Una ontologia della tecnica al tempo dell'antropocene. Saggi su Heidegger 8855294032, 9788855294034

La comprensione della tecnica quale conquista ultima della metafisica moderna matura contestualmente alla critica all�

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Una ontologia della tecnica al tempo dell'antropocene. Saggi su Heidegger
 8855294032, 9788855294034

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Una ontologia della tecnicaal tempo dell’Antropocene
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Introduzione
I Tra logos e physis: la tecnica tra manifestatività dell’ente e disvelamento dell’esserci
II La medicina antica tra tecnica e natura
III Il manifestarsi della physis nella techne: la violenza del predominante
IV Quale Weltbild per la scienza contemporanea: la tecnica come accadere storico dell’essere
V L’altro umanismo: l’esserci non è il padrone degli enti
VI Il desiderio di un’etica nell’epoca dell’immagine del mondo dominata dalla tecnica
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Indice

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Chiara Agnello Una ontologia della tecnica al tempo dell’Antropocene Saggi su Heidegger

Passages

Collana diretta da: Umberto Curi e Carmelo Meazza

Passages | 19

Chiara Agnello Una ontologia della tecnica al tempo dell’Antropocene Saggi su Heidegger

Pubblicato con il contributo del Dipartimento di Scienze Psicologiche, Pedagogiche, dell’Esercizio Fisico e della Formazione dell’Università degli Studi di Palermo

© 2023, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via G. Macchi, 94 - 00133 - Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Passages ISSN: 2282-5282 n. 19 - maggio 2023 ISBN –Edizione cartacea: 978-88-5529-403-4 ISBN –Ebook: 978-88-5529-418-8

Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Francisco Goya, Modo de volar (1815-1816)

a Niki

“Vescovo, so volare”, il sarto disse al vescovo. “Guarda come si fa!” E salì, con arnesi che parevano ali, sopra la grande, grande cattedrale. Il vescovo andò innanzi. “Non sono che bugie, non è un uccello, l’uomo: mai l’uomo volerà”, disse del sarto il vescovo. “Il sarto è morto”, disse al vescovo la gente. “Era proprio pazzia. Le ali si son rotte e lui sta là, schiantato sui duri, duri selci del sagrato”. “Che le campane suonino. Eran solo bugie. Non è un uccello, l’uomo: mai l’uomo volerà”, disse alla gente il vescovo. Bertolt Brecht, Il sarto di Ulm (1934)

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Introduzione

La distinzione fra «considerazione storiografica» (historische Betrachtung) e «meditazione storica» (geschichtliche Besinnung), più volte richiamata da Heidegger1, esplicita l’intento di interrogare la storia della scienza o più precisamente della tecnoscienza, muovendo da un domandare radicale: l’esplicazione della metafisica che è alla base di una scienza. Nella prospettiva della meditazione storica non è di interesse il resoconto delle scoperte scientifiche disposte in un ordine progressivo di successione, bensì l’individuazione dei fondamenti e dei presupposti che caratterizzano la comparsa di una teoria scientifica e le sue pratiche. Da questo punto di vista, per esempio, non avrebbe senso valutare la fisica aristotelica come un sapere primitivo superato dai guadagni successivi compiuti negli stessi ambiti delle scienze naturali, bensì interpretarne la concezione della natura che vi soggiace. Allo stesso modo Heidegger osserva che ciò che per la considerazione storiografica è posteriore alla nascita della scienza moderna, come la tecnica meccanizzata sorta nel XVIII secolo, viene invece prima dal punto di vista della meditazione storica.

1  Cfr. M. Heidegger, Vorträge und Aufsätze, GA 7, p. 23; tr. it., p. 17.

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Non vi è alcun dubbio che l’indagine heideggeriana sulla tecnica tenga fede a quanto si è impegnata a fare. Lo sviluppo della tecnica odierna ha avuto, rispetto agli anni in cui la tecnica diviene uno dei temi centrali della riflessione heideggeriana2, una accelerazione che renderebbe inservibile un’indagine filosofica che avesse a cuore la historische Betrachtung. Crediamo possa valere per la riflessione heideggeriana stessa il richiamarsi a questa distinzione: se il pensiero di Heidegger è ancora interpellato all’interno dell’odierno dibattito sulle questioni di filosofia della tecnica le ragioni non sono da rintracciare in quello che Heidegger chiama un «puro calcolo storiografico», ma nella profondità del suo «pensare in senso storico», della sua meditazione storica. La questione della tecnica impostata sin dagli esordi da Heidegger nel contesto di una radicale critica all’ontologia tradizionale è oggi invece prevalentemente declinata attraverso specifiche riflessioni sulle singole tecnologie nei più diversi ambiti. A tal riguardo si è parlato di empiric turn in relazione al lavoro di alcuni filosofi della tecnologia statunitensi3: la svolta empirista sostanzialmente consiste nel concentrare l’attenzione su pratiche tecnologiche concrete e sullo sviluppo delle specifiche tecnologie sull’esistenza o sull’ambiente invece di ricercare le condizioni trascendentali di una tecnologia inte2  Heidegger scrive di tecnologia moderna e tecnologia delle macchine riferendosi principalmente alla tecnologia della Seconda rivoluzione industriale. Quando affronta il tema dei pericoli dell’energia nucleare e della tecnologia genetica nel frattempo è già cominciata l’era della Terza rivoluzione industriale che inizia alla fine del XX secolo, con l’ascesa della microelettronica e dei microcomputer. Cfr. J. Rifkin, La Terza rivoluzione industriale. Come il «potere laterale» sta trasformando l’energia, l’economia e il mondo, tr. it. di P. Canton, Mondadori, Milano 2011. 3  Cfr. H. Achterhuis (a cura di), American Philosophy of Technology. The Empirical Turn, tr. ingl. di R.P. Crease, Indiana University Press, Bloomington-Indianapolis 2001.

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sa come concetto unitario, come accade in posizioni divenute ormai classiche di ambito continentale. Al pensiero heideggeriano ci si richiama se si sta stretti nei panni della filosofia della tecnica quale ennesima «filosofia al genitivo»4, come l’ha acutamente definita Franco Volpi al tempo in cui ne constatava l’ingresso nella costellazione delle numerose discipline filosofiche. Volpi osserva che la riflessione filosofica, se appunto declinata al genitivo, appare come irrimediabilmente destinata a una «nobile anabasi, a una ritirata strategica dalle grandi questioni per rifugiarsi in problemi di dettaglio»5. In tale ottica, le pur interessantissime questioni affrontate dalle ricerche sull’impatto delle specifiche tecnologie rappresentate dal versante della empiric turn rimarrebbero confinate a una funzione «soltanto ancillare e subalterna»6. Lo stesso può dirsi, come evidenziato da posizioni simili a quella di Michel Serres, per i dibattiti che si concentrano sulle piccole questioni ambientali invece di porre quella di un’etica ambientale in cui la natura sia pensata come un membro della comunità morale con cui stipulare un contratto naturale, in cui l’umanità non sia né padrone né vittima della natura ma con essa provi a istituire un rapporto di reciprocità e simbiosi. Limitarsi a declinare le singole questioni particolari senza inquadrarle in un contesto teorico più ampio equivale a credere che scongiurare l’ecocatastrofe significhi auspicare una somma di provvedimenti da discutere e negoziare solo nell’ambito ristretto degli interessi delle politiche nazionali, misconoscendo così l’urgenza di una visione globalizzata e planetaria: Certo, possiamo rallentare i processi già in corso, legiferare riduzioni del consumo di combustibili fossili, ripiantare mas-

4  F. Volpi, Il nichilismo, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 147. 5  Ibidem. 6  Ivi, p. 146.

14 sicciamente le foreste devastate… tutte belle iniziative, ma insieme equivalgono all’immagine di una nave che naviga a venticinque nodi verso una barra rocciosa sulla quale sarà inevitabilmente distrutta, e sul cui ponte l’ufficiale di guardia consiglia alla sala macchine di ridurre la velocità di un decimo senza cambiare direzione.7

I motivi per cui si assiste a una ripresa del discorso heideggeriano sulla tecnica, anche in alcuni casi da parte di studiosi che a vario titolo possono essere ricondotti all’ecosofia, sono evidenti se si pensa alla critica heideggeriana al soggettivismo metafisico e all’antropocentrismo. A Heidegger, infatti, si richiamano quelle posizioni critiche nei confronti del movimento di riforma ambientale reputate incapaci di affrontare adeguatamente la questione della distruzione della biosfera perché ancora dipendenti dalla prospettiva di un umanismo antropocentrico8. A ciò si aggiunge l’evidenza che quella che oggi viene diffusamente indicata come tecno-­scienza «sfonda sempre più massicciamente l’orizzonte dell’antropologia tradizionale» aumentando tanto il sapere quanto il potere su noi umani così da mettere definitivamente

7  M. Serres, Il contratto naturale, tr. it. di A. Serra, Feltrinelli, Milano 2019, p. 69. 8  Cfr. M. Zimmerman, Heidegger’s Phenomenology and Contemporary Environmentalism, in C.S. Brown - T. Toadvine (a cura di), Eco-Phenomenolo­ gy. Back to the Earth Itself, Suny Press, Albany 2002, pp. 73-101, pp. 99 e 128, Zimmerman vede nell’invito heideggeriano a rimanere aperti al rinnovamento creativo offerto dalla tradizione sapienziale occidentale spunti decisivi per una concezione non antropocentrica dell’umanità. Va però precisato che i panegirici heideggeriani sull’Heimat e l’uso diffuso di una mistica del naturalismo presente nella retorica nazionalista tedesca hanno subito indotto Zimmerman a delle dovute precisazioni circa l’ispirazione di un antiumanismo ecologista ispirato da Heidegger: cfr. M. Zimmerman, Rethinking the Heidegger – Deep Ecology Relationship, in «Environmental Ethics», vol. 15, n. 3, 1993, pp. 195-224.

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in crisi «i simboli e l’immaginario della tradizione umanisticocristiana»9. Del resto è innegabile come le trasformazioni dell’essere umano poste dinnanzi a noi dalla Quarta rivoluzione industriale10 comportino un’immagine dell’uomo che sempre più diventa una sola cosa con i dispositivi intelligenti digitali, e rendano sempre più inapplicabili le categorie di comprensione derivanti dal dogma naturalistico di una essenza stabile della natura umana e ancora più perspicua la critica heideggeriana all’umanismo. Va però ricordato che la critica all’umanismo sorge contestualmente all’affermazione della necessità di un pensare che non si sottragga al compito di comprendere l’umano stare al mondo nell’accadere storico dell’essere compiuto nella tecnica. Un tale pensiero è anche etico nella misura in cui riflette sulla tecnica quale modalità disvelativa dell’ente a partire dal raccoglimento e dal progettare in cui l’uomo, a seconda del suo agire, si porta a una stabilità sicura oppure si conduce sull’orlo della catastrofe. Dentro questa cornice, nell’era della tecnoscienza, l’etica può per Heidegger essere ripensata solo nella dimensione della macroazione planetaria e non a misura del singolo individuo, se non al prezzo di rimanere «sul piano dell’omiletica»11, come «qualcosa di “penultimo” rispetto alle realtà prodotte dalla tecnoscienza»12. 9  F. Volpi, Il nichilismo, cit., p. 155. 10  Klaus Schwab definisce così l’era emergente caratterizzata da digitalizzazione, tecnologia genetica, guerra ibrida, smaterializzazione del processo produttivo, nanotecnologie, computer quantistici, e capitalismo cognitivo, cfr. K. Schwab, The Fourth Industrial Revolution, Penguin, London-New York 2017. 11  È una espressione utilizzata da Franco Volpi proprio in riferimento al fatto che, per Heidegger, l’unico modo per pensare adeguatamente l’etica provando a rispondere ai problemi del mondo moderno sta già nella comprensione della tecnica: cfr. F. Volpi, Il nichilismo, cit., p. 176. 12  Ibidem.

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Non si può negare che l’impossibilità nel tempo della tecnica di un’etica che comprenda il ruolo dell’agire individuale possa apparire un modo piuttosto vago e quantomeno pretestuoso di evadere più in generale la questione della responsabilità personale. Non è dunque sufficiente l’intento heideggeriano di manifestare il bisogno di un’etica per cercare di comprendere a quali risorse di senso appellarsi per rispondere all’appello proveniente dal disorientamento che comporta la velocità del cambiamento imposto dalla tecnica oggi; tutt’al più, una certa utilità si può trarre dall’ispirazione di un nuovo umanesimo non antropocentrico che, immune da tecnofobia, non sia però passivamente vittima degli imperativi di una tecnica priva di ogni controllo. Al di là degli accenti mistico destinali in cui risuona la retorica del Wandervögel, dal pensiero heideggeriano tuttavia proviene una indicazione per ripensare l’abitare dell’uomo sulla terra che interpreta questo dimorare nella natura e nella storia attraverso una narrazione che non è più quella dell’uomo al centro, che della natura vuole insignorirsi13. Per l’uomo all’epoca dell’Antropocene – dell’era che chiamiamo oggi con il nome dell’uomo medesimo – è possibile trarre qualche ispirazione dal richiamo heideggeriano alla sapienza della cosmologia antica del primo inizio in vista di una nuova narrazione, solo se al tempo stesso egli prova anche a rispondere agli interrogativi posti dalle potenzialità trasformative della tecnica e dal timore che la velocità e inarrestabilità del cambiamento possano portare a un mondo senza di noi14, a dispetto del nome con cui abbiamo designato l’era presente. Certamente, l’auspicio 13  M. Heidegger, Holzwege, GA 5, p. 94; tr. it., p. 99. 14  Un interessante esercizio intellettuale scritto in forma documentale su cosa accadrebbe all’ambiente naturale e artificiale se oggi cessasse improvvisamente l’antropizzazione è il libro di A. Weisman, Il mondo senza di noi, tr. it. di N. Gobetti, Einaudi, Torino 2008.

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di una «filosofia della tecnica al nominativo» trova motivi di interesse nella riproposizione della domanda ontologica sulla tecnica e in relazione a «una configurazione più estesa: la “cosmologia” propria della cultura da cui è emersa»15, qualora serva a riconfigurare simbolicamente un rapporto con la natura di armonia e non di dominio. Nell’orizzonte sin qui descritto si inseriscono i saggi del libro, che affrontano tutti la questione della tecnica e della critica heideggeriana all’umanismo argomentate dalla fine degli anni Trenta in poi; se ne differenziano il primo saggio, Tra logos e physis: la tecnica tra manifestatività dell’ente e disvelamento dell’esserci e, in parte il secondo, La medicina antica tra tecnica e natura. Motivi di attualità nell’interpretazione heideggeriana della techne medica, che prendono invece in considerazione gli anni del serrato confronto con Aristotele, quelli precedenti la pubblicazione di Sein und Zeit, in cui il primato della praxis sulla theoria viene individuato sulla scorta di una originale lettura del VI libro dell’Etica Nicomachea. Tale primato è affermato mentre parallelamente Heidegger porta avanti il tentativo di distinguere il Dasein dal «soggetto»16 della metafisica tradizionale, caratterizzandolo esistenzialmente anche in riferimento al rapporto con gli altri enti secondo il Fürsorgen e il Besorgen, e sottolinea anche il ruolo che la Zuhandenheit ha nella relazione che intercorre tra il Dasein e gli altri enti. Nel Natorp-Bericht, infatti, la techne viene rappresentata quale modo d’essere scoprente dell’esserci, ed è compresa a par15  Y. Hui, Cosmotecnica. La questione della tecnica in Cina, tr. it. di S. Baranzoni, Nero, Roma 2021, p. 22. 16  Tentativo non pienamente riuscito secondo alcuni. Sulla difficoltà dell’oltrepassamento della metafisica della soggettività e per una lettura di Essere e tempo, quale estrema metafisica umanistica del soggetto, cfr. M. Ruggenini, Il soggetto e la tecnica. Heidegger interprete “inattuale” dell’epoca presente, Bulzoni, Roma 1978.

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tire dall’interpretazione delle aristoteliche virtù dianoetiche come una delle modalità disvelative con cui l’esserci accede all’ente, in altre parole come un modo dell’aletheuein. Negli anni successivi anche in Sein und Zeit la disposizione della tecnica viene valutata positivamente come un aver-a-che-fare con le cose nel senso di utilizzarle in contesti operativi: un prendersi cura, un incontrare le cose primariamente nella loro Zuhandenheit, che soltanto secondariamente lascia spazio all’osservazione sulla base della Vorhandenheit. Al riguardo è utile sottolineare che proprio questi temi affrontati da Heidegger negli anni giovanili hanno ispirato alcune rare ma interessanti declinazioni postumaniste del problema della tecnica17, in genere per lo più ispirate da saggi come la Lettera sull’«umanismo» o la Questione della tecnica18. La relazione simbiotica uomo-tecnologia costitutiva della nozione di tecnicità originaria del postumanesimo trova certamente delle assonanze nell’orizzonte pragmatista tratteggiato in Sein und Zeit (e negli anni immediatamente precedenti) con la descrizione del rapporto pratico produttivo che caratterizza la relazione del Dasein con gli enti che lo circondano. In quel contesto la Zuhandenheit, l’aver a che fare pratico con le cose a portata di mano, o utili, sorregge l’affermazione fondamentale di Heidegger che la pratica precede la teoria; quel che è interessante osservare è che questo rapporto non è derubricabile in ciò che Heidegger molti anni dopo definirà una concezione antropologica e strumentale della tecnica, ma definisce

17  Cfr. D. Ihde, Heidegger’s Technologies. Postphenomenological Perspectives, Fordham University Press, New York 2010. 18 Cfr. G. Rae, Overcoming Philosophy: Heidegger on the Destruction of Metaphysics and the Transformation to Thinking, in «Human Studies», vol. 36, n. 2, 2013, pp. 235-257. Il saggio è un significativo contributo sul debito di alcune teorie postumaniste con la critica heideggeriana all’umanismo letta comunque come ultima propaggine dell’umanismo stesso.

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l’umano proprio in relazione alle attività e alla realizzazione di progetti che gli strumenti tecnici consentono. La posizione heideggeriana in questo senso già al tempo di Sein und Zeit non è assimilabile alla postura dell’antropologia filosofica che riconduce il ruolo svolto dalla cultura e dalla tecnica a una compensazione (Kompensation)19 o, alla maniera di Gehlen, a un esonero (Entlastung)20 derivante da strutturale difettività (Mangel). Dunque non è assimilabile in alcun modo a prospettive essenzialiste che, immaginando l’umano come una natura fissa qualificabile sulla base di qualcosa in meno rispetto agli altri viventi, si pongono esattamente sul piano della tradizionale antropologia filosofica, che Heidegger attaccherà frontalmente qualche anno dopo nella Lettera sull’«umanismo» a partire dalla definizione greca di zoon logon echon. L’originale proposta di Graham Harman di smarcarsi dall’antropocentrismo della tradizione filosofica attraverso una «ontologia orientata agli oggetti», per esempio, muove proprio dallo spunto heideggeriano offerto dal ruolo della Zuhandenheit. Secondo Harman, Heidegger sta distinguendo tra un «uso» nel senso della razionalità strumentale dell’umanesimo rappresentato da un essere umano privilegiato che decide riflessivamente come utilizzare uno strumento per i suoi fini liberamente scelti e un «uso» nel senso di una simbiosi uomo-strumento in cui l’umano preriflessivamente raccoglie lo strumento per impegnarsi nell’attività necessaria alla sua vita21.

19  O. Marquard, Philosophie des Stattdessen. Einige Aspekte der Kompensationstheorie, in Id., Philosophie des Stattdessen. Studien, Reclam, Stuttgart 2000, pp. 30-49: pp. 39-40. 20  A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, tr. it., a cura di V. Rasini, Mimesis, Milano-Udine 2010, p. 101. 21  G. Harman, Tool-Being. Heidegger and the Metaphysics of Objects, Open Court, Chicago-La Salle 2002, p. 18.

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Filosofi dell’embodied cognitive science come Andy Clark portano a pieno sviluppo l’elaborazione heideggeriana del Dasein e del suo rapporto con gli utensili dentro una cornice di pensiero in cui, più che scegliere di utilizzare la tecnologia, gli esseri umani sono immersi e costitutivamente correlati alla tecnologia. Clark ricorre a esempi come impianti cocleari, ricerca sulle staminali e protesi – che mostrano come l’essere umano sia intimamente connesso alla tecnologia non tematicamente, ma nella trasparenza del vivere –, giungendo ad affermare che non stiamo diventando cyborg, ma di fatto siamo «Cyborg naturali»22, indistinguibili per nostra natura dalla tecnologia, cioè da quella relazione che ha garantito la sopravvivenza evolutiva dell’uomo. Il terzo saggio, Il manifestarsi della physis nella techne: la violenza del predominante, riguarda invece, come i saggi seguenti, le riflessioni sulla tecnica nel periodo successivo alla Kehre. Viene qui preso come punto di partenza Introduzione alla metafisica, quale momento in cui è palesata l’idea che la questione dell’Essere sia anche la questione della tecnica, che la tecnica sia cioè considerata luogo di dischiusura dell’essere. La tecnica è compresa in quanto categoria ontologica in relazione alla cosmologia da cui è sorta e viene presentata nella forma di un disvelare che scaturisce da una Aus-einander-setzung. Dalla contrapposizione reciproca tra techne e dike emerge quella forma di sapere che fa sì che l’Essere si metta in opera negli essenti, ma il tratto di questa violenza è qualcosa che contraddistingue la tecnica nel mondo greco ma che non ha a che vedere con la tecnica intesa in senso moderno. Con questa mise en abîme della meditazione storica sulla tecnica in Introduzione alla metafisica si fa strada la convinzione che l’accadere storico epocale dell’essere non sia riducibile a prodotto di attività 22  A. Clark, Natural-Born Cyborgs: Minds, Technologies, and the Future of Human Intelligence, Oxford University Press, Oxford-New York 2003, p. 31.

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umane, ma che d’altra parte nell’accadere storico temporale l’essere come evento mantenga uno strutturale riferimento all’uomo. Il corso del 1935 rappresenta una tappa essenziale verso il domandare sulla tecnica che non si accontenta della definizione antropologico-strumentale: qui, infatti, la via indicata da Heidegger sembra sia quella di intendere la tecnica come un elemento che si sottrae all’uomo, un accadere del disvelamento in ciò che viene sperimentato tecnicamente. La tecnica è dunque intesa come l’evento di appropriazione tra l’essere e l’uomo. Il saggio Quale Weltbild per la scienza contemporanea: la tecnica come accadere storico dell’essere intende mostrare come la volontà heideggeriana di oltrepassamento della concezione antropologico-strumentale della tecnica non si risolva in una mitopoiesi della tecnica quale fatale destino cui rassegnarsi, né tantomeno nel suggerimento di farsi complici di un incontrollato avanzare della tecnica stessa. Soffermandosi sul dialogo con Heisenberg in occasione del ciclo di conferenze su Le arti nell’età della tecnica, il saggio mostra come emerga il tratto della tecnica, inteso proprio sotto il profilo cui si accennava innanzi, dell’«accadere storico» nella sua distinzione essenziale dalla «osservazione storiografica», un tratto decisivo per la riformulazione della Seinsgeschichte che, pur lasciando irrisolta la questione controversa del ruolo dell’umano nei riguardi della tecnica, ancora una volta consente lo sguardo rinnovato sulla collocazione dell’uomo in un mondo in cui l’uomo stesso non ha alcun titolo a pensarsi come padrone degli altri enti. Gli altri due saggi, L’altro umanismo: l’esserci non è il padrone degli enti e Il desiderio di un’etica nell’epoca dell’immagine del mondo dominata dalla tecnica, hanno l’obiettivo di mostrare che la lettura heideggeriana della tecnica come stadio ultimo dello sviluppo della metafisica sia declinata in una duplice maniera. Per un verso sembra infatti che l’essere umano sia inesorabilmente condannato a «perseguire e coltivare soltanto ciò

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che si disvela nell’impiegare, prendendo da questo tutte le sue misure»23. Come è noto, Heidegger descrive lo scenario in cui l’essenza della tecnica governa e dispone il rapporto dell’essere umano col reale esclusivamente nei termini di uno sfruttamento del secondo da parte del primo. In tal senso, l’uomo sembra esposto non a un pericolo, ma al «pericolo supremo», perché rischia di divenire esso stesso «fondo» impiegabile, al pari del resto del reale, ed è proprio questa imposizione generalizzata della tecnica che giunge a lambire anche la sua stessa essenza: l’uomo s’illude fino a vestirsi «orgogliosamente della figura di signore della terra»24. Questa minaccia, come Heidegger non manca di sottolineare, non proviene «dalle macchine e dagli apparati tecnici», bensì dall’essenza stessa della tecnica, per il fatto che là dove si dispiega e domina l’im-posizione, ogni disvelamento è improntato nel segno della direzione e della assicurazione del fondo. Per altro verso però, l’idea «post-metafisica» di verità degli anni successivi alla Kehre, il cui accadere si produce «essenzialmente nell’uomo anche se non per l’uomo», trae fuori il Dasein dalle secche della soggettività destinandolo alla custodia dell’essere, se si condivide la lettura di Essere e tempo quale ultima propaggine della contestata metafisica umanistica del soggetto25. Anzi, in questo senso la critica heideggeriana a ogni umanismo costituisce un fil rouge, come Derrida ha messo in luce26 – con una lettura quasi continuista del discorso heideggeriano prima e dopo la Kehre –, che attraversa la caratterizzazione del Dasein dell’analitica esistenziale di Sein

23  M. Heidegger, Vorträge und Aufsätze, GA 7, p. 25; tr. it., p. 19. 24  Ivi, p. 28; tr. it., p. 23. 25 Cfr. supra, p. 17, nota 16. 26  J. Derrida, Fini dell’uomo, in Id., Margini della filosofia, tr. it. di M. Iofrida, Einaudi, Torino 1997, pp. 153-185: p. 171.

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und Zeit per giungere al tentativo di pensare oltre l’umanismo del Brief über den «Humanismus». Certamente, sul piano teoretico, l’elaborazione di una idea di esistenza quale essenza dell’umano pensata a partire dalla differenza da un altro, di cui l’uomo non dispone, ha delle conseguenze notevoli anche su una ipotesi di riconsiderazione della tecnica su cui oggi siamo chiamati a riflettere. Nel Brief über den «Humanismus» il decentramento dell’uomo, la cui dignità consiste nel venire chiamato dall’essere a custodia della sua verità», fa apparire indebita e vana la sua pretesa di dominare sull’intero degli enti. Il riferimento estatico alla verità dell’essere viene descritto come «cura», nel peculiare senso che l’uomo «è (west) nel getto dell’essere che è il destino destinante», e questo comporta il fatto che «l’uomo non è il padrone dell’ente». Raccogliere l’invito a superare ogni antropologismo e soggettivismo, nella prospettiva che proprio in virtù di un simile decentramento l’uomo non sia padrone degli enti che lo circondano, sembra che oggi più che mai possa rappresentare uno snodo fondamentale per pensare il nostro futuro sul pianeta. La deposizione della centralità del soggetto e la critica delle interpretazioni umanistiche dell’uomo come animale razionale, come «persona», come essere composto di spirito, di anima e di corpo – definite non false, ma semplicemente insufficienti – rilanciano infatti per Heidegger il desiderio di un’etica. I saggi sono rivolti ad analizzare questa duplice direzione presente nella lettura heideggeriana della tecnica anche in riferimento alla peculiare concezione di storia cui si faceva cenno all’inizio di questa Introduzione: la storia non è infatti solo l’oggetto della storiografia, né il puro compiersi dell’attività umana, ma è l’accadere storico dell’essere nel suo disvelarsi, e questo accadimento non è un destino immodificabile cui ab-

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bandonarsi ma una storia di coappartenenza nel disvelamento dentro il cui corso l’uomo può decidere di stare come un servo (ein Höriger) o come un ascoltante (ein Hörender); in quest’ultimo caso significa scegliere di appartenere al proprio destino di ente disvelante per natura tecnico, consapevole di non essere padrone degli enti ma un ente tra gli altri capace di cura e custodia. Al di là dell’importante presa d’atto di non essere padroni di ciò che si crede di dominare e del generico invocare un’etica per il pianeta, rimane da capire in che modo l’uomo si possa mettere nella posizione di ascoltante evitando che lo sviluppo tecnologico, insieme al suo desiderio di dominio, trasformi il mondo «in enorme riserva permanente, come adikia o Unfung (non concordanza)»27. Il contrasto tra dike e techne, più che caratterizzare il tempo dell’Antropocene gli varrebbe allora il nome coniato da Bernard Stiegler di «entropocene»28, un tempo in cui l’eccesso di hybris più che disvelare l’essere del mondo nella natura e nella storia ne minaccia la stessa possibilità d’essere. Dal pensiero heideggeriano di certo ci provengono l’esortazione a imparare a pensare, declinabile nel senso del rifiuto di considerare ogni essere naturale come riserva permanente, oltre che buoni argomenti per la concezione non antropocentrica dell’umanità, fonte di ispirazione – come si è visto – di alcune ecofilosofie. La cogenza della prospettiva di decentramento dell’essere umano rivela la necessità di interrogarlo sulla sua responsabilità nel processo di antropizzazione dell’ambiente circostante e dei suoi esiti degenerativi, ma il lettore di Heidegger non può che rassegnarsi al fatto che la domanda sull’etica rimane

27  Y. Hui, Cosmotecnica, cit., p. 197. 28  B. Stiegler, Dans la disruption. Comment ne pas devenir fou?, Les Liens qui Libèrent, Paris 2016.

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inevasa, il conatus di una possibile «macroetica planetaria» tradisce l’incapacità (e la deliberata noluntas) di concepire un pensiero che voglia incidere sulla vita e ancor di più sulla vita associata. Ne è testimonianza Nur noch ein Gott kann uns helfen, l’intervista in cui l’inviato dello «Spiegel» pone un interrogativo semplice e diretto, per questo ancora più insidioso: Non dovrebbe il filosofo essere pronto a farsi un’idea di come gli uomini possono organizzare la loro coesistenza in questo mondo da loro stessi tecnicizzato e che forse, gli ha preso la mano? Non è giusto aspettarsi dal filosofo che dia delle indicazioni su come si rappresenta una possibilità di vita e viceversa non viene meno il filosofo ad una parte (e sia pure una piccola parte) della sua professione e della sua vocazione, se non sa comunicare nulla in proposito?29

A questo domanda Heidegger risponde con una esitazione solo in parte dovuta a quella che lui stesso definisce una «estraneazione alimentata proprio dalla posizione di potenza delle scienze nei confronti del pensiero»30: Per quanto ne so, un singolo non è in grado, a partire dal pensiero, di ottenere una panoramica del mondo nella sua totalità che gli permetta di dare indicazioni pratiche e, ciò, perfino in ordine al compito di trovare innanzitutto una base per il pensiero stesso. Il pensiero nella misura in cui si prenda sul serio rispetto alla grande tradizione, si sente qui impari al compito appena si accinge a dare indicazioni concrete.31

È un’aporia insanabile quella di non provare neanche a comprendere come il singolo possa contribuire a formulare la «macroetica», una sostanziale sfiducia nelle potenzialità del compito 29 M. Heidegger, Spiegel-Gespräch mit Martin Heidegger (23. September 1966), in Id., Reden und andere Zeugnisse eines Lebensweges (1910-1976), GA 16, pp. 652-683: p. 681; tr. it., p. 152. 30  Ivi, p. 681; tr. it., p. 153. 31  Ibidem.

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critico del pensiero di incidere sul reale, ma soprattutto l’ammissione di un totale disorientamento di fronte alla questione fondamentale, quella politica: «è per me oggi un problema decisivo come si possa attribuire un sistema politico – e quale – all’età della tecnica. A questa domanda non so dare alcuna risposta. Non sono convinto che sia la democrazia»32. Ma su questa difficoltà pesa l’errore fatale: aver pensato che l’incontro della tecnica planetaria con l’uomo moderno determinasse la «verità e la grandezza»33 di quel movimento politico che invece ha portato il mondo nell’abisso.

32  Ivi, p. 668; tr. it., p. 131. 33  Ivi, p. 667; tr. it., p. 130.

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I Tra logos e physis: la tecnica tra manifestatività dell’ente e disvelamento dell’esserci

1. Il semestre estivo del 1922: Aristotele e l’originaria motilità della vita Negli anni del primo insegnamento di Friburgo, com’è noto, ha luogo un serrato confronto di Heidegger con Aristotele decisivo per il maturare di alcuni argomenti essenziali1 all’elaborazione dell’analitica esistenziale di Sein und Zeit. Lo studio di Aristotele è significativo anche per lo sviluppo di riflessioni prodromiche alla questione della tecnica, tema più diffusamente affrontato negli anni successivi alla Kehre. L’«assimilazione vorace»2 di temi aristotelici confluisce infatti 1  È altrettanto noto come non sia solo lo studio di Aristotele a influenzare l’elaborazione dei temi dell’analitica esistenziale negli anni in cui Heidegger teneva anche i corsi sull’ermeneutica della fatticità. Heidegger individua nel pensiero cristiano delle origini – in particolare nelle lettere paoline e nelle Confessioni agostiniane, oltre che in alcuni mistici medievali – testimonianza di esperienze vissute capaci di cogliere la vita nella sua fatticità epurata da ogni teoreticismo e da tendenze obiettivanti. 2  L’espressione è di Franco Volpi, che sottolinea come Heidegger non si limiti a interpretare Aristotele ma attraverso un confronto serrato miri a una appropriazione radicale dell’ontologia e della filosofia pratica di Aristotele cui era pervenuto tramite le letture giovanili di Brentano e di Braig, cfr. F. Volpi, Heidegger e Aristotele, Laterza, Roma-Bari 2010, p. 11. Sul

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nell’analisi dell’espe­rienza della vita fattizia e della sua originaria motilità già a partire dai primi anni Venti. Nella Vorlesung del Sommersemester del 1922 è attraverso il confronto con Metafisica A 1-2 che comincia a farsi strada l’idea che l’ermeneutica della fatticità vada elaborata in direzione dell’ontologia e viceversa che la domanda ontologica possa essere posta solo se radicata nell’effettività della vita. Alcune significative analisi terminologiche sono rivelative dell’intenzione di mostrare come la theoria non preceda affatto la praxis, ma si presenti sin dal suo sorgere in uno stretto intreccio con questa. Innanzitutto l’icastico incipit della Metafisica: «Tutti gli uomini desiderano per natura conoscere» (Πάντες ἄνϑρωποι τοῦ εἰδέναι ὀρέγονται φύσει)3, diventa nell’interpretazione heideggeriana il desiderio verso il vedere (Sehen) che si radica nella vita4. A Heidegger preme osservare come sia possibile individuare nella fenomenologia delle forme di conoscenza descritta da Aristotele il carattere della vita nel suo prodursi, nel suo venir a maturazione (Zeitigung), ovvero nell’attuazione dell’interpretare se stessa e il mondo nella forma della cura.

rapporto fra l’elaborazione dell’ermeneutica della fatticità e l’intento – a seguito della lettura di Lutero – di individuare nel cristianesimo quelle tendenze obiettivistiche e teoreticistiche proprie della grecità, cfr. T. Kisiel, The Genesis of Heidegger’s Being and Time, University of California Press, Berkeley-­Los Angeles-­London 1993, pp. 227-230. Sul rapporto con Aristotele in questa fase di elaborazione dell’ermeneutica della fatticità, cfr. anche G. Figal, Heidegger als Aristoteliker, in A. Denker - G. Figal F. Volpi - H. Zaborowski (a cura di), Heidegger und Aristoteles, Alber, Freiburg-München 2007, pp. 53-76, e R. Elm, Aristoteles – ein Hermeneutiker der Faktizität? Aristoteles’ Differenzierung von φρόνησις und σοφία und ihre Transformation bei Heidegger, ivi, pp. 255-282. 3 Aristot., Met., A 1, 980a 21 (tr. it., Metafisica, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2000). 4  Cfr. M. Heidegger, Phänomenologische Interpretationen ausgewählter Abhandlungen des Aristoteles zur Ontologie und Logik, GA 62, p. 17.

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L’attenzione heideggeriana muove dalla constatazione che il sorgere del sapere filosofico accade solo quando gli uomini si siano esonerati dal provvedere ai bisogni primari. Aristotele pone infatti in una singolare relazione la vita contemplativa con quella di carattere tecnico pratico, sottolineando come la contemplazione e la ricerca delle cause del tutto ebbe luogo una volta consolidati i saperi volti a provvedere a necessità e bisogni primari: cioè una volta che gli uomini si sono affrancati dalle urgenze e difficoltà del vivere quotidiano grazie alle conoscenze rivolte all’utile, che appunto consentono di eliminare lo stato indigenza (Bedürftigkeit) e di soddisfare i piaceri (Genüsse) connessi al vivere. In un certo senso, si potrebbe affermare che la filosofia sia nata una volta avvenuto stabilmente il ricorso al principio dell’esonero. L’atto di battesimo della scienza contemplativa per eccellenza, infatti, richiama l’idea di un sapere possibile quando gli uomini si siano emancipati dai bisogni primari: «la scoperta di quelle scienze che non sono dirette al piacere né alle necessità della vita avvenne in quei luoghi in cui gli uomini dapprima furono liberi da occupazioni pratiche»5. Per Aristotele, quando il pensare è inteso quale attività fine a se stessa e non rivolta a un fine a essa esterno, si costituisce come un sapere diverso da quello rivolto all’utile o da quello più direttamente connesso all’agire. L’episteme theo­retike è un sapere desiderato e ricercato di per sé e non in vista di uno scopo esterno ed è, allo stesso tempo, ciò a cui ci si può dedicare proprio quando un altro tipo di conoscenza, l’episteme poietike, ha già liberato gli uomini dalla necessità di sopperire ai bisogni e alle necessità più immediate. Il sapere tecnico è dunque una di quelle forme del conoscere che agevolano l’esistenza e consentono la liberazione da impedimenti che rientra tra le forme di libertà negativa. Il modo di vivere teoretico è infatti visto come possibile solo quando si 5 Aristot., Met., A 1, 981b 20.

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è compiuta una liberazione (Freiwerdung), una facilitazione (Erleichterung) della vita resa possibile dalle τέχναι che mirano alla διαγωγή quale possibilità di soffermarsi (verweilen) liberamente senza disturbi: un modo d’essere che rimane fondamentale anche per la σοφία53. Emerge così una continuità di sviluppo della vita che mostra la tendenza naturale a evolversi nella ϑεωρἰα, modalità libera e autentica della vita di muoversi secondo volontà e desiderio e non soggetta ad asservimento.6 I termini che indicano le forme del sapere vengono tradotti nel quadro di una elaborazione della conoscenza stessa come commercio prendentesi cura, espressione formulata pochissimo tempo dopo anche nel Natorp-Bericht: l’αἴσϑησις è intesa come orientarsi con circospezione (Orientierung), l’ἐμπειρία come saper commerciare con una cosa, saper fare (sich auskennender), e la τέχνη come il porre in opera (ins Werk setzen), qualcosa a partire dalla presa dell’ente nel suo aspetto (Aussehen)7. Particolarmente interessante appare il rilievo secondo cui l’aristotelico μᾶλλον εἰδέναι, il voler vedere di più del σοφὠτερος (Verstehender sein), consiste nel non accontentarsi del fare esperto dell’ἐμπειρία ma nel ricercare il perché dell’ente (perché esso è così Warum so), un ricercare che è proprio del τεχνίτης. In questo corso su Aristotele emerge il carattere di motilità fondamentale della vita, il «rovinìo» (die Ruinanz) che caratterizza in modo singolare il rapporto tra atteggiamento pratico produttivo e la nascita della filosofia e con essa il tratto peculiare della vita stessa. La vita va via da sé attraverso un movimento 6  Sulla definizione aristotelica di filosofia come episteme eleutheran e sulla struttura «autotelica» quale tratto essenziale della teoresi filosofica che la definisce per contrasto rispetto agli altri saperi «rivolti all’utile» mi permetto di rinviare a C. Agnello, Liberi di pensare. Aporie della libertà, Mimesis, Milano-Udine 2017. 7  M. Heidegger, Phänomenologische Interpretationen, cit., pp. 19-22.

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che è quello della modalità inautentica del vivere, del perdersi in faccende e pratiche quotidiane conducenti verso l’oblio del proprio essere. La filosofia, a sua volta, fugge il tratto inautentico della vita quotidiana che nell’ottica di Metafisica A 1-2 consiste nel soddisfacimento di bisogni primari e nel godimento di quei piaceri facenti parte della vita stessa e compresi sotto la categoria di ciò che è oggetto di saperi sorti in vista dell’utile (διὰ τὸ χρήσιμον). Nel corso, la filosofia è vista come una decisione controrovinante (gegenruinante Entscheidung) in opposizione (Auflehnung) alla motilità inau­tentica del vivere8, ma l’andar contro il rovinio non consiste nella sua eliminazione, bensì è rivolto nella direzione opposta a esso. Malgrado il movimento del filosofare mantenga la sua origine nel legame con ciò da cui si allontana, è innegabile che la filosofia si configuri in questi passi della Metafisica come compimento supremo rispetto al quale gli altri modi d’essere rimangono confinati in una dimensione di inautenticità; riguardo a questo Heidegger individua già in Aristotele le origini di un infelice iato fra ϑεωρία e πρᾶξις e lo intende come anticipazione di una predisposizione di pensiero che prenderà le forme dell’isolamento della res cogitans di Cartesio e della distinzione kantiana fra ragione teoretica e ragione pratica9. In ogni caso, nonostante questo rilievo, durante il corso egli si sforza di mostrare come

8  Ivi, p. 37. Heidegger matura la propria articolazione dell’attuazione della vita nei modi autentici e inautentici, successivamente formulata in Sein und Zeit, anche nella interpretazione della fatticità greca, ma con una evidente differenza: mentre autenticità e inautenticità verranno in Sein und Zeit apertamente fatte dipendere dalla decisione dell’esserci, la quale a sua volta si basa sull’autocomprensione della propria esistenza nel progettarsi verso la morte, per la fatticità greca e le sue forme descritte in Metafisica A 1-2, autenticità e inautenticità dipendono dalla pura e semplice visione teoretica. 9  Ivi, p. 306 e p. 309 (trascrizione Bröcker). Ma più in generale sul principio di questo progressivo affermarsi della separatezza tra theoria e praxis cfr. ivi, pp. 119-120 e 282-283.

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ancora nel pensiero di Aristotele sia possibile individuare nella πρᾶξις il carattere fondamentale dell’esistenza umana a partire da cui comprendere la motilità della vita – incluso il ϑεωρεῖν – e ricerca anche nell’interpretazione di Met. A 2 argomenti a sostegno di questa tesi. Lo Stagirita, infatti, a conclusione di Met. A 2, definendo la σοφία ricerca di cause e principi così intesa «da tutti» (πάντες), spiega la genesi e lo sviluppo di una maturazione autentica della vita umana sulla base di una sorta di fatticità pubblica dell’esistenza, di una condivisione del mondo comune dove la vita esprime se stessa a se e agli altri10. Inoltre, proprio in Metafisica A 1 per Heidegger il mehr Sehen (μᾶλλον εἰδέναι) si origina nel passaggio dalla ἐμπειρία alla τέχνη, che a loro volta sono i modi originari (Herkunftsweise) da cui scaturisce la σοφία. Quello che emerge dalla trattazione di queste diverse modalità originarie di accesso all’ente è il fatto che ciascuna di esse accade come un rivolgersi al mondo al modo del prendersi-­cura (Besorgenswelt)11. Nel vedere di più cui è rivolto il commercio del τεχνίτης viene alla luce l’aspetto (Aussehen) dell’ente sotto il profilo del perché (das Warum) una cosa è in un determinato modo, mentre all’empirico è noto solo il che (daß). Nell’analisi della contrapposizione aristotelica tra ὄτι e διότι emerge il tratto caratteristico dell’aspetto dell’ente colto nel senso dell’essere-prodotto, dell’essere fatto. La visione pratico-produttiva della tecnica è quella di un εἶδος presente nel pensiero dell’artefice che conduce la forma nell’ente attraverso l’attività poietica. In questo senso l’εἶδος – pur mantenendo il suo carattere osservativo, e dunque la propria valenza teoretica dal momento che è l’essenza dell’ente il suo «che cosa» espresso dalla definizione linguistica (λόγος) – assume però il senso della funzione dell’ente che è strettamente legata alla produzione tecnica. 10  Ivi, pp. 53-54. 11  Ivi, p. 56.

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Uno dei modi del commercio del prendersi-cura è proprio il vedere rivolto all’εἶδος (Hinsehen) ai fini del produrre, mentre la σοφία è un abbandonare (Aufgeben) la preoccupazione di tipo pratico-produttivo per ricercare le cause e i principi dell’ente e va compresa come una modificazione (Modifikation) riguardante questo stesso commercio: è infatti la τέχνη il terreno (Boden) su cui si sviluppa la σοφία12. Per quanto Heidegger sottolinei come nella trattazione aristotelica sia innegabile che la σοφία sia vista, e come l’abbandono della preoccupazione pratico-produttiva (con il suo tratto rovinante e inautentico) e come volgersi all’esclusivo Besorgen della visione teoretica, d’altra parte egli vede una prossimità della τέχνη alla σοφία, quest’ultima consistente nell’abbandonare il tratto del prendersi cura che commercia per portare a maturazione il prendersi cura del puro contemplare13. Appare sempre più chiaro che la convinta asserzione di una simile prossimità fra σοφία e τέχνη si andava affermando mentre Heidegger maturava progressivamente una presa di distanza rispetto alla fenomenologia husserliana e alla filosofia neokantiana, volendo trovare nel testo aristotelico una convergenza con il primato della prassi dell’esistenza sull’atteggiamento teoreticistico che egli stesso andava avanzando. Per questa ragione via via privilegerà sempre più la lettura di alcuni passi significativi dell’Etica Nicomachea rispetto a quella del primo libro della Metafisica nel quale, pur avendo rintracciato la provenienza originaria della σοφία dalla vita fattizia, Heidegger vede una ambiguità connaturata alla ϑεωρία che appare allo stesso tempo esonero dalla cura (come emancipazione dalla gravosità dell’esistenza quotidiana) e sua realizzazione autentica. È invece nell’etica che Heidegger scorge l’aspetto del-

12  Ivi, pp. 55 e 64. 13  Ivi, pp. 64-66.

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la filosofia di Aristotele più radicale e originario (radikal und ursprünglich)14.

2. Il Natorp-Bericht: l’esser prodotto come significato fondamentale dell’essere L’idea del radicamento del conoscere e del theorein nella vita effettiva si fa sempre più largo nei corsi dei semestri successivi e nelle Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele del Natorp-Bericht – redatto solo due mesi dopo la Vorlesung del semestre estivo del 1922 – in cui Heidegger afferma che l’incontro con gli enti del mondo è per l’uomo primariamente orientato dall’atteggiamento pratico-produttivo, e in cui emerge con sempre maggiore chiarezza una descrizione della natura umana a cui co-appartiene la techne in modo originario. È nell’ambito del progetto di un’antropologia fenomenologica radicale centrata sulla motilità della vita effettiva che Heidegger indaga la costituzione dell’essere umano evidenziando il ruolo essenziale della techne nella costituzione d’essere dell’esserci. Nel resoconto dei risultati delle proprie ricerche su Aristotele inviato a Natorp, la techne viene infatti rappresentata quale modo d’essere scoprente dell’esserci, ed è interpretata a partire dalle indicazioni aristoteliche del VI libro dell’Etica Nicomachea come una delle modalità disvelative con cui l’esserci accede all’ente: in altre parole come un modo dell’ale­theuein. Negli anni successivi anche in Sein und Zeit la disposizione della tecnica viene valutata positivamente come un aver-a-che-fare con le cose nel senso di utilizzarle in contesti operativi: un prendersi cura, un incontrare le cose primariamente nella loro Zuhandenheit, che soltanto secondariamente 14  Ivi, p. 46.

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lascia spazio all’osservazione sulla base della Vorhandenheit. Il theorein aristotelico è reinterpretato muovendo dal radicamento del conoscere nell’effettività dell’esistenza: la filosofia è vista come Umgangsweise15, come una modalità interpretante che ha a che fare con la motilità della vita effettiva e con il prendersi cura quale modo d’essere costitutivo della vita. L’intenzionalità fenomenologica ripensata a partire dalla «motilità del vivere» è però non più fondata in una coscienza che assegna un primato assoluto all’atteggiamento teoretico, bensì nell’aver cura che diviene in questo quadro il fondamentale senso di relazione della vita. Senso pieno dell’intenzionalità nell’originario è il dirigersi verso le cose, nel prendersi cura di esse. La motilità della vita fattizia, il suo modo d’essere del prendersi-cura o dell’aver cura, è vista nel dirigersi intenzionale al mondo in modalità diverse a seconda delle possibili direzioni della cura, così che l’esperienza vitale è di volta in volta una «pratica» (Umgang) del mondo-circostante, del comondo, del mondo-del-sé. Nel Natorp-Bericht, perciò, Heidegger afferma di scorgere in Aristotele un fondamentale carattere di motilità della teoria, della filosofia nel suo originario – di rado debitamente sottolineato – legame con la praxis. Egli rileva un’idea di motilità della theoria e della praxis cogliendo l’unità dell’esistenza proprio attraverso il duplice senso della cura: da una parte essa 15  M. Heidegger, Phänomenologische Interpretationen zu Aristoteles (Anzeige der hermeneutische Situation). Ausarbeitung für die Marburger und die Göttinger Philosophische Fakultät (Herbst 1922) [d’ora in avanti, NatorpBericht], in Id., Phänomenologische Interpretationen ausgewählter Abhandlungen des Aristoteles zur Ontologie und Logik, GA 62, pp. 341-419; tr. it., Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele. Indicazione della situazione ermeneutica, a cura di A. Le Moli e A. Ardovino, in «Fieri. Annali del Dipartimento di Filosofia, Storia e Critica dei Saperi», n. 3, 2005 (Il giovane Heidegger tra neokantismo, fenomenologia e storicismo, a cura di P. Palumbo), pp. 165-198. Cfr. ivi, p. 387; tr. it., p. 187.

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è la motilità fattuale che si manifesta come timore e preoccupazione, dall’altra si concretizza come il prendersi cura del «commercio», dell’essere in relazione con gli enti del mondo, producendo, operando. È proprio la cura a questo punto ad attestarsi sempre più chiaramente come il concetto chiave per comprendere l’incontro con gli enti del mondo: L’esistenza diviene in se stessa comprensiva (einsichtig) solo attuando la problematizzazione della fatticità, nella decostruzione ogni volta concreta della fatticità nei suoi moventi di motilità, orientamenti e disponibilità volontarie. […] L’inquietudine della vita fattuale per la sua esistenza non è dal canto suo un lambiccarsi il cervello in una riflessione egocentrica; essa è ciò che è solo in quanto contromovimento opposto alla tendenza a scadere della vita; il che significa che essa è precisamente nella motilità ogni volta concreta del commercio e del prendersi cura.16

La motilità quale carattere fondamentale della vita e la stessa idea fenomenologica di intenzionalità vengono riorientate dalla cura come prodigarsi verso qualcosa, ma anche come temere, preoccuparsi di qualcosa: l’intenzionalità non è più fondata nella coscienza teoretica ma nell’«aver cura» (Sorgen). La motilità dell’aver cura, come si diceva innanzi, prende diverse direzioni: verso il mondo circostante, verso il co-mondo, verso il mondo del sé, ma è importante osservare come ancora una volta Heidegger concentri la propria attenzione sulla pratica del «pro-curare» (Besorgen) consistente nel manipolare, produrre, usare, impiegare ecc. Il costitutivo legame originario tra prassi e conoscenza sostenuto da Heidegger con convizione è lo sfondo della descrizione dell’esserci come essere nel mondo che si orienta primariamente con «circospezione»

16 Ivi, p. 361; tr. it., p. 174.

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(Umsicht): un orientarsi praticamente, un venire incontro del mondo nel carattere della «significatività» (Bedeutsamkeit)17. Qui infatti il termine «significatività» è usato già nel senso che verrà poi approfondito in Sein und Zeit18, cioè per indicare l’approccio pratico-produttivo con cui si incontra il mondo, e per spiegare che ogni ente utilizzabile-per rimanda nel suo significato a un altro ente e così via, continuando in un reticolato significativo che costituisce la trama del vivere come prendersi cura di enti e altri Dasein. Al riguardo, è significativo sottolineare che proprio questi temi affrontati da Heidegger negli anni giovanili hanno ispirato alcune rare ma interessanti declinazioni postumaniste del problema della tecnica. La relazione simbiotica uomo-tecnologia costitutiva della nozione di tecnicità originaria del postumanesimo trova motivi d’interesse nell’orizzonte pragmatista configurato in Sein und Zeit. Heidgger descrive il l rapporto pratico e produttivo che caratterizza la relazione del Dasein con gli enti che lo circondano e offre elementi per definire l’umano proprio in relazione alle attività e alla realizzazione di progetti che gli strumenti tecnici consentono. Una prospettiva stimolante è offerta in questo senso dalla «filosofia della tecnologia» di Don Ihde, che in Heidegger’s Technologies distingue nella riflessione di Heidegger sulla tecnica il periodo più tardo, rappresentato dal tema del Gestell ne la Questione della tecnica, dalla prima fase del suo pensiero che è visto dall’autore come ancor più ricco di possibilità per ripensare la relazione uomo-tecnologia19. Particolarmente significativa per le posizioni che individuano una connessione essenziale dell’uomo con la tecnologia come quella di Ihde è 17  Ivi, p. 353; tr. it., p. 171. 18  M. Heidegger, Sein und Zeit, GA 2, pp. 111-119; tr. it., pp. 163-171. 19 Cfr. D. Ihde, Heidegger’s Technologies, cit., p. 139.

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la distinzione heideggeriana fra gli oggetti che semplicemente esistono passivamente in un luogo «accanto» agli esseri umani e le attrezzature pronte all’uso, cioè gli oggetti che implicano una relazione attiva, a cui l’essere umano si rivolge per l’utilizzo in vista di una attività. È interessante osservare come questa idea non ricada nella concezione strumentale della tecnica successivamente criticata da Heidegger perché è l’attività stessa che consente di definire l’uomo a partire dalla realizzazione di un certo numero di progetti: l’uso di questi oggetti non è tematico, il che significa che è semplicemente ripreso dagli umani senza alcun calcolo riflessivo inerente all’utilità strumentale. In altre parole, Heidegger sta distinguendo tra “uso” nel senso della razionalità strumentale dell’umanesimo costituito da un essere umano privilegiato che decide riflessivamente come utilizzare uno strumento per i suoi fini liberamente scelti e “uso” nel senso di una simbiosi uomo-strumento in cui l’umano semplicemente preriflessivamente raccoglie lo strumento per impegnarsi nell’attività necessaria alla sua vita.20

È proprio nel Natorp-Bericht attraverso le interpretazioni fenomenologiche di temi aristotelici, che Heidegger getta le basi di una visione dell’interazione primaria tra l’uomo e gli oggetti d’uso. Da questo momento comincia a delinearsi con chiarezza il nesso, poi esplicitato in Sein und Zeit, tra utilizzabilità e significatività, insieme all’idea che l’essere nel mondo primariamente si realizzi nel contesto significativo e originariamente pratico della rete di relazioni in cui sono sempre immersi uomini e cose, uomini e altri uomini. L’aver cura in definitiva si concretizza al modo del guardarsi intorno21 con circospezione, del rendere note e familiari le cose che ci circondano, e si realizza sempre nell’orizzonte del logos, attraverso le modali20  G. Rae, Overcoming Philosophy, cit., p. 62. 21  M. Heidegger, Natorp-Bericht, p. 353; tr. it., p. 171.

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tà dell’appellare e del discutere l’oggettualità del commercio. Questa modalità originaria, che in Sein und Zeit viene a configurarsi come visione ambientale preveggente, caratterizza la prossimità del Dasein con mezzi e strumenti in un rapporto così originario e fondante che non è accostabile alle definizioni strumentali della tecnica successivamente criticate negli scritti sulla tecnica degli anni posteriori alla Kehre. Heidegger inaugura perciò un nuovo orizzonte ermeneutico proprio a partire dai modi aristotelici dell’aletheuein osservando come il verso-che cui si rivolge l’originaria esperienza dell’essere nel mondo si incontri nella pratica del produrre anziché nell’ambito delle cose concepite esclusivamente come oggetti di una conoscenza teoretica: Cosa significa in generale «essere» per Aristotele e come è accessibile, coglibile, determinabile? Il campo d’oggetto che fornisce il senso originario dell’essere è quello degli oggetti prodotti, presi nell’uso corrente. Non dunque il campo d’essere delle cose come una specie di oggetti colta teoreticamente in senso obiettivo, bensì il mondo che viene incontro nel commercio produttivo, che opera e che usa è il verso-che a cui è diretta l’esperienza originaria dell’essere. Ciò che è stato approntato nella motilità del commercio del produrre (ποίησις), ciò che è giunto al suo disponibile esser-sussistente per una tendenza d’uso, è ciò che è. Essere vuol dire esser-prodotto e in quanto prodotto, relativamente significativo per una tendenza del commercio, esser-disponibile.22

Gli enti del mondo primariamente s’incontrano a partire dalla loro destinazione d’uso. Dire le cose, cogliere l’ente nel λέγειν, significa mostrare l’ente «nella sua proprietà d’essere (οὐσία) conforme all’aspetto»23: e, secondo Heidegger, l’οὐσία aristotelica mantiene un originario significato pratico che è quello di 22  Ivi, p. 373; tr. it., p. 180. 23  Ibidem.

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oggetto disponibile all’uso. L’oggetto si mostra nel suo per-cui, nel suo aspetto, proprio attraverso la produzione. Nel NatorpBericht Heidegger assegna dunque all’esser-prodotto24 una posizione eminente all’interno dello scavo teorico che ha intrapreso sulla polivocità dei significati dell’essere in Aristotele, ed è evidente che la sua interpretazione del testo aristotelico è orientata dalla personale elaborazione di una ermeneutica dell’effettività dell’esserci. La stessa ἐπιστήμη può e deve essere compresa come originariamente radicata nella pratica volta a occupazioni mondane. Il suo osservare diviene comprensibile come una modalità d’esaminare l’ente che, detto con la peculiare traduzione heideggeriana del lessico aristotelico, per necessità e per lo più è ciò che è sotto l’aspetto dell’in che modo e del da-cui, cioè rispettivamente dell’αἴτιον e dell’ἀρχή. La conoscenza scientifica, in quanto modalità del commercio osservativo25, è dunque originata nella cognizione degli enti incontrati a partire dalla possibilità d’agire dell’esserci. L’altra pratica d’incontro degli enti, di quelli che possono anche essere diversamente, è a questo punto ovviamente indicata nella τέχνη: un riflettere prendendosi cura, rivolto all’ente che «nel commercio

24  Michael Zimmerman definisce «metafisica produzionista» la metafisica per Heidegger iniziata con Platone e Aristotele, proseguita con Hegel e Nietzsche, che infine conduce al Gestell come essenza della tecnologia moderna, cfr. M.E. Zimmerman, Heidegger’s Confrontation with Modernity. Technology, Politics, and Art, Indiana University Press, Bloomington-­ Indianapolis 1990, p. 3: «[Heidegger] pensava che i Greci avessero iniziato una “metafisica produzionista” nel momento in cui avevano concluso che, per un’entità, “essere” significava essere prodotta. Anche se ciò che essi intendevano con “produzione” e “fare” era secondo Heidegger diverso dai processi di produzione implicati nella tecnologia industriale, ciò che aveva condotto alla tecnologia moderna era comunque la comprensione greca dell’essere degli enti». 25  Cfr. M. Heidegger, Natorp-Bericht, p. 375; tr. it., p. 181.

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stesso deve prima di tutto esser messo in opera, trattato o prodotto»26. L’autointerpretazione della vita effettiva è indagata a partire dalle peculiari modalità in cui l’esserci esiste. Esse sono individuate guardando al movimento della vita fattuale come primariamente rappresentato dall’aver a che fare con ciò che si incontra nel mondo-ambiente al modo del curare attraverso le disposizioni che possono attuare una genuina custodia dell’essere. Anche nel Natorp-Bericht il di più dell’osservazione teoretica, il μᾶλλον εἰδέναι, è qualcosa che si sviluppa dialetticamente a partire dalla liberazione dai bisogni che hanno suscitato il verso-cui del prendersi cura, delle necessità che fondano il primario intenzionale aprirsi dell’esserci agli enti del mondo al modo del produrre. La theoria, in linea con quanto anticipato nella Vorlesung del semestre precedente, diviene allora un «commercio autosufficiente»27, in cui la tendenza dell’aver cura si è trasposta nell’osservare in quanto tale, mentre la vita fattuale nella sua occupazione originaria si occupa di sviluppare il proprio commercio operativo, produttivo.

3. Techne e cura dell’ente La cura rivela dunque come l’autocomprensione dell’esserci, della natura umana, sia indagabile muovendo dal riferimento alla techne. Il Besorgen, come incontrare gli enti nel loro per-cui, nella possibilità per l’uomo di produrre, agire, manipolare, indica che l’uomo primariamente incontra le cose, le conosce attraverso un dirigersi operativo. Ma la cura è anche in un altro senso una forma di motilità della vita effettiva, cioè 26  Ibidem. 27 Ivi, p. 388; tr. it., p. 187.

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in quello della preoccupazione, dell’angoscia, della tendenza a sfuggire al proprio carattere costitutivo, alla propria finitezza. Ed è proprio nell’inquietudine e al tempo stesso nella sollecitudine della cura che, in questa fase della ricerca heideggeriana, si radica e si costituisce il legame della tecnica con la filosofia vista come una forma di fuga dalle necessità primarie quali componenti dell’esistenza nella sua motilità. Entrambe le modalità di accesso all’ente presentano un inestricabile legame con la cura nella sua doppia declinazione di diligenza premurosa del provvedere, ma anche di preoccupazione. Una preoccupazione che rifugge dalla vulnerabilità dell’esistenza, nel caso della filosofia attraverso la ricerca del vero negli enti non soggetti a mutamento, nel caso della tecnica nell’intervento in ciò che riguarda le necessità e i bisogni connaturati alla fragilità della vita. La cura, nel suo significato di commercio operativo, produttivo, certamente è anche legata alla liberazione dai bisogni. La manipolazione e produzione si origina infatti nell’inquietudine propria dell’esserci, nella motilità della vita a causa della sua strutturale manchevolezza, della sua difettività. La conoscenza produttiva, in questo senso, come si accennava innanzi, rappresenta la messa in opera del meccanismo dell’esonero28, ma 28  È Arnold Gehlen ne L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, cit., a sostenere la tesi secondo cui la differenza essenziale fra l’uomo e l’animale non consista nel fatto che l’uomo abbia in più dell’animale la razionalità, ma nel fatto che abbia qualcosa in meno. La specificità dell’umano sarebbe da rintracciare proprio nelle sue carenze (Mängel), nella mancanza di un corredo di istinti adeguati all’ambiente che rende possibile per l’animale la vita nell’ambiente naturale. Una simile manchevolezza è, per Gehlen, all’origine della tendenza a creare delle condizioni di adattamento ricorrendo a quella sorta di seconda natura che è la tecnica. L’esonero è dunque un’attività che agevola in vari modi l’esistenza dell’uomo: o attraverso prodotti artificiali atti a codificare comportamenti come le istituzioni, o attraverso oggetti tecnici, prima utensili, poi macchine sempre più complesse e sofisticate in grado di

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al tempo stesso appare chiaro come sia anche e soprattutto un modo dell’essere nel vero con cui primariamente l’esserci è in rapporto con l’ente: è anch’essa una forma di conoscenza che però diversamente dalla theoria non sospende il commercio pratico con l’ente. La techne è una modalità disvelativa degli enti che si incontrano nel mondo più originaria dell’osservare puro della theoria ma, tanto la techne, quanto lo sguardo puramente contemplativo del filosofare, rivelano una intrinseca tendenza all’oltrepassamento della finitezza. Anche in un corso del semestre invernale 1924/1925, Il «Sofista» di Platone29, Heidegger esamina le aristoteliche disposizioni mediante cui l’anima è nel vero; in quel corso l’accurata lettura dei passi cruciali del capitolo sulle virtù dianoetiche del VI libro dell’Etica Nicomachea è guidata dal fondamentale rilievo assegnato al linguaggio ed è interessante osservare come proprio in relazione al λόγος sia compresa la capacità disvelativa della τέχνη. La τέχνη, l’«intendersi di qualcosa» (Sich-­ Auskennen)30 nel guidare una produzione, si occupa dell’ente che è in divenire, che è in cammino verso il suo essere. Anche per la τέχνη bisogna chiedersi in che modo essa si ponga in relazione con il suo principio. La τέχνη ha una doppia relazione con la sua ἀρχή. Da una parte il suo fine (τέλος), che semplificare tanto la vita domestica quanto le attività produttive e lavorative. Tra i meccanismi di esonero rientrano in generale i prodotti culturali come la conoscenza tecnica, le leggi, i linguaggi, che rendono più semplice e agevole lo stare al mondo degli esseri umani dissipando energie minori e rendendo possibile anche un’attività, non legata all’utile né al necessario, come l’attività del pensiero. Gehlen ha in comune con Heidegger lo spostamento del senso dell’esistenza umana dal piano della coscienza soggettiva a quello della trascendenza verso l’ambiente che in Heidegger si configura come decentramento dell’esserci verso l’essere. 29  M. Heidegger, Platon: Sophistes, GA 19; tr. it. di A. Cariolato, E. Fongaro, N. Curcio, Il «Sofista» di Platone, Adelphi, Milano 2013. 30  Ivi, p. 40; tr. it., p. 84.

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costituisce l’ἀρχή, sta nell’opera che sorge dalla produzione e dalla fabbricazione. Ma poiché il prodotto finale non costituisce un fine ultimo, assoluto – per esempio la scarpa una volta fabbricata serve a camminare, dunque rimanda al di là di sé (è von sich wegweisend)31, è in vista di qualcos’altro –, la τέχνη è allora un modo d’essere nel vero attraverso l’atto di produzione di un’opera fino a quando essa si mantiene nel divenire, dopodiché l’opera (ἔργον) esce dal dominio della τέχνη. Per questo motivo nemmeno la τέχνη è un autentico ἀληϑεύειν. Dall’altra parte l’ἀρχή della τέχνη sta nel produrre l’oggetto secondo il suo εἶδος, secondo quella forma, quell’aspetto, presente nell’anima dell’uomo che la realizza (τὸ εἶδος ἐν τῆ ψυχῆ), che l’oggetto deve avere e che è «tale da formare la sua autentica presenza»32. In questo essere presente della forma all’anima Heidegger vede un ἀληϑεύειν, un essere nel vero nel senso dello svelare, del lasciar vedere ciò che deve essere prodotto; ma ciò che ancora una volta rende interessante l’argomentazione heideggeriana è il fatto che anche la τέχνη viene vista nella sua relazione al λέγειν, al linguaggio: il λέγειν è il «presentificare nel discorso» (besprechendes Vergegenwärtigen)33, nel senso che la produzione, l’attività di una τέχνη come la medicina, o l’architettura, è condotta a partire dal λόγος ἐν τῆ ψυχῆ. Il medico realizza o tenta di realizzare la salute in un corpo sulla base della definizione di salute di cui dispone, della nozione di salute presente nella sua anima. La presenza all’uomo dell’εῖδος è, dunque, secondo l’interpretazione di Heidegger derivabile solo attraverso un determinato rapporto tra verità ed ente: l’esserci in quanto svelante costituisce la condizione di possibilità dell’essere presente dell’ente secondo il suo εἶδος.

31  Ivi, p. 41; tr. it., p. 85. 32  Ivi, p. 42; tr. it., p. 86. Cfr. Aristot., Met., Z 7, 1032b 1. 33  M. Heidegger, Platon: Sophistes, GA 19, p. 45; tr. it., p. 88.

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L’intento di Heidegger è quello di mettere in luce come la capacità di esprimere nei discorsi, nel λέγειν34, il comprendere le cose, appellandole e discutendo, sia cooriginario alla disposizione tecnica, evidenziando così la primarietà dell’orizzonte del produrre. Ciò che qui preme osservare è, infatti, l’attestarsi nella riflessione heideggeriana della techne come attività cognitivo-produttiva attraverso cui primariamente si dà l’accesso all’ente. Ed è a cominciare da questa fase dell’itinerario heideggeriano che a nostro avviso il discorso sulla tecnica prende le mosse da un fecondo intreccio con un altro tema decisivo, quello della questione aristotelica della verità. Le interpretazioni fenomenologiche di Aristotele condotte da Heidegger negli anni giovanili sono un momento essenziale per i futuri sviluppi del tema della tecnica: negli anni successivi alla Kehre il punto di partenza assunto ne La questione della tecnica riguardo all’insufficienza della concezione «antropologico strumentale» della tecnica è l’esito di quel cammino speculativo attraversato da Heidegger con lunghe soste, tanto sul tema della verità con particolare riferimento all’ἀλήϑεια aristotelica35, quanto sulla τέχνη quale originaria modalità di accesso all’ente. Se infatti la τέχνη aristotelica viene interpretata come uno dei modi in cui primariamente si accede al vero, e se si ammette che questa interpretazione di Aristotele è l’espressione diret-

34  Cfr. M. Heidegger, Natorp-Bericht, p. 354; tr. it., p. 171: «Il guardarsiintorno si attua nelle modalità dell’appellare e del discutere l’oggettualità del commercio. Il mondo viene incontro sempre in un determinato modo dell’essere-appellato, dell’appello (λόγος)». 35  Va però precisato che, se inizialmente il confronto con Aristotele era caratterizzato da una tendenza ad appropriarsi e ad assimilare concetti aristotelici nel sistema di pensiero heideggeriano, con la Kehre si assiste all’accentuarsi di un intento critico dovuto alla radicalizzazione dell’allontanamento dalla metafisica tradizionale intrapreso da Heidegger in quegli anni.

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ta della tendenza heideggeriana a vedere nell’atteggiamento pratico produttivo l’accesso fenomenologico all’ente rispetto al quale il modo teoretico-oggettivante ha luogo come sospensione del commercio avente cura, è presumibile ipotizzare che lo sguardo heideggeriano sulla tecnica segua le sorti della riflessione sul tema della verità. Nella conferenza Dell’essenza della verità, tenuta nel 1930, il senso della svolta si comprende proprio a partire dal modo differente in cui viene impostato il problema della verità. L’ἀλήϑεια è prima di ogni ente, e soprattutto è anche prima dell’esserci: non è più quel tratto caratteristico dell’esserci consistente nella sua aperturalità, ma è compresa a partire dal riferimento all’essere36. La verità diviene dunque in primo luogo l’essere manifesto dell’ente, cui l’uomo in quanto essere comprendente ha libero accesso: l’ἀλήϑεια è libertà di comprendere l’essere. In base a questo mutamento di prospettiva il problema dell’essere non viene più affrontato a partire dall’analisi della struttura ontologica dell’esserci, unico ente in grado di porsi il problema, ma a partire dall’evento dell’accadere dell’essere stesso. Anche la questione della tecnica negli anni seguenti verrà riportata alla dinamica più profonda della verità stessa e allo stesso modo dell’ἀλήϑεια la τέχνη verrà compresa come un evento di appropriazione fra essere e uomo, in cui l’uomo non è né colui che decide della verità né di quella forma di disvelamento rappresentata dalla τέχνη.

36  Cfr. L. Samonà, La «svolta» e i «Contributi alla filosofia»: l’essere come evento, in F. Volpi (a cura di), Guida a Heidegger, Laterza, Roma-Bari 2005, pp. 167-208, in part. p. 162: «Questa svolta, in quella che Heidegger chiama la “storia” dell’essere, disloca la prospettiva dell’esserci in uno spazio che mette in scacco il suo tratto trascendente, istituendone il riferimento a un velarsi e ritrarsi dell’essere nell’inaccessibile. Quale oltrepassamento dell’ente nel suo intero, la trascendenza dell’esserci è l’‘es-porsi nella svelatezza dell’ente’, la ‘libertà’ dall’ente per il presentarsi dell’ente stesso come manifesto in quanto tale».

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Il maturare di questa nuova prospettiva in Concetti fondamentali della metafisica, corso del semestre invernale del 1929/30, è già visibile anche nel mutamento dell’interpretazione di Aristotele. Il poter essere vero o falso del discorso apofantico non è più visto in relazione all’atteggiamento scoprente dell’esserci, ma si fonda sul complesso rapporto che in questa mutata impostazione lega l’asserzione alla manifestatività. In quel corso infatti, come si è visto, la verità del discorso apofantico si fonda sulla manifestatività della totalità: tutto l’ente di volta in volta accessibile, inclusi noi stessi, è inserito già in una totalità37. L’asserzione può mostrare qualcosa solo se c’è prima manifestatività; ma l’asserzione è anche descritta come un rapporto fondamentale di libertà. L’asserire è un esser libero rispetto a un ente che è già manifesto a partire da una totalità. L’accento è posto non più sull’esser scoprente dell’esserci, ma sull’essere libero di scoprire, da parte dell’esserci, l’accadimento che sovrasta la finitezza dell’esserci cooriginario alla struttura del mondo, ovvero la manifestatività dell’ente che si svela sempre nell’orizzonte di una totalità di rimandi che è il mondo: l’esser libero è un esser collocato dell’uomo nell’accadere del progetto del mondo. Negli anni in cui matura la svolta, questo punto aporetico di fondo assume una nuova configurazione. La difficoltà principale in cui Heidegger incorre nella lunga e approfondita argomentazione sull’ἀλήϑεια e il λόγος ἀποφαντικός in Aristotele è costituita dalla necessità di mostrare come il discorso apofantico, attraverso la struttura diairetico-sintetica, renda conto della verità dell’essere, cioè del fondamento stesso della verità. In altri termini, il problema consiste nel dover mostrare come il discorso apofantico si fondi sulla manifestatività, la quale però 37  M. Heidegger, Die Grundbegriffe der Metaphysik, GA 29/30, p. 501; tr. it. di P. Coriando, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo – finitezza – solitudine, il melangolo, Genova 1999, p. 442.

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non ha il carattere di immediatezza dell’intuizione, ma ha un carattere di significatività originario dato dal suo costituirsi come fare esperienza del mondo nella totalità dei rimandi significativi. In ogni caso, la prospettiva è assolutamente ribaltata rispetto all’accento posto sul carattere disvelante del Da del Dasein, che malgrado lo sforzo heideggeriano di mostrarne le differenze con il soggetto finisce per rimanere comunque un caratteristico modo di rapportarsi all’essere da parte di un soggetto, sia pure non trascendentale, immerso anzi nell’effettività dell’esistenza. Con la svolta l’esserci non è più il punto di partenza per l’indagine ontologica, ma un ente collocato nell’accadere del mondo alla maniera dell’essere libero di essere nel vero: quello che però è mutato è il rapporto dell’esserci al linguaggio. La concezione del linguaggio proposta da Sein und Zeit si fonda sul carattere di aperturalità dell’esserci, e in quanto fenomeno che si radica nella costituzione esistenziale dell’apertura dell’esserci, il linguaggio «è l’espressione del discorso»38. Il discorso (Rede) è uno degli esistenziali originari dell’esserci allo stesso modo della situazione emotiva e della comprensione. La totalità dei significati è prerogativa dell’articolazione significativa dell’esserci come essere-nel-mondo. Con il mutamento di prospettiva della svolta, Heidegger concepisce in modo diverso non solo il rapporto uomo-essere, ma anche quello uomolinguaggio, avvicinandosi gradualmente a quella prospettiva in cui la comprensione dell’essere avviene nella dimensione del linguaggio, nel senso che l’evento della parola costituisce il farsi delle cose e l’uomo è in rapporto con le cose nel dirle, nell’esprimersi su di esse.

38  M. Heidegger, Sein und Zeit, GA 2, p. 214; tr. it., p. 307.

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4. Techne e aletheia dopo la Kehre L’interpretazione del problema aristotelico della verità condotta da Heidegger nel semestre estivo del 1930 va dunque anch’essa collocata nel mutato orizzonte di pensiero. Il corso si intitola Dell’essenza della libertà umana. Introduzione alla filosofia, ed è esemplare di come venga affrontato il problema della verità nella prospettiva modificata della «svolta». In questo corso il tema della verità è affrontato muovendo dalla considerazione che l’ἀληϑέυειν si fonda sul carattere di manifestatività dell’ον ὠς ἀληϑές, diversamente dal modo di procedere nei corsi dei primi anni Venti e nel Natorp-Bericht in particolare, in cui l’ἀληϑέυειν come carattere fondamentale dell’esserci costituiva il punto di partenza per indagare la questione della verità. Heidegger conferma la tesi già delineata alla fine di un corso del 1925/26 Logica. Il problema della verità, in cui sosteneva che il pensiero aristotelico si orienta verso una comprensione dell’essere come «presenza costante» (beständige Anwesenheit) e che la manifestatività riguarda l’essere come presenza costante, ma, contemporaneamente, comincia anche ad avanzare l’idea che tra i quattro significati dell’essere distinti da Aristotele, il modo in cui l’essere esibisce la propria manifestatività è l’essere come ἐνέργεια. È nel significato dell’essere come ἐνέργεια che si deve ricercare il senso della manifestatività, ma è anche lì che va compresa secondo Heidegger l’origine della concezione greca dell’essere come presenza costante. Con presenza costante Heidegger si riferisce a ciò che per i Greci permane nel movimento di venire alla presenza, parousia, e in quello di sottrarsi alla presenza. L’οὐσία, è ciò che permane ed è considerato dai Greci come l’ente più proprio39.

39  Cfr. M. Heidegger, Vom Wesen der menschlichen Freiheit, GA 31, pp. 66-76.

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Nell’interpretazione heideggeriana si fa strada sempre più l’idea che in Aristotele il significato d’essere come ἐνέργεια sia quello con il più forte legame con il carattere di manifestatività dell’essere. Intendere l’essere come ἐνέργεια vuol dire comprenderlo nell’orizzonte del movimento (Bewegtheit). Infatti, il permanere dell’essere come presenza costante, cioè come ούσία, è tale in relazione a un movimento, cioè a un passaggio dal sottrarsi alla presenza al venire alla presenza. L’ον ως ἀληϑές viene dunque preso in considerazione in un contesto in cui l’ente proprio è ον ἐνέργεια (das eigentliche Seiende ist ον ἐνέργεια), e in cui l’intero libro Theta della Metafisica è ritenuto quello che tratta l’essere più proprio dell’ente40. La svelatezza degli enti è dunque considerata da Heidegger il modo sommo dell’essere vero, proprio in base al fatto che tali enti sono il modo più proprio dell’ente come presenza pura e stabile (Reiner und beständiger Anwesenheit). Heidegger è ormai orientato verso la convinzione che il significato fondamentale dell’essere per Aristotele sia l’essere come ἐνέργεια, e se la verità nel senso più autentico è svelatezza dell’essere dell’ente, «la questione della verità dell’ente in quanto ente […] questione fondamentale dell’autentico essere dell’ente stesso» ha come esito naturale un’indagine sul significato d’essere come ἐνέργεια. Proprio a questo argomento sarà dedicato l’intero corso di Heidegger nell’anno successivo, cioè nel semestre estivo del 1931: Aristoteles, Metaphysik Theta 1-3. Se ἀλήϑεια è mantenersi nella presenza costante, e l’essere autentico come presenza costante è l’essere come ἐνέργεια, il capitolo conclusivo di Theta testimonia proprio l’idea che la verità nel senso più originario e autentico sia legata alla determinazione d’essere quale ἐνέργεια. Il corso in cui Heidegger indica l’essere come ἐνέργεια quale il fondamentale signifi-

40  Cfr. ivi, p. 79.

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cato dell’essere, reca come sottotitolo «Sull’essenza e la realtà della forza» (Vom Wesen und Wirklichkeit der Kraft). In quest’occasione, Heidegger interpreta i concetti aristotelici di atto e potenza prevalentemente nell’accezione del movimento, come del resto già aveva fatto nel Natorp-Bericht, in cui la «vita effettiva» e la «fatticità» erano definite in termini di motilità: un concetto derivato dall’interpretazione data allora, in coerenza con la sua interpretazione di φύσις nel senso di esser-­prodotto, di δύναµις, ἐνέργεια, ἐντελέχεια, cioè di «potere di disporre, impiego della possibilità di disporre, custodia nell’impiego di questa possibilità di disporre»41. L’interesse di Heidegger per un’accezione di δύναµις e ἐνέργεια relativa al movimento è già legato all’esigenza di andare oltre la concezione dell’essere come semplice presenza proprio della metafisica tradizionale. Questo spiega anche l’insistenza sull’importanza della δύναµις. Nonostante il riconoscimento del fatto che per Aristotele l’ἐνέργεια sia anteriore, la motilità intrinseca della δύναµις costituisce una via verso il superamento della concezione dell’essere come οὐσία, cioè come semplice presenza, che l’ἐνέργεια non gli consente. Lo spostamento d’interesse verso il significato dell’essere come atto e potenza implica per Heidegger l’ipotesi di una nuova concezione di verità, contrapposta a quella maturata nell’ottica di una ontologia della semplice presenza: una concezione di verità, cioè, posta in stretta relazione con il concetto di motilità nella sua più propria accezione, quella relativa alla φύσις. In quello che è l’ultimo effettivo confronto con Aristotele, il seminario Sull’essenza e sul concetto della φύσις. Aristotele, Fisica, B, 1, del 1939-40, il fondamento dell’essere nel suo accadere originario, dal quale scaturiscono tutti gli altri significati, è individuato nella struttura dell’apparire (ἀλήϑεια) e nell’avere

41  M. Heidegger, Natorp-Bericht, p. 397; tr. it., p. 191.

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in sé il principio di movimento (φύσις). La verità si sottrae al compito limitato della cattura nell’ambito dell’individuazione di un ente semplicemente presente, solo se posta in relazione alla φύσις: «l’essenza dell’essere è di svelarsi, di schiudersi e venir fuori nello svelato-physis»42. Ormai l’interpretazione heideggeriana di Aristotele è indirizzata verso un’indagine del concetto di φύσις che si accompagna a un interesse crescente per i filosofi presocratici (in particolare Anassimandro, Parmenide ed Eraclito). La comprensione del concetto aristotelico di φύσις è profondamente legata all’analisi delle strutture linguistiche che l’uomo impiega nel suo rapportarsi al mondo e alla natura stessa43, ma ancora una volta il linguaggio è visto come preceduto da un rendersi manifesto dell’ente che si mostra da sé. Nell’interpretazione di Aristotele si ripresenta nella sua evidenza il contrasto fra l’individuazione di una modalità di manifestazione immediata dell’ente che precede il linguaggio e l’intrascendibilità e l’originarietà del linguaggio in Aristotele, il quale «quando si appella al λέγεσϑαι non va a cercare consiglio in modo esteriore in un qualche “uso del linguaggio”, ma pensa a partire da quel rapporto fondamentale e originario con l’ente»44. La svolta è il segno del maturato distacco dalla posizione di Sein und Zeit, dal tentativo di uscire fuori dalle secche della soggettività e dalla difficoltà, mai superata, di mostrare che il

42  M. Heidegger, Vom Wesen und Begriff der Φύσις. Aristoteles, Physik B, 1, in Id., Wegmarken, GA 9, pp. 239-301: p. 301; tr. it., Sull’essenza e sul concetto della φύσις. Aristotele, Fisica, B, 1, pp. 193-255: p. 255. 43  Ivi, p. 278; tr. it., p. 232: «Aristotele ci ha lasciato un esempio tanto splendido quanto problematico di una filosofia che muove dal puro uso del linguaggio». 44  Ivi, p. 280; tr. it., p. 234.

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Dasein non è il soggetto45, e al contempo rappresenta lo snodo fondamentale in cui emerge con evidenza che al mutare della concezione della verità corrisponde anche un cambiamento nella maniera di intendere la τέχνη. Allo stesso modo della verità negli anni seguenti la tecnica verrà compresa come un evento di appropriazione fra essere e uomo, ma in cui l’uomo non decide né della verità né di quella forma di disvelamento rappresentata dalla tecnica. Per questa ragione Heidegger non può trovare soddisfacente la caratterizzazione antropologica o strumentale della tecnica, ma intravede nell’essenza della tecnica un elemento che si sottrae all’uomo per darsi come accadere storico epocale dell’evento, l’evento del disvelamento di ciò che viene sperimentato tecnicamente.

45  Cfr. M. Ruggenini, Il soggetto e la tecnica, cit.

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II La medicina antica tra tecnica e natura Motivi di attualità nell’interpretazione heideggeriana della techne medica

1. Physis e techne, una connessione essenziale Negli ultimi decenni, nell’ambito delle neuroscienze, sono stati scoperti, in determinate aree del cervello, neuroni che si attivano in relazione non soltanto a semplici movimenti, ma a specifici atti motori finalizzati, come l’afferrare, il trattenere, il manipolare. Questi neuroni selezionano le informazioni sensoriali sulla base delle possibilità d’agire o addirittura di servirsi, di utilizzare ciò che ci sta di fronte; le aree del cervello interessate si attivano in conseguenza alle informazioni fornite indipendentemente dalla effettiva realizzazione o meno delle possibilità d’agire suggerite. In questi atti finalizzati, a quanto pare, ha origine la nostra esperienza del mondo: ed è in questo modo che per noi assumono un significato le cose circostanti. In questa prospettiva appaiono mutati i confini tra processi percettivi, cognitivi e motori: non solo la percezione appare immersa nella dinamica dell’azione, risultando più articolata e composita di come in passato è stata pensata, ma il cervello che agisce è anche e innanzitutto un cervello che comprende.1 1  G. Rizzolatti - C. Sinigaglia, So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio, Cortina, Milano 2006, p. 3.

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La scoperta di una interazione continua fra percezione e azione ha un ruolo decisivo nella costituzione del significato degli oggetti, senza tale interazione si ritiene che difficilmente potrebbe aver luogo la gran parte delle cosiddette funzioni cognitive di «ordine superiore». L’osservazione dell’attivazione di specifiche aree neuronali permetterebbe in quest’ottica una ridescrizione della percezione come una sorta d’implicita preparazione dell’organismo all’azione. Le «catene di intervento motorio» che si generano in modo praticamente cooriginario alla cognizione degli oggetti «contribuiscono a configurare il mondo come un ambiente praticabile, costellato di vie, di ostacoli, in breve a costituire un mondo abitabile»2. Le neuroscienze rappresentano uno dei vari ambiti scientifici all’interno dei quali nuove scoperte suggeriscono e quasi implicano di necessità una rideterminazione dei concetti di natura e tecnica. Un nuovo sguardo scientifico che, più in generale, pone una relazione essenziale tra il conoscere e l’agire, tra atti cognitivi e considerazione dell’oggetto esterno nella sua primaria funzione d’uso, offre lo spunto alla riflessione filosofica per un ulteriore ripensamento di questa questione sempre aperta. Physis e techne, in particolare in base a quanto scoperto sul ruolo degli atti motori finalizzati nella effettiva cognizione delle cose che ci circondano nel mondo, appaiono infatti, in relazione al ruolo essenziale dell’imitazione evidenziato dalla scoperta dei «neuroni specchio», in un rapporto di interdipendenza sempre più stretto. Anche alla luce di queste recenti scoperte, senza per nulla voler ricorrere alla tentazione retorica di una qualche ideologia di precorrimento, mi sembra significativo per l’indagine filosofico-speculativa ritornare con rinnovato interesse al modo

2  J.-P. Changeux - P. Ricoeur, La natura e la regola. Alle radici del pensiero, tr. it. di M. Basile, Cortina, Milano 1999, p. 162.

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in cui Heidegger, ha inteso la relazione physis-techne a partire dalla distinzione aristotelica. L’interpretazione più celebre della techne avanzata da Heidegger, come sappiamo, è quella elaborata negli anni della maturazione della cosiddetta svolta. In quegli anni è individuata nella tecnica l’espressione del compimento essenziale della metafisica greca: è proprio nella techne, infatti, che Heidegger scorgerà la messa in atto della decisione metafisica a opera della quale la physis viene soggiogata e colta nella presenza costante. La metafisica, culminante nella tecnica moderna, viene vista quale attuazione piena e perfetta della disposizione tecnica occultante il significato originario della physis. In questa fase più tarda della speculazione heideggeriana physis e techne sono viste come inizio e compimento di un evento essenziale che ha il proprio fondamento nella struttura dell’essere stesso. Nei primi anni dei corsi friburghesi e marburghesi, invece, la visione heideggeriana del fenomeno della techne non ha ancora un accento manifestamente critico, essa anzi inizialmente viene vista piuttosto come una delle modalità di disvelamento dell’ente, come il modo per eccellenza attraverso il quale i Greci scoprono la physis3. Ed è a partire da questa prima fase del confronto heideggeriano con il concetto greco di techne che vogliamo muovere alcune considerazioni intorno al rapporto natura-tecnica nelle sue radici aristoteliche. In quegli anni, infatti, Heidegger, in particolare nel Natorp-­ Bericht, esplora le caratteristiche peculiari della natura umana e sostiene sulla base delle proprie interpretazioni fenomenologiche di Aristotele che l’incontro con gli enti del mondo è primariamente orientato dall’atteggiamento pratico-produttivo. In tal senso si configura una descrizione della natura umana a cui co-appartiene la techne in modo originario. 3  F. Volpi, Heidegger e Aristotele, cit., p. 189.

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Le finalità perseguite negli anni della formazione giovanile sono differenti da quelle degli anni del saggio sulla physis. Mentre fino al momento della svolta il confronto heideggeriano con Aristotele avviene attraverso il tentativo di una rifondazione radicale dell’ontologia congiuntamente a una riap­ propriazione criticamente rinnovata della tradizione, negli anni del saggio sulla physis Heidegger va maturando la critica della metafisica a partire dal rilievo della connessione essenziale di metafisica greca e tecnica moderna. Vi è però un’unitaria logica interna che pone in continuità le due fasi del confronto con la tradizione metafisica rilevabile proprio nel confronto con Aristotele e con la coappartenenza originaria di physis e techne. In un primo momento, infatti, Heidegger, nell’ambito del proprio progetto giovanile di una antropologia fenomenologica radicale centrata sulla motilità della vita effettiva, ha indagato la costituzione dell’essere umano evidenziando il ruolo essenziale della techne nella costituzione d’essere dell’esserci. Nel Natorp-Bericht la techne rappresenta un modo d’essere scoprente dell’esserci, ed è interpretata, secondo le indicazioni aristoteliche del VI libro dell’Etica Nicomachea, come una delle modalità disvelative con cui l’esserci accede all’ente, in altre parole come un modo dell’aletheuein. Più avanti, anche in Sein und Zeit la disposizione della tecnica viene valutata positivamente come un aver a che fare con le cose nel senso di utilizzarle in contesti operativi, un prendersi cura, un incontrare le cose primariamente nella loro Zuhandenheit, che solo a un secondo sguardo si offre all’osservazione sulla base della Vorhandenheit. E proprio negli anni immediatamente precedenti al Natorp-Bericht si andava sedimentando nella riflessione heideggeriana l’idea di un radicamento del conoscere nella vita effettiva che sancisce una presa di distanza dall’atteggiamento puramente teoretico della fenomenologia husserliana e dall’identificazione neokantiana di filosofia e teoria.

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La concezione stessa del filosofare è rimodulata in relazione al radicamento del conoscere nella vita effettiva: la filosofia è intesa come Umgangsweise, una pratica interpretante che ha a che fare con la motilità della vita effettiva e con il modo d’essere fondamentale della vita che è il prendersi cura. Parlare di «motilità del vivere» è un modo di ripensare l’intenzionalità fenomenologica, fondata però non più in una coscienza che assegna un primato assoluto all’atteggiamento teoretico, bensì nell’aver cura che è il fondamentale senso di relazione della vita. Senso pieno dell’intenzionalità nell’originario è il dirigersi verso le cose nel prendersi cura di esse. La motilità della vita fattizia, il suo modo d’essere del prendersi-cura o dell’aver cura, è vista nel suo dirigersi intenzionale al mondo in modalità diverse a seconda delle possibili direzioni della cura, così che l’esperienza vitale è di volta in volta una «pratica» (Umgang) del mondo-circostante, del co-mondo, del mondo-del-sé. Il radicamento del conoscere nella vita fattizia, allo stesso tempo, va considerato in relazione al carattere di inquietudine che caratterizza l’essere umano di per sé, alla costitutiva motilità della vita in se stessa, alla sua strutturale manchevolezza che non è mancanza di un ente supremo ma ha il carattere di una difettività propria, autoriferentesi. Nella filosofia aristotelica è infatti presente un «contromovimento (Gegenbewegung)» che si oppone alla tendenza della vita a scadere, a decadere, e che non è né una «riflessione egocentrica», né un rifugiarsi nella costruzione di altri mondi tranquillizzanti, bensì coincide con la «motilità ogni volta concreta del commercio e del prendersi cura»4. Nel mondo greco, e in particolare in Aristotele, Heidegger scorge un fondamentale carattere di motilità della teoria, della filosofia nel suo originario – e di rado debitamente sottolinea­ 4  M. Heidegger, Natorp-Bericht, p. 361; tr. it., p. 174.

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to – legame con la praxis. Egli rileva un’idea di motilità della theoria e della praxis che permette di cogliere l’unità dell’esistenza dietro l’apparentemente insanabile dissidio della cura. Da una parte la cura è la motilità fattuale che si manifesta come timore e preoccupazione, dall’altra essa si concretizza come il prendersi cura del «commercio», dell’essere in relazione con gli enti del mondo producendo, operando. È proprio la cura il concetto chiave di questa riproposizione dell’esistenza e della filosofia nei termini di una ermeneutica fenomenologica della fatticità. E proprio in riferimento a essa va compreso l’incontro con gli enti del mondo: In ogni scansar-via-da-se-stessa la vita c’è fattualmente per se stessa; nel ‘via-da-sé’ essa propriamente si produce (stellt) corre dietro al perdersi nell’apprensione mondana. […] L’inquietudine della vita fattuale per la sua esistenza non è dal canto suo un lambiccarsi il cervello in una riflessione egocentrica; essa è ciò che è solo in quanto contromovimento opposto alla tendenza a scadere della vita; il che significa che essa è precisamente nella motilità ogni volta concreta del commercio e del prendersi cura.5

La duplice natura del concetto di cura viene rilevata in riferimento alla motilità quale carattere fondamentale della vita, e, nel contempo, la stessa idea fenomenologica di intenzionalità viene riorientata dalla cura come prodigarsi verso qualcosa, ma anche come temere, preoccuparsi di qualcosa: l’intenzionalità non è più fondata nella coscienza teoretica ma nell’«aver cura» (Sorgen). La «motilità dell’aver cura» prende diverse direzioni: verso il mondo circostante, verso il co-mondo, verso il mondo del sé; e Heidegger concentra la sua attenzione sulla pratica del «pro-curare» (Besorgen) consistente nel manipolare, produrre, usare impiegare ecc. La pratica del mondo avviene

5  Ibidem.

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attraverso la «circospezione» (Umsicht), il mondo viene cioè incontro nel carattere della «significatività» (Bedeutsamkeit)6. La pratica del mondo si realizza in altri termini in un contesto significativo che costituisce la rete di relazioni in cui sono sempre immersi uomini e cose, uomini e altri uomini. L’aver cura in definitiva si realizza come un guardarsi intorno7 con circospezione, un rendere note e familiari le cose che ci circondano, i quali però si attuano sempre nel logos, nelle modalità dell’appellare e del discutere l’oggettualità del commercio. Il nuovo orizzonte ermeneutico proposto allora da Heidegger individua negli aristotelici modi dell’aletheuein il verso-che cui si rivolge l’originaria esperienza dell’essere nel mondo incontrato nella pratica del produrre anziché nell’ambito delle cose concepite esclusivamente come oggetti di una conoscenza teoretica: Il senso d’essere che in ultima analisi caratterizza l’essere della vita umana è attinto genuinamente da un’esperienza pura proprio di quest’oggetto e del suo essere, oppure la vita umana è assunta come un ente all’interno di un più comprensivo campo d’essere, ossia subordinata ad un senso d’essere impostato per essa in modo arcontico? Cosa significa in generale «essere» per Aristotele e come è accessibile, coglibile, determinabile? Il campo d’oggetto che fornisce il senso originario dell’essere è quello degli oggetti prodotti, presi nell’uso corrente. Non dunque il campo d’essere delle cose come una specie di oggetti colta teoreticamente in senso obiettivo, bensì il mondo che viene incontro nel commercio produttivo, che opera e che usa è il verso-che a cui è diretta l’esperienza originaria dell’essere. Ciò che è stato approntato nella motilità del commercio del produrre (ποίησις), ciò che è giunto al suo disponibile essersussistente per una tendenza d’uso, è ciò che è. Essere vuol

6  Ivi, p. 353; tr. it., p. 171. 7 Cfr. ibidem.

62 dire esser-prodotto e in quanto prodotto, relativamente significativo per una tendenza del commercio, esser-disponibile.8

Dire le cose, incontrare l’ente nel λέγειν significa mostrare l’ente «nella sua proprietà d’essere (οὐσία) conforme all’aspetto»9: secondo Heidegger, l’οὐσία aristotelica mantiene un originario significato pratico che è quello di oggetto disponibile all’uso. L’oggetto si mostra nel suo per-cui, nel suo aspetto, proprio attraverso la produzione. Heidegger assegna dunque all’esserprodotto una posizione eminente all’interno dello scavo teorico che ha intrapreso sulla polivocità dei significati dell’essere in Aristotele, ed è evidente che la sua interpretazione del testo aristotelico è orientata dalla personale elaborazione di un’ermeneutica dell’effettività dell’esserci. Anche la modalità della ricerca che si realizza come un osservare, l’ἐπιστήμη, può e deve essere compresa come originariamente radicata nella pratica volta a occupazioni mondane, il suo operare diviene comprensibile come una modalità d’esaminare l’ente che per necessità e per lo più è ciò che è sotto l’aspetto dell’in che modo e del da-cui, cioè rispettivamente dell’αἴτιον e dell’ἀρχή. La conoscenza scientifica è dunque in quanto modalità del commercio osservativo10 originata nella cognizione degli enti incontrati a partire dalla possibilità d’agire dell’esserci. L’altra pratica d’incontro degli enti, quelli che possono anche essere diversamente, è la τέχνη: un riflettere prendendosi cura, rivolto all’ente che «nel commercio stesso deve prima di tutto esser messo in opera, trattato o prodotto»11. La possibilità di un’autointerpretazione della vita è esplorata in riferimento alle modalità più appropriate in cui l’esserci esi8 Ivi, p. 373; tr. it., p. 180. 9  Ibidem. 10  Ivi, p. 375; tr. it., p. 181. 11  Ibidem.

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ste. Nel Natorp-Bericht esse sono individuate nel movimento della vita fattuale che è primariamente rappresentato dall’aver a che fare con ciò che si incontra nel mondo-ambiente al modo del curare: in quella motilità e secondo quelle disposizioni che possono attuare una genuina custodia dell’essere. Il di più dell’osservazione teoretica, il μᾶλλον εἰδέναι, è qualcosa che si sviluppa dialetticamente a partire dalla liberazione dei bisogni che hanno suscitato il verso-cui del prendersi cura, delle necessità che fondano il primario intenzionale aprirsi dell’esserci agli enti del mondo al modo del produrre. La theoria diviene allora un «commercio autosufficiente»12, in cui la tendenza dell’aver cura si è trasposta nell’osservare in quanto tale, ma la vita fattuale nella sua occupazione originaria si occupa di sviluppare il proprio commercio operativo, produttivo. Nel contesto della propria ricerca personale di un significato unitario dell’essere, Heidegger ha di volta in volta ricercato nella aristotelica plurivocità dei significati d’essere il senso d’essere originario, l’unità ultima che regge la plurivocità, e lo ha fatto, per usare le parole di Franco Volpi, «pensando con Aristotele contro Aristotele»13, giungendo progressivamente14 a sottolineare il carattere determinante del significato d’essere come energeia. È l’essere come energeia a rinviare «a quell’impensato della metafisica, che la precede e la condiziona come possibilità rimossa; esso è il significato sorgivo, totale e originario dell’essere come physis»15. 12  Ivi, p. 388; tr. it., p. 187. 13  F. Volpi, Heidegger e Aristotele, cit., p. 184. 14  Una trattazione del concetto aristotelico di physis, che anticipa le tesi esposte poi nel più celebre saggio del 1939, Sull’essenza e sul concetto della φύσις. Aristotele, Fisica, B, 1, si trova in apertura del corso del semestre invernale 1929/30, Die Grundbegriffe der Metaphysik, GA 29/30. 15  F. Volpi, Heidegger e Aristotele, cit., p. 189.

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La duplice motilità raccolta nella cura esibisce in modo evidente l’autocomprensione dell’esserci, della natura umana in riferimento alla techne. Il Besorgen come incontrare gli enti nel loro per-cui, nella possibilità per l’uomo di produrre, agire, manipolare, indica che l’aver logos dell’uomo significa primariamente incontrare le cose, conoscerle attraverso un dirigersi operativo; è una motilità produttiva, che ricorda da vicino il nesso fra cognizione e atti motori finalizzati, oggi individuato anche nell’ambito delle neuroscienze. Anche il versante della cura legato alla preoccupazione, all’angoscia, alla motilità della vita effettiva, che sfugge al proprio carattere costitutivo, alla propria finitezza, mostra anticipatamente un legame profondo quanto intrinsecamente problematico fra physis e techne, che Heidegger molti anni più tardi sottolineerà a proposito dell’essenza nascosta della tecnica moderna. La cura ha infatti anche un altro fondamentale carattere della motilità, quello che ha a che vedere con «l’inclinazione allo scadere» (Verfallensgeneigtheit)16 della vita fattuale. Anche la propensione allo scadere è una modalità intenzionale della vita stessa. Essa appare come un tentativo di disappropriazione della propria natura, si manifesta come una tendenza tranquillizzante: è un modo in cui la vita si «nasconde a se stessa», è «l’autoeludersi della vita»17. Ciò diviene ancora più evidente nel modo in cui la vita fattuale si rapporta alla morte, un modo che peraltro rivela il carattere antinomico, conflittuale, che riguarda la cura intesa come inquietudine, come timore. L’atteggiamento forzato con cui volutamente si ignora che la morte è «un come della vita»18 si attua nella fuga, nella tendenza a disperdersi nell’inautenticità. È sorprendente però come 16  M. Heidegger, Natorp-Bericht, p. 356; tr. it., p. 172. 17  Ivi, p. 358; tr. it., p. 173. 18  Ibidem.

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la tendenza allo scadimento e la fuga dalle preoccupazioni mondane non vadano in senso opposto alla peculiarità costitutiva della vita fattuale, ma ne rivelino una natura appunto antinomica, che Heidegger definisce esistenzialmente inquieta (existenzbekümmertes), tortuosa (umwegig). In ogni allontanarsi da se stessa, in ogni scansar-via-se-stessa, «nel “via-da sé” la vita si produce»19, anche laddove questo comporta un prodursi come perdersi nell’apprensione mondana. La vita fugge dinanzi a se stessa, ma «il «perdersi in» ha in se stesso un più o meno esplicito e inconfessato riguardo verso ciò dinanzi a cui fugge»20. Il movimento di fuga da sé e di riappropriazione di sé, anche quando quest’ultima consiste nell’eludere l’inquietudine disperdendosi nella mondanità, è la vita fattuale stessa, che comprende tanto le modalità autentiche quanto quelle inautentiche dell’esistere; fra le attività umane di resistenza al rovinìo dell’esistere vi è anche la filosofia, che è a un tempo fuga da sé e riappropriazione di sé. La filosofia è cura nella misura in cui è possibilità fattuale di cogliere la vita stessa come oggetto di inquietudine, essa è cura nel senso di riguardo, di sollecitudine per l’angoscia e la preoccupazione stessa, per il «dinanzi-a-che del suo fuggire»21. E anche la tecnica rappresenta una forma di fuga dalle necessità primarie quali componenti dell’esistenza nella sua motilità. Sulla scorta delle riflessioni heideggeriane, Gadamer ha messo in luce il legame fra Sorge, techne e theoria quali modalità di incontro degli enti in riferimento al libro I della Metafisica aristotelica. Gadamer riprende il tratto della cura sottolineato nella lettura heideggeriana secondo cui anche la manipolazione e produzione si radicano nell’inquietudine propria dell’es-

19  Ivi, p. 360; tr. it., p. 174. 20  Ibidem. 21  M. Heidegger, Natorp-Bericht, p. 360; tr. it., p. 174.

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serci, nella motilità della vita originantesi nella sua strutturale manchevolezza, in definitiva nella sua difettività. Il discorso di Heidegger lascia emergere come per un verso la techne rappresenti una modalità disvelativa degli enti che si incontrano nel mondo più originaria dell’osservare puro della theoria, per altro verso mostra come tanto la techne quanto lo sguardo puramente contemplativo del filosofare rivelino una intrinseca tendenza all’oltrepassamento della finitezza. Il peculiare legame tra cura, techne e filosofia viene ripreso da Gadamer attraverso una interessante interpretazione fenomenologica dell’origine del filosofare, definendo, come dicevamo innanzi, «l’originaria tendenza al sapere», con cui si apre il discorso metafisico di Aristotele, quale «superamento di tutta la sgomentante estraneità che ci circonda» e in definitiva come un «modo della cura»22. Va qui precisato che nella trattazione gadameriana emerge un dato per noi essenziale, cioè la valorizzazione dell’ipotesi del radicamento del conoscere nella motilità della vita effettiva, tanto in relazione alla prassi quanto in relazione alla techne. La filosofia, in queste pagine dalla forte impronta heideggeriana, nasce dall’angoscia, dall’esser consegnati a se stessi come gettati in un mondo, dalla cura come timore, come fuga da sé. Ma la filosofia è a un tempo anche cura nel senso, caratteristico dell’esserci, di esser «avanti-a sé-essendo-già-in». Va ricordato infatti che per Heidegger l’esserci è unità esistenziale di gettatezza, ma anche di effettività, che in definitiva vuol dire che l’esserci è da sempre immedesimato con un mondo di cui si prende cura. La filosofia nasce come fuga dall’instabilità e si costituisce come uno dei peculiari «caratteri di attuazione

22  H.-G. Gadamer, Studi platonici, tr. it. di G. Moretto, vol. I, Marietti, Casale Monferrato 1983, p. 22.

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della cura dell’essere nel mondo»23: in essa il prendersi cura si realizza in modo diverso rispetto alla techne con la quale l’esserci ha «assunto nella propria cura la sicurezza di disporre del mondo»24, poiché il sapere ricercato dalla filosofia non è ricercato in vista di qualcos’altro. Le varie forme che assume il prendersi cura da parte dell’esserci del mondo che lo circonda sono sempre caratterizzate dall’essere in vista di: la techne, come disporre della causa, è «conoscenza dell’«in-vista-­di-cui» dell’agire»25, la theoria ricerca un sapere che nel suo non essere in vista d’altro è in realtà rivolto al più generale, al più macroscopico in vista di cui, al senso d’essere dell’esistenza – è un movimento di emancipazione e allo stesso tempo di riappropriazione della sgomentante estraneità che ci circonda. Entrambe le forme del conoscere, però, sono accomunate da uno slancio di liberazione dal bisogno e caratterizzate dalla vocazione, propria dell’uomo in quanto mortale, di riparare alla difettività della propria natura. Del resto questo sguardo sulla cura, che insieme alle riflessioni posteriori apre la strada alla nota riabilitazione della filosofia pratica, la quale vede Gadamer fra i principali sostenitori, ricorda anche quanto Heidegger stesso ha acutamente osservato rispetto alla filosofia greca classica, in cui theoria e prassi sono molto più prossime di quanto a prima vista non sembri. La filosofia si attesta con Aristotele come emancipazione dai bisogni e dagli interessi pratici, ma è anche il frutto del bisogno umano più estremo: la theoria è la più alta forma di praxis, è «il più elevato bios»26. Il filosofo è nel senso più proprio un essere della cura: ed è per questo stesso motivo che «essere uomo significa già filosofare»27. L’ermeneutica fe23  Ivi, p. 25. 24  Ivi, p. 24. 25  Ibidem. 26  M. Heidegger, Einleitung in die Philosophie, GA 27, p. 174. 27  Ivi, p. 1.

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nomenologica heideggeriana fornisce dunque un’illuminante interpretazione dell’origine dell’atteggiamento teoretico-conoscitivo, e di quello tecnico produttivo nella cura. La techne, in questa prospettiva, assume «la forma di sicurezza di disporre nel mondo»28, che libera o perlomeno soccorre l’uomo nell’insecuritas che gli appartiene in quanto essere difettivo. Il modo in cui Heidegger sviluppa le interpretazioni fenomenologiche di Aristotele negli anni del primo insegnamento a Friburgo e poi negli anni dell’insegnamento a Marburgo, mette anche in evidenza come la capacità di esprimere nei discorsi, nel λέγειν29, il comprendere le cose, appellandole e discutendo, sia cooriginario alla disposizione tecnica; viene così messa in luce con chiarezza, la primarietà dell’orizzonte del produrre. Gadamer ripercorre la fenomenologia delle forme di conoscenza del I libro della Metafisica, e sottolinea come la techne sia la capacità di disporre in ogni possibile caso di intervento, in anticipo e con previa sicurezza dell’esecuzione stessa, di un conoscere non soltanto il che, ma anche il perché: «un previo disporre dell’agire in quanto disporre universale, che precede ogni azione concreta»30. In questo contesto Gadamer individua un tratto comune alla techne e alla theoria nella capacità di rendere conto. La scoperta delle cause e la conseguente insegnabilità sono un tratto caratteristico della scienza, ma non meno della tecnica. La stessa enunciabiltà e comprensibilità degli enti è legata alla capacità tecnica di rendere disponibile l’ente:

28  H.-G. Gadamer, Studi platonici, cit., p. 24. 29 Cfr. M. Heidegger, Natorp-Bericht, p. 354; tr. it., p. 171: «Il guardarsiintorno si attua nelle modalità dell’appellare e del discutere l’oggettualità del commercio. Il mondo viene incontro sempre in un determinato modo dell’essere-appellato, dell’appello (λόγος)». 30  H.-G. Gadamer, Studi platonici, cit., p. 23.

69 Il possesso di una techne riveste il carattere di attuazione del disporre previamente di quanto deve essere prodotto, del disporre ciò che comprende e interpreta, con discorso esplicativo, quest’ultimo alla luce delle sue cause. Questo disporre riveste il carattere dell’universalità e della necessità in quanto la causa […] è universalmente e necessariamente fondante per tutti i possibili casi dell’attività in questione; ad esempio in vista della sanità che nella sua apparenza (nel suo eidos generale) rappresenta l’obiettivo dell’arte medica, un ammalato in preda di questa o quella malattia, va trattato con mezzi atti a ristabilirne la salute. Nell’esercizio della techne questa connessione è comprensibile, può cioè esprimersi nel discorso. […] Con la scoperta e l’individuazione della causa, mettendone in luce la causa, l’ente viene enunciato nel suo necessario esser-così. – Nell’enunciabilità dell’ente, in quanto esistente necessariamente in questo modo, si radica il carattere dell’insegnabilità, che contrassegna la techne e la scienza rispetto all’esperienza pratica.31

La comprensione in base alla causa e il renderla disponibile agli altri nel parlare, rivela l’origine del parlare – non nell’amore per la svelatezza – ma in una pretesa di comunicabilità connessa proprio al «comune aver-a-che-fare con qualcosa», «all’esercizio del comune provvedere»32. L’analisi gadameriana, fedele alla prospettiva ermeneutica del maestro, mostra anch’essa un radicamento del conoscere e del discorrere nel rapporto premuroso con il mondo, nel commercio-prendentesi-cura in cui è visibile il contromovimento della vita sia nella forma della techne quale attività cognitivo-produttiva capace di liberare l’uomo dal bisogno, sia nella forma dell’osservare teoretico, della filosofia quale fuga dalla vulnerabilità nella ricerca di ciò che è immutabile.

31  Ivi, p. 25. 32 Ivi, p. 27.

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2. Il radicamento della techne nella natura al di là della mimesis: Aristotele e la medicina Può essere utile a questo punto portare l’attenzione sul caso esemplare della medicina rispetto a questa tematica. All’interno della prospettiva di un peculiare radicamento della tecnica nella natura umana stessa, di una connessione essenziale fra techne e physis, che sin qui abbiamo cercato di sottolineare nel discorso heideggeriano, la medicina antica riveste infatti un ruolo particolare e paradigmatico. La medicina è fra le tecniche la più prossima alla natura: è infatti dotata di entrambe le caratteristiche che per Aristotele alternativamente caratterizzano in linea generale una techne, la quale «talvolta porta a compimento (ἐπιτελεῖ) quanto la natura è impossibilitata a fare, altre volte imita (μιμεῖται) la natura»33. La medicina, infatti, non produce un oggetto, un manufatto, o un’abilità con un fine esterno a se stessa, come accade per le altre tecniche, ma svolge un’opera che di per sé appartiene alla natura. Se torniamo per un momento alla definizione di tecnica come ausilio o imitazione della natura fornita da Aristotele nella Fisica, la medicina è vista come una tecnica indistinguibile dalla natura, nella misura in cui difficilmente si può verificare se la guarigione è opera del medico o della natura che fa il suo corso. L’arte medica allora consisterà in un cooperare con la natura in vista del ristabilirsi della salute; tenderà cioè al conseguimento di un fine che coincide con il fine proprio della natura. L’intrinsecità del fine caratterizza questa techne – unica in questo senso fra le altre technai – che attraverso la cura coopera con la natura: a differenza delle altre arti, essa non consegue il proprio scopo nella produzione di un oggetto esterno ma, in quanto ausilio della natura, il fine le rimane interno.

33 Aristot., Phys., 199a 15 (tr. it. di L. Ruggiu, Fisica, Rusconi, Milano 1995).

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E se è indiscusso per Aristotele che la natura coincida con il fine e con la causa finale (ἡ δὴ φύσις τέλος καὶ οὖ ἔνεκα)34, è altrettanto chiaro che il fine coincide con il bene, anzi con il meglio: «non ogni termine finale, infatti, è fine, ma solo ciò che è il meglio (τὸ βέλτιστον)»35; e il «fine di ogni cosa è sempre migliore di essa»36. La medicina in questo senso persegue il medesimo fine della natura: ciò che è meglio per l’essere vivente – il che può essere inteso aristotelicamente nei termini teleologici del pieno compimento dello sviluppo di un dato essere vivente, o nei termini del ripristino dell’equilibrio salutare che un accidente è intervenuto a incrinare. Il tema dell’intrinsecità del fine conduce a individuare un altro tratto che peraltro certamente fino ai presocratici e, per certi versi, ancora in Aristotele accomuna medicina e filosofia: il riferimento essenziale alla conoscenza dei principi dell’intera realtà naturale. La medicina, quale techne che tende più d’ogni altra a una sorta di assimilazione nella natura, raggiunge i propri scopi somigliando il più possibile alla natura, se ammettiamo che la salute sia quanto vi è di meglio per l’ente naturale. Ciò comporta il fatto che, come sottolineano tanto i filosofi d’età classica quanto diversi autori dei trattati di medicina, un medico è veramente competente se conosce i principi che regolano la natura, quei principi che a partire dai filosofi naturalisti della Ionia costituiscono l’ambito di indagine della filosofia. Colui che cura il corpo infatti non può orientare la sua terapia se non in riferimento all’intero e al fine. Ogni techne è, come si è ricordato in precedenza, un disporre della causa, è «conoscenza dell’in vista di cui», del fine, ma l’arte medica con il suo particolare compito di cooperare con la natura in 34 Ivi, 194a 27. 35 Ivi, 194a 32. 36 Aristot., Protr., fr. 17 Düring.

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vista appunto del τέλος naturale, della salute, deve essere conoscenza dell’in vista di cui dell’intera realtà naturale e della vita dell’uomo nella totalità dei suoi aspetti. Il miglioramento perseguito dall’arte medica, in questo senso, va inteso come ripristino di una situazione precedente il cui equilibrio è stato infranto, come ritorno a una situazione di normalità che è stata interrotta. È in relazione a tale carattere che, come ha rilevato Gadamer, la medicina è una techne avente, rispetto alle altre, peculiarità che le fanno assumere una posizione diversa e problematica. In essa, infatti, come si diceva, non ha luogo la produzione di un oggetto artificiale, di un oggetto nuovo, che la tecnica produce artificialmente «occupando uno spazio d’azio­ne che la natura non ha riempito con le proprie creazioni»37, bensì è caratterizzata dal fatto di ristabilire più che produrre uno stato di equilibrio e di salute, uno stato che l’alterazione patologica era intervenuta a mutare. Il sapere e la capacità impiegati dal medico si inseriscono così nel corso della natura. Il risultato dell’opera del medico non è facilmente distinguibile dal corso della natura stessa, e in ogni caso scompare una volta avvenuto il naturale recupero dell’equi­librio salutare: In ogni téchne avviene certamente che il prodotto venga lasciato all’uso degli altri, ma esso rimane sempre una creazione del suo autore. Invece l’opera del medico, appunto perché consiste nella salute ristabilita, non è assolutamente più sua, anzi non lo è mai stata. Il rapporto tra l’atto del fare e quanto viene fatto, tra quello del produrre e ciò che viene prodotto, fra lo sforzo ed il risultato, è qui essenzialmente di un genere più ambiguo ed enigmatico.38

37  H.-G. Gadamer, Apologia dell’arte medica, in Id., Dove si nasconde la salute, tr. it., a cura di A. Greco e V. Lingiardi, Cortina, Milano 1994, pp. 3951: p. 41. 38 Ivi, p. 42.

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Questo modo di intendere la scienza medica lascia apparire la differenza fra la medicina nel mondo antico e la moderna scienza medica, caratterizzata invece dall’intendere il suo stesso sapere come capacità di produrre, dall’autonomia della capacità di produrre e da una relativa verificabilità delle relazioni di causa-effetto39. In ogni caso però il ritorno della salute, sia se dovuto al semplice decorso naturale, sia se dovuto all’azione del medico, ha come conseguenza la cessazione dell’attività del medico, la sua autoeliminazione: «La reale modalità di successo dell’attività medica si individua nella capacità di annullare se stessa e di diventare così non necessaria»40. La realizzazione stessa dell’arte medica consiste dunque nell’emancipazione della persona guarita, nel suo non aver più bisogno del medico; e Gadamer sottolinea come lo scomparire dell’attività del medico, una volta ristabilito l’equilibrio naturale che precedeva la malattia, costituisca una peculiarità dell’arte medica antica rispetto alla moderna scienza medica: quest’ultima infatti ha il carattere della produzione e della costruzione pianificata41, è «creazione artificiale di effetti che non sopraggiungono da soli»42, e non soltanto non si inserisce nel corso di eventi naturali, ma si sostituisce alla natura stessa «in virtù di una costruzione controllata razionalmente»43. 39 Ivi, p. 43. 40 Ivi, p. 45. 41  Su questa caratteristica della moderna scienza medica importanti contributi provengono da Michel Foucault e Ivan Illich, i quali pur muovendo da differenti contesti e da diverse prospettive teoriche hanno sottolineato sia le dinamiche di potere sottese alle classificazioni di normalità/anormalità, salute e malattia, sia la progressiva medicalizzazione e «pianificazione» della salute a scapito del ruolo attivo dei pazienti: cfr. M. Foucault, Nascita della clinica, tr. it. di A. Fontana, Einaudi, Torino 1969; I. Illich, Nemesi medica. L’espropriazione della salute, tr. it. di D. Barbone, Bruno Mondadori, Milano 2004. 42  H.-G. Gadamer, Apologia dell’arte medica, cit., p. 47. 43  Ibidem.

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La medicina antica è caratterizzata invece dal confronto con la natura, dal bisogno di inserirsi nell’armonia e nell’equilibrio44, propri della salute e però tali da mettere l’uomo di fronte alla condizione difettiva caratterizzante la sua esistenza. Allo stesso tempo la medicina esibisce il tratto – comune a buona parte del sapere tecnico e alla filosofia – che consiste in un prendersi cura quale tendenza essenziale al trascendimento della finitezza che separa il mortale dal divino. Gli dèi sono perfetti per natura, agli uomini invece è data la cura per migliorare una condizione che la natura rende instabile, ma che spesso è la natura stessa, con l’ausilio della cura, a ristabilire. L’arte medica, come esercizio della razionalità umana che interviene nella misura possibile sulla precarietà della condizione propria dell’uomo, è una techne che con la natura ha dunque un legame molto particolare: non soltanto essa scompare una volta conseguito l’effetto del ristabilirsi della salute, ma è consapevole del fatto che «la guarigione non è in potere del medico, bensì della natura. Il medico sa bene di essere autorizzato a collaborare con la natura»45, e per questo motivo deve conoscere i principi fondamentali della natura; 44  Sulla relazione tra medicina antica e studio delle realtà naturali e in particolare sulle concezioni ippocratiche della salute esiste ovviamente una ricchissima messe di studi. In particolare si vedano J. Jouanna, Hippocrate, Fayard, Paris 1992, pp. 326-341, e Id., Hippocrate et la santé, in J. Braun (a cura di), La santé, Centre de documentation en histoire de la philosophie, Strasbourg 1988, pp. 17-47. Cfr. anche M. Vegetti, Metafora politica e immagine del corpo nella medicina greca, in Id., Tra Edipo e Euclide. Forme del sapere antico, il Saggiatore, Milano 1983, pp. 41-58; G. Cambiano, Patologia e metafora politica. Alcmeone, Platone, Corpus Hippocraticum, in «Elenchos», III, n. 2, 1982, pp. 219-236. Interessanti considerazioni si trovano anche nel commento di Albero Jori al Perì téchnes: cfr. A. Jori, Medicina e medici nell’antica Grecia. Saggio sul Perì téchnes ippocratico, il Mulino, Bologna 1996. 45  H.-G. Gadamer, Cura e dialogo, in Id., Dove si nasconde la salute, cit., pp. 135-148: p. 140.

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questo per Aristotele, ultimo erede della tradizione naturalistica greca, equivale a dire che il medico deve anche essere filosofo. Così leggiamo infatti nei Parva naturalia: Conoscere i principi primi è proprio del fisico anche riguardo alla salute e alla malattia, giacché non è possibile che vi sia salute o malattia in ciò che è privato della vita. Perciò all’incirca la maggior parte di quelli che indagano sulla natura e quei medici che praticano l’arte nel modo più filosofico, pervengono gli uni ad accostarsi alla medicina, gli altri ad intraprendere gli studi di medicina cominciando da quelli sulla natura.46

E ancora: Quanto a salute e malattia, parlare delle cause non è proprio soltanto del medico, ma fino a un certo punto anche del fisico. Bisogna però che non sfugga dove sia la differenza e in cosa differiscano le ricerche, poiché che la materia segua il medesimo percorso fino ad un certo punto lo testimonia ciò che accade: i medici più arguti e scrupolosi trattano della natura e ritengono opportuno assumerne i principi, e i più accurati tra quanti si occupano della natura si rifanno infine ai principi della medicina.47

La medicina antica in definitiva rappresenta un modello peculiare di techne in cui è più che mai evidente il radicamento di questa nella physis. Nella techne però è presente tanto il carattere disvelante del conoscere pratico-produttivo, quanto la trascendenza originaria dell’esserci48, ossia quell’oltrepassamento che abbiamo cercato di sottolineare tanto a proposito della tecnica quanto 46 Aristot., De sensu, 1, 436a-b (tr. it. in L’anima e il corpo. Parva naturalia, a cura di A.L. Carbone, Bompiani, Milano 2002). 47 Aristot., De vita, 27, 480b (tr. it. in L’anima e il corpo, cit.). 48  Nella riflessione heideggeriana degli anni posteriori alla svolta l’aperturalità dell’esserci è argomentata a partire dalla manifestatività originaria dal momento che l’accento si è spostato sull’evento, sull’accadere dell’essere.

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a proposito della natura stessa del filosofare. La medicina antica concepisce l’intervento del medico come un coadiuvare la natura, un provvedere a perseguire la finalità interna della natura, che ci richiama alla definizione aristotelica di fine come ciò che è meglio. La salute è il meglio per l’essere vivente. Ma la vita, l’essere degli enti mossi e corruttibili, allo stesso tempo, è contrassegnata dall’indefettibile presenza del suo contrario, cosa di cui noi uomini fra tutti i viventi siamo forse i soli a essere consapevoli. La morte fa parte della natura quanto la vita. Così, quando la techne porta all’estremo la sua tendenza costitutiva al trascendimento della physis, viola la physis, non ne cura più l’armonia nascosta, ma la profana e la violenta tentando di dominarla, come quando si tiene in vita un corpo che della vita è ormai solo un simulacro, una cattiva imitazione della vita. L’aporia così configurata dalla relazione natura/tecnica nella moderna arte medica è trattata ancora una volta in modo estremamente acuto da Heidegger, il quale svolge delle considerazioni tuttora fruibili per esempio nell’ambito della bioetica, certamente più di quanto non lo siano, a mio avviso, le sue tarde considerazioni generali sulla tecnica, nelle quali, per esempio, viene individuata nella Gelassenheit «quella disposizione eroica del pensiero che consente di resistere alla prova del nichilismo e della tecnica»49. Va sempre preliminarmente ricordato che negli anni in cui rielabora in modo per certi aspetti nuovo le riflessioni sulla physis, fra cui quelle del saggio sul libro B della Fisica aristotelica, Heidegger vede la connessione essenziale tra physis e techne come inizio e compimento di un evento essenziale che ha il suo fondamento nella struttura dell’essere stesso e non nell’aperturalità dell’esserci come negli anni giovanili. 49  F. Volpi, Heidegger e Aristotele, cit., p. 214.

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Nel saggio Sull’essenza e sul concetto della φύσις, Heidegger individua, anche in riferimento esplicito all’arte medica, l’ambiguità della techne quale atteggiamento che libera e scopre la physis, ma al tempo stesso la coglie e la cattura. Il saggio com’è noto è scandito da un commento di alcuni temi essenziali affrontati da Aristotele in Phys. B, 1. Heidegger prende le mosse dalla distinzione fra enti naturali, che hanno in se il principio di mutamento, ed enti prodotti, ossia gli enti in cui «l’ἀρχή della loro motilità, e quindi della loro quiete, che raggiungono quando sono finiti e completati, non è in loro stessi, ma in un altro, nell’ἀρχιτέκτων, in colui che dispone della τέχνη come ἀρχή»50. La motilità degli artefatti ha un’altra ἀρχή, un diverso rapporto con essa rispetto agli enti naturali: il τέλος di un prodotto della τέχνη «non è il fine o lo scopo, ma la fine nel senso della compiutezza che ne determina l’essenza; solo per questo il τέλος può essere assunto come fine e posto come scopo»51. Gli enti per natura hanno in sé il proprio avvio «non come se l’ἀρχή si insediasse nell’ente solo accidentalmente»52. In questo caso è in opera una motilità che non è il semplice avvio di qualcosa che si muove, ma appartiene essenzialmente a un tale qualcosa: è uno schiudentesi imporsi esemplificato dalla «pianta», che «mentre spunta si schiude e si distende nell’aperto, nello stesso tempo ritorna nella sua radice, fissandola nel chiuso e ottenendo così la sua stabilità»53. Questa puntualizzazione non è di poco conto perché prelude al rifiuto di considerare la motilità intrinseca degli enti per 50  M. Heidegger, Vom Wesen und Begriff der Φύσις, cit., p. 252; tr. it., p. 206. 51  Ibidem. 52  Ivi, p. 254; tr. it., p. 208. 53  Ivi, p. 255; tr. it., p. 209.

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natura come «mossa» o «organizzata». Il principio della physis non è né un Motor né un Organisator, e in effetti nulla autorizza a scorgere nella physis aristotelica una struttura implicante autoproduzione, nei termini in cui oggi in riferimento alla natura vivente si parla di struttura autopoietica. Non nei termini in cui l’autoproduzione, per quanto rivolta a un ente che è il medesimo rispetto a quello che produce, è pur sempre una produzione: questo per Heidegger significa interpretare ciò che cresce naturalmente da sé come un artefatto che fa se stesso. Sulla base di questa considerazione egli sottolinea che i concetti di «organismo» e di «organico» sono puramente moderni, meccanico-tecnici. Quando Aristotele fa l’esempio del medico che cura e guarisce se stesso appare – e ce lo fa notare la pertinente precisazione heideggeriana – come l’ultimo erede della tradizione naturalistica greca, perché indica con chiarezza che il principio della guarigione è nella natura: il medico che cura se stesso ha l’ἀρχή del suo risanamento «ἐν ἑαυτῶ, in sé, ma non καϑ᾽αὑτόν, non per se stesso, non in quanto è medico»54. Per l’antica medicina greca la cura e la guarigione non hanno nulla a che vedere con la manipolazione dell’organismo, ma sono ascrivibili al medico nella misura in cui questi coadiuva, affianca la natura in vista del ristabilimento della armonia nascosta propria di essa. Il prodursi della vita dimentico di sé, invece, apre la via all’imporsi dell’istanza tecnica nel mondo moderno, che pretende di sostituirsi integralmente alla physis dominandola. Di ciò ancora una volta la medicina rappresenta l’esempio più lampante, in quanto tecnica volta a modificare la natura umana nel suo carattere mortale, attraverso tutte le pratiche rivolte a prolungare la vita, a sanare il più possibile il dissidio costitutivo della vita umana sempre in cerca di possibilità di oltrepassamento, 54  Ivi, p. 256; tr. it., p. 210.

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di trascendimento della propria finitezza. La posizione heideggeriana è chiara al riguardo. La techne non potrà prendere il posto della physis e diventare nel caso dell’arte medica l’ἀρχή della salute come tale: Ciò potrebbe avvenire solo se la vita come tale divenisse un artefatto producibile ‘tecnicamente’; ma se ciò avvenisse, in quello stesso momento non ci sarebbe più salute, né nascita e morte. Talvolta sembra che l’umanità corra all’impazzata verso questa meta: che l’uomo produca tecnicamente se stesso. Se ciò riuscirà, l’uomo avrà fatto saltare in aria se stesso, cioè la sua essenza come soggettività, e l’avrà fatta saltare in quell’aria dove l’assoluta assenza di senso vale come unico ‘senso’, e dove il mantenimento di questo valore appare come il ‘dominio’ umano sul globo terrestre.55

Ancora più chiaramente Heidegger giudica la velleità della techne di sostituirsi alla physis, non come un «modo in cui la soggettività è superata, ma soltanto «sopita» nel «progresso eterno» di una «costanza» da cinesi». È inscritto nel destino della metafisica, culminante nella tecnica moderna, che ha occultato la motilità originaria della physis nella presenzialità costante dell’ousia, il fatto che il medico odierno possa pensare l’ἀρχή del risanamento come dovuta alla τέχνη. Heidegger infatti fa notare che alla tesi secondo la quale il principio di guarigione, nel medico che cura se stesso, è in prima istanza nella natura, si può controbiettare con l’esempio dei due medici che soffrano della stessa malattia, nelle stesse condizioni ma a distanza di un intervallo di cinquecento anni, durante i quali la moderna medicina ha fatto notevoli progressi, per cui essi avranno una prognosi differente. Il medico di oggi, disponendo delle tecniche più avanzate risana, mentre l’altro muore di quella malattia. La consapevolezza di questa possibile controbiezione si accompagna però alla convinzione che, nella 55  Ivi, p. 257; tr. it., p. 211.

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sua forma più estrema di una volontà di potenza che pretende di sostituire alla physis la tecnica, a volte, non sempre ovviamente, mettendo sullo stesso piano un corpo umano vivo con un corpo tenuto in vita, non si risana ma si produce una mera parvenza di vita: Senonché resta qui da osservare che il fatto di non morire, nel senso di un prolungamento della vita, non è necessariamente un risanamento; Il fatto che oggi gli uomini vivano più a lungo non prova che siano più sani; Si potrebbe desumere il contrario. Ma anche posto che il medico di oggi non ritardi solo di qualche tempo la morte ma diventi sano, allora anche qui l’arte medica non ha fatto che sostenere e guidare meglio la φύσις. La τέχνη può soltanto venire incontro alla φύσις, può favorire più o meno il risanamento, ma, come τέχνη, non potrà mai sostituirsi alla φύσις e diventare, al suo posto, l’ἀρχή della salute come tale.56

Non poteva che esprimersi così Heidegger, per il quale la finitezza non è una manchevolezza che impedisce all’uomo la piena realizzazione del proprio essere. L’assunzione della negatività inscritta nella finitezza come costitutiva del suo essere è allo stesso tempo assunzione del limite che costituisce la finitezza stessa. L’oltrepassamento (Überstieg) è un mantenersi nell’oltrepassare stesso, nel trascendente che è l’esserci stesso. Nella sua possibilità di apertura «che fa si che un mondo accada»57 l’esserci resta un essere, sì finito, ma non essente al modo della semplice presenza. Riprendendo il filo del discorso iniziale, possiamo allora dire, concludendo, che la prossimità con il proprio telos – il suo rientrare nella natura quale via verso se stessa – rende paradigmatico il ruolo della medicina nella comprensione del ra56  Ibidem. 57 M. Heidegger, Vom Wesen des Grundes, in Id. Wegmarken, GA 9, pp. 123-175: p. 158; tr. it., Dell’essenza del fondamento, pp. 79-131, p. 115.

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dicamento originario di techne e theoria nella cura. Nel suo operare insieme alla natura, l’arte medica, così come la intende il mondo antico, ha infatti una relazione peculiare con il proprio fine: essa è simile alla natura stessa, che, come è noto, ha in sé principio e fine del movimento. Rispetto al carattere produttivo di ogni altra techne, la medicina diviene così non solo esemplare dal punto di vista della vicinanza tra physis e techne, come già aveva visto Heidegger negli anni precedenti alla Kehre, ma crea un ponte del tutto speciale con la theoria, esaltandone la strettissima continuità con la cura della vita. Il rapporto con la salute e la malattia – come ci ricorda Aristotele nei passi già menzionati dei Parva naturalia – induce spontaneamente il buon medico verso la conoscenza filosofica della vita, mentre il filosofo si avvicina, attraverso lo studio dei principi della natura, ai principi propriamente medici di salute e malattia. Il tratto comune alla techne e alla theoria ne risulta la cura per la natura, ossia il radicamento del comportamento conoscitivo umano nella relazione con un modo d’essere che ha il proprio fine in se stesso. La cura coinvolge l’uomo nella natura, protendendolo fino a quelli che Heidegger chiama i riguardi ultimi. Per altro verso, proprio in quanto l’uomo è un essere della cura, la physis umana è coinvolta nella natura a partire dall’apparentemente insanabile dissidio della cura tra la motilità che si manifesta come timore e fuga dalla fragilità che contraddistingue la vita mortale, da una parte, e il concreto prendersi cura degli enti del mondo producendo, operando in essi e con essi, dall’altra. Anche qui però, attraverso la medicina possiamo vedere la continuità della cura intesa come coinvolgimento conoscitivo dell’uomo nel mondo. Theoria e techne risultano infatti due comportamenti dagli esiti certamente tra loro divergenti, e tuttavia entrambi congruenti con il radicamento nella vita mortale. Il bisogno degli uomini di vivere oltre si manifesta nella medicina come possesso di una techne in grado di

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cooperare con la natura, imitandola, in vista del ristabilimento dell’integrità corporea. La medicina non salva però dal limite ultimo che la natura ha assegnato ai viventi. A questo punto essa trapassa nella filosofia, mentre per altro verso ne mostra l’intimo carattere di cura. È in ultima istanza solo nel contromovimento del filosofare, è solo curandosi dei principi stabili e immutabili, regolatori dell’intera natura, che l’uomo cura se stesso, salva se stesso dalla propria precarietà tendendo verso ciò da cui proviene.

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III Il manifestarsi della physis nella techne: la violenza del predominante

1. L’originaria coappartenenza di pensiero ed essere La riflessione heideggeriana sulla violenza e la tecnica in Einführung in die Metaphysik rientra all’interno della ambiziosa volontà di una nuova fondazione del filosofare concernente il rapporto del pensare stesso all’essere. Nel contesto di un pensiero poetante, quello parmenideo, Heidegger difende l’originaria «coalescenza»1 di pensiero, parola ed essere con vis polemica nei riguardi di un diffuso orientamento di storiografia filosofica che inopportunamente fa del frammento 5 di Parmenide (τὸ γὰρ αυτὁ νοεῖν ἐστίν τε καἱ εἶναι) un’anticipazione della dottrina kantiana e poi dell’idealismo tedesco. Sono fenomeni connessi l’intendere il νοεῖν come pensare nel senso dell’attività del soggetto e il vedere in Parmenide un anticipatore dell’idealismo moderno, un pensatore arcaico che viene lodato per «questa impresa progressista»2. La conseguenza di un simile 1  L’espressione è di Guido Calogero che a proposito dei Presocratici così descrive la triunità di linguaggio, pensiero e mondo nel naturalismo greco: cfr. G. Calogero, Storia della logica antica, Laterza, Bari 1967, pp. 45-49. 2  M. Heidegger, Einführung in die Metaphysik, GA 40, p. 145; tr. it. di G. Masi, Introduzione alla metafisica, Mursia, Milano 1990, p. 145: «Parmenide, in fondo, non avrebbe fatto che anticipare tale dottrina. Pertanto egli viene lodato per questa impresa progressista, soprattutto nei confronti

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fraintendimento in senso non greco è l’idea che «il pensiero del soggetto determina ciò che l’essere è»3, un’idea che non agevola per nulla la comprensione del frammento parmenideo: Perché essere e pensare sono, nel loro contrapporsi, uniti, ossia sono la stessa cosa in quanto coappartenentesi?4

Da quanto sopra riportato è evidente che per Heidegger la prima interpretazione da scartare è quella che fa dell’essere il prodotto di un’attività «soggettiva», è infatti ai suoi occhi lo sguardo ermeneutico che reca più torto alla verità primordialmente greca di Parmenide. Come è noto in Einführung in die Metaphysik, snodo fondamentale del pensiero heideggeriano dal punto di vista del configurarsi del rapporto uomo-essere, il porre correttamente la questione dell’essere chiama in causa l’intera storia di un’epoca. La questione della tecnica planetaria come estrema conseguenza dell’oblio dell’essere è affrontata a partire dall’analisi delle grammatiche che governano la nostra stessa esistenza storica, che hanno contribuito in modo decisivo al destino5 della civiltà occidentale.

di Aristotele, che pure è un pensatore greco più tardo. Aristotele avrebbe, in contrapposizione all’idealismo di Platone, difeso una specie di realismo, ond’è considerato un anticipatore del Medioevo. Bisognava fare qui espressa menzione di tale concezione, comunemente ammessa, non solo per l’assurdità che essa diffonde in ogni esposizione della storia della filosofia greca; non soltanto perché la filosofia moderna ha interpretato in tal senso la propria preistoria, ma soprattutto perché, a causa del prevalere delle opinioni citate, ci è diventato di fatto difficile intendere la specifica verità di questa frase, così primordialmente greca, di Parmenide». 3  Ibidem. 4 Ivi, p. 147; tr. it., p. 147. 5  Un destino particolarmente infausto negli anni in cui Heidegger tiene questo corso, durante il quale vengono anche pronunziate affermazioni i cui toni – qualunque siano le opinioni in merito al coinvolgimento dello stesso

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Dunque, è in questo quadro che vengono letti i frammenti parmenidei sulla originaria coappartenenza di essere e pensiero. Ma la questione investe l’intero orientamento dello sguardo filosofico con cui Heidegger intende condurre la propria riflessione. Qui appare più che mai evidente il noto tentativo seguito a Essere e tempo di operare la svolta consistente in una comprensione dell’uomo nel contesto di un domandare scevro da caratteri antropologici: un domandare storico e metafisico. Ciò significa che anche il νοεῖν del frammento di Parmenide non va inteso come pensare, come apprensione, fintanto che questa sia intesa come una facoltà, un modo di comportarsi di un uomo «quale ce lo raffiguriamo sulla base di una biologia, di una psicologia e di una gnoseologia vuote e piatte»6. Nella stessa cornice di riferimento, contraria all’idea di un soggetto che ricomprenda tutto ciò che è oggetto nell’alveo della propria soggettività, viene letto anche il frammento 8, v. 34 di Parmenide secondo il quale «l’apprensione e ciò per cui l’apprensione si produce sono la stessa cosa» (ταὐτὸν δ’ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὔνεκεν ἔστι νὀημα)7. Si orienta in questa direzione l’interpretazione heideggeriana anche di questo frammento, secondo la quale poiché L’essere si impone e in quanto si impone appare, si produce necessariamente con questa apparizione anche l’apprensione […]. L’essenza e la modalità dell’esser uomo possono dunque determinarsi solo in base all’essenza dell’essere.8

Heidegger con il nazionalsocialismo – appaiono piuttosto sinistri. Cfr. ivi, pp. 41-42; tr. it., pp. 48-49. Cfr. inoltre E. Faye, Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia, tr. it. di F. Arra, a cura di L. Profeti, L’Asino d’oro, Roma 2012. 6  M. Heidegger, Einführung in die Metaphysik, GA 40, p. 149; tr. it., p. 149. 7 Ivi, p. 147; tr. it., p. 147. 8  Ibidem.

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L’apprensione non è in alcun modo da intendersi come una facoltà o proprietà dell’uomo, ma è l’elemento essenziale dell’accadere storico dell’uomo: «il consapevole apparire dell’uomo in quanto storico»9. L’ingresso dell’uomo come essente nella storia (Geschichte) accade come apprensione, e l’apprensione è l’evento (Geschehnis) che possiede l’uomo. L’apertura storica prodotta dal domandare sull’essere che coinvolge la tendenza dell’uomo a interrogarsi su se stesso ha un carattere per certi versi paradossale, è infatti proprio nel mutuo appartenersi di essere ed essenza umana che la separazione di entrambi viene alla luce.10

Nel misconoscimento dell’originaria coappartenenza storico-­ destinale di pensare ed essere sorgono secondo Heidegger le definizioni dell’uomo come essere vivente ragionevole, ζῶον λὀγον ἔχον, che come dirà più tardi nel Brief über den «Humanismus», non è scorretta o falsa, ma semplicemente insufficiente. Anche nel contesto in cui la finalità generale è la comprensione di dove e quando si sia originata la separazione di essere e pensare, guardando a come, nell’esperienza greca, l’idea stessa dell’essenza dell’uomo si sia manifestata tra pensare poetante e poetare pensoso, tra pensiero filosofico e tragedia, il tema della tecnica ha un rilievo particolarmente interessante. L’interrogare heideggeriano sull’essenza dell’uomo si volge verso la parola poetica proprio a causa delle difficoltà che sorgono nel tentativo di comprendere la determinazione dell’uomo sul piano del pensiero nel frammento parmenideo. La parola poetica-pensante prima di tutto scorge nell’uomo τὸ δεινότατον (das Unheimlichste), un carattere filosoficamente

9  Ivi, p. 150; tr. it., p. 149. 10  Ibidem.

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rilevante perché secondo Heidegger rivela come la mentalità greca scevra da vanità antropocentriche e lungi dalla tendenza a esaltare singole personalità nell’indicare «ciò che vi è di più inquietante tra tutto l’inquietante»11, configura l’uomo in relazione con l’essere. Il termine greco δεινόν ha dunque un ruolo chiave nella comprensione del rapporto dell’uomo all’essere, ed è però un termine, avverte Heidegger, che ha tutta l’«ambiguità del dire dei Greci che pervade le contrastanti contrapposizioni dell’essere»12. La comprensione della pregnanza della qualifica di τὸ δεινότατον con cui il coro definisce l’uomo e la sua appartenenza all’essere s’intreccia strettamente al tema della violenza. Che l’uomo sia δεινὀν significa anche al tempo stesso che egli è violento (gewalt-tätig) non nel comune senso di un agire violento, o – più precisamente – non soltanto, ma in un senso che riguarda l’essere. Alla violenza (Gewalt-tätigkeit) è attribuito un significato essenziale che certamente trascende l’accezione di perturbamento di «un ambito in cui il criterio dell’esistere, è determinato dalla convenzione dell’accomodamento e della mutua assistenza»13. Comprendere in che modo l’uomo sia violento è possibile solo sulla scorta dell’intera caratterizzazione dell’essente nella sua totalità. Proprio l’intero dell’essente è descritto come «un imporsi» (als Walten), come il «predominante» (Überwältigende), ed è in seno al «predominante» che l’uomo esercita una violenza rappresentativa dell’«in-quietante» (das Un-heimliche) quale trarre fuori a forza dalla familiarità dell’abituale. Violento diventa allora ciò che «Non ci permette di rimanere nel nostro elemento. Ed è in ciò che consiste il pre-dominante»14. Al tempo stesso l’uomo è proprio costitutivamente incline a sfuggire i 11  Ivi, p. 158; tr. it., p. 157. 12  Ibidem. 13  Ivi, p. 159; tr. it., p. 158. 14  Ivi, p. 160; tr. it., p. 159.

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limiti del familiare, e in questo senso emerge tutta l’ambiguità attribuita da Heidegger al δεινὀν, che rappresenta la cifra di una condizione in cui la coappartenenza all’«in-quietante» opera nell’uomo lo straniamento terribile dell’uscire dalla familiarità e dalla sicurezza inconcussa ma insieme lo vede protagonista di un tendere «proprio in direzione dell’inquietante inteso come il predominante»15. L’esistenza storica dell’uomo, declinantesi nelle diverse forme della creazione poetica, del «progetto del pensiero», del «formare costruente», dell’«azione creatrice di stati», accade come un far violenza. La violenza dell’uomo così intesa non è in alcun modo da intendersi come un esercitare poteri che l’uomo possiede in proprio, è piuttosto la condizione di possibilità dello schiudersi dell’essente, il modo stesso in cui si rende possibile nel Da del Da-sein il manifestarsi dell’essere. L’inveramento dell’essere accade attraverso una violenza che l’uomo deve padroneggiare, l’essere storico dell’uomo si fa spazio come violenza in mezzo all’essente. Questo non significa affatto che il dirompente, «ciò che domina attraverso [l’uomo]» (das Durchwaltende) perda qualcosa del suo predominio, ma esprime una coappartenenza al predominante tanto della parola, dell’intelletto, del sentimento, dell’attività costruttiva, quanto del mare, della terra dell’animale, della natura intera evocata nella seconda strofe del coro dell’Antigone. Se dunque rammentiamo che l’obiettivo iniziale del corso heideggeriano è ricercare nel pensiero poetante un contributo al domandare filosofico intorno all’originario legame tra essere e pensare affermato dal frammento parmenideo, il Dasein sempre più appare come luogo di dischiusura della verità dell’essere. L’uomo in tale contesto è δεινὀν al modo dell’essere storico in una sorta di gioco di rimandi di violenza, in cui la violenza non è affatto

15  Ibidem.

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risposta alla violenza di natura, ma è una modalità disvelativa in cui l’essere si manifesta nella sua strapotenza: Esistenza (Da-sein) dell’uomo storico significa esser posto come il varco in cui la strapotenza dell’essere apparendo irrompe, affinché questo medesimo varco s’infranga alla fine sull’essere. […] È come storia che il predominante, l’essere, trova operativamente la sua conferma. Quale varco per cui l’essere, messo in opera, si apre nell’essente, l’esserci dell’uomo storico è un in-cidente (Zwischen-fall), è l’incidente in cui, d’un tratto, le forze della strapotenza scatenata dell’essere si liberano ponendosi in opera come storia16.

Nel richiamare nuovamente l’idea di «apprensione» quale evento (Geschehnis) che possiede l’uomo oltre che al tempo stesso modalità di ingresso dell’uomo come essente nella storia, si fa più chiara anche la coappartenenza di noein ed einai, o se si vuole di physis e logos nel carattere di contrasto, di polemos delineato da Heidegger poco prima17. Il carattere di raccoglimento dell’essere nell’essente, ovvero il logos, tiene insieme infatti i «più cospicui sforzi antagonistici»18. Il pervenire all’essere, l’evento del manifestarsi dell’uomo in quanto storico che consapevolmente si apre all’essere, accade come lotta. L’essere δεινὀν caratterizza sia l’uomo che la physis attraverso un fronteggiarsi di due aspetti compresenti nell’imporsi predominante. La δίκη è allora un originario diritto che dispone, un aspetto del predominante nel cui stesso seno sorge il più inquietante degli essenti e la cui violenza consiste nelle procedure disvelative cioè nella τέχνη, nella provocazione all’apparire. Non è appunto una coesistenza pacifica, la δίκη è invece il luogo di cui la φύσις ha bisogno per apparire nella sua predominanza, è una coappartenenza nell’inimicizia quella di uomo e natura, 16  Ivi, p. 172; tr. it., p. 170. 17  Ivi, p. 140; tr. it., p. 140. 18  Ibidem.

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τέχνη e δίκη, un rimettersi dell’uno all’altro nel senso che l’uomo, il più inquietante, è necessitato a infrangersi sulla strapotenza dell’essere, gettato nella necessità di un essere che nella indiscussa predominanza ha bisogno di un luogo dell’accadere dell’apertura, del proprio svelamento: il varco dell’esistenza dell’uomo storico. Coerentemente con gli sviluppi delle riflessioni avviate negli anni della formazione giovanile e con il Natorp-Bericht, in cui propone l’audace lettura della τέχνη come primaria modalità disvelativa19, Heidegger nella Einführung mette al centro della Seinsfrage la questione della tecnica quale «modo di disvelamento» con tutte le conseguenze che il carattere di reciproca «remissione» comporta. L’uomo volontariamente attraverso la tecnica pro-duce all’apparire gli essenti nella forma di una pro-vocazione del venire all’essere. Al tempo stesso, come si è visto, la τέχνη è il rispondere dell’uomo all’appello dell’essere, il disvelamento ha dunque un carattere destinale. L’esistenza dell’uomo, il suo darsi storicamente è nel segno di una tecnica che nel solco tracciato dalla tradizione metafisica tenderebbe prometeicamente a prevaricare il predominante proprio perché oblia l’appello dell’essere connaturato al suo stesso strapotere e, privilegiando l’ente, finisce per compiere il cammino metafisico nella stazione della scienza-tecnica. Ma, come è noto, l’intento non è quello di negare l’essenza stessa dell’uomo, la sua storicità, ma di smascherare l’illusività dell’imposizione tecnica che sfocia nell’autoproduzione incondizionata. Come Heidegger espliciterà con chiarezza ne La questione della tecnica, intervento tenuto in occasione delle conferen-

19  Come si è sottolineato in precedenza al capitolo I, nel contesto di analisi e interpretazione delle cinque virtù dianoetiche dell’Etica Nicomachea condotte nel Natorp-Bericht, Heidegger giunge ad affermare che la tecnica è una primaria modalità disvelativa.

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ze di Monaco del 1953, la tecnica non può e non deve essere considerata un fato (Schicksal), un destino immodificabile della nostra epoca. In quell’occasione anzi, Heidegger indica la possibilità di essere insperatamente richiamati da un «appello liberatore» nel saper autenticamente aprirsi all’essenza della tecnica. Il pericolo della tecnica si profila quando l’uomo ne oblia la provenienza, dimentica il senso originario della tecnica che nell’antica ποίησις così intrinsecamente intrecciata alla φύσις «fa av-venire nell’apparire ciò che è presente»20. Qui infatti viene affermato con chiarezza che il pericolo, il dominio dell’imposizione non viene dalle macchine o dagli apparati tecnici che possono avere anche effetti mortali, ma ha le sue radici nel misconoscimento dell’origine della stessa im-posizione (Ge-stell), nell’incapacità di scorgere il disvelamento originario che lega in una stretta esiziale la violenza del predominante a quella del δεινότατον, dell’uomo che è il più violento perché ha il compito storico, aprendo il varco alla strapotenza dell’essere, di dar luogo al manifestarsi stesso dell’essere, come quasi un ventennio prima era già stato apertamente dichiarato nell’Einführung. Il pericolo risiede nell’oblio del rapporto di rimandi – rimandi antagonistici solo nella misura in cui la violenza è un luogo del far venire all’apparire l’essere –, un oblio che diviene minaccia quando «l’uomo si veste orgogliosamente della figura di signore della terra»21. Nel confluire insieme di cospicui sforzi antagonistici è da ricercare la medesimezza originaria di νοεῖν e εἶναι: l’unità di essere e pensiero è infatti attraversata dialetticamente dalla frattura, dal polemos insito nel pervenire all’essere, un evento strutturato nella relazione di predominante e attività violenta dell’uomo.

20  M. Heidegger, Vorträge und Aufsätze, GA 7, p. 28; tr. it., p. 21. 21  Ibidem.

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Appare evidente allora che la violenza è intesa in un modo diverso da quello ordinario, lo è in un quadro in cui all’ordine del predominante (δίκη) si erge di fronte la τέχνη, «l’attività violenta (Gewalt-tätigkeit) del sapere» e in cui «il reciproco rapporto fra le due costituisce l’evento dell’inquietante»22. All’insegna di questa violenza, dell’evento dell’inquietante, ha luogo l’apertura: «l’accadere della non-latenza»23, essa non è affatto risposta alla violenza di natura, ma è una modalità disvelativa in cui l’essere si manifesta nella sua strapotenza, è il luogo della ricomposizione dell’originaria coappartenenza di essere e pensare che solo nel varco dell’umana attività violenta dà luogo alla non latenza dell’essere.

2. Metafisica e violenza Come è stato opportunamente osservato, la coappartanenza tra pensiero ed essere è lo sfondo in cui «si fa strada il conflitto che Heidegger vede giungere all’estremo nell’epoca della tecnica»24. Nel generale contesto di discorso sull’accusa di violenza rivolta alla metafisica, la peculiarità della violenza è rintracciabile nel suo essere il modo decisivo in cui questa coappartenenza si dispiega. Una simile peculiarità viene riscontrata nella lettura heideggeriana del coro dell’Antigone in cui pur rilevando i rimandi reciproci del rapporto violento tra il più inquietante degli enti e il predominante, non si limita a vedere la reciprocità del rapporto violento. In tal senso sarebbe infatti possibile scorgere nell’interpretazione heideg22  M. Heidegger, Einführung in die Metaphysik, GA 40, p. 174; tr. it., p. 172. 23  Ivi, p. 176; tr. it., p. 173. 24  L. Samonà, Metafisica e violenza, in «Giornale di Metafisica», XXI, 1999, pp. 375-394: p. 384.

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geriana «la posizione trascendentale in cui viene a situarsi la violenza come modo della coappartenenza che struttura l’esserci dell’uomo»25. La coappartenenza di pensiero ed essere può allora essere addirittura indagata proprio a partire dalla modalità violenta dell’uomo che esistendo come il più inquietante mantiene aperto lo spazio per la svelatezza dell’essere e viene definito quale ente essenzialmente «Metafisico (e tecnico)»26, violento in quanto destinato ad attivare il predominante, a provocarlo lasciandolo manifestare come tale anche a proprio danno. L’esserci, strappato alla quiete del familiare e abituale e soggetto al destino di rovina e di morte, è adoperato (gebraucht) dall’essere che nel suo operare si manifesta, esposto al predominare dell’essere. La sola stessa esistenza dell’uomo – fuori dall’ordine, dal quieto dominio della natura –, libera la potenza occulta del predominante, sfida il suo incontrastato dominio. Il nodo fondamentale della questione su cui allora occorre soffermarsi è la posizione trascendentale della violenza che appare decisiva nel suo intreccio con la metafisica: il carattere trascendentale della violenza quale luogo del manifestarsi della coappartenenza che struttura l’esserci dell’uomo è la cifra dell’essere «metafisico e tecnico» dell’uomo stesso. L’essere metafisico dell’uomo consiste nella vocazione a oltrepassare l’ente, uno slancio che di fatto è necessitato verso ciò che è da sé e per questo domina sull’uomo e in cui al tempo stesso trova il varco del proprio manifestarsi. Il carattere metafisico del pensiero risiede proprio in questo movimento di oltrepassamento in direzione di ciò che è di per sé, da cui si determina il pensare. Il dominare assume un peso ontologico rivelato dall’etimo stesso del verbo Walten, che è il «dominare» della φύσις, il suo 25  Ivi, p. 385. 26  Ibidem.

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«valere» sopra ogni cosa non ancora dominata dal pensiero. Questo scontro tra il predominio dell’essere e la sfida del pensiero, la lotta disoccultante per fare emergere l’essere come il fondamento dell’ente stesso, è un argomento essenziale poi per mettere in discussione l’idea di un logos autoreferenziale il cui carattere escludente alimenterebbe l’accusa di una violenza annidantesi proprio al cuore delle radici dialogiche della metafisica. In accordo con questa prospettiva, potremmo in realtà affermare che la violenza, intesa come originaria dialettica di sforzi antagonistici, è un tratto necessario e caratterizzante radicato nel predominio dell’essere stesso che della violenza dell’uomo per manifestarsi ha bisogno. È proprio a partire da questo intreccio con la violenza prospettato dall’interpretazione heideggeriana che la metafisica si presenta non semplicemente come «un’opzione del pensiero occidentale, ma quale decisione necessaria, nel ‘primo inizio del pensiero’, per ciò che è primo, per ciò che si mostra da sé indipendentemente da ogni dimostrazione»27. Lo stesso carattere di predominanza che caratterizza lo strapotere dell’essere contro cui tale lotta si infrange rammenta l’argomento decisivo di ogni fondazione metafisica: la confutazione dello scettico che consente di mostrare per via confutatoria la cogenza del principio di non-contraddizione, un principio che si mostra come sempre già predominante nello spazio della dimostrazione; al tempo stesso nella τέχνη viene ravvisata una lotta del pensiero per strappare l’essere al suo occultamento nell’ente e farlo emergere per sé di contro a ogni ente come il fondamento dell’essere stesso. Il tema che ci sembra emergere in modo fruttuoso attraverso il confronto tra il richiamo alla questione di ciò che si mostra da sé indipendentemente da ogni dimostrazione e il discorso heideggeriano su tecnica e violenza, riguarda il modo fondamentale in cui la metafisica resta fedele 27  Ivi, p. 386.

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alla violenza originaria che manifesta spiegando qualcosa di fondamentale circa la violenza stessa. È proprio il tratto originario e costitutivo della metafisica che infatti si palesa attraverso l’idea che le forme di disvelamento si configurano come una lotta: il tratto violento della metafisica sembra dunque radicato da ultimo nel predominio dell’essere stesso. Se a fondamento dell’essere sta un principio che si mostra come sempre già predominante nello spazio della dimostrazione, la violenza che l’esserci esercita nelle forme del logos e della techne resta sempre dentro uno spazio non deciso dall’uomo. Quel che qui è in gioco riguarda la tecnica anche a partire dal tema esposto all’inizio di questo capitolo a proposito dell’interpretazione del frammento parmenideo e della recisa negazione heideggeriana nei riguardi del fraintendimento in un senso non greco di ogni lettura del rapporto tra noein ed einai per cui è il pensiero del soggetto a determinare ciò che l’essere è. Se, infatti, è comunque un tratto dell’accadere del disvelarsi dell’essere quello che situa dentro un ordine della dike tanto il violento predominante imporsi della natura quanto la violenza dell’uomo che sta al mondo – necessitato all’atto violento del disvelamento – è una vana illusione quella insita nel fraintendimento del frammento 5 di Parmenide in cui al soggetto si conferisce un potere di determinare il corso della physis. A partire dal sogno di dominare ciò da cui si è dominati si fa largo una storia della metafisica che oblia l’originaria formulazione della domanda sull’essere e mette al centro della scena l’uomo e le sue velleità di strappare l’ente al suo nascondimento per padroneggiarlo in ogni forma. Il lungo cammino di Heidegger, che muove dal tentativo di cercare di comprendere quando è avvenuta «la separazione di essere e pensare»28 e quando inizia la relativa illusione di dominio dell’umano sull’essere declina-

28  M. Heidegger, Einführung in die Metaphysik, GA 40, p. 155; tr. it., p. 153.

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to attraverso le forme di conoscenza29, giunge ne La questione della tecnica a giudicare insufficiente la concezione antropologico strumentale della tecnica e ogni visione di essa che muove dall’idea che sia il pensiero del soggetto a determinare il destino della physis nel senso delle prospettive meramente antropocentriche. Nel delicato passaggio della svolta avviene inoltre lo spostamento dell’accento heideggeriano dalla «comprensione dell’essere» all’«evento dell’essere» al di là di ogni iniziativa dell’uomo – il più violento in quanto metafisico – e si indaga su come emerga il fatto che l’essere stesso ha un particolare carattere di violenza. La violenza «conferma la sua posizione trascendentale»30 radicata nell’apertura del Dasein, attivata dalla iniziativa violenta dell’uomo che è però sempre e solo ciò che l’essere adopera (braucht) per affermare il suo strapotere. Il carattere di lotta, la battaglia di cui il Walten della physis ha bisogno per manifestarsi nella sua verità di permanente schiudentesi imporsi, fa pensare al carattere trascendentale del principio di non contraddizione attraverso un accostamento all’argomento della confutazione metafisica del principio stesso, che seppur ardito ha una notevole rilevanza speculativa. È la violenza come confluire di sforzi antagonistici radicata nel predominio dell’essere – al tempo stesso luogo del suo disvelamento –, che differisce dalla contesa eristica perché «orientata verso la cosa stessa e messo in moto a partire da essa»31. La posizione trascendentale della violenza che nella disvelatività del Dasein dà luogo al manifestarsi dello stabilmente predominante, non ha a che fare 29  A partire dai corsi giovanili sulle interpretazioni fenomenologiche di Aristotele si fa strada l’idea che episteme e techne siano tappe iniziali di una storia della volontà umana di padroneggiare l’ente, di conoscerlo per trasformarlo. 30  Cfr., L. Samonà, Metafisica e violenza, cit., p. 388. 31  Ivi, p. 390.

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con una catena inesauribile di rimandi in cui la violenza è banalmente in vista della non-violenza in un «fare economia della violenza», per usare le parole di Derrida, una violenza che predomina «su un’altra violenza e così la riduce»32. L’eliminazione della violenza non è affidata ad altra violenza di un logos che si impone al modo di una reductio ad unum risultante dall’esito vittorioso di una disputa eristica. Gli esiti della prepotente pretesa di imporre l’ordine del pensiero sull’essere, nella noncuranza di ogni considerazione critica per i limiti del pensiero stesso, sono quelli contro cui vengono scagliati gli strali polemici di più che legittime posizioni critiche nei riguardi di certa metafisica. In tal senso, il logos metafisico non può più apparire nella veste della pretesa identitaria33 di un ordine cui costringere il diverso. All’interno del pensare – un pensare il cui emblema diviene l’argomento dialettico antisofistico di Aristotele – compare allora un concetto di violenza che invece, proprio a partire dallo stesso Aristotele del De caelo34, la tradizione attribuisce all’idea di «causa esterna», di un movimento «contro natura» che devia dall’ordine e dalla regolarità. La lettura della dimostrazione confutatoria del principio nel senso qui descritto rigetta l’interpretazione di una opzione forzata per la metafisica in alternativa alla quale il ribelle è

32  Ivi, p. 378. 33  Leonardo Samonà rammenta come siano proprio la dialettica platonica e l’argomento antisofistico aristotelico, visti come “tentativo di sopraffazione” a diventare bersaglio polemico sia della critica adorniana dell’identico, che di quelle heideggeriana o gadameriana, o ancora del pensiero fenomenologico francese che rifiuta un’idea dialettica di totalità, rintracciata in tale tentativo, in nome di un concetto di alterità che a esso non si piega. Cfr. L. Samonà, Ritrattazioni della metafisica. La ripresa conflittuale di una via ai principi, ETS, Pisa 2014, p. 197. 34  Cfr. Aristotele, De caelo, Γ 2, 301a 5 ss. (tr. it., Il Cielo, a cura di A. Jori, Rusconi, Milano 1999).

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equiparato alla pianta e rilancia invece l’idea del peculiare decidere del semainein ti, della scelta per la determinatezza di senso come «decisione per ciò in cui già si è», nel cui contesto l’onere della prova consiste nel lasciar vedere che il sofista è da sempre «coinvolto» e implicato dal principio, si muove nel riferimento a esso. In quest’ottica, la violenza del sofista è quella che impedisce di vedere il tratto della violenza che è in vista dell’eliminazione di sé, in vista della non-violenza. L’uso eristico e capzioso della parola, la tecnica discorsiva animata da philonikìa non consente all’essere di manifestarsi, non è luogo della disvelatività nella misura in cui ostacola il riferimento all’unità dell’essere. La violenza del sofista resta imbrigliata nella dinamica di una lotta senza fine. La proposta non è che la filosofia eluda l’ineliminabilità del tratto violento, che peraltro è insito nella manifestatività della physis, se con Heidegger lo si ravvisa nella sua origine greca, ma che proprio la filosofia non intenda la verità come acquisizione definitiva e non si lasci mai contenere nell’idea di vittoria nella disputa dialettica: la confutazione del sofista rappresenta in questo senso il modello di un itinerario metafisico del pensiero in cui il passo compiuto da Aristotele è decisivo perché nell’esibire il tratto di conflittualità del domandare metafisico stesso mostra come la filosofia faccia inevitabilmente i conti con un tratto di violenza all’origine che non può essere ignorato; ma il carattere di vincolo del principio di non contraddizione cui è necessitato chiunque voglia stare dentro l’ordine del senso se vuole comprendere ed essere compreso dall’altro somiglia molto alla dike cui riportava il discorso heideggeriano sulla techne: non come legge imposta dall’uomo ma come disposizione conferita dal predominante al suo dominio35.

35  M. Heidegger, Einführung in die Metaphysik, GA 40, p. 169; tr. it., p. 167.

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3. Un varco per la violenza del predominante Lo scontro tra il predominio dell’essere e la sfida del pensiero ha il carattere dell’accadere storico, e il luogo o il varco di un tale accadere è il cammino tecnico-metafisico dell’uomo quale modalità disvelativa originaria. Alla luce di quanto detto mi pare interessante osservare come la posizione trascendentale della violenza nel più inquietante fra gli enti divenga un tratto necessario della lotta disoccultante per fare emergere l’essere come il fondamento dell’ente stesso, quella a cui Heidegger si riferiva a proposito del varco per il manifestarsi del predominante dell’essere. La presunta violenza della difesa aristotelica del principio, matrice epistemica di ogni accusa di logocentrismo violento, rivela come lo spazio in cui di necessità si muove chiunque corrisponda alla natura che gli è propria sia uno spazio in cui i due contendenti stanno nella stessa posizione rispetto al principio che massimamente esibisce la natura conflittuale del pensiero. Un pensiero capace allo stesso tempo di discriminare cioè di rendere discernibili le differenze, nella misura in cui instaura l’eguaglianza rispetto a sé delle posizioni opposte. Parla se sei un uomo, significa che se si è uomini, e non piante, dare un significato determinato alle parole pronunziate non è un’opzione metafisica, ma una decisione per ciò in cui già si è: significa muoversi nello spazio della dimostrazione che il logos apre lasciando apparire il predominante. Allora, il riottoso sofista o il più radicale degli scettici va condotto con la bia, con la forza, perché la potenza del logos da lui evocata sta fuori dall’ordine della δίκη a cui Heidegger si richiama: gli antìlogoi del sofista non si ergono di fronte all’ordine del predominante (δίκη) come τέχνη, come «l’attività violenta del sapere»36 in cui il reciproco rapporto fra le due costituisce l’even­to del manifestarsi dell’essere. Sono loro a far uso scorretto della forza

36  Ivi, p. 174; tr. it., p. 172.

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del logos giocando d’astuzia con le parole, barando con il semplice ònoma in luogo del pragma, ma soprattutto sprigionando l’insensata violenza consistente nella potenza di dire i contrari, che è disinteressata a qualunque riferimento a ciò che è indipendentemente da ogni dimostrazione. Il più inquietante, l’unico fra gli enti che per Heidegger può dar luogo all’accadere storico del manifestarsi dell’essere attraverso il tratto violento della tecnica, lascia apparire il predominante primariamente nell’aprire lo spazio del lògos quale situarsi nella manifestatività attraverso un atto libero. L’accadere storico della manifestatività dell’essere non può essere pensato al modo di una serie di atti in cui a violenza si oppone altra violenza. La aristotelica proaìresis tou bìou37 è una scelta di vita in vista della disvelatività, una scelta che si contrappone radicalmente allo sfidare in una spirale di violenza la verità della physis provando a occultarne lo spazio di riferimento cui l’uomo stesso per natura è vincolato. La libertà è il tratto distintivo di un ente che può allora situarsi in modo peculiare anche rispetto alla violenza che pure è apparsa nel suo carattere ineliminabile, radicato nell’originaria coappartenenza di pensiero ed essere. Il dispositivo della dimostrazione per via confutatoria, in cui l’avversario del principio nell’atto di negarlo ne compie la petizione, è il corrispettivo di una metafisica che esibisce il tratto intimamente dialettico di una libertà che non può mai essere emancipazione dal legame, ma che al contrario nel carattere necessario e vincolante di un principio inaggirabile, trova, forse, il più saldo baluardo della libertà. All’interno della visione aristotelica in cui gli enti naturali si muovono in direzione del compimento del proprio fine, l’in37 Aristot., Met., Γ, 1004b 24-25.

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clinazione deterministica assume un carattere particolare in un ente naturale che può liberamente decidere se corrispondere alla propria natura, quella di animale pensante. L’uomo che compie la scelta di vita di dare significato determinato a ciò che dice, di non essere simile a una pianta sceglie in un certo senso di non soggiacere alla violenza che pur alla natura stessa appartiene. Sulla scorta della riflessione circa il tratto del pensiero che si sperimenta sempre come possibilità di muoversi liberamente verso ciò che lo vincola, verso la propria stessa provenienza, vale allora la pena di ricordare che per Aristotele la scelta di assumere fino in fondo il pensare nel contesto del riferimento alla determinatezza di senso affonda le sue radici nella dialettica paradossale e drammatica di necessità e libertà all’interno della vita umana. La natura dell’uomo consiste in un rapporto di reciprocità, nel suo essere pensanteparlante e nello stare all’interno di una comunità: chi non sta all’interno di una comunità infatti o è una fiera, dunque è soggetto a necessità e violenza, o è immune dalla violenza stessa, cioè è un dio. L’uomo può sottrarsi alla violenza della natura implicata dal movimento che caratterizza gli enti naturali nel riferimento alla propria capacità di essere naturale capace di esperire la dialettica tra ciò che si muove e l’immutabile. L’esperienza del divino, l’essere talvolta nella condizione in cui il dio si trova sempre è quella del pensiero. La vita della mente è la vita che l’uomo sceglie per disappropriarsi della natura violenta che pur gli è connaturata in vista del tentativo di assimilazione del tratto divino che c’è nell’umano. Il pensiero che cela al suo interno il contrasto tra mutevole ed eterno si consegna all’uomo come scelta. Quando si sceglie di disambiguare il discorso, quando si nega che una parola possa avere infiniti significati si coglie il riferimento del molteplice all’unità. L’uomo incontra le cose nel discorso e non al di fuori di esso, accettare di dare un significato determinato a ciò che si dice, significa muoversi liberamente e nel rispetto della plura-

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lità, ma collocandosi nell’orizzonte di un comune riferimento. Anche per questo Aristotele, nella Politica, nega che la libertà sia fare come a ciascuno piace, ma definisce oggetto di scelta il corrispondere a un vincolo necessitante. Il dialogo con sé e con altri, la comunicazione come κοινωνία hanno come fondamento l’unità dell’essere esperita proprio nel discorso stesso: l’essere si dice (λέγεται) in molti modi, ma tutti in riferimento a una realtà determinata che è la sostanza. L’avversario del principio assertore della molteplicità dei significati38 non viene persuaso a cooperare in vista della verità, ma è suo malgrado piegato al riferimento all’unità dell’essere, al significato da cui tutti gli altri dipendono, fa esperienza del paradosso implicato dalla libertà di muoversi in ciò in cui già si è. La lunga digressione che abbiamo appena compiuto sul carattere conflittuale del principio va ora considerata in relazione all’accadere del disvelamento dell’essere come evento violento che ha luogo nel varco aperto dall’umano. La tesi radicale e sorprendente di Introduzione alla metafisica, come ha sottolineato Rudolph Boehm39, è quella che la techne costituisce l’ori­gine del pensiero. In realtà per il lettore del Natorp-­ Bericht, in cui nella tecnica si scorgeva una delle principali modalità disvelative, questa idea non desta troppa meraviglia. Va anche detto che Introduzione alla metafisica si colloca in una fase in cui da tempo è avviato il percorso che vede nel pensiero presocratico il luogo aurorale nel quale scorgere l’origi38 Aristot., Met., Γ, 1003b 27. 39  Cfr. R. Boehm, Pensée et technique. Notes préliminaires pour une question touchant la problématique heideggérienne, in «Revue internationale de philosophie», XIV, n. 52, 1960, pp. 194-220, in part. p. 195. Bohem mostra che nell’Introduzione alla metafisica Heidegger interpreta la tecnica dei filosofi ionici come una attività che produce una apertura radicale dell’essere, sostenendo che essa è sempre presente come fondo del pensiero filosofico occidentale.

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naria manifestatività dell’Essere, mentre Aristotele e Platone sono a pieno titolo collocati dentro quella storia della metafisica che ne avrebbe obliato la domanda. Dunque, per Heidegger il principio di non contraddizione resta confinato dentro l’ottica di un pensiero che pretende di determinare l’essere, e questo malgrado il fatto che proprio la dimostrazione per via confutatoria provi che tale è la postura di pensiero del sofista e non del filosofo. Del resto, se per un momento torniamo al coro dell’Antigone e al modo in cui Heidegger definisce l’inquietante, cogliamo un aspetto che definisce tanto la violenza del gesto umano che con la techne prova a sfidare la physis, quanto una possibilità grazie alla quale l’essente si schiude. Un primo modo d’intendere l’inquietante è infatti l’esercizio della violenza in cui consiste la techne dell’uomo, essa è una forma di sapere che fa si che l’essere si metta in opera negli essenti, è il «porrein-­opera aprente realizzare l’essere nell’essente»40; il secondo modo di intendere l’inquietante è quello che si riferisce alle forze prorompenti (Überwaltigend) della natura, una prorompenza del predominante che, come si diceva innanzi, si manifesta attraverso il termine dike, la cui traduzione con giustizia (Gerechtigkeit) è apertamente ricusata da Heidegger, che afferma di privilegiare il termine «ordine, diritto» (Fug), intendendola perciò come «disposizione (Fügung), come mandato (Weisung) conferito dal predominante al suo dominio»41. Lo scontro fra techne e dike è l’opposizione tra «l’atto violento del Dasein greco e la “strapotenza dell’Essere” (Überwalt des Seins)»42. Il dischiudimento dell’essere come physis è al tempo stesso «raccolta originaria, λόγος, è l’ordine che dispo40  M. Heidegger, Einführung in die Metaphysik, GA 40, p. 169; tr. it., p. 167. 41  Ibidem. 42  Y. Hui, Cosmotecnica, cit., p. 71.

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ne: δίκη»43. Tale contrapposizione mette l’essere in opera negli essenti ed è così che la prorompenza delle forze dell’essere «si liberano mettendosi in opera come storia»44. Appare dunque perciò sempre più chiaro che la tecnica come potere dell’uomo di strappare l’ente dal velamento è pensabile solo in relazione a un ordinamento della dike, in cui in realtà la techne si realizza come inveramento della storia (Als Geschichte). L’accadere storico epocale dell’essere non è riducibile a prodotto di attività umane, d’altra parte nell’accadere storico temporale l’essere come evento mantiene uno strutturale riferimento all’uomo. Sembra che la via indicata da Heidegger già a partire dall’Introduzione alla metafisica sia quella di intendere la tecnica come un elemento che si sottrae all’uomo, un accadere del disvelamento in ciò che viene sperimentato tecnicamente. La tecnica è dunque intesa come l’evento di appropriazione tra l’essere e l’uomo.

43  M. Heidegger, Einführung in die Metaphysik, GA 40, p. 169; tr. it., p. 168. 44  Ivi, p. 172; tr. it., p. 170.

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IV Quale Weltbild per la scienza contemporanea: la tecnica come accadere storico dell’essere

1. La tecnica come oggetto di meditazione storica Le riflessioni di Heidegger sulla tecnica negli anni successivi alla kehre non possono non essere comprese appieno se non in riferimento alla coappartenenza reciproca fra uomo ed essere rappresentata dall’Ereignis: dall’evento come momento di appropriazione di ciò che è proprio1, che connota in senso storico-temporale ed epocale il rapporto uomo-essere, l’uomo è l’unico ente che si rapporta all’essere2 e l’essere nel suo accadere e dispiegarsi storico si dà nell’aperturalità del Dasein. L’evento chiama in gioco il vincolo strutturale tra svelatezza e nascondimento: la questione dell’essere viene ripensata riconfigurando la dinamica fra disvelatezza e nascondimento a partire dal rapporto con il problema della storia e del tempo. Dopo la Kehre, la questione della temporalità e della storicità dell’essere non è posta come mera prosecuzione dei risultati dell’analitica esistenziale, ma nell’ottica di un riorientamento 1  Cfr. M. Heidegger, Beiträge zur Philosophie. (Vom Ereignis), GA 65; tr. it. di F. Volpi e I. Iadicicco, Contributi alla filosofia. (Dall’Evento), Adelphi, Milano 2007. 2  Si intende qui i diversi modi di rapportarsi all’essere: al proprio essere, a quello degli altri enti, all’essere in generale.

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complessivo dell’indagine sulla verità dell’essere. La storia ha un rilievo decisivo per l’indagine filosofica se intesa, non come oggetto dell’indagine storiografica, bensì come un accadere (Geschehen), come fenomenicità storica dell’essere, cioè del modo in cui l’essere come evento si manifesta, si dà (es gibt). Il fenomeno dell’essere, il come del suo manifestarsi nell’epoca attuale, è la tecnica insieme alla scienza con cui si presenta saldamente intrecciata; ciò che è però decisivo dal punto di vista di Heidegger è il fatto che questo fenomeno non è messo a tema come oggetto di considerazione storiografica ma di meditazione storica3, nella misura in cui l’obiettivo è quello di esplicare la metafisica che sta alla base della scienza e della tecnica. È dunque riferendosi a questa distinzione che va compresa la ricerca sull’essenza della tecnica. La volontà heideggeriana di oltrepassamento della concezione antropologico-strumentale della tecnica non si risolve in una mitopoiesi della tecnica quale fatale destino cui rassegnarsi, né tantomeno nel suggerimento di farsi complici di un incontrollato avanzare della tecnica stessa. Nel dialogo di Heidegger con Heisenberg in occasione del ciclo di conferenze su Le arti nell’età della tecnica emerge il tratto della tecnica inteso sotto il profilo dell’«accadere storico» nella sua distinzione essenziale dalla «osservazione storiografica», un tratto che, come si diceva, appare decisivo per la riformulazione della Seinsgeschichte, e che, pur lasciando irrisolta la questione controversa del ruolo dell’umano nei riguardi della tecnica, consente uno sguardo rinnovato sulla collocazione dell’uomo in un mondo in cui l’uomo stesso non ha alcun titolo a pensarsi come padrone degli altri enti.

3  Sulla distinzione fra «considerazione storiografica» (historische Betrachtung) e «meditazione storica» (geschichtliche Besinnung), cfr. M. Heidegger, Grundfragen der Philosophie, GA 45, p. 88.

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L’esigenza di una radicale assunzione del carattere storico di ogni comprendere, sorta nella riflessione filosofica di Heidegger, si manifesta nel passaggio da Sein und Zeit ai saggi degli anni successivi, in cui il superamento della metafisica è accolto insieme al carattere storico della comprensione. La posizione di Heidegger nei riguardi della tecnica, lungi dal poter essere sommariamente liquidata come antiscientifica e antimoderna, in Die Zeit des Weltbildes rivela la convinzione, già a quel tempo consolidata nel pensiero heideggeriano, che la storia dell’essere nella modernità sia anzitutto storia della scienza e della tecnica e che la metafisica trovi il suo compimento nella tecnica. Indagare il senso dell’essere è al tempo stesso ripensare la storia del suo determinarsi ripercorrendo le tappe del sapere scientifico in epoca moderna. La scienza d’età moderna è agli occhi di Heidegger una rappresentazione esplicativa, in cui l’oggettività dell’ente ricercato è assicurata dal porre-innanzi (vor-stellen) dell’uomo calcolatore e la verità coincide con la certezza del rappresentare: Questa oggettivizzazione dell’ente si compie in un rappresentare, in un porre-innanzi [vor-stellen] che mira a presentare ogni ente in modo tale che l’uomo calcolatore possa esser sicuro [sicher] cioè certo [gewiss] dell’ente. La scienza come ricerca si costituisce soltanto se la verità si è trasformata in certezza del rappresentare.4

L’essere dell’ente è cercato e individuato nell’esser rappresentato dell’ente stesso, e questa trasformazione dell’ente nel suo insieme accade quando l’uomo diviene «quell’ente in cui ogni ente si fonda nel modo del suo essere e della sua verità. L’uomo diviene il centro di riferimento dell’ente come tale»5. Il costituirsi dell’uomo a primo e autentico subiectum inaugu-

4  M. Heidegger, Holzwege, GA 5, p. 87; tr. it., p. 84. 5  Ivi, p. 88; tr. it., p. 86.

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ra la metafisica dell’equivalenza tra verità e certezza del rappresentare, e la sfida ad assicurarsi l’oggettività del vero ricade all’interno di un «gioco reciproco necessario di soggettivismo e oggettivismo»6. La pretesa oggettività della scienza è dunque il correlato necessario del soggettivismo d’età moderna, è la conseguenza inevitabile del portare la semplice presenza dell’ente innanzi al soggetto quale principio di ogni misura. Se ogni cosa è condotta innanzi a colui che rappresenta, l’uomo, che decide della «scena in cui l’ente non può che rappresentarsi, presentarsi, cioè esser immagine», diviene allora «il rappresentante dell’ente risolto in oggetto»7. È in questo senso che la comparsa del subiectum al centro della scena della filosofia dell’età moderna è una delle tappe decisive dell’insignorirsi del mondo8 attraverso la ricerca pianificata e la tecnica. La smania dell’oggettività secondo Heidegger si estende a tutti i saperi, in Die Zeit des Weltbildes vengono collocate in realtà anche le scienze dello spirito sotto la categoria generale della ricerca pianificata e assicurante: Il conoscere come ricerca vuol che l’ente renda conto del come e del quanto della sua disponibilità per la rappresentazione. La ricerca decide dell’ente sia calcolandone anticipatamente il corso futuro sia completandone il corso passato. Nel primo caso è, per così dire, posta [gestellt] la natura, nel secondo, la storia. Natura e storia divengono oggetti di una rappresentazione esplicativa. Questa conta sulla natura e fa i conti con la storia. Solo ciò che diviene così oggetto [Gegenstand] è [ist], vale come essente. La scienza diviene ricerca.9

6 Ivi, p. 88; tr. it., p. 85. 7  Ivi, p. 91; tr. it., p. 93. 8  Ivi, p. 94; tr. it., p. 99. 9 Ivi, p. 87; tr. it., p. 83.

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La riduzione del mondo a immagine che caratterizza l’età moderna esige un ripensamento che investe l’intero ambito dei saperi. L’ente divenuto oggetto di rappresentazione per Heidegger in qualche misura perde il suo essere: ciò che accade è definito nei termini di uno svuotamento ontologico legato a un giro di vite della metafisica compiuta, in cui, il soggetto che conosce, nella veste dello scienziato, riconduce il mondo a un sistema generale di cause ed effetti disponendo di esso in modo totale. La perdita d’essere conseguente al divenire rappresentazione, come l’ermeneutica filosofica contemporanea ha il merito di avere debitamente sottolineato, non è «solo un affare della ragione teoretica»10: l’assicurazione sul reale, infatti, affonda parallelamente le sue radici nel processo di secolarizzazione innescato in età moderna. Con l’affrancamento dall’autorità divina si consolida infatti l’essenza pratica del dominio e si fa più radicale la perdita d’essere insita nella rappresentazione: Accade infatti che là dove l’ente sia divenuto oggetto della rappresentazione, perda in certo modo il suo essere. Anche se oscuramente e incertamente questa perdita è avvertita e, perciò, rapidamente surrogata mediante l’attribuzione all’oggetto, e quindi all’ente interpretato come oggetto, di un valore; con la conseguenza che l’ente ha il suo criterio nei valori, i quali a loro volta divengono i fini ultimi di ogni attività. Poiché l’attività è intesa come cultura, i valori divengono valori culturali e come tali assunti a supremi fini dell’agire che tende all’autoassicurazione dell’uomo come subiectum. Ancora un passo e i valori diverranno essi stessi oggetti in sé. […] Il valore sembra attestare che, rapportandosi ad esso, non è che l’inutile e consunto sipario dietro cui si nasconde la piatta e superficiale riduzione dell’ente a oggettività.11

10  G. Vattimo, Oltre l’interpretazione, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 33. 11  M. Heidegger, Holzwege, GA 5, pp. 100-102; tr. it., pp. 87-88, nota 6.

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Con l’età moderna «il mondo diviene immagine e l’uomo su­ biectum» in un intreccio che Heidegger definisce «quasi assurdo»: quanto più l’uomo conquista il mondo e lo rende disponibile a sé imponendosi soggettivisticamente, tanto più l’«oggetto si rivela oggettivo»12. L’imporsi dell’antropologia filosofica umanistica, che spiega e valuta l’ente a partire dall’uomo e in vista dell’uomo, culmina nel Settecento con il costituirsi del mondo a immagine, con la tendenza a intendere la propria posizione di «ente che vale come regola e canone per ogni ente»13, come Weltanschauung. Il mondo è risolto in immagine. Il tratto caratterizzante la modernità è per Heidegger la lotta per la conquista di tale posizione, il rapportarsi all’ente prende la forma del confronto tra diverse visioni del mondo, e la scienza, quale dispiegarsi della potenza illimitata del calcolare, pianificare e controllare tutte le cose, appare come la massima espressione di quello che, come ricordavamo innanzi, Heidegger icasticamente definisce insignorirsi del mondo14. La storia degli effetti di una simile tendenza a costruire immagini del mondo come una lotta in cui il mondo stesso è raffigurato in relazione alla posizione dell’uomo in seno all’ente, assume un ruolo importante negli anni successivi dell’itinerario speculativo heideggeriano, volto a indagare l’essenza nascosta della tecnica moderna.

12  Ivi, p. 93; tr. it., p. 97. 13  Ivi, p. 94; tr. it., p. 99. 14 Cfr. ibidem.

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2. I limiti dell’antropologia: Heidegger e Heisenberg a Monaco Nel XX secolo il mutamento dell’immagine scientifica del mondo, stravolta dai due rivolgimenti epocali rappresentati dalla teoria della relatività e dalla meccanica quantistica, mette come è noto di fronte a un rinnovato sguardo sulla natura in ragione del rapporto con la tecnica, il cui progresso peraltro nel frattempo si è reso incomparabile con quanto accaduto in epoche precedenti. In controtendenza con il proliferare di visioni antropocentriche più o meno direttamente legate al senso di onnipotenza dovuto all’accelerazione del progresso, in occasione delle conferenze Die Künste in technischen Zeitalter15 organizzate e poi pubblicate dalla Bayerische Akademie der Schönen Künste, tenutesi a Monaco nel 1953, Heidegger sviluppa il tema della tecnica in una direzione già tracciata prima in Die Zeit des Weltbildes e poi nel Brief über den «Humanismus»; una direzione sempre più decisamente volta al superamento dei limiti di ogni visione antropologica. L’«insofferenza» heideggeriana nei confronti dell’inadeguatezza dell’antropologia, incapace di individuare l’essenza dell’umano16, concorre dunque a delineare una posizione molto diversa rispetto a quella espressa nella medesima occasione da Werner Heisenberg. La conferenza di Heidegger, Die Frage nach der Technik, si apre appunto col confronto diretto sui temi dell’intervento del celebre fisico, di cui di seguito ripor-

15  Die Künste im technischen Zeitalter, a cura della Bayerischen Akademie der Schönen Künste, Oldenbourg, München 1953. 16  M. Heidegger, Holzwege, GA 5, p. 111; tr. it., p. 98, nota 10: «L’antropologia è quell’analisi dell’uomo che, in fondo, già sa ciò che l’uomo è, e quindi non può porsi il problema di che cosa esso sia. Se si ponesse questo problema, essa dovrebbe infatti riconoscersi rovesciata e oltrepassata. Ma come si potrà esigere questo dall’antropologia, quando essa non si propone altro che l’assicurazione dell’autocertezza del subiectum?».

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tiamo i principali spunti teorici. Heisenberg esordisce nella propria conferenza Das Naturbild der heutigen Physik proprio sottolineando la radicalità del mutamento di sguardo che la tecnica ha comportato: La posizione del nostro tempo nei confronti della natura non si esprime, come nei secoli passati, in una filosofia della natura completamente sviluppata, bensì è ampiamente determinata dalla scienza della natura e dalla tecnica moderne.17

La conferenza prosegue poi rammentando, attraverso una ricognizione storico culturale, come già nei secoli XVIII e XIX i territori discosti della natura risultassero praticabili esclusivamente attraverso la mediazione della tecnica «che si veniva sviluppando in relazione con la scienza»18, la quale via via marciava trionfalmente fin dentro questi territori mediante i sempre più complicati strumenti che la tecnica stessa metteva a disposizione. Nel XIX secolo però la descrizione scientifico oggettiva della natura, osservata «come un decorso conforme a leggi nello spazio e nel tempo», viene ancora pensata come tale «a prescindere dall’uomo e dal suo intervento»19. Heisenberg definisce l’immagine del mondo della scienza ottocentesca «eccessivamente semplicistica»: si tratta ancora di un meccanicismo materialistico che in continuità con il XVIII secolo interpreta e organizza le esperienze chimiche sulla base di un modello di concezione della natura che è ancora quello offerto dall’ipotesi atomistica dell’antichità. Il modello materialista era già entrato in crisi con l’introduzione del concetto di «campo di forze» nei primi sviluppi dell’elettrologia, ma

17  W. Heisenberg, L’immagine della natura nella fisica contemporanea, in M. Heidegger et al., Le arti nell’età della tecnica, a cura di M. Guerri, Mimesis, Milano 2001, pp. 29-41: p. 29. 18  Ivi, p. 30. 19  Ivi, p. 31.

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l’atomo perde la veste metafisica di elemento ultimo della materia con gli sviluppi della fisica atomica a cui, come si sa, Heisenberg da un contributo decisivo con la teoria dei quanti. La conferenza di Heisenberg mette in luce l’implicazione reciproca di scienza e tecnica già annunciata nella scienza moderna, ma sottolinea come la tecnica sia stata e sia al tempo stesso presupposto e conseguenza della scienza: quest’ultima è resa possibile dal sempre più crescente perfezionamento degli strumenti di osservazione, a sua volta la tecnica è resa possibile dalla sempre più approfondita conoscenza «del relativo campo di esperienza»20. Dal punto di vista filosofico l’altra conseguenza rilevante discende dal fatto che conoscere il comportamento del modo in cui esistono le particelle elementari21 non può assolutamente più prescindere dal come giungiamo a conoscerle: Non è più possibile dunque parlare del comportamento delle particelle a prescindere dal processo di osservazione. Questo comporta come conseguenza che le leggi naturali, che noi formuliamo matematicamente nella teoria dei quanti, non si riferiscono più alle particelle in sé bensì alla conoscenza che noi abbiamo di esse. La questione se queste particelle ‘in sé’ esistano nel tempo e nello spazio non può più essere posta in questa forma, dato che noi possiamo parlare sempre e solo dei processi che avvengono quando vogliamo dedurre il comportamento della particella dall’interazione fra essa e un qualche altro sistema fisico, per esempio un sistema di misurazione. La rappresentazione [Vorstellung] della realtà obiettiva delle particelle elementari si è quindi sorprendentemente dissolta non nella nebbia di una qualche nuova, oscura o ancora poco compresa rappresentazione della realtà, ma nella trasparente 20  Ivi, p. 34. 21  Heisenberg in ogni caso sottolinea come porre la questione in termini di realtà obiettiva delle particelle elementari rappresenti una semplificazione grossolana.

114 chiarezza di una matematica che presenta [darstellt] non più il comportamento della particella elementare, bensì la nostra conoscenza di questo comportamento.22

La fisica atomica mette dunque gli scienziati nelle condizioni di rassegnarsi a considerare la propria scienza troppo umana perché possa pretendere di parlare «della natura in sé»23. Oltre a esplicitare questo, Heisenberg osserva come la questione sia direttamente collegata al progressivo intensificarsi dei rapporti fra scienza e tecnica. Quest’ultima, infatti, soprattutto negli ultimi duecento anni, ha reso possibili progressi scientifici impensabili senza gli strumenti sempre più sofisticati da essa messi a disposizione. Al tempo stesso, rammenta Heisenberg, almeno fino al XIX secolo l’avanzamento tecnico avviene sulla base dell’approfondimento scientifico e del relativo campo di esperienza (Erfahrungsfeld)24. È con gli sviluppi dell’elettrotecnica nella seconda metà del XIX secolo che inizia un processo di sfruttamento di forze finora «sconosciute all’umana esperienza immediata»25, che si attesterà compiutamente nel XX secolo con la fisica atomica, in cui è coinvolto lo sfruttamento di forze naturali non accessibili al mondo della esperienza naturale. Facendo osservare che nonostante la tecnica abbia trasformato profondamente la nostra esperienza quotidiana e la nostra Umwelt, popolata di oggetti tecnici destinati forse ad appartenere all’uomo quanto il guscio alla lumaca o la tela al ragno, Heisenberg nota come non per questo gli oggetti tecnici entrino a far parte del mondo della natura. Questa sottolineatura quasi pleonastica in realtà prelude a una questione cru-

22  Ivi, p. 33. 23  Ibidem. 24  Cfr. ivi, p. 34. 25  Ibidem.

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ciale: la capillare penetrazione della tecnica in tutti i settori dell’esistenza e le conseguenti trasformazioni del mondo circostante in un certo senso generano una sorta di oblio rispetto al fine generale del progresso tecnico, che è quello di «estendere la potenza materiale dell’essere umano»26. Sebbene sia infatti semplice ricondurre la ratio essendi di ogni singolo oggetto tecnico nella sua subordinazione all’originario fine comune, alla volontà di potenziare le capacità umane, il singolo processo tecnico è in modo caratteristico così indirettamente connesso al «valore di tale fine» che la tecnica non appare più nella sua costitutiva essenza. La tecnica è vista sempre più frequentemente come «un processo biologico [biologischer Vorgang] in grande, in cui le strutture dell’organismo umano sono trasferite in misura sempre crescente nel mondo circostante; un processo biologico, dunque che, proprio in quanto tale, è sottratto al controllo umano»27. Tale affermazione sembra far rientrare la tecnica in un processo biologico inconsapevolmente orientato nel senso del potenziamento dell’organismo umano28. Attraverso il paragone con il «processo biologico» la tecnica è intesa come un potenziamento della natura, ma non come fenomeno che trascende l’umano, semmai come fatto talmente umano da sfuggire al controllo degli stessi uomini. Heisenberg, infatti, giunge ad affermare che «l’uomo può fare sì ciò che vuole ma non volere ciò che vuole»29. La naturalità della tecnica e la tecnicità del naturale, quest’ultima ampiamente rappresentata dal modo in cui la fisica con26  Ivi, p. 35. 27  Ibidem. 28  Secondo Chiodi qui Heisenberg cadrebbe in una sorta di determinismo biologico, dopo aver così fortemente contribuito alla dissoluzione di quello meccanicistico: cfr. P. Chiodi, Il problema della tecnica in un incontro fra Heidegger e Heisenberg, in «aut aut», n. 32, 1956, pp. 87-108, in part. p. 107. 29  W. Heisenberg, L’immagine della natura, cit., p. 35.

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temporanea incontra la natura, infatti, sono ricondotte e prese in considerazione a partire dal posto occupato dall’uomo nel mondo. Dunque, in definitiva la naturalità della tecnica è legata alla umanità della tecnica stessa. Il rinnovato modo di guardare al rapporto con la natura e di intendere la «scienza della natura» del mondo attuale, descritti nella conferenza di Heisenberg, hanno anche un’altra conseguenza decisiva che porta il fisico ad affermare che tanto nell’esistenza pratica quanto nella scienza della natura «l’uomo incontra solo se stesso»30. Mentre, infatti, in una fase lontana nel tempo, l’esistenza dell’uomo era necessitata a dover fronteggiare le forze della natura, nelle successive epoche dell’espansione della tecnica gli enti incontrati sempre in maggior numero dall’uomo sono quelli da lui stesso prodotti: l’uomo ha successivamente così tanto trasformato il mondo da imbattersi, più frequentemente che con la natura stessa, in enti artificiali e in macchine di uso quotidiano da lui stesso fabbricate. Anche la scienza e la fisica atomica vanno comprese dentro una riconsiderazione del rapporto fra l’umano e il naturale in un contesto in cui diviene priva di senso la domanda su elementi costitutivi ultimi della materia intesi come una realtà oggettiva estranea al modo sperimentale di porre la questione. Oggetto di ricerca della scienza naturale è la natura esposta al modo umano. Il mutamento epistemologico che la teoria quantistica ha recato con sé appare ancora più chiaro con il fatto che una volta espressa in formule matematiche ha messo di fronte all’evidenza che queste ultime non raffigurano la natura, ma la conoscenza umana della natura. La messa in crisi comportata dalla rinunzia al modo abituale di descrivere la natura si riflette anche nella disparità di interpretazioni filosofiche della 30  Ivi, p. 37.

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teoria dei quanti, una sorta di imbarazzo ermeneutico inteso da Heisenberg come resistenza verso una nuova forma di descrizione della natura, la cui difformità dal precedente ideale scientifico di verità genera un senso d’incertezza visto come segno di una crisi dei tempi. Ricusando apertamente la visione cartesiana del mondo suddiviso in un decorso oggettivo nello spazio e nel tempo da una parte, e l’anima in cui questo decorso si riflette dall’altra, Heisenberg ritiene che se di immagine della natura (Naturbild) si possa parlare per la odierna scienza naturale è nei termini di una immagine delle nostre relazioni con la natura. Questo modo di impostare la questione non significa affatto sottovalutare l’affidabilità delle scienze naturali, ma intendere la verità scientifica in una cornice ermeneutica che esclude la tendenza alla «oggettivazione [Objektivierung] del processo naturale»31, prendendo atto della interconnessione reciproca tra osservatore e osservato. Il metodo scientifico reca con sé la consapevolezza della scienza del fatto che il proprio intervento modifica e trasforma il suo oggetto. Da questa prospettiva discendono conseguenze di non poco conto come l’ammissione dell’impossibilità di puntare alla conoscenza scientifica come professione di fede vincolante per il comportamento nella vita. Ne consegue un nuovo Weltbild della scienza della natura che cessa «di essere scientifico naturale in senso proprio»32, di autointerpretarsi quale «spettatrice» di una natura che le sta di fronte, per riconoscersi come parte di un reciproco interscambio fra uomo e natura. La conferenza di Heisenberg sembra, dunque, sulla scorta della consapevolezza che l’uomo non fa che incontrare se stes-

31  Ivi, p. 39. 32  Ivi, p. 40.

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so, voler porre l’accento sulla tecnica come strumento in vista di un ordine fondato sulla coscienza del limite. Il discorso del fisico, muovendo proprio dall’idea della scienza quale descrizione dell’intervento dell’osservatore nel mondo e non più «rappresentazione della struttura della sostanza», suggerisce che i risultati della scienza stessa vadano compresi nel legame con la tecnica e sulla base della relazione tra uomo e natura che l’osservazione instituisce. È proprio su questo punto che diverge, ma in fondo solo in parte, la posizione di Heidegger. Egli definisce un’ingannevole illusione l’idea che «l’uomo dovunque non incontri più altri che se stesso», un’idea dovuta all’apparenza «che tutto ciò che si incontra sussista solo in quanto è un prodotto dell’uomo»33; concedendo che «con piena ragione Heisenberg ha fatto notare che all’uomo di oggi il reale non può che presentarsi in questo modo», egli esprime la propria distanza da una prospettiva che rimane antropologica e giunge peraltro ad affermare che «in realtà tuttavia proprio se stesso l’uomo di oggi non incontra più in alcun luogo; non incontra più, cioè, la propria essenza»34.

3. Quale risposta all’appello dell’essere nella tecnica? Esaminiamo dunque più nel dettaglio le ragioni sottese a una così risoluta visione di decentramento dell’umano, che come a

33  M. Heidegger, Vorträge und Aufsätze, GA 7, p. 28; tr. it., p. 21. 34  Ibidem. Sull’«ingannevole illusione» di incontrare sempre e solo se stesso nei prodotti della tecnica e più in generale sul confronto fra Heisenberg e Heidegger, cfr. C.F. von Weizsäcker, Heisenberg und Heidegger über das Schöne und die Kunst, in Id., Wahrnehmung der Neuzeit, Hanser, MünchenWien 1983, pp. 147-170: p. 168.

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breve si vedrà, non per questo esime l’uomo stesso dalla possibilità di porsi correttamente nei riguardi della tecnica. Le ragioni sono note e si inscrivono nel quadro della domanda ontologica fondamentale sempre aperta sin dal tempo di Sein und Zeit, in cui è stata formulata compiutamente per la prima volta: la questione della tecnica va posta su basi ontologiche e non antropologiche, così come la questione dell’essere. Il quadro entro cui però matura l’idea che la tecnica sia il destino nascosto della tecnica moderna è molto mutato rispetto all’epoca di Sein und Zeit, che per alcuni rimane un grandioso tentativo, non riuscito, di porre la questione del senso dell’essere uscendo dalla metafisica della soggettività35. Negli anni successivi alla Kehre l’affermazione della tecnica su scala planetaria è intesa come l’esito naturale della metafisica del soggetto caratterizzante la filosofia e la scienza d’età moderna. La riflessione sulla tecnica come compimento della metafisica moderna si intreccia strettamente alla riformulazione della domanda sull’essere della svolta. Posto che la questione che chiama in causa il Dasein proviene dall’essere e che solo l’appello dell’essere legittima la domanda intorno all’esistere dell’uomo, è solo con l’interrogazione del destino della tecnica che Heidegger sottrae la propria Seinsfrage a ciò di cui egli stesso accusa la tradizione, «dalla sua astrattezza apparente, dall’atmosfera di vuoto spinto o di sterili giochi verbali coltivati dai non pochi nostalgici della metafisica dogmatica»36. La tecnica quale forma di disvelamento è rivelativa del movimento circolare concepito con la Kehre: del volgersi all’essere

35  Su questa lettura di Essere e tempo, quale estrema metafisica umanistica del soggetto, rimane ancora un validissimo contributo, seppur antecedente alla pubblicazione di numerose opere della GA, la monografia di M. Ruggenini, Il soggetto e la tecnica, cit. 36  M. Ruggenini, L’essenza della tecnica e il nichilismo, in F. Volpi (a cura di), Guida a Heidegger, cit., pp. 235-276: p. 236.

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dell’esistenza che esiste proprio nell’apertura essenziale alla differenza, all’altro da sé cui deve la propria stessa possibilità d’esistere. La domanda intorno all’esistere dell’uomo è possibile solo mediante l’essere che chiama in causa l’esistenza, ma diviene chiaro con la questione della tecnica che è nella relazione reciproca che avviene il disvelamento. Nel quadro della questione della «storia dell’essere» (Seinsgeschichte), porre la non separabilità dell’esistenza dall’apertura all’essere significa che l’esserci si determina storicamente proprio nel suo rapporto alla tecnica. L’accento non può perciò essere posto sull’addomesticare la tecnica, sul controllo di essa da parte dell’uomo, ma su come egli si dispone a pensarne la verità. La fine della metafisica del soggetto è allo stesso tempo lo smascheramento dell’illusione che la tecnica sia uno strumento in possesso dell’uomo per governare il mondo. Die Frage nach der Technik si apre con l’esigenza di un domandare non tecnico circa l’essenza della tecnica, che fa sin dall’inizio trapelare la volontà di non accontentarsi delle definizioni strumentale e antropologica37 della tecnica, sebbene la prima sia addirittura giudicata «così straordinariamente esatta»38. Appare subito evidente che queste due definizioni vanno oltrepassate pur fornendo elementi utili per una comprensione più autentica della tecnica. La categoria della strumentalità chiama in gioco quella di causalità, e il significato originario della parola greca αἴτιον è quello di essere responsabile di qualcos’altro. Oltre a indicare le quattro cause aristoteliche «quali modi tra loro connessi dell’esser responsabile»39, 37  M. Heidegger, Vorträge und Aufsätze, GA 7, p. 7; tr. it., p. 5: «Tutti conoscono le due risposte che si danno alla nostra domanda. La prima dice: la tecnica è un mezzo in vista di fini. L’altra dice: la tecnica è un’attività dell’uomo. Queste due definizioni della tecnica sono connesse». 38  Ivi, p. 8, tr, it., p. 6. 39  Ivi, p. 10; tr. it., p. 7.

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Heidegger avanza l’idea che il senso della causalità sia «l’essere responsabile» del «far avvenire», del far avanzare dalla «non presenza» alla presenza, e che la τέχνη in quanto produzione, ποίησις, vada compresa come ciò che «conduce fuori dal nascondimento nella disvelatezza [Das Her-vor-bringen bringt aus der Verborgenheit her in die Unverborgenheit vor]»40. Il fatto che la tecnica non sia un semplice mezzo, ma sia «l’ambito del disvelamento, cioè della verità [Wahrheit]» per Heidegger inquieta, ma è anche una chiave di volta nella comprensione della sua essenza. Ben consapevole che sia opinione diffusa che la tecnica moderna sia incomparabilmente diversa da quella delle epoche precedenti a causa del suo peculiare legame con le scienze esatte. Heidegger proprio nel reciproco legame fra scienze esatte e tecnica vede la continuità tra l’originario significato greco di tecnica e la tecnica moderna, affermando che «anch’essa è disvelamento»41. In questo senso, il suo stretto legame con le scienze esatte mette in discussione l’incomparabilità con ciò che l’ha preceduta: Intanto, però, ci si è resi conto più chiaramente che è vero anche l’opposto, e cioè che la fisica moderna in quanto sperimentale, dipende a sua volta da apparecchiature tecniche e dal progresso nella costruzione di tali apparecchi.42

Heidegger aggiunge che la presa d’atto della stretta connessione tra scienza e tecnica rimane semplice constatazione storiografica ma non spiega l’intima ragione del nesso. La comprensione di tale legame può avvenire solo all’interno della Seinsgeschichte e, per meglio spiegare in quale senso, occorre anche soffermarsi su quali siano le modalità disvelative che dominano nella tecnica moderna: il «mettere allo scoper-

40  Ivi, p. 12; tr. it., p. 9. 41  Ivi, p. 15; tr. it., p. 11. 42  Ivi, p. 14; tr. it., p. 10.

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to, trasformare, immagazzinare, ripartire, commutare», ma, soprattutto, il disvelamento ha il carattere dello Stellen, del «richiedere»43. Chi compie il richiedere provocante è l’uomo. Solo in quanto l’uomo è già da parte sua pro-vocato a mettere allo scoperto (herausfördern) le energie della natura e a impiegarle (in das Bestellen)44, infatti, può verificarsi il disvelamento. Come si diceva innanzi, Heidegger non intende affatto limitarsi alle considerazioni storiografiche del rapporto fra la scienza e la dipendenza dai mezzi tecnici sempre più sofisticati con cui si ricerca. Difatti afferma che, se sul piano storiografico è innegabile che la scienza matematica della natura sia sorta due secoli prima della tecnica moderna e che apparentemente quest’ultima si sia messa in opera quando ha potuto appoggiarsi sui risultati delle scienze esatte, sul piano dell’accadere storico è invece decisivo il modo in cui le moderne scienze esatte rappresentano la natura quale «insieme organizzato di forze calcolabili», un modo che è già impiegante: «[…] la riunione pro-vocante nel disvelare impiegante domina già nella fisica»45. Per sostenere la critica della lettura antropologica e strumentale della tecnica in favore di una visione della tecnica quale accadere storico dell’essere Heidegger si richiama a una differenza, che più volte ha marcato, tra puro calcolo storiografico (historisch) e pensare in senso storico46; differenza che rende evidente quanto per lui l’essenza nascosta della tecnica moderna vada sottratta a uno sguardo evenemenziale. Così leggiamo, infatti, ne Il detto di Anassimandro:

43  Ivi, p. 16; tr. it., p. 12. 44  Ivi, p. 17; tr. it., p. 13. 45  Ivi, p. 22; tr. it., p. 16. 46 Cfr. ibidem.

123 La storiografia [Historie] calcola ciò che sta per venire a partire dalle immagini del passato che essa si forma nel presente. La storiografia è la costante distruzione dell’avvenire e del rapporto storico con l’evento del destino [Geschick].47

Per Heidegger ciò che è posteriore alla nascita della scienza moderna per l’osservazione storiografica, cioè la tecnica meccanizzata che la storiografia, com’è noto, colloca nella seconda metà del secolo XVIII, è «in realtà rispetto all’essenza che in essa vige, ciò che viene storicamente [geschichtlich] prima»48. L’aspetto tecnico impiegabile con cui la natura si presenta (darstellen) all’uomo non è un’idea improvvisa, ma, seppur ovviamente in questa fase successiva nella mutata prospettiva della Seinsgeschichte, è a nostro avviso un inevitabile punto di approdo dell’itinerario speculativo iniziato nella lontana epoca del Natorp-Bericht. A quel tempo Heidegger, proponendo una inusitata interpretazione dei significati dell’essere in Aristotele, affermava che il senso fondamentale dell’essere consistesse per lo Stagirita originariamente nell’esser prodotto. Sono gli anni giovanili della ricerca heideggeriana costantemente impegnata dal confronto critico con la fenomenologia e con il neokantismo, anni in cui egli sostiene un primato della prassi – quale modalità costitutiva del Dasein nell’incontro con il mondo – sull’atteggiamento teoretico-conoscitivo che sorgerebbe solo a partire da una sospensione del modo in cui primariamente accade il disvelamento49.

47  M. Heidegger, Holzwege, GA 5, p. 326, tr. it., p. 304. 48  M. Heidegger, Vorträge und Aufsätze, GA 7, p. 23; tr. it., p. 17. 49  Su questo tema rimandiamo a C. Agnello, L’inquietudine dell’uomo fra prassi e tecnica, in «Giornale di Metafisica», XXXIX, n. 1, 2017, pp. 208-228, e Ead. Cura di sé e filosofia. Interpretazioni fenomenologiche di Platone, Mimesis, Milano-Udine 2010.

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La τέχνη antica è una modalità disvelativa primaria quanto lo è l’essenza della tecnica moderna che oltre a essere produzione rivelante è anche richiesta provocante. Lo Stellen è l’attività propria del richiedere e manipolare, e questo tipo di disvelamento è quello che notoriamente Heidegger indica con il termine Gestell. L’im-posizione, traduzione di Gestell che ci appare più perspicua50, è il modo in cui il reale si disvela come «fondo» (Bestand), è pro-vocazione verso l’impiegare. Heidegger, volendo strenuamente sconfessare ogni ricaduta antropologica, ci tiene però a precisare che l’imposizione accade non «solo nell’uomo e in modo decisivo per opera sua»51, ma come un destino (Geschick). L’uomo è «anch’esso richiesto come materiale umano producente e consumante»52, la tecnica lungi dall’essere una semplice attività umana è per Heidegger prima di tutto una modalità disvelante dell’essere «che pretende l’uomo come tale da esser richiesto dalla manipolazione»53. L’insieme della manipolazione richiedente, l’ordine complessivo dei rapporti che la tecnica instaura con l’umano e il naturale è appunto il Gestell. L’im-­posizione della tecnica moderna e la pro-duzione dell’antica ποίησις, come ogni modo del disvelamento, sono dunque «invio» (Schickung) del Geschick, del destino. Questa visione è perfettamente coerente con l’idea heideggeriana che la storia non sia solo l’oggetto della storiografia, né il puro compiersi dell’attività umana che «diventa storica [geschichtlich] solo in quanto è l’invio di un destino»54, e appare non immune dalla fatalistica inclinazione dell’altrove vagheggiata con la Gelassenheit, malgrado Heidegger si af50  «Imposizione» è la scelta lessicale di Gianni Vattimo, l’altra traduzione italiana corrente è quella di Franco Volpi, che traduceva «impianto». 51  M. Heidegger, Vorträge und Aufsätze, GA 7, p. 24; tr. it., p. 17. 52  P. Chiodi, Il problema della tecnica, cit., p. 96. 53  Ivi, p. 97. 54  M. Heidegger, Vorträge und Aufsätze, GA 7, p. 25; tr. it., p. 18.

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fretti a dire che essa non vada fraintesa e assimilata a quelle posizioni secondo cui la tecnica è il fato (Schicksal) della nostra epoca, «nel senso in cui fato è inteso come un processo immodificabile»55. Certamente, tale visione, non a torto definita da Chiodi come una sorta di «barthismo laicizzato»56 e di «mitologica erezione della tecnica a ‘figura’ storico dialettica del nostro tempo»57, pone l’esigenza indifferibile di capire come dovrebbe situarsi l’uomo nei riguardi della tecnica se è l’ordine totale e necessario dell’essere a predeterminare ogni possibile forma di disvelamento, ivi compresa la tecnica. Non soccorre, rispetto a tale esigenza, la questione della libertà, a meno che non sia intesa nella particolare accezione heideggeriana, cioè non come «originariamente connessa alla volontà e, meno ancora soltanto alla causalità del volere umano»58, al contrario compresa a partire dall’idea che l’uomo sia governato dal destino del disvelamento. Heidegger, infatti, si affretta a sottolineare che non si tratta mai «della fatalità di una costrizione» e a ribadire come la libertà attenga proprio alla capacità dell’uomo di porsi come «ascoltante [Hörender]»59 del destino cui appartiene (gehört). Del resto, sin dalle prime battute della conferenza è emerso con chiarezza che l’uomo pro-voca la realtà riducendola a fondo impiegabile perché sotto un certo punto di vista è lui stesso pro-vocato, cioè perché si trova a esistere in uno specifico e storico modo del disvelamento che è quello del gestellen, ma in definitiva è dirimente il fatto che «sulla disvelatezza entro 55  Ivi, p. 26; tr. it., p. 19. 56  P. Chiodi, Il problema della tecnica, cit., p. 98. 57  Ivi, p. 89. 58  M. Heidegger, Vorträge und Aufsätze, GA 7, p. 25; tr. it., p. 19. 59  Ibidem.

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la quale di volta in volta il reale si mostra o si sottrae, l’uomo non ha alcun potere»60. Quello di Heidegger resta però un tentativo di guardare al futuro tecnologico che secondo noi va ben oltre l’accento destinale espresso dal largo ricorso a un linguaggio mitopoietico, alla cui tentazione egli spesso cede. Dal tentativo heideggeriano proviene infatti anche un suggerimento prezioso, quello di un nuovo umanismo che pensando «l’umanità dell’uomo a partire dalla vicinanza all’essere»61 pone di fronte all’evidenza che «l’uomo non è padrone dell’ente»62: è questa consapevolezza che è salvifica al di là del fatto che la via sia indicata nell’arte63 e nella parola poetica in riferimento all’altro senso originario della τέχνη antica quale produzione del vero nel bello. Torniamo allora brevemente in conclusione a confrontare gli esiti del discorso heideggeriano con la conferenza di Heisenberg e alla considerazione della tecnica come «processo biologico», vista come un potenziamento della natura, ma non come fenomeno che trascende l’umano, semmai come un fatto talmente umano da sfuggire al controllo degli stessi uomini. Tale perdita di controllo è espressa dal fisico con l’affermazione «l’uomo può fare sì ciò che vuole ma non volere ciò che vuole»64. L’intervento di Heisenberg, dopo la presa d’atto che l’uomo, circondato dai propri artefatti tecnici non incontra 60  Ivi, p. 18; tr. it., p. 13. 61  M. Heidegger, Brief über den «Humanismus», in Id., Wegmarken, GA 9, pp. 313-364: p. 342; tr. it., Lettera sull’«umanismo», in Segnavia, pp. 267315: p. 295. 62  Ibidem. 63  Sulla questione dell’arte nel rapporto con la tecnica nelle due conferenze cfr. O. Pöggeler, Die Kontroverse Heidegger-Heisenberg, in Id., Schritte zu einer hermeneutischen Philosophie, Alber, Freiburg-München 1994, pp. 276-303. 64  W. Heisenberg, L’immagine della natura, cit., p. 35.

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altri che se stesso, si concludeva come riportato innanzi, con l’auspicio che dall’uomo stesso venisse la capacità di riconoscere un limite che non è dato arbitrariamente: ma è dentro la consapevolezza della scienza stessa che il metodo non si può più distanziare dall’oggetto, né l’osservatore dall’osservato. Se questa consapevolezza resta vigile la fede nel progresso reca con sé un limite imposto dal desiderio di non navigare in circolo ma di raggiungere una qualsiasi meta e non accadrà che l’uomo sia come il capitano che non governa più la nave perché «la sua bussola non reagisce più alle forze magnetiche della terra»65. A Heidegger, invece, non basta smascherare l’origine soggettivistica del mito dell’oggettività della conoscenza scientifica. Il suo intento è di mostrare come il pericolo peggiore sia la mancata comprensione del potere disvelante della tecnica, l’illusione di dominare l’intero dell’ente in luogo della consapevolezza di essere semplicemente chiamati a custodire l’intero ente nel suo durare (währen). Questo è per lui il vero pericolo, e «nessun atto dell’uomo può mai ovviare a questo pericolo [che ogni disvelamento si risolva nell’impiegare e che tutto si presenti nella disvelatezza esclusivamente come fondo], l’attività dell’uomo non può mai immediatamente scongiurare questo pericolo»66. La sola salvezza possibile, nella prossimità del pericolo che la tecnica può potenzialmente rappresentare per l’uomo, non è affatto da rintracciare in utopiche velleità conservatrici di preservare la natura dalle contaminazioni della tecnica, come talora interpretando troppo rapidamente il suo pensiero si è convenuto, ma nella capacità di comprenderla adeguatamente come un complesso di possibilità disvelanti dell’intero dell’ente naturale. Solo dal lasciarsi pro-vocare

65  W. Heisenberg, L’immagine della natura, cit., p. 40. 66  M. Heidegger, Vorträge und Aufsätze, GA 7, p. 34; tr. it., p. 26.

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dall’appello storico dell’essere che la tecnica costituisce può provenire la giusta risposta di un ente che, preso atto di non essere «il padrone degli enti», si fa carico di custodire l’essere che si disvela. E a proposito dell’illusione di dominio sull’ente riportiamo in conclusione una delle tante considerazioni, tratte da Sull’essenza e sul concetto della φύσις, a proposito di una prossimità della τέχνη medica alla φύσις: L’ἀρχή del risanamento del medico odierno è dunque dovuta alla τέχνη. Sennonché, resta qui da osservare che il fatto di non morire, nel senso di un prolungamento della vita, non è necessariamente un risanamento; il fatto che oggi gli uomini vivano più a lungo non prova che siano più sani; si potrebbe piuttosto desumere il contrario. Ma anche posto che il medico di oggi non ritardi solo di qualche tempo la morte, ma diventi sano, allora anche qui l’arte medica non ha fatto che sostenere e guidare meglio la φύσις. La τέχνη può soltanto venire incontro alla φύσις, può favorire più o meno il risanamento, ma, come τέχνη, non potrà mai sostituirsi alla φύσις e diventare, al suo posto, l’ἀρχή della salute come tale. Ciò potrebbe avvenire solo se la vita come tale divenisse un artefatto producibile «tecnicamente»; ma se ciò avvenisse, in quello stesso momento non ci sarebbe più salute, né nascita e morte. Talvolta sembra che l’umanità corra all’impazzata verso questa meta: che l’uomo produca tecnicamente se stesso. Se ciò riuscirà, l’uomo avrà fatto saltare in aria se stesso, cioè la sua essenza come soggettività, e l’avrà fatta saltare in quell’aria dove l’assoluta assenza di senso vale come unico «senso», e dove il mantenimento di questo valore appare come il «dominio» umano sul globo terrestre. In questo modo la «soggettività» non è superata, ma soltanto «sopita» nel «progresso eterno» di una «costanza» da cinesi.67

Per Heidegger sembra non bastare la semplice cura e consapevolezza umana del limite invocata da Heisenberg, l’uni-

67  M. Heidegger, Vom Wesen und Begriff der Φύσις, cit., p. 257; tr. it., p. 211.

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ca strada da percorrere appare piuttosto la deposizione della soggettività in favore di un decentramento che lascia spazio alla capacità degli uomini di porsi in ascolto dell’essere, di lasciare manifestare l’essere, consapevoli che persino l’impiego provocante è l’illusione di dominare ciò che invece concede all’uomo la possibilità di disvelare. La vita umana non può essere ridotta a fondo, perché a venir meno è la propria stessa costituzione disvelante. Come si è ripetuto, anche l’impiego pro-vocante e impositivo è una forma storica del disvelare, ma perché l’uomo possa liberamente predisporsi a salvaguardare la custodia (Wahrnis) dell’essenza della verità non può e non deve «camminare sull’orlo estremo del precipizio, cioè là dove egli stesso può essere preso solo più come ‘fondo’»68. Resta però da spiegare quale sia per Heidegger il giusto modo di rispondere all’appello, di aver parte al disvelamento, di custodire l’intero dell’ente nel suo durare senza il rischio di camminare sull’orlo del precipizio, insomma di come seguire l’avvertenza di un rischio che in fondo somiglia tanto al perire in mare a causa del malfunzionamento di una bussola.

68  M. Heidegger, Vorträge und Aufsätze, GA 7, p. 28; tr. it., p. 21.

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V L’altro umanismo: l’esserci non è il padrone degli enti

1. Un iperumanismo nella prossimità all’essere La lettura heideggeriana della tecnica come stadio ultimo dello sviluppo della metafisica si declina in una duplice maniera. Per un verso La questione della tecnica suggerisce che l’essere umano sia inesorabilmente condannato a «perseguire e coltivare soltanto ciò che si disvela nell’impiegare, prendendo da questo tutte le sue misure»1. Heidegger descrive com’è noto lo scenario in cui l’essenza della tecnica governa e dispone il rapporto dell’essere umano col reale esclusivamente nei termini di uno sfruttamento del secondo da parte del primo. In tal senso, l’uomo sembra esposto non a un pericolo ma al «pericolo supremo», rischiando di divenire esso stesso «fondo» impiegabile, al pari del resto del reale, ed è proprio in questa imposizione generalizzata che giunge a lambire anche la sua stessa essenza: l’uomo s’illude fino a vestirsi orgogliosamente della figura di signore della terra. Questa minaccia, come Heidegger non manca di sottolineare, non proviene dalle macchine e dagli apparati tecnici, bensì dall’essenza stessa della tecnica, per il fatto che là dove si dispiega e domina l’im-­posizione, ogni 1  M. Heidegger, Vorträge und Aufsätze, GA 7, p. 25; tr. it., p. 19.

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disvelamento è improntato nel segno della direzione e della assicurazione del fondo. Per altro verso, però, l’idea «post-metafisica» di verità degli anni successivi alla Kehre, il cui accadere si produce «essenzialmente nell’uomo anche se non per l’uomo» – se si condivide la lettura di Essere e tempo quale estrema metafisica umanistica del soggetto – trae fuori il Dasein dalle secche della soggettività destinandolo alla custodia dell’essere2. Certamente, sul piano teoretico, l’elaborazione di un’idea di esistenza quale essenza dell’umano pensata a partire dalla differenza da altro, da una alterità di cui l’uomo non dispone, ha delle conseguenze notevoli anche su una ipotesi di riconsiderazione della tecnica che configura in modo proficuo l’orizzonte oltre-umanistico. Nel Brief über den «Humanismus» il decentramento dell’uomo, «la cui dignità consiste nell’essere chiamato dall’essere a custodia della sua verità», fa apparire indebita e vana la sua pretesa di dominare sull’intero degli enti. Il riferimento estatico alla verità dell’essere viene descritto come «cura» nel peculiare senso che l’uomo «è (west) nel getto dell’essere che è il destino destinante»3, e questo comporta il fatto che «l’uomo non è il padrone dell’ente»4. Raccogliere l’invito a superare ogni antropologismo e soggettivismo nella prospettiva che proprio in virtù di un simile decentramento l’uomo non sia padrone degli enti che lo circondano, sembra che oggi più che mai possa rappresentare uno snodo fondamentale per pensare il nostro futuro sul pianeta. Ma, ancora più tenacemente, va rivalutata l’idea dell’es2  In questa prospettiva rimane ancora un validissimo contributo, seppur antecedente alla pubblicazione di numerose opere della GA, la monografia di M. Ruggenini, Il soggetto e la tecnica, cit. 3  M. Heidegger, Brief über den «Humanismus», cit., p. 327; tr. it., p. 280. 4  Ivi, p. 342; tr. it., p. 295.

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senza dell’agire quale «portare a compimento (Vollbringen)», espressa in apertura del Brief. Azione e produzione nel senso della tecnica sono cose differenti. L’essenza dell’agire è per Heidegger portare a compimento la manifestatività dell’essere che nel linguaggio dimora: «Il pensiero agisce in quanto pensa». Nonostante molti postumanismi prendano l’avvio dalla critica all’umanismo, appare significativo come proprio nella pervicace intenzione di Heidegger di mantenere ferma la differenza – pur nella prossimità – tra l’essenza dell’agire e quella della tecnica, troviamo un argine a quel postumanesimo radicale che ritiene che l’uomo possa e debba essere riprogettato dalla tecnica, che pensa in definitiva che la tecnica possa produrre l’uomo. La deposizione della centralità del soggetto e la critica delle interpretazioni umanistiche dell’uomo come animale razionale, come «persona», come essere composto di spirito, di anima e di corpo, definite non false, ma semplicemente insufficienti, rilanciano per Heidegger il desiderio di un’etica. Nella lettura heideggeriana della tecnica è presente questa duplice direzione anche in riferimento alla peculiare concezione di storia richiamata in particolare ne L’epoca dell’immagine del mondo e ne La questione della tecnica. La storia non è solo l’oggetto della storiografia, né il puro compiersi dell’attività umana, ma è l’accadere storico dell’essere nel suo disvelarsi. In questo accadimento che non è destino immodificabile cui abbandonarsi ma una storia di coappartenenza nel disvelamento l’uomo può decidere di stare come un servo (ein Höriger) o come un ascoltante (ein Hörender). In quest’ultimo caso l’uomo appartiene al proprio destino di ente disvelante per natura tecnico, consapevole di non essere padrone degli enti bensì un ente tra gli altri capace di cura e custodia. Gli interrogativi posti da Heidegger, con la veemente critica all’antropologia quale estrema metafisica dell’auto-certezza del soggetto ed espressione della volontà di assicurarsi l’ente, offrono delle risorse critiche interessanti per interro-

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garsi sul carattere ossimorico insito nell’espressione con cui diffusamente si definisce l’epoca presente come Antropocene5. La definizione, com’è noto, individua l’era geologica attuale in base alle modifiche strutturali e climatiche con cui l’essere umano è giunto a incidere sui processi geologici. La comprensione del tempo presente e della radicale antropizzazione dell’ambiente naturale mette in luce una sorta di paradosso: più si espande endemicamente l’uso di questa definizione che ricomprende l’uomo nel proprio etimo più circolano e si fanno strada prospettive culturali ispirate a istanze di radicale e definitivo decentramento dell’umano, che idealmente raccolgono l’esortazione heideggeriana a comportarci come custodi e non come padroni dell’ente. La critica heideggeriana a ogni umanismo rappresenta, infatti, lo snodo essenziale per la comprensione della storia di coappartenenza dell’uomo all’Essere e costituisce un fil rouge, come Derrida ha messo in luce – con una lettura continuista del discorso heideggeriano prima e dopo la Kehre –, che attraversa la caratterizzazione del Dasein dell’analitica esistenziale di Sein und Zeit giungendo al tentativo del Brief über den «Humanismus» di pensare oltre l’umanismo. È proprio muovendo dal superamento del concetto di verità della metafisica tradizionale in direzione di una idea di verità come «insistenza» (Inständigkeit), come star dentro l’apertura dell’essere, che si comprende appieno la critica heideggeriana all’umanismo: È nel gioco di una certa vicinanza, vicinanza a sé e vicinanza all’essere che vedremo costituirsi, contro l’umanismo e contro l’antropologia metafisici, un’altra insistenza dell’uomo, che sostituisce, rileva, supplisce ciò che essa distrugge attraverso

5 Cfr. P.J. Crutzen - E.F. Stoermer, The ‘Anthropocene’, in «Global Change Newsletter», n. 41, 2000, pp. 17-18.

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delle vie che sono quelle in cui noi siamo, da cui appena – forse– usciamo e che devono ancora essere interrogate.6 La decostruzione dell’impianto della tradizione metafisicoumanistica in nome di una sorta di iperumanismo è volta a recuperare un senso originario e premetafisico dell’umanismo, in cui l’essenza dell’umano è costituita dall’essere il «vicino dell’essere»7. Derrida parla di «una sorta di magnetismo»8 che rende inseparabile «il pensiero del proprio dell’uomo» dalla verità dell’essere: in questa speciale prossimità dell’uomo all’essere si configura un nuovo umanismo, in cui consiste per Heidegger il «meditare e curarsi (Sinnen und Sorgen) che l’uomo sia umano e non non-umano (unmenschlich)»9. Si tratta dunque, come sottolinea Derrida, di un pensiero volto a una «rivalutazione o rivalorizzazione dell’essenza e della dignità dell’uomo», un riposizionamento nel segno della vicinanza all’essere e mirante alla verità dell’essere, che «resta un pensiero dell’uomo»10. È una rivalutazione volta a preservare la dignità e l’essenza dell’uomo dalla minaccia «dell’estendersi della metafisica e della tecnica»11.

2. La riduzione del mondo a immagine e la metafisica della soggettività In realtà, diverso tempo prima Heidegger aveva manifestato un atteggiamento più decisamente volto al superamento dei 6  J. Derrida, Fini dell’uomo, cit., p. 171. 7  M. Heidegger, Brief über den «Humanismus», cit., p. 342; tr. it., p. 295. 8  J. Derrida, Fini dell’uomo, cit., p. 171. 9  M. Heidegger, Brief über den «Humanismus», cit., p. 318; tr. it., p. 273. 10  J. Derrida, Fini dell’uomo, cit., p. 176. 11  Ibidem.

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limiti di ogni visione antropologica, e lo aveva fatto in Die Zeit des Weltbildes descrivendo l’antropologia come coincidente con ogni dottrina filosofica che spiega e valuta l’ente nel suo insieme a partire dall’uomo e in vista dell’uomo, come forma cioè di analisi esemplare del soggettivismo metafisico: L’antropologia è quell’analisi dell’uomo che, in fondo, già sa ciò che l’uomo è, e quindi non può porsi il problema di che cosa esso sia. Se si ponesse questo problema, essa dovrebbe infatti riconoscersi rovesciata e oltrepassata. Ma come si potrà esigere questo dall’antropologia, quando essa non si propone altro che l’assicurazione dell’autocertezza del subiectum?12

Le considerazioni sull’antropologia della conferenza del 1938 rivelano sia quali elementi per Heidegger abbiano reso esangui le categorie della metafisica tradizionale, e con essa un certo modo di intendere l’umanismo, sia quali abbiano contribuito a creare nell’uomo l’illusione di dominare ciò che non è dominabile. Esse sono strettamente connesse alla caratterizzazione dell’età moderna come epoca in cui è possibile la riduzione del mondo a immagine. La scienza d’età moderna, elencata come una delle manifestazioni essenziali del mondo moderno, costituisce per Heidegger una rappresentazione esplicativa, in cui l’uomo calcolatore si assicura con il porre-innanzi (vor-stellen) l’oggettività dell’ente ricercato facendo equivalere verità e certezza del rappresentare: Questa oggettivizzazione dell’ente si compie in un rappresentare, in un porre-innanzi [vor-stellen] che mira a presentare ogni ente in modo tale che l’uomo calcolatore possa esser sicuro [sicher] cioè certo [gewiss] dell’ente. La scienza come ricerca si costituisce soltanto se la verità si è trasformata in certezza del rappresentare.13

12  M. Heidegger, Holzwege, GA 5, p. 111; tr. it., p. 98, nota 10. 13  Ivi, p. 87; tr. it., p. 84.

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La ricerca e l’individuazione dell’essere dell’ente viene portata a piena coincidenza con il suo esser rappresentato, e questa trasformazione dell’ente nel suo insieme accade quando l’uomo diviene «quell’ente in cui ogni ente si fonda nel modo del suo essere e della sua verità. L’uomo diviene il centro di riferimento dell’ente come tale»14. Il suo posizionamento a primo e autentico subiectum inaugura la metafisica dell’equivalenza tra verità e certezza del rappresentare; al tempo stesso la sfida ad assicurarsi l’oggettività del vero ricade all’interno di un «gioco reciproco necessario di soggettivismo e oggettivismo»15. Il soggettivismo d’età moderna ha come suo correlato necessario la pretesa oggettività della scienza e nei fatti si traduce nel condurre la semplice presenza dell’ente al cospetto del soggetto quale principio di ogni misura. Se ogni cosa è posta innanzi a colui che rappresenta, che decide della «scena in cui l’ente non può che rappresentarsi, presentarsi, cioè esser immagine», l’uomo diviene allora «il rappresentante dell’ente risolto in oggetto»16. L’insignorirsi del mondo17 attraverso la ricerca pianificata e la tecnica si invera con la comparsa del subiectum al centro della scena della filosofia dell’età moderna e con la fede nell’oggettività del sapere. Una simile fede si estende a tutti i saperi secondo Heidegger, che colloca anche le scienze dello spirito sotto la categoria generale della ricerca pianificata e assicurante: Il conoscere come ricerca vuol che l’ente renda conto del come e del quanto della sua disponibilità per la rappresentazione. La ricerca decide dell’ente sia calcolandone anticipatamente il corso futuro sia completandone il corso passato. 14  Ivi, p. 88; tr. it., p. 86. 15 Ivi, p. 88; tr. it., p. 85. 16  Ivi, p. 91; tr. it., p. 93. 17  Ivi, p. 94; tr. it., p. 99.

138 Nel primo caso è, per così dire, posta [gestellt] la natura, nel secondo, la storia. Natura e storia divengono oggetti di una rappresentazione esplicativa. Questa conta sulla natura e fa i conti con la storia. Solo ciò che diviene così oggetto [Gegenstand] è [ist], vale come essente. La scienza diviene ricerca.18

A partire dal rilievo dello svuotamento ontologico comportato dalla riduzione moderna del mondo a immagine sorge l’esigenza di un ripensamento che investe l’intero ambito dei saperi. L’ente divenuto oggetto di rappresentazione in qualche misura perde il suo essere: il soggetto che conosce, nella veste dello scienziato, riconduce il mondo a un sistema generale di cause ed effetti disponendo di esso in modo totale. La perdita d’essere conseguente al divenire rappresentazione va di pari passo con l’assicurazione sul reale, affonda parallelamente le sue radici nel processo di secolarizzazione innescato in età moderna. Con l’affrancamento dall’autorità divina si consolida così l’essenza pratica del dominio e si fa più radicale la perdita d’essere insita nella rappresentazione: Accade infatti che là dove l’ente sia divenuto oggetto della rappresentazione, perda in certo modo il suo essere. Anche se oscuramente e incertamente questa perdita è avvertita e, perciò, rapidamente surrogata mediante l’attribuzione all’oggetto, e quindi all’ente interpretato come oggetto, di un valore; con la conseguenza che l’ente ha il suo criterio nei valori, i quali a loro volta divengono i fini ultimi di ogni attività. Poiché l’attività è intesa come cultura, i valori divengono valori culturali e come tali assunti a supremi fini dell’agire che tende all’autoassicurazione dell’uomo come subiectum. Ancora un passo e i valori diverranno essi stessi oggetti in sé. […] Il valore sembra attestare che, rapportandosi ad esso, non è che l’inutile e consunto sipario dietro cui si nasconde la piatta e superficiale riduzione dell’ente a oggettività.19 18 Ivi, p. 87; tr. it., p. 83. 19  M. Heidegger, Holzwege, GA 5, pp. 100-102; tr. it., pp. 87-88, nota 6.

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L’intreccio per cui nell’età moderna «il mondo diviene immagine e l’uomo subiectum» è definito «quasi assurdo»20 proprio in riferimento alla trasformazione della «teoria del mondo […] in dottrina dell’uomo, in antropologia»21: quanto più l’uomo conquista il mondo e lo rende disponibile a sé imponendosi soggettivisticamente, tanto più coltiva l’illusione onnipotente che l’«oggetto si rivela oggettivo»22. L’imporsi dell’antropologia filosofica umanistica, che spiega e valuta l’ente a partire dall’uomo e in vista dell’uomo, non può perciò che culminare nel Settecento con il costituirsi del mondo a immagine, con la tendenza a intendere la propria posizione di «ente che vale come regola e canone per ogni ente»23, cioè appunto come Weltanschauung. Il mondo è risolto in immagine. Il tratto caratterizzante la modernità è per Heidegger la lotta per la conquista di tale posizione, il rapportarsi all’ente prende la forma del confronto tra diverse visioni del mondo, e la scienza quale dispiegarsi della potenza illimitata del calcolare, pianificare e controllare tutte le cose, appare perciò come la massima espressione del cammino storico dell’insignorirsi del mondo. È nel contesto di questa radicale critica della soggettività d’età moderna che Heidegger giunge a definire l’umanesimo come «null’altro che un’antropologia estetico-morale»24 e a mostrare come alla fine del Settecento il radicalizzarsi dell’atteggiamento dell’uomo nei riguardi dell’ente nel suo insieme prende la forma di una Weltanschauung che altro non è che la posizione dell’uomo stesso posta come visione del mondo. L’espressione

20  Ivi, p. 93; tr. it., p. 97. 21  Ivi, p. 93; tr. it., pp. 97-98. 22  Ivi, p. 93; tr. it., p. 97. 23  Ivi, p. 94; tr. it., p. 99. 24  Ivi, p. 111; tr. it., p. 98.

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immagine è una conseguenza della «configurazione della produzione rappresentante»25; con questo enigmatico parafrasare Heidegger indica l’abbraccio mortale che, stringendo insieme il rappresentare (vor-stellen) e il produrre (her-stellen)26, segna la differenza essenziale tra antichità e modernità. Proprio per mostrare questa differenza di orizzonte epistemologico, Heidegger richiama il frammento parmenideo τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε και εἶναι, in cui la physis, l’ente aprentesi, si manifesta nel percepire di un ente che sta dentro l’orizzonte della physis stessa: L’ente non diviene essente per il fatto che l’uomo l’intuisca nel corso della rappresentazione intesa come percezione soggettiva. È piuttosto l’uomo ad esser guardato dall’ente, cioè dall’autoaprentesi all’esser presente in esso raccolto.27

Con il rappresentare d’età moderna la manifestatività dell’essere-presente che schiude nel logos la physis, il dischiudersi per, lascia il posto all’afferrare comprendente; la rappresentazione pone di fronte a sé l’oggetto interrogandolo secondo i suoi bisogni, cercando nella regola e nel canone il modo di riportare a sé ciò che ha contrapposto a sé (das Gegen-ständige): «non è più il regno dell’essere presente, ma il territorio dell’aggressione»28.

3. Come abitare il mondo nel tempo dell’accadere storico della tecnica? Il contesto in cui viene rappresentata la tecnica come estremo compimento della metafisica moderna è lo stesso in cui matura la critica all’umanismo della tradizione metafisica, ma soprat25  Ivi, p. 94; tr. it., p. 99. 26  Ivi, p. 89; tr. it., p. 88. 27  Ivi, p. 90; tr. it., p. 89. 28  Ivi, p. 108; tr. it., p. 95, nota 9.

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tutto in cui emerge con sempre maggiore chiarezza la prospettiva di decentramento dell’umano a scapito di ogni residuale antropologia. Questa complessiva visione critica si inscrive nel più ampio contesto della domanda ontologica fondamentale inaugurata al tempo di Sein und Zeit, ma riformulata ora in una cornice diversa. La questione della tecnica viene posta con la Kehre su basi ontologiche e non antropologiche, sulla scorta della nuova formulazione della Seinsfrage. Il quadro entro cui matura l’idea che la tecnica sia il destino nascosto della tecnica moderna è molto mutato rispetto all’epoca di Sein und Zeit, che per alcuni rimane un grandioso tentativo, non riuscito, di porre la questione del senso dell’essere uscendo dalla metafisica della soggettività29. Negli anni successivi alla Kehre la riconfigurazione della domanda sull’essere e sull’idea stessa di verità del mondo come manifestatività dell’ente nella sua totalità e non come esistenziale fondamentale del Dasein, si intreccia con lo sguardo sull’affermazione della tecnica su scala planetaria quale esito naturale della metafisica del soggetto caratterizzante la filosofia e la scienza d’età moderna. La riflessione sulla tecnica come compimento della metafisica moderna va dunque compresa nel suo legame con la riformulazione della domanda sull’essere della svolta. La tecnica quale forma di disvelamento è rivelativa del movimento circolare concepito con la Kehre, del volgersi all’essere dell’esistenza, che esiste proprio nell’apertura essenziale alla differenza, all’altro da sé cui deve la propria stessa possibilità d’esistere. La domanda intorno all’esistere dell’uomo è possibile solo mediante l’essere che chiama in causa l’esistenza, ma diviene chiaro con la questio29  Non è di questo avviso Derrida «[…] Da una parte l’analitica esistenziale aveva già oltrepassato l’orizzonte di un’antropologia filosofica: il Dasein non è semplicemente l’uomo della metafisica» cfr. J. Derrida, Fini dell’uomo cit., p. 171. Sulla difficoltà di tale oltrepassamento e per una lettura di Essere e tempo, quale estrema metafisica umanistica del soggetto, come si segnalava in precedenza, si veda la monografia di M. Ruggenini, Il soggetto e la tecnica, cit.

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ne della tecnica che è nella relazione reciproca che avviene il disvelamento. Nel quadro della questione della «storia dell’essere» (Seinsgeschichte), porre la non separabilità dell’esistenza dall’apertura all’essere, significa che l’esserci si determina storicamente proprio nel suo rapporto con la tecnica. L’accento non può perciò essere posto sull’addomesticare la tecnica, sul controllo di essa da parte dell’uomo, ma su come egli si dispone a pensarne la verità. La fine della metafisica del soggetto è allo stesso tempo lo smascheramento dell’illusione che la tecnica sia uno strumento in possesso dell’uomo per governare il mondo. Dunque, tornando a riflettere sulla vicinanza all’essere e riprendendo il suggerimento di Derrida che il proprio dell’uomo sia inseparabile dalla questione della verità dell’essere, ci si domanda come intendere questa sorta di magnetismo30 che lega l’uomo all’essere, come pensare cioè il Bezug tra essere e uomo e concepire un’essenza dell’umano in grado di oltrepassare i limiti dell’umanismo e della metafisica. La deposizione incondizionata della possibilità di ogni antropologia inaugurata da Cartesio, definito creatore del «presupposto metafisico per l’antropologia di ogni specie e indirizzo»31, è una tappa essenziale per la comprensione della questione della tecnica. E la questione della tecnica può essere affrontata solo dal tentativo di comprensione di come si dia il Bezug uomo-essere. Il «reciproco abbisognante riferirsi», dell’epoca di Sein und Zeit, con l’orizzonte rinnovato della radicale critica all’umanismo come metafisica della soggettività è invece ora da intendersi come un «co-riferirsi», «co-rapportarsi» all’essente nella totalità32 in cui la coappartenenza, che è ascolto dell’essere e sua

30  J. Derrida, Fini dell’uomo, cit., p. 171. 31  M. Heidegger, Holzwege, GA 5, p. 99; tr. it., p. 84, nota 4. 32  L’efficace espressione è di Eugenio Mazzarella, cfr. E. Mazzarella, Tecnica e metafisica. Saggio su Heidegger, Carocci, Roma 2021, p. 47.

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cura, è tale nel senso di un destinamento (Schickung), di un invio (schickt)33 dell’essere che esclude e sottrae fondamento a ogni pretesa soggettivistica dell’uomo. Appare ancor più chiaro allora perché già in Die Zeit des Weltbildes, con i consueti toni oracolari, Heidegger preannunci – insieme al tramonto di un’epoca in cui il mondo si fa immagine del soggetto rappresentante – l’idea della tecnica come compimento della metafisica d’età moderna: Solo là dove il compimento del mondo moderno raggiunge l’estremo limite della grandezza che è propria di esso, si prepara la storia futura.34

Tolta la pretesa di autofondazione del soggetto, che è ricollocato (erörtet), o meglio dislocato, nel suo luogo proprio, quello del darsi dell’essere stesso, la tecnica non può essere intesa accontentandosi di definizioni strumentali e antropologiche35, ma come luogo dell’accadere storico del disvelamento dell’essere: Nella sua essenza la tecnica è un destino nella storia dell’essere, della verità dell’essere che riposa nell’oblio. Essa risale infatti alla τέχνη come un modo dell’ἀληϑεύειν cioè del rendere manifesto l’ente.36

Più ci si inoltra nei sentieri della testualità heideggeriana più sorge spontanea la domanda se la rivalorizzazione dell’essenza e della dignità dell’uomo non sia in fin dei conti riducibile a quella che Derrida definisce «una metaforica della vici33  M. Heidegger, Brief über den «Humanismus», cit., p. 334; tr. it., p. 284. 34  Ivi, p. 94; tr. it., p. 99, nota 11. 35  M. Heidegger, Vorträge und Aufsätze, GA 7, p. 7; tr. it., p. 5: «Tutti conoscono le due risposte che si danno alla nostra domanda. La prima dice: la tecnica è un mezzo in vista di fini. L’altra dice: la tecnica è un’attività dell’uomo. Queste due definizioni della tecnica sono connesse». 36  M. Heidegger, Brief über den «Humanismus», cit., p. 344; tr. it., p. 293.

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nanza, della presenza semplice e immediata, che associa alla vicinanza dell’essere i valori di vicinanza, di rifugio, di casa, di servizio, di custodia, di voce e di ascolto»37. La risposta è negativa se la decostruzione dell’umanismo conduce in direzione di un ultraumanismo in cui, dato come posto il decentramento dell’uomo, ciò che conta è la sua esposizione radicale ad altro da sé, all’alterità: non è più in gioco l’uomo, «ma l’essenza storica dell’uomo nella sua provenienza dalla verità del­l’essere»38. La questione di come intendere il ruolo di responsabilità del­ l’uomo nei confronti della tecnica non può non attenere al modo in cui l’uomo sta nel rapporto con l’essere e con la verità. In questo senso, si capisce bene perché Heidegger tenga a distinguere tra dignità e valore: nel giudicare qualcosa come valore «ciò che è valutato lo è solo come oggetto della stima umana»39. La valorialità riconduce il discorso alla postura di pensiero della filosofia moderna espressa dalla soggettività valutante, proprio la postura da oltrepassare nel nuovo orizzonte del rapporto all’alterità, dell’accadere della comprensione nella prossimità all’essere. La difficoltà a concepire un’etica della dignità dell’umano, che non coincida con il sistema di valori – appunto espressione dell’atteggiamento soggettivante40 – sta dunque nella comprensione di come l’uomo si debba collocare dentro l’accadere storico dell’essere che si dà nella tecnica.

37  La risposta per Derrida è che non soltanto non si tratta di una retorica priva di significato, ma si potrebbe esplicitare a partire da essa e dal pensiero della differenza ontico-ontologica, tutta una teoria della metaforicità in generale. 38  M. Heidegger, Brief über den «Humanismus», cit., p. 343; tr. it., p. 295. 39  Ivi, p. 349; tr. it., p. 301. 40  Ibidem: «Ogni valutazione anche quando è una valutazione positiva, è una soggettivazione».

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Una volta smascherata la volontà di dominio insita nel rappresentare quale cifra del soggettivismo, l’attenzione di Heidegger si concentra sulla capacità disvelante della tecnica, intesa, nel suo legame con la scienza, come modalità di accesso all’ente. L’accento è posto sul carattere di accadimento storico della tecnica in una prospettiva di decentramento dell’umano in cui l’essenza dell’agire è il portare a compimento (Vollbringen) la manifestatività dell’essere. Dunque, è allora possibile scorgere nel discorso heideggeriano un orientamento su come intendere l’abitare il mondo al tempo della tecnica, e questa comprensione si coniuga con quello che definisce il desiderio di un’etica41: Là dove l’essenza dell’uomo è pensata in un modo così essenziale, cioè unicamente a partire dalla questione della verità dell’essere, ma dove, tuttavia, l’uomo non è innalzato al centro dell’ente, è inevitabile che si desti l’esigenza di un’indicazione vincolante e quindi di regole che dicano come l’uomo, esperito a partire dall’e-sistenza rivolta all’essere, debba vivere in conformità al suo destino […] Al vincolo dell’etica occorre dedicare ogni cura, in un tempo in cui l’uomo della tecnica, in balia della massificazione, può essere portato ancora a una stabilità sicura solo mediante un raccoglimento e un ordinamento del suo progettare e del suo agire, nel loro insieme, che corrispondano alla tecnica.42

Un pensiero che non si sottrae al compito di pensare l’essere, e capace di comprendere l’umano stare al mondo nell’accadere storico dell’essere compiuto nella tecnica, è anche etico se riflette sulla tecnica stessa quale forma disvelativa dell’ente a partire dal raccoglimento e dal progettare in cui l’uomo, a seconda del suo agire, si porta a una stabilità sicura oppure si conduce sull’orlo della catastrofe. Dentro questa cornice, 41  Ivi, p. 353; tr. it., p. 304. 42  Ivi, p. 353; tr. it., pp. 304-305.

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nell’era della tecnoscienza l’etica43 può essere ripensata solo nella dimensione della macroazione planetaria e non a misura del singolo individuo. L’impossibilità nel tempo della tecnica di un’etica che comprenda il ruolo dell’agire individuale comporta però la totale elusione della questione della responsabilità personale con cui l’etica in ogni tempo ha fatto i conti. Al tempo stesso, tale prospettiva lascia aperto l’interrogativo su come concretamente la deposizione della soggettività e la consapevolezza che l’impiego provocante della tecnica sia solo l’illusione di dominare ciò che invece concede all’uomo la possibilità di disvelare, possano predisporre liberamente l’uomo a salvaguardare la custodia (Wahrnis) dell’essenza della verità, a impedirgli di «camminare sull’orlo estremo del precipizio, cioè là dove egli stesso può essere preso solo più come ‘fondo’»44.

43  Sul tema dell’etica nel cammino di pensiero heideggeriano, cfr. D. Aurenque, Ethosdenken. Auf der Spur einer ethischen Fragestellung in der Philosophie Martin Heideggers, Alber, Freiburg-München 2011. 44  M. Heidegger, Vorträge und Aufsätze, GA 7, p. 28; tr. it., p. 21.

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VI Il desiderio di un’etica nell’epoca dell’immagine del mondo dominata dalla tecnica

1. Oltrepassare l’antropologia della tecnica La domanda intorno all’essenza della tecnica moderna è posta nell’ottica di una volontà di oltrepassamento di concezioni antropologico-strumentali della tecnica: scorta infatti la connessione profonda tra metafisica della soggettività e avvento del mondo della tecnica, l’ultima delle tentazioni o dei rischi deve essere di ricadere in visioni antropologiche e strumentali della tecnica. Non bisogna commettere l’errore di considerare che all’origine della tecnica sia il calcolo scientifico della natura, espressione somma dell’autoaffermazione del soggetto nel senso che la tecnica sia interamente dominabile dall’uomo: è questa appunto l’illusione generata dalla metafisica della soggettività. Al contrario l’oblio dell’essere, il suo assentarsi necessario, avanza attraverso la metafisica del soggetto. In questo contesto, Heidegger, che parte dalla prospettiva di decentramento dell’umano e dal suggerimento che l’uomo non sia padrone degli altri enti ma sia chiamato invece alla responsabilità di custodia, questi ultimi, giunge a sostenere che nell’era della tecnoscienza l’etica può essere ripensata solo nella dimensione della macroazione planetaria e non a misura del singolo individuo.

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Nel Brief über den «Humanismus», alla domanda di un giovane amico riguardo alla possibilità di scrivere un’etica1, Heidegger risponde ribadendo la convinzione che il ripensamento dell’umano sia possibile unicamente in relazione alla verità dell’essere e solo se l’uomo al tempo stesso «non è innalzato al centro dell’ente»2. La domanda, come riportato nel Brief, era posta dopo l’uscita di Sein und Zeit. L’episodio è richiamato non a caso nel delicato frangente3 in cui viene composta la Let1  Su questo argomento ci siamo soffermati in C. Agnello, Dasein e Humanitas. La critica heideggeriana all’umanismo tra Cura dell’esistenza e custodia dell’ente, in «Pedagogia e vita», LXXVIII, n. 3, 2020, pp. 54-66. Sul coinvolgimento heideggeriano con il nazionalsocialismo la letteratura secondaria è, come è noto, ampissima e il tema non è comunque oggetto di questo breve saggio. Qui basti però osservare come di certo una visione dell’etica nella sua dimensione della macroazione planetaria e non pensata semplicemente a misura del singolo individuo proprio nel Brief über den «Humanismus» appare decisamente funzionale al tentativo heideggeriano di essere riabilitato all’insegnamento universitario in questa complicatissima fase post-bellica in cui è invece di scottante attualità e urgenza il tema delle responsabilità personali sotto la dittatura. 2  M. Heidegger, Brief über den «Humanismus», cit., p. 353; tr. it., p. 304. 3  Cfr. P. Sloterdijk, Regole per il parco umano. Una replica alla lettera di Heidegger sull’umanismo, tr. it. di A. Calligaris, in «aut aut», n. 301-302, 2001, pp. 120-139, in part. p. 121: «Gli avversari di Heidegger naturalmente non si sono lasciati scappare l’occasione di sottolineare che il piccolo uomo furbo di Meßkirch ha colto al volo, istintivamente, la prima possibilità che gli si è offerta dopo la guerra di lavorare alla propria riabilitazione Avrebbe così utilizzato astutamente il farglisi incontro di uno dei suoi ammiratori francesi per rifugiarsi, fuori dalla equivocità politica nella sfera superiore della contemplatività mistica. Queste condanne possono suonare suggestive e convincenti, ma mancano l’evento di pensiero e di strategia della comunicazione che lo scritto sull’umanismo rappresenta, dapprima indirizzato a Jean Beafreut a Parigi, poi pubblicato e tradotto autonomamente. Poiché mentre Heidegger esponeva e interrogava da parte a parte le condizioni dell’umanismo europeo, apriva nel contempo in questo scritto, che nella sua forma voleva essere una lettera, uno spazio di pensiero transumanistico o postumanistico, in cui da allora si è mossa una parte essenziale della riflessione filosofica sull’uomo».

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tera sull’«umanismo» e dunque il punto di vista va compreso nel quadro del riposizionamento del Dasein dentro il mutato orizzonte di pensiero della Kehre. In tale contesto, Heidegger, nell’osservare la circostanza che il «desiderio di un’etica»4 si fa tanto più urgente quanto più si palesa il disorientamento dell’uomo stesso, avanza l’idea che un’etica capace di interpretare l’urgenza delle questioni poste dal mondo moderno consista già nella comprensione dell’essenza della tecnica: Al vincolo dell’etica occorre dedicare ogni cura, in un tempo in cui l’uomo della tecnica, in balìa della massificazione, può essere portato ancora a una stabilità sicura solo mediante un raccoglimento e un ordinamento del suo progettare e del suo agire, nel loro insieme, che corrispondano alla tecnica.5

Un pensiero che non si sottrae al compito di pensare l’essere e capace di comprendere l’umano stare al mondo nell’accadere storico dell’essere compiuto nella tecnica, è anche etico nella misura in cui riflette sulla stessa quale modalità disvelativa dell’ente a partire dal raccoglimento e dal progettare in cui l’uomo, a seconda del suo agire, si porta a una stabilità sicura, oppure si conduce sull’orlo della catastrofe. Dentro questa cornice, nell’era della tecnoscienza per Heidegger l’etica può essere ripensata solo nella dimensione della macroazione planetaria e non a misura del singolo individuo, se non al prezzo di rimanere «sul piano dell’omiletica»6 come «qualcosa di ‘penultimo’ rispetto alle realtà prodotte dalla tecnoscienza»7. Non si può negare che l’impossibilità nel tempo della tecnica di un’eti4  M. Heidegger, Brief über den «Humanismus», cit., p. 353; tr. it., p. 304. 5  Ibidem. 6  È una espressione utilizzata da Franco Volpi proprio in riferimento al fatto che, per Heidegger, l’unico modo per pensare adeguatamente l’etica per rispondere ai problemi del mondo moderno sta già nella comprensione della tecnica: cfr. F. Volpi, Il nichilismo, cit., p. 116. 7  Ibidem.

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ca che comprende il ruolo dell’agire individuale possa apparire un modo piuttosto vago e quantomeno pretestuoso di evadere più in generale la questione della responsabilità personale. Come accennavamo innanzi, comprendere la tecnica significa indagare il senso dell’essere e ripensare la storia del suo determinarsi ripercorrendo le tappe del sapere scientifico in età moderna, mettendo cioè in risalto quale cifra costitutiva della modernità il costituirsi della scienza come rappresentazione esplicativa: una postura peculiare in cui l’oggettività dell’ente ricercato è assicurata dal porre-innanzi (vor-stellen) dell’uomo che calcola e pianifica in un’ottica in cui la verità coincida con la certezza del rappresentare. L’oggettivazione dell’ente si compie nel vor-stellen «che mira a presentare ogni ente in modo tale che l’uomo calcolatore possa essere sicuro [sicher] cioè certo [gewiss] dell’ente»8. In primo luogo, in Die Begründung des neuzeitlichen Weltbildes durch die Metaphysik9, conferenza pubblicata poi con il più noto titolo Die Zeit des Weltbildes, Heidegger fornisce una risposta affermativa alla domanda solo apparentemente inevasa circa la peculiarità tutta moderna della questione di un’immagine del mondo: Ogni epoca della storia ha forse la sua immagine del mondo in quanto tenderebbe a forgiarsene una? O non sarà solo la forma moderna del “rappresentare” a porsi il problema dell’immagine del mondo?10

8  M. Heidegger, Holzwege, GA 5, p. 87; tr. it., p. 84. 9  È la notissima conferenza tenuta a Friburgo nel 1938, pubblicata dopo la guerra con il titolo Die Zeit des Weltbildes, ultima di una serie di conferenze intorno ai fondamenti dell’immagine del mondo nel mondo moderno organizzate dalla Kunstwissenschaftliche, Naturforschende und Medizinische Gesellschaft di Friburgo in Brisgovia. 10  M. Heidegger, Holzwege, GA 5, p. 88; tr. it., p. 86.

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È evidente che quello dell’immagine del mondo è proprio il tempo del conoscere come rappresentare, del porre innanzi a sé l’ente – rientrante così nel dominio dell’uomo stesso – come qualcosa di oggettivo: il costituirsi del mondo a immagine è ciò che caratterizza il mondo moderno. Nella conferenza, Heidegger, oltre a manifestare già nel titolo la convinzione che la metafisica offra la base della configurazione essenziale di un’epoca, lascia già trapelare la propria ormai notissima concezione della tecnica quale verità dell’essere dominante l’epoca presente. Comprendere la verità del proprio tempo significa, allora, cercare «ciò che lascia aver luogo la trasformazione dell’uomo secondo una necessità proveniente dall’essere stesso»11, e in tal senso viene già palesata la volontà di oltrepassamento di concezioni antropologico-strumentali della tecnica che troverà conferma nei saggi degli anni seguenti. La diagnosi della situazione presente che si appresta a entrare nella fase della contrapposizione fra diverse concezioni del mondo in cui l’uomo mette in campo – alternativamente o allo stesso tempo, la potenza illimitata del calcolo – della pianificazione e del controllo, avviene attraverso una tappa essenziale della Destruktion della metafisica tradizionale: essa viene a coincidere con la critica della rappresentazione quale cifra della volontà di dominio del mondo moderno. Nel mondo moderno Heidegger scorge infatti un’ascesa del soggetto che si traduce nella tendenza ad assicurarsi gli enti e a cercare di dominarli: essa va al di là della mera modalità di accesso all’ente in direzione del suo padroneggiamento. Di certo ciò che accade nel mondo moderno, con il suo incanto da parte della tecnica, richiede che il pensiero non rimanga paralizzato da una sterile negazione, né che si risolva in una mistica «asto11  Ivi, p. 96, nota 1; tr. it., p. 71, nota 1.

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rica» della tecnica stessa. Non si tratta, infatti, di opporre un rifiuto al nuovo, di dire no a una epoca: Nessuna epoca può essere eliminata con un verdetto di ripudio. Ciò non eliminerebbe che il ripudiante. Per porsi, nella sua essenza, all’altezza del futuro, il Mondo Moderno richiede, in virtù della sua stessa essenza, un’originarietà e un’ampiezza di riflessione alla quale noi, oggi, possiamo forse contribuire, ma di cui non potremo in nessun caso renderci sin d’ora padroni.12

Heidegger, lungi dal rimanere avvinto da tentazioni tecnofobe, muovendo da una visione della tecnica intesa nel suo radicamento nelle forme originarie di incontro e disvelamento dell’ente – una visione già presente negli anni a cavallo tra il primo insegnamento a Friburgo e quelli trascorsi a Marburgo, elaborata inizialmente solo in riferimento al mondo greco –, dirige poi il proprio interrogare sul fondamento metafisico in direzione delle manifestazioni caratterizzanti il pensiero moderno: volge cioè lo sguardo filosofico alla scienza moderna e alla tecnica meccanica. Quest’ultima è definita come il «primo frutto dell’essenza della tecnica moderna»13 e l’indagine sull’essenza della scienza moderna è condotta sottolineandone un tratto essenziale, l’operativismo: «la scienza è operativa nella sua stessa essenza»14. La scienza moderna non può essere considerata separatamente dai suoi concreti risultati e dai mezzi con cui opera, che a loro volta a essa stessa devono origine e costituzione. Il fatto che la scienza stia entrando nello stadio decisivo della sua storia15 è proprio determinato dal ruolo svolto dalle istituzioni che pianificano i procedimen-

12  Ivi, p. 97; tr. it., p. 72, nota 1. 13  Ivi, p. 75; tr. it., p. 72. 14  Ivi, p. 97, nota 2; tr. it., p. 80, nota 2. 15  Ivi, p. 84; tr. it., p. 81.

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ti, regolano lo scambio delle energie impiegate, comunicano i risultati e ne favoriscono la circolazione. Inteso in tal senso, l’operativismo della scienza non è una sua conseguenza, ma un tratto co-appartenente a essa in quanto ricerca. L’essenza della ricerca e il suo carattere operativo non sono separabili, anzi il procedimento della scienza e i suoi risultati si incrociano continuamente, e sembra che nel contesto in cui si indaga il fondamento metafisico della scienza moderna Heidegger pervenga alla conclusione che la verità della scienza coincida con l’ottenimento di risultati. L’accento posto sul carattere di pianificazione e controllo dell’operativismo serve da premessa per risalire alle radici storiche della tendenza ad assicurarsi l’ente e a padroneggiarlo, insita nell’obiettivismo d’età moderna: ciò certamente non stupisce, dato che il legame tra le scoperte scientifiche e le loro applicazioni tecniche nell’epoca delle rivoluzioni scientifiche comincia a sviluppare quel tratto caratterizzante la civiltà d’età moderna che è il circolo dialettico della reciproca implicanza scienza/tecnica. La scienza come ricerca ha un sistema reale consistente nell’essere una comunità che si articola e organizza in base a piani, un sistema caratterizzato da una «mobilità – regolata, ma libera al massimo – di cambiamento e di ripresa delle ricerche in funzione degli obiettivi a cui si mira»16. Dal piano descrittivo dell’organizzazione della scienza su basi operative attraverso lo sviluppo e il controllo dei propri procedimenti di lavoro e dei protocolli, lo sguardo mirante alle radici metafisiche della scienza muove verso il tratto del rappresentare che costituisce la cifra della scienza moderna, cioè verso la tendenza ad assicurarsi il proprio oggetto. L’oggettivizzazione dell’ente altro non è che la tendenza dell’«uomo calcolatore»17 ad assicu16  Ivi, p. 86; tr. it., pp. 82-83. 17  Ivi, p. 86; tr. it., p. 83.

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rarsi l’ente, a padroneggiarlo primariamente nella concezione della verità intesa come certezza del rappresentare stesso. Il costituir­si dell’uomo a soggetto quale fondamento e sorgente di ogni verità dell’ente e l’idea di rappresentazione sono il punto di partenza privilegiato del domandare heideggeriano sulla moderna Weltbild. Una volta esplicitato che il mondo è qualcosa di più di natura e storia – le quali nel loro reciproco connettersi e superarsi non esauriscono il mondo – si fa strada l’idea che il Welt venga definito in relazione al concetto di Bild. Bild, in questo contesto, significa per Heidegger porre innanzi a sé l’ente assumendolo nel suo insieme come ciò in cui l’uomo si orienta e ciò che egli vuol porre innanzi a sé (vor-stellen), a ciò che vuol rappresentarsi. L’idea stessa di immagine reca un nesso evidente con elementi caratterizzanti la modernità, tra cui spicca la volontà del subiectum di assicurarsi l’oggettività del vero dando luogo a un «gioco reciproco necessario di soggettivismo e oggettivismo»18. La pretesa oggettività della scienza è dunque il correlato necessario del soggettivismo d’età moderna, è la conseguenza inevitabile del portare la semplice presenza dell’ente al cospetto del soggetto quale principio di ogni misura. Se ogni cosa è condotta innanzi a colui che rappresenta, l’uomo, che decide della «scena in cui l’ente non può che rappresentarsi, presentarsi, cioè esser immagine», diviene allora «il rappresentante dell’ente risolto in oggetto»19. È in questo senso che la comparsa del subiectum al centro della scena della filosofia dell’età moderna è una delle tappe decisive dell’insignorirsi del mondo20 attraverso la ricerca pianificata e la tecnica. La smania dell’oggettività secondo Heidegger si estende a tutti i

18  Ivi, p. 88; tr. it., p. 85. 19  Ivi, p. 91; tr. it., p. 93. 20  Ivi, p. 94; tr. it., p. 99.

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saperi attraverso la ricapitolazione di natura e storia dentro il generale concetto di rappresentazione esplicativa richiamato innanzi; vengono qui collocate in realtà anche le scienze dello spirito sotto la categoria generale della ricerca pianificata e rassicurante: Natura e storia divengono oggetti di una rappresentazione esplicativa. Questa conta sulla natura e fa i conti con la storia. Solo ciò che diviene così oggetto [Gegenstand] è [ist], vale come essente. La scienza diviene ricerca.21

La riduzione del mondo a immagine che caratterizza l’età moderna esige un ripensamento che investe l’intero ambito dei saperi, l’ente divenuto oggetto di rappresentazione per Heidegger in qualche misura perde il suo essere: ciò che accade è definito nei termini di uno svuotamento ontologico legato a un giro di vite della metafisica compiuta, in cui il soggetto che conosce, nella veste dello scienziato, riconduce il mondo a un sistema generale di cause ed effetti disponendone in modo totale. La perdita d’essere conseguente al divenire rappresentazione, come l’ermeneutica filosofica contemporanea ha il merito di avere debitamente sottolineato, non è «solo un affare della ragione teoretica»22: l’assicurazione sul reale, infatti, affonda parallelamente le sue radici nel processo di secolarizzazione innescato in età moderna. Con l’affrancamento dall’autorità divina si consolida l’essenza pratica del dominio e si fa più radicale la perdita d’essere insita nella rappresentazione: Accade infatti che là dove l’ente sia divenuto oggetto della rappresentazione, perda in certo modo il suo essere. Anche se oscuramente e incertamente questa perdita è avvertita e, perciò, rapidamente surrogata mediante l’attribuzione all’oggetto, e quindi all’ente interpretato come oggetto, di un valo-

21 Ivi, p. 87; tr. it., p. 83. 22  G. Vattimo, Oltre l’interpretazione, cit., p. 33.

156 re; con la conseguenza che l’ente ha il suo criterio nei valori, i quali a loro volta divengono i fini ultimi di ogni attività. Poiché l’attività è intesa come cultura, i valori divengono valori culturali e come tali assunti a supremi fini dell’agire che tende all’autoassicurazione dell’uomo come subiectum. Ancora un passo e i valori diverranno essi stessi oggetti in sé. […] Il valore sembra attestare che, rapportandosi ad esso, non è che l’inutile e consunto sipario dietro cui si nasconde la piatta e superficiale riduzione dell’ente a oggettività.23

Con l’età moderna «il mondo diviene immagine» in un intreccio che Heidegger definisce «quasi assurdo»24; quanto più l’uomo conquista il mondo e lo rende disponibile a sé, tanto più la pretesa oggettività tradisce il suo legame al soggetto: l’«oggetto si rivela oggettivo e il subjectum si impone soggettivisticamente»25. L’affermarsi dell’antropologia filosofica umanistica, che spiega e valuta l’ente a partire dall’uomo e in vista dell’uomo, culmina nel Settecento con il costituirsi del mondo a immagine, con la tendenza a intendere la propria posizione di «ente che vale come regola e canone per ogni ente»26, come Weltanschauung: il mondo è risolto in immagine. Il tratto caratterizzante la modernità è la lotta per la conquista di tale posizione, il rapportarsi all’ente prende la forma del confronto tra diverse visioni del mondo, e la scienza quale dispiegarsi della potenza illimitata del calcolare, pianificare e controllare tutte le cose, appare come la massima espressione di quello che – come si è già ricordato – Heidegger icasticamente definisce insignorirsi del mondo27.

23  M. Heidegger, Holzwege, GA 5, pp. 100-102; tr. it., pp. 87-88, nota 6. 24  Ivi, p. 93; tr. it., p. 97. 25  Ibidem. 26  Ivi, p. 94; tr. it., p. 99. 27  Ibidem.

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La storia degli effetti di una simile tendenza a costruire immagini del mondo come una lotta, in cui il mondo stesso è raffigurato partendo dalla posizione dell’uomo in seno all’ente stesso, assume un ruolo importante negli anni successivi dell’itinerario speculativo heideggeriano, che si volge a indagare l’essenza nascosta della tecnica moderna.

2. Decentrare l’umano L’avvenuta maturazione della svolta radicalizza sempre più il rifiuto heideggeriano nei confronti dell’antropologia incapace di individuare l’essenza dell’umano28; il nuovo posizionamento del Dasein nell’accadere storico dell’essere ne riduce la centralità nel tenace sforzo di scansare ogni possibile ricaduta nelle secche della tanto criticata soggettività. Allora, una volta scorta la connessione profonda tra metafisica della soggettività e avvento del mondo della tecnica, l’ultima delle tentazioni, o dei rischi, deve essere di ricadere in concezioni antropologiche strumentali della tecnica. Non bisogna infatti commettere l’errore di considerare che all’origine della tecnica sia il calcolo scientifico della natura, espressione somma dell’autoaffermazione del soggetto nel senso che la tecnica sia interamente dominabile dall’uomo: è questa, appunto, l’illusione generata dalla metafisica della soggettività. Al contrario, l’oblio dell’essere, il suo assentarsi necessario, avanza attraverso la metafisica del soggetto: 28  M. Heidegger, Holzwege, GA 5, p. 111; tr. it., p. 98, nota 10: «L’antropologia è quell’analisi dell’uomo che, in fondo, già sa ciò che l’uomo è, e quindi non può porsi il problema di che cosa esso sia. Se si ponesse questo problema, essa dovrebbe infatti riconoscersi rovesciata e oltrepassata. Ma come si potrà esigere questo dall’antropologia, quando essa non si propone altro che l’assicurazione dell’autocertezza del subiectum?».

158 Persino questo fatto, che l’uomo diventa soggetto e il mondo oggetto, è una conseguenza dell’istituirsi dell’essenza della tecnica e non viceversa.29

L’idea che la metafisica della soggettività sia una stazione di cammino dell’accadere e dello svelarsi dell’essere, e dunque sia un’illusione di dominare ciò che non si domina, è da comprendere nel quadro generale della critica a quella che Enzo Paci definiva una metafisica «dell’errore e dell’errare fatali per l’uomo»30. Tale critica nei confronti della «metafisica mitologica che non è ancora pensiero»31 comporta, all’epoca di Sein und Zeit, la svolta come qualcosa di atteso, di necessario proprio perché la domanda sul senso dell’essere in generale, l’ontologia, è da ricomprendere come qualcosa che l’essere compie servendosi dell’uomo. Le parole di Paci colgono in modo inequivocabile questo snodo fondamentale della Destruktion della metafisica: Il domandarsi per raggiungere l’ontologia, e cioè il «senso dell’essere in generale», è un’azione che l’essere fa servendosi dell’uomo nella sua realtà di Dasein, nella sua realtà ontica. Ne consegue che l’ontologia non è qualcosa che si aggiunge all’uomo, che può o non può sopravvenire. Essa caratterizza l’uomo nella sua onticità: il comprendersi è qualcosa di costitutivo all’essere e non è la comprensione dell’essere-oggetto da parte dell’uomo-soggetto. È l’essere che, volendo comprendere se stesso nell’uomo, lo fa soggettivo: l’umanismo è negato per il trionfo dell’essere che poi, nell’uomo per comprendersi si nega. Il fatto che la realtà ontica dell’uomo sia ontologia è dunque la conseguenza del fatto che è l’essere che nell’uomo diventa logos di sé, ontologia. Nell’uomo, ma distruggendo l’uomo.32

29  Ivi, p. 290; tr. it., p. 268. 30  E. Paci, La filosofia contemporanea, Garzanti, Milano 1974, p. 205. 31  Ivi, p. 206. 32  Ivi, p. 215. L’interpretazione di Paci che, oltre a leggere Sein und Zeit dentro un quadro sinottico dei lavori successivi sino a quel momento noti, si

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La critica heideggeriana all’umanismo è condotta proprio nel contesto in cui Heidegger mette definitivamente a fuoco quello che Paci descrive in modo nitido: «ciò che avviene nell’uomo non è dell’uomo ma dell’essere»33. Entro questa cornice emerge un’idea del rapporto dell’uomo con ciò di cui non dispone, che apre prospettive non scontate rispetto alla questione della tecnica, come cercheremo brevemente di indicare ritornando alla Lettera sull’«umanismo». Qui l’idea che l’essenza dell’uomo consista nel venire reclamato dall’essere viene così descritta: Lo stare nella radura (Lichtung) dell’Essere, lo chiamo e-sistenza dell’uomo. Solo all’uomo appartiene un tal modo d’essere. L’esistenza così intesa non è solo il fondamento della possibilità della ragione, ratio, ma è ciò in cui l’uomo conserva la provenienza della sua determinazione.34

Il ricorso al concetto di Lichtung35, come in seguito Heidegger spiegherà, non va messo in relazione con la luce (Licht) richiama espressamente anche agli esiti di quella di Chiodi, pone «Heidegger contro Heidegger» (ivi, pp. 207 e 217) pervenendo alla conclusione che le categorie ontologiche sono fondate sull’essere e quindi «non sono elaborate da un soggetto, non sono idee per analizzare l’esistenza, ma modi di esistere […] ciò fa sì che la sua analitica esistenziale, di fatto sia molto più concreta ed empirica di quanto egli non creda: essa ci riconduce alla Lebenswelt dalla quale nascono le categorie» (ivi, p. 217). In questo senso Paci ricompone idealmente il dissidio tra Heidegger e Husserl nel senso che suo malgrado Heidegger contro i propri stessi intendimenti va verso la conclusione della «filosofia come ontologia dell’essere necessario» e soprattutto non esce dall’aporia se non nella fedeltà alla fenomenologia di Husserl: «Alla fine Heidegger ha dimostrato, senza volerlo e per assurdo, la verità della filosofia di Husserl e della concezione dell’esistenza come Lebenswelt. Di fatto la filosofia di Heidegger, con il mito della distruzione dell’essere per mezzo della distruzione dell’uomo, è la fine del dogmatismo ontologico» (ivi, p. 206). 33  Ivi, p. 215. 34  M. Heidegger, Brief über den «Humanismus», cit., pp. 323-324; tr. it., p. 277. 35 Cfr. M. Heidegger, Das Ende der Philosophie und die Aufgabe des Denkens, in Id., Zur Sache des Denkens, GA 14, 2007, pp. 67-90; tr. it. di E. Maz-

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e non è una metafora, indica piuttosto il lasciar apparire, è apertura (Offenheit), spazio del diradarsi. Lo sforzo di «esperire in modo sufficiente e partecipare a questo pensiero diverso che abbandona la soggettività»36 è la Kehre, presentata non come capovolgimento di quanto detto in Sein und Zeit, ma quale denuncia dell’impossibilità di dire in modo adeguato tale abbandono della soggettività senza ricadere nel linguaggio della metafisica tradizionale. Il rapporto con la verità è ancora una volta essenziale per una comprensione dell’esserci37 come qualcosa di diverso dai concetti provenienti da tutte le forme di umanismo metafisico. Con l’idea dell’esserci che assume «nella sua ‘cura’ il ‘ci’ come radura dell’essere»38 Heidegger prova dunque a configurare una idea non metafisica di verità: L’essenza dell’uomo riposa nell’esistenza. È questa ciò che importa in un senso essenziale, cioè a partire dall’essere stesso, in quanto è l’essere che fa avvenire (ereignet) l’uomo come e-sistente nella verità dell’essere, a guardia di tale verità.39

Il cambio di passo consiste nel fatto che la relazione tra l’uomo e l’essere diventa così il prodotto di una differenza40, dunque

zarella, La fine della filosofia e il compito del pensiero, in M. Heidegger, Tempo ed essere, Guida, Napoli 1987, pp. 173-192. 36  M. Heidegger, Brief über den «Humanismus», cit., p. 327; tr. it., p. 281. 37  La pertinacia con cui l’umano rimane in gioco nel pensiero heideggeriano viene messa criticamente in discussione da quanti proprio attraverso Heidegger hanno ripensato la filosofia a partire dalla messa in crisi del soggettivismo moderno. Una delle più inappellabili sentenze in tal senso appare il rilievo di Derrida «Il pensiero dell’essere […] resta un pensiero dell’uomo» (J. Derrida, Fini dell’uomo, cit., p. 176). 38  M. Heidegger, Brief über den «Humanismus», cit., p. 327; tr. it., p. 280. 39  Ivi, p. 345; tr. it., p. 298. 40  Cfr. J. Derrida, Violenza e metafisica, in Id., La scrittura e la differenza, tr. it. di G. Pozzi, Einaudi, Torino 1990, pp. 99-198.

161 anziché insistere in se stesso e riferire tutto a sé, soggettivisticamente, l’uomo si pensa nella differenza da altro di cui non dispone […]. Dalla differenza che lo fa esistere l’uomo, che si è perso come soggetto è chiamato a fare esperienza di una verità che lo misura anziché corrispondere e adattarsi al suo essere.41

L’opposizione critica all’umanismo apre nuove prospettive legate all’idea «post-metafisica» di verità, il cui accadere si produce «essenzialmente nell’uomo anche se non per l’uomo»42, destinando il Dasein alla custodia dell’essere. Di certo, l’elaborazione di un’idea di esistenza quale essenza dell’umano pensata a partire dalla differenza da un altro, di cui l’uomo non dispone, ha delle conseguenze notevoli su cui oggi siamo chiamati a riflettere. Il decentramento dell’uomo, «la cui dignità consiste nell’essere chiamato dall’essere a custodia della sua verità»43, fa apparire indebita e vana la sua pretesa di dominare sull’intero degli enti. Il riferimento estatico alla verità dell’essere è descritto come «cura», nel peculiare senso che l’uomo «è (west) nel getto dell’essere che è il destino destinante»44, e questo comporta il fatto che «l’uomo non è il padrone dell’ente»45. Non si può non riconoscere in queste parole un evasivo destinale determinismo che si attesta in tutta la sua indifferenza nei riguardi del tema della responsabilità personale, dunque

41  M. Ruggenini, L’uomo e la differenza, in Id., I fenomeni e le parole, Marietti, Genova 2003, pp. 143-167: p. 151. Ruggenini sottolinea come solo la maturazione del pensiero della differenza sia in grado di affrancare la critica della filosofia della coscienza elaborata in Sein und Zeit dai da vincoli residuali che la legano al soggettivismo moderno. 42  Ibidem. 43  M. Heidegger, Brief über den «Humanismus», cit., p. 342; tr. it., p. 295. 44  Ivi, p. 327; tr. it., p. 280. 45  Ivi, p. 342; tr. it., p. 295.

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in generale sordo all’etica e agli interrogativi classici della ragione pratica. Malgrado ciò, la sollecitazione importante resta di raccogliere l’invito a superare ogni antropologismo e soggettivismo nella prospettiva che proprio in virtù di un simile decentramento l’uomo non è padrone degli enti che lo circondano, che oggi più che mai essa rappresenti uno snodo fondamentale per pensare il nostro futuro nel pianeta. Senza per nulla assolvere il carattere deresponsabilizzante del piano destinale su cui viene collocato il discorso heideggeriano, si può assumere però come termine a quo l’idea dell’essenza dell’agire quale «portare a compimento (Vollbringen)»46, con cui Heidegger apre il Brief. Azione e produzione nel senso della tecnica sono cose differenti, l’essenza dell’agire è per Heidegger portare a compimento la manifestatività dell’essere che nel linguaggio dimora: «Il pensiero agisce in quanto pensa»47. L’etica si configura nell’indicazione del soggiornare dell’uomo in prossimità dell’essere, come etica originaria48: non è rappresentabile da alcuna filosofia pratica perché è più originaria di ogni distinzione di teoria e prassi. Nonostante molti postumanismi prendano l’avvio dalla critica all’umanismo, ci appare significativo come proprio nella pervicace intenzione di Heidegger di mantenere ferma la differenza – pur nella prossimità – tra l’essenza dell’agire e quella della tecnica, troviamo un argine a quel postumanesimo che ritiene che l’uomo possa e debba essere riprogettato dalla tecnica, che la tecnica possa cioè produrre l’uomo. La critica heideggeriana è volta alla rivendicazione di un piano discorsivo che lascia accadere l’evento della verità dell’essere e pone al

46  Ivi, p. 313; tr. it., p. 267. 47  Ivi, p. 313; tr. it., p. 268. 48  Cfr. J.-L. Nancy, L’«etica originaria» di Heidegger, tr. it. di A. Moscati, Cronopio, Napoli 1996.

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tempo stesso l’humanitas su un piano più elevato, tale da restituire una nuova dignità all’uomo; è per questo che considerare con Heidegger l’essenza dell’umano nei termini descritti rappresenta una sfida che molti filosofi del post-antropocentrismo hanno inteso raccogliere. Ricercare come l’essere riguardi l’uomo e lo reclami è un’impresa che viene legata esplicitamente alla volontà di smascherare il carattere di dominio che risiede tanto nel soggettivismo quanto nel suo correlato: Certo la maestà essenziale dell’uomo non risiede nell’essere la sostanza dell’ente in quanto suo «soggetto» e nel far dissolvere, in quanto despota dell’essere, l’esser-ente dell’ente nella troppo sonoramente celebrata «oggettività».49

La sistematica Destruktion di ogni prospettiva soggettivistica e antropocentrica conduce Heidegger negli anni successivi a individuare nel mondo della tecnica la sfera del dominio a cui l’uomo si trova sottoposto. Dunque, proprio la presa d’atto del non essere padrone degli enti, seguita al lungo tempo in cui l’uomo ha creduto di dominare la natura, cambia l’ordine delle cose all’interno del dominio. In tal senso, dalla riflessione heideggeriana sulla tecnica provengono suggestioni filosoficamente rilevanti per guardare oggi a essa essendo più avvertiti del fatto – semmai ce ne fosse bisogno – che siamo dominati da ciò che credevamo di dominare. Così come la prospettiva di decentramento dell’umano, suggerendo che l’uomo non è padrone degli altri enti, chiama invece alla responsabilità di custodia degli altri enti purché non si inclini a fatalistiche rassegnazioni, come potrebbe far sospettare la posizione del Dasein quale luogo di accadimento e svelamento dell’accadere storico.

49  M. Heidegger, Brief über den «Humanismus», cit., p. 163; tr. it., p. 283.

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L’affermazione formulata nei saggi successivi, secondo cui l’essenza della tecnica non è nulla di soltanto umano né riducibile a qualcosa di semplicemente tecnico, sgombra il campo dalla concezione antropologico strumentale di essa, che è per Heidegger il modo più insidioso di obliare l’essere misconoscendo il pericolo. Malgrado le interessanti prospettive che il discorso heideggeriano sulla tecnica apre attraverso un ridimensionamento della prospettiva antropocentrica, appare indubbio che il desiderio di un’etica50 rimanga confinato nello spazio di un astratto conatus, indifferente all’urgenza dei reali interrogativi che provengono all’etica dalla Krisis descritta da Husserl, quel maestro con cui Heidegger al tempo di Die Zeit des Weltbild non si intendeva già più. La filosofia, pur accettando la tesi che la crisi provenga anche dall’obiettivismo della razionalità scientifica moderna, con Husserl ha però l’ambizione di andare oltre l’anamnesi, contraendo un impegno ad assumere la responsabilità di occuparsi del vuoto di senso di cui le scienze non si fanno carico perché non spetta loro farlo. Con Heidegger, invece, la filosofia non può autenticamente rispondere alle istanze provenienti dall’etica, ma limitarsi alla diagnosi nei riguardi delle scienze che non pensano.

50  Ivi, p. 353; tr. it., p. 304.

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Indice

Introduzione

p. 11

I Tra logos e physis: la tecnica tra manifestatività dell’ente e disvelamento dell’esserci

p. 27

1. Il semestre estivo del 1922: Aristotele e l’originaria motilità della vita 2. Il Natorp-Bericht: l’esser prodotto come significato fondamentale dell’essere 3. Techne e cura dell’ente 4. Techne e aletheia dopo la Kehre II La medicina antica tra tecnica e natura. Motivi di attualità nell’interpretazione heideggeriana della techne medica 1. Physis e techne, una connessione essenziale 2. Il radicamento della techne nella natura al di là della mimesis: Aristotele e la medicina

p. 27 p. 34 p. 41 p. 49

p. 55 p. 55 p. 70

III Il manifestarsi della physis nella techne: la violenza del predominante

p. 83

1. L’originaria coappartenenza di pensiero ed essere 2. Metafisica e violenza 3. Un varco per la violenza del predominante

p. 83 p. 92 p. 99

IV Quale Weltbild per la scienza contemporanea: la tecnica come accadere storico dell’essere

p. 105

1. La tecnica come oggetto di meditazione storica 2. I limiti dell’antropologia: Heidegger e Heisenberg a Monaco 3. Quale risposta all’appello dell’essere nella tecnica?

p. 105 p. 111 p. 118

V L’altro umanismo: l’esserci non è il padrone degli enti 1. Un iperumanismo nella prossimità all’essere 2. La riduzione del mondo a immagine e la metafisica della soggettività 3. Come abitare il mondo nel tempo dell’accadere storico della tecnica?

p. 131 p. 135 p. 140

VI Il desiderio di un’etica nell’epoca dell’immagine del mondo dominata dalla tecnica

p. 147

1. Oltrepassare l’antropologia della tecnica 2. Decentrare l’umano

p. 147 p. 157

Bibliografia e sigle

p. 165

Passages

Collana di Storia della Filosofia Diretta da: Umberto CURI e Carmelo MEAZZA

1. Lucrezia Ercoli, Filosofia dell’umorismo. 2. Marco Fortunato, Decisione – Indecisione. 3. Andrea Panzavolta, Caro Herr Mozart, cari compositori. 4. Elio Matassi, Appunti sul presente. 5. Chiara Pasqualin, Il fondamento “patico” dell’ermeneutico. 6. Alexander Schnell, Husserl e i fondamenti della fenomenologia costruttiva. 7. Nicola Comerci, Vedere «da cento occhi». Nietzsche e la relazione. 8. Laura Sanò, Metamorfosi del potere. Percorsi e incroci tra Arend e Kafka. 9. Enrique Dussel, Le metafore teologiche di Marx. 10. Pierre Gisel, Cos’è una tradizione? Ciò di cui risponde, il suo uso, la sua pertinenza. 11. Andrea Panzavolta, La promessa delle sirene. Filosofia dell’opera lirica.

12. Antonio Lucci, La stella ascetica. Soggettivazione e ascesi in Friedrich Nietzsche. 13. Giuseppe Pintus, La monade spirituale. Studio su Luigi Stefanini. 14. Gian Paolo Faella Wittgenstein, maestro o dilettante. Esercizi critico-speculativi su un caso di controversa popolarità filosofica. 15. Marco Mantovani, Einverleibung e «organismo sociale». Modelli e metafore della relazione individuo, Stato e società in Nietzsche. 16. Angelo Cicatello, Ragione umana e forma del mondo. Saggi su Kant. 17. Jérôme Lèbre, Velocità. 18. Antonello Nasone, Il problema Occidente. Mito, sacrificio, comunità nel pensiero di Jean-Luc Nancy. 19. Chiara Agnello, Una ontologia della tecnica al tempo dell’Antropocene. Saggi su Heidegger.

Passages | 19 La comprensione della tecnica quale conquista ultima della metafisica moderna matura contestualmente alla critica all’umanismo della tradizione metafisica; al tempo stesso, la prospettiva del decentramento dell’umano emerge con sempre maggiore chiarezza a scapito di ogni residua concezione antropologico strumentale della tecnica. Tale visione critica d’insieme si inscrive nel più ampio quadro della nuova formulazione della Seinsfrage, nel quale la questione della tecnica si pone con la Kehre su base ontologica e non antropologica. Il ripensamento dell’essenza dell’umano a partire dalla differenza da altro, da un’alterità messa in questione, ha conseguenze considerevoli anche sull’ipotesi di riconsiderare la tecnica configurando proficuamente l’orizzonte oltre-umanistico. Accogliere l’invito a superare ogni antropologismo e soggettivismo nella convinzione che proprio in virtù di tale decentramento l'uomo non sia padrone degli enti che lo circondano appare uno snodo fondamentale, che è in grado di aprire prospettive nuove con cui potere ripensare il nostro futuro sul pianeta.

Chiara Agnello è Professoressa associata di Filosofia teoretica presso l’Università degli Studi di Palermo, dove è anche docente di Ermeneutica filosofica e Filosofia di comunità. È autrice di saggi sui rapporti fra la tradizione filosofica greca e il pensiero contemporaneo. Tra le sue pubblicazioni, i volumi Cura di sé e filosofia. Interpretazioni fenomenologiche di Platone (Mimesis 2010), Liberi di pensare. Aporie della libertà (Mimesis 2017) e Verità e discorso. Heidegger e la fenomenologia aristotelica (2022).

€ 10,00

ISBN ebook 9788855294188