermann 2016 e Canfora 2016.

14 8

2.

C a p ito lo I V

La Sofistica e la Retorica

Con il termine “Sofistica” si intende, di solito, l’opera cultura­ le di un gruppo di pensatori comprendente Protagora, Antifonte, Ippia, Prodico, Crizia, Seniade, Licofrone, Trasimaco ed alcuni al­ tri3. Tale opera, di cui rimangono pochi frammenti e diverse te­ stimonianze, spesso ostili4, risulta caratterizzata da alcuni tratti comuni, che sarà bene evidenziare - pur con le precisazioni già fat­ te - per attribuire sostanza a questa categoria interpretativa. Innanzitutto, il termine “sofista” indicava nei tempi più antichi il “sapiente”, ovvero colui che possiede una sophia, essenzialmente di tipo tecnico5. Nel V secolo, ossia nell’epoca in cui cominciaro­ no ad essere attive queste figure, il significato del termine iniziò a cambiare6. Esso, appunto, cominciò ad indicare quegli insegnanti itineranti fornitori a pagamento ai giovani aristocratici7 di cono­ scenze tecniche, ossia principalmente economiche, retoriche e giu­ ridiche, finalizzate alla profittevole gestione del patrimonio privato ed al successo nella vita pubblica. I Sofisti introdussero dunque due forti anomalie nella tradizione ellenica. La prima era quella per cui il sapiente, solitamente radica­ to nella propria polis, divenne itinerante. La seconda era quella per cui il sapiente, che solitamente non vendeva le proprie conoscenze (essendo appunto il sapere comunitario un bene pubblico, non un bene privato), si trovava ora a richiedere, per fornire ad alcuni ric­ chi privati un vantaggio competitivo, una remunerazione8. La differenza fra i sapienti/filosofi come Socrate, che 'fra breve analizzeremo, ed i Sofisti, non riguardava dunque il tipo di atti­ 3 Un elenco pressoché completo dei Sofisti si trova nelle Vite dei sofisti di Flavio Filostrato (Civetti 2002). Per uno sguardo generale sui Sofisti, rinviamo, fra gli altri, a Guthrie 1971, Classen 1976, Kerferd 1988, Untersteiner 1996, Dillon-Gergel 2003 e Bonazzi 2010. 4 Come scrive Kerferd 1988 (p. 9), «gran parte di quello che sappiamo dipende dalla trattazione profondamente ostile fattane da Platone». 5 Su questa tematica, fra gli altri, Casertano 1971 e 2004. 6 Già Platone (Sofista, 218 c-d) mise in evidenza il rischio che con questo termine ciascuno potesse intendere cose fra loro anche molto diverse. 7 Aristofane, ne Le nuvole, presentava i Sofisti come ingannatori spregiu­ dicati, tali da stravolgere, coi propri discorsi capziosi, la verità e la giustizia (vv. 892-894) al solo fine di accaparrarsi ricchi giovani nuovi clienti. 8 Sul tema della remunerazione dei Sofisti, rinviamo a Blank 1985. Anche Li Vigni 2009 (p. 15) rimarca che «non era il compenso in sé stesso a suscitare scandalo - esso era previsto per medici, poeti, pittori, scultori - , ma il fatto che esso fosse richiesto per un insegnamento che si prevedeva rivolto alla forma­ zione del buon cittadino». In tal senso anche Capizzi 1990, pp. 93-94.

Sofisti, Retori, Socrate e le Scuole socratiche

14 9

vità posta in essere, che era sempre di insegnamento (anche se il Socrate platonico dichiarava di non sapere nulla, dunque di non insegnare nulla), ma il suo contenuto ed il suo fine: privato e par­ ticolare per i Sofisti, pubblico ed universale per Socrate, il quale come noto era attivo nella ricerca del bene comune, e che per que­ sto non richiedeva alcuna remunerazione privata. Siccome privato e pubblico, particolare ed universale sono contenuti/fini opposti, opposta era anche l’essenza delle due attività poste in essere, che come tali a nostro avviso non dovrebbero essere assimilate9. Per rimanere comunque, per ora, unicamente ai Sofisti, gli aspetti comuni a queste figure furono i seguenti: a) l’attività didat­ tica; b) il viaggiare di città in città; c) il pagamento richiesto per la loro opera. L’oggetto specifico dell’insegnamento variò come noto da sofista a sofista: Protagora, ad esempio, si concentrò molto sulle tematiche politico-economiche, mentre Ippia si dichiarò maestro di varie discipline. La maggioranza dei Sofisti, specie quelli di epo­ ca successiva, si incentrò invece sull’arte retorica, spesso identi­ ficata con Veristica, ossia con l’arte di primeggiare nei discorsi uti­ lizzando ogni tipo di argomento, anche capzioso10. In generale, i Sofisti si caratterizzarono per un atteggiamento di rottura verso la tradizione precedente11. In particolare, per il loro spirito competitivo (da porre verosimilmente in relazione al carat­ tere privatistico e mercificato della loro attività) opposto rispetto allo spirito comunitario dei sapienti delle poleis, essi si posero cri­ ticamente contro i contenuti educativi razionali e morali fin qui descritti. Alcuni Sofisti, come mostreremo, sostennero infatti che la natura dell’uomo è prevaricatrice, dunque opposta rispetto alla natura comunitaria argomentata in quegli anni da Socrate. Altri ancora sostennero addirittura che la natura umana non esiste, es­ sendo l’uomo un mero “prodotto” mutevole ed adattivo del conte­ sto storico-sociale.

9 Per questo motivo ci permettiamo di discordare da Migliori 2013 (pp. 1158-1164), il quale ritiene invece Socrate in certo senso inseribile all’interno del movimento sofistico. 10Platone, Protagora, 318 d-e. 11 «L’insegnamento dei sofisti, quale che fosse l’oggetto in discussione, comportava infatti una decisa presa di posizione contro le forme tradizionali di insegnamento (ad esempio musica e ginnastica), e ancora di più contro gli altri saperi: i sofisti non solo rivendicavano la bontà del loro nuovo insegnamento intellettuale contro l’educazione tradizionale, ma addirittura si vantavano di essere capaci di confutare poeti e filosofi, medici e matematici, e in generale gli esperti di tutte le altre discipline» (Bonazzi 2010, p. 16).

150

C a p ito lo I V

La Sofistica, rispetto alla costruzione onto-assiologica posta in essere dalla precedente tradizione, si caratterizzò per la sua ope­ ra di relativizzazione e problematizzazione dei contenuti razionali e morali fino ad allora guadagnati. Essa mostrò inoltre, fornendo una grande utilità alla riflessione complessiva, come tali contenuti vadano sempre calati nella complessità della situazione concreta. Per le loro posizioni, i Sofisti ricevettero già nella loro epo­ ca critiche durissime da parte dei filosofi che saranno poi definiti classici, ossia Socrate, Platone ed Aristotele. Questo fuoco di fila di critiche, le quali spesso costituiscono le sole testimonianze che ci rimangono delle dottrine dei Sofisti, ha per secoli comportato una svalutazione della loro opera, verosimile causa principale della scarsa conservazione dei loro scritti. Negli ultimi decenni tuttavia la tendenza si è notevolmente invertita, per cui si è assistito ad una rivalutazione del loro contributo culturale12. Ciò non elimina il fatto che, per una corretta ricostruzione del loro pensiero, le interpreta­ zioni di Platone ed Aristotele - i quali accusarono l’insegnamento dei Sofisti di mirare alla cavillosità più che alla verità, ai temi alla moda più che a quelli importanti, alla remunerazione più che alla educazione, al vantaggio privato più che a quello pubblico - risul­ tano tuttora imprescindibili. Per orientarsi correttamente nella Sofistica è infatti ancora ne­ cessario distinguere, come fece Platone, fra: a) Sofisti della prima ge­ nerazione, come Protagora, Gorgia, Ippia, i quali avevano contenuti originali ed importanti da proporre; b) Eristi, i quali utilizzarono la dialettica come mera arte del contendere, avendo come'fine esclusi­ vamente quello di prevalere sull’avversario nella discussione; c) So­ fisti “politici”, i quali teorizzarono un vero e proprio “immoralismo” sfociante nella tesi della “naturalità” della legge del più forte. Occorre inoltre ricordare il diffuso luogo comune storiografico secondo cui, coi Sofisti, il pensiero greco, il quale iniziò occupandosi della natura con i fisici presocratici, cominciò finalmente ad occupar­ si dell’uomo. In realtà, questo luogo comune risulta errato. Infatti, come già si è mostrato, tutto il precedente pensiero poetico, medico, storico, fisico si occupò dell’uomo, iniziando a delinearlo come un ente dotato di consapevolezza razionale e morale. I Sofisti, rispetto

12 Scrive correttamente Casertano 1976 (p. 9) che «dopo la lunga opera di riesame, di ripresa critica e di approfondimento della Sofistica operato dalla storiografia più recente, è divenuto ormai un fatto definitivamente acquisito la valutazione positiva del pensiero dei Sofisti». Poulakos 1995 si è addirittura posto il problema di come liberarsi da questa attitudine a riabilitare continuamente i Sofisti.

Sofisti, Retori, Socrate e le Scuole socratiche

151

ai pensatori precedenti, operarono tuttavia per diversi aspetti un no­ tevole mutamento di prospettiva, interpretando l’uomo in maniera differente rispetto a quanto fino ad allora era stato fatto, ponendolo come effettivo punto di partenza nella riflessione sulla realtà. Una ulteriore funzione positiva della Sofistica fu quella per cui, in un periodo in cui furono pressoché assenti istituzioni scolastiche pubbliche13, essa svolse - sebbene solo per le elites in grado di paga­ re un adeguato compenso - un importante ruolo di supplenza. La Sofistica fornì tuttavia più istruzione che educazione, dato che essa elaborò più che altro un sapere “strumentale” al fine di realizzare un vantaggio competitivo privato. La nascita della Sofistica fu in effetti dovuta a particolari esigenze economiche, politiche e sociali che caratterizzarono allora le poleis greche, e di cui essa si pose al servizio, non - come alcuni interpreti hanno sostenuto - all’e­ saurimento teorico della filosofia della physis, praticata infatti fino ad epoca ellenistica. Tali esigenze, in estrema sintesi, erano come ricordato quelle di un sistema economico-politico-sociale sempre più caratterizzato dalla crematistica14. Per il fine della massimizzazione della ricchezza e del potere, un uomo caratterizzato da una stabile natura razionale e morale, quale era appunto quello delineato dalla prevalente tradizione poetico-sapienziale, diveniva, per il senso comune dominante rap­ presentato dalla Sofistica, sempre meno funzionale. Sempre più funzionale diveniva invece un uomo plasmabile, adattabile, non dotato di una essenza definita, capace di adeguarsi alle circostanze assumendo la forma richiesta dal contesto; oppure un uomo com­ petitivo, prevaricatore, non solidale, in grado di comandare e di assumersi rischi. Queste due tipologie umane, così rilevanti anche oggi, risultavano ideali per lo sviluppo di un modo di produzione sociale crematistico finalizzato alla ricerca della ricchezza e del po­

13 Rinviamo in merito, per un quadro complessivo della situazione, a Pancera 2006. 14 Sul contesto storico-culturale in cui operarono i Sofisti, un libro molto utile rimane Soverini 1998, il quale pone in evidenza i contributi da loro for­ niti in campo economico e commerciale. Essi infatti fornivano «una serie di prestazioni che andavano al di là di ragionamenti e teorie; cose anche molto più pratiche, come le conoscenze utili ad amministrare i propri beni e ad ar­ ricchire» (Id., p. 12). Infatti, «nei decenni che videro il fiorire della Sofistica, i rappresentanti del mondo dell’economia e del commercio si conquistarono un ruolo sempre più importante e significativo nella vita della polis» (Id., p. 17). Soverini mostra in particolare i rapporti di molti Sofisti coi banchieri dell’epoca (Id., pp. 27-40).

152

C a p ito lo I V

tere. Non è un caso forse, come ora mostreremo, che siano proprio queste le due tipologie di uomo tematizzate dal pensiero sofistico. L ’uomo nella Sofistica La Sofistica, contrariamente a quanto diversi studiosi hanno sostenuto, non può essere qualificata come il “primo umanesi­ mo” greco, per diversi motivi. Il primo motivo, come detto, è che la precedente tradizione poetica aveva già trattato profondamente dell’uomo. Il secondo motivo è che una forma di “umanesimo” ri­ chiede necessariamente la ricerca di una definizione della natura umana, che in buona parte della Sofistica invece non è presente15. Come ha affermato infatti Domenico Pesce, per il pensiero sofistico il campo dell’umano era ritenuto essere «il modificabile, il possibi­ le, il campo delle scelte, quel che può essere configurato ad arbitrio della volontà»16 e che pertanto non possiede una definizione stabi­ le17. Le definizioni non rappresentarono in effetti l’interesse princi­ pale della Sofistica, la quale, rispetto alla coeva riflessione classica, non elaborò nemmeno quella cura dell’uomo rispettosa del cosmo che costituisce il contenuto centrale di ogni umanesimo18. Il terzo motivo è quello per cui, ponendosi la Sofistica in maniera funzio­ nale alla crematistica, ed essendo la crematistica per eccellenza an­ tiumanistica (per la crematistica l’uomo non è fine, ma mezzo per la massimizzazione del profitto; per l’umanesimo invece è fine, non mezzo), la Sofistica non poteva essere una forma di umanesimo. Caratteristica centrale del pensiero sofistico fu 'in effetti la metis, ossia, per utilizzare le parole di M. Detienne e J.P. Vernant, «una forma di intelligenza e di pensiero [...] che implica un insie­ me complesso, ma molto coerente, di atteggiamenti mentali, di comportamenti intellettuali che combinano l’intuito, la sagacia, la previsione, la spigliatezza mentale, la finzione, la capacità di trarsi d’impaccio, la vigile attenzione, il senso della opportunità, l’abilità in vari campi». Si tratta di «un modo di conoscenza esterno all’episteme, al sapere, estraneo alla verità», in quanto «si cimenta con una realtà molteplice, mutevole, resa quasi imprendibile dal suo

15In questa direzione anche Zanatta 1984, p. 94 e Saitta 1938, pp. 34 ss. 16Pesce 1988 b, p. 34. 17Come ha scritto in merito anche Bonazzi 2010 (p. 80), in effetti, per i So­ fisti «la realtà si presenta costitutivamente molteplice, refrattaria a ogni rico­ struzione unitaria, e poiché il logos umano è sempre soggettivo o prospettico, rappresenta sempre un punto di vista, un’opinione, mai la verità assoluta». 18Ci permettiamo ancora di rinviare, in merito, a Grecchi 2007.

Sofisti, Retori, Socrate e le Scuole socratiche

153

potere di polimorfia, che non può dominare, cioè chiudere nei limi­ ti di una forma unica e fissa»19. Questo pensiero insegna a «proce­ dere per vie traverse, rendendo la propria intelligenza così elastica e ritorta da poterla piegare in tutti i sensi»: questa infatti in molte situazioni è «la sola via che conduce al successo»20, il quale costi­ tuisce il fine principale degli insegnamenti sofistici. Da notare tut­ tavia che «il successo procurato dalla metis riveste un significato ambiguo [...]. Talvolta vi si vedrà il prodotto di una frode, perché la regola del gioco non è stata rispettata [...]. Per certi aspetti la metis si accosta all’astuzia sleale, alla perfida menzogna [...], la sola che può garantire in ogni circostanza, quali che siano le condizioni del­ la lotta, la vittoria e il dominio sugli altri»21. Il modello umano dei Sofisti è in questo senso, come lo era appunto per certi poeti lirici, il polipo, che «simbolizza, nell’infinita mobilità dei suoi tentacoli, l’imprendibilità che deriva dalla polimorfia»22. Il relativismo in effetti, nella forma almeno dell’assenza di ri­ ferimenti assoluti, costituisce uno dei temi cardine della Sofistica. Tale relativismo è stato talvolta posto in relazione all’essere itine­ ranti dei Sofisti, dunque abituati a relativizzare usi e costumi diffe­ renti, difficili da valutare come migliori o peggiori23. In realtà, come già abbiamo mostrato per Erodoto, il fatto che le valutazioni in questi casi siano difficili non significa che siano impossibili, anche in quanto ogni “relativo”, per essere tale, ha comunque bisogno di un “assoluto”. Pensare l’essenza dell’uomo come definibile solo in relazione al contesto storico-sociale, essendo il contesto storico-so­ ciale per definizione qualcosa di mutevole, ed essendo l’essenza di un ente per definizione qualcosa di stabile, è infatti per definizione

19Detienne-Vernant 1978, pp. XI-XII. 20Id., p. XIII. 21 Id., p. 5. 22 Id., p. 24. «Il sofista fa sfoggio di parole dalle molte pieghe, periplokai: concatenazioni di parole che si snodano come le spire del serpente, discorsi che avvinghiano gli avversari come le morbide braccia del polipo» (Id., p. 29). Polipo e camaleonte furono in seguito condannati da Plutarco (Moralia, 5253) come simboli della metis crematistica a lui contemporanea, caratterizzata anche da una falsa polyphilia (Id., 96-97). 23 Ferrari 2018 (p. 27) ha in merito affermato che «l’importanza di cui i sofisti godettero nella Atene della seconda parte del V secolo costituisce in un certo senso la conseguenza di una serie di fattori dipendenti sia dall’onda lunga delle Guerre Persiane, che produsse una intensificazione dei contatti con popo­ lazioni diverse, portatrici di valori e costumi alternativi, sia della progressiva affermazione del modello democratico». Ciò condusse a suo avviso al «gradua­ le imporsi di una attitudine di tipo relativistico» (Id., p. 27).

154

C a p ito lo I V

contraddittorio. La tesi sofistica secondo la quale l’uomo non sa­ rebbe nella sua essenza definibile, se non come animale cangiante adattantesi al contesto (come, appunto, il polipo ed il camaleon­ te)24, risultava dunque in larga parte funzionale a favorire quel cli­ ma individualistico25 che costituisce, come anche la nostra epoca dimostra, il clima ideale per lo sviluppo della crematistica. Non ci occuperemo qui delle pur interessanti strutture teoriche della Sofistica, dunque delle forme del suo relativismo26, poiché il nostro tema in questa sede è esclusivamente l’uomo. Ci occupe­ remo invece del fatto che, all’interno di una operazione cultura­ le volta in sostanza ad affermare il relativismo dei valori, dunque l’individuo come unica fonte assiologica di riferimento, non man­ carono nella Sofistica dichiarazioni formali di accettazione del ca­ rattere unitario del genere umano. Ippia di Elide sosteneva infatti che «tutti gli uomini sono per natura parenti, famigliari e concitta­ dini»27, ed Antifonte affermava che «per natura siamo tutti assolu­ tamente uguali, Greci e barbari»28. Si tratta di affermazioni che, alla luce delle argomentazioni fino­ ra svolte, potrebbero apparire non coerenti col contesto sofistico, se lette in senso universalistico onto-assiologico. In realtà, come poi meglio specificheremo soprattutto per quanto concerne Anti­ fonte, esse non possono essere lette in questo senso, ma solo come analisi descrittive della realtà. Tali affermazioni vanno infatti spiegate all’interno di un conte­ sto, come descritto, nella sostanza individualistico, nel quale la So­ fistica si pose in maniera funzionale, non oppositiva29. Riteniamo

24Per Protagora infatti, di cui fra breve parleremo, la physis dell’uomo non è qualcosa di dato da sempre e per sempre. Essa è mutevole, in quanto muta col variare del contesto storico-sociale, ossia appunto del mutevole nomos, in cui, come scrive Bonazzi 2010 (p. 88), «l’uomo può decidere cosa fare di sé [...]. Nomos - vale a dire la realizzazione della società politica - non contrasta dunque con physis» per Protagora. 25 Come ha affermato anche Pohlenz 1967 (voi. I, p. 385), «i Sofisti furo­ no gli esponenti dello spirito del popolo greco nel momento in cui si attuava il passaggio all’individualismo». Nella stessa direzione Untersteiner 1996 (p. 27), per il quale «in modo indiscutibile il sofista mira con ogni energia all’in­ dividualismo». 26 Su questa tematica, rinviamo a Bett 1989 (pp. 139-169: egli considera tuttavia solo Protagora, fra i Sofisti, come possibile relativista) e Cassin 2002. 27 Platone, Protagora, 337 d. 28B44. 29 Non è casuale che lo stesso rinnovato interesse di cui la Sofistica è fatta oggetto sia ancora legato, oltre che alla prosepttiva decostruzionista (Cassin 1986), soprattutto alla prospettiva pragmatista (Mailloux 1995). Come ha cor-

Sofisti, Retori, Socrate e le Scuole socratiche

155

cioè che i Sofisti, nel loro più 0 meno conscio tentativo di adattarsi alle norme crematistiche diffuse30, verosimilmente cercarono di rappresentare un uomo “formalmente uguale” ovunque, come tale ben adattantesi nella sostanza, aH’interno di un mondo da unifor­ mare, alle leggi uniformanti della crescente diffusione distributiva della merce. Non è casuale che i filosofi classici, i quali sostenne­ ro invece che esiste una comune natura umana razionale e mora­ le “sostanzialmente uguale” ovunque, si opposero in modo fermo all’astratto universalismo della Sofistica, ricevendo dalla medesi­ ma una altrettanto ferma opposizione al loro concreto universali­ smo onto-assiologico anticrematistico. Una conseguenza del relativismo individualistico: lapleonexia Il discorso individualistico della Sofistica, presente soprattut­ to nel relativismo di Protagora, trovò una accentuazione, oltre che nel sofista Antifonte, nelle figure di Trasimaco, Glaucone ed Adimanto descritte nei primi due libri della Repubblica di Plato­ ne, oltre che nella figura di Callide descritta nel Gorgia di Platone. Queste figure esplicitarono in effetti la inevitabile conseguenza an­ tropologica del discorso sofistico. Per tale discorso, all’interno di un sostanziale relativismo dei valori, era in ultima analisi la forza “animale” dell’uomo (o meglio, la sua forma politica costituita dal potere, strettamente associato alla ricchezza) a determinare cosa è bene per l’individuo. All’interno di tale quadro, i Sofisti dipinti da Platone, i quali sicuramente rappresentavano punti di vista diffusi nella società del tempo, delinearono l’uomo in maniera assai simi­ le appunto all’animale feroce, pronto a soggiogare chiunque per il soddisfacimento delle proprie pulsioni31.

rettamente sostenuto Li Vigni 2009 (pp. 20-21), anche attualmente si opera «una lettura del movimento sofistico [...] in chiave antiuniversalistica», ossia appunto individualistica e relativistica. 30 Ricerca di guadagno e lassismo etico andavano, peraltro, di pari passo, come mostra l’autore dei Discorsi doppi (Dissoi logoi), un testo di matrice sofi­ stica risalente al V secolo: «Se si domandasse a tutti gli uomini di riunire in uno stesso luogo tutte le cose che essi ritengono vergognose, e una volta fatto ciò, si ordinasse poi a ciascuno di prendere dal mucchio ciò che si ritiene bello, non ne resterebbe neppure una, ma tutti si dividerebbero tutto» (90 B 2,18). Sui Dissoi logoi, rinviamo alla recente edizione commentata Maso 2018. 31 «Io affermo che il giusto non è nient’altro che l’interesse del più forte» (Pla­ tone, Repubblica, 338 c) - affermava Trasimaco - in quanto, essendo l’uomo un animale, e tra gli animali vigendo la legge del più forte, tale legge risulta essere naturale, dunque giusta. Evidente quanto diversa sia questa concezione “ferina”

156

C a p ito lo I V

La tesi della natura prevaricatrice dell’uomo, già analizzata in Tucidide, fu in effetti tematizzata sia da Protagora (nell’omonimo dialogo platonico), sia da Antifonte (come poi mostreremo), sia da Crizia (nel frammento rimasto del Sisifo)32. Sono tuttavia le tre figure descritte da Platone ad essere in merito le più rappresen­ tative. Come scrisse infatti Mario Vegetti, «Callide, Trasimaco e Glaucone rappresentano tre varianti teoriche di un medesimo pa­ radigma filosofico, fondato su quella antropologia della pleonexia che si era imposta nella cultura greca, e specialmente ateniese, a partire dagli ultimi anni del V secolo», dove «antropologia della pleonexia significa [...] una concezione della natura originaria, profonda e immutabile dell’uomo come dominata dal desiderio di sopraffazione reciproca, dalla spinta coercibile ad avere di più - in termini di potere, gloria, ricchezza, dunque di signoria - rispetto a una ripartizione equilibrata e paritaria di questi beni»33. La descrizione di Callide nel Gorgia34 è in tal senso emblemati­ ca. Egli infatti esprime la tesi secondo cui la felicità consisterebbe esclusivamente nel pieno soddisfacimento dei propri desideri (pre­ sunti tali). A suo avviso il meglio per l’uomo è insomma possedere tutto quanto si vuole, anche recando ingiustizia agli altri, essendo appunto la natura umana caratterizzata da pleonexia. Callide re­ clamava in sostanza la necessità del ripristino della legge di na­ tura (nomos tes physeos), ossia di quello stato ferino nel quale i più forti potevano comandare in virtù appunto della loro forza. Per Callide, infatti, l’uomo che pone un freno ai propri desideri - per una malintesa forma di rispetto verso gli altri uomini - mediante la sophrosyne, non è realmente virtuoso in quanto non è libero, dato che è in realtà eterodiretto da un condizionamento esterno, rap­ presentato dal nomos della moltitudine. Tale nomos, agli occhi di Callide, costituiva semplicemente un espediente messo in atto dai più deboli, mediante i regimi democratici, al fine di porre un freno

dell’uomo in rapporto anche solo a quella di Esiodo. Trasimaco, nel I libro del­ la Repubblica, incarnava comunque una tesi diffusa in ampie parti della cultura ateniese del V secolo, nella quale si riteneva che l’uomo giusto avesse sempre la peggio nei confronti dell’uomo ingiusto (Id., 343 c-344 a) anche in termini di feli­ cità. Come noto, Platone (Id., 357 b-358 a) si propose di modificare radicalmente tale posizione, dimostrando - tramite appunto il confronto con la Sofistica - che in realtà la giustizia, come la virtù, rappresenta un bene che va perseguito per sé stesso, ancor più che per gli eventuali vantaggi che da essa possono conseguire. 32 Sulla figura di Crizia, rinviamo a Centanni 1997 e Bultrighini 1999. 33Vegetti 2018 c, p. 196. 34 Platone, Gorgia, 483 e-494 a. Sulla posizione di Callide (la cui esistenza storica è come noto molto dubbia) nel Gorgia, rinviamo a Gastaldi 2000.

Sofisti, Retori, Socrate e le Scuole socratiche

157

agli istinti di prevaricazione dei più forti35. È evidente come queste tesi costituissero l’esatto opposto dell’approccio umanistico, uni­ versalistico e comunitario che stava in quei decenni prendendo for­ ma nella filosofia classica. Per questo Socrate, Platone ed Aristotele considerarono i Sofisti come uno dei massimi pericoli36, erodendo costoro le basi comunitarie della polis, ed in generale le strutture razionali e morali che sole potevano consentire la realizzazione di una compiuta umanità. Protagora Protagora di Abdera (490-410 c.a.), ritenuto caposcuola della Sofistica, è un pensatore della cui opera filosofico-politica non pos­ sediamo molto37. Egli risulta tuttavia noto, nella storia del pensie­ ro, soprattutto come il teorizzatore del cosiddetto principio dell’homo mensura, o anthropos metron, secondo cui, in assenza di una stabile natura umana, «misura è ciò che appare a ciascuno»38, in quanto «l’uomo è misura di tutte le cose, di quelle che sono per ciò che sono, e di quelle che non sono per ciò che non sono»39. Poiché il termine anthropos di cui parla in questo frammento, nel linguag­ gio greco precedente a Platone, significava il singolo uomo e non il genere umano40, concordiamo con la maggioranza degli interpreti 35 In un altro mito platonico (Repubblica, 359 d-360 d), quello dell’anello di Gige, viene esposta la similare tesi sofistica secondo cui gli uomini si com­ portano con giustizia solo in quanto temono le conseguenze di un comporta­ mento ingiusto. Il comportamento virtuoso infatti, per la Sofistica, non paga in termini di felicità, essendo quest’ultima costituita dal soddisfacimento di tutti i desideri, anche i più arbitrari. 361 Sofisti, soprattutto nel Sofista, sono paragonati a cacciatori per interes­ se di giovani ricchi (221 c-223 b); commercianti internazionali di nozioni sulla virtù tendenzialmente errate (223 c-224 e), esperti di eristica volti al guadagno (224 e-226 a). Vi fu comunque in Platone anche la consapevolezza che la “no­ bile sofistica” costituiva una forma di purificazione di quelle false certezze che impediscono all’anima di apprendere (226 a-231 c). Su questo dialogo platoni­ co, rinviamo a Migliori 2006. 37 Untersteiner 1996, pp. 32-33. Sulla figura di questo sofista, rinviamo fra gli altri a Lana 1950, Zeppi 1961, Cole 1972, Peverada 2002 e Corradi 2002. Le principali testimonianze sulla sua opera, come noto, sono dovute a Platone, che ha intitolato al sofista anche un dialogo (su cui Casertano 2004; utili spunti anche in Gavray 2017). 38A17 b. 39 Bl. 40In questo senso l’ottimo studio di Capizzi 1955, pp. 111-116. Come noto, Bl è stato tradotto in modi fra loro anche molto differenti. In questa sede tuttavia non è possibile entrare nelle pur interessanti problematizzazioni filologiche.

158

C a p ito lo I V

nel ritenere Protagora come il sostenitore della tesi per cui è sem­ pre il singolo uomo ad essere misura di tutte le cose41. Questa, nonostante le numerose analisi effettuate su tale fram­ mento, sembra in effetti essere la interpretazione più convincen­ te di B142, la quale conduce chiaramente il pensiero di Protagora nella direzione dell’individualismo43 e del relativismo44, essendo a suo avviso la realtà concepibile come un flusso inarrestabile, di cui non è possibile una stabile conoscenza45. Come ha giustamente commentato Mauro Bonazzi, per Protagora «con uomo si intende ogni persona, ciascuna con la propria storia, il proprio bagaglio di esperienze e di attese per il futuro [...]. La vera misura così non è l’uomo in astratto, ma è l’esperienza di ciascun singolo individu0»46, appunto continuamente mutevole. Con questa interpretazione sono coerenti anche le testimonian­ ze secondo cui, per Protagora, sarebbero sapienti coloro che rie­ scono a costruire non il discorso vero, cosa a suo avviso - date le premesse - impossibile, bensì il discorso più persuasivo, in grado anche di «rendere più forte l’argomento più debole»47. Ciò era pos­ sibile, per Protagora, in quanto «intorno ad ogni argomento ci sono due ragionamenti contrapposti»48 che si possono svolgere. Scrive correttamente pertanto Giovanni Reale che le tesi di Protagora co­

41 Concordi in questo senso tutte le principali testimonianze •antiche: Pla­ tone, Teeteto, 1516-152 a; 167C; 172 a-b; Aristotele, Metafisica, 1062 b 13 ss.; Sesto Empirico, Lineamentipirroniani, I, 216. 42 Una rassegna commentata delle principali interpretazioni di Bi si trova sia in Levi 1949, sia in Deeleva Caizzi 1978. 43Walter Leszl ha in merito sottolineato (in Carillo 2007, p. 361) che «que­ sta forma di individualismo, che mette al centro l’interesse del singolo [...], è associata ad una assoluta sfiducia nel valore delle leggi e, in generale, delle istituzioni della polis». 44Una intelligente riflessione sul rapporto tra verità e relativismo in Prota­ gora in rapporto alla testimonianza di Platone, è Balaban 1999. 45 Ai, A51. In questo senso anche Zilioli 2007, nonché Bonazzi 2010 (p. 33) il quale, pur effettuando alcune doverose precisazioni, afferma che «la ca­ tegoria che meglio descrive la specificità e l’originalità di Protagora è quella di relativismo. La conoscenza dipende sempre dalle circostanze e dai soggetti conoscenti, e questo spiega perché non ha senso parlare di una verità unica e assoluta al singolare: la verità è il rapporto che ciascuno di noi crea di volta in volta con la realtà che lo circonda. Non esiste una verità assoluta o unica, ma tante verità quanto sono i soggetti percipienti e giudicanti». 46 Bonazzi 2010, p. 29. 47A21. 48 B6.

Sofisti, Retori, Socrate e le Scuole socratiche

159

stituiscono «la magna charta del relativismo occidentale»49, non esistendo a suo avviso alcun criterio assoluto che discrimini il vero dal falso, il bene dal male. Protagora infatti, come noto, attribuiva centralità, sul piano conoscitivo, alla componente empirico-feno­ menologica, la quale non fornisce assolutezza epistemica. Come ci ricorda inoltre Platone, sul piano etico-politico, la virtù di cui Protagora si professava maestro era «insegnare l’accortezza, sia negli affari privati [...] sia negli affari pubblici»50. Questa accor­ tezza si incentrava, oltre che su un sapere di tipo tecnico-economi­ co, soprattutto sulla capacità retorica di parlare nelle assemblee, in modo tale da mostrare migliore, facendola prevalere, la tesi più vantaggiosa51. La arete dell’uomo era insomma costituita, per il so­ fista di Abdera, in base all’originario significato del termine, princi­ palmente da una forma di abilità. La filosofia protagorea mostrava tuttavia in questo modo il proprio sfondo pragmatico ed utilita­ ristico. Il bene ed il male erano infatti sostanzialmente sostituiti, nella stessa, con ciò che si riteneva, rispettivamente, utile e danno­ so52, che variava in relazione al contesto ed alla situazione. Scrive in modo corretto, in merito, Battista Mondin che «nei sofisti ci fu anche un grave vuoto antropologico. Nessuno dei sofisti ci disse infatti espressamente, cioè tematicamente, che cosa sia l’uomo»53.

49 Reale 2001, p. 109. Non concorda invece con questa tesi Francesca Eustacchi (in Fermani-Migliori 2017, p. 13), secondo cui «la posizione protagorea non può essere definita relativistica. La massima [l’uomo è misura di tutte le cose; L.G.] esprime infatti una regola universale, o meglio un principio gnose­ ologico generale che vale per l’umanità intera: se ogni singolo uomo è misura il contenuto si riferisce a ogni uomo nella sua individualità, ma la regola riguarda tutti gli uomini». La posizione tuttavia - nonostante la difficoltà di decifrare l’etichetta “relativismo”, come la studiosa giustamente rimarca nella sua anco­ ra inedita, ma ottima, tesi di dottorato - rimane a nostro avviso relativistica, perché per Protagora è pur sempre il relativismo (il fatto cioè che solo i singoli individui siano misura di tutte le cose) che vale per tutti gli uomini. 50Protagora, 318 e-319 a. 51 La sophia di cui Protagora si dichiarava seguace (Protagora, 316 d-e) traeva origine da ambiti pratici, tecnici, artigianali, e nelle sue attività, come in quelle di Ippia, ciò continua a lasciare traccia (Ai, 33). Lo stesso sapere enci­ clopedico di Ippia era del resto palesemente caratterizzato da finalità pratiche: su ciò, fra gli altri, Cambiano 1971, pp. 111 ss. 52Scrive correttamente in merito Reale 2004 (voi. II, p. 62) che «il sapiente è non colui che ritiene di conoscere gli inesistenti valori assoluti, ma colui che co­ nosce il relativo più utile, più conveniente e più opportuno, e lo sa attuare e fare attuare». Pragmatismo e relativismo non erano per Protagora in contrasto, poi­ ché ciò che è più conveniente si valuta con riferimento alla situazione specifica. 53 Mondin 1998, voi. I, p. 118.

i6o

C a p ito lo I V

La tesi protagorea secondo cui ogni uomo è misura di tutte le cose, sin da Platone, fu in effetti presa di mira proprio per la sua ambivalenza, ovvero per la multiformità dell’uomo in essa descrit­ to54, che poteva appunto prendere sia la forma dell’adattamento al contesto storico-sociale55 (come vedremo poi in Gorgia ed Isocra­ te), sia la forma della pleonexia (come vedremo ora in Antifonte). Antifonte Antifonte (480-410 c.a.)56, il sofista di cui disponiamo del mag­ gior numero di frammenti, a causa della sua tesi già citata secondo cui «per natura siamo tutti assolutamente uguali, Greci e barba­ ri»57, è stato per lungo tempo considerato fautore di una sorta di universalistico preilluminismo. Nel tempo tuttavia, come accen­ nato, questa lettura ha trovato sempre meno sostenitori58. Nella fattispecie peraltro, come ha rimarcato Bonazzi, «il riferimento ai barbari viene sfruttato solo per una sottile polemica contro le incoerenze dei Greci i quali, rispettando solo i loro dei e le loro leggi, danno prova degli stessi pregiudizi che imputano ai barbari [...]. Evidentemente, questa considerazione non promuove alcuna considerazione positiva dei barbari; piuttosto, per conseguire l’ef­ fetto sperato, essa implica una valutazione negativa [...]. Da questa 54 In questo senso Hemmenway 1986, nonché Peverada 2002 (p. 334), se­ condo cui «questa metamorficità del linguaggio e del senso (e quindi anche del vero) è il cardine della filosofia protagorea». Li Vigni 2009 (p. 114) ha scritto in merito che «manca alla argomentazione di Protagora il carattere teleologico che invece fonda quella aristotelica, in quanto appunto manca alla base una concezione definita dell’ente uomo». 55 Concordiamo in merito con Mario Vegetti (in Casertano 2004, voi. I, pp. 149-50) secondo cui in Protagora non si trovava tanto una dottrina positiva, quale poteva essere ad esempio il sostegno alla democrazia - che gli avrebbe peraltro precluso l’attività nelle poleis non democratiche - , quanto una «feno­ menologia dell’opinione condivisa», come accadde appunto nello Scetticismo. Una tesi analoga è stata sostenuta anche da Fernanda Deeleva Caizzi (in Ca­ sertano 2002, p. 86). 56 È datato il problema se siano esistiti due (o più) Antifonte, oppure se le varie testimonianze facenti capo a questo nome assumano come riferimento un’unica persona. Alcune ricerche papirologiche tendono verso la soluzione unitaria (Deeleva Caizzi 1986, Narcy 1996), ma la questione resta indubbia­ mente difficile da dirimere. Un ottimo sguardo di insieme su Antifonte, soprat­ tutto con riferimento alla tematica antropologica, è in Bonazzi 2006. Rilevante anche Hourcade 2001. 87 B44. 58Come ha affermato anche Li Vigni 2009 (p. 17), «si tende oggi a ridimen­ sionare il significato egualitario delle affermazioni di Ippia e Antifonte».

Sofisti, Retori, Socrate e le Scuole socratiche

16 1

polemica diffìcilmente si può ricavare conferma di un Antifonte di­ fensore dell’uguaglianza tra barbari e Greci»59. Il fatto che ad Antifonte non sia attribuibile alcun umanesimo universalistico, non deve far pensare - dato peraltro il carattere enciclopedico della sua opera606 1- che egli non si sia occupato della natura umana. Nel già citato frammento B44 egli parlò infatti della natura dell’uomo in una maniera molto influenzata dalle ricerche che in quegli stessi anni i medici stavano conducendo. Come nel trattato ippocratico Sul morbo sacro (19), vi fu in effetti da parte di Antifonte, in questo ampio frammento, una analisi scientifica dei diversi organi del corpo umano e delle funzioni ad essi connesse. Anche l’approccio all’etica ed alla politica di Antifonte fu del resto soprattutto di tipo scientifico, ossia descrittivo. La physis infatti a suo avviso, come ha scritto giustamente ancora Bonazzi, «è neutra, non prescrive nulla, è priva di qualsiasi finalità. Piuttosto essa do­ vrebbe essere intesa come un ingranaggio cieco in cui è impossibile reperire alcuna forma di dover essere: il problema è proprio quello di adattarsi a una realtà non assiologicamente fondata, indifferente e dunque non prescrittiva. E questo vale, a maggior ragione, nel caso specifico della natura umana»51. Per questo motivo, come e più che per Protagora, per Antifonte non esisteva una natura razionale e morale dell’uomo che doveva essere realizzata. L’essenza dell’uomo era infatti quella di un ente che, per sussistere, doveva adattarsi al contesto storico-sociale. E che, per sopravvivere in esso, dato anche il clima crematistico allo­ ra prevalente, non doveva avere remore nel porre in atto la natura­ le pleonexia62, propria di tutti gli animali ma soprattutto, appunto, degli uomini63.

59 Bonazzi 2010, p. 111. 60Rinviamo in merito all’ottimo Pendrick 2002. 61 Bonazzi 2006, p. 107. 62Vegetti 2018 c (p. 202) afferma in merito chiaramente che «è probabile che Platone si riferisse proprio ad Antifonte quando denunciava nelle Leggi quei cattivi maestri che insegnano ai giovani che in verità la cosa più giusta è vincere commettendo violenza [...] al fine di vivere una vita corretta secondo natura, che consiste nel dominare gli altri e non servirli come vorrebbe la legge (X, 889 e ss.)». In un altro testo, Vegtti aggiunge che è probabile che le tesi di Glaucone del II libro della Repubblica, secondo cui per natura ogni uomo vorrebbe sopraffare gli altri, ma per debolezza o paura preferisce stipulare un pre-hobbesiano patto sociale, «siano ispirate alle tesi del grande sofista Anti­ fonte» (in Chiodi-Gatti 2008, p. 32). 63Antifonte lamenta la malvagità, l’indolenza e la superficialità degli uomini nel suo Peri homonoias (Sulla concordia; B 52-58J. Considerazioni analoghe

1Ó2

C a p ito lo I V

L’antropologia di Antifonte fu infatti tendenzialmente pessimi­ stica, immaginandosi l’uomo come ente prevaricatore64. Essa ri­ mase tuttavia in linea di principio “aperta” in quanto, come quella di Protagora, influenzabile dal contesto storico-sociale65. In effetti, aveva ragione Giovanni Reale ad affermare che quanto risulta dai frammenti pervenutici di Antifonte è la stessa «natura sensibile»66 dell’uomo, che lo accomuna al genere animale: «Sulla base di que­ ste premesse l’uguaglianza degli uomini è vista non altro che come uguaglianza di strutture e necessità sensibili. Ma se si restringe la natura umana alla pura dimensione sensibile, ci si illude di poter cancellare ogni diversità fra gli uomini, mentre in realtà si gettano le premesse per fondare altri tipi di diversità e altri tipi di distinzio­ ne, sotto un certo tipo anche più gravi»67. Da questo punto di vista, in linea con le principali tendenze già esposte dalla Sofistica, non stupisce di ritrovare più volte nella sua opera68la tesi della rilevanza del denaro posseduto - pur senza ec­ cedere avaramente nell’accumulo - per la realizzazione di una vita migliore, oltre ad un approccio piuttosto edonistico alla vita stes­ sa69. Il taglio delle sue soluzioni rimase infatti, come detto, sempre di tipo individualistico, dato che a suo avviso «soltanto il singolo individuo può risolvere i suoi problemi»70. Gorgia Il nome di Gorgia (485-370 c.a.) è solitamente associato alla retorica71, termine che, come Platone in primis chiarì, può essere

valgono, per Bonazzi 2010 (pp. 112-113), anche per Ippia, Licofrone, Gorgia, Trasimaco ed Alcidamante. «Insomma, una adeguata contestualizzazione delle testimonianze spesso suggerisce che è esagerato considerare i sofisti come dei paladini dei diritti umani, attribuendo loro una coscienza che solo nel corso dei secoli si sarebbe pienamente sviluppata» (Id., p. 113). 64Una interpretazione “immoralista” di Antifonte è quella di Casertano 1971, pp. 298 ss. Antifonte è tuttavia ritenuto autore, come poc’anzi ricordato, anche di un’opera Sulla concordia (B44a), in cui afferma che la concordia va conside­ rata il bene più grande per la polis (su questo punto anche Levi 1966, p. 307). 65 L’uomo si trova pur sempre in una situazione intermedia fra gli dei e gli animali (B48). 66 Reale 2001, p. 76 67 Id., pp. 76-7768A3; B53-54. 64 B49-52. 70Bonazzi 2010, p. 124. 71 Sulla retorica antica, per uno sguardo di insieme e per il suo rapporto con la Sofistica, rinviamo a Plebe 1961, Isnardi Parente 1977, Poulakos 1986 e

Sofisti, Retori, Socrate e le Scuole socratiche

16 3

inteso in almeno due significati: o come «buona retorica», ossia come arte di costruire discorsi volti ad esprimere nella maniera più persuasiva il discorso vero; o come «cattiva retorica», ossia come arte di costruire discorsi volti ad esprimere nella maniera più per­ suasiva qualunque discorso, indipendentemente dalla sua verità. La retorica è in sostanza sempre un’arte di costruire discorsi, che diviene «buona» se il fine è buono (delineare meglio la verità), e «cattiva» se il fine è cattivo (persuadere indipendentemente dalla verità). Poiché tuttavia il fine determina l’essenza di una attività, ed un fine buono è opposto ad un fine cattivo, «buona» e «cattiva» retorica costituiscono arti di costruire discorsi opposte: la prima seguita da Platone; la seconda, almeno secondo la ricostruzione platonica72, seguita da Gorgia. Occupandoci qui solo dell’uomo, non possiamo soffermarci sul­ lo statuto filosofico complessivo dell’opera di Gorgia73, la quale ci pare negli anni essere stata giustamente rivalutata74. Gorgia non fu in effetti un mero retore (posizione sostenuta in passato da Gomperz, Bignone, Timpanaro Cardini, Reinhardt ed altri), ma non vi è dubbio che per larghi tratti della sua opera - pensiamo soprattutto all’Encomio di Elena75 ed alla Difesa di Palamede76 - egli attribuì primaria importanza agli effetti persuasivi della parola. Questa attenzione retorica fu sicuramente un portato della sua famosa dottrina espressa nel Perì tou me ontos77, nella quale Gorgia sosteneva tre tesi fra loro in certo modo collegate: a) l’essere non

Mailloux 1995. 72 Platone, Gorgia, 502 d ss. Per una buona trattazione di questo dialogo, rinviamo a Fussi 2006. 73 Aristotele stesso prese molto sul serio il discorso teoretico gorgiano, de­ dicando ad esso un testo intitolato Pros ta Gorgiou (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, V, 25), purtroppo perduto. 74 Migliori 1973 ha posto in evidenza fra i primi che l’opera di Gorgia pos­ siede un importante statuto filosofico. Esso consiste nella argomentata affer­ mazione della impossibilità della ontologia, dunque della conoscenza di un vero assoluto. Questa conclusione non spinse comunque Gorgia nelle braccia del nichilismo, ma ad imboccare la via dell’analisi fenomenologica, mirando non alla verità ma alla verosimiglianza. 75 Bit. 76 B11 a. Una ottima edizione italiana delle opere superstiti di Gorgia è Ioli 2018. Testi essenziali di riferimento sul pensiero di Gorgia sono Migliori 1973, Mazzara 1982, Montoneri-Romano 1985 e Mazzara 1999. 77 Di questo scritto rimangono come noto solo due sunti fra loro assai diffe­ renti: il primo, verosimilmente più antico ed affidabile, prodotto dall’anonimo autore del De Melisso, Xenophane, Gorgia (979 a 12-980 b2i) ed il secondo prodotto da Sesto Empirico, in Contro i matematici (VII, 65-87).

ió 4

C a p ito lo I V

esiste (nulla esiste); b) qualora esistesse, non sarebbe compren­ sibile; c) qualora fosse comprensibile, non sarebbe comunicabile. Queste tesi mostrano una forte sfiducia conoscitiva nei confronti della realtà, nonostante sulla stessa, e dunque anche sull’uomo, sia sempre possibile per Gorgia - grazie alla analisi fenomenologica quanto meno un «discorso verosimile»78. Gorgia in effetti, con la sua tesi, criticò apertamente la dottrina eleatica della sostanziale equivalenza fra essere, pensiero e linguaggio come capacità propria dell’uomo. Negare, o comunque limitare fortemente tale capacità, costituiva un importante cambio di prospettiva, che avvicinava Gorgia alla retorica sofistica, allontanandolo dalla tradizione sa­ pienziale. L’assenza in Gorgia di una struttura onto-assiologica di riferi­ mento, quale appunto la natura dell’uomo, presupposto necessario per poter porre stabilmente la riflessione su senso e valore della realtà, ha condotto inevitabilmente la sua posizione etica in quella che modernamente è stata definita come «etica della situazione»79. Per Gorgia, infatti, una stessa azione può essere considerata buona o cattiva secondo, appunto, la determinata situazione in cui essa è posta in essere80. Non è casuale in merito nella sua opera, oltre alla forte presenza del concetto di kairos, ossia del tempo oppor­ tuno in cui effettuare le scelte818 , anche la rilevanza del concetto di 2 preponi2, ossia del modo appropriato di effettuare le scelte, sempre con riferimento ad una determinata situazione. Insistendo su tali concetti Gorgia afferma in sostanza che ciò che qualcuno afferma deve trovare il tempo ed il modo opportuno per essere manifestato nella maniera migliore, ossia appunto per adattarsi alle esigenze

78 Rinviamo, per giustificare questa affermazione, alle condivisibili argo­ mentazioni di Mazzara 1999. 79 Migliori 1973, p. 134. 80 Per Gorgia, come sottolinea ancora Migliori 1973 (p. 134), «i doveri va­ riano secondo il momento, l’età, la caratteristica sociale; una stessa azione può essere buona o cattiva a seconda di chi ne è soggetto». 81 Ad esempio Difesa di Palamede, 32. Il concetto di kairos indica comun­ que in Gorgia anche la convenienza di una azione in relazione ad una certa circostanza. Questo ricorda molto il ruolo dell’ufffe in Protagora, come emerge anche in Difesa di Palamede, 13. 82 Ad esempio Difesa di Palamede, 28. Come ha mostrato anche Isocrate nel Contro i Sofisti (293), to prepon richiede che il discorso sia guidato dalla situazione cui si riferisce. Lo stesso Platone (Repubblica, 465 c) riteneva che Sofistica e Retorica fossero apparentate dal comune fine dell’adeguamento al sentire comune, poiché è da questo - non dalla verità - che derivano la persua­ sione ed il successo [Fedro, 259 e-260 a; 271 c-272 b).

Sofisti, Retori, Socrate e le Scuole socratiche

16 5

del contesto, dato che la parola retorica aveva come fine principale quello di essere persuasiva83. Ciò conduceva tuttavia, come nella lirica corale ed in generale nella Sofistica, ad esiti tendenzialmente conservatori84. Lo stesso Platone, che pur non tenero con Gorgia lo trattò sempre con ri­ spetto (dal che si dovrebbe desumere che non ne abbia deformato troppo il pensiero), ricorda che, sul piano delle virtù morali, Gorgia si adeguava alle comuni convinzioni dei Greci85. È innegabile, dicevamo, che Platone abbia trattato Gorgia con una certa considerazione, ma è altrettanto indubbio che egli ab­ bia posto in essere una condanna della retorica gorgiana in molti suoi presupposti fondamentali86. In primo luogo, egli criticò infatti Gorgia di avere sacrificato la verità alla plausibilità87, lasciando in­ tendere che questa rinuncia poteva facilmente sfociare, in assenza di verità, nel ricorso all’inganno, come avvenne appunto in alcuni allievi di Gorgia88. Nel Politico, Platone affermò inoltre che l’es­ senza della cattiva retorica (che rinuncia alla verità) era quella di essere un’arte avente il compito di persuadere mediante il raccon­ to, non mediante la episteme89. A suo avviso, però, solo la didache epistemica possiede carattere dialettico, ossia filosofico, il che la differenzia nettamente dall’inferiore esercizio della persuasione90. Il termine stesso (psychagogia) che Platone utilizza nel Fedro quando definisce la retorica come un modo di influenzare le anime, è significativo dell’aspetto non razionale che egli coglie all’opera nella retorica gorgiana, la quale a suo avviso era incentrata sulla mozione dei sentimenti in maniera analoga alla magia91. Come mo­

83 Per Ioli 2018 (p. 30), Gorgia si fa sovente «portavoce di un’etica doppia, bipolare, kairologica, adattata alla specifica contingenza, in cui il valore viene riconosciuto non in sé, ma in rapporto alle singole situazioni». 84 Come ha affermato infatti sempre Migliori 1973 (p. 134), «questo lavoro teoretico [di Gorgia; L.G.], fatto senza basi metafisiche e senza principi assolu­ ti, comportava una larga accettazione di opinioni correnti». 85 Gorgia, 460 a ss. 86 Come ha scritto in merito giustamente Trabattoni 1998 (p. 72), per Pla­ tone «gli esiti più inaccettabili della Sofistica sono logicamente deducibili dai presupposti teorici dei suoi iniziatori». 87 Gorgia, 458 e- 460 c. 88Id., 4óib-505 c. 89Politico, 304 c-e 90Sofista, 312 b; Gorgia, 454 e-455 a; Teeteto, 201 a. 91 Fedro, 261 a. Psychagogia deriva dall’ambito magico-religioso, in cui il termine significa per prima cosa la guida delle anime dei morti o la loro evo­ cazione (anche in Platone, Leggi, 909 b). Nella stessa direzione Zanatta 2012 (p. 77), per il quale «Gorgia porta la retorica, e con essa la sofistica, a una con-

166

C a p ito lo I V

stra l’E ncomio di Elena del resto, tutta l’attività del sofista ruotava intorno alla costruzione del consenso ed alla persuasione dell’udi­ torio92. Ciò non escludeva ovviamente, da parte di Gorgia, l’utilizzo anche di strumenti razionali per persuadere il pubblico, ricercanti l’accordo delle parole con i fatti93. Il rapporto con la verità di Gorgia - concetto sicuramente inteso in modo polivoco nella sua opera - risulta in ogni caso complesso, in quanto se da un lato nel Su ciò che non è egli sembra rinuncia­ re alla possibilità di una conoscenza veritativa, dall’altro lato nelle orazioni sono diffusi appelli alla aletheia94 e richiami ai pragmata. Gorgia inoltre si rifece alla verità in vari modi, ovvero sia come esperienza conoscitiva di chi ha personalmente sperimentato un certo fatto95, sia come evidenza da testimoniare per ristabilire la correttezza dei giudizi96. Come scrive Roberta Ioli, tuttavia, il fatto che per Gorgia l’esperienza, primaria fonte conoscitiva, fosse vali­ da solo per il singolo individuo, si traduce, ancor più radicalmen­ te rispetto a Protagora, «nell’isolamento di ogni soggetto entro il proprio solipsismo prima epistemico, poi linguistico»97. Ciò rende l’uomo gorgiano un ente non certo strutturalmente dotato di una natura morale comunitaria. Occorre allora concludere che, in base all’apparato filosofico qui pur sinteticamente descritto, rimane dell’uomo descritto da Gor­ gia una immagine piuttosto indeterminata, così come dell’uomo Gorgia rimane una immagine ambivalente. Da un lato infatti egli venne dipinto come moderato nella ricerca del piacere; dall’altro venne delineato come eccessivo nella richiesta di compensi98, non­

dizione di autentica onnipotenza, sganciando la parola da qualunque vincolo oggettivo e così lasciandola assoluta neH’affermare e nel negare, senza dover più dar conto a nulla se non alla sua magia, vale a dire all’abilità di chi la usa». 92Encomio di Elena, 8-14. 93Difesa di Palamede, 34-35. L’Encomio di Elena (2) mostra in effetti come le varie ipotesi sulla sua non colpevolezza siano tutte costruite attraverso una serie di ragionamenti e sillogismi ben strutturati. 94Encomio di Elena,1. 95Difesa di Palamede 3; 5; 22 96 Encomio di Elena, 1; 2; Difesa di Palamede 15; 24; 26; 28; 33. Da ri­ marcare che Gorgia riprese anche argomenti umanistici cari alla tradizione, come l’importanza dell’onore (Difesa di Palamede, 1-2), il rispetto deH‘amicizia (Id., 18-19; 21; 25), la svalutazione del tornaconto personale come movente dell’azione (Id., 15), nonché l’elogio della concordia e della autentica giustizia rispetto alla arroganza di certo diritto positivo, spesso mera imposizione delle forze dominanti (Epitafio, B6). 97Ioli 2018, p. 14. 98A4. Sulla sua proverbiale ricchezza, A7 e A18.

Sofisti, Retori, Socrate e le Scuole socratiche

167

ché come maestro di Polo e Callide, rappresentanti nel Gorgia pla­ tonico della degenerazione eristica della Sofistica". Anche Isocrate, di cui ora parleremo, secondo alcune fonti fu allievo di Gorgia, ma lo citò tre volte soltanto in tutto il suo pur am­ pio Corpus rinvenuto: come maestro che accumula denaro9 100, come 9 autore di discorsi inutili101 e come formulatore di una tesi ontologi­ ca falsa102. Isocrate Con riferimento all’uomo, il discorso di Isocrate (436-338 c.a.)103 si può sviluppare seguendo due direttrici, ossia quella del rapporto fra Greci e barbari, e quella della più generale elaborazione cultu­ rale10410 . 5 Iniziando con il primo tema, si afferma solitamente, in base ad alcuni passi del Panatenaico103e deW’Antidosis106, nonché ai ripetuti accenni al mito della autoctonia degli Ateniesi107, che fu soprattutto Isocrate ad accentuare in Grecia l’idea della superiorità dei Greci rispetto ai barbari. In base tuttavia ad una analisi dei testi isocratei calata nel contesto politico-sociale in cui essi furono prodotti, non ci pare si debba eccedere nel delineare Isocrate come sostenitore di teorie “etnocentriche”108.

99 È vero che in questo dialogo platonico (457 b-c) Gorgia si dissocia da chi utilizza la retorica in maniera eristica, ma è altrettanto vero, come afferma Reale 2004 (voi. II, p. 81) che «dopo il divorzio fra la verità e la parola non era sufficiente l’etica della situazione a garantire il buon uso della retorica: anzi, era proprio la mobile situazione a rendere la retorica disponibile alle avventure estreme». 100Antidosis, 155-156. 101 Id., 268. 102Elena, 3. 103 Sull’opera di Isocrate rinviamo, per uno sguardo generale, a Levi 1959, Eucken 1983, Lombard 1990, Masaracchia 1995, Poulakos-Depew 2004 e Ni­ colai 2004. 104 Una buona descrizione della medesima si trova in Genovesi-Bellatalla 2013. 1051 barbari sono da Isocrate definiti «nemici naturali e che sempre ci ten­ dono insidie» (Panatenaico, 163). 106Antidosis, 283-284. 107 Panegirico, 23-25; Panatenaico, 125-126. Si trattava comunque di un “mito” presente in diverse opere dell’epoca, come ad esempio nel Menesseno di Platone (236 b) e ne La guerra del Peloponneso di Tucidide (II, 36). Rinviamo in merito a Loraux 1998. 108 In questa direzione, fra gli altri, Too 1995.

16 8

C a p ito lo I V

Il Panegirico fu sicuramente il testo principale in cui Isocra­ te consigliò ai Greci di fare guerra ai Persiani, sfruttando un loro momento di debolezza. Non a caso, in esso, i Persiani sono sempre definiti «barbari»109, col prevalente significato spregiativo di «ne­ mici». Ciò nonostante, la necessità di lottare contro la Persia non fu affatto sostenuta per motivi etnici da Isocrate, bensì per il fatto che, dopo la pace di Antalcide, Atene viveva in una situazione di so­ stanziale subordinazione ai Persiani, quindi in assenza di libertà110. Isocrate propose ai Greci di pacificarsi tra loro e volgersi contro i Persiani non per una pretesa idea di superiorità etnica dei primi sui secondi, ma per la riconquista della libertà. In seguito, soprattutto nel Filippo, in una mutata situazione storica, il termine «barbaro» fu in effetti utilizzato da Isocrate prin­ cipalmente nel classico significato di «non greco». Frequente fu inoltre, in lui come in Platone, l’espressione «Greci e barbari», ge­ nericamente utilizzata come sinonimo di «tutti gli uomini»111. Che Isocrate non discriminasse alFinterno del genere umano in base alla etnia è provato del resto anche dal Busiride, in cui egli compì un ripetuto elogio della eccellenza della cultura egizia112. Nell’opera di Isocrate emerge con chiarezza come l’elemento etnico non fu affatto centrale nella cultura greca, all’interno della quale è ripetuta la tesi secondo cui il tipo di vita migliore è quello che si svolge in una comunità armonica, come potrebbe costituirsi anche fra Greci e Persiani. Sempre nel Panegirico, Isocrate mostra infatti - tesi propria anche del suo avversario Platone - come per i Greci, in particolare per gli Ateniesi, fosse centrale la nobiltà d’a­ nimo: «Atene ha fatto sì che il nome di Elleni designi non più una stirpe (ghenos), ma un modo di pensare (dianoia) [...] per cui sono chiamati Elleni non quelli che hanno in comune con noi il sangue, ma quelli che hanno in comune con noi unapaideia»113. L’educazione risulta per questo la seconda più ampia direttri­ ce dell’opera culturale di Isocrate. Essa tuttavia, pur definendosi «filosofica»114, si strutturò nella sua opera soprattutto nella forma

109Aeropagitìco, 19, 35, 99,117,128,131,136, et al. 110Panegirico, 167-188. 111 Evagora, 37, 59; A Nicocle, 50; Elena, 52. 112Busiride, 15 ss. 113Panegirico, 50. 114 Come noto, Isocrate si definiva «filosofo» e chiamava «filosofia» l’edu­ cazione impartita nella sua scuola (Antidosis, 15, 89,198, 226), sebbene in un senso molto diverso da Platone. Isocrate era consapevole, come Platone, del discredito di cui godeva la filosofia nella polis. Per Platone, tuttavia, il proble-

Sofisti, Retori, Socrate e le Scuole socratiche

169

della istruzione retorica. Isocrate infatti, in sostanziale continuità con la Sofìstica115, affermò che per la persuasione del pubblico non è utile un sapere epistemico stabile applicabile in modo identico ad ogni situazione. Ciò in quanto il retore - ma verosimilmente, più in generale, l’uomo - deve adattarsi ad ogni circostanza, non essendo il suo fine quello di determinare l’essenza dei vari enti, tematica di cui del resto Isocrate non parla mai. In A Nicocle, Isocrate ritenne infatti utile realizzare una col­ lezione di gnomai dei poeti più importanti, da utilizzare appunto caso per caso come guida per l’azione116. Tramite questa modalità, deplorata come noto da Aristotele, si otteneva tuttavia solo una se­ rie di consigli separati tra loro, non un’etica sistematica, verosimil­ mente ritenuta inutilizzabile da Isocrate per un uomo non dotato di una essenza stabile117. L’uomo descritto da Isocrate, come quello della Sofistica, si muove infatti caratterizzato da modalità adattive (che sono sempre anche modalità conservatrici)118, le quali sem­ brano a suo avviso non solo le più adatte al contesto storico-sociale esistente, ma anche le più naturali. Come ricordato alla fine del precedente paragrafo, la testimo­ nianza di Aristotele ci ricorda che Isocrate fu allievo di Gorgia, e che nella prima parte della sua vita fu logografo, ossia autore di discorsi giudiziari per conto terzi119. Si tratta di due affermazioni ma era nella polis, sicché il rimedio consisteva nel trasformare la medesima in modo che potesse produrre filosofi in grado di ben governarla. Per Isocrate, invece, il problema era nella «filosofia», sicché era la medesima a doversi tra­ sformare per risultare gradita alla polis. 115 La vicinanza, in particolare, a Protagora è evidente nella Orazione XV (Antidosis, 285), quando egli, polemizzando contro quelli che riteneva Sofisti (fra cui Platone), affermò che occorre tornare a dare ai giovani una vera for­ mazione, ossia la capacità - significativo l’ordine con cui egli si esprime - di gestire bene gli affari della propria casa e quelli della città (fon idion oikon kai ta koina ta tes poleos). Significativa, in merito, la differenza con Democrito, per il quale in primo luogo occorre occuparsi della cosa pubblica (ta demosia, B 253) per non attirarsi una cattiva reputazione. 116A Nicocle, 42-44. 117 In questo senso, come scrive giustamente Natali 2017 (p. 9), «l’impegno di Isocrate ad essere rigoroso e senza contraddizioni è trascurabile, se compa­ rato ad esempio con la Repubblica di Platone». 118Come ha ricordato correttamente Pesce 1988 a (p. 76), «Isocrate si tiene legato alle idee correnti. Questo tratto mi pare tipico della cultura retorica, di un’opera cioè di persuasione, che, poiché si rivolge alle masse, non può non ricercare tra i valori condivisi dai più almeno i punti di partenza. Di qui ancora il conservatorismo, il valore attribuito alla tradizione e l’esaltazione degli an­ tenati». 119Aristotele, Fr. 140 Rose.

170

C a p ito lo I V

che, come noto, sono state messe in dubbio da diversi autori per il loro intento polemico, ma, essendo la seconda oramai accertata, risulta più difficile mettere in discussione anche la prima. Ciò che è certo è che Isocrate stese sempre un velo di segretezza sulla propria attività di logografo120, non tanto in quanto attività a pagamento (l’attività della sua scuola era apertamente a pagamento)121, quanto per il fatto che il logografo deve sempre recitare una parte - ossia sostenere una certa tesi, indipendentemente dalla sua verità - , il che costituisce chiaramente una attività assai poco filosofica. Ciò nonostante, poco filosofico fu anche, in Isocrate, il rifiuto antipla­ tonico del rigore dialettico del discorso, nonché della forma logi­ ca della confutazione, opponendo egli la presunta dimostrazione dei «fatti» a quella dei «discorsi», come sostenuto principalmente neW’Elena. In Isocrate inoltre, come in Gorgia, vi fu l’idea che gli uomini non possiedono un vero sapere che consente loro di comprendere la real­ tà delle cose, sicché inevitabilmente essi devono regolarsi sulla opi­ nione più verosimile122. Per Isocrate in effetti la doxa costituisce la migliore guida per l’uomo. Nella sua prima orazione, Contro i sofisti, egli affermò in merito che la filosofia intesa come ricerca veritativa rischia di essere solo chiacchiera, dato che «sono più d’accordo tra loro coloro che si servono delle doxai rispetto a coloro che annun­ ciano di possedere la episteme»123. Nel sostenere questa tesi, come appunto una buona parte della Sofistica, egli si appoggiò alla opinio­ ne popolare più diffusa, la quale reputava che «non è nella natura dell’uomo realizzare una scienza rigorosa (episteme)»124. La doxa consentiva per Isocrate di introdurre nella realtà mu­ tamenti utili, poiché a suo avviso risulta sempre conveniente, nell’agire pratico, adattarsi alla opinione corrente125. È del resto co­ stante, nel vocabolario di Isocrate, la opposizione tra il gruppo di concetti legato alla nozione di doxa ed il gruppo di concetti legato alla nozione di episteme, ad ulteriore riprova che non fu il tratto ra­

120Egli anzi negò ripetutamente di avere scritto discorsi giudiziari (Antidosis, 3, 38, 41, 49; Panatenaico, 11). 121 In merito, una aneddotica piuttosto ostile è riportata dallo Pseudo-Plutarco, 837 b-e. 122Elena, 11; Palamede, 24. 123 Contro i sofisti, 8. 124Antidosis, 271. 125 Contro i sofisti, 1.

Sofisti, Retori, Socrate e le Scuole socratiche

17 1

zionale, ossia la ricerca propriamente veritativa, a costituire nella sua opera il contenuto più strutturale per l’uomo126. Isocrate inoltre, in maniera chiaramente antiplatonica ed anti­ socratica (Antistene, l’unico socratico di rilievo rimasto ad Atene dopo la morte del maestro, fu, come noto, uno dei suoi bersagli principali), non riconobbe grande valore nemmeno al concetto di sophia, negando validità ad ogni conoscenza teoretica universale in grado di orientare l’agire etico e politico, non essendo a suo av­ viso la virtù insegnabile127. Ad Isocrate, infatti, non interessava la verità in quanto tale, ma il «vero utile»128, ossia il sapere pratico. Il sapere teoretico si mostrava invece, nella sua opera, poco interes­ sante, proprio appunto per la sua scarsa utilità129. Nella struttura argomentativa di Isocrate risultava centrale la persuasione (peitho), la quale aiuta gli uomini a migliorare sia sul piano della conoscenza, sia su quello della convivenza. È infatti grazie alla capacità di persuadersi a vicenda - non ad una natu­ rale tendenza comunitaria della natura umana130 - che gli uomini hanno potuto abbandonare lo stadio della vita ferina e costituire le poleis131. Così Isocrate si espresse anche nelVEpitafio di Lisia, in cui la peitho viene ritenuta indice di civiltà, insieme alla legge e contrapposta a òia132. La peitho si serve infatti di parole, mentre la bia si serve di forza fisica133. Isocrate dunque, ritenendo come Gorgia centrale la parola, si situò per un certo aspetto in continuità con la tradizione ellenica, per la quale il parlare, soprattutto se unito ad un conforme agire,

126 Come scrive correttamente Jaeger 2004 (p. 1592), per Isocrate «non è dato alla natura umana raggiungere vera e propria scienza, nel rigoroso senso della episteme platonica». 127Su queste tematiche rinviamo a Haskins 2004. Interessanti spunti anche in Guarini 1988. 128In questo senso anche Carlo Natali, in Montoneri-Romano 1985, p. 53. 129II logismos cui fa sovente riferimento Isocrate è il ragionamento pratico, che come tale non si oppone alla doxa, ma giunge anzi a conclusioni compatibi­ li con essa (Panatenaico, 261). La strategia retorica di Isocrate del resto, come risulta nélYElena, consistette spesso in un accumulo di testimonianze senza alcuna argomentazione stringente (quali invece erano anche, in certo modo, le dimostrazioni per assurdo di Gorgia). 130 Come si mostra nel Panegirico (83; 186), la lode e la fama, non il bene, costituiscono per Isocrate i valori di riferimento per ogni esortazione alla virtù. 131Antidosis, 253-254. 132Epitafio di Lisia, II, 18-19. 133Isocrate sottovaluta tuttavia (a differenza di Platone: Sofista, 241 d; Apo­ logia di Socrate, 35 b-d; Protagora, 316 c-d; ecc.; su queste tematiche in Plato­ ne rinviamo a Taglia 1998) che è possibile anche una violenza verbale.

17 2

C a p ito lo I V

costituì sin dagli inizi la principale espressione della identità perso­ nale e della coesione sociale134. Sotto un altro aspetto tuttavia, ossia per quanto concerne il rivolgimento alla persuasione135 anziché al logos epistemico136, egli si discosto in parte dalla tradizione in via di consolidamento con Platone ed Aristotele137. Più che sul piano razionale e morale, dunque, la “filosofia” di Isocrate agì soprattutto sul piano retorico. A suo avviso, infatti, la parola doveva essere ornata, bella, seducente, il che spiega la gran­ de cura che egli dedicò alle sue opere. Esse dovevano avere appunto il fine principale del convincimento dei propri interlocutori, unica modalità attraverso la quale potevano ottenere utilità pratica, fine ultimo della retorica isocratea138. Per concludere, si può affermare che per Isocrate, come per lar­ ga parte della Sofistica, la natura dell’uomo rimane ancora nella sua essenza non ben definita, contrariamente a quanto iniziava ad avvenire nell’opera coeva di Platone ed Aristotele. Proprio il con­ fronto con Platone risulta, in questo senso, molto significativo, per la forte opposizione verificatasi fra i due pensatori139. Platone infat­ ti, pienamente convinto che il logos costituisse il carattere princi­ pale della essenza razionale dell’uomo, ritenne appunto che si può e si deve giungere alla verità, ossia a quella episteme onto-assiologica il cui possesso soltanto - per quanto difficoltoso - può dirci 134Già in Omero (Iliade, IX, 443) infatti, come ricordato, il vecchio Fenice, precettore di Achille, afferma che l’uomo veramente perfetto è quello insieme capace di parlare e di agire. 135 Nell’Aeropagitico (45) Isocrate pone la «filosofia», ossia la retorica, in maniera analoga ad attività quali ginnastica, cinegetica, ippica, il cui fine è la vittoria. 136 Isocrate elogia certo anche il logos (A Nicocle, 5-9; Antidosis, 253-256; Panegirico, 48); tuttavia, è il mero logos della retorica quello che egli elogia (De Romilly 1975, pp. 52 ss.). Non a caso Isocrate caratterizza due volte il lo­ gos (A Nicocle, 6; Antidosis, 254) come ciò che serve a «persuaderci gli uni gli altri». 137Berti 1997 (p. 89), sottolineando la continuità fra l’umanesimo di Plato­ ne ed Aristotele, ha così affermato: «Isocrate è stato definito come fondatore della cultura umanistica, titolo che gli spetta solo in parte, poiché egli fu padre solo di un certo umanesimo, quello retorico-letterario, a cui si oppone l’umane­ simo scientifico-filosofico di Platone. La rivalità fra le diverse concezioni dell’e­ ducazione, rappresentata da Isocrate e Platone, costituisce dunque un vero e proprio conflitto degli umanesimi, che riempì di sé la vita cultura ateniese del IV secolo». 138Per Bellatalla-Genovesi 2013 (p. 43), «la retorica per Isocrate è mezzo e fine del processo educativo». 139In senso più conciliativo, circa il dibattuto rapporto fra Isocrate e Plato­ ne, Eucken 1983, pp. 273 ss.

Sofisti, Retori, Socrate e le Scuole socratiche

173

realmente cosa si deve 0 non si deve fare. Fermarsi al livello della doxa invece, come proponeva Isocrate, avrebbe per Platone signifi­ cato non realizzare tutte le potenzialità razionali e morali presenti nell’uomo. Se ci si ferma all’opinione, come Platone chiarisce nel Menone, il sapere non è infatti mai un possesso saldo, poiché non si è in grado di rendere ragione di ciò che pure si ritiene di cono­ scere. Per questo il modello di Platone furono le matematiche, che non a caso Isocrate considerava utili solo come «ginnastica menta­ le»140, necessitando a suo avviso la pratica della vita, caratterizzata dalla mutevolezza delle circostanze, di saperi molto più duttili e flessibili141.

3. Socrate Il pensiero dell’Ateniese Socrate (469-399), così come quello di Platone, risulta pienamente comprensibile solo se posto all’interno del contesto storico-sociale che gli ha dato vita142. Pur non avendoci egli, come noto, lasciato scritti, e pur possedendo sulla sua filoso­ fia esclusivamente testimonianze143, possiamo affermare che la sua attività costituì una continua opera di critica costruttiva alle mo­ dalità di vita ed alle opinioni più diffuse della Atene del suo tempo, alla luce di una concezione razionale e morale della natura umana.

140Antidosis, 266. 141 In questo senso le posizioni di Isocrate sono ben descritte in Wilms 1995. 142 Sul pensiero di Socrate la letteratura è come noto vastissima. Limitan­ doci all’essenziale, rinviamo a Martin 1967, Maier 1970, Giannantoni 1971, Vlastos 1991, Burnet 1994, Montuori 1998, Reale 2000 a, Santas 2003, Dorian 2004, Ahbel Rappe-Kamtekar 2007, Morrison 2010, Bussanich-Smith 2013 e Sassi 2015. 1431 principali testimoni del pensiero di Socrate superano i consueti four horses di cui parlava Guthrie 2000 (Aristofane, Senofonte, Platone, Aristote­ le). Un posto di rilievo andrebbe accordato, infatti, almeno ad Eschine di Sfetto, specialmente alla luce dei Papiri di Ossirinco 2889 e 2990 pubblicati nel 1972, e allo Zopiro di Fedone; in secondo luogo all’insieme delle testimonianze dei comici; in terzo luogo ad un ampio brano di Filodemo (PHerc 1008). Ci sono inoltre i vari logoi sokratikoi, ovvero «conversazioni socratiche», talvolta di diffìcile attribuzione, che costituiscono purtroppo una produzione in larga parte perduta. Mario Vegetti (La letteratura socratica e la competizione fra generi letterari, in Roscalla 2006, pp. 119-131) ha in merito stimato «circa 200 titoli per circa 250 libri, per un insieme di circa 300 unità dialogiche». Tutte le principali testimonianze socratiche rimaste sono presenti in Giannantoni 1970.

174

C a p ito lo I V

Per ben comprendere Socrate e la sua analisi dell’uomo, può essere utile, ad avviso di chi scrive, partire da alcune testimonianze di Aristotele. Le due principali innovazioni, infatti, che lo Stagirita attribuì a Socrate sono le seguenti: a) aver ricercato la definizio­ ne degli enti analizzati; b) essersi occupato soprattutto della virtù degli uomini144. Questi due contenuti sono in effetti strettamente connessi, e la loro connessione emerge analizzando le principali te­ matiche della Sofistica. Molti Sofisti dichiararono infatti inesisten­ te, o comunque non definibile, la natura umana, talvolta ritenendo l’uomo semplicemente un ente che tende ad adattarsi al contesto in cui vive. Questo equivaleva per Socrate a non comprendere la realtà della natura umana, ossia a fermarsi alla apparenza, alla ef­ fettualità, alla descrizione di ciò che in un certo contesto storico-so­ ciale accade, senza valutare ciò che l’uomo è nel profondo, la sua essenza ideale, ciò che l’uomo potrebbe essere date le potenzialità della sua natura. Per questo per Socrate, come ben colse appunto Aristotele, era necessaria una definizione dell’uomo che ne mettes­ se in evidenza la virtù, ossia le qualità proprie, gli elementi costitu­ tivi, i contenuti che lo caratterizzano nella sua essenza come uomo. Con Socrate, come ora mostreremo, inizia esplicitamente a prendere forma una concezione razionale e morale dell’uomo. L’uomo infatti, come con la sua vita egli mostrò in maniera emble­ matica, si realizza solo ricercando la verità ed il bene. Solo vivendo in questo modo, ossia avendo cura della propria anima, l’uomo può giungere alla felicità, proprio in quanto, così facendo, vive in ma­ niera conforme alla propria natura145. La natura razionale dell’uomo L’opera di Socrate, come detto, si pose in maniera oppositiva rispetto alle concezioni dei Sofisti sull’uomo. Tale opera si pose inoltre, almeno in parte, in maniera differente rispetto alla ricer­

144Nella Metafisica (987bi-n; 1078 bi.7-29; 1086 b3-7), in particolare, Ari­ stotele attribuisce a Socrate la prima indagine intorno all’universale (katholou), ossia alla definizione generale degli enti. Comprendere la forma (eidos) universale costituita per l’uomo appunto dalla natura umana, equivaleva per Socrate (così come per Platone ed Aristotele) a conoscere il modello sulla base del quale valutare l’adeguatezza di tutti i comportamenti particolari. 145 Centralizza questo tema, affrontandone gli sviluppi nel pensiero occi­ dentale, Sarri 1997.

Sofisti, Retori, Socrate e le Scuole socratiche

175

ca naturalistica sulla physis146. Non per questo tuttavia si deve interpretare il pensiero di Socrate come una totale rottura con la tradizione precedente. Dal punto di vista dell’uomo infatti la filo­ sofia socratica, così come più in generale l’intera filosofia classica, si pose per molti aspetti «in continuità con la sapienza poetica»147. Un ulteriore legame della filosofia socratica con la tradizio­ ne antecedente è quello con la dottrina orfica, secondo cui, come ricordato, il vero uomo era costituito dalla sua psyche. In base a questa dottrina, che Socrate considerò pur senza aderirvi, i beni importanti per una buona vita non sono quelli esteriori legati al corpo, bensì quelli interiori, per cui la felicità consiste nell’attua­ zione degli stessi. Pur essendo Socrate consapevole che l’uomo è costituito da una unità psicofisica148, rimane indubbio che la ricetta orfico-pitagorica, caratterizzata dalla necessità insieme di cono­ scersi e di purificarsi, fu implicita nella concezione della natura umana che Socrate andava formando149. La natura dell’uomo fu comunque, per Socrate, principalmente razionale. Si è a tal proposito parlato di «intellettualismo socra­ tico»150 proprio per indicare il fatto che per Socrate l’uomo deve necessariamente conoscere con verità, per poter poi agire bene e realizzare la propria essenza. Il fine del conoscere era del resto per Socrate il bene, ossia il come vivere bene con sé stessi e con gli altri, a riprova che la natura umana era, a suo avviso, insieme razionale (deve conoscere) e morale (per fare il bene).

146 Dice bene Reale 2004 (voi. IX, p. 45) che «Socrate ha semplicemente spostato sull’uomo quel tipo di domanda che i Naturalisti ponevano intorno al cosmo. Questi intendevano spiegare tutte le cose relative all’universo, riducen­ dole all’unità di un principio (o di alcuni principi); Socrate intendeva, invece, spiegare tutte le cose relative all’uomo e alla sua vita, pure riducendole all’unità di un principio: voleva arrivare alla essenza dell’uomo, e, in funzione di questa, reinterpretare tutta la vita dell’uomo». 147 Guastini 2003, pp. 25-26. Ciò è ricordato anche in Doring 1979, De Luise-Farinetti 1997, Pancera 2003 ed Otto 2005. 148 Senofonte (Memorabili, I, 2, 1-4), ad esempio, ricordava che Socrate «non si disinteressava del corpo e non lodava chi se ne disinteressava». La cura dell’anima infatti non richiedeva per Socrate alcuna mortificazione del corpo, come poi mostreremo anche con riferimento alla testimonianza platonica. 149Va sottolineato tuttavia che per il pensiero orfico, il demone che espiava in noi la colpa era tanto più sé stesso quanto più si staccava dall’io consapevole, quindi soprattutto nel sonno, nello svenimento e nella morte. Evidente la di­ stanza dalla riflessione socratica, per la quale siamo tanto più noi stessi quanto più siamo coscienti. 150Rinviamo ad esempio a Bartolone 1999.

176

C a p ito lo I V

L’affermazione secondo cui, per Socrate, la ragione costituisce l’essenza dell’uomo, potrebbe sembrare strana alla luce della mas­ sima che egli ripeteva continuamente - almeno nelle testimonian­ ze di Platone - , e che rappresentava il motore della sua dialettica maieutica, ossia il «sapere di non sapere»151. Ciò nonostante, se ben si riflette, era proprio la ricerca di verità, conseguenza appunto del­ la natura razionale dell’uomo, che lo spingeva continuamente ad interrogare gli altri e ad esimersi dal compiere molte azioni: non conoscendo, infatti, non si può essere certi di fare il bene, e si ri­ schia anzi di fare il male. Occorre quindi non interpretare il «sapere di non sapere» so­ cratico come una forma di scetticismo, ossia come se la condizio­ ne umana fosse costitutivamente caratterizzata dal non sapere. L’uomo può infatti conoscere molte cose, anche se non può cono­ scerle tutte152. Come mostrano in effetti i dialoghi platonici in cui Socrate è protagonista, il dubbio, la problematizzazione, l’aporia, costituivano per lui solo la molla della ricerca veritativa, al cui esito conclusivo egli non dubitò di poter giungere (pur effettivamente non essendo mai giunto ad una definizione conclusiva). Il Socrate descritto da Platone era infatti alla incessante ricerca della stabile definizione del contenuto analizzato - di solito una virtù umana - , evidentemente convinto che tale ricerca potesse sempre pervenire, in linea di principio, ad una fine153. Il fatto che Socrate sia sem­

151 In Giannantoni et al. 1995 (p. 32), Giannantoni afferma che «in questo atteggiamento di Socrate [...], vale a dire nel suo sapere di non sapere, è da indicare l’inizio di ciò che i Greci indicarono con il termine di philosophìa». 152 Socrate dichiarava come noto di possedere principalmente una anthropine sophia (Apologia di Socrate, 20 d; 23 a; Fedro, 278 d), come tale non assoluta, a differenza della theia sophia. Si trattava comunque, pur sempre, di una sophia, ossia di un sapere stabile (in questo senso anche alcuni saggi in Benson 1992). Socrate affermava del resto di sapere diverse cose. Asolo titolo esemplifica­ tivo, e considerando unicamente l’Apologià di Socrate, affermava di sapere che è sbagliato compiere un atto ingiusto in qualsiasi circostanza (29 b; 32 b-c; 33 a); che la cosa più importante è l’esame di sé stessi in funzione dell’arefe (Id., 31 b; 38 a; 41 e); che occorre avere cura «del pensiero, della verità e deU’anima in modo che diventi il più possibile buona» (29 e); e diversi altri contenuti, da varie testimonianze, si potrebbero aggiungere. 153 Per questo motivo non concordiamo con il pur interessante Lo Schiavo 2008 (p. 34), per il quale la episteme per Socrate coinciderebbe in sostanza «con la sua affermazione di non sapere». Lo Schiavo si appoggia sulla tesi di Calogero 1984 (p. 113), secondo cui il fondamento della filosofia socratica, il «bene supremo», starebbe «nel dialogare quale perenne modello di compor­ tamento». A nostro avviso, tuttavia, Socrate non può essere considerato un

Sofisti, Retori, Socrate e le Scuole socratiche

177

pre stato pronto a rimettere in discussione le conclusioni provvi­ soriamente raggiunte, così come a sottoporre ad esame anche le tesi più accreditate (perfino il responso dell’oracolo delfico, che lo dichiarava il più sapiente degli uomini)154, mostra soltanto che per lui la ricerca, il dialegesthai, Yexetazein, Yelenchein erano appunto qualcosa di connaturato alla essenza razionale dell’uomo155. La sua scelta di morire in carcere pur di non condurre una esistenza priva di zetesis, dunque non da uomo, ne costituisce la dimostrazione migliore156. La conoscenza tentata da Socrate, pur - come ogni ricerca re­ almente filosofica - costitutivamente orientata all’intero, fu incen­ trata soprattutto, come detto, sulla conoscenza di sé, ossia della propria umanità, della propria anima. Il motto delfico gnothi sauton, ossia «conosci te stesso», compreso fra le sentenze dei Set­ te sapienti, è infatti più volte richiamato da Socrate come impre­ scindibile per una buona vita157. Da queste testimonianze risulta in modo chiaro, come ha scritto giustamente Giovanni Reale, che «l’anima per Socrate viene fatta coincidere con la nostra coscienza pensante e operante, con la nostra ragione [...] eticamente operan­ te. Tutta la dottrina socratica può riassumersi in queste posizio­ ni convergenti: conoscere sé stessi e avere cura di sé stessi»158. In questo consiste appunto la natura razionale e morale dell’uomo, il quale, conoscendo, realizza l’autodominio e con esso la libertà, «il bene più eccellente per gli uomini»159.

filosofo avente il dialogo come fine, poiché, da greco, egli non cercava tanto per cercare, ma per trovare. 154Platone, Apologia di Socrate, 21 b-c. 155 II termine elenchein indica l’atto di “mettere alla prova” un individuo e “verificare” la correttezza della sua condotta morale, misurando la coerenza di parole e comportamenti. L’elenchein non riguarda in Socrate semplicemente la correttezza logica di un discorso, ma insieme la coerenza fra ciò che si dice di essere e ciò che si è, dunque entra anche alfinterno di una valutazione onto-assiologica della realtà umana. 156In questo senso anche Giannantoni 2005. 157 Platone, Protagora, 343 a-b; Alcibiade maggiore, 124 a, 129 a, 130 e; Senofonte, Memorabili, IV, 2, 24 et al. 158 Reale 2001, p. 87. In maniera analoga Zanatta 2016 (p. 127) afferma che «Socrate [...], avendo riferito all’anima, quale espressione dell’autentica identità del soggetto umano, i valori morali e, in specie, la virtù, e avendo fatto coincidere la virtù con la conoscenza, aveva con ciò stesso individuato nell’ani­ ma ciò a cui vanno riferiti il conoscere e l’essere virtuosi. L’anima era dunque, per il maestro ateniese, la coscienza pensante e per ciò stesso morale». 159 Senofonte, Memorabili, IV, 5. Sul tema della libertà nel pensiero greco rinviamo a Pohlenz 1963 e Raaflaub 2015

i 78

C a p ito lo I V

La natura morale dell’uomo La natura dell’uomo risulta per Socrate non solo razionale ma anche morale, ossia caratterizzata dalla necessità di esercitare il ri­ spetto e la cura nei confronti, oltre che di sé stessi, anche degli altri uomini. Uno dei punti fermi dell’etica socratica, in merito, è infatti che non si deve mai commettere ingiustizia, neppure per restituir­ la160. Ciò in quanto essa costituisce sempre un male, e chi fa il male, anche se pensa di farlo ad altri, lo fa in realtà sempre soprattutto a sé stesso, derealizzando così la propria natura (morale) di uomo161. Nessuno dunque, per Socrate, se conosce realmente può com­ piere il male, ma solo appunto in quanto non conosce, poiché solo l’assenza di conoscenza conduce a confondere un bene reale con un bene apparente162. Per questo, per Socrate, scienza e virtù sostan­ zialmente coincidono. L’uomo virtuoso, ossia colui che realizza il bene, è infatti in primo luogo colui che conosce il bene, e che lo co­ nosce con la maggiore verità possibile163. Per questo motivo, come indica YEutifrone platonico, le varie virtù sono tutte riconducibili, per Socrate, ad una unica scienza dei beni e dei mali. Socrate, dun­ que, rifiutò - sebbene con diverse gradazioni - sia l’identificazione del bene con l’utile individuale (l’utilitarismo della prima Sofistica), sia l’identificazione del bene col piacere O’edonismo della seconda Sofistica). Utilitarismo individualistico ed edonismo furono infatti per lui dei mali, che potevano essere combattuti solo con una ade­ guata conoscenza. In questo senso l’uomo era per Socrate in larga parte artefice del suo destino, e l’uomo virtuoso, in particolare, non aveva nulla da temere in merito alla propria felicità, in quanto nul­

160Platone, Apologia di Socrate, 33 a; Critone, 49 b. 161 Platone, Repubblica, 469 b-c. Come ricorda peraltro in merito Giannantoni 1971 (p. 124), per Socrate «meglio non commettere mai ingiustizia, ma una volta commessa, è infinitamente meglio pagarne la pena e liberarsi così di questa malattia dell’anima, piuttosto che sfuggire la pena e restare con l’anima malata». 162Si tratta peraltro di una testimonianza univoca, presente sia nei dialoghi di Platone [Liside, 218 a; Protagora, 345 b-e; Politico, 336 e; 381 c; Sofista, 228 c; Simposio, 204 a; Fedro, 248 c; 260 c; ecc.), che verosimilmente condivi­ deva anch’egli questa tesi, sia nei Memorabili di Senofonte. In quest’opera (I, 1,16) Socrate identifica i buoni con coloro che conoscono le essenze concettuali delle varie virtù e dei vizi corrispondenti; afferma inoltre che le virtù si accre­ scono con l’apprendimento (II, 6, 39), e che l’eccellenza di ogni individuo è riposta nel sapere (III, 6,17; simili riferimenti in III, 9, 4; IV, 2, 33 et al.). 163Platone, Lachete, 184 e.

Sofisti, Retori, Socrate e le Scuole socratiche

179

la di male gli poteva accadere, avendo egli buona, dunque in salute, la propria anima164. L’etica socratica, per quanto propriamente finalizzata alla cura dell’anima, fu anche un’etica politica, rivolta cioè ad occuparsi degli altri uomini e dell’intera polis. Essendo l’uomo un ente comunita­ rio, nessuno poteva a suo avviso essere felice da solo. Ai giovani ed ai concittadini cui principalmente si rivolgeva, Socrate insegnava infatti, per la loro stessa felicità, il necessario rivolgimento al bene comune. Tale bene coincideva in parte col rispetto delle leggi della polis (cui il medesimo Socrate aveva in più occasioni dato prova di attaccamento)165, ma non solo. Sarebbe non corretto infatti ridurre la concezione etico-politica di Socrate al mero rispetto delle leggi formali. La dialettica socratica mostra in effetti in primo luogo la necessità della critica verso le opinioni correnti errate, da estende­ re anche alle norme del diritto positivo. Socrate stesso, quando il pur formalmente legittimo governo dei cosiddetti Trenta tiranni gli chiese di rendersi complice catturando Leonte di Salamina, si ri­ fiutò di eseguire l’ordine e ritornò alla propria abitazione (e proba­ bilmente per questo gesto sarebbe morto, se tale governo non fos­ se poco dopo caduto)166. Il riferimento onto-assiologico fondativo delle scelte era infatti per Socrate sempre costituito dalla propria natura razionale e morale di uomo, contro la quale non ci si doveva porre se si desiderava condurre una esistenza felice. Essa gli impo­ neva in merito di non compiere ingiustizia, dunque di mettere in discussione anche le leggi della polis, qualora esse appunto fossero state ritenute non conformi alla verità ed al bene. Socrate, certo, non si impegnò politicamente in prima persona, ben sapendo che verosimilmente, se lo avesse fatto, sarebbe stato ucciso, e non avrebbe più prodotto alcuna utilità per la polis167. Ciò in cui egli poteva invece giovare ad Atene era l’educazione dei gio­ vani, ossia la loro formazione, il tentativo cioè di plasmare la loro anima dando ad essa la forma razionale e morale di una compiuta umanità. Socrate fece dunque politica mediante la propria opera educativa, come riconobbe anche Platone168. Egli cercò di rendere

164La metafora medica è molto presente nel Socrate platonico: ad esempio, Critone, 47 e-48 a. Scrive correttamente, in merito, Jaeger 2004 (p. 1339) che «non si esagera dicendo che la scienza etica di Socrate [...] non sarebbe stata pensabile senza il modello della medicina, a cui Socrate spesso si richiama». 165 Platone, Critone, 50 b. 166Platone, Apologia di Socrate, 32 c-d; Lettera VII, 324 e-325 a. 167 Platone, Apologia di Socrate, 31 c-e 168Platone, Gorgia, 521 d;

i8o

C a p ito lo I V

buona la città cercando di rendere buoni gli uomini che la compo­ nevano169. L’umanesimo socratico fu inoltre anch’esso, come quello dell’A ­ teniese Solone, un umanesimo anticrematistico. Ciò è ribadito oltre che, come detto, dall’esempio di vita di Socrate, che non ac­ cettò mai denaro per i propri insegnamenti - in diversi dialoghi platonici, in primis l’Apologià di Socrate, in cui il filosofo ricordò agli Ateniesi di averli sempre invitati a non porsi come fine del­ la vita la ricchezza, il potere o il successo, ma solo la cura della propria anima. La tesi è testimoniata anche da Senofonte170, per il quale Socrate affermava che se ci si libera dai tanti desideri su­ perflui soddisfacibili solo col denaro, ci si libera da una forma di dipendenza, e ci si pone pertanto in una condizione di maggiore autonomia, condizione propria del dio, il quale appunto non dipen­ de da nulla e non ha bisogno di nulla. Molti altri sarebbero i contenuti connessi al tema dell’umano presenti nell’insegnamento di Socrate. Alcuni di questi saranno ap­ profonditi parlando di Platone, che di Socrate rimane il testimone principale. Tratteremo qui soltanto di una tematica poco indagata, quella della donna, che mostra anch’essa, in maniera paradigmati­ ca, l’umanesimo socratico. La donna In Socrate emergono sovente figure di donne rappresentate in modo molto positivo. Pensiamo, ad esempio, alla figura di Aspasia, la compagna di Pericle, di cui Socrate nel Simposio loda aperta­ mente l’intelligenza171. Pensiamo ancora, sempre nello stesso dia­

169 Come scrive giustamente Reale 2001 (p. 94), «non c’è dubbio che egli tendesse alla formazione di uomini che nel modo migliore potessero poi occu­ parsi della cosa pubblica; e non c’è dubbio nemmeno sul fatto che la maggior parte dei suoi amici lo frequentassero proprio a questo scopo. Del resto, sia Se­ nofonte che Platone concordano nel rilevare la natura politica (nel senso greco, naturalmente) dell’insegnamento socratico [...]. Il vero politico per Socrate non poteva che essere l’uomo perfetto moralmente, ossia il politico doveva essere politico nella dimensione dell’anima e capace di curare le anime degli altri». 170Senofonte, Memorabili, I, 6,10. 171 Ciò vale sia per il Simposio di Platone che per quello di Senofonte, in cui Aspasia compare (III, 10-11), citata da Socrate, come celebre per la sua cul­ tura. Di Aspasia si è affermato addirittura che applicasse il metodo dialettico socratico (Montuori 1998, pp. 263 ss., testo utile anche per la ricostruzione dei rapporti col circolo di Pericle). Come scrive ancora Cantarella 2010 (p. 89), «Socrate condivideva le idee di Aspasia sulla questione femminile. Pur lontano

Sofisti, Retori, Socrate e le Scuole socratiche

18 1

logo, a Diotima di Mantinea, dalla quale Socrate dichiara di essere stato istruito per quanto concerne le cose d’amore172. Socrate non si limitò comunque a sottolineare l’intelligenza, la cultura o il fascino di alcune figure femminili, ma, in un’epoca storica in cui la posizione delle donne era di forte subordinazione, rimarcò la loro importanza all’interno del nucleo famigliare. Senofonte173 riporta ad esempio il bel colloquio di Socrate col figlio Lamprocle il quale, irritato per il carattere difficile della madre Santip­ pe, si confidò appunto con lui. Socrate, nel rispondere, si soffer­ mò sulla cura che le madri hanno pressoché sempre per i figli, sui sacrifici che debbono sopportare per loro, e sulla gratitudine che dunque un figlio deve avere per la propria madre. Da qui la conclu­ sione: «Tu dunque ragazzo, se sei ragionevole, chiederai perdono agli dei per tutte le volte che sei venuto meno ai doveri verso tua madre, in modo che essi non ti considerino un ingrato, e non vo­ gliano più aiutarti. Dovrai anche guardarti dagli uomini, poiché se si dovessero accorgere che trascuri i genitori, ti eviteranno tutti e non troverai più amici. Se infatti dovessero pensare che sei ingrato con loro, nessuno crederà che tu possa mai essere riconoscente a chi ti fa del bene»174. Sempre Senofonte ricorda che Socrate fu molto scettico circa la inferiorità biologica che una larga parte della tradizione medica, anche ippocratica, attribuì alla donna rispetto all’uomo. Nel Sim­ posio175, di fronte alla abilità di una giocoliera, Senofonte riporta infatti che Socrate affermò che ciò che la donna stava facendo era «prova fra tante che la natura femminile non è naturalmente in­ feriore a quella dell’uomo, salvo perché manca di saggezza e forza dall’affermare la totale parità fra uomini e donne, egli era tutt’altro che misogi­ no, come erano, di regola, i suoi contemporanei». 172 Platone, Simposio, 201 d-212 c. Anche nel Menesseno platonico (235 e-236 b), Diotima è presentata come maestra di Socrate. Sulla figura di Dioti­ ma il dibattito è ancora vivace. Tra le poche posizioni che tendono ad identifi­ carla con una figura reale, e non meramente simbolica, Zambrano 1997. 173 Non entriamo in questa sede nel merito della questione delle (in parte) differenti testimonianze di Senofonte rispetto a quelle di Platone, su cui rin­ viamo a Patzer 1987, Graham 1992, Brickhouse-Smith 1994 e ad alcuni saggi presenti in Judson-Karasmanis 2006 e Mazzara-Narcy-Rossetti 2007. Su Se­ nofonte ci limitiamo a rimandare ad Anderson 1974, Higgins 1977 e soprattutto a Dorion 2013. 174Memorabili, II, 2. Come scrive anche Laurenti 1973 (pp. 42-43) in rap­ porto a questa testimonianza, «niente c’è che possa offuscare il rispetto e l’am­ mirazione che Socrate tributa alla donna come madre e come moglie». In que­ sto senso anche Adorno 1970, p. 124. 175 Senofonte, Simposio, II, 8-9.

18 2

C a p ito lo I V

fisica». La precisazione finale non è certo di poco conto, ma Se­ nofonte insiste sul fatto che nelle varie occasioni Socrate rimar­ cava come fosse soprattutto la mancanza di educazione a rende­ re le donne meno sagge degli uomini176. Socrate riteneva peraltro che fosse dovere dei mariti insegnare alle giovani mogli ad esse­ re buone compagne, evitando che paradossalmente la compagna della vita fosse anche la persona con cui si dialogava meno177. Con una maggiore educazione, che allora non veniva impartita, anche le donne avrebbero potuto contribuire per Socrate al bene della fa­ miglia e della polis, in maniera simile a quella dell’uomo178. Come scrive giustamente Èva Cantarella, «Socrate era particolarmente ben disposto verso le donne, e non si limitava a riconoscere astrat­ tamente le loro capacità, ma ascoltava i loro consigli, giungendo ad ammettere senza difficoltà che alcune di esse avevano saggezza superiore alla sua»179. A detrimento di Socrate si potrebbe indubbiamente citare la modalità un po’ sprezzante con cui egli liquida, nel Fedone, la mo­ glie Santippe piangente venuta a salutarlo per l’ultima volta180. In generale tuttavia la concezione socratica della donna risulta impor­ tante, come rimarcato, poiché essa conferma in maniera indiretta la natura razionale e morale dell’anthropos, che sarà poi meglio strutturata nelle riflessioni di Platone ed Aristotele. Mostreremo ora invece come l’insegnamento socratico sia pas­ sato, in modi vari e fra loro anche contrastanti, in diversi suoi al­ lievi, ritenuti fondatori di cosiddette «scuole socratiche minori»181.

176 Si tratta peraltro della medesima convinzione espressa da Platone nel V libro della Repubblica. Sulla (pressoché inesistente) educazione delle bambine in Grecia, rinviamo al documentato Seveso 2011. In generale, sulla condizione della donna nella antichità, la letteratura è vastissima: alcuni testi importanti in merito solo Paoli 1953, Giallongo 1981, Arrigoni 1985, Duby-Perrot 1990, Loraux 1991, Mossé 1992, Bettini 1993, Reeder 1996, Franco 2003, Faranda 2007, Cambi 2008, Bernard 2011. 177 Senofonte, Economico, III, 12. 178Id., Ili, 14-15. 179Cantarella 2010, p. 87. 180Platone, Fedone, 60 a. 181 «Minori», si intende, rispetto alla scuola di Platone. Su questo tema, ancora utilissima la raccolta di saggi Giannantoni 1977.

Sofisti, Retori, Socrate e le Scuole socratiche

18 3

4. Le Scuole socratiche Un insegnamento, e soprattutto un modello di vita come quello di Socrate, il quale divenne celebre mentre era ancora in vita, non potè non attrarre, da varie parti del mondo ellenico (e non solo), diversi allievi in cerca di un messaggio in grado di dare senso e valore alla esistenza. Si potrebbe a lungo discutere su chi sia stato il più fedele allievo di Socrate, così come su chi sia stato il più fedele testimone delle sue dottrine. Come già rimarcato, Socrate non ha scritto nulla, e larga parte dei logoi sokratikoi - ossia appunto dei discorsi scritti dai suoi allievi nelle diverse “scuole” - sono andati perduti, sicché è difficile prendere posizione in merito182. Quanto desideriamo fare in queste pagine è soltanto rilevare la presenza di una discreta serie di pensatori i quali si sono rapportati come riferimento a Socrate. Costoro, per quanto concerne l’uomo, hanno prodotto contributi degni di rilievo. In questa sede ci occuperemo principalmente del Cinismo e della cosiddetta Scuola cirenaica, oltre ad un accenno fi­ nale ad altre scuole minori. Rileveremo i punti di concordanza con il pensiero di Socrate, ma segnaleremo anche molte discordanze, tanto che sarà talvolta lecito dubitare della liceità della attribuzione di “Socratici” a queste figure. Il Cinismo Il Cinismo prende il proprio nome o dal Ginnasio di Cinosarge, in cui sorse la scuola del suo presunto fondatore Antistene, o più verosimilmente dal modo di vivere «da cane (kyon)» del suo più emblematico rappresentante, Diogene di Sinope183. Esso risultò es­ sere, più che una vera e propria scuola, uno «stile di vita»184, ossia l’indicazione di una serie di comportamenti da tenere in grado di assicurare all’uomo la maggiore possibile felicità.

182 Sulle Scuole socratiche, ed in generale sul Socratismo, rinviamo a Humbert 1967, Van der Waert 1994, Romeyer Dherby-Gourinat 2001, Rossetti-Stavru 2008 e 2010, De Luise-Stavru 2013. 183Anche Antistene fu tuttavia soprannominato «cane puro» (Diogene La­ erzio, Vite dei filosofi, VI, 60). 184 Come scrive M.O. Goulet-Cazé (in Brunschvig-Lloyd 2005, p. 414), «il Cinismo non fu mai una scuola [...] questo movimento filosofico in effetti si collocava volontariamente al di fuori del quadro tradizionale della vita delle scuole».

18 4

C a p ito lo I V

Parlando del Cinismo, occorre subito sciogliere una questione preliminare, ovvero quella del “fondatore” della dottrina, dato che di solito si fa riferimento appunto a due figure, Antistene e Diogene1® 5. Non si tratta di una questione meramente “attributiva”. La fi­ losofia di Antistene e quella di Diogene risultano infatti essere per molti aspetti fra loro differenti18 186. Si tratta inoltre di una questione 5 assai difficile da dirimere, dato lo stato della documentazione di­ sponibile: nulla o quasi, infatti, è sopravvissuto della antica lettera­ tura cinica. Conosciamo questi filosofi in effetti soprattutto grazie ad una serie di aneddoti e di detti, il cui valore storico risulta diffi­ cilmente verificabile. Per questo motivo, per fare un po’ di chiarez­ za all’interno della tradizione cinica, dovremo analizzare separatamente le due figure, trattando prima di Antistene e poi di Diogene. Antistene Antistene (445-365 c.a.) viene talvolta considerato, come det­ to, il “fondatore teorico” del movimento cinico, mentre Diogene di Sinope viene ritenuto il “rappresentante più emblematico”. Que­ sta visione delle cose ha un fondo di verità, in quanto Antistene fu autore di un gran numero di opere, e si occupò di una pluralità di tematiche1® 7. Dal catalogo dei suoi scritti riportato da Diogene Laerzio risultano infatti 63 titoli, alcuni dei quali di considerevole lunghezza, come le tre Protrettiche sulla giustizia e il coraggio, i cinque libri su L ’educazione ed i quattro libri su L ’opinione e la conoscenza. I temi trattati furono come detto molto vari, spazian­ do da Omero188 alla filosofia naturale. La prevalenza fu comunque data alle tematiche morali.

185 Scrive bene, a nostro avviso, Trabattoni (in Trabattoni-Vegetti 2016, voi. I, p. 241) che «nella tradizione antica Diogene era considerato un socra­ tico discepolo di Antistene, che sarebbe il vero fondatore dell’indirizzo cinico. In realtà [...] ciò non è storicamente corretto. È possibile che Diogene abbia contestato, come Antistene, l’immagine di Socrate proposta da Platone, ma è praticamente certo che il cinismo si sviluppa solo con Diogene». In direzione analoga Giannantoni (in Migliori 2000, p. 141), per il quale Diogene fu «il vero e proprio fondatore teorico e pratico del Cinismo». 186 Sulla storia del Cinismo, rinviamo a Dudley 1937, Holstad 1948, Goluet Cazé-Goulet 1993, Branham-Goulet Cazé 1996 e Desmond 2006. 187 Sul pensiero di Antistene rinviamo, oltre agli ottimi Brancacci 1990 e 2010, a Deeleva Caizzi 1964. 188Circa un quinto dei titoli rimasti sembra essere inerente all’opera omeri­ ca: Su Omero, Su Calcante, Su Proteo, Su Elena e Penelope, Sull’Odissea, ecc.

Sofisti, Retori, Socrate e le Scuole socratiche

18 5

Indipendentemente dal discorso sulla autenticità dei titoli e sulla loro effettiva paternità (in alcuni casi controversa, ma di cui non possiamo qui occuparci), ciò che possiamo dire con certezza è che Antistene organizzò qualcosa di simile ad una scuola infor­ male, con letture e discussioni, nel ginnasio Cinosarge189. Al centro dell’insegnamento di Antistene vi furono, come detto, non temati­ che teoretiche ma etiche, in primo luogo la indicazione delle virtù da porre in essere per realizzare una buona vita. A suo avviso infatti «la virtù (arete) è nelle azioni: non ha bisogno né di moltissime parole (o argomentazioni, logoi) né di moltissime conoscenze (mathematà)»190. Nella sua concezione di virtù risultavano centrali la resistenza, l’autocontrollo e l’indifferenza ai piaceri. L’obiettivo del Cinismo era infatti il raggiungimento, per ogni uomo, dell’autosuf­ ficienza, dato che «la virtù è sufficiente (autarkes) per la felicità e non ha bisogno di nulla»191. Centrale per Antistene era anche l’ami­ cizia, la quale solitamente si realizza appunto fra uomini virtuosi192. Il grande numero delle sue opere mostra comunque che anche il sapere aveva una notevole importanza nella filosofia di Antiste­ ne. Il nesso tipicamente socratico tra sapere e moralità appare in effetti costitutivo della sua riflessione. Come rileva giustamente Aldo Brancacci, la paideia di Antistene, «fondata sulla funzione del logos come strumento di coglimento, attuazione e trasmissione del vero, implica una interpretazione in senso positivo e [...] dog­ matico del dialegesthai socratico, da cui discende la possibilità di instaurare il sapere scientifico e di porne il sophos come metro e garante»193. Indubbiamente, la teoria cui Antistene aspirava non era un sa­ pere enciclopedico, come quello dei Sofisti o di Platone, che in alcu-

Da notare che, come il Socrate platonico, anche Antistene considerava Odisseo una sorta di sapiente. 189 Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VI, 3-4; 13. Si trattò comunque di una esperienza molto differente rispetto a quella delle scuole di Platone ed Aristo­ tele. 190 Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VI, il. 191 Id., VI, 11. 192 Id., VI, 12. 193 In Giannantoni-Narcy 1997, p. 157. Brancacci 1990 (p. 91) afferma anche, sempre giustamente, che «Lintellettualismo che è alla base di questa posizione affonda evidentemente le sue radici nel pensiero di Socrate, nella necessità [...] che la consapevolezza e il conoscere si accompagnino all’azione morale, in unità inscindibile di teoria e prassi».

i86

C a p ito lo IV

ne opere appunto criticò194. Per il Cinismo, infatti, la quota teoreti­ ca necessaria a far conseguire all’uomo la virtù, quindi Yenkrateia, non era elevata. Un eccesso di studi rischiava anzi di allontanare dall’arefe. Nella sua opera intitolata Verità, quest’ultima era in­ fatti identificata non con il sapere teoretico, bensì con la scienza delle cose da fare al fine appunto di giungere all’autodominio. Il motivo della ricerca della verità era in effetti collegato in Antistene con quello della realizzazione etica, del miglior modo di diventa­ re kalos kai agathos: in ciò consisteva per lui il philosophein. Ciò nonostante, per Antistene furono molto importanti gli studi logi­ co-dialettici in quanto, a suo avviso, il linguaggio comune si ferma al livello dell’equivoco, senza essere in grado di attribuire ad ogni ente Yoikeios logos. La verità richiede invece per ogni termine un significato univoco appropriato, in quanto altrimenti risultano ine­ vitabili i problemi nella comprensione della realtà e nei rapporti fra uomini195. Emerge dunque anche in Antistene, per quanto declinata in ma­ niera differente rispetto a Socrate, l’idea implicita di una natura razionale e morale dell’uomo che si realizza, appunto, cercando di conoscere con verità quanto più utile all’uomo, per applicare que­ ste conoscenze alla vita196. La ricerca razionale si esplica soprat­ tutto, nella sua opera, nella chresis ton onomaton, ossia in quella analisi del significato dei nomi costituita da una distinzione dei molteplici significati degli onomata tesa a mostrare la possibilità di ricondurre il molteplice alla unità. L’unità semantica di un ente rappresenta infatti il significato proprio (oikeion) di ogni termine e tale significato, una volta ritrovato, per Antistene «assicura alla interpretazione un contenuto anche morale. La nozione di signifi­ cato garantisce così quella di valore [...]. Il significato di un termine esprime un valore che, scoperto dal saggio, non può subire limita­ zioni di sorta da parte di alcun potere costituito»197. La phronesis, da Antistene intesa come unità di teoria e prassi, era per lui «la più salda delle fortificazioni»198. Il saggio in effetti

194 Sulla polemica antiplatonica di Antistene, incentrata sulla critica della «teoria delle idee» e della teoria della definizione platoniche, una ottima sinte­ si si trova in Brancacci 1990, pp. 173-197. 195 II testo principale, con riferimento a questa tematica, rimane Brancacci 1990. 196 Su queste tematiche rinviamo a Patzer 1970. Si veda anche, ma con mi­ nor utilità, Rankin 1986. 197 Palumbo 2015, p. 88. 198 Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VI, 13.

Sofisti, Retori, Socrate e le Scuole socratiche

18 7

era a suo avviso autosufficiente, in quanto conoscendo la differenza tra ciò che è oikeion (proprio) e ciò che è allotrion (improprio), tra ciò che occorre fare e ciò che occorre evitare, tra ciò che è bene e ciò che è male, possiede tutta la conoscenza necessaria per vivere nel­ la maniera migliore. Per Antistene, che polemizza come detto con Platone, le parole hanno significato poiché ad esse corrispondono enti reali, non strutture ideali. I nomi possono avere una polisemia, ma compito principale del filosofo è quello di superarla, dunque di fare chiarezza. Evidente quindi come, per Antistene, il sophos si presenti come emblema e modello di umanità sia sul piano razio­ nale che morale. Un’ultima notazione, come per Socrate, riguarda il tema delle donne, che per Antistene avevano «le stesse virtù»1" degli uomini, e che pertanto dovevano a suo avviso potersi realizzare in maniera simile. Si tratta di una tematica che sarà ripresa anche da Diogene di Sinope. Diogene di Sinope Di Diogene di Sinope (412-323 c.a.) rimane di solito l’immagine della sua “casa”, costituita per lungo tempo da una botte, ad indi­ care la sua riduzione al minimo dei bisogni vitali19 200. Rimane inoltre la sua ricerca in pieno giorno con una lanterna del vero uomo, in grado appunto di vivere secondo la ricetta cinica201. Non bisogna, tuttavia, eccedere nel separare un Antistene “te­ oretico” da un Diogene “pratico”. Anche a Diogene infatti sono attribuiti dialoghi, epistole ed addirittura tragedie (che, come accadde alle opere dell’altro cinico Cratete di Tebe, spesso me­ scolavano serio e faceto, parodiando la poesia tradizionale)202. In generale infatti, contrariamente a quanto si potrebbe ritenere in base alla loro dottrina, i Cinici produssero un discreto numero di opere letterarie203.

199 Id., VI, 12. 200Come ricorda Diogene Laerzio (Vite deifilosofi, VI, 105), infatti, i Cinici «sostengono che bisogna vivere semplicemente, mangiando cibi necessari al sostentamento e vestendo solo un mantello, disprezzando la ricchezza, la gloria e la nobiltà. Talvolta si cibano soltanto di erbaggi e in ogni modo bevono sol­ tanto acqua fresca; basta loro un alloggio modesto, anche una botte». 201 Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VI, 41. 202 Sull’opera di Diogene, rinviamo al sempre interessante Sayre 1938. 203 Sulla Repubblica di Diogene, in particolare, rinviamo a Husson 2011.

i88

C a p ito lo I V

Ciò che rimane più impresso nel Cinismo, con particolare ri­ ferimento a Diogene, fu come detto il suo modello di vita, volto appunto a far emergere quella che a suo avviso era la vera natu­ ra dell’uomo, immaginata non troppo dissimile rispetto a quella dell’animale. A differenza tuttavia dei Sofisti come Antifonte, che assimilavano l’uomo all’animale feroce per la pleonexia, Diogene lo assimilò ad animali più comuni, semplicemente affermando che, data la struttura organica simile, all’uomo come aH’animale basta per vivere solo l’essenziale. Per questo motivo devono essere considerati come esempi da seguire, per l’uomo, sia il topo che il cane204, in quanto questi animali soddisfano le loro esigenze con poco, incuranti delle convenzioni sociali, non allontanandosi dalle necessità immediate della physis205. Ci si potrebbe indubbiamente chiedere quale sia la vicinanza di questo “uomo animale” proposto da Diogene come modello di vita, rispetto all’uomo razionale-morale proposto da Socrate. Dio­ gene in effetti, oltre al carattere razionale, trascurò il carattere mo­ rale come struttura tipica dell’uomo, in maniera per molti aspetti criticabile206. Non a caso Diogene fu definito da Platone come un “Socrate impazzito”, per sottolineare da un lato la sua vicinanza a Socrate nella coerenza fra teoria e prassi di vita, ma dall’altro la

204 Diogene Laerzio, Vite deifilosofi, VI, 22. 205 Come ha scritto M.O. Goulet-Cazé (in Brunschwig-Lloyd 2005, p. 421), «il Cinico contesta la società del suo tempo scagliando invettive e usando la franchezza fino alFingiuria». Diogene contestò anche la religione tradizionale, in quanto non credeva che la felicità dipendesse da pratiche religiose che non avevano nulla a che fare col comportamento dell’uomo. Soprattutto, come Antistene, criticò la concezione tradizionale della filosofia, ossia \apaideia classi­ ca. A suo avviso infatti, molto più che per Antistene, la virtù era negli atti, non nel sapere. 206 Reale 2004 (voi. V, p. 45) ha notato giustamente in merito che «il pa­ rametro di vita del Cinico è il comportamento dell’animale interpretato dalla ragione umana [...]. È appena il caso di rilevare come questa posizione risul­ ti fortemente aporetica o, quanto meno, assai ambigua. Infatti non è la vita dell’animale in quanto tale, ma è piuttosto la ragione che la interpreta come il vero parametro. Inoltre, fra il comportamento dell’animale e quello dell’uomo c’è un vero abisso: c’è l’abisso della libertà e della scelta, che rende il primo incommensurabile rispetto al secondo. Diogene ne è - in buona misura - con­ sapevole, tanto è vero che pone proprio nella libertà il principio e il fine del suo sistema di vita». Come scrive giustamente anche Kutschera 2010 (p. 46), «la differenza tra Socrate e i Cinici consisteva nel fatto che il primo non si preoc­ cupava delle cose esteriori, mentre i secondi mettevano in mostra la propria frugalità. Essi avevano cura della propria sporcizia, e cercavano attraverso di essa di attrarre l’attenzione degli altri, così da urtarla attraverso l’offesa alla decenza e alla educazione».

Sofisti, Retori, Socrate e le Scuole socratiche

18 9

sua distanza per il fatto appunto di considerare Tuomo principal­ mente come un ente fisico. Quello di Diogene fu in sostanza, come è stato detto, un tentativo di «via breve»207 alla felicità piuttosto problematico, essendo la natura umana molto più complessa, e ne­ cessitante pertanto di una «via lunga», rispetto a quella stilizzata da Diogene208. Non può infatti sfuggire che l’uomo di Diogene, per quanto ef­ fettui una ricerca della vera umanità, sia attento principalmente alla propria individualità209. Diogene infatti non sostiene né che l’uomo possiede una natura propriamente teoretica (la quota di sa­ pere necessario alla buona vita, nel suo messaggio, sembra molto bassa), né soprattutto una natura comunitaria210. Egli stesso affer­ ma che la sua morale è quella del cane, il quale scodinzola a chi gli dà un po’ di cibo, ma abbaia contro chi si mostra aggressivo nei suoi confronti211. Con Socrate, Diogene concordava circa il fatto che l’autarchia non si realizza massimizzando la ricchezza, il potere o il succes­ so, ma minimizzando i bisogni. In questo senso anche un bambino che beve nel cavo delle mani costituiva per Diogene un modello, sufficiente a sbarazzarsi della propria ciotola212. Un altro contenu­ to comune con Socrate fu la coerenza, come detto, della propria vita, pronta in tal senso a sopportare qualunque prova di resisten­ za fisica. Rispetto a Socrate, tuttavia, Diogene andò sicuramente troppo oltre nella sua opera di riduzione dell’uomo all’animale213, proponendo una concezione negativa della felicità che, più che una fioritura delle componenti migliori della natura umana, conduceva ad una amputazione delle medesime (sebbene per il condivisibile

207 Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VII, 121. 208 Si può parlare solo di una visione “stilizzata” in quanto Diogene non fornì una definizione precisa dell’uomo. In Diogene Laerzio {Vite dei filosofi, VI, 40) si ricorda anzi una trovata di Diogene di Sinope per ridicolizzare la de­ finizione accademica di uomo come «animale bipede implume». 209 Come scrive M.O. Goulet-Cazé (in Brunschwig-Lloyd 2005, p. 420), «per Diogene solo l'individuo in tutta la sua singolarità è importante». 210Come commenta giustamente Reale 2004 (voi. V, p. 19), «Diogene cerca di distaccarsi da tutto». 211 Sull’animale come modello morale, nel Cinismo e non solo, rinviamo a Husson 2013. 212 Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VI, 30-31. 213 Come chiosa giustamente Reale, il Cinismo conduce a «dar soddisfazio­ ne solo a ciò che nell’uomo è puramente animale, e reprimere proprio quegli aspetti per cui l’uomo si differenzia dall’animale» (Reale 2004, voi. V, p. 73).

190

C a p ito lo I V

fine di sottrarsi all’arbitrio delle passioni, alle lusinghe del piacere ed alla conflittualità del mondo esterno)214. Alcuni studiosi hanno attribuito a Diogene una posizione co­ smopolita, per il suo essersi dichiarato «cittadino del mondo»215. Questa attribuzione risulta però piuttosto discutibile216. Più infatti che insistere sulla comune natura di tutti gli uomini, come farà in seguito lo Stoicismo, Diogene pare prendere le distanze dalle isti­ tuzioni politiche e dai suoi simili. Si tratta in effetti di un approccio alla realtà umana che ricorda più l’anarchismo che il cosmopoliti­ smo, come se Diogene, più che «cittadino di ogni luogo del mon­ do», si sentisse in realtà «cittadino di nessun luogo del mondo»217, ossia appunto apolide218. Egli del resto raccomandava, nella Re­ pubblica, di astenersi da ogni impegno politico per seguire la sola legge naturale219. Come ricordato, qualche eco della dottrina socratica si perce­ pisce ancora in Diogene, tanto che egli indicava nella «armonia dell’anima» lo scopo della vita morale, e nella «salute dell’anima» lo scopo dell’esercizio fisico220. Come ha scritto tuttavia giustamen­ te Reale, «egli svuota di contenuto tali affermazioni, da un lato, nella misura in cui toglie ogni consistenza a quello che per Socrate era il solo nutrimento dell’anima, ossia la scienza e la cultura, e, dall’altro lato, nella misura in cui gli elementari bisogni dell’essere animalesco finiscono per diventare i fondamenti da cui egli desume

214 Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VI, 38. 21=Id., VI, 63. 216 In questa direzione anche De Luise-Farinetti 1997, p. 102. 217 Goulet-Cazé, in Brunschwig-Lloyd 2005, p. 422. Si dice spesso che Dio­ gene fu il primo cosmopolita (termine che, secondo i lessici, fu utilizzato per la prima volta da Filone Alessandrino, anche se Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VI, 63 lo attribuisce per la prima volta al Cinico), ma Italo Lana ha trovato Tracce di dottrine cosmopolitiche in Grecia prima del cinismo (in Lana 1973, pp. 231-273, in cui critica peraltro l’idea che quello di Diogene fosse un vero cosmopolitismo). Per Lana, fu «Democrito il primo che pose chiaramente - e sapendo di porlo - il problema del cosmopolitismo, prospettandone una solu­ zione non utopistica» (Id., p. 250). 218 Fra i seguaci di Diogene vi fu anche il già citato Cratete di Tebe, per il quale il saggio era necessariamente apolide (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VI, 98). Egli fu fortemente antiedonista, ed affermò che nel bilancio di una vita i dolori sopravanzano sempre i piaceri; fu noto comunque per la propria genti­ lezza e filantropia (Id., VI, 86), a differenza di Diogene. 219 Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VI, 72. 220Id., VI, 27, 58, 65, 70.

Sofisti, Retori, Socrate e le Scuole socratiche

19 1

le regole del vivere»221. Si rimane davvero molto lontani, dunque, dal cosiddetto «intellettualismo socratico», ossia dalla concezio­ ne per cui solo una corretta conoscenza può governare in modo corretto le scelte. Diogene rimarca infatti spesso la necessità di un continuo sforzo della volontà - non della ragione - per adattarsi alla vita cinica (il che, per inciso, lascia dubbi sul fatto che essa fosse poi così “naturale” per l’uomo). Non a caso egli pose come modello di riferimento Eracle e le sue famose fatiche222. L’opera di Diogene assunse dunque, considerata nel suo com­ plesso, una discreta distanza da quella di Socrate. Da quest’ultima si distinse anche per una concezione di «libertà» non come realiz­ zazione della propria natura, bensì come mera «licenza» spinta al limite dell’impudenza223. Il Cinismo ebbe vita lunga fra le classi popolari, quanto meno fino all’epoca imperiale, tanto che l’unico cinico di cui possiamo leggere quasi per intero un trattato è Enomao di Gadara, vissuto nel II secolo dopo Cristo, il quale peraltro condusse sul Cinismo una riflessione organica224. I Cirenaici Aristippo di Cirene (435-355 c.a.), di cui abbiamo un largo re­ soconto della vita in Diogene Laerzio225, fu per diversi anni allievo di Socrate. Egli si recò infatti fin da giovane ad Atene attratto dai racconti sul bios filosofico socratico226. Pur avendo pochi dati sicuri sui suoi scritti, sappiamo con certezza che egli prese rapidamente le

221 Reale 2004, voi. V, p. 43. Per Diogene infatti matematica, fisica, musica, erano discipline «inutili» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VI, 73), ed ancor più lo erano le costruzioni metafisiche come quelle di Platone. In ciò si discosta da Antistene, che aveva in grande considerazione quanto meno la logica e la dialettica. 222 Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VI, 70-71. Come ricorda Gigante 1993 (p. 62), «Eracle ha attuato il nomos col vigore delle sue mani», giungendo alla «gloria anche con la violenza» (Id., p. 75), in maniera non comunitaria. Della esaltazione di Eracle compiuta dai Cinici tratta ampiamente Holstad 1948, pp. 34 ss. Rimarchiamo peraltro che, fra i vari eroi greci, Eracle si presenta come il più poliedrico e variamente interpretabile, a riprova di una concezione dell’uo­ mo lungi dall’essere stabile. In questo senso anche il saggio di Bruno Gentili, Eracle omicida giustissimo. Pisandro, Stesicoro e Pindaro, in Gentili-Paioni 1977, PP- 301-307. 223 Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VI, 69. 224 Brancacci 2000, p. 43. 225 Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, II, 65-86. 226 Plutarco, De curiositate, 2, p. 516 C.

19 2

C a p ito lo I V

distanze dal maestro, convinto come era che il piacere - non la co­ noscenza e la connessa virtù, come ritenuto da Socrate - fosse il fine principale della vita227. Dai frammenti rimasti, pur tenendo conto del diverso tenore delle testimonianze più antiche rispetto a quelle più critiche di epoca cristiana, Aristippo si può definire come il primo vero e proprio edonista. Ciò in quanto per lui il piacere fu sempre un bene, mentre per Socrate fu un bene solo a certe condizioni228. Non è questo peraltro l’unico motivo per cui Aristippo si staccò da Socrate, tanto da essere anche nel suo caso problematico defi­ nirlo un Socratico. Egli infatti si faceva pagare le proprie lezioni229 e praticava uno stile di vita poco comunitario230, ritenendo il de­ naro un mezzo per acquisire più agevolmente il fine del piacere. Il discorso socratico sull’anima non fu inoltre per lui centrale, in quanto per Aristippo la virtù era semplicemente costituita dall’arte di possedere il piacere, senza cadérne vittime (questo il principale lascito socratico: l’autodominio)231. Come scrisse Giovanni Reale, Aristippo «in tutta la vita mostrò di ritenere valido solo (o preva­ lentemente) il piacere fisico, il piacere dell’istante, come tale colto e gustato»232, non il piacere derivante dalla attività teoretica ed etica. Quest’ultimo era invece per la filosofia classica il vero piacere, in quanto conforme alla natura razionale e morale dell’uomo. Evidente già da queste parole come per Aristippo la natura dell’uomo non fosse razionale e morale, sia in quanto la conoscen­

227 II tema del piacere è sempre stato molto dibattuto nella filosofia antica. Ottimi testi in merito sono Gosling-Taylor 1982, Cosenza-Laurenti 1993, Montoneri 1994 e Napolitano Valditara 1998. 228 Come scrive Palumbo 2015 (p. 92), «i Cirenaici ritennero che, se il bene attrae, tutto ciò che attrae è bene, e dunque, in ultima analisi, il bene si identi­ fica con il piacere. La filosofia cirenaica [...] è la forma di edonismo più conse­ guente e radicale cui sia giunto il pensiero antico» 229 Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, II, 65. In questo aspetto è stata colta una sua vicinanza con la Sofistica, verosimile ma non saldamente comprovata. 230Nel corso di una conversazione con Socrate, secondo Senofonte (Memo­ rabili, II, 1, 13), Aristippo si sarebbe descritto come uomo capace di sentirsi «straniero» dappertutto. Come riporta peraltro Diogene Laerzio (Vite dei fi­ losofi, II, 66), Aristippo - come alcuni poeti lirici e alcuni Sofisti - si vantava di essere «capace di conformarsi al luogo, al tempo e alla persona», sebbene appunto come «straniero», come tale non partecipante compiutamente alla vita comunitaria. 231 Come scrisse giustamente Giannantoni 1958 (p. 49), l’edonismo in Ari­ stippo «non significava affatto un passivo abbandono ai piaceri, ma un sereno godimento, che era possibile solo in quanto egli era capace di signoreggiare i suoi desideri». 232 Reale 2001, p. 108.

Sofisti, Retori, Socrate e le Scuole socratiche

193

za non fu il fine principale della «scuola cirenaica»233, sia in quanto, essendo il piacere fisico individuale, la sua attività ebbe scarsa pro­ pensione comunitaria234. 1 Cirenaici infatti ruppero esplicitamente con la polis, dietro il pretesto che la partecipazione alla vita pubbli­ ca e l’instaurazione di legami sociali forti non avrebbe permesso di godere pienamente la propria vita235. Senofonte ricordava in meri­ to come Aristippo ritenesse già difficile prendersi cura in maniera ottimale dei propri bisogni: per questo non voleva trascurarli per curare i bisogni degli altri236. Per Aristippo, insomma, il piacere era il fine di ogni azione uma­ na, sicché non bisognava trascurare nessuna occasione utile ad un godimento pienamente appagante, comprese verosimilmente le più turpi, non essendovi differenza nelle modalità del piacere237. Proprio su questo punto risulta evidente la grande distanza dalla tendenza di fondo della tradizione socratica, in cui il piacere non fu mai fine della vita. In ogni caso, riguardando il corpo, il piacere fisico ricercato dai Cirenaici non poteva durare a lungo. Per questo motivo la teoria edonista ricevette molte critiche, da parte della fi­ losofia classica, di non favorire adeguatamente la felicità. Quest’ul­ tima infatti, per essere tale, richiede una qualche forma di stabilità, ma soprattutto richiede di non essere dipendente dalle varie attivi­ tà che si svolgono quando si ricerca come fine il piacere fisico. Non stupisce allora che una delle ultime voci della scuola cire­ naica sia stato Egesia, per il quale il piacere, unico bene, ci sfugge così facilmente di mano - ed il dolore, per converso, può prenderci

233 Sul termine «scuola cirenaica» Giannantoni 1958 era come noto molto scettico. Occorre tuttavia ricordare che Aristippo tornò alla nativa Cirene verso la fine della sua vita, dove la figlia Arete ed il di lei figlio Aristippo il giova­ ne (conosciuto come metrodidaktos, «educato da sua madre») fondarono e portarono avanti la cosiddetta «scuola cirenaica», con le dottrine edonistiche giunte fino a noi. Su questa tematica rinviamo a Zilioli 2012. 234Scrive correttamente Rossetti (in Rossetti-Stavru 2008, p. 27) che «nella concezione poi invalsa nei Cirenaici, le cose sono di per sé inconoscibili; la loro realtà è data unicamente dalla loro capacità di affezionare l’uomo, mentre il loro valore dipende esclusivamente dal piacere che sono in grado di procurare» 235 Come ha ricordato anche Giannantoni (in Giannantoni-Narcy 1997, pp. 179-204), l’adattarsi al prossimo dei Cirenaici è effettuato sempre con finalità strumentali ed utilitaristiche. «Aristippo, come il complesso delle testimonianze antiche su di lui obbliga ad interpretare, vede nelle leggi solo degli ostacoli al completo affrancamento da ogni obbligo spiacevole» (Giannantoni 1958, p. 51). 236 Senofonte, Memorabili, II, 1, 8-9. 237 Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, II, 88. In II, 66 è menzionata inoltre la capacità di Aristippo di adattarsi ad ogni circostanza, con la tipica capacità mimetica già vista a proposito dei Sofisti.

194

C a p ito lo I V

così facilmente la mano - che la vita si presenta nel migliore dei casi come infelice, o al più come indifferente. Per questo motivo, a suo avviso, il pensiero della morte risulta naturale, da cui l’epiteto di persuasor di morte che gli antichi gli attribuirono238. Vi furono anche altre scuole filosofiche o figure minori (magari tali poiché di esse si è rinvenuto poco o nulla) facenti riferimento a Socrate, come la scuola Megarica fondata da Euclide di Megara239, che cercò di coniugare la riflessione etica socratica con la riflessio­ ne ontologica di Parmenide, e la scuola Eliaca fondata da Fedone di Elide, che coltivò soprattutto interessi di natura etica. Di queste scuole tuttavia abbiamo pochissime notizie certe240.

238 Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, II, 93-96. 239 Su questa scuola, rinviamo a Montoneri 1984. 240 Su queste scuole, rimandiamo alla ottima sintesi di Reale 2004, voi. II, PP- 301-335-

V

I CLASSICI1 PLATONE ED ARISTOTELE

1. Platone Note generali Allievo di Socrate2, Platone (427-347 c.a.) riprese dal maestro molti contenuti circa la natura razionale e morale dell’uomo, arti­ colandoli in forma scritta ed in maniera maggiormente strutturata, grazie anche alla attività di ricerca svolta nell’Accademia3. Natural­ mente, in questa sede, dovremo omettere tutte le considerazioni relative alla particolare modalità dialogica di scrittura di Platone4, che non consente quasi mai di comprendere «chi parla per Pla­

1 Come scrive giustamente Montanari 2017 (voi. I, p. 13), «classico» è una «etichetta da usare con prudenza, nella misura in cui evoca valutazioni [...] legate a una visione di culmine e di decadenza della cultura, incentrata sull’a­ desione a modelli ritenuti canonici e immutabili: posizioni che dovrebbero es­ sere superate da una visione maggiormente consapevole dello sviluppo storico di una civiltà». Utilizziamo il termine con questa consapevolezza, ma senza per questo esimerci daH’esprimere una valutazione di maggiore compiutezza dell’opera platonica ed aristotelica rispetto ad altre. 2 Circa il rapporto di Platone con Socrate, ha ragione Migliori 2017 (p. 11) a rimarcare che questo fu per lui «rincontro filosoficamente e umanamente decisivo [...]. Tuttavia bisogna evitare di sopravvalutarlo per una serie di ragio­ ni. Prima di tutto, quando negli ultimi dialoghi Platone affronta le tematiche più alte della sua filosofia, la figura del maestro viene ridimensionata, mentre emergono filosofi eleati e tematiche pitagoriche». 3 La letteratura su Platone è come noto vastissima. Alcuni utili testi per una visione generale, oltre a quelli che citeremo in queste pagine, sono Field 1969, Friedlander 1979, Albert 1991, Kraut 1992, Reale 1998, Seifert 2000, Brisson-Fronterotta 2006, Fine 2008 e Migliori 2013. 4 Circa tutto ciò che concerne le modalità di scrittura di Platone, rinviamo alla ottima elaborazione di Migliori 2013, pp. 25-190, ed alla relativa bibliogra­ fia. Da consultare anche Erler 1991 e Casertano 2000.

196

C a p ito lo V

tone»5, nonché tutto il dibattito circa la rilevanza, per la corret­ ta interpretazione del suo pensiero, delle cosiddette dottrine non scritte6. Si tratta del resto di una tematica solo in parte attinente all’oggetto del nostro lavoro. Cercheremo invece di sottolineare come nei suoi 36 dialoghi (alcuni dei quali spuri) che ci sono giunti, l’uomo risulti essere quasi sempre al centro della sua trattazione7. Vi fu in effetti, come già abbiamo rimarcato, una linea di con­ tinuità umanistica fra Socrate, Platone ed Aristotele 8.1 tre filosofi erano infatti convinti, pur declinando il loro discorso con accenti differenti, che la natura dell’uomo non consiste nella sua condi­ zione “originaria” priva di educazione, ma nella sua condizione “finale” che si compie mediante una complessa opera culturale, re­ alizzando appunto la sua costitutiva struttura razionale e morale. Solo portando a piena fioritura la medesima, durante tutto l’arco della vita, l’uomo potrà giungere per la filosofia classica alla massi­ ma felicità, ossia a porre in atto compiutamente la propria essenza, dunque il proprio fine. Prima di entrare nel merito della posizione platonica sull’uomo, la quale assume tratti piuttosto differenti nei vari dialoghi, occor­ rerà ancora effettuare un accenno al fatto che Platone, per quanto

5 Rinviamo in merito al classico Press 2000. Rimarchiamo comunque che Socrate pare il più delle volte costituire il «portavoce naturale» di Platone, ma in alcuni dialoghi (Parmenide, Timeo, Sofista) il suo ruolo di protagonista ri­ sulta usurpato da altre figure (Parmenide, Timeo, lo Straniero di Elea), e nelle Leggi addirittura scompare. In generale può essere corretto, per rintracciare la posizione di Platone, considerare «il complesso della dinamica dialogica [...]. Si tratta di una attitudine ermeneutica ragionevole, soprattutto perché valo­ rizza l’aspetto dinamico della costruzione della sua filosofia. Essa va però as­ sunta contestualmente all’osservazione che non tutti i personaggi presentano il medesimo profilo intellettuale e morale» (Ferrari 2018, p. 19). Un approccio simile è consigliato anche da Vegetti 2003. 6 Rinviamo in merito, quanto meno, a Reale 1994 e 1997, Kramer 1994 e, per una visione per molti aspetti opposta, Trabattoni 1994,1998 e 2005. 7 Come per Aristotele, nemmeno per Platone l’uomo risulta essere l’ente più importante, essendo tale ruolo occupato dal divino {Leggi, 716 c). È tut­ tavia frequente, nei dialoghi platonici, la tematica della homoiosis theo, ossia della assimilazione al divino come modalità per l’uomo di attuare il proprio perfezionamento. Rinviamo in tal senso a Lavecchia 2006. 8 Ci permettiamo di rinviare, in merito, a Grecchi 2007, 2008 a e 2008 b. Scrive bene in merito Trabattoni che «l’antropologia è uno dei temi in cui la po­ sizione di Platone è meno facilmente distinguibile da quella di Socrate. Infatti i dialoghi in cui si legge che l’uomo è essenzialmente la sua anima, e dunque i valori genericamente spirituali vengono anteposti a quelli materiali e sensibili, sono soprattutto quelli in cui si ritiene che la figura di Socrate sia ritratta con maggiore fedeltà» (in Trabattoni-Vegetti 2016, voi. II, p. 65).

I Classici. Platone ed Aristotele

197

fin dall’antichità ritenuto filosofo “dalle molte voci”, non fu comun­ que filosofo “dalle molte dottrine”. Quanto cioè egli afferma intor­ no all’uomo risulta sostanzialmente determinato, nonostante porti sempre con sé ulteriori declinazioni, approfondimenti e sviluppi. Come ha affermato infatti Maurizio Migliori, la filosofia platonica è «sia chiusa sia aperta; chiusa perché esprime una stabile visio­ ne del reale; aperta perché costruita secondo un modello dialettico che porta a continue verifiche»9. Questa, in sostanza, la ragione della sua grande ricchezza e della sua perenne attualità. Passiamo ora propriamente alla analisi dell’uomo, cominciando con la vexata quaestio del rapporto fra corpo ed anima. La vexata quaestio del dualismo tra corpo ed anima Platone riprese da Socrate il tema della priorità dell’anima e della sua differenza rispetto al corpo. In diversi dialoghi, fra cui in primo luogo il Fedone10, Platone parlò infatti dell’uomo tematiz­ zando una separazione fra anima e corpo11, e descrivendo il corpo come un peso, un ostacolo per la realizzazione della vera vita, costi­ tuita appunto dalla vita dell’anima, intesa come l’essenza razionale e morale dell’uomo. In alcuni scritti, Platone ipotizzò addirittura essere l’anima divina, dunque immortale12. La presenza di questi temi ha per secoli condotto gli interpre­ ti a ritenere che, nell’opera platonica, fu presente un sostanziale dualismo di tipo orfico fra anima e corpo. Analizzando tuttavia le ragioni per cui, in questi dialoghi, Platone sostenne queste due tesi (la «separazione» dal corpo e la «immortalità» deH’anima), si può mostrare che esse, più che vere e proprie tesi teoreticamente argo­ mentate, risultano ipotesi di lavoro utili soprattutto per fini gnose­ ologici, ontologici e morali13.

9 Migliori 2013, p. 6. Concordiamo anche con Kutschera 2010, secondo cui Platone sostanzialmente riprese alcuni contenuti fondamentali in presso­ ché tutte le sue opere, nonostante essi siano stati nel tempo parzialmente mo­ dificati o perfezionati. 10 Su questo dialogo, rinviamo a Bonelli 2015 e soprattutto a Casertano 2015 b. 11 Una ottima sintesi della questione è in Zanatta 2016, pp. 145-171. 12Fedone, 80 a; 86 c; Repubblica, 621 b-d; Leggi, 959 a. 13Scrive bene Ferrari 2018 (p. 99) che, di fronte alle «dimostrazioni» della immortalità dell’anima, «Platone conserva un certo (comprensibile) scettici­ smo circa la loro validità». Analogamente in alcuni passi (ad esempio Repub­ blica, 364^365 a), «il filosofo sembra nutrire più di una riserva nei confronti

198

C a p ito lo V

Il motivo principale per cui Platone, nel Fedone, separa l’anima dal corpo, sembra infatti essere quello di sottolineare che l’essenza dell’uomo è costituita dalla sua anima, che si serve del corpo come di uno strumento14. Il fatto che l’anima in vita debba necessaria­ mente servirsi del corpo, significa che anima e corpo non furono per Platone radicalmente separati15. Nella quasi totalità dei dialo­ ghi infatti egli, riprendendo posizioni socratiche, mostrò appunto che la salute del corpo e dell’anima sono strettamente connesse, che sovente vi è una diretta influenza del corpo sull’anima (non solo viceversa), e che pertanto l’uomo va considerato come una unità psicofisica16. È il caso ad esempio del Carmide17, in cui Plato­ ne elogia il carattere olistico di certa medicina greca, ma è anche il caso del Timeo, testo che mostra importanti innovazioni sul piano della nascente psicofisiologia, le quali saranno riprese da Aristo­ tele. In questo dialogo Platone afferma infatti che quando si parla dell’uomo si deve trattare «dell’essere vivente nel suo insieme»18, corpo ed anima. Il motivo principale per cui Platone sostiene che l’anima è im­ mortale, invece, è in certo senso di ordine morale, ossia il tentativo di rafforzare il premio alla virtù in questa vita con un premio ultraterreno. Molto spesso, infatti, Platone nota che nella realtà sociale crematistica in cui vive, i malvagi sembrano premiati, ed i buoni puniti. Pochi avvertono - essendo pochi i virtuosi - che la virtù è premio a sé stessa, ossia causa principale di felicità. Per questo per Platone era assiologicamente utile mostrare che i virtuosi avranno un premio anche nell’aldilà, il che poteva ovviamente accadere solo se l’anima era immortale. Un’anima immortale inoltre, sul piano delle favole relative ai premi e alle punizioni che spettano all’anima dopo la morte» (Id., p. 138). 14 Ciò emerge in maniera chiara neWAlcibiade maggiore (129 c-d). La pri­ orità dell’anima si evince, fra i vari dialoghi, soprattutto in Cratilo (404a), Gor­ gia (493a-b) e Filebo (33 e-34 a). Per questo scrive correttamente Migliori (in Lucchetta-La Palombara 2006, p. 26) che per Platone «conoscere sé stesso è conoscere l’anima, ma questa non rappresenta la totalità deU’individuo stesso, cui appartiene necessariamente anche il corpo. Ed affermare che conoscere sé stesso è conoscere l’anima, vale solo perché si coglie l’elemento principale che appartiene al sé stesso. Così un punto è stato guadagnato: in un senso il sogget­ to è la sua anima, che è la parte più elevata dell’essere umano, è ciò che è in sé, nel profondo del suo essere, quindi in un certo senso anche il suo stesso essere, ma solo in un certo senso». 15 In questa direzione anche diversi saggi presenti in Medda-Zucca 2019. 16Ad esempio Fedro, 246 c. 17 Carmide, 156 e ss. 18 Timeo, 89 d ss.

I Classici. Platone ed Aristotele

19 9

gnoseologico, avrebbe consentito per omogeneità (syngeneia)19 di conoscere le Idee eterne degli enti, necessarie ad assicurare la comprensione della realtà20. Alla immortalità dell’anima era inol­ tre solitamente connessa la cosiddetta «teoria dell’anamnesi», ov­ vero della reminescenza delle idee21 che - come del resto la stessa «teoria delle Idee»22 - tante critiche e tanti problemi ha sollevato, proprio appunto in quanto, più che come una teoria, essa costituì una ipotesi gnoseologica espressa in forma mitica23. Queste problematiche hanno fatto sì che, negli ultimi anni, la tesi del dualismo platonico sia stata sempre più ridimensionata dagli in­ terpreti, i quali stanno maggiormente considerando il grande nume­ ro di passi mostranti la presenza, in Platone, di una concezione di uomo come unità psicofisica24. Se si centralizzano infatti, nel pensie­ ro del filosofo ateniese, quei pochi passi che conducono a svalutare il corpo attraverso una sorta di ascesi “mistica”, non si riescono a spie­ gare molti contenuti pur presenti in maniera univoca nella maggior parte dei dialoghi, dunque non si interpreta correttamente Platone25.

19Ad esempio Menone, 81 a-d 20La costante ricerca della verità in Platone è ben sottolineata, ad esempio, da Casertano 2007. 21 La reminescenza delle Idee costituisce uno dei vari miti di Platone, su cui rinviamo a Louis 1945, Romano 1964 e Brisson 1998. 22 II libro migliore sulla «teoria delle Idee» di Platone risulta ancora Ross 1953, il quale tuttavia, nel testo, non fece altro che riprendere i vari dialoghi in cui Platone parlava di Idee, non essendo ravvisabile in essi, come noto, una teoria vera e propria. Su questa tematica un importante riferimento è Fronte­ rotta 2001. Interessante anche il saggio di F.J. Gonzales dal provocatorio titolo Perché non esiste una teoria platonica delle idee, in Bonazzi-Trabattoni 2003, pp. 31-67. 23 Ci pare abbia in merito ragione Vegetti (in Candiotto 2016, p. 30) ad affermare che «l’accesso alla conoscenza delle Idee non richiede affatto neces­ sariamente il recupero di una memoria prenatale [...]. Il libro VII della Re­ pubblica descrive un processo di approccio al mondo ideale che muove dai problemi posti dall’esperienza del mondo sensibile, per inoltrarsi verso una sempre maggiore concettualizzazione-astrazione [...]. L’anamnesi sembra - se confrontata con questi testi - costituire più una metafora». Peraltro, «l’inu­ tilità dell’anamnesi come accesso alla conoscenza delle Idee comporta un co­ rollario interessante: essa rende parimenti inutile [...] la parallela ipotesi della immortalità dell’anima individuale» (Id., p. 30). 24 Pensiamo, tra i più significativi, a Leggi, 644 c-d e Teeteto, 184 d. 25 In questa direzione anche i testi di alcuni esponenti già citati della cosid­ detta Scuola di Tubinga-Milano (Szlezàk, Gaiser, Reale). Riteniamo invece che, per Platone, la via che conduce al divino sia la via che conduce alla perfezione razionale e morale dell’umano, come risulta indirettamente dal fatto che il di­ vino descritto da Platone è sempre in primo luogo intelligente e buono.

200

C a p ito lo V

Nel Timeo in effetti, solo per fare un esempio, si afferma certo che l’anima è la causa di molte malattie del corpo, ma si sostiene anche che il corpo è la causa di molte malattie dell’anima26. Indubbiamente, in Platone, la forma unificante con cui l’uomo è rappresentato è costituita dall’anima, dalla quale dipendono anche le sensazioni. La tesi tuttavia di un dualismo radicale, in base a cui Platone penserebbe alla realtà principalmente come ad un mon­ do di pure essenze ideali radicalmente separate dall’empirico, non può essere ritenuta valida nemmeno per il Fedone (e il connesso Menone), in cui pure la gabbia corporea sembra essere concepita come un ostacolo alla vera conoscenza27. Platone infatti non se­ parò mai in maniera netta il piano metafisico dal piano fìsico, così come non separò mai in maniera totale l’anima dal corpo, mante­ nendo sempre una connessione fra i due piani. Il piano metafisico ha infatti bisogno del piano fisico anche solo per porsi come tale, così appunto come l’anima ha bisogno del corpo per porsi come tale28. Platone per questo non condannò mai il corpo, ma solo una attenzione unilaterale al medesimo (ad esempio una educazione ginnica priva di educazione musicale), così come, allo stesso modo, condannò una attenzione unilaterale all’anima (ad esempio una educazione musicale priva di educazione ginnica). Anche nel Fedone infatti, se ben si interpreta il testo, non vi è alcun disprezzo per il corpo, ma la considerazione, tipicamente platonica, che la verità può essere raggiunta solo mediante l’ani­

26 Timeo, 86 b-88 c. In questo testo (35a-b; 41 d), si afferma anche che l’anima non si oppone radicalmente al corpo, in quanto si colloca a livello in­ termedio tra sensibile e intelligibile, data la mescolanza originaria dalla quale provengono tutte le anime. 27 Casertano ad esempio, nella introduzione a Candiotto 2016 (p. 7), ha giustamente sostenuto che oggi l’etichetta «dualismo platonico [...] comincia finalmente a non essere più usata, o per lo meno ad essere usata con molte ri­ serve». Infatti, «se con questo termine si intende sottolineare che in Platone c’è una differenza, e a volte una opposizione, tra sensi e ragione, tra anima (o in­ telletto) e corpo, tra visibile e invisibile, tra opinione e verità, allora il dualismo certamente c’è, ma è un dualismo che è proprio non solo di tutti i filosofi, ma anche di tutti gli uomini pensanti [...]. Ma anche se si intende che per Platone c’è una differenza di valore tra i termini di queste opposizioni, e che il valore maggiore debba attribuirsi sempre al secondo termine, anche in questo caso mi pare che il dualismo possa essere attribuito a tutti i filosofi». 28 Come afferma giustamente Erler 2008 (p. XII), Platone «riconosce nel­ la filosofia il tentativo di concepire uomo e natura come una realtà unitaria». Anche nel Parmenide (133 a-i34e), Platone afferma che la totale separazione fra mondo fisico e mondo metafisico è ciò che porta «alle difficoltà maggiori».

I Classici. Platone ed Aristotele

201

ma, dunque col pensiero29. È in effetti l’anima il centro direttivo che guida il corpo, e che deve farlo secondo la giusta misura. La salute del corpo nasce infatti da quella armonia naturale fra cor­ po ed anima, guidata dall’anima, che conduce l’uomo ad una vita equilibrata. La priorità dell’anima sul corpo, onnipresente nell’opera plato­ nica30, non deve dunque indurre ad interpretare la posizione di Pla­ tone in maniera ascetica31. Egli infatti, pur fortemente avverso all’e­ donismo (ossia a porre i piaceri come fine della vita), considerava il piacere come una componente importante della esistenza, sebbene tendesse ad associarlo alla attività dell’anima più che a quella del corpo32. Per Platone in effetti la purificazione dell’anima, diversamente da quanto accadeva nel pensiero orfico, non si compiva con cerimonie iniziatiche, bensì con un processo conoscitivo spinto fin dove possibile, il quale già di per sé conduceva a rendere migliore la vita. Come per i Pitagorici, non è infatti corretto nemmeno per Platone parlare di teoria come “contemplazione”33, dato che tale termine presuppone una condizione sostanzialmente passiva. La teoria per Platone era infatti essenzialmente “ricerca”, termine che presuppone una condizione essenzialmente attiva dell’uomo. L’anima dunque, proprio per la sua natura razionale che fra breve descriveremo, può e deve ordinare il preponderante disordine della realtà corporea34. Platone, pur consapevole dei limiti di intervento

29 Nelle Leggi (896 d), addirittura, il primato deH’anima giunge ad attri­ buirle il ruolo di causa del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto, nonché la direzione di ogni realtà. 30 Che l’anima sia prioritaria sul corpo è vero in Platone per almeno 3 ra­ gioni: 1) perché è la parte più propria dell’uomo, direttiva dell’azione (Alcibia­ de maggiore, Filebo); 2) perché essa sola, basata sulla ragione, può conoscere il vero, mentre il corpo, che si basa sui sensi, può sbagliare nel processo co­ noscitivo (secondo i complementari dettami di Fedone e Timeo); 3) perché è immortale (Gorgia, Repubblica, Fedone). Le prime due ragioni risultano nei testi platonici, sul piano ontologico, le più strutturate. 31 Concordiamo in merito con Vegetti 2003 (p. 59) che a Platone, da buon greco, «era certamente estraneo un atteggiamento misterico-esoterico». 32 Nel Filebo (59 d-64 b) Platone mostrò che all’uomo si addice soprattutto una vita mista di intelligenza e piacere, purché con la guida della intelligenza, la quale conduce appunto a scegliere piaceri virtuosi. In questo senso anche Leggi, 732 d-733 d. Sulla tematica del piacere in Platone, rinviamo a Bossi 2008. 33 Non concordiamo, dunque, con Festugière 1967, e nemmeno con alcune posizioni di Dixsaut 2003. 34 Per Platone, gli uomini la cui anima non sa governare il corpo ricadono in categorie inferiori di bestialità (Repubblica, 565 d-566 a).

202

C a p ito lo V

dell’anima sul corpo (perfino il Demiurgo, come noto, incontra dei limiti nel plasmare la materia)35, era in questo senso discretamente ottimista, ritenendo che l’anima, se adeguatamente corroborata da una adeguata politica educativa, può in buona parte razionalmente governare le componenti materiali della corporeità36. Emblematica, in merito, la somatizzazione dell’anima operata nel Timeo. In questo testo Platone collocava infatti le tre parti in cui suddivideva l’anima - torneremo su questa tematica fra bre­ ve - in tre diverse zone del corpo. La parte razionale era collocata nella testa, separata dalle due parti irrazionali mediante il collo. Le due parti irrazionali, collocate nel torace, erano la parte irascibile (la migliore: da essa deriva, ad esempio, il coraggio), posta più in alto, e la parte concupiscibile, posta più in basso e separata dalla precedente mediante il diaframma per evitare contatti impropri37. Come ha affermato in merito Vegetti, «la somatizzazione dell’ani­ ma genera qui propriamente la nascita concettuale del corpo. Il soma non è più un aggregato di membra, un recipiente di fluidi vitali, e neppure materia, controparte opaca dello psichico. Esso è invece pensato ormai come organo, cioè strumento finalizzato allo svolgimento delle funzioni dell’anima e quindi, al pari di essa, dif­ ferenziato in una serie di parti capaci di collaborazione o di conflit­ to»38. L’uomo platonico, a partire soprattutto dal Timeo, divenne dunque compiutamente una unità psicofisica, consapevole di una molteplicità interna, come mostra in modo emblematico il VII li­ bro delle Leggi39. Alla luce di queste osservazioni, ci pare di poter affermare che il tema essenziale della dottrina antropologica platonica non consi­ ste, come pure per secoli è stato sostenuto, nella dualistica separa­ zione fra anima e corpo, bensì in una concezione integrata dell’uo­ mo come unità psicofisica, la cui guida spetta comunque sempre all’anima. Rimane in effetti ferma la centralità nell’uomo, per Pla­ tone, di una ragione eticamente orientata.

35 Ci permettiamo di rinviare, in merito, a Grecchi 2018 a, pp. 164-171. 36 Sulla teoria platonica dell’anima, rinviamo a Migliori 2013, pp. 725-858. 37 Timeo, 69 c-70 a. Sul corpo umano nel Timeo, rimandiamo all’ottimo Joubaud 1991. 38Vegetti 1992, voi. II, p. 214. 39 Su questo tema, rinviamo anche a Fronterotta 2006.

I Classici. Platone ed Aristotele

203

La natura razionale dell’uomo

Considerando la totalità dei dialoghi platonici, l’uomo occu­ pa in essi - fermo restando un ruolo non marginale del divino e della natura - quasi sempre un posto centrale40. Essendo l’uomo, per Platone, l’implicito fondamento di senso e valore della realtà (essendo appunto l’unico ente immanente in grado di riflettere su senso e valore)41, per conoscere sul piano onto-assiologico la realtà era necessario per Platone conoscere l’uomo. Per questo, anche in opposizione ad alcune forme di pensiero a lui contemporanee, che negavano l’esistenza di una definita natura umana, Platone cercò di definire nella maniera più chiara e strutturata proprio la natura dell’uomo. Solo descrivendo tale essenza si sarebbero infatti potute per Platone tematizzare - per favorirne la concreta realizzazione - le migliori modalità di vita, ossia si sarebbe potuto delineare un progetto politico-sociale adeguato42. Per questo motivo, come Platone afferma chiaramente, occor­ reva non lasciarsi fuorviare, nella ricerca di tale definizione, dal­ le incrostazioni che le modalità sociali effettualmente esistenti in ogni tempo pongono sull’uomo, così come occorreva non lasciarsi fuorviare dalle alghe, pietre e conchiglie che effettualmente incro­ stavano la statua marina del dio Glauco rendendola irriconoscibile, ed anzi «facendola somigliare a un mostro piuttosto che a ciò che era per natura»43. Per poter costruire un progetto di vita buona, era necessario infatti poter contare, per l’uomo, sul corretto fon­ damento onto-assiologico, il quale costituiva il modello ideale di

40 Per una argomentazione dettagliata di questa tesi, rinviamo a Grecchi 2008 a, pp. 88-128. Come scrive N.L. Corderò (in Migliori 2000, p. 161), «l’es­ sere umano rappresenta, proprio per la sua natura, ciò che la filosofia platonica ha sempre cercato [...]: il punto d’unione tra il sensibile e l’intelligibile». 41 «La verità degli enti è nella nostra anima» (Menone, 86 b). «Per un es­ sere privo di anima non c’è bene o male che valga, ma bene e male valgono solo con riferimento all’anima» (Lettera VII, 335 a). 42 Per Trabattoni 2009 (p. 24), «decidendo di fare filosofia sulla scia di Socrate [...] Platone inaugura dunque un’idea di filosofia in cui il sapere che si ricerca [...] non è tanto un sapere fine a sé stesso, orientato al puro conoscere, ma è un sapere diretto a individuare quei principi generali di fondo che soli possono promuovere il benessere dell’uomo (ovvero la sua felicità) sia nella vita privata sia in quella pubblica». 43 Platone, Repubblica, 611 d. Egli auspicava appunto che essa fosse «tratta fuori dal mare in cui ora giace», e liberata «dalle pietre e dalle conchiglie» (Id., 611 e).

204

C a p ito lo V

riferimento44. Tale fondamento per Platone era rappresentato dalla stabile natura razionale e morale dell’uomo, la quale avrebbe po­ tuto concretizzarsi solo all’interno di una totalità sociale armonica e comunitaria, che avrebbe dovuto essere favorita in ogni modo45. Nella Repubblica in modo particolare, Platone afferma che l’a­ nima di ogni uomo possiede una costitutiva componente raziona­ le. Essa, per quanto più piccola rispetto alle componenti irrazio­ nali (irascibile e concupiscibile) menzionate in precedenza, risulta come detto in grado, a certe condizioni, di guidare le altre46, come mostra la metafora della biga alata nel Fedro47. L’uomo del resto si distingue dagli altri animali, per Platone, proprio per il possesso della ragione. Affinché tuttavia questo contenuto razionale potesse realizzarsi in maniera compiuta, occorreva a suo avviso, indipen­ dentemente dalle doti naturali di ciascuno, che gli uomini fossero soggetti ad una adeguata opera educativa48, la quale si configura sempre come opera di ricerca e realizzazione del vero49e del bene50. Platone era infatti consapevole, come ricordato, che nell’anima dell’uomo sono presenti almeno due componenti irrazionali, ossia l’impulso aggressivo che tende alla conflittualità, e l’impulso desi­ derante che tende ai piaceri51. Riteneva tuttavia che la parte razio­ nale dell’anima potesse porre in parte al proprio servizio l’impulso aggressivo, ed in parte porre sotto controllo l’impulso desideran­ 44 Per Platone infatti (ad esempio Leggi, 668 b-e; Repubblica, 420 c-d) chiunque voglia realizzare una buona opera, deve prima conoscere il modello ideale della medesima. 45 Insistono correttamente su questo tema, pur con approcci differenti, Jermann 1986, Quarta 1993, Vegetti 1999, Schofield 2006, Zuolo 2009, Lo Schiavo 2010, Cornelli-Lisi 2010 e Casertano 2015 a. 46Repubblica, 444 b ss. 47 Sul Fedro, rinviamo all’ottima raccolta Casertano 2011. Nei dialoghi gio­ vanili - ferme restando le difficoltà di datazione dei dialoghi, su cui Brandwood 2009 - , Platone pensò l’anima come fonte di pura razionalità per l’uomo (ad esempio Protagora, 351 b ss.). Dalla Repubblica (435 a ss.), invece, argomentò anche la presenza di componenti irrazionali nell’anima. 48 Vero filosofo, per Platone, è solo - ma sono pochissimi in ogni genera­ zione - colui che privilegia il sapere relativo alla essenza di ciò che è sempre (Repubblica, 485 b), ossia che ha una inclinazione naturale per la sophia, e che è in generale orientato al bene (Id., 485 c). 49 «La verità è al vertice di tutti i beni per gli dei, e al vertice di tutti i beni per gli esseri umani: ne possa partecipare subito fin dall’inizio chi vuole essere beato e felice» (Leggi, 730 c). 50 Sulla centralità del bene in Platone, soprattutto nella Repubblica, la let­ teratura è come noto molto ampia. Rinviamo in merito a Ferber 1989, Rramer 1996 ed a vari saggi presenti in Reale-Scolnicov 2002. 51 Questo tema è ben analizzato in Anderson 1971 e Ferrari 2011.

I Classici. Platone ed Aristotele

205

te52. Questi impulsi insomma, per quanto indubbiamente presenti in ogni soggetto, non ne costituivano per Platone la natura propria. Ciò in quanto, se lasciati a sé stessi, essi avrebbero condotto l’uomo alla infelicità, mentre guidati dalla componente razionale dell’ani­ ma lo avrebbero condotto verso il bene, ossia verso la realizzazione della sua essenza. Non è questa la sede per soffermarsi sulla dialettica platonica, la quale tuttavia esercita come noto un ruolo centrale nel processo educativo delineato soprattutto nella Repubblica53. Va comunque rimarcato che per Platone la natura razionale dell’uomo doveva esplicitarsi in strutture concettuali volte ad analizzare, in ambedue le direzioni, i rapporti fra la molteplicità e l’unità. Quello dialettico era in effetti a suo avviso un procedimento necessario non solo alla comprensione veritativa della realtà, per Platone sempre possibi­ le54, ma anche ad un utilizzo di tale comprensione in vista di un miglioramento della realtà stessa55. Platone in effetti, contrariamente ad alcune interpretazioni scettiche proprie anche dell’Accademia, ricercò sempre, in più modi, la verità dell’intero e delle sue parti. In merito a tali interpre­ tazioni, scrive ottimamente Trabatto ni che «Platone aveva interes­ se per le risposte, per la conclusività teorico-pratica della filosofia [...]. Platone sapeva che lo scetticismo non può essere considerato la parola ultima della filosofia, in quanto il quadro di riferimento di ogni confutazione è necessariamente la verità»56, e questo nono­

52 Sulla “psicologia” platonica, rinviamo a Bres 1968, Steiner 1992, Robin­ son 1995 e vari saggi presenti in Migliori-Napolitano Valditara-Fermani 2007. 53 Rinviamo in merito a Giannantoni 1962-1963 e 2005, Stemmer 1992, De Giovanni 1998 ed a Migliori 2013, pp. 191-242. In sintesi non si può comunque non rilevare come la dialettica, legata al discorso, solo mediante il quale l’uomo può conoscere la verità, rappresenta il metodo più adatto per giungere al fon­ damentale possesso del logos (o meglio, dei logoi). 54 Dice bene Migliori 2017 (p. 56) che «Platone sostiene molte volte che la verità può e deve essere conosciuta». Alcuni esempi sono Leggi, 430 c; Gorgia, 473 b; Repubblica, 484 b; Apologia di Socrate, 17 b; Critone, 48 a. Per questo «non si può eliminare la verità dai testi di Platone» (Id., p. 57). 55 Come ha sostenuto in merito Enrico Berti, infatti, «il modo più giusto, dal punto di vista storico, per entrare nel mondo di Platone è l’approccio di tipo politico» (Berti-Grecchi 2009, p. 32). 56 Trabattoni 1994, pp. 7-8. Come ha scritto anche Ferrari 2006 (p. 44), «sarebbe sbagliato considerare la filosofia platonica come un processo peren­ nemente irrisolto, destinato a non raggiungere mai il proprio fine, cioè la co­ noscenza [...]. A Platone risulta estranea l’idea, tipicamente moderna, di una ricerca infinita, destinata irrimediabilmente (cioè per ragioni intrinseche) al naufragio». In questo senso anche Szlezàk 1991, p. 164.

206

C a p ito lo V

stante tutte le difficoltà conoscitive che ci si pongono innanzi. Per il filosofo ateniese, come scrisse giustamente anche Mario Vegetti, si possono sempre «costruire progetti e regimi di verità, in grado di dare risposte oggettivamente vere ai problemi della conoscenza e della praxis etico-politica»57, e questo proprio per la struttura ra­ zionale e morale dell’uomo. Platone affermò in effetti più volte - in primis nel Menone - che è possibile a tutti gli uomini, perfino a degli schiavi privi di cultura, giungere ad una doxa vera (alethes) e corretta (orthè), dotata di analoga efficacia conoscitiva in rapporto alla episteme58. Addirit­ tura, sostenne che tutti gli uomini, non solo quelle figure così ec­ cezionali che sono i filosofi, possono giungere alla episteme, ossia alla conoscenza autentica delle cose, qualora appunto riescano ad accordare dialetticamente le proposizioni alla realtà mediante il ra­ gionamento causale59. Si è talora ritenuto, per il suo frequente riferimento ai miti60, o anche per il suo richiamo alla «fiammella» da cui improvvisamente nascono alcune illuminazioni (sebbene, come spesso si dimentica, solo «dopo lungo sfregamento»61), che il processo conoscitivo pla­

57Vegetti 2018 c, pp. 17-18. Tale conoscibilità vale peraltro anche per l’idea del Bene (o del «buono», come traduceva Vegetti to agathon) della Repubbli­ ca, da diversi interpreti ritenuta «trascendente». Di essa infatti Platone sottolinea chiaramente la condizione di mathema, oggetto di conoscenza (505 a). Del resto, in tutto il Corpus platonico to agathon viene menzionato sullo stesso piano delle altre idee-valore (to kalon, to dikaion, to alethes). 58 Come ricorda Casertano 2007 (p. 43), «l’opposizione opinione-verità assume un senso radicale e assoluto solo in alcuni interpreti di Platone, ma non in Platone». 59Menone, 98 a ss. Sul processo conoscitivo in Platone, rinviamo a White 1976 e Trabattoni 2016. 60 Non è possibile qui soffermarci sulla trattazione platonica del mito, su cui molto ci sarebbe da dire, essendo essa realmente importante nel complesso gioco della dialettica platonica. Ci limitiamo a rinviare, in merito, a Droz 1991, Baracchi 2002 e Ferrari 2006. In estrema sintesi, è possibile solo sottolineare che il discorso platonico in rapporto al mito si situa fra due estremi: da un lato, la condanna di quei miti che egli considera diseducativi (Repubblica, II); dall’altro, l’accoglienza e la elaborazione di quei miti che, qualora la ragione non riesca a giungervi autonomamente, consentono una via di accesso privile­ giata alla verità (ottimo in merito Morgan 2000; un po’ eccessivo nella soprav­ valutazione del mito ci sembra invece Schefer 2001). AH’interno di questi due estremi, vi è tutta una serie di sfumature intermedie. Aveva comunque ragione Jaeger 2004 (p. 994) sottolineando come Platone, «tra Apollo e Dioniso, get­ tasse audacemente un ponte», ritenendo sia mythos che logos necessari per esprimere la realtà nella sua complessità. 61 Lettera VII, 34ib; 344 c

I Classici. Platone ed Aristotele

207

tonico fosse caratterizzato da prevalenti tratti di intuizionismo mi­ stico62. Il misticismo ritiene infatti che la forma più alta di contatto conoscitivo con la realtà si possa ottenere solo in maniera irrazio­ nale, dunque non sviluppabile col pensiero e non comunicabile col linguaggio. Ciò nonostante, sebbene non si possa ancora parlare - come accadrà poi, almeno in termini generali, con Aristotele di una sostanziale equivalenza tra essere, pensiero e linguaggio in Platone63, si può tranquillamente affermare che nella sua opera non vi fu alcuna sfiducia radicale circa il fatto che il linguaggio possa rendere l’essenziale del pensiero e dell’essere64. Come scrive infatti Maurizio Migliori, l’approccio mistico-intuitivo alla realtà è «tipico del sistema di Plotino, ma non trova alcun riscontro in Platone, in cui la conoscenza sorge sempre sulla base di una argomentazione razionale»65. Anche Charles Kahn sostenne giustamente, in merito, che per Platone «la ricerca filosofica è una ricerca di conoscenza e verità che riguarda le questioni fondamentali»66, la quale può svol­ gersi solo con le modalità della ragione67. La ricerca era, per Platone, attività propriamente umana, sia in quanto essa produce nell’uomo - non nel divino, che non ne ha bisogno; non negli animali, che non ne sono in grado - la massima realizzazione, sia in quanto produce la massima utilità 68.1 Greci in­ fatti, e Platone in primis, cercarono sempre non tanto per il piacere di cercare, ma soprattutto per l’utilità di trovare69. Ciò peraltro pre­

62 Una simile interpretazione ci pare presente in Lavecchia 2010. È tut­ tavia evidente che, oltre che contro il relativismo culturale della Sofistica, la filosofia platonica cercò di porre un argine anche nei confronti del misticismo della tradizione iniziatica (ad esempio Sofista, 242 c-d; su questo dialogo rin­ viamo fra gli altri a Palumbo 1994 e De Petris 2005), della quale appunto non condivideva l’approccio generale. 63 Su questi margini di rifrazione in Platone, molto interessante Saimeri 1999. 64 In questo senso anche Casertano 1996. 65 Introduzione a Kahn 2008, p. XXVII. 66 Kahn 2008, p. 372. 67 La necessaria guida della ragione è ribadita in diversi dialoghi, fra cui, a mero titolo di esempio, Gorgia, 527 e; Leggi, 645 a; Politico, 300 c. 68 Questo non implica naturalmente che tutti possano divenire filosofi: ciò è chiaramente affermato in Protagora, 317 a; Gorgia, 483 b; Repubblica, 494 a; 500 b. 69 Dice bene Migliori 2013 (p. 32) che «non c’è una frase in tutti i dialoghi [di Platone; L.G.] che dica: la soluzione non è importante, la ricerca è fine a sé stessa, la filosofia è solo una indagine che non troverà mai ciò che cerca». Ed ancora (p. 86): «Filosofia è originariamente dialogo e ricerca, ma per Platone sempre in funzione di una verità umanamente raggiungibile».

208

C a p ito lo V

suppone che vi sia una realtà che esiste indipendentemente dalla ricerca stessa, e che la ricerca deve appunto comprendere70. Tale realtà tuttavia non può essere fondamento di senso e valore di sé medesima, non possedendo essa autonomamente - l’uomo è l’uni­ co ente che la possiede - alcuna capacità gnoseologica, ontologica ed assiologica. Il dialogo in cui emerge più netto l’afflato onto-assiologico ve­ ritativo in Platone, e con esso la natura razionale-morale dell’uo­ mo, fu comunque la Repubblica71. Ciò emerge soprattutto nella figura del filosofo, titolare di un sapere in grado di unire teoria e prassi, dato che per Platone la verità acquista una sua dimensione compiuta solo quando si traduce in azioni corrispondenti. Verità e bene sono infatti strettamente connessi in Platone, come dimostra indirettamente il fatto che il male è connesso all’ignoranza72. La conoscenza, con particolare riferimento ai Principi ed alle Idee, era per Platone necessaria anche ad orientare la vita morale, dato che appunto Principi ed Idee possiedono valore non solo descrittivo, ma anche normativo di paradeigmata, ossia di modelli di riferi­ mento, rispetto alla prassi umana73. La natura morale dell’uomo Passiamo ora, più propriamente, all’analisi della natura mora­ le dell’uomo. Sostenere che l’uomo possiede una natura morale, come già abbiamo sottolineato, non significa affatto per Platone affermare che l’uomo sia buono per natura fin da bambino, e che muti negli anni solo in quanto traviato da cattive modalità sociali. Platone era infatti consapevole del fatto che i cuccioli di uomo sono

70 Teeteto, 185 c-186 d. 71 Rimandiamo, in merito allo studio di questo dialogo, agli splendidi sette volumi Vegetti 1996-2007. 72Leggi, 731 c-d; 734 b; 861 b-d. 73 Repubblica, 484 c. Come ha giustamente sostenuto Mario Vegetti (in Settis 1996, voi. I, p. 440), la componente razionale dell’anima platonica «ha come funzione specifica la conoscenza teoretica ed etica insieme; da questa conoscenza essa trae la sua capacità di universalizzazione, cioè di comprendere ciò che è giovevole non soltanto a sé, ma all’intero [...]. La polarità razionale dell’anima non ha nulla di specificamente individuale e soggettivo, giacché la ragione, così come le forme e gli oggetti della conoscenza, è universalmente uguale ed omogenea per tutti gli uomini». In questo principio razionale «con­ siste il vero io, in virtù delle sue capacità di universalizzazione» (Id., p. 441). Sulla teoria morale platonica, sempre utile la lettura di Irwin 1977.

I Classici. Platone ed Aristotele

209

fra gli animali i più diffìcili da educare74, ed era inoltre a conoscenza della lezione descrittiva di alcuni Sofisti e di alcuni storici, secondo cui sarebbe innata negli uomini una animalesca tendenza allap/eonexia75. Fu del resto proprio in risposta a posizioni come queste, tematizzate anche nel teatro di Euripide, che egli elaborò, rispetto al più semplicistico “intellettualismo socratico”, una concezione dell’anima insieme unitaria e tripartita. Nel IV libro della Repub­ blica infatti, pur affermando che l’anima è un intero76, Platone sot­ tolinea che questo intero si articola in tre parti strutturalmente in conflitto fra loro (razionale, irascibile, concupiscibile)77, ma in li­ nea di principio armonizzabili dalla ragione, sebbene mai in modo definitivo. Il conflitto fra le componenti razionale ed irrazionali dell’anima è in Platone, almeno a partire dalla Repubblica, un dato centrale78. Come egli mostrerà infatti anche nelle Leggi, non solo la mancanza di conoscenza, ma soprattutto le passioni costituiscono le cause principali che conducono l’uomo al male ed alla infelicità79. Le passioni, rappresentate nell’ultimo dialogo come tanti fili che tirano l’anima in varie direzioni, sono tuttavia da Platone ritenute governabili dalla ragione, ossia orientabili verso la virtù80. Platone comprese ben presto che la biologia animale, che le va­ rie parti irrazionali dell’anima in certo senso rappresentano, non costituisce l’essenza dell’uomo. Seguire le tendenze della biologia animale conduce infatti a non realizzare la propria umanità81. So­ stenere che l’uomo possiede una natura morale significava dunque, per Platone, affermare che sul piano etico l’uomo realizza la pro­ pria natura ponendo in essere comportamenti comunitari, rivolti

74Leggi, 808 d. 75 In alcuni passi della Repubblica (409 e-410 a), il Socrate platonico affer­ ma che i giudici dovrebbero fare uccidere «chi ha l’anima naturalmente cattiva e inguaribile [kakophueis)», ritenedo dunque che vi sia anche qualcuno che ha un’anima cattiva per natura. 76 Rilevante in merito l’assimilazione dell’anima alla trottola (Repubblica, 436 d-e). 77 Repubblica, 439 b-d. Per la tripartizione dell’anima platonica, emble­ matica pure l’immagine della bestia multiforme (588 c-d). 78Repubblica, 351 e-352 a; 442 d; 554 d; 603 d; et al. 79Leggi, 626 d-627 b; 863 e-864 b; et al. 80Id., 644 e ss. 81 Come afferma giustamente Trabattoni (in Bruschi 2007, p. 193), «per Platone l’unico impulso originario e naturale a cui tutti gli uomini sono ine­ vitabilmente soggetti è quello diretto alla propria felicità. Chi dunque si lascia guidare dalla pleonexia, dal desiderio di avere di più, non è schiavo di un im­ pulso naturale ad essa rivolto (che non sussiste), ma vittima dell’errore teorico di credere che l’avere di più sia un mezzo utile per procurargli la felicità».

210

C a p ito lo V

al bene82. Allo stesso modo, sostenere che l’uomo possiede una na­ tura razionale significava affermare che sul piano teoretico l’uomo realizza la propria natura ricercando nelle varie circostanze della vita la verità. Ricercando il vero ed il bene l’uomo viene infatti a trovarsi in una condizione naturale, ossia di salute, di felicità. In questo senso il filosofo deve “semplicemente” - ma l’operazione, che si struttura sia sul piano culturale che sul piano politico, è come accennato molto complessa - aiutare l’anima degli uomini tramite l’educazione (in senso ampio) a raggiungere la felicità, in maniera analoga a quanto fa il medico tramite la terapia (in senso ampio) per raggiungere la salute del corpo83. Platone, come noto, trattò del bene nella Repubblica sia come il fine proprio di ogni uomo84, sia, soprattutto, come il contenuto fondamentale della realtà85, il «principio del tutto»86. Esso infatti assume al contempo, soprattutto nei libri centrali di questo dialogo, il ruolo di fondamento ontologico, epistemologico ed assiologico87. Il bene è certo anche descritto come ciò che si trova «al di là dell’es­ sere per dignità e potenza»88. Rimanendo tuttavia sul piano umano eticamente praticabile, fare il bene significa per Platone, come per Socrate, soprattutto fare ciò che è giusto, ossia ciò che è proprio della

82 Nel Protagora, ad esempio, Platone afferma che «non è nella natura umana il tendere al male invece che al bene» (358 d). 83Come scrive correttamente Bertelli 2013 (p. 198) «l’uso dell’analogia medico/medicina è uno degli assi portanti della critica socratico-platonica ai falsi saperi [...]: la scelta era ben calcolata, infatti la medicina si presentava come una tecnica o sapere ben organizzato in regole e procedure, con una chiara ed esatta conoscenza del proprio oggetto, una conoscenza oltretutto comunicabi­ le, e con una finalità eteronoma rivolta al bene del suo destinatario, il paziente, cioè il ristabilimento dello stato di salute dell’organismo. Era pertanto coerente che chi si proponeva come finalità la therapeia dell’anima a livello individuale, e la therapeia della città a livello collettivo, si appellasse a un modello tecnico di quel genere». In questo senso anche Cambiano 1971, pp. 80 ss. 84Repubblica, 352 d-354 d. 85 Id., 505 a-b. 86 Id., 511 b. 87 Come sintetizza Lo schiavo 2008 (p. 193), siamo di fronte ad una idea del bene «che assume la funzione di fondamento in un triplice senso: fonda­ mento ontologico, in primo luogo, in quanto il bene conferisce l’essenza agli stessi enti noetici; fondamento epistemologico, in secondo luogo, in quanto il bene garantisce le condizioni di conoscibilità di quegli enti; fondamento assio­ logico, infine, in quanto il bene diventa il canone regolativo dei valori morali e politici necessari alla kallipolis». 88Repubblica, 509 b.

I Classici. Platone ed Aristotele

2 11

nostra natura di uomini89, senza commettere ingiustizia90. Ciò in quanto chi fa il male, pur ritenendo di farlo ad altri, lo fa in realtà principalmente a sé stesso, in quanto appunto, così facendo, dere­ alizza la propria natura morale di uomo91. Il male consiste infatti in una mancanza di rispetto e di cura verso gli uomini (e la natura), e questa mancanza si ritorce sempre verso chi la compie, dato che le relazioni con gli uomini (e la natura) sono solitamente caratterizza­ te da reciprocità. La natura morale dell’uomo, dunque, si realizza ponendo in essere comportamenti comunitari tendenzialmente uni­ versalistici, poiché solo in questo modo si realizza il bene, e «ad un uomo buono non può capitare nulla di male»92. La natura morale dell’uomo coincide in sostanza con la sua apertura comunitaria, la quale consente un fiorire di relazioni che rendono ricca l’esistenza. Tale natura morale può svilupparsi tanto più quanto più della medesima si è consapevoli, dato che solo chi conosce il bene lo può porre compiutamente in essere. Conoscenza e virtù, ragione e morale, teoria e prassi sono infatti strettamente connesse nel pensiero platonico, e tenute insieme, oltre che - come detto - da una buona natura, soprattutto da una buona educazio­ ne. Non è un caso che la Repubblica, il testo forse più importante di Platone, sia in larga parte dedicato al tema dellapaideia, così come non è casuale che nelle Leggi l’Ateniese affermi proprio che «l’e­ ducazione è l’orientamento deH’anima alla virtù», e che «la virtù è il piacere verso ciò che bisogna amare e l’avversione verso ciò che bisogna odiare»93. L’educazione abitua i giovani progressivamente a raggiungere in maniera compiuta la propria natura razionale e morale di uomini94.

89 Platone non può essere considerato un esplicito sostenitore del diritto naturale, poiché tale teorizzazione fu successiva. Tuttavia, diversi studiosi han­ no colto in tal senso molte analogie nel suo pensiero: il riferimento è in par­ ticolare a Maguire 1947, Mori 2010 e soprattutto Netschke-Hentschlce 1995. 90 Critone, 48 b-51 c; Gorgia, 468 e-469 c. 91 Come scrive giustamente Reale (in Migliori 2000, p. 135), «Platone af­ ferma che la violenza non è mai veramente vittoriosa». 92Apologia di Socrate, 41 d. 93Leggi, 653 a-c. Sul processo educativo nelle Leggi, molto utile Gastaldi 1984. Significativi, in merito, i proemi delle Leggi (in generale, sui proemi pla­ tonici, rinviamo a Capuccino 2014), i quali assumono in questo dialogo il posto che nella Repubblica è riservato alla dialettica. Nelle Leggi (729 b-730 c) si af­ ferma infatti che non è la legge in sé, ma l’educazione, se buona, che rende ogni uomo disponibile a osservare le leggi, in quanto la verità è guida di tutti i beni. 94 Per una visione generale della tematica della educazione in Platone, rin­ viamo a Stenzel 1966, Nettleship 1970, Funghi 1979 e Impara 2002.

212

C a p ito lo V

La grande attenzione per la realizzazione della natura mora­ le dell’uomo, si evidenzia anche nel fatto che le idee valoriali - le singole virtù95 - sono sicuramente le idee più presenti nei dialoghi platonici, non solo in quelli “socratici” della giovinezza. Così è, come la Repubblica dimostra in maniera emblematica, in quanto l’uomo deve rapportarsi anche eticamente alla realtà se ne desidera una comprensione compiuta, da realizzare cioè non solo in termini lo­ gico-fenomenologici, ma anche onto-assiologici96. Ciò gli è del resto necessario in quanto in ogni situazione della esistenza l’uomo deve comprendere, valutare ed agire in maniera conforme alla propria natura razionale e morale, per realizzarsi pienamente come uomo. La natura morale dell’uomo si esprime anche, in più punti dell’opera platonica, nella critica alla crematistica allora preva­ lente, ossia nella consapevolezza della innaturalità per l’uomo di strutture economico-sociali privatistiche e mercificate, che pro­ ducono conflittualità anziché comunità. Nella Repubblica, come in altri dialoghi, Platone sottolinea infatti l’importanza di sentirsi «tutti fratelli nella città»97, il che è sicuramente favorito dal porre in comune le condizioni generali dei processi che garantiscono la produzione e riproduzione sociale della vita98. Una polis comunitaria è infatti una polis non solo in cui ciascu­ no pone in essere i compiti verso cui è più portato (oikeiopragia), ma anche una polis in cui le cose essenziali alla buona vita sono in comune, ed in cui dunque a nessuno deve mancare il necessario per vivere bene, se altri ne dispongono. Una polis siffatta realiz­ za in massimo grado la natura comunitaria degli uomini, dato che le problematiche relative ad un iniquo possesso e ad una ingiusta

95 Platone discute i singoli temi etici in singoli dialoghi, senza tendere ad una sistematizzazione generale (si potrebbe peraltro discutere se sia possibile parlare di “etica” in Platone, dato che la stessa, come disciplina specifica, nac­ que solo con Aristotele). Ciò ha incoraggiato la letteratura in prevalenza di area anglosassone a rileggere i dialoghi separatamente, il che non ha agevolato una lettura generale di una tematica così complessa come quella morale. 96 Scriveva bene in merito Biral 1997 (p. 69), che «non il rispecchiamen­ to delle cose quali esse sarebbero in sé stesse è pertanto il fine che la scienza [platonica; L.G.] prende di mira, bensì la loro cura, il togliere, per quanto è possibile, i difetti, le mancanze, le malformazioni, le insufficienze, da cui sareb­ bero altrimenti affette [...]. La scienza migliora le cose, le conduce verso la loro pienezza, le pone in grado di manifestarsi nella loro perfezione». 97Repubblica, 415 a. 98 La parola koinonia è una delle più frequenti in Platone, comparendo ben 240 volte ed in maniera piuttosto omogenea nei vari dialoghi (significati­ vamente soprattutto nella Repubblica).

I Classici. Platone ed Aristotele

2 13

distribuzione dei beni essenziali alla vita, costituiscono la prima causa di conflitto tra i cittadini". In vari dialoghi, fra cui le Leggi - di solito ritenuto il testo in cui Platone ritematizza l’auspicabilità della privatezza economica9 100 - , è del resto ribadito il motto pita­ 9 gorico secondo cui solo i beni degli amici sono comuni101. Esso sta a significare che in una società si crea comunità, dunque amicizia, solo se non vi è conflitto per la disponibilità, quanto meno, del ne­ cessario102. La natura razionale e morale dell’uomo, la quale sul piano teo­ retico si realizza mediante una elaborazione insieme ontologica ed assiologica, richiede sul piano teoretico e pratico per Platone, per realizzarsi, anche una compiuta educazione progettuale. Proprio di questo parleremo nel prossimo paragrafo. Educazione e progettualità La paideia costituiva per il pensiero greco quel processo cultu­ rale e sociale complessivo necessario a far maturare la condizione umana, ossia a rendere l’uomo compiutamente tale, in grado cioè di realizzare la piena fioritura del proprio essere. Come ricordato, ancora all’epoca di Platone non vi era un siste­ ma di educazione pubblica organizzato, né ad Atene né più in ge­ nerale in Grecia. Per questo l’istruzione dei giovani - se si esclude un livello minimo di alfabetizzazione, necessario al funzionamento della polis democratica - , almeno per quelle famiglie che se la po­ tevano permettere, era sostanzialmente lasciata ad insegnanti pri­

99 Su questa tematica, rinviamo a Gaiser 1998. 100Dicono bene Campese-Gastaldi 1977 (p. 29), con riferimento alle Leggi (in cui si decreta la inalienabilità dei beni immobili, la riduzione al minimo dei traffici commerciali ed una forte limitazione delle diseguaglianze nei patrimo­ ni), che «il modello collettivistico della Repubblica continua a condizionare fortemente, anche a distanza di anni, il pensiero etico-politico di Platone. La soppressione totale della sfera privata, della famiglia e della proprietà, e la ri­ duzione del corpo sociale a un organismo pienamente integrato e coeso non cessano di rappresentare l’obiettivo ultimo e ottimale». 101 Platone ripete più volte la massima pitagorica secondo cui «le cose degli amici sono comuni» (A16), ad esempio in Lachete (181 a), Liside (207 c), Fedro (279 c), Repubblica (424 a; 449 c), Leggi (739 c). Sul rapporto fra Platone ed il Pitagorismo, rinviamo a Horky 2013. 102Scrive in merito correttamente Casertano 2007 (p. 11) che «quando Pla­ tone parla della utilità della verità [...], non si riferisce mai al particulare del singolo uomo, umile o potente che sia, ma ad un benessere di tutti gli uomini, della società umana nella sua interezza. Dimensione quindi sociale, o politica, della verità».

214

C a p ito lo V

vati, in primis ai Sofisti. L’istruzione impartita dai Sofisti era tut­ tavia, come Platone mise bene in evidenza, di tipo “strumentale”. Essa cioè forniva principalmente “strumenti” tecnici e concettuali per gestire in maniera più profittevole i propri beni economici, la propria carriera politica ed in generale il proprio interesse privato. Platone, grazie soprattutto all’esempio di Socrate, mirò invece con la propria opera teoretica ad una diversa opera educativa, fina­ lizzata a favorire l’interesse pubblico, ossia a favorire in primo luo­ go la fioritura di una elite filosofica in grado poi, una volta assunto il potere, di costituire modalità sociali volte a realizzare la migliore esistenza per ogni uomo103. Il pensiero platonico era in effetti fortemente universalistico, come dimostra il fatto che esso, soprattutto nella Repubblica, fu rivolto anche alle donne, fino ad allora escluse dal processo edu­ cativo104. Nella kallipolis, infatti, le donne avrebbero potuto effet­ tuare gli stessi compiti degli uomini, sebbene con alcune piccole limitazioni dovute alla loro maggiore fragilità fisica105. Platone si mostra in effetti convinto di una sostanziale uguaglianza interna al genere umano, ma soprattutto del fatto che in una educazione de­ gna di questo nome la metà del genere umano (quella femminile) non poteva essere relegata alla tessitura o ad altri lavori servili106. Le donne andavano a suo avviso educate, né più né meno degli uo­ mini, a realizzarsi in maniera compiuta, per il bene non solo loro ma della intera comunità107. Uomini e donne avevano del resto per il filosofo ateniese la stessa natura (he aute physis), e proprio in base a questa natura gli uni e le altre dovevano poter intraprendere

103 Come ha ricordato correttamente Vegetti 2018 c (p. 149), la progettuali­ tà della Repubblica era per Platone «possibile proprio perché essa è conforme a natura, kataphysin [...]. Qui chiaramente il concetto di natura ha un valore normativo: è naturale, e quindi anche possibile, ciò che è in accordo con le qualità e le proprietà essenziali delle cose in sé stesse; naturale è anche ciò che risulta, di conseguenza, in accordo con il miglior ordine possibile delle cose». 104 Una completa trattazione di questa tematica è in Buchan 1999. Spunti interessanti anche in Calvert 1975. 105Repubblica, 451 c-457 b; 540 c. Vegetti 2003 (p. 107) ha affermato giu­ stamente che si tratta «della più radicale dichiarazione di uguaglianza di diritti e di doveri fra i sessi che l’antichità abbia mai formulato». 106 Per Platone inoltre anche la famiglia, che pure nella Repubblica è rite­ nuta “fonte di privatezza”, viene nelle Leggi (931 a) considerata importante luogo comunitario. 107 Significativa è in merito l’affermazione della Repubblica (420 b): «Il proposito di noi fondatori della città non è affatto che una qualche classe deb­ ba essere più felice di un’altra, bensì che tutta la città nel suo complesso lo sia il più possibile».

I Classici. Platone ed Aristotele

215

le stesse occupazioni, qualora conformi alla loro indole ed all’inte­ resse complessivo108. Sono lontane dunque in Platone, così come in Socrate, posizio­ ni quali quelle talvolta espresse da Aristotele, secondo cui la fem­ mina sarebbe «una deformità, sebbene una deformità che capita nel corso ordinario della natura»109. In figure come quelle della già citata Diotima di Mantinea, 0 della profetessa di Delfi e delle sa­ cerdotesse di Dodona110, emerge infatti la grande considerazione soprattutto per la capacità, tipicamente femminile, di interpretare gli aspetti più profondi della esistenza111. Non si può comunque non rimarcare che nella società in cui Platone si trovò a vivere, la donna era relegata in famiglia in una condizione di inferiorità, il che ha verosimilmente ridotto - come appare ad esempio nelle Leggi112 anche la portata universalistica del suo discorso. Un altro aspetto in cui emerge l’umanesimo platonico è costi­ tuito dai rapporti con gli stranieri113. Le relazioni con questi ultimi erano infatti per Platone «cose al massimo grado sacre», in quanto «lo straniero si trova ad essere privo di amici e familiari, perciò è più di ogni altro affidato alla compassione degli dei e degli uomi­ ni»114. Platone ebbe inoltre come detto in grande considerazione la sapienza orientale, soprattutto quella egizia115.

108Repubblica, 455 d- 456 e 109 De generatione animalium, 775 a 15. Essa è inoltre ritenuta «un ma­ schio deforme» (Id., 737 a 20), uno stadio di sviluppo incompleto del genere umano. Ce ne occuperemo poco più avanti. 110Fedro, 244 a-b. 111 Questo aspetto è stato colto, ad esempio, da Giulia Sissa (in Duby-Perrot 1990, p. 63), la quale afferma che «femminilizzare il soggetto del sapere significa dunque, per Platone, parlare di tutto ciò che impedisce all’anima di appropriarsi della verità, di penetrarla direttamente». 112Nelle Leggi (781 c-d), testo in cui effettivamente Platone esclude la don­ na dalle più importanti funzioni di governo, egli afferma che è molto difficile educare la donna al logos, sicché ella torna ad occupare il consueto ruolo fa­ migliare subalterno (742 c; 774 a-b; 783 a- 785 b; 720 a-d; 808 a-b; 923 c-925 d; 930 a-d; 937 a). Proprio considerando questi passi, risulta molto critica Cantarella 1999 (p. 83): «Platone era profondamente convinto della inferiorità naturale delle donne, a più riprese esplicitamente affermata nella teoria della metempsicosi». Nella medesima direzione Campese-Gastaldi 1977 (pp. 1 ss.). 113 Ciò è stato ben messo in evidenza da Giovanni Casertano in un saggio intitolato Greci e barbari in Platone, in Iaso 2003 (pp. 91-103), nel quale lo studioso ha rimarcato la sostanziale assenza di ogni distinzione oppositiva all’interno del genere umano nel pensiero platonico. In questa direzione anche .Joly 2010. 114Leggi, 729 e-730 a. 115Politico, 262 c-d. Interessante in merito Kerchensteiner 1945.

216

C a p ito lo V

L’universalismo umanistico platonico si evince anche dalla sua considerazione critica della schiavitù, di cui una letteratura abbon­ dante, ma talvolta un po’ superficiale, lo ritiene invece sostenitore. In tal senso, occorre chiaramente affermare che Platone - il quale significativamente non menziona mai la schiavitù nella kallipolis della Repubblica - , come Aristotele, ritenne giustificate, alla luce delle differenti attitudini degli appartenenti al genere umano, solo delle differenze circa l’attività da svolgere. Era bene infatti, a suo avviso, che coloro che erano razionalmente e moralmente meglio dotati fossero posti in ruoli di comando, mentre coloro che erano in tal senso meno dotati fossero dai medesimi guidati, un po’ come accade ai bambini con i genitori116. Diversi autori hanno in ogni caso sostenuto la tesi di un pre­ sunto filoschiavismo platonico, portando a sostegno delle loro posizioni alcune opere. Analizzando le stesse, tuttavia, i passi in­ criminati risultano davvero pochi117. Lo studioso italiano Anacleto Postiglione, che su questo tema si è particolarmente soffermato, ha ad esempio citato come passo in tal senso più significativo Leggi, 777 e. Egli ha affermato in merito che Platone indica, «come primo rimedio contro le ribellioni, che gli schiavi non siano dello stesso paese né parlino, per quanto è possibile, la stessa lingua»118. Il pre­ sunto filoschiavismo di Platone sarebbe a suo avviso deducibile, insomma, dalla constatazione secondo cui la divisione fra schiavi è favorevole al dominio padronale (divide et impera). Con la mede­ sima logica, però, chiunque affermasse oggi la tesi che la divisione fra lavoratori è favorevole al loro controllo da parte del capitale - tesi assolutamente vera, come quella platonica - , dovrebbe tout court essere considerato filocapitalista. Occorre allora, come si affermava in precedenza, chiarire che sono cose molto diverse la descrizione della situazione effettuale e la valutazione della medesima. Descrivere le modalità in cui si svolge la schiavitù non implica di per sé valutarla in modo positivo, o valutare in modo negativo gli schiavi. Tutta la critica alla crematistica, nonché la rivoluzionaria progettualità della Repubblica, stanno ad indicare che Platone non riteneva affatto desiderabile un modo di produzione sociale in cui la maggioranza delle perso­

116Repubblica, 590 d-591 a. Nelle Leggi (690 b-c), Platone afferma che «Za norma più importante [...] è quella che impone all’uomo ignorante di subire l’iniziativa, ed all’uomo intelligente di prenderla e di assumere il comando. E questo non può dirsi contro natura, ma perfettamente naturale». 117Ad esempio, Teeteto, 172 c-173 c. 118Postiglione 1998, p. 10.

I Classici. Platone ed Aristotele

217

ne fosse impossibilitata a realizzare la propria natura razionale e morale119. Nelle Leggi infatti, significativamente, Platone affermò, poco prima del passo poc’anzi citato, che «si possono trovare molti ser­ vi che per tutte le loro buone qualità sono per qualcuno meglio di fratelli e di figli»120. In generale inoltre, per l’umanista Platone, «il comportamento da tenersi al riguardo degli schiavi è quello di non commettere atti ingiusti nei loro confronti. Se fosse possibile, bi­ sognerebbe essere ancora più irreprensibili con loro che non con i propri pari. Del resto, si vede che un uomo ama la giustizia col cuore e non per finta e odia davvero l’ingiustizia, dal modo in cui tratta questi uomini, ai quali sarebbe facile fare del male. E poi chi è senza macchia di peccato e di empietà nel suo modo di essere e di agire con gli schiavi, si stia pur certi che sarebbe assolutamente capace di seminare i germi della virtù. E lo stesso a giusto titolo potrebbe dirsi [...] di ogni uomo di potere nei riguardi di chi è sot­ tomesso ed è più debole di lui»121. Manca sicuramente, in Platone, una chiara indicazione della necessità di abolire la schiavitù, la quale tuttavia fu assente non solo in pressoché tutto il pensiero greco e latino, ma anche in lar­ ga parte del successivo pensiero cristiano. Ciò nonostante, non si può per questo non considerare universalistico il complessivo messaggio umanistico platonico. Per Platone, come già ricordato, l’educazione era infatti necessaria a tutti, in quanto nessun uomo è naturalmente dotato di una compiuta struttura razionale e morale già da sempre in atto sin dalla nascita. È comunque necessario, per il bene proprio e generale, che ogni uomo sia posto nelle condizioni di poter sempre porre in atto tale realizzazione. In questo senso, occorre essere cauti nell’ interpretare l’inizio della storia umana, in tre importanti miti presenti nell’opera di Platone, come “età dell’oro” di una umanità già ai suoi inizi rea­

119 Trabattoni 2009 (p. 131) sintetizza ottimamente «il messaggio fina­ le della Repubblica: la virtù e la felicità dell’uomo, anche dell’uomo singolo, passano necessariamente attraverso la politica, intesa in senso lato come edu­ cazione completa dell’uomo sia nella dimensione pubblica sia in quella priva­ ta». In generale, «l’obiettivo principale della filosofia di Platone non è tanto quello di individuare, con intento puramente conoscitivo, le strutture portanti dell’essere, ma quello di trovare, con intento etico-politico, i modelli del bene e dell’ottimo utili per organizzare in modo buono (dunque tale da produrre la felicità) la vita privata e pubblica degli uomini» (Id., p. 202). 120Leggi, 776 d. 121 Id., 777 d-e.

2 18

C a p ito lo V

lizzata e felice122. Nessuna infatti delle condizioni descritte nei tre miti è qualificabile come propriamente umana. Nel Politico i primi uomini sono in sostanza assimilati ad armenti, i cui bisogni sono soddisfatti da un divino re-pastore123. Nelle Leggi sono paragonati ai Ciclopi i quali, senza leggi né assemblee, esprimevano una con­ dizione ferina opposta a quella di una comunità civile124. Nella Re­ pubblica, il consesso umano originario, apparentemente «sano», è liquidato come una «città di porci», per lo scarso livello politi­ co-culturale in esso presente125. La struttura razionale e morale è infatti presente solo in potenza negli uomini - sempre in atto, per utilizzare ancora le categorie aristoteliche, vi sono per Platone solo alcune pulsioni elementa­ ri126 - , sicché essa deve appunto progressivamente essere formata mediante un adeguato processo educativo, per potersi tradurre in atto. Nella Repubblica Platone immaginava che tale processo po­ tesse essere di estensione ed intensità tali da potere nel tempo ren­ dere addirittura superflue le stesse leggi127. L’educazione risulta nell’opera platonica talmente importan­ te, che il filosofo giunge addirittura ad affermare che dovrebbero essere penalmente perseguiti maestri ed educatori incapaci128. Ciò

122Politico, Leggi III, Repubblica IL Su questa tematica, interessanti con­ siderazioni in Gaiser 1988. 123Politico, 271 e-275 a. 124Leggi, 680 a-e. 125Repubblica, 372 d. 126In natura, la differenza fra uomo ed animale è labile (Leggi, 782 d-783 a; Teeteto, 174 d; Timeo, 90 e; Politico, 308 e). La differenza fra uomo ed animale è costituita per Platone dal logos, sicché l’uomo, per realizzarsi, deve utilizzare il logos, il quale si struttura mediante una adeguata educazione, da porre in es­ sere proprio affinché queste pulsioni animali non prendano il sopravvento. Se infatti riceve una cattiva educazione, l’uomo può addirittura trasformarsi nel più feroce dei viventi (Leggi, 765 e-766 a). Nelle Leggi (809 a), Platone affer­ ma infatti che per «raddrizzare la natura degli uomini» occorre cominciare sin da bambini (808 e), affinché essi si abituino «al discorso vero espresso nella legge». Ciò in quanto «chi pensa che ognuno debba avere la facoltà di vivere come vuole la sua giornata [...], permettendo che le cose private siano senza disciplina di legge, e crede poi che i cittadini vorranno vivere mediante le leggi nella vita pubblica della comunità, commette un errore» (Id., 780 a). 127 Nelle Leggi (ad esempio 713 c; 874 e-875 a) emerge come noto un mag­ giore «pessimismo antropologico». Tuttavia, come scrisse giustamente Vegetti 1989 (p. 139), «il pessimismo antropologico e sociale di Platone viene corretto da un profondo ottimismo educativo. Nel bene o nel male, l’io è plasmabile, soprattutto se si interviene sul bambino», come emerge ad esempio in Leggi 644 a-b. 128Leggi, 808 e; Timeo, 87 b.

I Classici. Platone ed Aristotele

219

in quanto il danno, ossia la de-formazione che una cattiva paideia produce su un bambino o su un giovane, permane per tutta la vita, influenzando in maniera negativa l’intera polis. Molto significati­ ve sono in merito le sue considerazioni sul ruolo educativo della poesia e del teatro. A suo avviso infatti le modalità poetiche tra­ dizionali andavano profondamente modificate, poiché la presenza di modelli negativi nelle medesime incideva negativamente sulla educazione dei giovani. La mimesis poetica aveva infatti una for­ te influenza, per Platone, sulle anime delle persone, soprattutto su quelle - quali appunto le anime dei giovani - non ancora compiu­ tamente formate. Per questo, tramite una conoscenza adeguata, la mimesis poetica doveva essere non totalmente espunta dalla kallipolis, bensì utilizzata politicamente per proporre modelli positivi, e tramite questa via favorire la virtù129. Con un discorso valido in generale non solo per i poeti, Plato­ ne riteneva infatti che può insegnare tematiche universali solo chi possiede realmente tali conoscenze, e nei limiti in cui ne dispone130. Socraticamente, peraltro, egli riteneva che si potesse raggiungere un vero sapere, sul piano teoretico e pratico, solo dopo avere sgom­ berato il campo dal falso sapere, che si pretende vero senza esserlo. Anche per questo, secondo Platone, il processo educativo - che è sempre insieme processo di decostruzione del falso sapere e di co­ struzione del vero sapere - deve avvolgere l’intera vita dell’uomo, dall’inizio alla fine, così come il processo nutritivo deve durare per tutta la vita131. Esso inoltre deve tendenzialmente riguardare tutti i cittadini132. Per Platone infatti la virtù era insegnabile, e questo insegnamento costituiva la modalità principale per il miglioramen­ to complessivo della comunità. Come egli afferma nel noto mito di Prometeo del Protagora, Zeus ha concesso a tutti gli uomini le condizioni minime per la realizzazione di una buona vita. Tuttavia, solo l’insegnamento della virtù, ossia la generalizzata diffusione del

129 Sulla poetica platonica, su cui purtroppo non possiamo in questa sede soffermarci, rinviamo agli ottimi Cerri 2007 e Palumbo 2008, anche per le re­ lative citazioni della Repubblica e delle Leggi. 130 Come scrive giustamente Trabattoni (in Trabattoni-Vegetti 2016, voi. IL P- 45), «secondo Platone le teorie che cercano di spiegare la realtà (eraclitismo) e la conoscenza (relativismo, nominalismo) senza ammettere l’esistenza di entità universali e invarianti, sono inefficaci o addirittura contraddittorie». 131 Su questa tematica Platone insiste in particolare nel libro VII delle Leg­ gi132Politico, 308 c-309 b.

220

C a p ito lo V

rispetto e della giustizia, oltre che della necessaria conoscenza, sa­ rebbe stato in grado di far ottenere questo risultato. Il processo educativo, per favorire la costituzione ideale dell’uo­ mo, richiedeva necessariamente per Platone un intervento insieme filosofico-politico sui singoli uomini e sulla polis complessivamente intesa133. Richiedeva in particolare, come egli scrisse nella Repub­ blica e nella Lettera VII, una condizione difficile ma non impossi­ bile da realizzare, ossia l’assunzione del potere politico da parte di un vero filosofo, o almeno il suo ruolo di consigliere ascoltato da chi detiene il potere politico134. Platone era infatti consapevole che il suo progetto educativo costituiva anzitutto un progetto politico rivoluzionario, che si poneva contro i valori crematistici antiuma­ nistici allora dominanti, i quali impedivano la realizzazione di una vita buona per tutti135. Sin dall 'Apologià di Socrate e dal Critone, Platone si rese infatti conto che il male principale di Atene era costituito dalla sua disu­ nità, ossia dalla sua disarmonia. Solo ritrovando l’unità, e con essa l’armonia, la polis avrebbe potuto essere adatta per condurvi una vita felice136. Platone era tuttavia consapevole che la causa prin­ cipale di questa disunità era la crematistica, la quale induce cia­ scuno a rivendicare come proprio ciò che invece dovrebbe essere comune137. Per questo a suo avviso, così come solo la componente razionale dell’anima può pacificare le componenti irrazionali, solo una politica filosoficamente guidata poteva pacificare la polis138. Questo fu in effetti il compito principale del progetto platonico, avente come fine la realizzazione della natura razionale e morale dell’uomo139. Occorreva per Platone, peraltro, agire sia sul piano

133 Come scrive correttamente Reale, «per Platone, l’uomo può esplicarsi moralmente solo se si esplica politicamente, in quanto l’uomo non è ancora concepito da lui [...] come individuo distinto dal cittadino, ossia dal membro di una società politica [...]. La corretta prospettiva di lettura della Repubblica» è infatti quella per cui «Platone vuole conoscere e formare lo Stato perfetto per conoscere e per formare l’uomo perfetto» (Reale 2001, p. 160). 134 Repubblica, 473 c-d; Lettera VII, 325 e-326 a. Su questa tematica, rin­ viamo ad Edmond 1991. 135Repubblica, 422 e-423 a. 136 Id., 443 c-e. 137 Id., 462 b-c. 138Id., 368 e-369 a. 139 Come scrive Vegetti 1989 (p. 138), «l’educazione {paideia) costituisce in Platone il punto di contatto e di transito fra individuo e città, fra progetto e realizzazione. È necessario educare gli uomini perché da essi possa nascere la città giusta [...]; la città giusta deve a sua volta amministrare un programma

I Classici. Platone ed Aristotele

221

individuale che sul piano collettivo, in quanto, se è vero che solo una polis giusta può formare uomini giusti, è altrettanto vero che solo con uomini giusti si può formare una polis giusta140. Senza, in­ somma, affrontare il problema nella totalità dei suoi aspetti, non si sarebbe giunti per Platone alla realizzazione quanto più compiuta possibile di un generale umanesimo. La caratteristica principale dell’approccio filosofìco-politico platonico, come detto, fu in effetti quella di rivolgersi alla totalità idealmente considerata. Come scrive infatti correttamente Miglio­ ri, Platone «con assoluto realismo muove da una attenta valutazio­ ne delle condizioni concrete in cui l’individuo opera eticamente e politicamente», ma al contempo «svolge una serie di riflessioni per rimettere in gioco l’ideale»141. La verità, per Platone, non si limi­ ta come detto alla mera dimensione logico-fenomenologica, ossia alla descrizione logicamente coerente della effettualità fenomenica per come è. Essa si completa solo trattando anche la dimensione onto-assiologica, ossia considerando la realtà per come dovrebbe essere142. Per questo motivo non concordiamo con chi afferma che Platone riteneva non auspicabile la compiuta realizzazione della progettua­ lità onto-assiologica da lui delineata143. Egli, pur consapevole che

educativo permanente per rendere giusti i suoi abitanti, e proteggersi così dalla degenerazione sempre possibile». 140 Sembra comunque in certi punti che l’educazione dei singoli abbia una sorta di priorità: i costumi della polis sono infatti quelli dei suoi cittadini, e «da questi costumi, non da una quercia o da una roccia, nascono le costituzioni» (Repubblica, 544 d). 141 Migliori 2000, p. 240. 142 Come scrive giustamente Palumbo 2008 (pp. 359; 382), per Platone «le parole della theoria, del progetto filosofico di trasformazione del mondo, nascono proprio con la finalità di essere terapeutiche, correttive rispetto alle cose, cioè all’universo del già dato, del già visto, del già esistente. [...] Il fine della filosofia platonica non è quello di conoscere il mondo, di descriverne la morfologia, ma di operare sul mondo una trasformazione radicale, in grado di renderlo migliore». In questo senso, per la studiosa, anche la corretta interpre­ tazione della teoria delle Idee platonica (Id., pp. 385 ss.). 143 Fra costoro vi è peraltro Migliori 2000 (p. 274), quando sostiene che «Platone ha sempre affermato la non realizzabilità del modello ideale». Nella stessa direzione di Migliori la sua allieva Arianna Fermani, la quale, in un sag­ gio intitolato L ’utopia è come l’orizzonte. Valori e limiti dell’utopia in Aristo­ tele (in Grecchi 2018 b, pp. 111-125), ha sostenuto che «l’utopia, per Platone, è e deve restare irrealizzabile» (Id., p. 113). In direzione analoga Kutschera 2010 (p. 302), quando afferma che per il Socrate platonico della Repubblica (472 b-e) lo Stato ideale «serba il proprio valore solo se non lo si mette in pratica». Su questa tematica Bobonich 2002.

222

C a p ito lo V

questa opera di realizzazione rimane costantemente in progress dato che la vita umana evolve e le esigenze umane si modificano -, fu infatti chiaramente consapevole che la realtà è sistematica, ossia che tutto è connesso, sicché un progetto, per la propria adeguata realizzazione, non può essere realizzato in parte, ma deve essere realizzato in toto. La progettualità, dunque la connessione concreta fra teoria e prassi, costituisce del resto la direttrice principale della filosofia politica platonica144. Per Platone infatti la progettualità, se teoreticamente ben fondata e coerentemente pensata, risulta essere sempre realizzabile, quali che siano le difficoltà di tale realizzazione145. Ciò in quanto appunto essa si fonda sulla natura umana cui confor­ marsi, che per Platone costituisce un concetto non solo descrittivo ma anche normativo, quindi naturale, indicando appunto il giusto ordine delle cose. È errato quindi, a nostro avviso, considerare la Repubblica pla­ tonica, nelle intenzioni del suo autore, come una utopia irrealiz­ zabile146. Proprio infatti per il suo porsi come modello fruibile, il paradigma della kallipolis ha svolto nei secoli, soprattutto nel pen­ siero antico147, un importante ruolo di riferimento cui ispirarsi per la realizzazione di una totalità sociale in grado di favorire, nella mi­ sura massima possibile, la natura razionale e morale dell’uomo148. 144 Commentando Repubblica 617 d-e, scrive giustamente Trabattoni (in Trabattoni-Vegetti 2016, voi. II, p. 88) che «Platone intende stabilire un pre­ supposto indispensabile per tutta la sua costruzione etico-politica: ossia che l’uomo dispone di una significativa libertà di scelta. Se infatti così non fosse, il retroterra profondamente umanistico (nel senso che l’uomo è il vero artefice della sua felicità) che regge la struttura della Repubblica, e più in generale tutta l’etica e la politica di Platone, non starebbe in piedi». 145Repubblica, 450 c-d; 456 c; 473 a-c; 499 c-d; 501 e; 502 c. 146 Questa tesi è stata argomentata, con diverse sfumature, da vari auto­ ri, fra cui Strauss 1964, Annas 1981, Rosen 1990 (su queste ed altre simili in­ terpretazioni rinviamo alle ottime trattazioni di Vegetti 2009 e Zuolo 2009). Come scrive giustamente Lucio Bertelli (in Firpo 1982, voi. I, p. 533), tuttavia, «il maggior torto che si possa fare alla Repubblica di Platone è di giudicarla un’utopia nel senso di surrogato immaginario della realtà». 147 Per la considerazione della Repubblica nel pensiero antico, rinviamo a Vegetti-Abbate 2000. 148 Platone comprese correttamente che è difficile dimostrare in modo sod­ disfacente qualcosa di importante senza aiutarsi con dei modelli (Politico, 277 d). A tal proposito, scrive in merito Trabattoni che per Platone, nella Repub­ blica, «la definizione del modello è il passo obbligato per trovare un criterio in base al quale stabilire la misura della giustizia: tanto più giusti saranno un uomo ed uno Stato quanto più si avvicinano al modello descritto, e tanto più ingiusti quanto più se ne discostano (identica concezione è esposta anche nelle

I Classici. Platone ed Aristotele

223

2. Aristotele Note generali Aristotele (384-322 c.a.), come noto, fu autore della prima ripar­ tizione “enciclopedica” del sapere, ossia della prima elaborazione articolata di una pluralità di discipline inerenti sia alla natura che all’uomo149. Per le discipline inerenti alla natura, dobbiamo rinvia­ re al già citato nostro volume in questa collana150. Ci occuperemo in questa sede solo delle discipline inerenti all’uomo, a cominciare dalla “antropologia” per giungere fino all’etica ed alla politica, le quali trovarono la loro fondazione proprio nel Corpus di Aristotele. Rimarchiamo soltanto, come necessario punto di partenza, che è presente nel pensiero dello Stagirita, come e più che nel precedente pensiero greco, una chiara continuità fra natura e uomo, essendo l’uomo un ente naturale che condivide con gli animali e con i ve­ getali larga parte della struttura fisica e delle funzioni organiche151. Corpo ed anima: l’uomo come unità psicofisica In Aristotele, ancor più che in Platone, è marcata l’assenza di dualismo tra anima e corpo, essendo ogni essere vivente costituito Leggi; cfr. ad esempio 746 a-d)» (in Trabattoni-Vegetti 2016, voi. II, p. 84). Ed ancora: «Ciò che appare perfetto nel modello ideale diviene il criterio per valutare le situazioni concrete, per cui la pura idealità del modello, oltre a non essere un difetto, è al contrario condizione necessaria per orientare al bene la vita etico-politica» (Id., p. 85). Per questo Platone definì la kallipolis «un para­ digma in cielo» (Repubblica, 592 a-b). 149 Sulla sistematicità del pensiero aristotelico, rinviamo soprattutto alla prima parte del tuttora valido Berti 1965. Interessanti saggi sull’argomento sono presenti anche in Grecchi 2016 c. Ricchi testi collettanei utili per una vi­ sione di insieme del pensiero dello Stagirita, sono Ackrill 1995, Barnes 1995, Anagnastopoulos 2009, Baracchi 2013. Monografie ottime in italiano sono Vi­ gna 1992, Jori 2003, Cardullo 2007, Reale 2007, Zanatta 2010 a, Berti 2014 e Vegetti-Ademollo 2016. 150Grecchi 2018 a, pp. 177-216. 151 La continuità fra uomo e animale è esplicitata soprattutto nel grande affresco iniziale del libro V ili della Historia animalium (588 a 16 ss.), oltre che in De partibus animalium (681 a 10-15) ed in vari altri luoghi. Molteplici sono le comparazioni fra uomo ed animale presenti nell’opera aristotelica {De partibus animalium, 658 a 15 ss.; 669 a 20 ss.; 673 a7 ss.; Historia animalium, 492 a 31 ss.; 497b 32 ss.; 524 a 26 ss.; et al.). Scriveva comunque correttamente Lugarini 1972 (pp. 23-24) che per lo Stagirita, «la dimensione di origine della filosofia è la physis dell’uomo [...]. La natura umana è origine e fondamento della filosofia».

224

C a p ito lo V

come un’unica sostanza. Ogni uomo è infatti una unità psicofisica in cui, ferma restando - come ora mostreremo - la priorità dell’a­ nima, la componente corporea risulta di grande importanza per una compiuta realizzazione della propria forma. L’anima in effetti «non subisce e non compie nulla senza il corpo»152, in quanto le funzioni vitali cui essa soprassiede sono compiute appunto tramite il corpo. Anche i processi psichici dell’uomo si realizzano mediante mutamenti fisiologici che sono costitutivi di tali processi, in quanto senza tali mutamenti essi non si realizzerebbero. L’anima rimane comunque per lo Stagirita - questo vale sia per l’uomo sia per gli altri viventi - la forma della materia corporea, nel senso che ne costituisce l’essenza, coordinando tutte le funzioni vitali153. L’uo­ mo è tale dunque, per Aristotele, non perché si compone di una particolare materia, la quale è anzi in larga parte comune a quel­ la degli animali, ma in quanto dotato, come ora mostreremo, di un’anima razionale che gli consente di svolgere al meglio tutte le proprie funzioni specifiche, essendo l’anima arche kineseos, ossia principio del mutamento (nel senso più ampio) del nostro essere154. Per questo motivo l’anima, pur avvinta al corpo, deve per natura comandare sul corpo, in quanto la parte migliore, in ogni contesto, deve sempre essere sovraordinata alle altre155. Nel De anima, lo Stagirita mostra come ogni vivente sia caratte­ rizzato da un’anima unitaria e specifica, in grado di svolgere le relati­ ve funzioni vitali156. Essa per i vegetali consiste nell’anima vegetativa, connessa alle funzioni nutritive e riproduttive; per gli animali, oltre all’anima vegetativa vi è anche un’anima sensibile, connessa con le facoltà sensitive e motorie; per gli uomini, come detto, oltre all’ani­ ma vegetativa ed all’anima sensibile vi è anche un’anima intellettiva, o razionale, che costituisce la componente più propria dell’uomo157.

152De anima, 403 a 5 ss. >53 De anima, 433 b 19-20. «Causa e principio del vivere è l’anima» {De anima, 415 b 14). 154De motu animalium, 702 b 17. 155Etica Eudemia, 1249 b 6-7. 156De anima, 11,2-3. 157 Alcuni passi del II libro del De generatione animalium (in particolare 736 a 27-b 1) hanno condotto diversi interpreti a suggerire che per l’anima intellettiva vi sia per Aristotele un’origine differente (divina) rispetto agli altri due tipi di anima. Su questa tematica, rinviamo all’esauriente saggio di Enri­ co Berti, L ’origine dell’anima intellettiva secondo Aristotele (in Alesse et al. 2008, pp. 295-328), in cui lo studioso mostra come tale interpretazione sia ormai per lo più stata abbandonata, dato che anche in base ad altri passi del De generatione animalium risulta chiaro che per Aristotele l’anima intellettiva

I Classici. Platone ed Aristotele

225

La struttura razionale (e morale)158 dell’anima intellettiva con cui l’uomo si rapporta alla realtà, rappresenta infatti la differenza spe­ cifica dell’uomo rispetto agli altri appartenenti al genere animale159. L’anima razionale costituisce insomma, per Aristotele, quel principio intelligente che, dando forma alla materia corporea, fa essere l’uomo ciò che è, ovvero un ente che si realizza approccian­ dosi alla realtà conoscendola, valutandola e se necessario modi­ ficandola, per renderla il più possibile compatibile con la propria natura. Enrico Berti ha specificato in merito giustamente che, «per natura umana, Aristotele non intende una conformazione origina­ ria, data una volta per tutte all’inizio della storia e perciò fuori dalla storia, contrapposta alla cultura, alla civiltà ed a tutti i valori rea­ lizzati mediante la storia. Come egli stesso precisa nella Politica, la natura dell’uomo è il suo fine, cioè la sua perfezione, che non pree­ siste al suo sviluppo, ma si realizza [...] completamente solo grazie alla cultura ed alla civiltà»160. La natura umana dunque, che è per certi aspetti sempre la stessa - essendo come il fuoco, uguale per i Greci come per i Persiani161 - , non è costituita dai comportamenti normali, ossia statisticamente più comuni, in un certo contesto sto­ rico-sociale. Essa è invece costituita dai comportamenti normativi in qualunque contesto storico-sociale, ossia da quei modi di essere che, anche se effettualmente non si verificano, sono gli unici in gra­ do di realizzare l’essenza razionale e morale dell’uomo. Evidente dunque la continuità, su questo tema, con Socrate e Platone, che la tradizione in effetti accomuna all’interno della «fi-

è potenzialmente contenuta nell’embrione, ed addirittura nello sperma (tesi peraltro compatibile col De anima). 158 L’aggiunta è necessaria in quanto la presenza del logos induce l’uomo a riflettere sulle tematiche etico-politiche (Politica, 1253 a 12-15). Da ricordare tuttavia che Kullmann 1992 estende la natura “morale” o “politica” ad altri es­ seri viventi come ape, formica, vespa, gru, nonostante essi siano privi di logos, in base ad alcune indicazioni proprio di Aristotele (ad esempio Historia animalium, 487 b 33-488 a 10; Politica, 1253 a 7-8). 159 Ciò emerge soprattutto in De partibus animalium, 656 a 3-13; Histo­ ria animalium, 488 bi3-26; De generatione animalium, 786 b 19-21; Politica, 1332 b 3-5; Etica Nicomachea, 1098 a 7; Topici, 132 bi-3; De anima, 433 a 12 ss. La bibliografia sul tema è sterminata. Per una sintesi recente che mostra al­ cuni interessanti raffronti fra uomo ed animale nell’opera aristotelica, soprat­ tutto dal punto di vista politico, rinviamo ad Angelini 2018. 160 Berti 1992, p. 231. Per Berti 2009 (p. 276) l’etica di Aristotele «si rivela di tipo, per così dire [...] umanistico, nel senso che valorizza l’uomo nella sua interezza». 161 Etica Nicomachea, 1134 b 25-26.

226

C a p ito lo V

losofia classica»162. Aristotele afferma infatti più volte che la rea­ lizzazione dell’uomo, la sua felicità, si ottiene mediante l’attività deH’anima secondo virtù, e siccome l’anima svolge, come detto, più funzioni (quella razionale e quelle «irrazionali»163, ossia vegetativa e sensitiva), secondo la virtù più propria, ovvero quella razionale164. Ciò detto, non va dimenticato che per Aristotele, se non sussistono specifiche condizioni relative al possesso di determinati beni del corpo (salute, forza, armonia, ecc.) o di beni esterni (patrimonio, considerazione sociale, amicizie, ecc.) necessari alla buona vita, «è impossibile o non è facile compiere azioni eticamente belle»165, dunque divenire felici. In questo senso la virtù, ossia l’eccellenza nel comportamento, è per lo Stagirita condizione solo necessaria, non sufficiente per la compiuta realizzazione della felicità. Assu­ mono insomma rilevanza a tale fine anche le circostanze contin­ genti, che la virtù riesce solo in parte a temperare166. Rimane invece fermo il nesso strettissimo, nel pensiero di Aristotele, tra la componente razionale e la componente morale della natura umana, dato che l’uomo è per natura sia un ente ra­ zionale che desidera conoscere, sia un ente morale che desidera relazionarsi in maniera comunitaria ai propri simili167. Per questo motivo si può affermare che per lo Stagirita la felicità si consegue certo innanzitutto perseguendo le virtù dianoetiche (phronesis e sophia)168, ma senza mai tralasciare le virtù etiche. Per questo mo-

162 Come scrive Reale 2001 (p. 216), «l’adesione di Aristotele alla dottrina socratico-platonica che additava l’essenza dell’uomo nell’anima, e precisamen­ te nella parte razionale dell’anima, è pressoché totale», come emerge chiara­ mente in vari testi, soprattutto i libri I e X delPEfrca Nicomachea. «E poiché questo è il fondamento stesso dell’etica socratico-platonica, non deve stupire se Aristotele, accettando il fondamento, finisca per concordare con Socrate e con Platone molto più di quanto si creda comunemente» (Id., p. 216). 163 «L’anima (..) è divisa in due parti, quella razionale e quella irrazionale» (Etica Nicomachea, 1185 b 3-5). 164 Questo tema è stato ottimamente analizzato, fra gli altri, in diversi sag­ gi presenti nel volume collettaneo Migliori-Fermani 2007. Rinviamo anche a Gastaldi 1994. 165Etica Nicomachea, 1099 a 32-33. 166 Per la trattazione dei beni del corpo e dei beni esterni, i quali risulta­ no sempre di importanza inferiore ai beni dell’anima, rimandiamo a Retorica, 1360 a 19 ss. ed Etica Nicomachea, 1153 b 17 ss. Sul ruolo della contingenza della vita per la felicità, rinviamo a Nussbaum 1996. 167 L’uomo non può condurre bene la propria vita unicamente facendo ri­ cerca, per evidenti limiti fisici (Etica Nicomachea, 1153 a 19-20). 168Etica Nicomachea, 1139 a ss. Poiché sono due le funzioni proprie dell’a­ nima razionale, l’una che conosce le cose contingenti e variabili, l’altra che

I Classici. Platone ed Aristotele

117

tivo virtù dianoetiche ed etiche Qe quali sono tante quante sono le passioni che la ragione deve moderare) devono sempre essere fra loro coordinate, per ottenere una formazione complessiva corretta dell’uomo169. Tale opera di coordinamento può essere svolta solo dall’anima razionale, la quale, a certe condizioni, può ben governa­ re le tendenze irrazionali presenti in ogni uomo170. Declinate, sebbene per sommi capi, le linee generali della “an­ tropologia” aristotelica, cerchiamo ora di approfondire il discorso delineando appunto quella che, per Aristotele, è la natura razionale dell’uomo171. La natura razionale dell’uomo In Aristotele, ancor più che in Platone, si fa marcato il processo di definizione della natura dell’uomo. Lo Stagirita fu certo consa­ pevole che «la nostra natura non è semplice»172, e che quando si parla di enti di natura le costanti valgono sempre «per lo più»173. Ciò nonostante ogni ente, compreso l’uomo, ha sempre una sola essenza, dunque una sola definizione, comprendente quei contenu­ ti che caratterizzano in maniera necessaria la forma di quell’ente, rendendolo tale. Il punto da cui partire ci sembra essere quello per cui, in Aristotele, sono presenti diverse qualificazioni dell’uomo: animale razionale174,

conosce le cose necessarie e immutabili, due sono anche le tipologie di virtù dianoetiche, la phronesis e la sophia. La phronesis consiste nel saper virtuosa­ mente dirigere la vita, cioè nel saper deliberare correttamente intorno a ciò che è bene e male. La sophia, virtù dianoetica più elevata, consiste invece sia nella conoscenza dei principi, sia nella comprensione discorsiva di ciò che deriva dai principi. Rinviamo, per una ottima trattazione di questa tematica, a Zanatta 2010 b. 169Un ottimo quadro di insieme circa la contemperazione delle virtù diano­ etiche ed etiche, dunque sulla tematica della felicità in Aristotele, è in Fermani 2012, pp. 251-340. 170De anima, 431 a 13 ss. Aristotele afferma esplicitamente che «nell’anima sono presenti un elemento irrazionale (to alogori) e un elemento che invece possiede la ragione (to logon echori)»; e la facoltà desiderativa «per sua natura è al di fuori della ragione (para ton logori), è in conflitto con la ragione e va nella direzione opposta ad essa» (EticaNicomachea, 1102 a 27-b 25). 171 Sul tema della antropologia aristotelica, rinviamo anche a Bartolini 2015. 172Etica Nicomachea, 1154 b 22. 173 Fisica, 196 b 10; De partibus animalium, 639 b 21; Etica Nicomachea, 1104 a9-b3; et al. 174Etica Nicomachea, 1178 a 5-b2; Metafisica, 980 a2i-b30; et al.

228

C a p ito lo V

politico175, domestico176, che tende a vivere in coppia177, bipede17*, ter­ restre179, ecc. Ciò lascia sicuramente pensare che Aristotele si rivolges­ se alla realtà con un approccio estremamente diversificato180. Occorre tuttavia non lasciarsi ingannare da questa pluralità di attribuzioni, in quanto per Aristotele è sempre necessario, per comprendere con veri­ tà, distinguere in un ente ciò che è essenziale, che dunque ne costitui­ sce la definizione, da ciò che è accidentale. Si potrebbe, certo, riflettere sul fatto che Aristotele ha fornito relativamente poche definizioni degli enti analizzati, pur avendo esaminato un numero enorme di enti naturali181. Ciò si deve, forse, alla estrema difficoltà insita in ogni processo definitorio, il quale richiede sempre, sul piano fenomenologico, una preliminare inda­ gine ampia e sistematica, in grado di consentire l’identificazione della differenza specifica che caratterizza ogni ente rispetto agli altri enti. Non si può tuttavia non rimarcare come, per rimanere esclusivamente all’uomo, le varie qualificazioni che Aristotele vi at­ tribuisce, alcune delle quali abbiamo poc’anzi accennato, non stia­ no tutte sullo stesso piano. L’uomo risulta infatti, per Aristotele, es­ senzialmente un ente caratterizzato dalla razionalità (costituendo il logos la sua differenza specifica rispetto agli altri viventi)182 e dal­

175Etica Nicomachea, 1097 b 11; Etica Eudemia, 1242 a 5-6; Politica, 1253 a 3; Historia animalium, 487 b 33; et al. 176Etica Eudemia, 1242 a 22-23 177Etica Nicomachea, 1162 a 17-18 178Metafisica, 1006 b 28; 1043 b 10-11. 179Analitici secondi, 91 b 21 180 Rinviamo in tal senso all’approccio multifocale di analisi del pensiero antico sviluppato dalla Scuola di Macerata, ben sintetizzato da M. Migliori - A. Fermani - L. Palpaceli - M. Bernardini, Il pensiero platonico-aristotelico fra polifonia e puzzle, in Mancini-Migliori 2010, pp. 91-164. 181 Fermani 2012 (p. 14) ha ragione in effetti ad affermare che «non esisto­ no quasi mai, nei testi aristotelici, definizioni univoche». Tali definizioni, per quanto rare, sono tuttavia presenti nell’opera dello Stagirita, come mostrano diversi esempi geometrici ed astronomici presenti negli Analitici Posteriori. Ci soffermeremo sulla questione nel seguito. 182 «Il proprio per sé è quello che viene stabilito rispetto a tutti gli oggetti, e separa l’oggetto in questione da ogni altra realtà, come nel caso in cui proprio dell’uomo sia l’essere un animale mortale che può accogliere il sapere» (Topi­ ci, 128 b 33-36). Come ricorda anche Berti 2007 (pp. 149-150), «quanto alla differenza specifica dell’uomo rispetto agli altri animali, Aristotele ne indica più di una [...] ma la differenza fondamentale, che per Aristotele costituisce l’essenza dell’uomo, è il fatto di possedere il logos, ovvero la parola, il discorso, il pensiero e la ragione».

I Classici. Platone ed Aristotele

229

la moralità, ossia dalla relazionalità comunitaria (non potendo egli per natura vivere bene da solo, non essendo «né bestia né dio»183). La natura razionale dell’uomo è attestata in diverse afferma­ zioni aristoteliche, in cui si mostra chiaramente che la funzione umana specifica è costituita dal logos (il quale pure si determina nei vari logoi). Essendo l’anima dell’uomo caratterizzata dalla ra­ gione, un uomo che sia compiutamente tale è appunto un uomo che sa governare i desideri mediante la ragione, senza divenire pre­ da degli stessi184. Si tratta tuttavia, come in seguito mostreremo, di un compito non facile, che richiede una costante applicazione nel perfezionamento di tutte le proprie virtù, anche in quanto «la facoltà razionale ha la potenzialità di agire in ambedue le direzio­ ni contrarie»185, ossia di governare il desiderio oppure di lasciarsi trascinare dal medesimo. Solo nel primo caso naturalmente l’uomo opera compiutamente da uomo, favorendo la fioritura delle sue po­ tenzialità razionali e morali. La tesi della natura razionale dell’uomo è sostenuta soprattutto nel libro X déìYEtica Nicomachea, in cui Aristotele afferma che la massima realizzazione umana si ottiene esercitando l’attività teo­ retica. Quest’ultima costituisce infatti ciò che rende l’uomo massi­ mamente felice, essendo appunto la componente razionale la mi­ gliore della sua anima, dunque quella che conviene primariamente realizzare186. L’attività teoretica è peraltro l’attività più continua nella vita umana, nel senso che si può svolgere pressoché in ogni

183Politica, 1253 a 26-28. 184Etica Nicomachea, 1098 a 7-1099 a 3. Indubbiamente, l’anima sensitiva può in certe occasioni «combattere e opporsi alla ragione» (.EticaNicomachea, 1102 b 24 ss.): senza questa possibilità, del resto, non ci sarebbe materia per la virtù. L’anima sensitiva è tuttavia costituzionalmente capace «di ascoltare e di obbedire al logos» (1102 b 30 ss.), così come al padre. Nella Politica Aristotele utilizza la metafora famigliare per affermare proprio che la ragione esercita su questa parte dell’anima «un potere politico e regio» (I, 3), quale appunto quello del padre su moglie e figli. 185Metafisica, 1046 b 4-6; 1048 a 8-9; 186 Etica Nicomachea, 1178 a 5-8: «Ciò che per natura è appropriato a cia­ scuno, costituisce, per lui, la cosa più importante e la più piacevole. Quindi, per l’essere umano, ad avere queste caratteristiche è la vita secondo l’intelletto, se è vero che l’essere umano è soprattutto questo. E questa vita, di conseguenza, sarà massimamente felice». Da notare peraltro che per l’uomo «conoscere sé stesso è la cosa più desiderabile» (Etica Eudemia, 1244 b 23-26), anche se, per il fatto di essere costituiti da un composto di materia e forma, la conoscenza della nostra psyche non può mai essere totale (Grande etica, 1213 a 13-18).

230

C a p ito lo V

condizione, anche da soli, sebbene sia sempre meglio praticarla con amici, proprio per la sopra accennata natura morale dell’uomol87. Possiamo aggiungere che una ulteriore dimostrazione della na­ tura razionale dell’uomo deriva dal fatto che la naturale predispo­ sizione dello stesso alla ricerca della verità tende sempre a manife­ starsi nei vari aspetti della vita188. La realtà infatti, per Aristotele, non può nascondersi completamente all’uomo, ed anche se per ciascuno conoscere la realtà nella sua totalità è impossibile, som­ mando insieme tutte le singole conoscenze, da condividere comu­ nitariamente (così come collaborative sono le funzioni dell’anima), è possibile giungere ad una quota molto grande dell’intero. Come egli scrive nella Retorica, «gli uomini sono adeguatamente disposti per natura verso il vero, e nella maggior parte dei casi colgono la verità»189. La verità ricercata da Aristotele peraltro, così come la verità ricercata da Platone, in conformità alla natura razionale ed insie­ me morale dell’uomo è una verità che, per quanto fine a sé stessa, ha sempre anche una ricaduta pratica190. Contrariamente infatti a quanto riteneva Isocrate191, per il quale era impossibile una epi­ steme in grado di insegnare cosa si deve e cosa non si deve fare, in Aristotele è sempre presente una stretta connessione fra teoria e prassi192. Per questo motivo anche il politico, uomo pratico per eccellenza, deve possedere alcune imprescindibili cognizioni teo­ retiche193. Ciò è ribadito in vari luoghi dell’opera aristotelica, in cui il rapporto tra dimensione teoretica e pratica vede addirittura la

187Etica Nicomachea, 1177 a 22 ss. 188Etica Eudemia, I, 6. 189 Retorica, 1355 a 15-16. Sulla Retorica, rinviamo a Russo 1962, Piazza 2008 e Centrane 2015. 190Etica Nicomachea, X, 7. 191Antidosis, vv. 270-274. 192 Come scrive giustamente Zanatta 2010 a (p. 45), Aristotele «rivendica la natura teoretica della filosofia [...] e assieme la sua capacità di far compiere molte cose conformi a essa, ossia di fornire un orientamento nelle azioni della vita». Nella medesima direzione Kamp 1993. In generale, circa i rapporti di interazione fra teoria e prassi, rinviamo all’ottimo Baracchi 2014 ed a diversi saggi presenti in Grecchi 2018 b. 193 Nella Etica Nicomachea (1102 a 17-21), Aristotele scrive: «Il politico deve possedere una qualche nozione di ciò che riguarda l’anima, come chi cura gli occhi deve avere anche una certa conoscenza generale del corpo, e ciò a maggior ragione in quanto la politica ha più valore rispetto alla medicina ed è superiore ad essa». Per il politico, certo, la phronesis risulta essere più impor­ tante della sophia, ma, in generale, la sophia è più importante della phronesis (in quanto riguarda i contenuti eterni, più importanti), per cui la mancata ri-

I Classici. Platone ed Aristotele

231

prima in funzione strumentale rispetto alla seconda194, dato che gli atti virtuosi sono pressoché sempre compiuti in base ad una scelta consapevole, che come tale appunto richiede una conoscenza ade­ guata195. Il concetto di natura umana, in Aristotele come in Platone, non è inoltre meramente descrittivo, ma anche normativo. Il fatto cioè che l’uomo sia caratterizzato dal logos non costituisce nel sistema aristotelico una semplice constatazione derivante da una osserva­ zione fenomenica. Dato che ogni ente tende a porre in essere, se non impedito, ciò che è per natura, il concetto di natura umana indica di per sé anche come esso debba essere realizzato affinché appunto l’uomo giunga ad essere felice196. Come ha scritto in merito ancora Berti, «l’uomo, essendo un essere naturale, può essere felice, cioè pienamente appagato nei suoi desideri, soltanto ove realizzi com­ pletamente la propria natura, cioè il proprio fine [...]. Poiché per ciascun essere la realizzazione completa della natura consiste nel compiere la funzione (ergon) che più gli è propria, e la funzione più propria dell’uomo è l’esercizio del logos (pensiero e parola), il bene dell’uomo consisterà nel vivere secondo il logos»197. È del resto lo stesso Aristotele ad affermare, nell’Etica Nicomachea, che «nessun ente naturale può abituarsi ad essere diverso da quello che è»198.

flessione su alcuni contenuti teoretici risulta essere un limite anche per il poli­ tico nelle sue scelte pratiche. 194 La scelta richiede sempre prima una valutazione, ossia un giudizio, che per Aristotele necessita in ogni caso di un processo conoscitivo, il quale ha bi­ sogno di tempo per compiersi (Etica Nicomachea, 1142 a 31 ss.). Tale processo deve necessariamente precedere la scelta, affinché essa sia consapevole (Id., 1135 b 8 ss.). Come egli afferma anche nella Grande Etica ribadendo il nesso fra teoria e prassi, «tutto ciò che è scelto lo è sulla base del pensiero» (1189 a 34). Rinviamo in merito all’ottimo saggio di Enrico Berti, Teoria e prassi da Aristotele a Marx...e ritorno, in Berti 2004-2010, voi. Ili, pp. 9-23. 195 Id., 1103 b 33 ss. È possibile in questa sede solo confinare in nota il tema della «volontà», prima di Aristotele assai poco presente nel pensiero greco. Va ricordato in merito che Aristotele considerava «volontarie» non solo le azioni decise razionalmente, ma anche quelle dettate dall’impeto e dal desiderio, os­ sia tutte le azioni in cui il principio risiede in chi agisce (Etica Eudemia, 1223 a 21-28). 196 L’uomo felice è per Aristotele l’uomo formato. La felicità infatti «non si troverà in un bambino [...], ma in un adulto; costui, infatti, è completamente formato (teleios) » (Grande Etica, 1185 a 3-4). 197 Berti 2004-2010, voi. II, p. 77. 198Etica Nicomachea, 1103 a 19-20.

232

C a p ito lo V

Ed analogamente, nella Grande Etica, che «nessuna delle cose che sono per natura può comportarsi in altro modo»1" . La natura umana costituisce dunque un imprescindibile riferi­ mento onto-assiologico in quanto, come scrive Arianna Fermani, per lo Stagirita «la felicità non può essere costruita se non a par­ tire dalla physis stessa, e all’interno dell’orizzonte da essa deline­ ato»19 200. Questo orizzonte comprende la realtà non solo per come essa è effettualmente, ma anche per come deve essere idealmente, in base appunto ad una determinata idea di uomo conforme alla sua natura. Per questo motivo sono a nostro avviso da ritenersi non corrette ricostruzioni del pensiero di Aristotele come ad esempio quella sostenuta in anni passati da Mario Vegetti, secondo cui la natura umana sarebbe per lo Stagirita sostanzialmente coincidente con quello che l’uomo è (ed è stato) in un certo momento storico201. Per Aristotele infatti la natura dell’uomo si concretizza nella compiuta realizzazione delle sue componenti razionali e morali. Tale realizzazione potrebbe richiedere sul piano politico, per con­ cretizzarsi, anche mutamenti notevoli rispetto allo status quo. No­ tevoli sono infatti, in merito, gli spunti progettuali presenti soprat­ tutto nei libri VII e V ili della Politica202. Come ha ricordato anche

199 Grande Etica, 1186 a 5-6. In entrambi i passi, Aristotele fa l’esempio di realtà come la pietra, che, per natura (per la teoria dei luoghi naturali) si muo­ ve verso il basso, e che «non si abituerà mai a muoversi verso l’alto, neanche se qualcuno voglia abituarla lanciandola in alto migliaia di volte» (Etica Nicomachea, 1103 a 18-22). Allo stesso modo, un animale non può radicarsi a terra, così come un vegetale non può sradicarsi e muoversi liberamente. In generale, la natura si può assai minimamente modificare nelle sue leggi essenziali (Id., 1152 a 30-31), e questo vale anche per la physis umana. 200Fermani 2006, p. 269. 201Vegetti 1989 (pp. 180-181) scrive ad esempio che «fra Platone ed Aristo­ tele corre una fondamentale differenza: mentre per il primo si trattava innan­ zitutto di trasformare la città e le sue leggi, perché essi potessero diventare, direttamente o attraverso la famiglia, strumenti di formazione alla virtù, per Aristotele non si tratta di programmare alcuna trasformazione, perché già la città, le leggi, la famiglia, sono perfettamente adeguate a svolgere, in modo spontaneo e quasi naturale, il lavoro di condizionamento formativo e confor­ mante sui soggetti morali». Ci pare tuttavia che Vegetti si sia nel tempo corret­ to, avvicinando anche in Aristotele la «naturalità» alla «normatività» anziché alla «normalità» (ad esempio in Carillo 2007, pp. 236-237). 202 Come scrive anche G. Cunico (introduzione a Ritter 1983, p. XIX), «la filosofia pratica di Aristotele è filosofia non dell’inizio o dell’origine, ma della fine, poiché è dalla polis compiutamente realizzata che ricava l’essenza dell’ethos, ossia quella determinazione fondamentale del bene che nella vita istituzionale è criterio e norma di ogni agire. La polis compiuta è il fine naturale dell’uomo: con essa l’uomo diventa soggetto e la natura umana diventa sostan-

I Classici. Platone ed Aristotele

233

Paul Cartledge, «malgrado il ripudio del metodo platonico, anche lo Stagirita (..) si impegnò nell’utopismo perfettibilista, sicché gli ultimi due libri della Politica sono dedicati alla esposizione [...] del­ la sua versione dello Stato ideale. Neppure per un istante il lettore può dubitare che il suo intento sia prescrittivo e non descrittivo: è filosofia, per così dire, non sociologia»203. La natura morale dell’uomo Il carattere morale della natura umana, ossia il suo rivolgimen­ to comunitario al bene da realizzare mediante azioni adeguate, ri­ sulta nel pensiero di Aristotele altrettanto importante del carattere razionale della medesima204. Non è un caso che una delle tema­ tiche etiche più trattate dallo Stagirita sia stata la comparazione dei bioi, ossia degli stili di vita, descritti soprattutto nelle Etiche205. Tale comparazione mostra come tutte le modalità esistenziali fina­ lizzate alla ricerca individuale di denaro, potere, successo o piace­ re206, incuranti della natura comunitaria dell’uomo, conducano alla infelicità207. Per questo, per Aristotele come per Platone, sono così

za delle istituzioni etiche; essa è la realtà della natura umana, perché in essa si realizza in atto ciò che l’uomo può essere per sua natura, e cioè la sua essenza razionale e il suo autonomo essere-se-stesso. La filosofia pratica si fonda sull’i­ dea della natura umana». 203 In Settis 1996, voi. I, p. 59 204Etica Nicomachea, 1155 a 19-22 ribadisce la naturale philia fra individui della stessa specie. Con finezza, in Historia Animalium (487 b 33 ss.) Aristo­ tele afferma tuttavia che l’uomo, oltre ad essere un animale che vive in gruppo (1agelaion), e più precisamente un animale politico, è anche un animale che sa vivere, almeno a tratti, solitario e appartato. 205 Su tale tematica, rinviamo a Gastaldi 2003. 206Aristotele condivideva i timori di Platone verso chi considerava il piacere come un fine assoluto (Etica Nicomachea, 1095 b 14-17; Etica Eudemia, 1235 b 18-27; 1238 a 30 ss.). Far consistere il sommo bene nel piacere costituisce infatti un rovesciamento dell’ordine naturale. Il piacere sicuramente accompa­ gna la realizzazione del nostro essere, ma come conseguenza di una vita buona, caratterizzata dall’uso eccellente delle nostre facoltà migliori, non come fine in sé [Etica Nicomachea, 1153 a 10-11; Historia animalium, 589 a 8). 207 Per Aristotele, pur tenendo conto che l’etica non possiede la stessa pre­ cisione della matematica [Etica Nicomachea, 1094 b, 22-27), ciò che è buono ed etico per natura [physei) è buono ed etico in senso assoluto [haplos; Topici, 115 b 29-35). Come scrive Natali 1989 (p. 12), «l’etica antica [...] tende ad iden­ tificarsi con la progettazione di modelli di vita bene ordinati, in quanto questi progetti possono servire servire sia da guida alla azione concreta, sia da para­ metro per giudicare la organizzazione della propria città e la condotta altrui». Rimandiamo in merito anche all’ottimo Rossi 2018.

234

C a p ito lo V

importanti modalità sociali armoniche per la realizzazione di una buona vita208. Esse infatti condizionano comportamenti, costumi ed insegnamenti, i quali costituiscono le componenti principali che determinano Yethos delle persone, dunque il loro rivolgimento alla virtù o al vizio, e pertanto la loro felicità o infelicità. In questo senso, essendo per lo Stagirita etica e politica in stretta continuità (l’uomo per Aristotele, come per tutto il pensiero greco classico, è innanzitutto un cittadino)209, risulta a nostro avviso centrale, per comprendere la natura morale dell’uomo descritto da Aristotele, la critica alle modalità socio-economiche crematistiche svolta soprat­ tutto nel I libro della Politica e nel V libro dell’Erica Nicomachea. Tali modalità si oppongono infatti strutturalmente alle modalità comunitarie di vita all’uomo più connaturate. Pur non potendoci soffermare su questo tema come meritereb­ be210, è necessario ricordare che Aristotele considerava la ricerca di denaro posta come fine della vita - dunque, in sostanza, il proces­ so di funzionamento del modo di produzione sociale crematistico, proprio della sua epoca come della nostra - come qualcosa di pro­ fondamente innaturale211. Ciò in quanto il fine dell’uomo, data la sua natura razionale e morale, è costituito dalla ricerca di verità e di bene, non certo dal denaro. Il denaro può costituire al più uno strumento per realizzare il bene, ma la sua accumulazione illimitata non può affatto costituire un fine per un ente limitato come l’uomo, che in quanto tale necessita solo di un numero limitato di beni212.

208 Aristotele come noto, rispetto a Platone, tendeva a valutare maggior­ mente la dimensione del “proprio”, come emerge soprattutto nella sua criti­ ca alla Repubblica platonica relativamente alla comunanza dei figli e dei beni (Politica, 1262 a 40-b 24). Va comunque rilevato che tale critica era principal­ mente rivolta a favorire rapporti comunitari stabili, appunto in base alla natura morale dell’uomo. La dimensione del “comune" era infatti centrale anche nel pensiero dello Stagirita, come dimostra ad esempio il fatto che l’educazione come altre pratiche sociali - doveva essere la medesima per tutti e svolgersi in comune. 209Etica Nicomachea, 1094 b 8-10. 210Ci permettiamo di rinviare a Grecchi 2008 b, pp. 67-75, oltre che a Ven­ turi Ferriolo 1984 e Meikle 1995. 211 Politica, 1256 a 28-1260 b 20. 212 Aristotele sosteneva, nella Politica, che sono «i beni necessari alla vita o utili alla comunità dello Stato o della casa», quelli che «costituiscono la ric­ chezza vera. La quantità di siffatti beni sufficienti alla vita beata non è illimi­ tata» (Politica, 1256 b 30-33). L’argomentazione fu espressa ottimamente in un noto frammento del Protreptico: «La felicità non si genera dal fatto che si possiede molto, quanto piuttosto da una certa disposizione dell’anima [...]. Accade che gli uomini dappoco, quando si trovano a possedere molte ricchez-

I Classici. Platone ed Aristotele

235

Confondere il mezzo con il fine costituisce una modalità «contro natura» di approccio alla realtà, ed Aristotele non esita a rimarcar­ lo213. Egli afferma in effetti in più di una occasione che una totalità sociale in cui la crematistica determina il fine (la massimizzazione del profitto) e la politica i mezzi per realizzarlo, si configura come un processo che conduce inevitabilmente alla infelicità214. Aristote­ le, come Platone, riteneva infatti più naturale un modo di produ­ zione sociale in cui la politica, scienza architettonica, esercitasse un ruolo di guida sulla economia. Quest’ultima, anche etimologica­ mente, è in effetti costituita da un insieme di norme (nomoi) volte a regolare la vita della comunità intesa come una famiglia (oikos), che ha norme ben diverse da quelle che regolano una accumulazio­ ne illimitata di beni (chremata, da cui crematistica). Per Aristotele, come per Platone - sebbene in maniera più con­ sapevole del carattere molteplice della polis215 - , affinché la città sia felice occorre che tutti i cittadini siano felici, ossia che nella mede­ sima regni l’armonia comunitaria e non la disarmonia conflittuale. Ciò in quanto, così come un uomo che abbia una parte del corpo dolorante non può dire di stare bene, la città intera non può dirsi felice se una parte di essa non lo è216. Una sana economia, ossia un sano modo di condurre la ripro­ duzione della vita sociale, doveva per lo Stagirita mettere a dispo­ sizione di tutti il necessario per la buona vita. Per la crematistica

ze, ritengano che questi beni siano degni di maggiore considerazione dei beni dell’anima: e questa è la cosa peggiore di tutte [...]. Bisogna considerare mise­ rabili coloro ai quali capita di avere delle proprie ricchezze una stima maggiore che non della propria natura. E le cose stanno, in verità, proprio così, giacché, come dice il proverbio, la sazietà genera superbia e la mancanza di educazione, accompagnata da ricchezza, produce stoltezza. Per coloro, infatti, che hanno una brutta disposizione dell’anima, né la ricchezza, né la bellezza, né la forza sono, in fin dei conti, dei beni: anzi, quanto più sono abbondanti, tanto più danneggiano colui che le possiede» (fr. 3 Walzer). 213Nella Politica, ad esempio, Aristotele afferma: «Coloro che vivono nell’i­ dea di dovere 0 mantenere o accrescere la loro sostanza in denaro all’infinito», si preoccupano in realtà «di vivere, ma non di vivere bene, in quanto i loro desideri si estendono all’infinito, ed all’infinito bramano mezzi per appagarli» (Politica, 1257 b 4 i- 1258 a2). 214Come scrivono Keyt-Kraut 2015 (pp. 246-247), in genere «Aristotele scri­ ve come se la prepotenza e il profitto fossero anelli di una sola catena causale, in quanto la prepotenza conduce ai saccheggi di proprietà pubbliche e private». 215Politica, II. 216Politica, 1264 b 17-22. Come scrivono giustamente Keyt-Kraut 2015 (p. 452), «la città ideale di Aristotele è una comunità nel senso che è tenuta insie­ me da un senso di fraternità».

236

C a p ito lo V

che invece caratterizzava le modalità sociali del suo tempo, «non esiste limite alcuno di ricchezza e di proprietà»217. Essa era rivolta infatti soltanto «a produrre denaro»218 nella massima misura. In una economia naturale, il fine costituisce il limite di ogni attività, ma per la crematistica «non ci sono limiti rispetto al fine, e il fine è precisamente la ricchezza [...] e l’acquisizione di beni»219. Per que­ sto è così importante per Aristotele, affinché gli uomini possano condurre una esistenza buona, non vivere immersi in una totalità sociale dedita principalmente al guadagno, bensì in una totalità so­ ciale che consenta di disporre di adeguato tempo libero (scfio/e)220. A suo avviso, infatti, «i più grandi mali si commettono in vista dell’eccessivo, non del necessario»221, ma è «proprio di uno schiavo [...] ricercare smodatamente le ricchezze e non darsi assolutamen­ te pensiero di tutto ciò che ha valore»222. La natura morale dell’uomo richiede in effetti misura ed armo­ nia per potersi esplicare nella maniera migliore, e rendere l’uomo virtuoso223. Come lo Stagirita mostra soprattutto nei libri V ili e IX de\YEtica Nicomachea, la philia risulta essere il collante principa­ le dei buoni rapporti personali224. Essa è superiore in questo senso anche alla giustizia, in quanto in certo modo la ricomprende225. La

217Politica, 1257 a 1. 218Id., 1257 b 7. 219Politica, 1257 b 29-31. Fra i vari interpreti che hanno sottolineato questo tema vi è sicuramente Berti 2009 (p. 297), secondo cui per Aristotele la crema­ tistica «è contro natura, cioè contraria all’ordine etico e politico, e non è altro che una razionalizzazione del modo in cui gli uomini si comportano di fatto». 220 Ciò è espresso in Etica Nicomachea, X, 7 (così come in Platone, Teeteto, 172 c ss.). La schole, fine ultimo per Aristotele di ogni attività produttiva, non è, come scrive giustamente Natali 1991 (p. 70), mero «tempo libero», ma «quella parte della giornata libera da impegni necessari, quella in cui ognuno afferma le proprie caratteristiche individuali, ed esplicita il senso che vuole dare alla propria vita: non è un tempo residuale rispetto a ciò che veramente è importante, ma è la parte più importante della esistenza, quella in cui si pone il problema di che tipo di uomo si è». 221 Politica, 1267 a 13-14. 222Protrettico, Fr. 5 Walzer. 223La virtù è sempre uno «stato abituale, vero, accompagnato da ragione, ri­ volto all’agire, che riguarda ciò che è bene e ciò che è male per l’essere umano» (Erica Nicomachea, 1140 b 4-6). 224 Circa il tema della philia in Aristotele, rinviamo a Berti 2004-2010, voi. Ili, pp. 101-155. In generale sul tema della philia nel pensiero antico, rinviamo a Gullino 2014 e Baracchi 2015. 225 Aristotele afferma comunque che la giustizia è «virtù perfetta» (Etica Nicomachea, 1129 b 26), in quanto «colui che la possiede è capace di esercitare la virtù anche verso il prossimo, e non solo verso sé stesso» (Id., 1129 b 32-33).

I Classici. Platone ed Aristotele

237

philia è in effetti sia il legame che garantisce il vincolo famigliare, sia il legame che garantisce il vincolo fra cittadini, dunque costi­ tuisce il rapporto più importante all’interno del genere umano226. La struttura morale dell’uomo, come quella razionale, pur es­ sendo presente nella sua natura, ossia biologicamente intrinseca nella essenza dell’uomo, deve comunque come detto passare dalla potenza all’atto per realizzarsi in maniera compiuta. Per questo ri­ sulta così importante, per lo Stagirita, la riflessione sulla totalità economica, politica e sociale227. Aristotele infatti sapeva bene - per questo egli attribuiva, come Platone, centralità alla educazione che l’uomo «senza virtù è l’essere più spietato e selvaggio (agriotaton)»228, dedito al piacere come gli animali, coi quali appunto condivide la medesima materia biologica229. Proprio per meglio porre in essere la natura morale dell’uomo, ossia per aiutare davvero gli uomini ad essere buoni - il che co­ stituiva il fine principale che egli attribuì ai suoi corsi di etica - , Aristotele ritenne molto importante l’esempio pratico230. Si è già accennato in merito trattando della phronesis, la quale rappresenta la facoltà di ben ragionare per compiere le scelte etiche

Egli dedica l’intero V libro dell’Erica Nicomachea (il IV di Etica Eudemia) alla giustizia, ritenuta una delle virtù più importanti, in quanto appunto connette l’aspetto individuale e sociale della vita umana. Sul tema della giustizia in Ari­ stotele, rinviamo quanto meno a Zanetti 1993 e Ventura 2009. 226Erica Nicomachea, V ili, 1; IX,9. Come scrive Vegetti 1989 (p. 196), «fon­ damento affettivo della pace familiare e sociale, la philia aristotelica è in certo senso l’erede neutralizzato dell’eros platonico». 227 Come noto, l’uomo è per Aristotele pienamente tale solo all’interno della polis, fuori dalla quale (ossia nella condizione di apolis: Etica Nicomachea, 1253 a 3) si riduce allo stato bestiale. 228Etica Nicomachea, 1253 a 35-37. 229 Id., 1152 b 20 ss. Dagli animali lo divide comunque il logos razionale e morale: «La parola è fatta per esprimere ciò che è giovevole e ciò che è nocivo, e, di conseguenza, il giusto e l’ingiusto: questo è, infatti, proprio dell’uomo ri­ spetto agli altri animali, di avere, egli solo, la percezione del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto e degli altri valori» (Politica, 1253 a 14-18). 230L’esempio era importante, per Aristotele, ma fermo restando il carattere epistemico delle indicazioni etiche. Scrive correttamente Natali 2017 (p. 183) che «Aristotele qualifica il campo dei beni umani come qualcosa che ha la stes­ sa uniformità e stabilità, a grandi linee, del mondo fisico, e a proposito di cui è possibile costruire dimostrazioni valide scientificamente». Ciò nonostante l’in­ dividuo saggio (phronimos), l’individuo eccellente (spoudaios), si pone come supremo riferimento etico, in quanto per la sua saggezza egli sa «giudicare tutte le cose in modo corretto», e «in ciascuna delle cose belle e piacevoli egli vede il vero, come se di esse fosse regola e misura (kanon kai metron)» {Etica Nicomachea, 1113 a 29-33).

238

C a p ito lo V

migliori, come lo Stagirita considerasse il phronimos un modello cui ispirarsi. Egli cioè riteneva utile, per orientarsi nelle decisioni concrete, assumere come riferimento il pensare a cosa farebbe la persona eccellente (spoudaios) in una determinata circostanza231. Questa modalità di rapportarsi alla saggezza non deve comunque essere considerata totalmente autonoma rispetto alla sapienza. In effetti, come argomentato in precedenza per il politico, per Aristo­ tele la sophia si pone sempre, per quanto in maniera indiretta ed implicita, a monte anche delYethos del phronimos232. Per questo motivo non concordiamo con coloro che tendono a separare in ma­ niera troppo netta, nel pensiero aristotelico, teoria e prassi233. L’importanza della natura morale dell’uomo, per Aristotele, ri­ sulta anche dal fatto, giustamente sottolineato da Carlo Natali, che «nessun filosofo greco prima di Aristotele ha mai scritto un trattato generale di etica. In questo senso egli può considerarsi l’inventore della disciplina. Ovviamente, l’etica è sempre esistita nelle società umane, e dottrine etiche sono state espresse da poeti, legislatori, tragediografi e spiriti religiosi. Ma si tratta di qualcosa di diver­ so da un’etica come disciplina sistematica»234. Aristotele infatti, a differenza del Socrate del Protagora235, criticò esplicitamente le massime sapienziali. Nel II libro della Retorica egli argomentò in merito che la natura delle gnomai, consistenti nell’esprimere in forma universale quelle che a suo avviso erano solo esperienze in­ dividuali, risulta inevitabilmente ingannevole. Queste massime in effetti non formano un insieme coerente di norme etiche, e soprat­ tutto non spiegano il perché delle loro indicazioni, sicché non san­ no porsi come contenuto realmente universale per l’orientamento della vita morale. Aristotele, come accennato, riteneva che il risultato finale nel­ la realizzazione di una persona dipendesse, a parità di condizio­ ni esterne, sostanzialmente da tre fattori: la natura biologica236, le

231 Etica Nicomachea, III, 6. 232Retorica, 1365 b 33-34. 233 In questa direzione ci permettiamo di rinviare al testo composto con Carmelo Vigna in Grecchi 2018 b, pp. 7-29, ed ai rimandi bibliografici in esso contenuti. 234Natali 2017, p. 1. Lo stesso Stagirita in campo etico, a parte Socrate (Me­ tafisica, 987 b 1-2), non vide molti predecessori innanzi a sé, escludendo i Sofi­ sti da questa tradizione [Etica Nicomachea, 1180 b 32-1181 aó), e non ponendo aH’inizio dei suoi trattati etici lunghe liste di tesi precedenti, simili ad esempio a quelle del I libro della Metafisica o del De anima. 235 Platone, Protagora, 343 a-b. 236Etica Nicomachea, 1144 b 15 ss.

I Classici. Platone ed Aristotele

239

abitudini consolidate (che spesso si fissano negli uomini come una «seconda natura»)237 e la cultura ricevuta. Tali elementi dovevano «essere accordati fra loro secondo la migliore armonia»238: in que­ sto consiste infatti il processo della paideia, la quale inizia in primo luogo in famiglia, per poi assumere forma compiuta nella polis239. L’educazione, per Aristotele, non riguarda solo contenuti teoretici, ma anche e forse soprattutto contenuti etici240. Come afferma in effetti anche nélYEtica Nicomachea: «Bisogna in certo qual modo essere guidati fin da giovani, come dice Platone, a godere e a soffri­ re come si deve. Questa è infatti la retta educazione [...]. È a causa dei piaceri e dei dolori che gli uomini diventano mediocri, per il fatto che perseguono o rifuggono piaceri e dolori che non vanno perseguiti o sfuggiti, 0 che lo fanno quando non va fatto o nel modo in cui non va fatto»241. L’educazione doveva inoltre per Aristotele favorire l’autarchia, ossia il bastare a sé stessi, sia dal punto di vista materiale che spiri­ tuale242. Ciò è infatti necessario per rendere l’uomo il meno possibi­ le dipendente dagli altri, dunque il più possibile libero243.

237 Le abitudini sono per Aristotele molto importanti sul piano educati­ vo (Etica Nicomachea, 1103 b 13-25; 1180 a 14-16), sia in quanto incidono sull’ethos dei giovani assai prima dei ragionamenti (Politica, 1338 b 1-5), sia in quanto «non è possibile o non è facile mutare col ragionamento ciò che da sem­ pre è impresso nel carattere» (Etica Nicomachea, 1179 b 15-20). Lo Stagirita ribadisce infatti sovente che «compiendo atti giusti si diventa giusti, mentre si diventa temperanti compiendo atti temperanti, e coraggiosi compiendo atti coraggiosi» (Id., 1103 b 1-2). 238Politica, 1334 b 9-10. Da notare, in merito alla gerarchia di questi fattori, che ciò che è cronologicamente primo (come le abitudini che si formano prima della ragione, o come il corpo che si forma prima dell’anima: Id., 1323 b 16-21) non sempre lo è ontologicamente. Nella Politica (VII) egli afferma infatti che la ragione è il più potente fattore decisionale nell’azione. Più pessimista si mostra tuttavia in Etica Nicomachea, 1179 b 4-18. 239 Aristotele scrisse un libro Sull’educazione, Peri Paideia, di cui ci resta però un solo frammento poco significativo. Dobbiamo ricostruire pertanto il suo sistema educativo basandoci sulle Etiche e sulla Politica. Sulla educazione in Aristotele sono utili le trattazioni di Braido 1969, Howie-Innocenti 1972, Donnini Macciò 1979, Mari 2007, Impara 2007 e D’Addelfio 2008. 240Etica Nicomachea, 1162 a-1163 b; Politica, 1332 b8- 33 a; Id., 1259 b i ss. 241 Etica Nicomachea, 1104 b 13-26; 1106 b 16-35. 242Per il concetto di autarchia in Aristotele rinviamo all’ottimo Gullino 2013. 243 L’opera educativa di Aristotele è spesso stata considerata meno impor­ tante rispetto a quella di Platone (Marrou i960, p. 496; Lorè 1999, pp. 101102). In realtà, come ha scritto Braido 1969 (p. 217), è possibile trovare in lui «le radici di un umanesimo pedagogico, che emerge dal generico umanesimo

240

C a p ito lo V

Una vera definizione Il termine «definizione» (horismos) compare come noto decine di volte nelle opere aristoteliche, e può essere considerato un suo conio, dato che esso risulta pressoché assente nelle opere di Pla­ tone. Si tratta in effetti di uno di quei casi in cui la presenza di un termine rivela chiaramente la presenza di un concetto, data la ben determinata teoria sottostante244. Con Aristotele infatti il processo della definizione, anche dell’uomo, assunse una determinazione di contorni assente nell’opera platonica245. Quest’ultima infatti consi­ derava ancora il pensiero in maniera prevalentemente discorsiva, come un dialogo - anche quando si presenta come una riflessione autonoma - che l’anima compie con sé stessa246. Platone ed Aristotele sono d’accordo, sia pure in modo diverso, nel sostenere che attraverso l’esperienza del particolare si manife­ sta l’universale. Mentre per Aristotele tuttavia, mediante la defini­ zione, da intendere come detto come una proposizione che unisce genere prossimo e differenza specifica, l’universale si manifesta senza residui nel pensiero e nel linguaggio, tale manifestazione si presenta per Platone solo in maniera incerta247. Per questo motivo si

cosiddetto classico e dalle visioni umanistiche della sua età [...]: un umanesimo che non esiteremmo a dichiarare potenzialmente integrale». 244II riferimento principale è sicuramente alla procedura perla ricerca delle definizioni descritta negli Analitici Posteriori, II, 1-3 e 8-10, che si basa sul rapporto tra genere prossimo (per l’uomo il genere animale) e differenza spe­ cifica (per l’uomo, rispetto all’animale, il logos). Anche nell’Utica Nicomachea tuttavia, con riferimento ad alcuni concetti etico-politici, Aristotele si ispira a tale teoria, come ha recentemente mostrato Natali 2017. 245 La famiglia lessicale che fa capo al verbo orizein, che Aristotele utiliz­ za nel senso di “definire”, in Platone tende ancora a significare “circoscrivere, delimitare, separare”. Infatti, «la definizione assume in Platone il colore di un procedimento negativo, che consiste nell’accrescere la conoscenza di una idea ponendola sempre al di là di un insieme di negazioni che aumenta indefinita­ mente» (Trabattoni 2009, p. 18). Non è un caso che in tutti i dialoghi platonici, anche in quelli non apertamente aporetici (come ad esempio la Repubblica), non si trovi una definizione nel senso di una stabile conclusione positiva che risponda direttamente alla domanda socratica circa il “che cos’è” una determi­ nata cosa. Ciò nonostante la ricerca, mediante questo procedimento dialettico, produce sempre nei dialoghi platonici dei passi in avanti. 246 Esempi tipici sono Teeteto, 189 e-190 a e Sofista, 263 e. Ciò non toglie che anche per Platone, e verosimilmente per Socrate, il particolare rinviasse già necessariamente all’universale. 247 Rimandiamo in merito a Casertano 1996. Ciò si evince comunque anche solo considerando la dottrina della reminescenza, in cui l’universale si manife­ sta solo per tracce, appunto come un ricordo, senza mai raggiungere la stabile

I Classici. Platone ed Aristotele

241

può affermare che una reale definizione dell’uomo, così come di altri enti248, si ebbe solo con Aristotele. Per lo Stagirita infatti, una volta individuata l’essenza di un ente attraverso la sua funzione ti­ pica - ossia, nel caso dell’uomo, una volta individuate le caratteri­ stiche che, per essere tale, esso non può non possedere - , l’indagi­ ne si arresta in quanto appunto il linguaggio, tramite il pensiero, è riuscito a descrivere l’ente in maniera compiuta249. Con particolare riferimento all’uomo, come ricordato, Aristo­ tele fornisce molteplici attribuzioni. È tuttavia la differenza che caratterizza la specie umana rispetto alle altre specie del genere animale - la differenza specifica - ciò che è necessario compren­ dere per addivenire ad una definizione corretta. E tale differenza specifica è costituita dal logos razionale e morale. Centralità dell’uomo ed universalismo L’opera di Aristotele, per la sua struttura enciclopedica, si oc­ cupò come detto in maniera articolata di pressoché tutte tre le grandi tematiche del pensiero greco: la natura, l’uomo ed il divino (sebbene, di quest’ultimo, in maniera notevolmente inferiore)250. Come per Platone, anche per Aristotele l’uomo, pur essendo il vi­ vente più perfetto, non era l’ente più importante del cosmo, essen­ do quest’ultimo costituito dal divino251. Ciò nonostante, sul piano propriamente filosofico, dunque anche etico e politico, per Aristo­ tele come per larga parte del pensiero greco, l’uomo rimane il fon­ damento di senso e di valore della realtà252.

condizione della esaustività cui una definizione ambisce. Circa il rapporto fra linguaggio e realtà in Aristotele, rinviamo a Sadun Bordoni 1994, Lo Piparo 2005 e Lucchetta 2010. 248Significativo, per gli animali, Departibus animalium, I, 4. 249Le ultime righe del II libro degli Analitici secondi (100 b 5-17) potrebbe­ ro far pensare che per Aristotele il livello più alto di conoscenza coincide con una sorta di intuizione intellettuale. Ci sembra tuttavia abbia ragione in merito Berti 1989 (pp. 11-18) a non concordare con questa tesi. Sulla questione, una buona trattazione è Kal 1988. 250Sul tema del divino in Aristotele, rinviamo, fra gli altri, a Botter 2005 e 2011, e Ferreli 2011. Sulla tematica del rapporto fra immanenza e trascendenza in Aristotele, rinviamo a vari saggi presenti in Grecchi 2017 a. 251 Come egli scrive nell’Etica Nicomachea (1141 a 21-22), «la realtà più ele­ vata del cosmo non è rappresentata dall’essere umano». 252 Irwin 1996 (p. 483) ha notato a tal proposito come, per lo Stagirita, «le affermazioni relative alla natura umana [...] sono fondamentali per la sua con­ cezione normativa del bene e della felicità». Irwin ha rimarcato anche come «Etica e Politica iniziano con affermazioni generali sulla natura dell’uomo, e

242

C a p ito lo Y

Secondo alcuni autori, la centralità, o meglio il primato che Aristotele avrebbe attribuito all’uomo rispetto agli altri enti della natura, sarebbe non di tipo “umanistico”, bensì di tipo “antropo­ centrico”253. Ciò si desumerebbe principalmente da un controverso passaggio della Politica, nel quale lo Stagirita ha affermato che «le piante sono fatte per gli animali e gli animali per l’uomo, quelli domestici perché ne usi e se ne nutra, quelli selvatici, se non tutti, almeno la maggior parte, perché se ne nutra e se ne serva per gli altri bisogni, ne tragga vesti e altri arnesi»254. Questo passo risulta effettivamente equivocabile. Ciò nonostan­ te, come già abbiamo rilevato nel volume Natura, un passo isolato, per di più in contrasto con l’autonomia teleologica che in tutto il Corpus Aristotele attribuisce ai singoli enti255, ben diffìcilmente può essere considerato un chiaro segnale di antropocentrismo. È vero­ simile in effetti interpretare questo passo pensando che lo Stagirita volesse sostenere che è naturale che l’uomo, ente più perfetto per natura rispetto agli altri animali256, si serva di loro in vari modi, così come è naturale che gli animali, enti più perfetti per natura rispetto ai vegetali, si servano di essi in vari modi. Nel contesto filosofico aristotelico prevale del resto nettamente Yumanesimo, che costituisce una concezione caratterizzata dalla cura dell’uomo rispettosa del cosmo, ed è cosa ben diversa dall’antropocentrismo, il quale assunse rilevanza in Grecia solo a partire dal pensiero stoico257.

cercano di derivare conclusioni normative particolari a partire da queste affer­ mazioni» (Id., p. 28). Per Aristotele, «la natura umana è intesa come supporto di importanti conclusioni etiche» (Id., p. 29). 253Ad esempio Pellegrin 1982 e Sedley 1991; in direzione opposta Labarrière 2000 e Johnson 2005. Per “antropocentrismo “ intendiamo una concezione ca­ ratterizzata dalla convinzione che tutto l’universo sia stato costituito in funzio­ ne dell’uomo, e che dunque l’uomo sia il fine dell’universo. 254Politica, 1256 b 15-20. 255De anima, 11,2. Rinviamo, in merito, a Berti 1989-1990 e Botter 2009. 256L’uomo risulta sicuramente essere, per Aristotele, «il bipede più secondo natura» (De incessu animalìum, V), sia in quanto più perfetto - possedendo il logos, che gli altri viventi non possiedono - , sia in quanto la sua posizione, a differenza di quella degli altri bipedi, è eretta, «in corrispondenza con l’alto e il basso dell’universo» (Historia animalium, 494 a27 ss.). Egli è pertanto l’a­ nimale che maggiormente partecipa della condizione del divino [De partibus animalium, II, 10). 257 Loredana Cardullo (in Radice-Zanatta 2017, p. 53) ha in merito parlato giustamente di «atteggiamento biocentrico, e non antropocentrico o antropo­ centrato del filosofo».

I Classici. Platone ed Aristotele

243

Per mostrare che la concezione antropocentrica non fu affatto presente in Aristotele, si può argomentare in almeno tre diversi modi: a) mostrare i pochissimi passi in tal senso soggettivamen­ te interpretabili, all’interno di un enorme Corpus scientifico e fi­ losofico tutto orientato in direzione opposta; b) mostrare - come risulta in maniera evidente dalle opere zoologiche in precedenza citate - la continuità naturalistica fra uomo ed animale, che pone al più l’uomo nella condizione di primus inter pares all’interno del genere animale; c) mostrare come per Aristotele non basti essere un membro della specie umana per essere in sé l’ente migliore del cosmo. Tutti tre questi modi mostrano l’esistenza di uno specifico umanesimo aristotelico, diverso anche da quello platonico, e non antropocentrismo258. L’umanesimo aristotelico, caratterizzato da una matrice univer­ salistica, è a nostro avviso presente già all’inizio della Metafisica, quando Aristotele afferma che «tutti gli uomini, per natura, desi­ derano conoscere»259. Con questa affermazione infatti lo Stagirita esplicita chiaramente che questa caratteristica razionale (e morale: il desiderio ha sempre attinenza con l’etica) spetta a «tutti gli uo­ mini» (pantes anthropoi) «per natura» (Arata physin), senza di­ stinzione alcuna. Come ha affermato in merito Enrico Berti, Aristo­ tele «deve essere considerato sostenitore della uguaglianza tra tutti gli individui umani, indipendentemente dal sesso, dalla nazionalità e dalla condizione sociale, per il fatto di avere introdotto il concetto di natura umana»260. Diversi autori hanno tuttavia sottolineato come alcune gra­ dazioni gerarchiche che lo Stagirita stabilì all’interno del genere umano, siano poco compatibili con la cornice umanistica ed uni­ versalistica finora delineata. Ci riferiamo, come noto, soprattutto alla trattazione della tematica degli schiavi (spesso coincidente con quella dei barbari, ossia degli stranieri, dato che all’epoca di Ari­ stotele gli schiavi in Grecia erano quasi sempre stranieri) e delle donne. Cercheremo di analizzare le due questioni fornendo un in­ quadramento generale delle medesime, per evitare di cadere - pur

258 Scrive in merito correttamente Vegetti 2018 d (p. 193) che «il gruppo di scienze che vertono sulla vita umana, individuale e associata (psicologia, etica, politica), occupano un posto di rilievo nella enciclopedia aristotelica, ma non ne costituiscono affatto il fine o il culmine. Le altre scienze non sono poste al servizio di quelle umane». 259Metafisica, 980 a 21 ss. 260E. Berti, La diversità nell’aristotelismo antico, moderno e contempora­ neo, in Cavazzoli 2001, pp. 49-50.

244

C a p ito lo V

senza omettere la segnalazione dei rilevanti passi critici - in alcuni luoghi comuni ermeneutici, taccianti troppo superficialmente Ari­ stotele di xenofobia261 e di misoginia. Le differenze nel genere umano I temi degli schiavi/stranieri e delle donne presentano un note­ vole interesse per meglio chiarire il pensiero di Aristotele sull’anthropos. Secondo alcuni studiosi infatti, stando ad alcuni passi del­ le sue opere che ora commenteremo, sembra che lo Stagirita non fosse disposto a concedere ad alcune figure umane il carattere della umanità. Una adeguata interpretazione di questi brani consentirà invece, a nostro avviso, di comprendere - al di là delle brutture ideologiche della sua epoca, da cui nemmeno egli rimase inden­ ne262 - che sia gli stranieri che le donne non si posero affatto, nelle opere di Aristotele, al di sotto di quel livello minimo di umanità che caratterizza appunto tutti gli appartenenti al genere umano. Sem­ plicemente, in base alla struttura articolata con cui lo Stagirita ha sempre letto tutto il mondo naturale, egli tese a sottolineare alcune differenze che, oggi, non rientrano non solo nel campo della corret­ tezza scientifica, ma anche nel campo della correttezza politica (politically correct). Entriamo tuttavia maggiormente nel dettaglio. Partendo dal tema della schiavitù, occorre dire, per iniziare, che si tratta di un tema piuttosto complesso, su cui esiste, a fronte di una scarsa quantità di dati certi, una discreta mole di studi, carat­ terizzati da risultati spesso fra loro contrastanti. Quanto abbiamo

261 Rimarchiamo sin da ora che nessun greco si appuntò mai sul colore della pelle, come argomenta fra gli altri Snowden 1983. In effetti, come ha sottoli­ neato anche Vegetti 1979 (p. 167), «il problema dei barbari - l’antropologia aristotelica lo chiarisce fin dalle prime pagine della Politica (I, 2) - è un pro­ blema di potere: se nel V secolo si trattava del dominio che essi tentavano di imporre ai Greci, nel IV è in questione il loro asservimento ai Greci stessi». Nessuna xenofobia dunque. Per questo motivo riteniamo errata la tesi di Reale 2004 (voi. IX, p. 292), che definisce «razzista» (dove «razzismo» indicherebbe «quella dottrina secondo la quale esiste una razza umana per natura superiore alle altre, e secondo la quale la superiorità di civiltà è espressione della su­ periorità della razza») la filosofia classica, citando come esempi, per Platone, Repubblica, 435 e ss. e, per Aristotele, Politica, 1255 b ss. 262È possibile in merito ricordare la famosa preghiera di Ermippo attribuita a Talete: «Di queste tre cose sono grato al destino: in primo luogo di essere nato uomo e non animale, in secondo luogo uomo e non donna, e in terzo luogo greco e non barbaro» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, I, 33).

I Classici. Platone ed Aristotele

245

rilevato in un nostro studio263 è che il fenomeno della schiavitù, all’epoca di Aristotele, riguardava un numero di persone non così elevato come solitamente si tende ad affermare264. Gli schiavi inol­ tre, eccezion fatta per le miniere del Laurion, effettuavano la pro­ pria attività principalmente in ambito domestico, o comunque in attività produttive agricole ed artigianali di piccole dimensioni265. Le loro condizioni di vita poi, per quanto giuridicamente e social­ mente subordinate, non erano molto dissimili rispetto a quelle dei proprietari, e soprattutto degli altri lavoratori, i quali anzi non pos­ sedevano la certezza del vitto e dell’alloggio266.

263In Grecchi 2010 a, pp. 13-54 abbiamo cercato di sintetizzare l’evoluzione della schiavitù dal VI secolo a.C. fino all’epoca romana. Recentemente, in dire­ zione opposta, Andreau-Descat 2014. 264 Come scrive E. Meiksins Wood nel suo saggio intitolato Schiavitù e la­ voro (in Settis 1996, voi. I, p. 611), gli schiavi erano al più «un 20-30% della popolazione complessiva». Tesi simili sono state sostenute sia da Sainte Croix 1981, sia da Ehrenberg 1957 (per il quale non vi fu in Grecia in quei secoli «un ruolo predominante del lavoro servile in generale», in quanto esso «non faceva parte dei fondamenti della vita economica» greca: p. 183), sia da Lloyd-Jones 1967 (p. 81), per il quale «la massa degli Ateniesi era formata da contadini che coltivavano piccoli poderi di proprietà della famiglia, o artigiani che svolgeva­ no una attività indipendente». Fra gli studi più recenti, in ogni caso, Meiksins Wood 1994 ha dettagliatamente mostrato che soprattutto nella Atene di Ari­ stotele «la maggioranza dei cittadini lavorava per il proprio sostentamento» (p. 12), sicché «il lavoro libero costituiva l’ossatura della democrazia ateniese», mentre la schiavitù costituiva «una condizione accidentale e non naturale» (in Settis 1996, voi. I, pp. 613; 618). Nella medesima direzione Funke 2001 (p. 67), per il quale nell’Attica classica «difficilmente si può parlare di una autentica economia schiavistica, poiché non vi erano attività che dipendessero esclusi­ vamente da schiavi». 265 Lo schiavo fa del resto parte dell’oifcos [Etica Nicomachea, 1134 b 10-13; 1161 a30-b8), ed è da Aristotele considerato degno di amicizia, al pari degli altri uomini (Id., 1161 b 5-6). 266 Non troviamo corrispondente al vero affermare, come ha fatto ad esem­ pio P. Cartledge (in Settis 1996, voi. I, p. 54), che gli schiavi erano «assolu­ tamente zero quanto a valenza sociale», e questo proprio per la umanistica «nozione di uguaglianza che i Greci considerarono parte integrante del proprio patrimonio culturale». La medesima tesi di Cartledge, nello stesso volume, è stata sostenuta anche da W. Nippel, per il quale «Aristotele sostiene accani­ tamente 1’esistenza degli schiavi naturali» (Id., p. 178). Si dimentica tuttavia in questi casi che per Aristotele, come ricorda Bodeus 2010 (p. 48), «l’uomo libero non educato [...] è inferiore allo schiavo educato». Lo Stagirita era infatti consapevole che molti uomini furono schiavi solo per motivi contingenti (so­ vente perché fatti prigionieri in guerra), come accadde per pochi giorni al suo maestro Platone. Nel V libro della Politica (1283 a-1284 a; in tal senso anche Etica Nicomachea, 1134 b 16 ss.) egli sostenne inoltre che pure allo schiavo si possono in linea teorica riconoscere le più alte virtù morali (come la tempe-

246

C a p ito lo V

Non è questo, tuttavia, il tema in oggetto. Quanto interessa qui discutere è il fatto che, in alcune affermazioni, Aristotele sembra parlare genericamente degli schiavi come di uomini «per natura» inferiori rispetto ai liberi, dato che egli li definisce, trattando della loro attività, come «strumenti animati»267, dunque in apparenza più simili agli animali da lavoro che agli uomini. Per una corretta comprensione della questione occorre in meri­ to, come per le precedenti affermazioni sull’antropocentrismo, una attenta considerazione di queste espressioni, da valutare sulla base del contesto e degli elementi fondamentali dell’intero sistema ari­ stotelico268. Ben valutando infatti, come risulta in maniera chiara da una analisi comparata della biologia e della ontologia aristote­ lica, non può sussistere per Aristotele alcuna differenza essenziale fra uomini. Ciò in quanto tutti gli uomini possiedono la medesima essenza, ossia sono tutti appartenenti alla specie umana all’inter­ no del genere animale269. Nelle Categorie in particolare, infatti, Aristotele rimarca che a tutte le «sostanze» (e l’uomo è sostanza) appartiene la proprietà di non ammettere né contrario (non esiste il contrario di «uomo»), né differenze di grado (non si può essere più o meno «uomo»)270. Questa dottrina mostra chiaramente come impossibile ogni discriminazione tra esseri umani, la quale dunque non può essere attribuita alla dottrina dello Stagirita, ma solo a quel poco della sua opera in cui egli risentì della ideologia del pro­ prio tempo. Nella antropologia di Aristotele infatti, essendo l’uomo come detto una specie del genere animale (una specie ultima che non ammette divisioni naturali in altri gruppi), ed essendo tutti gli individui della medesima specie uguali per natura, le eventuali dif­ ferenze tra individui non possono riguardare la loro essenza, cioè la loro natura di uomini. Pur sempre attento alle differenze insomma, assai importanti sul piano biologico ed esistenziale, Aristotele fu,

ranza, il coraggio, la giustizia). In questo senso anche Garlan 1984, pp. 105 ss., Goldschmidt 1973, pp. 147-163 e Vegetti 1979, pp. 164-165. 267Etica Nicomachea, 1161 b 1 ss.; Politica, 1252 b 10 ss. 268Ricordiamo anche eri passant che per Aristotele “in tutti gli esseri vi è per natura qualcosa di divino (panta physei echei ti theion)” (Etica Nicomachea, 1153 b 32). 269 Per questo motivo ci pare errato quanto afferma Trabattoni, ossia che «si può dimostrare che la giustificazione naturale della schiavitù è richiesta da Aristotele da alcune coordinate essenziali del suo pensiero» (in Trabatto ni-Ve­ getti 2016, voi. II, p. 265). Le «coordinate essenziali» del pensiero di Aristotele avrebbero infatti condotto in direzione opposta. 270Categorie, 3 b 24-4 a 2.

I Classici. Platone ed Aristotele

247

sul piano antropologico, un sostenitore della tesi della sostanziale uguaglianza di tutti i membri della specie umana271. E tuttavia innegabile che Aristotele, all’inizio della Politica, sembri attribuire una sorta di superiorità «per natura» ai Greci sui barbari, con affermazioni che hanno indotto alcuni autori ad attri­ buire allo Stagirita posizioni “etnocentriche”272. In realtà, così come Platone, ciò che Aristotele deprecava, in alcuni popoli barbari, era la passiva accettazione di governi monarchici, che non favoriva il libero sviluppo della loro umanità. Si trattava dunque, come evi­ dente, di una differenza “politico-sociale”, non “etnico-naturale”. Siamo pertanto, in merito, ancora concordi con Enrico Berti nel ritenere che, dalla complessiva posizione umanistica ed universali­ stica del pensiero di Aristotele, si deve dedurre che «non solo c’è un certo contrasto tra la concezione aristotelica dell’uomo e la pretesa che la schiavitù sia fondata sulla natura, ma questa pretesa può essere respinta solo in nome di una concezione dell’uomo simile a quella professata da Aristotele: solo, infatti, se si ammette che esista una natura umana, cioè un complesso di caratteri universa­ li ed immutabili, presenti in tutti gli uomini [...] si può sostenere con buon diritto che tutti gli uomini sono uguali, e che quindi r e s i­ stenza della schiavitù è un fatto contrario alla natura»273. Quando infatti Aristotele ritiene alcuni soggetti «per natura» inferiori agli altri, egli fa riferimento principalmente alla loro physis individua­ le, dunque alla mera loro carente dotazione psicofisica274. Essa può

271 La specie umana non presenta infatti, al proprio interno, differenze ana­ loghe a quelle riscontrabili, ad esempio, negli equidi tra cavallo, asino e mulo (Historia animalium, 490 a 16-18). 272Politica, 1252 bi ss. W. Nippel (in Settis 1996, voi. I, p. 179) ha ad esem­ pio affermato che Aristotele avrebbe giustificato su base etnica forme di «di­ spotismo» nei confronti dei «barbari asiatici», citando come pezze di appoggio Politica 1327 b 20 ss. e 1333 b 38 ss. 273 Berti 2004-2010, voi. Ili, p. 189. Aristotele fu del resto il primo a pro­ blematizzare la questione della schiavitù, riportando le tesi di coloro - come il tragico Euripide, e soprattutto come i sofisti Antifonte e Licofrone - che so­ stenevano che «l’autorità padronale è contro natura, giacché la condizione di schiavo e di libero esiste per legge, mentre per natura non esiste fra loro diffe­ renza alcuna: perciò essa non è affatto giusta, in quanto fondata sulla violenza» (Politica, 1253 b 21-24). Notiamo peraltro che tutto o quasi ciò che sappiamo del sofista Alcidamante di Elide, ossia la tesi per cui «dio ha lasciato tutti gli uomini liberi: la natura non ha fatto schiavo nessuno» (Retorica, 1373 b 18), lo dobbiamo proprio ad Aristotele. 274 Aristotele afferma inoltre (Politica, 1254 b 27-1255 a 3) che spesso è «la natura a voler segnare una differenza nel corpo dei liberi e degli schiavi», per cui «gli uni l’hanno robusto per i servizi necessari, gli altri eretto e inutile

248

C a p ito lo V

a suo avviso richiedere che, così come i bambini, i quali non hanno ancora raggiunto la maturità, è bene che siano guidati dai genito­ ri, anche questi soggetti è bene che siano guidati da uomini in cui sono maggiormente sviluppate le doti razionali e morali275. In que­ sto senso soltanto - non in altri - questi soggetti sono considerati da Aristotele inferiori «per natura». Questa interpretazione è stata però respinta, come detto, da al­ cuni studiosi, in particolare da Mario Vegetti276. A suo avviso infatti in Aristotele «lo schiavo confina col bue [...]. Questo uomo bovino e senza volto è, a sua volta, il modello tassonomico di un’altra va­ rietà: il barbaro [...] in quanto per Aristotele, per natura, barbaro e schiavo sono la stessa cosa»277. Per questo, nella interpretazione di Vegetti, come si va a caccia di animali per impadronirsene ed asservirli, è lecito per Aristotele anche andare a caccia di barbari ed asservirli, qualora essi siano refrattari ad essere comandati278. Accettando questa interpretazione, si pone indubbiamente lo Stagirita fra i sostenitori di una guerra di conquista come “guerra giusta”. Aristotele, come del resto Platone279, pare tuttavia ammet­ tere solo, o comunque prevalentemente, una guerra di tipo difensi­ vo, necessaria a conservare l’indipendenza della polis, condizione per la realizzazione di una vita buona (insieme appunto all’assenza

a siffatte attività ma adatto alla vita politica». Egli non pare in questo caso tuttavia pronto a cogliere che è proprio la continua applicazione ai lavori fisici che rende il corpo dello schiavo robusto (e l’anima poco intelligente), a diffe­ renza di quanto accade appunto a chi tali lavori non effettua. Ciò nonostante, lo Stagirita rimarca anche che «spesso accade il contrario: taluni (schiavi), cioè, hanno il corpo da liberi, altri l’anima» (Id., 1254 b 33-34; in tal senso anche 1255 a 25-35). Vale insomma soltanto, per Aristotele, la regola generale, la qua­ le è priva di ogni connotato etnico, ossia che «l’ente che può provvedere con l’intelligenza, comanda per natura» (Id., 1252 a 32-37). Per questo, così come l’anima comanda sul corpo, chi è più dotato di qualità razionali e morali deve guidare chi ne è meno dotato (Id., 1254 a 35-36). Sul relativo dibattito ancora utile Milani 1972, pp. 104-139, oltre al più recente Williams 2007, pp. 127-139. 275Politica, 1260 a 9-14. 276 Citiamo tuttavia anche Pellegrin 2002. 277 Vegetti 1979, p. 70. 278In base ad un noto passo della Politica (1255 b37-i25ó b2ó), Vegetti 1983 (p. 68) afferma infatti che in Aristotele «la guerra appare come una caccia agli uomini destinati a soggiacere al potere dei veri uomini», sicché lo Stagirita viene dipinto come un sostenitore della guerra totale contro i barbari: «la legit­ timità antropologica dell’asservimento dei barbari da parte dei Greci non solo giustifica la guerra contro di loro, ma ne fa [...] una specie di caccia agli animali feroci» (Id., p. 68). È questa anche la tesi di Cambiano 2016 (p. 154) e di Garlan 1989 (pp. 27-30). 279Repubblica, 373 d ss.

I Classici. Platone ed Aristotele

249

di stasis, ossia di guerra civile)280. Per Aristotele infatti, in base a tutto il discorso etico-politico qui ricordato, «la guerra deve esse­ re fatta in vista della pace»281, non per accaparrarsi risorse al fine dell’accrescimento della ricchezza. Lo Stagirita certo, nel libro IX della Historia animalium, am­ mise che il conflitto è una modalità propria di tutto il mondo ani­ male, ed è dunque un fenomeno ricorrente, che insorge in primo luogo tra chi occupa gli stessi spazi e ricava nutrimento dalle stesse risorse. Da ciò non si deve tuttavia dedurre la inevitabilità della guerra fra membri del genere umano, dato che, come mostrano in maniera chiara soprattutto i libri VII e V ili della Politica, fra le capacità migliori dell’uomo vi è appunto quella di poter progettare un armonico contesto comunitario in cui vivere, grazie alla propria natura razionale e morale. È indubbio, come detto, che alcuni brani di Aristotele, presi isolatamente, possano condurre a fraintendimenti. È tuttavia ne­ cessario, soprattutto nella analisi di un pensiero così vasto ed ar­ ticolato quale quello aristotelico, non basarsi su singole citazioni, bensì considerare tale pensiero nel suo complesso, e depurarlo, per quanto possibile, dalla ideologia del tempo. Ci pare peraltro che ciò sia stato fatto da molti autori, fra cui P. Milani, per il quale appunto «alla mente dei Greci non si affacciò mai seriamente l’idea che gli schiavi fossero esseri non-umani [...] ed Aristotele non ha mai inte­ so negare la umanità dello schiavo»282. Egli infatti, «come Platone e come del resto tutti i Greci, ammise il principio della unità del ge­ nere umano o, se si vuole, della eguaglianza della natura umana, e quindi anche l’umanità dello schiavo. Da tale riconoscimento nasce una esigenza di philia verso tutti gli uomini, schiavi compresi. Essa si traduce, ad esempio, negli inviti che troviamo in Platone a tratta­ re con giustizia e moderazione gli schiavi, e nelle misure protettive previste dal costume religioso e dalla legge attica»283. Circa la problematizzazione del tema della schiavitù, come ha giustamente rimarcato Luigi Bagolini, lo Stagirita per primo si pose «il problema della utilità della servitù nei confronti dello stes­ so schiavo. Ponendosi questo problema, egli supera di già la pura e semplice accettazione della servitù quale istituzione del suo tempo. La sua teoria, cioè, non volle essere soltanto una esposizione delle

280In tal senso, fra gli altri, Payen 2012, pp. 237-246. 281Politica, 1333 a 35-36. 282 Milani 1972, p. 122. 283Id., p. 153.

250

C a p ito lo V

ragioni contingenti che servono a giustificare il fatto storicamente. Il problema è considerato dal filosofo dal punto di vista morale: anzi è [...] lo stesso problema morale, come problema della perfet­ tibilità umana»284. Per questo esso va trattato all’interno della più ampia concezione filosofica, etica e politica di Aristotele sull’uomo e sulla buona vita. In questo modo si potrà facilmente compren­ dere che la argomentazione dello Stagirita «contrasta con la sua concezione principale, secondo la quale tutti gli esseri umani sono animali politici, dunque capaci di governarsi da sé»2852 . 6 8 Passando dalla trattazione degli schiavi a quella connessa dei barbari, un riferimento molto utilizzato dagli interpreti che sosten­ gono la tesi dell’etnocentrismo aristotelico si trova nel libro VII della Politica, in particolare in quel passaggio che parla della «cen­ tralità» dei Greci rispetto ad Europei ed Asiatici285. Vegetti chiosa questo passo - pur affermando che «il rapporto di subordinazione greco-barbaro [...] si pone in contraddizione con altri segmenti del­ la teoria aristotelica»287 - non tematizzando in Aristotele la teo­ rizzazione della «centralità» come «giusta misura». Egli sostiene anzi che nello Stagirita anche «la medietas si costituisce come il luogo naturale del dominio»288, in quanto i barbari erano ideolo­ gicamente rappresentati dallo Stagirita come eccessivi e smodati. Per Vegetti infatti, nella Grecia classica, «la confusa moltitudine barbarica viene di continuo redistribuita secondo un codice fisso, che rispetta al tempo stesso le esigenze della tassonomia platonica e della antropologia aristotelica. Nel loro insieme, i barbari ven­ gono pensati secondo il modello generale del mondo alla rovescia [...]. Le etnie barbariche vengono cioè descritte secondo una sca­ la più o meno continua che va dal crudo, dalla sauvagerie ferina, fino al troppo cotto, all’eccesso di cultura che non le riscatta mai tuttavia dalla bizzarria del loro mondo capovolto»289. Sostenendo ciò, a noi pare tuttavia che Vegetti interpretasse in maniera trop­ po unilaterale questi passi, smarrendo i frequenti elogi aristotelici 284 Bagolini 1941, p. 3. 285 Berti 2014, p. 104. Anche Ruggiu 1973 (p. 24) ha sottolineato come, sul piano formale, Aristotele possa argomentare la «naturalità» della schiavitù solo «operando un ribaltamento dell’ordine logico dei rapporti [...]; la pre­ messa diviene conclusione, e la conclusione premessa. Solo in virtù di questo procedimento, il fatto storico - 1’esistenza della schiavitù - può apparire come espressione della essenza ontologica». 286Politica, 1327 b 22-33. 287Vegetti 1979, p. 152. 288 Id., p. 169. 289 Id., pp. 169-170.

I Classici. Platone ed Aristotele

2 51

alle culture straniere290. Non è un caso che anche una studiosa del valore di Maria Michela Sassi, che pure si mostra spesso concorde con Vegetti sul tema deH’etnocentrismo greco, in rapporto a que­ sto argomento tenda a rilevare che da Aristotele «i popoli stranieri vengono dotati di qualità nettamente positive»291. La tesi principale di Aristotele in merito agli stranieri risulta dunque essere semplicemente quella per cui costoro, pur con al­ cune differenze culturali dovute alle diverse consuetudini di vita, sono uomini con la medesima natura dei Greci. Per questo motivo non viene mai rifiutata, nella sua opera, l’apertura comunitaria292. Lo Stagirita si limita in effetti solo a constatare come talvolta «in atto», ossia nel proprio tempo storico, a causa degli imperi tiranni­ ci spesso presenti nei loro Stati, alcuni popoli barbari non avesse­ ro ancora compiutamente sviluppato la propria natura razionale e morale, il che li rendeva peggiori dei Greci. Egli, comunque, distinse fra Greci e barbari non su basi biologico-antropologiche, quanto, come Platone, su basi filosofico-politiche. A suo avviso, infatti, il carattere degli uomini dipende soprat­ tutto dalla educazione ricevuta, e quest’ultima in generale dipende dalle modalità politico-sociali complessive cui essi sono soggetti, le quali instillano negli uomini abitudini buone se esse sono buone, 0 cattive se esse sono cattive. Ciò nonostante, come in Erodoto, non si può non rilevare, nel pensiero di Aristotele, il riferimento centra­ le alla cultura greca come riferimento valutativo principale. La donna Passiamo infine ad analizzare il tema della donna nell’opera ari­ stotelica. Ebbene: soprattutto nei suoi testi naturalistici, è ripetuta nello Stagirita l’affermazione secondo cui, nelle varie specie anima­ li, fra cui quella umana, il maschio si rivela migliore della femmi­ na293. Questa considerazione è sicuramente in larga parte frutto del clima ideologico della sua epoca, non certo favorevole verso la con­

290Ad esempio, per gli Egizi, Politica, 1329 b 32-33. 291 In Vegetti 1992, voi. II, pp. 268-269. 292Ad esempio Etica Nicomachea, 1123 a 1 ss. 293 Nel De generatione animalium, in particolare, lo Stagirita teorizzò la inferiorità (727 a 5: elleipsin), la impotenza (728 a 18: adynamia), la maggiore debolezza e freddezza (775 a 14: asthenestera gar esti kai psychrotera) della natura femminile. La tesi si ritrova espressa, per gli anthropoi, in Politica, I, 5. Questa tesi ha ovviamente dato luogo ad una serie di condivisibili reazioni critiche: emblematico Freeland 1998; più scientifica l’analisi di Mayhew 2004.

252

C a p ito lo V

dizione femminile294. Di questo clima anche Aristotele ha indub­ biamente risentito295. Non per questo, tuttavia, si può qualificare la posizione aristotelica tout court come misogina. Scrive infatti giu­ stamente Enrico Berti che, esattamente come la schiavitù, anche «la donna costituì per Aristotele un problema. La sua antropologia, infatti, lo induceva ad affermare una fondamentale uguaglianza tra uomo e donna in quanto esseri della stessa specie, la specie ap­ punto umana. La sua visione politica, invece, chiaramente condi­ zionata dal maschilismo della società antica, lo induceva ad am­ mettere una differenza, pur nell’ambito della fondamentale ugua­ glianza»296. Questa differenza tra il maschio e la femmina trovava in lui giustificazione sul piano biologico-naturalistico, all’interno del quale egli coglieva una analogia con la differenza che intercorre tra la forma e la materia297. Nella riproduzione infatti, secondo Ari­ stotele, è il maschio, con il proprio seme, che attribuisce in maniera attiva la forma al nascituro, mentre - almeno in generale298 - la femmina, considerata una sorta di «maschio mancato»299, fornisce 294 La misoginia greca ha sempre posto nella sfrenatezza della donna, che si manifesterebbe nella sua incontenibile dedizione al cibo ed al sesso, le due caratteristiche principali della medesima, da Esiodo a Simonide (come a suo tempo indicato), da Eschilo (Coefore, vv. 599-601) ad Aristofane (Lisistrata, Ecclesiazusé). 295 Campese-Gastaldi 1977 (p. 1) ricordano in merito che la condizione esi­ stenziale della donna, ai tempi di Aristotele, era in Grecia «compiutamente risolta nella dimensione del privato, ai margini di quella comunità politica che è la città: la qualifica di cittadina le è negata, attestando la sua esclusione dalla gestione della cosa pubblica». Subendo questo ampio condizionamento stori­ co-sociale, per le autrici risulta che «la specie umana è per Aristotele eminen­ temente maschile» (Id., p. 8). 296 E. Berti, Un problema di Aristotele: la donna, in Cortella-Testa-Mora 2011, p. 33297 In tal senso la metafora della «madre materia» è stata ben analizzata in Campese-Manuli-Sissa 1983. 298Aristotele (ad esempio De generatione animalium, 728 a 17 ss.), sul pia­ no scientifico, si schiera talvolta anche con coloro che, prima di lui (Alcmeone, Ippocrate, Parmenide, Empedocle, Democrito: abbondanti riferimenti in merito si trovano in Cantarella 2010, pp. 80 ss.), riconoscevano nel processo riproduttivo un ruolo anche alla madre, sebbene confinandola in una posizione di subalternità biologica. 299 «Dobbiamo guardare alla femmina come a una deformità, sebbene una deformità che capita nel corso ordinato della natura» (De generatione anima­ lium, 775 a 15; 766 a 20-22). La femmina è anche considerata un «maschio ste­ rile»: in particolare in essa mancherebbe il potere di cuocere il seme che pro­ viene dal nutrimento, a causa della freddezza e della umidità della sua natura (Id., 728 a 17). Essa è inoltre considerata da Aristotele un «maschio deforme», cui difetta il costituente principale che rende i corpi in grado di generare figli

I Classici. Platone ed Aristotele

253

passivamente la materia, costituita dal sangue mestruale, su cui poi la forma va ad operare. Essendo tuttavia appunto della stessa specie300, uomo e donna hanno anche per Aristotele lo stesso tipo di forma, ossia di anima, sicché fra i due non vi può essere, su base ontologica, alcuna differenza essenziale301. È del resto significativo che quando Aristotele afferma, nel pas­ so iniziale già citato della Metafisica, che «tutti gli uomini (anthropoi) per natura desiderano conoscere», 0 nella Politica che «l’uo­ mo (anthropos) è per natura un animale politico», egli intenda in­ sieme maschi e femmine, senza alcuna differenza circa il possesso dei contenuti razionali e morali che rendono tale un essere umano. L’unica differenza marcata che egli rileva, sul piano sociale, è che le donne possiedono la facoltà deliberativa come gli uomini, ma «senza autorità»302, sicché per questo gli uomini sarebbero «per natura più adatti a comandare»303. Se questa differenza - frutto peraltro, ove esistente, della par­ ticolare educazione greca delle bambine, non certo della generale antropologia femminile - risulta essere la principale nell’anima fra maschio e femmina, emerge allora evidente, come ha scritto Marcel­ lo Zanatta, che il rapporto fra uomo e donna in Aristotele si situa «in un quadro di rapporto tra liberi. Il che stabilisce, sotto un determi­ nato profilo, una condizione di parità di entrambi»304. Rimane il fatto che, per Aristotele, la famiglia, o meglio Yoikos, resta il luogo principale in cui la donna può fornire il proprio con­ tributo, sia nella gestione della casa, sia soprattutto nell’allevamen­ to dei figli. Si tratta comunque, a ben vedere, di un contributo di non poco conto. Come lo Stagirita afferma più volte, infatti, il fare

sani (Id., 737 a 20 ss.). Ancora Galeno (De usu partium, XIV, 6-7) riprenderà questa idea del corpo femminile come prodotto intermedio della generazione. 300De generatione animalium, 730 b 35 ss. Ciò, come rileva lo stesso Sta­ girita, provoca sul piano teoretico qualche problema, essendo il maschio e la femmina per natura contrari (Id., 766 a 16 ss.). 301 II processo riproduttivo, come noto, assume per Aristotele tutta una se­ rie di gradi, ben riassunti da Vegetti 2018 d (p. 187): «La generazione perfetta sarebbe quella in cui il figlio riproduce esattamente la forma del genitore; la resistenza della materia ad una perfetta informazione fa tuttavia sì che vi sia tutta una serie di anomalie nella riproduzione della forma, serie che va dal caso migliore, il figlio maschio somigliante al genitore, alla femmina (anomalia questa necessaria ai fini della catena riproduttiva), all’individuo che si limita a riprodurre la forma della specie, fino al vero e proprio mostro». 302Politica, 1260 a 12-13. 303 Id., 1259 b 2. 304Zanatta 2010 a, p. 324.

254

C a p ito lo V

figli, e conseguentemente il crescerli, costituisce un vero e proprio «contributo alla polis», paragonabile all’obolo versato dai cittadini più ricchi per i lavori pubblici305. Occorre inoltre considerare che Aristotele pensava che avere figli fosse un elemento costitutivo del­ la buona vita, ossia che ciò aiutasse a vivere bene. Ciò in quanto i figli, come le opere, costituiscono una delle poche modalità con cui gli uomini possono rendersi «immortali»306. Per questo motivo si può ritenere che egli considerasse la funzione della donna all’inter­ no della famiglia come di discreta rilevanza. Nella scuola aristotelica - cui qui, per motivi di spazio, possia­ mo solo accennare - una visione paritetica fra uomo e donna fu condivisa soprattutto da Teofrasto, del quale, come ricorda giusta­ mente Reale, è nota «la presa di posizione circa l’uguaglianza di tutti gli uomini»307. Teofrasto sostenne infatti, in chiara continu­ ità con l’opera di Aristotele, che tutti gli anthropoi sono «affini» e «congeneri», estendendo in certa misura tale affinità anche agli animali308.

305Politica, 1329 a 2-17. 306Etica Nicomachea, 1099 b 3-4. 307 Reale 2004, voi. IV, p. 318. 308 Porfirio, De abstinentia, III, 25; II, 20 ss. Nel proemio (1) dei Caratteri Teofrasto affermò comunque anche quanto segue: «quantunque l’Ellade sia posta tutta sotto lo stesso cielo, e i Greci siano tutti educati similmente, pure noi non abbiamo tutti la stessa costituzione morale», poiché appunto la forma­ zione dei caratteri - ed egli ne delinea nella sua opera una trentina - dipende da una molteplicità di fattori. Rimane in ogni caso fermo che la descrizione di personaggi con vizi caratteriali o tratti addirittura semipatologici effettuata da Teofrasto, rinvia implicitamente al modello del kalos kagathos proprio della tradizione classica (in questo senso anche Sassi 1988, p. 60).

VI

ELLENISMO SCETTICI, EPICUREI, STOICI

1. Ellenismo Note generali Con il termine Ellenismo si indica solitamente l’epoca che va dal 323 a.C. (morte di Alessandro il Macedone) al 30 a.C. (anno della annessione alla Repubblica romana dell’Egitto)1, inerente ad una vastissima zona geografica, in cui spicca in primo luogo il grande centro culturale di Alessandria - si parla talvolta infatti di “età alessandrina” - , ma anche Pergamo, Cirene, Antiochia, Rodi e Roma. Si tratta, come noto, di un periodo molto importante per la cultura antica, in quanto segna il passaggio dall’epoca classica, incentrata sulla polis e sui relativi rapporti comunitari, all’epoca appunto ellenistica, caratterizzata da un processo imperialistico di riduzione della autonomia delle poleis, di crescente individualismo e di progressiva perdita di centralità da parte della Grecia. Con l’occupazione macedone prima e romana poi, come scrive infatti giustamente Reale, «l’uomo [greco; L.G.] da cittadino diventa sem­ plice suddito» che, «di fronte allo Stato, assume un atteggiamento di neutrale disinteresse quando non di avversione [...]. La filosofia teorizzerà questa realtà in maniera esplicita, e collocherà lo Stato e la politica o fra le cose neutre e moralmente indifferenti, 0 addirit­ tura fra le cose moralmente negative, perché fonti di ambizioni, di passioni, di preoccupazioni e di inutili turbamenti»2. Non è naturalmente possibile, in questa sede, descrivere in ma­ niera compiuta l’intera temperie ellenistica. Dal nostro punto di

1 Rinviamo, per una panoramica complessiva sull’Ellenismo, a Flashar 1994, Erskine 2003, Bugh 2006 e Algra-Barnes-Mansfeld-Schofield 2006. 2 Reale 2004, voi. V, p. 9.

256

C a p ito lo V I

vista, che è quello della comprensione dell’uomo, il nodo da porre maggiormente in evidenza - pur cercando di non cadere in alcu­ ni diffusi luoghi comuni storiografici - è rappresentato dal fatto che la filosofia ellenistica attribuì, in rapporto alla filosofia classi­ ca, maggiore importanza all’etica piuttosto che alla politica. L’eti­ ca infatti, ferma restando la rilevanza dello studio della natura3, ha occupato il centro di tutte tre le principali scuole ellenistiche, tradizionalmente identificate nello Scetticismo, nell’Epicureismo e nello Stoicismo. La filosofia, insomma, divenne sempre più «arte del vivere»4, e l’interesse teoretico venne sempre più fuso con quel­ lo pratico. Questa, in estrema sintesi, la descrizione più accreditata dell’e­ poca ellenistica. È però necessario, come ricordava Mario Vegetti, non fare di questa narrazione «un mito»5. In effetti, anche dopo l’occupazione romana, la polis ha continuato a costituire in Grecia il nucleo principale di organizzazione della vita sociale6. In questa nuova polis tuttavia, vi fu realmente una erosione della autonomia della deliberazione pubblica, la quale non poteva non lasciare tracce significative nella struttura stessa dell’efùos pubblico dei Greci, per la dimensione politica all’interno della quale esso si era costituito. Entriamo ora con maggiore dettaglio nella filosofia ellenistica, cominciando con lo Scetticismo.

2. Scetticismo Note generali Intendiamo con il termine Scetticismo7 quel movimento di pen­ siero che nega la possibilità di conoscere la realtà, per la struttura stessa della realtà ancor più che per i limiti conoscitivi dell’uomo8. Una tradizione secolare ha indicato in Pirrone il “fondatore” dello

3 Ci permettiamo ancora di rinviare a Grecchi 2018 a, pp. 230-272. 4 Emblematico, in merito, Horn 2004. 5 Vegetti 1989, p. 219. 6In questa direzione anche Isnardi Parente 1991, pp. 43-79. 7 Rinviamo, per una panoramica sullo Scetticismo, a Dumont 1966, Rescher 1980, Burnyeat 1983, Ricken 1984, Groarke 1990, Cossutta 1994, Hankinson 1995, Barnes 1996, Chiesara 2003 e Bett 2010. 8 Come scrive Bonazzi 2003 (p. 39), «in termini generali, il tratto caratte­ rizzante dello scetticismo è dato dalla negazione della possibilità di conoscere a causa della instabilità e del fluire permanente della realtà».

Ellenismo. Scettici, Epicurei, Stoici

257

Scetticismo, ma su questo punto il dibattito rimane aperto, dato che considerazioni scettiche furono presenti, sebbene sporadica­ mente, sin dal primo pensiero greco9. Da rimarcare, in ogni caso, che lo Scetticismo nelle sue varie forme non si strutturò propriamente come scuola10, per cui sarà importante attribuire in modo chiaro in questa sede, nei limiti del possibile - non ci rimane granché dei testi originari, e Pirrone non scrisse nulla11 - le tesi a Pirrone, ai vari suoi allievi, ai singoli Scetti­ ci, agli Accademici12 0 a Sesto Empirico (il grande sistematizzatore in epoca postellenistica dello Scetticismo). Seguendo la tradizio­ ne, ci concentreremo principalmente su Pirrone, ma non prima di qualche considerazione generale. Innanzitutto, occorre dire che, dal punto di vista etimologico, il termine “scetticismo” deriva dal greco skepsis (che significa “ricer­ ca, indagine”), e rimanda alla tendenza, propria appunto di tutta la tradizione greca, ad interrogarsi sulla conoscibilità della realtà e sul suo senso per l’uomo. Lo Scetticismo, basandosi sul fatto che la realtà appare agli uomini spesso in modi fra loro diversi, ha sostan­ zialmente affermato la inconoscibilità della medesima13. Essendo

9 Diogene Laerzio (Vite dei filosofi, IX) riporta come noto una delle più famose successioni (diadochai) di scettici: Senofane, Parmenide e gli Eleati, gli Atomisti Leucippo e Democrito, Anassarco maestro di Pirrone e il suo allievo Timone. Sul fatto che «la filosofìa di Pirrone può essere considerata alle origini dello scetticismo», condivisibili le considerazioni di F. Deeleva Caizzi in Giannantoni 1981 (voi. I, pp. 117 ss.). 10 Come ha affermato Zanatta 2012 (p. 327), «lo scetticismo non è una scuola, ma una corrente di pensiero [...], nata con Pirrone dalla accentuazione del ricercare socratico come condizione non oltrepassabile del pensiero [...], e sorretta dalla medesima ansia di imperturbabilità che era la meta di tutte le filosofie ellenistiche». 11 Come scrive Emidio Spinelli (in Trabattoni-Vegetti 2016, voi. Ili, p. 55), «la ricchezza del retroterra, filosofico e non, cui si sarebbe ispirato Pirrone, così come la difficoltà di districarsi tra fonti di seconda 0 terza o quarta mano, non sempre oneste né brillanti sul piano dell’acutezza teorica, ha generato let­ ture diverse, non di rado in forte e reciproco contrasto, del suo pensiero». Lo studioso ha parlato giustamente di «ginepraio interpretativo che avvolgeva, e ancora avvolge, la vita e il pensiero di Pirrone» (Id., p. 59). 12 Ottima, sulla Accademia postplatonica, la sintesi presente in Zanatta 2012, pp. 352-410. Utili testi di riferimento sono Credaro 1889-1893, Bonazzi 2003 e Ioppolo 2009. 13 Come scrive tuttavia Giannantoni 1981 (voi. I, p. 34), «non è riconduci­ bile ad unità la complessa trama di rapporti e di motivi che concorrono a de­ lineare l’indirizzo dello scetticismo antico. Fin dall’origine, vediamo confluire in esso varie ispirazioni: altro è infatti uno scetticismo che revoca in dubbio la corrispondenza delle nostre rappresentazioni sensibili alle cose; altro è una

258

C a p ito lo V I

l’uomo parte della realtà, è impossibile pertanto ritrovare negli Scettici anche una chiara definizione di “uomo”, o quanto meno una precisa serie di affermazioni che ne descriva le caratteristiche principali14. Nonostante la teorizzata impossibilità di una definizio­ ne dell’uomo, il movimento scettico cercò tuttavia in vari modi di delineare un indirizzo etico per la vita pratica15. Da queste indica­ zioni cercheremo di desumere l’idea di uomo ad esso sottostante. Due sono in merito, come ha giustamente messo in evidenza Emidio Spinelli, i contenuti teorici che caratterizzarono lo Scetti­ cismo: «1) la convinzione che il vero scettico persevera senza so­ sta nella ricerca e insieme permane nell’aporia, un abito che arriva quasi a caratterizzarsi come un vero e proprio fine o telos in senso forte; 2) la capacità di supportare questo atteggiamento di inter­ minabile apertura mentale mediante una sistematica raccolta o, se necessario, una opportuna invenzione di argomenti volti a mostra­ re l’impossibilità e/o l’infondatezza di qualsiasi pretesa conosciti­ va cristallizzata in dogmi»16. In questo modo, ossia escludendo le espressioni sporadiche di scetticismo, si può individuare un ambi­ to ben preciso in cui questo atteggiamento si consolidò, sostanzial­ mente coincidente col dibattito filosofico venutosi a creare fra IV e III secolo a partire appunto da Pirrone di Elide, e proseguito fino in epoca postellenistica17. Tale dibattito, caratterizzato come detto da una continua ricerca teoretica ed etica, costituì a nostro avviso anch’esso, in certo modo, una conferma della insopprimibile natu­ ra razionale e morale dell’uomo. Pirrone I testimoni dell’opera di Pirrone (360-270 c.a.), che come detto non ha lasciato scritti, si estendono, fra diretti ed indiretti, per un

dialettica eristica che si esaurisce nella confutazione verbale degli argomenti altrui; altro ancora è l’esigenza di una ricerca continua che si contrappone alla presunzione degli altrui dogmatismi di possedere già la verità e il criterio infal­ libile di scelta tra il bene e il male». 14 Vegetti 2018 d (p. 225) ha parlato di «edificazione di una antropologia negativa (ciò che l’uomo non è, non può e non deve essere)» come disposizione di fondo dello Scetticismo. 15In questa direzione soprattutto Vogt 1998 e Thorsrud 2009. 16In Trabattoni-Vegetti 2016, voi. Ili, p. 54. 17 In questa direzione maggioritaria, fra gli altri, Naess 1969, Verdan 1971 e vari saggi presenti in Sihvola 2000.

Ellenismo. Scettici, Epicurei, Stoici

259

arco di oltre sei secoli18. È pertanto molto probabile, alla luce delle evoluzioni dottrinali nel frattempo intercorse, che le testimonianze sulla sua vita e sul suo pensiero si siano progressivamente defor­ mate19. Sappiamo del resto poco circa le sue fonti culturali. Per cer­ to si conosce solo che fu molto importante, per la sua formazione, la presenza nella spedizione bellica di Alessandro il Macedone in Oriente. Lì rimase molto impressionato dai cosiddetti Gimnosofisti, sorta di saggi indiani che conducevano una esistenza dedita alla riduzione dei bisogni, all’esercizio della rinuncia ed alla conquista della impassibilità20. Sulla sua figura, come su quella di Socrate e di molti altri capi­ scuola - ma, come noto, Pirrone non volle né fondare una scuola, né formare discepoli - , è fiorita una ricca aneddotica, che ha in parte occultato il contenuto filosofico del suo pensiero21. In realtà il suo messaggio fu davvero carico di sostanza teoretica ed etica, come ora andremo a mostrare22. Fra teoria e prassi in effetti, nel messaggio di Pirrone, vi fu un chiaro nesso di continuità, nonostante, per la peculiare caratteri­ stica della dottrina scettica - rifiutare ogni dogma - , non sempre ciò sia stato riconosciuto. È proprio a causa del fatto che la realtà non si può conoscere con verità, infatti, che l’uomo si trova pri­ vo di riferimenti stabili, e che deve orientare la prassi in maniera contingente23. Senza il vero ed il falso mancano in effetti anche le conoscenze del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto, dunque i riferimenti classici per orientare l’esistenza verso la felicità24.

18Per uno sguardo complessivo alla figura ed all’opera di Pirrone, rinviamo a Robin 1944, Deeleva Caizzi 1978, Bett 2000, Wlodarczyk 2000 e Reale 2008. 19 Se si escludono le testimonianze del contemporaneo Timone, di cui di­ sponiamo di frammenti dell’opera, quelle dei suoi “allievi” sono tutte riportate da fonti piuttosto tarde. Le maggiori fra esse si trovano raccolte in Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX, 61-69. 20Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX, 61-63. 21 Scrive bene Dal Pra 1975 (voi. I, p. 39) che «l’interpretazione della figura e del pensiero di Pirrone costituisce per lo storico un problema analogo a quel­ lo posto dalla interpretazione della figura e del pensiero di Socrate». 22 Brancacci (in Giannantoni 1981, voi. I, p. 234) ha in merito parlato di «unità profonda di dimensione teoretica e dimensione etica nel pensiero di Pirrone», affermando che questa inscindibilità «di piani caratterizza, anche presso altre fonti, lo stile di filosofia che gli Scettici non hanno mai cessato di rivendicare: una caratteristica che si esprime anche a livello terminologico nell’uso costante, per manifestare il significato e le condizioni della scepsi, di espressioni dalla immediata risonanza etica» (Id., p. 221). 23 Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX, 65. 24Su questo argomento, rinviamo a McPherran 1990.

2Ó 0

C a p ito lo V I

Ritenendo di potersi rapportare in modo corretto alla vita con la minore possibile sofferenza solo partendo dal presupposto anch’esso, in linea di principio, sempre da porre in discussione della inconosciblità della realtà, pertanto astenendosi da giudizi ed azioni, il fine più corretto della esistenza per Pirrone divenne coerentemente la imperturbabilità, ovvero l’atarassia25. Questa condizione doveva essere a suo avviso raggiunta mediante una pre­ liminare afasia, la quale non consisteva nell’astenersi dalle parole, ma dalle opinioni (ossia dai giudizi), non entrando mai nel merito della inconoscibile natura del reale26. Il messaggio di Pirrone, per come riportatoci dal discepolo Timone27, si può infatti sintetizzare in questo modo: «Non bisogna accordare né alle nostre sensazio­ ni, né alle nostre opinioni (che possono essere vere oppure false), nessuna fiducia. Bisogna essere senza opinione, senza inclinazio­ ne, senza agitazione, affermando di ciascuna cosa che è non più di quanto non è, oppure che è e che non è, oppure che né è né non è. Coloro che si mettono in questa disposizione conseguiranno [...] in primo luogo l’afasia, e poi l’atarassia»28, ossia la quiete interiore, la mancanza di turbamento. Il fatto di affermare che non vi è alcuna conoscenza determi­ nata, ma di comportarsi poi nelle varie circostanze sempre in una maniera determinata, condusse verso Pirrone parecchie critiche di incoerenza fra dottrina e vita29. Egli infatti, pur ritenendo la real­ tà inconoscibile, fuggì ad esempio di fronte all’attacco di un cane, evidentemente mostrando di conoscere bene ontologicamente la

25 Scrive correttamente Zanatta 2015 (p. 264) che «il bene, per Pirrone, risiede nella apatia e nella atarassia, e queste conseguono a quella condizione di impossibilità di parlare con verità sulle cose (afasia) che ha a sua volta per conseguenza l’adiaforia, vale a dire l’indifferenza delle cose stesse». In maniera analoga Ioppolo 1980 (p. 178): «Pirrone giunge all’apatheia perché ritiene che le cose siano nella loro essenza inconoscibili, e che i nostri giudizi e le nostre sensazioni non siano né veri, né falsi». 26 Reale 2004 (voi. VI, pp. 16-17) ha affermato in merito che «Pirrone re­ spinge le istanze di ogni forma di ontologia in quanto tale. Infatti, mentre il cammino della ontologia va dalle apparenze all’essere [...], all’opposto Pirrone si ritrae dall’essere alle apparenze, negando recisamente che ci sia l’essere [...] e riconoscendo per conseguenza soltanto l’apparire». Per lui, «il fenomeno do­ mina sempre, dovunque appaia» (Timone, fr. 69 Diels). Il pensatore di Elide negò in pratica tutte le categorie aristoteliche, compreso il principio di non contraddizione. 27 Sulla interpretazione di Pirrone operata da Timone, molto utile la recen­ te messa a punto di Marchand 2018, pp. 38 ss. 28Aristocle,/r. 6 Heiland. 29 Su questo tema anche alcuni interessanti saggi in Annas-Barnes 1985.

Ellenismo. Scettici, Epicurei, Stoici

261

realtà di un morso, ed altrettanto bene assiologicamente la sua non desiderabilità30. Fiorì in effetti una vasta serie di aneddoti sulla sua figura, come quelli indicanti che Pirrone viveva, per coerenza, non curandosi dei pericoli, dai quali veniva salvato dagli amici (dei qua­ li comunque si circondava, evidentemente conoscendone sul piano onto-assiologico l’importanza)31. Questi aneddoti sono significativi, ma la loro importanza non deve essere ingigantita32. In essi inoltre solo parzialmente può rav­ visarsi incoerenza in Pirrone. Pur infatti consapevole della sostan­ ziale inconoscibilità della realtà, Pirrone viveva, come egli stesso affermava, «seguendo i fenomeni»33. Egli cioè si orientava nella vita mediante quelle indicazioni «naturali» che gli consigliavano di soddisfare con frugalità i propri bisogni, di sbrigare per utilità alcune faccende, o di fuggire per sopravvivenza dall’attacco di un cane. In merito alla critica di essere incoerente, egli si giustificò affermando appunto di non potersi spogliare totalmente della pro­ pria natura di uomo, anche per lui, come evidente, implicito rife­ rimento direttivo34. Al di là, infatti, di alcune palesi esagerazioni biografiche, volte a far risaltare la ricerca di imperturbabilità della dottrina scettica, è evidente che «Pirrone non agiva in ogni circo­ stanza senza precauzioni»35. Ciò in quanto, in caso contrario, non avrebbe potuto salvare a lungo la vita. Egli, tuttavia, praticava un bios assai differente rispetto a quello seguito dalla maggior parte delle persone (ricerca di successo, potere, denaro, ecc.), a suo av­ viso vittima di false credenze appunto circa la felicità derivante da certi bioi.

30Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX, 66. 31 Id., IX, 62. 32 Scrive bene Dal Pra 1975 (voi. I, p. 79), sulla aneddotica pirroniana, che «possiamo considerare come più probabilmente rispondenti alla verità storica della vita di Pirrone i tratti che indicano la sua accettazione di una vita umile e ritirata, oltre ai suoi sforzi di indifferenza e di distacco nei confronti delle correnti valutazioni morali e ritenere, per contro, che molta parte della pa­ radossale condotta che gli viene attribuita stia solo ad indicare, dal punto di vista storico, il conflitto che in tal modo Pirrone apriva con la prassi del senso comune». Come scrive pure Chiesara 2003 (pp. 18-19), «anche gli studiosi mo­ derni tendono per lo più a pensare che le descrizioni della imperturbabilità e della impassibilità radicali di Pirrone siano dovute a estremizzazioni in senso positivo operate dai primi seguaci al fine di rappresentare una aspirazione, un ideale paradigmatico, più che un comportamento effettivo». 33 Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX, 106. Su questa tematica, rinviamo a Dumont 1972 e Conche 1994. 34 Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX, 66. 33 Id., IX, 106.

2Ó2

C a p ito lo V I

Pirrone, ancor più che un teorico scettico, fu in effetti ritenuto nella antichità, prima di Timone, soprattutto un moralista, proprio in quanto la sua posizione teorica circa la inconoscibilità della real­ tà doveva inevitabilmente sfociare, in quanto dottrina finalizzata al raggiungimento della felicità, nella indicazione di alcuni compor­ tamenti da seguire36. Questi ultimi, caratterizzati dai tratti sopra descritti, furono sicuramente quelli che per la loro novità balzaro­ no immediatamente agli occhi dei Greci, essendo la sfiducia nella conoscenza della realtà già stata sostenuta da altri filosofi prece­ denti37. Si è spesso sostenuto, basandosi su argomenti presenti nella Metafisica di Aristotele, che quella di Pirrone fu una dottrina auto­ contraddittoria38. Il problema principale di fronte al quale si trovò lo Scetticismo fu in effetti quello di come esprimere la propria as­ senza di posizioni in maniera non contraddittoria39. Trattandosi di un problema di difficile soluzione all’interno delle coordinate teori­ che di questa dottrina, lo Scetticismo si caratterizzò più per la pars destruens che per la pars construens40. In ogni caso lo Scetticismo di Pirrone, qualunque sia il corretto giudizio teoretico sul mede­ simo, fu principalmente sul piano pratico un sistema di saggezza mirante alla felicità dell’uomo, da identificarsi in sostanza con la atarassia. La felicità infatti, secondo Pirrone, più che dall’impegno

36 Cicerone, De finibus, IV, 16, 43. J. Brunschwig (in Brunschwig-Lloyd 2005, voi. II, p. 533) ricorda che «le testimonianze antiche a lui più vicine [...] presentano Pirrone anzitutto come un maestro di felicità, come un moralista a parere del quale i mezzi più sicuri per raggiungere la felicità sono la insensibi­ lità (apatheia) e l’imperturbabilità (ataraxia)». In questa direzione rinviamo all’ottimo saggio di Ausland 1989. 37 Su questa tematica, rimandiamo ad alcuni interessanti saggi in Burnyeat-Frede 1997. 38 Aristotele, nella Metafisica (IV, 4-6), afferma infatti più volte che chi nega il principio di non contraddizione, per coerenza, dovrebbe tacere, in quanto se parla, per dire qualcosa di non contraddittorio dovrebbe utilizzare il principio di non contraddizione, implicitamente accettandolo, dunque con­ traddicendosi. Circa la critica aristotelica allo Scetticismo, rinviamo a Berti 2004-2010, voi. II, pp. 195-207. 39 Come ricorda infatti Ioppolo 1986 (p. 9) «l’esprimere la propria incapa­ cità di arrivare ad una soluzione di fronte alle ragioni prò e contro una deter­ minata tesi comporta il rendere esplicito il proprio punto di vista nei termini di ragione, opinione e verità, che sono proprio le nozioni che lo scettico vorrebbe evitare». 40Intelligenti considerazioni in Perin 2010.

Ellenismo. Scettici, Epicurei, Stoici

263

e dall’azione, derivava dal distacco dall’impegno e dall’azione, alla luce appunto della inconoscibilità della realtà41. Uno dei più intelligenti interpreti contemporanei dello Scettici­ smo, ossia il già citato Emidio Spinelli, ha giustamente problema­ tizzato la teoria pirroniana, affermando che «la posizione di Pir­ rone, così come sembra emergere da varie testimonianze antiche, non appare affatto incardinata sul desiderio di dar vita a una ricer­ ca ininterrotta»42. Ciò nonostante emerge evidente in tali testimo­ nianze il desiderio di Pirrone «di proporre una ricetta di felicità perfettamente in linea con la tendenza eudaimonistica propria del­ le filosofie a lui immediatamente precedenti e contemporanee»43. L ’uomo nello Scetticismo pirroniano Che tipo di uomo emerge dallo Scetticismo pirroniano? Occorre dire innanzitutto che il soggetto-uomo, evidentemente ritenuto un poco più conoscibile dell’oggetto-realtà, fu un centro di riflessione rilevante per gli Scettici44. È indubbio che anche sull’uomo, come sulla natura, tale dottrina oscillò fra una posizione tesa ad affer­ mare la totale inconoscibilità del medesimo, ed una dottrina tesa a sospendere il giudizio su tale inconoscibilità45. Pur non definendo mai l’uomo - essendo il fine del pensiero scettico la critica di ogni dogmatismo, dunque anche di ogni definizione46 - , lo Scetticismo si configurò comunque, come detto, come una forma di saggezza pratica caratterizzata da chiare indicazioni etiche, le quali inevita­ bilmente restituiscono in controluce una certa immagine dell’anthropos47. 41 Rinviamo in merito a diversi saggi presenti in Voelke 1990. 42 In Trabattoni-Vegetti 2016, voi. Ili, p. 56. Di questo autore, rinviamo all’ottimo Spinelli 2005. 43 Id., p. 56 44Molto interessante in merito Fogelin 1994. 45 Emblematica in merito la posizione di Sesto Empirico (Lineamenti pirronìani, 1, 163, 215, 218-219; II, 87; III, 179). 46 Come scrive Crispolti 2014 (p. 113), per lo Scetticismo, emblematica­ mente espresso nella posizione di Sesto Empirico, «l’uomo e le sue rappresen­ tazioni sfuggono a qualsiasi tentativo definitorio». Per conseguenza, anche «la felicità non può essere definita» (Id., p. 115). 47 Brancacci (in Giannantoni 1981, voi. I, p. 214) lamenta che nel tempo si è per vari motivi addivenuti ad «un sostanziale misconoscimento dell’aspetto etico» della filosofia di Pirrone, ancora presente ad esempio in Brochard 2002 (1887). Dal Pra 1975 (voi. I, pp. 39-82) ha sottolineato invece lo sfondo socra­ tico e cinico del Pirronismo, ed il suo inquadramento nel dibattito delle scuo­ le morali dell’epoca. Ciò emerge soprattutto dalle più antiche testimonianze,

264

C a p ito lo V I

Innanzitutto, nonostante la ragione sia determinante nella ri­ cerca che conduce lo Scetticismo a ritenere la realtà inconoscibile, proprio per la inconoscibilità della realtà la componente razionale non risulta essere la più rilevante nell’uomo scettico. Non potendo infatti contare su una episteme da raggiungere, sulla quale fondare stabili progetti, l’uomo descritto dallo Scetticismo tende ad agire più che altro adeguandosi alla situazione, cercando in questo modo di conservare nella maniera maggiore possibile la imperturbabili­ tà. Si tratta in certo senso, come già ricordato, di un adattamento alle esigenze della physis all’interno di un determinato contesto storico-sociale, ma in un modo molto differente rispetto alla rea­ lizzazione attiva delle componenti razionali e morali della natura umana argomentata dalla filosofia classica. L’uomo scettico, per realizzare il proprio fine (la imperturba­ bilità), adottò infatti una sorta di passivizzazione adattiva spinta fino ai limiti dell’individualismo, il che sul piano sociale conduceva necessariamente al conservatorismo48. In effetti, come ha mostra­ to Sesto Empirico in Contro gli etici, non esistendo per gli Scet­ tici stabili coordinate onto-assiologiche, era impossibile per loro proporre coerentemente una qualunque norma etica. Tanto valeva allora adattarsi, nei problemi pratici, alle consuetudini vigenti, in quanto tale comportamento era quello che poneva in essere il mi­ nore grado di attività, e pertanto di turbamento49. In Pirrone è in

come quelle di Timone, Eratostene ed Antigono. In tale direzione anche De Luise-Farinetti 1997 (p. 107), per i quali «Pirrone si pone nella stessa tradizione socratica aperta soprattutto da Antistene, ma variamente attraversata da tutto il socratismo minore». Di Socrate Pirrone amplificò soprattutto il messaggio del «non sapere» e della necessaria «autonomia». 48 Come ci narra Diogene Laerzio, «Pirrone non perdeva mai la sua com­ postezza». Tuttavia, «quando una volta Anassarco cadde in un pantano, Pir­ rone continuò la sua strada senza aiutarlo» ( Vite dei filosofi, IX, 63). Il fatto che Anassarco lo abbia successivamente lodato perla impassibilità dimostrata, non toglie che si sia qui agli antipodi dell’etica greca, basata sulla cura degli altri e sul senso della appartenenza comunitaria. Come afferma Reale 2004 (voi. V, p. 11) con riferimento all’intera epoca ellenistica, sovente «questa nuo­ va signoria dell’individuo degenera nell’individualismo e nell’egoismo, di cui troviamo paradigmatici esempi nell’etica [...] di Pirrone». 49 Secondo quanto ci riporta Diogene Laerzio (Vite dei filosofi, IX, 61), per Pirrone «gli uomini agiscono in tutto per convenzioni ed abitudini». Così anche per Sesto Empirico [Lineamentipirroniani, I, 23-24), «noi scettici, riferendoci ai fenomeni, viviamo senza dogmi, osservando le norme della vita comune, perché non possiamo vivere senza fare [...]. Questo osservare la vita comune consiste, parte, nella guida della natura [...], parte nella tradizione delle leggi e delle consuetudini». Sul conservatorismo pirroniano concorda Dal Pra 1975

Ellenismo. Scettici, Epicurei, Stoici

265

effetti più volte tematizzata come centrale la apragmosyne, ossia il consapevole disimpegno dalle cose pratiche per acquisire imper­ turbabilità50. La tesi del “conservatorismo” dell’uomo scettico risulta co­ munque anch’essa problematica. Tale “conservatorismo” rappre­ sentava infatti, più che altro, una sostanziale presa di distanza dal consorzio mondano. Non è casuale in merito che, un po’ come i Cinici, anche gli Scettici ritenessero artificiosa la vita degli uomini e naturale la vita agli animali, indicando talvolta negli animali sempre, ovviamente, con tutte le riserve scettiche - il modello di comportamento più naturale da emulare51. Al di là, tuttavia, di queste generiche indicazioni, lo Scetticismo costituì una diathesis difficile da comunicare ad altri, e questo si­ curamente creava un problema sul piano teoretico ed etico (che si traspone oggi sul piano storico per la ricostruzione delle relative dottrine). La difficoltà principale dello Scetticismo, come già abbia­ mo rilevato, era infatti quella di conciliare la propria posizione te­ orica con l’azione pratica. La prima condizione per poter esercitare l’azione morale era in effetti quella di mantenersi in vita, ma una esistenza condotta come quella che molte testimonianze attribui­ scono a Pirrone, non lo assicurava52. Colui che sospende totalmente il giudizio, infatti, non è in grado di conservare il proprio essere, in quanto si può realmente sospendere ogni giudizio solo se non si mira ad alcun fine, nemmeno a quello naturale della sussistenza. Per questo motivo sono da tenere in maggiore considerazione le testimonianze, già ricordate, che mostrano come Pirrone facesse al contrario molta attenzione alle esigenze della physis53. (voi. I, p. 73), secondo cui «gli uomini, per Pirrone, discorrono molto di giusto e di ingiusto, di buono e di cattivo; ma in verità tutto quello che fanno lo fanno ispirandosi alle leggi ed alle tradizioni». Discorda invece da questa interpreta­ zione, ponendo in evidenza la eccentricità degli atteggiamenti scettici, Russo 1978 (p. 29), per il quale «lo Scettico non accetta il criterio delle maggioranze nè in teoria nè in pratica». 50Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX, 64-65. 51 Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX, 67. Su questa tematica, rinviamo a Deeleva Caizzi 1993. 52 Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX, 68-69. 53 In merito a questo tema, Trabattoni (in Bonazzi-Celluprica 2005, p. 49) ha sostenuto che per gli Scettici «per agire, non è necessario l’assenso (come vogliono gli Stoici), perché l’impulso nasce per tutti in modo naturale, ed è diretto verso ciò che appare come proprio (ossia come bene). Tutti gli uomini, insomma, desiderano per natura ciò che sembra loro contribuire alla propria felicità. Per tale motivo la sospensione del giudizio non interdice l’azione [...], perché non è il giudizio a stimolare l’azione, ma il desiderio di essere felici».

266

C a p ito lo V I

Da quanto finora affermato emerge comunque chiaramente la distanza che separa lo Scetticismo dai sistemi di Platone ed Ari­ stotele. Con le riassuntive parole di Reale, «l’Idea platonica e la forma aristotelica, sia pure in differente modo, fondano la natura delle cose, la loro intelligibilità, e, quindi, la possibilità della loro conoscenza, nonché la stabilità e l’eternità dei valori. Tutte le cose, insomma, nella ontologia platonico-aristotelica, hanno una stabi­ lità nell’essenza [...], e pertanto posseggono una differenziazione, una misura e una discriminazione oggettiva. Al contrario, secondo Pirrone le cose non hanno alcuna differenza, né misura, né discri­ minazione. Ne segue che non esistono valori»54. Lo Scetticismo infatti, per la propria struttura teoretica, non rintracciò nell’uomo una essenza stabile di ordine razionale e mo­ rale definibile una volta per tutte55, bensì, come scrisse Francesco Adorno, «un essere che è nel suo stesso farsi»56. Tale descrizione richiama quella presente nella poesia lirica corale ed in una par­ te della Sofistica, in cui in sostanza era descritto un uomo che, in assenza di una definita essenza, tendeva appunto ad adattarsi - in quel caso attivamente, in questo caso passivamente - alle modalità sociali del proprio tempo. Nessuna progettualità politico-sociale fu in effetti presente nell’uomo tematizzato dal pensiero scettico. Ciò emerge in maniera evidente soprattutto nei primi due libri Contro i matematici di Sesto Empirico, in cui si centralizza la validità del senso comune nella vita pratica quotidiana, insieme all’utilità di alcune technai come la medicina e la scrittura57. Al di là, dunque, di una ricerca che continua sempre, mettendo in luce implicitamente (ma non ammettendola) la natura razionale dell’uomo; al di là di un comportamento che tende sostanzialmente ad un quieto vivere comunitario, mettendo in luce implicitamente (ma non ammettendola) la natura morale dell’uomo, l’immagine dell’anthropos che deriva dalle varie testimonianze dello Scettici­ smo risulta sicuramente di non facile lettura. Ciò anche in quan-

II giudizio sarebbe dunque sospeso, per gli Scettici, solo sulle questioni filoso­ fiche. 54 Reale 2004, voi. VI, pp. 16-17. 55 Sesto Empirico, Contro i dogmatici, I, 263 ss. 56 In Giannantoni 1981, voi. II, p. 483. 57 Scrive in merito Magrin 2004 (p. 10): «Che cosa lega senso comune, technai e linguaggio? Il loro comune radicarsi nella immediatezza della espe­ rienza sensibile, in ciò che appare così come appare ad un dato individuo in un dato momento; cioè, per usare un termine tecnico dello scetticismo pirroniano, nel phainomenon che si manifesta attraverso i pathe».

Ellenismo. Scettici, Epicurei, Stoici

267

to lo stesso Scetticismo, come ora mostreremo, risulta essere una tradizione piuttosto composita, non certo identificabile con la sola dottrina di Pirrone. Esso infatti, come detto inizialmente, è costi­ tuito da un insieme in parte eterogeno di dottrine elaborate lungo l’arco di circa sei secoli58. Di esse, in rapporto all’uomo, forniremo ora un sintetico quadro. Lo Scetticismo dopo Pirrone: l’A ccademia diArcesilao e Cameade Dopo Pirrone, lo Scetticismo si sviluppò in varie forme soprat­ tutto all’interno della Accademia, principalmente nei periodi della direzione di Arcesilao di Pitane (315-240 c.a.), ossia nella cosid­ detta “Accademia media”, e di Cameade di Cirene (214-128 c.a.), ossia nella cosiddetta “Accademia nuova”, culminando tra II e III secolo dopo Cristo nella figura di Sesto Empirico59. Può essere allo­ ra opportuno, dato che la storia dello Scetticismo postpirroniano si intreccia con quella della Accademia postplatonica, cercare di deli­ neare alcune posizioni presenti nella medesima60. Diogene Laerzio ci rammenta che quasi da subito, dopo la mor­ te di Platone, si sviluppò intorno al suo pensiero una grande con­ troversia all’interno dell’Accademia61. Quest’ultima in effetti, in diversi suoi esponenti, assunse una coloritura scettica, prendendo

58 Come scrive Bonazzi 2003 (p. 12), «contrariamente a quanto per lunga tradizione si è pensato, lo scetticismo antico non è riducibile ad un’unica for­ ma, ma si differenzia in modelli alternativi in concorrenza tra loro. Le polemi­ che tra Platonici, Academici e Pirroniani contribuiscono in modo decisivo a far emergere la ricchezza di tradizioni che solo a prezzo di forzature ingiustificate possono essere riunite nella generica categoria che intende gli scettici come negatori della possibilità della conoscenza». 59 Sulla figura di Sesto Empirico e sul suo rapporto col Pirronismo, rinvia­ mo a Floridi 2002. 60 Sui rapporti tra riflessione pirroniana ed accademica si discute almeno dai tempi di Arcesilao. Tuttavia, come scrive Chiesara 2003 (pp. 3-4), «Pir­ roniani e Neo-Pirroniani furono sempre molto attenti a prendere le distanze dagli Accademici, rivendicando a sé la qualifica di scettici. Ed effettivamente, nonostante le contaminazioni che via via ebbero luogo, le due posizioni sem­ brano aver avuto genesi indipendenti e sviluppi differenti, che è utile man­ tenere distinte se si vuole comprendere su basi storiche fondate il significato filosofico di quello che oggi chiamiamo scetticismo greco, nelle sue due anime, legate l’una al pensiero di Pirrone, l’altra a quella di Socrate e Platone». Dal Pra 1975 (voi. I, pp. 124-125) sostenne viceversa il chiaro influsso del Pirronismo sullo Scetticismo della Accademia, a cominciare proprio da Arcesilao. 61 Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, III, 51. Rinviamo in merito a Tarrant 1985 e Sihvola 2000.

268

C a p ito lo V I

come riferimento alcuni dialoghi platonici come il Menone o il Teeteto, in cui la possibilità di raggiungere una conoscenza verita­ tiva fu posta radicalmente in discussione62. Sia in Socrate che in Platone vi furono in effetti diversi spazi aporetici, ossia posizioni di dubbio e di sospensione temporanea del giudizio. Essi tuttavia furono sempre dialetticamente finalizzati alla ricerca della verità, sicché risulta in questo senso discutibile la “fedeltà platonica” della Accademia scettica. Se infatti il sapere fosse strutturalmente inac­ cessibile all’uomo, come in sostanza ritiene lo Scetticismo, il valore dell’intera filosofia morale e politica platonica sarebbe minato dalle fondamenta63. Indipendentemente comunque dal rapporto con l’o­ riginario pensiero di Platone, ci occuperemo qui brevemente solo della cosiddetta Seconda e Terza Accademia, le più significative come detto dal punto di vista dello Scetticismo, i cui capiscuola fu­ rono rispettivamente Arcesilao e Cameade64. In merito ad Arcesilao, noto per avere addirittura negato il so­ cratico «sapere di non sapere» (nel senso che a suo avviso non si è in grado nemmeno di «sapere di non sapere»), occorre ricordare che egli utilizzò il metodo dialettico platonico non tanto in funzione costruttiva, quanto soprattutto in funzione critica contro lo Stoi­ cismo65. Egli infatti, mentre sul piano pratico raccomandò l’afasia (almeno in una prima fase), sul piano teoretico criticò ripetutamente i falsi dogmi, ovvero le posizioni delle altre scuole dell’epo­ ca, a suo avviso non sufficientemente problematizzate66.

62 Su questa tematica, rinviamo a Ioppolo 2004. 63 Platone esorcizzò questo pericolo, come noto, affermando che l’anima dell’uomo, in particolare la sua parte razionale, risulta ontologicamente affine all’essere autentico, ossia al mondo delle Idee. Proprio grazie a questa affinità può giungere alla sua conoscenza (sulla funzione epistemologica della syngeneia, rinviamo ad Aronadio 2002, pp. 27-82). 64 Sesto Empirico, Lineamenti pirroniani, I, 220. Circa la testimonianza di Sesto Empirico sulla Accademia scettica, rinviamo all’ottimo Ioppolo 2009. 65 Cicerone, Academica Posteriora, I, 12, 44-45. Reale 2004 (voi. VI, p. 55) ha affermato in merito che «lo Scetticismo di Arcesilao finisce per ridursi, in ultima analisi, a un tentativo di rovesciamento dei dogmi della Stoa, senza alcuna capacità di proporre positive alternative di alcun genere. Tale forma di Scetticismo è di breve respiro e di limitata vita». Molto duro lo studioso fu del resto anche con la Accademia di Cameade, cui attribuì un pensiero «puramen­ te negativo e distruttivo» (Id., p. 59). 66 In questo senso anche Robin 1944. Annamaria Ioppolo (in Giannantoni 1981, voi. I, p. 145) sostiene però che questa affermazione può al più essere valida per Cameade, non per Arcesilao.

Ellenismo. Scettici, Epicurei, Stoici

269

Arcesilao, inoltre, assolutizzò Yepoche, perché di nulla vi è mai assoluta evidenza67. Poiché tuttavia, come ricordato, la sospensio­ ne radicale del giudizio implicava una sostanziale difficoltà anche nel sopravvivere, Arcesilao dovette lungamente impegnarsi ad ar­ gomentare che nelle imprescindibili scelte della vita, mancando il vero come criterio di riferimento, occorreva seguire Yeulogon (da intendere come ciò che è ragionevole)68, sicché a suo avviso si pote­ va agire moralmente compiendo azioni rette anche senza la verità, riuscendo ugualmente ad essere felici. Dopo Arcesilao, lo Scetticismo accademico riprese vigore con Cameade, il quale pure negò ogni esistenza della verità69. Egli si distinse per avere affermato che non ci si deve rifare all’eulogon come criterio per risolvere il problema della vita pratica, bensì al pithanon (da intendere come ciò che è persuasivo)70. Prima di terminare la propria esistenza nell’86 a.C. l’Accade­ mia propose un ultimo scolarca, Filone di Larissa (159-83 c.a.), che tuttavia non fornì novità di grande rilievo in merito alla tematica dell’uomo71. Dopo di lui, come ha ricordato Chiaradonna, «dal I secolo a.C. comincia un progressivo sforzo di interpretazione di Platone in senso non più scettico, ma sistematico»72, come fece­ ro appunto i cosiddetti Medioplatonici73, a cominciare da Antioco d’Ascalona. Il “sistematizzatore” dello Scetticismo: Sesto Empirico Qualche cenno, per concludere, va riservato alla figura culmi­ nante di Sesto Empirico74. Sulla scorta infatti dei precedenti studi

67 Sesto Empirico, Lineamenti pirroniani, I, 232 ss. 68 Sull’eulogon le principali informazioni ci vengono da Sesto Empirico (Contro i matematici, VII, 158), per il quale appunto Arcesilao non era un vero scettico, come non lo era Platone (Lineamentipirroniani, I, 222). 69Sesto Empirico, Contro i matematici, VII, 159. 70Id., VII, 166. 71 Su Filone di Larissa, rinviamo a Brittain 2001. 72 Chiaradonna 2017, p. 15. 73 Sul Medioplatonismo, rimandiamo a Dillon 1977 e Vimercati 2015. 74 Per Adorno, «lo scetticismo nasce con Sesto [...] perché è con lui, in un preciso periodo, che si costruisce il libro dei modi di pensare criticamente, in cui si possono riconoscere, nelle loro argomentazioni, coloro che assumono a propria via (a metodo) un preciso tipo di ricerca (scepsi) che sospende (epo­ che) ogni presunta mathesis definitiva ed esclusiva su quella che possa essere la realtà» (in Giannantoni 1981, voi. II, p. 453). Non è casuale, dunque, che si sia iniziato a parlare di Scetticismo come “scuola” solo dopo Sesto Empirico.

270

C a p ito lo V I

di Enesidemo75, che tematizzò una netta opposizione fra dogmati­ smo e Scetticismo, Sesto Empirico giunse ad affermare che dell’uo­ mo non è possibile conoscere con verità pressoché nulla, dato che la ricerca, la quale pure deve essere sempre continuata, si trova innanzi su ogni argomento tesi contrastanti di uguale forza e valore (isostheneia)76. Per questo occorre necessariamente, a suo avviso, sospendere il giudizio. Sesto Empirico, che è l’unico esponente dello Scetticismo di cui ci sono rimaste molte opere pressoché per intero, si impegnò an­ ch’egli soprattutto nella critica delle altre scuole filosofiche. Sesto si appuntò in particolare contro la filosofia classica, argomentando - contrariamente a quanto aveva scritto Aristotele nella Metafisica contro i critici del principio di non contraddizione - che gli Scet­ tici possono esporre le loro tesi ed agire coerentemente nella vita quotidiana77. Anche loro infatti, come già rimarcato, si lasciano so­ stanzialmente guidare dal ragionevole (Arcesilao), dal persuasivo (Cameade), dalle consuetudini (Sesto Empirico)78, semplicemente accontentandosi di valori provvisori, radicati cioè non nella natura delle cose ma nella situazione contingente, alla quale occorre sa­ persi adattare.

Per la figura di Sesto Empirico nel pensiero antico, rimandiamo ad Aa.Vv. 1992 e Bailey 2002. 75Sulla figura di Enesidemo (80-10 c.a.), interessanti spunti in Voelke 1990 e Burnyeat-Frede 1997. Anche il Neoscetticismo di Enesidemo con i suoi dieci tropi - ossia la tavola delle supreme categorie del dubbio (su cui Reale 2004, voi. VI, pp. 121-32) - tendeva ad insistere sul fatto che negli uomini le sensazio­ ni sono contrastanti (primo tropo), che fra i vari uomini sussistono differenze radicali (secondo tropo), che anche in ciascun uomo in diversi contesti le per­ cezioni possono variare (terzo tropo), che vi possano essere differenze di dispo­ sizioni e stati d’animo (quarto tropo), differenze di opinioni (quinto tropo), ecc. (Diogene Laerzio, Vite deifilosofi, IX, 79, ss.) Il Neoscetticismo assunse poi con Agrippa esiti ancor più radicali (in merito rinviamo, per omogeneità espositiva, sempre a Reale 2004, voi. VI, pp. 151-158). 76 Questa opposizione emerge soprattutto, in Sesto Empirico, nel testo Contro i dogmatici. 77 Sesto Empirico, Contro i matematici, XI, 162-164. 78 Per Sesto si può parlare di una sorta di «etica del senso comune» {Li­ neamenti pirroniani, II, 102; 246). Come scrive Reale 2004 (voi. VI, p. 178), «il vivere secondo l’esperienza comune e secondo la consuetudine è possibile, secondo Sesto, conformandosi a queste quattro regole elementari: a) seguire le indicazioni della natura, la quale tramite i sensi e la ragione ci dice ciò che ci è utile; b) seguire gli impulsi delle affezioni che ci spingono a mangiare quando proviamo fame, o a bere quando sentiamo sete; c) rispettare le leggi e i costumi del proprio paese [...]; d) non restare inerti, ma esercitare un’arte».

Ellenismo. Scettici, Epicurei, Stoici

271

Ad ulteriore riprova di una rilevante presenza della riflessione razionale e morale nello Scetticismo, occorre rimarcare che l’adat­ tamento di cui parla Sesto richiede anch’esso l’esercizio di una ca­ pacità onto-assiologica critica. Così è in quanto le false opinioni, anche quelle più presenti in un certo contesto storico-sociale, co­ stituiscono una evitabile fonte di turbamento, che deve essere com­ presa come tale ed appunto evitata. L’uomo, per Sesto, non può fare molto contro i turbamenti inevitabili, quali ad esempio i dolori che provengono dal corpo e dai sensi. Può fare molto però contro i turbamenti evitabili, ossia quelli che provengono dalle false opinio­ ni, le quali, proprio in quanto false, sono confutabili. Vivendo in società, indubbiamente anche lo Scettico, per so­ pravvivere, deve conformarsi agli usi vigenti, pur senza dare ad essi alcun assenso, dato che nessuna opinione è vera, essendo tutte le opinioni senza fondamento nella realtà79. Per questo, come Sesto ri­ badisce costantemente nei Lineamenti pirroniani, lo scettico deve attuare un atteggiamento di sistematica sospensione del giudizio, quanto meno relativamente alle grandi questioni filosofiche (per le questioni quotidiane, come detto, basta un vigile adattamento al senso comune), data l’impossibilità di giungere a verità definitive. Occorre in ogni caso sottolineare, come sovente opposero allo Scetticismo gli epigoni della filosofia classica, che in assenza di una definita concezione della natura umana, e di conseguenza in as­ senza di un fine definito in grado di orientare verso il bene la vita, si rimane inevitabilmente in balia delle circostanze, alle quali non è sempre agevole riuscire ad adattarsi. Non è detto inoltre che tale adattamento, anche quando sia possibile, conduca alla riduzione del turbamento: per i classici infatti, data la natura razionale e morale dell’uomo, l’adattamento ad una situazione sociale ingiu­ sta crea turbamento, in quanto appunto derealizza l’umanità della persona. Il rapporto fra teoria e prassi rimase in effetti anche nell’opera di Sesto Empirico una crux dello Scetticismo. In Sesto, così come nello Scetticismo precedente, risulta piuttosto chiaro il nesso fra vita condotta nella epoche e conseguente ataraxia. Egli tuttavia solo raramente esplicito tale nesso80, in quanto esso esprimeva appunto un rapporto dogmatico fra teoria (epoche) e prassi (ata­ rassia), ossia un bios consigliato che lo Scetticismo, in quanto ne­

79 Rinviamo in merito anche alle interessanti considerazioni di Spinelli 2004. 80Ad esempio Lineamenti pirroniani, 1,28.

272

C a p ito lo V I

gatore di ogni tipo di dogma, doveva necessariamente evitare81. La sua implicita presenza, in ogni caso, conferma in maniera indiretta 1’esistenza di un carattere insieme razionale e morale della natura umana, per quanto esso fosse dallo Scetticismo apertamente nega­ to, poiché ritenuto, come ogni tesi, un dogma della cui verità non si può essere certi.

3. Epicureismo Note generali Come noto, nell’Epicureismo, la figura di riferimento fu quella di Epicuro (341-270 c.a.)82. Il suo pensiero fu infatti seguito dagli autori successivi che a lui si richiamarono, i quali cercarono princi­ palmente di integrare la sua dottrina su aree rimaste scoperte, o in cui gli scritti del maestro non erano pervenuti83. Ciò risulta in ma­ niera chiara soprattutto per Lucrezio - l’Epicureo più importan­ te, del quale tratteremo all’interno della cultura latina - , il quale riprese in poesia la trama scientifica del Peri physeos di Epicuro84, l’opera più rilevante del maestro. Tutto questo, naturalmente, sen­ za voler negare l’esistenza di una dialettica interna ad una comuni­ tà di vita - quella del Giardino (Kepos), la scuola fondata da Epi­ curo - che era anche una comunità di ricerca, sebbene strutturata in maniera differente rispetto all’Accademia di Platone ed al Liceo di Aristotele85.

81 Coglie questa aporia anche Crispolti 2014 (p. 21), quando afferma, con riferimento a Sesto: «Che il legame epoche-ataraxia non sia assunto come ne­ cessario e vincolante e che, nonostante questo, la dynamis del Pirronismo si esplichi nel continuare a portare argomenti per quel telos, parrebbe una apo­ ria». 82Su Epicuro la bibliografia è come noto vastissima. Rinviamo soltanto, per una visione di insieme, a De Witt 1954, Farrington 1967, Rist 1978, Pesce 1980, Hossenfelder 2006, Giovacchini 2008, Morel 2009, e soprattutto all’ottimo Verde 2013. 83 Vi fu in effetti un vero e proprio «culto di Epicuro» (Beretta-Citti-Iannucci 2015). Longo Auricchio-Tepedino Guerra 1981 e Angeli 1988 hanno co­ munque messo in evidenza anche alcuni dissensi tra vari «centri epicurei» su diverse questioni. 84 Su questa vicinanza ha particolarmente insistito Sedley 2008. Studi re­ centi (ad esempio Bakker 2016) stanno tuttavia sempre più sfumando questa posizione. 85II Giardino era una «comunità senza rivolta» (Capasso 1987), fondata sul­ la philia e sulla koinonia di vita e di ricerca. Sul Kepos, rinviamo a Rodis-Lewis

Ellenismo. Scettici, Epicurei, Stoici

273

All’interno del Giardino, invalse una tripartizione del sapere in canonica, fisica ed etica. All’interno di questa divisione, l’etica ebbe sicuramente il primato86. La canonica - da canon, regola: una epi­ stemologia più che una logica - era infatti ritenuta necessaria per la conoscenza della fisica, così come la fisica era ritenuta necessaria per la conoscenza dell’etica87. Questo in quanto per Epicuro la fe­ licità consiste nella realizzazione della natura umana, la quale può avvenire solo nel rispetto della physis complessiva, dunque anche delle sue regole di conoscenza88. Soffermiamoci ora sulla centrale figura di Epicuro. Epicuro: fra verità e felicità Nato a Samo nel 341, Epicuro si trasferì ad Atene intorno al 306, ove fondò la prima delle grandi scuole ellenistiche, sulla base delle precedenti esperienze di scuola svolte a Colofone, Mitilene e Lampsaco89. Il passaggio ad Atene segnò idealmente una vera e propria sfida alle scuole fondate da Platone ed Aristotele. Il con­ trasto fra la visione di Epicuro e la filosofia classica, in particolare quella di Platone, fu in effetti molto netto90. Ciò in quanto Epicuro, da «materialista» (utilizziamo qui virgolettata la medesima espres-

1976. Sulle differenze fra Kepos e Peripatos, rinviamo a Gigante 1999. 86 Scrive correttamente Verde 2013 (p. 159) che «dal momento che il pen­ siero di Epicuro si organizza in un sistema tripartito e orientato, è fuori discus­ sione che l’etica sia il coronamento e l’autentico fine della filosofia». 87 Ci permettiamo di rinviare, in merito all’approccio fisico-naturalistico di Epicuro, a Grecchi 2018 a, pp. 236-250. Sulla sistematica divisione del sapere in Epicuro, rimandiamo a Diogene Laerzio, Vite deifilosofi, X, 29 ss. 88 Come scrive D. De Sanctis (in De Sanctis-Spinelli-Tulli-Verde 2015, p. 58), «saldo e costante resta per Epicuro il legame tra analisi fisica e salvezza dell’uomo». In questo senso anche Arrighetti 1978 e Manolidis 1987, pp. 118123. 89Schmid 1984 (p. 14) nota che tale lontananza da Atene ebbe per Epicuro «un’importanza particolare, in quanto essa contribuì a preparare quella che si potrebbe chiamare la dimensione ecumenica del filosofo: il quale, anche dopo essersi definitivamente stabilito ad Atene, non solo non interrompe i contatti con i discepoli e gli amici in Asia e sulle isole, ma anzi coltiva intensamente ed amplia le sue relazioni con le comunità lontane come basi strategiche della propria dottrina». 90 Come scrisse Reale, «l’avversione nutrita dal filosofo sia per Platone sia per Aristotele fu radicale, e non conobbe mezze misure» (Reale 2004, voi. V, p. 116). Emblematico in tal senso Bignone 2007 (1936), testo che, per quanto assai invecchiato, mostra come Epicuro, verosimilmente lettore soprattutto delle opere essoteriche di Aristotele, tese a considerare lo Stagirita come un platonico, accomunando il giudizio negativo.

274

C a p ito lo V I

sione usata - con tutte le precisazioni del caso - per Democrito, dal quale, pur non riconoscendo molto il debito, il Nostro riprese buona parte della teoria atomistica), non condivideva la metafisi­ ca platonico-aristotelica, così come la dimensione politica di tale filosofia91. Il contrasto con la filosofia classica emerse inoltre per il fatto che Epicuro non parve disposto a concedere un primato alla teoria sul­ la prassi92. Egli cioè, pur considerando fondamentale la conoscenza della natura, non fu disposto a concedere un primato alla verità sulla felicità, ritenendo realmente filosofici solo quei contenuti fi­ nalizzati appunto non tanto al raggiungimento della verità, quanto alla realizzazione di una maggiore felicità93. La dialettica platonica venne per conseguenza da Epicuro considerata superflua se non dannosa, e come le scienze descritte da Platone nella Repubblica in quanto preliminari al raggiungimento della vera conoscenza (geometria, musica, astronomia)94. Sorte analoga fu riservata alla dialettica ed alle scienze aristoteliche, così come più in generale a tutti quei saperi specialistici (mathemata) il cui studio risultava per Epicuro fine a sé stesso, privo di una diretta utilità per l’uomo959 . 6 Occorre tuttavia non eccedere in facili semplificazioni circa l’opposizione con l’approccio classico. Anche in Epicuro risultano infatti presenti studi astronomici e cosmologici, apparentemente privi di una immediata utilità. Il fine principale, ossia il raggiun­ gimento della felicità, non poteva del resto essere raggiunto senza una adeguata conoscenza teoretica, quanto meno, della physis9é. Risultano inoltre centrali nella sua opera, come ora mostreremo,

91 Rinviamo in merito a Silvestre 1985 e Giovacchini 2012. Un confronto con Democrito per quanto concerne l’etica è invece in Warren 2002. 92 Questa convinzione si presenta tuttavia in maniera piuttosto aporetica, come afferma anche Pesce 1974 (p. 18). 93In Epistola a Meneceo 132, alla sophia (per quanto tali termini non siano sempre utilizzati in maniera univoca) venne infatti da Epicuro sovraordinata la phronesis, in quanto il problema della vita felice era per lui il problema per eccellenza dell’uomo. 94 Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, X, 31; Epistola a Erodoto, 37 ss. 95 Epicuro, come ha sostenuto Lévy 2002 (p. 30), «considerava il sapere enciclopedico della sua epoca come un insieme di chimere da cui bisogna ne­ cessariamente staccarsi per giungere alla filosofia». Questa è anche la testi­ monianza di Cicerone (Definibus, I, 72), del resto conforme al prologo della Epistola a Meneceo. Verde 2016 ha comunque messo in evidenza come i ma­ themata utili per l’uomo fossero per Epicuro molto importanti. 961 37 libri Sulla natura di Epicuro, in parte riassunti nella Epistola a Ero­ doto e nella Epistola a Pitocle, erano senza dubbio funzionali al raggiungimen­ to di tale condizione.

Ellenismo. Scettici, Epicurei, Stoici

2-75

alcune tematiche tipiche del pensiero classico, come quelle del metron, della philia, della koinonia, nonché la conoscenza del vero come stabile rimedio alle paure. Come ha ricordato Antonina Al­ berti, «conformemente ad un principio ben radicato nel pensiero filosofico greco e risalente a Socrate e Platone, anche per Epicuro il Bene e il Vero coincidono, e non può darsi che una verità dia luogo ad un male per l’uomo, né può darsi alcun bene o felicità che sia costruito sull’inganno e sulla falsità»97. Per Epicuro, infatti, «è il ragionamento che provvede alle cose maggiori e più importanti»98. Per Epicuro in effetti, a differenza che per lo Scetticismo, la re­ altà era dall’uomo in larga parte conoscibile, per la sua stessa strut­ tura atomica99. In questo senso la physiologia risulta essere il crite­ rio conoscitivo fondamentale per comprendere l’opera di Epicuro, dato che solo conoscendo la physis si può raggiungere la felicità100. Nella esortazione finale della Epistola a Erodoto ed in quella della Epistola a Pìtocle, è Epicuro stesso infatti ad affermare che solo chi avrà compreso le dottrine fondamentali sulla physis assumerà una invidiabile imperturbabilità101. La natura ci indica in effetti la struttura ed il fine del nostro essere, dunque cosa fare per vivere in maniera conforme a quanto da esso richiesto102. La necessaria ricerca della verità - sebbene non come fine, ben­ sì come mezzo per il raggiungimento della felicità - testimonia che anche per Epicuro una delle caratteristiche principali dell’uomo è costituita dalla sua natura razionale103. L’uomo infatti desidera co­

97Alberti 1988, pp. 122-123. Concorde in questo senso anche Mitsis 1988, pp. 1-10. In senso contrario, secondo cui per Epicuro l’operazione terapeutica può prescindere dalla verità, Nussbaum 1986, pp. 31-74. 98Massime capitali, XVI-XVII. 99Sui rapporti fra Epicureismo e Scetticismo, rinviamo a Gigante 1981. Non ci addentriamo invece nei dettagli della teoria dei simulacri, la quale costitui­ sce la spiegazione “materialistica” di questa affermazione. Ricordiamo soltanto che questa teoria (su cui Lèvy 2002, pp. 56-60) presenta sul piano fisico più di un problema. 100Massime capitali, XII; XXV. 101 Ciò è ribadito anche nella Sentenza Vaticana VL, oltre che in due celebri Massime Capitali, la XI e la XII. Rinviamo in merito a Mitsis 1988. 102Pesce 1980, p. 130. 103Da rilevare tuttavia, come scrive P.M. Morel (in De Sanctis-Spinelli-Tulli-Verde 2015, p. 131), «l’atteggiamento critico degli Epicurei nei riguardi del­ la dimostrazione». Esso è stato in effetti anche recentemente sottolineato, ad esempio da Asmis in Warren 2009 e da Giovacchini 2012, pp. 167-169. Cicero­ ne del resto, già nella antichità, criticava gli Epicurei di essere stati dei cattivi logici (Definibus, I, 22). Ciò nonostante Epicuro non negò mai che anche la connessione logica tra le proposizioni costituisse una prova in favore di una

276

C a p ito lo V I

noscere poiché ritiene ciò necessario per realizzare la propria natu­ ra, essendo appunto questa conoscenza imprescindibile per il rag­ giungimento della felicità104. Poiché tuttavia, come mostreremo, la natura dell’uomo per Epicuro non è solo razionale ma anche mora­ le, tale conoscenza risulta necessaria ma non sufficiente, richieden­ do anche, a tale fine, una virtù etica in grado di moderare i desideri. Epicuro, pur non ricercando esplicitamente definizioni, ritenne molto importante la chiarezza del linguaggio. Essa infatti permette di ben «giudicare delle opinioni e di ciò che è oggetto di indagine o che presenta difficoltà, sia affinché tutto per noi non sia confuso, procedendo all’infinito nelle dimostrazioni, e sia affinché non si possiedano altro che delle vuote parole»105. Per questo egli adottò sovente, soprattutto nelle lettere, uno stile molto chiaro per ri­ assumere i tratti principali delle proprie dottrine, finalizzato ap­ punto alla pronta fruibilità dei contenuti filosofici per le esigenze della vita. La centralità del piacere e la filosofia come farmaco Come ricordato in precedenza, nell’Epicureismo il primato, fra i vari campi del sapere, appartiene all’etica. Così è in quanto il fine di ogni conoscenza è il conseguimento per l’uomo della felicità, da ottenere appunto mediante adeguati comportamenti106. Poiché, tuttavia, la canonica e la fisica costituiscono conoscenze necessarie per l’etica, la physiologia, soprattutto umana, ha sempre rivestito per Epicuro una grande importanza107.

certa tesi. Semplicemente, riteneva molto più importante la comprensione dei fenomeni. Questo in quanto, come rimarca ancora Morel (Id., p. 133), in Epicu­ ro «solamente una relazione empirica con la realtà attesta la validità delle no­ stre rappresentazioni e dei nostri giudizi». Gli Epicurei, insomma, criticavano principalmente il formalismo di certe dimostrazioni. 104 Sul tema della felicità in Epicuro, rinviamo all’ottimo Duvernoy 2005. 105Epistola a Erodoto, 37. 106VEpistola a Meneceo (132 ss.) mostra che esiste nella dottrina di Epicuro una sorta di «teoria della virtù», in quanto, pur mantenendo in essa il piace­ re un ruolo decisivo, le virtù vi sono in certo senso connesse. Nella Epistola (132) si legge infatti che la phronesis insegna «come non vi può essere vivere piacevole (hedeos zen) senza che esso sia saggio (phronimos) e bello (kalos) e giusto (dikaios), né un vivere saggio, bello e giusto senza che sia piacevole. Le virtù sono infatti connaturate (sympephykasi) al vivere piacevole, e questo è inseparabile (achoristori) da esse». Su alcune aporie dell’etica di Epicuro, rinviamo a Bonelli 1979. 107 Lévy 2002 (p. 79) ha notato che «benché il legame tra la fisica e l’etica sia solo di rado esplicitato nei frammenti che ci sono pervenuti, non bisogna

Ellenismo. Scettici, Epicurei, Stoici

■2.T1

Quello che ci rimane della antropologia epicurea consente di ritenere centrale nella sua opera il tema del piacere (hedone), coin­ cidente per Epicuro, come fra breve mostreremo, con l’assenza di dolore (aponia) nel corpo e con l’assenza di turbamento (tarache) nell’anima108. Epicuro si occupò molto di felicità in quanto, verosimilmente, riteneva presente nella sua epoca una diffusa infelicità. Tale in­ felicità poteva essere in larga parte causata dalle modalità sociali dell’epoca ellenistica, ancora più caratterizzate in senso crematistico rispetto a quelle dell’epoca classica109. Epicuro tuttavia si occupò relativamente poco di questioni politiche, preferendo cercare di ridurre nell’animo umano alcune cause di infelicità che reputava presenti in ogni tempo. Esse erano a suo avviso costituite da al­ cuni falsi timori degli uomini, in primo luogo quelli nei confronti della morte e degli dei. Contro questi errati timori la filosofia per Epicuro doveva fungere da farmaco, come ben sintetizza Filodemo in uno dei papiri rinvenuti ad Ercolano: «Non ci atterrisce il dio, non ci spaventa la morte, il bene è di facile acquisizione, il male è agevolmente sopportabile»110. È questo il famoso «tetrafarmarco» di Epicuro, su cui sarà bene spendere qualche parola, in quanto esso consente di comprendere meglio la natura razionale e morale dell’uomo da lui descritto111. Della morte non ci si deve per Epicuro troppo preoccupare, poi­ ché quando essa sopraggiungerà, la struttura atomica del nostro corpo non sarà più in grado di sentire dolore112. Nemmeno si deve troppo temere il dolore che precede la morte, in quanto esso, se insopportabile, risulta necessariamente essere di breve durata113. La morte inoltre pone fine alla intera vita umana, sicché non ci si deve nemmeno angustiare, per Epicuro, per tutti i discorsi relativi

dimenticare che all’origine del piacere e del dolore c’è il movimento atomico». 108 Epicuro, Epistola a Meneceo, 131 ss. Sul tema del piacere in Epicuro, rinviamo a Fallot 1977 e ad alcuni saggi presenti in Diano 1974. 109 Una buona trattazione della filosofia di Epicuro considerata all’interno della temperie ellenistica, è Strozier 1985. 110PHerc 1005 (col V 8-13 Angeli). 111 Sul tetrafarmaco epicureo, è possibile rinviare alla corretta sintesi di Sbordone 1983. 112 «La morte non è nulla per noi, poiché ogni bene e ogni male risiede nella sensazione, e la morte è privazione di sensazione» (Epistola a Meneceo, 124). Su questo tema, rinviamo a Warren 2006. 113Massime capitali, XIX.

278

C a p ito lo V I

a ciò che accadrà dopo di essa, in quanto gli dei non si occupano delle cose umane114. Più rilevante, ai nostri fini, risulta invece il discorso relativo al bene ed al male. Il bene infatti per Epicuro si identifica, come det­ to, col piacere, ossia con l’assenza di dolore nel corpo e di turba­ mento nell’anima, condizioni che la philosophia epicurea riteneva facilmente raggiungibili115. Il piacere in effetti, per Epicuro, è il bene primo e più naturale, facile da procurarsi come tutto ciò che è ne­ cessario alla vita116. Chi comprende tali cose e sa applicare questo «farmaco» a sé stesso, vive senza il timore del tempo che divora tutto, in una felicità paragonabile a quella degli dei117. Non osta in merito nemmeno la durata limitata della vita uma­ na, perché la felicità non deve essere pensata come una sommatoria di momenti, tanto maggiore quanto maggiore è la durata della vita. Quanto conta per Epicuro è infatti soprattutto la condizione che si sperimenta nel presente, ed il presente non risente della estensione temporale. Schmid ha parlato, relativamente alla concezione epicu­ rea del piacere, a suo avviso più corporea che spirituale, di conce­ zione «limitata al presente»118. Questa tesi non deve tuttavia essere esagerata, in quanto Epicuro mostrò anche la necessità di valutare con attenzione le conseguenze delle scelte etiche nel tempo119. Le condizioni della felicità sono per il filosofo di Samo natural­ mente presenti in ogni uomo. Esse vanno solo conosciute ed appli­ cate. A tal fine occorre attribuire la minore importanza possibile ai

114 Epicuro fu come noto nei secoli più volte ritenuto ateo, ma nel poco che rimane delle sue opere Sugli dei e Sulla santità (riportate nell’ampio catalogo dei suoi scritti presente in Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, X, 26-28), così come in suoi altri testi, la presenza di dei, per quanto incuranti dell’uomo, è esplicitamente indicata. Epicuro cercò soprattutto di liberare da quelle che a suo avviso costituivano false credenze sugli dei (Epistola a Meneceo, 124; Epi­ stola ad Erodoto, 37). 115 La parola nuova di Epicuro, rispetto alla tradizione classica, come scrive Reale 2004 (voi. V, p. 242), è che «il vero bene è la vita, e a mantenere la vita basta pochissimo, e quel pochissimo è a disposizione di ogni uomo; tutto il resto è vanità. In fondo, si può dire che la vita è, per Epicuro, il vero Assoluto». 116Epistola a Meneceo, 129-130. «Il pane e l’acqua offrono il più alto pia­ cere, nel caso in cui li accosti uno che abbia fame. L’abituarsi, dunque, a diete semplici e non dispendiose produce salute ed al contempo rende l’uomo pron­ to ad affrontare i bisogni necessari della vita» (Id., 131). 117Epistola a Meneceo, 135. 118Schmid 1984, p. 66. In maniera analoga Boyancé 1985 (p. 21), per il quale «indirizzando gli uomini alla sensibilità per il momento presente, l’Epicurei­ smo li stacca dall’avvenire e dal passato». 119Su questa tematica, utili spunti anche in Mitsis 2018.

Ellenismo. Scettici, Epicurei, Stoici

279

beni esteriori, quali ricchezza, potere e successo, che sono caduchi, ed il cui raggiungimento provoca timori, ansie e conflitti. Occorre invece attribuire la maggiore importanza al logos razionale e mo­ rale, ossia a quella saggezza - la quale pure si declina in modi mol­ teplici - che Epicuro considera il più grande bene, da cui nascono tutte le virtù120. Essa sola, infatti, è in grado di produrre quella tran­ quillità dell’anima necessaria ad evitare i mali, consistenti in quei desideri non naturali e non necessari che si oppongono alla natura necessariamente limitata della condizione umana121. A lungo ci si è chiesti come fosse possibile conciliare la conte­ stuale considerazione come beni, da parte di Epicuro, da un lato della saggezza, che riguarda essenzialmente l’anima, e dall’altro del piacere, che riguarda essenzialmente il corpo. Nel tempo si è risolto questo problema riducendo l’importanza, nella riflessione epicurea, della saggezza, ed aumentando quella del piacere, che del resto pressoché tutte le testimonianze antiche ci indicano essere il nucleo centrale dell’etica di Epicuro. La questione si può tutta­ via più correttamente risolvere in un altro modo. L’uomo è infatti, anche per Epicuro, una unità psicofisica, sicché la saggezza reca beneficio non solo all’anima ma anche al corpo, così come il piacere reca beneficio non solo al corpo ma anche all’anima. Per questo è possibile conciliare, nella filosofìa di Epicuro, la contestuale pre­ senza sia della saggezza che del piacere come beni. Nella sua opera infatti, contrariamente a quanto per secoli si è fatto, il piacere non va considerato in maniera analoga a quella dei Cirenaici, ovvero come una entità continuamente da massimizza­ re122. Esso va considerato come una condizione stabile di assenza di sofferenza, che come tale appunto non richiede alcuna massi­ mizzazione, ma che va semplicemente il più possibile mantenuta. Nell’aponfa e nell’afaraxia il piacere, anche se limitato, raggiunge la propria massima realizzazione, coerente del resto col carattere limitato della natura umana. Il piacere era infatti, per il filosofo di Samo, essenzialmente l’e­ sito della soddisfazione di un bisogno (chreia), una soddisfazione tanto più “soddisfacente” quanto più naturale e necessario era il bisogno. Prendendo spunto dalla Epistola a Meneceo, in cui si so­

120Sentenze vaticane, V. 121 «Chi conosce bene i limiti della vita, sa come sia facile da procurarsi quanto elimina il dolore che viene dal bisogno» (Massime capitali, XXI). Si tratta di un approccio che, come è stato notato soprattutto da Gigante 1992, possiede diversi punti di contatto con il Cinismo. 122Riassume bene la questione Maso 1993.

280

C a p ito lo V I

stiene che il piacere è principio {arche) e fine (telos) della vita beata (makarios zen), possiamo affermare che per Epicuro ci troviamo in una condizione di piacere quando tutti i nostri bisogni naturali e necessari sono soddisfatti, sicché nulla ci fa soffrire123. È del resto 10 stesso Epicuro a ricordare che «non sono le bevute e i continui bagordi ininterrotti, né il godimento di ragazzini e donne, né il gu­ stare pesci e altre cibarie, quante ne porta una tavola riccamen­ te imbandita, che possono dar luogo a una vita piacevole, bensì il ragionamento assennato, che esamina le cause di ogni scelta»124. 11 piacere, sapientemente misurato, assume in questo senso una dimensione prioritaria nella filosofia di Epicuro, non in contrasto con la saggezza125. Per Epicuro infatti non ogni piacere è da perseguire126; non lo sono quei piaceri che conducono poi ad un dolore maggiore. Allo stesso modo non ogni dolore è da rifuggire; non lo sono quei do­ lori che conducono poi ad un piacere maggiore. Epicuro invita in effetti a realizzare sempre un «sobrio calcolo» {nephon logismos) di piaceri e dolori, considerando l’utilità e la disutilità che da ogni scelta può derivare127. L’ottenimento del piacere e la riduzione del dolore si realizza in generale, per Epicuro, eliminando ciò che non è necessario, e come tale dunque potenzialmente dannoso. La na­ tura del resto fa della «misura» il proprio fondamentale criterio orientativo128. Evidente quindi che, pur ponendo il piacere come fine, l’Epi­ cureismo non può essere definito come una forma di edonismo sfrenato129. Per Epicuro infatti, a differenza dei Cirenaici, i piace­

123Epistola a Meneceo, 128-130. Che il piacere sia fine, per Epicuro, risulta anche dai frammenti rimasti dell’opera intitolata Sul fine (Cicerone, Tusculanae Disputatìones, III, 18, 41-42). 124Epistola a Meneceo, 132. 125 II piacere è prioritario anche in quanto è ciò che pure i neonati cercano appena nati, così come cercano di rifuggire il dolore {Fr. 397 Usener). Esso è dunque un bene primo naturale, nel senso che è la natura stessa che ci spinge a ricercare il piacere adidaktos (Diogene Laerzio, Vite deifilosofi, X, 137), ossia ancor prima di ricevere insegnamenti. 126In questo senso anche la Massima capitale Vili: «Nessun piacere, di per sé stesso, è un male, ma i fattori che producono alcuni piaceri portano molte più molestie che piaceri». 127 Epistola a Meneceo, 132; Sentenze vaticane, L. Epicuro affermava co­ munque che nessun piacere, di per sé, è un male (Massime capitali Vili; X). 128 In tal senso diffusamente Long 2006, pp. 157-177. 129Non possiamo tuttavia omettere di segnalare alcuni passi che rimarcano l’importanza dei piaceri fisici, come il frammento 409 Usener, che presenta i «piaceri del ventre» come «principio e radice di ogni bene», o come il fram-

Ellenismo. Scettici, Epicurei, Stoici

281

ri dell’anima sono superiori a quelli del corpo, in quanto la carne gode solo di ciò che è presente, mentre l’anima, mediante il ricor­ do, gode anche del piacere passato e, mediante l’attesa, del piacere futuro130. La filosofia di Epicuro, compresa come filosofia della giusta misura nella ricerca della buona vita, si pone dunque per questo aspetto in continuità con la filosofia classica. L’uomo infatti deve per Epicuro, come per Platone ed Aristotele, seguire la propria physis, in quanto è la stessa natura umana che fa capire, ad esem­ pio, l’utilità di cibi semplici, di una moderata attività fisica, di una sana pratica sessuale, ecc.131. Desideri eccessivi in effetti non sono mai realmente tali, non conformandosi alla natura finita dell’uo­ mo. Essendo innaturali, essi costituiscono l’esito di una innaturale dipendenza, quindi di una assenza di autonomia da parte dell’uo­ mo132. Nella Sentenza vaticana LXVIII si legge infatti che «a chi non basta il necessario, non basta nulla». Rimangono tuttavia anche notevoli differenze fra la filosofia di Epicuro e la filosofia classica. La virtù, strettamente connessa alle scelte di vita finalizzate al piacere, si riduceva infatti, in Epicuro, a «tecnica» del vivere piacevolmente in maniera soprattutto indivi­ duale, in modo assai differente dalla concezione etico-politica della virtù della riflessione platonico-aristotelica133. La stessa giustizia cessò per conseguenza di occupare quella posizione centrale che aveva avuto nella filosofia classica, assumendo una connotazione marcatamente utilitaristica, e talvolta addirittura relativistica134. Occorre infatti rimarcare che nelle Massime capitali Epicuro so­

mento 67 Usener, che afferma essere diffìcile pensare il bene togliendo «i pia­ ceri del gusto, quelli dell’amore, quelli dell’udito», o ancora il frammento 130 Usener, in cui si parla del «corporeo come latore della pura e incondizionata sensazione di piacere». 130Significativa in merito la testimonianza di Cicerone, Defìnibus, 1, 17, 55

ss. 131 Sentenze vaticane, XX. Ed ancora: «La povertà nella misura del fine che è proprio della natura è gran ricchezza, mentre la ricchezza, se non viene limi­ tata, è gran povertà» (Id., XXV). 132Sentenze vaticane, XXXIII; Epistola a Meneceo, 127-128. Sulla impor­ tanza del tema della libertà in Epicuro, rinviamo a O’Keefe 2005. 133In tal senso, significativi i frammenti 67,116,512 Usener. 134Massime capitali, XXXI-XXXVII. Come ha scritto Antonina Alberti (in Giannantoni-Gigante 1996, voi. II, p. 527), per l’Epicureismo i valori morali sono sempre «relativi, ossia dipendenti dalle circostanze, e quindi particolari e mutabili, in conseguenza della particolarità e della mutabilità delle circostan­ ze». Alberti ha comunque anche sottolineato che per Epicuro i valori morali «sono entità reali e non convenzioni [...]; non sono nostre opinioni o nostre

282

C a p ito lo V I

stenne al contempo che esiste la giustizia, coincidente con l’utile comune, ma che essa non è mai assoluta, essendo tale solo relati­ vamente agli accordi reciproci vigenti tra persone nei vari luoghi e nei vari tempi135. La natura razionale e morale dell’uomo In base a quanto poc’anzi argomentato, possiamo affermare che, sebbene in maniera differente rispetto alla filosofia classica, anche per Epicuro la natura dell’uomo si può considerare razionale e morale136. L’uomo infatti, per essere felice, deve sempre conosce­ re razionalmente la physis, e deve agire moralmente in maniera conforme ad essa, limitandosi con misura ai bisogni naturali e necessari137. La realizzazione, da parte di ciascuno, di questi com­ portamenti conduce per Epicuro alla comune utilità, ossia appunto alla possibilità per tutti di pervenire ad una condizione felice. A parte le differenze sopra accennate, che non sono comunque piccole, la descrizione epicurea dell’uomo non si pone in totale opposizione rispetto a quella classica. È indubbiamente vero che, nell’opera di Epicuro, sul piano razionale la ricerca della verità non assume il ruolo di fine principale. È altrettanto vero che, sul piano morale, la dimensione politica assume modesta rilevanza. Occorre tuttavia rilevare che ciò non è sufficiente per qualificare la filosofia

decisioni o nostre emozioni». È merito peraltro soprattutto dell’epicureo Polistrato averlo messo in evidenza nel De contemptu. 135 «Dal punto di vista generale, la giustizia è la stessa per tutti: perché è qualcosa di utile nei rapporti reciproci di una collettività; ma per la particola­ rità di un luogo specifico o di qualsiasi causa circoscritta, non è detto che per tutti sia giusta la stessa cosa» (Massime capitali, XVI). Ed ancora: «Non c’è qualcosa come una giustizia in sé, ma solo un certo accordo nei rapporti reci­ proci e sempre limitatamente a quei luoghi in cui c’è un impegno a non dan­ neggiare nè ad essere danneggiati vicendevolmente» (Id., XXXIII). Su questa tematica rinviamo a Goldschmitt 1977. 136 Si tratta di una tesi non unanimemente condivisa. Per Reale 2004 (voi. V, p. 208), ad esempio, Epicuro «si staccava nettamente dalla linea socratico-platonico-aristotelica nella determinazione della essenza dell’uomo [...], e su questo punto egli è perfettamente coerente con i principi della sua logica e della sua fisica». 137 Epicuro riconosce, come Socrate, il carattere razionale della phronesis, tanto che a suo avviso «nessuno sceglierebbe il male vedendo chiaramente che è tale» (Sentenze vaticane, XVI). In questo senso Innocenti 1975 (p. 5), per il quale «Epicuro mostra riallacciarsi direttamente al potenziale della predica­ zione socratica».

Ellenismo. Scettici, Epicurei, Stoici

283

epicurea tout court come individualistica13®. Soprattutto, ciò non è sufficiente a negare la presenza di contenuti razionali e mora­ li come costitutivi anche dell’uomo epicureo, sebbene declinati in maniera differente rispetto alla filosofia classica. Circa l’importanza dei contenuti razionali, ci siamo già soffer­ mati nel volume Natura sulla vasta opera di ricerca scientifica di Epicuro, culminata nei 37 libri del Peri physeos. Tale opera era necessaria sul piano filosofico, dato che il raggiungimento della fe­ licità richiedeva necessariamente la conoscenza della physis. Circa l’importanza dei contenuti morali, nonostante l’etica di Epicuro sia più tarata sul singolo individuo, abbiamo già rimarcato come in essa risulti centrale la dimensione comunitaria. Il Kepos co­ stituiva infatti una comunità di studio e di vita in cui regnava la philia fra i membri. Quest’ultima era la relazione umana più im­ portante per Epicuro13 139. La parte finale della Epistola a Meneceo 8 affermava in effetti che la condizione migliore per fare una buona ricerca è fare ricerca con chi è simile a noi, così come la condi­ zione migliore per vivere bene è vivere insieme con chi è simile a noi140. L’amico fornisce infatti conforto nel breve tempo della vita, sicché per Epicuro, come per Aristotele, una vita senza amici risul­ ta sicuramente meno felice141. L’amicizia, nel discorso epicureo, nasce in origine dall’utilità concreta che da essa gli uomini reciprocamente ricavano142. Essa

138Di parere opposto Reale 2001 (voi. V, p. 309): «Ogni forma di edonismo e di utilitarismo, è sempre anche una forma di individualismo egoistico, e tale è anche la posizione di Epicuro». Anche Pesce 1974 (p. 92) era drastico nel di­ pingere Epicuro come individualista: «La morale torna ad essere per Epicuro una faccenda personale». 139 Sono numerosi i passi in cui Epicuro mostra la grande rilevanza della philia (a mero titolo di esempio, le varie Sentenze vaticane XXIII, XXVII, XXXIX, LII, LXXVIII). Emblematica la Massima capitale XXVII: «Di tutti gli strumenti che la sapienza procura per la beatitudine di tutta la vita, quello di gran lunga più grande è l’acquisizione della amicizia» (Id., XXVIII). Su questa tematica, di particolare interesse Arrighetti 1978, Gemelli 1978, Mitsis 1987, Stern-Gillet 1989 e Brown 2002. 140Come ricorda Schmid 1984 (pp. 70-71), «il saggio, nel senso di Epicuro, sa dar prova della sua saggezza anche nella scelta degli amici, accogliendo nel suo sodalizio soltanto quelli con cui è possibile la reciproca edificazione della eudaimonia. Nella vera amicizia, quale è pensabile soltanto fra i saggi, l’inte­ resse dell’io coincide quindi con quello del tu. Così si può giungere a quella valutazione assoluta dell’ideale dell’amicizia che è la caratteristica più appari­ scente del Giardino». 141 Goldschmitt 2002, pp. 101-110. 142Sentenze vaticane, XXIII.

284

C a p ito lo V I

tuttavia è una relazione buona di per sé, in quanto rende migliore la vita anche se non fornisce alcuna utilità143. Una vita condotta in amicizia è infatti migliore rispetto ad una vita condotta in solitu­ dine. A tale fine per Epicuro non era necessaria alcuna messa in comune dei beni, che era anzi da evitare in quanto a suo avviso avrebbe fatto nascere discordie144. Ciò nonostante la dimensione comunitaria andava in ogni caso salvaguardata, come dimostra il fatto che in Epicuro, come nell’Epicureismo, fu serrata la critica contro l’avidità di denaro, ritenuta anticomunitaria e pertanto in­ naturale145. L ’assenza di centralità della politica La differenza principale fra filosofia epicurea e filosofia classi­ ca risulta come detto dalla sostanziale assenza di centralità, nella prima, della dimensione politica. Centrale fu infatti, nella filosofia epicurea, il messaggio etico del «vivere nascosto» (lathe biosas)146. Esso, per quanto non vada univocamente interpretato in senso in­ dividualistico, non fornisce in effetti quella apertura potenzialmen­ te universalistica propria invece della filosofia classica. Occorre tuttavia considerare che Epicuro condusse larga parte della propria esistenza nella Atene dell’epoca ellenistica, ossia in un luogo in cui, a differenza della Atene dell’epoca classica, nessun grande proget­ to politico di miglioramento sociale avrebbe potuto attecchire. In questo contesto, una vita condotta al riparo dal potere imperiale, in una dimensione microcomunitaria, poteva garantire una maggiore possibilità di praticare la filosofia. Ciò nonostante, se sono vere le testimonianze di Lattanzio ed Epitteto147, in base alle quali Epicuro avrebbe sostenuto che non vi è alcun vincolo naturale fra gli uomini - molteplici sono del resto anche le affermazioni di Epicuro secondo cui la vita politica è piut­

143 Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, X, 120. 144 Id., X, 11. 145Rinviamo in merito al lucido saggio di E. Spinelli, Epicuro contro l’avidi­ tà di denaro, in Giannantoni-Gigante 1996 (voi. I, pp. 409-419). Circa il pen­ siero economico dell’Epicureismo, rimandiamo a Laurenti 1973. Ricordiamo anche che in un frammento di Diogene di Enoanda (fr. 56 Smith) si arrivava ad auspicare città senza né fortificazioni né leggi, in cui l’economia sarebbe stata fondata sul lavoro di tutti, e la schiavitù abolita. 146 Significativo in merito il frammento 561 Usener. Sul tema del «vivere nascosto» rinviamo alfottimo Roskam 2007, soprattutto pp. 30-66. 147 Lattanzio, Divinae Institutiones, III, 17, 42; Epitteto, Diatribe, II, 20, 6.

Ellenismo. Scettici, Epicurei, Stoici

285

tosto innaturale per l’uomo148-, non si può non rilevare una discreta differenza con l’etica classica. Così infatti come l’Accademia pla­ tonica era nata per favorire, tramite la filosofia e la politica, le mi­ gliori condizioni sociali per realizzare la natura comunitaria degli uomini, il Giardino di Epicuro era nato semplicemente per creare una piccola comunità di individui che avrebbe potuto vivere felice al riparo dalle brutture del mondo, grazie alla dottrina del maestro ed alla ricerca149. Epicuro, del resto, negava alla polis ogni funzione educativa, assegnandogli semplicemente il compito di mantenere la pacifica convivenza fra gli uomini150. Sintetizza bene Cambiano che «mentre per Platone e Aristotele la città nasce dalla necessità di soddisfare i bisogni che l’individuo non è in grado di soddisfare da solo, e im­ plica dunque forme più o meno estese di cooperazione, per Epicuro il problema centrale non è la cooperazione, bensì la protezione. Pa­ radossalmente egli consentiva l’attività politica solo nei casi in cui, se si rimane fuori dalla politica, questa protezione non è assicura­ ta»151. In questo senso era totale la sua distanza da Platone, secondo cui la filosofia doveva necessariamente guidare la politica affinché in generale la società potesse godere di una buona vita152. Ciò nonostante, ancora una volta, occorre non eccedere nell’attribuire patenti di apoliticità al pensiero di Epicuro. Diogene La­ erzio riporta infatti una testimonianza secondo cui Epicuro non intraprese la vita politica solo per modestia, non perché ritenes­ se tale attività di per sé inutile o dannosa153. Inoltre, come scrive Francesco Verde, «ritenere che la scuola di Epicuro non si fosse occupata di politica è piuttosto riduttivo, non solo perché le testi­ monianze storiche relative alla vita del Giardino smentiscono una visione del genere, ma soprattutto perché l’attività politica [...], se condotta rettamente, non solo non apporta alcun turbamento, ma

148Sentenze vaticane, LVIII; Massime capitali, XIV. 149Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, X, 18. 150Significativo ilframmento 530 Usener, affermante che «le leggi esistono per i saggi, non perché non commettano ingiustizie, ma perché non ne subi­ scano». 151 Cambiano 2013, p. 81. Solo nel I secolo a.C. a Roma l’Epicureismo ebbe qualche velleità politica, prò e contro Cesare, soprattutto presso membri delle classi agiate, ma si trattò di una fiammata di breve durata. 152Nelframmento 16 E Usener Epicuro consigliava invece a Pitocle di «fug­ gire a vele spiegate la cultura tutta quanta». 153 Diogene Laerzio, Vite deifilosofi, X, 10.

286

C a p ito lo V I

fornisce quella sicurezza che sola può garantire la comunità filoso­ fica e, dunque, l’imperturbabilità della vita»154. In Epicuro tuttavia la prospettiva etico-politica rimane declina­ ta principalmente su un piano microcomunitario. Ciò condusse la sua opera ad una sostanziale assenza di quella grande progettualità filosofico-politica che aveva invece costituito l’emblema dell’uma­ nesimo universalistico classico. Dopo Epicuro Come ricordato, sia durante la vita che dopo la morte di Epicu­ ro, l’Epicureismo rimase sul piano dottrinale un blocco sostanzial­ mente unitario, che venne principalmente integrato e solo in parte modificato155. Diogene Laerzio, dossografo di simpatie epicuree156, ha giustamente sostenuto in merito che la scuola di Epicuro ha avuto una lunga vita, ma che gli esponenti della stessa hanno ap­ portato soprattutto contributi per puntellare la dottrina originaria del maestro157. Fra essi il primo fu Metrodoro di Lampsaco, il qua­ le morì addirittura prima di Epicuro, e si occupò principalmente di retorica, linguaggio, economia e di molte altre tematiche158. Il primo successore allo scolarcato, Ermarco di Agemorto, si interes­ sò invece di diritto e scienze, oltre ad essere autore di una vivace polemica filosofica contro Empedocle, Platone ed Aristotele. Impe­ gnati nella difesa dialettica del pensiero di Epicuro furono anche Idomeneo di Lampsaco, Colote di Lampsaco e Carneisco, autori di cui non ci resta molto, nonché Polistrato, la cui opera Sul disprezzo

154In Trabattoni-Vegetti 2016, voi. Ili, pp. 100-101. 155 Pesce 1980 (pp. 127-128) scrisse in merito giustamente che «il pensiero di Epicuro, lungi dall’essere caratterizzato da contraddizioni irrisolte o da so­ pravvenuti ripensamenti e superamenti, si presenta rigorosamente coerente e compattamente sistematico, come prova lo stesso fatto che si sia potuto rias­ sumerlo in formulazioni sempre più brevi fino a condensarlo in pochi principi fondamentali». Come scrisse anche Laurenti 1973 (p. 9), «in un sistema quale l’Epicureismo è difficile trovare spunti che non possano riportarsi a quel poco che abbiamo di Epicuro e dei suoi immediati successori». 156Rinviamo, in tal senso, a Girardi 2014. 157Diogene Laerzio, Vite deifilsoofi, X, 9. Per una ottima sintesi dell’Epicu­ reismo, rinviamo alle pagine riassuntive di Francesco Verde in Trabattoni-Ve­ getti 2016, voi. Ili, pp. 105-112. Testi di approfondimento sono Amerio 1953, Bollack-Laks 1976, Jones 1999, Gigandet-Morel 2007, Warren 2009, O’Keefe 2010, Delattre-Pigeaud 2010, Fisch-Sanders 2011, Holmes-Shearin 2012, Benatouil-Laurand-Macé 2013, 158Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, X, 24.

Ellenismo. Scettici, Epicurei, Stoici

287

irrazionale delle opinioni popolari159 fu diretta soprattutto contro Scetticismo e Cinismo (anche se la questione rimane aperta). Demetrio Lacone, attivo nel II sec. a.C., venne annoverato da Diogene Laerzio fra gli epicurei “illustri”, anche se non fu mai scolarca del Giardino160. Autore di un notevole numero di opere in vari campi, egli si occupò di fisica, cosmologia, teologia, etica, etimolo­ gia, poetica, retorica e geometria. Zenone di Sidone visse invece tra 150 e 75 circa, ed insegnò per lungo tempo ad Atene. Il suo campo di studi fu anch’esso molto ampio: fisica, etica, filologia, retorica, matematica e geometria. Sappiamo inoltre che fu un abile polemi­ sta161. L’Epicureismo si sviluppò in molte zone dell’epoca ellenistica. Una particolare rilevanza ebbe il cosiddetto Epicureismo campano, la cui notorietà si deve soprattutto alle numerose opere di Filode­ mo di Gadara (140-70 c.a.) che abbiamo rinvenuto162. Egli fu per alcuni anni discepolo di Zenone di Sidone, trascorrendo la seconda metà della propria vita in Italia ad Ercolano163. In ciò che resta di questa città, la famosa Villa dei Papiri ci ha come noto restituito di Filodemo parte della sua storia della filosofia in 10 libri, oltre ad altri suoi scritti, fra cui una trilogia su retorica, poetica e musica, temi in parte trascurati dal primo Epicureismo164. Filodemo pro­ pose una visione molto ortodossa dell’Epicureismo, difendendo la dottrina originaria contro alcune interpretazioni dissidenti, come si evince dal suo testo Contro coloro che si definiscono lettori di li­ bri165. La sua ortodossia emerge anche dal fatto che nella sua opera fu l’etica la disciplina più considerata, come dimostra sia il grande trattato in 10 libri Sui vizi e le virtù contrapposte, sia il trattato sui Modi di vita, nonché la cosiddetta Ethica Comparetti ed i libri Sulla morte. Filodemo si occupò anche di teologia (Sugli dèi, Sulla

159PHerc 336/1150. 160Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, X, 25. 161 Sulla sua opera, per una breve sintesi, rinviamo ad Angeli Colaizzo-Gigante 1998. 162Su questo autore rinviamo a Gigante 1990 e Tsouna 2007. 163 Come noto, la villa di Ercolano di Calpurnio Pisone, che ospitava una fiorente comunità di Epicurei, ci sta lentamente restituendo molti papiri, che le nuove tecniche consentono ora in parte di leggere. Molte informazioni, non solo sull’Epicureismo, sono giunte fino a noi grazie a questi resti. Tattano di queste preziose scoperte Gigante 1979, Capasso 1989 e 1991, Leone 2000, Zarmakoupi 2010 e Del Mastro 2014. 164 Rinviamo, solo per citare alcuni testi, a Gigante 1982 e 2003, Acosta-Mendez 1992, Indelli-McKirahan 1995 e Angeli 1998. 165PHerc 1005.

288

C a p ito lo V I

pietà) e di logica (Sui segni), ad un livello tecnico assai approfondi­ to (non divulgativo, come invece accadde soprattutto nella succes­ siva epoca romana)166. La continuità dottrinale dell’Epicureismo riguardò anche le teorie sull’uomo, le quali, nonostante l’opposizione del nascen­ te Cristianesimo, riuscirono a penetrare nel congeniale ambiente culturale romano167. Tale permanenza, per quanto come detto non foriera di spunti particolarmente originali sul piano teoretico, fu in ogni caso piuttosto vivace, dato che l’Epicureismo si scontrava an­ che con alcuni valori fondanti della tradizione romana168. Esso in­ fatti, per la già ricordata convinzione che gli dei non si occupavano degli uomini, infrangeva le tradizionali credenze del Paganesimo, e si mostrava poco compatibile con il culto statale, data la sua etica sostanzialmente individuale. Nonostante la necessaria rapidità di questa trattazione dell’Epi­ cureismo, è impossibile non menzionare almeno Diogene di Enoanda (I-III sec. d.C.), autore di un’opera divulgativa sulla filosofia di Epicuro. La particolarità della medesima è che essa fu fatta incidere sul muro di un portico nell’agorà appunto di Enoanda, in Licia, in quanto Diogene riteneva la filosofia epicurea necessaria come rime­ dio ai mali di tutti gli uomini. Le tematiche da lui affrontate furono fisiche (fisiologia e teoria degli atomi, astronomia, divino, storia del genere umano) ed etiche (felicità, virtù, piacere, desiderio, rappor­

166 L’Epicureismo ebbe un discreto seguito a Roma. La più antica notizia in merito è di natura negativa: Ebano ci informa infatti che nell’anno 173 a.C. gli Epicurei Alceo e Filisco furono banditi dalla città per la licenziosità dei costumi che predicavano, esortando i giovani ai piaceri (Varia Historia, IX, 12). Più fortunato invece il tentativo di Amafinio, che per primo compose un tratta­ to filosofico in latino (Cicerone, Tusculanae Disputationes, II, 3; IV, 3) in cui esponeva appunto in maniera divulgativa i capisaldi del pensiero di Epicuro. 167 Cicerone, pur avversario dell’Epicureismo, ce ne descrive il grande suc­ cesso popolare in quell’epoca (Tusculanae Disputationes, IV, 6; V, 28). Lucre­ zio scrisse invece che il volgo rifriggeva dall’Epicureismo (De rerum natura, I, 944-5; IV, 19-20) in quanto troppo difficile, dato che la fisica costituiva l’ossa­ tura del sistema epicureo. Rinviamo, in merito, a Paratore i960. 168 Filoepicurei furono in discreta misura Orazio (Satire, 2, 2; 2, 6; Epistole 1,4; 1,16; Carmi, 1,11; 1, 9) e Virgilio (Ecloghe, 1, 6). Anche Seneca, come mo­ streremo, fu un grande estimatore di Epicuro (la cui figura fu apprezzata pure da alcuni padri della Chiesa), tanto che lo citò spesso in particolare nei primi 4 libri delle Epistole a Lucilio (su ciò Setaioli 1988, pp. 171-223). Altro suo estimatore fu Luciano di Samosata (su cui Schmid 1984, pp. 129-136). Plutarco di Cheronea scrisse invece una serie di saggi con l’intenzione di criticare l’etica di Epicuro: fra quelli pervenuti, l’Adversus Colotem, il Non posse suaviter vivi secundum Epicurum e il De latenter vivendo.

Ellenismo. Scettici, Epicurei, Stoici

289

to corpo-anima). Di lui abbiamo rinvenuto anche diverse lettere ad amici e famigliati, oltre ad alcune parti dello scritto Sulla vecchiaia, ad ulteriore riprova del suo interesse per l’uomo169. Da ricordare infine Diogeniano (II secolo d.C.), noto per aver composto uno scritto polemico in funzione anti-stoica contro la dottrina del fato (heimarmene) di Crisippo, opponendo alla posi­ zione di quest’ultimo la libertà di scelta del soggetto morale, come prevista dal libro XXV Sulla natura di Epicuro. Nei primi due secoli del Cristianesimo, non solo rimase l’orto­ dossia dottrinale dell’Epicureismo, ma essa anzi si accentuò. L’Epi­ cureismo sopravvisse ancora, accentuando il proprio «carattere di religione laica»170, nel III secolo d.C., come dimostrano le polemi­ che contro di esso del Vescovo Dionigi di Alessandria e gli accenni di Lattanzio171. Nel IV secolo d.C. tuttavia la maggior parte dei libri di Epicuro era andata distrutta, e con essi lo stesso Epicureismo172.

4. Stoicismo Note generali I “fondatori” dello Stoicismo, un movimento filosofico che rag­ giunse un notevole e duraturo successo, sono per consolidata tra­ dizione considerati Zenone di Cizio (333-261 c.a.), Cleante di Asso (331-230 c.a.) e Crisippo di Soli (280-205 c.a.)173. Di questi pensa­ tori possediamo solo frammenti, notizie indirette e testimonianze di carattere dossografico - per lo più ostili e spesso riferite alla sola posizione di Crisippo - , se si eccettua un breve testo poetico di Cle­ ante, l’Inno a Zeus174.

169 Su Diogene di Enoanda, rinviamo alle ottime edizioni di Smith 1993 e 2003, oltre a Gordon 1996 e Hammerstaedt-Smith 2014. 170Reale 2004, voi. V, p. 297. 171 Eusebio, Praeparatio Evangelica, XIV, 23-27; Lattanzio, Divinae Institutiones, III, 17, 3-6. 172Giuliano, Epistole, 89,301 c-d. 173 Come noto, H. von Arnim, l’autore della edizione di riferimento della raccolta dei frammenti degli Stoici antichi (citata in bibliografia come Radice 2002 ed abbreviata con SVFin tutte le citazioni qui presenti), considerava Cle­ ante non come un vero e proprio “fondatore”, ma come un allievo di Zenone. Egli è tuttavia rimasto isolato in questa tesi interpretativa, per la indubbia ori­ ginalità del pensiero di Cleante. 174 Per un inquadramento generale dello Stoicismo, rinviamo a Edelstein 1966, Rist 1969, Sandbach 1975, Colish 1985, Erskine 1990, Isnardi Paren-

290

C a p ito lo V I

Come nell’Epicureismo, lo studio della fisica assunse nello Stoi­ cismo una grande rilevanza175. Ci sembra tuttavia di poter soste­ nere che, ferme restando le interconnessioni fra fisica ed etica, fu ancora quest’ultima ad assumere il posto centrale176. Nelle filosofie di epoca ellenistica, infatti, l’uomo, ed in particolare la sua ricerca di buona vita, costituì sempre il fine principale. Tale fine richiedeva la conoscenza della natura, umana e non, per poter essere correttamente perseguito177. Anche nello Stoicismo, come nell’Epicureismo ed in certo modo nello Scetticismo, vale infatti la tesi secondo cui, per l’uomo, la felicità consiste nella realizzazione della sua natu­ ra178. Queste considerazioni generali potranno sembrare forse trop­ po nette, date le varie declinazioni - maggiori rispetto a quelle dell’Epicureismo, sia per la maggiore dialettica vigente nella scuola stoica, sia per la costante sollecitazione accademico-scettica dal­ la stessa subita - che lo Stoicismo assunse nei circa cinque secoli della sua durata. Nonostante, tuttavia, le differenziazioni spesso di origine moderna oramai recepite dalla manualistica (in particolare quella fra Stoicismo, Mediostoicismo e Neostoicismo), riteniamo, come Lévy, che in questo contesto culturale non si debbano «indi­ viduare dei periodi differenziati gli uni dagli altri in maniera troppo netta»179. Lo sfondo comune del pensiero stoico, così come del re­ sto di tutti i vari pensieri ellenistici, fu infatti, per quanto concerne l’uomo, una generale vocazione consolatoria. Essa richiedeva, per

te 1993, Long 1996, Brun 1998, Ierodiakonou 1999, Inwood 2003 e Strange-Zupko 2004. 175 Ci permettiamo in merito di rinviare a Grecchi 2018 a, pp. 251-272. 176Per lo Stoicismo, come ricorda Radice 2012 (p. 20), «il fine del filosofare è l’etica; la logica ha per lo più una funzione critico-difensiva dei principi mora­ li; la fisica vale come giustificazione e sostegno dell’etica». Anche per Pohlenz 1967 (voi. I, p. 51), nella Stoa «la filosofia raccoglieva i suoi frutti nell’etica». In maniera analoga Reale 2004 (voi. V, p. 423): «la parte più significativa e più viva della filosofia del Portico [...] è l’etica». Numerose citazioni di autori stoici comprovanti questa tesi in Radice 2002, pp. 153-157. 177Per Crisippo (SVF, III, 68) «se c’è un buon uso della scienza fisica, questo è proprio quando si applica alla distinzione dei beni e dei mali». Sulla filosofia di Crisippo, rinviamo a Gould 1970. 178SVF, III, 2-19. 179 Lévy 2002, p. 93. Per questo motivo, ossia in quanto non riteniamo così differenti le tesi del Mediostoicismo sull’uomo rispetto a quelle dello Stoicismo antico, non inseriremo qui - contrariamente a quanto avevamo fatto nel volu­ me sulla natura - una appendice appositamente dedicata al Mediostoicismo. Posidonio e Panezio saranno comunque citati in alcune note, e le loro opere troveranno posto in bibliografia.

Ellenismo. Scettici, Epicurei, Stoici

291

realizzarsi, una semplificazione del messaggio, come era accadu­ to del resto in epoche non distanti per le scuole socratiche180. Per questo ci limiteremo alla descrizione delle caratteristiche generali dello Stoicismo aventi maggiore attinenza con l’uomo. Universalismo stoico? Lo Stoicismo è solitamente considerato un movimento cultura­ le universalistico, sia per la sua distanza dal mondo classico delle poleis particolari, sia per il fatto che i suoi esponenti provennero da contesti geograficamente fra loro molto vari181. Anche con riferimento a questa tesi, come visto per tesi prece­ denti, occorre tuttavia evitare di cadere in radicati luoghi comuni storiografici. Essi infatti, più che ripetuti, andrebbero problematiz­ zati. Il pensiero stoico, nonostante questi aspetti tendenzialmente universalistici, fu in effetti caratterizzato anche da una netta se­ parazione - molto maggiore rispetto a quella dell’epoca classica - all’interno del genere umano fra i pochi sapienti e la massa de­ gli stolti. I primi erano ritenuti liberi, in quanto dotati di autono­ mia razionale e morale, mentre i secondi erano ritenuti schiavi, in quanto non dotati di tale autonomia182. Per gli Stoici infatti, come ripetutamente essi affermano, 0 si è saggi o si è stolti, e tertium non datur183. Addirittura, il saggio è da loro posto allo stesso livello del­ la legge di natura, e descritto con tratti talmente eccezionali da ren­ dere tale figura assai difficile da ritrovare nella realtà184. Tutto ciò

180 Come scrisse anche V.E. Alfieri (introduzione a Pohlenz 1967, vol.I, p. XVII), «la Stoa non intese proporre un rigido sistema dottrinale [...]; volle es­ sere un’arte del vivere, capace di illuminare l’uomo intorno al suo destino e di metterlo in grado di realizzarlo in ogni possibile contingenza». 181 Sulla tematica del cosmopolitismo stoico, rimandiamo a Gueye 2006. lSa Con le riassuntive parole di Zenone, «la libertà è il potere di azione au­ tonoma, la schiavitù è la privazione di esso» (Diogene Laerzio, Vite dei filoso­ fi, VII, 121). Sul tema della libertà nel pensiero stoico, rimandiamo a Bobzien 1998 e Salles 2005. 183 SVF, III, 637 ss. Questa tesi estrema conduce a conclusioni altrettan­ to estreme. Ad esempio, dal fatto che non esiste gradazione nella saggezza, si deve evincere che non esiste gradazione nemmeno nella stoltezza, sicché ri­ sulta ugualmente stolto chi non conosce poche cose come chi non ne conosce nessuna. 184 SVF, II, 131. Secondo la testimonianza di Stobeo, per gli Stoici, oltre che massimamente razionale, «il saggio è anche cortese, intendendo la cortesia come una stabile disposizione a comportarsi con gentilezza in tutte le occasioni che ci toccano, non lasciandosi mai trascinare dall’ira. Il saggio è anche paca­ to ed elegante: l’eleganza consiste nel saper ben comportarsi, e la pacatezza

292

C a p ito lo V I

che il saggio compie è infatti ritenuto perfetto, tanto che, essendo identica la virtù nel saggio e nel dio, la felicità del saggio è ritenuta pari a quella di Zeus185. In maniera analoga, tutte le azioni degli stolti, anche se fenomenicamente identiche a quelle dei saggi, sono ritenute errori, in quanto compiute senza ragione e senza virtù186. In merito all’universalismo stoico, vi è stato chi ha messo in evi­ denza la patina superficiale del medesimo, causata più dalla neces­ sità dei vari imperi di epoca ellenistica di «pianare le differenze» fra popoli, favorendo così il libero scorrimento delle merci e dei tri­ buti, che non dalla intima convinzione filosofica della uguale natu­ ra di tutti gli uomini (data, appunto, la radicale differenza fra i po­ chissimi saggi ed i tantissimi stolti)187. Non può infatti sfuggire che l’epoca ellenistica, e soprattutto l’epoca postellenistica caratteriz­ zata dal dominio dell’impero romano, furono i periodi storici della antichità in cui fu più pervasiva l’espansione della crematistica. Ciò è stato notato da diversi interpreti, fra cui F. Copleston, per il quale «quando la città libera fu inserita in un più grande complesso co­ smopolitico, non solo fece la sua comparsa il cosmopolitismo con l’ideale del cittadino del mondo, come vediamo nello Stoicismo, ma anche l’individualismo. Questi due orientamenti infatti, co­ smopolitismo e individualismo, erano strettamente legati insieme, perché quando la vita della città-stato, compatta e onnicompren­ siva, come l’avevano concepita Platone e Aristotele, si disgregò e i cittadini furono ammessi in un complesso più vasto, l’individuo fu inevitabilmente gettato alla deriva [...]. In una città cosmopolitica, dunque, era logico che la filosofia avrebbe accentrato i suoi inte­ ressi sull’individuo [...], e che quindi si sarebbe sviluppata secondo la linea etica e pratica, come, appunto, avvenne nello Stoicismo e nell’Epicureismo»188. L’analisi del contesto storico-sociale, per quanto sovente trascu­ rata negli studi filosofici, risulta in effetti di grande rilevanza per la piena comprensione di un pensiero. Tale analisi non può sop­ piantare in importanza la trattazione dei contenuti culturali di una filosofia, ma va considerata. Ciò in quanto i contenuti culturali si strutturano spesso non solo in derivazione, ma anche in opposizio-

consiste nell’armonia delle movenze naturali e degli stati psichici e corporei. Gli stolti in generale si trovano nelle condizioni esattamente opposte» (SVF, III, 632). 185SVF, III, 245-248; 252. 186SVF, III, 560. 187 Preve 2013, pp. 129-134. 188Copleston 1967, voi. I, p. 519.

Ellenismo. Scettici, Epicurei, Stoici

293

ne ai valori dominanti di una certa epoca, e comprendere queste dinamiche è tutt’altro che irrilevante. In una temperie come quella ellenistica, in cui l’uomo da cittadino divenne sostanzialmente sud­ dito, ed in cui la schiavitù aumentò fortemente in intensità ed esten­ sione, non era affatto scontata la nascita di una filosofia che poneva in primo piano la comune natura razionale e morale degli uomini, quale fu - pur con alcune incertezze - anche lo Stoicismo189. La cultura stoica, nell’opera dei suoi principali esponenti, fu in effetti un tentativo concreto di promuovere il senso di comunan­ za fra gli uomini, basandosi sulla sostanziale uguaglianza del ge­ nere umano190. Per gli Stoici infatti tutti gli uomini sono fratelli, anche quelli delle generazioni future, di cui dunque occorre avere cura. Koinonia era del resto presente, nel pensiero stoico, fra tutte le parti del cosmo, nel quale era ritenuta esservi famigliarità fra uomo, natura e divino191. Così era in quanto la natura dell’uomo e del divino era caratterizzata dal medesimo logos che pervadeva l’intera physis192. È tuttavia la comunanza fra uomini quella che qui più importa rimarcare. Per gli Stoici infatti la natura umana richie­ de una razionale convivenza comunitaria come modalità di buona vita, la sola in grado di attivare tutte le virtù193. Approfondiremo queste tematiche trattando della natura razio­ nale e morale dell’uomo tematizzata dagli Stoici. Può nel frattempo essere opportuno soffermarsi su alcuni contenuti generali di tale dottrina, per meglio chiarirne il significato. Il contesto culturale dello Stoicismo Nello Stoicismo, così come in generale nell’epoca ellenistica e postellenistica, risulta come detto centrale la figura del saggio, la quale si poneva come modello di riferimento, per quanto assai dif-

189In merito al tema della schiavitù, se è vero che da un lato la morale stoica imponeva al padrone l’obbligo di trattare gli schiavi umanamente, è altrettanto vero che la schiavitù fu pienamente accettata dagli Stoici col pretesto che si può essere liberi anche in catene, se ci si comporta in base alla propria natura di uomini. 190Come afferma Crisippo: «Per natura, non c’è differenza fra gli uomini ed anzi è necessario che un uomo non sia estraneo ad un altro, per il solo fatto che egli è un uomo» (SVF, III, 340). 191 Come afferma Crisippo: «Tutto questo mondo deve essere considerato come una sola città comune agli dei e agli uomini» (SVF, III, 399). 192SVF, II, 1131; III, 245; III; 339; ecc. 193 Radice 2002, pp. 1111-1113; pp. 1135-1137.

294

C a p ito lo V I

Scile da raggiungere194. Sia la razionalità che la moralità costituiva­ no infatti per lo Stoicismo le caratteristiche essenziali del saggio, che in linea generale gli uomini dovevano cercare di imitare, essen­ do la sua condizione di vita la più felice195. In questo ruolo centrale attribuito al saggio, risulta evidente una continuità con il Socratismo, ed in particolare con il Cinismo196. Socrate fu in effetti considerato anche dal pensiero stoico come l’emblema delphronimos197. La Stoa fece riferimento alla tradizione socratica per tutto il corso della propria storia, nonostante effetti­ vamente il richiamo alla medesima potesse creare qualche proble­ ma, essendo essa, come detto, costituita da un insieme piuttosto eterogeneo di dottrine198. Fu Zenone, in particolare, ad assumere come riferimento la fi­ losofia di Socrate assai più di quella di Platone, che egli - come del resto buona parte della cultura ellenistica - considerava uno scettico con cui polemizzare199. Non è un caso, appunto, che gli Stoici abbiano assunto come modello il Socrate dei Memorabili di Senofonte, caratterizzato da un sapere meno dubitativo rispetto al Socrate di alcuni dialoghi platonici200. Il rapporto di continuità col Socratismo non costituì comunque la sola influenza culturale del pensiero stoico. Esso infatti si ca-

>94 SVF, I, 49; II, 50. L’azione del saggio rappresenta l’azione libera per eccellenza, in quanto essa si adegua perfettamente al corso degli eventi (SVF, I, 527). 195 Si tratta di un riferimento cui, come detto, non rinunciò nemmeno Ari­ stotele nell’Foca Nicomachea, assumendo talvolta come modello etico la figu­ ra dello spoudaios. 196 In questo senso anche Radice 2012, p.VI. 197 Ioppolo 1986 (p. 17) ricorda che «gli Stoici si ricollegavano a Socrate attraverso la discendenza cinica». Pure per Duhot 1996 (p. 19) «gli Stoici ri­ tengono dai Cinici la prospettiva che la filosofia debba centrarsi sull’uomo e sull’esigenza morale [...]. Gli Stoici si iscrivono dunque deliberatamente nella continuità con la filosofia non soltanto socratica, ma anche presocratica». 198Come scrive giustamente Alesse 2000 (p. 233), «le dottrine morali della Stoa mostrano una adesione evidente ad alcuni capisaldi del pensiero socrati­ co, a partire dalla identificazione di virtù e sapere e dalla teoria dell’unità delle virtù particolari nellaphronesis». Rinviamo in merito a SVF, III, 280; 299. 199svF, 1, 435. 1 legami fra Stoicismo e Platonismo sono ben esposti in Bonazzi-Helmig 2007 ed Engberg-Pedersen 2017. Sulla interpretazione scettica di Platone, rinviamo fra gli altri a Tarrant 1985. Sui legami invece fra Stoicismo e pensiero di Aristotele, rimandiamo a Sandbach 1985. 200Una accurata presentazione della figura di Socrate nella filosofia elleni­ stica è in Doring 1979.

Ellenismo. Scettici, Epicurei, Stoici

295

ratterizzò per una forte polemica con l’Epicureismo201. Zenone in particolare disprezzava le due idee basilari del sistema epicureo, ossia la riduzione dell’uomo a nucleo di atomi, e l’identificazione del bene con il piacere. Per gli Stoici, infatti, il piacere non può costituire il fine naturale per l’uomo, poiché esso non è qualcosa di originario ma di derivato, dunque non può essere un principio e pertanto nemmeno un fine. Occorre infatti, per comprendere sul piano onto-assiologico la realtà, risalire a ciò che è originario, e questo riferimento è per gli Stoici costituito dalla natura umana202. Per quanto riguarda infine il rapporto con lo Scetticismo acca­ demico, quest’ultimo entrò spesso in polemica con lo Stoicismo, al quale contestava una eccessiva fiducia nelle possibilità umane di raggiungere la verità, una troppo vasta tendenza alla sistematizza­ zione ed una troppo grossolana fede, a suo avviso, nella possibilità di definire l’uomo come un ente razionale e morale. Mostreremo ora gli argomenti addotti dallo Stoicismo proprio nel definire in tal senso l’uomo. La natura razionale dell’uomo I testi rimasti degli Stoici, che qui considereremo, sostengo­ no con molteplici argomenti la natura insieme razionale e mora­ le dell’uomo, con modalità che per molti aspetti presentano tratti comuni con quelle della filosofia classica203. Rimane ferma infatti, anche per il pensiero stoico, la centralità del logos. Come ha rimar­ cato in merito Reale, per gli Stoici «la physis caratteristica dell’uo­ mo è il logos, la ragione, e come lo scopo di ogni essere è quello di attuare la propria physis, così lo scopo e il fine dell’uomo sarà quello di attuare il logos, la ragione»204.

201 Per Reale, addirittura, «non è possibile comprendere la filosofia della Stoa prescindendo da questa contrapposizione a Epicuro, che agì in maniera costante e quindi determinante» (Reale 2004, voi. V, p. 329). 202 Come scrive infatti giustamente Radice 2012 (p. 87), «gli Stoici non di­ menticano mai che la ragione diventa consapevole di sé stessa - e dunque il principio del logos realizza sé stesso - solo quando nasce la specie umana». Rimandiamo in merito a Zenone, SVF, 1, 149. 203Per Crisippo, «in quanto essere razionale, l’uomo ha per natura soltanto la tendenza al bene morale» (SVF, III, 260). Ed ancora: «Quale è la natura specifica dell’uomo? La ragione che, quando è retta e perfetta, dà all’uomo la pienezza della felicità» (SVF, III, 200 a). 204Reale 2001, p. 333. Come scrive anche Long 1989 (p. 235), «l’analisi che gli Stoici offrono della natura umana può essere criticata da più punti di vista». Resta valida in ogni caso la tesi di fondo, secondo cui «l’uomo, e solo l’uomo, è

296

C a p ito lo V I

Per gli Stoici era necessario conoscere per agire bene, tanto che anche la phronesis era considerata una forma di episteme, così come il saggio era considerato un sapiente205. La stessa distinzione fra teoria e prassi risultava sfumata, dovendo la teoria necessaria­ mente tradursi in prassi etica di vita, e dovendo la prassi essere sempre sorretta dalla teoria206. L’uomo descritto dallo Stoicismo, come quello descritto dall’E­ picureismo, era caratterizzato inoltre da una marcata unità psico­ fisica. Questi pensatori attribuirono infatti grande importanza al corpo pur mantenendo egemonica la psyche, anch’essa ritenuta materiale207. La psicologia stoica fu in effetti una psicologia ma­ terialista, in quanto ogni fenomeno psichico fu descritto anche come fenomeno fisico. L’anima venne da loro fatta coincidere con la mente, o meglio con la sua parte egemonica, di cui tutte le altre componenti conoscitive, compresi i cinque sensi, erano considerati in vario modo propaggini208. La caratteristica principale della natura razionale umana era per gli Stoici - per utilizzare un termine moderno - l’autocoscien­ za, dato che il primo approccio conoscitivo dell’uomo è sempre ri­ volto alla propria struttura psicofisica, di cui deve appunto pren­ dere consapevolezza per governarla in maniera adeguata209. Come

da Natura dotato della capacità di comprendere gli eventi cosmici e di promuo­ vere la razionalità della Natura mediante i suoi propri sforzi». 2051 relativi frammenti degli Stoici a supporto di questa tesi si trovano in Ra­ dice 2002, p. 337. Aristone di Chio (su cui Ioppolo 1980), uno Stoico non a caso considerato “eterodosso”, limitò sostanzialmente la filosofia all’etica, ritenendo inutile per la buona vita sia la dialettica, sia il sapere enciclopedico. A suo avviso, infatti, «la virtù consiste nelle azioni e non ha bisogno né di moltissimi ragiona­ menti, né di moltissime nozioni» (Diogene Laerzio, Vite deifilosofi, VI, 11). 206Come ha affermato Tsekourakis 1974 (p. 76) gli Stoici, come gli Epicurei, non avevano interesse per una conoscenza meramente teoretica, ma usavano spesso la loro conoscenza in funzione strumentale all’etica. 207 «L’anima - dicono gli Stoici - vive una sola vita, quella del composto (bio-psichico), essendo essa mescolata col corpo» (Crisippo, SVF, II, 826). Come scrive giustamente Radice 2012 (p. 75), «il luogo reale in cui si incon­ trano il mondo fisico e quello psicologico è certamente l’uomo, e dunque vale per gli Stoici il principio che vale per tutti i filosofi da Socrate in poi, cioè che non si può fare etica senza prima aver pensato ad una antropologia, secondo la massima non solo filosofica, ma anche dettata dal buon senso: dimmi cosa sei e ti dirò che cosa fare. E l’uomo è anzitutto essere corporeo, come tutto ciò che esiste». Significativo in merito anche Crisippo, SVF, II, 762. 208Rinviamo in merito a Ioppolo 1987. 209 Citazioni a supporto di questa tesi si trovano in Radice 2002, p. 735. Si tratta, come noto, di uno dei tratti tipici della cosiddetta dottrina della oikeiosis (su cui Radice 2000).

Ellenismo. Scettici, Epicurei, Stoici

297

ha sostenuto in merito Roberto Radice, «tale coerenza si realizza totalmente nella interiorità deH’uomo, che diventa il nuovo e defi­ nitivo teatro della moralità»210. La centralità dell’uomo, rispetto agli altri animali di cui pure condivide la costituzione fisica, fu davvero rilevante per gli Stoi­ ci211. Non soltanto infatti, a loro avviso, tutta la natura è provvi­ denzialmente finalizzata all’uomo (Tantropocentrismo di cui poco oltre parleremo), ma l’uomo è il solo ente ad essere consapevole della realtà e della sua presenza in essa212. Con questa autocoscien­ za, l’uomo stoico comprende che vero bene è per lui soprattutto ciò che arricchisce la sua conoscenza, mentre vero male è ciò che impoverisce tale conoscenza, limitando per conseguenza la virtù e dunque la felicità213. Questa costituisce per il pensiero stoico una stabile verità, conseguente ad una legge naturale eterna214. Tale ve­ rità per lo Stoicismo si può raggiungere in quanto, in condizioni normali - ossia naturali: il saggio è semplicemente un uomo che realizza compiutamente la propria (pur ottima) natura - , l’uomo può comprendere in modo corretto la realtà, servendosi peraltro principalmente del nesso causale, data la grande sistematicità della stessa215.

210Radice 2012, p. 238. 211 Come scrive giustamente Pohlenz 1967 (voi. I, p. 240), «la physis dell’uomo include, accanto alla ragione, anche un aspetto animale. Sebbene questo non rappresenti se non la base e la condizione per lo sviluppo della specifica essenza dell’uomo, e solo come tale debba essere valutato, rimane pur sempre una parte necessaria della sua physis», di cui non si può non tenere conto, essendo per gli Stoici l’uomo, pur in posizione di primo piano, un ani­ male come gli altri. 212 Come ha affermato in merito Crisippo, «agli esseri razionali la ragione è stata data come coronamento di una posizione eminente: ecco, dunque, che per questi esseri il vivere conforme a ragione corrisponde esattamente al vivere conforme a natura» (SVF, III, 178). 213 Sulla educazione nello Stoicismo, rinviamo a Pire 1958. 214 Come ottimamente sintetizza Reale 2004 (voi. V, p. 463), «la legge uma­ na non è altro che l’espressione di una legge naturale eterna, che si radica nella physis e che quindi nasce dal logos stesso che plasma tutte le cose, il quale, in virtù della sua razionalità, stabilisce ciò che è bene e ciò che è male, e dunque impone obblighi e divieti». 215 Come scrive giustamente Bonazzi 2003 (p. 101), «un tratto caratte­ rizzante dello Stoicismo è dato dalla convinzione che è possibile conseguire una conoscenza infallibile della realtà, e che dunque è possibile distinguere con sicurezza tra vero e falso». Come scrive inoltre Ioppolo 2013 (p. 173), per il pensiero stoico, «la conoscenza non si costituisce attraverso comprensioni isolate e staccate le une dalle altre, ma ogni nuova comprensione deve essere

298

C a p ito lo V I

Se non si lascia infatti sviare, come però purtroppo fa la mag­ gior parte delle persone, da errori dovuti spesso alle poco educative modalità sociali, l’uomo può giungere per gli Stoici alla verità anche con riferimento alle questioni più importanti, ovvero quelle inerenti al bene e al male216. Il cattivo ordinamento delle modalità sociali produceva in effetti per gli Stoici insane passioni, le quali prende­ vano forma soprattutto in quei soggetti caratterizzati da una ma­ teriale mancanza di tonos, ossia di vigore. Le passioni a loro volta erano costituite da impulsi eccessivi, tali da condurre la ragione ad una errata valutazione del bene e del male217. La causa principale di errore per gli Stoici era dunque sempre, in ultima analisi, la ragio­ ne218. Come scrive infatti Bénatouil, «la passione consiste in giudizi della ragione stessa, ma di una ragione corrotta, lacerata cioè dalle sue molte opinioni incoerenti, dunque instabile e debole»219. Non vi è pertanto nel pensiero stoico, almeno nella sua parte maggioritaria, alcuna componente irrazionale dell’anima220. Se tale componente fosse presente, crollerebbe l’intero sistema filo­ sofico stoico. Se esistesse per natura una componente irrazionale dell’anima, l’uomo non sarebbe infatti né ragionevole né buono per natura221. Per conseguenza le passioni non potrebbero più essere considerate, come invece fanno gli Stoici, come malattie dell’anima (pathos nel significato medico originario di manifestazione morbo-

confrontata con quelle precedenti per esaminare se essa sia in contraddizione con esse». In tal senso anche Duhot 1989. 216 Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VII, 89. Sul fatto che i principali errori per gli Stoici nascano nell’ambiente sociale, ha insistito anche Aristone di Chio (Ioppolo 1980, pp. 102 ss.). 217 Zenone definiva la passione come una eccitazione frenetica dell’uomo, paragonandola al movimento scomposto dei volatili: la sua caratteristica era in effetti per gli Stoici l’eccesso in relazione al movimento (SVF, I, 205-206; 111,412). 218 Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VII, 110-115. Per gli Stoici rimase sem­ pre importante l’assenso, ossia l’approvazione che la ragione concede ai dati sensibili iniziando il corretto processo conoscitivo. Come scrive Radice 2012 (p. 235), «siccome per gli Stoici il principio della realtà e della morale è il logos, cioè la ragione intesa come bene, non ci sarebbe spazio per il male, se non fosse che l’assenso è ritenuto libero di voltare faccia alla ragione e alle sue regole necessarie [...]. Dall’assenso, quando sia contrario a verità e ragione, vengono le passioni, le quali comportano una deviazione dalla ragione, annullando la sua forza». 219 In Trabattoni-Vegetti 2016, voi. Ili, pp. 121-122. In questo senso anche Vegetti 1989, p. 227. 220 Su questa tematica, rinviamo a Brennan 2005. 221 In tal senso, fra gli altri, Cicerone, De finibus, III, 20-22.

Ellenismo. Scettici, Epicurei, Stoici

299

sa), ovvero come ciò che conduce la ragione a scegliere il male pur conoscendolo come tale222. Per conseguenza, non potrebbe nem­ meno essere tematizzata tutta quella terapeutica filosofica che lo Stoicismo in parte condivise con l’Epicureismo223. Rimane comunque fermo che, per gli Stoici, la natura razionale dell’uomo risulta strettamente connessa con la sua natura morale. La virtù, come ora mostreremo, consiste infatti nella capacità della ragione di trarre vantaggio da tutte le cose, non solo dai beni ma an­ che dalle cose indifferenti, usandole in maniera conforme a quanto richiesto appunto dalla physis, e dunque dal logos224. Le virtù in­ fatti per gli Stoici sono scienza, ovvero costituiscono un sistema di rappresentazioni stabili che consentono di conoscere il mondo ed il nostro ruolo in esso225. Gli Stoici unificarono per questo le virtù, in quanto unica ne è la matrice, ossia appunto la ragione. La virtù era per questo a loro avviso paragonabile ad una consapevole arte della buona vita, in grado di consentire a chi la possiede di compie­ re bene tutte le azioni, portandosi in quella armonica condizione di “sapienza-saggezza” che conduce alla massima felicità226. La natura morale dell’uomo Come sottolineato, in stretta connessione alla natura razionale, per gli Stoici l’uomo possiede anche una natura morale. Una vol­ ta conosciuto con verità il bene, conoscenza cui tende per natura,

222 Cicerone ricorda che «Zenone voleva che il saggio fosse privo di passio­ ni, quasi fossero malattie» (SVF, I, 207). Infatti, «le passioni possono essere estirpate dalla mente fino a non farne rimanere nell’uomo fibra [...], grazie alla meditazione ed all’esercizio della virtù» (SVF, III, 447). 223 Cicerone si lamentava del fatto che gli Stoici descrivevano con grande dovizia di particolari le passioni, ma non fornivano poi molte terapie (SVF, III, 483). La comprensione diagnostica ed eziologica delle stesse costituiva tut­ tavia non solo un presupposto necessario per la terapia, ma essa stessa una terapia. Alla teoria stoica delle passioni si applica bene del resto il linguaggio della medicina, anche perché l’anima stoica è ritenuta materiale, coincidente col pneuma, che costituisce l’agente fisico del piano provvidenziale con cui la ragione divina governa il mondo, nonché l’elemento di coesione dei corpi, il principio vitale dei viventi. 224 Per gli Stoici non possono essere considerati beni cose come la ricchezza 0 la bellezza, le quali possono - senza intelligenza - essere fatte oggetto di cattivo uso, e pertanto nuocere. Esse pertanto possono solo essere considerate indifferenti (SVF, 1, 190; 351; III, 70; 117). 225 Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VII, 89-90. 226 Su questa tematica, rinviamo a Rodis-Lewis 1970, Inwood 1985 e Togni 2010.

300

C a p ito lo V I

l’uomo tende infatti per natura anche a porlo in essere227. Per que­ sto motivo si può a nostro avviso affermare che, anche per gli Stoici, Yanthropos è buono “per natura”, in quanto realizza la propria physis appunto facendo il bene, ossia conducendo una vita virtuosa228. Questa vita virtuosa, come già abbiamo rimarcato, deve essere svolta, per essere realmente tale, in armonia con gli altri uomini e col cosmo229. Questa naturale comunanza tuttavia, per potersi rea­ lizzare, necessita non solo di una adeguata consapevolezza, ma an­ che della presenza di modalità sociali comunitarie, necessarie sia per non fuorviare la ragione producendo insane passioni, sia per non far mancare ad alcuno il necessario230. Questa consapevolezza etica stoica, più che in riforme politiche concrete o progetti politici radicali (assai difficili, come ricordato, da realizzare in epoca ellenistica), sfociò significativamente nella creazione di alcune utopie, quali la Politeia di Zenone, ma soprat­ tutto quelle cui poi accenneremo di Evemero e Giambulo231. Fre­ quenti furono anche i richiami al bene comune, che per gli Stoici l’uomo tende a realizzare in maniera autonoma a causa appunto della propria natura morale, la quale lo induce a privilegiare l’inte­ resse generale rispetto all’interesse particolare232. L’universalismo stoico parte in effetti proprio da un dato na­ turale, costituito dalla oikeiosis, ossia dalla tendenza della natura umana - ma propria anche degli altri viventi - a porre in essere ciò che ne favorisce la conservazione233. L’armonia delle varie compo­ nenti del cosmo, pensato come un’unica città, è ritenuta essenziale

227SVF, III, 389. Come scrive in merito Ioppolo 2013 (p. 172), «l’analisi di Crisippo poggia sul postulato che la ragione umana è per sua natura buona e volta al conseguimento del bene». 228per gì; stoici non può mai esistere un eccesso di virtù (SVF, III, 141) 229 Su questa tematica rinviamo a Sellars 2003, Vogt 2008 e Salles 2009. 230Per alcune citazioni di supporto, rinviamo a Radice 2002, p. 1289. 231 Una buona sintesi di queste utopie è stata fatta da Lucio Bertelli, in Fir­ po 1982, voi. I, pp. 556-563. Sull’utopia di Giambulo in particolare, rinviamo a Di Capua 1989. Il filone dell’utopia nel pensiero greco fu pressoché sempre presente, come mostrano, fra gli altri, i saggi di Giannini 1967, Tortorelli Ghidini 1980 ed il volume collettaneo Carsana-Schettino 2008. In generale, sulla politica nel pensiero stoico rinviamo a Lorand 2005. 232 Citazioni a supporto di questa tesi si trovano in Radice 2002, p. 1113. Una ottima trattazione in merito è Laks-Schofield 1995. 233 Cicerone, Definibus, III, 16-18. Scrive correttamente Lévy 2002 (p. 166) che «prima di giungere alla razionalità, l’uomo, alla stessa stregua di tutti gli esseri viventi, cerca istintivamente di ottenere ciò che è buono per la sua natura e di evitare ciò che le è contrario. Arrivato all’età della ragione, egli conserva in sé questo impulso vitale (horme/impetus), non come una potenza dell’anima

Ellenismo. Scettici, Epicurei, Stoici

301

per la stessa conservazione umana234. Per questo motivo kata physin, per gli Stoici, era sia l’amore per sé stessi, sia l’amore verso i propri simili e verso la natura235. La morale stoica, nel tempo, è stata talvolta interpretata come una morale passiva, attinente cioè la dimensione del patire anzi­ ché dell’agire, invitante l’uomo a resistere di fronte alle avversità, a sopportare il dolore e ad accettare il destino. Queste rappresenta­ zioni della morale stoica tuttavia, per quanto contengano un fondo di verità - il saggio stoico doveva in effetti ricercare la maggiore possibile autonomia dalle circostanze della vita - , sono riduttive se riferite allo Stoicismo originario. Basti rilevare che il phronìmos non risulta mai per gli Stoici impassibile, sia in quanto le emozioni sono ineliminabili dalla natura umana, sia in quanto le stesse pos­ sono anche essere utili qualora derivanti da giudizi veri (come ad esempio la gioia derivante dall’esercizio della virtù) 236. Il tema principale della morale stoica - in questo senso non dissimile dalla morale classica - fu infatti non il ripiegamento in­ dividuale, bensì il rivolgimento comunitario. Come ha affermato infatti Max Pohlenz, «per la Stoa l’uomo è un essere comunitario. Può esistere solo dentro la comunità. Verso la comunità lo spinge il suo sentimento innato, e integrarsi in essa e contribuire alla sua conservazione è il compito assegnatogli dalla natura e dalla legge razionale che domina l’universo. A questo punto comincia la sfera specificamente umana della moralità, che rimane preclusa all’ani­ male»237. Questa tesi, nei frammenti rimasti, è supportata da mol­ teplici testimonianze238. Negli Stoici, come in quasi tutto il pensiero antico, fu inoltre presente una netta condanna della crematistica239. La stessa pro­ prietà privata sembra essere stata considerata dagli Stoici contro

estranea alla ragione, ma come questa ragione stessa nella misura in cui essa ordina all’uomo di agire». 234Analizza ottimamente questo tema Schofield 1991. 235 Citazioni a supporto di questa tesi si trovano in Radice 2002, p. 1111. 236Sulle emozioni nel pensiero antico, rinviamo a Giardina 2008. Ricordia­ mo soltanto, en passant, che, per lo Stoicismo, i sophoi erano in grado anche di provare passioni positive. 237 Pohlenz 1967, voi. I, p. 233. 238 «L’uomo è il solo animale sociale, per natura portato a conciliarsi con sé e con tutti i suoi simili» (SVF, III, 492). Emblematico anche quanto riporta Cicerone a proposito di Crisippo (Definibus, III, 62-65). 239 Citazioni a supporto di questa tesi si trovano in Id., pp. 1161; 1175-1177.

302

C a p ito lo V I

natura, dal momento che unica e comune è la physis su cui si fonda il diritto naturale di tutti ad una buona vita240. A riprova di questa affermazione, sta anche il fatto che la giusti­ zia fu spesso posta in relazione con la retta distribuzione dei beni, la quale richiedeva, come condizione minimale, che a nessuno mancasse il necessario241. Significative in merito, come ricordato, le utopie di Evemero e Giambulo, i quali diedero - per quanto un po’ astrattamente - la rappresentazione di uno Stato ideale nel quale vigevano ideali di eguaglianza e giustizia242. In questi luoghi utopici erano banditi l’arricchimento, la guerra, l’ambizione ed in generale tutto ciò che si opponeva privatisticamente ad una vita comunitaria. L ’antropocentrismo Caratteristica principale del pensiero stoico, con riferimento all’uomo, fu il già accennato antropocentrismo. Sia a Socrate che ad Aristotele come noto, in base al alcuni passi controversi, è stata da alcuni studiosi243attribuita una concezione antropocentrica, ov­ vero la tesi secondo cui l’uomo costituirebbe il fine ultimo di tutto ciò che esiste244. Questa tesi tuttavia, come già abbiamo argomenta­ to anche nel volume sulla natura, è solo molto arbitrariamente at­ tribuibile ai due filosofi classici. Essa si presenta invece strutturata, e più volte ripetuta, nel pensiero stoico245. In Crisippo ad esempio si legge: «A favore di chi è stato creato il mondo? Ovviamente per

240 Diogene Laerzio, Vite deifilosofi, VII, 128. 241 Citazioni a supporto di questa tesi si trovano in Radice 2002, pp. 95; 1087-1089; 1095-1099; 1241. 242 Come scrive correttamente Grilli 2002 (p. 91), «lo Stoicismo predica la partecipazione del saggio alla vita politica; ma lo Stato ideale e l’ideale dello Stato sono ancora astratti, troppo astratti per avere un contenuto concreto». 243 II riferimento principale è Sedley 2011. 244 Per Socrate, Senofonte, Memorabili, I, 4; IV, 3; per Aristotele, Politica, 1256 b. 245 Come affermato giustamente da Reale 2004 (voi. V, p. 411), «gli spunti di antropocentrismo nella tradizione greca sono assai limitati, e senza signi­ ficative adesioni e sviluppi. Solo con gli Stoici questa concezione si impone». In maniera analoga si era espresso anche Pohlenz 1967 (voi. I, p. 163), il quale aveva come noto sottolineato le origini semitiche di Zenone, affermando che solo nel pensiero stoico «le piante e gli animali sono creati per l’uomo», e che «tutte le forme di vita inferiori esistono in funzione di quelle superiori. La terra nutre le piante, queste nutrono gli animali, e gli animali servono all’uomo come strumenti e come cibo» (Id., p. 195). Pressoché unica eccezione, nel cosiddetto Mediostoicismo, Panezio (su cui Alesse 1994).

Ellenismo. Scettici, Epicurei, Stoici

30 3

quegli esseri animati che hanno l’uso della ragione, ossia per gli uomini e per gli dei»246. E molte altre testimonianze potrebbero essere aggiunte247. L’uomo assunse infatti in pressoché tutto lo Stoicismo un ruolo fortemente privilegiato nel cosmo, concessogli dal divino proprio per la presenza in esso del logos248. Si tratta di una differenza im­ portante rispetto alla precedente filosofia classica. Nel prossimo capitolo ci occuperemo invece della cultura latina, in molti dei cui esponenti lo Stoicismo assumerà tratti, per quanto concerne l’uomo, di grande originalità.

246SVF, II, 1131. In tale direzione anche SVF, II, 1041. 247 In generale, è possibile rinviare ai frammenti SVF, II, 1152-1167. 248 «Non c’è nulla che sia meglio della ragione, ed è perché la ragione è la medesima nell’uomo e in dio, che il primo elemento di comunanza fra l’uomo e dio sta proprio in essa» (Crisippo, SVF, III, 339).

VII

LA CULTURA LATINA

1. Note generali L’uomo fu al centro anche della cultura latina, sia di quella filo­ sofica, di cui qui principalmente tratteremo, sia di quella letteraria e scientifica, a cui qui solamente accenneremo1. La humanitas infatti divenne ben presto fra i Latini, già intorno al I secolo avanti Cristo, «sinonimo di buona educazione, cultura, istruzione, erudizione e poi di cortesia, affabilità, amorevolezza e finezza»2. Questo, pur con differente declinazione, si verificò sia in filosofi come Lucrezio, Se­ neca, Cicerone, Epitteto e Marco Aurelio, sia in letterati come - in vario modo - Quintiliano, Virgilio, Orazio, Ovidio e Catullo3. Un dato rilevante è che, in molti di questi autori, l’attenzione sàYhumanus emerse spesso in implicita opposizione all’imperium, ovvero alla mentalità tipica del potere nell’epoca romana4. L’imperium possedeva infatti come caratteristiche principali la tendenza al comando, al pragmatistmo ed all’arbitrio, contenuti incompati­ bili con la humanitas per come poc’anzi descritta5.

1 Sulla filosofia romana, rinviamo soprattutto, per la prima fase, a Garbarino 1973; per uno sguardo di insieme a Levi 1949, André 1977 ed a Maso 2012. Interessanti saggi anche nel recente Alesse-Fermani-Maso 2017. 2 Gennari 2017, p. 229. In tal senso Aulo Gellio, Notti Attiche, XIII, 17. 3 Una aggiornata storia della letteratura latina che può essere ben assunta come riferimento, è Conte 2012. 4 Sulla cultura romana in rapporto anche alla società, importante il volu­ me collettaneo Barnes-Griffìn 1997. 5 Per una sintetica descrizione di questa mentalità in epoca romana, ci per­ mettiamo di rinviare a Grecchi 2009, pp. 167-176, oltre che a Den Boer 1979 e Giardina 1994. Note sono in merito le Satire di Giovenale il quale, sul finire del I secolo d.C., descrisse una Roma divenuta ormai da tempo teatro di dis­ solutezza. Corrotti, avidi, ignoranti costituivano infatti i realistici personaggi delle sue opere.

306

C a p ito lo V I I

In effetti, in epoca soprattutto imperiale, l’ambizione, la cupidi­ gia e la violenza non furono soltanto i tratti psicologici del cittadino romano benestante, ma si diffusero nella mentalità comune6. Non stupisce che la formazione culturale della humanitas si pose in op­ posizione a questa situazione, educando, come in parte il diritto, quanto meno al rifiuto della crudelitas ed alla assunzione della urbanitas come ideali di vita7. Lo Stoicismo fu, come detto, la struttura filosofica sottostante più presente in epoca romana. Per questo, per caratterizzare l’o­ pera soprattutto di Seneca, Epitteto e Marco Aurelio, si è talvolta utilizzata la categoria di Neostoicismo. Inizieremo comunque cro­ nologicamente questa breve trattazione dell’uomo nella cultura la­ tina, parlando dell’epicureo Lucrezio.

2. Lucrezio Come accennato in precedenza, Tito Lucrezio Caro (94-50 c.a.), i cui dati biografici rimangono tuttora in larga parte incerti, fu in­ dubbiamente il maggiore esponente dell’Epicureismo in epoca ro­ mana8. La sua opera in sei libri, il De rerum natura, per quanto caratterizzata anche da tratti originali, costituì in sostanza, per am­ missione dello stesso Lucrezio, una esposizione in forma poetica dei contenuti principali del Peri physeos di Epicuro9. Oggetto del

6Scrive Cantarella 1999 (p. 130) che «per un romano, la virilità era la mas­ sima virtù: una virtù politica. Fin dall’infanzia, il romano veniva allevato per essere un dominatore. Come civis romanus, egli era destinato a un compito: conquistare il mondo [...]. L’etica del romano, insomma, era quella della so­ praffazione. Sempre e comunque egli doveva imporsi: sui concittadini, con l’uso politico della parola; su tutti gli altri, quelli che non erano romani, con la forza delle armi e la superiorità delle leggi. Per diventare un civus romanus degno di questo nome, dunque, egli doveva imparare sin dalla più tenera età a non sottomettersi mai, e a imporre a tutti la sua volontà». Come scrive Virgilio nelYEneide (VI, 851-852), «risparmiare chi si sottomette e debellare chi osa opporsi» era la massima dell’impero romano. 7 Circa il diritto romano in rapporto a queste tematiche, rinviamo a Can­ tarella 2011. 8 Come scrive Fellin 1997 (p. 42), «sul luogo di nascita, sulla condizione sociale, sull’ambiente in cui il poeta si formò culturalmente e trascorse la mag­ gior parte della sua esistenza, si possono avanzare soltanto ipotesi, sulla base degli indizi forniti dal poema». 9De rerum natura, I, 62-79; Uh 1-30; V, 51-54; VI, 1-42. Circa i rapporti fra il pensiero di Lucrezio ed Epicuro, rinviamo a Clay 1983 e Graca 1989.

La cultura latina

307

testo fu soprattutto la physis, ma, all’interno della medesima, un posto importante occupò anche l’uomo10. In questa sede, tema di analisi saranno principalmente i libri dal III al VI del De rerum natura, aventi come contenuti in larga parte l’anima umana e le vicende umane. Non entreremo qui nei dettagli della trattazione lucreziana dell’anima, che si basa peraltro su una distinzione terminologica tra animus, mens ed anima non sempre chiara11. Lucrezio poneva del resto l’uomo come una unità psicofisica, alla maniera presocratica. Per questo motivo riteniamo più opportuno valutare l’uomo, nella sua opera, nella totalità del suo rapporto alla vita12. In questo rapporto, riveste particolare importanza il tema della morte13. La razionalità e la moralità dell’uomo entrano infatti in campo, in Lucrezio, soprattutto per far fronte al timore della mor­ te. Si tratta probabilmente dell’apporto più originale di Lucrezio - almeno a quanto conosciamo - rispetto all’opera di Epicuro. Il poeta latino insiste molto, in merito, sul fatto che la natura è in­ differente all’uomo14, il quale comprende di essere l’unico ente in grado di attribuire un senso ed un valore alla realtà, ma capisce anche di non occupare alcun ruolo privilegiato nel cosmo, con tutta la sofferenza che questa duplice consapevolezza comporta. Per Lucrezio, come per larga parte del pensiero greco, vi era una sostanziale continuità fra mondo vegetale, animale ed umano. I viventi erano infatti caratterizzati da forme biologiche molto si­ mili. Ciò derivava a suo avviso dal fatto che l’uomo si era sviluppato inizialmente da forme organiche semplici, le quali nel tempo, per adattarsi meglio alle esigenze della vita, divennero più complesse. Si tratta di una ricostruzione che ricorda molto quella presocratica, in particolare quella di Empedocle.

10Una panoramica complessiva sull’opera di Lucrezio si ritrova in Winspear 1968, Kenney 1977, Algra-Koenen-Schrijvers 1997, Godwin 2004 e Gillespie-Hardie 2007. 11 De rerum natura, III, 166 ss. Come scrive Boyancé 1985 (pp. 155-156), sottolineando i limiti dell’analisi di Lucrezio: «Che cosa studierà Lucrezio nell’uomo? Non tutto il composto umano, ma in modo speciale l’anima. E neppure dell’anima tutto sarà esaminato nei particolari». Egli aggiunge inol­ tre (Id., p. 173) che, sull’uomo, «forse Lucrezio non ha saputo dominare una materia così ricca». 12Sul rapporto fra il pensiero di Lucrezio ed i Presocratici, rinviamo a Piazzi 2005. 13Rinviamo, in merito, a Perelli 1969, Salem 1990 e Segai 1998. 14De rerum natura, V, 195-234.

308

C a p ito lo V I I

Il tema della nascita dell’uomo, e per conseguenza della storia umana, costituisce uno degli apporti più interessanti dell’opera di Lucrezio15. Nel V libro, largamente dedicato a questo tema, Lucre­ zio partì infatti descrivendo i vari rischi cui erano sottoposti gli uo­ mini “primitivi”, i quali a suo avviso vivevano come animali, senza alcuna forma comunitaria16. Essi infatti non erano ancora in grado di guardare al commune bonum, non sapendo affatto regolare la condotta attraverso i buoni comportamenti17. Lentamente però, per rifuggire i pericoli, si crearono le prime forme di aggregazione sociale, che furono in parte causa ed in parte effetto di alcune sco­ perte tecniche (il fuoco, l’agricoltura, la costruzione di abitazioni). Il linguaggio in particolare, per Lucrezio così come per Epicuro, costituì il principale fattore di civilizzazione18. Rispetto ad Epicuro, Lucrezio pose una attenzione particolare al ruolo della famiglia, anche a suo avviso, come per Aristotele, primo nucleo comunitario19. Essa nacque da un originario patto di amici­ zia (foedus amicitiae) fra uomini senza il quale, secondo Lucrezio, la stirpe umana si sarebbe estinta20, rischio che comunque continuò a correre a causa del diffondersi della crematistica21. Quest’ultima infatti, che crebbe insieme al progresso tecnico, riportò conflittua­ lità nella comunità umana, dividendo gli uomini e tornando così ad esporli ai pericoli della natura22. Lucrezio affermò in effetti che «il primo uomo che indossò abiti in pelle fu ucciso per questi dai suoi compagni»23, confermando così il rapporto, pressoché sempre presente nel mondo antico, tra crematistica e conflittualità.

15 Sulla ricostruzione lucreziana della storia dell’umanità, testi importanti sono Perelli 1966-1967, Blickmann 1989 e Grilli 1995. Su talune “incoerenze” del pensiero di Lucrezio a proposito della storia umana, Ruch 1969. 16 Rilevanti, nel V libro, sono soprattutto i versi 925-1457. Come scrive C. Lévy (in Trabattoni-Vegetti 2016, voi. Ili, p. 211), per Lucrezio «l’essere uma­ no, ogni essere umano, alla sua nascita è in contatto diretto con la natura, ma in modo istintivo, il che fa sì che egli non differisca fondamentalmente dall’a­ nimale». 17De rerum natura, V, 958-959. 18 Id., 1011-1104. Sul tema del linguaggio in Lucrezio, rinviamo a Dionigi 2005. 19 Un breve testo riassuntivo circa la posizione di Epicuro sulla famiglia è Brennan 1996. 20De rerum natura, V, 1019-1027. 21 Id., 1105-1125. 22 Come afferma correttamente Li Vigni 2009 (p. 103), «è la produzione del superfluo, l’introduzione della proprietà e dell’oro» a creare conflitto, anche per Lucrezio. 23 Id., 1420-1421.

La cultura latina

309

A proposito di questa ricostruzione, si è molto discusso se la “filosofia della storia” di Lucrezio sia da considerare progressiva, dato il sostanziale progresso che egli comunque descrisse nella sto­ ria umana, oppure regressiva24, dato che in più punti egli mostra come la crematistica abbia fatto regredire la stirpe umana verso la ferinità25.1 primi uomini potevano essere vittime della natura, ma col tempo divennero vittime gli uni degli altri, il che costituiva una evidente forma di inciviltà. La valutazione di Lucrezio circa l’evo­ luzione delle cose umane rimase insomma problematica ed aperta. Nell’umanesimo di Lucrezio fu presente dunque una discreta vena anticrematistica26. Egli non usò infatti parole tenere in merito alle passioni connesse al denaro, affermando che l’inferno esiste solo qui sulla terra, e riguarda coloro che, ricercando appunto il denaro, non conoscono le parole della saggezza27. Fu a suo avviso la comparsa della proprietà, nonché di re, città e fortezze volte ad amministrarla, ad aver ricreato fra gli uomini la disunità28. Per Lucrezio, la causa principale della infelicità umana fu co­ munque costituita, come ricordato, dal timore della morte. Que­ sto timore era a suo avviso responsabile dei desideri irrazionali ed immorali - contrari ad una natura umana che rimane, anche per il Nostro, implicitamente razionale e morale - che conducevano ad un deterioramento della vita individuale e sociale. Come scrive Lucrezio, «la brama e la cieca passione per posizioni di potere, che trascinano gli sciagurati a sorpassare i limiti della legge, e [...] a lottare giorno e notte con tutte le forze per cercare di raggiungere le

24 In favore di una posizione «progressiva», si sono schierati Sasso 1979 ed in parte Bertoli 1980. Secondo alcuni studiosi, si dovrebbe parlare invece di una filosofia della storia «ciclica» in Lucrezio, dato che egli sottolinea più volte l’eterno ritorno di tutte le cose nel ciclo della natura (De rerum natura, III, 944-945; 1080-1081). Fornisce un sintetico quadro di insieme del dibattito Konstan 2007, pp. 116 ss. 25De rerum natura, V, 988-1000. 26 All’inizio del II libro del De rerum natura, Lucrezio pone il proprio sguardo sulle lotte meschine del genere umano, elogiando il consiglio di Epi­ curo di perseguire i piaceri semplici ed evitare desideri non necessari e non naturali. Ecco le sue parole: «O misere menti degli uomini, o animi ciechi! In quale tenebrosa esistenza e fra quanto grandi pericoli si trascorre questa breve vita! Come non vedere che null’altro la natura ci chiede con grida imperiose, se non che il corpo sia esente dal dolore, e nell’anima goda di un senso gioioso sgombra d’affanni e di timori? Dunque vediamo che al nostro corpo necessi­ tano ben poche cose che possano lenire il dolore, e in tal modo offrano anche molti soavi piaceri» (14-22). 27 Id., Ili, 1014-1023. 28Id., V, 1129-1135.

C a p ito lo V I I

3 io

vette della ricchezza, questi influssi negativi sulla vita sono nutriti in non piccola misura dal timore della morte»29. Fu in effetti una grande scoperta psicologica - per quanto in parte anticipata dalle epoche precedenti - comprendere che un timore errato può costituire causa di azioni innaturali. Il timore della morte stimolava infatti per Lucrezio la ricerca eccessiva di ricchezza e potere, in quanto gli uomini ritenevano che queste cose li avrebbero in maggior misura difesi dalla morte30. Come scrive giustamente Konstan, «il meccanismo attraverso il quale il timore della morte si converte in avidità, e l’avidità in timore dell’aldilà, è di natura fondamentalmente simbolica: da un lato, le persone im­ maginano che la povertà sia simile alla morte; dall’altro, i tormenti del mondo a venire sono proiezioni del’irrequieta vita piena di de­ sideri che le persone conducono in questo»31. Per Lucrezio, vi era un solo rimedio a queste ansie ed a queste conseguenti cattive modalità di vita. Esso era a suo avviso costituito dal potere della ragione, o meglio dalla filosofia epicurea. Quest’ultima infatti invitava sempre ad accontentarsi di ciò che è necessario, accettando con saggezza quanto la natura prescrive per gli enti finiti, ivi comprese la malattia e la morte32. Lucrezio argomentò in merito in più occasioni l’importanza della conoscenza, in quanto finché le cose non ci sono chiare, siamo «come i bambini, che tremano e han­ no paura di tutto nella oscurità che rende ciechi [...]. Questa terrifi­ cante tenebra che avviluppa la mente deve essere dispersa [...] dallo studio [...] della natura e del principio che vi soggiace»33. Interessante che, nel V libro, Lucrezio affermi - come ricordato - che ci fu un tempo in cui né la paura della morte, né la passione per il denaro erano presenti. Sottolineare questo aspetto contribu­ iva a pensare come maggiormente possibile, essendo già stata spe­ rimentata, una condizione favorevole alla eliminazione dei falsi ti­

29 Id., Ili, 59-6430Id., II, 20-53. 31 Konstan 2007, p. 10. 32 Scrive giustamente Perelli 1969 (p. 13) che «0 mondo umano di Lucrezio è al di fuori di ogni precisa dimensione politica, e la sua speranza di palinge­ nesi mediante la filosofia epicurea non si concreta in alcun progetto o pensiero di un diverso ordinamento sociale. Lucrezio si limita ad una generica presa di posizione negativa, dominato com’è dall’orrore per i mali della società, e dalla società rifugge cercando scampo nel vangelo liberatore della filosofia di Epicuro». 33 De rerum natura, II, 55-61. Nel III libro (314-322) Lucrezio argomenta anche, con il razionalismo ottimistico tipico di Epicuro, che si può sempre riu­ scire a condurre una vita felice semplicemente praticando la ratio.

La cultura latina

311

mori. Questi ultimi si insediarono in effetti solo quando, col cresce­ re della ricchezza, gli uomini fecero venire meno la collaborazione amicale. Chi è preda dell’angoscia, cercando di porvi rimedio con la affannosa ricerca del denaro e del potere, era paragonato infatti da Lucrezio (con immagine antica) a colui che è sbattuto da ogni parte su una nave in tempesta. La tempesta simboleggiava l’essere in balia di passioni che non si controllano, e che come tali sono innaturali, così come è innaturale la vita di ogni audace mercante alla frenetica ricerca di profitti. Avidità ed ambizione, che erano i vizi dell’età romana della fine del periodo repubblicano vissuto da Lucrezio, erano a suo avviso i principali «desideri non naturali e non necessari» che conducono l’uomo alla conflittualità ed alla conseguente infelicità34. L’uomo in preda al timore della morte si mostra infatti, a suo avviso, simile al bellicoso Marte, non alla pacificatrice Venere - per utilizzare i termini mitici del famoso primo proemio - , creando disarmonia nella società35. Per concludere, si può come detto affermare che nella sua ricer­ ca razionale di verità associata ad una ricerca etica di vita buona, anche per l’epicureo Lucrezio, seppur in modo differente rispetto a quello della filosofia classica, l’uomo risulta dotato di una natura razionale e morale.

3. Cicerone Note generali L’opera letteraria di Marco Tullio Cicerone (106-43 c.a.) fu una delle più vaste della cultura latina, ripartita fra testi filosofici, po­ litici e retorici36. L’uomo occupa il centro di tale opera la quale,

34 Cicerone, De officiis, I, 7, 24; I, 8, 25-26 35 Sul proemio del De rerum natura, rinviamo a Giancotti 1959. Il richiamo a Venere condurrebbe a dover trattare anche della condizione della donna in Lucrezio, tema che richiederebbe uno spazio molto ampio. In estrema sintesi, è possibile solo affermare che Lucrezio, in prevalenza, sembra descrivere la donna come oggetto sessuale (V, 1160-1189). Egli esprime tuttavia (V, 11901287) anche affermazioni che contrastano con questa visione, come il consi­ glio di accettare la convivenza con una donna di animo gentile, in quanto dalla consuetudine di vita può anche seguire l’amore (V, 1278-1287). In generale, sul ruolo della donna a Roma, rinviamo ad Achard 1995 e Dixon 2001. 36 Per un inquadramento generale della vita e del pensiero di Cicerone, rin­ viamo a Michel i960, Narducci 1992 e 2004 e Grimal 1996.

312

C a p ito lo V I I

come mostra soprattutto il III libro del De officiis, rivela una forte empatia con la dottrina stoica37. Tale dottrina, come detto, ritiene naturale per l’uomo non solo l’attività teoretica, ma anche l’attività pratica. Quest’ultima prevede in particolare, per chi può fornire un valido contributo, l’intervento nella vita politica finalizzato al bene comune. È questa infatti la modalità principale con cui Cicerone ritiene che l’uomo, o meglio il cittadino romano ben educato cui sostanzialmente si rivolge, può realizzare la propria natura razio­ nale e morale. Forte fu l’influenza sull’opera di Cicerone del Mediostoicismo di Panezio, soprattutto sul piano etico-pratico38. Sul piano teoretico una discreta incidenza sul suo pensiero la ebbe invece il probabi­ lismo della Accademia di Filone di Larissa, cui si è in precedenza accennato trattando dello Scetticismo39. Cicerone non fu pensatore di estrema originalità teoretica, sic­ ché è il piano etico-pratico quello in cui egli fornì i contributi di maggiore interesse40. Come emerge infatti soprattutto nel De re publica, fu centrale nella sua opera una visione filosofica che, pur consapevole della fragilità delle cose umane, era rivolta ad orienta­ re con coerenza la vita sul piano etico-pratico, oltre a tematizzare un progetto politico-sociale di ampio respiro41. Per secoli si è attribuita all’opera di Cicerone la discutibile cate­ goria ermeneutica di “eclettismo”42. Tale attribuzione tuttavia non è corretta, in quanto la sua filosofia non consiste in una mera con­ gerie di pezzi di autori (in primis i Greci), ciascuno da utilizzare

37 In tal senso Maso 2012, p. 68. Sullo Stoicismo di Cicerone, ancora valida la riassuntiva analisi di Pesce 1977. Più in generale, la diffusione del pensiero stoico in epoca latina è ben delineata in Colish 1985. 38 II legame fra Cicerone e Panezio è stato ben colto da Pohlenz 1970. Per il pensiero di Panezio, rinviamo, oltre ad Alesse 1994, a Vimercati 2002 e 2004. 39 Rinviamo, in merito ai rapporti fra il pensiero di Cicerone e l’Accademia scettica, all’ottimo Lévy 1992. In generale, sulla analisi dei rapporti fra Cicero­ ne e le varie scuole filosofiche, rimandiamo a Leonhardt 1999. 40 Come ha scritto giustamente Berti 1963 (p. 7), Cicerone «occupa nella storia della filosofia un posto di primo piano, non tanto per avere elaborato un sistema filosofico originale, quanto perché il suo pensiero è stato il punto di in­ contro e di scontro di quasi tutte le principali correnti della filosofia precedente ed il tramite attraverso cui per vari secoli il pensiero greco venne conosciuto e valutato». 41 Per una analisi del pensiero filosofico di Cicerone, rinviamo a Powell 1995. Per una analisi del pensiero politico di Cicerone, rinviamo invece a Bellincioni 1974, Perelli 1990 e Habicht 1990. 42Per alcune intelligenti considerazioni su questa categoria, rinviamo a Do­ nini 1982.

La cultura latina

313

nelle occasioni adeguate43. Infatti, nonostante siano evidenti nella sua opera - soprattutto nel De officiis e nel De finibus - gli apporti della filosofia di Platone, di Aristotele, dello Scetticismo e dello Stoi­ cismo, Cicerone non fu passivo recettore della cultura greca. Un esempio emblematico di questo comportamento vigile nei confronti della cultura ellenica è quello del rapporto con il pen­ siero di Epicuro44. Cicerone contestava in particolare ad Epicuro l’atteggiamento dogmatico, del tutto opposto all’approccio dialet­ tico che egli riteneva necessario nella analisi filosofica45. Inoltre, egli criticava la finalizzazione epicurea della vita al piacere. Il De finibus in particolare fu appositamente dedicato a questo tema. In esso si mostra che il fine ultimo che l’uomo deve proporsi nella vita non può essere il piacere, ma deve consistere, se si desidera essere felici, nella realizzazione di quei contenuti razionali e morali su cui Cicerone mostra una forte convergenza con Aristotele. Lo Stagirita, come Platone,46 fu in effetti dal Nostro apprezzato per il suo contemperare vita contemplativa e vita attiva in ottima coerenza47. Prioritaria fu tuttavia, per Cicerone, la vita attiva, basata sul principio fondamentale della morale stoica, ossia la necessità di seguire la propria natura individuale nel rispetto della universa­ le natura umana (e della physis cosmica)48. Come per gli Stoici, anche per Cicerone la virtù coincise essenzialmente con il logos, possedendo l’uomo una natura insieme razionale e morale. Come ha scritto in merito Gennari, «la filosofia romano-latina ha qui il suo atto di fondazione: l’idea di uomo si presenta secondo i tratti dell’ideale di humanitas, che è posto da Cicerone quale elemento regolatore della vita civile»49. A Cicerone siamo inoltre debitori della prima grande trattazio­ ne latina del concetto di persona, che sarà poi ripreso da Seneca in

43 Sul rapporto fra il pensiero di Cicerone e le scuole filosofiche precedenti, rimandiamo a Leonhardt 1999. 44 Rinviamo, circa il rapporto fra pensiero di Epicuro e Cicerone, a D’Anna 1965 ed alla ottima analisi di Maso 2008. 45 Significativo sul carattere “socratico” dell’approccio di Cicerone, Gorman 2005. 46 Berti 1963 (p. 7) ha sottolineato giustamente «la sostanziale continuità fra la posizione platonica e quella aristotelica», nonché, sul piano teoretico, «il valore classico di tale posizione». 47 Sul rapporto fra vita contemplativa e vita attiva nel mondo antico, rin­ viamo a Grilli 1953. 48De officiis, 1, 31,110. 49 Gennari 2017, p. 326.

314

C a p ito lo V I I

termini piuttosto differenti50. Come egli mostra infatti nel De officiis51, l’uomo possiede innanzitutto una natura razionale che lo acco­ muna a tutti gli uomini (la «prima persona»), poi un carattere spe­ cifico che lo distingue dagli altri uomini (la «seconda persona»); Cicerone tematizza inoltre una «terza persona», determinata dalle contingenti circostanze esterne, ed una «quarta persona», che si determina con le proprie scelte. L’unione di queste «quattro perso­ ne» è quanto per Cicerone necessita perla compiuta comprensione dell’uomo. È alla ragione - ossia alla «prima persona» - che spetta comun­ que la regia di queste «quattro persone». Seguendo la ragione le decisioni della vita saranno effettivamente quelle che convengono in misura maggiore a ciascuno di noi in base al proprio carattere specifico, alle circostanze esterne ed alle scelte effettuate. Il bene, certo, è uguale per tutti. Esso, tuttavia, si incarna per Cicerone in maniera differente per ciascuno, proprio in base alla teoria della persona che si è qui, sebbene sommariamente, delineata. La natura razionale e morale dell’uomo Il carattere razionale e morale dell’uomo descritto da Cicerone, come da Seneca, si desume in sostanza dalla loro appartenenza allo Stoicismo. Per Cicerone infatti l’uomo ha una natura morale, ossia realizza la propria essenza solo in maniera comunitaria. Tale virtù tuttavia, per essere tale, deve essere posta in atto, il che può veri­ ficarsi appunto in quanto la ragione è in grado di ben condurlo sul piano etico. Non si può parlare, per Cicerone, di un primato della teoria sulla prassi in senso aristotelico52. Il fine della conoscenza è infatti a suo avviso sempre un fine pratico, vale a dire la ricerca di quei comportamenti volti a realizzare la propria humanitas. Per questo fine, come spesso accade nello Stoicismo, risulta frequente anche in Cicerone la rievocazione di exempla del passato, come a segnare una continuità civile nella Romanitas caratterizzata dai concetti di

50 Sulla differenza fra le due concezioni, rinviamo a Bellincioni 1986, pp. 35-102. 51 De officiis, I, 97 ss. 52 Per Maso 2008 (p. 26), in Cicerone, «la cultura riveste in realtà una fun­ zione subordinata rispetto alla politica. La cultura e, più fondamentalmente, la razionalità che caratterizza l’uomo, altro non sono che lo strumento per natura a sua disposizione per ottenere vantaggi effettivi sul piano della dimensione sociale».

La cultura latina

315

honos, dignitas ed amicitia53. La teoria, comunque, non può mai mancare per Cicerone come base della actio, a causa appunto della natura razionale dell’uomo54. L’uomo infatti, per Cicerone, per quanto non possa raggiunge­ re la verità assoluta, può comunque realizzare un buon livello di conoscenza, in grado di consentirgli di comprendere il bene con relativa certezza55. Del resto, fino alla fine della vita, Cicerone iden­ tificò nelle qualità intellettuali degli uomini - nella toga anziché nelle armi - le doti migliori per la realizzazione di quell’ideale di perfezione umana che pure si poteva compiutamente attuare, a suo avviso, solo nella concretezza della vita politica56. Per Cicerone, in­ fatti, l’uomo in quanto tale è plenus rationis, e proprio su questa caratteristica si fonda la communio iuris57. Quest’ultima non con­ siste semplicemente nell’adesione ad un codice di regole prestabi­ lite, bensì nella giusta conformazione della comunità sociale che, per essere salda e coesa, deve condividere principi e valori generali conformi alla natura umana58. Il fatto che il logos stoico fosse universale, costituendo esso l’e­ lemento razionale presente nella realtà, condusse peraltro Cicero­ ne a pensarsi non solo - sebbene principalmente - come cittadino romano, ma anche come cittadino del mondo. Nel De officiis, in particolare, egli pose la ragione come forza unificatrice del consor­ zio umano. Quest’ultimo infatti poteva realizzarsi solo ponendo in essere una generale attenzione etica alla comunità, richiesta ap­

53 Nel De officiis, ma soprattutto nel Laelius (su cui Bellincioni 1970), l’a­ micizia assume una importanza enorme, dato che per lo Stoicismo non può esserci conflitto fra uomini saggi. 54 Scrive bene Sola 2016 (pp. 80-81): «Cosa rappresenta Yhumanitas di Ci­ cerone? Essa non coincide in prima istanza con il sentimento di fratellanza o la filantropia (come si intende comunemente), bensì è riconducibile alla cultura dell’uomo che si forma attraverso la scientia», intendendo con quest’ultimo termine «un sistema strutturato di saperi con cui il soggetto ha la possibilità di giungere alla piena espressione di sè stesso». 55 De officiis, III, 13-15. 56 Bellincioni 1974 (p. 76) è giunta addirittura a parlare di «primato dei valori intellettuali» in Cicerone: «L’uomo esemplare, di cui Cicerone vuole promuovere la formazione, è il sapiens» (Id., p. 76). Ed ancora: «Fra Cicerone pensatore e Cicerone uomo di governo non esisteva vera frattura: egli sapeva essere buon politico [...] proprio traducendo in azione i capisaldi della sua vi­ sione del mondo» (Id., p. 87). 57De legibus, I, 22-23. 58 Sul rapporto fra modelli etici e società nel pensiero di Cicerone, utili spunti in Narducci 1989.

316

C a p ito lo V I I

punto dalla natura insieme razionale e morale dell’uomo59. Come ha scritto in merito Aldo Lo Schiavo, in Cicerone «Yhumanitas romana appare piuttosto come la combinazione armonica fra un ideale di conoscenza e un ideale di azione. [...] prudentia unita a sapientia testimoniano il raccordo tra elemento intellettivo ed ele­ mento pratico caratteristico della mentalità romana»60. La humanitas di Cicerone, che egli peraltro declina con parti­ colare riferimento alla gentilezza, dolcezza e finezza da mantenere, nelle parole come nei comportamenti, si struttura dunque nella sua opera in maniera universalistica61. Ciò nonostante, pur essendo la ragione universale, Cicerone sapeva che il bene andava sempre po­ sto in atto nella situazione particolare, dato che tutte le scelte di vita si pongono in una dimensione specifica62. Nel De republica, Cicerone scrisse tuttavia che le leggi costitu­ iscono quanto vi è di più importante per il consesso sociale. Così è in quanto esse possono realizzare sul piano politico, quindi su un gran numero di persone, ciò che la filosofia, per la sua scarsa dif­ fusione, può realizzare solo per un piccolo numero di persone. Per questo motivo, come emerge soprattutto nelle Tusculanae disputationes, Cicerone ritenne l’impegno politico, comprendente anche l’impegno educativo, come un dovere63. Ciò in quanto, come affer­ mò nella Pro Cluentio, solo in una comunità retta da leggi adeguate possono risiedere umanità, libertà e giustizia64. A suo avviso infatti lo Stato, la res publica, coincide in sostanza con il popolo, inteso non come una qualsiasi moltitudine riunita in un determinato luo­ go, bensì come una società organizzata secondo il diritto comune65.

59 De officiis, 1, 16. Come ha scritto correttamente Bellincioni 1974 (p. 93), «nel mondo concepito da Cicerone gli uomini assumono eticamente la loro na­ tura razionale, come compito che è loro affidato di attuare, nella dimensione che è loro propria, sociale e politica, le leggi della razionalità». L’argomento è ben trattato, fra gli altri, da Wood 1988. 60Lo Schiavo 2013, p. 87. 61 SuH’umanesimo universalistico ciceroniano, rinviamo al sempre utile Boyancé 1970. 62 Ad esempio De officiis, I, 28. Anche in De legibus (II, 8-10) emerge la tendenza a contemperare i principi universali ed immutabili della lex (che egli esprime con la metafora stoica di Giove, la più idonea ad esprimere il carattere assoluto della ratio) con la specificità delle singole situazioni in cui la lex va applicata. 63 Su questa opera rimandiamo a Gildenhard 2007. In generale, sui testi più filosofici di Cicerone, rinviamo a Mackendrick 1989. 64 Una buona trattazione di queste tematiche in Cicerone si trova in Mitchell 1991. 65De republica, 1, 39.

La cultura latina

317

Occorre inoltre rimarcare che, nel De legibus, Cicerone condan­ nò duramente i privilegi derivanti dalla ricchezza elogiando in tal senso gli antenati, custodi delle leggi della natura, le quali non at­ tribuiscono privilegi, essendo uguali per tutti66. Cicerone ritenne che le leggi positive dovessero solo in sostanza subordinarsi alle leggi naturali, identificantisi con il logos universale67. Nel De re publica, con particolare riferimento alla prassi eti­ co-politica, Cicerone delineò inoltre il progetto di riproporre l’an­ tica repubblica dei maiores. Scipione e Catone il Censore erano in­ fatti a suo avviso importanti modelli di riferimento68. Ciò in quanto per loro non bastava possedere la virtù senza farne uso, ma essa andava praticata nella vita civile, dato che - a differenza dell’arte che, anche se non usata, è ugualmente conservata come abilità - la virtù, non praticata, semplicemente non è69. Il riferimento maggiore del De re publica fu tuttavia, come noto, la Repubblica di Platone70. Cicerone infatti, come il filosofo atenie­ se, pensò ad uno Stato ideale in cui potessero incarnarsi nei gover­ nanti, per il bene comune, teoria vera e prassi buona. Nel I libro in particolare, come ha scritto giustamente Enrico Berti, «ciò di cui egli sostiene il primato non è la mera prassi, separata dalla teoresi, bensì l’unità di entrambe, cioè l’attuazione pratica, mediante l’azio­ ne politica, dei valori indicati dalla teoresi. La sua posizione dun­ que afferma da un lato l’insufficienza della teoresi senza la prassi, dall’altro l’insufficienza della prassi senza la teoresi»71.

66 De legibus, III, 19, 4. Sulla crematisitica in epoca romana rinviamo all’accurato studio di Jori 2018. Sulla diffusione a Roma di una mentalità filocrematistica, spesso accompagnata da un sentimento antifilosofico, Petronio CSatyricon, 71,12) ha tramandato l’aneddoto di un parvenu arricchitosi, tale Trimalcione, che sul suo epitaffio tombale fece scrivere, come un vanto, di ave­ re fatto molte cose nella sua vita per arricchirsi, ma di non avere mai ascoltato le lezioni di un filosofo. 67 Di questo tema egli tratta in diversi luoghi, fra cui i principali sono forse De re publica, III, 33 e De legibus, I, 8; 1, 42. 68Verso la fine della sua vita (in Definibus, IV, 12), Cicerone descrisse però anche il ritiro dalla vita pubblica (vacui negotiis) come honestum e liberale, degno cioè di essere proposto all’uomo ideale che egli aveva in mente. A tale conclusione convergevano del resto sia il pensiero stoico che quello accademi­ co-peripatetico, in quanto anche la dimensione della ricerca era, se ben con­ dotta, una dimensione politicamente costruttiva, specialmente quando non ne erano possibili altre. 69De re publica, I, 2, 2. 70Sugli importanti proemi del De re publica, rinviamo a Grilli 1971. 71 Berti 1963, pp-14-15-

318

C a p ito lo V I I

Cicerone, come Platone, tematizzò nel De re publica anche la naturale tendenza dell’uomo ad associarsi dando origine ad istitu­ zioni politiche. La natura morale dell’uomo era in effetti tale, per Cicerone come per Platone (e come per gli Stoici), da richiedere, per realizzarsi, una forma di comunità politica caratterizzata dalla philanthropia72. Risulta inoltre importante in Cicerone il tema della pace, che più volte, nella società romana altamente conflittuale dell’epoca, egli si era vantato di avere favorito con la cultura, mentre altri ri­ tenevano possibile solo la guerra73. Può preparare la pace del resto solo quel politico che sia anche filosofo, ovvero che sia anche un educatore, e che come tale sia caratterizzato da distacco verso il de­ siderio di potere, denaro, gloria. Ciò in quanto chi è preda di queste passioni dimentica facilmente la giustizia, e pertanto non ricerca il bene della comunità74. La politica costituiva dunque il fulcro dell’opera culturale di Cicerone. Pur essendo la mentalità romana tipicamente pragma­ tica, egli riconobbe un grande valore al modello ideale platoni­ co, carico al contempo di spiegazione razionale e di valutazione morale della realtà. Nell’umanesimo di Cicerone non era infatti prioritaria la descrizione del contesto politico-sociale, quanto la sua valutazione in base ad adeguati criteri etici (fondati sulla na­ tura umana), e per conseguenza la proposta filosofìco-politica di mutamento del contesto, laddove necessario. In questo senso il De re publica si mostra indubbiamente testo emblematico della produzione ciceroniana per mostrare la natura insieme razionale e morale dell’uomo.

72 Molto significativo, in merito, un dialogo oggi perduto, YHortensius, in cui Cicerone affermava essere la filosofia necessaria per la stessa natura razio­ nale e morale dell’uomo, tanto che soprattutto chi aspirava a governare uno Stato non poteva esimersi dallo studiare filosofia. Su questo testo rinviamo a Ruch 1958. 73 Nelle Filippiche (IV, 14; X, 8), ma anche nel De fato (II), pax è pensata in maniera complementare a concordia, ad indicare che non è sufficiente la semplice assenza di eventi bellici affinché la comunità sociale sia pacificata. Significativa in merito anche la Epistola ad Attico, VII, 5,5 74De officiis, I, 26.

La cultura latina

319

4. Seneca Note generali La biografìa di Lucio Anneo Seneca (4 a.C-65 d.C. c.a.) è molto ricca, così come la sua bibliografia, composta di opere filosofiche, letterarie e scientifiche75. In questa sede, in base ad una interpre­ tazione assai diffusa, cercheremo di effettuare una lettura unita­ ria dell’opera di Seneca, in quanto tutta la sua produzione tratta dell’uomo, pur sotto diversi aspetti, in maniera coerente76. Il fine dell’opera di Seneca fu del resto sempre pedagogico, volto a favo­ rire la realizzazione della natura razionale e morale dell’uomo77. Nelle opere filosofiche, ed in parte in quelle letterarie e scientifiche, egli cercò infatti sempre di strutturare contenuti teoretici per favo­ rire determinati comportamenti etici78. Il suo schema di riferimen­ to fu stoico, ma egli mantenne sempre una grande autonomia di giudizio sui riferimenti filosofici79.

75 Rinviamo, per una biografia molto documentata, a Wilson 2016. Testi generali che inquadrano insieme la vita e le opere di Seneca sono Lana 1955, Grimal 1992, Sorensen 1998, Veyne 1999, Inwood 2005 e Bartsch-Schiesaro 2015. Interessanti spunti anche in Armisen-Marchetti 1989, Setaioli 1991 e Parroni 2000. 76 In questo senso anche Stefano Maso, nel saggio Teorie stoiche in Seneca tragico, in Alesse-Fermani-Maso 2017. 77 Ciò emerge in maniera ottima in Bellincioni 1978, che fa sovente riferi­ mento alle Epistole a Lucilio 94 e 95, le sole in cui Seneca si occupi esplicita­ mente di metodi educativi. 78 La presenza di tematiche etiche anche nelle Naturales Quaestiones, la principale opera scientifica di Seneca rimasta (su cui Grecchi 2018 a, pp. 285291), è ben evidenziata in Berno 2016. Sul teatro di Seneca, interessanti spunti in Aa.Vv. 1981 e Petrone 1984. 791 rapporti fra il pensiero di Seneca e la dottrina stoica sono ben delineati in Inwood 2005 e Wilderberger 2006. Come ha scritto tuttavia giustamente Maso 2012 (pp. 56-57), Seneca «si presenta come intellettuale autonomo, in grado di leggere e interpretare, ma soprattutto di controbattere o criticare i filosofi che cita, richiamandosi volentieri alla dottrina stoica [...] ed affermando la propria indipendenza di giudizio e coerenza di pensiero». Seneca invitava infatti a non affidarsi mai totalmente al pensiero altrui: «Non si scoprirà mai nulla, se ci accontentiamo di quanto è già stato scoperto. Inoltre, chi segue le orme di un altro non trova nulla, anzi neppure cerca. [...] La verità è accessibile a tutti; nessuno se ne è ancora impossessato; gran parte di essa è stata lasciata da scoprire anche ai posteri» (Epistole a Lucilio, 33,11).

320

C a p ito lo V I I

La natura razionale e morale dell’uomo

Essendo il pensiero di Seneca, come in generale quello dei La­ tini, fortemente debitore rispetto a quello dei Greci, non stupirà sapere che anche per Seneca l’uomo si configura come un ente ra­ zionale e morale80. Emblematico è in merito quanto egli afferma in una delle sue Epistole a Lucilio: «Quale è la natura specifica dell’uomo? La ragione, che quando è retta e perfetta dà all’uomo la pienezza della felicità [...]. Una tale ragione perfetta prende il nome di virtù, e altro non è che la coerenza morale»81. Si tratta, in sostan­ za, della consueta tesi stoica, secondo cui l’uomo deve conformarsi alla propria physis, la quale è in ultima analisi appunto costituita dal logos razionale e morale82. Vi sono in Seneca, come accennato, anche alcune differenze non piccole con il pensiero stoico. Seneca infatti evidenzia più volte una certa diffidenza circa la possibilità di giungere al vero83. Rilevante in merito, proprio circa la conoscibilità dell’uomo, la sua afferma­ zione che dell’anima è possibile conoscere solo l’esistenza, non l’es­ senza84. Come ha scritto tuttavia Marcello Zanatta, non c’è «nessu­ na professione di agnosticismo da parte di Seneca»85, poiché per lui la saggezza è raggiungibile, consentendo di «apprendere nozioni sulle realtà divine e umane, sul passato e sul futuro, sul caduco e sull’eterno»86. Nonostante infatti non si possa giungere per Sene­ ca ad una verità assoluta, è fine della natura razionale dell’uomo ricercare in ogni circostanza la maggiore verità possibile87, avendo cura di orientare le decisioni non sul verum, spesso inaccessibile,

80Ciò emerge in pressoché tutte le Epistole a Lucilio. 81 Epistole a Lucilio, 76, 9. 82Questo aspetto è particolarmente messo in evidenza da Aubenque-André 1964. 83 Interessanti spunti sul concetto di verità in Seneca si ritrovano in Maso 1999. 84Naturales Quaestion.es, VII, 25,1-2, in cui afferma che «l’anima non può raggiungere la chiarezza sulle altre realtà, dato che è ancora alla ricerca di sé stessa». In questo senso anche Epistola a Lucilio, 121, 9-12. 85 Zanatta 2014, p. 267. 86Epistole a Lucilio, 88, 34. La inspectio rerum naturae costituisce infatti una importante aspirazione della natura razionale dell’uomo, tanto che se non potesse soddisfarla, si sentirebbe privato di una larga fetta di libertà (Id., 65, 17-20). 87 Epistole a Lucilio, 64, 7; 90, 3. Per Seneca infatti l’uomo deve sempre mirare alla verità (Id., 92,3), impegnandosi a darne dimostrazione indagando ciò che è nascosto (Id. 95, 61), ossia le cause principali.

La cultura latina

321

ma sulla veri similitudo, ossia sulla nostra capacità, comunque non piccola, di giudicare il vero88. Parlando dell’uomo, occorre ancora rimarcare che Seneca, mol­ to influenzato dal Medioplatonismo, intese talvolta anima e corpo come realtà per certi aspetti opposte89, indicando il corpo come la fragile dimora dell’anima, o addirittura come una prigione per la stessa, da cui essa deve cercare di liberarsi90. Rimane tuttavia fermo, nel Nostro, il primato dell’anima sul corpo, e con essa della ragione91. È la ragione infatti, per Seneca, che valuta il bene ed il male, per cui il male non sta nelle cose, ma nella valutazione sbagliata che ne diamo. Non sono pertanto le cose, a suo avviso, a dover essere modificate, ma la nostra anima, ossia il nostro modo di comprendere e valutare. L’anima infatti, per quanto ad esempio non possa eliminare malattie e morte, può comunque far sì che queste esperienze non producano angoscia. Diventa allora chiaro il fine cui tende la filosofia secondo Seneca: edificare e rafforzare la ragione morale che caratterizza ogni uomo, per far sì che ciascuno possa produrre al proprio interno stabil­ mente le medicine che curano i vari possibili mali dell’anima92. Per l’uomo dunque, secondo Seneca, risulta di primaria impor­ tanza conoscere. Nell’anfhropos infatti si trova, in misura maggio­ re rispetto a tutti gli altri enti, quel logos che per gli Stoici anima,

88De officìis, III, 13. In Seneca come in Cicerone il termine similitudo in­ dica non una parvenza illusoria di verità o di bene, bensì appunto quella quota non piccola di verità e di bene che siamo di volta in volta in grado di raggiun­ gere, sempre consapevoli dei nostri limiti. 89 Sul rapporto tra Seneca e il Platonismo, molto utili Natali 1992 e 1994. In ogni caso, l’uomo composto di corpo materiale e di anima immateriale non collima col pensiero stoico, per il quale tutto è materia. Su questo tema Seneca ebbe in effetti qualche incertezza, in quanto non si staccò completamente dalla Stoa, ma al contempo rimase aperto alla possibilità della immortalità dell’ani­ ma (De tranquillitate animi, II, 11; Naturales Quaestiones, VII, 25,1-2), che in altre occasioni tuttavia negò (Epistola a Lucilio 102,1-2). Sulla presenza del pensiero di Platone ed Aristotele nella filosofia romana, rinviamo all’ottima raccolta Barnes-Griffin 1999. 90Significativa in merito la Epistola a Lucilio 65,16-22, così come Natura­ les Quaestiones, I, pref. 12-13, De beneficiis, III, 20 et al. La sola protagonista del dissidio morale interno all’uomo è comunque per Seneca l’anima (De ira, 111, 26 , 5 ). 91 Epistola a Lucilio 124, 12: «Sei un animale razionale. Quale è, dunque, il bene in te? La ragione perfetta. Richiamala al suo fine, fa che progredisca il più possibile». 92 Anche questo emerge in molte Epistole a Lucilio: 8, 2-3; 15, 1-2; 16, 3; 103, 8; 114, 8; 128, 3; et al.

322

C a p ito lo V I I

regge e pervade l’intero universo93. La ragione deve tuttavia essere indirizzata verso fini corretti, ossia in primo luogo verso la cono­ scenza del bene e del male94. Essa deve inoltre poter tradurre in pratica la propria conoscenza, per produrre la massima utilità. Ciò può attuarsi soprattutto mediante l’educazione, che non a caso co­ stituì il fine principale dell’opera culturale di Seneca, consistendo nella realizzazione migliore possibile della natura razionale e mo­ rale dell’uomo95. L’uomo possiede solo una ratio imperfetta, sic­ ché deve educarsi a perfezionarla per porsi in armonia con la ratio perfetta che stoicamente governa il cosmo. Deve farlo, e soprat­ tutto può farlo, però, solo con una scelta volontaria: un tema che nella riflessione latina assumerà una centralità non presente nella riflessione greca. Seneca infatti si differenzia dalla tradizione clas­ sica (o meglio socratico-platonica) per la sostanziale assenza nella sua opera del cosiddetto «intellettualismo ellenico»96. Non basta in sostanza, per Seneca, conoscere con verità il bene per metterlo in pratica, in quanto l’anima umana richiede appunto l’assenso della volontà per poter agire97. L’analisi del male, che Seneca compì in maniera molto articola­ ta, costituisce forse uno dei punti di maggiore originalità della sua opera98. Seneca infatti, pur convinto della naturale bontà dell’uomo (ossia del fatto che l’uomo si realizza facendo il bene), era consa­ pevole che il male si presenta in forme molteplici nella esperienza

93 Come scrive giustamente Bellincioni 1978 (p. 15), «il pensiero educativo di Seneca si fonda naturalmente sulla antropologia stoica». 94Epistole a Lucilio, n o , 8-9. 95 Sulla tematica educativa in Seneca, rinviamo a Costa 2015. 96 Nella polemica con Aristone (Epistole a Lucilio, 94, 23), Seneca fa ri­ levare che un giudizio corretto sulla realtà delle cose non conduce ipso facto alla attuazione del bene. Zanatta 2016 (p. 282) ha parlato in merito di «netto oltrepassamento di quella concezione intellettualistica che, resa evidente in modo marcato con Socrate, aleggia tuttavia, sia pure in modalità più o meno evidenziate, in tutto il corso della riflessione etica greca». Analogamente Reale 2003 (p. 139), per cui il contributo filosofico più originale di Seneca sta nell’aver rotto «lo schema dell’intellettualismo ellenico introducendo il termine voluntas, il quale non ha nella lingua greca un corrispettivo che ricopra la stessa area concettuale». 97 La uoluntas diventa determinante in Seneca soprattutto a partire da De beneficiis, I, 5-6; II, 35; IV, 1; VII, 15. 98 La tematica del male fu comunque presente anche nell’opera di Platone (Montoneri 1968) ed Aristotele (Fermani 2019), sebbene essa sia spesso stata posta in secondo piano rispetto alla tematica connessa del bene.

La cultura latina

323

quotidiana". Per questo a differenza dell’originario pensiero stoi­ co, che non ammetteva gradazione nel male, Seneca ammetteva questa gradazione e conseguentemente gradi differenti di colpa9 100. 9 Diverso infatti è il caso di chi, per una indole cattiva, compie il male di proposito, rispetto al caso di chi lo compie trascinato dalle cir­ costanze, 0 di chi lo compie - pur cosciente e desideroso del bene - per semplice debolezza di carattere101. Il male tuttavia si può pre­ sentare in ogni istante della nostra vita, sicché è necessaria una co­ noscenza onto-assiologica salda, oltre che una volontà ferma, per poter limitare quanto più possibile il danno102. Per questo è così frequente in Seneca l’immagine dell’errare senza meta, del conti­ nuo sbagliare strada come in un labirinto, se non conosciamo la via giusta103. Gli errori inoltre, e con essi il male, producono una sorta di “effetto contagio”, come per le malattie104, che infettano spesso l’intero ambiente in cui si vive, alle cui influenze tutti siamo inevi­ tabilmente sottoposti105. Il contagio del male conduce peraltro non solo a subirlo, ma anche a farlo, e pertanto a derealizzare la natura morale dell’uomo, patendone - paradossalmente tramite l’azione - tutte le inevita­ bili conseguenze in termini di infelicità106. Il male infatti possiede per Seneca una forza tale che, per quanto sempre generato dagli uomini, sfugge, una volta generato, al loro controllo, trascinandoli verso il basso con una forza paragonabile a quella con cui la gravità trascina un masso nel precipizio107. Il male è tuttavia per Seneca ineliminabile dalla vita umana, sicché risulta illusorio pensare a

99 È vero che, in Epistole a Lucilio 52,7 Seneca parla di malignitas naturae (così come in De beneficiis III, 1, 2 - ed altrove - parla di provitas naturae) per indicare quei rari uomini che devono essere costretti a non fare il male. Si tratta tuttavia di una sostanziale eccezione, costituita dagli uomini di indole peggiore. Rimane il fatto che anche coloro che sono caratterizzati da buona vo­ lontà, devono comunque essere educati ad eliminare la loro stultitia per poter fare il bene. 100De ira, II, 28,1; III, 26,4-5 et al. 101 Questa gradazione della colpa si ritrova in De clementia, 1, 6,3. 102 L’immagine del filosofo come medico è molto presente in Seneca: per gli opportuni riferimenti rinviamo a Setaioli 2000, p. 115. Seneca si è occupato del resto anche di medicina (Bocchi 2011). 103Ad esempio Epistole a Lucilio, 44, 7; 118, 5; De vita beata, Vili, 6. 104De ira, III, 8,1. 105Epistole a Lucilio, 94, 53-54. Un paragone molto pregnante è quello col canto delle sirene (Epistole a Lucilio, 31, 2). Sul pathos nello Stoicismo roma­ no, illuminante il saggio di Donini 1995. 106Epistole a Lucilio, 95, 49; 103, 3. 107Epistole a Lucilio, 112, 3; De ira, I, 7, 4.

324

C a p ito lo V I I

remote età dell’oro in cui lo stesso non era ancora presente, così come ad utopiche età future in cui lo stesso non sarà più presen­ te108. All’interno di questo quadro apparentemente sconfortante, che nulla nasconde delle brutture della realtà (non solo di quella del proprio tempo), Seneca riesce a mostrare la nobiltà della natu­ ra umana. Essa infatti possiede la caratteristica non di essere da sempre e per sempre buona, ma di potersi realizzare divenendo tale grazie ad una conoscenza adeguata e ad un impegno costan­ te109. Il proprio bene l’uomo lo deve sicuramente alla natura, che ha posto la realizzazione della propria physis come fine di ogni ente, ma lo deve soprattutto a sé stesso, quando riesce a porlo in essere110. In questo senso Seneca mostra un grande ottimismo, poiché il male, in quanto nemico esterno all’anima, può dalla stessa essere sconfitto111. È infatti insita nella natura dell’uomo la tendenza a porre in atto la ragione ed a realizzare il bene, ponendo a tacere gli istinti e le pulsioni più animali, che ledono la realizza­ zione della natura umana112. Pur essendo importante la conoscenza, rimane fermo che per Seneca - come dimostrano alcune sue polemiche contro quelli che riteneva eccessi speculativi della filosofia classica - il sapere teoretico deve sempre essere finalizzato alla vita pratica, in quanto le opere contano più delle parole113. La stessa contemplano dell’u­ niverso era da lui indicata come essenziale per raggiungere una migliore comprensione dei problemi dell’uomo114. In generale, per Seneca, la natura della sapientìa è di essere insieme contemplativa et adiva115. Per questo, quando essa degenera in mera scientia, il

108 De beneficiis, I, io, 1-3. Seneca riteneva che progresso e regresso, nel complessivo fluire delle vicende umane, fossero meri alti e bassi provvisori pa­ ragonabili al fluire delle onde del mare. 109Epistole a Lucilio, 90, 46. 110 Id., 90, 2. 111 Id., 50, 6. Per Seneca, sul piano morale, non dobbiamo disperare nem­ meno della guarigione dei malati cronici (Id., 25, 2). 112Epistole a Lucilio, 114, 23-27. Per Seneca, la ratio può anche consigliare all’uomo la distruzione della vita anziché la sua conservazione (cui provvedo­ no appunto gli istinti naturali), qualora non sia per vari motivi più possibile condurla in maniera degna. Sulla tematica del suicidio in Seneca, rinviamo a Palmieri 1999, Scarpat 2007 e Ker 2009. 113Epistole a Lucilio, 20, 2; 52, 8; 117, 33. 114 II riferimento è alla Epistola 65 a Lucilio, su cui rinviamo all’accurato commento di Scarpat 1970. 115Epistole a Lucilio, 95,13.

La cultura latina

325

che accade ad esempio quando la filosofia si trasforma in filologia, i sapienti tradiscono il magistero loro proprio, a causa appunto della intemperantìa litterarum di cui soffrono116. Essi, abbandonandosi alla vanità del sapere (nimia subtilitas), perdono di vista la ricerca della verità, pertanto non illuminano i loro allievi ma al contrario li accecano, gettando discredito sulla stessa filosofia117. Chi ha impor­ tanti verità da trasmettere sa invece che esse si esprimono meglio in modo semplice118. In questo senso il compito della ragione ed il compito della mo­ rale erano complementari, per il fine appunto di condurre a ma­ turazione tutte le potenzialità razionali e morali dell’uomo. Come Seneca stesso afferma infatti all’inizio delle Naturales Quaestiones, tanto più l’uomo penetra nei segreti dell’universo, quanto più avanza verso il bene. E tanto più procede per attuarlo, tanto più avanza nella conoscenza del tutto. Non è casuale che Seneca utilizzi spesso la metafora naturale del cultor, il quale deve impegnarsi a far maturare i semi razionali e morali che ha ricevuto, per il bene proprio ed altrui119. La natura morale dell’uomo, la sua virtus, si realizza infatti non tanto nel non nocere, quanto nel fare il bene. Ciò in quanto la societas umana è come un arco di pietre, per il mantenimento del qua­ le ogni pietra al contempo deve sostenere ed essere sostenuta120. Nelle opere morali si compie infatti la vera realizzazione dell’uomo nella vita121. Tale realizzazione non è mai definitiva, ma deve essere costantemente posta in essere, come dimostra la prassi quotidiana

116 Id., 108, 24; 106,12. 117 Id., 8 8 , 43-45; 117,26. 118 Id., 40,3-4. 119Ad esempio Epistole a Lucilio, 73,16. Anche nella Epistola 21, esortando Lucilio ad abbandonare la sua vita fatta di negotia in favore di una vita contem­ plativa, Seneca ricorda che fra una vita dedita alla ricerca della saggezza ed una vita dedita alle normali occupazioni, vi è la stessa differenza che sussiste fra la luce spontanea e la luce riflessa. La vita illuminata dalla luce riflessa cade infatti facilmente nell’ombra, qualora qualche ostacolo si frapponga; la vita illuminata dalla luce spontanea splende invece sempre, appunto, di luce propria. Aiutare gli uomini ad aprire uno spazio verso il cielo, come fa il buon contadino con le sue piante, costituisce per Seneca il compito più alto, soprattutto per chi ha incarichi politici. Nel dare beneficia, attività opposta al sub umbra latitare, si realizza infatti per Seneca la imitatio dei, sigillo della saggezza (De beneficiis, IV, 13, 2). 120Epistole a Lucilio, 95, 51-53. Sui rapporti fra potere ed etica in Seneca, rinviamo a Prieto 1977 e Bellincioni 1984. 121 Come scrive giustamente Bellincioni 1978 (p. 53), «nell’ammirazione da lui manifestata per l’umanità capace di vittorie morali, Seneca svela il suo so­ stanziale umanesimo».

326

C a p ito lo V I I

dell’esame di coscienza che Seneca, appresa dai Pitagorici, consi­ glia caldamente di porre in essere122. Ad ulteriore riprova della natura razionale e morale dell’uomo, in vari luoghi Seneca cerca di dimostrare che Tesser buono costitu­ isce, per ogni uomo, il principale bene123. Infatti, come per lo Stoici­ smo antico, bene per ogni ente è per Seneca essenzialmente ciò che conserva o incrementa il proprio essere, mentre male è ciò che lo danneggia. Essendo la nostra essenza costituita dal logos razionale e morale, bene è per lui ciò che favorisce una conoscenza eticamen­ te orientata, male è ciò che la sfavorisce. Il doversi impegnare per raggiungere la verità costituisce, per Seneca, una responsabilità etica per ogni uomo124. Ciò in quanto le coppie vero-falso e bene-male sono connesse, a causa appunto della natura insieme razionale e morale dell’uomo. Seneca notò più volte, come detto, che nella sua epoca si era verificata una certa diastrophe, ossia un allontanamento dai retti principi originari125. Nonostante questo, egli rimase fiducioso sulla capacità dell’uomo di conoscere il senso ed il valore della realtà, servendosi anche di buoni modelli di vita126. Un altro aspetto rilevante dell’umanesimo senecano è la sua grande capacità di introspezione psicologica127. Reale ha affermato giustamente in merito che «l’analisi psicologica, che negli scritti di Seneca ha una ricchezza e uno spessore veramente straordinari, lo porta a dare un rilievo al concetto di conscientìa che non si ri­ scontra in nessuno dei filosofi a lui precedenti, né greci e neppure romani»128. La conscientìa, per Seneca, consiste infatti nella «inte­ riore consapevolezza del bene e del male, che è una connotazione essenziale dell’uomo in quanto uomo»129.

122De ira, III, 36,1; Epistole a Lucilio, 28,10. 123 Emblematico, in merito, Epistole a Lucilio, 76,10-16. 124Epistole a Lucilio, 82,19-20. 125 Id.,115,11-13; 123, 6-9. 126 «Dobbiamo scegliere un uomo buono e averlo costantemente sotto i no­ stri occhi, per vivere come se egli ci guardasse e fare tutto come se sempre ci vedesse» (Id., 11, 8). 127Su questa capacità si soffermano Degl’Innocenti Pierini 1999 ed il collettaneo Bartsch-Wray 2009. 128 Reale 2004, voi. VI, p. 301. In questo senso anche Zanatta 2014 (p. 285) parla giustamente, come caratteristica principale dell’opera di Seneca, di «for­ midabile capacità del filosofo di sviscerare la psicologia dell’uomo, di appro­ fondire i moti e le tensioni della sua anima e di conoscere le situazioni in cui esse si manifestano». 129 Reale 2004, voi. VI, p. 303.

La cultura latina

32 7

Dalla riflessione sulla conscientia deriva in Seneca la riflessione sulla voluntas130. Connesso al già citato tema della voluntas esi­ ste inoltre in Seneca anche una forte considerazione del tema della colpa, derivando quest’ultima a suo avviso non da un errore della conoscenza, bensì da un difetto della volontà, dunque da un ele­ mento su cui l’uomo può almeno in parte intervenire131. L ’universalismo La finezza introspettiva, che emerge soprattutto nelle tragedie e nelle epistole, non confligge con il carattere universalistico del pen­ siero di Seneca132. Come egli stesso afferma, infatti, la virtus, ossia la piena realizzazione dell’uomo, «non è preclusa ad alcuno, è ac­ cessibile a tutti, accoglie tutti, chiama tutti, liberi, schiavi, re, esuli. Non sceglie la casa o il censo, si accontenta dell’uomo nudo»133. Si tratta di una considerazione notevole, soprattutto in una società, come quella romana, che sovente faceva discendere il valore di un uomo dal potere, dallo status e dalla ricchezza posseduta. La costante presenza dell’universalismo nell’opera di Seneca si esplicita anche in una costante critica alla crematistica, caratteriz­ zata strutturalmente dal particolarismo134. Egli affermò infatti che

130Significativo, in merito, Epistole a Lucilio, 71, 35-36. 131 II tema si presterebbe anche ad una trattazione religiosa, dato che da più parti si è messa in evidenza la possibile relazione del pensiero di Seneca con quello cristiano: rinviamo in merito al presunto epistolario con San Paolo (Sevenster 1951; Bocciolini Palagi 1978), ma soprattutto al più generale Scarpat 1977 nonché, per l’influenza delle religioni orientali, a Turcan 1967. Rimane fermo, ad avviso di chi scrive, che «il Dio di Seneca è il Dio degli Stoici: è il Logos che pervade il mondo e ne è il principio ordinatore e, al tempo stesso, è il mondo, la natura, l’universo» (Bellincioni 1986, p. 15; rilevante, sulla tematica, l’intero saggio, pp. 15-33). 132Su questa tematica, rinviamo a Bartsch-Wray 2009. Sul particolare stile “drammatico” di Seneca per esprimere questi contenuti, rimandiamo invece al sempre valido Traina 1974. Molta attenzione ai temi introspettivi senecani in Zambrano 1992. 133De beneficiis, III, 18. 134 La aviditas, assai diffusa nella società filocrematistica dell’epoca, era per Seneca la causa principale dei numerosi vizi che egli descrive in Epistole a Lucilio 95, 15-33. Per questo egli afferma che è molto importante non la­ sciarsi possedere dalla brama di ricchezza, utilizzando la medesima solo per quel minimo funzionale che essa consente di ottenere (Epistole a Lucilio, 94, 23; 119, 12; De vita beata, 22, 4). Seneca torna in effetti più volte sul tema della crematistica, assumendo una posizione per alcuni aspetti simile a quella aristotelica. Egli riteneva infatti che all’origine di molti mali della sua epoca vi era un sovvertimento dell’ordine naturale, sicché, per ripristinare quell’ordine,

328

C a p ito lo V I I

la pratica della filosofia si configura come pratica della libertà, la quale emancipa l’uomo dalla sudditanza nei confronti della «cieca avidità» derivante dalla cura dell’interesse particolare135. Emble­ matica in merito una sua Epistola a Lucilio, in cui si domanda il motivo per cui sembrano grandi gli uomini dotati di elevate ric­ chezze ed incarichi di potere, rispondendo: «Perché li misuri as­ sieme al piedistallo. Un nano non è grande anche se sta sulla cima della montagna; un gigante conserverà la sua grandezza anche se starà nel fondo di un pozzo»136. In merito all’universalismo senecano, la questione della schia­ vitù risulta una delle più controverse da trattare. Così, infatti, come è stata imputata a Seneca una certa ambiguità nel rapporto fra la grande ricchezza posseduta e la ripetuta svalutazione della mede­ sima137, gli venne imputata anche, soprattutto in epoca successiva, una certa ambiguità sul tema della schiavitù. Egli infatti da un lato la considerava innaturale, non essendovi a suo avviso differenza fra liberi e schiavi138, ma dall’altro lato la tollerava, limitandosi in sostanza a richiedere di trattare gli schiavi umanamente139. Occorre tuttavia in merito, ancor più che per Platone ed Aristotele, tenere conto del fatto che la schiavitù era fortemente radicata nel modo di produzione sociale in cui Seneca visse, sicché ogni proposta di abolizione della medesima si sarebbe presentata verosimilmente come troppo rivoluzionaria, col rischio di screditare tutti i suoi altri messaggi educativi. Più che le incertezze presenti nell’uomo Seneca, che egli stesso era il primo ad ammettere, risulta come detto rilevante nella sua opera soprattutto la sua apertura universalistica, ossia il suo consi-

occorreva rivoluzionare, tramite l’educazione, la mentalità del proprio tempo, secondo cui ciò che appare come bene è in realtà un male, e viceversa (Epistole a Lucilio, 92,16). 135 Epistole a Lucilio, 2,15. In un’altra delle sue Epistole (56,10) si legge che quattro sono le malattie croniche da cui è afflitta l’anima umana: avarizia, ambizione, crudeltà, intemperanza, che sono vizi che non si lasciano facilmen­ te scoprire, ma vanno debellati se si vuole giungere alla virtù, e dunque alla felicità. 136Epistole a Lucilio, 76, 31. 137Su questa tematica, una letteratura abbondante è riportata in Trillitzsch 1971. Si tratta comunque di un problema su cui lo stesso Seneca tornò ripetu­ tamente, ben consapevole che 1’esistenza di un divario fra poveri e ricchi crea distorsioni nei rapporti umani: Epistole a Lucilio, 4,10; 17, 3-12; 18, 5-13; 20, 9-13; 115, 7-17; 119, 5-10; De vita beata, 21, 4; 24, 5 et al. 138Ad esempio De beneficiis, III, 21,1; VI, 33,3. 139Epistole a Lucilio, 47; De beneficiis, III, 18-28.

La cultura latina

329

glio generalizzato di utilizzare rispetto verso tutti, aiutarsi a vicen­ da ed avere cura degli altri, strutturando il più possibile rapporti amicali140. Del resto, tre fra le opere filosofiche maggiori di Seneca, ossia De ira, De clementia e De beneficiis, tendono proprio in pro­ gressione a realizzare dapprima una capacità di controllo dell’ira, poi una capacità di passare dal non nocere al prodesse, ed infine una capacità di praticare l’azione buona in maniera disinteressata, dato che compiere il bene ha già in sé il proprio premio141. Seneca invitò in effetti sempre a considerare che siamo tutti uo­ mini, e che pertanto nulla di ciò che è umano ci è estraneo. Pur non avendo mai messo in discussione né la proprietà privata né la schiavitù, uguaglianza ed universalismo facevano in un certo sen­ so a suo avviso tutt’uno. Ecco infatti cosa egli afferma in un’altra delle sue Epistole: «Mettiamo tutto in comune: siamo nati per una vita in comune»142. Ed ancora: «La natura ci ha creato fratelli, ge­ nerandoci dagli stessi elementi e per gli stessi fini; ci ha infuso un amore reciproco e ci ha fatto socievoli»143. L’universalismo di Sene­ ca emerge anche nel IV capitolo del De odo, in cui la prospettiva di uno Stato universale, di cui ogni singolo uomo possa sentirsi parte, costituisce un imprescindibile riferimento teorico in linea con il co­ smopolitismo stoico144. In generale, l’universalismo di Seneca si appoggia, come farà poi l’universalismo cristiano, sulla cosiddetta regola d’oro (non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te; fai agli altri quello che vorresti fosse fatto a te) come norma etica universale145. Anche infatti se la struttura politico-sociale può in alcuni casi non consentire di esercitare i propri compiti civici, esistono sempre i

140De vita beata, 18,1-2; Naturales Quaestiones, IV a, praef. 11-18; Episto­ le a Lucilio, 6, 2-3; 9,6-12; 19,10-12; 48, 2-3; et al. 141De beneficiis, 1, 1, 9-12. È anzi nel fare del bene soprattutto a chi non può ricambiare, che si raccolgono per Seneca i frutti maggiori. Può darsi, certo, che spargendo beneficia a piene mani come semente, qualche granello non attec­ chisca, ma sicuramente una parte di essa darà frutto (Epistole a Lucilio, 81,1). 142Epistole a Lucilio, 95, 57. 143 Id.,95 , 55144 Su queste tematiche politiche, rinviamo soprattutto a Griffin 1976. 145 Basti pensare, a mero titolo di esempio, ad Epistole a Lucilio 9, 6; 47, 12; 81, 6; 94, 43 et al. Sulla presenza di questa norma etica nel pensiero antico, rinviamo a Dihle 1962. Analisi comparate circa la presenza di questa regola in diverse civiltà si ritrovano in Vigna-Zanardo 2005.

330

C a p ito lo V I I

propri compiti imprescindibili di uomo, i quali non possono mai essere elusi, ed esigono il pieno rispetto della altrui umanità146.

5. Epitteto Note generali Le notizie sulla vita di Epitteto (50-130 c.a.) sono piuttosto scarse. Le Diatribe, da cui traiamo i contenuti principali del suo pensiero, e che ci sono pervenute grazie all’allievo Arriano di Nicomedia, il quale ha trascritto i testi delle lezioni del maestro, ce ne forniscono alcune147. Dalle Diatribe fu poi tratta, come noto, una selezione di passi notevoli, ossia il cosiddetto Manuale {Enchiridion). Esso fu così denominato in quanto, per la filosofia dell’epo­ ca, era importante tenere le principali massime morali “a portata di mano”, sempre disponibili per la vita quotidiana. Il Manuale indica in effetti alcune basilari norme di comportamento cui atte­ nersi per divenire uomini migliori, come il porsi seri modelli etici, il non sorridere troppo (ciò nasconde una mancanza di autocon­ trollo), il non giurare (la sola nostra parola deve essere credibile), l’evitare banchetti coi non filosofi (spesso caratterizzati da stili di vita sconvenienti), il non avere ansia nei rapporti con chi detiene il potere, l’accettare serenamente le maldicenze, il non rispondere bruscamente alle persone scortesi, il non parlare troppo di noi, ed altro ancora148. Rispetto a Cicerone e Seneca, risultano minori in Epitteto i ri­ ferimenti diretti alla filosofia classica, mentre maggiori sono i suoi riferimenti agli Stoici, soprattutto a Crisippo, il cui messaggio con­ siderava imprescindibile per il raggiungimento della felicità149. Il

146Epistole a Lucilio, 8,1-6; 68,1-2. «Se lo stato è corrotto al di là di ogni ri­ medio, se è nelle mani dei malvagi, il saggio non si impegnerà in sforzi inutili e non si sacrificherà nella previsione di non conseguire alcun risultato; se godrà di troppo poca autorevolezza, o troppe poche forze [...] non intraprenderà un cammino che gli risulti impraticabile» [De otio, III, 2-3). 147 Le altre notizie provengono principalmente dalle Notti attiche di Aulo Gellio, dal Lessico Suida e dal Commentario al Manuale di Simplicio. Circa la struttura dialogica delle Diatribe, rinviamo a Radt 1990 e Wehner 2000. 148 Una ottima curatela del Manuale di Epitteto, in cui questi ed altri com­ portamenti sono descritti e commentati, è Hadot 2006. Sull’opera filosofica di Epitteto, per una visione di insieme, rinviamo a Bonforte 1955, Long 2002 e Scaltsas-Mason 2007. 149Diatribe, I, 4, 6 ss.; I, 7,11 ss.; II, 19, 5 ss.; II, 23, 44 et al.

La cultura latina

331

suo maestro fu Musonio Rufo, cui Epitteto fu debitore del partico­ lare approccio “cinico-stoico” che ha caratterizzato costantemente la sua posizione150. Musonio Rufo fu noto, nel I secolo d.C., per essersi occupato di molte questioni minute, in quanto per lui la filosofia era scienza an­ che della vita quotidiana, sicché si doveva essere in grado di rende­ re ragione di ogni scelta particolare151. Musonio, concordemente col clima neostoico allora dominante, insistette molto più sull’aspetto etico che su quello teoretico delle questioni. Come scrisse infatti nella Diatriba V, la teoria (il logos) è indispensabile alla pratica (ethos), ma quest’ultima è infinitamente più importante152. Per Musonio, era essenziale soprattutto l’esercizio costante di un corretto comportamento per diventare uomini virtuosi, come nella musica, in cui l’esercizio costante è essenziale per diventare musicisti virtuosi153. Poiché l’uomo, peraltro, si compone di anima e corpo, erano necessari a suo avviso esercizi sia per l’anima che per il corpo. L’esercizio principale, utile all’uomo nella sua interez­ za, consisteva tuttavia nell’abituarsi alla scomodità, nell’astenersi dai piaceri e nel sopportare le fatiche. In tal modo, il corpo avreb­ be acquisito vigore, e l’anima temperanza154. Conoscere la virtù e porla in essere costituiva, per Musonio, condizione necessaria per il raggiungimento della felicità155. L’ideale che Musonio trasferì ad Epitteto fu inoltre un ideale cosmopolitco, caratterizzato da una concezione di amore verso il prossimo quasi evangelica156. Come ricordato, il quadro di riferimento dell’opera di Epitteto fu, come quello di Musonio, cinico-stoico. Tra i modelli di riferi­

150Sull’opera di Musonio Rufo, rinviamo a Ramelli 2001. Utili indicazioni sul rapporto fra pensiero di Epitteto e saggezza stoica in Germain 1964. 151Diatribe, III, 10, 6-7. 152Per Musonio Rufo nessun discorso teorico serve se non conduce alla virtù (Diatribe, III, 12,17-19). 153Diatribe II, IV e V. « Id., VII. 153Id., VI, 25, 4-26,5. 156Id., IX, XIII. Nelle Diatribe II, III e IV Musonio affermò inoltre, in tempi carichi di pregiudizi, che anche la donna può giungere alla virtù. Anzi, le donne erano a suo avviso più predisposte alla filosofia degli uomini, poiché avevano sviluppato una capacità di controllo delle passioni (Id., II, 10,10-17), caratte­ ristica principale del vero filosofo, molto maggiore di quella degli uomini. La virtù è del resto identica per uomini e donne (Id., Ili, 14, 4-5; 16, 9-15), sicché tutti vanno educati alla filosofia, in quanto essa è ricerca del bene. Insieme alla valutazione positiva della donna, è nella sua opera importante la rivalutazione della vita famigliare (Diatribe, XII, XIII, XIV, XV), tipica del mondo etrusco cui apparteneva.

C a p ito lo V I I

332

mento di Epitteto, oltre al cinico Diogene, vi fu Socrate, da cui attin­ se la concezione dellapsyche come bene superiore. Ciò lo condusse ad opporsi polemicamente, oltre che ad alcuni Stoici, soprattutto agli Accademici scettici ed agli Epicurei. Agli Stoici rimproverava il dogmatismo. Agli Accademici rimproverava l’autocontraddittorietà del loro discorso (essi affermavano infatti, in maniera presun­ ta veritativa, la mancanza di verità di tutte le affermazioni), oltre alla assenza di coerenza fra dottrina e vita (essi negavano a parole ciò che affermavano coi fatti)157. Agli Epicurei rimproverava invece di aver posto il bene nel piacere, e pertanto nella carne, con tutte le conseguenze negative che da ciò derivano, sia sul piano individuale che sociale158. Già da queste premesse appare chiara la centralità dell’uomo nell’opera di Epitteto: un uomo la cui natura si può anche in questo caso definire razionale e morale. In quest’opera il compito principale del filosofo risulta essere, al contempo, educativo e terapeutico159. La natura razionale e morale dell’uomo Epitteto era convinto che, per quanto limitato, l’uomo poteva raggiungere la verità, essendo la ragione la sua caratteristica natu­ rale essenziale, che come tale andava sempre esercitata160. La natu­ ra deve infatti sempre essere seguita, in quanto essa è la tendenza più forte negli uomini, senza adeguarsi alla quale non si può giun­ gere alla felicità161. Ogni negazione della possibilità di pervenire alla verità fu da Epitteto fortemente criticata, come prova appunto la sua aspra polemica nei confronti degli Accademici e dei Pirroniani. Egli in­ fatti non solo paragonava lo Scetticismo alle peggiori malattie del corpo, ma lo considerava una malattia dell’anima, equiparando gli Scettici a sordi e ciechi162.

157Diatribe, I, 27,15-21. 158Id., I, 27 (dal titolo Contro Epicuro); II, 9,19; II, 22, 21; II, 23, 21; III, 7, 8-9. 159Sul tratto educativo dell’opera di Epitteto, rimandiamo a Hijmans 1959; sul tratto terapeutico rinviamo a Xenakis 1969. 160Diatribe, I, 3,3; II, 9, 2 et al. Egli infatti afferma: «Cerca e troverai, poi­ ché tu possiedi per natura una disposizione verso la scoperta della verità» (Id., 1 ,4 , 5i).

161 Id., II, 20,15; III, 22, 84. 162 Id., I, 5; II, 20, 37.

La cultura latina

333

In questo quadro trova spazio in Epitteto la distinzione socra­ tica fra anima e corpo, con priorità attribuita all’anima. L’uomo rimane indubbiamente, per Epitteto, una unità psicofisica, come dimostra anche la teoria della oikeiosis, cui Epitteto aderisce153. Talvolta però, come in Seneca, anche in Epitteto il corpo diventa una sorta di prigione dell’anima, impedendo all’uomo quella tan­ genza col divino cui solo l’anima può condurre16 164. 3 L’anima era ritenuta da Epitteto «il possesso più importante» per l’uomo, in quanto essa rappresentava la struttura razionale e morale che dell’uomo costituisce la natura165. La componente ra­ zionale, per quanto importante - dato che essa assicura la stabilità della conoscenza - , risulta tuttavia nella sua opera in certo sen­ so subordinata alla componente morale, intesa quest’ultima come modalità di attivazione di scelte adeguate e comportamenti finaliz­ zati alla buona vita166. La teoria per Epitteto può infatti fornire utili indicazioni generali, ma non può orientare direttamente la prassi, poiché le azioni umane sono sempre intrise di un carico di emoti­ vità e di contingenza che la ragione non riesce a dirigere in modo compiuto. Questo spiega forse anche il motivo per cui Epitteto come del resto Cicerone, Seneca e Marco Aurelio - non si impegnò mai in una costruzione sistematica, limitandosi a delineare alcuni contenuti universali di cui, più che descrivere la struttura, ritenne opportuno mostrare le applicazioni particolari. Per svolgere solo un esempio, egli affermò più volte che il fine dell’etica è quello di formare uomini liberi e felici, preferendo però tratteggiare figure di uomini liberi e felici, come Socrate o Diogene, che fornire le defini­ zioni di libertà e felicità167. Ciò non toglie che le azioni che egli rac­ comandò furono sempre razionalmente argomentate, rispondendo a criteri etici di valore universale168.

163 Id., 1 ,19,15164 II corpo è da Epitteto - come vedremo poi anche in Marco Aurelio - de­ finito «corpiciattolo» (Id., Ili, 10,14), con accezione chiaramente negativa di mera materialità e strumentalità. Egli è tuttavia consapevole che non si può trascurare completamente la componente fisica del corpo, il cui mantenimento necessita di molteplici atti quotidiani. Questi atti vanno compiuti in maniera conforme a natura, ed in questo caso diventano kathekonta, ossia azioni con­ venienti. 165 Id., II, 12, 21. Spunti cristiani in Epitteto furono colti, fra i primi, da Bonhoffer 1964 (1911). 166 In questo senso, fra gli altri, Costa 2008. 167 Sottolinea questo aspetto, ad esempio, Duhot 1999. 168 per una trattazione generale dell’etica di Epitteto, rinviamo all’ottimo Stephens 1990.

334

C a p ito lo V I I

Per le stesse ragioni Epitteto non fornì una esplicita definizione generale dell’uomo, ritenendo più opportuno soffermarsi sui pro­ blemi particolari della vita umana. Il discorso sulla ricerca della essenza dell’uomo non viene comunque, nella sua opera, eluso169. Ousia, che è a suo avviso unica per ogni ente, è in effetti uno di quei termini che maggiormente ricorre nelle Diatribe170. Per quanto concerne l’uomo, la ricerca dell’ousza fu in lui sia punto di arrivo del processo conoscitivo, sia punto finale che ogni uomo deve porsi nel cammino della vita. La ragione infatti, essenza dell’uomo, è per lo stoico Epitteto depositaria della conoscenza del bene, solo realiz­ zando il quale l’uomo può giungere alla felicità171. Pur centralizzando l’etica, Epitteto insiste molto sulla natura razionale dell’uomo, affermando che chi trascorre la propria vita «a mangiare, a bere, a riposare, ad accoppiarsi», conduce una esi­ stenza non razionale, dunque più conforme alla natura animale che alla natura umana172. Anche verso costoro egli raccomanda comun­ que, trattandosi di persone che sbagliano in modo involontario Epitteto riprende la tesi cardine dell’intellettualismo socratico, per cui si sbaglia sempre per mancanza di conoscenza - , di rapportarsi in maniera educativa173.

169 L’interrogativo su «che cosa è l’uomo» risulta infatti più volte presen­ te nelle Diatribe (II, 14,14-27). Francesca Alesse (in Trabattoni-Vegetti 2016, voi. IV, pp. 89-90) scrive giustamente in merito che «a Epitteto giunge una tradizione piuttosto articolata sul modo di intendere la personalità morale dell’uomo, e possiamo vedere nella sua opera la combinazione di elementi in certa misura anche eterogenei: Epitteto, infatti, talora privilegia la concezione universalistica della natura umana come natura razionale, i cui caratteri morali salienti sono l’uniformità e la costanza; talora, invece, pare privilegiare il tratto individuale e quello della mutevolezza dei caratteri e dell’adattamento dell’a­ zione alle circostanze e al contesto sociale in cui il singolo individuo è inserito. Non dobbiamo però accusare Epitteto di incoerenza, ma riconoscere nella sua riflessione piuttosto l’esito complesso di un lungo sviluppo di idee che da un lato tiene fermi i capisaldi dell’etica, e dall’altro produce elementi di adattabi­ lità a una società profondamente mutata». 170Diatribe, I, 29,1. 171 Id., II, 8,1. 172Id., I, 2,1; I, 6,14; 1, 19,13; III, 1, 26; IV, 6, 34 et al. 173 Id., 1, 17,14; 1, 18,1-10; I, 26, 6. Scrive correttamente Zanatta 2016 (p. 285) che «tra gli stoici dell’età imperiale, Epitteto è colui che più di ogni altro è legato alla impostazione greca del pensare». Nel declinare le proprie teorie, egli mostra infatti «una particolare vicinanza a quel modo intellettualistico di prospettare e risolvere il problema morale». Anche per Costa 2008 (p. 142) «l’etica di Epitteto non è volontaristica, essa continua e sviluppa la fondamen­ tale concezione socratica».

La cultura latina

335

L’uomo, dunque, possiede indubbiamente una natura raziona­ le, ma questa natura trova per Epitteto la propria migliore finaliz­ zazione, anziché nella ricerca teoretica, nella ricerca etica, o me­ glio nel rafforzamento di quella prohairesis - di cui parleremo nel prossimo paragrafo - che consente di porre in essere scelte buone, coerenti e stabili. Ciò emerge anche dal fatto che la filosofia di Epit­ teto, per quanto non logicamente sprovveduta, fu sempre lontana dall’assumere una qualsivoglia struttura sistematica, o dall’argomentare in maniera epistemica i propri principi174. Ferma restando la connessione fra natura razionale e morale dell’uomo, fu soprattutto l’etica, come detto, a stare a cuore ad Epitteto175. La natura morale dell’uomo è ribadita del resto in molti passi delle Diatribe176. Basti qui ricordare che, proprio per il fatto che l’uomo trova nel rapporto solidale con gli altri la propria re­ alizzazione, la teoria di Epitteto risulta caratterizzata da una for­ te vena comunitaria177. Per il Nostro, infatti, occorre che ciascuno esca dall’approccio egoistico che conduce a pensare solo a sé stessi, per poter instaurare quella armonia fra uomini in cui soltanto può svolgersi una buona vita. Come chiosa giustamente Cosimo Costa, in Epitteto «portare avanti questo discorso è riconoscere la natura dell’uomo: l’uomo non è fatto per mordere, tirar calci, gettare in prigione, mozzare le teste, ma per fare del bene ed agire bene, per aiutare gli altri [...]. Quando l’uomo non agisce così sta male, per­

174 Di «razionalismo morale» di Epitteto aveva parlato Terzi 1938. Una ac­ curata lettura del tratto più teoretico dell’opera di Epitteto è stata svolta da Ri­ ondato 1965 (p. 9), il quale ritiene di avere trovato «nelle opere di Epitteto una integrale dottrina filosofica, la quale, se pur non è possibile sia giudicata ori­ ginale, tuttavia si presenta con i pregi di un nucleo speculativo essenziale, che vorremmo chiamare classico, attorno al quale gravitano e da cui sono dedotte le linee di un pensiero che tenderebbe a proporsi come sistematico». Riondato precisa però anche, giustamente, che Epitteto espose la propria opera «non da teoreta ma da educatore, che ha come sua missione non quella di trasmettere un sistema, bensì di servirsene per formare degli uomini» (Id., p. 11). 175 Nelle Diatribe (III, 3, 2) si legge ad esempio: «Ogni anima per natura è portata, da un lato, ad approvare il vero, a disapprovare il falso ed a sospendere il giudizio davanti al dubbio; dall’altro, a muoversi con desiderio verso il bene, con avversione verso il male e a non provare né desiderio né avversione verso ciò che non è né bene né male». 176Diatribe, 1, 8,16; 1, 19, 8; 1, 22,10; 1, 29,1; 1, 30,4; II, 2, 2,; II, 10,1; et al. 177 Epitteto scrisse in merito che un uomo isolato dal consesso umano è come un piede isolato dal resto del corpo: come quest’ultimo non sarebbe più un vero piede, costui non sarebbe un vero uomo (Diatribe, II, 5, 26). Le parti sono sempre infatti in funzione del tutto (Id., IV, 7, 6).

336

C a p ito lo V I I

ché non rispetta la sua natura»178. Si tratta di considerazioni non banali in un’epoca, come quella imperiale, in cui non erano certo diffusi sentimenti di fratellanza universale, così come non erano frequenti prese di posizione contro la schiavitù, quali quelle che si ritrovano appunto in Epitteto179. Per concludere, la filosofia, favorendo la realizzazione della na­ tura razionale e morale dell’uomo, costituisce per Epicuro l’attività che, per il suo contenuto insieme teoretico e pratico, maggiormen­ te favorisce la realizzazione della virtù180. La quale tuttavia richiede, per poter essere attuata, scelte coerenti ed adeguate. La centralità della scelta di fondo (prohairesis) La funzione principale della filosofia era per Epitteto educativa. Nella educazione filosofica, peraltro, la relazione non andava esclu­ sivamente da chi parla a chi ascolta, ossia dal docente al discente, ma anche in direzione opposta, all’interno di una condizione dun­ que sostanzialmente dialettica. La libertà era, per Epitteto, il tema centrale. Libero era infatti a suo avviso soltanto “chi vive come vuole”, ma questo “volere”, come per tutti gli Stoici, non era affatto arbitrario181. Esso anzi era assimilabile alla necessità, ossia a ciò che è secondo natura. È real­ mente libero in effetti, per Epitteto, chi pensa e realizza autonoma­ mente ciò che è per natura necessario alla buona vita. Per essere realmente liberi era dunque importante, in primo luogo, conoscere, ma anche, in base a queste conoscenze, imparare a volere le cose giuste. La volontà, la scelta, risultano temi deter­ minanti nella riflessione di Epitteto (come di Seneca), costituendo forse i temi di maggiore originalità del Neostoicismo. L’uomo è favorito, nelle scelte, dalla propria natura razionale e morale, che lo conduce naturalmente - se non socialmente impedito

178Costa 2008, p. 53. Per Epitteto infatti «è un bene il conservare le relazio­ ni con gli altri» (Diatribe, III, 11, 4). 179 Diatribe, 1, 13, 3; II, 10, 8; II, 10,12; III, 22, 54 et al. Zanatta 2016 (p. 286) ha giustamente ricordato che, anche per la propria condizione di schiavo affrancato, il tema deH’universalismo «è proposto con un afflato del tutto per­ sonale che ne caratterizza la pregnanza in termini che vanno ben al di là della fredda ripresa della cosmopoli stoica». 180Diatribe, 1, 11,14-15; II, 9,13; II, 18, 26; III, 8,1; IV, 6,16 et al. 181 Sul tema della libertà in Epitteto, rinviamo a Moreau 1964, Gretenkord 1981 e Stephens 2007.

La cultura latina

337

- a conoscere con verità ed a scegliere il bene182. L’uomo tuttavia non è padrone assoluto delle rappresentazioni della realtà, pur essendo sempre padrone, per Epitteto, dell’assenso o meno che vi riserva183. Occorre in ogni caso - questa per Epitteto la regola generale, derivata anch’essa dall’insegnamento di Musonio Rufo - che la no­ stra volontà decida, e poi agisca, solo su ciò che dipende da noi. Infatti, su ciò che non dipende da noi, come ad esempio tutte le tematiche relative al potere, al denaro, al successo, alla durata della vita, è impossibile intervenire con efficacia assoluta184. Chi si illude di poterlo fare, nutrendo desideri impossibili, va incontro per Epit­ teto solo ad ansie e sofferenze, come mostra soprattutto la prima diatriba del IV libro185. Non basta dunque per Epitteto, per scegliere bene nella vita, la mera conoscenza. Occorre, per tale fine, che l’uomo eserciti co­ stantemente il proprio impegno in tutte le quotidiane circostanze. Egli deve cioè forgiare la propria volontà nella maniera corretta, 7- in grado costituendo una stabile scelta di fondo - prohairesis18618 di renderlo, nella maniera maggiore possibile, libero da ciò che non dipende da lui e che pertanto non può controllare. Per Epitteto, in­ fatti, «educarsi filosoficamente significa proprio questo: imparare a riconoscere quel che è proprio e quel che è di altri»1® 7, ossia ciò su cui abbiamo potere e ciò su cui non ne abbiamo. Pur dovendo stare attenti al famoso «argomento pigro» (il fatto di sapere, ad esempio, di essere mortali, può portare ad una riduzione delle cure necessarie per prevenire le malattie, il che effettivamente può con­ durre ad una morte anticipata), secondo Epitteto è comunque inu­ tile crucciarsi per eventi inevitabili. È invece utile, oltre che saggio, impegnarsi nella vita su quanto è in nostro potere.

182 Come scrive in merito anche Zanatta 2016 (p. 300), per Epitteto «l’at­ trazione che il bene esercita sull’anima definisce, dunque, sul piano tensivo lo stesso rapporto di approvazione che l’anima ha per il vero. Ond’è che bene e vero costituiscono il medesimo termine della naturale propensione dell’anima, manifestando in ciò la loro totale coincidenza, quanto alla sostanza». 183Diatribe, 1, 1,14-17. 184Come sintetizza Radice 2012 (p. 206), per Epitteto «la realtà si divide in due categorie: le cose che sono in mio potere e quelle che non dipendono da me; di queste ultime non devo occuparmi perché sono indifferenti, delle prime invece sì. Un tale principio pare essere il fondamento ultimo della filosofia di Epitteto». 185 Questo tema è ottimamente trattato in Hadot 2006. 186Si tratta di un tema anticipato già in Aristotele. In generale, sulla prohai­ resis, molto utili Dobbin 1989 e 1991, e soprattutto Gourinat 2005. 187Diatribe, IV, 5, 7.

338

C a p ito lo V I I

Epitteto istituisce insomma una sorta di bipartizione all’interno della realtà, solo in parte anticipata dal precedente pensiero stoico, suddividendo la medesima in due classi: 1) la classe delle nostre attività, come le opinioni, gli impulsi e i desideri; 2) la classe del­ le cose che non costituiscono nostre attività, come il corpo, il pa­ trimonio, la reputazione e simili. Le prime hanno la caratteristica di essere in nostro potere, le seconde no. Per questo solo le prime sono libere, quindi beni e mali possono essere ricercati solo all’in­ terno delle stesse188. Per Epitteto, l’uomo deve dunque scegliere la cura della propria anima, che dipende da lui, come fine del proprio agire, non la cura delle cose esterne, che non dipendono da lui. La prohairesis, ossia - ma è termine come noto assai difficile da tradurre nelle lingue moderne, per la sua densità concettuale - la scelta morale di fondo che l’uomo deve mantenere stabilmente in essere, risulta dunque fondamentale, in quanto da essa dipendono la virtù o il vizio, os­ sia la felicità 0 la infelicità della vita189. L’uomo certo non può, per Epitteto, volere il male se non per errore190. In ogni caso, per utiliz­ zare nella maniera corretta il potere della scelta che detiene nelle proprie mani - come Ermete, il quale aveva una bacchetta che tra­ sformava tutto in oro 191 - , occorre che l’uomo eserciti con costanza la propria natura razionale e morale, per trasformare appunto la maggior quota possibile di realtà in bene. L’uomo non può, indub­ biamente, evitare tutti i mali, ma può evitare i falsi giudizi su alcuni eventi della vita, come le malattie o la morte, che non sono neces­ sariamente dei mali192. Il bene e il male si trovano infatti non nelle

188Id., II, 5 , 4-5; II, 2 , 13; IV, 10, 25. 189 Scrive correttamente in merito Reale (in Cassanmagnago-Reale 2009, p. 17), che «al lettore moderno la prohairesis potrebbe sembrare un atto di vo­ lontà. E, in effetti, qualche interprete ha creduto di poter rileggere le Diatribe in chiave volontaristica. In realtà, la prohairesis non è la volontà nel senso ac­ quisito da questo termine a partire da Seneca [...]. Quello che Epitteto propone con la sua dottrina della prohairesis, è una riformulazione dell’antico intellet­ tualismo socratico, che è rimasto una costante di tutto il pensiero ellenico». In merito, rinviamo a Diatribe, II, 22,19; II, 23, 5-19; III, 1, 40; IV, 5,11 et al. 190Id., 1, 17,14; 1, 18,3; 1, 26, 6. Scrive giustamente Reale (in Cassanmagna­ go-Reale 2009, p. 18) che per Epitteto «vi è nell’uomo un desiderio del bene che non si può sradicare: l’uomo vuole sempre e solo ciò che è o gli appare bene [...]. L’uomo non può, quindi, mai volere il male. Se lo vuole, è solo perché a lui appare in sembianza di bene». Il riferimento qui è a Diatribe, 1, 17, 25-26. 191 Diatribe, II, 20,11-15. 192Id., Ili, 20,4. Per Epitteto (Id., Ili, 2,1-2) gli uomini devono controllare i desideri e le passioni, perché questi moti dell’anima conducono a quelle cattive scelte che, essendo causa di infelicità, costituiscono i veri mali.

La cultura latina

339

cose esterne, indipendenti da noi, ma nella ragione che dipende da noi, la quale costituisce l’aspetto più divino dell’uomo193. Bene e male si trovano pertanto solo nell’uomo che comprende e valuta quello di cui può disporre. In ciò consiste l’essenza della natura razionale e morale dell’uomo secondo Epitteto194.

6. Marco Aurelio Note generali Come Epitteto, anche Marco Aurelio (121-180 c.a.) non ha pub­ blicato nulla. Quanto abbiamo di suo è solo una serie di appunti, raggruppate in 12 libri, editi di solito col titolo di Ricordi, o Pensie­ ri, o - più fedelmente - Scritti a sé stesso. Questi appunti costitui­ scono delle riflessioni mediante cui l’imperatore-filosofo tentava di indicare, principalmente appunto a sé stesso, cosa fare o non fare per vivere bene195. Non ci soffermeremo in questa sede, per motivi di spazio, sulle modalità che hanno portato alla riemersione di queste pagine, ed alla loro fortuna nei secoli196. Ci limiteremo soltanto alle considera­ zioni di Marco Aurelio sull’uomo, il quale costituisce il centro della sua opera, caratterizzata soprattutto in senso etico197.

193Dio è «il bene», per Epitteto, in quanto è «intelligenza» e «retta ragione» (Diatribe, II, 8, 2; IV, 11,3). Per questo, ossia per la sua natura razionale e mo­ rale che egli esprime al massimo livello, l’uomo deve assimilarsi il più possibile a Dio (Id., I, 6,19-22; II, 14,11-13; II» 17, 40; II, 20, 25 et al.). 194Diatribe, II, 16,1; II, 10, 25; III, 10,18; IV, 4, 23; IV, 29, 47 et al. 195Come scrive Di Stefano 2006 (p. 15), «lungo tutto lo scritto di Marco Au­ relio, l’unico dato costante è il riferimento a sé stesso, fondamentale nell’etica stoica, come momento di introspezione e mezzo di perfezionamento morale». Insiste su questa dialettica interiore l’ottimo Giavatto 2008. 196 La diffusione dei Pensieri fu molto limitata in epoca tardo-antica (Farquharson 1994, pp. XIII ss.). Il testo fu acquisito pienamente al pubblico solo nella modernità, soprattutto dopo le traduzioni/edizioni di M. Casaubon (1643) e T. Gatauker (1652). Per un inquadramento generale della vita e del pensiero di Marco Aurelio, utili Birley 1966, Ruthenford 1989, Fraschetti 1994, Costa 2012 e Grimal 2018. 197 Scrive bene ancora Di Stefano 2006 (p. 165) che in Marco Aurelio è pre­ sente «una antropologia articolata, che è il vero punto di riferimento di tutta l’opera. All’interno di una struttura scalare, dalle forme di vita più umili fino agli dei, l’uomo occupa la posizione dell’essere razionale, che lotta per salva­ guardare la propria integrità morale».

:i4 «

C a p ito lo V I I

Circa la forma espositiva, occorre subito rimarcare che, per il fine per cui fu realizzato, era impossibile pretendere dal suo scritto sistematicità, uniformità ed organicità. Si tratta infatti di un’opera personale, nello stile della trattatistica morale di Musonio Rufo, della essenzialità del Manuale di Epitteto e dell’esercizio spirituale della riflessione senecana198. Prima di soffermarci sul contenuto umanistico di queste pagine, può tuttavia essere utile inquadrare meglio l’attività dell’imperatore-filosofo nel contesto culturale della sua epoca199. Egli, come Epit­ teto, con cui è su molti punti in sintonia, si pose infatti in chiara continuità con lo Stoicismo, di cui fu anzi l’ultimo esponente rile­ vante200. Si trattò di uno Stoicismo con alcuni elementi “platonici”201, soprattutto con riferimento al tema antropologico, dato che anche per Marco Aurelio vigeva una sostanziale dicotomia fra anima e corpo. L’antropologia di Marco Aurelio fu in effetti in parte differen­ te da quella stoica, in quanto egli poneva tre elementi costitutivi dell’uomo: a) il corpo, che è carne; b) 1’anima, che è soffio, pneuma; c) l’intelletto, nous, che è superiore all’anima. Mentre la Stoa identi­ ficava la parte egemonica dell’uomo, ossia la guida direttiva, nell’a­ nima, Marco Aurelio la pose fuori dall’anima, nel nous202. Il punto di differenza più importante, come scrive Reale, è che, a differenza del materialistico pensiero stoico, per Marco Aurelio «l’uomo non si riduce, come tutte le altre cose, alla componente puramente fisica, e nemmeno a quella vitale: il pensiero (nous) sporge decisamente su queste, ed è a motivo di questa superiorità che solo in esso e con esso si decidono il destino e la felicità dell’uomo»203. In ogni caso, per Marco Aurelio, unica è la materia di cui sono fatte tutte le cose,

198 Sulla diffusione di questi «esercizi spirituali» in epoca antica, rinviamo al classico Hadot 2005. 199Un libro utile, per ripercorrere le fonti letterarie e filosofiche deltopera di Marco Aurelio, è Cortassa 1989. 200Emblematica la comune apertura universalistica e cosmopolitica, su cui Stanton 1968. 201 “Platonico”, nel senso tuttavia dello Scetticismo accademico, fu anche un certo agnosticismo conoscitivo presente in alcune affermazioni di Marco Aurelio (Pensieri, VI, 10 e VII, 32). 202Pensieri, II, 2; III, 16; XII, 3. Emblematico anche IV, 21, in cui l’impera­ tore lascia chiaramente intendere che vi è nel nous qualcosa di divino. Evidente in questo senso la vicinanza al Medioplatonismo, dato che solo in questo mo­ vimento si inizia a pensare un nous divino superiore alla psyche (IV, 4; IX, 8; XII, 30). 203 Reale 2004, voi. VI, p. 393.

La cultura latina

341

la quale tutto vivifica, grazie all’unico logos presente in ogni cosa. Per questo il cosmo fu da lui considerato come un unico grande organismo vivente, in cui l’uomo occupa un posto privilegiato, data anche la sua natura massimamente razionale e morale204. La natura razionale e morale dell’uomo Circa la natura razionale dell’uomo, abbiamo già accennato al fatto che, nella tripartizione della unità psicofisica istituita da Mar­ co Aurelio fra intelletto (sede della ragione), anima (sede dei sen­ timenti) e corpo (sede delle funzioni fisiologiche), il primato spet­ ta chiaramente aH’intelletto205. Marco Aurelio considera infatti il nous come guida dell’anima, e chiama il corpo «cadavere», «fetore e sangue», «terra e sangue», costituendo esso un impedimento alla conoscenza206. Marcello Zanatta ha affermato in merito che anche in Marco Aurelio domina l’etica intellettualistica greca. La natura umana è infatti per lui sostanzialmente costituita «dalla ragione (logos), in rapporto alla quale soltanto, secondo il principio della oikeiosis, si determinano il bene e il male»207. È sempre alla ragione, del resto, che si deve quella capacità introspettiva che costituisce, come noto, la cifra emblematica del filosofare di Marco Aurelio, ben rappresentata dalla metafora del­ la «cittadella interiore»208. Come ha ottimamente mostrato Pierre

204Pensieri, IV, 45; V, 8; VI, 38; VII, 9; VII, 55; X, 2. 205Pensieri, III, 16; V, 11; X, 11. Come scrive Francesca Alesse (in Brancacci 2001, p. 113), «il motivo che consente di parlare di una coerente e organica vi­ sione della natura umana da parte di Marco Aurelio, è senza dubbio il costante ricorso alla teoria secondo la quale l’uomo è costituito di tre parti: il corpo, l’a­ nima e l’intelletto. Questa antropologia tripartita compare esplicitamente, cioè con la menzione di tutte e tre le componenti, otto volte (II, 2; III, 16; IV, 3; VII, 16; V ili, 56; XII, 3; XII, 14; XII, 30). Si tratta di luoghi in cui la dottrina non è oggetto di una descrizione approfondita, ma è evocata come credenza nota e abbastanza diffusa, principalmente per le sue implicazioni morali: il corpo, per la caducità e la passività degli influssi sensoriali provenienti dall’esterno, e l’anima, per l’inconsistenza e l’eccessiva mobilità, vanno quasi disprezzati per­ ché non costituiscono il vero essere dell’uomo; questo è posto nell’mtelletto, che Marco Aurelio definisce in modo non univoco, chiamandolo ora nous, ora egemonico, ora demone». 206Pensieri, X, 33; V ili, 37; III, 3. Il corpo è spesso rappresentato da Marco Aurelio come una realtà fluida che, come l’acqua del mare, tende a sommergere anche l’anima (Id., II, 17; V, 10; V, 23 et al.). 207Zanatta 2014, p. 317. 208Pensieri, IV, 3; VI, 11; Vili, 48. Nell’umanesimo di Marco Aurelio risulta importante, come in Seneca, la pratica del quotidiano esame di coscienza. Essa

342

C a p ito lo V I I

Hadot, per Marco Aurelio «una sola cosa conta: sforzarsi di avere sempre presenti le regole fondamentali di vita, mettersi costantemente nell’atteggiamento del vero filosofo, che consiste essenzial­ mente nel controllare il proprio discorso interiore, nel mettersi al servizio della comunità umana, nell’accettare gli accadimenti a noi riservati dal corso della natura del tutto»209. Questo in quanto l’uo­ mo che abbraccia con uno sguardo tutte queste cose non teme nul­ la, nemmeno la morte, che pure risulta essere il tema dominante dei Pensieri210. Con la morte infatti, secondo Marco Aurelio, occorre prendere confidenza ogni giorno, tenendo sempre ferma la consapevolezza della nostra pochezza nel cosmo. Il divenire divora in effetti ogni cosa211. Non per questo tuttavia le attività umane furono considera­ te prive di senso e valore da Marco Aurelio. Al contrario, per l’imperatore-filosofo, sul piano etico e antropologico il dovere morale dava senso e valore al vivere, proprio per la natura razionale e mo­ rale dell’uomo212. L’operazione introspettiva teoretica ed etica che il Nostro conti­ nuamente pose in essere, ossia il cercare di comprendere con verità la realtà per poi agire bene nella stessa, costituisce la prova miglio­ re del carattere insieme razionale e morale della natura umana te­ matizzato da Marco Aurelio213. La ragione infatti rappresenta quan­ to di più necessario all’uomo per liberarsi da quell’indesiderabile fardello stoico dell’anima costituito dalle passioni. Queste ultime in effetti sono assai difficili da controllare, e rischiano purtroppo di condurre a derealizzare l’uomo, se non compiutamente discipli­ nate. Per Marco Aurelio l’uomo deve infatti provvedere a far sì che il suo sapere poggi su corrette rappresentazioni della realtà, pos­ sibilmente concatenate tra loro214. Senza questo sapere risulta per

costituisce, come ricordato, una forma di autovalutazione razionale della quali­ tà etica delle azioni compiute durante il giorno, per comprendere gli errori fatti e migliorare i comportamenti futuri. 209 Hadot 1996, p. 30. 210Pensieri, IV, 48; VII, 35. 211 Id„ II, 12; II, 14; II, 17; IV, 33; IV, 35; IV, 43; IV, 48; V, 23; VI, 15; VI, 3637; VII, 1; IX, 19; IX, 29; IX, 36 et al. 212 Reale 2004, voi. VI, p. 389. 213Physis, con riferimento alla natura umana, è uno dei termini più presenti nei Pensieri. Come afferma Hadot 1996 (p. 187), per Marco Aurelio «agire se­ condo la ragione significa preferire l’interesse comune, l’interesse dell’umanità al proprio interesse personale. Così, agire secondo la ragione è agire conforme­ mente alla natura». 214Pensieri, III, 4; III, 9.

La cultura latina

343

l’imperatore-filosofo impedita la possibilità di realizzare la virtù, ossia di essere buoni, quindi felici215. La filosofia di Marco Aurelio non deve comunque essere pen­ sata solo come una riflessione interiore, e questo per il suo grande valore universale. Anche per il proprio ruolo del resto, l’imperatore cercò sempre di porre al centro la considerazione di ciò che è più utile a tutti gli uomini216. La sua ricerca morale fu infatti sempre una ricerca del bene comune217. Da buon stoico, tutti gli uomini erano in effetti per lui - al di là della differenza fra sapienti e stolti - nella loro essenza uguali218. Come in Seneca ed Epitteto, peraltro, anche la visione del mon­ do di Marco Aurelio fu non solo cosmopolitica, ma fraterna e co­ munitaria. Il fulcro del suo pensiero fu infatti «la comune umanità di cui ciascuno è portatore, quella umanità che trova la sua espres­ sione più piena nella comunità degli uomini»219. L’amore per gli al­ tri emerge in effetti in diversi suoi pensieri: «È proprio dell’uomo amare anche chi sbaglia»220; «È proprio dell’anima, se razionale, amare il prossimo, il che corrisponde nel contempo alla verità e al rispetto»221; «Ama gli uomini ai quali sei legato, ma amali sincera­ mente»222. L’etica stoica di Marco Aurelio fu caratterizzata da toni quasi evangelici223.

215 Marco Aurelio raccomanda più volte la necessità, per essere uomini, di essere buoni: IV, io, 17,18, 25,39. 216 «Il vivere bene dove si trova, dunque? Nel fare ciò che esige la natura dell’uomo. Come potrà fare questo? Possedendo i dogmi [...] che si riferiscono ai beni e ai mali, nel senso che non esiste per l’uomo nessun bene che non lo renda giusto, saggio, coraggioso e libero, e non esiste alcun male che non pro­ vochi in lui gli effetti opposti per quello che si è detto» (Pensieri, V ili, 1). 2171 termini koinonia, koinonikos e koinos sono infatti tra i più presenti nella sua opera. 218 «Se la mente ci è comune, anche la ragione, per la quale siamo razionali, ci è comune. Se è così, anche la ragione, che ordina che cosa si debba fare o meno, è comune. Se è così, anche la legge è comune. Se è così, siamo cittadini; se è così, siamo partecipi di una comunità organizzata; se è così, il cosmo è qua­ si una città. Di quale altra comune organizzazione politica si dirà che partecipa l’intero genere umano?» (Pensieri, VII, 22). Marco Aurelio ebbe come detto una visione del mondo in cui lo Stato doveva essere luogo in cui le leggi erano uguali per tutti, dato che tutti gli uomini sono uguali per natura (Id., Ili, 11). 219 Zanatta 2014, p. 328. 220Pensieri, VII, 22; anche in VII, 31 e XII, 26 ricorda l’importanza dell’a­ more per il genere umano. 221 Id., XI, 1. 222 Id., VI, 39. 223Pensieri, XI, 1; XII, 26; II, 13; V, 6; VII, 22. Hadot 1996 ha in merito ar­ gomentato che l’amore verso il prossimo, anche verso i nemici, fu stoico prima

344

C a p ito lo V I I

Nonostante il grande potere esercitato, emerge invece raramen­ te nei pensieri dell’imperatore-filosofo una progettualità politica ad ampio raggio, paragonabile ad esempio a quella della Repubbli­ ca di Platone224. Nel pensiero politico di Marco Aurelio vi fu infatti una sostanziale sfiducia, tipica di tutta Tepoca ellenistica e postel­ lenistica, nella possibilità di riformare o rivoluzionare lo Stato se­ condo i principi della filosofia. Marco Aurelio ritenne in effetti l’uo­ mo qualcosa di caduco nella immensità del cosmo, sicché ritenne sempre più opportuno concentrarsi sul presente che non ricercare progetti troppo ampi225. Per Marco Aurelio, così come la saggezza è irraggiungibile per il singolo uomo, ancor più la perfezione è irrag­ giungibile per il singolo Stato. Per questo occorre concentrarsi, an­ che in politica, solo su piccole riforme, nella direzione comunque di favorire l’incremento della razionalità e della moralità degli uo­ mini226. Il fatto che non vi sia stata una ampia progettualità politica non implica tuttavia che, nell’etica di Marco Aurelio, sia mancato il senso di responsabilità per le scelte fatte, sulla scorta appunto delle riflessioni di Seneca sulla voluntas e di Epitteto sullaprohairesis227. Per concludere, si può convenire con Giovanni Reale che Mar­ co Aurelio fu l’ultima figura di rilievo che il movimento della Stoa abbia annoverato. Infatti, «dopo l’avvento del Neoplatonismo e dopo il suo incontrastato trionfo, dello Stoicismo sopravvissero solo quelle proposizioni e quelle dottrine che non erano necessa­ riamente legate al materialismo, o che potevano essere affrancate da esso»228.

che cristiano (e socratico prima che stoico). 224 Si tratta di un esempio non scelto a caso, in quanto come noto Marco Aurelio scrisse: «Non sperare nella Repubblica di Platone, ma sii contento se una piccolissima cosa progredisce e ritieni che non sia piccola cosa il risultato di questa stessa cosa» (Id., IX, 29). 225Pensieri, II, 14; VII, 48; VII, 68; XII, 32. 226 Ciò è sottolineato, fra gli altri, da Fraschetti 1994 e Costa 2012. 227 Per Marco Aurelio infatti, come scrive Pohlenz 1967 (voi. II, p. 134), «la provvidenza ha posto interamente nelle mani dell’uomo stesso la facoltà di decidere intorno alla propria vita interiore. Nel suo interno l’uomo è libe­ ro quanto Dio. Nessuno può impedirgli di portare a perfezione il suo essere e raggiungere così il fine della sua vita. Questi i principi fondamentali e generali derivati da Epitteto ai quali l’imperatore si attiene». 228Reale 2004, voi. VI, p. 384. Come scrive anche Di Stefano 2006 (p. 181), «dopo Marco Aurelio, lo Stoicismo sparisce come posizione filosofica ed etica autonoma, lasciando al Neoplatonismo il compito di interpretare nella teoria le ansietà religiose ed i bisogni di trascendenza dei secoli successivi».

V ili

LA CULTURA POSTELLENISTICA

l. Note generali Per “cultura postellenistica” intendiamo la temperie culturale che va dalla fine dell’epoca ellenistica alla fine della cosiddetta “tar­ da antichità”, solitamente fatta coincidere con la morte di Proclo (485)1. Si tratta di un’epoca in cui, come già si è argomentato nei capitoli precedenti, si sviluppano le ultime propaggini dell’Epicu­ reismo, dello Stoicismo, dello Scetticismo. Si tratta tuttavia princi­ palmente di un’epoca in cui il Platonismo, reinterpretato insieme alle crescenti istanze religiose, assume sempre più importanza. A partire dal cosiddetto Medioplatonismo, ma soprattutto dopo Pio­ tino, la filosofia diverrà sempre più “platonica”. Abbiamo deciso di rappresentare quest’epoca non sofferman­ doci sulla molteplicità di commentatori - come noto, la filosofia postellenistica produsse in larga parte commentari - che hanno appunto caratterizzato questa temperie storico-culturale2. Abbia­ mo deciso di concentrare l’attenzione sulle tre figure di maggiore rilievo che in essa hanno trattato dell’uomo: Filone di Alessandria,

1 Uno status quaestionis sulle varie interpretazioni della “tarda antichità”, si ritrova in Brown 1986. Riteniamo in merito che nel IV secolo, con le opere di Ambrogio, Girolamo e soprattutto Agostino, la cultura antica avesse già im­ boccato la via prevalente del Cristianesimo medievale (abbiamo argomentato questa tesi in Grecchi 2016 a). In questo senso concordiamo con l’affermazione - per quanto volutamente eccessiva - di Terzaghi 1957 (p. 328), per il quale «mentre fino al IV secolo troviamo autori che, se anche sono cristiani, pure continuano sulle vie precedentemente battute, alla fine del IV ed al principio del V secolo sono tutti cristiani». Sarebbe in questo senso interessante analiz­ zare l’opera repressiva posta in essere dal Cristianesimo nei confronti del Pa­ ganesimo nei secoli I-IV. Per motivi di spazio, ci limitiamo a rinviare, su questa tematica, a Rinaldi 2016, Tosca 2011 e Beatrice 1993 2 Interessanti riflessioni in merito in alcuni saggi presenti in Donini 2011.

346

C a p ito lo V i l i

Galeno di Pergamo e Plotino di Licopoli. Abbiamo inoltre optato anche in questo caso, come nel volume sulla natura, di concludere la nostra ricerca con Plotino (pur accennando anche ad alcuni au­ tori Neoplatonici successivi), in quanto a nostro avviso con la sua opera si conclude l’originale riflessione antica sull’uomo.

2. Filone di Alessandria Note generali Filone di Alessandria (30 a.C -41 d.C. c.a.), pur vivendo agli ini­ zi della cosiddetta epoca tardoantica, si pose in certo senso come figura emblematica delle tendenze fondamentali della medesima, assimilando filosofia e religione3. Sarà proprio da questa unione che, a partire dalla fine del IV secolo, prenderà avvio la cultura me­ dievale. Filone è ritenuto uno degli autori più rilevanti della cosiddetta letteratura «giudaico-ellenistica», espressione con cui si definisce la produzione letteraria in lingua greca di autori giudei fra III seco­ lo avanti Cristo e I secolo dopo Cristo4. L’espressione può apparire composta da due termini difficili da conciliare. Giudaismo ed Elle­ nismo si presentano in effetti come due sistemi culturali fortemen­ te alternativi. Il primo risulta incentrato sulla fede, 0 meglio sulla Rivelazione biblica, ed è costituito principalmente da commentari all’Antico Testamento; il secondo risulta invece incentrato sulla ra­ gione, o meglio sulla cultura greca, refrattaria per principio ad ogni dogma rivelato sottraentesi alla dialettica filosofica56 . Fede e ragione costituiscono in effetti due strutture concettuali opposte: chi crede infatti, nell’atto di credere, aderisce ad un dogma e non utilizza gli strumenti critici della ragione; chi ragiona invece, nell’atto di ra­ gionare, non crede, ossia non aderisce ad alcun dogma ed utilizza gli strumenti critici della ragione5.

3 È errata dunque, come giustamente scrive Radice 1989 (p. 282), la «communis opinio secondo cui, con Filone o senza Filone, la storia della filosofia greca non cambierebbe in nulla e per nulla». Per uno sguardo introduttivo alla figura di Filone, rinviamo a Sandmel 1979. 4 Un testo di riferimento in merito rimane Wolfson 1947. Spunti interes­ santi anche in Wendland 1986. 5 Su questa tematica, interessanti osservazioni in Heinemann 1973, Winston 1985 e Runia 1999. 6Su questa tematica, sempre utili Farandos 1976 e Lévy 1998.

La cultura postellenistica

347

Filone riuscì per primo, nella maniera migliore, a conciliare - nei limiti del possibile - questi due aspetti difficilmente conci­ liabili, ponendo in essere interessanti teorizzazioni sull’uomo che furono lungamente elaborate nei secoli successivi. Come ha scritto correttamente Roberto Radice, che di questo autore è uno dei mag­ giori studiosi, «Filone è la prima figura di rilievo che abbia tentato un raccordo a vasto raggio fra ellenismo e giudaismo e che si sia nutrita in modo determinante delle due culture»7. Di Filone ci è inoltre giunta una cospicua mole di opere, il che consente, rispetto ad altri autori, di valutare meglio il suo pensiero8. La discussione su Filone di Alessandria può ben iniziare, a no­ stro avviso, proprio trattando delle radici della sua opera culturale. Secondo, infatti, che si considerino prioritarie le radici giudaiche oppure quelle elleniche, Filone viene prevalentemente associato all’una od all’altra delle due tradizioni9. Per valutare correttamente la questione, è necessario rimarcare che, considerando i temi che ne caratterizzano gli scritti, l’esegesi biblica occupa la quota prevalente degli stessi10. Ciò nonostante, da Filone, la Bibbia è analizzata in base ad approcci provenienti dalla cultura greca, il che ha condotto diversi interpreti a parlare della sua opera in termini di eclettismo11. Come ha scritto tuttavia Francesca Calabi, «si tratta di letture che non tengono conto della 7 Radice 1983, pp. 11-12. 8 L’elenco di queste opere, corredato dalla indicazione delle migliori edi­ zioni critiche, traduzioni e commentari, è riportato nell‘ottimo Calabi 2013, pp. 183-184. Altre opere di insieme sulla figura di Filone sono Goodenough 1962, Daniélou 1991, Hadas-Lebel 2003 e Kamesar 2009. 9 Per Radice 2000 (p. 25), nella sua opera, «per quanto Filone non lo am­ metta mai esplicitamente, di fatto l’ultima parola spetta alla ragione e non alla fede». Ciò si evince a suo avviso soprattutto dai tre libri del Legum Allegoriae, in cui l’attenzione si sposta dalla sfera cosmologica a quella più propriamente antropologica, etica e psicologica. In direzione opposta, ci pare, Calabi 2013 (pp. 28 ss.), la quale sottolinea come in diversi testi (ad esempio De confusione linguarum, 143; Quod deterius potiori insidiari soleat, 13) presupposto im­ prescindibile di Filone sia che il testo biblico non contiene scorrettezze, sicché apparenti errori del medesimo non possono che derivare da nostre incompren­ sioni ermeneutiche. 10Solo per citare alcuni titoli: De Abrahamo, De cherubini, De Iosepho, De migratione Abrahami, De vita Mosis, Quaestiones et solutiones in Exodum, Quaestiones et solutiones in Genesim, De sacrificiis Abelis et Caini ed altri. Su questa tematica, rinviamo a Mazzanti-Calabi 2004 11 Come scrive Masi 1995 (p. 100), egli fu prevalentemente un platonico, ma la sua opera accorpa «elementi di provenienza aristotelica, pitagorica, stoi­ ca e perfino epicurea [...] in forma accessoria e comunque non determinante». Interessanti spunti anche in Alexandre 2009.

C a p ito lo V i l i

natura dell’opera filoniana, della complessità del suo lavoro, let­ ture che nascono da un errore di prospettiva»12. La chiarificatrice opera di Nikiprowetzky ha posto peraltro ottimamente in evidenza il carattere multifocale dell’approccio filosofico di Filone, in grado di rapportarsi ad un medesimo tema mediante molteplici piani di approfondimento (letterale, etico, simbolico, allegorico...)13. Ciò è mostrato anche dal fatto che le sue oltre quaranta opere sono carat­ terizzate da una pluralità di forme letterarie: dal commento testua­ le allo scritto storico, dalla esposizione dogmatica alla discussione filosofica. Nonostante l’opera dell’Alessandrino possa caratterizzarsi come teocentrica, ossia come centralizzante il tema del divino, l’uo­ mo occupa in essa un posto rilevante14. Prima, tuttavia, di iniziare a trattare propriamente dell’uomo, per una adeguata comprensio­ ne dell’approccio di Filone, occorrerà ancora soffermarci sul mix di filosofia e religione che caratterizza appunto la sua posizione15. Filosofia o religione? Il teocentrismo di Filone rende particolarmente difficile affron­ tare la sua analisi filosofica sull’uomo in maniera scissa dal tema religioso16. Del resto, con Filone si può dire che propriamente na­ sce il problema dei rapporti fra fede e ragione, in quanto fu chia­ ro fin da allora che le rispettive verità risultavano assai difficili da conciliare17. Per Filone tuttavia vi era verità sia nella Rivelazione che nella filosofia, solo che quella medesima verità era esposta con

12Calabi 2013, p. 14. 13Nikiprowetzky 1977. 14 Come scrive correttamente Masi 1995 (p. 100), Filone «pone in primo piano il soggetto, ovvero la personalità, che costituisce il vero trait d’union fra Dio e l’uomo, concepito, come afferma la Bibbia, a sua somiglianza». In questo senso anche Schmidt 1933 e Calabi 2008 15Su questo tema, rinviamo a Kaiser 2018. 16 Heitmann 1940 ha argomentato in maniera convincente che in Filone vi è una sostanziale impossibilità di trattare il problema etico scindendolo total­ mente da quello teologico. 17 Ha ben espresso questa tesi Huonder 1954. Mondin 1967 ha affermato che al problema dei rapporti fra fede e ragione si possono fornire tre tipi di risposte: a) ammettere l’assoluta autonomia delle due sfere; b) porre una re­ ciproca antinomia; c) ricercare fra esse una mediazione armonica. Filone ha optato per quest’ultima soluzione (in merito Mondin 1984 e Sandmel 1968).

La cultura postellenistica

349

modalità differenti: prevalentemente per immagini allegoriche nel primo caso, prudentemente per pensieri astratti nel secondo18. Il compito dell’uomo, anche a suo avviso, era essenzialmente quello di conoscere con verità per compiere scelte buone, ma l’op­ zione religiosa oppure quella filosofica potevano determinare an­ che molto diversamente le modalità di vita19. Mentre infatti l’uomo “greco”, ovvero l’uomo filosofico, risulta sempre sostanzialmente libero, ossia autonomo nelle proprie scelte (che, solitamente, com­ pie bene o male secondo il grado di conoscenza onto-assiologica che possiede), l’uomo “giudaico”, ovvero l’uomo religioso, pur ne­ cessitando anch’egli di conoscenza, risulta sempre bisognoso della Rivelazione per compiere bene le proprie scelte20. Il tratto in cui maggiormente Filone si distacca dalla Grecità è, in effetti, proprio quello in cui tra i primi parla di un Dio che si pone come necessaria guida degli uomini. Il potere di Dio sull’uomo infatti, nelle opere di Filone, è più volte affermato con forza: Dio è definito intelletto dell’universo21, re dei re22, Dio degli dei23, padrone di tutto24, e que­ sto nonostante la natura divina rifugga da ogni definizione25. Ciò assume rilevanza, in Filone, fin dal fondamentale momento della Creazione, da cui prende origine anche la storia umana26. La storia dell’uomo La storia dell’uomo, in base al racconto biblico del libro della Genesi, è da Filone commentata soprattutto nel De opificio mundi, un testo che ha uno stretto rapporto sia con il Timeo platonico che

18 Maddalena 1970 (p. 9) riassume a nostro avviso correttamente la que­ stione: «Filone, che nei libri più propriamente giuridici espone e spiega le leggi e i precetti, e nei libri più propriamente allegorici interpreta passi della Torah», è e vuol essere fedele al Dio creatore. Tuttavia, è vero anche che Filone «espo­ ne il suo pensiero in forma filosofica, e che la formulazione della sua filosofia è in termini, tutti o quasi tutti, desunti dalle filosofie dei Greci». Greci sono infatti gli autori da lui più frequentemente utilizzati, così come greche sono la terminologia filosofica e l’insistenza sulla necessità della ricerca razionale del principio primo. 19 Insiste molto su questo punto, fra gli altri, Wolfson 1942. 20 Si tratta di un tema trattato nel De congressu eruditionis grada. 21 De migratìone Abraliami, 186. 22De confusione linguarum, 173; De Decalogo, 40. 23De Decalogo, 41. 24De migratìone Abrahami, 185. 25De vita Mosis, I, 75. 26 II tema della Creazione è ben trattato in Tobin 1983 con particolare ri­ ferimento all’uomo.

35«

C a p ito lo V i l i

con lo Stoicismo. In questo testo si narra che agli inizi il cosmo e l’umanità erano caratterizzati da uno stato di sostanziale armo­ nia. Animali e uomini convivevano pacificamente, e la terra offriva spontaneamente tutti i frutti necessari alla vita. Senza dubbio, l’uo­ mo dominava sugli animali, ma ciò significava soltanto allegorica­ mente, per il platonico Filone, che l’intelletto governava sul corpo fatto di fango. Purtroppo, dopo il peccato originale, tutto il mondo venne a modificarsi27. La terra non offrì più i suoi frutti, gli animali diven­ nero ostili fra loro ed agli uomini, ed in generale la disarmonia per­ vase il cosmo. Il primo mutamento negativo si ebbe peraltro, come Filone sottolinea, a causa della donna. La sua creazione condusse l’uomo, infatti, da una situazione di originaria unicità - peraltro ad immagine e somiglianza di Dio28 - ad una condizione di dualità29. Tale condizione, se da un lato fece nascere amicizia, collaborazione e socialità, dall’altro creò discordia, conflitto e disarmonia. Filone non rileva comunque solo la dannosità della donna, ma anche la sua utilità. Prima di entrare in contatto con Èva, ossia con il corpo sensibile, data la necessità della conoscenza sensibile per il sapere intellettuale, Adamo, ossia l’intelletto, risultava infatti ste­ rile, ossia privo di contenuti30. Solo dopo questo incontro si aprì all’essere umano un mondo di colori e sensazioni, conoscenze e possibilità31. All’interno di questo contesto l’uomo compì il pro­ prio errore più grande (la philautia, il peggiore dei peccati) quan­ do, appunto, pensò le cose come non provenienti da Dio ed a lui appartenenti, ma come di sua proprietà, ritenendosi principio pri­ mo del tutto32. Anche la trasgressione successiva a quella di Adamo ed Èva, ossia quella di Caino, è leggibile in questo senso. Caino infatti, prototipo dell’individuo autocentrato, attribuì a sé anziché a Dio il potere di disporre del Creato33. Al contrario, Abele fu caratterizzato

27De opifìcio mundi, 168 ss. 28De plantadone, 18; De opificio mundi, 148. 29 Quaestiones et solutiones in Genesim, I, 25. 30 De cherubim, 58. Emerge qui chiaramente il piano allegorico con cui Filone trattò del mito di Adamo ed Èva, laddove Adamo rappresenta l’intelletto ed Èva il corpo sensibile. Sulla figura di Adamo nel pensiero di Filone, rinvia­ mo a Vidal 1971. 31 De cherubim, 61-62. 32 Quaestiones et solutiones in Genesim, I, 42. 33 De sacrificiis Abelis et Caini, 51-53; 88-139; De confusione linguarum, 124; De postergate Caini, 42.

La cultura postellenistica

351

dall’attribuire potere sul Creato a Dio anziché a sé stesso34. Mentre Caino fu agricoltore, inoltre, Abele fu pastore, ossia svolse l’attività più simile a quella divina in rapporto al mondo naturale: il ruolo del pastore fu attribuito infatti nella Bibbia solo a re e saggi, oltre che a Dio stesso35. Filone argomenta che il racconto biblico, sin dagli inizi, mostra una pedagogia umanamente orientata36. Esso infatti, per quanto incentrato su Dio, indica l’uomo come fine ultimo della Creazione. L’uomo in effetti fu l’ultimo fra gli enti creati, poiché era il primo in ordine di importanza. Dio lo fece venire alla luce solo quando tutto fu pronto per lui37. Il mondo creato fu da Filone ritenuto una sorta di banchetto, o di spettacolo, preparato da Dio per l’uomo38. Entro tale visione antropocentrica, tutto ciò che si trova in cielo e in terra risulta essere stato fatto per l’uomo. Il vero banchetto che rallegra l’uomo tuttavia, su cui Filone insiste mostrando il tratto prettamente greco della sua riflessione, fu la scoperta della verità finalizzata alla realizzazione del bene, data appunto la natura ra­ zionale e morale dell’uomo di cui anche Filone si reputa convinto39. Dio attribuì infatti all’uomo una maggiore perfezione rispetto agli altri enti, per Filone, proprio in quanto lo fornì della ragione morale. Per questo motivo, pur all’interno del teocentrismo biblico che domina la sua opera, la riflessione di Filone non può ritenersi estranea a quella della filosofia antica40. Filone fu infatti sostan­ zialmente convinto della naturale predisposizione alla verità ed al bene di tutti gli uomini, all’interno di un quadro universalistico ben lontano da quello veterotestamentario del “popolo eletto”. Ge­ nuinamente greco è infatti in lui il pensiero che l’uomo cade nelle tenebre solo quando cede alle passioni sensibili, ovvero quando la ragione abbandona il suo ruolo di guida morale. Come ha afferma­ to giustamente Roberto Radice, vi è un «nesso inscindibile fra atti­ vità conoscitiva e attività morale che Filone ritiene scaturire dalla

34De sacrificiis Abelis et Caini, 51; 136. 35De Iosepho, 2; Quod omnis probus liber sit, 31; De mutatione nominum, 116. 36 Sui contenuti educativi del pensiero di Filone, sempre utile il lavoro di Mendelson 1971 e 1982. 37De opificio mundi, 77 ss. 38De gigantibus, 31. 39De somniis, I, 50. 40 per p0hlenz 1942 la sostanza del pensiero filoniano è greca, anche se la spiritualità di fondo è prevalentemente giudaica. In questo senso, per Pohlenz, il suo “eclettismo” è espressione della koinè filosofica del tempo, assai diffusa soprattutto ad Alessandria.

:ir> u

C a p ito lo V i l i

unità stessa della natura umana», nonché un «rapporto strutturale che Filone pone fra conoscenza e virtù», sebbene esso «non si spin­ ga fino ad una totale identificazione delle due sfere, come avviene neH’intellettualismo di tipo socratico»41. La natura razionale dell’uomo La ragione, come detto, costituì anche per Filone, come per la filosofia classica, la caratteristica peculiare dell’uomo. Essa infatti gli permette, solo fra tutti gli enti, di scegliere fra il bene e il male, come ben simboleggia la posizione eretta42. L’antropologia di Filone risulta comunque differente rispetto a quella classica43. Nel De opificio mundi, infatti, Filone unisce alla unità psicofisica dell’uomo lo Spirito che proviene da Dio, consi­ derato incorruttibile44. Per Filone l’uomo possiede in effetti una esistenza che si svolge secondo tre dimensioni: a) secondo la di­ mensione fisica del corpo, propriamente animale; b) secondo la dimensione razionale deH’anima-intelletto, propriamente umana; c) secondo la dimensione trascendente dello Spirito, propriamente divina45. L’anima-intelletto risulta per Filone grecamente mortale, ma se Dio le dona il suo Spirito - questa la grande differenza con la filosofia classica - , e l’uomo vive in maniera ad esso conforme, allora essa può addirittura guadagnare la immortalità. Come scrive giustamente Giovanni Reale, in Filone «la morale diventa inscindi­ bile dalla fede e dalla religione, e sfocia in una vera e propria unio­ ne mistica con Dio e in una visione estatica»46. L’uomo dunque, pur essendo un ente di natura razionale ca­ ratterizzato da un’anima-intelletto che gli altri enti non possiedo­ no, può per Filone realizzare la propria essenza solo con l’aiuto di Dio47. Rifiutando tale aiuto egli compie un atto gravissimo, la già ci­ tata philautia, paragonabile per analogia a quello che nella Grecia arcaica fu la hybris. Per Filone, infatti, non è l’uomo, nonostante

41 Radice 1989, p. 385. 42De confusione linguarum, 178; Deplantatione, 17; Quod deterius potiori insidiari soleat, 85. 43 Uno studio ancora utile in merito è Melnick 1980. 44 De opificio mundi, 69 ss.; 134 ss. Significativo, in merito, anche Legum Allegoriae, 1,31 ss.; I, 36-38 (su cui Radice 2000. Su questo tema anche Mad­ dalena 1970, pp. 21-43). 45Legum Allegoriae, 1, 35. 46 Reale 2004, voi. VII, p. 74. 47De postergate Caini, 35-38; De confusione linguarum, 122-127.

La cultura postellenistica

353

la sua natura razionale, che può giungere da solo alla verità, ma è quest’ultima, tramite Dio (e la fede), che può giungere all’uomo. Per questo, per Filone, l’uomo deve impegnarsi in una duplice via: non solo sulla via della scienza filosofica, ma anche (e soprattutto) sulla via della esegesi biblica, da affrontare sia sul piano letterale che sul più compiuto piano allegorico48. L’allegoresi, come noto assai presente nella tradizione giudaica, costituiva una modalità interpretativa che aveva anche una rica­ duta sul piano etico49. Ciò emerge ad esempio nel De migratione, in cui sono molteplici le indicazioni sulle norme comportamentali che devono caratterizzare la vita del popolo di Dio50. La Bibbia, con Filone, si trasforma infatti per la prima volta in un’opera filoso­ ficamente commentata, come mostrano soprattutto il De opificio mundi e i tre libri del Legum allegoriae. Rimane tuttavia la grande differenza con la trattazione etica della filosofia classica, abituata ad una libera ricerca, non ad una sostanziale adesione ad un cor­ pus rivelato di leggi in quanto tale - nonostante qualche margine interpretativo - non trasgredibile. Più che rimarcare i vincoli imposti dalla fede, è interessante ri­ levare il peculiare tratto razionale dell’analisi dell’Alessandrino. In questo senso Legum allegoriae, che pratica l’uso sistematico delle quaestiones (anticipando la Scolastica medievale) nella analisi del­ la Bibbia, esemplifica il metodo dialettico con cui si mostra la vo­ lontà di Filone di giungere ad una solutio dei vari problemi teorici, spesso carichi di importanti risvolti etici51. Ciò emerge in maniera evidente anche nelle Quaestiones in Genesim e nelle Quaestiones in Exodum, in cui molti problemi che Filone tratta costituiscono veri e propri problemi filosofici, non meramente esegetici. Dopo esserci soffermati sul tratto razionale della natura umana in Filone, cecheremo ora di porre sotto osservazione il tratto più propriamente morale, fermo restando che questi due aspetti risul­ tano anche per il Nostro sostanzialmente inscindibili52. 48 Nel De vita contemplativa (78) Filone afferma addirittura che l’esegesi letterale sta a quella allegorica come il corpo sta all’anima; la prima, cioè, mo­ stra solo l’aspetto esteriore e superficiale della verità, mentre l’altra mostra lo spirito autentico e profondo della stessa. 49 Sul tema della allegoria, per quanto con riferimento all’epoca classica, rinviamo all’ottimo Ramelli-Lucchetta 2005. 50De migratione, 89 ss. 51 Tale uso fu comunque presente già ai tempi di Aristobulo, su cui Radice 1994; PP- 84 ss. 52 Come afferma Radice 2000 (p. 231) vi è in Filone «una straordinaria vi­ cinanza fra la sfera teoretica e la sfera etica». Una buona sintesi della antropo-

354

C a p ito lo V i l i

La natura m orale d ell’uomo

In Legum allegoriae Filone afferma che tutti gli uomini, se non rifiutano la verità della fede, possiedono la capacità razionale per risolvere i grandi problemi filosofici e divenire così virtuosi53. Non collocandosi tuttavia nell’orizzonte dell’intellettualismo ellenico, Filone spiega il fatto che non tutti diventano virtuosi affermando che vi è uno iato tra conoscenza e volontà54. L’uomo infatti talvolta, pur conoscendo, non vuole porsi nell’orizzonte della fede, e per­ tanto non può fare il bene. In particolare, chi si crede come Dio, ritenendo di abitare già da sempre la sapienza, non può per Filone avere volontà buona, e si riduce pertanto a fare il male55. Per Filone, solo se si presta ascolto alla fede, ossia se non si pone come fine della propria vita il piacere, bensì temperanza, vir­ tù e sapienza, si può giungere a realizzare il bene56. L’essenza della vita morale è infatti per Filone, con chiara vicinanza al Platonismo, riconducibile allo sforzo di dominare le passioni, il che può avve­ nire in prima battuta grazie alla guida della ragione57, ed in secon­ da - ma fondamentale - battuta grazie all’ausilio della fede. Ciò emerge chiaramente, a nostro modo di vedere, nel precetto delfico «conosci te stesso», che Filone cita espressamente58 sottolineando come la conoscenza di sé, che è insieme conoscenza del proprio essere nel mondo (naturale e divino), costituisce la via principale per il raggiungimento della felicità. In ogni caso, il tema del rapporto fra umano e divino rappresen­ ta, per Filone, un ottimo modo per riflettere sulla natura razionale e morale dell’uomo59. Il divino infatti, per quanto incomparabilmen­ te superiore all’umano, costituisce il migliore riferimento imitativo per l’uomo, essendo egli l’ente dotato della maggiore razionalità e

logia filoniana, anche con riferimento a questo rapporto, è in Laurentin 1951. 53Legum allegoriae, I, 24. 54 In Legum allegoriae, II, 65 si mostra comunque come «anche per Fi­ lone, come per tutti i Greci, non c’è morale senza conoscenza» (Radice 2000, p. 68), ossia che la conoscenza rimane condizione necessaria, per quanto non sufficiente, della azione retta. 55Legum allegoriae, II, 32. 56 Id., II, 79, 87, 89, 90. 57 Id., Ili, 123-128. 58Legatio ad Caium, 69. 59 Si tratta di una tesi condivisa da diversi interpreti. Bengio 1971 (p. 100) ha ad esempio affermato che «l’esigenza umanistica» e «l’esigenza teocentri­ ca» di Filone, invece che distinte o peggio ancora contrapposte, sono nel suo pensiero «una unica identica esigenza».

La cultura postellenistica

355

moralità. Il tema dell’imago dei risulta particolarmente sviluppato nel De opifìcio mundi, in cui si afferma che l’uomo è ai confini tra temporalità ed eternità, e che dunque almeno in certa misura può assimilarsi a Dio. Rispetto tuttavia alla homoiosis theo presente nella filosofia classica, è presente nella trattazione di Filone una di­ screta differenza: l’uomo infatti, per divenire simile a Dio, oltre che perfezionarsi sul piano razionale e morale deve obbedire ai dogmi rivelati, tanto che la fede diventa nella sua opera una delle virtù più importanti60. Come ha scritto giustamente Reale, «siamo di fronte ad un vero capovolgimento di prospettiva rispetto al razionalismo morale dei Greci, che dipende, ancora una volta, dal concetto di Dio Creatore e Rivelatore, e dalla conseguente nuova concezione dei rapporti sussistenti fra il Creatore e quella creatura privilegiata che è l’uomo»61. Il vero sapiente-saggio risulta infatti per Filone colui che, con fede, segue i dettami di Dio e cerca in questo modo di imitarlo62. L’amore, soprattutto per Dio, e la speranza, soprattutto nella immortalità, divennero per Filone, insieme alla fede, le prin­ cipali caratteristiche dell’uomo virtuoso63. Per questo occorreva a suo avviso non legarsi troppo a ciò che è terreno, che come tale ci allontana dal vero fine dell’uomo, ossia l’unione mistica con Dio64. In questo itinerario dell’uomo verso Dio, il momento cruciale con­ siste per Filone - qui forse lo stacco maggiore con la tradizione classica - nel «riconoscere la propria nullità»65. Per essere felici

60DeAbrahamo, 262-276. 61 Reale 2004, voi. VII, p. 78. 62De specialibus legibus, IV, 188; De fuga et inventione, 63; De virtutibus, 168; De opificio mundi, 144. 63De fuga et inventione, 58. 64 Quis rerum divinarum heres sit, 69-70; 75; 263-265. Dice bene Reale 2001 (p. 422) che «tutta la filosofia di Filone è, in ultima analisi, un itinerario a Dio che si scandisce in tre tappe fondamentali, all’interno delle quali sono ul­ teriormente distinguibili momenti diversi: 1) La prima tappa consiste nell’abbandonare la contemplazione e l’adorazione del cosmo (la mentalità caldaica, come la chiama Filone), per rientrare in sé medesimi al fine di conoscere sé stessi. 2) La seconda tappa consiste appunto nella conoscenza di sé medesimi [...]. Questa seconda tappa implica una conoscenza a) del nostro corpo, b) dei nostri sensi, e c) del nostro linguaggio, e il successivo distacco da questi tre domini, che si rivelano ingannevoli. 3) La terza tappa consiste nel rifugiarsi nella nostra anima, e, insieme, nel rendersi conto che la nostra stessa anima [...] deve essere trascesa, giacché, se essa non leva lo sguardo al di sopra di sé, cioè alle realtà incorporee e a Dio, fatalmente si ritrova asservita a qualcosa che è solo umano e terreno». 65 Id., 30; in tal senso anche De somniis, I, 60 e De congressu eruditionis grada, 134.

C a p ito lo V i l i

occorre infatti, a suo avviso, «vivere [...] per Dio piuttosto che per sé stessi»66. L’uomo rimane comunque per Filone pienamente responsabi­ le delle proprie azioni67. Nella sua opera appare anzi il concetto di «libero arbitrio» nell’uomo, estraneo all’intellettualismo gre­ co. Principalmente nella Bibbia infatti l’uomo, di fronte ad un Dio autore solo del bene, è rappresentato libero anche di optare per il male. Filone tiene in ogni caso conto del fatto che l’uomo, non essendo la sua conoscenza perfetta, riscontra notevoli difficoltà le quali devono sempre essere comprese - nel porre in essere la propria natura morale. Prima di tutto infatti Dio, il massimo oggetto di imitazione, è dichiarato da Filone inconoscibile, a causa insieme della sua natura trascendente e dei limiti conoscitivi dell’uomo68. Lo stesso linguag­ gio umano costituisce solo una copia imperfetta del linguaggio di Dio, sicché nessuno, nemmeno Mosè, può renderne appieno il pen­ siero69. L’esperienza mistica è inoltre per definizione sfuggente, non conforme alla stabilità del sapere epistemico70. Rimane fermo tuttavia che anche quando cerca di conoscere un divino assai diffi­ cilmente conoscibile, l’uomo migliora la propria natura e pertanto progredisce71. Vi sono in ogni caso diverse modalità più “immanenti” con cui, per Filone, l’uomo può realizzare la propria natura morale, pur sempre prendendo spunto da Dio. Secondo Mayer, infatti, Filone

66 Quis rerum divinarum heres sit, ili. 67 Quod Deus sit immutabilis, 47 ss. 68De mutatione nominum, 7. In altri testi (ad esempio De postergate Cai­ ni, 16) tale inconoscibilità sembra tuttavia in linea di principio superabile, a causa della decisione divina di farsi conoscere dall’uomo. 69Legum allegoriae, III, 207; Quod Deus sit immutabilis, 82 ss. 70De Gigantibus, 52. Sulle funzioni del silenzio nella Grecia antica, rinvia­ mo all’ottimo volume collettaneo Angeli Bernardini 2015. Il silenzio avrebbe comunque costituito, per Filone come per i Pitagorici, solo una provvisoria sospensione della comunicazione, non una rinuncia definitiva al pensiero logi­ co-discorsivo. Radice 2000 (p. 30) ha infatti giustamente affermato che nulla «ci autorizza a ritenere che l’Alessandrino avesse in mente un tipo di conoscen­ za particolare diverso da quello praticato dai filosofi». Prova ne è che anche quando attinge dalla Rivelazione concetti di natura teologica, egli non si limita a «farne un uso religioso o puramente esegetico, ma ne cerca subito l’appli­ cazione scientifica o filosofica, impiegandoli come strumenti per intendere la natura e la forma del mondo e dell’uomo» (Id., p. 33). Qui entriamo però, come ricorda ancora Radice, nel problema del misticismo filoniano, che è «a tutt’oggi aperto e molto complesso» (Id., pp. 25-26). 71 De postergate Caini, 18, 21.

La cultura postellenistica

357

afferma ben 25 volte nella sua opera che Dio è «amante del do­ no»72, come la Creazione dimostra massimamente. Tenendo conto di questo, è evidente come l’uomo possa imitare Dio e realizzare al contempo la propria natura morale praticando verso i suoi simili l’amore donativo. Nella riflessione di Filone non mancano del resto riferimenti etico-politici nel segno della condivisione comunita­ ria73. Egli racconta infatti di situazioni diffìcili (la famosa missione a Roma da Caligola) in cui fu costretto dalle circostanze a prendere parte attiva nella vita pubblica, conscio che non sempre, se si desi­ dera il bene, è possibile dedicarsi alla mera contemplazione74. La filantropia costituì in effetti il cuore del messaggio etico di Filone. L’esempio più emblematico è rappresentato forse dal rap­ porto tra il sapiente e colui che non lo è. In questo caso - ossia nel dono della sapienza da parte di chi la possiede - si raggiunge per Filone il massimo della generosità, poiché il sapiente dona all’insi­ piente il massimo bene. In generale infatti, per Filone, «il giusto è il sostegno del genere umano»75, sicché è soprattutto a lui che spetta il compito di favorire la costituzione della comunità. Sempre sul piano etico-politico, Filone critica la crematistica, cogliendo forme di idolatria in ogni attaccamento eccessivo ai beni terreni76. Netta è in merito la sua condanna ai ricchi che prestano all’oro ed all’argento forme di cura simili a quelle dei culti religiosi, conservandoli come un simulacro del divino nella parte più riposta della casa777 . Egli condanna inoltre - sebbene in minore misura 8 anche quei poveri che si recano alle case dei ricchi supplicandoli come divinità, poiché implicitamente ritengono il denaro più im­ portante di ragione e virtù, ossia dei massimi beni7®. Gli uomini devono inoltre apprendere a ritenersi tutti uguali per Filone, in quanto l’uguaglianza, ossia il riconoscimento della comune natura

72 Mayer 1974. 73 Sul pensiero politico e sociale di Filone rinviamo a Goodenough 1938 e Farias 1993. 74 Legum allegoriae, II, 85-86. Vi sono alcuni passi (Quaestiones et solutiones in Genesim, IV, 47; De specialibus legibus, III, 1-6) in cui Filone dichiara la vita teoretica preferibile alla vita etica, ma sempre solo se non egoisticamen­ te intesa, bensì finalizzata al bene comune. Talvolta infatti è necessario per Filone, come mostreremo, dedicarsi alla attività politica, nonostante quest’ultima sia pratica per natura ambigua, a stretto contatto con interessi privati, conflitti, ricerca di onori, ecc. (Kraus Reggiani 1979, pp. 267 ss.). 75De migratione Abrahami, 121. 76De Abrahamo, 20-23. 77De specialibus legibus, I, 23. 78 Id-, I, 24.

C a p ito lo V i l i

razionale e morale, quando compresa ed applicata, è madre della giustizia79. Per Filone infatti «tutto ciò che sta nell’ordine dovuto è opera dell’uguaglianza»80. L’uguaglianza si esprime per Filone anche nella parrhesia, dun­ que nella tutela dell’altrui libertà di parola81. Questa tesi è sostenuta in vari testi, fra cui principalmente i primi sette capitoli del Quis re­ rum divinarum heres sit82. Neanche Abramo infatti, pur con il do­ vuto rispetto, temette di parlare con Dio. Per questo motivo ancor meno si deve temere di parlare con altri uomini, sebbene potenti. La natura morale dell’uomo trova inoltre piena realizzazione, per Filone, nel riconoscimento della comune fratellanza83. Trat­ tando infatti del tema della schiavitù, Filone fu tra i primi a con­ dannarla duramente, pur non arrivando a chiederne l’abolizione84. Parlando della comunità degli Esseni, egli la propose come model­ lo positivo in quanto in essa la schiavitù non era presente, dato che era ritenuta recare oltraggio alla giustizia ed alla naturale ugua­ glianza fra uomini85. Il carattere educativo, sul piano etico-politico, delle opere di Filone è stato ben messo in evidenza da diversi interpreti, fra cui Francesca Calabi. La studiosa ha in merito affermato che le allego­ rie di Filone consentono «di introdurre un discorso di largo respiro di carattere etico o politico»86. Ciò accade ad esempio per le storie dei patriarchi Noè ed Abramo, che rappresentano un imprescin-

79Quaestiones etsolutiones in Genesim, III, 49; Quaestiones et solutiones in Exodum, I, 6. Su questo tema, rinviamo all’interessante studio di Frazier 2006. 80De specialibus legibus, IV, 237. Filone fu peraltro uno dei maggiori soste­ nitori della «legge naturale», attestazione che si ritrova meno di dieci volte nei pensatori greci a lui precedenti, e sempre in maniera episodica. In Filone ricorre invece, come mostra Mayer 1974, una trentina di volte ed in modo strutturato. 81 Una buona descrizione della parrhesia in ambito greco e cristiano, è presente in Scarpat 2001. 82Ad esempio in Quaestiones et solutiones in Genesim, IV, 102. 83 Quaestiones et solutiones in Genesim, II, 60. 84 In un passo di Legum allegoriae (III, 89) Filone parlò di «schiavitù per natura», ma solo per intendere - aristotelicamente - la subordinazione che i non sapienti è bene mantengano nei confronti dei sapienti. Come i filosofi clas­ sici, infatti, Filone non era genericamente «ugualitarista», in quanto la vera uguaglianza consisteva per lui non nel dare a tutti in maniera uguale, bensì nel tenere conto al contempo della comune natura umana e delle specificità di ciascuno (De specialibus legibus 1, 120). 85 Quod omnis probus liber sit, 89; De specialibus legibus, II, 82; III, 137. Sulla comunità degli Esseni, rinviamo a Gusella 2003. 86 Calabi 2013, p. 47.

La cultura postellenistica

359

dibile riferimento nel cammino verso il sapere e la virtù87. Nel De Iosepho Filone mostra infatti che la politica condotta secondo la volontà divina, ossia in maniera retta, costituisce una forma di at­ tuazione delle norme date da Dio88. In tal senso risulta addirittu­ ra a suo avviso auspicabile una unione fra filosofìa e politica che giunge a ricordare la Repubblica di Platone. Ciò accade quando egli afferma che gli Stati potranno progredire solo se i re diventeranno filosofi, o in alternativa i filosofi assumeranno il potere89. In gene­ rale, anche per Filone, gli uomini progrediranno quando saranno diffuse le condizioni politico-sociali necessarie alla realizzazione della loro natura razionale e morale.

3. Galeno Note generali Galeno di Pergamo (129-210 c.a.), medico e filosofo, rappresen­ ta per molti aspetti, insieme a Claudio Tolemeo90 e ad Alessandro di Afrodisia91, una delle figure maggiori dell’epoca postellenistica. Degno rappresentante della cultura scientifica di Alessandria (le cui istituzioni frequentò - apprendendo in esse buona parte del suo sapere anatomico e fisiologico92 - per cinque anni), commenta­

87 Come in Omero, anche in Filone «i personaggi dilatano la loro specificità e diventano miti» (Calabi 2013, p. 48). 88 De Iosepho, 100 ss. Vale in generale anche per Filone la regola greca della giusta misura, contemperazione di vita teoretica e vita pratica (Defuga et inventione, 33; De mutatione nominum, 39; De ebrietate, 87). 89De vita Mosis, II, 2; De somniis. II, 243 ss. 90 In questa sede non è possibile occuparsi dell’opera scientifica di Tole­ meo. Ricordiamo tuttavia che egli fu autore di uno scritto, Sul criterio e sull’e­ gemonico (in cui trattava del criterio per giudicare le percezioni e della parte egemonica dell’anima), che mostra quanto fosse diffuso anche negli ambienti scientifici del tempo l’interesse per l’antropologia e la psicologia, in particolare platonica. Rinviamo in merito anche a Feke 2018. 91 II grande commentatore di Aristotele, come abbiamo mostrato in Grecchi 2018 a, pp. 313-318, si è occupato molto della natura. In merito all’uomo, sono interessanti soprattutto le sue considerazioni sul De anima aristotelico, per le quali rinviamo a Donini 1971 e Moraux 2002. 92 Sulla esperienza alessandrina di Galeno, rinviamo a Garcia Ballester 1972, pp. 34 ss. Galeno fu sfavorevolmente colpito dalla chiusura dogmatica dei circoli alessandrini, in cui il sapere si trasmetteva ancora secondo linee maestri-discepoli all’interno di uno specialismo angusto, senza attenzione alla pratica terapeutica. Ad Alessandria egli tuttavia apprese la pratica antica del

,’ )(>4 53, 4 5 4 .4 5 5 Gigon, O. 405, 436, 445 Gilardoni, G. 426 Gildenhard, I. 316, 464 Gill, Ch. 361, 362,416, 469 Gillespie, S. 307, 464 Gioè, A. 371, 474 Giovacchini, J. 272, 274, 275, 455 Giovanni Damasceno 43 Giovanni Stobeo 78, 291 Giovenale 305 Girardi, L. 286, 455 Giugnoli, G. 426 Giuliano 289 Giusta, M. 460 Giustinelli, F. 405 Glauco 72, 203 Glaucone 155,156,161 Godwin, G. 307, 464 Goldschmidt, E.V. 246, 282, 283, 4 4 8 .4 5 5 Gomperz, T. 123,163,405 Gonzales, F.J. 199 Goodenough, E.R. 347, 357, 470 Gordon, P. 289, 455 Gorgia 147, 150, 155, 156, 160, 162, 163, 164, 165, 166, 169, 170,171, 4 3 3 , 437 Gorman, R. 313, 464 Gosling, J.C.B. 192, 405 Gotthelf, A. 448 Gould, J.B. 114, 290, 422, 458 Goulet-Cazé, M.O. 183, 184, 188, 189,190, 4 3 4 , 436 Gourinat, J.B. 183,337,438,464 Graca, C. 306,464 Graeser, A. 370, 474 Graf, F. 21, 24, 416 Graffigna, P. 470 Graham, D.W. 122,181, 428, 436

Grecchi, L. 9 ,10 ,11, 12 ,14 ,15 ,16 , 18, 28, 30, 35, 42, 59, 61, 62, 74, 83, 92, 105, 119, 123, 126, 132, 142, 144, 152, 196, 202, 203, 205, 221, 223, 230, 234, 238, 241, 245, 256, 273, 290, 3 0 5 , 319, 3 45, 3 5 9 , 36i, 368, 382, 400, 404, 405, 409, 4H, 416, 429, 441, 448, 474 Gretenkord, J.C. 336, 464 Griffin, M.T. 305, 321, 329, 461, 464 Grilli, A. 302, 308, 313, 317, 458, 464 Grimal, P. 311,319, 339, 464 Gritti, E. 387, 474 Grmek, M.D. 103,422 Groarke L., 256,452 Gruen, E.S. 405 Gschnitzer, F. 405 Guardasole, A. 416 Guarini, M.L. 171, 436 Guastini, D. 88, 89,175, 405,416 Gueye, C.M. 291, 459 Guidelli, C. 472 Guidorizzi, G. 21, 416 Gullino, S. 236, 239, 405, 448 Gurley, G.M. 452 Gurtler, G.M. 474 Gusella, L. 358,470 Guthrie, W.K.C. 28, 64, 127, 148, 173, 4 0 5 ,416, 436 Guzzo Capone, G. 386,474 Haase, F. 460 Habicht, C. 312, 464 Hadas-Lebel, M. 347, 470 Hadot, P. 330, 337, 342, 3 4 3 , 378, 390, 406, 461, 464, 475 Hahn, R. 428 Halfwassen, J. 371,475 Hall, E. 89, 406 Hammerstaedt, J. 289,455 Hankinson, R.J. 256, 360, 452, 469 Hansberger, R. 360, 468

Indice dei nomi Hardie, P. 307,464 Hardie, W.F.R. 448 Harrison, J.E. 17,114, 406 Harrison, Th. 423 Hart, J. 113,423 Hartog, F. n o , 423 Haskins, V.E. 171,436 Havelock, E. 27, 84,406 Hegel, G.W.F. 17,389, 406, 450 Heidegger, M. 13, 18, 123, 126, 135, 406, 429 Heinemann, 1. 346, 470 Heinimann, F. 459 Heitmann, A. 470 Helmig, C. 294, 3 72,458,4 7 5 Hemmenway, S. 160, 436 Henry, P. 472 Herb, I. 416 Hermann, G. 412 Hermes 37, 42, 69 Higgins, W.E. 181, 436 Hijmans, B.L. 464 Holmes, B. 286, 456 Holstad R.,184,191,436 Horky, P. 213, 429 Hornblower, S. 120, 423 Horn, C. 256, 406 Hòsle, V. 98, 416 Hossenfelder, M. 272, 456 Hourcade, A. 160, 436 Howie, G. 239, 448 Huffman, C.A. 129, 429 Humbert, J. 183,436 Hunter, R. 69,120, 416 Hunter, V.J. 423 Huonder, Q. 348,470 Hussey, E. 122, 429 Husson, S. 187,189, 406, 436 Iannueci, A. 272, 454 Iaso, D, 406 Ibico 70,75 Idomeneo di Lampsaco 286 Ierodiakonou, K. 290, 459 Ierone 133 Ifigenia 96,100

•I»7

Immerwahr, H.R. 113, 423 Impara, P. 211, 239, 441,448 Indelicato, A. 20 Indelli, G. 287,453 Inge, W. 392 Innocenti, P. 239, 448, 456 Inwood, B. 138, 290, 299, 319, 4 2 9 , 4 59, 464 Ioli, R. 165,166,433 Ioppolo, A.M. 257, 260, 262, 268, 294, 296, 297, 298, 300, 436, 4 5 2 , 459 Iozzia, D. 385, 473 Ipparco 363 Ippia 148 ,149 ,15 0 ,15 4 ,16 0 ,16 2 Ippocrate 10 3 ,10 4 ,10 5,10 6 ,10 7, 108, 109, 112, 252, 361, 362, 363, 364, 366, 420, 421, 422, 423 Ippolito 90, 96, 99 Ipponatte 70 Ippone 428 Irwin, T. 208, 241,441, 448 Isnardi Parente, M. 162, 256, 289, 376, 380, 383, 436, 442, 459, 475 Isocrate 53, 160, 164, 167, 168, 169, 170, 171, 172, 173, 230, 4 3 3 , 4 3 4 , 436, 437 Ivanka, E. von 380, 475 Jacob, C. 111,423 Jacobs, D.C. 126,429 Jacoby, F. 21,112, 420 Jaeger, W. 9 ,1 1 ,1 5 ,1 6 ,1 7 , 32, 3 4 , 39,41, 52, 5 4 ,8 0 ,8 1,17 1, 406 Jedrkiewicz, S. 62, 416 Jellamo, A. 61,416 Jermann, C. 204, 442 Johnson, M.R. 242, 448 Joly, H. 215, 442 Jones, W.H.S. 95, 106, 245, 286, 4 2 3 ,4 5 6 Jori, A. 20, 103, 136, 223, 406, 423,448,464

488

Indice dei nomi

Jouanna, J. 103, 105, 107, 108, 360 ,4 16,423,468 Joubaud, J. 202, 442 Judson, L. 181, 436 Jung, C.G. 25, 406 Kahn, C.H. 129, 207, 429, 442 Kaiser, O. 348, 470 Kal, V. 241, 448 Kamesar, A. 347, 4 7 1 Kamp, A. 230, 448 Kamtekar, R. 173, 434 Kant, I. 406 Karasmanis, V. 181, 436 Kenney, E.J. 307, 464 Kerchensteiner, J. 215, 442 Kerényi, K. 29, 416 Kerferd, G.B. 148, 436 Ker, J. 464 Kern, O. 29, 413 Keyt, D. 235, 445 Kidd, I.G. 457 Kingsley, P. 29, 429 Kirk, G.S. 21, 24, 27, 69,122, 416, 429 Ritto, H. 90, 406 Klaus Reggiani, C. 470 Klibansky, R. 371, 475 Koenen, M.H. 307, 461 Konstan, D. 309, 310, 464 Kook, J.M. 34, 406 Kramer, H. 196, 204, 442 Kranz, W. 16,122,425,4 28 ,43 3 Kraut, R. 195, 235, 442, 445 Kuhn, C.G. 361, 467, 468 Kuhns, R. 416 Kullmann, W. 225, 448 Kutschera, F. von 188, 197, 221, 442 Labarbe, J. 47, 416 Labarrière, J.L. 242,406 Lacey, W. 62,406 Lachenaud, G. 114, 423 Laks, A. 29, 122, 125, 141, 286, 300, 416, 429, 454, 459

Lamberton, R. 416 Lamprocle 181 Lana, I. 120, 157, 190, 319, 406, 4 0 7 , 4 36,465 Lanata, G. 106, 417, 4 23 Lanza, D. 88, 140, 417. 4 2 6 , 445, 448 La Palombara, U. 198,406 Lapini, W. 44, 61, 71. 9 3 , 97, 98, 115, 418 Lardinois, A.P.M.H. 80, 97, 41g, 418 Lasserre, F. 104,423 Latacz, J. 34,417 Lateiner, D. 113, 423 Latronico, N. 103, 423 Lattanzio 284, 289 Laurand, V. 286, 454 Laurentin, A. 354, 471 Laurenti, R. 127, 135» 138, 181, 192, 284, 286, 402, 430, 449, 456 Lavecchia, S. 196, 442 Ledbetter, G.M. 417 Lefkowitz, M. 21, 407 Legrand, G. 122, 430 Leisegang, I. 469 Lennox, J.G. 448 Leone, G. 287, 456 Leonhardt, J. 312, 313, 465 Leonida 117 Leonte di Salamòia 179 Lesher, J.H. 128, 430 Lesky, A. 48, 417 Leszl, W. 122, 125, 143, 158, 426, 430 Leucippo 143,144, 257, 426 Leveque, P. 407 Levet, J.P. 22, 407 Levi, A. 158, 162, 167, 305, 436, 437, 465 Levinson, R.B. 442 Lévy, C. 274, 275, 276, 290, 300, 308,312, 346, 4 5 9 ,465, 471 Lewis 272, 299 Licofrone 148,162, 247

Indice dei nomi Linguiti, A. 368, 369, 386, 388, 389, 393, 472, 475 Lisi, F. 204, 440 Littré, E. 103, 420 Li Vigni, F. 14 8 ,155, l6 ° , 308,437 Lloyd, A.C. 475 Lloyd, G.E.R. 95, 103, 183, 188, 189, 190, 245, 262, 401, 423, 449 Lloyd-Jones, A.M., 407 Lloyd-Jones, H. 417 Lombardi Satriani, L.M. 88 Lombard, J. 167, 437 Lombardo, G. 14,407 Long, A.A. 280, 290, 295, 330, 373, 4 0 7 , 4 5 9 , 465 Long, H.S. 425 Longo, A. 371, 475 Longo Auricchio, F. 272, 456 Lopez Férez, J.A. 103, 105, 360,

423, 469 Lo Piparo, F. 241, 449 Lorand, V. 300,459 Loraux, N. 26, 94, 167, 182, 407, 417 Lorè, B. 239, 407 Lo Schiavo, A. 24, 26, 34, 176, 204, 210, 316, 407, 417, 442, 465 Lotito, G. 465 Lott, T.L. 59, 411 Louguet, C. 122, 429 Louis, P. 199,442 Lucchetta, G. 20, 22, 241, 353, 449 Luciano di Samosata 288 Lucilio 288, 319, 320, 321, 322, 323, 324, 325, 326, 327, 328, 3 2 9 , 3 3 0 , 466 Lucrezio, Tito Caro 272,305,306, 307, 308, 309, 310, 311, 460, 461, 462, 463, 464, 465, 466, 467 Lugarini, L. 223, 449 Lumpe, A. 128, 430 Luria, S., 144, 426

489

Macé, A. 286, 454 Mackendrick, P. 316, 465 Macris, C. 129,428 Maddalena, A. 349, 3 5 2, 4 2 5 ,471 Maehler, H. 80, 82, 85, 413 Magrin, S. 266, 452 Magris, A. 46, 382, 407, 475 Maguire, J.P. 211, 442 Maier, FI. 173, 437 Mailloux, S. 154,163, 437 Maloney, G. 103, 424 Mammana, S. 465 Mancini, R. 228, 407 Manetti, D. 365,469 Manolidis, G. 273, 456 Mansfeld, J. 255,458 Manuli, P. 12,10 8 ,10 9 , 252, 362, 364, 401, 423, 468 Marcacci, F. 126,13 2 ,4 3 0 ,4 3 1 Marchand, S. 260, 452 Marco Aurelio 305,306,333,339, 341, 342, 343, 344, 460, 461, 463, 464, 4 6 5, 473 Marcovich, M. 425, 426 Mari, G. 239, 449 Marincola, J. 114, 422 Marino 363 Maritain, J. 43 Marrou, H.I. 239, 407 Martens, E. 436 Martin, A. 138,173,430 Martin, G. 437 Martini, S. 143,430 Marx, K. 83, 231, 409 Marzi, M. 433 Marzolo, C. 373, 475 Masaracchia, A. 28, 85, 114, 117, 167, 417, 423,437 Masi, F.G. 13 1,3 4 7,3 4 8 ,4 2 9 ,4 5 6, 459 Mason, A.S. 330, 466 Maso, S. 155, 279, 305, 312, 313, 314, 319, 320, 4 3 3 , 4 4 7, 456, 461, 465 Massenzio, M. 87,417 Mastromarco, G. 87,417

490

Indice dei nomi

Mathieu, V. 378, 475 Mattei, J.F. 128, 430 Mattioli, U. 12,407 Mayer, G. 3 5 6 ,357, 358, 471 Mayhew, R. 251, 449 Mazzanti, A.M. 347, 471 Mazzantini, C. 430 Mazzara, G. 163,164,181, 437 Mazzini, 1. 103, 423 McCoy, J. 122,430 Mckirahan, R.D. 122, 129, 287, 428, 430 Me Pherran, M.L. 259, 452 Méautis, G. 417 Medda, R. 198,442 Medea 90, 98, 99 Meikle, S. 234, 449 Meiksins Wood, E. 12, 245,407 Meister, K. 119,423 Mekler, S. 412 Mele, A. 130, 417, 430 Melnick, R. 352,471 Mendelson, A. 351, 471 Meneceo 274, 276, 277, 278, 279, 280,281, 283 Menelao 101 Menesseno 181 Menghi, M. 361, 366,468 Menodoto 364 Menone 173 Merkelbach, R. 412 Merlan, P. 456 Mesiano, F. 430 Metrodoro di Lampsaco 286 Micaelli, C. 397,475 Michel, A. 311, 465 Migliori M. 17, 20, 37, 109 , 149, 157, 159, 163, 164, 165, 184, 195, 197, 198, 202, 203, 205, 207, 211, 221, 226, 228, 403, 404, 407, 437, 4 4 2 , 4 4 3 , 4 45, 4 4 7 ,4 4 9 Milani, P. 248, 249, 407 Miletti, L. 113,423 Milik, M.S. 90, 417 Miller, F. 449

Mimnermo 70 Minar, E.L. 131,4 3 0 Minazzi, F. 431 Mingucci, G. 449 Minosse 101 Miralles, C. 3 4 ,4 t 7 Misone 78 Mitchell, T.N. 316, 465 Mitsis, P. 275, 278, 283,456 Mitteis, L. 407 Modani, F. 472 Moggi, M. 59 Momigliano, A. n o , 119,407,424, 459 Mondin, B. 13, 41, 4 4 , 159, 3 4 8 , 408, 471 Mondolfo, R. 9 ,1 6 ,1 7 , 41, 42, 46, 123,408,412, 426,456 Monro, D.B. 412 Montagu, M.F.A. 59,408 Montanari, E. 408 Montanari, F. 34, 48, 65, 71, 98, 113, 195,417 Montano, A. 124, 430 Montoneri, L. 109, 163, 171, 192, 194, 322, 408, 437, 443 Montuori, M. 173,180, 437 Mora, F. 114,118, 252,402,424 Moraux, P. 359, 360, 449, 4 69 Moreau, J. 336,459, 465 Morel, P.M. 143, 272, 275, 276, 286, 430, 455, 456 Morgan, K. 21, 206,417 Mori, V. 211,443 Morris, I. 34, 417 Morrison, D.M. 173, 437 Moscarelli, E. 126,430 M osè356 Mossé, C. 182, 408 Most, G.W. 29, 416 Moulinier, L. 29, 417 Mounier, E. 43 Movia, G. 445 Mudry, Ph. 104, 423 Murray, G. 51, 417 Museo 28, 29, 31

Indice dei nomi Musonio Rufo 331, 337, 34°, 461 Musti, D. 119, 408, 424 Mutschmann, H. 451 Myres, J.L. 113, 424 Naddaf, G. 127, 428 Naess, A. 258,452 Nagy, G. 33, 417 Napolitano Valditara, L.M. 192, 205, 408, 4 4 3 , 447 Narcy, M. 44, 181, 185, 193, 4 36, 437 Narducci, E. 311,315, 465 Natali, C. 132, 169, 171, 233, 236, 237, 238, 240, 321, 431, 437, 449 Natali, M. 465 Nausicaa 43,44, 52,58 Navia, L.E. 122,128, 430 Nemesis 25, 67 Nenci, G. 114, 424 Neottolemo 95 Neri, C. 71, 417, 418 Nestle, W. 17, 408 Nestore 64 Netschke-Hentschke, A. 211,443 Nettleship, R.L. 211, 443 Nicolai, R. 119,167, 424, 437 Nietzsche, W. F. 25, 56, 101, 119, 123, 430 Nikiprowetzky, V. 348, 471 Nippel, W. 245, 247 Noè 358 Noussia, M. 80, 82, 85, 413 Numenio 371 Nussbaum, C.M. 226, 275, 449, 459 Nutton, V. 103, 365, 424, 469 O’Brien, D. 138,430 Odisseo 37, 40, 41, 42, 43, 44, 46, 47, 4 8 , 4 9 , 51, 5 2 , 55, 56, 62, 96,185, 414 O’Grady, P. 126, 430 O’Keefe, T. 281, 286, 456 Oldfather, W.A. 460

491

Olimpiodoro 31 O’Meara, D.J. 368, 386, 393,475 Omero 15, 17, 22, 27, 28, 31, 3 3 , 3 4 , 3 5 , 3 6 , 37, 38, 39, 40, 42, 4 3 , 4 4 , 46, 47, 48, 49, 52, 53, 5 4 , 5 6 , 58, 5 9 , 60, 61, 62, 63, 64, 66, 68, 74, 81, 83, 86, 96, 103, 172, 184, 359, 361, 401, 40 9 ,412 ,4 14 ,4 15 ,4 16 , 417 Orazio, Quinto Fiacco 288, 305 Oreste 101 Orfeo 28, 29, 30, 31, 32, 417, 427, 432 Otto, W.F. 17, 21, 29, 175, 408, 418, 437 Oudemants, C.W. 97,418 Ovidio, Publio Nasone 305 Paci, E. 133, 431 Padovani, U. A. 475 Paduano, G. 418 Paioni, G. 191, 416 Palamede 3 7,16 3 ,16 4 ,16 6 ,170 Palmer, J. 132,431 Palmieri, N. 324,465 Palpacelli, L. 228, 443, 449 Palumbo, L. 88 ,121,122,18 6,192, 207, 219, 221,396,408, 443 Pancera, C. 151,175, 408, 437 Panchenko, D. 126, 431 Pandora 63, 69,70, 409,414 Panezio di Rodi 290, 302, 312, 457, 458 Paoli, U.E. 182, 408 Paolo di Tarso 327, 462 Paratore, E 288,456 Paresce, D. 133, 431 Paribeni, E. 14,400 Parker, R. 113,422 Parmenide di Elea 18, 132, 133, 134, 135, 143, 194, 252, 257, 4 2 6 ,4 2 7 ,431, 441 Parroni, P. 319,465 Pasifae 101 Pasquali, G. 408 Patocka, J. 9 1 ,9 2, 437

492

Indice dei nomi

Patroclo 43, 44 Pattoni, M. 91,418 Patzer, A. 181,186, 437 Pausania 89 Payen, P. 120, 249,408 Pearson, L. 113,424 Pellegrin, P. 106, 242, 248, 425, 449 Pellikaan-Engel, M.A. 134, 431 Pelloux, L. 370, 389, 3 9 3 ,4 7 5 Pender, E. 443 Pendrick, G. 161, 433 Penelope 43, 44, 48, 52, 55, 56, 62,184 Penglase, C. 64, 418 Perelli, L. 307,308, 310,312,465, 466 Periandro 78, 80 Pericle 120,140,180 Perilli, L. 131,431 Perin, C. 262, 452 Perine, M. 443 Perdi, E. 475 Perrot, M. 182, 215,403 Pesce, D. 23, 152, 169, 272, 274, 275, 283, 286, 312, 409, 443, 456,466 Petrone, G. 319,466 Petronio, Gaio Arbitro 317 Peverada, S. 157,160, 437 Philip, J.A. 128,431 Piano, V. 29, 418 Piazza, F. 230,449 Piazzi, L. 307, 466 Pico della Mirandola 74 Pietsch, C. 370,4 7 5 Pigeaud, J. 106, 286, 455 Pilade 101 Pindaro 22,70, 7 2 ,7 5 ,7 6 ,77,191, 413 Pinotti, N. 80, 418 Pire, G. 459 Piritoo 64 Pirrone di Elide 55, 256, 257, 258, 259, 260, 261, 262, 263, 264, 265, 267,450,452

Pisandro 191 Pitagora di Samo 59, 128, 129, 130, 131, 133, 135, 136, 427, 4 3 0 ,4 3 1 , 432 Pitocle 274, 275, 285 Pittaco 78 Platone 11, 15, l6 > l8 >22> 2Ó>27> 31, 35, 37, 4 b 47, 52, 53, 59, 72, 75, 78, 88, 92, 100, 104, 105, 107, 109, i n , 122, 125, 128, 130, 142, 143, 148, 149, 150, 154, 155, 156, 157, 158, 159, 160, 161, 162, 163, 164, 165, 167, 168, 169, 171, 172, 173, 174, 176, 177, 178, 179, 180, 181, 182, 184, 185, 187, 188, 191, 195, 196, 197, 198, 199, 200, 201, 202, 203, 204, 205, 206, 207, 208, 209, 210, 211, 212, 213, 214, 215, 216, 217, 218, 219, 220, 221, 222, 223, 225, 226, 227, 230, 231, 232, 233, 234, 235, 237, 238, 239, 240, 241, 244, 245, 247, 248, 249, 251, 266, 267, 268, 269, 272, 273, 274, 275, 281, 285, 286, 292, 294, 313, 317, 318, 321, 322, 328, 3 4 4 , 3 5 9, 361, 362, 366, 369, 370, 371, 372, 373, 376, 377, 378, 381, 382, 387, 389 , 391, 392, 4 09, 414, 424, 427, 432, 435, 436, 439, 440, 441, 442, 443, 444, 445, 449, 451, 452, 461, 470, 471,473, 474 Plebe, A. 162, 438 Plotino di Licopoli 20, 345, 345 367, 368, 369, 370, 371, 372’ 373, 374, 375, 376, 377, 378, 379, 380, 381, 382, 383, 384 3 8 5 , 386, 387, 388, 389, 390, 391, 3 9 2 , 3 9 3 , 3 9 4 , 3 9 5, 3 9 6^ 472, 473, 47 4 , 475, 476 Plutarco di Cheronea 60, 81, 115 134,153,191, 288

Indice dei nomi Pohlenz, M. 9,10 , 16, 18, 55, 154, 177, 290, 291, 297, 301, 302, 312, 3 44, 351, 4 0 9 , 4 5 9 , 471 Poliakov, L. 409 Polibio 118 Polibo 108 Policleto 14,38,400 Policrate 147 Polifemo 40, 64 Polistrato 282, 286 Polo 167 Popper, K.R. 132,431 Porfirio 254, 368, 370, 378, 386, 392 Porro 4 4 , 61, 71, 93, 97, 9 8 ,115 Porro, A. 418 Poseidone 22 Posidonio 290, 364,458 Postiglione, A. 216, 409 Potter, P. 103,424 Pottier, R. 418 Poulakos 150,162,167 Poulakos, J. 438 Powell, A. 101,312,418 Powell, B.B. 417 Powell, J.F. 466 Pozzoni, 1. 135, 431 Prassifane 119 Prato, C. 412 Press, G.A. 196, 443 Preve, C. 11, 81, 83,123, 292,409 Priamo 43, 44, 50 Prieto, F. 325, 466 Primavesi, 0 . 138, 430 Prini, P. 391, 394, 394, 475 Privitera, G.A. 29, 42,418 Proclo 23,345,368,388 ,473,474 Prodico 148 Prometeo 26, 63, 64, 69, 70, 91, 9 4 , 95, 96, 105, 141, 219, 414, 418 Protagora di Abdera 72, 141, 142, 148, 149, 150, 154, 155, 156, 157, 158, 159, 160, 161, 162, 164, 166, 169, 171, 177, 204, 4 3 3 , 4 35,436, 43 7 , 438

493

Proteo 27, 28,184 Provenza, A. 131,409 Pseudo-Plutarco 170 Pucci, P. 64,418 Pugliese Carratelli, G. 29, 120, 409,418 Quarta, C. 204,443 Quintiliano, Marco Fabio 305 Raaflaub, K.A. 86,177,409 Radice, R. 29, 242, 290, 293, 294, 295, 296, 297, 298, 300, 301, 302, 337, 3 4 6 , 347, 3 5 b 352, 35 3 , 354, 356, 4 0 9 , 4 4 3 , 4 4 5 , 449, 457, 459,460, 470, 471 Radt, S.L. 330, 466 Rahner, H. 418 Ramelli, I. 91, 93, 3 3 b 353, 413, 4 5 4 , 457, 461, 471 Rankin, H.D. 72 ,18 6,4 18 ,4 3 8 Raven, J.E. 122,429 Raviola, F. 400 Reale, G. 11,13 ,16 , 31, 34, 35, 38, 39, 40, 41, 47, 78, 122, 124, 129, 144, 158, 159, 162, 167, 173, 175, 177, 180, 188, 189, 191, 192, 194, 195, 196, 199, 204, 211, 220, 223, 226, 244, 254, 255, 259, 260, 264, 266, 268, 270, 273, 278, 282, 283, 289, 290, 295, 297, 302, 326, 3 3 8 , 3 4 0 , 3 4 2, 3 4 4 , 3 5 2, 355, 384, 395, 4 0 9 , 4 2 5 , 4 3 8 , 439, 4 4 3 , 4 4 4 , 4 4 9 , 452, 454, 457, 461, 466 Rechenauer, G. 120,424 Redfield, J.M. 418 Reeder, E.D. 182,409 Reggiani, K. 8 6 , 357 Reggiani, N. 86, 418 Reinhardt 163 Reiter, S. 469 Remes, P. 374, 375, 381,4 7 5 Rengakos, A. 119,424 Repellini, F. 428

494

In d ice d e i n o m i

Rescher, N. 256, 452 Reverdin, 0 .114, 424 Ricken, F. 256,452 Riedel, M. 126, 431 Riedweg, C. 128, 431 Rinaldi, G. 345, 409 Riondato, E. 335, 409, 466 Rist, J.M. 272, 2 8 9 ,3 7 0 , 371, 3 9 °> 456, 460,475 Ritter, J. 232, 450 Robbiano, C. 132, 431 Robin, L. 259, 268, 452 Robinson, E.R. 205, 445 Robinson, T.M. 431, 444 Rodighiero, A. 87, 418 Rodis-Lewis, G. 272, 299, 456, 460 Rohde, E. 30, 55, 4 » 9 Romano, F. 122, 140, 143, 163, 171. 199. 3 6 8 , 372, 380, 382’ 431, 437, 4 4 4 , 476 Romeyer Dherbey, G. 183, 438 Rosati, P. 122, 428 Roscalla, F. 173, 409 Rosén, H.B. 222, 420 Rosen, S. 444 Rose, V. 420 Roskam, G. 284, 456 Rosmini, A. 43 Ross, D. 199,4 4 4 Rossetti, L. 132,138,181,183, i9 3 > 409, 431, 437, 438 Rossi, R. 233, 450 Rossitto, C. 450 Ross, W.D. 445 Rostagni, A. 131,1431 Rouge, C. 444 Ruch, M. 308, 318, 466 Rudhardt, J. 69, 409 Ruggiu, L. 132, 250, 402, 426, 431, 450 Runia, D.T. 346, 471 Russo, A. 230, 265, 450,451 Rutherford, R.B. 3 3 9 , 466 Rzach, A. 412

Sachot, M. 132, 432 Sadun Bordoni, G. 241, 450 Saffo 70, 71,7 2 ,7 5 Saffrey, H.D. 388, 476 Sa'id, S. 17, 418 Sainte Croix, G.E.M. (de) 245, 410 Saitta, G. 152, 438 Salem, J. 143, 307, 432, 466 Salles, R. 300, 460 Saimeri, G. 207, 444 Salmona, B. 385,396,476 Sandbach, F.H. 289, 460 Sanders, K.R. 286, 455 Sandmel, S. 346, 348, 471, 472 Santaniello, C. 138, 431 Santas, G. 173, 438 Santippe 181 Santucci, M. 34, 89, 410 Sanz Morales, M. 47, 418 Sarri, F. 36,174,438 Sarton, G. 360, 469 Sassi, M.M. 9, 80, 122, 173, 251, 254, 410, 4 3 2 , 438 Sasso, G. 309, 466 Saunders, T.J. 445 Sayre, F. 187, 438 Sbordone, F. 277, 456 Scaltsas, T. 330, 466 Scarpat, G. 5 4 ,3 2 4 ,3 2 7 ,3 5 8 ,4io, 414, 466 Schafer, C. 128,432 Schefer, C. 14, 206, 444 Scheler, M. 13,410 Schettino, M.T. 300, 402 Schiavone, A. 464 Schibli, H.S. 432 Schiefsky, M. 424 Schiesaro, A. 319,461 Schillbrack, K. 418 Schmalzriedt, C. 132, 432 Schmidt, H. 273, 278, 283, 288, 3 4 8 ,4 7 2 Schmid, W. 457 Schniewind, A. 386, 476

Indice dei nomi Schofield, M. 122, 140, 204, 255. 3 0 0 , 301, 429, 432, 444, 4 5 8 , 4 5 9, 460 Schwyzer, H.R. 307,461, 472 Scolnicov, S. 204,444 Scuderi, A. 27,418 Seaford, R. 96, 419 Sedley, D. 242, 272, 302, 432, 4 5 0 , 4 59, 466 Segai, C. 96, 307, 419, 466 Seifert, J. 195,444 Selem, A. 461 Sellare, J. 300,460 Semonide 69,70 Seneca, Lucio Anneo 288, 305, 306, 314, 319, 320, 321, 322, 3 2 3, 324, 325, 326, 327, 328, 3 2 9 , 3 3 0 , 3 3 3 , 3 3 6 , 341, 343, 344, 460, 461, 462, 463, 464, 465, 466,467 Seniade 148 Senofane di Colofone 127, 128, 130,142,163, 257, 426, 432 Senofonte 118, 173, 175, 177, 180, 181, 182, 192, 193, 302, 428, 433 Serra, G. 426 Serse 117 Sesto Empirico 158,163,257,263, 264, 266, 267, 268, 269, 270, 271, 272, 363, 451, 452, 453 Sestov, L. 385, 392, 476 Setaioli, A. 288, 319, 323, 466,

467 Settis, S. 86, 208, 233, 245, 247, 410 Severino, E. 12,18, 22, 91, 92, 93, 410, 419 Seveso, G. 12 ,9 6 ,18 2 ,3 71,4 10 Shapiro, H. 452 Shearin, W.H. 286, 456 Short. W.M. 462 Sichirollo, L. 444 Siegei, R.E. 364,469 Sihvola, J. 258, 267, 452 Sikes, E.E. 71, 419

495

Silvestre, M.L. 140, 274, 432, 457 Simon, B. 424 Simonide di Ceo 70, 75, 76, 87, 252 Simplicio 126,330,429 Sirianni Artese, P. 129, 432 Siriano 368 Sissa, G. 12, 215, 252,401 Skinner, J. 111,410 Slaveva Griffin, F. 374, 475 Smith, M.F., 453, 455 Smith, N.D., 434 Smith Peter, M. 419 Smith, R.E. 467 Smith, W.D. 424 Snell, B. 17,19, 35, 36, 37, 50, 52, 71, 72, 73, 95, 410, 419 Snowden, F.M. 244, 410 Socrate 15, 16, 78, 92, 107, 135, 143, 147, 148, 149, 150, 157, 17 1,17 3 ,174, 175,1 7 6 ,1 77,178, 179, 180, 181, 182, 183, 184, 185, 186, 187, 188, 189, 191, 192, 194, 195, 196, 197, 203, 205, 209, 210, 211, 214, 221, 225, 226, 238, 259, 264, 267, 268, 275, 282, 294, 296, 302, 322, 332, 333, 369, 402, 409, 4 3 3 , 4 3 4 , 435, 436, 437, 438, 4 4 0 , 453, 465 Sofocle 87, 90, 91, 95, 96, 97, 98, 99,10 0,413, 415, 416 Sola, G. 315, 410 Solaro, G. 143 ,4 3 2 Solone 59, 66, 69, 70, 74, 76, 78, 79, 80, 81, 82, 83, 84, 85, 86, 9 3 ,117,118 ,12 8 ,133 ,13 5,18 0 , 413, 415, 417, 4 i 8 Sonnabend, H. 119,424 Sorel, R. 28,32,419 Sorensen, V. 319, 467 Soverini, L. 151,438 Spinelli, E. 135, 145, 257, 258, 263, 271, 273, 275, 284, 432, 451, 452, 453, 455 Stahl, H.P. 122, 424

496

Indice dei nomi

Stanford, W.B. 94, 419 Stanton, G.R. 467 Starr, G. 22, 410 Stavru, A. 18 3 ,193. 4 3 5 , 438 Steel, S. 476 Stefanini, L. 44 Steiner, P.M. 205, 444 Stella, L.A. 432 Stemmer, P. 205, 444 Stenzel, J. 41, 211, 444 Stephens, W.O. 3 3 3 , 3 3 6 , 467 Stern-Gillet, S. 283,4 5 7 Stesicoro 70, 75,191 Stokes, M.C. 432 Storchi Marino, A. 432 Storoni Mazzolani, L. 419 Storoni Piazza, A.M. 53, 54, 419 Strabone 58 Strange, S.K. 290, 460 Strauss, L. 222, 444 Striker, G. 460 Strozier, R.M. 277, 457 Sullivan, S.D. 100,419 Susanetti, D. 87, 98, 419 Svenbro, J. 75, 76, 419 Szlezàk, T.A. 199, 205, 444 Taglia, A. 171,444 Talete 78, 79, 82, 124, 125, 244, 409,425, 430 Tannery, P. 123 Taormina, D. 371,475 Taran, L. 426 Tarditi, I. 412 Tarrant, H. 267,294,453 Taylor, C.C.W. 143,192, 40 5 ,432 Telemaco 62 Temkin, O. 366,469 Teofrasto 119,135, 254 Teognide di Megara 7 0 ,7 3 ,74,76, 99 Tepedino Guerra, A. 272, 456 Terzaghi, N. 345, 467 Terzi, C. 335,467 Teseo 64 Testa, I. 252, 402

Teubneri, B.G. 457 Theiler, W. 370 Thomas, R. 27,115,120 , 419, 424 Thomson, P. 410 Thorsrud, H. 258,453 Tifone 22 Timone 257, 260, 262, 264 Timpanaro Cardini, M. 163, 426 Tirteo 70 Tobin, T.H. 349, 472 Togni, P. 299,460 Tonelli, A. 30, 98, 140, 410, 413, 419, 426 Too, Y.L. 167, 438 Tortorelli Ghidini, M. 28, 30, 32, 130, 138, 140, 300, 410, 419, 432 Tosca 345 Totaro, P. 87, 417 Trabattoni, F. 33, 67, 141, 145, 165, 184, 196, 199, 203, 205, 206, 209, 217, 219, 222, 223, 240, 246, 257, 258, 263, 265, 286, 298, 308, 334, 369, 375, 385, 386, 393, 396, 411, 4 4 4 , 473, 474 Traglia, A. 467 Traina, A. 327, 467 Trasimaco 148,155,156,162 Trépanier, S. 138,432 Trillitzsch, W. 328, 467 Trouillard, J. 385, 476 Tsakmakis, A. 119, 424 Tsekourakis, D. 296, 460 Tsouna McKirahan, V. 453,457 Tucidide 118, 119, 120, 121, 122, 156,167, 421, 422 Tulli, M. 273, 275, 455 Turato, F. 411 Turcan, R. 327,467 Tzetzes, G. 144 Uglione, R. 15,120,411 Ugolini, G. 96, 419 Untersteiner, M. 2 1,14 8 ,154 ,157, 419, 426, 438

Indice dei nomi Urano 23, 64 Usener, H. 280, 281, 284, 285, 453, 457 Valgimigli, M. 50, 420 Van der Eijk, P.J. 469 Van der Waerdt, P.A. 183, 438 Vandiver, E. 117, 424 Vanni Rovighi, S. 1 3 ,4 *1 Vegetti, M. 10, 12, 36, 4 9 , 5°, 5b 6 7 ,8 7,10 3 ,10 5 ,10 7,10 8 ,10 9 , 111,112,129,132,141,142,145, 156, 160, 161, 173, 184, 196, 199, 202, 204, 206, 208, 214, 218, 219, 220, 222, 223, 232, 237, 243, 244, 246, 248, 250, 251, 253, 256, 257, 258, 263, 286, 298, 308, 334, 361, 364, 365, 367, 3 6 9 , 375, 3 8 5 , 386, 393, 411, 421, 423, 4 2 4 , 4 3 9 , 4 4 4 , 4 45, 450, 468, 469 Ventura, D. 237, 450 Venturi Ferriolo, M. 234,450 Verdan, A. 258, 453 Verde, F. 20, 272, 273, 274, 275, 285, 286, 4 5 4 , 455, 457 Vernant, J.P. 12, 22, 26, 82, 89, 99 ,12 0 ,15 2 ,15 3 ,4 11,4 20 Verrà, V. 385, 476 Verzura, E. 29, 413 Veyne, P. 319,467 Viano, C A . 106, 424 Viansino, G. 120, 424 Vidal, J. 350, 472 Vidal Naquet, P. 12, 89, 99, 399, 411, 420 Vigna, C. 11, 223, 238, 329, 411, 450 Vimercati, E. 269, 312, 371, 458, 460,4 7 2 Virgilio, Publio Marone 288, 305, 306,467 Visconti, A. 432 Vitali, R. 432 Vitruvio, Marco Pollione 141 V lastos, G. 173, 432, 4 3 8 , 444

497

Voelke, A.J. 263, 270, 453 Voigt, E.M. 258, 300, 412, 453, 460 Vox, O. 71, 414 Waitz, T. 445 Walcot, P. 64,420 Wallis, R.T. 389, 476 Ward, J.K. 59,411 Warren, B. 122, 274, 275, 277, 286, 432, 457 Waterfield, R. 438 Waters, K.H. 113, 424 Wehner, B. 330, 467 Weidauer, K. 120, 425 Weil, S. 48, 411 Wendland, P. 346,469,472 West, M.L. 21, 28, 29, 69, 71, 82, 83, 84,128,411, 412, 420 White, N.P. 206, 444 Whitmarsh, T. 362,469 Wiesner, J. 128,132, 432 Wilberding, J. 360, 373,468,476 Wilderberger, J. 319, 467 Wilhelm, R. 25,406 Wilkins, J. 362,469 Williams, B. 42, 248, 420 Wilms, H. 173,438 Wilson, E. 319, 467 Wimmer, F. 445 Winkler, J.J. 87, 420 Winnington-Ingram, R.P. 101,420 Winspear, A.D. 307, 467 Winston, D. 346, 472 Wittern, R. 106, 425 Wlodarczyk, M.A. 259, 453 Wòhrle, G. 126,127, 432, 433 Wolfson, H.A. 346, 349, 472 Wolf, U. 445 Wood, H. 113, 316, 425 Wood, N. 467 Wray, D. 326,327, 461 Xello, P. 64,415 Xenakis, J. 332, 467

498

Indice dei nomi

Zadro, A. 445 Zafiropulo, J. 140,141, 433 Zambarbieri, M. 51, 54, 420 Zambrano, M. 181, 327,412,467 Zampagliene, G. 49, 73,412 Zanardo, S. 329,411 Zanatta, M. 20, 25, 152, 165, 177. 197, 223, 227, 230, 242, 253, 257, 260, 320, 322, 326, 334, 3 3 6 , 337, 341, 3 4 3 , 412, 445, 4 4 6 , 4 4 9 , 4 5 0 , 461 Zanetti, G. 237, 450 Zarmakoupi, M. 287,457 Zeitlin, F. 87,420 Zeller, E. 17,123,412 Zenone di Cizio, 289, 291, 294, 2 9 5,2 98 ,299 ,3 0 0 ,30 2

Zenone di Sidone, 287, 454 Zeppi, S. 123,146,157, 433, 438 Zeus 21, 24, 26, 27, 31, 47, 51, 54, 57, 63, 64, 65, 66, 67, 70, 72, 83, 91, 93, 95, 97, 219, 289, 292, 316 Zhmud, L. 128, 433 Zierl, A. 371, 476 Zilioli, U. 158,193, 438 Zimmermann, B. 147,420 Zintzen, C. 389,476 Zorzetti, N. 461 Zucca, D. 198,442 Zuolo, F. 204, 222, 445 Zupko, J. 290,460 Zurcher, W. 99,420