Un leone nel parco di Palermo

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Un leone nel parco di Palermo

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ADOLFO BIOY CASARES UN LEONE NEL PARCO DI PALERMO

EINAUDI

«In quel momento l’apparecchio radio diede la notizia dell’avvenuta cattura del leone, che era stato di nuovo sistemato nella sua gabbia. Prima che le persone riunite nel bar potessero commentare la notizia, una delle espressioni più vigorose della natura la smentì: il ruggito del leone». Nel racconto che dà il titolo alla presente raccolta, un leone terrorizza i frequentatori del Club nel parco di Palermo, a Buenos Aires. Scatena i loro istinti peggiori e - inaspettatamente - anche i migliori. Rende chiaro che non c’è una sola realtà, ma alcune, e dà ragione all’autore che afferma: «Non credo che l’unica interpretazione di questi fatti sia la mia. Credo, semplicemente, che sia l’unica vera». Un maestro della narrativa del xx secolo, qui presentato attraverso una scelta dei suoi racconti piu intensi, apparsi tra il 1948 e il 1962.

Adolfo Bioy Casares (1914-1999), argentino di Buenos Aires, sposato con Silvina Ocampo, è autore - tra l’altro - di otto romanzi (tra cui L’invenzione di Morel, Il sogno degli eroi, Diario della guerra al maiale} e di una decina di raccolte di racconti. Ha intrattenuto una lunga e feconda collaborazione letteraria con Borges. Presso Einaudi ha pubblicato: Dormire al sole-, con Silvina Ocampo, CA ama, odia·, con Jorge Luis Borges, Cronache di Bustos Domecq.

ISBN 88-06-17321-9

Ha scritto una volta Jorge Luis Borges: «Uno dei principali avvenimenti di que­ gli anni - e della mia vita - fu l’inizio del­ l’amicizia con Adolfo Bioy Casares. Ci eravamo conosciuti nel 1930 o 1931, quando lui aveva circa diciassette anni e 10 avevo appena passata la trentina. In questi casi si dà sempre per scontato che 11 più vecchio sia il maestro e il più giova­ ne il discepolo. Questo può essere stato vero in principio, ma diversi anni dopo, quando cominciammo a lavorare insieme, fu Bioy che, segretamente, divenne il ve­ ro maestro». Il sodalizio tra i due grandi scrittori argentini, durato decenni, ha ge­ nerato numerose iniziative a quattro ma­ ni (« Compilammo antologie di poesia ar­ gentina, di racconti polizieschi o fanta­ stici; scrivemmo articoli e prefazioni; [...] fondammo una rivista, “Destiempo”, di cui uscirono tre numeri: scrivemmo sog­ getti cinematografici che furono invaria­ bilmente respinti») e soprattutto diede luogo a singolari eteronimi e a opere in­ dimenticabili come Cronache di Bustos Oomecq o Sei problemi per don Isidro Pa­ rodi. Insieme - e nonostante l’onesta schiettezza di Borges - quel sodalizio ha finito per togliere lustro alla figura di Adolfo Bioy Casares. Eppure, si è di fron­ te a una delle maggiori figure della cultura di lingua spagnola del xx secolo: sebbene nel 1990 abbia ricevuto il Premio Cervan­ tes, ancora la sua opera attende il merita­ to apprezzamento dei lettori. Vette folgo­ ranti di quell’opera sono alcuni romanzi, ma particolare - e forse predominante valenza assumono i suoi numerosi rac-

In .iipiiiiopt i 1.1 Augusio Concaio, Without macchina lici/iinihinlc lumini, i y / /

conti. La prima raccolta è l.a trama cele ste del 1948, l’ultima Una magia modesta del 1997, e tra questa e quella non si pos sono tralasciare La parte dell’ombra, Sto­ ria prodigiosa, Ghirlanda con amori, L'eroe delle donne, Storie smisurate, Una bam­ bola russa e cosi via: in mezzo secolo, Bioy Casares ha saputo creare un universo fan­ tastico e insieme verosimile, e lo ha rap­ presentato in racconti memorabili (alcuni dei quali brevissimi, folgoranti, a confer­ ma del genio essenziale di questo scritto­ re) . A proposito di quello che dà il titolo alla presente raccolta, l’autore ha osser­ vato (nelleM.emorias, del 1994): «In Un leone nel parco di Palermo torno al tema della liberazione dalle inibizioni attraver­ so la presenza di un dio o di una belva fe­ roce o attraverso l’impunità che conce­ dono i travestimenti». La scelta di questi sedici racconti - a cura di Glauco Felici -, risalenti agli an­ ni tra il 1948 e il 1962, intende essere un avvicinamento fondatamente ammaliato a un universo misterioso e coinvolgente. Adolfo Bioy Casares, argentino, è nato a Bue­ nos Aires nel 1914, e vi è morto nel 1999. Autore di romanzi (L’invenzione di Morel, Il sogno degli eroi, Diario della guerra al maiale, Dormire al sole) e di raccolte di racconti (La trama celeste, Storia pro­ digiosa, Ghirlanda con amori, L’eroe delle donne, Storie smisurate, Una bambola russa, Una magia mo­ desta), ha intrattenuto un’intensa collaborazione letteraria con Jorge Luis Borges (dalla quale nac­ quero le Cronache di Bustos Domecq), nonché con Silvina Ocampo, sua moglie, insieme alla quale scrisse Chi ama, odia.

Adolfo Bioy Casares

Un leone nel parco di Palermo Racconti 1948-1962

A'cura di Glauco Felici

Einaudi

© Adolfo Bioy Casares ed eredi di Adolfo Bioy Casares

© 1948 e 1967 La trama celeste © 1956 e 1961 Historia prodigiosa

© 1959 Guimalda con amores © 1962 El lado de la sombra

© 2005 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino Traduzione di Glauco Felici

Per la foto dell’autore © Sophie Bassouls / Corbis Sygma / Contrasto www.einaudi.it ISBN 88-06-17321-9

Nota del curatore. I racconti riuniti nella presente antologia sono tratti dal volume Cuentos I delle Obras complétas di Adolfo Bioy Casares, pubblicate da Edito­ rial Norma, Santafé de Bogota 1997. In particolare: La trama celeste, In memoria di Paulina, Sui re futuri e Lo spergiuro della neve provengono dal volume La trama celeste (pubbli­ cato la prima volta nel 1948); Storia prodigiosa e La serva altrui da Historia prodigiosa (1956); Un'avventura, Mosche e ragni, Rinverdire, Casanova segreto e Storia romana da Guimalda con amores (1959); La parte dell’om­ bra, L’opera, Il calamaro sceglie Usuo inchiostro, Un leone nel parco di Pa­ lermo e Gli affanni da El lado de la sombra (1962). G. F.

Z.

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La trama celeste

Quando il capitano Ireneo Morris e il dottor Carlos Al­ berto Servian, medico omeopata, scomparvero da Buenos Ai­ res, un 20 di dicembre, i giornali commentarono appena la notizia. Si disse che erano persone strane, gente complicata, e che una commissione stava indagando; si disse che la scar­ sa autonomia dell’aereo usato dai fuggiaschi consentiva di af­ fermare che non potevano essere andati troppo lontano. In quei giorni ricevetti un pacco; conteneva: tre volumi in quar­ to (le opere complete del comunista Louis-Auguste Blanqui); un anello di scarso valore (un’acquamarina sul cui fondo si vedeva l’immagine di una dea dalla testa di cavallo); parec­ chie pagine scritte a macchina - Le avventure del capitano Mor­ ris - firmate C. A. S. Trascriverò quelle pagine.

Le avventure del capitano Morris. Questo racconto potrebbe cominciare con una qualche leg­ genda celtica che ci parli del viaggio di un eroe in un paese che si trova dall’altra parte di una fonte; o di un’inespugna­ bile prigione fatta di teneri rami, o di un anello che renda in­ visibile chi lo porti, o di una nuvola magica, o di una ragaz­ za che piange nel fondo lontano di uno specchio tenuto in mano dal cavaliere destinato a salvarla, o della ricerca, in­ terminabile e senza speranza, della tomba di re Artù. Potrebbe cominciare anche con la notizia, che io ho inte­ so con sorpresa e con indifferenza, secondo cui un tribunale militare accusava di tradimento il capitano Morris. O con la negazione dell’astronomia. O con una teoria su quei movi-

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menti, chiamati pases, con cui si fanno apparire o scompari­ re gli spiriti. Tuttavia, io sceglierò un inizio meno stimolante; se non avrà i favori della magia, avrà quelli del metodo. Ciò non com­ porta un rifiuto del sovrannaturale; tanto meno il rifiuto del­ le allusioni o invocazioni del primo paragrafo. Mi chiamo Carlos Alberto Servian, e sono nato a Rauch; sono armeno. Da otto secoli il mio paese non esiste; ma lasciate che un armeno si accosti al suo albero genealogico: tutta la sua discendenza odierà i turchi. «Armeno una volta, armeno sem­ pre». Siamo come una società segreta, come un clan, e sparsi per i continenti, il sangue indefinibile, occhi e naso che si ri­ petono, un modo di capire e godere la terra, certe abilità, cer­ ti raggiri, certe sregolatezze in cui ci riconosciamo, l’appas­ sionata bellezza delle nostre donne, ci uniscono. Sono, per di più, scapolo e, come don Chisciotte, vivo (vi­ vevo) con una nipote: una ragazza gradevole, giovane e di­ namica. Vorrei aggiungere un altro aggettivo - tranquilla -, ma devo confessare che negli ultimi tempi non lo ha merita­ to. Mia nipote si divertiva a fare lavori da segretaria e, poi­ ché io non ho una segretaria, lei rispondeva al telefono, scri­ veva in bella copia e sistemava con un certo intuito le storie mediche e le sintomatologie che io annotavo sulla base delle dichiarazioni dei pazienti (la cui regola comune è il disordi­ ne) e organizzava il mio vasto archivio. Praticava un altro svago altrettanto innocente: venire al cinema con me nei po­ meriggi di venerdì. Quel pomeriggio era venerdì. La porta si aprì. Un giovane militare entrò nell’ambulatorio. La mia segretaria si trovava a destra rispetto a me, in pie­ di, dietro la scrivania, e mi porgeva, impassibile, uno di quei grandi fogli su cui annoto i dati che mi forniscono i pazien­ ti. Il giovane militare si presentò senza esitazioni - era il te­ nente Kramer - e dopo aver guardato insistentemente la mia segretaria domandò con voce sicura: - Posso parlare ? Gli dissi di parlare. Continuò: - Il capitano Ireneo Morris vuole vederla. E tenuto pri­ gioniero all’ospedale militare.

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Forse contagiato dalla marzialità del mio interlocutore, ri­ sposi: - Ai suoi ordini. - Quando andrà? - domandò Kramer. - Oggi stesso. Sempre che mi lascino entrare a quest’ora... - La lasceranno entrare, - dichiarò Kramer, e quasi im­ mediatamente usci. Guardai mia nipote. Era turbata. Intesi rabbia in lei e le domandai che cosa stesse succedendo. Mi rispose: - Sai chi è l’unica persona che ti interessa? Ebbi l’ingenuità di guardare nella direzione che mi indi­ cava. Mi vidi nello specchio. Mia nipote usci dalla stanza, correndo. Da qualche tempo era meno tranquilla. In più, aveva pre­ so l’abitudine di chiamarmi egoista. Parte della colpa di ciò l’attribuisco al mio ex libris. Reca triplicemente inscritto - in greco, in latino e in spagnolo - il motto Conosci te stesso (non ho mai sospettato fin dove mi avrebbe portato quel motto) e mi riproduce mentre osservo, attraverso una lente, la mia im­ magine in uno specchio. Mia nipote ha incollato migliaia di questi ex libris in migliaia di volumi della mia versatile bi­ blioteca. Ma c’è un altro motivo per questa fama di egoismo. Io sono sempre stato metodico, e noi uomini metodici, che siamo immersi in oscure occupazioni e trascuriamo i capric­ ci delle donne, sembriamo pazzi, o sciocchi, o egoisti. Visitai due clienti e andai all’ospedale militare. Erano passate le sei quando arrivai al vecchio edificio di cal­ le Pozos. Dopo un’attesa e un breve interrogatorio mi condus­ sero nella stanza occupata da Morris. Alla porta c’era una sen­ tinella con la baionetta. Dentro, molto vicino al letto di Mor­ ris, due uomini che non mi salutarono giocavano a domino. Morris e io ci conoscevamo da sempre; non siamo mai stati veri amici. Ho voluto molto bene a suo padre. Era un vecchio eccezionale, con la testa bianca, tonda, rasata, e gli occhi azzurri, eccessivamente duri e svegli; aveva un incon­ trollabile patriottismo gallese, un’irrefrenabile mania di rac­ contare leggende celtiche. Per molti anni (i più felici della mia vita), fu il mio professore. Tutti i pomeriggi studiavamo un po’, lui raccontava e io ascoltavo le avventure dei mabi-

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nogion, e poi ci rimettevamo in forze bevendo del mate con zucchero tostato. Ireneo si aggirava nei cortili; cacciava uc­ celli e topi, e con un temperino, un filo e un ago metteva as­ sieme cadaveri eterogenei; il vecchio Morris diceva che Ire­ neo sarebbe diventato medico. Io sarei diventato inventore, perché avevo orrore degli esperimenti di Ireneo e perché una volta avevo disegnato un proiettile a molla, che avrebbe con­ sentito i più invecchianti viaggi interplanetari, e un motore idraulico che, messo in moto, non si sarebbe mai fermato. Ireneo e io eravamo divisi da una reciproca indifferenza... Adesso, quando ci incontriamo, proviamo una grande gioia, un fiorire di nostalgie e di cordialità, ripetiamo un breve dia­ logo con allusioni alla nostra vecchia amicizia e, subito do­ po, non sappiamo cosa dirci. Il paese del Galles, la tenace tradizione celtica, si erano spenti con suo padre. Ireneo è tranquillamente argentino, e ignora e disprezza allo stesso modo tutti gli stranieri. Perfi­ no nell’aspetto è tipicamente argentino (alcuni lo hanno pre­ so per sudamericano): piuttosto piccolo, delicato, con le os­ sa sottili, i capelli neri - molto pettinati, rilucenti -, lo sguar­ do intelligente. Nel vedermi parve emozionato (io non l’avevo mai visto emozionato; neppure la sera che era morto il padre). Mi dis­ se con voce chiara, quasi per farsi sentire da quelli che gio­ cavano a domino: - Dammi la mano. Nei momenti difficili si conoscono gli amici. Mi sembrò che stesse esagerando. Morris continuò: - Dobbiamo parlare di molte cose, ma capirai che di fron­ te a un paio di circostanze come queste, - guardò con serietà i due uomini, - io preferisca stare zitto. Tra pochi giorni sarò a casa; allora sarà un piacere accoglierti. Credetti che quella frase equivalesse a un congedo. Mor­ ris aggiunse che se non avevo fretta mi sarei potuto tratte­ nere un attimo. - Non vorrei dimenticare ! - continuò. - Grazie per i libri. Mormorai qualcosa, confusamente. Non sapevo di quali libri mi stesse ringraziando. Parlò di incidenti aerei; smentì che vi fossero luoghi - El

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Palomar, a Buenos Aires, la Valle dei Re, in Egitto - da cui si irradiano correnti in grado di provocarne. Sulle sue labbra, «la Valle dei Re» mi parve incredibile. Probabilmente si accorse del mio stupore, perché spiegò: - Sono le teorie del prete Moreau. Altri dicono che ci manca la disciplina. E contraria alla peculiarità del nostro po­ polo, non so se mi segui. L’aspirazione dell’aviatore criollo è un aeroplano come Dio comanda. Se no, ricordati delle pro­ dezze di Mira, con il Golondnna', un bidone di latta tenuto insieme con il fildiferro. Gli domandai delle sue condizioni e del trattamento cui lo sottoponevano. Prima che rispondesse, fui io a parlare con voce ben alta, perché quelli che giocavano a domino sen­ tissero: - Niente iniezioni. Non avvelenarti il sangue. Prendi un Depuratum 6 e poi un’ArwzAz ioooo. Sei un caso tipico da Amica. Non dimenticare: dosi in-fi-ni-te-si-ma-li. Uscii con la soddisfazione di aver ottenuto una piccola vittoria. Passarono tre settimane. In casa ci furono poche novità. Adesso, a ripensarci, potrei forse scoprire che mia nipote fu più attenta che mai, e meno cordiale. Secondo la nostra abitudine, i due venerdì successivi andammo al cine­ ma; ma al terzo venerdì, quando entrai nella sua stanza, non c’era. Era uscita. Aveva dimenticato che quel pomeriggio sa­ remmo dovuti andare al cinema ! Poi mi arrivò un biglietto di Morris. Mi diceva che ormai era tornato, a casa e che andassi a trovarlo un pomeriggio qua­ lunque. Mi ricevette nello studio. Lo dico senza reticenze: Mor­ ris era migliorato. Ci sono fisici che tendono così invincibil­ mente all’equilibrio della salute che i peggiori veleni inven­ tati dalla farmacopea allopatica non li intaccano. Entrando in quella stanza ebbi la sensazione di tornare in­ dietro nel tempo; direi quasi che rimasi sorpreso di non tro­ vare il vecchio Morris (morto dieci anni prima), elegante e be­ nevolo, amministrare con calma gli impedimenta del mate. Non era cambiato niente. Nella biblioteca trovai gli stessi libri e Rondine [N. d. TJ.

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gli stessi busti di Lloyd George e di William Morris che ave­ vo rimirato nella mia gioventù; sul muro era appeso, come al­ lora, l’orribile quadro della morte di un tale Griffith, un per­ sonaggio di leggenda. Senza indugi cercai di condurre Morris sulla conversazio­ ne che gli stava a cuore. Disse che doveva soltanto aggiunge­ re alcuni particolari a ciò che mi aveva esposto nella sua let­ tera. Io non sapevo cosa dirgli; non avevo ricevuto nessuna lettera di Ireneo. Gli chiesi di raccontarmi tutto dall’inizio. Allora Ireneo Morris mi riferì la sua storia misteriosa. Fino al 23 giugno scorso era stato collaudatore degli aerei dell’esercito. Aveva sempre svolto questo incarico nella base di El Palomar; di recente lo avevano trasferito nella nuova fabbrica militare di Cordoba. Non aveva potuto andare fin li. Mi diede la sua parola che lui, come collaudatore, era una persona importante. Aveva fatto più voli di prova di ogni al­ tro collaudatore americano (del sud e del centro). La sua re­ sistenza era straordinaria. Ne aveva ripetuti cosi tanti di quei voli di prova che, au­ tomaticamente, inevitabilmente, era giunto a ripeterne sem­ pre uno uguale. Tirò fuori di tasca un libriccino e su un foglio bianco trac­ ciò una serie di linee a zig-zag; scrupolosamente vi annotò nu­ meri (distanze, altezze, gradi di angoli); poi strappò il foglio e me ne fece omaggio. Mi affrettai a ringraziarlo. Dichiarò che io possedevo «lo schema classico dei suoi collaudi». Verso il 15 giugno gli avevano comunicato che in quei gior­ ni avrebbe provato un nuovo Dewoitine - il 309 - monopo­ sto, da combattimento. Si trattava di un apparecchio co­ struito su un brevetto francese dell’anno precedente e la pro­ va si sarebbe svolta abbastanza in segreto. Morris se ne andò a casa, prese un taccuino di appunti - «come avevo fatto og­ gi» - disegnò lo schema - «lo stesso che io avevo in tasca». Poi si soffermò su come renderlo più complicato; quindi, «a questa stessa scrivania dove stavamo conversando ami­ chevolmente», immaginò quelle aggiunte, le impresse nella sua memoria. Il 23 giugno, alba di una bella e terribile avventura, era un giorno grigio, piovoso. Quando Morris arrivò all’aero­

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porto, l’apparecchio era ancora nell’hangar. Dovette aspet­ tare che lo tirassero fuori. Camminò, per non raffreddarsi; non ottenne altro che gli si inzuppassero i piedi. Finalmente apparve il Dewoitine. Era un monoplano ad ali basse, «nien­ te di trascendentale, ti assicuro». Lo ispezionò sommaria­ mente. Morris mi guardò negli occhi e a bassa voce mi co­ municò: «Il sedile era stretto, notevolmente scomodo». Ri­ cordò che l’indicatore del carburante segnava plein, e che sulle ali il Dewoitine non aveva nessuna insegna. Disse che fece un saluto con la mano, percorse circa cinquecento metri e de­ collò. Cominciò a eseguire quello che chiamava il suo «nuo­ vo schema di collaudo». Era il collaudatore più resistente della Repubblica. Pura resistenza fisica, mi assicurò. Era disposto a raccontarmi la verità. Anche se non riusciva a crederlo, all’improvviso gli si annebbiò la vista. A quel punto Morris parlò molto; arrivò a esaltarsi. Da parte mia, confesso di aver seguito attentamente il racconto. Quando senti che la vista gli si offuscava, ascoltò se stesso dire «Che vergogna, sto per per perdere conoscen­ za», investi una vasta massa scura (forse una nuvola), ebbe una visione effimera e felice, come la visione di un paradiso luminoso... A malapena riuscì a governare l’aereo mentre toc­ cava il campo di atterraggio. Tornò in sé. Era dolorosamente disteso su un letto bian­ co, in una stanza alta, dalle pareti bianchicce e spoglie. Un moscone si mise a ronzare; durante qualche secondo credet­ te di essere addormentato per il riposo del pomeriggio, in cam­ pagna. Dopo seppe che era ferito; che era agli arresti; che era all’ospedale militare. Nulla di tutto ciò lo preoccupava trop­ po; tardò un momento prima di ricordare l’incidente; nel ri­ cordarlo ebbe la prima sorpresa: non riusciva proprio a capi­ re come avesse potuto perdere conoscenza. Eppure, non l’a­ veva perduta una sola volta... Di ciò parlerò più avanti. La persona che si trovava con lui era una donna. La guardò. Era un’infermiera. Parlò delle donne in generale. Si mostrò dogmatico, sgra­ devole. Disse che c’era un tipo di donna, e addirittura una donna determinata e unica, per l’animale che è nascosto in ogni uomo, e aggiunse qualcosa come che è una disgrazia tro-

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varia, perché l’uomo comprende quanto sia decisiva per il suo destino e la tratta con timore e con rozzezza preparandosi un futuro d’ansia e di monotona frustrazione. Affermò che per l’uomo «come si deve», tra le altre donne non vi sono diffe­ renze notevoli, né pericoli. Gli domandai se l’infermiera cor­ rispondesse al suo tipo. Mi rispose di no, e chiari: «E una donna placida e materna, ma abbastanza bella». Continuò il suo racconto. Entrarono alcuni ufficiali (pre­ cisò i gradi gerarchici). Un soldato portò un tavolo, una se­ dia, una macchina da scrivere. Si sedette davanti alla mac­ china e scrisse in silenzio. Quando il soldato si fermò, un uf­ ficiale interrogò Morris: - Il suo nome ? Questa domanda non lo sorprese. Pensò: «Mere forma­ lità». Disse il suo nome, ed ebbe il primo segno dell’inspiegabile complotto che lo avvolgeva. Tutti gli ufficiali risero. Non aveva mai pensato che il suo nome fosse ridicolo. Si adirò. Un altro ufficiale disse: - Poteva inventare qualcosa di credibile -. Ordinò al sol­ dato della macchina: - Scriva, e basta. - Nazionalità? - Argentino, - affermò senza esitare. - Appartiene all’esercito ? Si concesse un tocco d’ironia: - Sono io quello dell’incidente, e voi sembrate quelli che hanno preso la botta. Risero un po’ (tra loro, come se Morris fosse assente). Continuò: - Appartengo all’esercito, con il grado di capitano. Sono collaudatore di aeroplani. - Con base a Montevideo ? - domandò sarcastico uno de­ gli ufficiali. - A El Palomar, - rispose Morris. Diede il suo indirizzo: Bolivar 971. Gli ufficiali uscirono. Tornarono il giorno dopo, loro e altri. Quando capi che du­ bitavano della sua nazionalità, o che fingevano di dubitare, avrebbe voluto alzarsi dal letto, picchiarli. La ferita e la leg­ gera pressione dell’infermiera lo trattennero. Gli ufficiali tor­ narono il pomeriggio del giorno dopo, e la mattina del se­

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guente. Faceva un caldo tremendo; tutto il corpo era indo­ lenzito; mi confessò che avrebbe dichiarato qualunque cosa purché lo lasciassero in pace. Cosa si proponevano ? Perché ignoravano chi fosse ? Per­ ché lo insultavano, perché fingevano che non fosse argen­ tino ? Era perplesso e furente. Una sera Pinfermiera lo pre­ se per mano e gli disse che non si difendeva con senno. Ri­ spose che non doveva difendersi da nulla. Passò la notte sveglio, tra impeti di collera, momenti in cui era deciso ad affrontare la situazione in tutta tranquillità, e momenti in cui reagiva con violenza, durante i quali si rifiutava di «en­ trare in quel gioco assurdo». L’indomani volle chiedere scu­ sa all’infermiera per il modo in cui l’aveva trattata; capiva che le sue intenzioni erano benevole, «e non è brutta, mi capisci»; ma siccome non sapeva chiedere scusa, le do­ mandò irritato che cosa gli consigliasse. L’infermiera gli consigliò di chiamare qualche persona di responsabilità che chiarisse ogni cosa. Quando vennero gli ufficiali disse di essere amico del te­ nente Kramer e del tenente Viera, del capitano Faverio, dei tenenti colonnelli Mendizàbal e Navarro. Alle cinque, insieme agli ufficiali, apparve il tenente Kra­ mer, suo amico da sempre. Morris disse con vergogna che «dopo una simile emozione, l’uomo non è più lo stesso», e che nel vedere Kramer si senti le lacrime agli occhi. Ammi­ se di essersi levato a sedere sul letto e di aver aperto le brac­ cia quando lo vide entrare. Gli gridò: - Vieni, fratello. Kramer si fermò e lo guardò senza emozione. Un ufficia­ le gli domandò: - Tenente Kramer, conosce quest’individuo? La voce era insidiosa. Morris dice che sperò - sperò che il tenente Kramer, con una spontanea esclamazione cordia­ le, rivelasse che il suo comportamento era solo parte di uno scherzo... Kramer rispose con troppo calore, come se temes­ se di non essere creduto: - Non l’ho mai visto. Parola mia, non l’ho mai visto. Gli credettero immediatamente, e la tensione che per al­ cuni secondi c’era stata fra loro scomparve. Si allontanarono.

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Morris senti le risate degli ufficiali, e la risata sincera di Kra­ mer, e la voce di un ufficiale che ripeteva: «Non mi sorpren­ de, credetemi che non mi sorprende. E uno sfrontato ! » Con Viera e con Mendizabal la scena si ripetè di nuovo nei punti essenziali. Fu più violenta. Un libro - uno dei libri che io gli avrei mandato - era sotto le lenzuola, a portata del­ la sua mano, e raggiunse la faccia di Viera quando questi fin­ se di non conoscerlo. Morris diede una descrizione dettagliata dell’episodio che non credo completamente vera. Chiarisco: non dubito del suo coraggio; bensì della sua velocità epi­ grammatica. Gli ufficiali ritennero che non fosse indispen­ sabile convocare Faverio, che si trovava a Mendoza. Credette allora di avere un’ispirazione; pensò che se le minacce tra­ sformavano in traditori i giovani, sarebbero fallite di fronte al generale Huet, vecchio amico di famiglia, che sempre era stato per lui come un padre. Gli risposero seccamente che non esisteva, che non era mai esistito un generale con un nome cosi nell’esercito ar­ gentino. Morris non aveva paura; forse se avesse conosciuto la pau­ ra si sarebbe difeso meglio. Fortunatamente, gli piacevano le donne, «e lei sa quanto amino ingrandire i pericoli e quan­ to siano astute». Nei giorni precedenti l’infermiera gli ave­ va preso la mano per convincerlo del pericolo che lo minac­ ciava; adesso Morris la guardò negli occhi e le domandò il significato di quel complotto contro di lui. L’infermiera ri­ petè quel che aveva sentito: la sua affermazione che il 23 aveva collaudato il Dewoitine a El Palomar era falsa; a El Palomar nessuno aveva collaudato aerei quel pomeriggio. Il Dewoitine era di un tipo adottato di recente dall’esercito ar­ gentino, ma la sua numerazione non corrispondeva a quella di nessun aereo dell’esercito argentino. «Mi credono una spia?», domandò incredulo. Senti che si stava adirando di nuovo. Timidamente, l’infermiera rispose: «Credono che lei sia venuto da qualche paese fratello». Morris le giurò come argentino che era argentino, che non era una spia. Sembrò impressionata e continuò con lo stesso tono di voce: «L’u­ niforme è uguale alla nostra; ma hanno scoperto che le cu­ citure sono diverse». Aggiunse: «Un particolare imperdo­

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nabile». Morris capi che neanche lei gli credeva; si senti soffocare dalla rabbia e, per dissimulare, la baciò sulla bocca e l’abbracciò. Pochi giorni dopo l’infermiera gli comunicò: «E stato ac­ certato che hai dato un indirizzo falso». Morris protestò inu­ tilmente; la donna aveva le prove: la persona che abitava in quella casa era il signor Carlos Grimaldi. Nella mente di Mor­ ris s’intrecciarono le sensazioni del ricordo e dell’amnesia. Gli parve che quel nome fosse legato a qualche esperienza passata; non riuscì a definirla. L’infermiera gli assicurò che il suo caso aveva determina­ to la formazione di due gruppi contrapposti: quello di coloro che sostenevano che era straniero e quello di coloro che so­ stenevano che era argentino. Più precisamente: gli uni avreb­ bero voluto mandarlo all’estero in quanto spia; gli altri, fuci­ larlo in quanto traditore. - Con il tuo insistere sul fatto che sei argentino, - disse la donna, - aiuti quelli che chiedono la tua morte. Morris le confessò che aveva provato in patria «l’isola­ mento che sentono quelli che visitano altri paesi». Ma con­ tinuava a non aver paura di nulla. La donna pianse tanto che, alla fine, le promise di accet­ tare ciò che gli avrebbe chiesto. «Anche se ti può sembrare ridicolo, mi piaceva vederla contenta», spiegò. La donna gli chiese di «riconoscere» che non era argentino. «Fosse stata un’altra donna, l’avrei picchiata. Le promisi di soddisfarla, senza alcuna intenzione di mantenere la promessa». Sollevò difficoltà: - Dico che sono del tal paese. Il giorno dopo rispondono da quel paese che la mia dichiarazione è falsa. - Non importa, - affermò l’infermiera. - Nessun paese riconoscerà mai di aver mandato in giro delle spie. Ma con quella dichiarazione e con qualche persona influente che io posso mettere in moto, forse potranno vincere i sostenitori dell’esilio, ammesso che non sia già troppo tardi. L’indomani un ufficiale andò a chiedergli una dichiarazione; Erano soli. L’uomo gli disse: - È un caso risolto. Nel giro di una settimana firmano la sentenza di morte.

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Morris mi spiegò: - Non mi restava più niente da perdere... «Per vedere cosa sarebbe successo», disse all’ufficiale: - Confesso che sono uruguayano. Spiegò: «Mi consolavo pensando che per me un uruguaya­ no non è uno straniero». Nel pomeriggio fu l’infermiera a confessare: disse a Mor­ ris che era stato tutto uno stratagemma; che aveva temuto che non mantenesse la sua promessa; l’ufficiale era un ami­ co e aveva ricevuto istruzioni per strappargli la confessione. Morris commentò: - Se fosse stata un’altra donna, l’avrei picchiata. La sua dichiarazione non era arrivata in tempo. La situa­ zione peggiorava. Secondo l’infermiera, l’unica speranza era in un signore che lei conosceva e di cui non poteva rivelare l’identità. Questo signore voleva vederlo prima di interce­ dere a suo favore. L’infermiera gli disse francamente: - Temo che gli provocherai una cattiva impressione, ma quel signore ti vuole vedere. Per favore, non mostrarti in­ transigente. Magari è l’ultima speranza. - Non ti preoccupare. Lo riceverò, se viene. - Il signore non verrà. - Allora non c’è niente da fare, - rispose Morris, sollevato. L’infermiera prosegui: - La prima notte in cui ci saranno sentinelle di fiducia, andrai tu a trovarlo. Ormai stai bene. Andrai da solo. Si tolse un anello dall’anulare e glielo consegnò. Morris se lo infilò al mignolo. Era una pietra, un vetro o un brillante, con la testa di un cavallo sul fondo. Doveva por­ tarlo con la pietra verso l’interno della mano, e le sentinelle lo avrebbero lasciato entrare e uscire come se non lo vedessero. L’infermiera gli diede le istruzioni. Sarebbe uscito a mez­ zanotte e mezzo e sarebbe dovuto tornare all’alba, prima del­ le tre e un quarto. L’infermiera gli scrisse su un pezzetto di carta l’indirizzo del signore. - Hai il pezzo di carta? - gli domandai. - Si, credo di si, - rispose Morris, e lo cercò nel portafo­ glio. Me lo porse controvoglia.

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Era un foglietto azzurro. L’indirizzo - Marquez 6890 era scritto con una grafia femminile e sicura (del Sacré-Cœur, dichiarò Morris, con inattesa erudizione). - Come si chiama l’infermiera? - domandai per semplice curiosità. Morris sembrava a disagio. Alla fine disse: - La chiamavano Idibal. Non so se è il nome o il cognome. Continuò il suo racconto: - Arrivò la notte fissata per la sortita. Idibai non si vide. Io non sapevo che fare. A mezzanotte e mezzo decisi di uscire. Gli sembrò inutile mostrare l’anello alla sentinella che sta­ va sulla porta della sua stanza. L’uomo sollevò la baionetta. Morris mostrò l’anello; usci liberamente. Si appiatti contro una porta: da lontano, in fondo al corridoio aveva visto un sergente. Poi, seguendo le indicazioni di Idibai, scese per una scala di servizio e arrivò alla porta sulla strada. Mostrò l’a­ nello e usci. Prese un taxi. «Una di quelle Buick che, se non si fa be­ ne attenzione, si potrebbe confondere con una Packard», chiari inutilmente. Diede l’indirizzo segnato sul bigliettino. Procedettero per più di mezz’ora. Costeggiarono, passando per Juan B. Justo e Gaona, le officine del Ferro Carril Oeste e imboccarono una strada alberata verso il limitare della città. Dopo cinque o sei isolati si fermarono davanti a una chiesa che svettava, bianca nella notte, con le sue colonne e le sue cupole, sulle case basse del quartiere. Credette che vi fosse un errore. Guardò il numero sul bi­ glietto: era quello della chiesa. - Dovevi aspettare fuori o dentro? - domandai. Disse che quel particolare non lo toccava. Entrò. Non vi­ de nessuno. Gli domandai com’era la chiesa. - Uguale alle altre, - rispose. Dopo un po’ seppi che era rimasto vicino a una fontana con i pesci, in cui cadevano tre zampilli d’acqua. Comparve un prete di quelli che si vestono in borghese, come quelli dell’Esercito della Salvezza, e gli domandò se stesse cercando qualcuno. Disse di no. Il prete se ne andò; quasi subito passò di nuovo. Queste apparizioni si ripetero­ no tre o quattro volte. Morris assicurò che la curiosità del

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soggetto era sbalorditiva, e che già stava per apostrofarlo; ma che l’altro gli chiese se aveva «l’anello del convivio». - L’anello di che?... - domandò Morris. E continuò a spie­ garmi: «Immaginati, come poteva venirmi in mente che sta­ va parlando dell’anello che mi aveva dato Idibai?» L’uomo gli guardò le mani con sorprendente curiosità, e gli ordinò: - Mi mostri l’anello. Morris ebbe un movimento di rifiuto. Poi obbedì. L’uomo lo condusse in sagrestia e lo invitò a spiegare la faccenda. Ascoltò il racconto con cenni di assenso. Morris chiarisce: «Come una spiegazione più o meno abile, ma fal­ sa; sicuro che non lo si voleva ingannare, che alla fine avreb­ be ascoltato la mia confessione, la spiegazione vera». Quando si convinse che Morris non avrebbe parlato ol­ tre, si irritò e volle concludere l’incontro. Disse che avrebbe tentato di fare qualcosa per lui. Uscito, Morris cercò calle Rivadavia. Si trovò di fronte a due torri che sembravano l’ingresso di un castello o di una città antica; erano l’ingresso di uno spazio vuoto che si schiu­ deva sull’oscurità. Ebbe l’impressione di trovarsi in una Bue­ nos Aires sovrannaturale e certamente maligna. Camminò per alcuni isolati. Si stancò. Giunse a Rivadavia, prese un taxi, una Studebaker massiccia e sgangherata, e diede l’in­ dirizzo di casa sua: Bolivar 971. Scese all’angolo tra Independencia e Bolivar. Camminò fino alla porta di casa. Non erano ancora le due del mattino. Aveva tempo. Volle infilare la chiave nella serratura. Non ci riuscì. Suonò il campanello. Non gli aprivano. Passarono dieci minuti. Si indignò perché la giovane domestica profittava della sua as­ senza - della sua disgrazia - per dormire fuori. Suonò il cam­ panello con tutta la sua forza. Senti rumori che sembravano venire da lontano; poi, una serie di colpi - uno secco, un al­ tro lieve - ritmici, crescenti. Apparve, enorme nel buio, una figura umana. Morris indietreggiò fino alla parte meno illuminata del­ l’andito; riconobbe immediatamente quell’uomo insonnoli­ to e furente ed ebbe l’impressione di essere lui quello che

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stava sognando. Si disse: «Si, Grimaldi lo zoppo, Carlos Gri­ maldi». Adesso ricordava il nome. Adesso, incredibilmente, era di fronte all’inquilino che occupava la casa quando suo padre l’aveva comperata, più di quindici anni prima. Grimaldi esplose: - Cosa vuole ? Morris ricordò l’astuta caparbietà dell’uomo per rimane­ re nella casa e l’infruttuoso indignarsi di suo padre, che di­ ceva «Lo tirerò fuori con il carretto del Municipio», e gli mandava regali perché se n’andasse. - C’è la signorina Carmen Soares? - domandò Morris, per guadagnare tempo. Carmen Soares era la giovane domestica. Grimaldi be­ stemmiò, sbattè la porta, spense la luce. Nell’oscurità, Mor­ ris senti allontanarsi i passi alterni; poi, in un tremare di ve­ tri e di ferri, passò un tram; dopo di che si ristabilì il silen­ zio. Morris pensò trionfante: «Non mi ha riconosciuto». Provò vergogna, sorpresa, indignazione. Decise di butta­ re giù la porta a calci e di scacciare l’intruso. Come se fosse stato ubriaco, disse a voce alta: «Vado a presentare una de­ nuncia al commissariato». Si domandò cosa significasse quel­ l’offensiva molteplice e accerchiante che i suoi compagni ave­ vano lanciato contro di lui. Decise di consultarmi. Se mi avesse trovato a casa, avrebbe avuto il tempo di spie­ garmi i fatti. Sali su un taxi, «anche questo una Studebaker, ma in migliori condizioni del precedente», e ordinò allo chauf­ feur di portarlo al pasaje Owen. L’uomo non lo conosceva. Morris gli chiese in malo modo per che cosa davano gli esa­ mi. Se la prese con tutto: con la polizia, che permette che le nostre case siano invase da intrusi; con gli stranieri, che ci cambiano il paese e non imparano mai a guidare. Lo chauf­ feur gli propose di prendere un altro taxi. Morris gli ordinò di svoltare per Vélez Sàrsfield fino a incrociare i binari. Si fermarono al passaggio a livello; interminabili treni gri­ gi facevano manovra. Morris gli ordinò di girare per Toll at­ torno alla stazione Sola. Scese all’angolo fra Australia e Luzuriaga. Lo chauffeur gli disse di pagare; che non poteva aspettarlo; che quel pasaje non esisteva. Non gli rispose. S’in­ camminò per Luzuriaga verso sud. Lo chauffeur lo segui con

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l’automobile, insultandolo. Morris pensò che se avessero in­ contrato una guardia notturna, l’autista e lui avrebbero dor­ mito al commissariato. - Oltretutto, - gli dissi, - avrebbero scoperto che eri fug­ gito dall’ospedale. L’infermiera e quelli che ti avevano aiu­ tato si sarebbero trovati nei pasticci. - Credimi, non ero in condizione di pensare a cose del ge­ nere, - rispose Morris e continuò a raccontare: Camminò per un isolato e non trovò il pasaje. Camminò per un altro isolato, e ancora un altro. Lo chauffeur conti­ nuava a protestare; la voce era più bassa, il tono più sarca­ stico. Morris tornò sui propri passi. Girò in Alvarado: li c’e­ rano il parco Pereyra, calle Rochadale. Imboccò Rochadale. A metà dell’isolato, sulla destra, le case si dovevano inter­ rompere e lasciare il posto al pasaje Owen. Morris senti co­ me l’anticipazione di una vertigine. Le case non si interrup­ pero. Si trovò in calle Australia. Vide in alto, su un fondo di nuvole notturne, la cisterna della International, in Luzuriaga; di fronte ci doveva essere il pasaje Owen; non c’era. Guardò l’ora. Gli rimanevano appena venti minuti. Camminò rapidamente. Si fermò presto. Era, con i piedi immersi in un denso fango scivoloso, davanti a una lugubre serie di case uguali, smarrito. Volle tornare al parco Perey­ ra. Non lo trovò. Temeva che lo chauffeur avrebbe scoperto che si era perduto. Vide un uomo; gli domandò dove si tro­ vasse il pasaje Owen. L’uomo non era della zona. Morris con­ tinuò a camminare, esasperato. Apparve un altro uomo. Mor­ ris si diresse verso di lui. Lo chauffeur scese dall’automobile e rapidamente si avvicinò. Morris e lo chauffeur gli doman­ darono quasi gridando se sapeva dove fosse il pasaje Owen. L’uomo sembrava spaventato, come se pensasse di essere ag­ gredito. Rispose che non aveva mai sentito nominare quel pasaje; stava per dire qualcos’altro, ma Morris lo guardò con aria minacciosa. Erano le tre e un quarto. Morris disse allo chauffeur di portarlo all’incrocio tra Caseros e Entre Rios. Nell’ospedale c’era un’altra sentinella. Passò due o tre vol­ te davanti alla porta, senza decidersi a entrare. Si convinse di tentare la sorte. Mostrò l’anello. La sentinella non lo fermò.

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L’infermiera riapparve alla fine del pomeriggio seguente. Gli disse: - L’impressione che hai suscitato nell’uomo della chiesa non è favorevole. Non ha potuto fare a meno di approvare la tua dissimulazione: è la sua eterna predica ai membri del convivio. Ma la tua mancanza di fiducia nella sua persona lo ha offeso. Dubitava seriamente che l’uomo si sarebbe veramente im­ pegnato a favore di Morris. La situazione era peggiorata. Le speranze di farlo passare per straniero erano svanite. La sua vita correva un pericolo immediato. Scrisse una minuziosa relazione dei fatti e me la spedi. Dopo volle giustificarsi: disse che la preoccupazione della donna lo infastidiva. Forse anche lui cominciava a preoc­ cuparsi. Idibai andò a trovare un’altra volta quell’uomo; ottenne, come favore personale verso di lei - «non verso quella spia disgustosa» -, la promessa che «le migliori influenze sareb­ bero intervenute attivamente nella faccenda». Il piano con­ sisteva nel costringere Morris a tentare una replica del fatto. Vale a dire, che gli avrebbero dato un aereo e gli avrebbero consentito di ripetere il collaudo che, secondo lui, aveva com­ piuto il giorno dell’incidente. Le migliori influenze prevalsero, ma l’aereo del collaudo sarebbe stato a due posti. Ciò rappresentava una difficoltà per la seconda parte del piano: la fuga di Morris in Uruguay. Morris disse che avrebbe saputo tenere a bada il suo accom­ pagnatore. Le influenze insistettero affinché l’aereo fosse un monoplano identico a quello dell’incidente. Idibai, dopo una settimana in cui lo infastidì con speran­ ze e ansie, arrivò raggiante e disse che era tutto sistemato. La data del collaudo era stata fissata per il venerdì successi­ vo (mancavano cinque giorni). Avrebbe volato da solo. La donna lo guardò ansiosa e gli disse: - Ti aspetto nella Colonia. Quando sarai decollato, fili dritto in Uruguay. Lo prometti? Lo promise. Si rigirò nel letto e finse di dormire. Com­ mentò: «Mi sembrava che stesse conducendomi per mano

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verso il matrimonio e questo mi indispettiva». Non sapeva che si stavano salutando per sempre. Poiché si era ristabilito, la mattina dopo lo portarono in caserma. - Furono giorni formidabili, quelli, - commentò. - Li ho passati in una stanza di due metri per due, bevendo mate e giocando ininterrottamente a truco con le sentinelle. - Ma se tu non giochi a truco, - gli dissi. Si trattò di un’improvvisa ispirazione. Naturalmente, non sapevo se giocasse o no. - Be’, un gioco di carte qualunque, - rispose senza scom­ porsi. Ero stupito. Avevo creduto che il caso, o le circostanze, avessero fatto di Morris un porteno archetipico; ma mai avrei potuto credere che fosse un cultore del colore locale. Prosegui: - Mi crederai uno stupido, ma io passavo le ore pensan­ do a quella donna. Ero cosi pazzo che arrivai perfino a cre­ dere di averla dimenticata... Interpretai: - Cercavi di raffigurarti la sua faccia e non ci riuscivi? - Come hai fatto a indovinare ? - non attese la mia rispo­ sta. Continuò a raccontare: Una mattina piovosa lo portarono via su una vecchia Talhot, un double-phaéton. A El Palomar lo attendeva una co­ mitiva di militari e di funzionari. - Forse per via della solennità, sembrava un duello, - dis­ se Morris, - un duello o un’esecuzione. Due o tre meccanici aprirono l’hangar e spinsero fuori un biplano Bristol, da caccia, «un serio concorrente del doublephaéton, credimi». Lo mise in moto. Vide che non c’era carburante neppure per dieci minuti di volo. Arrivare in Uruguay era impossibi­ le. Ebbe un attimo di tristezza. Malinconicamente, si disse che forse sarebbe stato meglio morire che vivere da schiavo. Lo stratagemma era fallito. Mettersi in volo sarebbe stato inutile. Ebbe voglia di chiamare quella gente e di dire loro: «Signori, il gioco è finito». Per apatia lasciò che gli eventi seguissero il loro corso. Decise di eseguire ancora una volta il suo nuovo schema di collaudo.

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Percorse alcuni metri e poi decollò. Esegui regolarmente la prima parte dell’esercizio, ma nell’iniziare le nuove ope­ razioni di nuovo si senti in preda alla vertigine, perse cono­ scenza, intese un lamento pieno di vergogna perché stava perdendo conoscenza. Sul campo d’atterraggio riuscì a rad­ drizzare l’aereo. Quando tornò in sé era dolorosamente disteso su un let­ to bianco, all’interno di una stanza alta, dalle pareti bian­ chicce e spoglie. Comprese che era ferito, che era prigionie­ ro, che era all’ospedale militare. Si domandò se non fosse tut­ ta un’allucinazione. Completai il suo pensiero: - Un’allucinazione che avevi nel momento di svegliarti. Seppe che la caduta era stata il 31 agosto. Perdette la no­ zione del tempo. Passarono tre o quattro giorni. Si rallegrò che Idibai fosse nella Colonia; questo nuovo incidente gli pro­ curava vergogna; e poi, la donna gli avrebbe rimproverato di non aver planato a motore spento fino in Uruguay. Rifletté: «Quando saprà dell’incidente, tornerà. Biso­ gnerà aspettare due o tre giorni». Lo curava una nuova infermiera. Trascorrevano i pome­ riggi tenendosi per mano. Idibai non tornava. Morris cominciò a preoccuparsi. Una notte fu colto da una grande ansia. «Mi crederai matto, - mi disse. - Avevo voglia di vederla. Pensai che fosse tornata, che avesse saputo la storia dell’altra infermiera e che per que­ sto non volesse più vedermi». Chiese a un aiuto-infermiere di chiamare Idibal. L’uomo non tornava. Molto dopo (ma quella stessa notte; a Morris sembrò impossibile che una notte potesse durare cosi tanto) tornò; il capo gli aveva detto che nell’ospedale non lavorava nessuno che si chiamasse cosi. Morris gli chiese di controlla­ re quando aveva lasciato il lavoro. L’aiuto-infermiere tornò all’alba e gli disse che il capo del personale era andato via. Sognava Idibal. Di giorno vedeva la sua immagine. Co­ minciò a sognare che non poteva più trovarla. Alla fine, non poteva più immaginarla né sognarla. Gli dissero che nessuna persona di nome Idibai lavorava né aveva lavorato nell’istituto.

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La nuova infermiera gli consigliò di leggere. Gli portaro­ no i quotidiani. Neppure la rubrica «In margine allo sport e al turf» lo interessava. «Mi misi di malumore e chiesi i libri che mi avevi mandato». Gli risposero che nessuno gli aveva mandato dei libri. (Fui sul punto di commettere un’imprudenza; di ammet­ tere cioè che non gli avevo spedito nulla). Pensò che avessero scoperto il piano di fuga e la parteci­ pazione di Idibai; perciò Idibai non si faceva più vedere. Si guardò le mani: l’anello non c’era. Lo chiese. Gli dissero che era tardi, che l’amministratrice se n’era già andata. Passò una notte atroce e lunghissima, pensando che non gli avrebbero mai riportato l’anello. - Pensando - aggiunsi - che se non ti avessero restituito l’anello non sarebbe rimasta traccia di Idibal. - Non ho pensato a questo, - affermò onestamente. - Ma trascorsi la notte come uno squilibrato. L’indomani mi por­ tarono l’anello. - Lo hai ancora ? - gli domandai, con una tale incredulità che rimasi perplesso anch’io. - Si, - rispose. - In un posto sicuro. Apri un cassetto laterale della scrivania e tirò fuori l’a­ nello. La pietra, di una vivida trasparenza, non brillava mol­ to. Sul fondo c’era un altorilievo a colori: un busto umano, di donna, con la testa di cavallo. Ebbi il dubbio che si trat­ tasse dell’immagine di qualche divinità antica. Le mie no­ zioni di gioielleria sono elementari; furono sufficienti, tut­ tavia, a scoprire che quell’anello era un pezzo di valore. La mattina dopo entrarono nella sua stanza due ufficiali con un soldato che portava un tavolino. Portò anche una sedia e una macchina da scrivere. Si sedette davanti alla macchina e cominciò a scrivere. Un ufficiale dettò: Ireneo Morris, ar­ gentino, Capitano, Esercito Argentino, Base di El Palomar. Gli parve naturale che sorvolassero sulla formalità di do­ mandargli tutto questo. «In fin dei conti, era una seconda dichiarazione. Comunque, si notava qualche progresso: ades­ so accettavano che fosse argentino, capitano dell’esercito, con base a El Palomar». La saggezza durò poco. Gli doman­ darono quale fosse stato il suo indirizzo dopo il 23 giugno

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(data del primo collaudo); dove avesse lasciato il Dewoitine 304 («Il numero non era 304, - precisò Morris. - Era 309». Questo errore inutile lo stupì); da dove avesse tirato fuori quel vecchio Bristol. Quando disse che il Dewoitine doveva essere da quelle parti, dato che l’incidente del 23 si era veri­ ficato a El Palomar, e che dovevano sapere da dove veniva fuori il Bristol perché glielo avevano dato loro stessi per re­ plicare il collaudo del 23, finsero di non credergli. Invece non fingevano più che fosse uno sconosciuto, e nemmeno che fosse una spia. Lo accusavano di essere stato in un altro paese dal 23 giugno. Lo accusavano - comprese con rinnovato furore - di aver venduto a un altro paese un’ar­ ma segreta. L’inestricabile congiura andava avanti, ma gli ac­ cusatori avevano cambiato il piano d’attacco. Gesticolante e cordiale, apparve il tenente Viera. Morris lo insultò. Viera finse di essere molto sorpreso; alla fine di­ chiarò che avrebbero dovuto battersi. - Pensai che la situazione stesse migliorando, - disse. - I traditori assumevano di nuovo una faccia da amici. Lo andò a trovare il generale Huet. Anche Kramer gli fe­ ce visita. Morris era distratto e non ebbe il tempo di reagi­ re. Kramer gli gridò: «Non credo a una sola parola delle ac­ cuse, fratello». Si abbracciarono, espansivi. «Un giorno o l’al­ tro, - pensò Morris, - riuscirò a chiarire la faccenda». Chiese a Kramer che venisse a trovarmi. Mi azzardai a domandare: - Dimmi una cosa, Morris, ti ricordi quali libri ti ho man­ dato? - I titoli non li ricordo, - sentenziò gravemente. - Nella tua nota sono citati. Non gli avevo scritto nessuna nota. Lo aiutai ad andare in camera. Tirò fuori dal cassetto del comodino un foglio di carta (foglio di carta che non rico­ nobbi). Me lo porse. La grafia sembrava una cattiva imitazione della mia. Le mie T e le mie E maiuscole sono simili a quelle stampate; que­ ste erano corsive. Lessi: «Accuso ricevuta della gradita sua in data 16, che mi è ar­ rivata con un certo ritardo, dovuto, senza dubbio, a uno

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sviante errore nell’indirizzo. Io non abito nel pasaje “Owen” ma in calle Miranda, nel quartiere Nazca. Le assicuro di aver letto la sua relazione con molto interesse. Per ora non posso venire a trovarla. Sono malato, ma mi curano solerti mani femminili, e in poco tempo mi sarò ripreso: allora avrò il pia­ cere di incontrarla. «Le invio, in segno di comprensione, questi libri di Blanqui, e le raccomando la lettura, nel terzo volume, della poe­ sia che comincia a pagina 281 ». Mi congedai da Morris. Gli promisi di tornare la setti­ mana dopo. La questione mi interessava e mi lasciava per­ plesso. Non dubitavo della buona fede di Morris; ma io non gli avevo scritto quella lettera; io non gli avevo mai spedito libri; io non conoscevo le opere di Blanqui. Devo fare alcune osservazioni a proposito della «mia let­ tera»: 1) Il suo autore non dà del tu a Morris. Fortunata­ mente il mio amico si sente tanto distante, tanto disinteres­ sato rispetto a ogni genere di scrittura che non si è accorto dello «scambio» di trattamento e non si è offeso con me. Io gli ho sempre dato del tu. 2) Giuro di non aver mai scritto la frase «Accuso ricevuta della gradita sua». 3) Quanto a met­ tere Owen tra virgolette, la cosa mi lascia perplesso e la pro­ pongo all’attenzione del lettore. La mia ignoranza delle opere di Blanqui è dovuta, forse, al programma di lettura. Sin da molto giovane ho compreso che per non lasciarsi travolgere dalla sconsiderata produ­ zione di libri e per conquistare, seppure in apparenza, una cultura enciclopedica, era indispensabile seguire un pro­ gramma inderogabile. Questo programma scandisce la mia vita: un’epoca è stata occupata dalla filosofia, un’altra dal­ la letteratura francese, un’altra dalle scienze naturali, un’al­ tra dall’antica letteratura celtica e in particolare da quella del paese di Kimris (a causa dell’influenza del padre di Mor­ ris). La medicina si è intercalata a questo programma, sen­ za mai interromperlo. Pochi giorni prima della visita del tenente Kramer nel mio ambulatorio, avevo concluso il settore delle scienze occulte. Mi avevano interessato soprattutto gli esorcismi, le appari­ zioni e le sparizioni. In rapporto a queste ultime ricorderò

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sempre il caso di Daniel Sludge Home, che, su richiesta del­ la Society for Psychical Research, di Londra, e di fronte a un selezionato pubblico, provò i pases che si usano per provoca­ re la sparizione di fantasmi e mori immediatamente. Quan­ to a quei nuovi Elia, che sarebbero scomparsi senza lasciare tracce né cadaveri, mi permetto di dubitare. Il «mistero» della lettera mi spinse a leggere le opere di Blanqui. Come prima cosa verificai che era nell’enciclopedia e che aveva scritto su temi politici. Me ne compiacqui: nel mio programma, accanto alle scienze occulte, si trovano la politica e la sociologia. Un giorno, all’alba, in calle Corrientes, in una libreria ge­ stita da un vecchio evanescente, trovai un polveroso involto di libri rilegati in cuoio bruno, con titoli e filettature dorati: le opere complete di Blanqui. Le acquistai per quindici pesos. A pagina 281 della mia edizione non c’è nessuna poesia. Anche se non ho letto l’opera per intero, credo che il testo indicato siaL’Etemitépar les Astres, un poema in prosa. Nel­ la mia edizione comincia a pagina 307 del secondo volume. In quel poema o saggio ho trovato la spiegazione dell’avven­ tura di Morris. Andai a Nazca; parlai con i commercianti della zona. Nei due isolati che compongono calle Miranda non vive nessuna persona con il mio nome. Andai a Marquez. Non esiste il numero 6890. Non ci so­ no chiese. C’era, quel pomeriggio, una luce poetica, con l’er­ ba dei pascoli molto verde e gli alberi color lillà e trasparen­ ti. Inoltre la strada non è vicina alle officine del Ferro Carrii Oeste. E vicina al ponte della Noria. Andai alle officine del Ferro Carril Oeste. Fu difficile gi­ rarvi attorno per Juan B. Justo e Gaona. Domandai come uscire dall’altra parte delle officine. «Continui per via Rivadavia, - mi dissero, - fino a Cuzco. Poi attraversi i binari». Com’era prevedibile, li non c’è nessuna calle Marquez. Quel­ la che Morris chiama calle Marquez dev’essere Bynnon. E pur vero che né al numero 6890 né nel resto della strada vi sono chiese. Molto vicino, verso Cuzco, c’è San Cayetano; la cosa non ha importanza: San Cayetano non è la chiesa del racconto. Il fatto che non esistano chiese nella stessa calle



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Bynnon non infirma la mia ipotesi che la strada sia quella ci­ tata da Morris; ma questo lo vedremo dopo. Trovai anche le torri che il mio amico situa in un luogo spazioso e solitario: sono il portico del Club Atletico Vélez Sarsfield, all’angolo tra Fragueiro e Barragan. Non ritenni necessaria una visita particolare al pasaje Owen: ci abito. Quando Morris si smarrì, ho il sospetto che si trovasse di fronte alle case ripetutamente uguali del quar­ tiere operaio Monsenor Espinosa, con i piedi affondati nel bianco fango di calle Pedriel. Ritornai da Morris. Gli domandai se non fosse passato in una calle Amilcar, o Anibai, nel suo viaggio notturno. Assi­ curò di non conoscere strade con un simile nome. Credette opportuno precisare: - Amilcar è una marca di automobili sport. Mi piacereb­ be averne una. Gli domandai se nella chiesa in cui era stato vi fosse qual­ che simbolo accanto alla croce. Rimase in silenzio, guardan­ domi. Credeva che non stessi parlando seriamente. Alla fine mi domandò: - Come puoi pensare che mi sia soffermato su un parti­ colare del genere ? - Certo, certo... eppure sarebbe importante. Cerca di far mente locale. Cerca di ricordare se accanto alla croce non c’era qualche altra figura. - Forse, - sussurrò, - forse un... - Un trapezio? - suggerii. - Si, un trapezio, - disse senza convinzione. - Semplice o attraversato da una linea ? - E vero, - esclamò. - Come fai a saperlo? Sei stato in calle Marquez? Prima non mi ricordavo niente... All’im­ provviso ho avuto davanti agli occhi l’insieme: la croce e il trapezio. Un trapezio attraversato da una linea dalle punte ripiegate. Parlava animatamente. - E hai osservato qualche statua di santi ? - Amico mio! - esclamò con impazienza repressa. - Non mi avevi chiesto di fare un inventario. Gli dissi di non inquietarsi. Quando si fu calmato, gli chie-

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si che mi mostrasse l’anello e mi ripetesse il nome dell’infer­ miera. Tornai a casa, contentissimo. Sentii rumori nella stanza di mia nipote; pensai che stesse mettendo in ordine le sue co­ se. Feci in modo che non si accorgesse della mia presenza. Non volevo essere interrotto. Presi il libro di Blanqui, me lo infilai sotto il braccio e uscii in strada. Mi sedetti su una panchina del parco Pereyra. Lessi an­ cora una volta questo periodo: «Vi saranno infiniti mondi identici, infiniti mondi lieve­ mente distinti, infiniti mondi differenti. Quel che adesso scrivo in questo forte del Toro, l’ho scritto e lo scriverò per l’eternità, su un tavolo, su un pezzo di carta, in una cella, del tutto simili. In infiniti mondi la mia situazione sarà la stes­ sa, ma forse vi saranno variazioni nella causa della mia pri­ gionia o nell’eloquenza o nel tono delle mie pagine». Il 23 giugno Morris cadde con il suo Dewoitine nella Bue­ nos Aires di un mondo quasi uguale a questo. Il periodo con­ fuso che segui l’incidente gli impedì di notare le prime dif­ ferenze; per notare le altre sarebbero state necessarie una per­ spicacia e un’istruzione che io non avevo. Riprese il volo in un mattino grigio e piovoso; cadde in un giorno splendente di sole. Il moscone, nell’ospedale, sugge­ risce l’estate; il caldo tremendo che lo oppresse durante gli interrogatori lo conferma. Morris riporta nel suo racconto alcune curiose caratteristi­ che del mondo che visitò. Li, ad esempio, manca il paese del Galles. Le strade con nome gallese non esistono in quella Bue­ nos Aires. Bynnon si trasforma in Marquez, e Morris, attra­ verso i labirinti della notte e dell’offuscamento, cerca invano il pasaje Owen. Io, e Viera, e Kramer, e Mendizàbal, e Fave­ rio, esistiamo li perché non siamo di origine gallese; il genera­ le Huet e lo stesso Ireneo Morris, entrambi di discendenza gal­ lese, non esistono (egli vi penetrò incidentalmente). Il Carlos Alberto Servian di laggiù, nella sua lettera, scrive tra virgolette la parola Owen perché gli sembra strana; per la stessa ra­ gione, gli ufficiali risero allorché Morris disse il proprio nome. Infatti li non sono mai esistiti i Morris, in Bolivar 971 continua ad abitare l’inamovibile Grimaldi.

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La relazione di Morris rivela, inoltre, che in quel mondo Cartagine non è scomparsa. Quando me ne sono reso conto ho fatto le mie sciocche domande su calle Anibai e calle Amilcar. Qualcuno chiederà come mai, se non è scomparsa Carta­ gine, esiste la lingua spagnola. Dovrò ricordare che tra la vit­ toria e l’annientamento possono esservi gruppi intermedi? L’anello è una doppia prova a mia disposizione. E una prova del fatto che Morris sia stato nell’altro mondo: nessu­ no degli esperti che ho consultato ha saputo identificare la pietra. E una prova dell’esistenza (in quell’altro mondo) di Cartagine: il cavallo è un simbolo cartaginese. Chi non ha vi­ sto anelli uguali nel museo Lavigerie ? Inoltre Idibai, o Iddibai, il nome dell’infermiera, è carta­ ginese; la fontana con i pesci rituali e il trapezio con la cro­ ce sono cartaginesi; infine vi sono i convivi o circuii, di me­ moria cartaginese e funesta quanto l’insaziabile Moloch... Ma torniamo alla riflessione. Mi domando se ho compra­ to le opere di Blanqui perché erano citate nella lettera che mi fece vedere Morris o perché le storie di questi due mondi so­ no parallele. Poiché li il Galles non esiste, le leggende corri­ spondenti non hanno occupato una parte del programma di lettura; l’altro Carlos Alberto Servian ha potuto avvantag­ giarsi; è potuto arrivare prima di me alle opere politiche. Sono orgoglioso di lui: con i pochi elementi di cui dispo­ neva, ha chiarito la misteriosa apparizione di Morris; affin­ ché a sua volta Morris potesse comprenderla, gli ha consi­ gliato L’Eternité par les Astres. Mi stupisce, tuttavia, che si vanti di vivere nel quartiere Nazca e di non conoscere il pasaje Owen. Morris è stato in quell’altro mondo ed è tornato. Non ha fatto ricorso al mio proiettile a molla né agli altri veicoli che sono stati ideati per solcare l’incredibile astronomia. Come ha compiuto i suoi viaggi? Ho aperto il dizionario di Kent; sotto la voce pase ho letto: «Complicate serie di movimenti che si fanno con le mani, attraverso i quali si provocano ap­ parizioni e sparizioni». Ho pensato che forse le mani non so­ no indispensabili; che i movimenti possono essere eseguiti con altri oggetti; ad esempio, con degli aerei.

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La mia teoria è che il «nuovo schema di collaudo» coin­ cida con qualche pase. Le due volte che lo prova, Morris svie­ ne e cambia mondo. Li credettero che fosse una spia venuta da un paese confi­ nante; qui spiegano la sua assenza accusandolo di una fuga al­ l’estero, con l’intenzione di vendere un’arma segreta. Egli non capisce nulla e si crede vittima di un malvagio complotto. Quando tornai a casa trovai sulla scrivania un appunto di mia nipote. Mi comunicava di essere scappata con quel tradi­ tore pentito, il tenente Kramer. Aggiungeva questa crudeltà: « Ho la consolazione di sapere che non soffrirai molto perché non ti sei mai interessato a me». Aggiungeva poi questa raf­ finata crudeltà: «Kramer si interessa a me; sono felice». Fui colto da una grande prostrazione, non ricevetti più i miei malati e per venti giorni non uscii in strada. Pensai con una certa invidia a quel me stesso astrale, chiuso come me nella sua casa, ma curato da «solerti mani femminili». Credo di conoscere la loro intimità; credo di conoscere quelle mani. Feci visita a Morris. Cercai di parlargli di mia nipote (rie­ sco a stento a non parlare incessantemente di mia nipote). Mi domandò se era una ragazza materna. Gli dissi di no. Parlò dell’infermiera. Non è la possibilità di incontrarmi con una nuova versio­ ne di me stesso ciò che potrebbe spingermi a fare un viaggio in direzione di quell’altra Buenos Aires. L’idea di riprodur­ mi, secondo l’immagine del mio ex libris, o di conoscermi, se­ condo il suo motto, non mi lusinga. Mi lusinga, forse, l’idea di fare un’esperienza che l’altro Servian, nella sua fortuna, non ha acquisito. Ma questi sono problemi personali. La cosa più grave è la situazione di Morris, che mi preoccupa. Qui tutti lo cono­ scono e hanno voluto essere rispettosi con lui; ma siccome ha un modo di negare davvero monotono e la sua mancanza di fiducia esaspera i capi, la perdita dei gradi, se non addirittu­ ra la raffica della fucilazione, sarà il suo futuro. Se gli avessi chiesto l’anello che gli aveva dato l’infermiera me lo avrebbe negato. Refrattario alle idee generali, non avrebbe mai inteso il diritto dell’umanità su quella testimo­ nianza dell’esistere di altri mondi. Devo ammettere, inoltre,



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che Morris aveva un forte attaccamento per quell’anello. Il mio modo di procedere offenderà la sensibilità di alcuni; la coscienza dell’umanista l’approva. Infine, mi è gradito se­ gnalare un risultato insperato da quando ha perduto il suo anello. Morris si mostra più disposto ad ascoltare i miei pia­ ni di evasione. AH’interno della società noi armeni formiamo un nucleo indistruttibile. Ho amicizie influenti. Morris potrà tentare di replicare il suo incidente, e io mi azzarderò ad accompa­ gnarlo. C. A. S.

Il racconto di Carlos Alberto Servian mi è sembrato in­ verosimile. Non ignoro l’antica leggenda del carro di Mor­ gan: il passeggero dice dove vuole andare, e il carro ve lo por­ ta; ma è una leggenda. Ammettiamo che per una casualità il capitano Ireneo Morris sia caduto nell’altro mondo; il fatto che torni a cadere in questo sarebbe un eccesso di casualità. Sin dall’inizio ho avuto quell’opinione. I fatti l’hanno con­ fermata. 10 e un gruppo di miei amici progettiamo e rinviamo, an­ no dopo anno, un viaggio alla frontiera dell’Uruguay con il Brasile. Poiché quest’anno non abbiamo potuto evitarlo, sia­ mo partiti. 11 3 aprile facevamo colazione in una locanda in aperta campagna. Dopo avremmo visitato una fazenda interessan­ tissima. Seguita da un polverone, arrivò un’interminabile Packard. Ne scese un ometto magro, dai capelli tirati all’indietro con la brillantina. - Dicono che fosse un capitano, - spiegò qualcuno. - Si chiama Morris. Non accompagnai i miei amici a visitare la fazenda. Mor­ ris mi raccontò avventure di contrabbandieri: sparatorie con la polizia, stratagemmi per ingannare la giustizia e per sba­ razzarsi dei rivali, fuggiaschi che per traversare i fiumi si at­ taccavano alla coda dei cavalli, sbornie e donne...

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All’improvviso, come in uno svenimento, credetti di in­ travedere una soluzione. Indagai con Morris. Indagai con al­ tri, quando Morris se ne andò. Raccolsi prove sul fatto che Morris era arrivato a metà giugno dell’anno scorso, e che molte volte era stato visto nel­ la regione, tra l’inizio di settembre e la fine di dicembre. L’8 settembre partecipò a certe corse di cavalli, a Yaguarào; poi stette vari giorni a letto, a causa di una caduta da cavallo. Eppure, in quei giorni di settembre, il capitano Morris era ricoverato e imprigionato nell’ospedale militare, a Buenos Aires. Le autorità militari, i compagni d’arme, gli amici d’in­ fanzia, il dottor Servian e l’attuale capitano Kramer, il ge­ nerale Huet, vecchio amico di famiglia, lo testimoniano. La spiegazione è evidente. In diversi mondi quasi uguali, vari capitani Morris usci­ rono un giorno (qui il 23 giugno) per collaudare aerei. Il no­ stro Morris fuggì in Uruguay o in Brasile. Un altro, che parti da un’altra Buenos Aires, fece alcuni poses con il suo aereo e si trovò nella Buenos Aires dell’altro mondo (dove non esi­ steva il Galles e dove esisteva Cartagine; dove attende Idi­ bai). QueU’Ireneo Morris sali poi sul Bristol, fece di nuovo i poses e cadde in questa Buenos Aires. Poiché era identico all’altro Morris, persino i suoi compagni lo confusero. Ma non era lo stesso. Il nostro (quello che è in Brasile) prese il volo, il 23 giugno, con il Dewoitine 304; l’altro sapeva per­ fettamente di aver collaudato il Dewoitine 309. In seguito, con il dottor Servian come accompagnatore, prova di nuo­ vo i poses e sparisce. Forse arriveranno a un altro mondo; è meno probabile che riescano a trovare la nipote di Servian e la cartaginese. Citare Blanqui per sostenere la teoria della pluralità dei mondi fu forse merito di Servian; io, più modesto, avrei pro­ posto l’autorità di un classico; ad esempio: «secondo Demo­ crito, vi è un’infinità di mondi tra i quali alcuni sono non sol­ tanto simili ma perfettamente uguali» (Cicerone, Academica priora, II, 18). Oppure: «Eccoci qui, a Bauli, vicino a Poz­ zuoli; pensi che ora, in un numero infinito di luoghi esatta­ mente uguali, vi saranno riunioni di persone con i nostri stes­ si nomi, cariche degli stessi onori, che siano passate attra­

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verso le stesse circostanze, e per intelligenza, e per età, e per aspetto, identiche a noi, e che stiano discutendo questo stes­ so argomento?» (ibid., 40). I lettori abituati all’antico concetto di mondi planetari e sferici riterranno incredibili i viaggi tra Buenos Aires di mon­ di diversi. Si domanderanno perché i viaggiatori arrivano sempre a Buenos Aires e non in altre regioni, nei mari o nei deserti. L’unica risposta che posso dare a una domanda cosi lontana dalle mie competenze è che forse questi mondi sono come fasci di spazi e di tempi paralleli.

In memoria di Paulina

Ho sempre amato Paulina. In uno dei miei primi ricordi, Paulina e io ce ne stiamo nascosti in un ombroso gazebo di alloro, in un giardino con due leoni di pietra. Paulina mi dis­ se: Mi piace l’azzurro, mi piace l’uva, mi piace il ghiaccio, mi piacciono le rose, mi piacciono i cavalli bianchi. Capii che la mia felicità era cominciata, perché per queste preferenze potevo identificarmi con Paulina. Ci somigliavamo in ma­ niera cosi miracolosa che in un libro sulla riunione ultima delle anime nell’anima del mondo la mia amica scrisse: Le nostre si sono già riunite. «Nostre», a quel tempo, significa­ va la sua e la mia. Per spiegarmi quella somiglianza pensai di essere una fret­ tolosa e malriuscita imitazione di Paulina. Ricordo che su un mio quaderno avevo annotato: Ogni poesia è una brutta copia della Poesia, e in ogni cosa c’è una prefigurazione di Dio. Pen­ sai anche: In ciò che mi fa somigliare a Paulina sono salvo. Vedevo (e vedo ancora oggi) l’identificazione con Paulina co­ me la migliore possibilità del mio essere, come il rifugio in cui mi sarei liberato dei miei difetti naturali, della pigrizia, della negligenza, della vanità. La vita fu una dolce abitudine che ci portò ad attendere, come un fatto naturale e certo, il nostro futuro matrimonio. I genitori di Paulina, insensibili al prestigio letterario da me prematuramente raggiunto, e perduto, promisero di dare il loro consenso quando mi fossi laureato. Molto spesso imma­ ginavamo un avvenire ordinato, con il tempo sufficiente per lavorare, per viaggiare e per amarci. Lo immaginavamo con una tale intensità da persuaderci che già vivevamo insieme. Parlare del nostro matrimonio non ci induceva a trattarci

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come fidanzati. Tutta l’infanzia l’abbiamo passata insieme, e tra noi continuava una pudica amicizia da bambini. Non osavo ricoprire il ruolo di innamorato e dirle, in tono solen­ ne: Ti amo. Eppure, siccome l’amavo, con quale amore at­ tonito e scrupoloso guardavo la sua risplendente perfezione. A Paulina piaceva che io ricevessi amici. Preparava tutto, stava dietro agli invitati e, in segreto, giocava a fare la pa­ drona di casa. Confesso che quelle riunioni non mi diverti­ vano. Quella che organizzammo per far conoscere a Julio Montero un po’ di scrittori non fu un’eccezione. Il giorno precedente, Montero era venuto a trovarmi per la prima volta. Brandiva, in quell’occasione, un copioso ma­ noscritto e il dispotico diritto che l’opera inedita conferisce sul tempo del prossimo. Un attimo dopo la sua visita avevo di­ menticato quella faccia irta e quasi nera. Quanto al racconto che mi lesse - Montero mi aveva raccomandato che gli dices­ si con tutta sincerità se l’impatto con la sua amarezza risulta­ va troppo forte - poteva forse essere rimarchevole perché ri­ velava un vago proposito di imitare scrittori positivamente di­ versi. L’idea centrale derivava dal verosimile sofisma: se una determinata melodia nasce dalla relazione tra il violino e i mo­ vimenti del violinista, da una determinata relazione tra movi­ mento e materia dovrebbe nascere l’anima di ogni persona. L’eroe del racconto fabbricava una macchina per produrre ani­ me (una specie di telaio, con legni e spaghi). Poi l’eroe mori­ va. Vegliavano e seppellivano il cadavere, ma lui era segretamente vivo nel telaio. Verso l’ultimo capoverso, il telaio com­ pariva, insieme a uno stetoscopio e a un tripode con una pietra di galena, nell’appartamento in cui era morta una signorina. Quando riuscii a distaccarlo dai problemi del suo sogget­ to, Montero mostrò una strana ambizione di conoscere scrit­ tori. - Torni domani pomeriggio, - gli dissi. - Gliene presen­ terò qualcuno. Definì se stesso un selvaggio e accettò l’invito. Forse spin­ to dal piacere di vederlo andar via, scesi con lui fino al por­ tone. Quando uscimmo dall’ascensore, Montero scopri il giar­ dino che sta nel cortile. A volte, nella debole luce del pome­ riggio, vedendolo attraverso il portone a vetri che lo separa

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dal vestibolo, questo minuscolo giardino suggerisce la miste­ riosa immagine di un bosco sullo sfondo di un lago. Di sera, proiettori di luce lillà e arancione lo trasformano in un orri­ bile paradiso di caramella. Montero lo vide di sera. - Sarò sincero, - mi disse, rassegnandosi a distogliere lo sguardo dal giardino. - Di quanto ho visto in casa sua que­ sta è la cosa più interessante. L’indomani Paulina arrivò presto; alle cinque del pome­ riggio era già tutto pronto per ricevere gli ospiti. Le feci ve­ dere una statuina cinese, di pietra verde, che avevo compe­ rato la mattina da un antiquario. Era un cavallo selvaggio con le zampe anteriori in aria e la criniera sollevata. Il negozian­ te mi aveva assicurato che simboleggiava la passione. Paulina mise il cavallino in un ripiano della libreria ed esclamò: E bello come la prima passione di una vita. Quan­ do le dissi che glielo regalavo, d’impulso mi gettò le braccia al collo e mi baciò. Prendemmo il tè in soggiorno. Le dissi che mi avevano of­ ferto una borsa di studio di due anni a Londra. Subito ci con­ vincemmo di un matrimonio immediato, del viaggio, della nostra vita in Inghilterra (ci sembrava immediata quanto il matrimonio). Considerammo dettagli di economia domesti­ ca; i sacrifici, quasi dolci, cui ci saremmo sottoposti; la di­ stribuzione delle ore di studio, di passeggio, di riposo e, for­ se, di lavoro; cosa avrebbe fatto Paulina mentre io seguivo i corsi; i vestiti e i libri che avremmo portato con noi. Dopo un po’ di progetti, convenimmo che avrei dovuto rinunciare alla borsa di studio. Mancava una settimana ai miei esami, ma ormai era evidente che i genitori di Paulina volevano rin­ viare il nostro matrimonio. Cominciarono ad arrivare gli invitati. Non mi sentivo fe­ lice. Mentre conversavo con qualcuno, pensavo soltanto a un qualunque pretesto per lasciarlo. Proporre un argomento che interessasse l’interlocutore mi sembrava impossibile. Se vo­ levo ricordare qualcosa, non avevo memoria o l’avevo troppo lontana. Ansioso, futile, fiacco, passavo da un gruppo all’al­ tro, desiderando che la gente se ne andasse e che rimanessi­ mo soli, che arrivasse il momento, ahi, cosi breve, di accom­ pagnare Paulina a casa.

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Vicino alla finestra, la mia fidanzata parlava con Monte­ ro. Quando la guardai, alzò gli occhi e volse verso di me il suo viso perfetto. Sentii che nella tenerezza di Paulina c’era un rifugio inviolabile, dove eravamo soli. Che voglia di dirle che l’amavo! Presi la ferma decisione di abbandonare quella se­ ra stessa la mia puerile e assurda vergogna di parlarle d’a­ more. Se adesso potessi (sospirai) comunicarle i miei pensie­ ri. Nel suo sguardo palpitò una generosa, allegra e sorpresa gratitudine. Paulina mi domandò in quale poesia un uomo si allonta­ na tanto da una donna che non la saluta quando l’incontra in cielo. Sapevo che la poesia era di Browning e ricordavo va­ gamente i versi. Passai il resto del pomeriggio a cercarli nel­ l’edizione di Oxford. Se non mi lasciavano solo con Paulina, cercare qualcosa per lei era preferibile alle conversazioni con altre persone; tuttavia ero singolarmente turbato e mi chie­ si se l’impossibilità di trovare la poesia non nascondesse un presagio. Guardai verso la finestra. Luis Alberto Morgan, il pianista, dovette notare la mia ansietà, perché mi disse: - Paulina sta mostrando la casa a Montero. Mi strinsi nelle spalle, nascosi a stento il fastidio e finsi di interessarmi, di nuovo, al libro di Browning. Di traverso vidi Morgan che entrava nella mia stanza. Pensai: La va a chiamare. Subito riapparve con Paulina e con Montero. Finalmente qualcuno se ne andò; poi, con indifferenza e lentezza, si mossero altri. Arrivò il momento in cui rima­ nemmo soltanto Paulina, io e Montero. Allora, come teme­ vo, Paulina disse: - E molto tardi. Io vado. Montero intervenne rapidamente: - Se mi permette, l’accompagno a casa. - Anch’io ti accompagno, - risposi. Parlavo a Paulina, ma guardavo Montero. Volli che gli oc­ chi gli comunicassero il mio disprezzo e il mio odio. Arrivati dabbasso, mi accorsi che Paulina non aveva il ca­ vallino cinese. Le dissi: - Hai dimenticato il mio regalo. Salii nel mio appartamento e tornai con la statuina. Li trovai appoggiati al portone a vetri, che guardavano il giar-

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dino. Presi il braccio di Paulina e non permisi che Montero le si avvicinasse dall’altra parte. Nella conversazione ignorai ostentatamente Montero. Non si offese. Quando lasciammo Paulina, insistette per accompagnarmi fino a casa. Lungo la strada parlò di lettera­ tura, probabilmente con sincerità e calore. Mi dissi: Lui è il letterato; io sono un uomo stanco, frivolamente impensieri­ to per una donna. Considerai l’incongruenza che c’era tra il suo vigore fisico e la sua debolezza letteraria. Pensai: E co­ perto con un cappuccio; non gli arriva ciò che sente l’inter­ locutore. Guardai con odio i suoi occhi desti, i suoi baffi ispi­ di, il suo collo robusto. Quella settimana non vidi quasi mai Paulina. Studiai mol­ to. Dopo l’ultimo esame, le telefonai. Si congratulò con un’in­ sistenza che non sembrava naturale e disse che alla fine del pomeriggio sarebbe venuta da me. Dopo pranzo dormii, feci un bagno, con lentezza, e at­ tesi Paulina sfogliando un libro sui Faust di Müller e di Les­ sing. Quando la vidi, esclamai: - Sei cambiata. - Si, - rispose. - Come ci conosciamo! Non ho bisogno di parlare perché tu sappia quello che sento. Ci guardammo negli occhi, in un’estasi di beatitudine. - Grazie, - risposi. Nulla mi commuoveva quanto l’ammissione, da parte di Paulina, della profonda somiglianza delle nostre anime. Fi­ duciosamente mi abbandonai a questa lusinga. Non so quan­ do mi domandai (incredulo) se le parole di Paulina potesse­ ro nascondere un altro significato. Ancor prima che consi­ derassi questa possibilità, Paulina intraprese una confusa spiegazione. Sentii all’improvviso: - Quel primo pomeriggio già eravamo perdutamente in­ namorati. Mi domandai chi fosse innamorato. Paulina continuò: - E molto geloso. Non si oppone alla nostra amicizia, ma gli ho giurato che, per un po’ di tempo, non ti avrei visto. Attendevo, ancora, l’impossibile spiegazione che mi avreb­ be tranquillizzato. Non sapevo se Paulina dicesse per scherzo

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o seriamente. Non sapevo quale espressione vi fosse sul mio viso. Non sapevo quanto fosse straziante la mia angoscia. Pau­ lina aggiunse: - Vado. Julio mi sta aspettando. Non è salito per non di­ sturbarci. - Chi ? - domandai. Subito dopo temetti - come se non fosse successo niente - che Paulina scoprisse che ero un impostore e che le nostre anime non erano poi cosi unite. Paulina rispose con naturalezza: - Julio Montero. La risposta non poteva sorprendermi; eppure, in quell’orribile pomeriggio, nulla mi colpi quanto quelle due paro­ le. Per la prima volta mi sentii lontano da Paulina. Quasi con disprezzo le domandai: - Vi sposerete? Non ricordo cosa mi rispose. Credo che mi invitò al ma­ trimonio. Dopo mi trovai solo. Tutto era assurdo. Non c’era una persona più inconciliabile con Paulina (e con me) di Monte­ ro. O mi sbagliavo ? Se Paulina amava quell’uomo, forse non era mai stata simile a me. Un’abiura non mi bastò; scoprii che molte volte avevo intravisto la spaventosa verità. Ero molto triste, ma non credo che provassi gelosia. Mi stesi sul letto, a faccia in giù. Allungando una mano, trovai il libro che avevo sfogliato un momento prima. Lo scagliai lontano da me, con schifo. Uscii per camminare. All’angolo di una strada mi fermai a guardare una giostra. Mi sembrava impossibile continua­ re a vivere quel pomeriggio. Per anni lo ricordai e poiché preferivo i dolorosi momen­ ti della rottura (dato che li avevo passati insieme a Paulina) alla successiva solitudine, li ripercorrevo e li esaminavo mi­ nuziosamente e tornavo a viverli. In questo tormentato va­ neggiamento credevo di scoprire nuove interpretazioni per i fatti. Cosi, ad esempio, nella voce di Paulina che mi dichia­ rava il nome del suo amato, sorpresi una tenerezza che, al­ l’inizio, mi emozionò. Pensai che la ragazza avesse compas­ sione di me e mi commosse la sua bontà come prima mi com-

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muoveva il suo amore. Poi, riflettendo, conclusi che quella tenerezza non era per me ma per il nome pronunciato. Accettai la borsa di studio e, silenziosamente, mi dedicai ai preparativi del viaggio. Tuttavia, la notizia trapelò. L’ul­ timo pomeriggio mi venne a trovare Paulina. Mi sentivo lontano da lei, ma quando la vidi mi innamo­ rai di nuovo. Senza che Paulina lo dicesse, capii che la sua apparizione era furtiva. Le presi le mani, tremante di grati­ tudine. Paulina disse: - Ti amerò sempre. In qualche modo, ti amerò sempre più di chiunque altro. Forse credette di aver commesso un tradimento. Sapeva che non dubitavo della sua lealtà verso Montero, ma quasi di­ sgustata per aver pronunciato parole che potevano nascon­ dere - se non per me, per un testimone immaginario - un’in­ tenzione sleale, aggiunse rapidamente: - E chiaro, ciò che provo per te non conta. Sono inna­ morata di Julio. Tutto il resto, disse, non aveva importanza. Il passato era una regione deserta in cui aveva atteso Montero. Del nostro amore, o amicizia, non si ricordò. Dopo abbiamo parlato poco. Ero molto sdegnato e finsi di aver fretta. L’accompagnai all’ascensore. Mentre aprivo la porta cominciò di nuovo a cadere, improvvisa, la pioggia. - Cercherò un taxi, - disse. Con un’emozione improvvisa nella voce, Paulina mi gridò: - Addio, amore. Attraversò, di corsa, la strada e spari nella lontananza. Tornai indietro, tristemente. Sollevando lo sguardo, vidi un uomo acquattato nel giardino. L’uomo si alzò in piedi e poggiò le mani e la faccia contro il portone a vetri. Era Montero. Raggi di luce lillà e arancione si incrociavano su un fondo verde, con boscaglie scure. La faccia di Montero, premuta contro il vetro bagnato, sembrava bianchiccia e deforme. Pensai a un acquario, a pesci in un acquario. Subito, con frivola amarezza, mi dissi che la faccia di Montero suggeri­ va altri mostri: i pesci deformati dalla pressione dell’acqua, che abitano il fondo del mare.



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Il giorno dopo, di mattina, mi imbarcai. Durante il viag­ gio, non uscii quasi mai dalla cabina. Scrissi e studiai molto. Volevo dimenticare Paulina. Nei miei due anni d’Inghil­ terra evitai tutto ciò che avrebbe potuto ricordarmela: dagli incontri con qualche argentino fino ai pochi dispacci da Bue­ nos Aires pubblicati dai quotidiani. E vero che mi appariva in sogno, con una vivezza cosi persuasiva e reale che mi do­ mandavo se la mia anima non contrastasse di notte le priva­ zioni che io le imponevo durante il giorno. Evitai ostinatamente il suo ricordo. Verso la fine del primo anno, riuscii a escluderla dalle mie notti e quasi a dimenticarla. Il pomeriggio che tornai dall’Europa pensai di nuovo a Paulina. Con apprensione mi dissi che forse in casa i ricor­ di sarebbero stati troppo vivi. Quando entrai nel mio ap­ partamento, provai un po’ di emozione e mi arrestai rispet­ tosamente, commemorando il passato e gli opposti estremi di allegria e di affanno che avevo conosciuto. Fu allora che eb­ bi una rivelazione vergognosa. Non mi commuovevano se­ greti monumenti del nostro amore, improvvisamente mani­ festatisi nel profondo della memoria; mi commuoveva l’en­ fatica luce che entrava dalla finestra, la luce di Buenos Aires. Verso le quattro arrivai fino all’angolo e comprai un chi­ lo di caffè. Nella panetteria, il padrone mi riconobbe, mi sa­ lutò con assordante cordialità e mi informò che da molto tempo - almeno sei mesi - non lo onoravo dei miei acquisti. Dopo queste amabilità, gli chiesi, timido e rassegnato, mez­ zo chilo di pane. Mi domandò, come sempre: - Ben cotto o bianco ? Gli risposi, come sempre: - Bianco. Tornai a casa. Era un giorno trasparente come un cristal­ lo e molto freddo. Mentre preparavo il caffè pensai a Paulina. Verso la fine del pomeriggio prendevamo di solito una tazza di caffè nero. Come in un sogno passai da un’affabile ed equanime in­ differenza all’emozione, alla pazzia, che mi provocò l’appa­ rizione di Paulina. Nel vederla caddi in ginocchio, affondai la faccia tra le sue mani e piansi per la prima volta tutto il do­ lore di averla perduta.

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La sua venuta si svolse cosi: tre colpi risuonarono alla por­ ta; mi domandai chi poteva essere l’intruso; pensai che per colpa sua il caffè si sarebbe freddato; aprii, distrattamente. Poi - non so se il tempo trascorso fu molto lungo o mol­ to breve - Paulina mi ordinò di seguirla. Capii che stava cor­ reggendo, con la persuasione dei fatti, i vecchi errori del no­ stro comportamento. Mi sembra (ma oltre a ricadere negli stessi errori, sono infedele a quel pomeriggio) che li abbia corretti con eccessiva determinazione. Quando mi chiese che la prendessi per mano («La mano! - mi disse. - Adesso! ») mi abbandonai alla gioia. Ci guardammo negli occhi e, come due fiumi che confluiscono, anche le nostre anime si uniro­ no. Fuori, sul tetto, contro le pareti, pioveva. Interpretai que­ sta pioggia - che era il mondo intero che sorgeva, di nuovo - come una panica espansione del nostro amore. L’emozione non mi impedì, tuttavia, di scoprire che Mon­ tero aveva contaminato il modo di parlare di Paulina. In al­ cuni momenti, quando parlava, avevo la spiacevole sensa­ zione di ascoltare il mio rivale. Riconobbi la caratteristica pe­ santezza delle frasi; riconobbi gli ingenui e penosi tentativi di trovare il termine esatto; riconobbi ancora il vergognoso affiorare della sua inconfondibile volgarità. Con uno sforzo riuscii a controllarmi. Guardai il volto, il sorriso, gli occhi. Eccola Paulina, intima e perfetta. In que­ sto non me l’avevano cambiata. A quel punto, mentre la contemplavo nella mercuriale penombra dello specchio, circondata dalla cornice di ghir­ lande, di corone e di angeli neri, mi parve diversa. Fu come se scoprissi un’altra versione di Paulina; come se la vedessi in un modo nuovo. Ringraziai quella separazione, che mi aveva interrotto l’abitudine di vederla, e che me la rendeva più bella. Paulina disse: - Vado. Julio mi aspetta. Colsi nella sua voce uno strano miscuglio di disprezzo e di ansia, che mi lasciò sconcertato. Pensai malinconicamen­ te: Paulina, in altri tempi, non avrebbe tradito nessuno. Quando alzai lo sguardo, se n’era andata. Dopo un attimo di perplessità, la chiamai. La chiamai an-

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cora, scesi al portone, corsi in strada. Non la trovai. Tor­ nando, sentii freddo. Mi dissi: «E rinfrescato. E stato sol­ tanto un acquazzone». La strada era asciutta. Quando arrivai a casa vidi che erano le nove. Non avevo voglia di uscire per andare a mangiare; la possibilità di in­ contrare qualcuno che conoscevo mi scoraggiava. Preparai un po’ di caffè. Ne bevvi due o tre tazze e mangiucchiai la pun­ ta di un panino. Non sapevo neppure quando ci saremmo rivisti. Volevo parlare con Paulina. Volevo chiederle che mi spiegasse... Al­ l’improvviso, la mia ingratitudine mi spaventò. Il destino mi concedeva tutta la felicità e io non ero contento. Quel po­ meriggio era il punto culminante delle nostre vite. Paulina l’aveva inteso cosi. Anch’io. Per questo non avevamo quasi parlato. (Parlare, far domande sarebbe stato, in qualche mo­ do, differenziarci). Mi sembrava impossibile dover aspettare fino al giorno seguente per vedere Paulina. Per avere un conforto imme­ diato decisi che sarei andato a casa di Montero quella sera stessa. Rinunciai molto presto; senza aver prima parlato con Paulina, non potevo andarli a trovare. Decisi di cercare un amico - Luis Alberto Morgan mi parve il più adatto - e chie­ dergli che mi raccontasse ciò che sapeva della vita di Pauli­ na durante la mia assenza. Dopo pensai che la cosa migliore era coricarsi e dormire. Riposato, avrei visto tutto con maggior chiarezza. D’altra parte, non ero disposto a sentir parlare frivolamente di Pau­ lina. Appena mi misi a letto ebbi l’impressione di entrare nei ceppi (ricordai, forse, notti di insonnia, in cui si rimane a let­ to per non ammettere che si è svegli). Spensi la luce. Non avrei più rimuginato sul comportamento di Pauli­ na. Sapevo troppo poco per poter capire la situazione. Dal momento che non potevo fare il vuoto nella mia mente e smettere di pensare, mi sarei rifugiato nel ricordo del po­ meriggio. Avrei continuato ad amare il volto di Paulina anche se tro­ vavo nelle sue azioni qualcosa di strano e di ostile che mi al­ lontanava da lei. Il volto era quello di sempre, quello puro e meraviglioso che mi aveva amato prima dell’esecrabile appa-

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rizione di Montero. Mi dissi: C’è una fedeltà nelle facce, cui forse le anime non partecipano. O era tutto un inganno? Ero innamorato di una cieca proiezione delle mie preferenze e delle mie repulsioni? Non avevo mai conosciuto Paulina ? Scelsi un’immagine di quel pomeriggio - Paulina davanti alla scura e tersa profondità dello specchio - e cercai di evo­ carla. Appena l’intravidi, ebbi una rivelazione istantanea: du­ bitavo perché mi dimenticavo di Paulina. Volli dedicarmi al­ la contemplazione della sua immagine. La fantasia e la me­ moria sono facoltà capricciose: evocavo i capelli spettinati, una piega del vestito, la vaga penombra circostante, ma la mia amata svaniva. Molte immagini, animate di inevitabile energia, passava­ no davanti ai miei occhi chiusi. All’improvviso feci una sco­ perta. Come nel margine buio di un abisso, in un angolo del­ lo specchio, a destra di Paulina, apparve il cavallino di pie­ tra verde. Nel momento in cui si verificò, la visione non mi meravi­ gliò; soltanto dopo qualche minuto ricordai che la statuina non era in casa. L’avevo regalata a Paulina due anni prima. Mi dissi che si trattava di un sovrapporsi di ricordi ana­ cronistici (il più vecchio, del cavallino; il più recente, di Pau­ lina). Il problema era risolto, io ero tranquillo e dovevo ad­ dormentarmi. Formulai allora una riflessione vergognosa e, alla luce di quanto avrei chiarito in seguito, patetica. « Se non mi addormento subito, - pensai, - domani sarò sciupato e non piacerò a Paulina». Poco dopo mi accorsi che il mio ricordo della statuina nel­ lo specchio della stanza da letto non era giustificabile. Non l’avevo mai messa nella stanza da letto. In casa, l’avevo vi­ sta soltanto nell’altra stanza (nel ripiano della libreria o nel­ le mani di Paulina o nelle mie). Spaventato, volli guardare di nuovo quei ricordi. Lo spec­ chio riapparve, circondato di angeli e di ghirlande di legno, con Paulina al centro e il cavallino alla sua destra. Non ero sicuro che riflettesse la mia stanza. Forse la rifletteva, ma in modo vago e sommario. Invece il cavallino si impennava nitidamente nel ripiano della libreria. La libreria occupava

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tutto lo sfondo e nell’oscurità laterale si aggirava un nuovo personaggio, che non riconobbi a prima vista. Poi, con scar­ so interesse, notai che quel personaggio ero io. Vidi il volto di Paulina, lo vidi intero (non in particola­ ri), come se fosse proiettato verso di me dall’estrema inten­ sità della sua bellezza e della sua tristezza. Mi svegliai pian­ gendo. Non so da quanto stessi dormendo. So che il sogno non fu un’invenzione. Continuò, insensibilmente, le mie imma­ ginazioni e riprodusse con fedeltà le scene del pomeriggio. Guardai l’orologio. Erano le cinque. Mi sarei alzato pre­ sto e, anche a costo di disturbare Paulina, sarei andato a ca­ sa sua. Questa decisione non servi a lenire la mia angoscia. Mi alzai alle sette e mezzo, feci un lungo bagno e mi ve­ stii lentamente. Non sapevo dove vivesse Paulina. Il portiere mi prestò l’elenco del telefono e la guida stradale. Nessuno dei due re­ cava l’indirizzo di Montero. Cercai il nome di Paulina; non c’era neanche questo. Verificai, inoltre, che nella vecchia ca­ sa di Montero abitava un’altra persona. Pensai di chiedere l’indirizzo ai genitori di Paulina. Non li vedevo da molto tempo (quando avevo saputo del­ l’amore di Paulina per Montero avevo interrotto ogni rela­ zione con loro). Adesso, per scusarmi, avrei dovuto rifare la storia delle mie pene. Mi mancò il coraggio. Decisi di parlare con Luis Alberto Morgan. Prima delle undici non potevo presentarmi a casa sua. Vagai per le stra­ de, senza vedere nulla, o prestando una momentanea atten­ zione alla forma di una modanatura su un muro o al senso di una parola ascoltata per caso. Ricordo che in plaza Independencia una donna, con le scarpe in una mano e un libro nel­ l’altra, passeggiava scalza sull’erba umida. Morgan mi ricevette a letto, e con entrambe le mani sor­ reggeva un’enorme tazza. Intravidi un liquido biancastro e alcuni pezzi di pane che galleggiavano. - Dove abita Montero? - gli domandai. Aveva già bevuto tutto il latte. Adesso prendeva dal fon­ do della tazza i pezzi di pane. - Montero è in prigione, - rispose.

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Non seppi nascondere il mio stupore. Morgan prosegui: - Come? Non lo sai? Immaginò, senza dubbio, che io ignorassi soltanto questo particolare, ma, per il gusto di parlare, raccontò tutto quello che era successo. Credetti di perdere conoscenza, di cadere in un improvviso precipizio; ma anche li arrivava la voce ce­ rimoniosa, implacabile e nitida, che riferiva fatti incompren­ sibili, con la mostruosa e persuasiva convinzione che fossero familiari. Morgan mi comunicò quanto segue. Sospettando che Pau­ lina sarebbe venuta a trovarmi, Montero si nascose nel giar­ dino di casa mia. La vide uscire; la segui: le chiese spiega­ zioni per la strada. Quando cominciarono a fermarsi alcuni curiosi, la fece salire su un’automobile a nolo. Andarono tut­ ta la notte per la Costanera e per i laghi e, all’alba, in un al­ bergo del Tigre, la uccise con un colpo di pistola. Questo non era successo la notte prima; era successo la notte prima del mio viaggio in Europa: era successo due anni prima. Nei momenti più terribili della vita cadiamo di solito in una specie di irresponsabilità protettrice e invece di pensare a quello che ci sta succedendo rivolgiamo l’attenzione su co­ se banali. In quel momento domandai a Morgan: - Ricordi l’ultima riunione, a casa mia, prima del mio viaggio ? Morgan ricordava. Continuai: - Quando ti accorgesti che ero preoccupato e andasti nel­ la mia stanza da letto a cercare Paulina, cosa faceva Mon­ tero? - Niente, - rispose Morgan, con una certa vivacità. - Nien­ te. Però, ora lo ricordo, si guardava nello specchio. Tornai a casa. All’ingresso incontrai il portiere. Fingen­ do indifferenza, gli domandai: - Sa che è morta la signorina Paulina ? - Come potrei non saperlo? - rispose. - Tutti i giornali parlarono dell’omicidio e io ho fatto anche una dichiarazio­ ne alla polizia. L’uomo mi guardò con aria interrogativa. - Le serve qualcosa? - disse, avvicinandosi molto. - Vuo­ le che l’accompagni?

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Lo ringraziai e corsi su. Ho il vago ricordo di aver armeg­ giato con una chiave; di aver raccolto alcune lettere, dall’al­ tro lato della porta; di essere rimasto con gli occhi chiusi, ste­ so a faccia in giù, nel letto. Poi mi trovai davanti allo specchio, e pensavo: «La cosa sicura è che Paulina ieri sera è venuta a trovarmi. E morta sapendo che il matrimonio con Montero era stato uno sba­ glio - uno sbaglio atroce - e che noi eravamo la verità. E tor­ nata dalla morte per completare il suo destino, il nostro de­ stino». Ricordai una frase che Paulina scrisse, alcuni anni fa, in un libro: Le nostre anime si sono già riunite. Continuai a pensare: «Ieri sera, finalmente. Nel momento in cui l’ho pre­ sa per mano». Poi mi dissi: «Non sono degno di lei: ho du­ bitato, ho provato gelosia. Per amarmi è venuta qui fin dal­ la morte». Paulina mi aveva perdonato. Non ci eravamo mai amati tanto. Non eravamo mai stati cosi vicini. Mi dibattevo in questa ebbrezza d’amore, vittoriosa e tri­ ste, quando mi domandai - o meglio, quando il mio cervel­ lo, spinto semplicemente dall’abitudine di proporre alterna­ tive, si domandò - se non ci fosse un’altra spiegazione per la visita della sera precedente. Allora, come una folgorazione, mi colpi la verità. Vorrei scoprire adesso che mi sbaglio di nuovo. Purtrop­ po, come sempre succede quando si scopre la verità, la mia orribile spiegazione chiarisce i fatti che sembravano miste­ riosi. Questi, dal canto loro, la confermano. Il nostro povero amore non ha strappato Paulina dalla tomba. Non ci fu il fantasma di Paulina. Ho abbracciato un mostruoso fantasma della gelosia del mio rivale. La chiave di quanto è accaduto sta nascosta nella visita che Paulina mi fece alla vigilia del mio viaggio. Montero la segui e l’aspettò nel giardino. Litigò con lei tutta la notte e poiché non credette alle sue spiegazioni - come avrebbe potuto quel­ l’uomo capire la purezza di Paulina? - la uccise all’alba. Lo immaginai nella sua cella, ripensare al nostro incontro, rappresentarselo con la crudele ostinazione dei gelosi. L’immagine che entrò in casa mia, ciò che poi vi successe, fu una proiezione dell’orrenda fantasia di Montero. Non lo

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scoprii allora, perché ero cosi commosso e cosi felice che ave­ vo soltanto voglia di obbedire a Paulina. Eppure, gli indizi non mancavano. Ad esempio, la pioggia. Durante la visita della vera Paulina - alla vigilia del mio viaggio - non sentii la pioggia. Montero, che stava nel giardino, la senti direttamente sul suo corpo. Mentre ci immaginava, credette che l’a­ vessimo sentita. Per questo ieri notte ho sentito piovere. Do­ po ho visto che la strada era asciutta. Un altro indizio è la statuina. L’ho avuta in casa un solo giorno: il giorno della riunione. Per Montero divenne una specie di simbolo del luogo. Per questo è apparsa ieri sera. Non mi riconobbi nello specchio, perché Montero non mi immaginò chiaramente. E non immaginò con precisione nep­ pure la stanza da letto. E nemmeno conosceva Paulina. L’im­ magine proiettata da Montero si comportò in un modo che non è quello di Paulina. E poi, parlava come lui. Ordire questa fantasia è il tormento di Montero. Il mio è più reale. E la convinzione del fatto che Paulina non tornò perché disillusa circa il suo amore. E la convinzione che non sono mai stato il suo amore. E la convinzione del fatto che Montero non ignorava aspetti della sua vita che io ho cono­ sciuto soltanto indirettamente. E la convinzione del fatto che nel prenderla per mano - nel preteso momento della riunio­ ne delle nostre anime - obbedii a una domanda di Paulina che non mi rivolse mai e che il mio rivale senti molte volte.



Sui re futuri

Forse converrà cominciare questa narrazione ricordando uno spettacolo al circo, svoltosi nel 1918. Durante quello spettacolo, i miei occhi abbagliati videro per la prima volta - in esercizi di sicuro umili, ma che allora mi parvero prodi­ giosi - gli animali che meritano il nostro più deciso rispetto: le foche. Quanto alla gioia che involontariamente collego a quei ricordi, ora la attribuisco (ma non si deve dimenticare che in questi giorni infausti viviamo nell’ossessione) alla no­ bile, alla santa ebbrezza della vittoria; comunque, quando tento di rivivere con la massima sincerità i miei sentimenti di allora, capisco che al centro della mia contentezza, come simboli di misteri futuri, c’erano l’enorme tendone imban­ dierato e tre bambini - Helena, Marcos e io - che si teneva­ no per mano davanti a una soglia funesta. Quando fini il numero delle foche, Marcos si allontanò dalla tribuna. Nella rossa circonferenza della pista apparve uno scimpanzé su una bicicletta. La scimmia pedalava senza guardare il suo stretto cammino; teneva gli occhi fissi su He­ lena. All’improvviso le cose precipitarono. Helena si mise a piangere; Marcos tornò da noi e disse che aveva ottenuto un permesso per andare a vedere le foche e gli altri animali; He­ lena implorò e minacciò; se io fossi andato, non l’avrei rivi­ sta mai più; io seguii Marcos. Già a quel tempo Marcos era l’elemento segreto e tenace che organizzava tutto nelle nostre vite. Era molto intelli­ gente, molto energico, molto ricco. Buona parte della nostra infanzia è trascorsa nelle sue case: nella sua casa di città o a Saint-Remi, la vasta tenuta fuori città. Solo Helena sembrava resistere alla sua influenza. Contra-

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riamente all’universale convinzione, con una tranquilla e spon­ tanea insistenza che, in qualche maniera, lo contrastava, He­ lena continuava a preferirmi, credendo in me e non in lui. Dopo che prendemmo la licenza, entrai alla Scuola di Di­ ritto. Per quattro anni seguii regolarmente i corsi. Se qual­ cuno mi parlava di studenti che si erano diplomati in uno o due anni, io lo stavo a sentire con sdegno. Quale frutto pos­ sono lasciare - domandavo subito - centinaia di migliaia di pagine scorse con simile precipitazione ? Marcos non studiava. Leggeva per sé e indirizzava le no­ stre letture. Seguendolo, esaminai con frivolezza e utilità la storia della quadratura del cerchio, i progressi dei naviga­ tori arabi, le possibilità della logistica, la natura e il molti­ plicarsi dei cromosomi, i lavori di Resta sulle cosmografie comparate. Marcos entrò alla fine alla Scuola di Scienze Naturali. Ciò parve la conferma - come osservò un commentatore ami­ chevole - del fatto che non affrontava la vita con serietà. Ep­ pure, il piano di studi era lungo e difficile. Marcos si diplomò in un anno. - Mi dedicherò allo studio, - mi disse una sera. - Mi rin­ chiuderò a Saint-Remi. Voglio una compagna: una ragazza intelligente, che viva insieme a me e mi aiuti. Inspiegabilmente mi misi in agitazione. Capii che ero io a dovergli procurare quella ragazza. Senza voglia, senza me­ todo, cominciai a cercarla nella mia memoria. Molto presto rinunciai alla ricerca. Helena andò a stare con lui. Io abbandonai gli studi e mi imbarcai per l’Australia. Non ci furono saluti. Si erano rin­ chiusi nella tenuta; non ebbi il tempo di telefonare né di an­ darli a trovare. In Australia fui aiuto-amministratore, e in seguito ammi­ nistratore in un’azienda agricola. Durante la siesta contavo le piastrelle arancioni del cortile e ogni piastrella rappresen­ tava una delle donne della mia vita. Due ricordi non mi era­ no indifferenti: quello troppo doloroso di Helena e quello di Luisa, la figlia del droghiere, che abitava di fronte alla villa di Marcos. Tutti i pomeriggi giocavamo insieme ed era un dolce - seppure non preciso - ricordo di quell’epoca. Avrei

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voluto sapere qualcosa di quella ragazza. Avevamo trascorso l’infanzia insieme e poi io l’avevo dimenticata. Cosa mi ri­ maneva di Luisa ? Questa matita di metallo, che mi aveva re­ galato per un mio compleanno e che io porto sempre con me, e un certo disperato e tenero rimpianto che viene fuori nei sogni o in Australia. Per superare la noia dei pomeriggi scrivevo romanzi di spionaggio. Con lo pseudonimo di Speculator pubblicai mez­ za dozzina di volumi, a Melbourne. Ebbero diverse ristam­ pe, ma la critica fu ostile. Trascorsi nove anni tra le dune e le greggi, fino a quan­ do fu dichiarata la guerra e tornai in patria. Mi giudicarono vecchio per la guerra al fronte e, non so come, entrai nel ser­ vizio di controspionaggio. Forse l’argomento dei miei libri aveva suggerito loro l’idea assurda che io sarei stato una buona spia. Un pomeriggio, chiacchierando con un compagno, seppi che in ufficio avevano dei sospetti sugli abitanti di Saint-Remi. Parlai con il capo. Sospettava che dalla villa dirigessero gli aerei nemici che bombardavano quella zona della città. Ottenni che mi affidasse l’indagine. L’indomani uscii dalla Caserma Ovest, traversai, sotto un cielo sereno, la strada rumorosa e scesi nelle gallerie del tre­ no sotterraneo. Dovetti attendere sul marciapiede: dai tun­ nel continuava a venir fuori la gente, carica di borse e mate­ rassi, che vi si era rifugiata per la notte. Erano suonate le die­ ci quando venne ristabilito il servizio ferroviario. Arrivai sino all’ultima stazione ed emersi, alla fine, per un labirinto di sca­ le di ferro, nella periferia silenziosa, resa oscura dagli alberi. Li c’erano, in un gruppo di indifferenti ricordi materializza­ ti, il garage con i medaglioni della scuderia che sorgeva in quello stesso luogo, il parco delle scampagnate, il circolo del tennis, verde, rosso e bianco. Cercai invano un’automobile o un carretto che mi portasse fino alla villa. Con un po’ di stanchezza mi inoltrai per una strada dagli alberi molto alti e frondosi, con i tronchi scuri, le foglie molto precise e i fio­ ri arancioni, la quale non coincideva perfettamente con i miei ricordi. Quando finirono gli alberi, cominciai a riconoscere il posto; ebbi l’impressione che il quartiere fosse stato piut­

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tosto colpito dai bombardamenti (senza dubbio, il bombar­ damento che sopportiamo adesso dev’essere più forte di tut­ ti quelli di prima). Continuai a camminare: vidi case intatte, strade non bucate dalle bombe. Giunsi, quindi, alla muraglia cadente che circonda la villa Saint-Remi. Dall’esterno non si poteva capire se la villa era stata raggiunta dai bombardamenti. Camminai lungo la muraglia, come in un sogno in­ terminabile e faticoso. Il quartiere era cambiato. Eppure, di fronte allo stesso portone di Saint-Remi c’era ancora la dro­ gheria dei genitori di Luisa. Entrando in quel locale scuro, sentendo sotto i piedi le sottili tavole di rovere (che prima erano state della sala da pranzo della villa), intesi che si espan­ deva nella mia anima una sensazione di tenerezza, la prima dopo molti anni. Mi vennero incontro un uomo e una don­ na che non conoscevo. Capii che erano i nuovi proprietari. Chiesi se potevo pranzare. - Non c’è molto, - rispose il droghiere. Era un uomo ver­ dastro e arruffato. - Non meno che in altri posti, - corresse, con aria so­ gnante, la moglie. Andò a preparare il pranzo. Parlai dei bombardamenti, della scarsità di merci, del­ l’aumento dei prezzi, della borsa nera, del fatto che l’uomo discende dalla scimmia e di come si doveva essere indulgen­ ti con il governo, del fatto che la guerra era un sacrificio co­ mune, dei cavalli piazzati nelle corse di domenica e, alla fi­ ne, della villa Saint-Remi. - Quelli della villa hanno sempre fatto parlare di loro, - commentò il droghiere. - E adesso anche di più. Da una stanza vicina si senti la voce della moglie: - La gente parla. - Non escono e non lasciano entrare nessuno, - spiegò il droghiere. La donna rispose: - La gente del quartiere, quelli veramente del quartiere, non si lamentano. Sono i rivoltosi della periferia... - Non sappiamo nulla di quello che succede al di là della muraglia, - commentò l’uomo con aria scura. Dopo una pau­ sa, continuò. - È da molto tempo che non sappiamo niente. - Non ce n’è venuto nessun danno, - disse la donna.

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Mise in tavola un grosso piatto di cavoli e mi invitò a se­ dere. Poi mi portò un bicchiere di vino aspro e una fetta di pane. Raccolsi tutto il mio coraggio e domandai: - Chi è al corrente della faccenda ? - Nessuno, - sussurrò la donna, socchiudendo gli occhi. - Il pescivendolo, - affermò l’uomo. Di ritorno dal suo giro, verso l’una, sarebbe passato li in drogheria. Era l’unico fornitore che portava provviste alla villa. - Ci entra tutti i giorni? - domandai. - Mai, - disse, sorridendo, la donna. - Lo ricevono sulla porta, - chiari il droghiere. Dopo l’una e mezzo apparve il pescivendolo. Arrivava su un camion trainato da un cavallo. - A Saint-Remi sono suoi clienti? - gli domandai. - Certamente, - disse l’uomo. - Li servo da anni. - Negli ultimi tempi ha visto il signore? - Tutti i giorni. - E vero che nessun altro fornitore lavora con la villa ? - Perché dovrebbe lavorarci ? Li mangiano solamente pe­ sce. Consumano più pesce di un esercito. Per merito loro ho comprato prima il camion e adesso il cavallo. Decisi di non entrare a Saint-Remi fino alla fine del po­ meriggio. Chiesi al droghiere una stanzetta per la siesta. Mi condusse al piano di sopra. La stanza era lunga e stretta, con una porta a ciascuna estremità. Mi svegliai con la sensazione di aver dormito per molto tempo. Guardai l’orologio. Erano le cinque meno dieci. Te­ metti di aver dormito per tutto il giorno e per tutta la notte e di essere al mattino del giorno successivo. Ancora anneb­ biato dal sonno, mi diressi verso la porta per chiamare il dro­ ghiere. Sbagliai porta; aprii... Invece della scala sconnessa che pensavo di trovare, c’era una stanza ordinata, con ritratti, scaffali di libri, lampade, tende, tappeti. A uno scrittoio era seduta una ragazza. Sollevò il capo e mi guardò, con occhi dolci e onesti. Era Luisa. Pronunciò il mio nome. - Ma, i tuoi genitori?... - domandai. Mi disse che i suoi genitori avevano venduto la drogheria

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ad alcuni parenti e se n’erano andati a vivere in campagna. Lei aveva preso in affitto quella stanza. Credo che fosse emo­ zionata e felice quanto me. Forse perché mi sembrò di sognare, osai dirle che avevo pensato molto a lei. M’interruppe con una domanda improvvisa e ansiosa. - Entrerai nella villa ? In quel momento sentimmo dei passi sulla scala. - Non voglio che ci vedano insieme. Non devono sapere chi sono, - mormorai. - Tornerò tra le otto e le nove. Chiusi la porta. Dall’altra si affacciò il droghiere. - Permesso, - disse. - Devo parlarle. So qual è la sua mis­ sione. L’aiuterò. - La mia missione ? - I bombardamenti, - rispose. - Hanno raso al suolo tut­ to il quartiere, ma questa zona è come un’isola. - Qui non cadono bombe ? - Negli ultimi tempi, si. Qualcuna. Apposta o per sbaglio, le hanno buttate aerei che volavano molto alto. - Bene, - risposi. - E quali informazioni mi dà sugli abi­ tanti della villa ? - La gente le dirà che il padrone della villa ha sequestra­ to la moglie. Non creda a una sola parola. - La signora non è sequestrata ? - Sono sequestrati tutt’e due. - Andiamo di sotto, - ordinai. - Chi sono i sequestratori? - Sospetto che non lo sappia nessuno. La gente dà spie­ gazioni fantastiche. - Ma vivono tutti nella villa ? - Si. Vivono tutti nella villa. L’uomo disse qualche altra cosa, ma non servi a chiarire nulla. Immaginai che un’improvvisa e segreta percezione del­ la mia inettitudine di fronte all’avventura che mi attendeva o della natura incomunicabile o atroce delle sue confidenze lo avesse convinto dell’inutilità di parlarmi. Non insistetti troppo con le mie domande: non era opportuno mostrarsi avi­ di. Ci salutammo. Gli chiesi di non riferire a nessuno della nostra conversazione. Mi allontanai dalla drogheria, cercando di tenermi na­

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scosto alla vista di un possibile osservatore sistemato nelle fi­ nestre del piano superiore. Camminai per una decina di mi­ nuti; mi fermai in un punto in cui la muraglia era quasi crol­ lata del tutto; mi accertai che nessuno stesse guardando; sca­ lai la muraglia e saltai giù, dentro al recinto della villa. Lo stato di abbandono in cui si trovava quel giardino no­ bile e bello mi impressionò profondamente. Non voglio di­ re che cosi - insetti e piante, come in una foresta, erano im­ pegnati in una libera lotta evolutiva - il giardino sembras­ se meno nobile e bello. Un chiosco semidistrutto; un albero il cui fogliame color cenere si perdeva nel cielo dell’estate, dietro le foglie brillanti del rampicante che lo soffocava; una Diana caduta; una fontana asciutta; un arbusto, serra­ to in un enorme formicaio, coperto di fiori gialli e odorosi; panchine che sembravano attendere, lungo sentieri solita­ ri, personaggi di un altro tempo; alberi molto alti, con gli ultimi rami senza foglie; vibratili siepi come muri grigi, ver­ di o azzurri... Adesso, dopo quanto ho saputo, vedo in quel­ la combinazione di abbondanza e decrepitezza, in quella bellezza infinitamente triste, un simbolo del regno transi­ torio degli uomini. Guardai l’orologio. Mi rimanevano, per la mia indagine, tre ore di luce. Dopo, avrei visto Luisa. Sapevo dove trovarla. La mia impazienza - pensai - era ingiustificabile. Dal punto in cui mi trovavo non potevo vedere la casa. Avanzai con cautela, nascondendomi dietro gli alberi. Tran­ ne un continuo ronzio di vespe e, di tanto in tanto, un col­ po di vento che faceva tremare le foglie, il silenzio era qua­ si perfetto. Feci alcuni passi e mi acquattai vicino a un bu­ sto di Fedro. Ebbi l’impressione di essere osservato. Mi guardai intorno. Non c’era nessuno. Ebbi voglia di metter­ mi a correre. Non potei. Avevo la sensazione di muovermi, di nascondermi, al cospetto di occhi invisibili; ero atterri­ to, ma credevo di sapere - e questo potrà sembrare un in­ dizio del mio squilibrio - che in quegli occhi segreti non vi era malevolenza. (Mi rendo conto che questo racconto è confuso. Scrivo automaticamente; scrive, attraverso la mia stanchezza e i miei dolori, l’abitudine alla composizione letteraria. Ci dicono che

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nel momento in cui si affoga ricordiamo tutta la nostra vita. Una cosa è ricordare; un’altra è scrivere). Mi gettai a terra. Cominciava, molto vicino, un bombar­ damento. So che a un certo punto ho pensato di dover ap­ profittare del bombardamento per entrare in casa. So che poi volavano, molto in alto, alcuni aerei verdi, e che ancora do­ po mi affacciavo tra il fogliame di un albero e scorgevo, al fondo di una strada, la casa, interminabile per edifici e pa­ diglioni. Non so quanto tempo fosse trascorso. Adesso im­ magino quella visione più oscura di quanto dovette esserlo, quasi notturna, e mi raffiguro l’edificio come un enorme ani­ male antidiluviano, coricato tra gli alberi. Riparandomi, tra­ scinandomi, correndo quando non riuscivo a dominare i ner­ vi, arrivai ai cortili esterni. Mi affacciai in quella che era sta­ ta, ai miei tempi, la sala da pranzo dei ragazzi. Tutto era come prima, ma coperto di polvere e di ragnatele. Spinsi la fine­ stra; entrai. Appesi alle pareti, gli stessi quadri con le man­ drie di cavalli selvaggi. Mi rasserenai un po’. Continuai a pro­ cedere lungo i corridoi; attraversai il padiglione delle stanze degli ospiti; mi accingevo a entrare nella sala del biliardo... Era coperta da piccoli mucchi di terra, simili a nidi di vespe, e un’infinità di formiche nere la percorrevano. Sulle pareti e sui mobili del salone da ballo vi erano alcune larve bianche, simili ai bachi da seta, ma molto più grandi; avevano una pe­ luria bianca e volti quasi umani e mi osservavano in un’at­ tenta immobilità, con occhi tondi e verdastri. Salii di corsa le scale che portavano di sopra. Ormai era sera; attraverso le crepe del tetto entrava lo splendore della luna; attraverso le spaccature del pavimento vidi i mobili scuri, con il dama­ sco giallo, della sala da musica; vidi che mancavano pareti che prima separavano questo salone dalla sala da pranzo, dal salone da ballo e dalla saletta rossa; vidi, nella direzione in cui avrebbe dovuto esserci la saletta rossa, una specie di pan­ tano, o di lago, pieno di giunchi, e alcune forme viscide che nuotavano nell’acqua scura; vidi, o credetti di vedere, sulla riva fangosa, una sirena. Molto vicino, risuonarono dei passi. Scesi le scale, uscii nel giardino d’inverno, mi acquattai dietro un vaso di por­ cellana azzurra. Qualcuno camminava pesantemente nella

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sala da musica. Se mi fossi trascinato fino alla porta avrei po­ tuto spiare. Si udì uno sguazzare, un rumore simile a quello di acque agitate e, poi, un lungo silenzio; i passi tornarono indietro. Mi affacciai cautamente. Dapprima non vidi nulla di strano: i miei occhi, scivolando sui mobili con il damasco giallo, sull’imitazione dell’Enrichetta di Netscher, sulla tap­ pezzeria con i due Eridani, sull’armonium, sulla statua di Mercurio con le pietre di bronzo, arrivarono al pantano dei giunchi. Li scoprii una foca (senza dubbio la sirena di un at­ timo prima); poi, un gruppo di foche che stavano divorando pesce. Alla mia sinistra risuonarono di nuovo i passi. Si av­ vicinava una donna cenciosa - Helena, invecchiata, sporca -, che portava in spalla una rete con il pesce. Lasciò cadere il suo carico a terra. Ci guardammo negli occhi. Poi le dissi: - Fuggiamo. Pronunciai questa parola per lealtà verso sentimenti pas­ sati, sentimenti di tutta la vita. Pensai con rancore: «Lo de­ ve a Marcos» - e non lo devo, come avrei pensato prima. «Marcos l’ha trascinata in questo orrore». Si apri una porta. Entrò Marcos, vestito di stracci, sporco e invecchiato quanto Helena. Con la più profonda compas­ sione tesi verso di lui le mie mani. In cambio, la sua rumoro­ sa allegria e l’espressione di sollievo e di interesse con cui mi salutò racchiudevano (adesso, almeno, credo) un significato nascosto. Scambiò con Helena sguardi di comprensione. - Cosa succede? - domandai. - Niente, - rispose Marcos. - Ti aspettavamo, - replicò Helena. - Ti abbiamo aspet­ tato sempre. - Sono venuto a cercarvi, - dichiarai. Marcos si rivolse a Helena: - Devi portare il pesce. - Dobbiamo fuggire, - dissi. Come se non mi avesse sentito, Marcos le mise il carico sulla spalla. Helena si allontanò. - Dove va? - domandai. - A portare il pesce alle foche. - Perché le imponi queste fatiche ?

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- Non le impongo niente, - replicò con tono vago. Guardai l’orologio. Ebbi l’impressione che in quell’istante si stesse fermando. «Ormai devono essere le nove, - pensai. - E ora di andare. Luisa mi aspetta». Mi ritrovai a pensare la proposizione «Devo andarmene perché Luisa mi aspetta» in termini algebrici. Con gioia mi accorsi che prevaleva la logica simbolica. Volli continuare con quelle operazioni mentali. Mi trovai di nuovo nella mia abituale povertà, sentendo, come do­ po un sogno, che attraverso un possente sforzo della memoria avrei potuto recuperare i tesori perduti. Ero solo. Intesi una profonda pesantezza nelle braccia e nelle gam­ be. Procedetti a tentoni, come se non vedessi più. Le mani mi tremavano. Uscii in una galleria con mosaico, con lucer­ nari al soffitto e quadri di scuola fiamminga alle pareti. Al fondo della galleria, nello splendore della luna, c’era Marcos. Lo chiamai. Gli domandai dove stesse andando. - A prendere un’altra rete di pesci, - rispose. - Siete stati trasformati in servitori delle foche, - com­ mentai. Mi guardò sorridendo. Poi rispose: - Non chiediamo niente di meglio. - Per te, forse. Non puoi costringere Helena... - Poi ag­ giunsi, implorante: - Fuggiamo. - No, - disse lentamente. - No. Rimarrai anche tu. In quel momento, ad annunciare l’arrivo di aerei nemici, ulularono per tre volte le sirene. Ingiustificatamente, mi sen­ tii rinfrancato. - Mi sequestrerete ? - domandai. - Sarai tu stesso a voler rimanere. A noi interessa ciò che abbiamo ottenuto, e ciò che adesso otterranno le foche. An­ che a te interesserà. Ricordi il nostro entusiasmo quando sco­ prii Darwin? L’infinità di libri sull’evoluzione che lessi in pochi giorni? Ben presto concepii questa speranza: l’evolu­ zione imposta a una specie, attraverso millenni, dalla cieca azione della natura, potrebbe essere ottenuta in pochi anni grazie a un’azione intenzionale. L’uomo è un risultato prov­ visorio in un tracciato evolutivo. Vi sono altri tracciati: quel­ li di altri mammiferi, quello degli uccelli, quello dei pesci, quello degli anfibi, quello degli insetti... Nelle formiche ho

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sconfitto l’istinto gregario: adesso costruiscono formicai in­ dividuali. Ma il nostro capolavoro sono le foche. Abbiamo torturato animali giovani - per determinare cosa potesse trar­ si da un’attenzione sempre sveglia -, abbiamo agito su cellu­ le ed embrioni, abbiamo confrontato i cromosomi dei fossili congelati della Siberia. Ma non era sufficiente agire sugli in­ dividui; dovevamo istituire abitudini genetiche. Domandai ironicamente: - Almeno hai insegnato a parlare alle tue foche ? - Non hanno bisogno di parlare. Comunicano con il pen­ siero. Mi rimproverano di non aver trasformato le loro pin­ ne in mani. Ma sono infinitamente benevole e non mi por­ tano rancore. Sono interessate alle possibilità evolutive del­ l’uomo; non hanno voluto costringerci a far nulla, perché uno di noi dovrebbe agire sull’altro, e sanno che ci amiamo. Ci ripetevano: «Aspettate che venga qualcuno dall’esterno». «E adesso sono venuto io», pensai, inquieto. Poi mi tro­ vai a pensare che le foche, aiutate da Marcos e da Helena, avevano raggiunto una estrema evoluzione nelle larve bian­ che del salone da ballo. Le larve erano animali quasi irreali, privi delle difese indispensabili per condurre una vita attiva. Adesso si trovavano in un mondo come quello che è ipotiz­ zato dall’idealismo; avevano una forte capacità di proiettare idee nitide e minuziose, e, in mezzo a queste, vivevano. Cominciarono a cadere bombe molto vicino. Marcos cor­ se verso la sala da musica. Ci fu un’esplosione. Sentii un forte dolore alla spalla. Tos­ sii, quasi soffocando. Ero steso a terra. Singhiozzavo. Pol­ vere - forse la calce dell’intonaco - sospesa nell’aria. Fuori dalla mia vista, qualcosa che sembrava animato di vita propria continuava a precipitare. Apparve Marcos. Mi disse: - Ora ti farò una puntura. Non potei oppormi. Avevo le gambe paralizzate. Il dolo­ re era intollerabile. Caddero ancora altre bombe. Mi parve che la casa intera stesse crollando. Si diffuse odore di fango, odore di pesce. Pensai: «Questi aerei volano troppo alti perché le foche possano allontanarli».

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Mi guardai intorno. Marcos non c’era più. Forse nella casa erano tutti morti. Volli ricordare Helena. Immaginai Luisa che mi domandava se stavo per entrare nella villa, Lui­ sa che mi diceva che prendeva in affitto la sua stanza, Luisa che sorrideva tristemente quando io uscivo. L’effetto della puntura fu quasi immediato. Il dolore era cessato. Temetti di dissanguarmi. Con grande sforzo guar­ dai, mi tastai. Non c’era sangue. Pensai: «Stasera non ho tempo per vedere Luisa». Poi mi venne in mente che forse non l’avrei rivista mai più, o che sarei rimasto invalido per il resto della mia vita. Me ne stetti ancora un po’ disteso, perplesso, occupato a regolare la respirazione, a rassegnarmi, a rinfrancare l’ani­ mo. Ricordai che avevo in tasca la matita che mi aveva re­ galato Luisa e il taccuino per gli appunti. Finché durava l’ef­ fetto dell’anestesia avrei scritto questo resoconto. Lo scrissi con straordinaria rapidità, come se mi spinges­ se o mi assistesse una volontà superiore. Il bombardamento è cominciato di nuovo. Le forze mi vengono meno... All’improvviso mi sono sentito molto solo.

Lo spergiuro della neve

Tra le opere di Gustav Meyrink ricordiamo il fram­ mento che s’intitola II re segreto del mondo.

Ulrich spiegelhalter, Oesterreich und die phantastische Dichuntg (Vienna 1919).

La realtà (come le grandi città) si è estesa e si è ramifica­ ta negli ultimi anni. Ciò ha avuto le sue influenze sul Tem­ po: il passato si allontana con inesorabile rapidità. Della stretta calle Corrientes è durata di più qualcuna delle sue ca­ se che il ricordo; la seconda guerra mondiale si confonde con la prima e perfino «las treinta caras bonitas» del Porteno ri­ sultano divenute degne ad opera della nostra amnesia; l’en­ tusiasmo per gli scacchi, che ha fatto sorgere effimeri chio­ schi in tanti angoli di Buenos Aires, dove la popolazione di­ sputava i suoi incontri con maestri lontani, le cui mosse rifulgevano su scacchiere collegate per televisione (o cosi si credeva), è stato dimenticato del tutto, come il delitto di cal­ le Bustamante, con «Campana», «Beicapelli» e il «Sellaio», l’Affermazione dei civili, la confusione e le milongas tra le bancarelle di Adela, il signor Baigorri che fabbricava tem­ peste a Villa Luro, e la Settimana Tragica1. Quindi, non ci si dovrà stupire se, per qualche lettore, il nome di Juan Luis Villafane non evoca assolutamente nulla. Non ci stupiremo neppure del fatto che la storia riportata più avanti, sebbene quindici anni fa scosse il paese, venga accolta come la tor­ tuosa invenzione di una fantasia scriteriata. 1 Si fa riferimento a episodi di cronaca o politici argentini. In particolare: el Campa­ na, el Melena e el Silletero sono malviventi, protagonisti di famigerate violenze negli anni Trenta a Buenos Aires; la Afirmación de los civiles è l’elezione a presidenti di Roberto M.

Ortiz e, poi, di Ramón S. Castillo (1938-43), due civili che interrompono la continuità dei governi militari e il cui mandato si colloca tra la presidenza del generale Agustin P. Justo (1932-38) e la rivolta peronista del 4 giugno 1943; il signor Baigorri è un popolare «in­ ventore» che, in occasione della siccità del 1943, aveva diffuso una ricetta grazie alla qua­ le chiunque poteva far piovere (tra l’altro, aveva «inventato» un interruttore elettrico che entrava in funzione se qualcuno vi soffiava sopra); la Semana Tràgica è la sanguinosa re­ pressione di alcuni scioperi nel gennaio 19x9 su ordine del presidente Hipólito Yrigoyen, sfociata in un periodo di repressioni indiscriminate in tutto il paese [N. d. Γ.].

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Villafane fu un uomo dalle letture vaste ma disordinate, di un’insaziabile curiosità intellettuale; disponeva, inoltre, di quel modesto e utile sostituto della conoscenza del greco e del latino che è la conoscenza del francese e dell’inglese. Collaborò a «Nosotros», a «La Cultura Argentina» e ad altre ri­ viste, pubblicò le sue pagine migliori senza firmarle, sui gior­ nali, e fu autore di molti discorsi pronunciati ai bei tempi in più di un settore del Senato. Confesso che mi piaceva la sua compagnia. So che condusse una vita disordinata e non sono certo della sua onestà. Beveva forte; quando era ubriaco, rac­ contava le sue avventure con precisa crudezza. Il fatto sor­ prendeva perché Villafane era «composto nel parlare» (come diceva uno dei suoi migliori amici, un compositore di Paler­ mo). Nei confronti dell’amore e delle donne professava una tranquilla indifferenza, sia pure non priva di cortesia; cre­ deva, comunque, che possedere tutte le donne fosse qualco­ sa di simile a un dovere nazionale, Usuo dovere nazionale. Del suo aspetto fisico ricorderò la somiglianza del viso con quel­ lo di Voltaire, la fronte alta, gli occhi nobili, il naso autore­ vole e la bassa statura. Quando pubblicai una raccolta dei suoi articoli, qualcu­ no volle scoprire delle somiglianze tra lo stile di Villafane e quello di Thomas de Quincey. Con più rispetto per la verità che per gli uomini, un anonimo commentatore scrisse su «Azul»: «Ammetto che il cappello di Villafane è molto gran­ de; non ammetto che quello smisurato attributo, e tanto me­ no l’appellativo nano con il cappello o, in modo più esatto ma più cacofonico, bassetto con il cappello, siano sufficienti per individuare un’identità, un’identità sia pure letteraria, con de Quincey; ma convengo che il nostro autore (tenuto con­ to delle rispettive figure) sia un pericoloso rivale per lo stes­ so ]ean Paul (Richter)». Qui di seguito ripropongo il suo resoconto della terribile avventura di cui è stato più che un semplice spettatore; av­ ventura che non è cosi trasparente come può apparire a un esame sommario. Tutti i protagonisti sono morti più di no­ ve anni fa; i fatti narrati sono successi almeno quattordici an­ ni fa; forse qualcuno protesterà e dirà che questo documen­ to strappa al meritato oblio fatti che non dovrebbero mai es-

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sere ricordati né succedere. Non metto in discussione queste ragioni; io, semplicemente, mantengo la promessa che mi strappò la sera in cui mori il mio amico Juan Luis Villafane, cioè pubblicare, quest’anno, il suo racconto. Comunque, pen­ sando a ipotetiche suscettibilità, varie volte mi sono permes­ so ingenui anacronismi e ho introdotto mutamenti nelle defi­ nizioni e nei nomi di persone e luoghi; vi sono altri cambia­ menti, questi puramente formali, su cui devo soffermarmi soltanto un po’. Sarà sufficiente dire che Villafane non si è mai curato dello stile e che, quindi, osservava norme severis­ sime: regolarmente sopprimeva ogni «che» di cui ci fosse bi­ sogno nel suo testo, e pur di evitare ripetizioni di parole non c’era espressione oscura di fronte a cui si tirasse indietro. Ma le mie correzioni non lo avrebbero offeso. Credeva che Shakespeare e Cervantes fossero assolutamente perfetti, ma non ignorava di scrivere soltanto prime stesure. Nonostante i cambiamenti che ho indicato, i quali non sono insignificanti solamente per il mio scrupolo, il rapporto che qui pubblico è il primo in cui si esponga con precisione una tragedia (e che consente di comprenderla) della quale non si sono mai cono­ sciute le cause né la spiegazione, ma soltanto gli orrori. Aggiungerò, per concludere, che alcune opinioni di Villafané sul compianto, l’immortale Carlos Oribe (della cui ami­ cizia mi sento ogni giorno più orgoglioso), derivavano, sem­ plicemente, dalla sua virile ma indiscriminata avversione per tutti noi, che eravamo giovani. A. B. C. Resoconto dei tremendi avvenimenti che ebbero misteriosamente luogo a General Paz (nella provincia del Chubut).

Fu nella chiara desolazione di General Paz che conobbi il poeta Carlos Oribe. Il giornale mi aveva mandato a fare un sopralluogo per scoprire le mancanze del governo e le prove dell’abbandono in cui veniva tenuta la Patagonia; per soddi­ sfare appieno entrambe le intenzioni era superfluo che facessi il viaggio; ma poiché il candore degli uomini d’affari è incor­

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reggibile, partii, spesi, mi stancai; particolarmente stanco e impolverato giunsi, in un ostinato mezzogiorno, su un auto­ bus, all’« Hotel América» di General Paz. Il paese compren­ de quell’incompleto e forse troppo grande edificio, una pom­ pa di benzina con i colori nazionali, la Delegazione munici­ pale e, di sicuro, qualche casa in più di quelle che esauriscono la loro immagine nel mio ricordo; immagine quasi inesisten­ te ma associata a una terribile esperienza: ciò che ho fatto, ciò che farò ormai non ha più importanza: nella vita, nel son­ no, nella veglia, non sono altro che il tenace ricordo di quei fatti. Tutto, comprese le prime impressioni del giorno - l’o­ dore di legno, paglia e segatura della bottega (che era una dé­ pendance dell’albergo), le strade bianche di polvere, illumi­ nate da un sole a picco e, in lontananza, attraverso la finestra, il bosco di pini -, tutto è rimasto contaminato da un sinistro e più o meno preciso valore simbolico. Posso ricostruire la sensazione che provai la prima volta che vidi quel bosco ? Pos­ so immaginarlo come un semplice gruppo di alberi, dall’ef­ fetto un po’ inverosimile in quella inesorabile sterilità, ma non ancora raggiunto dagli orrori che evocherà per sempre ? Appena arrivato, il padrone dell’albergo mi condusse in una stanza in cui c’erano bagagli e vestiti di un altro viag­ giatore, e mi disse di non attardarmi perché il pranzo era pronto. Non mi affrettai; poco dopo, cosciente della mia len­ tezza, entrai in quella sala da pranzo, dove avrei ascoltato l’i­ nizio della storia che avrebbe alterato, con una violenza se­ greta, la vita di tante persone. Nella sala da pranzo c’era un lungo tavolo. Il padrone fe­ ce un po’ indietro la sua sedia e, senza alzarsi, mi presentò a tutte le persone che erano li: il Delegato municipale, un viaggiatore di commercio, un altro viaggiatore di commer­ cio... La speranza di non ritrovare all’indomani nessuna di quelle facce e, soprattutto, il trionfante chiasso della radio mi persuasero a non stare a sentire. Ma colsi chiaramente un nome - Carlos Oribe -, e con un sorriso che ancora non era stato investito del mio spavento, della mia incredulità, por­ si la mano a un giovane dalla voce cosi acuta e sgradevole che sembrava falsa. Avrà avuto diciassette anni; era alto e curvo; la sua testa era piccola, ma dei capelli in disordine le

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conferivano un volume straordinario; sembrava avesse una vista molto debole. - Ah, lei è Oribe? - gli domandai. - Lo scrittore? - Il poeta, - rispose, sorridendo vagamente. - Non credevo fosse cosi giovane, - dissi con sincerità. - Ha sentito come mi chiamo ? - No, signore. Non sto mai a sentire le presentazioni. - Sono Juan Luis Villafane, - affermai, convinto di aver dato un’informazione completa. A questo punto devo chiarire, forse, che pochi mesi pri­ ma io avevo pubblicato su «Nosotros» un articolo intitolato Una promessa argentina, in cui elogiavo il libro di Oribe. E vero che in Canzoni e ballate avevo riscontrato una totale ignoranza, immancabile tra i giovani scrittori di un certo va­ lore, delle tradizioni e dei temi locali, uno studio meticolo­ so, direi quasi una fervida imitazione di modelli stranieri, e, quel che è più scoraggiante, molta vanità, una certa volubi­ lità femminile e non poco disinteresse per la sintassi e per la logica; ma è altrettanto vero che in tutto il libro si avverto­ no un sicuro istinto poetico e una passione per la letteratu­ ra, forse meno discreta che dominatrice, ma sempre bella. Non vi è scarsità di geni - o, almeno, di persone che si com­ portano come geni; mi affretto a riconoscere che è lecito confondere Oribe con queste persone; eppure, non credo fuo­ ri luogo indicare una distinzione: quelle persone nutrono un’essenziale indifferenza nei confronti dell’arte; sulla base di tale distinzione, che può anche non avere alcun interesse, che può anche non riguardare i libri, io salutavo l’ingresso di Oribe nelle nostre lettere. - Guardi, se ci conosciamo, - esplose Oribe con la sua vo­ ce più stridula, - la radio mi ha assordato anche nella me­ moria. Prima che dicesse qualcosa di irreparabile, gli spiegai: - Ho pensato che lei ricordasse il mio nome perché ho scritto una recensione del suo libro su «Nosotros». Il suo volto candido si illuminò dell’interesse più sincero. - Ah, che peccato, - esclamò, preso da un improvviso pen­ timento. - Non l’ho letta. Non leggo mai né giornali né ri­ viste. Leggo «La Nación» quando pubblica le mie poesie.

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Gli motivai i miei elogi per Canzoni e ballate (chiarisco: non sentivo né sento la necessità di giustificarmene) e ricor­ dai alcuni versi che mi erano sembrati felici. A un tratto mi vidi affettuosamente incoraggiato e congratulato. - Ottimo, ottimo, - ripeteva Oribe, con un tono che ri­ velava la generosa intenzione di stimolarmi. Non si deve credere che questo ci abbia divisi. Due gior­ ni dopo facevamo insieme il viaggio per Bariloche. In quel­ l’intervallo succedeva la terribile disgrazia. Gli unici passeggeri dell’autobus eravamo una signora ve­ stita a lutto, Oribe e io. Noi eravamo tristi e non avevamo voglia di parlare; era evidente, viceversa, che la povera vec­ chia era pronta a cominciare qualsiasi conversazione. L’au­ tobus si fermò per il pieno. Scendemmo a fare due passi. Ori­ be mi disse con una durezza insospettabile: - Non sono disposto a darle questo piacere. Si riferiva, naturalmente, alla povera donna. Io credevo che chiacchierare con lei sarebbe stato il nostro poco affasci­ nante ma non spaventoso destino. Un attimo dopo la signo­ ra si azzardò a domandarmi se il prossimo paese era Moreno; ero sul punto di risponderle quando, sedutosi a gambe incro­ ciate sul pavimento dell’autobus e alzando le braccia e guar­ dandomi negli occhi, Oribe gridò con la sua orribile voce:

Seduti sulla terra, che in fondo è la verità, narriamo con tristezza le morti dei re, e parliamo di epitaffi, di tombe, di vermi.

Si dirà: è una cosa puerile, spropositata, fuori luogo. Ma forse vi era (tra i confusi motivi di Oribe) un’intenzione be­ nevola: combattere la nostra malinconia. La signora scoppiò a ridere di cuore e tutt’e tre ci mettemmo a chiacchierare. Si dirà (anche): è proprio ciò che Oribe voleva impedire. Ma non dimentichiamo che egli era sensibile a qualunque omag­ gio e che la signora, come tante altre persone che lo avevano conosciuto, era rimasta notevolmente impressionata. Io na­ scosi la mia impressione: credetti di riconoscere in quei ver­ si la traduzione improvvisata di alcuni versi di Shakespeare, e in quel particolare comportamento di Oribe l’imitazione di un comportamento di Shelley.

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Ma non voglio far credere che tutti i gesti di Oribe fos­ sero plagi. Vi sono aneddoti che ritraggono gli uomini. Quel pomeriggio, mentre cercavo di addormentarmi durante la sie­ sta, sentii la voce di Oribe, che sembrava venire dal giardi­ no e ripeteva, inestinguibile come l’araba fenice, la morte di Tristano. Alla fine decisi di proporgli di prendere un caffè. Quando uscii in giardino, Oribe non c’era. Il padrone si af­ facciò alla porta; gli domandai se l’aveva visto. - No, - gridò Oribe, dall’alto. - Nessuno mi ha visto, - e prosegui senza alcun pudore: - Sono qui, sull’albero. Io mi arrampico sempre su un albero quando voglio pensare. Quello stesso giorno, sul calar della sera, stavamo chiac­ chierando con alcuni viaggiatori e con il Delegato. Oribe sem­ brava incuriosito dalla conversazione. A un tratto comincia a dar segni di crescente impazienza e, alla fine, si mette a cor­ rere verso l’interno della casa. La persona che parlava di­ mentica ciò che stava dicendo; tutti noi tentiamo di nascon­ dere il nostro stupore. Oribe torna; il suo volto esprime la gioia del sollievo. Gli domando perché se n’era andato. - Per niente, - risponde con ingenua tranquillità. - Sono andato a vedere una sedia. Non ricordavo come sono le sedie. Temo di aver dato un’impressione inesatta di ciò che pen­ so di Oribe. Nulla è più difficile che trovare l’espressione giu­ sta: non dire troppo né troppo poco. Ho riletto queste pagi­ ne e temo che la maliziosa, o distratta, o apparentemente giu­ stificata conclusione potrebbe essere che l’originalità che io attribuisco a Oribe si esaurisca in due aneddoti più o meno grotteschi. Eppure, ci sono sempre le sue Canzoni e ballate. Piaccia o no al lettore, sono un’indiscutibile conquista per gli uomini, che le canteranno e le loderanno infaticabilmente. E c’è, soprattutto, il suo commosso temperamento poetico. Carlos Oribe era una persona profondamente letteraria e vol­ le che la sua vita fosse un’opera letteraria. Segui i suoi mo­ delli prediletti - Shelley, Keats - e la vita o l’opera che pro­ dusse non è più originale di una combinazione di ricordi. Ma quale altro risultato possono raggiungere l’intelligenza più au­ dace o la fantasia più feconda? Noi che lo guardiamo con una simpatia temperata da un abitudinario senso critico, credia­ mo che il suo passaggio attraverso la brevissima storia della

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nostra letteratura sarà, per sempre, quello di un simbolo: il simbolo del poeta. Torno a quel giorno in cui pranzavamo a General Paz. Co­ me ho già detto, il tavolo era di fronte a una finestra; attra­ verso la finestra, in lontananza, vedevamo il bosco di pini. - Una fattoria? - domandò qualcuno (non ricordo se Oribe o qualche viaggiatore o io stesso). - «La Adela», - rispose il Delegato. - E di un certo Ver­ mehren, un danese. - Un uomo molto a posto, signori, - assicurò il padrone. -Va pazzo per la disciplina. Il Delegato replicò: - Non soltanto per la disciplina, don Américo. Vivono nel 1933, come se fossero vent’anni indietro, in piena civiltà come se fossero in una fattoria sperduta in mezzo alla cam­ pagna. Oribe si alzò. - Brindo alla civiltà, - gridò con la sua voce acuta. - Brin­ do alla radio. Pensai che la civiltà arrivava in tutti gli angoli della Re­ pubblica, tranne che al nostro triste burlone. Gli altri lo guar­ darono senza interesse. Oribe si risedette. - Quello de «La Adela» è un caso misterioso e incredibi­ le, - disse con tono distaccato il Delegato. Misterioso e incredibile perché vivevano nel 1933 come se fossero vent’anni indietro ?... Ebbi voglia di chiedere una spiegazione, ma temetti che Oribe scoprisse la mia curiosità e finisse per stimarmi di meno. Il padrone si ritirò in silen­ zio. Non fu indispensabile che io chiedessi spiegazioni. - Vedete quella porticina? - domandò il Delegato. Ci alzammo per guardare. Nel bosco di pini scorgemmo una staccionata con una porta bianca sotto una piccola tettoia. - É un anno e mezzo che nessuno entra o esce di là, - pro­ segui il Delegato. - Tutti i giorni, alla stessa ora, Vermehren arriva fino alla porta su un calessino di vimini, tirato da una cavalla storna. Riceve i fornitori e ritorna alla fattoria. Qua­ si non parla con loro. «Buongiorno», «Arrivederci». Sono sempre le stesse parole. - Potremo vederlo? - domandò Oribe.

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- Arriva alle cinque. Ma io non mi metterei sotto tiro. A proposito di tiro: Vermehren ha detto che delle visite si oc­ cuperà la Browning. Questo lo so perché l’ha detto il conta­ dino che è riuscito a scappare. - Che è riuscito a scappare ? - Proprio cosi. Tiene la gente prigioniera; in pratica, so­ no come forzati. Le ragazze fanno pena. Domandai chi viveva a «La Adela». - Vermehren, le sue quattro figlie, poche donne di servi­ zio e qualche contadino, - rispose il Delegato. - Come si chiamano le ragazze ? - domandò Oribe, che aveva gli occhi spalancati. Il Delegato sembrò essere in dubbio se rispondergli o in­ sultarlo. Rispose: - Adelaida, Ruth, Margarita e Lucia. Immediatamente si attardò in una prolissa e totalmente superflua descrizione del bosco e dei giardini de «La Adela». A Buenos Aires conobbi la storia di Luis Vermehren. Era il figlio minore di Niels Matthias Vermehren, che ebbe la glo­ ria di essere l’unico membro dell’Accademia Danese il quale votò perché venisse premiato un libro di Schopenhauer. Luis era nato verso l’anno 70; aveva due fratelli: Einar, che segui come lui la carriera ecclesiastica, e il maggiore, il capitano Matthias Mathildus Vermehren, celebre per la disciplina che imponeva durante la navigazione, per il suo aspetto cencioso, per la sua terribile pietà e per essere morto di sua mano, nel­ la Terra del Re Carlos, dopo aver abbandonato come un topo la sua nave in piena notte e in pieno naufragio (H. J. Molbech, «Annali della Reale Marina Danese», Copenhagen 1906). Ei­ nar e Luis Vermehren raggiunsero una certa fama per la loro lotta contro l’Alto Calvinismo; quando quella lotta valicò i li­ miti della retorica, e i cieli della pacifica Danimarca si illumi­ narono per gli incendi delle chiese, intervenne il governo. (Ei­ nar commentò in seguito: In un paese liberale, Luis ravvivò pas­ sioni che dormivano da circa trecento anni; se fosse vissuto nel XVI secolo, avrebbe bruciato anche Calvino in personal). Rap­ presentanti della corona chiesero ai pastori arminiani di sot­ toscrivere un compromesso. Einar fu tra gli ultimi a firmar­ lo, e fu allora, come nella sorpresa finale di un racconto, che



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si vide come l’eroe dell’agitazione religiosa non era stato lui - come tutti avevano creduto - bensì Luis. Questi, in effet­ ti, non aveva ammesso concessioni. Anche se sua moglie era molto malata (aveva appena partorito la figlia Lucia), preferì andar via dalla Danimarca. Poco dopo, sul calar della sera in un giorno del novembre 1908, si imbarcarono a Rotterdam per l’Argentina. La donna morì in mare aperto. Quella mor­ te risultò inattesa per Vermehren, che pensava soltanto alle sue lotte religiose e al tradimento del fratello; quella morte fu come un castigo imperdonabile e un terribile avvertimento; Vermehren decise di rifugiarsi con le figlie in un posto soli­ tario; decise di andarsene in Patagonia, alla fine dell’Argen­ tina, alla fine di «quell’interminabile e solitario paese». Com­ prò le terre del Chubut e cominciò a lavorare per impegnarsi in qualcosa. Ben presto si appassionò a quel lavoro. Riuscì a farsi prestare grandi somme di denaro e, con una volontà e una disciplina quasi inumane, organizzò un’ammirevole azien­ da agricola, innalzò nel deserto giardini e padiglioni e in me­ no di otto anni pagò per intero il suo enorme debito. Ma continuo il mio racconto di quel primo pomeriggio nell’«Hotel América». Era l’ora del tè; in grandi tazze di ce­ ramica bevevamo mate e mangiavamo qualche galletta. Ri­ cordai la nostra intenzione di spiare Vermehren al suo appa­ rire sulla porticina. - Sono quasi le cinque, - dissi. - Se non usciamo subito non possiamo vederlo. Siamo lontani. - Dalla nostra stanza saremo vicini, - gridò Oribe. Lo seguii, rassegnato. Ormai nella stanza (credo di aver già detto che la dividevamo), aprì senza esitare una valigia ricoperta di etichette e con un gesto e un sorriso da presti­ giatore ne estrasse un imponente binocolo a lunga gittata. Mi fece un lieve inchino perché mi avvicinassi alla finestra, sollevò il binocolo e si mise a guardare. Io attendevo che me 10 porgesse. In lontananza, nel bosco, i miei occhi scorgevano la pic­ cola porta con la tettoia e, più oltre, un sentiero angusto che si perdeva tra gli alberi. All’improvviso apparve una macchia bianca; poi divenne un cavallo che tirava un calesse. Guardai 11 mio compagno; non sentiva urgenza di darmi il binocolo.

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Glielo strappai, lo misi a fuoco e vidi chiaramente un caval­ lo bianco che tirava un calesse giallo, in cui era rigidamente seduto un uomo vestito di nero. L’uomo scese dal calesse, e quando lo vidi camminare verso la porta, minuscolo e attivo, ebbi la strana impressione che in quell’azione unica vedessi sovrapporsi ripetizioni passate e future e che l’immagine in­ grandita dal binocolo fosse nell’eternità. Mi complimentai con Oribe per il suo binocolo e andam­ mo a bere un bicchiere. - Signori, - gridò Oribe, con la sua voce da topo. - At­ tenzione. Dopo ciò che ho visto, non me ne andrò senza aver visitato «La Adela». Il padrone gli credette. - Non vedo dov’è il guadagno, - disse in tono spassiona­ to. - Il danese è malato nella testa, ma il polso ce l’ha fermo. E lei sa quanti cani ci sono là dentro ? Se la prendono, la ri­ ducono in condizioni tali da poter essere seminato a man­ ciate, caro mio. Per cambiare argomento, domandai a Oribe di chi era ami­ co a Buenos Aires. - Non ho amici, - rispose. - Non credo azzardato, tutta­ via, dare questo titolo al signor Alfonso Berger Cardenas. Non domandai altro. Sentii che Oribe era un mostro, o perlomeno che eravamo due mostri di scuole diverse. Io ave­ vo sfogliato un libro di A. B. C., io avevo scritto del preco­ ce autore di Guazzabuglio e di quasi tutti gli errori che sen­ za molta fatica può commettere uno scrittore contempora­ neo (quasi tutti: secondo la sua lista di opere, aveva ancora in preparazione alcuni racconti e alcuni saggi). Mi sembra inutile dichiarare che oggi la penso in un altro modo. Berger è il mio unico amico; ad avere il coraggio, direi che è l’unico discepolo che lascio. Ma allora fui grato a Oribe per quella informazione, e aggiunsi: - Me ne vado in camera, a scrivere. Ci vediamo dopo. Forse l’avevo trattato con impazienza. Forse Oribe avrà potuto giustificare quell’impazienza. Nel ricordo, tuttavia, è una figura patetica: lo rivedo quella sera in Patagonia, alle­ gro, pieno di errori e coraggioso, proprio sul punto di entra­ re in un insospettato labirinto di persecuzioni.

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Verso le dieci e un quarto usci dall’albergo. Dichiarò che andava a far due passi per pensare a una poesia che stava scri­ vendo. C’era un freddo tale che tutto ciò era una follia sen­ za pari, anche per Oribe. Non gli credetti; non gli risposi; lo lasciai uscire. Se ne andò con aria lugubre, quasi si dirigesse a compiere un orribile impegno. Subito dopo uscii io. La se­ ra era buia; per quanta strada feci, non riuscii a trovarlo. En­ trai nel bosco di pini. Non ho paura dei cani; in casa, quan­ do ero piccolo, c’era sempre qualche cane, e so come trat­ tarli. Cominciò a nevicare quando usci la luna. Ero a una cinquantina di metri dall’albergo, ma si mise a nevicare for­ te e tornai indietro con le scarpe bianche di neve. Dentro, Oribe mi stava aspettando, intirizzito dal freddo. Mi parlò di nuovo della poesia e io di nuovo non gli credetti. Bevem­ mo qualche bicchiere. Il poeta ne aveva bisogno; e forse an­ ch’io. Gli raccontai la mia escursione. Dovevo già essere mez­ zo ubriaco. Mi sembrava che Oribe fosse un grande amico, degno delle mie confidenze, e lo obbligai a restare fino al­ l’alba, mentre io chiacchieravo e bevevo. Il giorno dopo mi svegliai molto tardi. Oribe era in piedi davanti alla finestra, con gli occhi stupiti e le braccia spa­ lancate. - Un altro mito che muore! - esclamò. Non gli domandai il significato delle sue parole; non vo­ levo capirle; volevo dormire. Ma lui prosegui: - In questo momento un’automobile sta entrando a «La Adela». Esigo una spiegazione. Se ne andò. Cominciai ad alzarmi. Tornò poco dopo; il suo abbattimento era evidente, quasi teatrale. - Cosa succede? - gli domandai. - La proibizione di entrare nel bosco non esiste più... Non esiste più. Una delle ragazze è morta. Uscimmo lentamente. Il padrone ci salutò da una vecchia automobile. - Dove va ? - gli domandò Oribe, con la sua naturale im­ pertinenza. - A Moreno, a cercare un medico. A quello che abbiamo qui gli tirerei il collo. L’ho avvisato stamattina di andare alla fattoria per il certificato; adesso mi dicono dalla fattoria che

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non c’è. Mando un ragazzo a casa sua e gli dicono che è an­ dato a Neuquén. Un viaggiatore ci domandò se avremmo preso parte alla veglia funebre. Oribe gli assicurò di no. - Potete andarci, - disse il padrone. - Ci va tutto il paese. La decisione di Oribe era rigida. Forse aveva ragione; andare alla veglia magari era sgradevole; ma mi dava fasti­ dio che decidesse anche per me e che si intromettesse nelle mie cose. Nel pomeriggio non sapevamo che fare. Non potevamo andarcene perché fino al giorno dopo non sarebbe passato l’autobus. Tutta la gente di General Paz era alla veglia. Non ci andava di chiacchierare. Io pensavo alla ragazza morta. Oribe anche, di sicuro. Non osai domandargli se conosceva il nome della ragazza (di solito lo trattavo con una certa au­ torità; eppure, in certe occasioni facevo bene attenzione e provavo un po’ di vergogna, quasi temessi il suo giudizio). Alla fine, mi domandò: - Andiamo alla veglia ? Accettai. Dovemmo andare a piedi perché a General Paz non era rimasto neppure un veicolo. Era quasi sera quando traversammo la porta de «La Adela», in silenzio, con una partecipe solennità che può sembrare una stupidaggine, o un presagio. Oribe mormorò: - Speriamo che abbiano legato i cani. - Come potrebbero non legarli, - replicai, - se hanno in­ vitato la gente alla veglia ? - Io non mi fido della gente di campagna, - assicurò, guar­ dandosi attorno da tutte le parti. Per una decina di minuti percorremmo quel sentiero tra gli alberi. Poi arrivammo a un posto aperto (ma circondato, in lontananza, da file di alberi). Sul fondo c’era la casa. Qual­ che volta, nelle fotografie della Danimarca, dovevo aver vi­ sto case simili a quella di Vermehren; in Patagonia risultava del tutto incredibile. Era molto grande, alta, aveva il tetto di paglia e le pareti imbiancate a calce, con cornici di legno nero alle finestre e alle porte. Bussammo; qualcuno venne ad aprirci; entrammo in un grande corridoio molto illuminato (in modo straordinario, per

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una casa di campagna), con le porte e le finestre dipinte di az­ zurro scuro, con scaffali pieni di oggetti di porcellana o di le­ gno, con tappeti dai colori brillanti. Oribe disse che entran­ do in quella casa aveva avuto l’impressione di entrare in un mondo da cui non si poteva comunicare, più isolato di un’i­ sola o di una nave. In realtà, gli oggetti, le tende e i tappeti, il rosso, il verde o l’azzurro delle pareti e degli stipiti, deter­ minavano un ambiente d’interni quasi palpabile. Oribe mi pre­ se per un braccio e sussurrò: - Sembra che questa casa sia stata innalzata al centro del­ la terra. Qui di mattina non ci dev’essere mai il canto degli uccelli. Tutto ciò era un’evidente esagerazione, una sgradevole esagerazione; ma lo riferisco perché esprime abbastanza fe­ delmente ciò che si poteva provare entrando in quella casa. Passammo quindi in un enorme salone, con due grandi ca­ mini nei cui fuochi crepitavano i rami dei pini con fiamme violente. Nella penombra di un angolo lontano scorsi un grup­ po di persone. Qualcuno si alzò e venne a riceverci. Ricono­ scemmo il Delegato. - Il signor Vermehren è molto abbattuto, - ci annunciò. - Molto abbattuto. Venite a salutarlo. Lo seguimmo. In un’alta poltrona, circondato da uomini silenziosi, c’era Vermehren, vestito di nero, con il viso (che mi sembrò bianchissimo e carnoso) piegato sul petto. Il De­ legato ci presentò. Nessun movimento, nessuna risposta ci indicò che la presentazione era stata recepita, o che Ver­ mehren fosse vivo. Il gruppo rimase in silenzio. Dopo un po’, il Delegato ci domandò: - Volete vederla ? - allungò un braccio. - E in quella stan­ za. Le ragazze la vegliano. - No, - mi affrettai a rispondere. - C’è tempo. Guardai in su. Il salone era molto alto. A una delle estre­ mità c’era un coro o soppalco, che ne occupava tutta la lar­ ghezza. Sul davanti, il coro aveva una balaustra rossa; sul fondo, si vedevano due porte rosse. Una grossa tenda verde, quasi un sipario da teatro, pendeva dal soppalco e copriva un’estremità del salone. Oribe si appoggiò con aria noncurante a un lume da terra,

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con delle aquile, che stava a fianco di Vermehren. Mi do­ mandò con una certa timidezza: - A cosa sta pensando? Immediatamente, gli mentii: - Penso che è molto tempo che non scrivo niente per il giornale. Non trovo argomenti. - E questo?... - domandò Oribe. - È chiaro, - disse il Delegato. - No. Non mi azzardo, - risposi. Il Delegato insistette: - Sarebbe un onore per il signor Vermehren. - E magari, - dissi, - si potrebbe mettere una fotografia della ragazza. Mi sentii definitivamente una canaglia; il Delegato e Ori­ be accolsero con entusiasmo il suggerimento. - Signor Vermehren, - esclamò il Delegato, a voce molto alta e con una certa indecisione. - Il signore, qui, è della stam­ pa. Vorrebbe scrivere una noticina di necrologio. - Grazie, - mormorò Vermehren. Non fece nessun gesto. La testa era piegata sul petto. Mi spaventai, quasi avesse par­ lato un morto. - Grazie. Meno se ne parla e meglio è. - Il signore - insistette il Delegato, indicandomi con il di­ to - chiede soltanto una fotografia. Indispensabile per l’ar­ ticolo. - Sua figlia lo merita, - incalzò Oribe candido e spie­ tato. - Bene, - mormorò Vermehren. - Ci dà la fotografia? - domandò Oribe. Vermehren fece cenno di si. Non aveva energie per lot­ tare con persone cosi avide. Stava quasi per farmi compas­ sione, stavo quasi per aiutarlo... Lasciai che se la sbrigasse­ ro tra loro. - Quando possiamo averla? - indagò Oribe. - Appena verrà una delle mie figlie. Sono stanco, per que­ sto non ci vado io stesso. - Non lo permetterei mai, - disse Oribe, con dignità. Im­ mediatamente insistette: - Dove la tiene? - Nella mia stanza da letto, - balbettò Vermehren. Oribe era teso, con il capo sollevato e gli occhi chiusi. Poi,

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con un movimento brusco, come per una improvvisa ispira­ zione, passò dall’altra parte della tenda verde. Ricomparve in alto sul soppalco; si fermò tra le due porte, indeciso. Apri la porta di sinistra e scomparve. Il Delegato guardava tranquillamente verso il soppalco. Spalancò gli occhi. - Come? - riuscì ad articolare. Bisognava inventare una spiegazione, evitare un’immi­ nente catastrofe. - E un poeta, un poeta, - ripetei con fatuità. Oribe apparve di nuovo, si perse verso il basso, venne fuori dalla tenda. Aveva in mano una fotografia. Ebbi vo­ glia di vederla; la porse a Vermehren. Tremando, lo sentii domandare: -Elei? Per un tempo che mi sembrò lungo ma che forse fu sol­ tanto la frazione di un secondo, Vermehren rimase immobi­ le con la testa piegata sul petto, quasi addormentato nel do­ lore. Poi, come se la vicinanza della fotografia lo avesse ria­ nimato, si alzò in piedi. Accese la lampada. Era alto e magro, e nel suo volto carnoso, bianco e femminile, le labbra sotti­ li e i grandi occhi celesti sembravano esprimere un’impavi­ da crudeltà. In quel momento entrò una delle ragazze. Mise una ma­ no sulla spalla di Vermehren e gli disse: - Lo sai: è meglio che non ti agiti. Spense la lampada e si allontanò. Secondo Oribe, il Delegato avrebbe in seguito commen­ tato l’insistenza con cui avevo guardato la ragazza. Andai a sedermi su un divano vicino a una porta che con­ duceva attraverso un corridoio alla stanza in cui si trovava la morta. Di li passavano quelli che andavano a vederla. Vi ri­ masi molto tempo; forse per delle ore. Vidi passare una del­ le ragazze. Vidi passare Oribe; lo vidi uscire; sfuggi il mio sguardo; aveva gli occhi pieni di lacrime. Vidi passare un’al­ tra ragazza. Alla fine mi alzai e dissi a Oribe che dovevamo andare via da quella casa. Non voglio vedere persone morte: poi non pos­ so più ricordarle come persone vive. Gli domandai se aveva

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la fotografia; mi rispose di si, con la voce che gli tremava. Quando fummo fuori gliela chiesi. C’era cosi poca luce che riuscimmo a stento a ritrovare il sentiero. In albergo, Oribe ordinò un bicchiere di anice; io non avevo voglia di bere. La sera era finita presto, anche se era­ vamo tristi, taciturni e svegli. Mi addormentai poco prima delle otto del mattino. Credo che Oribe non abbia dormito affatto. Mi svegliai poco dopo; non avevo voglia di far niente e ri­ masi a letto fino a mezzogiorno. Oribe andò al funerale. Poi prendemmo l’autobus e affrontammo il ritorno a Buenos Ai­ res (attraverso Bariloche, Carmen de Patagones e Bahia Bian­ ca). Quel pomeriggio, Oribe era molto depresso; eppure, fe­ ce più pagliacciate che mai. Prima di separarci mi chiese che gli mostrassi un’ultima volta la fotografia di Lucia Vermehren. L’afferrò con ansia, la guardò da molto vicino per qualche secondo e chiuse gli occhi bruscamente e me la restituì. - Questa ragazza, - mormorò come se stesse cercando l’e­ spressione giusta, - questa ragazza è stata all’inferno. Confesso di non aver riflettuto per capire se c’era qual­ cosa di giusto nelle sue parole; gli dissi: - Si, ma la frase non è sua. - Questo non ha nessuna importanza, - affermò con si­ curezza, e mi accorsi di avergli rivelato la contumace povertà del mio spirito. - Noi poeti non abbiamo identità, occupia­ mo corpi vuoti, li animiamo. Non so se avesse ragione. Ho giustificato qualcuna delle sue azioni attribuendole a un desiderio, forse smodato, di im­ provvisare una personalità; forse sarebbe stato più giusto at­ tribuirli a motivi letterari, pensare che egli trattava gli epi­ sodi della propria vita come fossero episodi di un libro. Ma ciò che non posso ignorare è che le sue parole di fronte alla fotografia di Lucia Vermehren, anche se sono di qualcun al­ tro, evocano per lui quel potere divinatorio che l’Antichità attribuiva ai poeti. A Buenos Aires lo vidi molto poco. So, attraverso le don­ ne della mia pensione, che aveva telefonato qualche volta quando io non c’ero. L’ultimo ricordo che mi aveva lasciato,

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e il più forte, è quello di una sera in cui si presentò al gior­ nale, con i capelli in disordine e gli occhi stravolti. - Voglio parlarle, - gridò. - L’ascolto. - Non qui, - si guardò intorno. - A quattr’occhi. - Mi dispiace, - gli dissi. - Mi manca ancora mezza co­ lonna. - Aspetterò, - disse. Rimase in piedi, immobile, e mi fissava. Forse non lo face­ va per mettermi in agitazione; il suo sguardo mi mise in agita­ zione. «Non l’avrai vinta, con me», pensai, e con tutta calma, direi quasi con lentezza, continuai a redigere un trafiletto. Quando uscimmo, pioveva e faceva freddo. Oribe cercò di passare vicino al muro, sul marciapiede; passò dall’altra parte. Lo vidi bagnarsi e cominciare a tossire. Prima di par­ largli, lasciai trascorrere un momento. - Cosa vuole? - gli domandai. - Invitarla a fare un viaggio. A Cordoba. Pago tutto io. Non soltanto era ricco: aveva anche l’insolenza del dena­ ro. Mi faceva indignare, poi, il fatto che si ritenesse cosi ami­ co. Perché avrei dovuto accompagnarlo in un viaggio ? Quel­ lo in Patagonia era stato casuale. - Impossibile, - gli dissi. Oggi ho la soddisfazione di essere stato cauto; di avere ag­ giunto: - Ho molto lavoro. Insistette lamentosamente e riuscì soltanto a far crescere la mia indignazione. Quando fu convinto che non lo avrei ac­ compagnato, mi disse: - La supplico per una cosa. Mi sembrava che avesse supplicato abbastanza. Prosegui: - Non voglio che sappiano che vado a Cordoba. Le chie­ do per favore di non dirlo a nessuno. Non domandai alle donne se aveva chiamato. Quanto al segreto del viaggio, ignoro se lo mantenni; credevo allora, e a volte lo credo ancora, che Oribe non deve aver mai voluto che nessuno tenesse nessun segreto su di lui. Ma ho la co­ scienza tranquilla: nulla, né le mie parole né il mio silenzio, potè modificare i fatti che poi accaddero.

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Due mesi dopo quella notte in cui i miei occhi indifferenti l’avevano visto perdersi, futile e commosso, nell’esaltata il­ luminazione di Buenos Aires, due mesi dopo quella sera in cui si introdusse in una limitata geografia di angoscia e di per­ secuzione, un carabinero lo trovò morto in un lontano giar­ dino della città di Antofagasta. Luis Vermehren, arrestato pochi giorni dopo dalla polizia, confessò di averlo assassina­ to; ma né gli specialisti locali né quelli mandati da Santiago riuscirono a tirargli fuori i motivi per cui lo aveva fatto. Po­ terono solo accertare che Oribe era passato da Cordoba, Sal­ ta e La Paz prima di arrivare ad Antofagasta, e che Vermeh­ ren era passato da Cordoba, Salta e La Paz prima di arriva­ re ad Antofagasta. Presi la faccenda con tranquillità. Pensai di scrivere una serie di articoli che raccontassero la persecu­ zione di Oribe compiuta da Vermehren e di alludere in pa­ rallelo alla persecuzione dei lumi da parte della Chiesa. Que­ sta eccellente idea venne abbandonata, perché mi convinsi che dovevo fare qualcosa di più; non senza molta fatica ot­ tenni che lo stesso direttore che mi aveva mandato in modo cosi superfluo in Patagonia mi consentisse di andare, per con­ to del giornale, dove io volessi, nel paese o fuori, per occu­ parmi dell’assassinio di Oribe. Era di giovedì. Alcuni amici mi fecero avere per la do­ menica seguente un posto sull’aereo della linea militare di Bariloche; per il mercoledì, feci un biglietto dell’aereo che va in Cile. Andai a trovare senza nessuna speranza una certa Bella, una mia amica danese sposata con un ingegnere che lavorava a Très Arroyos. Non mi sembrava sufficiente che una perso­ na fosse nata in Danimarca perché conoscesse la storia dei Vermehren; ciò era ragionevole solo in apparenza, perché nel paese non vi sono molti danesi, e così tutti hanno notizie de­ gli altri, o sanno chi può averle. Bella mi presentò un certo signor Grungtvig, di Très Arroyos, che era di passaggio a Bue­ nos Aires. Quella sera, al Germinai, mentre ascoltavamo dei tanghi, Grungtvig mi disse quasi tutto ciò che so di Ver­ mehren. La sera dopo ci riunimmo ancora. Completò le infor­ mazioni su Vermehren e vedemmo l’alba, malinconici e fra­ terni, chiacchierando della sterile, della decorosa ripugnanza

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che tutti proviamo nei confronti delle autorità, convinti del futuro disperato della vita politica sulla terra e, in particola­ re, nella nostra Repubblica; ma non sentivamo come una di­ sgrazia le nostre previsioni e la nostra rassegnazione; i tan­ ghi, che potevano essere Una noche de garufa, La viruta e El Cabarè, ci animavano, il danese e me, con un segreto pa­ triottismo comune, con un’indiscriminata volontà di agire, con una gioiosa aggressività. Domenica, sul far della sera, arrivai a Bariloche. Mi misi d’accordo con l’autista che mi aveva accompagnato dall’ae­ roporto fino all’albergo che la mattina seguente saremmo an­ dati a General Paz. Ci muovemmo presto e passammo tutto il giorno in mac­ china. Domandai all’autista se il dottor Sayago lavorava anco­ ra a General Paz. Quell’uomo non sapeva nulla di General Paz. Arrivammo. Scesi, coperto di polvere e distrutto dalla stanchezza, davanti alla casa del medico. Venne ad aprirmi il dottor Sayago; si presentò da solo e mi porse una mano straordinariamente pallida, umida e fredda. Era piuttosto basso; portava i baffi e aveva i capelli divisi in due metà ugua­ li, con la riga al centro e onde parallele. Mi offri un orribile beveraggio, che risultò essere un vino che preparava lui stes­ so, si vantò per il suo apparecchio radio (gli permetteva di «prendere il Colon e i discorsi di una gran quantità di signori con incarichi pubblici») e m’invitò a sedere. Quando seppe che ero un giornalista e, poi, che non avevo intenzione di fa­ re un servizio su di lui, perse gradualmente la sua amabilità. Lo interpellai: - Sono venuto a domandarle perché lei non volle andare a «La Adela» per il certificato di morte di Lucia Vermehren. Spalancò gli occhi e pensai che gli sarebbe piaciuto ri­ prendersi il suo apparecchio radio e farmi vomitare (e non sarebbe stato difficile) il suo assurdo beveraggio. Senza dub­ bio voleva darsi importanza e parlare; ma non parlare della faccenda Vermehren. Il suo atteggiamento era giustificabile: non sapeva fin dove poteva portarlo la nostra conversazione e nessuna persona che si rispetti vuole avere a che fare con la polizia. Prima che rispondesse, gli spiegai: - Scelga se preferisce parlare con me o con le autorità.

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Se parla con me non se ne pentirà. Io faccio questa ricerca per conto mio e non comunicherò i risultati a nessuno. Scelga. L’uomo si bevve un bicchiere del suo vino e sembrò ria­ nimarsi. - Bene, - esclamò in tono trionfale, - se mi promette la sua discrezione, parlerò. Io ho visitato la signorina Vermeh­ ren un anno e mezzo prima della data in cui dicono sia mor­ ta. Non poteva vivere più di tre mesi. - Fare il certificato - interpretai senza entusiasmo - equi­ valeva ad ammettere un errore professionale... Il dottor Sayago si fregò le mani. - Se vuol vedere la cosa in questi termini, - commentò, - non ho da obiettare. Ma l’avviso: dopo la data del mio esame la signorina Vermehren non poteva vivere più di tre mesi. Posso concederle: quattro mesi; cinque. Non un gior­ no di più. Tornai a General Paz quella sera stessa; il giorno dopo presi l’aereo per Buenos Aires. Durante il viaggio sognai; le mie emozioni e forse la continuità del movimento e della stan­ chezza ressero quelle orribili fantasie. Io ero un cadavere e, nel sogno, il desiderio di finire il viaggio era il desiderio di essere sepolto. Sognai che tutti i miei amici erano fantasmi di persone già morte; ben presto sarebbero morti anche co­ me fantasmi. Una paura non espressa mi impediva di guar­ dare la fotografia di Lucia Vermehren: non era una foto­ grafia ciò che io guardavo, ciò che io adoravo, ciò che io toc­ cavo. Poi ci fu un mutamento atroce: quando la guardai di nuovo, anche se non avevo mai cessato di guardarla, fui pu­ nito per quella interruzione retrospettiva; l’immagine era sta­ ta cancellata, rimaneva un pezzo di carta bianco e cosi seppi definitivamente che Lucia Vermehren era morta. Arrivammo che era già pomeriggio. Io ero stanco, ma quel­ lo era il mio ultimo pomeriggio a Buenos Aires e volevo ve­ dere Berger Cardenas prima di andarmene in Cile. Telefonai a casa sua; mi rispose proprio lui e mi disse che non c’era; gli dissi che lo sarei andato a trovare la sera stessa. Sono passati parecchi anni da quell’incontro; eppure, a ri­ cordarlo oggi, torno a sentire lo stesso pentimento e lo stes­ so rancore. Berger dovette rimanere come un simbolo, il suo

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solo ricordo come un incessante scongiuro nei confronti di quegli orrori; ma lo sviluppo dei nostri sentimenti è cosi im­ perscrutabile che quell’uomo fini per diventare il più impor­ tante dei miei amici e, mi azzarderei ad aggiungere, durante le inestinte miserie della mia lunga infermità, il migliore in­ fermiere e il miglior domestico. Tra cani enormi, che silenziosamente si facevano avanti per poi tornare a scomparire nell’oscurità, seguii un portiere evasivo attraverso una serie di cortili irregolari e poi attra­ verso un giardino in cui c’era un padiglione con una scala esterna, e un solo albero, che nella sera sembrava senza fine. Salimmo per la scala, aprimmo la porta ed entrai in una stan­ za vivamente illuminata, con le pareti ricoperte di libri. Con­ gestionato e benevolo, Berger si alzò da un’orribile poltrona con i braccioli di metallo e venne avanti per ricevermi. Non persi tempo in convenevoli. Gli domandai se Oribe avesse scritto qualcosa sul viaggio in Patagonia. - Si, - rispose. - Una poesia. La conservo ancora. Apri un cassetto ricolmo di carte sudice e stropicciate; vi frugò dentro e quasi subito estrasse un quaderno con la co­ pertina rossa. Si accinse a leggere. - L’ho copiata io, - dichiarò. - Di mio pugno. - Non ha importanza, - dissi; gli presi il quaderno. - De­ cifro le peggiori grafie. Il titolo mi fece rabbrividire: Lucia Vermehren : un ricor­ do. Lessi la poesia e mi sembrò la trascrizione debole e perifrastica di sentimenti intensi; ma questo è un giudizio a po­ steriori e confesso che quella sera potei esprimere soltanto una confusa, anche se violenta, emozione. Un’emozione, in­ dubbiamente, è una forma umilissima di critica: eppure, poi­ ché la merita, la poesia si distingue tra tutte quelle di Oribe (malgrado le fervide intenzioni di imitare Shelley, il nostro poeta prodigava più felicità verbale che sincerità). I versi che lessi avevano difetti formali e non erano sempre eufonici; ma erano sentiti. Poiché non ho sottomano quella calunniosa rac­ colta postuma in cui figura la poesia, devo citare a mente e, purtroppo, quella che ricordo è una delle strofe più langui­ de. Il suo primo verso è povero; le parole «bosco», «deser­ to», «leggenda», sono valori poetici analoghi e non si raffor­

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zano reciprocamente. Il secondo verso, emulo delle peggio­ ri riuscite di Campoamor, non è degno di Oribe. Nell’ulti­ mo, la cesura non cade in modo naturale; considero, infine, che la scelta della parola «disperazione» non si possa consi­ derare un successo. La strofa, nel suo insieme (e nella sua po­ vertà), forse non rivela influenze; ma alcuni dei suoi versi la­ sciano trasparire, almeno cosi mi pare, tracce di Shelley; il mio smemorato udito, tuttavia, si rifiuta di precisarle. Scoprii una leggenda e un bosco in un deserto, e nel bosco Lucia. Oggi ormai Lucia è morta. Alzati Memoria e scrivine un’esaltazione, anche se Oribe è caduto nella disperazione.

Domandai a Berger se Oribe non gli avesse raccontato nul­ la del suo viaggio. - Si, - disse. - Mi ha raccontato un’avventura stranis­ sima. Berger cominciò dal «mistero» del bosco di pini e pro­ segui: - Lei ricorderà che Oribe una sera usci dall’albergo, verso le dieci, con il pretesto di pensare a una poesia che stava scri­ vendo. La notte era molto scura (cosi scura, mi disse, che sco­ pri di aver camminato tra la neve soltanto quando si guardò le scarpe, in albergo). Si diresse come gli fu possibile verso il bosco di pini. I cani non gli si fecero contro: se ne rallegrò perché gli incutevano paura, anche se sapeva come trattarli... - Credo che pure lui abbia avuto dei cani, - indagai, - quan­ do era piccolo... - Si, mi sembra di avergli sentito dire qualcosa del gene­ re... A un tratto si trovò di fronte all’edificio principale de «La Adela»; disse di averlo costeggiato dalla parte sud; apri una porta laterale e si infilò a caso in quell’abitazione sco­ nosciuta; attraversò stanze e corridoi; alla fine arrivò a una scala a chiocciola, dietro una tenda verde; sali sulla scala e da un soppalco vide un salone immenso in cui un signore ve­ stito di nero chiacchierava con tre ragazze (le prime perso­ ne che trovò in quella casa). Garantiva che non lo avevano visto. Sul soppalco si affacciavano due porte. Apri quella di destra. C’era Lucia Vermehren.

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Sentii una vertigine e mormorai: - Che altro ? - Oribe riferiva due cose, - spiegò con metodo Berger. - Prima, che nel vederlo la ragazza non si spaventò. Era co­ me se, mi ripeteva, in generale lo stesse aspettando. Gli do­ mandai di non ripetersi e di spiegarmi cosa intendesse, alme­ no con quella espressione, in generale. Inutile. Lei sa quanto poteva essere ostinato e distratto. Poi c’era la seconda cosa, cioè la docilità virginea con cui la ragazza gli si era data. Con la faccia congestionata e gli occhi inespressivi, Ber­ ger forni tutti i particolari. Provai nausea; di me, di Oribe, di Berger, del mondo. Avrei voluto abbandonare tutto; ma mi trovavo dentro a quell’episodio come se fossi stato alla metà di un sogno e forse capii che non dovevo prendere de­ cisioni, che in quel momento il mio senso di responsabilità non andava oltre quello di un personaggio sognato. Inoltre, cominciai a intravedere (molto in ritardo, peraltro) una spie­ gazione dei fatti e commisi l’errore di volerla confermare o distruggere, non volendo scegliere l’incertezza. La mattina dopo mi misi in viaggio per Santiago. Pensai che non dovevo odiare Oribe. Con una freddezza non molto sicura di sé mi domandai se mi dava poi cosi fa­ stidio il fatto che avesse raccontato l’avventura perché la ra­ gazza era morta. Precisamente, l’aveva raccontata per que­ sto: perché la ragazza era morta e perché la storia della sua vita e l’episodio della sua morte erano romantici. Trattava la realtà come una composizione letteraria, e doveva pensare che il valore antitetico di quell’aneddoto fosse irresistibile. Il procedimento era ingenuo, l’effetto grossolano, e pensai che non dovevo giudicare Oribe con troppa severità poiché la sua colpa non era quella di essere un uomo ingiusto, ma uno scrit­ tore inesperto. Lo pensai invano. Queste argomentazioni non ebbero ragione del mio riprovevole rancore. Appena arrivai ad Antofagasta andai dal capo della poli­ zia. Questo funzionario non dimostrò alcun interesse per la lettera di presentazione, anche se questa recava la firma au­ tografa del nostro capo: mi stette a sentire con indifferenza e mi diede un permesso per visitare Vermehren tutte le vol­ te che avessi voluto.

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Lo andai a vedere il pomeriggio stesso. Dai suoi occhi du­ rissimi non capii se mi aveva riconosciuto. Gli feci alcune do­ mande. Cominciò a insultarmi, lentamente, con una voce in cui le parole, quasi mormorate, sembravano contenere un ura­ gano di odio. Lo lasciai parlare. Poi gli dissi: - Come vuole. Stavo conducendo una ricerca a titolo per­ sonale, senza avere l’intenzione di pubblicarne i risultati. Ma lei mi ha convinto: pubblico i dati che ho avuto dal dottor Sayago e non disturbo più nessuno. Me ne andai subito e il giorno dopo non mi ripresentai in carcere. Quando tornai era quasi attento. Fece appena un cenno all’incontro precedente. Mi disse: - Non posso spiegare questa faccenda senza fare riferimento alla mia povera figlia. Per questo non ho voluto parlare. Confermò la storia del medico; aggiunse che una sera, mentre Lucia saliva per andarsi a coricare, qualcuna delle ra­ gazze aveva detto che sembrava incredibile che in una vita sempre uguale com’era quella che loro vivevano potesse ve­ rificarsi qualche cambiamento: il cambiamento definitivo del­ la morte. In seguito ricordò quella frase e, nelle ore insonni, quando le convinzioni e i propositi si fanno più pressanti, de­ cise di imporre a tutti una vita scrupolosamente ripetuta, per­ ché in quella casa il tempo non passasse. Dovette prendere qualche precauzione. Proibì alle perso­ ne della casa di uscire; a quelle all’esterno proibì di entrare. Era lui che usciva, sempre alla stessa ora, a ricevere le prov­ viste e a dare gli ordini ai capetti dei contadini. La vita di quelli che lavoravano fuori continuò come prima: un conta­ dino era fuggito, questo è vero, ma non doveva averlo fatto per salvarsi da una disciplina terribile quanto perché doveva aver scoperto che stava succedendo qualcosa di strano, qual­ cosa che non poteva capire e che per questo lo impauriva. Al­ l’interno, poiché l’ordine era sempre stato molto rigido, il si­ stema delle ripetizioni venne attuato in modo naturale. Non fuggì nessuno; anzi: nessuno osò affacciarsi a una finestra. Tutti i giorni sembravano uguali. Era come se il tempo si fer­ masse tutte le sere; era come se vivessero in una tragedia che

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si interrompeva sempre alla fine del primo atto. In questo modo trascorse un anno e mezzo. Egli credeva di essere en­ trato nell’eternità. Poi, all’improvviso, mori Lucia. Il termi­ ne dato dal medico era stato ritardato di quindici mesi. Ma nel giorno della veglia era successo qualcosa di rivela­ tore: una persona che non era mai stata in quella casa seppe andare, senza che nessuno dicesse nulla, fino a una certa stan­ za. Vermehren se ne accorse soltanto quando Oribe gli die­ de la fotografia di Lucia; ma aggiunse che nell’accendere la lampada la sua decisione era già quella di guardare in faccia l’uomo che stava per uccidere. Pochi giorni dopo ero tornato a Buenos Aires e Vermeh­ ren era morto nella sua cella. Si disse (per ora non voglio sma­ scherare l’autore di quell’infamia) che io non ero estraneo a quella morte; che avevo approfittato della circostanza di non essere stato perquisito per portargli il cianuro (mi avrebbe costretto in cambio di una confessione). Ma non vi furono le circostanze che i diffamatori prevedevano: io non rivelai nul­ la e la polizia del Cile non si occupò di me. Temo, adesso, di far riaccendere quella calunnia; si ag­ giungerà che gli elementi ricevuti dal medico e la semplice minaccia di pubblicarli non furono sufficienti per ottenere le dichiarazioni di Vermehren; si sorvolerà sulle difficoltà che avrei dovuto affrontare per procurarmi del veleno ad Anto­ fagasta; si insisterà sul fatto che questa pubblicazione è la prova che mancava. Io, tuttavia, spero che il lettore sappia trovare nelle mie pagine l’evidenza dei fatti, cioè che io non potevo essere coinvolto nel suicidio di Vermehren. Stabilire questa evidenza, denunciare il ruolo dominante che nei fat­ ti di General Paz ha avuto il destino, e mitigare per quanto possibile una responsabilità che disonora il ricordo di Oribe, sono stati gli stimoli che mi hanno consentito di mettere or­ dine, nel pieno della mia malattia e sull’orlo ormai dello sfa­ celo, in questa relazione su fatti e passioni riguardanti un mondo che per me non esiste più. Qui si interrompe il manoscritto di Juan Luis Villafane.

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Scrivendo: Qui si interrompe il manoscritto di }uan Luis Vil­ lafane, ho voluto indicare che, a mio giudizio, il racconto è incompiuto. Vorrei aggiungere: deliberatamente incompiu­ to. E vero che l’ultima frase ambisce alla solennità, al pate­ tico e al cattivo gusto di un finale. Soprattutto, di un falso finale. E come se Villafane avesse mirato a che il tono confon­ desse i lettori; che questi, nel riconoscere il finale, lo accet­ tassero, senza ricordare che mancavano alcune spiegazioni e una buona parte del racconto. Adesso tenterò di colmare queste lacune. Quella che ag­ giungo è un’interpretazione puramente personale dei fatti; ma spero anche che sia corretta, perché tutte le sue premes­ se si possono trovare in questo documento o nei caratteri che questo documento attribuisce a Oribe e a Villafane. Non ho taciuto la mia conclusione con il proposito letterario, o pue­ rile, di riservare una sorpresa per le ultime pagine; ho volu­ to che il lettore seguisse Villafane libero da qualsiasi mia sug­ gestione; se questo epilogo gli pare troppo prevedibile, se, in­ dipendentemente, siamo arrivati alla stessa conclusione, mi azzarderei a considerare il fatto un indizio di come l’inter­ pretazione non sia immotivata. Prima di tutto, esaminiamo i due personaggi, che sono complementari, come le figure di un’incisione: Carlos Oribe e Juan Luis Villafane, simmetrici nei loro destini. Ma a que­ sto punto la trama potrebbe apparire eccessivamente sem­ plice, la simmetria troppo perfetta (non per un teorema, né per la pura realtà: per l’arte). Parlare di eminenze grigie per descrivere Villafane, anche se essenzialmente non modifica la situazione, è un errore per­ ché la modifica soltanto in apparenza. Ho già detto che Vil­ lafane era solito agire in modo anonimo, indiretto; che i suoi migliori articoli erano apparsi senza firma e che più di una brillante e burrascosa discussione al Senato era stata un dia­ logo immaginario, un sostanziale monologo in cui Villafane, impersonato da diversi senatori, proponeva e controbatteva. Riguardo a Carlos Oribe, c’è una questione che molti pre­ feriscono ignorare; io dissento da costoro; se nessuno la di­ scute, a danno della storia verrà magnificata o sarà dimen­

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ticata. Io lascio che altri si vergognino dei loro idoli, li spo­ glino delle loro caratteristiche umane e li trasformino in per­ sonaggi simbolici, in una strada, in una festa scolastica e in compiti a non finire per gli scolari. Io ho conosciuto Carlos Oribe; io lo ammiro - cosi com’era. Confesso, quindi, senza imbarazzo: Oribe qualche volta ha plagiato. Nel trattare que­ sta faccenda delicata, converrà, forse, ricordare le parole di Oribe a proposito dei plagi di Coleridge: Per Coleridge era in­ dispensabile copiare Schelling? Lo faceva in forma pauperis? Assolutamente no. Ecco l’enigma. Quanto a Carlos Oribe, l’e­ nigma non esiste; Oribe imitava perché la ricchezza del suo ingegno comprendeva le arti imitative; disapprovare, in lui, l’imitazione è come disapprovarla in un attore drammatico. Ma ricapitoliamo la storia: attraverso la finestra dell’al­ bergo, a General Paz, Oribe e Villafane vedono in lontananza un bosco di pini: è «La Adela», una fattoria in cui da un an­ no non entra nessuno e da cui nessuno esce; Oribe manife­ sta, un pomeriggio, la propria intenzione di non andarsene da General Paz senza aver prima visitato quella fattoria; di sera, con un pretesto incredibile, esce dall’albergo; esce an­ che Villafane; la mattina dopo muore Lucia Vermehren e vie­ ne revocato il divieto di entrare a «La Adela»; Oribe non vuole andare alla veglia funebre; dopo ci va e si muove per la casa come se la conoscesse; poi Vermehren uccide Oribe. La mia conclusione non è imprevedibile: Vermehren si è sbagliato. Prima della veglia, Oribe non era entrato in casa sua. Chi vi era entrato era Villafane. Come il lettore avrà notato, nel racconto di Villafane si trovano le indicazioni che impongono questa conclusione in tutte le sue parti. L’intervento di Oribe (a) e di Villafane (b) nei fatti potrebbe essere chiarita in questi termini: a) Per far credere che entrerà nella casa di Vermehren, Oribe sfida le inclemenze di quella notte patagonica. Ma non entra neppure nel bosco. Ha paura dei cani; ne ha paura an­ che quando è insieme a Villafane. Nel giorno della veglia potè andare fino alla stanza di Ver­ mehren perché la notte precedente Villafane gli aveva rac­ contato minuziosamente la sua visita a «La Adela». Questa affermazione non è priva di fondamento. Villafane, quella

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sera, aveva bevuto; dice egli stesso: «Mi sembrava che Ori­ be fosse un grande amico, degno delle mie confidenze». Sap­ piamo com’erano le confidenze alcoliche di Villafane: le rac­ contava con «precisa crudezza». Queste due parole chiari­ scono tutto: le confidenze furono precise: Oribe potè arrivare, la sera della veglia, alla stanza di Vermehren (Villafane era stato in quella di Lucia; ciò spiega l’indecisione di Oribe tra le due porte del soppalco); le confidenze furono crude: Villafané provò odio e orrore nel sentire la storia apocrifa di Ori­ be: sentiva la storia vera di Villafane e di Lucia Vermehren, sentiva, dopo la morte di Lucia Vermehren, lo stesso raccon­ to che egli aveva pronunciato, la stessa slealtà che egli aveva commesso, reso osceno dall’alcol e forse dalla tradizione del­ le conversazioni tra uomini, reso fatuo dal successo. Oribe sembra soffrire per la morte di Lucia. Ma il narra­ tore osserva: «Il suo abbattimento era evidente, quasi tea­ trale». In effetti, Oribe era come un buon attore, immagi­ nava chiaramente la sua parte, si identificava a fondo con il personaggio rappresentato. Infine: modifica i fatti e si appropria delle esperienze al­ trui. Ad esempio: - Da una finestra, entrambi guardano l’arrivo di Ver­ mehren alla porta; entrambi guardano, ma quello che vede è Villafane perché ha il binocolo e perché Oribe non ha una buona vista. Davanti al padrone, Oribe dichiara: «Dopo ciò che ho visto, non me ne andrò senza aver visitato “La Adela”». - Oribe afferma di non aver visto nevicare perché la not­ te era scura; di non essersi accorto che aveva nevicato fino a quando non era tornato in albergo, e non aveva visto le proprie scarpe sporche di neve. Noi affermiamo: fino a quan­ do rimase fuori, non nevicò: se ne sarebbe accorto: «Co­ minciò a nevicare quando usci la luna». Poi (altra impostu­ ra), non vide la neve sulle proprie scarpe; la vide su quelle di Villafane. Non è stato l’odio che ha spinto Villafane a presentare questi aspetti del carattere di Oribe; è stato (anche) lo scru­ polo di non negare al lettore nessun elemento utile per sco­ prire la verità.

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b) Villafane usci dopo Oribe, quasi lo seguisse. Ma im­ maginare Villafane che spia Oribe è assurdo. Villafane usci per entrare a «La Adela». Stette insieme alla ragazza. Quando gli dicono che una di quelle ragazze è morta, ne vuole sapere il nome; poi non si allontana dalla veglia finché non ha visto tutt’e tre le sorel­ le della morta (teme che questa sia quella che la notte prima è stata con lui; spera che non lo sia); ma fin dall’inizio ha te­ muto il peggio, e si dà da fare perché Oribe e il Delegato gli procurino una fotografia (vuole tenere un ricordo); dichiara che non sopporta di vedere persone morte perché dopo non può più immaginarle da vive (in questo caso particolare, la frase non avrebbe senso se Villafane non avesse visto prima la ragazza); trascorre la notte sveglio, è molto triste, è inna­ morato di Lucia Vermehren (non credo che una fotografia e un destino più o meno poetico fossero sufficienti a farlo in­ namorare); si riferisce al racconto di Oribe come a «quegli orrori» e parla del suo «pentimento» (Villafane avrebbe po­ tuto parlare di pentimento soltanto se avesse avuto qualche responsabilità nella sorte di Oribe; avrebbe potuto parlare di orrori soltanto se nel racconto di Oribe avesse ascoltato il suo irrispettoso racconto di un’avventura atrocemente pu­ rificata dalla morte). Per finire, richiamo l’attenzione del lettore su una frase di Villafane. Paragona un episodio della vita di Vermehren alla sorpresa finale di un racconto, in cui un personaggio, fi­ no a quel momento considerato secondario, si rivela all’im­ provviso come protagonista. Mi domando se Villafane non abbia messo li questa frase perché qualcuno la colga e inter­ preti, come con una chiave, tutto il racconto. Non credo che l’unica interpretazione di questi fatti sia la mia. Credo, semplicemente, che sia l’unica vera. Bisogna aggiungere ancora qualche parola a proposito di Villafane e di Lucia Vermehren. Forse Lucia Vermehren ave­ va ricevuto Villafane come l’angelo della morte che l’avreb­ be finalmente salvata da quella laboriosa immortalità impo­ sta da suo padre. Quanto a Villafane, il destino si era acca­ nito contro di lui; lo trasformò in strumento di morte ma non lo sconfisse; nulla riuscì a sconfiggere la sua tranquilla

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signorilità, la sua incorruttibile serenità. Una volta disse: «Mi piace pensare che Oribe abbia avuto una morte intona­ ta alla sua vita». Non diede nessuna spiegazione; io credo di intravederla... Aggiunse qualcosa sulla «propria morte». A quel tempo, tutti parlavamo di morti, proprie e altrui; non c’era molto da capire in questa distinzione. Sulla calunnia che lo coinvolge nel suicidio di Vermehren, mi spingo ad af­ fermare che ha una sola origine: il manoscritto dello stesso Villafane. Non voglio suggerire, tuttavia, che Villafane ab­ bia inventato quella insostenibile calunnia perché il lettore possa distruggerla e creda di scoprire la sua innocenza. Ma il mio ultimo ricordo sarà per Carlos Oribe. Lo im­ magino la sera della sua partenza, mentre agita un cappello di paglia e ripete questo involontario dodecasillabo:

Non tutti, non tutti, si scordino di me! L’implorazione del poeta è stata esaudita. A. B. C.

Storia prodigiosa

«Io lo dico sempre: non c’è nessuno come Dio».

Una signora argentina. I.

Ciò che mi spinge a scrivere non è il piacere di parlare di queste cose né l’istinto professionale, che dovrebbe registra­ re avidamente e sfruttare avvenimenti come quelli che sono poi successi, non soltanto malinconici, ma anche portentosi e terribili. In verità, la mia coscienza esige, e Olivia mi chie­ de, che io metta in chiaro alcuni episodi della vita di Rolan­ do de Lancker, episodi che certi ambienti hanno di recente commentato, diffuso e tirato per le lunghe. Poiché la mente umana lavora con frivolezza, la prima cosa che il nome di Ro­ lando de Lancker evoca in me sono immagini dell’interno, scuro e di cuoio, di una break che percorre una strada fan­ gosa, della leggera carta celeste dei Bay Biscuits, di una stu­ diosa ragazza bionda, di un parco simmetrico e abbandona­ to con due leoni di pietra e, in lontananza, tre strade dagli alti eucalipti scossi dal temporale. Non vi è nulla di funesto in tutto ciò, o tutt’al più la luce in cui li vedo retrospettiva­ mente. Eppure il destino per cui simili immagini servono da inadeguato emblema, raccolto da una penna meno inetta del­ la mia, fornirebbe a molti una lezione terrificante. Come tutti a Buenos Aires - mi riferisco al mondo della nostra professione - io sapevo chi era Rolando de Lancker. Non voglio dire che sapessi qualcosa di concreto, ma sape­ vo vagamente che esisteva, che aveva pubblicato il tal libro, che era nemico dei tali colleghi. Per intercessione di suo cu­ gino Jorge Velarde alla fine lo conobbi. E questo, dunque, l’inizio della storia. Una mattina stavo lavorando nella casa editrice, quando si apri la porta e colsi l’inconfondibile odore delle valigie di cuoio e delle cinture. Al­ zai gli occhi. Era sicuramente lui, circondato da quell’odore

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cosi suo, Jorge Velarde, che si firma Aristóbulo Talasz e spro­ loquia settimanalmente sulle prime cinematografiche nella ru­ brica di «Criterio». Sospetto che sia per il suo odore e per le sue dimensioni che lo hanno soprannominato il Drago; ma poiché alcuni amici d’infanzia lo chiamano San Giorgio, si può forse dedurre che un soprannome sia nato dall’altro. «Ha qui un manoscritto», mi dissi, e raccomandai l’anima. In­ credibilmente, il Drago non tirò fuori, dal posto più impen­ sato, la raccolta di poesie in versi liberi, qualcosa di nuovo, come temevo, né il denso saggio, proprio quello che la mas­ sa dei lettori richiede, un’interpretazione psicanalitica dei ca­ ratteri di La Bruyère, e neppure il romanzo poliziesco da pub­ blicare con uno pseudonimo, poiché l’autore ha mantenuto il silenzio per più di un anno e cosa dirà la gente quando ve­ drà che adesso tira fuori questa sciocchezza: che tutto que­ sto è ciò che bisogna sopportare nelle case editrici. No, con un apprezzato buon gusto, il mio visitatore tralasciò ogni ri­ ferimento alla sua opera inedita, parlò del caldo che avreb­ be provocato un temporale coi fiocchi, passò a temi di at­ tualità, opprimenti quanto il caldo, e andò a finire abba­ stanza presto a parlare di suo cugino Lancker. Mi parlava da vicino e mi costringeva, per evitare l’odore di cuoio, a sprofondare la nuca nello schienale della mia poltrona fun­ zionale; mi disse che suo cugino aveva organizzato, o pro­ gettato, una specie di accademia letteraria e che desiderava che io vi collaborassi. In quegli anni, i più fervidi della mia vita, mi tormentava la temeraria certezza che la logica fosse onnipotente e che l’arte fosse pienamente comprensibile e comunicabile. Poiché oltre che della sua futura accademia, Rolando de Lancker disponeva di una casa di campagna a Monte Grande, aveva chiesto al Drago che mi invitasse a tra­ scorrervi il finesettimana. Credo che non mi piaccia vivere in casa d’altri, ma accettai immediatamente. Sabato sera grosse gocce battevano sui vetri del vecchio vagone del Ferrocarril del Sud (che si chiamava ancora cosi) su cui mi recavo a Monte Grande. Guardai le gocce, pensai «finirà che mi raffreddo», mi rannicchiai nel mio sedile, con­ siderai che il mio abito era un po’ leggero, e, sorpreso, mi perdetti in Magic di Chesterton: un libriccino verde che in

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quei giorni era apparso nelle librerie. Verso la fine del viag­ gio, nella commedia di Chesterton si era scatenato un tem­ porale e a Monte Grande aveva smesso di piovere. Tra le om­ bre della banchina scorsi l’atletico Velarde, alias il Drago, che mormorò «Non ha portato neanche i giornali»; poi, un omino elegante, con un mantello, dai tratti delicati, dagli oc­ chi di fuoco pensierosi; poi, una ragazza bionda, notevol­ mente più alta e più grande dell’omino, con i capelli lisci ti­ rati all’indietro, gli occhi verdi, bei lineamenti e carnagione che non sembrava pura, con un comodo pullover, un’anda­ tura tranquilla. Velarde mi presentò aU’omino: - Rolando de Lancker. Lancker, parlando con rapidità ed energia, con tono an­ noiato, mi presentò la ragazza: - Olivia, la mia allieva. E intanto, con irrefrenabile energia, mi tolse di mano la mia piccola valigia. Olivia, a sua volta, tentò di prenderla, ma allungando una mano inanellata, socchiudendo gli occhi, piegando il capo, Lancker la dissuase. Con una certa solen­ nità ci incamminammo verso l’uscita. Fuori attendevano tre o quattro automobili e un’enorme break alla quale era attac­ cata una coppia di cavalli scuri che schiumavano. I cavalli drizzarono le orecchie; da cassetta scese lentamente un vec­ chio dalla faccia rossa, gli occhi tondi, il passo instabile. Ca­ ricò la valigetta, mi interrogò con lo sguardo. Balbettai una scusa per aver portato cosi pochi bagagli. - Olivia e Jorge da una parte, - disse Lancker, indicando la porticina, - noi dall’altra, il signore alla mia destra. Scalammo cerimoniosamente il veicolo e ci distribuimmo al suo interno. Il cocchiere, voltandosi faticosamente come un uo­ mo tormentato dal torcicollo, guardò Lancker. Questi disse: - Vogue la galère! La luce fuggevole di un’auto che passava entrò nella car­ rozza e illuminò le gambe di Olivia. Parodiando il nostro caro amico, il filosofo dell’Emiliana, quell’infaticabile com­ mentatore del sesso femminile, mi dissi: «Sembrano torni­ te da un dio voluttuoso». Francamente, quella sera le gam­ be di Olivia mi provocarono una notevole impressione. Con uno scossone ci muovemmo, feci in tempo a pensare che cui-

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lati dal rumore degli zoccoli avremmo camminato indefini­ tamente e invece ci fermammo. Avevamo fatto il giro del­ la piazza. Lancker guardò con calma Olivia e come uno che voglia incidere un prezioso insegnamento nella mente di un bambino disse: - Quattro dozzine di Bay Biscuits. La ragazza scese dalla carrozza; io la seguii, mormorando qualche parola, essenzialmente il verbo accompagnare e il so­ stantivo signore. Nel bar, Olivia mi domandò: - Ha visto gli alberi ? - Bellissimi, - replicai istintivamente. - No, - mi corresse Olivia. - Non lo sono mai stati e ades­ so, cosi potati, sono orrendi. Ma non mi riferivo a quello. Mi riferivo ai cartelli che vi hanno attaccato. Ci diedero il pacchetto. Pagai. Olivia mi avvisò: - Sono per Rolando. - Cosa vuole che sia, - risposi. Alla luce dei lampioni della piazza, bianchi e con i globi rotondi, guardammo gli alberi. Ognuno recava un pezzo di cartone ovale, con una scritta. Ridendo, Olivia ne lesse al­ cuni. Credo di ricordare questi due: Donna,pili decenza! e In­ decenza nel vestire = indecenza nel vivere. Tra i rami, corti co­ me moncherini, vidi un cielo complesso e tormentato. C’era odore di terra bagnata. - Rolando ci aspetta, - disse Olivia. Saliti in carrozza, parlai dei cartelli. Il Drago, scuotendo la testa e volgendo in giro benignamente gli occhi, spiegò: - Le brigate di padre O’Grady. Quei ragazzi sono il dia­ volo. - Nel suo aspetto più nauseante, - rispose Lancker. - Non si fermano davanti a nulla, - assicurò il Drago. - Neppure dal ricordarci la loro stupidità con versi mnemotecnici, - aggiunse Lancker. - Nei pomeriggi scorsi ho let­ to sugli alberi di fronte alla chiesa: Se non sei decorosa nell’abbigliamento, se provochi occhiate ardite di Cristo fai sanguinare le ferite e Belzebù trionfa ridendo contento.

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Il Drago osservò: - Scusami, vecchio, ma il secondo verso non è male. - Poeta nascitur, - rispose enigmaticamente Lancker. - Ascol­ tate questa strofa che ho letto su un altro albero: Tanto in estate come in inverno le gambe con le calze si devono coprire, sennò le carni tenere le farà abbrustolire il demonio nel suo inferno.

(Adesso, dopo aver conosciuto Lancker, sospetto che ab­ bia improvvisato quei versi; credo addirittura di ricordare che la ragazza arrossi, come se quelle pazzie del suo maestro la facessero vergognare un po’). La strada era lunga e, in alcuni tratti - come intravidi allo­ ra e come poi trovai conferma -, passava in mezzo ai campi. Al­ l’improvviso incominciò a piovere furiosamente. Mi tornano in mente, ancora oggi con una profonda soddisfazione, la for­ za crescente della pioggia contro le cortine di cuoio della break e lo sguazzare dei cavalli. Traversammo una grande porta. - I Lauri, - annunciò Lancker. Avanzammo tra gli alberi, dapprima con molte curve, poi in linea retta. Si senti il crepitio dei ciottoli e quasi subito la carrozza si fermò. Lancker apri la portiera, saltò giù e in pie­ di sotto la pioggia offri il braccio a Olivia; lei saltò ed en­ trambi corsero a ripararsi sotto il portico. Li seguimmo. La break, lentamente, tornò indietro e si perse nella sera. Ci fer­ mammo qualche istante a guardare le tenebre. Ogni tanto un lampo illuminava il mondo e allora apparivano, non lontani, vibranti, altissimi eucalipti. Qualcuno disse: - Speriamo che uno di questi fulmini non cada qui. Muovendo abilmente il suo mantello, Lancker mi rispose:

Il lauro che le tue tempie cinge attira il tuono, lo evita, e nel pericolo ma anche incoronate tutt’e due stringe.

Pensai che, dotato di un naso più lungo, Lancker sarebbe stato un impareggiabile Cyrano in una compagnia di giova­ ni. Concluse:

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- Il resto del sonetto, in Quevedo. Le virtù del lauro, in Plinio. Si voltò, apri una porta che dava su un corridoio e su una scala con grosse spranghe di ferro, un pomo di bronzo e il corrimano di mogano, batté le mani. - Ave Maria! - gridò. Poi gridò anche Olivia: - Pedro! Non venne nessuno. Olivia e Jorge continuarono a gridare. Queste affannose invocazioni produssero alla fine un uomo con una giacchetta bianca, dalla faccia rossa, dagli occhi tondi che esprimevano un’allegria impavida, dal naso con la punta volta in su, dal­ l’accento incompatibile con qualunque raffinatezza: Pedro. Lancker mi domandò se avevo mangiato. - No, - risposi, - ma non importa... Con un gesto di tutto il braccio mise a tacere le mie pro­ teste. Ordinò a Pedro: - Il signore prenderà il tè. Il domestico si allontanò con la mia valigia. Noi ci adden­ trammo in corridoi lunghi e scuri, attraverso un vitreo giar­ dino d’inverno, con vasi decorati di porcellana azzurra, con piante dalle foglie simili a ventagli, attraverso una stanza obli­ qua con i mobili coperti. Arrivammo alla sala da pranzo, do­ ve c’era un tavolo circondato da più di venti sedie, con una zuppiera d’argento al centro; a un’estremità della stanza, sim­ metricamente si alzava, si accumulava e si distribuiva, architettonico come un palazzo, il camino, di legno lavorato e bion­ do; sulle altre pareti, lo zoccolo, fatto con lo stesso legno, rag­ giungeva altezze eccessive perché si potessero guardare senza sollevarsi sulla punta dei piedi e senza torcere la nuca all’indietro i quadri tenebrosi incorniciati d’oro. In quella posizio­ ne tesa ne ammirai uno che misteriosamente mi aveva attratto sin da quando ero entrato nella sala da pranzo. Aiutato da Olivia, non tardai a scoprire che rappresentava l’inferno: da una fossa in cui brulicavano i reprobi si alzava una fiamma, al cui apice ballava, piccolo e di colore arancio, il demonio. - Gli amanti di Temei di Benlliure, - spiegò Lancker.

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Riconobbi gli amanti. Lui, con una giubba nera, i polsini di merletto, i pantaloni affibbiati sotto il ginocchio, saltava, con un movimento delle gambe energico ma forse un po’ vol­ gare, sopra un altro reprobo e trascinava o spingeva lei, ve­ stita di bianco, da sposa, verso dove? In questo mondo non potremo saperlo. Guardai ancora la fiamma che sorgeva dal­ la fossa; reclinai il capo, come un intenditore che valuta un’o­ pera d’arte. Attraverso un’operazione inspiegabile, sotto i miei occhi la fiamma si trasformò in Satana e il piccolo de­ monio in un violino di colore arancio. Lancker disse: - Il demonio suona il violino per i condannati. - Attento1, Rolando, tu che ti annoi ai concerti, - gridò il Drago, con quella volgarità triviale che era cosi tipica­ mente sua. Reclinai ancora il capo: il violino divenne ancora un de­ monio, Satana una fiamma. Cautamente, con la speranza di aver scoperto qualcosa, con il timore che la mia scoperta fos­ se una sciocchezza, commentai ciò che succedeva nel quadro. - Sembra che ciò stia a indicare - dichiarò Lancker con indifferenza - che Benlliure abbia dipinto una fiamma e un violino diabolici; piccola astuzia che, parlando dal punto di vista pittorico, si è rivelata un’arma a doppio taglio. Pedro apparve con una giacchetta nera; portava un vas­ soio d’argento su cui c’era una bella e piccolissima teiera, anch’essa d’argento, lavorata a spirali, due tazze, un piatto con qualche pacchetto di Bay Biscuits. - Terrò compagnia al signore che prende il tè, - affermò Lancker. - Le ho già portato la tazza, - disse Pedro. - Il signore lo prende con pane tostato, - affermò Lancker. - Con pane francese tostato. I biscottini sono per me. Disse biscottini, al diminutivo, con quella tenerezza par­ ticolare, mista a voracità, con cui nominiamo alcuni cibi. Alzando la voce, che si rivelò acuta, rovesciando il capo all’indietro, Pedro annunciò animosamente: - Il pane è finito. Ci sedemmo, io da una parte, Lancker vicino al vassoio, 1 In italiano nel testo [N. d. T.].

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a capotavola; da li mi porse una tazza e un pacchetto di Bay Biscuits. Era straordinaria la voracità con cui quell’uomo di­ vorava quei biscotti leggeri; particolare inclinazione che im­ pressionò la mia memoria con tracce durature. Pedro mi domandò: - Cosa prende il signore a colazione ? - Tè, da solo. Con pane tostato, - risposi. - E sicuro di non preferire del caffè con pane nero ? - in­ tervenne sollecitamente Lancker. Gli risposi che preferivo il tè, ma che avrei mangiato di buon grado la colazione che mi avrebbero portato. La tazza di tè e il quasi aereo biscotto che costituirono tut­ ta la mia cena non placarono la fame. Sospirando mi lasciai condurre via dalla sala da pranzo. Mi guidarono attraverso corridoi laterali, progressivamente più poveri, attraverso stan­ zette dall’odore di stracci impolverati, attraverso passaggi curvi proprio sotto il tetto, con un acre odore di catrame, do­ ve erano ammucchiate molte scarpe, soprattutto stivali, at­ traverso una scala di legno grigio, sul cui pianerottolo si apri­ va una piccola finestra con i vetri colorati, chiusa da una sbar­ ra trasversale, fino al piano superiore e alla stanza degli ospiti. Li, vicino al comodino con un bicchiere d’acqua, mi lascia­ rono solo. Che notte, amici miei! Fu come il presagio, trop­ po wagneriano per i miei gusti, della fastidiosa serie di sacri­ legi e di portenti che ci avrebbe investiti di li a poco. Il tem­ porale scuoteva i vetri delle finestre e si sarebbe detto che il collerico dio del mondo volesse strapparmi da quella stanza in cui vegliavo, spaventato non so da cosa, tra mobili dalle ombre sconosciute. Meno male che la zanzariera, come una casetta familiare e polverosa, mi proteggeva e mi serviva an­ che da riparo, il che era opportuno dato che fin dall’inizio avevo avvertito una certa leggerezza, una certa insufficien­ za nelle coperte, sulle gambe. Alla fine riuscii ad addormen­ tarmi. Quel che è certo è che il giorno dopo erano già suona­ te le undici quando scesi nel portico, dove mi sedetti insieme a Lancker, su sedie di paglia dipinte di viola, a guardare la pioggia, a guardare il prato, di disegno francese, con una fon­ tana al centro, e le grazie, circondato da sentieri affiancati da due leoni di pietra; a fumare sigarette Imparciales; a guar­

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dare gli eucalipti, a guardare le instabili pagode formate da­ gli ultimi rami e, per nostra disgrazia, a chiacchierare. Della progettata accademia letteraria? Niente affatto. Mea culpa, mea maxima culpa. Ho cominciato io, come dicono i bambini quando parlano di una loro lite (no; i bam­ bini direbbero: ha cominciato lui). Domandai di Olivia e, senza volerlo, provocai quel diluvio di orrori. Credo che le primevparole di Lancker siano state: - È a Monte Grande, a messa, con il Drago, che non si stanca di mangiare ostie. Come sono strane le donne. Accanto a me, lei lo sa, non è mai mancata un’allieva. Una ragazzina sudicia, con i capelli biondi e lisci tirati all’indietro e un pul­ lover. Be’, di tutte quelle che ho avuto, nessuna meritava più di questa l’onorevole definizione. Eppure, eccola li. - Eccola li? - domandai. - Si, eccola li, se ne va a messa. Le sembra poco? Olivia sa che mi ferisce, ma non le importa. Credo che questi cat­ tolici credono che in fondo uno creda; che uno mostra di es­ sere un espritfort, ma crede. Altrimenti, sarebbero meno osti­ nati. E poi lei lo sa come mi si è presentata? - Non lo so. - Con le calze. - Peccato1 ! - esclamai con slancio. - Con quelle gambe co­ si belle. Arrossii. Lancker mi guardò in silenzio, con una curiosità sdegnosa. Continuò vivacemente: - Io le ho detto che c’è un limite a tutto. Se voleva ri­ spettare le convenzioni, d’accordo, andasse pure a messa; non sarò io che mi metterò a rifiutare Confucio. Ma, aggiunsi con la solennità che le mie parole esigevano, se non aveva deciso deliberatamente di affliggermi doveva togliersi subito le cal­ ze. Lei non ci crederà; ha esitato. Per paura, forse, di far ir­ ritare il prete o la curia o ciò che non si conosce, chi può sa­ perlo. Le ordinai che, sotto la mia responsabilità, se le to­ gliesse. La poverina obbedì. Sono stato molto duro, lo so, ma avrei potuto permettere che le brigate di padre O’Grady mi sconfiggessero addirittura in casa mia ? In italiano nel testo [N.d. T.J.

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Adesso sono io a esitare. Non vi sono scappatoie al di­ lemma. Se non ripeto le parole di Lancker, la storia morale che sto raccontando perderà il suo significato. Se le ripeto... Non è la paura di ciò che non si conosce a trattenermi, an­ che se attualmente mi molestano un prurito alla mano destra, più forte nel pollice, e una specie di tumefazione, come se un fattore sovrannaturale mi ostacolasse per non lasciarmi scri­ vere. No, tutto ciò non mi preoccupa. Il fatto è che a volte io credo che sia meglio non toccare alcune questioni, né a fa­ vore né contro. L’ateo che discute ironicamente il contro­ senso dell’infinita bontà, dell’onniscienza e dell’onnipoten­ za di Dio non è migliore del romanziere alla moda, natural­ mente cattolico, che intende giustificare i rapporti di causa ed effetto tra il nostro agire, in questa effimera valle intie­ pidita dal sole, e il ferreo sistema ideato dalla mente divina per castigarci in eterno. Ecco, dunque, il dilemma a due cor­ ni pronto a farmi cadere; eppure, arrivato a questo punto del racconto, posso forse scegliere la strada ? Forse ciò che ho af­ fermato a proposito di alcuni problemi è una verità; ma è una verità frivola. Se io devo scrivere la storia di Lancker devo scriverla integralmente, anche se la mia mano ardesse come una torcia. Non mi rimane altro che chiudere gli occhi e at­ taccare per primo. Avanti ! - Sospetto - dissi, per non rimanere ancora a bocca chiu­ sa - che lei non sia ciò che si suole definire un perfetto cri­ stiano. Cosa mi rispose quel patetico moschettiere, quel ridicolo spadaccino continuamente all’assalto dell’aldilà? Sfacciata­ mente disse: - Ha ragione, ma non è colpa mia. Nessuno può credere, credere religiosamente, in un mondo fantastico, che dalla terra non si può percepire, popolato di dèi e di morti, topo­ graficamente descritto, con tanto di cielo, inferno e purga­ torio, se quel mondo non lo abbaglia, non lo affascina e nep­ pure gli piace. Guardi, la mitologia cristiana, anche se le può sembrare incredibile, mi lascia indifferente. Bisogna rico­ noscere che è molto «sofisticata», ma in queste cose che re­ putiamo fondamentali credo che ciò che è ovvio sia di buon gusto. Anche se il soffio di ogni vita, pure quello del poeta

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Tristan Tzara, è divino, gli dèi, mi creda, sono di un’altra natura, che si chiamino Diana, Thor o Moloch. Non appar­ tengono a una famiglia di gente di campagna, che posa con facce sorridenti per il fotografo del paese. E cosa mi dice dei santi, cosi mansueti e cosi tranquilli, e delle vergini imba­ cuccate nelle loro vesti ? Se non fosse per gli angeli e per qual­ che colomba, preferirei i demoni, anche se pure questi, con le loro ali da pipistrello, i loro artigli e le loro code, sono evi­ dentemente invenzioni di una mente goffa e di cattivo gusto. Annoto in margine: disse tutto questo senza fermarsi, continuò a scavare la sua fossa. Gaffeur! Ciò che non va è che a me, semplice narratore di queste vicende, facciano pagare le conseguenze. Ormai non sono più presagi quelli che mi vengono dall’aldilà; me ne viene il castigo; il prurito, prima esteso a tutto il dito, adesso si è concentrato in un unico pun­ to, è una fiaccola in fiamme, è il cratere di un vulcano, è, let­ teralmente, un patereccio. Mi trasformerò in un martire del­ la penna ? Spero che verso la fine della storia la mia buona fede risplenderà. - Questo è ciò che riguarda il sentimento religioso, ma ri­ mane sempre la morale. Credo che su questa siamo d’accor­ do, - mi affrettai a dire, per poter simpatizzare su qualcosa: - Moralmente, chi non è cristiano ? - Io, - mi rispose, implacabile. - A me ripugna una mora­ le basata sul proselitismo, che istituisce rozzamente premi e castighi, che spedisce all’inferno quelli che non hanno la fede, che è ossessionata, come una zitella vecchia e astiosa, dagli amoreggiamenti della gente. Il cristianesimo va contro la vita stessa; vuole costringerla, spegnerne gli impulsi. Non ha svuo­ tato il mondo degli dèi antichi, che erano le forze che aiuta­ vano a vivere ? Guardi, non mi stanco di deplorare la caduta del pantheon pagano. La nuova religione è morbosa; trova pia­ cere nella povertà, nell’infermità, nella morte. Come nella sto­ ria di Faust, castiga chi cerca di sapere e chi cerca di vivere, chi cerca di condividere più pienamente il mondo. Bisogna ave­ re una piccola vita, come disse una ragazza, ma non sapere nul­ la della vita eterna. Sembra che la Chiesa e Goethe vogliano che gli uomini siano come quei poveri che, in perfetta umiltà, si mettono al loro posto e non chiedono né pretendono.

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Nella mia perplessità pensavo: «Il famoso Lancker mi si è rivelato un ateo di prima forza», o un’altra frase di ugual valore, con l’innocente piacere che dà, in questo mondo di mediocrità, scoprire qualcosa di estremo nel suo genere. Ma mi attendeva una buona disillusione. Lancker disse: - E questione di tempo. La battaglia finale non è stata an­ cora ingaggiata. E allora la vittoria starà dalla parte giusta. Gli dèi non muoiono mai. Non colsi immediatamente la portata di queste parole. Quando i miei lenti centri nervosi ricevettero la scarica, do­ mandai: - Ma lei non era uno che non credeva in Dio ? - In Dio no; negli dèi. La mia interpretazione fu che, per astio contro Dio, lo suddivideva per indebolirlo e che il suo politeismo era un’e­ spressione letteraria del suo ateismo. Forse sbagliavo. - Di nuovo il mito dell’Idra, - commentai con aria scher­ zosa, per dimostrargli che non poteva piegarmi con i suoi in­ ganni. Come poteva piegarmi, se non li comprendevo ? Continuò: - Non vi sono agnelli sull’altare, i templi sono distrutti, ma non si perda d’animo: gli dèi non sono fuggiti. - Non sono vagabondi, come Cruz e Fierro1, - commentai. - Gli dèi non sono stati abbandonati, - mi assicurò. - Gli dèi non hanno bisogno degli uomini. Gli uomini sono stati abbandonati ! Quella mattina avevo ascoltato cose orribili; nessuna mi parve peggiore delle ultime frasi. Per pudore non lo stetti più ad ascoltare. Mentre Lancker insisteva con non so bene qua­ le sciocchezza, secondo cui gli dèi non hanno bisogno di tem­ pli, ma gli uomini si, per avvicinarsi agli dèi, io pensavo che l’ateo era una razza estinta per sempre ai nostri tempi, come il tè del pomeriggio, la casa da dare in affitto, i libri di Co­ ni2 e altri angoli pittoreschi della nostra gioventù. Sospetto che l’ultimo ateo fu il venditore di giocattoli del bazar Colon, 1 II sergente Cruz e Martin Fierro, del Martin Fierro di Tose Hernandez (1834-86) [N.d. TJ. 2 Pablo Emilio Coni, tipografo e editore, di origine francese (n. 1826), capostipite di una dinastia di stampatori argentini [N. d. TJ.

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uomo dalle letture più varie, che un giorno, quando qualcuno disse «ma qualche dio ci sarà pure», esclamò dolente «come, anche lei?» come se dicesse «tu quoque?» «Perché, vediamo, - continuò il venditore di giocattoli, - quando gli uomini han­ no inventato Dio, hanno creato un personaggio divertente e strano; non bisogna essere come i bambini, che non possono accettare che Pinocchio, burattino di legno, esista soltanto in un libro, ma vogliono che sia vissuto nel mondo». Con la sua voce insistente, Lancker stava dicendo: - Le epifanie (si abitui a cercare i termini nel dizionario) non sono rare. - Sono francamente contrario alla ricchezza del vocabo­ lario, - risposi. - Touché, mio caro1, touché\ - esclamò. - Con il suo per­ messo torno al nostro argomento. Chi almeno una volta non ha sentito, nel corso di una qualunque attività, Pimprovvisa presenza di un dio ? L’esempio più tipico, dopo l’altro, è quel­ lo dello scrittore che riceve la musa, che cioè è ispirato. L’al­ tro riguarda Venere. Fece una pausa e capii che l’avrebbe prolungata fino a quando non lo avessi interrogato; lo interrogai: - Venere? - Non capisce? O lei non... ? - nel suo tono s’intercala­ vano lo stupore, l’irritazione e il disprezzo. - Si, certo, è chiaro, - affermai, rapidamente. - Qualunque povero diavolo l’ha provato almeno una vol­ ta, - disse scrutandomi come se mi accusasse. - Nel bel mez­ zo dell’amore risplende Venere. Con Olivia ci succede ogni momento. Adesso fu il mio turno di guardarlo dall’alto, con curiosità sdegnosa. Simili indiscrezioni, simili spudoratezze, in effetti non mi sembrano di ottimo gusto e non costituiscono il desi­ deratum nella conversazione di un gentiluomo. Annoto per in­ ciso, anche se indubbiamente il fatto è privo di qualunque im­ portanza, che in quel preciso istante rispuntò in me l’idea, già accarezzata, di conquistare Olivia. Quell’ingenuo di Lancker, insensibile perché ubriaco della sua vana eloquenza, prosegui: 1 In italiano nel testo [N. d. T.].

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- A un tratto ci accorgiamo che una forza cosmica per­ vade ogni luogo e arriva nel più profondo del nostro petto; rimaniamo sorpresi dalla gioia o dalla paura: è il gran dio Pan. Stevenson ha scritto sul flauto di quel dio: legga quel brano. Lo interruppi con una citazione che faceva al caso:

Se levi il crine e le narici gonfi e lo spazio si fa pieno di un gran tremore d’oro, è perché hai visto, nuda, Anadiomène.

- Non leggiamo gli stessi autori, - rispose con impazien­ za. - Ma d’accordo, d’accordo. Uno dei pomeriggi scorsi, uscendo da Constitución, presi per calle Brasil e, con rumo­ re di locomotive e di ruote di ferro, cominciò a soffiare un vento che sembrava venire dal lontano sud della provincia, e che non era tanto un colpo di vento quanto qualcosa che, nel passare, faceva mutare l’animo non solo delle persone, che ri­ manevano alquanto sorprese, come se avessero intravisto un presagio, ma anche delle case e di tutta la via: tutto si fece più scuro e per un istante fu più intenso e più significativo. Un altro caso registrato dalla comune esperienza è quello del viaggiatore che arriva in una città e a un tratto sente che se vi rimarrà gli capiterà qualcosa di atroce. Dietro a questi cam­ biamenti di luce c’è una divinità che ci mette in guardia. Si, mi creda, nei boschi e nei ruscelli vi sono ancora le ninfe e il mondo è popolato di dèi. Un dio, conosciuto o no, sei deo,sei deae, presiede ogni attività. A me si rivelano continuamente; io li sento, li riverisco, e loro mi proteggeranno. Guardi! - la sua mano indicò il parco, e più in là il cielo con un arcobale­ no e, lo ammetto, quell’inatteso ritorno dalle disquisizioni ge­ nerali al mondo reale quasi mi commosse. - Guardi, è apparsa Iride, messaggera degli dèi: tutta la natura la saluta. Come una presenza nuova, come una gloria scaturita da ogni dove, il mondo risplendette. I tronchi degli eucalipti rag­ giunsero gli ultimi estremi del giallo e del rosso, ogni goccia d’acqua sulle foglie parve argento vibrante e il verde del pra­ to divenne vivacemente scuro. Devo confessare che qualcosa in me si pose in sintonia con quel giardino in attesa ? La no­ ta strana fu che Iride, per cui veniva offerto quell’omaggio

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del creato, quell’unanime intensità, all’ultimo momento si vi­ de sostituita da un’altra dea; voglio dire che arrivò da Mon­ te Grande la break con Olivia, accompagnata, questo si, da Jorge Velarde. Per quanto possa sembrare impossibile, da quel momento la conversazione si fece banale. Credo che ci infor­ mammo del fatto che c’era molto fango sulla strada, che c’e­ rano molti fedeli in chiesa e di alcune altre circostanze dello stesso tenore. Olivia ci parlava stando appoggiata allo schie­ nale di una sedia, cosicché la metà inferiore del suo corpo ri­ maneva nascosta. Sembrava nervosa, sembrava avesse fretta di ritirarsi. Esclamò: - Com’è tardi! Il pranzo non è ancora servito? Poverino, lei starà per morire di languore. Il finale, naturalmente, era dedicato a me. Ne resi grazie con parole, con sguardi e con gesti vistosi e mi guardai bene dal rivelare che la mia disposizione a mangiare era nettamente mediocre. Non c’è nulla come il caffellatte tiepido, che fu la colazione servitami quella mattina, che mi tolga l’appetito. - Vado a vedere a che punto è il pranzo, - disse Olivia. Abbandonò la sedia, cui pareva inchiodata, e corse verso l’interno della casa. - Fermati! - gridò Lancker. - Perché tanta fretta? Met­ titi un po’ qui, alla luce, Olivia. Voglio vederti. Cosa ti è suc­ cesso alle gambe ? Rossa in volto, a occhi bassi, Olivia tornò indietro. Alla fine spiegò con voce soffocata: - Più o meno al Kyrieleison hanno cominciato a farmi ma­ le, e all’Agnus Dei mi si sono gonfiate dal ginocchio al tallone. Si allontanò, singhiozzando. Non aveva esagerato: defor­ mi come zampe d’elefante, le sue gambe non sembravano le stesse che avevo ammirato il giorno prima. - Un miracolo, - osservò coraggiosamente il Drago men­ tre io dentro di me lo applaudivo. - Un miracolo. Per averla mandata a messa senza calze, con quella muscolatura che è un vero boccone da cardinale1. - Poverina! - esclamò Lancker, e vidi che una lacrima gli scivolava giù per il viso; l’asciugò con un fazzoletto vaporoso, 1 In italiano nel testo [N. d. TJ.

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niveo e di grandezza considerevole, che ci lasciò sommersi nella fragranza dell’acqua di Jean-Marie Farina; poi, portan­ dosi la mano destra al cuore, interrogò: - Un miracolo? La più logora espressione del ridicolo, del meschino, del per­ verso ! Cosa prova ? Che in cielo, come sulla terra, sono i peg­ giori a governare ? Quello che è sicuro è che io non mi sot­ tometterò, tocchi a chi tocchi. - Fino ad ora, è toccata sempre agli altri, - commentò tri­ stemente il Drago. - Ma io non sarei troppo sicuro. Ogni mi­ racolo colpisce più vicino. Attenti1. Lancker fissò sul cugino i suoi occhi quieti e distratti; poi andò a cercare Olivia. - Colpiscono più vicino? - domandai. - Cosa intende di­ re con ciò ? - Ciò che sta sentendo. Il primo di questa serie è caduto a cinquecento metri da qui. Sere fa davamo gli ultimi toc­ chi a una cena fra le più tranquille, familiare se vuol dire co­ si, quando a Rolando non gli viene in mente niente di meglio che mettersi a fare lo spiritoso. Dà un altro bacio al Nebbio­ lo, si mette in piedi come può, si dichiara Papa nero e in quell’orribile veste benedice il riso al latte, che diventa duro co­ me se fosse stato impastato con cemento Portland. Nessuno lo assaggia, perché la gente si è già scottata, se lei mi capisce, e chi più chi meno tutti da parecchio tempo avevamo man­ giato la foglia. Servono il dolce maledetto ai maiali e questi signori passano la sera a raschiarsi il ventre con le zampe. Il giorno dopo riscontrano la gastroenterite nel porcile, a me­ no di cinquecento metri da qui. Il secondo miracolo è un pas­ so avanti gigantesco, che è un’avvertenza molto chiara per colui che non vuol sentire, e capita in cucina. Si materializ­ za nella carne cresciuta, diciamo nelle vegetazioni adenoidee, dal naso della stessa cuoca che aveva preparato il maialino durante la Settimana Santa. Se non interviene il primo bi­ sturi del Rawson, la poveretta muore asfissiata. L’ultimo ha colpito Olivia, che si trova ormai nell’habitat, cioè nella stan­ za da letto, di Rolando. Riconosciamo che il soggetto, anche se è mio cugino diretto, ragiona in un modo che non esiterei In italiano nel testo [N. d. Γ.].

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a definire piuttosto curioso. Attribuisce importanza fondamentale a fenomeni molto discutibili, viziati di soggettività, in cui vede manifestazioni degli antichi dèi pagani, oggi de­ moni. Ma questo non è tutto; mi ascolti bene: si ostina a di­ sdegnare un bombardamento di miracoli cristiani, pubblici e risaputi, che mostrano, come la mantide religiosa, dov’è Dio. Ed è proprio lui che ringrazio per avermi salvato dai suoi miracoli. - Avrebbe potuto salvare Olivia, - dissi con rancore. - Che ragazza! - esclamò Velarde, roteando gli occhi. - Di­ stinta, intelligente e fornita di un corpicino che, bene, bene... Speriamo che gli effetti del miracolo siano passeggeri. 2.

Furono passeggeri. Tre o quattro giorni dopo la Meravi­ glia curativa di quel dottore nordamericano nella cassetta dei medicinali risultò vittoriosa, e non rimase traccia del prodi­ gioso gonfiore. Se non sbaglio, non si verificò nessun altro episodio memorabile in quel week-end. Della progettata ac­ cademia letteraria discutemmo l’ultimo pomeriggio, lungo e teso, mentre bevevamo tazze di tè, ma mi accorsi ben presto che lo spirito di Lancker vagava per regioni lontane. Deciso a concludere il nostro faticoso colloquio domandai alla fine: - Lei sta pensando a qualcos’altro? - A qualcos’altro? - rispose, come un’eco. - No, sempre alla stessa cosa. Al miracolo delle gambe. - Pentitevi e convertitevi perché siano cancellati i vostri peccati, come dicono le Sacre Scritture. Vederlo mangiare tanti Bay Biscuits mi spinse a imitarlo; la mia mano tesa già si stava aprendo sopra un cartoccio quan­ do inciampò nel piatto con il pane tostato, abilmente frap­ posto dall’anfitrione. Mi rassegnai al pane tostato e alla mar­ mellata di fragole. - Non so cosa dicano le Sacre Scritture, ma so che non c’è possibilità di riconciliazione, - rispose; dopo una pausa, con un tono meno impersonale, aggiunse: - Forse lei crederà che non sono abbastanza interessato al problema dell’acca­

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demia. Lo sono stato, glielo assicuro. Adesso penso soltanto al miracolo, e alla guerra in cui mi vedo impegnato. Dopo la vittoria insegneremo letteratura. - E cosi sicuro della vittoria ? - Della vittoria no, ma certo della guerra a morte. Io, glie­ lo giuro su questa croce, non concederò tregua. Questo è ciò che si dice tentare il diavolo. Poiché Lancker continuò a insistere con sacrilegi e profanazioni, tornai a Bue­ nos Aires con il treno delle 19 e 45; ma non abbandonai i miei amici. Durante quella settimana ebbi occasione di vedere la ragazza; soprattutto di parlare con lei, il più delle volte per telefono. Non so perché i miei legami con quella gente rima­ sero circoscritti a Olivia. Perché notizie troppo ricorrenti mi descrivevano Lancker sempre più accanito nel suo orrendo paganesimo? Quali che fossero i motivi, io telefonavo, ca­ sualmente, quando Lancker non era in casa. Il fatto non mi preoccupava; mi preoccupò, invece, il fatto che la delicata vo­ ce di Olivia si trasformasse sempre nella volgare voce di Pe­ dro, che si limitava a queste quattro parole: «Signorina non ci sta». Senza dubbio l’impazienza mi aveva perduto. Prima che nell’animo di Olivia maturasse, dolce e despotica, la cer­ tezza di una qualunque affinità con la mia, avevo aperto il fuoco con l’artiglieria pesante della mia galanteria. Il risulta­ to fu disastroso. Era necessario fare delle manovre; cosi feci. Il caso mi offri un incontro con Lancker in un ambiente fa­ vorevole per esprimere tutta la mia cordialità: la casa (come si compiacciono di definirla i miei amici del giornale) della Società degli Scrittori, situata in calle México. Approfittan­ do del fatto che la primavera cadeva il 21 settembre e che era­ vamo al 20, lo invitai al ballo degli artisti a Les Ambassadeurs. - Porti anche Olivia, - gli proposi. - Si beve bene, c’è la musica tipica di Pichuco e quella jazz di Bartolino, un bell’am­ biente... Accidenti! Bisogna aspettare insieme la primavera. - Non me la sento di andare a ballare, - rispose, privo di entusiasmo. Volle ribadire la sua lotta e la sua incrollabile determina­ zione di umiliare il cristianesimo; lo interruppi. - Mi prometta - gli dissi - che se Olivia vuole, la porterà alla festa.

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III

- Glielo prometto, - rispose. Gli strinsi la mano e dalla porta gridai: - Domani alle nove telefono per sapere la risposta. Già la sapevo. Lancker era fey, come dicono gli scozzesi; era caduto nella trappola. Il mio stratagemma non poteva fal­ lire. Le donne ti raccontano che alle feste da ballo si annoia­ no e che sono stanche della gente ? Non crederci. Per quanto possa sembrare assurdo, le donne non rifiutano mai un invi­ to a una festa da ballo. Con ostinata puerilità immaginano che le feste siano una cosa meravigliosa. Quanto a me - per una diversa espressione di una puerilità simile ? per qualche terri­ bile ricordo ? -, io credo proprio il contrario. Io credo che sia­ no terrificanti, che gli incidenti più paurosi succedano nelle feste; che le donne ubriache siano demoni imprevedibili e che le più fedeli vedano spuntare il giorno nelle garçonnières degli amici dei loro amanti, scontente della stanchezza e della ce­ falea, ma senza colpe, perché l’alcol non ha memoria. Come avevo previsto, alle nove del giorno dopo Lancker mi disse che accettava l’invito; ma questo non fu tutto: in­ contenibile, Olivia gli strappò dalle mani il telefono, raggiante di gioia, per discutere con me di un problema che appassio­ na queste compagne che scegliamo per dividere la nostra vi­ sione del mondo, queste semidee sul cui altare si consuma il nostro spirito e, ahimè!, anche il nostro tempo; fino a mez­ zogiorno discutemmo del problema delle maschere. Con sde­ gno condannammo le madornali sconfitte della fantasia che si chiamano domino, pierrot, diavolo. Celebrammo, invece, alcuni prodotti eterodossi - ad esempio, l’inoppugnabile uo­ mo a rovescio, con la faccia dipinta sulla nuca -, vere e pro­ prie acrobazie di un ingegno puramente fisico, a cui preferii, rivelando forse la mia essenza conservatrice, la mia oscura ristrettezza di vedute, il taglio più classico di un abito da or­ so, da pagliaccio, da arlecchino. E adesso metterò a nudo la mia anima; lo confesserò umilmente: io volevo mascherarmi da arlecchino. Sin da piccolo immaginavo che cosi caratte­ rizzato avrei perduto gli scrupoli e la timidezza, avrei tra­ sformato la mia personalità. Ma avevo sempre ritenuto che fosse un sogno di cattivo gusto, e quando Olivia mi disse: «No, è meglio che tu ti vesta da angelo, da angelo custode di

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Rolando», accettai l’ordine, senza indugiare a difendere, al­ meno un quarto d’ora, quell’ideale di tutta la vita. A Lancker assegnammo in fretta e furia un vestito da bestia; per tron­ care alla radice qualunque discussione, affermai: - La bella e la bestia. Olivia comprese immediatamente che il vestito da bella le avrebbe reso giustizia; ma insaziabile, come imponeva la sua gioventù, vanitosa, come imponeva la sua bellezza, desi­ derava anche quello da hawaiana, da schiava, da apache e da midinette. La mia campagna per allontanare errori cosi peri­ colosi fu lunga e complessa. Quel che è certo è che quella se­ ra arrivarono a Les Ambassadeurs una bella splendida, una bestia distratta e un angelo timoroso. Ma poi non tanto timoroso; al bar prendemmo qualche aperitivo e, almeno, ebbi la presenza di spirito di scegliere il tavolo in posizione strategica, né troppo vicino all’orchestra - il trombone non solleticava le nostre orecchie - né troppo lontano; la musica copriva la conversazione e i petits rien du tout che dicevamo alla nostra amica non venivano intercet­ tati dall’amico. Sul banchetto che offrii, sarete voi a giudi­ care. Quando il maître d’hôtel presentò il menu, esclamai: - Mangeremo a vele spiegate ! E li per li ordinai frivolités royales, consommé riche à la d’Arenberg, pesceprete con patate, tacchino arrosto con frut­ ta e diablotins, budino celeste, pesche del Tigre, caffè, siga­ ri. Mi assali un dubbio. - Settembre è un mese con la «r», - confidai al maître·. - il tacchino sarà come si deve ? - Le propongo un tacchino di agosto, - dichiarò il maître. - Meraviglioso, - risposi. Funesta leggerezza! Da allora non ragiono più, non mi sento bene, consumo quantità spaventose di bicarbonato Poulenc. Con il sommelier ebbi un dialogo non meno brillante: - Che la veuve scorra nelle nostre vene! - esclamai. - Cliquot? - domandò. - Ponsardin! - confermai. - Millesimato! Naturalmente, Olivia rimase conquistata. Le donne han­ no fiuto, scoprono con finezza dov’è ciò che fa al caso loro.

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Hi

Nonostante un trito snobismo a favore della canaille, non c’è niente da fare, nel vero gentleman trovano un non so che di cui restano affascinate. Imbaldanzito dallo champagne, che annaffiava letteralmente quella grande abbuffata, procedet­ ti con disinvoltura. Voglio dire che corteggiai scopertamen­ te la ragazza, standole vicino, toccandola spesso, abbrac­ ciandola ogni cinque minuti per sottolineare qualunque stu­ pidaggine, proprio cosi come ve lo racconto, non solo quando ballavamo ma addirittura di fronte a Lancker. A un certo punto si sedette con noi un diavolo, in cui riconobbi, o cre­ detti di riconoscere, un certo signor Sileno Couto, un lugu­ bre gentiluomo argentino che mi si presentò al Royal Mon­ ceau, li nella Parigi del 27, molto pallido e completamente vestito a lutto, tanto che sembrava esser passato tutto inte­ ro dalla tintoria, con l’abito, i capelli, le sopracciglia e i baf­ fi che trasudavano nero. Vestito da diavolo rosso era più na­ turale e meno tetro; ma cosa poteva importarmi quella sera del vestito che stava meglio al signor Couto o dell’identità di un signore, forse appunto Couto, seduto al nostro tavolo! Come vi ho suggerito, ero impegnato in altre faccende, co­ sicché seguii soltanto frammentariamente la conversazione tra lo sconosciuto, che d’ora in avanti, come dicono i con­ tratti, chiameremo il diavolo, e Lancker. Quest’ultimo dava mostra di grande nervosismo. La causa? Non c’era da dubi­ tarne: il mio riprovevole comportamento. Poiché l’amor pro­ prio, l’educazione o il timore di infastidire Olivia gli impe­ divano di chiedermi spiegazioni, Lancker cercò sfogo assa­ lendo il suo fantasma abituale: la religione cristiana. Con deplorevole impertinenza assicurò che Venere lo proteggeva e per parecchio tempo diverti il diavolo con le sue burle con­ tro Dio. Mentre io procedevo con Olivia, quella chiacchie­ rata si trasformò, non so come, in una disputa. Dapprima il diavolo accoglieva con apparente soddisfazione le frecciate che il mio amico scagliava non soltanto contro Dio padre, ma anche contro il Figlio e, horresco referens, contro lo Spirito Santo; ma senza dubbio quelle volgarità dovettero stancarlo perché, a un tratto, disse: - In privato lei può credere a ciò che vuole, e per quan­ to... ! Ma non le consento di prendersi gioco di mezzo mondo,

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di seminare un dubbio che non è costruttivo, di negare le cre­ denze più radicate. 10 ero, forse, un po’ turbato da cosi tanto champagne e da cosi tanta Olivia. Senza volerlo, mi sorpresi a formulare que­ sta considerazione: «A giudicare dalla voce, non è Couto». In effetti. Couto aveva un vocione basso e spento; questo diavolo emetteva una vocina ridicola, molto acuta, molto sot­ tile, identica a quella di un collega piuttosto famoso e, anche lui, ridicolo. Il diavolo prosegui: - Dio non esiste? Il diavolo non esiste? Non vi sono ar­ gini per la naturale malvagità degli uomini? No, caro mio. Lei sbaglia e mi fa pena. Mi dica: non esistono neppure le prigioni, veri stabilimenti modello, in cui reprimiamo i de­ linquenti e anche altri che, nella loro triste leggerezza, di­ menticano che non è possibile offendere il prossimo ? Lasci stare le sue beffe e mi creda: esiste il cielo, esiste l’inferno, e l’inferno è altrettanto necessario che il cielo. Ammetta che tutto questo esiste, lo spero dal suo buon cuore, e le strin­ gerò la mano. 11 diavolo stese attraverso il tavolo una mano enorme. Lancker la strinse ? Persone di indole non bellicosa, come me ad esempio, potrebbero credere che neppure la vedesse; ma, indubbiamente, la vide e la ignorò, sprezzante. Disse: - Guardi, ciò che non credo è che lei esista. Esprime tut­ te le stupidaggini che circolano nel mondo, ma che nessuno osa enunciare. Man mano che Lancker parlava, l’altro si trasfigurava, cambiava di colore, sembrava crescere di volume. - Non stringe la mano che le porgo? - domandò rapida­ mente il diavolo. - Mi offende? Ha deciso di offendermi? Accetto la sfida. Con un guanto, tirato fuori non so da dove, colpi in vol­ to Lancker. - I miei padrini si faranno vivi con lei, - annunciò. Io dimenticai Olivia; ero sinceramente preoccupato. In­ vece Lancker aveva riacquistato la calma. Due maschere, dall’aspetto triste, una con la testa d’asi­ no, l’altra con la testa da caprone, entrambe con stretti pan­ taloncini di cuoio nero, si presentarono. Dissero che veni­

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vano a esigere una ritrattazione o, in mancanza di questa, una riparazione con le armi eccetera. - Riparazione con le armi, - rispose marzialmente la vo­ ce di Lancker. - Qui c’è una villa specializzata, non è vero? - domandò il padrino con la testa da caprone, in tono confidenziale e con accento straniero. - Esatto, - confermò Lancker. - Una villa a Caballito, che tutti conoscono. Come si chiama il padrone? Questa domanda era rivolta a me. Io mi poggiai sulle sue spalle e mormorai: - Sa chi è il diavolo ? Un famoso duellista internazionale! Siamo in tempo a cercare un pretesto ad usutn, rinviare il duello sine die e far perdere le nostre tracce ipso facto. Non credo che allora avessi molti argomenti per soste­ nere che quel diavolo era un grande duellista; eppure non avevo improvvisato una menzogna animato da buone in­ tenzioni; dissi ciò che immaginavo di sapere o, forse, ciò che avevo sentito. Chi parve non sentire, invece, fu Lancker. Esclamò: - Ho bisogno di un padrino. Conto su di lei, che servirà da intermediario, e me ne manca ancora uno. Lei, signore, vorrebbe accompagnarci in questa azione di coraggio ? Si era rivolto a uno di quei curiosi che non mancano mai dove succede qualcosa. Questo, in particolare, aveva un ve­ stito da domino e già sapete cosa pensiamo Olivia e io di co­ loro che, deposto lo scettro dell’immaginazione, compaiono con maschere sinceramente anodine in feste di alta fantasia. Cos’altro poteva volere il poveretto, se non fare da padrino a Lancker e intanto curiosare un po’ ? Accettò, è evidente che accettò. Ben presto gli otto - Olivia, che non si staccava da Lancker, questi, io, il domino, il diavolo, i suoi padrini e un medico, mascherato da gallo - ci trasferimmo con due taxi a Caballi­ to. Non so cosa potevamo sembrare visti dal di fuori; l’altro taxi sembrava una gabbia di animali vestiti come persone. Am­ metto che ciò potesse essere, per qualcuno, motivo di ilarità; per me non lo fu affatto. Quando li vidi, illuminati dalla lu­ na, al passaggio a livello, rimasi impaurito. In verità, in tutto

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quel quadro c’era un tocco diabolico, un tocco suggerito, chi mai avrebbe potuto immaginarlo, dalle piccole corna del co­ stume da diavolo. Di fronte alla villa fu necessario convincere Olivia. La po­ verina voleva scendere. Fu Lancker ad agire da referee. - Tu rimani in macchina, - ordinò. Terminò quella discussione e ne cominciò un’altra con lo chauffeur, che non era disposto ad attenderci. Con la pro­ messa di tornare immediatamente mi liberai di entrambi. Ci addentrammo lungo viali di eucalipti, verso la casa, con sta­ tue, vialetti e un belvedere. Ci ricevette un’anziana coppia. Che vecchio simpatico, era lui! Mentre la signora ci parlava, come se si trattasse dei suoi figlioli, di pistole e di sciabole, lui esponeva le differenze tra la scuola francese e quella italiana di fioretto, per poi narrare, precisandone gli aspetti tecnici, i duelli più penosi. Con una smorfia la signora ci promise: - Dopo il pum pum, - strizzò un occhio e prese la mira con un dito, - come dopo la prima comunione, la classica taz­ za di cioccolato con pane tostato e burro e zucchero e bi­ scottini Bay Biscuits! Si sbagliava. Non ci fu pum pum. Ci fu uno scontro alla spada, in un luogo a cui scendemmo per un sentiero tor­ tuoso, tra piante odorose. Più in là di due leoni di pietra, piuttosto piccoli e contraffatti, ma che erano la copia esat­ ta di non so quale pantera fiorentina, secondo quanto so­ stenne il proprietario, c’era il campo dello scontro: uno spa­ zio circondato da rocce artificiali e cactus, che mi suggerì un commento, di cui feci partecipe il mio collega vestito da domino: - Questa dev’essere l’entrata dell’inferno. - Inverno ? - domandò. Cos’altro si poteva sperare da un domino? Da parte mia, come ricorderete, io ero un angelo o, stan­ do a ciò che aveva ordinato Olivia, l’angelo custode del no­ stro amico, e in quel momento assunsi il ruolo della mia ma­ schera, ebbi la certezza che il mio dovere fosse salvare Ro­ lando e sussurrai con enfasi al suo orecchio: - Diciamo che è stato tutto uno scherzo. La vita è mera­ vigliosa, c’è Olivia e perché dovrebbe perdere tutto questo?

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- Un gentiluomo è sempre pronto a perdere tutto per qua­ lunque causa, - rispose. - Quel diavolo non vale un sacrificio cosi grande, - assi­ curai. - Già mi dà per morto, - disse. - Che assurdità! - protestai subito. - Ma, mi creda, quan­ do berremo la tazza di cioccolato caldo che ci ha promesso la signora, lei non ci farà compagnia; perché, si può sapere ? Per una bambinata che ormai non interessa più nessuno. - Allora, - mi disse con un sorriso malinconico, - lei do­ vrà bere due tazze, la sua e la mia. Per non lasciargli Γultima parola, mentre lo vedevo met­ tersi in guardia con la spada in pugno, gli gridai: - Mi peseranno come piombo. Diretto dal vecchino, che procedeva con gradevole disin­ voltura, il duello cominciò. Da dove avevo tirato fuori che il diavolo era un contendente pericoloso ? Adesso suppongo che mi provenisse dall’atmosfera sovrannaturale in cui ci muove­ vamo quella sera. In ogni caso, il diavolo era imbattibile. Con quale risolutezza, con quale coraggio Lancker combattè la sua battaglia perduta. Io abbandonerò le mie intenzioni pie, trat­ terrò la mia parola bigotta, ma questa specie di epitaffio che sto componendo per Lancker non lo offuscheranno appositi concetti generali in lode della vera religione e a vituperio dei reprobi. Ognuno ne tragga la morale che vorrà. La mia pen­ na ricorderà soltanto la limpida dirittura d’animo con cui il mio amico condusse la sua guerra contro il cielo e Γinferno, e il suo impavido coraggio, che non si rifugiava nella speranza. Di altri prodi non potremmo affermare altrettanto. Lancker attaccava infaticabilmente, il combattimento non sembrava impari, sino a che infine il mantello del diavolo si infiammò, come due ali rosse, e la spada attaccò, rapida e mor­ tale, come il fulmine. Il corpo di Lancker, all’altezza del cuo­ re, era trapassato da parte a parte. Ci precipitammo, genero­ si di un soccorso tardivo. Un prodigio, l’ultimo della serie, ci trattenne: vedemmo fumo, come fosse un piccolo falò, usci­ re da sotto il cadavere, respirammo odore di zolfo e sentim­ mo rumore di catene. Segnandosi, il domino mormorò: - Se n’è andato all’inferno.

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E risaputo che per bocca degli stolti parla la verità. Senza che ce ne accorgessimo l’uccisore scomparve dal no­ stro fianco. Era il signor Couto, dall’aspetto lugubre e dai placidi soggiorni a Parigi? Non crediatelo. Era il diavolo, il vero diavolo, chiamatelo Satana o come preferite. Fu inuti­ le cercare quella maschera nella villa. Inutile cercare i padri­ ni, quello con la testa da caprone e quello con la testa d’asi­ no. Tutt’e tre si erano volatilizzati. Non erano maschere. Ciò che invece rimase fu il cadavere, che molto presto avrebbe dato luogo a complicazioni fastidiose, anche di na­ tura poliziesca. Mi parve deplorevole che un amico pura­ mente occasionale, io, ad esempio, dovesse affrontarle. Usai il telefono, che a volte funziona, per chiamare Jorge Velar­ de, alias il Drago. Gli dissi che suo cugino stava male e di ve­ nire immediatamente alla villa. - Porto con me il Monsignore? - domandò. Mi irritai, con dubbio gusto tentai di fare una battuta sui responsori per i defunti, che non arrivano mai tardi, e inter­ ruppi la comunicazione. In auto raccontai non so quale fa­ vola alla povera Olivia, e per sollevarla da tutte quelle tri­ stezze la portai nel mio appartamento.

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Da qualche parte ho letto che una fitta trama di sventure intesse la storia degli uomini, sin dalla prima aurora, ma a me piace supporre che vi furono periodi tranquilli e che per un inappellabile colpo del caso a me tocca vivere il momento, confuso ed epico, del culminare. Direte, forse, che questa è la lamentazione, affatto filosofica, di un soggetto cupo e umi­ liato; io replicherei che, appunto, poiché sono un soggetto cupo e umiliato, è strano, e significativo, che io possa testi­ moniare su più di un fatto tremendo. Che questo valga di prova: io ho visto, con i miei stessi occhi, la fine, il crollo, l’annientamento di una gran signora. Come succede sempre (per quanto ognuno aguzzi la propria capacità di prevedere), nel modo più inatteso, attori e spettatori, ci trovammo nel bel mezzo della tragedia. Secondo la mia esperienza, quel che succede, succede du­ rante gli incontri mondani. Lo scenario di quell’incontro era il salotto della già nominata gran signora, Tata Laserna, in­ dimenticabile anche se oggi molto pochi la ricordano. Non descriverò Tata come una signora obesa, ma non affermerò neppure che era alta. Questo si, invece: aveva - per usare una frase che oggi forse potrà sembrare audace, ma che allora pas­ sava di bocca in bocca, perché l’aveva coniata un uomo di va­ lore e amato, un maestro della gioventù, un critico d’arte, una penna fra le migliori -, aveva, ripeto, senso del colore. Gras­ sa, bassa, truccata abbondantemente, avvolta in belle tele che riproducevano, per intero, la tavolozza dell’artista o addirit­ tura lo spettro luminoso, emetteva brevi gridolini e ansima­ va festosa, mentre la seguiva il giovane di turno: com’era al­ l’oscuro la poverina - come tutti noi, d’altra parte - dell’im­ minente catastrofe!

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- Sembra una gallina da cortile, una gallina seguita dal gal­ lo del pollaio, - esclamò Keller. Pensai: «Nulla di tutto questo». Corressi: - Una gallina fabbricata con tanti piccoli cenci, ognuno di un colore diverso. Quanto al «gallo del pollaio», è proprio cosi! Scrivo per persone colte, non recito cuiquam nisi amicis·, credo, quindi, di non turbare l’illustre memoria di una da­ ma se confesso quanto segue: Tata era - per ripetere un’al­ tra frase dello stesso critico d’arte - un occhio allegro. M. Vallet (autore di Le chic à chevai) commentò: - Come riuscirà la vecchia a trovare simili giovinetti ? - Avrà le sue risorse, - suggerì una delle mie cugine. Le donne, quelle caste e le altre, mosse da una specie di invidia professionale, propria delle cortigiane, ma anche da un’ingenuità incurabile, immaginano che in camera da letto le possibilità siano infinite. Le si potrebbe scambiare per de­ vote degli screditati ricettari indiani. - Ha i soldi, - sentenziò M. Vallet. Questo è un altro errore. L’unica attrattiva della gente ricca non sono i soldi; non bisogna dimenticare ciò che io definisco fattori imponderabili. Tutti voi ricorderete un ca­ so recente: quello della ragazza che si compromise, nono­ stante l’irritata disapprovazione del nostro ambiente, con il più orrendo degli industriali. Conosco la ragazza, so che è piena di fantasia e di poesia, sono sicuro che deve aver sognato il principe azzurro. I principi azzurri, oggigiorno, sono gli industriali; i loro castelli, le alte ciminiere delle fabbriche. Conversavamo, dunque, frivoli e tranquilli, quando si ve­ rificò la folgorazione. La portò, come un angelo che brandi­ sce una spada, l’esploratore belga Jean Wauteurs. Il viag­ giatore (vivevamo ancora nella Buenos Aires, forse paesana, che sapeva riconoscere i viaggiatori) era sceso dal paese de­ gli jibaros, da un angolo della foresta tenebrosa che occupa la maggior parte del continente, fino alla nostra città, con il preciso intento di tenere conferenze (vivevamo ancora al­ l’epoca in cui stranieri e conferenze formavano un tutto ine­ vitabile). Tata, che non si lasciava sfuggire un solo perso­

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naggio, ci aveva invitati perché lo conoscessimo. Dandomi un colpetto con il gomito, mia cugina mormorò: - Quello è Wauteurs. Vidi un uomo pallido, con gli occhi sporgenti, che tirava fuori da una delle sue tasche un pacchettino avvolto in car­ ta bianca; lo apriva e mostrava un oggetto scuro. Come so­ spinto da un movimento riflesso, mi alzai dalla confortevole bergère, mi avvicinai quanto mi fu possibile, esaminai, tra le teste di quel crocchio di curiosi, l’oggetto che il belga, con un grave inchino, offriva a Tata: una testa umana, con la sua pelle, i suoi capelli, i suoi occhi, i suoi denti, perfettamente, cioè orribilmente, mummificata e ridotta dagli indios; una testa grande come un pugno. Tata apri la bocca e dopo un at­ timo esclamò con voce soffocata: - Celestini Quel grido di dolore, che le sgorgava dal petto, era trop­ po genuino perché potessimo confonderlo con un’elegia per l’amante ignobilmente oltraggiato; tutti, anche i più insensi­ bili, comprendemmo immediatamente che si trattava del ran­ tolo di una vera signora che partecipa al crollo della propria reputazione, schernita, umiliata crudelmente da una circo­ stanza grottesca. E vero che nessuno, nel pieno delle sue facoltà mentali, avrebbe creduto che il buon nome di Tata potesse essere com­ promesso dai capricci di un solo uomo; ma è pur vero che le donne, come osserva Walter Pater citato da Moore, anche quelle trionfali e luminose, hanno qualcosa del satellite. La lu­ na, tenue e perentoria, brilla della luce di un sole che non ve­ diamo; allo stesso modo, la considerevole Tata aveva conqui­ stato il suo posto privilegiato, vi si era insediata, perché la fa­ ma l’aveva legata a un uomo straordinario, Celestin Bordenave, il dotto, il dongiovanni, l’esploratore, il clubman, che ha por­ tato a spasso il proprio prestigio nei territori più strani del glo­ bo. L’amore di questi due titani - una faccenda piuttosto squal­ lida, d’altra parte - era nato verso il 30, ma la fama di Tata non era scemata con il tempo; al contrario, si sarebbe detto che rinverdiva e aumentava sotto l’influenza di ognuna delle avventure del lontano Bordenave. Poco tempo prima - però i giorni volano e forse era passato qualche anno - lo avevamo

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visto partire, in un notiziario Pathé, assediato dai giornalisti, dai fotografi e da signorine armate di album, per la regione degli jtbaros. Lo avevo visto anche in una fotografia a colori: era un uomo solido, alto un metro e ottanta, nel quale il can­ dore della capigliatura a onde, in violento contrasto con il ros­ so un po’ feroce della pelle, sottolineava, per cosi dire, la vi­ talità. Adesso tornava, portato da un collega belga, ridotto a una testa sprovvista di corpo, mummificata, resa grande co­ me un pugno. Tata crollò a terra. La condussero nelle sue stan­ ze. Magari avesse perduto la conoscenza prima che risuonas­ sero il mio grido di «Vergogna! » e il risolino del giovincello di turno, risolino particolarmente sleale se consideriamo che quell’individuo aveva sperimentato le sue prime beccate (par­ lo per metafora) sulla bianca mano della nostra amica. La mancanza di sensibilità mi spaventa. Sapete quali fu­ rono le parole di Keller, dopo che portarono via la vecchia signora e fu ristabilito, almeno in parte, l’ordine? Domandò tranquillamente a Wauteurs: - Gli jibaros uccidono sempre la vittima ? - Certo, - rispose il belga. - A me risulta che i pigmei africani - affermò Keller, che è uno dei tanti disfattisti che non credono nell’America e ri­ mangono ammaliati da tutto ciò che viene da fuori - riesco­ no a eseguire riduzioni sul corpo intero e, quel che è più im­ portante, non uccidono. Ben presto cominciò a raccontarci la storia di Rafael Ur­ bina. Una parente povera, parlando a voce bassa e stringen­ do un fazzoletto con gesti esagerati, ci chiese di scusare Tata. Capimmo che ci stavano mandando via. Andammo al Tropezón, a mangiare un tiepido puchero, mentre Keller parla­ va prolissamente. Ecco, nei suoi elementi essenziali, la terri­ bile storia che ci raccontò: - Non mancano esempi - disse - di uomini che obbedi­ rono a una profonda vocazione, a un destino indubbio, ma che in un qualche momento della gioventù si incamminaro­ no su strade incongruenti. Chi può immaginare Keats far­ macista, Maupassant impiegato al ministero, Urbina notaio ? - Io non avrei neppure immaginato che Urbina potesse mai aver bisogno di guadagnarsi la vita, - risposi.

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Keller continuò: - I soldi (l’eredità di uno zio ricco e dimenticato, che si chiamava Joaquin) gli arrivarono con l’amore. L’idea che ab­ biamo di Urbina è quella di un uomo con i soldi, che vive ri­ tirato in un posto mondano, un solitario tra il chiasso della folla, un poeta che produce poco... - Cosi poco, - commentò un ragazzo che comincio a in­ contrare ovunque, ma che per fortuna ancora non conosco, - cosi poco che ne abbiamo dedotto che si deve trattare di una poesia raffinata e squisita. Grave errore. - Io sapevo che era argentino, - disse mia cugina, - ma non avevo mai pensato che avesse vissuto qui. Credevo che fosse uno di quegli esuli volontari dell’epoca in cui il peso va­ leva molto. - Adesso sono meno volontari, - osservò Keller. - Quel che è certo è che Urbina parti con una nave che lo lasciò a Villefranche. Vi rimase per sempre. Rapito, visibilmente, dall’incanto della rievocazione, M. Vallet osservò: - Io ho sentito parlare di un tale di Rosario, il Negro Chaves, - la sua voce si fece più bassa, divenne confiden­ ziale, - un uomo dal naso deforme, scurissimo di pelle e pa­ recchio ignorante, credetemi, che sbarcò a Marsiglia e vi si stabili. Bisogna vedere le monografie che prepara sulla Massilia degli antichi. Mi hanno parlato anche di un altro, un parente di qualcuno, che si stabili a Vigo. - Il caso di Urbina è diverso, - protestò Keller. - Di certo, - esclamai, - non vorrete paragonare Marsi­ glia, che somiglia a Rosario o a Milano, con Villefranche. Che clima ! Sembrava che Keller mi guardasse da molto lontano e aspettasse con rassegnazione la fine delle mie smorfie ed esclamazioni: ma cosa poteva capire del mio entusiasmo per Villefranche un habitué di Necochea? - Quando Urbina era notaio, - disse finalmente, - duran­ te la sua gioventù porteria, partecipò alla scritturazione di be­ ni venduti o acquistati dai successori di don Juan Larquier. La vedova e sua figlia vivevano allora a La Ginestra, la villa del Tigre, e, una volta, per far firmare alcuni documenti, Ur-

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bina andò a trovarle. Era una mattina di settembre, fredda ed evanescente. Avvolta in un alone di nebbia e in mezzo a una vegetazione esagerata, la casa appariva nella vaghezza di un ricordo. Negli Appunti per un diario intimo, che Urbina mi fece leggere quando lo andai a trovare, l’anno scorso, a Ville­ franche, vi è un brano sul momento in cui socchiuse il pesan­ te e cigolante portone di ferro e attraversò il giardino. Tutto era estremamente verde, non soltanto le foglie, ma anche i tron­ chi degli alberi, coperti di muschio. Camminai su molte foglie. C’era odore di vegetali marciti e di magnolia fuscata. Bussò alla porta. Mentre aspettava, certo che gli avrebbe aperto qual­ che domestico in livrea, rimpianse di non aver mandato il suo socio. La debolezza, come sempre, lo aveva perduto. Quella mattina, quando si erano incontrati nello studio, Urbina, avendo indovinato che il suo socio era troppo pigro per aver voglia di andare nel Tigre, si affrettò a dire: «Vado io». Era debole e timido, ma anche scontroso. Non lo si vedeva mai agli incontri mondani e si vantava di non conoscere nessuno. Era un ribelle: aveva capeggiato la cosiddetta rivoluzione Car­ bonara contro il sonetto. Poiché non gli aprivano, suonò an­ cora il campanello, leggermente, per non disturbare. Pensò che i domestici delle grandi case non avrebbero mai perduto il loro stile, ma che senza dubbio facevano finta di nulla e tar­ davano ad aprire la porta, in modo che l’invitato si raffred­ dasse. O forse era vittima della divisione del lavoro. C’era un domestico per ogni incarico; senza dubbio ce n’era uno, ar­ mato di piumino, che gironzolava dall’altra parte della por­ ta, ma non si doveva attendere nulla da quell’uomo, anche se avesse fatto sprofondare il campanello e avesse gridato aiu­ to; il domestico destinato ad aprirgli si avvicinava ininter­ rottamente dal fondo, veniva da cosi lontano che non era an­ cora arrivato e chissà quando sarebbe arrivato. Aprirono la porta. Non si trovò di fronte a un domestico, ma di fronte alla signorina di casa, Flora Larquier. Urbina, che mi raccontò la storia con ricchezza di particolari, come chi ha conservato per troppo tempo un segreto e una pena, ed è felice di parlare, mi disse con veemenza lirica: - Nella cornice della porta apparve Pallade Atena in per­ sona.

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Segui la ragazza per un corridoio, per una sala in cui in­ travide mobili ricoperti di fodere contro la polvere. Flora Larquier, con voce pulita e allegra, esclamò: - Mi dia la mano, o finirà per inciampare. Per nulla al mondo accenderei il lume. Preferisco che inciampi piuttosto che veda la polvere che c’è in queste stanze. Arrivarono al vestibolo delle scale; dal piano di sopra ve­ niva un po’ di luce. La scala - una solenne costruzione di ce­ dro - non aveva il tappeto e si sarebbe detto che non era sta­ ta tirata a cera da parecchi anni. Salirono fino al vestibolo del piano superiore, vasto e vuoto, secondo Urbina triste, illu­ minato da un lucernario. Aveva i pavimenti ^parquet, vi era­ no cinque porte e, contro le pareti, ricoperte di carta grigia, lunghi armadi grigi. Non c’era nessun ornamento, tranne uno, monumentale: uno specchio, alto quanto tutto il muro, cur­ vo nella parte superiore, racchiuso da pesanti tendaggi viola, che ricordavano il sipario di un teatro. All’estremità opposta erano riuniti tre mobili: una poltrona di paglia, con lo schie­ nale molto alto e stretto, con un cuscino color oliva piutto­ sto scolorito, un tavolo pieghevole e una poltroncina con la spalliera e il sedile di tela, entrambi provenienti da qualche arredamento da giardino, di legno laccato di bianco. Flora indicò a Urbina la poltrona principale e, pregandolo di scu­ sarla, se ne andò, per tornare dopo pochi istanti con un bel vassoio d’argento, su cui portava una bottiglia di cristallo in­ tagliato, contenente jérez, due coppe dello stesso cristallo, un piatto di porcellana bianca, con uno stemma azzurro e il bordo dorato, su cui c’erano dei biscotti molto vecchi, che raffiguravano animali. La ragazza aveva vent’anni o poco più, una bellezza tranquilla ed ellenica, lineamenti grandi, im­ peccabili, occhi verdi, naso dritto, mani belle e delicate, stra­ namente delicate rispetto alle dimensioni del corpo; Urbina disse che sembrava l’immagine allegorica della Repubblica. Ci fu una breve contesa perché entrambi volevano cedere la poltrona principale. Alla fine la occupò Flora. Seduta li so­ pra, come su un trono, mentre giocava con un piccolo scet­ tro a due punte - Urbina descrisse l’oggetto come un tridente a due punte -, non era più la Repubblica, ma una regina, la regina simbolica di una scultura. Immediatamente Urbina si

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senti a suo agio insieme a lei; la giudicò tranquilla, semplice, allegra, sicura di sé, senza artifici, pronta a chiamare le cose con il loro nome (non aveva riconosciuto che teneva la casa al buio perché non si vedesse la polvere ?) Quando disse che sua madre, con il freddo, era soggetta ai reumatismi e al raf­ freddore, le credette subito; non ricordò cosa mormorava la gente: che la signora era pazza e che Flora, temendo che la por­ tassero al manicomio, non la lasciava vedere a nessuno e che viveva rinchiusa con lei nella villa. Se l’avesse ricordato, non l’avrebbe creduto, l’avrebbe respinto come una diffamazio­ ne. Bastava guardare Flora per comprendere che nella sua fa­ miglia non vi era posto per la pazzia. In ogni caso, Urbina consegnò fiducioso i suoi incartamenti a Flora affinché la si­ gnora li firmasse nella sua stanza da letto. Pochi minuti do­ po gli venivano restituiti, controllava che le firme coincides­ sero con le croci che lui vi aveva segnato, scendeva le scale, accompagnato da Flora, e le stringeva la mano, vicino alla porta. Incredibilmente, di questa visita Urbina ha lasciato so­ lo testimonianze letterarie marginali: il brano degli Appunti per un diario intimo già citato, e la poesia

La tua dimora. Fontana d’argento. Da un angolo ammicca un ratto. La strofa rievoca un piccolo episodio. Urbina e Flora sta­ vano assaporando il profumato jérez, quando qualcosa, un colpo di vento o un roditore, fece muovere i tendaggi viola dello specchio. Per un momento parve che la ragazza avesse perduta tutta la sua tranquillità, quasi temendo che il visita­ tore potesse scoprire qualcosa di vergognoso. Tutto passò presto: il ratto, se c’era stato, il turbamento di Flora. Il giorno dopo, certe signorine Boyd - amiche d’infanzia che non vedeva mai - invitarono Urbina a un incontro in ono­ re di un pittore spagnolo; non si domandò neppure se quel pit­ tore gli piacesse o no; accettò l’invito, e poi altri ancora. In questo modo rinnegò la sua ribellione Carbonara (che trascen­ deva la sfera del sonetto) e senza cercare giustificazioni, co­ me chi non ha bisogno di esporre le proprie ragioni perché

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obbedisce a una ragione profonda, si lanciò nella vita mon­ dana. E indubitabile che impiegò meno tempo a innamorarsi che a capire di essersi innamorato. Eppure, la determinazio­ ne dei sentimenti non si verificò immediatamente. Dappri­ ma, quasi tutte le ragazze che incontrava nei salotti lo colpi­ vano allo stesso modo. «Mi sembravano - confessò - perso­ ne senza difetti, almeno nei lineamenti e nella carnagione. Certo, per me, il modello di tutte queste donne brillanti, pu­ lite, delicate, profumate, felici, era Flora». Non sapeva che considerando mondana la sua amica commetteva un errore che nessuna persona mondana avrebbe commesso. Come si è già detto, Flora, malgrado la sua bellezza e la sua gioventù, viveva ritirata nella villa, e bisogna qui dedurre che la sua ap­ parizione nei salotti coincise con quella di Urbina. Quand’egli vide Flora a quella prima riunione mondana non si sorprese; non sospettò neppure che la sua stessa pre­ senza fosse frutto di macchinazioni. Eppure era cosi: Flora aveva indagato pazientemente tra le sue amiche se qualcuna lo conoscesse, e non si chiari mai sino a che punto la riunio­ ne in onore del pittore non fosse un pretesto per far incon­ trare lei e Urbina. Poco per volta, le altre donne dei salotti mondani perse­ ro, per Urbina, l’individualità che avevano conquistato cosi di recente e finirono per essere trasformate nelle incantevo­ li figure di una specie di fulgido coro, il cui fine era dare an­ cora maggiore risalto a Flora. In questo periodo, il comportamento di ognuno di loro è tipico; quello di Urbina dimostra la ruvida immaturità del­ l’uomo; quello di Flora, la saggezza della donna. L’uomo è un diseredato che deve imparare tutto; per quanto riguarda le questioni sentimentali, a ventiquattr’anni ne ha sei o otto di età. Nella donna operano, quasi intatti, i difetti e le virtù dell’istinto; ognuna eredita l’esperienza accumulata dall’ini­ zio del mondo. Flora seppe, quando vide Urbina per la pri­ ma volta, quella mattina nel Tigre, ciò che voleva, e agi di conseguenza; da questo non si deve dedurre che fosse una donna senza scrupoli; Urbina mi disse di non aver mai cono­ sciuto nessuna persona in cui la purezza e la rettitudine fos­ sero cosi autentiche. Aggiunse: «Io, davanti a lei, ero come

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un bambino; come un bambino che, non essendosi ancora formato, può essere impuro e insolente. Per distinguere il be­ ne dal male dovevo guardare lei». Probabilmente di quell’epoca è la poesia - troppo famo­ sa, troppo personale secondo i miei gusti - che compare in tutte le antologie: L’allegria dell’amore volli spiegarti. Non bastan le mie arti. Qui il poeta affronta e risolve il più arduo, forse, dei te­ mi letterari: la felicità. Quel che è certo è che a quell’epoca Urbina fu molto felice perché si amavano di un amore che non sembrava una guerra, con tattiche e stratagemmi, per­ ché Flora era assolutamente candida, affabile, sincera senza nessuna limitazione, tranne ciò che riguardava la villa. Non lo ricevette più a La Ginestra e una volta che lui insistette per accompagnarla, non permise che andasse più in là della sta­ zione del Tigre, cosicché la villa cominciò ad assumere il ca­ rattere di luogo proibito, una specie di castello inaccessibile, un po’ favoloso e un po’ macabro; ma Urbina non pensò poi troppo alla faccenda, perché si disse: « Se ci sto a pensare su, finirò per domandare, e se domando chissà che risposta pe­ nosa otterrò da Flora». Cominciava a credere, indubbiamen­ te, alla pazzia della madre. Inoltre, non voleva che nulla tur­ basse la sua felicità. Un giorno che da Cangallo andava verso calle Reconqui­ sta per incontrare Flora e prendere il tè al London Grill, Ur­ bina si accorse che sarebbe arrivato in ritardo, e passò, non so come, dalla contrarietà che confina con l’angoscia, pro­ vocatagli dall’immagine della sua amica che lo stava ad aspet­ tare, a pensare: «Non dev’essere ancora arrivata. E se è ar­ rivata, non importa. Stavolta va per tutte le volte che l’ho aspettata io». Camminò con deliberata lentezza, guardò qual­ che vetrina, sorrise come chi scopre, più divertito che allar­ mato, di essere un mostro. Erano cosi innamorati, erano co­ si pieni di premure l’uno per l’altra, lei era cosi fiduciosa nel suo affetto, e adesso lui cadeva in questa mancanza di sensi­ bilità, peggiore di un tradimento perché priva di ragioni...

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«Tutto ciò rivela - pensò - una certa crudeltà e molta roz­ zezza d’animo». Con allegria, come se fosse stato vendicati­ vo (non lo era) e si fosse vendicato (di cosa?), entrò al Lon­ don Grill. Le giornate cominciavano ad allungarsi; per le strade c’era parecchia luce. Entrò di corsa, forse spinto da un’in­ volontaria ipocrisia, ma si arrestò perché tra la luce dell’e­ sterno e la penombra del locale il contrasto era violento. Quando finalmente riuscì a vedere, si accorse che ai tavoli non c’era nessuno, credette - stupito, incredulo, irritato che Flora non vi fosse. Giunse al centro del salone, girò a si­ nistra, guardò da una parte e dall’altra. A sinistra, all’ultimo tavolo, la scorse. In quella scena - lui che guardava la ragaz­ za, lei che non sapeva di essere guardata - credette di sco­ prire un simbolo della sua diffidenza e dell’amore sicuro di Flora. Ebbe voglia di implorare il suo perdono, di giurare che mai più sarebbe stato insensibile né avrebbe compiuto simi­ li tradimenti, di stringerla fra le braccia, ma qualcosa lo trat­ tenne; notò lievi movimenti nella schiena di Flora, forse dei brividi, e senti o credette di sentire il mormorio di una con­ versazione; si domandò se la sua amica non stesse parlando da sola; poi distinse chiaramente le parole: - Ti amo. Commosso, pensò che il suo ritardo avesse turbato Flora. Corse verso di lei ed esclamò: - Amore mio ! Con una compostezza un po’ forzata, smentita dalle la­ crime che non aveva asciugato, Flora lo guardò, quasi vo­ lesse sostenerne lo sguardo, con i suoi candidi occhi verdi, e ripose il fazzoletto - grande, non proprio da donna - nel­ la borsa capace. Quelle lacrime, o il fatto che Flora avesse riposto il fazzoletto senza asciugarle - «per farmele pagare in tutto il loro valore», si disse Urbina -, lo contrariarono. Il suo stato d’animo mutò radicalmente. A un cameriere, fi­ no a quel momento quasi non visto, ordinò con serietà: - Un tè molto caldo e pasticcini. Pensò: «La vita non è drammatica, ma vi sono persone drammatiche, che dobbiamo evitare. La madre è pazza e la fi­ glia è strana». Dal canto suo, non avrebbe fomentato simili

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stranezze. Non avrebbe dato peso alle lacrime, né alla ten­ sione con cui Flora lo stava guardando. Le avrebbe parlato di un argomento qualsiasi, come se non si fosse accorto di nulla. L’unico segno che aveva notato qualcosa - segno che non sarebbe sfuggito all’attenzione di Flora - sarebbe stato negativo: non avrebbe parlato di loro né del loro amore. Par­ lare d’amore in quel momento avrebbe richiesto uno sforzo notevole, un comportamento da istrione. Parlò di una con­ ferenza su Tablada, che aveva tenuto (grazie ai buoni uffici di un amico, un certo Otero, che aveva sistemato le cose con la commissione dell’Ateneo Calabria, per fargli guadagnare qualche peso) a Rosario. Gli portarono il tè. Bevve e mangiò voracemente. - Sapessi quanto abbiamo discusso di letteratura nei tre giorni e nelle tre notti che ho trascorso laggiù, - disse Urbi­ na. - Fino a notte fonda andavamo di caffè in caffè, passeg­ giando come sonnambuli, recitando versi, citando gli augu­ sti nomi di Apollinaire e di Max Jacob. Credimi; a volte mi meraviglio se penso di non essere stato investito da un tram. Evocava l’anno precedente come una remota età dell’oro. In questo era simile a tutti i giovani. - Eri più felice allora di adesso ? - domandò lei e gli pre­ se una mano. Rispose brevemente: -No. Sorrise, la guardò e continuò a raccontare. Flora ascolta­ va, indubbiamente rapita dal suo contagioso fervore, un po’ ostile, un po’ gelosa, di fronte all’inattesa scoperta di non es­ sere l’unica passione di Urbina. Questi non si accorse di nul­ la, arrivò addirittura alle confidenze: - Ti ho detto che sto scrivendo un libro. Se è proprio un li­ bro non lo so. Scrivo hai-kai. Un genere poetico giapponese co­ dificato da Tablada. Vuoi che te ne reciti uno? Bene, eccolo: Per viali di sogno sto camminando; ti vedrò: quando? Per non darle il tempo di scoprire che era lei l’ispiratrice della poesia, ne recitò un’altra:

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Portatrice di polline, farfalla, la rosa su te brilla che fiorirà radiosa.

- Mi piace molto, - disse Flora senza entusiasmo. - D’accordo. Ha il merito di adeguarsi al severo canone di Tablada. Ancora un altro, - insistette Urbina, - ancora un altro. L’ultimo. Quello che preferisco perché in modo abba­ stanza vivace, almeno secondo me, canta tutta quell’indimenticabile avventura rosarina. Oh notti di Rosario, sul vostro asfalto orinai con fervore letterario.

- Ti ha dato fastidio? - domandò il poeta. - Ti dà fasti­ dio perché la metrica è rigidamente giapponese. Scusami. Non si deve vedere nella frase precedente uno scherzo di cattivo gusto. A quel tempo, Urbina era cosi immerso nella letteratura che, per lui - e, di sicuro, doveva credere che fos­ se cosi per tutti quanti -, nulla era più reale di un problema letterario. Si scusò di nuovo che l’ultimo hai-kai fosse «de­ bole, molto debole»; per scusarsi, aggiunse: - Almeno non mi rifugio nel frascame del sonetto. Quando uscirono dal London Grill propose con natura­ lezza: - Ti accompagno al Tigre. - No, - rispose la ragazza. - Vado da sola, più tardi. Nel sentire questa risposta, a Urbina parve di cadere, o che lo facessero cadere: interruppe la sua divagazione intel­ lettuale per valutare l’irriducibile comportamento di Flora. «Vuole tenermi lontano dalla villa, - si disse. - C’è un mi­ stero». Era un po’ inquieto. Salirono su un taxi. - Al parco di Palermo, - disse. - Facciamo una passeg­ giata nel bosco. Vicino al corpo di Flora dimenticò la sua inquietudine, tornò a parlare di letteratura, mise in ridicolo un critico di «Nosotros». Era un po’ irritato.

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- Quell’individuo non avverte le diversità gerarchiche, - affermò, - e mi confonde con gli autori di copias, che de­ finisce «umili arbusti della broussaille folklorica, frondosa ed esuberante in campo economico». Tornò a esaltarsi, ma credette di scorgere nel viso di Flo­ ra un’espressione di distacco e di malumore, che sembrava darle una consistenza quasi legnosa. Disse, con un sospiro: - Ti amo molto! Rispettando la tradizione - percorrevano, lentamente, in auto, i sentieri del bosco - la strinse a sé. Flora, nel frat­ tempo, giocava, come con una palla, con la sua grossa bor­ sa, che risultava troppo voluminosa per qualunque gioco d’equilibrio. Con la sensibilità messa a nudo, il poeta si do­ mandò: «Forse la sto annoiando? Le donne perdono la pa­ zienza quando parliamo di letteratura e, soprattutto, quan­ do recitiamo poesie». Indubbiamente c’era qualche compli­ cazione nervosa in quel manovrare la borsa. La baciò, decise di non lasciarsi abbattere e quando stava per cominciare la sua famosa comparazione tra la metrica àc\Yhai-kai di Tablada e quella àe\Vhai-kai giapponese (che poi una rivista di La Piata avrebbe pubblicato in estratto) sviò la frase, al­ l’ultimo momento, verso una dichiarazione d’amore, con sospiri, carezze, riflessioni su quanto soffriva nel dover ve­ dere la sua amata un momento, non di più, al pomeriggio, eccetera: tutto questo servi da indiscutibile stimolo per la borsa, che volò in aria. Flora la raccolse prontamente, si li­ berò dall’abbraccio e, prima che Urbina potesse renderse­ ne conto, aveva aperto la portiera e si era lanciata di corsa nel bosco. Perplesso, Urbina esclamò: «E pazza?», perse la possibilità di raggiungerla e si domandò: «Cosa penserà di noi lo chauffeur?» Giustamente, per il timore che lo chauf­ feur credesse che si trattava soltanto di un ignobile strata­ gemma per non pagare, rimase come inchiodato al sedile, mentre Flora fuggiva tra gli alberi. Lo chauffeur, che poi era un criollo dalla voce spenta e rau­ ca, suggerì: - Io, se fossi in lei, signore, la lascerei andare, ché ma­ gari si perde sul monte; ma non si faccia illusioni: domani, o addirittura stasera, la ritrova. Lei, invece, non ha nulla da

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rimproverarsi, glielo garantisco io; vi guardavo fisso, attra­ verso lo specchietto e posso testimoniare che lei ha condot­ to correttamente l’assalto. Dopo avere meditato un po’, Urbina concluse: - Per me, è pazza. - E donna, che è la stessa cosa, - rispose lo chauffeur, con indulgenza. - Uno vive con loro, le prende sul serio, le con­ sulta per ogni cosa e poi dopo si meraviglia che il mondo va a rovescio. Lei non crede, signore, che l’uomo più avanzato è il negro che fa la poligamia, che la mattina chiude le donne in una stanzetta e invece di andarsene a lavorare, come lei e me, se ne va a caccia di tigri sull’elefante? - Torniamo in centro, - disse tristemente Urbina; poi pre­ cisò: - All’angolo tra calle Santa Fé e calle Pueyrredón. - Al Pedigree o all’Olmo? - s’informò lo chauffeur. - Al bar Summus, - replicò Urbina. - Permette che uno dei più vecchi autisti di Buenos Aires le dia un consiglio ? - Tutti quelli che vuole. - Non ecceda nel bere, signore, ché ubriacarsi per una donna è l’ultima cosa al mondo. Io le terrei compagnia di tut­ to cuore, perché dopo una giornata sacrosanta la sete si fa sentire, ma il guardiano notturno aspetta nel garage e si sa che nessuno è più tiranno dei poveretti. Quando arrivo tar­ di, si lamenta che gli tolgo il pane di bocca. Urbina pensò: «E capace di rifiutare i soldi e di offen­ dersi», ma al momento di pagare raddoppiò la mancia. - Non mi ero sbagliato, - assicurò lo chauffeur. - Il signore è uno di quelli che aiutano il crìollo. Ma, mi faccia il favore, se non fosse stato per noi, il denaro non sarebbe circolato mai. Al tempo in cui l’immigrante si trascinava come un mi­ serabile in una Renault a due cilindri, che era un volgare sal­ vadanaio con le ruote, io bruciavo i pesos portando a spasso i clienti in certe Hispano e Delaunay Belleville, che se oggi lei va al museo di La Piata non ce la fa più dalle risate. Al bar Summus Urbina si sedette al tavolo degli amici, dove chiacchieravano, quel pomeriggio, Rosaura Topelberg, Pascual Indarte e l’irrisolto Ramón Otero. Rosaura esclamò: - Sembri un fauno, Rafael, un fauno dell’interno.

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- Già me l’hanno detto che ho un’aria da provinciale, - ri­ spose. - Certo che ce l’ha, - disse Otero. - Non è altro che un fauno come si deve. Le donne mi hanno raccontato che le fa diventare pazze. - Loro ci fanno diventare pazzi, - rispose Urbina. - So­ no i nostri demoni. Durante il giorno bisognerebbe tenerle chiuse nella stanzetta che gli indios chiamano zenana. - Cattivo! - gridò Rosaura e lo guardò con adorazione. I capelli di Rosaura sembravano di paglia; una paglia qua­ si argentata che si scuriva vicino al cranio. Le ciglia, artifi­ ciali, erano molto lunghe, le unghie di un rosso vivo, anch’esse lunghe, la statura, bassa; camminava eretta, con la testa reclinata all’indietro e con una mano nella cintura; fu­ mava interminabilmente, con trenta centimetri di bocchino nero. Aveva un diploma di insegnante di danza classica, la­ vorava come vetrinista per una catena di negozi e per tutto questo si era imposta come la persona adatta per disegnare la copertina della rivista che il gruppo avrebbe pubblicato prima o poi. Discussero, come sempre, del progetto della rivista (la cui particolarità invariabile, attraverso infiniti dialoghi, era l’e­ sclusione dei sonetti) e bevvero birra. Alle nove uscirono; Indarte e Otero si allontanarono con automezzi su cui salirono all’angolo della strada; a Rosaura, Urbina domandò: - Vuoi passeggiare un po’ ? - Volentieri. - Vai all’Once? Bene, ti accompagno fino a Corrientes. Camminarono per un tratto in silenzio; all’improvviso Ur­ bina sentenziò: - La vita non è drammatica (la vita non è questa o quella cosa) ma vi sono persone che rappresentano, sul soggetto del­ la vita, un dramma. Ci fu un altro silenzio; Urbina lo interruppe con l’osser­ vazione: - E facile lasciarsi confondere. E facile innamorarsi. In­ namorarsi, no: comportarsi da innamorato. Parlò molto. Con Flora e con Rosaura parlava sempre

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molto. Il suo ruolo, cosi sincero, di ragazzo porteno, incre­ dulo e taciturno, che sembrava dedito alle donne, lo riserva­ va senza dubbio a donne ideali. Avevano oltrepassato Corrientes; stavano arrivando all’Once. - Flora non vuole che vada nella sua villa. Cosa ne pensi ? E possibile che abbia un amante e che tema che io lo scopra ? Nasconde qualche segreto? Ci sarà un idiota in famiglia? - Si saprebbe, - osservò Rosaura. - O saranno, piuttosto, pregiudizi... Cosa ne pensi? Avrà vergogna di me ? - Sarebbe bene, - esclamò Rosaura. Si trattenne, spa­ ventata. Le sue parole avevano rivelato la sua avversione per Flora. - Non temere, Rosaurita, - assicurò Urbina. - Chiarirò tutto. Se non lo faccio, una parte della mia vita non avrà sen­ so. Il peggio è che Flora, con o senza i suoi misteri, non mi attrae già più. Siamo arrivati. Ti lascio. Ciao. - Te ne vai ? - domandò Rosaura. - Te ne vai cosi presto ? - Presto? In casa mia si mangia alle nove e mezzo. Senza notare lo sconforto della ragazza, corse verso un taxi. Arrivò a tavola mentre servivano il dolce e, anche se gli servirono tutti i piatti, mangiò appena. - Non è un miracolo se non ha fame, - dichiarò grave­ mente suo padre. - Passa il pomeriggio al bar, a bere birra. - E ogni tanto - osservò la madre - vi aggiunge una taz­ za di caffè nero e un sandwich. Che intruglio! Che stomaco questi giovani! I suoi genitori lo avevano sempre ammirato e rispettato, ma quanto al mangiare (bisognava alimentarsi a ore fisse e bene) e al dormire (sonni lunghi e ristoratori) erano rigorosi. Non dormi per tutta la notte. Nelle sue riflessioni, l’au­ tista crìollo e la povera Rosaura assunsero carattere incon­ trastabile di demoni. Come aveva fatto a raccontare a Ro­ saura questioni che riguardavano soltanto Flora e lui? Co­ me aveva permesso che Rosaura esprimesse il suo giudizio su quelle questioni ? Come aveva accettato che lo chauffeur, un malavitoso della peggior specie, parlasse irrispettosamen­ te di Flora? L’indomani stesso avrebbe cercato quell’uomo e gli avrebbe detto ciò che pensava di lui. Ma come trovarlo

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nell’immensità di Buenos Aires ? La discussione, se fosse riu­ scito a trovarlo, sarebbe stata indubbiamente spinosa e la sua irritazione tardiva, ridicola. Era evidente: secondo un desti­ no che cominciava a riconoscere come suo, avrebbe colpito la persona più debole, Rosaura. E per quanto odiasse Rosaura e lo chauffeur, non poteva negare che non avevano nessuna colpa. Ognuno è responsabile dei suoi demoni, concluse (an­ notò la frase negli Appunti per un diario intimo}. La situazio­ ne poteva avere uno sbocco: correre al Tigre, implorare il per­ dono di Flora. Uno sbocco, rifletté, che dava su una porta chiusa: Flora non lo avrebbe lasciato entrare. In realtà, lui non si doveva tormentare; aveva commesso degli errori per­ ché Γ imperdonabile comportamento di Flora lo aveva tur­ bato. Non c’era nessun mistero; era inutile cercare un idio­ ta nella famiglia, un amante; avrebbe trovato soltanto una ragazza maleducata e, forse, isterica. Il sollievo che gli ven­ ne da questi argomenti fu nullo. Il giorno seguente non era meno afflitto; questo implaca­ bile osservatore della vita e di se stesso, questo letterato, si abbandonò all’infelicità della nostalgia e dell’attesa; pensa­ va a Flora, pensava al telefono, rinviava una chiamata nel Ti­ gre, che non si decideva a provare, desiderava ansiosamente una chiamata dal Tigre, che non arrivava. Una sera senti la cuoca pronunciare la frase incredibile: - Signorino, la sua ragazza al telefono. Si precipitò all’apparecchio, per ascoltare, senza capire, la voce di Rosaura, che gli domandava perché non andava più al Summus. Non andava in nessun posto. Non vedeva nessuno: né gli amici né i personaggi mondani. «E successo l’inverosi­ mile, - si disse. - Sono innamorato». Non si sentiva più a suo agio, era inquieto, un po’ malato, magro e pieno di occhiaie. Una mattina gli venne voglia di scrivere. Mormorò: «Un gallo a Esculapio. Un sacrificio alla musa. Arde ancora il fuo­ co votivo». Cercò un tema. Continuò a parlare con se stesso: «L’ho vista: non c’è stata più tranquillità né ordine. Posso soltanto pensare a lei». Apri il quaderno e scrisse il brano che un critico descrive nel numero di «Inicial» dedicato a Urbi­ na come Yhai-kai più straziante, e che un altro paragona a un diamante scuro.

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Giardino perduto, sabbia, vento, nulla. Ti ho conosciuto.

Da quel momento non tardò a riprendersi. Lavorò tutti i giorni, dormi bene, mangiò con appetito, si rifece vivo al Summus e una sera andò al cinema con Rosaura. Il trionfo di Rosaura potè essere completo; nella maniera in cui Urbi­ na parlava e la guardava non vi era forse un’eco sentimenta­ le ? Il film - Rosaura doveva averlo previsto quando aveva letto sul manifesto i nomi degli attori, Marie Prévost, Har­ rison Ford e Franklin Pangborn - era una commedia, e que­ sto fu la sua perdizione. Con quel miscuglio cosi maschile di propensione per gli spettacoli puerili e di insensibilità, Urbi­ na non solo segui il film, ma arrivò all’eccesso di ridere ru­ morosamente. Rosaura, che si offendeva con rapidità, aveva imparato, nel suo rapporto con Urbina, a dominarsi, ma poi­ ché tutto ha un limite, quella sera esclamò: «Non posso più sopportare tutto questo», si alzò e se ne andò. «C’è qualco­ sa in me che le esaspera o sono tutte uguali», pensò Urbina. La mattina seguente Rosaura telefonò per chiedergli scusa. In una calda sera d’ottobre, qualche tempo dopo, a Barracas, in un ristorante con i patios, con i pergolati, con le pe­ sche, con i campi da bocce, con il giardino, Urbina divise con una folla eterogenea (tra cui avrebbe scoperto - lo intuì sin dall’inizio - Flora) carne, pane secco e vino rosso in onore di un illustre ospite della nostra società, il professor Antonescu, matematico rumeno, che aveva impugnato Einstein e che, negando la velocità della luce, aveva annullato, secondo le parole del cronista di «Critica», l’esperimento di Michelson e Morley e, per inciso, aveva demolito «quell’ingrato monu­ mento, la teoria della relatività». Il ristorante era una costruzione bassa, con tre patios dal pavimento di terra battuta, su cui davano tutte le stanze; in queste, l’intonaco delle pareti era, in parte, caduto, e il sof­ fitto era di legno imbiancato a calce. La tavola del banchet­ to, lunga e stretta, si prolungava, interrompendosi alle pare­ ti interne, dal salone anteriore fino a una stanzetta dell’ulti­ mo patio. Quando ormai gli avevano assicurato un posto a

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sedere nelle vicinanze del matematico rumeno, tra Otero e il dottor Sayago, Urbina scorse nel secondo salone, in una zo­ na più frivola e decorativa, Flora. Il cuore gli batté violente­ mente; si domandò se dopo mangiato avrebbe parlato con lei e dovette ascoltare il rumeno che, in modo laborioso, gli co­ municava, nella sua lingua mista, l’intenzione di visitare, nel corso della settimana, Cordoba, Tucuman e Rosario. - I porti mi affascinano. Quello di Rosario ha un gustoso colore locale ? Otero e Urbina improvvisarono qualche risposta. In tono scettico, il rumeno assicurò: - In ogni porto, le stesse barche, gli stessi bar, gli stessi moli, gli stessi marinai. Otero intervenne. - A proposito, - disse, - in un mio libro di racconti, inti­ tolato Fisherton, cercherò e troverò elementi universali nelle manifestazioni più rigidamente locali. Non bisogna prescin­ dere dal mondo e rinchiudersi in provincia; aprire la provin­ cia al mondo, ecco la mia formula. - Chi ha visto un porto, - replicò il matematico, ormai ir­ ritato, - ha visto tutti i porti. Con il pretesto di porgere un vassoio di panini al dottor Sayago, che si rivelò particolarmente vorace, Urbina si alzò dal suo posto e, passando davanti alla porta, guardò Flora; aveva un vestito bianchissimo e, sulle spalle, uno scialle gial­ lo; l’indiscutibile tranquillità della ragazza, che era come l’au­ reola naturale della varietà della sua bellezza, persuase Urbi­ na che doveva dimenticare l’episodio del taxi e le contrastanti intenzioni di scusarsi e di interrogare. «Essere, - mormorò, - solo essere vicino a lei: questo mi basta». Flora gli sorride­ va con dolcezza materna (per motivi più o meno legittimi, al suo fianco Urbina si era sentito sempre puerile, nel corpo e nell’anima); finse di non vederla, tornò al suo posto, bevve un bicchiere di vino. Come ebbe voglia di avere il coraggio di alzarsi di nuovo e di correre verso Flora! Si disse che il mondo delle donne - oppressivo, indefinito, psicologico, in­ sano, prolisso - non conveniva alla salute di quella nobile pianta, la mente del maschio, e riprese la discussione sul co­ lore locale dei porti, durante il cui svolgimento qualcuno -

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Urbina o Antonescu - citò la propria predilezione per radersi dal barbiere. Entrambi manifestarono, immediatamente, la stessa autentica animazione; cordiali, si scambiarono opi­ nioni e scoprirono, poco per volta, un’affinità su quanto ri­ guardava barbieri, rasoi, saponi, temperatura dell’acqua, e cosi pure altri punti della stessa materia, e ciò li sorprese. Quando cominciarono a parlare gli oratori ufficiali dovette­ ro far silenzio. Con il pretesto di fuggire dal terzo discorso - per ascol­ tarli, le persone si erano affollate nel salone -, Urbina pas­ sò nell’altra stanza, prese una sedia e andò a sedersi di fron­ te a Flora. - Come stai? - domandò sorridendo. Negli occhi verdi della sua amica sorprese una strana luce; allarmato, assunse il tono bonario, un po’ offensivo, con cui parliamo agli in­ fermi, soprattutto ai pazzi: - Qui l’ambiente è meno ag­ ghindato, - sospirò. - Mi sento più a mio agio. Da parte sua, Flora sorrise con quell’aria incantata e as­ sorta con cui la gente entra, salutando, in una festa; in mo­ do che solo Urbina potesse sentirla, parlò con voce estremamente bassa: - Mi sei mancato molto. Non mi abbandonare. «Cos’è questa roba? - pensò Urbina. - Di nuovo alla ca­ rica, come se non fosse successo nulla». Non si sarebbe la­ sciato catturare. - Sono contento, - affermò. - Lavoro molto. - Dobbiamo parlare. «Dobbiamo? - ripetè, fra sé, Urbina. - Non credo». Flo­ ra insistette: - Dobbiamo parlare. Voglio che tu venga alla villa. Ti sup­ plico: non abbandonarmi. Se mi abbandoni (lo so che è orri­ bile dirlo, e ti chiedo perdono) sono capace di fare qualun­ que cosa. - Non dirlo, - mormorò. Tornò nel salone anteriore. Il matematico, leggendo un foglietto di carta, ringraziava per i discorsi; quando, final­ mente, concluse, si formarono vari gruppetti di persone. Ur­ bina pensò che ormai era stufo di donne e di stranieri, e si avvicinò al dottor Sayago. Questi, impegnato a raccogliere

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le briciole di pane sparse sulla tavola, le mangiava, con una scrupolosa bocca da scoiattolo, e parlava di teatro. - Il teatro non esiste, - dichiarava. - Qualche scena di Shakespeare, le commedie di Shaw: non c’è altro. - E Aristofane? E Plauto? - domandò Otero. - La gente conserva tutto, - replicò Sayago. - L’archivio è una passione più forte dell’amore! Il teatro, come l’orato­ ria e il giornalismo, non sopporta l’attacco del tempo. Gli au­ tori non scrivono per l’eternità, e neanche per la lettura; cer­ cano effetti immediati. «Che schifo la pedanteria», si disse Urbina e sospirò per Flora. Pensando: «Speriamo che le sia passato il momento brutto», si affacciò nell’altra stanza: il posto di Flora era vuoto. Decise di non perdere la serenità. In un attimo per­ corse tutta la casa. Non vide Flora. L’avrebbe cercata con metodo, lungo i tavoli e per i corridoi, attraverso i patios, sotto il pergolato, nella vigna. Gli amici lo trattenevano. Gonzalez, il figlio del vate di « Caras y caretas», promise di aiutarlo nella ricerca. - A patto - dichiarò - che prima ci raddolciamo con que­ sti due bicchieri di anice. Aveva, uno per mano, due enormi bicchieri, di quelli che si usano per il cognac-, senza sapere perché, Urbina accettò quello che gli offrivano e bevve, d’un fiato, tutto il conte­ nuto; era, effettivamente, anice, e dei più dolci. La gente si era riversata nella vigna; con voce cortese e dolce, un chi­ tarrista decrepito cantava:

Il senor don Antonesco è gaucho, anche se di altre terre; vita, non mi lusingare quando mi vuoi lasciare. - In questi versi, - osservò il figlio del vate, - la costa e la pampa si stringono la mano. - Cerchiamo Flora, - disse Urbina, sforzandosi di non perdere la calma. La cercarono tra la gente che si era riunita li; la cercarono nell’interminabile successione delle sale da pranzo; la cerca­ rono nel giardino dell’ultimo patio, dove fecero spaventare

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una coppia che si stava amando su una panchina. «Per man­ canza di immaginazione attribuisco tutto alla storia, - rifletté Urbina. - In un momento succedono le cose, le persone pren­ dono le loro decisioni». - Ti presento Adelia Scarlatti, - disse Gonzalez. - Ele­ mento giovane del gruppo Cosmorama. Era una ragazza molto magra, con un viso immenso, in­ cipriato e carnoso. Urbina le domandò di Flora. - Quella è mezza, - rispose la donna, e completò la fra­ se toccandosi con un dito la fronte. - Mi sono detta: la vo­ glio proprio studiare, e non le ho tolto gli occhi di dosso. Le riassumo la traiettoria: prima ha parlato da sola, poi ha agitato la borsetta, poi è scoppiata a piangere, poi se n’è an­ data di corsa. Parlando a un altro gruppo, il dottor Sayago diceva a vo­ ce decisamente alta: - Un cambiamento rapido e continuo di situazioni molto teatrali: ecco la cosa fondamentale. Senza congedarsi da nessuno Urbina usci dal ristorante; camminò per circa cinquecento metri in strade sconosciute e in un viale largo e desolato prese un taxi, che lo portò alla sta­ zione di Retiro; da li, con il primo treno, parti per il Tigre. In qualche momento il coraggio gli veniva meno. Immischiarsi nella vita degli altri non aveva mai dato buoni risultati. Poi rifletté: «Se c’è una possibilità che Flora commetta una scioc­ chezza, devo impedirlo». Come faceva a essere cosi sicuro che Flora fosse tornata alla villa ? Pensò che la ragazza non si sarebbe gettata nel fiume perché sapeva indubbiamente nuo­ tare, né sotto un treno, perché era troppo atroce. Queste con­ getture lo rattristarono. Nella strada dalla stazione del Tigre a La Ginestra corse e, quando non potè più correre, camminò velocemente. Si sarebbe detto che la luce della luna avvolge­ va la villa in un vapore d’argento. Trovare la porta chiusa, bussare e non avere risposta, era una situazione che aveva previsto con inquietudine, ma trovando la porta aperta rab­ brividì, come se avesse visto la conferma delle sue paure. Entrò in quella casa. Anche se vi era stato una volta sola, si avventurò decisamente attraverso l’oscurità dei saloni, fino a che un muro, che sembrava interminabile, lo fermò. Andava

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a tentoni, con ansia, quando credette di riconoscere, in un suono di voci lontane, quella di Flora; trovò una porta e con­ tinuò a camminare; allora senti qualcosa che lo atterri: «Stan­ no schiacciando un ratto», si disse; la verità è che senti alcu­ ni stridii, come fossero quelli di un ratto nel pieno della furia. Riuscì a dominarsi e finalmente arrivò al vestibolo delle scale. Come nella sua prima visita, la luce veniva da sopra. Sali. La scena continuò, per un’indimenticabile frazione di mi­ nuto, come se non vi fossero testimoni. Gli attori erano as­ solutamente calati nella situazione. Ricorderete quella stan­ za enorme, con le porte e gli armadi grigi e, a un’estremità, l’alta poltrona di paglia, la poltroncina, il tavolo di legno, e all’altra estremità lo specchio monumentale, circondato di tendaggi viola. Contro lo specchio, come contro un fonda­ le, con il vestito bianco, con lo scialle giallo che muoveva co­ me ali fantastiche, Flora, da sola, in piedi, con le braccia al­ zate, esclamava: - Per favore, basta con il melodramma! In quell’istante la scena s’interruppe. Un oggetto, che era quasi a livello del pavimento, cadde. Urbina vide che era lo scettro a due punte, che già conosceva. Dal punto esatto in cui era caduto lo scettro, un animaletto scuro e veloce fuggi sotto i tendaggi viola, parallelo al muro, in direzione di una porta socchiusa. Come chi sogna, Urbina pensò: «Il ratto che strideva». Tutto quello che accadde poi sembra l’argomento di un sogno o di un incubo. - Rafael! - gridò Flora, con un tono che poteva essere di sollievo o di contrarietà. - Rafael! Con lentezza, pesantemente, si avvicinarono, si trovarono e ognuno rimase nelle braccia dell’altro; poi, abbracciati, cam­ minarono, quasi trascinandosi, verso la poltrona di paglia, do­ ve Flora, obbedendo a un’indicazione di Urbina, si sedette. - Finalmente sei venuto! - esclamò, sospirando. Urbina si inginocchiò accanto a lei, le baciò una mano e la strinse fra le sue. - Devo spiegarti tutto, - annunciò Flora. - Anche se mi costerà caro. Tutto, tutto. Anche se è inutile, visto che già lo sai. Lo hai indovinato. Urbina si domandò cosa doveva avere indovinato. Si do­

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mandò anche quale espressione doveva adottare perché Flo­ ra, senza comprendere la sua ignoranza, continuasse a spie­ gare. La guardò in silenzio, con aria grave. - Bisogna chiudere li, - disse Flora, già più serena, indi­ cando la porta socchiusa. - E capace di stare ad ascoltare. Urbina chiuse la porta e, mentre stava per inginocchiarsi di nuovo, si sedette sulla poltroncina. Nel compiere questo atto di basso egoismo pensava con animo generoso. Era de­ ciso a essere comprensivo. Amava Flora. Se avesse sospetta­ to un segreto malvagio si sarebbe allontanato, per non cono­ scerlo. Rimaneva li perché Flora non poteva nascondere nul­ la di ignobile. Non la conosceva, forse ? Non conosceva la sua bontà, la sua delicatezza, la sua rettitudine? E, quale che fos­ se la rivelazione, replicare implacabilmente non sarebbe equi­ valso a un vile tradimento? - E capace di qualunque cosa. E perfido, - commentò Flo­ ra, sorridendo. - Io gli ho detto quanto ti amo. Deve rasse­ gnarsi. Lo capisce, lo accetta, perché è molto intelligente. A un tratto si accorge di non poter competere con il suo istin­ to e si ribella. So che non gli devo permettere gesti impulsi­ vi, ma mi fa pena. Vedessi come soffre! - E orribile che qualcuno soffra a causa di un altro, - dis­ se Urbina. Non sapeva neppure lui se parlava con ipocrisia o con sin­ cerità. - Hai ragione. Sei molto buono. Ma bisogna difendersi. Con Rudolf bisogna difendersi. Mangia quello che gli dài sul­ la mano, e poi mangia la mano e il braccio. «Si chiama Rudolf», pensò Urbina. E «perché gli danno da mangiare sulla mano, come se fosse un uccello ?» Disse ad alta voce: - Se è tanto cattivo, bisogna difendersi. - Non è tanto cattivo. Magari è anche buono. Al suo po­ sto, come saremmo noi? Non lo so. - Neanch’io, - ammise Urbina. - L’hai sentito ? Come gridava ! Io gli dico che quando si arrabbia stride come un ratto. Ha una voce cosi graziosa! Gli vado a portare lo scettro. Se impugna lo scettro, il suo umo­ re migliora. In certe cose è meschino, puerile.

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Nel dire tutto questo, Flora non condannava; commenta­ va con simpatia, con sorridente dolcezza. Si alzò, raccolse lo scettro, poi usci dalla stanza. Quando tornò, disse: - Vuole vederti. Si vuole scusare. Senza parlare, Urbina s’incamminò verso di lei, e Flora lo trattenne. - Sai com’è? - Credo di si, - rispose Urbina. Entrarono in una stanza dove non c’era nulla. Flora disse: - Vuoi aspettare un minuto, mentre l’avviso che lo vuoi vedere? Questo è lo spogliatoio di Rudolf. Quella era una stanza dei trofei. Su una parete erano in­ crociati un remo, un mauser e un fucile fuori dal comune. Su un’altra erano appese le considerevoli teste di un cinghiale, di un bufalo, di un rinoceronte, di un cervo e di una zebra. Vi erano anche racchette da tennis e pattini, pistole da duel­ lo, sciabole, spade e ancora frecce, archi, scudi e lance dall’a­ spetto rudimentale, rozzo e feroce. Coppe d’argento si alli­ neavano sul camino e, in una vetrina, risplendeva una com­ plicata cintura, che sembrava uno di quegli apparecchi elettrici o radioattivi, dalle proprietà rinvigorenti, che anni addietro avevano invaso tutti i negozi, ma che più probabilmente do­ veva essere l’emblema di qualche trionfo atletico. Su una scri­ vania c’era una pietra nera, ricordo di qualche escursione in montagna. Urbina si avvicinò a una specie di inginocchiatoio coloniale, trasformato in uno specchio a dimensione d’uomo, con mensole ai due lati. Le mensole esibivano fotografie di donne con quell’aria da prostitute ingenue che hanno le at­ trici dei primi tempi del cinema e le cantanti d’opera. Gli in­ sinuanti volti erano attraversati da righe manoscritte, testi­ monianze d’amore in molte lingue. Annie datava il suo ricor­ do da Vienna, Olivia da Bournemouth, Antonietta da Ostia, Ivette da Nizza, Rosario da San Sebastian, Catherine da Pa­ rigi e altrettante da Berlino, Lipsia, Baden Baden. Il periodo, per tutte, era 1890-99. Le fotografie di un uomo superavano tutte queste in quan­ tità e in varietà; con severe cornici d’argento, con compli­ cate scritte in caratteri gotici, facevano la storia di una vita: il bambino (già si scorgeva il volto violento e dispettoso) a

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Baden Baden, insieme a vaghe figure di un’altra epoca; lo studente (nel volto, più violento, quasi disgustato, appari­ va la prima cicatrice) in posa con il tipico berretto e la scia­ bola levata in alto, nella birreria Thüringer Hof, e mentre pattinava trionfalmente nella Rosplatz di Lipsia; il giovane dandy che frustava il cavallo nella corsa dei gentlemen riders, a Dresda, e in un bosco, mentre cantava con la società co­ rale di geologi e antropologi (senza dubbio, quest’ultima era una fotografia di gruppo, ma forse per l’inquadratura o per la travolgente personalità del soggetto, sembrava una foto­ grafia del giovane dal volto violento e dispettoso, circon­ dato da un gruppo di comparse evanescenti); il viaggiatore, che guardava con ardore, con una seconda cicatrice sul vol­ to, dalla coperta di una nave, vicino a un salvagente con la scritta: Clara Woermann - Woermann Line-, il dongiovanni, che sorrideva arrogante mentre stringeva una ragazza alla cintura, una ragazza un po’ rachitica che lottava per libe­ rarsi e rideva; il cacciatore in Africa, con il piede su un bu­ falo abbattuto... Urbina era cosi assorto nella contemplazione delle foto­ grafie che senti Flora solo quando la ebbe accanto; allora, co­ me se l’avessero sorpreso in un’azione infamante, si alzò bru­ scamente. Flora gli disse: - Quelle foto di gioventù sono l’orgoglio del povero Ru­ dolf. Io, secondo lui, non le guardo mai. E cambiato cosi tanto che è un’altra persona! - Dopo una pausa, aggiunse: - Vuoi entrare? Urbina entrò nella stanza da letto di Rudolf. E vero che l’ambiente era immerso nell’oscurità - dall’alto di una cre­ denza, un’anfora di ferro, trasformata in lampada, coperta da un paralume di vetro azzurro, irradiava una luce molto debole -, ma non è meno vero che Urbina credette subito che li non ci fosse nessuno. Su una parete pendeva un qua­ dro, un ritratto a olio, con una grande cornice dorata. I mo­ bili non erano tanti, ma forse per la loro grandezza, e per la loro importanza, sembravano eccessivi per quella stanza. Ol­ tre alla credenza, vi erano un armadio con gli specchi e un’a­ quila di legno incisa nella parte superiore, due sedie gotiche, tedesche, un letto con baldacchino e colonne, un comodino.

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Il letto era coperto da una pesante pelle scura, con peli gros­ si e lucenti. Finalmente, in mezzo al pelo nero, lo scorse. Quando lo vide, Urbina provò una commozione assai for­ te (ma non più forte che se avesse trovato nel letto un grosso topo). Rudolf era un omino molto piccolo; veramente picco­ lo: un palmo di statura; cioè, le dimensioni delle mummie ri­ dotte degli jibaros erano, all’incirca, le stesse. Quanto all’a­ spetto della pelle, dei capelli e degli occhi vi era una notevo­ le differenza con le mummie. In queste, la pelle è inaridita, nerastra - come credo -, quasi calcinata, i capelli opachi e gli occhi spenti. Gli occhi di Rudolf sembravano emettere lam­ pi di orgoglio, i capelli erano tagliati a zero e la pelle aveva la tonalità, un po’ lustra, del cuoio grezzo ammorbidito dal­ l’uso di molti anni. Urbina disse che Rudolf gli ricordava (no­ nostante il ridicolo vestitino che indossava) il manico di una vecchia frusta; un manico di frusta con la faccia da fauno; in effetti, nel disegno degli occhi, del naso, della bocca, credet­ te di cogliere un’espressione faunesca, per niente divina, ma piuttosto rozza e terrena. Gialli, feroci, i denti brillavano tra labbra di colore rosso vivo. Le cicatrici presenti nelle foto­ grafie dello spogliatoio gli segnavano con due angoli le guan­ ce. Rudolf era seduto, in atteggiamento quasi maestoso, tra i peli della coperta; con la mano destra teneva lo scettro. Per pudore, Urbina non lo guardava direttamente, ma attraverso lo specchio dell’armadio. A un tratto si accorse che l’omino aveva lasciato cadere lo scettro e gli tendeva le braccia, chie­ dendo qualcosa. Senza bisogno di altre spiegazioni, come fos­ se un gesto naturale, Urbina gli porse, con qualche timore, un dito, l’indice. L’omino lo prese tra le mani e proruppe in stri­ dii simili a quelli che aveva sentito entrando in casa; dopo che ebbe ripetuto due o tre volte, Urbina lo capi: - Sans rancune, - diceva Rudolf, in un francese puerile ed eccessivo. Stettero un po’ in silenzio. Urbina avrebbe voluto parlare, dire una cosa qualunque, ma non sapeva cosa; continuava a guardare Rudolf attraverso lo specchio, temeva che gli ve­ nisse un crampo al dito, si chiedeva fino a quando sarebbe­ ro rimasti cosi. La risposta arrivò molto presto, sotto forma di un furioso morso al dito.

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- Tableau! - gridò Rudolf; rise forte, balzò sui peli della coperta, si gettò bocconi, cominciò a singhiozzare. Urbina senti un dolore molto acuto nella ferita; poiché era apprensivo, temette che i denti di Rudolf, notevolmente gial­ li, non fossero puliti; per fortuna il morso aveva colpito il pol­ pastrello, cosicché sanguinò abbastanza. - E il più cattivo di tutti, - commentò Flora. - Ti fa mol­ to male ? - No, - rispose, senza convinzione, Urbina. - Se avessi dell’acqua ossigenata, me ne metterei un po’, per fermare il sangue e disinfettare... Mentre gli applicava un pezzo di cotone con l’acqua ossi­ genata, Flora diceva a Urbina, in modo che Rudolf sentisse: - Il vantaggio che ti dà un gesto simile è che ti libera. Che obbligo puoi avere nei confronti di un signore odioso che ti assale come un animale ? - Perdonami, - supplicò Rudolf. - Perdonalo, - disse Urbina. - E inutile, - assicurò Flora. - Non può competere con il suo istinto. Ha tutti i difetti immaginabili e invece di cerca­ re di farsi perdonare, no, il signore, come se fosse Apollo o Giove, si sfoga con gesti ridicoli... - Non dire queste cose, - chiese Urbina. - Non avrete altre lamentele, - affermò Rudolf. - Mi com­ porterò bene. Lo spagnolo di Rudolf era eccessivo come il suo francese. - Non preoccuparti, - disse Flora, rivolta a Urbina. - Non può competere con il suo istinto. Fra due o tre giorni com­ metterà qualche altra sciocchezza e noi saremo giustificati se lo abbandoneremo, se ce ne andremo in un altro posto, a vi­ vere tranquilli. - No, no, - squittì Rudolf. - Questo no. Giuro che mi comporterò bene, che non ve ne potrete andare mai. Porta­ mi la pietra nera. Sdegnosa, Flora rispose: - Molto bene. Rafael conoscerà anche la famosa panto­ mima della pietra nera. Lui giura, giuriamo tutti, e un mi­ nuto dopo siamo alle solite. Flora portò la pietra nera che era nell’altra stanza e la

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mise sul letto. Urbina pensò che c’era qualche contraddizio­ ne tra questo gesto di obbedienza e le parole della ragazza, cosi dure con Rudolf. La mano destra di Flora si posò aper­ ta sulla pietra; Tornino vi mise sopra la sua mano, e Urbina la sua sopra a tutte. L’omino disse: - Ognuno giura di essere leale con gli altri due. Che il ca­ stigo per lo spergiuro sia nero come questa pietra. Non permise che si togliessero le mani fino a quando tut­ ti ebbero detto «giuro». - E come un bambino, - spiegò Flora. - Bisogna fare quel­ lo che vuole lui se no il signore si fa venire le convulsioni. Il ritratto a olio - adesso Urbina lo esaminò con una cer­ ta attenzione - rappresentava il signore con lo sguardo ar­ dente e le due cicatrici. L’artista, che si firmava H. J., ave­ va creato uno sfondo convenzionale, con un particolare ano­ malo che sconcertava: sul picco di una montagna, dipinta in modo realistico, volava un’aquila scopertamente allegorica: l’aquila imperiale tedesca. Urbina aveva capito con lucidità che la scoperta dell’o­ mino era forse l’episodio più straordinario della sua vita, ma poiché la fisiologia non intende ragioni e la giornata era stata lunga e faticosa, ben presto si ritrovò a non provare più interesse per tutto questo, neanche per Flora, occupa­ to soltanto dal peso interiore che gli chiudeva le palpebre: il sonno. Come nel pazzo, nell’uomo che si addormenta in pubblico c’è un po’ di astuzia. Urbina cercava di nascon­ dere il sonno e sognava scuse che gli permettessero di an­ darsene al più presto. Gli veniva in mente il letto come qual­ cosa di lontano, di irraggiungibile e di desiderato, come la patria per l’esule. L’indomani avrebbe avuto tutto il tem­ po per riflettere, per sapere cosa pensava di Flora e dell’o­ mino. Questi parlò: - Rafael ha sonno, - disse. - Si, - ammise Urbina. Un attimo di respiro, quello sufficiente a rimanere ancora un momento con gli occhi aperti, e poi se ne sarebbe andato, forse per non tornare mai più, portando con sé un’impres­ sione di realtà di questa scoperta, quasi magica o sovranna­ turale. Rifletté: «Bisogna battere il ferro finché è caldo, e

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non solo nelle scaramucce d’amore; in tutto. Ma io sono un maiale; un maiale preda dei sensi». Annunciò: - Vado a casa. E tardi. Flora lo guardò allarmata, e disse a Rudolf: - Vado ad accompagnare Rafael alla porta. - Vengo con voi, - gridò Rudolf, saltando in piedi sul let­ to e allungando le braccia, come un bambino piccolo, per far­ si tirare su. - Adesso siamo inseparabili. Ah, ah. - Aspettami qui, - replicò severamente Flora. - Vado da sola ad accompagnare Rafael. Rudolf raccolse lo scettro, si sedette di nuovo tra il pelo della coperta e, volgendo le spalle ai suoi interlocutori, di­ chiarò: - Rimango qui. Flora e Urbina uscirono dalla stanza da letto. - Sono preoccupata, - disse Flora, mettendo una mano sul braccio di Urbina (che, rapidamente, guardò verso la por­ ta della stanza da letto). - Con il mio orrendo segreto ti ho provocato una pena molto pesante. Non ho mai visto degli occhi cosi tristi ! Confondeva sonno e tristezza. - Il mio intuito di donna - aggiunse - mi dice che te ne vai per sempre. - Assolutamente no, - rispose Urbina. Voleva dare piena assicurazione, in modo che lo lascias­ sero partire. Insensibile alla sua fretta, Flora si mise a par­ largli di Rudolf. - Non temere, - cominciò. - Ciò che mi hai sentito dire è totalmente vero. Non può competere con il suo istinto. Domani o dopo commette una cattiva azione e noi ce ne an­ diamo. Non preoccuparti per il giuramento. Sarà lui il primo a romperlo. Non siamo legati per tutta la vita. Gli abbiamo perdonato il morso. Ci sarà un’altra occasione. Certo, quan­ do penso a ciò che ha passato, quel poverino, non posso fa­ re a meno di comprenderlo. Io, al suo posto, mi sarei suici­ data. Lui non si dà per vinto. Eccessi che in altre persone sa­ rebbero odiosi, come il morso al tuo dito, in Rudolf hanno qualcosa di francamente ammirevole. Bisogna riconoscerlo. - Lo riconosco, - disse Urbina, carezzandosi il dito. - Ma,

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in realtà, cosa gli è successo ? Chi è Rudolf ? Di sicuro non è il signore delle fotografie dello spogliatoio. - Certo che è lui. Le fotografie furono scattate prima del suo viaggio in Africa. - Quando è stato in Africa ? - Verso il 1900. Mi hanno spiegato che attorno a quel pe­ riodo la Germania sviluppò quella che Rudolf definisce sete di colonie. Lui, per puro spirito di avventura, si arruolò nei servizi segreti. Lo mandarono in Africa con quella nave cosi carina della Woermann Line: tutte le navi di quella compa­ gnia avevano un nome di donna. Qualcuno ha detto, dopo, che sarebbe stato più prudente viaggiare su una nave ingle­ se della P. and O. Rudolf risponde che lui non discute con persone prive di orgoglio patriottico. Lo mandarono in Ugan­ da, che era nelle mani degli inglesi. Li conobbe sir Harry Johnston, un omino di statura inferiore al normale, una per­ sona estremamente energica e sempre pronta a viaggiare, che aveva percorso l’Africa dipingendo quadri mediocri e con­ quistando territori per l’Inghilterra. Rudolf, senza allonta­ narsi dalla sua linea di spia dotata di orgoglio, organizzò un piano machiavellico e raggirò del tutto il povero sir Harry, che lo condusse con sé, come accompagnatore, nella spedi­ zione. Scoprirono la giraffa con cinque corna e sir Harry tornò senza novità, forse a causa del suo famoso tatto nei confronti dei negri, ma Rudolf rimase in un villaggio di pig­ mei, che senza discutere lo ridussero come hai visto. - E tu come l’hai conosciuto? - domandò Urbina. - Rudolf trascorse un periodo piuttosto duro tra i pigmei. Anche se hanno raggiunto dei risultati che la medicina euro­ pea invidia, non credere che siano persone molto raffinate. Per ridurre Rudolf in quel modo, gli applicarono un tratta­ mento che era un miscuglio di crudeltà, di superstizioni as­ surde e di profilassi francamente discutibile. Io gli dico sem­ pre che è indistruttibile ed è per questo che è sopravvissuto. Quando altri esploratori, anni dopo, esibirono in Inghilterra sei pigmei, la gente non riusciva a trattenere le risate. Imma­ gina cosa dev’essere cadere in mano ai medici e agli stregoni pigmei. Finalmente, Mary Thornicroft, che aveva accompa­ gnato suo marito in una spedizione attraverso i boschi del-

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l’Uganda, lo riscattò. Il poveretto stava cadendo dalla padella alla brace. Mia madre e io l’abbiamo conosciuto in casa di Mary, a Grasmere. Nel viaggio di ritorno stavamo quasi per perdere la testa con quella montagna di bauli. A tutto quel­ lo che avevamo comperato noi, dovemmo aggiungere i trofei di caccia, le armi, le fotografie, addirittura i mobili di Ru­ dolf; ma non me ne pento; oggi vedo in tutto questo un’e­ spressione del suo carattere, pieno di difetti, indubbiamen­ te, ma molto affascinante. Anche se era sicuro che gli avreb­ bero dato la Croce di ferro, Rudolf non volle mai tornare in Germania, incontrare la gente che aveva conosciuto prima. Per quanto ti possa sembrare incredibile, si vergogna a farsi vedere cosi. Forse perché lo hanno conosciuto quando era una persona normale... Chi può saperlo! In ogni caso, Ru­ dolf non è un vigliacco. Ha sofferto molto, ma non si la­ menta. Quel che gli è successo è una lezione, dice, che ri­ corderà per sempre. La lezione indimenticabile (pensò Urbina) era scritta, per chi avesse saputo leggerla, nella nobile innocenza di Flora, che non trovava nulla di comico nelle dimensioni di Rudolf. In verità, cosa poteva esserci di comico nel fatto che un uo­ mo avesse qualche centimetro, o un metro, che in quel ca­ so era la stessa cosa, di più o di meno? In simili circostanze la comicità era quella del tipo più grossolano, era la comi­ cità fisica, quella che spinge al riso il villano quando qual­ cuno cade per la strada o allorché passa uno zoppo. Pensò anche, Urbina, che lui non avrebbe mai raggiunto la leva­ tura morale di Flora e che era proprio delle personalità in­ feriori realizzare i loro propositi mediante gli stratagemmi, e che doveva trovare la maniera di andarsene, quanto pri­ ma, a casa sua. - Vado, - disse. - Rudolf starà soffrendo. Torna da lui. - Sei molto buono, - rispose Flora. Si lasciarono con un bacio sulla guancia. Nel treno che lo portava a Buenos Aires, Urbina desiderò tornare subito a casa, come in un rifugio, al riparo dalla cru­ dele intemperie del mondo, dove vi sono segreti, e nani or­ ribili, che ti odiano, e donne nobili, che ti perseguitano; de­ siderò molto vedere i suoi genitori - li immaginava assai lon­

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tani - e addormentarsi tra le lenzuola fresche del suo letto. Si mescolavano, nella sua fantasticheria, le immagini della sua casa e quelle della villa e, forse perché era stanco, vede­ va se stesso, come in un sogno, che parlava e gesticolava con enfasi quasi drammatica. Esclamava: «Che rivale ho! - sor­ rideva, muoveva la testa. - Ma, per quanto mi riguarda, ci si può fidare ben poco di me, come di Rudolf. Mi voltano le spalle e già rido dei sentimenti di Flora. Ciò che salva l’a­ more - ammettiamo che ogni amore è un po’ cieco, abba­ stanza ridicolo, troppo anti-igienico e intimo - è la purezza dei sentimenti. Esiste qualcuno più puro e delicato di Flo­ ra?» Subito gli venne in mente che forse era ridicolo avere un rivale cosi, ma che era anche vantaggioso. Bastava che tutt’e due stessero li, il tempo avrebbe determinato il con­ fronto e, anche se Rudolf si fosse comportato come un bam­ bino modello, v’erano ben pochi dubbi su chi alla fine avreb­ be vinto. Con cinismo, e anche con l’istintivo timore che gli uomini hanno di prendere su di sé la responsabilità di una donna, a un tratto si domandò: «Ma vale la pena di vincere questo premio?» Poi, con meno cinismo, con più filosofia, si domandò se in assoluto valeva la pena vincere. Era ragione­ volmente sicuro di vincere. Arrivò a casa alle sei del mattino. I genitori lo aspettavano. - Ci hai fatto stare in pensiero! Guarda a che ora torni a casa! - disse la madre. - Come starai domani? - E già domani, - affermò il padre. - Avrai passato la notte con quella mascalzona, - disse la madre. - Con chi? - domandò Urbina, seriamente sorpreso. Non credeva che parlassero di Flora; pensava che non la conoscessero e che non potessero collegarla a lui in nessun modo. La madre lo disilluse: - Con quella Flora Larquier, - precisò. - Credi che non lo sappiamo. Lo sanno tutti. - Lo sanno tutti, che cosa ? - Tutti sanno che è pazza, - disse il padre. - Vuole met­ terti in ridicolo. Ciò che più lo fece arrabbiare fu la debolezza logica del­ l’accusa.

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Sdegnato rispose: - Come? Mi vuole mettere in ridicolo? Perché sarebbe pazzav Flora Larquier? Si può sapere? - E un ingenuo, - rispose il padre. - Perché? - insistette Urbina. - Perché non sai quello che tutti sanno, - spiegò la ma­ dre. - La tua Flora vive con un uomo che tiene nascosto nel­ la villa. Un cameriere o uno sguattero di cucina. - Che sproposito ! - Ne sa meno di tutti. E un ingenuo, - insistette il padre: - Quella Flora l’ha proprio intrappolato. Avrà saputo dell’e­ redità dello zio Joaquin. - Non sono un ingenuo, - protestò Urbina. - Flora non mi ha intrappolato. Io non mi ricordo neppure dell’eredità, Flora non ne sa nulla, e il cameriere non esiste. La madre lo interrogò: - Come, non esiste? Mi vorresti dire che in una casa di quella portata non c’è un cameriere? E un’avarizia terribile. - L’ha intrappolato, - disse di nuovo il padre. - Non mi ha intrappolato, - assicurò Urbina. - Mi ha da­ to una prova di fiducia che ben poche donne si azzardereb­ bero a dare. - Ammette che c’è un segreto, - disse il padre. - Un segreto? - ripetè la madre. - E quel cameriere. - Non è un cameriere. E un omino di questa grandezza, - rispose Urbina, mostrando la mano destra con le dita bene aperte. - Sei pazzo ? - gli domandò il padre. - Per carità, apri gli occhi, apri gli occhi. Ti ha fatto credere questo? - Non mi ha fatto credere niente, - rispose Urbina. - L’ho visto oggi. Si chiama Rudolf. Mi ha morso il dito. Qui ci so­ no i segni dei denti. - Ci hai messo l’acqua ossigenata? - domandò la madre. - E una donna perversa, - gridò il padre e poi scosse la testa con le mani. - E uno schifo ! - Bel rivale, - esclamò la madre. - Hai detto che è gran­ de come un dito ? - Questo è troppo atroce, - gemette il padre. - Nostro figlio, che si è laureato cosi giovane, in cui avevamo riposto

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tutte le nostre speranze. Come riderà la gente! Ma non stia­ mo sognando ? Grigi, spettinati, con le vestaglie, i suoi genitori non gli erano mai sembrati tanto vecchi. Urbina usci di casa, con il sospetto che il padre stesse piangendo. Era sicuro che erano rimasti tutt’e due abbracciati, al centro della stanza. Quando si ritrovò in strada, gli parve che il mattino si fosse scurito. Guardò il cielo basso, le case grigie, le persia­ ne chiuse, i bidoni della spazzatura allineati davanti alle por­ te. Pensò di aver trattato male i genitori; con quella pena, la stanchezza aumentò in modo prodigioso. Avrebbe chiama­ to Rosaura perché gli permettesse di dormire un po’ a casa sua. Rosaura gli avrebbe permesso quello e molto di più; ma oggi non avrebbe potuto sopportare il suo sguardo tenero. «Se telefono a Rosaura, - rifletté, - commetto un’indelica­ tezza nei confronti di Flora». Ricordò che Otero gli aveva detto che restava in piedi fino all’alba per studiare. Sarebbe andato a casa sua. Pensò subito che Otero gli aveva mentito e che lui gli avrebbe dovuto spiegare perché lo svegliava a quell’ora. Era convinto che il suo amico avrebbe trovato quel­ la situazione decisamente comica e avrebbe commentato in tono beffardo la «taglia» del rivale, i gusti di Flora eccetera. Si arrabbiò molto. Deluso dalla famiglia, nauseato dagli ami­ ci, si incamminò verso Retiro, dicendosi che il suo mondo era quello di Flora e dell’omino, proponendosi - poiché l’o­ nore esiste - di rispettare il giuramento pronunciato sulla pie­ tra nera. Con il primo treno parti per il Tigre. Sulla porta della villa, mentre aspettava che gli aprissero, si domandò con apprensione: «Sarò bene accetto?» Poi pen­ sò: «Non importa. Al punto in cui stanno le cose, non im­ porta. Il vero problema sarà evitare le chiacchiere e metter­ si subito a dormire». Flora apri la porta. Avvolta in una vestaglia celeste, con la bionda capigliatura un po’ in disordine, aveva sul volto e sul collo una luce d’oro; a Urbina parve estremamente bella. - Tu qui? - domandò Flora. - Ho litigato con i miei genitori. - Spero che tu non abbia detto nulla.

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- No, - si affrettò a mentire Urbina. - Si sono arrabbia­ ti per l’ora. - Hai ragione. E tardissimo. Non so cosa mi capita, ma sto morendo dal sonno. Devo dormire un po’. Dopo mi rac­ conterai tutto. Nell’immenso vestibolo del piano di sopra trovarono Ru­ dolf che passeggiava maestosamente sul pavimento, impu­ gnando lo scettro, come un re in miniatura. Nel suo porta­ mento c’era qualcosa di selvaggio e di feroce. - Sono qui, - disse Urbina, come per scusarsi. - Me ne compiaccio, - rispose Rudolf. Flora, aprendo una porta, disse a Urbina: - Per oggi ti metto qui. Vuoi una coperta? - Grazie, non c’è bisogno. Entrò in una stanza grigia, arredata soltanto con un diva­ no rosa. Si gettò sul divano. L’ultima cosa che vide furono quei colori, il grigio e il rosa, e cadde in un sonno profondo. Ebbe degli incubi: i suoi genitori piangevano, erano molto lon­ tani, non li avrebbe più rivisti; alla fine, con una felicità irre­ frenabile, in un sogno incontrò suo padre. Questi gli disse, con tono autoritario, che Urbina non gli conosceva: «Apri gli occhi, apri gli occhi». Appena apri gli occhi senti quel dolore atroce, l’oggetto incredibilmente pungente, la sensazione di freddo e di cal­ do. Atterrito, chiese aiuto. Senti la voce di Flora, che diceva sconsolata: - Gli ha conficcato lo scettro negli occhi. Poi tutto si confuse. Flora fece venire un medico da San Isidro, un amico di famiglia, il quale assicurò che non c’era pericolo che le ferite diventassero infette. - Ancora non mi sono abituato a non vedere, - spiegò Ur­ bina. - Mi sento vulnerabile. Ti confesso che ho paura di Ru­ dolf. - L’ho rinchiuso nella stanza di mamma. - Può scappare ? - Non credo. Flora non si allontanò quasi mai da lui, ma poiché aveva­ no deciso di andarsene in Europa, dovette lasciarlo di quan­ do in quando, per preparare il viaggio. Allorché rimaneva

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solo, temeva un attacco di Rudolf e, ancora di più, che Flo­ ra non tornasse. Il pericolo dell’attacco fu, finalmente, scon­ giurato: nelle sue ultime uscite, Flora rinchiuse Rudolf nel­ la sua borsa e lo portò con sé. Questo espediente, come Flo­ ra aveva potuto verificare durante quella passeggiata nel parco di Palermo e tante altre volte, aveva degli inconve­ nienti: nel corso degli inevitabili attacchi di collera di Ru­ dolf, la borsa, per quanto lei la tenesse con entrambe le ma­ ni, tremava, si agitava, faceva addirittura dei piccoli salti. Otero portò dalla casa di Urbina i documenti necessari per il viaggio e il libretto degli assegni. I genitori telefonarono alla villa; gli risposero che era partito, era andato a Rosario per tenere una conferenza all’Ateneo; Urbina voleva evita­ re che scoprissero che aveva perduto la vista. Avrebbe co­ municato loro la disgrazia dall’Europa, dopo averli prepara­ ti con qualche lettera che annunciava una malattia degli oc­ chi e la decisione di consultare un medico a Barcellona. In questa menzogna c’era una parte di verità, perché Flora sem­ brava sicura che quel medico potesse guarirlo; quello di San Isidro non aveva dato speranze. Alla fine si imbarcarono. La nave era piena di folla chias­ sosa e scortese. Urbina cercava di mostrarsi tranquillo; in realtà temeva di staccarsi da Flora e di rimanere solo tra la gente. L’orchestra di bordo aveva attaccato una marcia. Qual­ cuno lo spinse, lo allontanò bruscamente. Provò una paura improvvisa; gli parve che il petto gli si spezzasse dall’ango­ scia. La nave aveva cominciato il suo viaggio. Con il tempo, Urbina riuscì a contenere la paura, si abituò a stare da solo. Flora lo aveva lasciato per tornare dal suo omino. La prima domenica di navigazione, Urbina si fece con­ durre fino a una delle sale della nave, dove dicevano la mes­ sa. Il sermone trattò il versetto di san Paolo che dice: Chi sei tu per giudicare il servo altrui? Per il suo signore sta in pie­ di o cade.

Un’avventura

Credo sia stata Mildred a scoprire il posto migliore per prendere il tè. Adesso ricordo: era pomeriggio, camminava­ mo nel vasto e abbandonato parco di Marly, mi sono stanca­ to in maniera imprevedibile, ho sentito il sangue raffreddar­ si nelle vene e ho detto, in tono scherzoso, che una tazza di tè sarebbe stata provvidenziale. Mildred ha gridato e ha in­ dicato qualcosa al di sopra della mia spalla. Mi sono voltato. Dovevo essere molto debole, perché mi convinsi a pensare che per volontà della mia amica fosse sorto, in quel preciso momento, nel cuore del bosco, il padiglione de La Trianette. Pochi istanti dopo una ragazza, di nome Solange, ci ha ac­ compagnati al nostro tavolo, in un giardino minuziosamen­ te fiorito, incorniciato da un muro basso, scrostato, ricoperto d’edera, che sembrava molto vecchio. C’era poca gente. A un tavolo vicino conversavano una signora, circondata di bambini, e un prete. Da una delle finestre degli appartamenti sovrastanti si affacciava una coppia abbracciata, che guar­ dava languidamente in lontananza. E stato quello uno dei momenti in cui l’estrema bellezza della luce del pomeriggio glorifica tutte le cose, e un misterioso potere ci induce alle confidenze. Mildred, con una energia che mi divertiva, par­ lava di Interlaken e di quanto vi era stata felice. Affermava: - Non ho mai visto tanti begli uomini. Forse non erano arguti né complicati, ma erano persone più pulite, d’anima e di corpo, degli scrittori. Io dico alle mie amiche: State at­ tente agli scrittori, sono come i sentimentali di cui parla lo rammenti? - quello sciocco di Joyce. Non c’erano scrit­ tori a Interlaken: forse per questo l’aria era cosi pura. Pas­ savamo tutto il giorno fuori, sulla neve, al sole, e tornavamo

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a bere grandi tazze di fumante Glühwein, a mangiare vicino al fuoco dove crepitavano tronchi di pino. Ballavamo tutte le sere. Se ti dicessi che mi hanno baciata una sola volta, men­ tirei. Tu non lo crederai, e non lo capirai: erano persone pu­ lite d’animo. A farle la corte era Tulio, il più bello di tutti. Rispettoso e innamorato, si rassegnava ai rifiuti e si consolava descri­ vendo le feste che avrebbe dato per farla conoscere agli ami­ ci, se lei avesse accondisceso ad andare fino a Roma. Mil­ dred è tornata a Londra, al suo focolare e al marito. Come l’hanno accolta! Si sarebbe detto che per il colorito del viso di suo marito le vacanze di Mildred a Interlaken erano ri­ sultate nocive. Non l’aveva mai visto cosi pallido, né cosi malaticcio, né cosi collerico, né cosi preoccupato per dei pic­ coli problemi. Una bolletta non pagata aveva reso muto il te­ lefono. Non so quale guasto a un galleggiante aveva lasciato le tubature senz’acqua. La cuoca aveva bisticciato con la do­ mestica ed entrambe avevano abbandonato la casa. Il mari­ to ha formulato brevemente la domanda «Come sei stata?» per animarsi subito dopo con altre domande: Credeva forse che fossero miliardari ? Avevano speso tante sterline e tanti scellini in legna. L’avevano pesata? E tante sterline al mer­ cato. La cuoca portava via tutte le sere involti imbarazzan­ ti. Qualcuno aveva pensato almeno una volta a chiederle di mostrarne il contenuto? Di sicuro, no. Eppure, anche i pae­ si più arretrati impongono controlli alle frontiere. Chi non ha mai avuto in dogana qualche esperienza sgradevole ? La nostra cuoca, evidentemente. Cosa avrebbe mangiato lui sta­ sera? Non aveva importanza che lui mangiasse o no; l’im­ portante era che lavorasse alle bozze di Gollancz, cariche di refusi, e che pagasse i conti. Soprattutto che pagasse i con­ ti. Tre vestiti lunghi e una stola di code di astrakan, erano indispensabili ? Credeva forse che se lei non avesse parlato dei conti e li avesse lasciati a lui da pagare mentre a Inter­ laken se ne accumulavano altri ancora, tutto sarebbe stato dimenticato ? Nulla fu dimenticato. Il monologo si è concluso con grandi sbattute di porte e nel pomeriggio Mildred è pas­ sata dalla compagnia aerea e all’ufficio del telegrafo. La mat­ tina dopo è partita per Roma.

UN’AVVENTURA

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All’aeroporto c’era ad attenderla Tulio. In abiti da città sembrava un’altra persona; era rimarchevole la rapidità con cui aveva perduto l’abbronzatura. Mentre gli addetti si oc­ cupavano di valigie e passaporti, Tulio indagò: - Come vanno le pratiche del divorzio ? - Non ho fatto niente, non ci ho pensato. - Non tornerai da tuo marito, - promette Tulio, con de­ cisa tenerezza. - Metteremo tutto in mano a un avvocato della mia famiglia. Si darà subito da fare. Ci sposeremo quan­ to prima. Oggi stesso ti condurrò nella nostra proprietà di campagna. Dev’essere accaduto qualcosa nell’espressione di Mildred perché Tulio precisa in fretta: - Nella proprietà di campagna, vicinissima a Roma, poco più in là del lago di Albano, a una quarantina di minuti, a trentacinque con la mia nuova Lancia, a trentadue, vivrai in un ambiente familiare, insieme a buona parte dei parenti del tuo amore: la mamma, il babbo, il nonno, le sorelle e i fratel­ li, che vanno e vengono, la cugina carnale, Antonietta Loquenzi, che è fissa, per cosi dire, la zia Antonia, e l’allegra banda dei nipoti1. Hanno caricato le valigie e Mildred è salita sull’automo­ bile. - Non guardi che gioiello della meccanica? non ti com­ plimenti con il felice proprietario? - domanda Tulio, fin­ gendo di essere offeso. - Ti prego di darmi la tua approva­ zione. Non appena la porta è stata aperta, Mildred è scesa. - E molto nuova, - dice, e sale di nuovo. Tulio, mentre guidava, continuava a elencare dettagli tec­ nici: sistema di cambio, cavalli motore, chilometri orari. Do­ po un po’ le rivolge questa domanda: - Dimmi una cosa, amore mio: cosa ti ha fatto decidere di venire a Roma ? Anche se la domanda era prevedibile, lei non era prepa­ rata a rispondere. La verità è la cosa migliore, si disse; ma la verità non comportava il fatto di essere sleale con uno e scor­ Le parole in corsivo sono in italiano nel testo originale [N. d. TJ.

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tese con l’altro ? In quel momento un’auto li sorpassava; Tu­ lio pensava soltanto a raggiungerla e a lasciarsela alle spalle. Mildred concluse che doveva essere contenta perché le si concedeva un po’ di respiro; tuttavia, si sentiva alquanto of­ fesa. Dopo aver distanziato l’altra automobile, Tulio sorri­ dendo esclama: - Convinciti! Non ci sono rivali! Questa è l’auto della gioventù sportiva! Scese un lungo silenzio. Tulio domandò: - Di cosa stavamo parlando ? - Non lo so, - lei gli replica, seccamente. Mentre cercava una risposta - perché Tulio insisteva - si accorse che erano vicini al lago di Albano e che non doveva mancare molto per arrivare alla proprietà in cui aspettava la famiglia. Abbassando gli occhi, sussurra: - Preferisco che oggi non mi porti a casa tua. Puoi dire che arrivo, forse, domani, che non sono ancora arrivata. Bruscamente Tulio ferma l’automobile. - E... - balbetta, guardandola, - passerai la notte con me a Roma ? - E chiaro. - Grazie, grazie, - comincia a dire mentre le bacia le mani. Senza comprendere il fenomeno, Mildred si accorse che le mani le si bagnavano. Quando capi che Tulio stava pian­ gendo, si disse che le toccava commuoversi e gli diede il pri­ mo bacio affettuoso. Con evoluzioni spettacolari, quasi temerarie, intraprese­ ro il viaggio di ritorno, alla volta di Roma. - Andremo in un restaurant dove nessuno ci vedrà, - af­ fermò Tulio, riacquistando, dopo essersi asciugato le lacri­ me, la sua gradevole sicurezza virile. L’odore di cibo li accolse nella strada e divenne ancora più consistente all’interno della trattoria, che era piuttosto tra­ sandata. Tulio parlò al telefono con la famiglia. Seduta a tavola, Mildred lo aspettava pensando: Devo ringraziarlo di avermi portata qui. Vuole proteggermi. Non è come tanti altri che si divertono a esibire le loro amiche. Il mio piacere a farmi

UN’AVVENTURA

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esibire è proprio molto volgare. Quanto alla mia preferenza per la stanza da pranzo bianca e oro di un qualsiasi albergo piuttosto che per il bistrot più incantevole, è un capriccio da maleducata. Alla fine del pranzo Tulio chiacchierava animatamente, come se avesse qualcosa da rimandare a più tardi. - Andiamo ? - domandò Mildred, e le vennero in mente le ragazze che per le strade di Londra apostrofavano con in­ sistenza suo marito. - Certo, andiamo, - accettò Tulio, senza alzarsi in piedi. - Andiamo, ma dove ? - In un hôtel, - rispose Mildred, indaffarata con i guanti e la borsetta. - In un hôtel? In un albergo? - Certo. In un albergo. - E la tua reputazione ? - Stasera non m’importa nulla della mia reputazione, - di­ chiarò Mildred, cercando di mostrarsi allegra. Appena capi che Tulio voleva baciarle le mani, si sfilò i guanti; ma quando pensò che il suo amico avrebbe di nuovo pianto di gratitudine, gli disse, per distrarlo e perché non si ripetesse con hôtel l’esperienza del restaurant: - Voglio che tu mi porti nel miglior hôtel di Roma. Il più tradizionale, il più lussuoso, il più caro. Il Grand Hôtel. - Il Grand Hôtel! - esclamò Tulio, come se l’entusiasmo l’avesse travolto; poi domandò: - Cosa diranno quelli che co­ nosco se lo vengono a sapere ? Cosa diranno della mia pro­ messa sposa la nobiltà bianca e la nobiltà nera ? - Se ci sposiamo, - rispose Mildred, - tutto tornerà a po­ sto, e se non ci sposiamo mi dimenticheranno in fretta. - Ci sposeremo! - promise Tulio. Al Grand Hôtel, Mildred si arrabbiò perché Tulio non aveva chiesto stanze vicine e si trattenne a stento dall’intervenire nel dialogo con il signore in jaquette nera. Salirono al primo piano. Il signore con la jaquette li guidò per vasti cor­ ridoi fino a due stanze spaziose, molto belle, con vista sulla piazza dell’Esedra e sulle terme di Diocleziano. Lo stesso si­ gnore apri la porta che metteva in comunicazione un appar­ tamento con l’altro. Finalmente rimasero soli. Si affaccia­

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rono a una finestra. La bellezza di Roma la commosse e all’improvviso si senti felice. Con mano sicura, Tulio la con­ dusse verso l’interno della stanza. Quella prima e forse uni­ ca infedeltà di Mildred a suo marito fu delicatamente breve. Dopo l’amore Tulio si addormentò, come un bambino, si dis­ se Mildred, come un angelo, volle pensare. E adesso perché la invadeva quest’angoscia? Cercò di scacciarla: non era for­ se in Italia, con il suo amante? Cos’altro di meglio poteva desiderare? Se era sempre andata d’accordo con gli italiani, popolo ospitale e intelligente, che vive nello splendore della bellezza, perché non avrebbe dovuto andare d’accordo con Tulio? Cercò di addormentarsi e ci riuscì. Le emozioni del­ la giornata la precipitarono in un sonno profondo, che durò poco. Svegliandosi credette di essere nella casa di Londra, insieme al marito. All’improvviso intravide un dubbio che la spaventò. Esaminò le tenebre e trovò delle anomalie nella stanza. Angosciosamente si domandò dove fosse. Quando ri­ cordò tutto, cominciò a tremare. Il bell’appartamento del­ l’albergo le sembrò mostruoso, e il bel ragazzo che le dormi­ va accanto le parve un estraneo. «Qualcosa di atroce, - dis­ se Mildred. - Un coccodrillo. Come se stessi a letto con un coccodrillo. Ti assicuro che ho visto la sua pelle dura e rugo­ sa e che puzzava di palude». Capi che non poteva restare un attimo di più. Con estrema cautela, per non svegliare Tulio, usci dal letto, raccolse la biancheria sparpagliata in terra e, nell’altra stanza, si vesti. Lasciò un biglietto che diceva: Per favore, manda le valigie a Londra. Perdonami, se puoi. Fuggi lungo i corridoi, scese le scale; con ostentata disinvoltura pas­ sò davanti all’unico portiere e, finalmente, usci nella notte. Correndo, nella misura in cui lo permettevano i suoi tacchi alti, volgendo lo sguardo indietro, arrivò alla stazione, che non è lontana. Cambiò sterline con lire; prese un biglietto per Londra, via Parigi, Calais e Dover; con la paura che com­ parisse Tulio, aspettò fino alle cinque del mattino, che era l’ora della partenza. Quando il treno si mosse, Mildred, in silenzio, cominciò a piangere; tuttavia, era felice. Come se uno scrupolo la costringesse a farlo, ammise: «Non sono mai stata cosi felice dopo aver compiuto una buona azione». Sen­ za dubbio, la frase è ambigua.

Mosche e ragni

Si sposarono per amore. Raùl Gigena non credeva vi fos­ se al mondo un posto sicuro quanto la casa paterna, ma An­ drea, sua moglie, gli disse che per non perdere quell’amore avrebbero dovuto vivere da soli. Poiché non voleva contra­ riarla, decise di lasciare la provincia, di lanciarsi all’avventu­ ra. Ottenne, grazie a un parente che lavorava in una cantina, una rappresentanza di vini; ritirò dalla banca i suoi risparmi e parti, con Andrea, per Buenos Aires. Appena arrivarono, decise di acquistare una casa, un po’ per far piacere ad An­ drea, un po’ per investire razionalmente il denaro: a quei tem­ pi diceva che di rado si recupera ciò che si spende in affitti e pensioni. Non conoscevano nessuno, scoprivano la città, era­ no giovani, erano innamorati; la ricerca della casa lasciò loro ricordi felici. Trovarono, in Ramos Mejia, una vecchia ri­ messa, che avrebbero potuto facilmente trasformare in un’a­ bitazione molto soddisfacente; era stata una dipendenza del­ la villa di non so chi; veniva venduta insieme a un piccolo giardino, ornato di un arancio, decisamente perfetto, che al­ lora era coperto di fiori. Per otto giorni parlarono della ri­ messa, delle modifiche che vi avrebbero apportato, di come vi si sarebbero sistemati; il prezzo che chiedevano era alto, ma Radi lo avrebbe accettato, quando gli proposero, in calle Cramer, a pochi passi dalla stazione Colegiales, una grande casa cadente, a condizioni che lui stesso definì tentatrici. Ciò che fece pendere alla fine la bilancia a favore della gran­ de casa fu che i suoi molti difetti nascondevano altrettanti van­ taggi. La vista, sui binari, non era allegra, e il continuo tran­ sito dei treni produceva molto rumore, e anche vibrazioni, cui ci si sarebbe dovuti abituare; ma, esaminate con equanimità,

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queste noie non corrispondevano forse a una specie di mes­ saggio cifrato, che rivelava all’acquirente una valida verità: lei non avrà difficoltà per arrivare in centro, né per tornare? Quanto all’aspetto deprimente dell’edificio, costituiva un al­ tro elemento a favore, perché avrebbe indubbiamente contri­ buito a moderare il prezzo di una cosi considerevole quantità di metri di terreno situati nella zona migliore della capitale. Andrea si lasciò convincere dalle ragioni del marito; non ricordò più la rimessa di Ramos Mejia; pensò soltanto a si­ stemare la grande casa. Spiegava: - Ne sistemeremo soltanto una parte, non di più, ma quel­ la parte la cambieremo completamente. Non vi devono re­ stare tracce di quelli che hanno abitato qui. Chi può sapere quali fluidi ci potrebbero mandare. Anche se si sistemarono in tre stanze e chiusero le altre, spesero parecchio denaro. Le stanze che occupavano erano molto gradevoli, ma la sola esistenza delle altre, chiuse e vuo­ te, affliggeva Andrea. Raùl non tardóna porvi rimedio. - Capisco ciò che provi, - disse. - E come se vivessimo in una casa abitata dai fantasmi. Credo di aver trovato la solu­ zione. Accoglieremo, per qualche tempo, alcuni ospiti. Non ci saranno più stanze vuote, che è la cosa più importante, e ci rifaremo di quanto abbiamo speso. Portarono le loro cose al piano di sopra; quello sottostan­ te lo dedicarono ai pensionanti. Andrea si rassegnò. Non sa­ rebbero stati più soli, ma dividere la casa con gli sconosciuti che invia il caso non è come dividerla con persone di fami­ glia, che si credono in diritto di dirigere le nostre vite e di ri­ dire su tutto. Seguendo le minuziose raccomandazioni del ma­ rito, Andrea gestiva la pensione in economia. Ben presto ne ricavarono una rendita consistente. Il merito non era esclusi­ vamente dello spirito organizzativo e ordinato di Raùl; lei ave­ va sistemato le stanze in modo ammirevole, era un’ottima go­ vernante, un’ottima cuoca e (forse la cosa più importante) era anche una donna incantevole; con la sua dolcezza, con la sua giovinezza, con la sua bellezza, affascinava tutti quelli che le stavano vicino; il suo carattere era altrettanto buono, non si lagnava mai, anche se qualche volta rimproverava Raùl: - Mi lasci troppo tempo da sola.

MOSCHE E RAGNI

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Il giorno in cui suo marito avrebbe mantenuto la promes­ sa di rinunciare alla rappresentanza di vini, il pomeriggio non avrebbero più dovuto separarsi. Anche se non era più indi­ spensabile - la pensione era un buon affare -, a Raùl dispia­ ceva abbandonarla, perché costituiva una valida fonte di gua­ dagno. Per conquistare il consenso di Andrea spiegava: «E denaro che ottengo senza fatica». Su questo punto mentiva perché ogni sera rientrava sempre più stanco, e quando fi­ nalmente si metteva a letto, accanto alla moglie, immediata­ mente cadeva addormentato. Non immaginiamolo come, un uomo impaziente perché afflitto dalla sua sfortuna; ci risul­ ta che fosse felice. Il primo pensionante che presero fu Atilio Galimberti, Atilio l’attillato, secondo la fortunata definizione dell’altro cliente della pensione, che si chiamava Hertz. Abbastanza giovane, di bell’aspetto, Galimberti lavorava in un negozio, due volte alla settimana giocava a tennis, senza dubbio fre­ quentava il sindacato e godeva, nel quartiere, della fama di dongiovanni (con intento ironico, Hertz commentava: «É un leone con le donne»), Galimberti, per la smania di appende­ re le fotografie delle sue ammiratrici, aveva rovinato con i chiodi la carta sulle pareti: e questa era una cosa che Andrea non si decideva a perdonargli. Il colpevole commentava: - Tutte le donne sono uguali. Alla padrona le brucia che le foto non siano di lei. Da parte sua, Raùl la incalzava: - Non consentire che nessun pensionante, né nessun al­ tro animale vivente, ti metta i piedi in testa. Questo mon­ do si divide in mosche e ragni. Cerchiamo di essere ragni, che si mangiano le mosche. - Che orrore ! - esclamava Andrea. Poco dopo arrivò il dottor Mansilla: un uomo robusto, dalla pelle scura, con i baffi all’ingiù, molto criollo, che di­ chiarava di essere medico, di aver praticato le tecniche ba­ sate sulle erbe e negava apertamente la tesi secondo cui al di là dell’atomo non c’è nulla. Poiché il suo motto era C’è sem­ pre qualcosa in più, ogni giorno si trasferiva, in treno, a Turdera, dove prendeva lezioni da uno yogin, che leggeva le car­ te, interpretava i sogni, prevedeva il futuro.

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Si successero in quell’epoca alcuni pensionanti che se ne an­ darono subito, e che gli altri definirono, duramente, rondini. In una fredda mattina di settembre, sulla sua sedia a ro­ telle spinta da un giovinetto, entrò in casa la signorina He­ lene Jacoba Krig, accompagnata da un cane barbone. Senza suonare il campanello, il ragazzo si era introdotto nella hall, aveva abbandonato li il suo carico e se n’era andato lascian­ do la porta socchiusa: nessuno, nel quartiere, l’avrebbe più rivisto. La signorina aveva i capelli biondi, gli occhi azzurri, stranamente vicini, la carnagione rosea, la bocca grande, le labbra rosse, mobili, che scoprivano denti irregolari e molta saliva; era paralitica, aveva più di sessant’anni, olandese, tra­ duttrice di professione. Radi si vide costretto ad accogliere Helene Jacoba Krig con queste parole: - Mi dispiace respingerla, signorina, ma lei dovrà ricono­ scere che ho degli impegni nei confronti della mia casa e che il cane è un animale anti-igienico, nocivo alla pulizia. - Se dice questo per Josefina, - replicò la signorina Krig, - si sbaglia. Lei non avrà rimostranze da fare. Affinché si tranquillizzi le darò una dimostrazione. La signorina guardò la cagna Josefina. Quasi immediata­ mente, l’animale si alzò sulle zampe posteriori e camminan­ do in fretta usci dalla porta; poi rientrò. - Come ha ottenuto tutto questo? - domandò Radi, af­ fascinato. Helene Jacoba volse verso di lui quegli occhi cosi vicini, al tempo stesso sicuri e dolci, e sorrise con la bocca umida. Alla fine rispose: - Con pazienza. Ci crede? All’inizio la cagnetta non mi voleva bene. All’inizio nessuno mi vuole bene. L’ho conqui­ stata un po’ per volta. Hai scoperto qualcosa in me, non è vero, Josefina? Raul pensò rapidamente che gli dava fastidio negare ospi­ talità a una vecchia paralitica, e che se l’avesse accettata, avrebbero mangiato, dal suo portafoglio, altre due bocche. Assegnò ai due nuovi pensionanti una stanza del pianterre­ no, per la quale stabili un prezzo speciale. Se non sbaglio, la comparsa dei coniugi Hertz coincise con

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i primi sogni di Radi. Su questa coppia - abitavano li vicino, e dopo che si erano messi d’accordo con i Gigena comincia­ rono a pranzare e cenare alla pensione - c’erano opinioni con­ traddittorie. Per alcuni, il vecchio Hertz, signore irritabile e ironico, insopportabilmente orgoglioso del suo posto di cas­ siere in una pasticceria di calle Cabildo, non era una sempli­ ce vittima, ma la compiuta espressione del marito infelice. Certo, Magdalena Hertz sembrava troppo giovane per lui. Piuttosto bella, molto curata nella sua persona, trascurava la casa, non lavava la biancheria, rifaceva i letti una volta alla settimana, e costringeva il marito, fino all’accordo con i Gi­ gena, a fare colazione, a pranzare e a cenare in latteria. Sta­ va sempre sulla porta della strada, con le braccia conserte (chi aveva mai visto braccia cosi curve?), a guardare incurante chi passava, con quegli occhi smisurati; ma come ho già det­ to, le opinioni erano contrastanti, non mancavano quelli che avrebbero denunciato il marito come il tipico vecchio sver­ gognato, che seduce una donna giovane, per non dire una mi­ norenne, e la trascina per mano fino al matrimonio. - Bel matrimonio, - avrebbe poi osservato Galimberti. - Il pasticcere mangia petto di pollo da quaranta giorni e an­ cora si lamenta in Belgrano Deutsch1. Con il tempo, questo mondo della pensione sviluppò ca­ ratteristiche simili a quelle di qualunque famiglia; ma la pre­ visione di Andrea sul pericolo, per la felicità, di non vivere soli non si realizzò, almeno fino a molto dopo che Radi, sen­ za un motivo apparente, cominciasse a sognare. Radi non era disposto a dare importanza ai sogni che rimanevano sospesi su di lui come se fossero guidati da un proposito sovranna­ turale di convincerlo: poiché si ripetevano, e poiché veniva­ no da ciò che non si conosce, la tentazione di vedervi una ri­ velazione sarebbe stata irresistibile per un uomo meno forte. La verità è che alla fine anche Raul cominciò a dubitare. Cercò allora di fare in modo che Andrea non si accorgesse di nulla, ma anche fingere può essere percettibile. La spiava, cer­ cava di sorprenderla. Durante il giorno, le azioni di sua mo­ glie gli provavano che era una donna nobile e leale; di notte, 1 La mescolanza di spagnolo e tedesco che parlavano nel quartiere di Belgrano gli im­ migrati di origine tedesca [N. d. T.].

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i sogni gli rivelavano un’Andrea molto diversa; una volta, sve­ gliatosi, la guardò stupito e mormorò: Dorme come un’ipo­ crita. Per poter restare a casa ventiquattr’ore al giorno, Radi pensò seriamente di abbandonare la rappresentanza di vini. Dagli interminabili pomeriggi che trascorreva fuori, tornava a casa di malumore, con la sua sfiducia esacerbata. Adesso non era quasi mai affettuoso con sua moglie e, quando lo era - come la sera che la sorprese mentre riparava un lume con Galimberti -, un lieve cambiamento nel tono della sua vo­ ce denotava l’insincerità. Pochi giorni dopo ci fu il primo spiacevole incidente. Tornando dalla spesa, Andrea passò di fronte a casa di Hertz, dove trovò Magdalena, sulla porta. Chiacchierarono un po’, e Andrea si lasciò andare - ed era una cosa piuttosto inconsueta - alle confidenze. - Non riesco a capire le cause di questo cambiamento, - di­ ceva, - ma è cambiato. - Lei che lo conosce, - domandò, interessata, Magdale­ na, - lo crede capace di innamorarsi di un’altra donna? - Perché no ? - Ha ragione. Non l’avevo mai pensato. Che sciocca, - com­ mentò Magdalena, socchiudendo gli occhi. - A volte sembra che stia per dirmi tutto, ma all’improv­ viso tace, come se non osasse. Va’ a sapere cosa gli è succes­ so; il fatto è che lui è cambiato. Mi odia; il poverino non può evitarlo, anche se per bontà d’animo e per compassione vor­ rebbe far finta di niente. A quel punto arrivò Radi; salutò appena Magdalena e portò via sua moglie, stringendole brutalmente un braccio. Camminarono in silenzio, fino a quando Radi, senza grida­ re, con una voce carica di passione, disse: - Non è il momento di stare a spettegolare per la strada con una vicina di dubbia reputazione. Andrea non rispose; nel suo sguardo c’erano perplessità e sconforto. Certo, Raul era cambiato. Anche lui se ne accorgeva. Fa­ ceva il suo lavoro meccanicamente, pensando ad Andrea, pen­ sando all’Andrea che gli mostravano, notte dopo notte, i suoi sogni. A volte gli veniva voglia di andarsene, di non vederla

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più, di dimenticarla; altre volte, progettava castighi e, con scarsa sincerità, si immaginava mentre la schiaffeggiava, ad­ dirittura la uccideva. Dal barbiere, mentre sfogliava una rivista, gli caddero gli occhi su questa frase: Le preoccupazioni che si tacciono sono le peggiori. Non la ritagliò soltanto per via della sua timidez­ za; era sicuro, questo si, di essersela incisa fedelmente nella memoria. Appena lesse la frase, gli balenò una speranza. Cre­ dette che parlando di quella faccenda avrebbe trovato la so­ luzione; ma con chi parlare? A Buenos Aires, scopri allora, aveva molti clienti; ma nessun amico. Le persone più vicine erano, forse, i pensionanti. Anche se gli dava fastidio par­ lare con loro di sua moglie, valutò spesso la possibilità di consultarli. Galimberti non avrebbe neppure cercato di com­ prendere il problema, ma avrebbe invece scoperto aspetti ridicoli e debolezze per poi burlarsi di lui, alle sue spalle. Quanto alla povera Helene Jacoba Krig, come si poteva pren­ dere per confidente una persona cosi nauseante ? E poi, non l’aveva sorpresa, una volta, mentre lo guardava con una cer­ ta aria, quasi che avesse indovinato la sua disgrazia e ne fos­ se contenta? Domandare consiglio a Hertz, che non era ca­ pace di governare la propria casa, sarebbe stato assurdo. La più attraente risultava Magdalena. Parlando di lei con terze persone, non aveva esitato a condannarla come meritava, ma tra sé e sé era un’altra cosa. Ad ogni modo, per lealtà verso Andrea, decise di non dirle nulla. Infine, Mansilla non gli ispirava nessuna fiducia; la tendenza che aveva spinto que­ st’uomo dalla medicina all’occultismo, chissà a quali oscure elucubrazioni avrebbe potuto trascinare anche lui. Capitò un altro incidente. Pallida e tremante, Andrea, articolando le parole con evi­ dente sforzo, gli domandò un pomeriggio, mentre stava an­ dando al lavoro: - Perché non parliamo ? - Benissimo. Parliamo, - rispose Raùl, con un tono sar­ castico. Chiuse gli occhi per indicare che stava aspettando con rassegnazione le parole di Andrea. Intanto pensava alla debolezza della sua posizione. Come spiegare, senza fare la figura del cretino, che tutte le sue la­

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gnanze e tutte le sue prove erano rigorosamente sognate ? Trat­ tenne a stento l’impulso di gettarsi tra le braccia di Andrea e di chiederle che dimenticassero quelle pazzie; ma c’era pur sempre una possibilità che lo ingannassero: per quanto re­ mota, per quanto minima, doveva difendersi. Quando An­ drea parlò, già la odiava. - Se ami un’altra donna, non me lo devi nascondere, - dis­ se Andrea. Radi replicò: - Sfacciata. Nessun altro insulto poteva offenderla tanto. Radi lo sa­ peva; capi di essere stato troppo ingiusto; non ebbe il corag­ gio di guardarla in faccia e se ne andò. - Te ne vai senza guardarmi? - domandò Andrea. Nel passare degli anni, molte volte Raul avrebbe ricorda­ to quel grido di sua moglie, quel povero grido di rimprovero e di angoscia. Alla stazione incontrò Mansilla. Salirono insieme sul tre­ no. Senza pensarci, Raul domandò: - Se lei conoscesse una persona, e le azioni di quella per­ sona le dimostrassero una cosa, e quando lei sogna, di notte, i sogni le dimostrassero il contrario... ? Si trattenne. Credette di avere esposto sin troppo chiara­ mente il suo problema con Andrea. Mansilla rispose: - Le dico la pura verità: non capisco. - Se il comportamento di quella persona - insistette Raùl - la fa apparire amica e nei sogni lei la vede come nemica, a cosa crederà, lei ? - Ai sogni! - rispose Mansilla, sorridendo. Raùl impallidì. Dopo quella risposta, si disse, la cosa mi­ gliore era affrontare la questione apertamente. Osservando Mansilla, cercando di indovinarne i pensieri, spiegò tutto. Adesso Mansilla non sorrideva più. Il treno era arrivato alla stazione. Il loro discorso conti­ nuò nella pasticceria del Retiro. - Procediamo con ordine, - disse Mansilla. - Come sono i sogni ? - Orribili. Non mi chieda di ricordarli. Mi tradisce con tutte le persone che vivono in casa.

MOSCHE E RAGNI

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- Con tutte le persone che vivono in casa? Perfetto. An­ che con altre persone ? - Anche con altre persone, con sconosciuti. - Vediamo. Le chiedo di ricordare una di queste persone. Le causa troppo dolore? Perfetto. Dell’abbigliamento, cosa mi dice ? - Adesso che ci penso, c’è qualcosa di strano nel modo in cui sono vestite. - Qualcosa di strano? Chiarisca questo punto. - Non so spiegarmi. Come se fossero persone di un altro posto, di un altro tempo. - Antichi romani? Mandarini cinesi? Cavalieri con le ar­ mature ? - No, per carità. Gente vestita come se fossimo all’inizio del secolo. Anche contadini. Sono sicuro: contadini con gli zoccoli. Sento le risate da villani e il rumore degli zoccoli sul pavimento di legno. Non le dico la nausea che mi sale allo stomaco. - Dove succede ? - Nella nostra stanza. Lei sa come sono i sogni: sto nella nostra stanza, ma tutto è diverso. - Procediamo con ordine. Cosa mi dice dei mobili? - Mi lasci pensare. Non ho visto quei mobili se non in so­ gno; in sogno, tutte le notti. Appena vedo un buffet, so co­ sa sta per succedere. L’incubo comincia con il buffet. - Com’è fatto? - Di legno scuro. Lei ricorda quei quadretti di interni con­ tadini, con una donna vicino a una ruota per filare ? La no­ stra stanza, nei miei incubi, potrebbe stare in uno di quei quadretti. Quando uno si dice: Qui non può succedere nul­ la, dopo è più terribile ciò che succede. - Perfetto. Qualche altra circostanza rimarchevole? - Quando mi affaccio alla finestra, non vedo quasi mai i binari del treno. Vi sono, piuttosto, canali, terre basse, som­ merse, con il mare sullo sfondo. - Lei ha vissuto sulla costa ? - Ma che costa? Sono dell’interno. Non ho mai visto la costa, e neppure il mare. Ho visto il Rio de la Piata, quando sono venuto.

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- Sarò sincero. Io non posso fare niente per lei e posso tut­ to. Consideri di essere in un pozzo. Vuole uscire dal pozzo? - Certo che voglio. - Allora venga subito a Turdera. Le anticipo che non po­ trà trarre in inganno Scolamieri. Cosa scopro nei suoi sogni ? Io direi che li ha rubati a qualcun altro. Cosa c’è ancora ? Tra­ dimento: lealtà. Canali: cattivi amici. Zoccoli: lei è un po’ go­ loso. Ma non sono io che posso interpretare tutto questo. - E chi è Scolamieri ? - Un signore, un amico, che vive a Turdera. Pratica lo yo­ ga, è in grado di interpretare i sogni, di insegnarle a respira­ re, cose di questo genere. Lei lo consulterà. - Guardi, amico, - rispose Radi, - non si offenda, ma pro­ prio non me la sento di andare a Turdera, neanche per con­ fidarmi con uno yogin, o come si chiama l’indiano. Mansilla insistette, Radi tenne duro, il consulto fu rin­ viato a un’altra occasione. Quando si congedarono, Raul capi di non sentirsela neppure di andare a lavorare. Prese un tre­ no per tornare a casa. Capi anche che non sarebbe mai an­ dato a trovare lo yogin, perché ormai non aveva piu bisogno di andarlo a trovare. Parlare lo aveva stancato molto - lo ave­ va stancato piu che passare tutto il pomeriggio a raccogliere ordinazioni, a piedi, per Buenos Aires -, ma gli aveva fatto bene. Il sipario era stato aperto. Dritto su un sedile del treno, stanco e felice, un po’ stor­ dito, rifletteva sui pericoli che aveva sfiorato negli ultimi tem­ pi; gli sembrava di avere sotto gli occhi, come pezzi di un gu­ scio infranto, la pazzia che lo aveva circondato e da cui, fi­ nalmente, stava uscendo. Si disse che la vita sarebbe stata troppo breve per chiedere perdono ad Andrea. Quando scese alla stazione Colegiales, credette che lo stes­ sero guardando in modo strano. Stava per tirar dritto, ma pensò che il fatto di credere che ti guardano in modo strano fosse un sintomo di pazzia; per chiarire questo punto si di­ resse verso il giornalaio. L’uomo lo guardò in modo strano. - Non ha saputo, don Gigena? - disse, dopo un silenzio, alzando una mano -. Ha traversato Jorge Newbery ed è ca­ duta dal muretto sui binari proprio mentre stava passando un treno per Retiro.

MOSCHE E RAGNI

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Intervennero altri. Parlavano di ambulanze, del commis­ sariato, di due lettighieri, uno che parlava un po’ con il na­ so e un altro che era figlio di una certa dona Ramos, che lui sentiva nominare per la prima volta. Insistevano molto sul fatto che era figlio di dona Ramos. Capi che doveva andare al commissariato, ma come se fos­ se attratto da una forza irresistibile si diresse verso casa. Del percorso non ricordava nulla, tranne che nell’attraversare Fe­ derico Lacroze lo insultarono da un camion. Continuò a cam­ minare, fino a quando non gli parlarono di nuovo, stavolta delicatamente, da vicino. Si trovava, non sapeva come, nel­ la stanza della signorina Krig. La signorina, con la bocca soc­ chiusa, mostrando un disordine di denti e di labbra umide, con i suoi occhi molto vicini, molto fissi, lo guardava, sorri­ deva, ripeteva: - Triste? Adesso passerà. Lui le domandò: - Lei come lo sa ? - E come potrei non saperlo? - replicò l’anziana donna. - Glielo dirò, caro amico, non si arrabbi. Tra noi due non ci saranno malintesi. Radi, io l’amo. Protestò: - Non è il momento... Pensò che doveva andarsene, ma senza sapere perché ri­ mase. - Oh, si, è il momento, - affermò con dolcezza la signo­ rina Krig, e lui ne senti l’alito. - Voglio che sappia tutto, dal­ l’inizio, il bene e il male. In questo non seguo una tattica, poiché non corro rischi. E da molto tempo che ho teso le mie reti, che lei vi è caduto dentro. Lei immagina di potersi di­ battere, correre di qua e di là? Sciocchezze. Le giuro che sta nella rete, per cosi dire, praticamente a mia disposizione. Non protesti, non si inquieti. Ha mai sentito parlare, mio caro Radi, di trasmissione del pensiero ? Sarebbe commovente se mostrasse di essere incredulo, ma la verità è che lei mi com­ muove in ogni modo. Trasmettere pensieri, trasmettere so­ gni a una cagnetta, come Josefina, a persone, come lei, come sua moglie, è sempre la stessa cosa. Evidentemente, vi sono soggetti ribelli, restii, che cedono a fatica. Io volevo soltanto

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che sua moglie ci lasciasse. Non c’è stato verso. Non c’era forza al mondo che potesse allontanarla da lei. Eppure, voi due non formavate ciò che io reputo una coppia armoniosa. Andrea non aveva, in quanto dotata di uno spirito lirico, le mie condizioni per poter andare d’accordo con il suo spirito attento alla realtà, al denaro. Ma non continui a sciupare ar­ gomenti nella sua ostinazione. Non c’era forza al mondo che potesse allontanare da lei quella ragazza testarda. Insomma, se lasciamo da parte la forza estrema. Perché questi caratte­ ri, mi creda, sono sempre pronti a porre mano alla risorsa estrema. Ho deciso, quindi, di far incamminare Andrea sui binari del treno. Per fortuna nel caro Radi ho trovato, inve­ ce, una materia docile. Ho temuto che potesse nascerle qual­ che sospetto, trovando nei suoi sogni i canali d’Olanda e i gagliardi giovanotti della mia gioventù; io volevo eliminarli, ma alla prima distrazione i ricordi tornavano: sono senza dub­ bio quelli che hanno lasciato nel mio animo i segni più profon­ di. Mi porta rancore per i sogni che le ho imposto? Passerà presto. Ancora non mi ama. All’inizio nessuno mi ama. A po­ co a poco la conquisterò. Scoprirà qualcosa, non è vero, Raùl, nella sua Helene Jacoba?

Rinverdire

Continuava a guardare la tomba, perché era deciso a non muoversi fino a quando non si fossero allontanate le sorelle della povera Emilia e perché nell’istante in cui si sarebbe vol­ tato per uscire dal cimitero sarebbe entrato nel mondo in cui non poteva più incontrarla. Non si rassegnava ad affrontare il ritorno pronunciando devote banalità con quelle donne, né si sarebbe lasciato ingannare dalla speranza, cosi deplorevol­ mente inutile, di cercare in loro qualche traccia in cui poter far durare ancora la sua amica. Alla fine le donne si mosse­ ro; stava per andarsene quando scopri, a una distanza che sarcasticamente definì rispettosa, l’uomo delle pompe fune­ bri, con quell’atteggiamento contrito, servile, implacabile che già gli conosceva. Sin dalla notte in cui era successo l’in­ cidente, lo aveva visto aggirarsi intorno a casa di Emilia, su un’automobile nera. Adesso avrebbe preteso, probabilmen­ te, di vendergli un album di fotografie o di ritagli o qualche addobbo per la tomba; ma lo atterriva la possibilità che l’in­ dividuo, nell’affanno di esaltare il lavoro dell’impresa, gli co­ municasse particolari macabri. Ciò che era li sotto non era Emilia e per avvicinarsi a lei non c’era in tutta la terra un po­ sto più incongruente di quel rettangolo di marmo, con il no­ me e la croce. Finché fosse vissuto, tuttavia, vi avrebbe por­ tato fiori. Qualcuno avrebbe dovuto farlo, e la persona indi­ cata era lui. La persona indicata, rifletté con orgoglio, e l’unica, dato che nella vita e nella morte di Emilia era solo. Con il dolore nel cuore, ricordò che in un certo momento ave­ va desiderato una certezza come quella che aveva adesso: la certezza che non sarebbe potuto succedere nulla. Insieme avevano letto i versi di un poeta francese:

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Appena tu ti muovi, le mie angosce si ridestano,

e lui aveva esclamato: È vero. Come chiedere a un essere co­ si vivo qual era Emilia di starsene tranquilla al suo fianco, di non essere incostante? Non chiese nulla, ma il miracolo del­ la fedeltà si verificò. Forse per questo adesso era nel pieno di una solitudine cosi estrema, senza nessuno con cui divi­ dere il dolore. La stanchezza degli ultimi giorni lo indusse a farlo pensare per immagini; poco meno che sognando a oc­ chi aperti, vide se stesso come giardiniere delle tombe. «Tut­ ti i venerdì metterò qui un mazzo di rose, - mormorò, - per compensare le calle che porteranno quelle donne». Quando si accorse che quel tale se n’era andato, lenta­ mente prese il cammino del ritorno. Attraversò luoghi aper­ ti e desolati, scese fino in piazza e all’ombra degli alberi di calle Artigas, nell’aria tiepida o nell’odore delle foglie, eb­ be il presentimento dell’ancora lontana primavera. Un pia­ noforte, in una delle case vicine, suonava una marcetta, cir­ cense e volgare, che non sentiva da parecchio tempo. Gli venne in mente Argüello, o Araujo: come si chiamava il suo predecessore ? Era un personaggio sbiadito, che non lo ave­ va mai preoccupato. Da quanto poteva dedurre, aveva co­ nosciuto Emilia quando lei aveva meno di vent’anni, e forse si era avvantaggiato di quella circostanza. Emilia non gli ave­ va detto niente di concreto contro quel primo amore - ne era incapace -, ma senza lasciar spazio a dubbi gli aveva fatto ca­ pire che nella sua vita aveva contato poco. L’episodio non aveva altro significato che dimostrare quanto fosse cieca e immatura la gioventù. Si fermò per attraversare la strada. Guardò la sua casa: la facciata in finta pietra, la porta di legno stretta e scura, i due balconi laterali, quelli superiori (in previsione di un al­ tro piano); si meravigliò di come tutto questo qualche volta gli fosse sembrato allegro. Apri la porta ed entrò come in un sepolcro. Quel pomeriggio non seppe rinunciare a un’assurda con­ vinzione. Quando suonavano alla porta, accorreva, treman­ do di speranza. Malgrado avesse condotto sempre una vita

RINVERDIRE

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appartata, si accorse di avere molti amici e, malgrado le par­ ticolarità del suo lutto, le visite succedevano alle visite. Ma ne aveva in mente altre, di uno ieri che era rimasto molto vi­ cino e molto lontano: non chiudeva neppure gli occhi e già credeva di vedere Emilia, arrivare un po’ in ritardo, agitata per la corsa appena fatta, e credeva di sentire sul viso la fre­ schezza della sua pelle; ma non accadde nulla che fosse fuo­ ri del normale fino al venerdì mattina, quando se ne andò al cimitero, con un mazzo di rose bianche. Sulla tomba trovò, appena avvizzito, come se fosse stato deposto li il giorno pri­ ma, un mazzo di rose rosse. Il fatto lo sorprese per due mo­ tivi: perché le sorelle lo avevano anticipato con il loro omag­ gio e perché, sfidando le convenzioni, avevano scelto fiori colorati. Pensò che il caso è capace di tutto. Passarono sette giorni e dimenticò la faccenda. Il venerdì seguente tornò al­ la tomba, con le sue rose bianche. Lì trovò, ovviamente, un altro mazzetto di rose rosse. Pur avendo deciso di non pensarci più, rifletté parecchio durante quei giorni, fino alla mattina del giovedì, quando ebbe un’ispirazione. In gran fretta andò in un negozio ad acquistare fiori. A Rivadavia salì su un taxi. Ben presto de­ pose il suo omaggio e rimase un po’ perplesso: non sapeva che fare. Vagò per il cimitero mentre i minuti passavano con particolare lentezza. Scoraggiato, attraversò il portico e sul­ la gradinata piena di sole si fermò un istante; si voltò indie­ tro per dare un’altra occasione al destino e in fondo al viot­ tolo trasversale scorse con stupore la scena che per tutta la mattina aveva previsto e atteso: l’uomo che deponeva sulla tomba le rose rosse. La sua ripugnanza per le cose della mor­ te, alquanto nevrotica e ossessiva, lo aveva indotto a scam­ biare per un impiegato delle pompe funebri l’uomo che si aggirava su un’automobile nera, attorno alla casa di Emilia, nei giorni dell’incidente. Adesso ricordava una fotografia di Araujo, che aveva guardato distrattamente qualche anno pri­ ma. Quell’uomo era Araujo. Se non voleva farsi sorprendere lì, doveva allontanarsi al più presto. Si trattenne ancora un po’. Se ne andò subito, cam­ minando adagio. Aspettò tutto il giorno; aspettò senza in­ quietudine, come chi è sicuro. Alle dieci, la sera, suonarono

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alla porta. Prima di aprire, sapeva chi stava per incontrare. Araujo gli disse: - Camminando si parla meglio. Soprattutto, camminan­ do di notte. Le va di fare due passi? Per Bacacay e Avellaneda arrivarono fino a Donato Alva­ rez; fecero il giro di plaza Irlanda; tornarono verso ovest pas­ sando per Neuquén. Per ore camminarono e parlarono tran­ quillamente della donna che avevano amato. Araujo spiegò: - Non le porto fiori da morto perché mi sembrerebbe un’offesa per Emilia. In lei la vita era cosi evidente! - Do­ po una pausa aggiunse: - Aveva qualcosa di sovrannaturale, tuttavia. Pensò: «Non me n’ero accorto, ma è vero». Anche se ap­ parentemente contraddittoria rispetto ad alcune affermazio­ ni precedenti, trovò altrettanto esatta un’altra osservazione di Araujo: - Poiché era sovrannaturale, ora dobbiamo adeguarci. For­ se non è mai appartenuta a questo mondo. Per un momento provò fastidio perché qualcuno l’aveva conosciuta meglio di lui e non fu lontano dalla gelosia. Araujo dovette cogliere quel sentimento perché dichiarò: - Non possiamo giudicarla come le altre donne. Emilia era su un livello diverso. Era di luce e d’aria. Si salutarono. Vide Araujo andarsene sull’auto nera: en­ trò in casa, accese il fornello, preparò qualche mate. Voleva meditare sulla scoperta di quella notte; poiché un altro l’a­ veva amata, lui non era solo, la memoria di Emilia si allarga­ va e al di là della tomba continuava il miracolo della vita.

Casanova segreto

«Casanova arrivò a Costantinopoli con una lettera delΓAcquaviva per Claudio Alessandro, conte di Bonneval, che era passato ai turchi. A Buyuk Dere ho diviso l’alloggio con il veneziano, e l’ho frequentato anche a Costantinopoli, do­ ve eravamo insieme a pranzo e a cena. In tutta franchezza discutevamo dei nostri vani propositi di entrare in relazione con ottomani più o meno notabili. Quanto al Bonneval, mi risulta che un pomeriggio lo abbia ricevuto. Casanova tornò considerando la spiritualità del conte, dato che costui aveva una biblioteca che, a ben vedere, era una specie di magazzi­ no, e altre riflessioni dello stesso tenore. Quando cercò di in­ contrarlo ancora, gli dissero che il conte era occupato e non poteva dargli udienza. Casanova fini per dichiararmi che la famosa biblioteca-magazzino, lungi dal coprire di gloria il suo proprietario, lo faceva apparire come un esempio di volga­ rità. A mio avviso, il valore dell’oggetto in questione, in­ dubbiamente curioso, non giustificava il fatto che lo discu­ tessimo ogni giorno. «Di tali incidenti la fortuna compensò Casanova con inau­ dite avventure amorose. Un cristiano che si introduce in un harem è un evento usuale nei libri; nella vita lo reputo im­ praticabile. Non una, ma ben due volte il Casanova penetrò nel palazzo di Yusuf, filosofo indifferente. Quando gli chie­ si come aveva condotto l’impresa, mi rispose: Fata viam inve­ rminì e, di sicuro, fu il fato a trovare la strada perché la pri­ ma occasione fu sufficiente al mio veneziano per far innamo­ rare una moglie del filosofo, di nome Sofia, e la seconda per cogliere il premio del suo coraggio. In cosa sia consistito il premio non è chiaro, ma Casanova recò con sé come reliquia

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un velo (oggetto di tessuto che ora servirà a dissipare i vostri timori che l’episodio si limiti a un’allegoria). E se poi quan­ to precede è poca cosa, in fatto di avventure accadde qual­ cosa di meglio durante una festa. Con i miei stessi occhi l’ho visto con quella certa schiava di Imael Efendi, sua compa­ triota, ballare freneticamente la forlana. «Tutto questo lo ha tenuto occupato più nell’immagina­ zione che nei fatti. Per il viaggiatore, Costantinopoli è im­ penetrabile. Coloro che come me almeno una volta hanno vissuto dentro la cinta della città, conservano il ricordo di aver vissuto fuori dalle mura. Il turco, l’ho già detto, non si prodigava; quanto alle donne rinchiuse negli harem, ci fu mai qualcuno che le abbia frequentate? Soltanto Casanova, in oc­ casioni poco meno che uniche. Perciò, per conversare della nostra vita e dei nostri amoretti il tempo era d’avanzo, al punto che il dopotavola del mezzogiorno si prolungava nel dopotavola della sera. Casanova mi enumerò le sue prodi­ giose avventure turche e quelle italiane, che sono più di cin­ quanta. Ritengo di non peccare di credulità se affermo che il mio amico non fu mentitore. Prolisso, questo si. Con iden­ tica disinvoltura mi narrò i suoi trionfi e le sue disfatte, che più di un cavaliere avrebbe vantato come guiderdone. «Nell’anticamera del conte conobbe la signorina Bonneval. Sangue limosino, per parte di padre, e armeno, per par­ te di madre (una poetessa ammirata grazie alla perfezione del suo corpo), confluivano in questa signorina, con le loro me­ raviglie e le loro indoli, perciò nel volto ramato la chiarezza degli occhi aveva la profondità di mondi che si destano, e la bellezza dell’insieme, anche se non corrispondeva ai model­ li abituali, era abbagliante. «Poiché le dame, a Costantinopoli, impegnavano poco o nulla del suo tempo, il veneziano si adoprò con tutti i mez­ zi perché la signorina gli offrisse la maggior parte del suo. Abbastanza in fretta la conquistò, o almeno ottenne favori che lo confermarono nella sua buona disposizione e nella sua sicurezza. Allora era solito pavoneggiarsi con panegirici non riduttivi della signorina Bonneval, che non poteva non rico­ noscere almeno differente dalle altre donne. In esse elogia­ va gli slanci, perfino i capricci e la vitalità. Questa vitalità,

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più consona a una cavalla che a una ragazza, fu nefasta per Casanova. In effetti, le giornate della sua amante erano una fitta trama di occupazioni, fra le quali a malapena c’era, di tanto in tanto, uno spiraglio per il nostro avventuriero. Non soltanto la catturavano le feste e le serate; per singolare che possa apparire, la signorina si era eretta ad amanuense di suo padre, e con quella vitalità da bruciare e con la sua ansia di avventizia - cos’altro è, in rapporto al lavoro, la donna, se non un’avventizia permanente? - si abbandonava, secondo Casanova, corpo e anima alle questioni dell’ufficio del con­ te (Consigliere della Sublime Porta). Intenzionalmente Ca­ sanova specifica corpo e anima, perché (bisogna attribuire l’e­ sagerazione al risentimento) era convinto che per condurre a buon esito una qualunque delle pratiche che le avesse affi­ dato il padre era risoluta ad abbandonarsi anche ad altri estre­ mi. A poco a poco don Giacomo si avvide che in questo nuo­ vo intrigo non conseguiva la felicità che dava per scontata. Arrivava la fine della settimana e la ragazza preferiva riti­ rarsi in una proprietà di campagna, sulle rive del Bosforo, do­ ve si riunivano giovani amici suoi, gente frivola, la cui stu­ pidità era asserita dagli stessi nomignoli e soprannomi che si davano l’un l’altro, al rimanere in città e correre, in un istan­ te rubato alla sorveglianza di quanti la circondavano, tra le braccia del suo amato, che l’attendeva in una qualche alcova tenebrosa. Invero, in questa situazione, toccava al nostro don Giacomo (forse a causa dei suoi giorni desolati a Costanti­ nopoli) cercare, attendere e stare in ansia. Protestava: “C’è qualcuno che non abbia inteso che l’ansia della ricerca e del­ l’attesa non si misura con il valore di ciò che si cerca o si at­ tende ? Non mi manca certo la voglia di far valere altri miei amori, ma in Turchia la minima slealtà è grave, perché met­ te in pericolo la vita delle dame e la propria. La mia solleci­ tudine è stata sempre quella di persuadere la donna che non la inganno; questa non potrò mai persuaderla che non l’amo. Mi tenta anche l’illusione di spiegarle: Sono Casanova, ter­ rore delle dame, dei cui cuori ho fatto strage, come incendio gonfiato dallo Scirocco e dal Maestrale, da Venezia sino a Roma, da Ancona sino a Rimini; ma se la signorina è del tut­ to ignara della mia fama, per grande che sia, non finirò, nel­

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lo svelargliela, in una sorta di volgarità o di spacconeria?” Voleva forse dire che per una semplice mancanza d’informa­ zione quella piccina, che lo rendeva mezzo stordito, non lo temeva e tanto meno lo rispettava e che egli, un vero infin­ gardo, impersonava la figura dell’innamorato costante e man­ sueto, figura che nell’odiata Costantinopoli stava diventan­ do una sua seconda natura? Con quale diletto denigrava in quei giorni la sua innamorata! “È ignorante - sosteneva - co­ me una contadina limosina, e cosi astuta e bugiarda. E belli­ cosa come una pescivendola di Chioggia, e scaltra come una prostituta di Murano”. Dopo una risata profonda, aggiunge­ va: “Su di lei, non c’è niente di sicuro. Neppure che mi tra­ disca con quegli sciocchi del finesettimana”. «In tal modo, quest’uomo, che nella stima di sé brillava come irresistibile per le donne e dei cui intrighi recenti voi narrate mirabilie, l’ho visto sospirare d’amore per Angelica Maria Clara Iolanda Giuseppina de Bonneval, che si è spo­ sata con un sassone e oggi è madre di un lussureggiante maz­ zo di figli». Trascrivo questi brani dalla lettera del cavaliere Pierre Mi­ rande, del seguito di Venier, il cui originale fu rinvenuto nella biblioteca di Losanna, nel 1951, da Louise Lennett, per la luce che potranno gettare, eccetera, eccetera.

Storia romana

Alle dieci e mezzo, tutte le mattine, io uscivo dall’Hôtel Gassion; le mie vicine lasciavano l’Hôtel de France. Sul bou­ levard des Pyrénées, occupando panchine diverse, di fronte al­ le stesse montagne, l’uno leggendo Daisy Miller, le altre ri­ passando lezioni, ci intiepidivamo al sole. Le mie vicine era­ no cinque ragazzette e una governante. Chi avesse guardato le ragazzette distrattamente, avrebbe potuto scambiarle per una serie di copie (di grandezza diversa, di età che variava tra i nove e i diciannove anni) di una stessa persona, docile, bionda, snella, dagli occhi grigi, dall’uniforme azzurra. Del­ la governante - donna esperta e intrattabile - conservo un ricordo indefinito. Gli assidui dello Sporting-Bar mi informarono che le ra­ gazzette erano mie compatriote; che il padre, «un latinoa­ mericano di sangue béarnese», possedeva fattorie e aveva un grosso patrimonio a Buenos Aires, e che adesso la famiglia si trovava a Pau per riscuotere un’eredità. Una mattina uscii alle dieci. Subito apparve la maggiore delle sorelle e mi chiese se poteva sedersi sulla mia stessa pan­ china. Cominciammo a conversare immediatamente. - Mi chiamo Filis, - disse. - Le piace Pau? - domandai. - Mi annoia come la fattoria. E poi, la vita che faccio... Con la mademoiselle a fianco, chi si può divertire? Non cre­ da che sia stato sempre cosi. I miei genitori sono matti: o mi lasciano libertà completa o mi sorvegliano notte e giorno. A luglio sono stata a Roma, da sola, in casa di certe italiane che avevo conosciuto a Puente del Inca. Lei scrive, vero? - Come fa a saperlo ?

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- A Pau si sa tutto. Vuole che le racconti cosa m’è suc­ cesso a Roma? Si divertirà. Ecco che arriva la mademoiselle con le bambine. Ci vediamo questo pomeriggio nel Casinò. Quel pomeriggio non mi incontrai con una ragazzetta, ma con una donna incantevole, che mi prese sottobraccio e co­ minciò a ridere. Esclamai: - Com’è cambiata! - Non creda, - disse. - Se scoprono che sono fuggita, mi uccidono, mi mettono in castigo. Vuole che le racconti i miei amori romani ? La splendente Filis, dallo sguardo virgineo e dai gridolini da uccello, mi raccontò che un cavaliere della corte papale lo vidi in una fotografia con dedica, quasi obeso nel suo im­ peccabile palamidone bianco - aveva chiesto la sua mano. La scena si svolgeva in un ristorante di Roma e non ricordo la risposta che gli diede la ragazza, ma ricordo che lo offese chie­ dendo, al maître d’hôtel, un beefsteak. - E venerdì, - osservò il cavaliere. - Lo so, - rispose Filis. - E allora come può mangiar carne ? - Sono argentina, e nel mio paese non facciamo vigilia tut­ to l’anno. - Siamo a Roma, sono cavaliere della corte papale e qui osserviamo la vigilia tutti i venerdì dell’anno. - Non mangerò più carne al venerdì. Ma ormai l’ho ordi­ nata e non mi va di infastidire il cameriere dicendogli di non portarla. - Preferisce dare una pena a me. (Io non volevo confessare, mi disse Filis, che avevo fame). Portarono il beefsteak, un invitante beefsteak, e Filis, con espressioni di irritata rassegnazione, neppure lo toccava, lo lasciava nel piatto. Il fidanzato domandò: - E adesso perché non mangia ? - Perché non voglio darle una pena, - rispose la ragazza. - Ormai lo ha ordinato, lo mangi, - concesse, sdegnoso. Filis non aspettò che insistesse; ancora imbronciata, ma con rapidità e con gusto, divorò il beefsteak. Il fidanzato esclamò con voce dolente:

STORIA ROMANA

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- Non mi sarei mai aspettato questo colpo. - Quale colpo ? - Continua a burlarsi di me. Il fatto che abbia mangiato quella carne, che martirizzi la mia sensibilità. - E stato lei a dirmi di mangiarla. - L’ho messa alla prova ed è stata una delusione, - com­ mentò il cavaliere. Pochi giorni dopo, tuttavia, la condusse alla spiaggia di Ostia. Faceva molto caldo e verso la metà del pomeriggio il cavaliere confessò: - Lei mi turba. Anche se mi duole doverlo dire, non pos­ so tacere:la desidero. Filis gli rispose che se non l’avesse fatta sua quel pome­ riggio stesso non si sarebbero visti mai più. Il nobile si ingi­ nocchiò, le baciò la mano e quasi piangendo le disse che lei non doveva permettergli quei brutti pensieri: che molto pre­ sto si sarebbero sposati; che molto presto sarebbe diventata principessa. Filis allora gli spiegò che era argentina e che al suo paese la nobiltà non significava nulla; che a Buenos Ai­ res e in qualunque altra parte lei era una persona di una fa­ miglia nota e, per di più, ricca; che i suoi genitori possede­ vamo fattorie e che un nobile europeo era, invece, un arti­ colo piuttosto sospetto. Lei stessa, malgrado lo amasse e non dubitasse della purezza dei suoi sentimenti, non poteva na­ scondergli l’intima perplessità che lui avesse in mente un ma­ trimonio di convenienza... Tutto questo succedeva nel tre­ no che li portava di ritorno a Roma, in mezzo a una folla che riempiva sedili e corridoi, che masticava panini, e che si ri­ velava molto vicina in quel caldo pomeriggio. Quando arrivarono, Filis domandò al suo fidanzato dove pensasse di portarla e il cortigiano balbettò cose vaghe in cui si mescolavano nomi di ristoranti e nomi di cinematografi. Filis, implacabile, ripetè la sua minaccia: o la faceva sua o non l’avrebbe rivista. Allora il fidanzato cominciò a spiega­ re che a Roma non c’erano posti in cui andare. - Non ci sono alberghi per coppiette, - diceva tra l’orgo­ glioso e il disperato. - E non hai un appartamento? - Un appartamento in cui portare delle amiche ? Nessuno

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lo ha a Roma. Bisognerebbe essere molto ricchi. Mi hanno raccontato che prima della guerra... - Portami in un posto qualunque, - insistette Filis, ag­ giungendo argentinamente: - Per questo sei un uomo. Intanto vagavano per strade interminabili. Finché Filis vide, all’angolo di una strada, una prostituta, e trovò la so­ luzione. Disse: - Andiamo a casa di quella donna. - E impossibile parlarle, - si difese il fidanzato. - Non possiamo avvicinarci tutt’e due insieme; non posso lasciarti sola e avvicinarmi io. - Allora le parlerò io. Il fidanzato cercò di dissuaderla; ripete: «Come posso por­ tarti a casa di una donna di malaffare?» Cercò delle varian­ ti: «Come possiamo contaminare la nostra prima notte d’a­ more con lo squallore della stanza di una sventurata?» Filis, senza guardarlo e con voce tagliente, domandò: - Vai tu o vado io? Il cortigiano papale si decise, alla fine; parlò con la donna, e tutt’e tre si incamminarono verso casa sua. Non andavano insieme; la donna camminava qualche metro avanti, sola. Lui era atterrito all’idea che potessero vederlo con una prostitu­ ta; a Filis non importava che la vedessero o no. Poiché la pro­ stituzione di strada a Roma è proibita, ogni volta che passa­ va qualche gendarme il cavaliere si trovava in forti angustie; anche se non erano insieme alla donna, avrebbe voluto fug­ gire e costringere Filis a seguirlo. Cosa avrebbe detto la gen­ te se lo avessero arrestato - lui, un cavaliere della corte pa­ pale - perché immischiato in questioni di prostitute ? Filis gli spiegava che non stavano andando con la prostituta e che, proprio perché cavaliere della corte papale, non si sarebbero azzardati ad arrestarlo. Molte volte, in quelle peregrinazio­ ni attraverso le strette stradine della vecchia Roma, persero di vista la donna; molte volte, con sollievo, il cavaliere di­ chiarò che l’avevano perduta definitivamente e molte volte Filis lo costrinse a continuare a cercarla; la ritrovarono sem­ pre, e dopo aver percorso uno scuro, stretto e fetido labi­ rinto, arrivarono a casa sua. La stanza della donna aveva le pareti ricoperte di santini; sul piccolo comodino c’era un

STORIA ROMANA

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gruppo considerevole di statue di santi e dalla testiera del let­ to spuntavano le corone sbiadite dell’ultima domenica delle Palme. Il cavaliere dichiarò che quei testimoni rendevano an­ cor più difficile il compito che aveva di fronte a sé. Nella cu­ cina accanto, la donna friggeva qualcosa e a colpi di cazzeruola manifestava la sua impazienza. - La poverina ha bisogno della stanza per altri clienti, - spiegò, forse superfluamente, Filis. Ma il fidanzato non faceva altro che tremare e sudare. Fi­ lis ripetè la sua minaccia; alla bell’e meglio, l’uomo fece, co­ me gli fu possibile, il proprio dovere e dichiarò che Filis era una donna adamantina. Quando si congedarono dalla pa­ drona di casa, costei aveva recuperato la cortesia; augurò lo­ ro molta felicità e, indicando con un gesto circolare i santini e le statue, la benedizione del cielo.

La parte dell’ombra

E appena traversi la strada sei dalla parte dell’ombra.

Piu in qua, piu in là, milonga di Juan Ferraris, 1921.

Ero cosi abituato agli scricchiolìi della navigazione che sve­ gliandomi dalla siesta sentii il silenzio della nave. Mi affacciai da un oblò. Vidi in basso l’acqua tranquilla e in lontananza, ricca di vegetazione verde, la costa, su cui individuai palme e forse banani. Indossai l’abito di tela e salii in coperta. Avevamo attraccato. A babordo c’era il porto, dove i ne­ gri brulicavano sul selciato, tra le rotaie, le alte gru e gli in­ terminabili capannoni grigi; più in là si allargava la città, cir­ condata di colline dai ripidi pendìi selvatici; con cura, come osservai, caricavano la merce. A tribordo - se tribordo è la parte destra, guardando verso prua - ritrovai la costa che ave­ vo guardato dall’oblò, un’isola che mi ricordò fattorie dove non ero mai stato, luoghi dei romanzi di Conrad. Devo aver letto qualcosa su un personaggio che, a causa di una lenta morte della volontà, contro i desideri della sua anima, fini­ sce per rimanere in un posto cosi, nella penisola malese, a Su­ matra o a Giava. Mi dissi che non appena sbarcato sarei en­ trato nel mondo di simili libri ed ebbi un brivido di gioia e di paura: una goccia di ognuna, perché non ero poi troppo credulo al riguardo. Scoppi monotoni del motore di una spe­ cie di canoa che navigava verso l’isola attirarono la mia at­ tenzione. Sulla canoa, un negro che teneva alta una gabbia di vimini, con un uccello azzurro e verde; rideva e gridava a noi della nave parole che non capii, udibili a malapena. Entrando nella sala da fumo (una targa sulla porta diceva cosi, oltre a fumoir e Smoking Room) ritrovai con sollievo la penombra, il fresco, il silenzio. Il ragazzo del bar preparò il mio solito bicchiere di menta. - E incredibile, - commentai. - Lascio tutto questo per

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andarmi a infilare in quell’inferno laggiù. E tutto per il tu­ rismo. Faticosamente cominciai una tirata sul turismo come uni­ ca fede universale, quando il barman mi interruppe: - Sono già scesi tutti, - disse. - Vi sono delle eccezioni, - obiettai. Guardai con aria eloquente in direzione del tavolo dove il vecchio generale Pulman, un polacco in esilio, mescolava le carte. - La vita è finita, per lui, - osservò il ragazzo del bar, - ma il generale non si stanca di tentare la sorte nel mazzo delle carte. - Solo nel mazzo delle carte, - risposi. Bevvi la menta fino a quando la granita sul fondo del bic­ chiere da verde non divenne cristallina, mormorai: «Me la segna» e mi preparai a scendere. Vicino alla passerella, scrit­ to con il gesso su una lavagna, lessi che saremmo salpati Γin­ domani, alle otto del mattino. «C’è tempo. Per una volta, - mi dissi, - sarò libero dalla paura di perdere la nave». Coprendomi gli occhi con la mano, perché fuori la luce era troppo bianca, misi piede sulla terraferma. Al di là del­ la dogana, mentre cercavo invano un’automobile a nolo e un negro ripeteva la parola taxi e faceva segno di no, si scatenò un acquazzone. Da dietro ai magazzini arrivò un vecchio tram scoperto (scoperto sui lati, ma con un tetto, s’intende). Per non inzupparmi, vi salii. Neanche il bigliettaio, un ne­ gro scalzo, voleva bagnarsi e per vendere i biglietti non usa­ va il montatoio: calpestando i sedili e scavalcando le spal­ liere percorreva il veicolo nella parte interna. L’acquazzone fini molto presto. La luce lattea non era mutata affatto. Da una stradina laterale veniva giù un negro con un carico co­ lorato sul capo. Incuriosito, guardai: il carico era una bara coperta di orchidee. Il negro apriva un corteo funebre. Il vocio della strada mi lasciava sbigottito (senza dubbio, lo notavo in modo cosi particolare perché l’accento e la lin­ gua mi erano estranei). Popolosa in tutto il percorso, adesso la città traboccava di persone. - Il centro, vero? - domandai al bigliettaio. Chissà cosa mi spiegò. Scesi dal tram perché avevo visto

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una chiesa e avevo pensato che dentro doveva esserci un bel fresco. All’ingresso mi vennero attorno mendicanti con il vi­ so decorato di cicatrici azzurre, biancastre e rosse. Arrivai infine in fondo al tempio, a un altare carico d’oro. Vagai per le navate; pigramente decifrai degli epitaffi. A dispetto dei marmi, i morti di quel posto mi convincevano della tristez­ za e della povertà della morte. Per non rattristarmi li para­ gonai agli abitanti dei paesi che si vedono dal finestrino del treno mentre si allontana. Di nuovo in strada, ripresi a piedi il percorso del tram. La città aveva un suo certo fascino, con quegli edifici vittoriani cosi di un’altra epoca. Non avevo ancora finito di pensarlo che la mia vista fu colpita da un padiglione moderno, di con­ siderevole volume e dall’aspetto scadente, non ancora finito e già vecchio. Dentro di me pensai che doveva essere una tet­ toia costruita per qualche esposizione, una delle tante opere provvisorie che, per la negligenza delle burocrazie, non fini­ scono mai. Di fronte al padiglione, cerchi e semicerchi ver­ dastri su un piedistallo di pietra formavano un monumento di bronzo e di buchi, vagamente triste. Mi sentii inquieto e, per voltarla in scherzo, finsi di essere uno del posto. «Scri­ verò una lettera al giornale - mi dissi - perché finalmente si decidano a togliere di mezzo queste reliquie dell’Esposizio­ ne del nostro Primo Anniversario dell’Indipendenza e della Dittatura, che non si accordano con lo stile della città». L’a­ nimo è cosi imprevedibile che questo scherzo insignificante aumentò seriamente il mio avvilimento. Mi fermai davanti a una vetrina che mostrava, tra rospi, lucertole e rane, una notevole collezione di serpenti imbal­ samati. - Dove li trovano ? - domandai a un signore che aveva tutta l’aria di far parte della collettività britannica. - Ovunque, - rispose in inglese. - Anche qui. Mi avvolsero gli accordi di una marcia animata. Scorsi un assembramento di persone e, senza pensarci, per i vialetti di una piccola piazza con le siepi abbondantemente fiorite, mi diressi verso quel punto. Da un ponte rustico, su un ruscel­ lo che serpeggiava fra rocce costruite con i sassi, piante e zol­ le, vidi bolle d’aria, giallognole nell’acqua verdastra e opaca.

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«Tutto questo non fa per me, - pensai. - Troppe vipere, troppi fiori, troppe malattie. Che paura se qualcosa ti affer­ ra e ti trattiene». Mi allontanai rapidamente. Una banda mi­ litare, di cui non dimentico le ghette bianche, maltrattava ottoni e grancasse davanti a un minuscolo busto. Pensai: «La cosa migliore è tornare alla nave e stendermi su un divano con il romanzetto di Rider Haggard che ho scoperto in sala di lettura». Fu allora che mi venne il dubbio di aver visto o di aver ricordato un momento prima il mio amico Veblen. Con la loro confusione da foresta, le strade rumorose, mutevoli e allucinanti come un caleidoscopio, sotto quel sole febbrile potevano, indubbiamente, generare qualunque visione, ma quella di Veblen l’Inglese sembrava la meno probabile. «Nes­ suno cosi fuori luogo, - mi dissi. - Me lo sarei ricordato; la sua presenza qui sarebbe assurda». Volevo tornare alla na­ ve, ma ero un po’ disorientato. Cercai li intorno qualche gen­ darme. Ce n’era uno - per quanto era larga, la sua uniforme aveva qualcosa del costume preso a noleggio - ma non era a portata di mano perché in un punto su cui i veicoli conver­ gevano rapidamente. - Il porto? - domandai al giornalaio. L’uomo mi guardò perplesso. Ragazzine - forse erano don­ ne e prostitute - ridendo mi indicarono una direzione. Pen­ sare che stavo tornando alla nave fu sufficiente a rincuorar­ mi. Non avevo percorso neppure quattrocento metri quando passai di fronte a un cinema ricoperto di cartelli che annun­ ciavano Le grand jeu. Pochi minuti prima avrei tirato diritto, perché la verità è che nella piazzetta mi ero spaventato. Non dovevo star bene; attribuii al tropico un’irreprimibile atti­ vità avviluppante contro prede destinate, fra cui io mi ritro­ vavo fatalmente. Poiché ero di nuovo un uomo normale, mi fermai a leg­ gere i manifesti. Un po’ turbato scoprii che il pomeriggio avrebbero proiettato la prima versione del Grand jeu, quel­ la interpretata da Françoise Rosay, Pierre Richard-Willm, Charles Vanel. Mi paragonai a un bibliofilo che trova per caso in una libreria di infimo livello il prezioso libro lunga­ mente cercato. Per qualche oscuro motivo, o forse perché io

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l’avevo visto senza che i miei amici l’avessero visto, quel film era stato, per anni, il drappo che sventolavo nelle nostre con­ versazioni. Se di sera volevano trascinarmi al cinema, io do­ mandavo con aria petulante: «Volete farmi vedere un altro Grand jeu ?» Quando usci la nuova versione, lo ammetto, per­ si le staffe, mi esasperai contro un’opera che non mancava, forse, di meriti, la denunciai come un esempio della deca­ denza di ogni cosa. Lo spettacolo cominciava alle sei e mezzo. Anche se era­ no soltanto le cinque, avevo voglia di aspettare perché di quel film, ricordato come un momento felice della mia vita, ave­ vo dimenticato in gran parte la trama (qualcuno potrà dire che il fatto che tra i nostri migliori ricordi vi sia un film ver­ sa sulla vita una strana luce; ha ragione). Mentre ero in dub­ bio se rimanere o no, ripresi a camminare. Passai davanti a un altro cinema, che si chiamava Myriam, dove proiettava­ no un film che doveva trattare, a giudicare dai manifesti, di gente povera, di abiti vecchi, di macchine da cucire e di un monte di pietà. Dato che avevo riacquistato la mia buona vo­ lontà di turista, esaminai tutto il cinema e mi resi conto di un fatto singolare: il locale aveva due ingressi, quello fron­ tale e un altro laterale, sul caffè vicino. Mi introdussi in que­ st’ultimo perché la sete mi opprimeva di nuovo; mi lasciai ca­ dere su una sedia, davanti a un tavolino di marmo e, dopo un bel po’, quando si occuparono di me, chiesi una menta. Nel­ la parete di sinistra si apriva l’ingresso, sulla penombra del ci­ nema, chiuso in parte da una tenda di logoro velluto verde. Di tanto in tanto la tenda ondeggiava, sferzata dall’andare e venire di donne, per lo più negre, che entravano da sole per uscire accompagnate. Vicino al bancone, sulla parete di de­ stra, due o tre donne chiacchieravano con un pappagallo, che rispondeva gracchiando. Al fondo il locale si allungava in un chiaro patio dalle mattonelle colore arancio, a cielo aperto, delimitato da tre pareti viola, con porte strette che recavano, sul traverso, un numero. Un uomo con un annaffiatoio in ma­ no si aggirava tra i tavoli del caffè molto silenziosamente; dal­ l’aspetto, doveva essere un giardiniere, vestito con un enor­ me cappello di paglia, un abito leggero di cotone azzurro e sandali di canapa; con un anti-acaro diluito in acqua annaf-

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fiava le deboli assi del pavimento, facendo diventare nero ciò che era polveroso e grigio. In tutta franchezza, la menta che mi servirono risultò inferiore a quelle della nave. Di nuovo, mi ricordai di Veblen l’Inglese. Io non riuscivo a immaginarlo se non in luoghi molto civili - New York per lui era come la giungla -, in terme, come Aix-les-Bains o Evian, a Montecarlo, in via Veneto a Roma, nell’ottavo arrondisse­ ment di Parigi o nel West End di Londra. Dalle mie parole nes­ suno deve dedurre che Veblen fosse uno snob, anche se ne ave­ va qualche tratto, perché fingeva di provare avversione, cer­ to per scherzo (non si manifesta diversamente, tranne che in rari esemplari, lo snobismo), per tutto ciò che si distaccava dal­ la regola delle sue abitudini. La verità è che aveva condotto sempre una specie di doppia vita, una delle cui metà risulta, se non l’attribuiamo a un volubile snobismo, relativamente in­ spiegabile: il mio amico era esperto di gatti e più di una volta lo vidi, in incredibili fotografie sui giornali, circondato dalle vecchie signore che lo affiancavano nel suo compito di giura­ to della Reale Esposizione di Gatti in questo o quel posto. Questa attività non contaminava il resto della sua vita; Veblen era un uomo colto, nella cui educazione più che la volontà era intervenuto il gusto, un conoscitore del ramo profano dell’ar­ chitettura e delle arti decorative francesi del xvm secolo, esper­ to delle opere di Watteau, di Boucher e di Fragonard. Come ritengono alcuni, non mancava di competenza sulla pittura mo­ derna degli anni intorno al millenovecentoventi, che è durata fino a dopo l’inizio degli anni Sessanta. L’omino con il cappello di paglia aveva ultimato un giro di annaffiamento nel salone e adesso riposava su una sedia, vicino a uno dei tavoli. A un tratto fra le sue gambe vidi se­ duto un gatto, un gatto di casa secondo me, dal pelo bianco e con grandi macchie color caffellatte e nere. Ci guardava­ mo, il gatto e io; aveva il muso in due metà, un occhio nella metà nera e l’altro nella metà bianca. «E un giardino zoolo­ gico, - mi dissi. - Un pappagallo, un gatto, un cigno». Ave­ vo detto un cigno perché l’omino, nel tirar fuori il fazzolet­ to con cui si era asciugato la fronte, aveva scoperto sul lato sinistro della camicia un monogramma che raffigurava quelΓanimale. «Quanti ricordi», mormorai senza capire nulla.

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Percettibili, anche se indefiniti, si affollavano ricordi di tut­ ta un’epoca della gioventù. Si, riflettei, ero sicuro che Ve­ blen aveva un monogramma identico. Poiché il gatto conti­ nuava a fissarmi come se volesse comunicarmi una notizia, abbassai gli occhi. Quando li rialzai, sul tavolo c’era il cap­ pello di paglia, sull’omino la faccia di Veblen l'Inglese. Pen­ sai che era strano trovare in un individuo la faccia di un al­ tro. I casi del viaggio mi rivelavano, forse, che vi erano di­ versi esemplari di una stessa faccia sparsi per il mondo. - Fratello! - gridò Veblen, venendo a braccia aperte ver­ so di me. - Fratello! - risposi. Ci abbracciammo commossi. Aveva un odore forte. Lo guardavo stupito, ancora sorpreso, un po’ stravolto da­ vanti al mistero vertiginoso che si nascondeva in quella fac­ cia familiare. Identifichiamo la faccia con la persona; davanti a me c’era la faccia di Veblen, non le altre circostanze di Ve­ blen. Riflettei: nel mio amico, circostanze simili - abiti, for­ ma fisica, luoghi in cui si muoveva, atteggiamento un po’ pe­ dante e petulante - erano gli elementi principali della sua per­ sonalità. (Cambiate le circostanze, qualcosa di analogo forse potrebbe succedere a chiunque). Eravamo da vedere, due uo­ mini ormai quasi vecchi, uno nelle braccia dell’altro, sul pun­ to di piangere. Quando pronunciai la sciocchezza che lo tro­ vavo proprio bene, replicò sorridendo: - Hai ragione, mi si può invidiare, ma io posso assicurar­ ti che tu mi stai chiedendo, con gli occhi sgranati, cosa mi è successo. - Si, è cosi, - risposi. - Non mi aspettavo di trovarti qui. - Sembra un romanzo, non è vero ? Vuoi che ti dica cosa mi è successo ? - Certo, Inglese. - Allora, - continuò, - come nei romanzi, tu mi ordini un bicchiere e io ti racconto la storia intanto che mi ubriaco. - Cosa vuoi? - gli domandai, dopo aver chiamato il ca­ meriere. - Per me è tutto uguale, - disse. Rimase a guardarmi. Il cameriere portò un bicchiere e una bottiglia.

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- La lascio ? - domandò nella sua lingua. - Lasciala, - rispose Veblen. Presi la bottiglia tra le mani; l’annusai. Aveva un odore molto alcolico, che a momenti mi sembrò dolciastro e a mo­ menti amaro; esaminai l’etichetta, su cui c’era un paesaggio di montagne nevose, la luna e un ragno nella sua tela; lessi il nome: Silvaplana. - Che roba è ? - gli domandai. - Un beveraggio che usano da queste parti, - rispose. - Non te lo raccomando. - Ti faccio portare un’altra cosa, Inglese? - Neanche per sogno. Per me è tutto uguale, - ripetè. - L’e­ pisodio cominciò a Evian, circa tre anni fa. O un po’ prima, a Londra. A quell’epoca ero un uomo fortunato, e Leda mi ama­ va. Hai saputo della mia storia con Leda ? - No, - dissi. - Non ne so nulla. La mia risposta non lo rallegrò. - La conobbi a Londra, a una festa da ballo. Mi colpi su­ bito e, guardando i suoi lunghi guanti bianchi, le dissi (ma non dovrei raccontare queste idiozie) che lei era il cigno ed era Leda. Rise senza capire. Ti assicuro che era la più giova­ ne e la più bella della festa. Come descrivertela ? Molto fine e impeccabile, con pesanti boccoli biondi e gli occhi azzurri. Fu lei stessa a rivelarmi un limite della sua perfezione: ave­ va le ginocchia sporche. «Quando le lavo (o quando indosso la biancheria migliore) mi perseguita la sfortuna con gli uo­ mini». (La verità è che si espresse con maggiore crudezza). Era molto allegra. Non ho conosciuto un’altra donna che si divertisse cosi tanto della vita. Non dico bene, della vita: del­ la sua vita, dei suoi amori e dei suoi inganni. Non c’è dub­ bio che fosse notevolmente appagata. Non aveva pazienza con i libri, e di ciò che si chiama cultura non sapeva neppu­ re una parola; ma se credi che fosse una sciocca, ti sbagli. Per­ lomeno era molto più abile di me. Se ne intendeva della sua specialità. Aveva scelto l’amore, gli amori, l’amor proprio di uomini e donne, gli inganni, gli intrighi, ciò che la gente di­ ce e ciò che la gente tace. Ti assicuro che ad ascoltarla mi ve­ niva in mente Proust. A sedici anni l’avevano sposata con un vecchio diplomatico austriaco, un uomo colto, astuto e dif-

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fidente, che lei ingannava con estrema facilità. Sembra che quel tale credesse di essersi sposato con una specie di gatti­ no e sin dall’inizio la trattò come fa un padrone, pretese di educarla e dirigerla; sin dall’inizio lei cercò di farlo conten­ to, soprattutto con gli inganni. Poiché i genitori pensavano che il marito non era un rivale all’altezza di Leda (in questa guerra in cui lei cercava di sottrarsi alla cattura e lui tentava di assoggettarla), la sorvegliavano come altri due mariti ge­ losi. Non credere che in mezzo a questi affanni perdesse l’al­ legria o l’affetto per i genitori o per l’austriaco. Amava tut­ ti, mentiva a tutti. Era splendida la gioia con cui organizza­ va le sue complicate bugie. Prima che mi presentasse al marito (dopo lo frequentai parecchio), all’inizio dei nostri amori, una sera le domandai: «Non sospetterà qualcosa? Ci trova sempre insieme». Ri­ cordo che rispose: «Non preoccuparti. Mio marito è uno di quegli uomini molto virili, buoni fisionomisti per le donne, che non ricordano mai un viso d’uomo perché non lo vedo­ no neppure». Ciò che mi sorprendeva - oltre alla sua bellezza, alla sua gioventù, al suo fascino, alla sua intelligenza (particolare e limitata, ma finissima, molto più lucida della mia) - era il fat­ to incredibile, provato più volte, che fosse innamorata di me. Mi raccontava tutto, non mi nascondeva niente, come se fos­ se sicura - io la rispettavo, riconoscevo la maturità dei suoi giudizi, non mi permettevo di dubitare (ma un po’ dubita­ vo) -, come se fosse sicura che mai avrebbe usato contro di me quella prodigiosa macchina di bugie. Io ringraziavo la ge­ nerosità del destino e una sera, in una specie di ubriacatura d’amore e di vanagloria, le dissi: «Anche se tu m’ingannas­ si, non potrei fare a meno di ammirarti». In buona fede pen­ savo di essere dotato della necessaria indole filosofica. D’al­ tra parte, non c’era una sola cattiva azione compiuta da Le­ da che non fosse soprattutto piacevole. - Dimentico Lavinia, - disse Veblen l’Inglese, carezzando la testa del gatto, che sedeva ancora tra le sue gambe. - La­ vinia, la gattina di Leda, era una gatta di casa, con il pelo molto morbido, con macchie caffellatte e nere, con il muso diviso in due metà, una nera e una bianca. Con quell’aria da

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gatto dei poveri aveva la stessa anima di Leda. Non sai quan­ to si somigliassero. Smorfiosa e falsa, ti ingannava sempre, e quando scoprivi l’imbroglio, l’animaletto ti lasciava sbalor­ dito. Era delicata, nemica della sporcizia. Dopo aver man­ giato, la signorina doveva pulirsi, come ogni nobildonna, i baffi. Un giorno mi ricevette con grandi dimostrazioni di af­ fetto, e ciò mi lusingò moltissimo perché capii che Lavinia mi rilasciava un certificato di ammissione in casa sua. Quan­ do mandai l’abito azzurro in tintoria scoprii che la gatta mi aveva ingannato con la sua cordialità per usare i miei panta­ loni come tovagliolo. A Lavinia non importava nulla di nes­ suno, tranne che di Leda. Forse anche Leda era uguale: an­ che lei ebbe un solo amore. Non ricordo chi, se Leda o io, parlò per primo di trascor­ rere un po’ di tempo in qualche posto della Francia. Sono si­ curo, questo si, che Leda scelse Evian. Questa scelta mi sor­ prese, perché credevo di conoscere Leda e davo per sconta­ to che avrebbe scelto un posto estremamente mondano; e mi aveva anche un po’ deluso perché io già mi ero immaginato con la mia amica al braccio, nel pieno splendore di Monte­ carlo e di Cannes. Ci pensai meglio e mi dissi: «Cosa voglio di più ? Non andremo di festa in festa, non dovrò preoccu­ parmi delle sue inevitabili conquiste. Sarà tutta per me». Raccontarci il viaggio che avremmo fatto era uno dei pia­ ceri di quell’epoca; eppure, quando vi furono le prenotazio­ ni e le date, quando tutto fu reale, sentii di essere poco con­ tento di interrompere la nostra vita a Londra. Poiché né io né nessun altro potevamo opporci ai desideri di Leda, ben presto riprese forza in me la voglia di partire. Sorsero delle difficoltà; i genitori si insospettirono, non videro di buon occhio quel viaggio; anzi, peggio: il marito parlò di accom­ pagnare sua moglie. Di queste vicissitudini Leda mi teneva informato, poiché gli altri, forse per istinto, si guardavano dal manifestare sospetti e crucci di fronte a estranei. I geni­ tori, due vecchi ipocriti, per confondermi si dimostravano fa­ vorevoli al viaggio e il marito mi chiedeva, con evidente astu­ zia, di non lasciarlo solo durante l’assenza di Leda perché, senza di lei, chi lo avrebbe invitato? Queste commedie irri­ tavano la ragazza, che temeva di apparire ai miei occhi come

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una grande bugiarda. I preparativi continuavano e, impegnata con la modista, con la manicure, con il parrucchiere, con le spese, alla mia amica non rimaneva un minuto del giorno per vedermi; quanto alle sere, le passava, si capisce, con la fami­ glia. «Meno male che c’è il telefono», sospiravo rassegnato. Devo ammettere che Leda trovava sempre l’occasione per far­ mi un rapido saluto telefonico. La speranza in quel viaggio che ci teneva divisi e che alla fine ci avrebbe riuniti si allon­ tanava a poco a poco. Quando tutto sembrava compromesso, Leda annunciò: «Amore mio, andiamo. Purtroppo ci accom­ pagneranno mia cugina Adelaida Brown-Sequard e la mia nipotina Belinda. Senza di loro niente Evian. Tu e io viaggeremo divisi e ci ritroveremo all’albergo Royal. Affinché tu non faccia il viaggio proprio da solo, ti lascio Lavinia. La por­ terai tu. Ti affido ciò che amo di più... dopo te, amore mio». Fui felice, mi avvilii, mi ripresi. Dentro di me commentai ma­ linconicamente: «Leda con una nipotina! On aura tout vu». Poiché io sarei dovuto partire prima, la verità è che te­ metti di dover passare del tempo a Evian con la gatta; ma cambiammo i piani e fu lei la prima a prendere l’aereo, e quando io atterrai a Ginevra con Lavinia, Leda ci attendeva all’aeroporto. La nostra automobile entrava a Evian quand’era ormai pomeriggio. Non so perché mi venne una gran voglia di ri­ tardare il nostro arrivo in albergo; avrei voluto prolungare il percorso e trattenere vicino a me (in modo patetico, come si abbracciano gli amanti che il destino divide) Leda, che ben diritta sul suo sedile mi riferiva, credo, particolari del suo viaggio. «Perché sei cosi bella?», le dissi prendendole ansio­ samente le mani e dando un tono spensierato alle mie parole. Anche se sensibile a qualunque rimprovero, lasciò correre quello che era nella mia domanda e badò soltanto all’elogio della sua bellezza. Lusingata, si drizzò ancora di più, e quel movimento, il lungo collo, la pettinatura, gli occhi, che era­ no davvero incredibili, me la fecero vedere per un istante co­ me un uccello. Magari la mia accompagnatrice fosse stata un uccello; era Leda, la ragazza che io amavo, e per la prima vol­ ta mi dolse la sua bellezza, e mi sembrò lontana. « Scendiamo, - dissi quando arrivammo al cancello del parco. - Andiamo a

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piedi fino all’albergo». Per avere ragione delle sue obiezioni spiegai: «La povera Lavinia ha bisogno di fare un po’ di mo­ to». Camminavamo in silenzio, ma ben presto sentii ciò che temevo: «Abbiamo le stanze su piani diversi, amore mio. Questa notte non dormiremo insieme. Forse domani... » Non dissi nulla. L’uomo della portineria mi porse un foglio da firmare e mi comunicò il numero della stanza. «Dalla parte del la­ go?», domandai. «Dalla parte del lago», rispose. «Ah no, - dissi. - La voglio dalla parte della montagna. Che guardi verso sud». «Che maniaco», protestò Leda. «Brutto segno - mi dissi - far irritare la persona amata». Era la prima vol­ ta che questo mi succedeva con lei. Credendo di essere fur­ bo, domandai: «Senza cambiare piano, potrei avere una stanza che guardi sulla montagna?» «Certo», rispose l’uo­ mo. Allegramente Leda cominciò a parlare delle terrazze su cui avremmo fatto colazione. Entrammo nella gabbia del­ l’ascensore, ridipinta di fresco e barocca, salimmo al primo piano, camminammo per corridoi larghi (l’albergo era sta­ to costruito in un’epoca in cui c’era ancora molto spazio nel mondo) su immacolate guide verdi. La mia stanza era gran­ de e mi fece venire alla memoria (sono sicuro che c’era odo­ re di lavanda) stanze da letto di lontane ville della mia gio­ ventù. Il grigio della carta da parati era in delicata armonia con la seta rosa che rivestiva i pannelli del grande letto di ottone. Spinto dall’ispirazione del momento esclamai: «So­ no sicuro che in questa stanza sarò felice». Leda mi diede il più lungo bacio del giorno, prese fra le braccia la gatta e mi disse «a domani». Sistemai le mie cose, feci il bagno, mi diedi una passata leggera, come dicono i barbieri, e scesi nella sala da pranzo. L’albergo era quasi vuoto. Guardando verso la porta, poi­ ché aspettavo con curiosità l’arrivo di Leda, di sua cugina e della nipotina, mangiai frugalmente. Alla fine tornai nella mia stanza. Fumai un sigaro sulla terrazza: c’era odore di er­ ba tagliata e un rumore di rane e di grilli. Mi infilai nel let­ to, rimasi sveglio. Nessuno è amareggiato quanto l’amante sdegnato che non si mostra offeso perché non sa se ha ra­ gione. (Sembra impossibile, ma io ero finito in queste con­

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dizioni). Durante dialoghi immaginari, rimproverai tutta la notte Leda per aver rovinato il nostro soggiorno a Evian. Am­ misi che la donna sposata deve stare bene attenta e deve an­ dare con i piedi di piombo con le sue confidenti, anche se cu­ gine; ma l’amarezza tornava ancora e formulai più di una fra­ se dura, che imparai a memoria per dirle l’indomani. Mi svegliò, l’indomani, il canto degli uccelli. Mi affacciai sulla terrazza; vidi il bosco sul fianco della montagna e più in basso, intorno all’albergo, ragazze con enormi falci che ta­ gliavano l’erba del prato. L’uomo che portò il vassoio della colazione sulla terrazza spiegò: «Stiamo preparando la pelouse del parco. Da un momen­ to all’altro arriverà la foule». Che arrivasse o no la foule mi importava ben poco. Quan­ to a Leda, nonostante i suoi accenni alle nostre colazioni sul­ la terrazza, capii che era meglio non aspettarla. Poi me ne andai in giro per il parco, mi addentrai nel bo­ sco, credo di essermi seduto su un tronco e di essermi ab­ bandonato alla malinconia. La cosa più deplorevole era che non mi bastava aver perduto l’amore di Leda; ero triste an­ che perché avevo i capelli bianchi, perché stavo invecchian­ do, perché mi rimaneva poco tempo, perché sperperavo que­ sto poco tempo in un albergo costosissimo, dove ogni giorno di tristezza mi costava una fortuna. Sono sempre stato mol­ to disordinato, ho sempre lasciato tutto nelle mani - mani davvero enormi - del procuratore Rafael Colombatti (piedi piatti, faccia pallida, vestito nero) e ogni tanto mi assali la paura, che sembra una cosa da romanzo, di ritrovarmi dalla sera alla mattina senza un soldo. Dovetti tornare perché si stava facendo tardi per andare a mangiare. Nella capace sala da pranzo vi erano pochi tavoli occupati. I commensali erano gli stessi del giorno prima: una famiglia di solidi industriali di Lione; un attore francese, piut­ tosto famoso (io non l’avrei riconosciuto se il maître d’hôtel non me ne avesse fatto il nome); un tipo giovane, che avevo visto più di una volta, recentemente, con le sue guance color mattone, gonfie e flaccide, che gli conferivano un’aria da stu­ pido, per me decisamente disgustoso, e una ragazza della fa­ miglia Lancker, piuttosto bella e splendente, che riconobbi

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subito perché avevo parlato con lei mezzo minuto, roba di mille anni fa, a un tè del club del tennis di Montecarlo. Mi accingevo a prendere l’ascensore per salire nella mia stanza, pensando che se mi avessero lasciato Lavinia, che da­ va continuamente fastidio, sarei stato più occupato, quando apparve Leda. Trattenendo un grido, mormorò: «Andiamo tutto il giorno a Ginevra. Andiamo via subito». Ero cosi stupito che non sapevo chi comprendesse la pa­ rola andiamo·, me o la cugina e la nipote. Poiché Leda ag­ giunse: «Cosa ti succede? Bisogna fare in fretta», capii che la mia fortuna era migliorata. Presi l’impermeabile e cominciammo il nostro viaggio, co­ me se ci corresse dietro il diavolo. Giunti a destinazione po­ tei riflettere che l’impazienza proviene dal cuore, e quindi è inutile cercare motivi che la giustifichino; troveremmo sol­ tanto pretesti. Voglio dire che Leda non aveva nient’altro da fare, apparentemente, a Ginevra, se non passeggiare con me per tutta una giornata libera, molto lunga e molto felice. Vedemmo il getto d’acqua nel lago e i pesci nel Rodano; en­ trammo, a rue de la Corraterie, in librerie e, nella Grande Rue, in librerie e negozi di antiquari (comperai per Leda un fermaglio di vetro, dentro il quale piccole gemme formava­ no una fenice); ci riposammo nel parco di Eaux-Vives e man­ giammo in un ristorante bernese. Credo che fossimo ancora nel parco quando suggerii di andare in un albergo. «Sei paz­ zo? - replicò: - Per quello c’è il Royal». In effetti, tornati a Evian, rimase con me, e la mattina dopo facemmo cola­ zione insieme sulla terrazza. Propose di andare a Losanna: quando risposi che ero pronto per partire sorrise nel modo più incantevole e disse: «Andremo con l’ultimo vaporetto della sera. Ti aspetto all’imbarcadero alle undici». Mi baciò sulla fronte e se ne andò. Decisi di non abbattermi, anche se mi rimanevano davanti parecchie ore vuote. Avrei preso animo dall’immediata feli­ cità e avrei sopportato fino alle undici di sera. Mi concessi un lungo bagno, mi vestii con lentezza e scesi nel parco del­ l’albergo. Prima di uscire incontrai Bobby Williard. Lo co­ nosci ? Non perdi nulla perché è un cretino. Come se gli aves­ sero dato la carica cominciò a ciarlare contro Evian, che

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chiamò la seconda morte. «La prima è Bath», spiegò con una risatina. Disse che il Royal era vuoto e ripetè: «Non c’è nes­ suno, nessuno». Per il piacere di parlare della donna che amavo e per vanità risposi: «C’è Leda». Non lo avessi det­ to. Bobby mi avvicinò il suo alito pesante e gridò: «Sai co­ sa mi hanno raccontato? Che è una p... Sembra che vada con chiunque». Mi allontanai appena possibile e mi rintanai nella sala del pianoforte, dove non c’era mai nessuno. Vi ri­ masi un po’, per riprendermi. E incredibile l’amarezza che mi lasciarono le parole di quell’idiota. Un po’ rinfrancato, al­ la fine, chiesi al portiere dei dépliant di alberghi di Losanna. Con tre o quattro dépliant in mano, mi sedetti su una sedia di tela, al centro del prato appena falciato. Poiché ero dispo­ sto a trascorrere il tempo con molta calma, quando già stavo per cominciare a leggere diedi un’occhiata tranquilla intorno a me. Fermai gli occhi sul balcone di Leda e in breve scoprii il riflesso della mia amica nel vetro di uno dei battenti. Un altro riflesso venne fuori dalla penombra; nel vetro si uniro­ no. Mi dissi: «Leda bacia la nipote». Non so quando passai dal divertirmi della scoperta di un interessante fenomeno di ottica in base al quale Leda e sua nipote sembravano, per uno spettatore posto nella mia angolazione, della stessa statura, a scoprire che Leda stava baciando un uomo. Quel momento, mi devi credere, fu come una pietra miliare, una pietra ap­ pena intravista, ma finalmente intravista e immediatamente decifrata come il confine tra due mondi, quello di sempre, nel quale io stavo con Leda, e un mondo sconosciuto, piuttosto sgradevole, nel quale sarei entrato per una legge fatale. Mi si oscurò la vista, lasciai cadere i dépliant, quasi fossero serpenti velenosi. Era strano: nonostante lo stato di confusione in cui mi trovavo, la mente lavorò con lucidità e prontezza. Per pri­ ma cosa mi diressi verso la portineria. Chiesi della signora o signorina Brown-Sequard e di una bambina che l’accompa­ gnava. Mi risposero che queste persone non erano tra gli ospi­ ti del Royal. Poi chiesi il conto, pagai, salii nella mia stanza. Li esplose l’amarezza vera; mentre preparavo le valigie mi muovevo nella stanza come un pipistrello accecato, che va a urtare contro le pareti. In fretta e furia uscii da quella tri­ ste stanza e con l’autobus dell’albergo scesi all’imbarcadero.

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Poiché c’era da aspettare un’ora e più, cominciai a pensare. Per prima cosa mi domandai (ancora adesso non ho finito di domandarmelo) se avevo visto davvero Leda che baciava un uomo. Provai la tentazione di rimanere. Dissi: «Forse ri­ manere è la cosa più prudente»; ma poi dissi: «Rimanere è solo vigliaccheria». Credo che in fondo alla mia anima già sapessi che vicino a Leda non potevo trovare altro che an­ sietà e tristezza; ti assicuro che partii per quel motivo (qua­ lunque donna ti dirà che l’ho fatto per amor proprio). Non c’è dubbio che sulla barca, attraversando il lago, mi vedevo padrone del mio destino; è anche vero che a un tratto vola­ rono sul mio capo enormi uccelli bianchi e fui spaventato da oscure premonizioni. Andiamo tutti su una barca, con destinazione sconosciu­ ta, ma mi piace credere che in quel momento io impersona­ vo quel simbolo in modo particolarmente appropriato. Non domandarmi, perché non lo ricordo, dove mi fermai a Lo­ sanna. Ricordo, si, che dalla finestra della mia stanza, attra­ verso una giornata bellissima, in cui nulla aveva consistenza, osservai affascinato l’altra riva. Potrei disegnarti l’albergo Royal, tanto rimasi a guardarlo. A sera, file punteggiate lo il­ luminarono a poco a poco. Su quell’immagine chiusi gli oc­ chi e, con le braccia piegate su un tavolo, di fronte alla fine­ stra, mi addormentai. Dovevo essere molto stanco perché la mattina dopo mi svegliai nella stessa posizione. Non appena chiusi gli occhi (fa’ attenzione: io avevo la te­ sta poggiata sul tavolo, di fronte alla finestra che guardava sul lago, cosicché se li avessi aperti un attimo avrei visto l’in­ cendio) l’albergo Royal fu avvolto dalle fiamme. Evidente­ mente nessuno dormi quella notte, tranne io che avevo Le­ da laggiù. Si potrebbe dire che qualcuno, lo stesso che dal momento in cui ho messo piede sul vaporetto guida la mia vita, mi ab­ bia fatto addormentare. L’indomani mattina fece in modo che non guardassi davanti a me; mi portò dentro la stanza e, poiché ero deciso a staccarmi da Leda, mi travolse di impe­ gni. E piuttosto strano che io chiedessi, prima della colazio­ ne, di parlare con Londra. Chiamai Londra (tutto questo lo di­ resse il destino) per avvisare che arrivavo a casa in giornata.

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Se per non tornare indietro cercavo di legarmi, mi trovai di fronte a un legame più forte del previsto. Mi dissero che quel­ la notte Colombatti si era sparato un colpo di pistola e che era agonizzante all’ospedale. Risposi: «Arrivo con il primo aereo». Poi parlai con il portiere e prenotai il biglietto. Al­ le undici dovevo essere all’aeroporto. Guardai l’orologio. Erano le otto e mezzo. Appena chiesi la colazione me la portò una svizzera, molto slavata e molto giovane, cosi interessa­ ta alla vicenda che non si domandò neppure se ne ero al cor­ rente e parlò senza interrompersi, fino alla fine della frase, ripetuta due o tre volte: «Tutti morti». Domandai: «Do­ ve?» Capirai come sono rimasto quando ho sentito: «Nella sciagura del Royal». Dopo c’è un tratto in bianco, di cui non ho ricordi. Credo di essermi affacciato alla finestra e che bastò un po’ di fumo laggiù di fronte a confermare il peggio. Con il primo vaporet­ to sarei tornato a Evian, ma il ragazzo dell’ascensore dichiarò: «Non vi sono morti». Interrogai il portiere. Questi, come il ragazzo dell’ascensore e tutti coloro che interpellai nell’al­ bergo, ripetè la stessa cosa: «Non vi sono morti». Ad ogni modo avrei traversato il lago e quanto prima mi sarei gettato al collo di Leda. Volevo vederla e toccarla, do­ po la sciagura che sarebbe potuta accadere. L’incendio, le no­ tizie false, erano segni mandati per ricordarmi che nella vita vi sono pene più gravi di un inganno. Io avevo intravisto il dolore di sapere che Leda era morta; con lei viva, dar retta all’amor proprio sarebbe stato come sfidare la sorte. Il portiere mi infastidiva; si vantava del merito di aver tro­ vato un posto sull’aereo delle undici, e come se leggesse nella mia mente, riprendendo l’altro tema, esclamava: «Neanche un morto al Royal. Lei non crede alla mia parola?» Tra me pensai che il piano di gettarmi al suo collo non sarebbe stato realizzabile se il mio arrivo improvviso avesse irritato Leda, che ancora non disponeva dei luoghi necessari a nascondere, l’uno all’altro, i suoi due amanti. (Decisi che il rivale, chissà perché, doveva essere quel ragazzo con le guance flaccide co­ lor mattone). Mi dissi anche che mentre io stavo per affron­ tare questo viaggio a Evian, inopportuno e odioso, Colom­ batti, l’uomo di fiducia che per lunghi anni aveva retto i miei

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averi e, lavorando affannosamente nella prigione di un uffi­ cio con la finestra sul cortile, aveva permesso che io me ne andassi in giro per il mondo a raccogliere lusinghe, moriva senza una mia parola di gratitudine, senza l’addio della mia mano, abbandonato in un ospedale di Londra. Di nuovo il destino mi allontanava da Leda. Mi imbarcai sull’aereo delle undici. Arrivai in tempo per dire a Colombatti la mia parola di gratitudine. La mia mano che gli dava l’ad­ dio, il suicida la evitò agilmente perché al massimo un’ora do­ po, magari nel volo di ritorno dello stesso aereo che mi ave­ va portato fin li, fuggì verso le due Riviere e, temo proprio, a Montecarlo. Pare che sia uscito con le bende attorno alla testa; ma la cosa evidente è che quelle che dovevano essere bendate erano le mie facoltà intellettive. Non ci crederai: per un po’ rimasi a preoccuparmi dell’effetto di una fuga cosi strampalata sull’organismo del mio ex amministratore. Cer­ to, neanche rifugiandomi nella stupidità potevo salvarmi per molto tempo dalla realtà. Dopo aver pranzato mi resi conto dei cavalli da corsa, delle abbuffate di caviale e delle costo­ se cortigiane di Colombatti. Nell’ufficio verificai i suoi fur­ ti e posso dire che mi ritrovai, dalla mattina alla sera, senza un soldo. Non c’era dubbio che dopo aver venduto quello che mi restava, mi sarebbero rimasti ancora debiti. Quella sera dimenticai del tutto Leda. Non puoi immagi­ nare fino a che punto mi colpiscono le difficoltà finanziarie. Forse perché non sono mai riuscito a comprenderle, mi de­ primono e mi spaventano. Interpretai la mia sfortuna come un castigo, intuii un’infinità di colpe, mi abbandonai ai ri­ morsi. Più triste che se Leda fosse morta carbonizzata, con­ tinuai a rigirarmi nel letto e non dormii fino al giorno dopo, credo fino al momento in cui arrivò il negro. In apparenza conservava un silenzio perfetto, ma qualche rumore dovette farlo perché mi svegliai. Era seduto su una sedia molto vicina, indossava una jaquette, il suo aspetto era distinto e la sua pelle nera. Credo che furono gli occhi, cosi tondi, a inquietarmi. Suonai il campanello inutilmente, per­ ché i fedeli domestici, a quel punto della faccenda, avevano lasciato la mia casa come topi che fuggono da una nave che sta per affondare.

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Non era un negro fantastico; era di carne e ossa ed era partecipe, con ingenua avidità, della moltitudine di minu­ scole circostanze che danno il suo carattere inconfondibile alla realtà; nonostante tutto questo, risultò indubitabile che me lo mandava la provvidenza. Era diplomatico, o meglio ad­ detto culturale, di una nuova repubblica africana e veniva a offrirmi un contratto, a nome del suo governo, perché io ac­ cettassi di dirigere un loro museo; tra una frase e l’altra mi fece sentire la quantità di sterline che mi avrebbero pagato come anticipo. Anche se la pronunciò rapidamente, la colsi senza difficoltà perché, sterlina più sterlina meno, era la stes­ sa in cui avevo calcolato il mio debito dopo aver venduto l’ap­ partamento, due case date in affitto e pochi ettari di campa­ gna su cui Colombatti non aveva messo le mani. «Dirigere un museo ?», domandai. «Un museo d’arte», rispose, per poi aggiungere come conferma: «D’arte moderna». «E laggiù, quanto grano verrei a beccare?», domandai. Ignorando la volgarità delle mie parole rispose: «Abbiamo acquistato i qua­ dri, abbiamo costruito un edificio (con un certo orgoglio di­ chiaro che nella nostra modesta capitale la costruzione più importante è il tempio dell’arte) e cosi per ora lei potrà ap­ pendere e distribuire ciò che abbiamo; ma arriverà, non ne dubiti, il giorno di affrontare nuovi acquisti e allora...» Con un gesto traducibile con «Non c’è fretta» lo pregai di prose­ guire. «Come ha detto il nostro presidente, - continuò, - sia­ mo il mondo di domani: il tempo scorre verso l’Africa». Non so molto bene se il pensiero successivo appartenesse al presi­ dente o fosse farina del suo sacco. Il mio negro aggiunse: «La nostra avventura prediletta consiste nell’investire per il do­ mani», e predisse che un giorno, svegliandosi, avrebbero sco­ perto che tutta quell’arte, «piuttosto brutta, magari, per l’oc­ chio male istruito», valeva quanto avere in casa enormi bloc­ chi d’oro. «Abbiamo accumulato più Picasso e Gris - affermò - che a San Paolo, più Petoruti che in qualsiasi altro posto. E se tutto questo non bastasse, la statua alla Patria, colloca­ ta di fronte al museo, è opera - non dubito che questa cir­ costanza le sarà gradita - di un suo glorioso compatriota, lo scultore Moore». Ammise che forse poteva sbagliare con la previsione precedente, ma aggiunse: «Ci accompagnano nel-

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l’errore non soltanto gli artisti interessati e i proprietari di gallerie, ma tutti gli esperti in questa materia, uomini d’af­ fari, signore del gran mondo, banchieri e ricchi industriali! Forse svegliandoci non troveremo oro, ma banconote falsifi­ cate grossolanamente, prive di valore e di liquidità, prodot­ te da imbrattatele. Questo risultato farebbe divertire molto i vecchi che hanno perduto, insieme all’elasticità delle arte­ rie, la duttilità dello spirito, indispensabile per accettare l’ar­ te nuova ! » Alla fine della sua tiritera chiari, non senza di­ gnità, che lui e il suo presidente avrebbero preferito manda­ re a fondo la patria con i giovani piuttosto che esaltarla con i reazionari, i colonialisti e i negrieri. Anche se il mio visitatore era assolutamente reale, rive­ lavano l’origine provvidenziale della sua offerta il fatto che mi aprisse un purgatorio, un luogo in cui espiare le mie col­ pe, e soprattutto l’identità dell’importo delle sterline che mi avrebbero pagato con quelle del mio debito. Confesso che fu proprio quest’ultima circostanza a convincermi, mi parve un vero tocco magico. «Bene, - dissi, - quando devo partire?» «Quando vuole», rispose con un gesto ampio, da vecchio di­ plomatico, che mi concedeva tutto il tempo del mondo, sia pure per un istante. «Oggi è mercoledì? - continuò. - Ve­ diamo, con l’aereo di sabato o, se preferisce, con quello di domani». Sentii la mia risposta come se non fosse mia, co­ me se per bocca mia parlasse uno sconosciuto: «Tra oggi e sabato posso fare cosi poche cose che le farò tra oggi e do­ mani, se non continuiamo a chiacchierare». Il diplomatico mi consegnò un assegno, annunciò che l’indomani, a mezza­ notte, poiché l’aereo partiva all’una e venti, sarebbe venuto a prendermi con la sua auto, mi diede qualche indicazione relativa al fatto che gli abiti più pesanti non erano di rigore al tropico e se ne andò. La mattina stessa mi recai dal console e da un avvocato; questi andai a trovarlo anche nel pomeriggio, per firmare del­ le carte che lo autorizzavano a vendere le proprietà e a sal­ dare i debiti. Per il suo onorario, lo pregai di vendere all’a­ sta quadri, mobili e quant’altro era rimasto nel mio apparta­ mento. Era rimasto quasi tutto, perché portai via soltanto una valigia, con un po’ di biancheria e l’unica foto di Leda

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che possedevo. Tra un attimo vado nel mio bugigattolo e te la porto. Vedrai che Leda era bella come ti ho detto: è in se­ condo piano e purtroppo è un po’ sfocata; quella che si vede in primo piano e nitida è la gatta. Be’, senza avere neppure il tempo di pensarci, salii e, ad­ dormentato da una sola pillola contro la nausea, arrivai a de­ stinazione. All’aeroporto mi attendevano le autorità con la banda; mi condussero, come tutti, a un brindisi di benvenu­ to con il presidente e a deporre una corona di fiori sulla tom­ ba del Padre della Patria, e finalmente mi lasciarono nel mio museo. Li mi svegliai, li cominciò la tribolazione. Poiché quei quadri o quelle statue ti riportano a te stes­ so, capii dove mi trovavo, cosa avevo fatto e cosa avevo la­ sciato. Spinto da circostanze fortuite, e non da decisioni mie, avevo lasciato Leda, di cui non sapevo più nulla. A Lon­ dra non avevo letto i giornali; ero rimasto frastornato dal­ l’operazione di Colombatti e dal mio viaggio in Africa; ave­ vo occupato quelle poche ore a sbrigare delle pratiche e, anche se può sembrare inaudito, non avevo controllato l’af­ fermazione del portiere di Losanna, secondo il quale non c’erano stati morti nell’incendio del Royal. Il dubbio si mi­ se al lavoro sin dal giorno in cui ero arrivato. Intanto il dub­ bio che Leda fosse viva e poi quello di averla davvero vista insieme a un uomo, e anche quello che un inganno valesse più dell’amore stesso. Aggiungi a tutto questo che non po­ tevo tornare in Inghilterra, che mi inchiodava qui un con­ tratto e potrai indovinare l’animo con cui mi aggiravo nel­ le mie gallerie piene di concreti, figurativi eccetera. Come un condannato guarda i muri della sua cella, cosi guardavo i quadri; non è strano che li odiassi. Ti ho detto che mi svegliai, ma quello fu appena un risve­ glio all’interno di un sogno. Prima che le cose assumessero un’aria reale passò un tempo considerevole. Non ci crederai: le mie stanze, che si trovavano nell’ala destra del museo, le immagino, quando ricordo i primi giorni, nell’ala sinistra. Evidentemente nessuno se ne accorse, ma io vivevo in uno stato di delirio, aspettando chissà che. Ad ogni modo fu una sorpresa trovare una mattina sulla cartella della mia scriva­ nia un telegramma indirizzato a me. Lo aprii e lessi: Lavinia

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morta nell’ incendio. Sono molto sola. Telegrafa fermo posta se vengo o vieni. Leda. Dopo aver letto quel pezzo di carta capii che su un punto i miei dubbi mancavano di un vero fonda­ mento. Leda non poteva essere morta; in ciò vi era incom­ patibilità. Certo, come prova d’amore quella che avevo da­ vanti agli occhi era straordinaria. Non perché io ricordassi l’episodio di Evian; sempre, sin dall’inizio, mi era sembrato incredibile che Leda mi amasse. Intendiamoci, incredibile ma reale; un fatto favorevole che non corrispondeva a un mio merito, ma che era opera del caso. Nessuno ormai a Londra poteva ignorare i furti di Colombatti, né la mia bancarotta, cosicché Leda era disposta ad accogliere un povero o a seguirlo in Africa. Vi sono don­ ne, lo so bene, che vivono i momenti, ognuno dei momen­ ti, come se avessero dimenticato il passato e non credesse­ ro nell’avvenire; il fatto che simili donne brucino per noi le navi con cui poter tornare indietro non rappresenta una ga­ ranzia, perché quando arriva il momento se ne vanno a nuo­ to; ma sarebbe ingiusto includere tra queste anche Leda. Per agire cosi è indispensabile una certa confusione mentale, ma­ gari volontaria. Non ho conosciuto una mente più lucida di quella di Leda. Al confronto, la mia è confusa. Per esempio, 10 ho interpretato il telegramma come un regalo del desti­ no, che portava la situazione su un piano di magia. Non re­ stare alla sua altezza, non obbedire letteralmente, mandare invece del telegramma richiesto una lettera di spiegazioni, avrebbe portato sfortuna. E chiaro che saper dominare difficoltà e vantaggi pratici non è cosa da chiunque. Mi presentavano un nodo, io dove­ vo tagliarlo, d’accordo, ma come? La spiegazione non era nel telegramma. Il primo punto era eliminare la più piccola in­ certezza di Leda sulla mia totale indigenza. Io ero diventa­ to un povero diavolo e la nostra vita in Europa non sarebbe stata quella di prima. Volevo poi spiegarle che un contratto mi tratteneva qui. Per un anno non avrei ottenuto il passa­ porto. Non mi avrebbero lasciato fuggire e, se ci avessi pro­ vato, forse sarei finito in carcere. Infine dovevo descriverle 11 paese. Per quanto grande poteva essere la sua abnegazio­ ne, avrebbe finito per odiarmi soltanto per la noia. Dopo tre

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o quattro gite si sarebbe dedicata all’alcol e, più probabil­ mente, ai negretti. Come far capire tutto questo senza che fosse interpretato come un rifiuto ? Occupai il finesettimana a scrivere la mia lettera, a strac­ ciarla, a riscriverla quattro o cinque volte. Alla fine la spedii e mi misi ad aspettare. Aspettai un telegramma, una lettera, Leda in persona. Aspettai lunghi giorni e lunghe notti, dap­ prima fiducioso, ben presto atterrito. Passai dalla sicurezza di poter contare su di lei alla preoccupazione di averla offe­ sa, alla perplessità e alla paura. Telegrafai: «Per favore tele­ grafa se vengo io o vieni tu». Cosa avrei fatto se Leda mi avesse risposto di andare ? Non so. Non mi rispose cosi. Non rispose in nessun mo­ do. Dopo un’altra lunga attesa, la risposta arrivò su una car­ ta da lettere uguale, a prima vista, a quella di Leda, firmata Adelaida Brown-Sequard. Allora Adelaida Brown-Sequard, la cugina, esisteva davvero. Vado a prendere la lettera, vado subito, e te la faccio vedere. La lessi senza capire. Mi do­ mandavo perché Leda non mi avesse risposto personalmen­ te. Il tono della lettera era di rimprovero, tranquillo e cari­ tatevole. Se l’amor proprio non mi avesse accecato, affer­ mava la cugina, mi sarei accorto dell’immenso amore di Leda. Tutti gli uomini erano uguali; in nome dell’amor proprio sa­ crificavano l’amore. Dopo diceva qualcosa che mi fece male perché era vero: se una volta Leda era stata debole, io non avevo avuto debolezze nel punirla. L’avevo abbandonata a Evian. Non mi aveva preoccupato quale sorte le fosse toc­ cata nell’incendio; non ero tornato indietro; ero volato a Lon­ dra. Il giorno dopo, quando Leda era arrivata, aveva scoperto che me n’ero andato in Africa. Non appena trovò l’indiriz­ zo, telegrafò. Io non risposi con un telegramma; risposi con una lettera, dopo alcuni giorni. La resistenza di Leda, du­ rante quegli stessi giorni, toccò il fondo. La povera ragazza non finse. Genitori e marito notarono la sua disperazione e probabilmente ne indovinarono la causa, ma adesso questo non aveva importanza, perché nella maniera più stupida (co­ me se mi rifiutassi di capire, lessi varie volte il periodo), men­ tre una mattina usciva dall’ufficio postale (mattina e pome­ riggio andava a domandare se c’era qualcosa al fermo posta),

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evidentemente attraversò la strada senza accorgersi che arri­ vava un camion, perché tutti i testimoni avevano detto che si era gettata sotto le ruote e aveva trovato la morte nella ma­ niera più stupida. Credo che la lettera mi sia caduta a terra. Rimasi impie­ trito. Le congetture su una morte possibile non mi avevano preparato alla morte di Leda. Senza ironia mi domandai co­ sa stessi a fare in Africa se Leda era morta. Cominciai a va­ gabondare e a bere. Forse aspettavo il camion che desse la morte anche a me. O aspettavo che i bassifondi, o la foresta, che è vicina, mi inghiottissero. Abbandonai il mio posto. Mi cercarono, mi trovarono, mi portarono al museo, mi ammonirono, mi minacciarono di pro­ cessarmi (i negri sono molto amanti delle leggi). Si stancaro­ no e mi dimenticarono. Nella mia ubriachezza mi dicevo che in questi enormi sob­ borghi, alimentati dalla foresta, doveva esserci di tutto. Che, con il tempo, vi si poteva trovare qualunque cosa. Capisci?: qualunque cosa. Un giorno i miei passi mi portarono fin qui e dalla strada vidi Leda. Chiesi del padrone. Mi indicarono due negri piuttosto grassi, soprannominati il Consorzio. Chiesi lavoro. Dissero: «Non ce n’è». Poiché bastava uno sguardo sommario per ca­ pire che mentivano, rimasi. Lavoro ce n’è fin troppo. Sono tre anni che lavo bicchieri, annaffio il pavimento, riordino stanze in cui le donne sbrigano i loro affari e ancora oggi non sono stato sistemato. Non mi danno un soldo: su questo pun­ to il Consorzio dimostra carattere. Il mangiare è orrendo, ma vi sono sempre degli avanzi e non mi lamento. E la notte, per dormire, si sa, c’è la legnaia. Anche se ti sembra strano dal momento che vivo in un bar, bevo poco; qui chi non paga non beve. Sono secoli che non mi ubriaco. Voglio chiarirti che quella donna non era Leda. In primo luogo, i vestiti: neanche a fare il paragone. Leda si vestiva sempre come una signora. Quella che era qui aveva uno di quei vestiti dai colori violenti, a poco prezzo, che vedi su queste poverette. Poi il soprannome. Non so come si chia­ masse, ma le dicevano Leto, un soprannome ridicolo. Altret­ tanto per il resto. Era meno giovane, meno fine, meno bella.



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Certo, sul far della sera, dopo aver bevuto il mio buon bic­ chiere (avevo ancora un po’ di soldi), era Leda. L’illusione mi dominava in maniera perfetta. Dio mi perdoni, ma un pome­ riggio, mentre guardavo quel viso, mi domandai se avrei vo­ luto cambiarla con quello vero e cosa avrei guadagnato nel cam­ bio. La bestemmia durò un istante a poi cominciai a tremare. Non durò neppure la donna. Se ne andò con un giova­ notto dallo sguardo da stupido. Adesso, se la ricordo, non posso confonderla con Leda neanche se ci metto tutta la mia buona volontà. Ormai null’altro che l’abitudine mi tratteneva in questo tugurio, ma vi rimasi come uno che aspetta qualcosa. Con il passare degli anni, il febbraio scorso, dopo l’incendio di un edificio che nel quartiere chiamavano il Mezzo Mondo, ap­ parve la gatta Lavinia. Per te tutti i gatti sono uguali. Tu di gatti non te ne in­ tendi. Chi s’intende di una materia sa guardarla. Il medico sa guardare il malato, il meccanico sa guardare la macchina. Forse è assurdo, ma io so guardare un gatto. Per questo vo­ glio chiarirti che questa gatta è Lavinia, non un animale che ci somiglia. Non affannarti a fare calcoli per determinare l’età della gat­ ta che, salvatasi dall’incendio di Evian, sarebbe potuta arri­ vare chissà come, dopo un altro incendio, a questo piccolo caffè africano. Io ho riflettuto sulla questione, perché quella Lavinia sarebbe vecchia e questa (te ne puoi accorgere se le guardi la bocca) è una gatta giovane, di due anni e mezzo: esat­ tamente l’età che aveva all’epoca di Evian. Non ne devi de­ durre che sono due gatte diverse. Questa qui è Lavinia, te lo dico io che ho fatto la prova con Leto. Tra la cosa in sé e quel­ la che le somiglia c’è una differenza enorme. Se vuoi una spie­ gazione, ti ricordo l’eterno ritorno di cui parlano Nietzsche e altri. Si tratterebbe di un eterno ritorno limitato, per adesso, a una gatta. Gli elementi che originariamente formavano l’a­ nimale, dispersi nell’incendio dell’albergo, forse sono stati riu­ niti di nuovo, in maniera identica, da un colpo del caso. Una spiegazione puramente materiale porrebbe fine alle mie speranze. Non vi sarebbe nessuna possibilità che per due volte, nel breve tempo della mia vita, si verificasse un epi­

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sodio cosi straordinario. Se pensi che riprodurre Lavinia non sia meno complicato che riprodurre Leda, riesci a misurare Tenormità del mio castigo ? Dalla morte mi restituiscono la gatta della mia amata, non la mia amata. E pensare che mi commuovevo tanto al mito di Orfeo ! Almeno con Orfeo la crudeltà non era aggravata dal sarcasmo. Anche se questi tavoli somigliano a quelli di qualunque caffè europeo o nostro, ricorda che siamo ai margini della fo­ resta, un laboratorio da cui può uscire l’incalcolabile. Anni addietro ho valicato margini simili e da allora mi addentro in una terra sconosciuta. Ogni uomo si affaccia su quella terra: la terra del destino, della buona e della cattiva sorte; io ci abi­ to. Per questo non interpreto i ritorni o le apparizioni come fatti naturali; li vedo come segni. Prima Leto, un’approssi­ mazione, poi Lavinia, la stessa gatta, adesso tu. Perdonami se ti annoia o ti spaventa che ti coinvolga in una materia so­ vrannaturale, ma tutti voi formate un disegno in movimen­ to, che si concluderà con Leda. - Io - risposi rapidamente, come se volessi chiarire al più presto i motivi naturali della mia presenza - sono arrivato con una nave da crociera. Adesso torno a bordo. Permetti che ti dia un consiglio, Veblen ? Tu vieni con me e io sistemo con il capitano tutte le questioni del biglietto e del passaporto. - Io rimango fino a quando arriverà Leda, - dichiarò Ve­ blen ed emise un piccolo grido che mi sorprese due volte, per­ ché il pappagallo lo aveva ripetuto dalla sua parete. La causa fu l’indice di un negro grande e grosso, infilato violentemente nelle costole di Veblen. - Una metà del Consorzio - spiegò l’Inglese - mi ricorda che sto trascurando il lavoro. Qualche ragazza deve aver la­ sciato libera la sua stanza e io la devo mettere in ordine. Non te ne andare. Torno subito. Passando faccio un salto nel mio bugigattolo e prendo la lettera della cugina (cosi vedrai che esiste davvero) e la fotografia di Leda e della gatta. - Una domanda, Inglese·, questa è Lavinia ? - Si, - rispose, mentre se ne andava di corsa, sotto lo sguardo del negro, in direzione del patio. La gatta non gli andò dietro. Si strusciò contro le mie gam­ be. Credo che se avessi voluto avrei potuto portarla con me.

LA PARTE DELL’OMBRA

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Non aspettai il mio povero amico. Lo abbandonai per sem­ pre. Pagai, se non ricordo male; uscii in strada, ebbi la for­ tuna di trovare un taxi, tornai alla nave. Respirando l’odore tutto particolare che c’era a bordo mi sentii di nuovo a casa, e mi invase una grande debolezza, fatta di sollievo e di gioia. Credo che Veblen non sbagliasse. Ebbi paura, non so perché.



L’opera

Alzando tom sulla molle sabbia. LOPE DE VEGA

Come se non bastassero le promesse dell’aldilà, vogliamo durare a lungo sulla nostra terra, cosi vilipesa e cosi amata. Quasi ciascuno reca in sé l’ansia di sopravvivere nelle sue ope­ re, nei suoi figli, in qualunque modo. Senza dubbio è un istin­ to quello che ci muove e su questo punto, almeno, uguaglia­ mo in intelligenza due insetti, la formica e l’ape, e un rodi­ tore, il castoro o castorfiber. Se riflettessimo solo un momento attorno all’immortalità che procurano i libri, le opere d’arte, le invenzioni, i pubblici uffici, potremmo assaporare l’ama­ rezza di chi si è lasciato prendere in una truffa. Io aspiro al­ l’immortalità della mia coscienza e non sono cosi vanitoso da contentarmi di sopravvivere in mezza dozzina di volumi al­ lineati su uno scaffale; tuttavia mi aggrappo con unghie e den­ ti a quell’immortalità della mezza dozzina, il mio solido ba­ stione contro gli assalti del tempo, ed è altrettanto vero che rimango a bocca aperta, parlando per metafora, di fronte a coloro che un giorno dopo l’altro si affannano su lavori che svaniscono un giorno dopo l’altro. Come si può capire un ar­ tista cosi grande, i cui prodotti sono sottoposti a prove tali che spazzerebbero via i quadri del Museo d’Arte Moderna, per non parlare di molti libretti dei poeti ? Mi riferisco ai par­ rucchieri per signora e ai grandi chef, del tutto indifferenti alla rapida rovina delle loro elucubrazioni, sia che vogliamo chiamarle complicate acconciature o sapienti torte. Quanto ai citati libretti, do per certo che mi assicureran­ no una nicchia - dimora poco allegra, ma cos’ha di allegro la posterità? - nella storia della letteratura argentina. Forse non sarò né tra i più esaltati né tra gli infimi; mi rassegno a un posto secondario: per me, il più decoroso. Il mio nome è sco­

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nosciuto ai più dotti sulle squadre di football e sulle genea­ logie dei cavalli. Quando dico che sono uno scrittore, brilla­ no gli occhi del fortuito interlocutore che mi è proposto dai sedili del vagone, o dal tavolo del casinò o del pranzo di ga­ la, ma quando, su sua richiesta, dico il mio nome, il sorriso del momento si turba, finché una nuova speranza lo riani­ ma: «Firma con uno pseudonimo?» «No, non firmo con uno pseudonimo». Forse l’interlocutore non ricorda lo scrittore, ma certo ricorda i suoi romanzi. Li elenco con abnegazione, anche se quella smorfia sull’ingenuo volto ormai disilluso esclude ogni dubbio: non ha mai sentito quei titoli. Il mio errore, come scrittore, è stato probabilmente quel­ lo di raccontare finzioni, in fin dei conti menzogne; le men­ zogne, chi non lo sa, hanno dentro di loro un embrione di morte. Adesso racconterò un fatto vero. Fino a oggi mi ero astenuto dallo sfruttare letterariamen­ te questi fatti, per rispetto alle persone implicate: ma nel no­ stro paese l’oblio corre più veloce della storia, per cui si può pubblicare un episodio successo dieci anni prima, perfetta­ mente sicuri di non infastidire i vivi e di non offuscare il ri­ cordo dei morti. Non c’è ricordo da offuscare perché nessu­ no ricorda nulla. Nel mio animo hanno sempre combattuto l’intima pigri­ zia e la volontà di lasciare una qualche opera. Quell’anno la pigrizia si spinse fin troppo oltre, approfittò troppo dei pre­ testi che le offriva la vita a Buenos Aires. Poiché avevo per le mani un buon soggetto - in genere, credo di avere sempre per le mani un buon soggetto - decisi di salvarlo, di scriver­ lo, anche se per farlo dovevo abbandonare la città e gli im­ pegni, ruralizzarmi chissà dove. - Ne approfitti per visitare il paese, - fu il consiglio che mi diede la moglie del portiere. Dato che diffida del mio patriottismo - è di Tucumàn e più volte, il 9 luglio, mi ha sorpreso senza coccarda - non osai spiegarle che le mie intenzioni non erano turistiche, né pa­ triottiche, ma letterarie. Tra me e me decisi di ignorare il consiglio e di partire per Mar del Piata. Con la schiuma sulla faccia, davanti allo spec­ chio del barbiere, parlai del progetto.

L’OPERA

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- Francamente, - cominciò il barbiere, con la sua abitua­ le indifferenza, - lei non abusa della sua fantasia. - Il romanziere - replicai - deve usare la sua fantasia nel­ l’opera, ma nella vita, per favore!, lasciateci scegliere tutte le soluzioni più semplici. Le dico di più: Mar del Piata va be­ ne proprio perché è roba fritta e rifritta; non andrò in giro come uno stupido a cercare i posti più interessanti, e non mi distrarrò dal romanzo. E se questo non fosse bastato, eravamo in aprile, quando gli ultimi turni di villeggianti sono tornati alle loro case e quando i pomeriggi sono più belli. Aprile, poi, non è il mese degli inglesi, di quelli che sanno ? Discussi la questione con il mio amico Narbondo. Nel quartiere lo chiamiamo cosi, a discapito del suo vero co­ gnome, che credo sia Rechevsky, perché è titolare della vec­ chia farmacia che ha quel nome, da lui acquistata nel 30 o giù di li da un precedente Narbondo, che chiamavano cosi nonostante il suo vero cognome fosse Pérez o Garcia. Il far­ macista aggiunse: - Da quelle parti abbiamo alcuni parenti che stanno mol­ to bene. Hanno una rete di stazioni di servizio, dalla costa fino a Tandil. Guadagnano più di quanto spendono, lei mi capisce, e ogni anno si costruiscono un villino. Se vuole pos­ siamo chiedere che gliene affittino uno dei migliori. - Come potrebbe non volere? - rispose sua moglie. - Un artista in una stanza d’albergo muore di asfissia. - Con l’eccezione - dissi - di José Hernandez che, pro­ prio negli alberghi, e quelli di allora!, ha scritto Martin Fier­ ro, andata e ritorno. Un argomento a favore della vita d’al­ bergo. - O della vita del carcere, - osservò il farmacista. - For­ se che Barca non ha scritto, nel carcere di Henares, La vida es sueno ? Gli è venuto cosi. Parlavano con una tale rapidità che non c’era il tempo per correggerli. Già la signora insisteva: - Una casetta dà tutt’un’altra tranquillità. Con il suo bel caminetto e la vista sul mare, anch’io darei briglia sciolta al­ l’ispirazione e scriverei un romanzo. Mi lasciai convincere. «Non cerco avventure, - riflette!,

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- ma le condizioni più favorevoli per lavorare». I farmacisti fecero un telegramma ai loro parenti, i parenti fecero un te­ legramma ai farmacisti e io, alla stazione di plaza Constitución, mi arrampicai su un treno e affrontai l’avventura, la sordida avventura interminabile che oggi è, in questa repub­ blica, ogni viaggio ferroviario. Stancamente arrivai a Mar del Piata, alla mia casa, dove, non so per quale gradevole gene­ rosità del destino, mi attendevano immagini che la moglie del farmacista aveva evocate durante il nostro dialogo: nel caminetto la legna che scoppiettava, nella finestra il mare. Mi attendevano anche i parenti di Narbondo, i coniugi Guillot; mi consegnarono la casa e con notevole cortesia con­ trollarono che non mancasse nulla. Avevo pensato: «Agiati nuovi ricchi di una città un po’ materializzata. Accidenti! » Rimasi sorpreso. Forse in Juan Guillot, ammesse la sua intel­ ligenza, la cultura, la rettitudine, la liberalità, ci sarebbe ri­ masto da perdonare qualche piccolo particolare, prova non necessaria di come l’uomo fosse nel pieno di un processo di raffinamento dietro il banco del negozio; ma sua moglie, Vi­ viana, dona Viviana (come la chiamavamo, anche se aveva me­ no di venticinque anni), era una persona straordinaria, in cui non sapevo se preferire la bellezza cosi splendente o la grazia, la simpatia, che mi lasciava soddisfatto della vita e di me. La definii la moglie perfetta, non solo per il fattuale marito com­ merciante, ma per il potenziale chiunque, artista o scrittore. Appena uscirono, aprii la valigia e frugai tra la bianche­ ria che vi aveva sistemato la moglie del portiere - con insi­ stenza emergevano oggetti relativamente inutili: un attrez­ zo per affilare lamette da barba, il cui fabbricante aveva for­ se previsto una nuova età dell’oro, dove non avessero più posto la fretta e l’impazienza, un costume da bagno che so­ lo a vederlo causava tali perplessità da dover prendere un’a­ spirina, un bastoncino da passeggio che richiedeva a chi lo doveva impugnare un coraggio superiore alle mie forze, un cannocchiale desiderato a lungo, che appena acquistato fini in un cassetto -, alla bell’e meglio tirai fuori le scarpe con la suola di gomma, i pantaloni di flanella, un golf pesante con le maniche. Con quel completo pienamente marrone e la pi­ pa accesa (pipa e completo che mi procurarono, tra le donne,

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una certa fama di spirito strano), mi sedetti davanti al cami­ netto. Pensai: «Devo comprare una bottiglia di whisky. Con il bicchiere di whisky in una mano, la pipa e un buon libro nell’altra, chi sta meglio di me? Potrebbe completare il qua­ dro - ammisi - un cane fedele. Ad ogni modo, con il cane o senza, prima di tornare a Buenos Aires, mi farò fotografare in questo angolo. Quando uscirà il romanzo, sarò in grado di far esporre la fotografia da qualche libraio». La mattina dell’indomani, con la pipa fumante, partii per una passeggiata nel quartiere, operazione di ricognizione di cui approfittai per comperare yerba, zucchero, whisky eccetera nel­ la drogheria e per fare una superba colazione nella latteria. Forse perché il viaggiatore è un uccello che viaggia con la gabbia, entrando nella drogheria di Mar del Piata mi credet­ ti nella drogheria dell’angolo di casa, a Buenos Aires: lo stes­ so odore, la stessa penombra, la stessa clientela di donne bas­ se, brune e malinconiche. Al banco, è chiaro, non c’era il gal­ lego don Faustino: c’era wa. gallego piuttosto basso, occhialuto, pallido, grigio, notevolmente sudicio, che si chiamava (non ci misi molto a scoprirlo) don Fructuoso. Aspettando il mio turno, lo vedevo servire le donne e pensavo: l’identità della funzione elimina qualunque differenza tra don Faustino e don Fructuoso. In questo paese, anche se di recente in mol­ ti modi si sono ribellate, vi sono (forse ancora per un tempo breve) grandi riserve di donne timide e docili. Quando è il loro turno nella drogheria, rimangono in silenzio, con gli oc­ chi bassi. Rimarrebbero interminabilmente cosi se il gallego, don Faustino o don Fructuoso, con un tono da cordiale ma­ nata sulle chiappe non le animasse: «Allora, bella, che ti do ?» Senza alzare gli occhi, con una voce umile come un topoli­ no che non si azzarda a uscire dalla tana, la donna risponde: «Eh... un etto di monàiola1». \\gallego pesa la monàiola e do­ manda: «Che altro?» Dopo una pausa la donna dice, sotto­ voce: «Un barattolo di trippa». Il gallego afferra la scala, si arrampica, torna al banco, domanda: «Che altro?» La voce quieta pronuncia: «Mezz’etto di cipolline sottaceto». Nulla denota se la richiesta è l’ultima o se la lista sarà ancora lunga. 1 Sorta di insaccato a base di vari tipi di carne [N. d. TJ.

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Il bottegaio non ignora che da simili cervelli non c’è da esi­ gere la sintesi di una richiesta complessiva. Con calma l’uo­ mo si arrampica sulla scala, scende con il barattolo, ottiene dalla cliente una nuova richiesta, porta la scala in un altro posto, si arrampica alla ricerca di un altro barattolo, scende, ottiene un’altra richiesta, riporta la scala al posto di prima, risale in cerca di un altro barattolo. Magnanimo con il suo tempo e con quello del prossimo, il bottegaio accetta questo inutile andirivieni, si rifà con la familiarità, con il tono di palpeggiamento con cui tratta la sua clientela. Vi è molta in­ dulgenza da parte sua, ma nessuno ignora chi comanda, chi è il padrone; in realtà il gallego è il gallo nel pollaio, il turco nell’harem. Oso credere che per questa relazione del botte­ gaio con le clienti lo stesso Freud avrebbe trovato un’inter­ pretazione psicanalitica. Anche se il tempo era sgradevole, freddo e ventoso, mi decisi subito a scendere in spiaggia, dato che le case, con le assi che muravano porte e finestre, chissà perché mi depri­ mevano. Il mare è lontano, al di là di paludi ricoperte di erbacce, che si attraversano per sentieri che passano su terrapieni. Ca­ pii, alla fine della peregrinazione, che l’unica cosa che desi­ deravo era tornare indietro. Mi feci coraggio: «In un matti­ no freddo non c’è niente di più piacevole che una bella cam­ minata». La verità è che già durante la camminata la schiena comincia a dolere, il corpo pesa come se si dovesse portarlo a spalla, piedi e scarpe indugiano, trattenuti dalla sabbia in­ terminabile. Sulla riva la sabbia era compatta. Dal mare schizzava una schiuma leggera che il vento portava verso la spiaggia. I gab­ biani, soli compagni in quell’immensità, evocarono i miei viaggi e le mie avventure di qualche incarnazione preceden­ te, e subito, dimenticata la stanchezza, percorsi un lungo trat­ to, mi ritrovai nello stabilimento di Atilio Bramante, davanti a casa. Non c’è un punto della spiaggia più vicino di questo. Eppure, per concludere la faticosa traversata avrei dovuto percorrere circa trecento metri (o cinquecento, chi calcola queste distanze ?) Con il pretesto di affittare un telone avrei cercato il bagnino e cosi avrei trovato una sedia. Confuso per

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la fatica, dimenticai stupidamente la mia vera intenzione e con l’idea fissa di incontrare qualcuno accumulai altra stan­ chezza, mentre spingevo ostinatamente la mia povera uma­ nità attraverso il deserto. Finalmente arrivai all’abitazione di Bramante, proprio al centro dello stabilimento, una ca­ setta di legno, su pilastri, dipinta d’azzurro; quattro alti gra­ dini conducevano alla porta d’ingresso, che era nella faccia­ ta che guardava il mare; da un lato e dall’altro della porta c’e­ rano degli oblò. In uno di questi, come in un medaglione, Bramante fumava la sua pipa. Gli chiesi se era lui. Senza togliere la pipa dalla bocca, sen­ za guardarmi, espresse, come mi parve di capire, dei ruggiti di affermazione. - Posso entrare? - fu la mia seconda domanda. Salii ed entrai. La casa era formata da una sola stanza; c’era una branda con sopra una coperta grigia; teloni am­ mucchiati; corde; un baule di legno, con sopra un teschio dipinto e il nome Bramante; un salvagente con lo stesso no­ me appeso a una parete; un barometro e odore di canapa, di legno e di resina. - Cosa vuole? - chiese. - Affittare un telone. - Ho tolto tutto di mezzo, - rispose. - La stagione è fi­ nita. Per quattro naufraghi che rimangono... In quella vaga categoria spregiativa ero compreso indub­ biamente anch’io. Non c’era da offendersi: l’aspetto del ba­ gnino rifletteva un potere tranquillo e concentrato che mi pa­ reva più che umano, come se provenisse dalle rocce e dal ma­ re, da qualche componente elementare del nostro pianeta. Atilio Bramante era corpulento, la sua pelle era colore del ra­ me, la faccia percorsa da una cicatrice livida; le mani corte, irsute; aveva una gamba di legno. Indossava un grosso ma­ glione azzurro, pantaloni azzurri che si perdevano, nella gam­ ba sana, in uno stivale di gomma rossa. Con un individuo si­ mile, in quella stanzetta, immaginavo di essere su una nave, in mezzo all’oceano; però, non era una barca di adesso, ma un veliero del tempo dei pirati e dei corsari. Forse il baule con il teschio aveva una sua parte in questa illusione. - Abito in un villino dei Guillot, per questo sono qui.

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- Se l’avesse detto prima, - mi rimproverò. - In questa casa un amico dei Guillot è padrone. Con il passo pesante e pomposo di un leone marino fuori dall’acqua, scese sulla spiaggia, prese due sedie di paglia. Dal baule tirò fuori una bottiglia e due bicchieri. - Rum? - chiese. Mi offri anche alcune gallette ricoperte di cioccolato, che si chiamano Titas, o qualcosa di simile; fumammo e chiac­ chierammo. Cosi cominciò una delle mie tre o quattro abitudini di quella pacifica stagione che all’improvviso fini in certi infor­ tuni. Il piacere che provavo nel passeggiare lungo il mare, nella pipa, nel rum e nel dialogare con Bramante derivava, forse, dall’immaginarmi in quelle attività, e dal supporre che mi stessi documentando per una qualche meritoria opera fu­ tura. L’uomo pigro è infaticabile nell’inventare pretesti per rinviare il lavoro. Di cosa mi parlava il bagnino? Di lontani ricordi di gioventù, di barche e di tempeste sull’Adriatico; dello stabilimento in cui ci trovavamo, diverso da tutti gli altri (secondo lui) e molto più bello; del sentiero di accesso, di cui era orgoglioso quasi quanto di suo figlio, una specie di Apollo biondo, rosso e robusto, il cui giovane corpo, coper­ to di peluria dorata, tendeva alla forma sferica; lo scorsi più di una volta, come un capitano sul ponte di comando, al cen­ tro del ferro di cavallo dei teloni dello stabilimento vicino. Questo figlio, che aveva allevato personalmente, lo aveva messo a capo di uno degli stabilimenti che dirigeva; il ragaz­ zo era all’altezza del compito e nel pomeriggio lavorava alla stazione di servizio, dove la coppia Guillot lo trattava «co­ me uno di famiglia», e nelle albe d’inverno andava a pesca­ re con la barca in mare aperto. Simili discorsi di fronte all’oceano duravano fino a mez­ zogiorno. Dopo raccoglievo le forze per affrontare il ritor­ no, mangiavo come una tigre all’osteria e quando arrivavo a casa, ben disposto per lavorare, cadevo in un sonno da cui uscivo del tutto soltanto all’ora del tè. Con qualche scusa ad esempio, chiedere se conosceva una ragazza per le pulizie - mi dirigevo verso l’appartamento di dona Viviana, che sta sopra la stazione di servizio. Li, in buona compagnia, con­

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sumavo, senza tenerne il conto, numerose tazze di cioccola­ to denso, e in più una notevole quantità di dolcetti. Anche se la mia conversazione era povera, grazie a un pregiudizio che va a favore degli scrittori, da cui non riusciva a liberar­ si, la signora mi ascoltava come se io fossi un maestro, men­ tre io, assorto nella visibile soavità delle sue mani bianche, intravedevo speranze strampalate. Comportarmi in questo modo non mi preoccupava poi troppo, perché ero ebbro del­ l’aria forte e della digestione. I Guillot avevano un figlio: un bimbo grasso di tre o quat­ tro anni che circolava su un silenzioso e ostinato triciclo at­ torno al tavolo su cui prendevamo il cioccolato. Dovevo es­ sere piuttosto innamorato della madre, perché quel bambi­ no - in genere, non li vedo neppure - mi interessava. Che si rivolgesse a lei chiamandola dona Viviana mi sembrava un’irrefutabile prova di personalità. Un bambino è un pap­ pagallo che ripete ciò che sente; io lo sapevo, ma l’avevo di­ menticato. Guardando quel ciccione, un pomeriggio affermai: - Sopravviviamo nella nostra opera. Per questo bisogna farla con amore. Per ogni cosa Viviana arrossiva. Dopo essere arrossita, in maniera misteriosa e incantevole, replicò: - Che stranezza. L’opera prende il posto dell’autore e non rimane altro che rassegnarsi. Lei crede davvero che Chopin riviva tutte le volte che suono un notturno ? Quando qual­ cuno leggerà la storia di Flora, di Urbina e di Rudolf, tra cent’anni, l’autore sorriderà nella tomba? - Parliamo seriamente, - protestai, infastidito e lusinga­ to perché mi aveva citato. - Non bisogna disprezzare le proprie creature, - dichiarò. - Io so che non sopravvivrò in mio figlio, ma sono contenta che sia lui a prendere il mio posto. Pensai: Nessuno prende il posto di nessun altro. E anco­ ra: E felice perché pensa che in qualche modo la sua vita con­ tinua nel rampollo. Però non osai parlare perché sapevo che non avrei trovato le parole, né osai dirle che io desideravo un figlio, perché capii che la frase, in quel momento, sareb­ be sembrata una volgarità.

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Misi in atto una maggiore audacia nei miei rapporti con Dorila, la ragazza che la signora Viviana mi mandò ogni gior­ no per spazzare, rigovernare e stirare. Dapprima fu una de­ lusione, mi dissi che da quel punto di vista non c’era speran­ za e la battezzai iArmadillo. Era bassa, con la pelle ramata, i capelli neri, la faccia larga, la fronte stretta, gli occhi picco­ li, piuttosto lontani fra loro e a mandorla. Mi successe qual­ cosa di inspiegabile: mentre cercavo di pensare al mio ro­ manzo, in qualche modo seguivo per la casa i movimenti di questa giovane donna. Giorni o ore di convivenza sotto lo stesso tetto provocano nelle persone autentiche metamorfo­ si. Perplessi assistiamo al graduale fiorire di incanti: un’insospettata morbidezza del braccio, o quella regione inesplorata tra l’orecchio e la nuca, bianca come i fianchi crudi di un pez­ zo di pane, investita di non so quale desiderabile intimità, o gli occhi, che all’improvviso rivelano una ferocia in cui si vor­ rebbe entrare come nelle acque di un fiume. Tuttavia mi trat­ teneva il pericolo di un passo falso che sarebbe potuto giun­ gere agli orecchi di dona Viviana. Sarei morto di vergogna, anche se più probabilmente questo estremo sarebbe risultato inutile, a giudicare dalla familiarità concessa Armadillo ai garzoni e a mezzo mondo. Presumo che tra lei e me ci sia stato un tacito accordo e che scivolammo, non senza vertigi­ ne da parte mia, verso ciò che si dice l’orlo dell’abisso. Come un peccatore che non perde la fede, avevo fiducia che questa consuetudine, grazie a un’ammirevole transizio­ ne, un giorno o l’altro mi avrebbe condotto in pieno a lavo­ rare al romanzo, il cui manoscritto mi accompagnò fedel­ mente nelle mie peregrinazioni, sotto il mio braccio. In un determinato momento parve che la previsione dovesse com­ piersi. Nei confronti delle due donne (cosi diverse che devo mettere a tacere parecchi scrupoli per unirle in una stessa fra­ se) mi contentavo del ruolo di spettatore; d’altra parte, in­ dubbiamente cominciavo ad avvicinarmi alla storia del libro, i personaggi mi sembravano di nuovo reali. Dopo aver mangiato, mentre tornavo a casa, guardando il cielo minaccioso, una sera mi ritrovai a inventare con fa­ cilità gli episodi conclusivi del romanzo. Avevo letto in un giornale, lasciato sul mio tavolo dall’avventore che mi aveva

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preceduto, un trafiletto sulla «costa leggiadra». Mi chiesi se poteva esserci una frase tollerabile in cui figurasse il termi­ ne leggiadra. Come risposta, mi vennero in mente i versi di Lopez Velarde: Chi nella notte... {qui ci sono alcune parole dimenticate) non guardò prima di conoscere il vizio del braccio della sua amante, la leggiadra polvere dei fuochi d’artificio?

Rapidamente inventai l’episodio dei fuochi d’artificio, che i protagonisti guardano tenendosi per la mano. Manca­ va solo la voglia di mettere tutto questo per iscritto. Decisi di far maturare il tema, di meditarlo nella notte, di rinviare il lavoro al giorno dopo. Su questo punto m’ingannavo, per­ ché appena fui a letto il sonno mi abbandonò, senza poter­ mi arrestare cominciai a ordire situazioni e frasi. Devo es­ sermi addormentato molto tardi, perché le esplosioni mi sve­ gliarono subito. Dapprima credetti che fossero le salve della festa del mio libro. Poi capii che venivano dal mondo ester­ no, ma lo capii con la mente cosi annebbiata dal sonno che me ne attribuii la colpa. «Chi me lo fa fare di pensare alla pirotecnia», dissi spaventato. Ero del tutto fuori strada. Di tanto in tanto, dalla persiana entravano stizzosi bagliori, co­ me onde estreme di un crescente mare di luce. «Il chiasso non mi deve inquietare: non mi tirerà giù dal letto. Doma­ ni ci sarà tempo di controllare cos’è successo». Mi nascosi tutto sotto la coperta, immaginai me stesso come una volpe nella sua tana. Ormai il sonno previsto mi trastullava, quan­ do scoppiò, direi nella mia stanza, una bomba o un ruggito enorme. Il bagliore immediato fu molto forte. Levatomi a sedere sul letto proiettai sulla parete e sul soffitto un’ombra che mi intimorì: «La pigrizia è madre dei vizi», borbottai, mentre mi vestivo con notevole rapidità. Non dimenticai la sciarpa, perché la notte doveva essere fresca. «Vado a ve­ dere cosa succede. Non vorrei diventare, qui dentro al villi­ no, un piccione al forno». Aprii la porta. Non faceva freddo. La notte aveva un’in­ solita tonalità di rame. C’erano gruppi di persone che guar­

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davano in direzione del faro; dalla parte del porto arrivava altra gente. Quando in un gruppo scorsi don Fructuoso, gli corsi incontro, come tra le braccia di un amico. - Che succede? - domandai. - Fuoco, un incendio piuttosto grosso, - rispose. - Sabotatori, - spiegò uno di quelli che arrivavano dalla parte del porto. - Fino a quando non applicheranno la pena di morte, siamo nei guai. - Il paese non ha fondamenta, - disse un altro. - Cosa si è bruciato? - domandai. - Mah, quasi niente, - rispose don Fructuoso. - Vedrà lei stesso. - La stazione di servizio, - disse la signora della latteria. - Ma non quella dei Guillot, vero? - domandai con la paura nel cuore. Ormai vedevo le fiammate e la grande colonna di fumo. - Quella dei Guillot, - rispose don Fructuoso. - Chi c’era dentro? - domandai. - Il fuoco li ha intrappolati dentro, - disse la signora del­ la latteria. La ragazza che serve nella frutteria aggiunse: - Anche il povero Cacho Bramante, che non c’entrava nulla. - Cacho Bramante? - domandai alquanto sbalordito. - Il figlio di Bramante, il bagnino, - disse la signora del­ la latteria. - Lo stabilimento è proprio di fronte al villino... Interruppi le spiegazioni con la domanda: - Non si può far niente per salvarli? - C’è la benzina che brucia, mio caro signore, - disse ra­ gionevolmente don Fructuoso. - Chi vuole che si avvicini? Né io né lei. Un vecchio che pareva molto debole disse: - Tutti, ci può mettere la firma, sono finiti inceneriti. Mi allontanai da quella gente crudele. Feci un giro per do­ ve mi fu possibile, arrivai fin dove i pompieri mi fecero fer­ mare. Il calore soffocava. Incontrai di nuovo la ragazza che serve nella frutteria. - Sta piangendo? - mi domandò. - E il fumo, - risposi. - A lei non dà fastidio il fumo?

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- Dicono che non erano tutti dentro, - mi annunciò. Non volevo speranze, ma le domandai ugualmente: - Chi c’era? - Non so, - rispose. - Speriamo che non ci fosse Cacho. «Pensiamo a persone diverse, - mi dissi, - ma l’ansia è la stessa». La presi per il braccio, la ragazza sorrise, trovai che c’era qualcosa di nobile nel suo sguardo e che sotto molto di­ sordine e poca igiene non era brutta. Un ragazzo che correva disse: - Quello che non c’è è Guillot. Ieri pomeriggio è andato a Tandil. Dio mi perdoni, ma rimasi costernato. Lasciai subito la ragazza temendo che mi portasse sfortuna. - Quando tornerà, - osservò una donna, - che spettacolo ! Altre dissero: - Io, al suo posto, preferirei morire. - Mille volte. - In pasto alle fiamme la signora e il povero ragazzo in­ nocente. - Anche Cacho Bramante, che non c’entrava nulla, - ri­ petè la ragazza che serve nella frutteria. - Ormai saranno soltanto polvere e fuliggine, quei pove­ retti. Guardate che inferno! - Non creda. Il corpo umano resiste. Non ha mai sentito parlare dei cadaveri di Pompei ? - Non mi piace parlare di quelle cose. Ho fantasia. Pen­ so a dona Viviana, ieri cosi piena di vita, e adesso... cosa sem­ brerà ? Io ho molta fantasia. - Io ho visto il cadavere di uno, in un incidente: rimane una ciocca di capelli contorti e i denti spiccano per il bianco. - Cosi bianca, era la signora: si sarà bruciata come una zolletta di zucchero. - Tante cure di dona Viviana per quel figlio. E adesso non ci sono più né il figlio né Viviana. - Dona Viviana era molto giovane e molto signora. - Proprio ieri avevo visto il bambino con il triciclo. «Che gente, - mormorai con rabbia. - Che modo di far commuovere». Mi allontanai, cercando di prestare attenzio­ ne alle cose che mi stavano intorno, ai particolari della strada,

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con l’incendio in lontananza; cercando di distrarmi dai miei pensieri. Chi non è un miserabile ? Quasi quanto la conferma della morte di Viviana, ciò che temevo era la possibilità di pian­ gere in pubblico. «E una vergogna, - ripetevo ambiguamen­ te. - Se mi parlano del povero bambino sul triciclo è come se mi frugassero dentro con un coltello». Guardai il fumo e mi ritrovai a pensare che forse una minima parte di quella co­ lonna nera proveniva dal corpo di Viviana. Senza volerlo escla­ mai: «Poveretta». Cercai di far tacere la mia mente, ma già formulava un’altra riflessione: «Che strano, non la vedrò mai più». A quel punto pensai: «Chi lo sa? Non ho altri testimo­ ni che le dicerie della strada». Ricordai le opere di Gustave Le Bon, come se le avessi lette, e sostenni che la folla sbaglia sempre. «Magari sbagliasse adesso», mormorai. Non c’era abbastanza acqua o mancava la pressione, o tutt’e due le cose, per cui i pompieri ci misero molto a spe­ gnere il fuoco. Come un sonnambulo giravo li attorno, descrivendo cer­ chi il cui ostinato proposito non sapevo immaginare. I pro­ prietari di una casa mi condussero al loro balcone perché po­ tessi vedere meglio, e in un’altra, costruita a metà, arrivai sul tetto. Scesi subito da quegli osservatori, ansioso di continua­ re a girare. Quanto camminai quella notte e quella mattina! - Finirà per buttarsi dentro al fuoco, - disse la signora della latteria. Era incredibile: parlava di me e tutti erano d’accordo con lei. Sospetto che il lungo affaccendarmi doveva avermi da­ to un’aria da pazzo. Fu inutile resistere: mi trascinarono al­ la drogheria, nel cui retrobottega mi fecero sedere a un lun­ go tavolo, coperto da un’irreprensibile tovaglia di giornali, presieduto da don Fructuoso e diviso tra la signora della lat­ teria, i fruttivendoli, che sono turchi diventati criollos, la ra­ gazza e altri vicini che non identifico nella memoria. - Allora, aperitai e granatina a volontà, - ordinò il padro­ ne di casa. La disgrazia, come dicevano, aveva aperto l’appetito a tut­ ti; a me aveva chiuso la gola. Su un gran piatto di coccio por­ tarono un porcellino da latte - giuro che sembrava un bam­ bino biondo -, un intero porcellino da latte, con tutti i par­

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ticolari degli occhi, delle orecchie eccetera. Con voracità lo divorarono. Era ammirevole in quella gente la calorosa fra­ ternità, cosi generosa, cosi disposta a non escludere nessuno, che accoglieva anche me: la ricordo con gratitudine. Una donna mi gridò in un orecchio: - Affoghi la pena nel vino dolce. Bevvi; volevo fuggire; ogni sorso era un passo che mi al­ lontanava. Ancora oggi non capisco perché i particolari ma­ cabri, i pii riferimenti a cadaveri carbonizzati o no, che tut­ ti quanti i presenti introducevano in quella grande abbuffa­ ta, combinati con un simile porcellino, mi davano fastidio. Mangiai poco. Bevvi Y aperitai con la granatina; poi, il vino dolce. Il mio ultimo ricordo è di qualcuno che arrivò all’im­ provviso e dichiarò in modo indefinitamente drammatico: - Stanotte hanno visto il figlio di Bramante che usciva da una finestra. - Bravo! - applaudì la ragazza della frutteria. Poi mi accorsi che mi avevano portato a casa e infilato nel letto. Mi svegliai all’alba. Per tutta la notte sognai Vi­ viana e suo figlio, carbonizzati e vivi, o meravigliosamente bianchi e morti, con Bramante, il figlio di Bramante, che fugge dalla finestra come un ladro; sognai il fuoco, le esplo­ sioni, le ambulanze, la macchina dei pompieri che faceva ulu­ lare le sirene. Ciò che nel sogno più volte interpretai come sirene fu sen­ za dubbio il vento. Si sarebbe detto che avrebbe finito per sradicare la casa. Finestre, stipiti, travi univano i loro lamenti al lamento di tutto ciò che era all’esterno. Dominando il fra­ gore generale, il mare mugghiava, vicinissimo, come se roto­ lasse ed esplodesse su se stesso. Mi alzai, nel cucinino preparai un caffè nero e uscii, ab­ bastanza imbacuccato, a berlo nel corridoio. L’alba si tra­ sformò in un mattino luminoso. Non si poteva fare a meno di guardare verso la spiaggia. Era molto forte il rumore del­ le onde: non avevo mai sentito un rumore cosi grande. Quan­ to allo stesso mare, vicino e collerico, nessuno avrebbe du­ bitato della sua forza, se un capriccio meteorologico glielo avesse ordinato, di mettere fine alla nostra terraferma. Da tutte le parti, l’aspetto era di resti dispersi, di desolazione,

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di frastuono. I banchi di sabbia e la strada dello stabilimen­ to erano allagati. Le onde continuavano ad arrivare fino alla casa di Bramante. Quando individuai un punto nero e mo­ bile tra le nude intelaiature dei teloni, mi ricordai del can­ nocchiale. Ero sicuro di averlo tirato fuori dalla valigia. Do­ po un attimo lo trovai. Nella lente chiara del cannocchiale apparve il mio amico, il bagnino Bramante. Per salvare i legni dei suoi teloni lotta­ va contro il mare a mani nude, da pari a pari. - Com’è mattiniero, - mi trafisse il turco fruttivendolo. Aveva una maniera inconfondibile di modulare sinuosamente le parole. - Anche lei, - replicai. - Povero Bramante, - disse. - Perché? - chiesi con un certo fastidio. L’immagine di Bramante indaffarato laggiù, che mi era stata portata dalla lente del cannocchiale, suggeriva quella di un leone, di una vecchia locomotiva a vapore, qualunque sim­ bolo di potere e di orgoglio, ma, francamente, non il termi­ ne «povero». - Tutta la notte a combattere con il mare per salvare pa­ li e bastoni. Non gli rimane altro. Lo guardai senza capire e ripetei: - Non gli rimane altro ? - Il figlio bisogna darlo per perduto. E uscito ieri all’alba con la barca. Tutti i pescatori sono tornati, tranne lui. - E neppure tornerà, - disse don Fructuoso, che era arri­ vato silenziosamente. - Perché ? - domandai. - Con questo mare, - rispose il fruttivendolo. - Che il mare se lo inghiotta, - sentenziò don Fructuoso. - Vi dico cosa mi ha riferito il sostituto Boccardo ? E prova­ to che approfittando del viaggio del marito a Tandil, il figlio di Bramante ha cercato di disonorare dona Viviana. Nella lotta l’ha uccisa. Poi, per cancellare il delitto e le tracce, quel mascalzone ha avvicinato un fiammifero alle tende: in poco tempo i serbatoi di combustibile hanno completato il lavoro. Quel giorno non ebbi il coraggio di andare a trovare Bra­ mante e Guillot. Mi rinchiusi in casa a lavorare. Per i pasti

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facevo un salto fino a una trattoria, dove nessuno mi cono­ sceva né mi parlava. Scrissi con profitto. Dato che nel ritrarre la protagonista pensavo a Viviana, e nello spiegare il dolore dei protagonisti riferivo il mio, di dolore, scrissi in modo elo­ quente. Alla fine dell’inverno, a Buenos Aires, pubblicai il li­ bro; ritengo che i critici non lo abbiano compreso a dovere. Certo non lasciai Mar del Piata senza prima porgere le mie condoglianze a Guillot - un quarto d’ora sgradevole, duran­ te il quale parlai meno del debito che avevo nei confronti del­ la sua pena che di quello del suo villino - e a Bramante. Quan­ do fui di fronte alla casetta azzurra, il bagnino, affacciato a un oblò, come in quella prima mattina che adesso mi sem­ brava cosi lontana, fumava la pipa. Bevemmo rum, man­ giammo gallette ricoperte di cioccolato e alla fine chiacchie­ rammo. Involontariamente cominciai a consolarlo. Chi ero io per consolare Bramante? La disgrazia non lo scoraggiava. Del figlio non si voleva ricordare, e del mare affermò che era una bestia per niente simpatica. - Ma gli devo qualcosa, - ammise. - Dopo averlo fre­ quentato tanto a lungo, ho imparato che la cosa più natura­ le del mondo sono i cambiamenti. Poiché ero a corto di idee, lo apostrofai ancora cosi: - Non si scoraggi, - dissi. Non se ne ebbe a male. Ammetteva la possibilità, fidu­ cioso di saperla dominare. Dichiarò: - Non mi scoraggio, perché lascio la mia opera. Con un gesto sereno indicò la spiaggia. (A E. P., con amicizia e segretezza).

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Il calamaro sceglie il suo inchiostro

In questo paese sono successe più cose negli ultimi gior­ ni che in tutto il resto della sua storia. Per valutare nella lo­ ro giusta portata le mie parole, abbiate presente che sto par­ lando di uno dei vecchi paesi di provincia, di un paese nel­ la cui vita abbondano i fatti notevoli: la fondazione, in pieno XIX secolo; un po’ dopo, il colera - germe che fortunatamente non è giunto fino alle sue estreme conseguenze - e il peri­ colo delle scorrerie, che se pure non ebbe mai a concretarsi, tuttavia tenne la gente in scacco per un lustro, durante il quale territori limitrofi conobbero il tormento costituito da­ gli indios. Tralasciando l’epoca eroica, sorvolerò su tante al­ tre visite di governatori, deputati, candidati di ogni specie, oltre a comici e uno o due giganti dello sport. Per morder­ mi la coda, concluderò questo breve elenco con la festa del Centenario della Fondazione, un vero e proprio torneo di oratoria e di omaggi. Poiché devo comunicare un fatto di prim’ordine, presen­ to le mie credenziali al lettore. Uomo di vasto spirito e dal­ le idee avanzate, divoro tutti i libri che riesco a trovare nel­ la libreria del mio amico, il gallego Villarroel, dal dottor Jung fino a Hugo, Walter Scott e Goldoni, senza tralasciare l’ul­ timo volumetto di Escenas matritenses1. La mia meta è la cul­ tura, ma sono già sull’orlo dei «maledetti trent’anni» e te­ mo davvero che mi resti da imparare più di quanto so. In­ somnia, cerco di tener dietro al movimento, e di diffondere i lumi tra i compaesani, tutta gente in gamba, belle person­ cine, questo si, molto dediti alla siesta che ereditariamente

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1 Narrazioni costumbristas del madrileno Ramon de Mesonero Romanos (uscite nel 1842 e successivamente ampliate) [N. d. TJ.

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cullano dai tempi del Medioevo e dell’oscurantismo. Sono docente - maestro di scuola - e giornalista. Esercito l’atti­ vità della penna su modesti organi locali, factotum a volte de «Il Girasole» (nome scelto male, che dà luogo a giochi di pa­ role e attira un’enorme quantità di corrispondenza, dal mo­ mento che ci scambiano per una tribuna dei produttori di ce­ reali), a volte di «Patria Nuova». L’argomento di questa cronaca presenta una particolarità che non voglio trascurare: il fatto non soltanto è accaduto nel mio paese, ma è accaduto proprio nell’isolato in cui si svolge tutta la mia vita, in cui si trova il mio focolare, la mia picco­ la scuola - il secondo focolare - e il bar di un albergo di fron­ te alla stazione, dove si rifugia, sera dopo sera, fino a notte alta, il nucleo inquieto della gioventù locale. L’epicentro del fenomeno, o se preferite il focolaio, fu il magazzino di don Juan Camargo, la cui parte posteriore confina a est con l’al­ bergo e a nord con il patio di casa mia. Un paio di circostan­ ze, che non tutti metterebbero in collegamento, lo annun­ ciarono: mi riferisco alla richiesta dei libri e alla scomparsa del mulinello per annaffiare. Le Margherite, il petit-hôtel privato di don Juan, vero e proprio villino provvisto di un giardino fiorito sulla strada, occupa metà della facciata e soltanto una parte sul retro del terreno del magazzino, dove sono ammassati materiali incal­ colabili, come resti di navi in fondo al mare. Quanto al muli­ nello, girava da sempre nel giardino che ho detto, tanto da co­ stituire una delle più vecchie tradizioni e una delle caratteri­ stiche più interessanti del nostro paese. Una domenica, all’inizio del mese, il mulinello misterio­ samente scomparve. Poiché dopo una settimana non era an­ cora ricomparso, il giardino perse colore e lustro. Mentre mol­ ti continuarono a guardare senza vedere, ci fu uno che ven­ ne colto dalla curiosità fin dal primo momento. Quest’uno contagiò gli altri e la sera, al bar, di fronte alla stazione, i ra­ gazzi ribollivano di domande e di commenti. Cosi, al calore di una curiosità ingenua, naturale, scoprimmo qualcosa che aveva ben poco di naturale e si rivelò come una sorpresa. Sapevamo bene che don Juan non era il tipo da togliere l’ac­ qua al giardino, per distrazione, in un’estate secca. Intanto,

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10 consideriamo il pilastro del paese. La stampa ritrae fedel­ mente il carattere del nostro cinquantenne: statura alta, cor­ pulento nella figura, capelli bianchi pettinati in due docili metà, le cui onde disegnano archi paralleli a quelli dei baffi e a quel­ li, inferiori, della catena dell’orologio. Altri particolari rivela­ no il signore abbigliato all’antica: breeches, gambali di cuoio, stivaletti. In tutta la sua vita, retta dalla moderazione e dal­ l’ordine, nessuno, a quel che ricordo, ha mai riscontrato una debolezza, chiamiamola sbronza, donnina o scivolone politi­ co. In uno ieri che dimenticheremmo di buon grado - chi di noi, in materia di infamia, non ha fatto le sue scappatelle ? don Juan si era mantenuto pulito. Infatti, riconoscevano la sua autorità anche gli stessi procuratori della Cooperativa ec­ cetera, gente molto poco rispettosa, sinceramente dei pelan­ droni. Non a caso durante anni duri quei baffi costituirono l’appiglio cui rimase aggrappata l’intera famiglia del paese. Bisogna ammettere che quest’uomo senza pari professa idee all’antica e che le nostre fila, naturalmente idéaliste, fi­ no ad ora non hanno generato uomini di simile levatura. In un paese nuovo, le idee nuove non hanno una tradizione. E noto, senza tradizione non vi può essere stabilità. Al di sopra di questa figura, la nostra gerarchia al riguar­ do non indica nessuno, tranne dona Remedios, madre e con­ sigliera di tanto figlio. Tra noi, non soltanto perché manu mi­ litari risolve ogni conflitto che le venga o meno sottoposto, la chiamiamo «Rimedio Eroico». Anche se beffarda, l’espres­ sione vuole essere affettuosa. Per completare il quadro di coloro che abitano nel villino, manca soltanto un’appendice indiscutibilmente minore, il fi­ glioccio, don Tadeito, alunno del corso serale nella mia scuo­ la. Poiché dona Remedios e don Juan non sopportano quasi mai di avere estranei in casa, né in qualità di collaboratori né in quella di invitati, il ragazzo riunisce nella sua persona i ti­ toli di facchino e dipendente del magazzino e di giovane do­ mestico a Le Margherite. Aggiungete a tutto questo che quel povero diavolo segue regolarmente le mie lezioni e capirete perché rispondo proprio per le rime a chi, per burla e per pu­ ra cattiveria, si azzarda a rivolgergli un nomignolo offensivo. 11 fatto che lo abbiano sdegnosamente rifiutato al servizio

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militare non mi turba affatto perché non sono un tipo invi­ dioso. La domenica in questione, a un’ora che mi sembrò tra le due e le quattro del pomeriggio, bussarono alla mia porta, con la precisa intenzione, a giudicare dai colpi, di abbatterla. Bar­ collando mi alzai, mormorai «Ci mancava anche questo», pro­ nunciai parole che non stanno bene in bocca a un maestro e come se questa non fosse un’epoca di visite sgradite aprii, si­ curo di trovare don Tadeito. Avevo ragione. Il mio alunno era li che sorrideva, con la sua faccetta cosi magra che non serviva neppure da schermo contro il sole, dritto nei miei oc­ chi. Da quel che riuscii a capire, mi chiedeva, senza misura e con quella voce che all’improvviso viene meno, i libri della prima, della seconda e della terza. Irritato, gli domandai: - Potresti spiegarmi a cosa servono ? - Li chiede il mio padrino, - rispose. Gli diedi subito i libri e dimenticai l’episodio, quasi fa­ cesse parte di un sogno. Qualche ora dopo, mentre mi dirigevo verso la stazione e allungavo la strada per far passare il tempo, mi accorsi che a Le Margherite mancava il mulinello. Commentai il fatto sul marciapiede, mentre aspettavamo il direttissimo da Plaza del­ le 19,30 che arrivò alle 20,54, e 1° commentai la sera, al bar. Non feci il minimo cenno alla richiesta dei libri di testo, né tanto meno collegai i fatti tra loro, perché il primo di questi, come ho già detto, lo avevo registrato appena nella memoria. Pensai che dopo un giorno cosi movimentato avremmo ri­ preso il solito ritmo. Il lunedi, all’ora della siesta, mi dissi al­ legramente: «Stavolta si che me la godo», ma la frangia del poncho, mentre me lo sfilavo, non aveva ancora finito di far­ mi il solletico che il chiasso ricominciò. Brontolando «E og­ gi chissà che cosa c’è. Se lo trovo a dar calci alla porta, glie­ la faccio pagare con lacrime di sangue», inforcai le pantofo­ le e mi incamminai verso l’ingresso. - Ormai è un’abitudine venire a disturbare il tuo maestro ? - lo apostrofai mentre mi riconsegnava il pacco di libri. La sorpresa mi lasciò assolutamente confuso, perché per tutta risposta sentii: - Il mio padrino chiede quelli di terza, quarta e quinta.

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Riuscii ad articolare: - A cosa servono ? - Li chiede il mio padrino, - spiegò don Tadeito. Consegnai i libri e me ne tornai a letto, alla ricerca del mio sonno. Ammetto di aver dormito, ma lo feci, vi prego di cre­ dermi, con molta fatica. Poi, sulla strada per la stazione, verificai che il mulinello non era tornato al suo posto e che il colore giallo comincia­ va a diffondersi nel giardino. A furia di logica, elaborai ipo­ tesi prive di ogni fondamento e al centro del marciapiede, mentre il corpo si illuminava di fronte a frivoli stormi di ra­ gazze, la mente lavorava ancora per interpretare il mistero. Guardando la luna, immensa li nel cielo, uno di noi, cre­ do Di Pinto, sempre perduto nella chimera romantica di ri­ manere un uomo dei campi (e insomma, davanti agli amici di tutta la vita!), commentò: - La luna continua ad annunciare siccità. Quindi non pos­ siamo attribuire il ritiro dell’attrezzo a una previsione di piog­ gia. Il nostro don Juan avrà avuto i suoi motivi! Badaracco, un ragazzo sveglio, che ha però un piccolo neo perché in altri tempi, oltre allo stipendio da bancario, gua­ dagnava un tanto a delazione, mi domandò: - Perché non istruisci al riguardo quel povero suonato ? - Chi ? - gli domandai per educazione. - Il tuo alunno, - rispose. Accettai questo consiglio e lo misi in pratica la sera stes­ sa, dopo la lezione. Cercai prima di imbrogliare don Tadeito con la stupida affermazione che la pioggia rinvigorisce le piante, per poi attaccare a fondo. Il dialogo si svolse cosi: - Il mulinello si è sfasciato ? -No. - Non lo vedo più nel giardino. - Come potrebbe vederlo ? - Perché come potrei vederlo ? - Perché adesso sta annaffiando il deposito. Chiarisco che tra noi chiamiamo deposito l’ultimo capan­ none del magazzino, dove don Juan ammucchia i materiali che vende di meno, come stufe stravaganti e statue, monoli­ ti e arganelli.

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Spinto dal desiderio di comunicare ai ragazzi la novità del mulinello, stavo già congedando il mio alunno senza aver­ lo interrogato sull’altro punto. Ricordarlo e aprire la bocca fu tutt’uno. Dall’ingresso don Tadeito mi guardò con occhi da pecora. - Che ci fa don Juan con i libri di testo ? - gridai. - Eh... - gridò in risposta, - li deposita nel deposito. Stordito corsi verso l’albergo. Alle mie informazioni, pro­ prio come avevo previsto, la perplessità si diffuse tra i ra­ gazzi. Tutti noi formulammo qualche opinione, poiché ri­ manere in silenzio in un momento simile sarebbe stato come soffocare, e per fortuna nessuno prestò attenzione a nessun altro. O forse prestò attenzione il padrone, l’enorme don Pomponio dal ventre idropico, che noi del gruppo distin­ guevamo a fatica dalle colonne, dai tavoli e dai servizi di piatti perché la superbia dell’intelletto ci ottenebra. La vo­ ce bronzea, smorzata da fiumi di acquavite di ginepro, di don Pomponio ci richiamò all’ordine. Sette facce guardaro­ no in su e quattordici occhi cominciarono a pendere da una sola faccia rossa e brillante, che si divideva a metà all’altez­ za della bocca e domandava: - Perché non vi trasferite in gruppo e andate a chiedere spiegazioni a don Juan in persona ? Il sarcasmo scosse un certo Aldini, che studia per corri­ spondenza e porta la cravatta bianca. Inarcando le ciglia mi disse: - Perché non ordini al tuo alunno di spiare i discorsi di dona Remedios e di don Juan? Dopo gli puoi sempre mette­ re il pungolo addosso. - Quale pungolo ? - La tua autorità di maestrucolo, - chiari con odio. - Don Tadeito ha buona memoria? - domandò Badaracco. - Ne ha, - affermai. - Ciò che entra nella sua mente, vi rimane fotografato per un bel po’ di tempo. - Don Juan - prosegui Aldini - si consiglia con dona Re­ medios per qualunque cosa. - Davanti a un testimone come il figlioccio, - dichiarò Di Pinto, - parleranno in tutta libertà.

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- Se vi è qualche mistero, sarà svelato, - fu il vaticinio di Toledo. Chazarreta, che lavora come aiutante al mercato, bron­ tolò: - Se non vi è un mistero, cosa volete che vi sia? Poiché il dialogo si stava sviando, Badaracco, famoso per il suo equilibrio, rattenne i polemisti. - Ragazzi, - li convinse, - non siete più nell’età per sciu­ pare energie. Per avere l’ultima parola, Toledo ripetè: - Se vi è qualche mistero, sarà svelato. Fu svelato, ma non senza che prima passassero interi giorni. All’ora della siesta dell’indomani, mentre stavo sprofon­ dando nel sonno, risuonarono ancora, proprio cosi, i soliti colpi. A giudicare dai miei palpiti, risuonarono al tempo stes­ so alla porta e nel mio cuore. Don Tadeito aveva portato i li­ bri del giorno prima e chiedeva quelli del primo, secondo e terzo anno delle secondarie. Poiché i libri di testo delle scuo­ le superiori sono al di fuori della mia giurisdizione, fu ne­ cessario recarsi nella libreria di Villarroel, svegliare il gallego con sonori colpi sulla porta e poi ammansirlo con la soddi­ sfazione di sapere che a volere quei libri era don Juan. Come si poteva temere, il gallego domandò: - Che animale lo ha morsicato ? In tutta la sua maledetta vita non ha mai compratojieanche un libro e adesso in vec­ chiaia gli prende la furia. E chiaro che con la massima disin­ voltura li chiede in prestito. - Non la metta sul drammatico, gallego, - cercai di farlo ragionare mentre gli davo piccole manate sulla spalla. - Da come se ne sta preoccupando, lei mi sembra crìollo. Riferii delle precedenti richieste di testi per le scuole pri­ marie e mantenni il più stretto riserbo a proposito del muli­ nello, della cui scomparsa, stando a ciò che mi fece intende­ re lui stesso, era perfettamente al corrente. Con i libri già sotto il braccio, aggiunsi: - Stasera ci riuniamo al bar dell’albergo per discutere di tutto questo. Se vuole contribuire con il suo granello di sab­ bia, ci troverà li.

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Lungo il percorso di andata e ritorno non incontrammo anima viva, tranne il cane bianco e nero del macellaio, che doveva essere di nuovo in totale indigestione, perché nel pie­ no delle sue facoltà neppure il più umile degli esseri irrazio­ nali si espone al sole delle due del pomeriggio. Istruii il mio discepolo perché mi riferisse verbatim le conversazioni tra don Juan e dona Remedios. Non è un ca­ so che dicano che nel peccato vi è il castigo. Quella sera stessa cominciò una tortura che, nella mia golosità di cu­ rioso, non avevo previsto: ascoltare quei colloqui riferiti puntualmente, interminabili e tra i più insulsi. Di tanto in tanto arrivava sulla punta della mia lingua una qualche cru­ dele ironia su quanto mi lasciavano indifferente le opinio­ ni di dona Remedios sull’ultima partita di sapone giallo e della flanella per i reumatismi di don Juan; ma mi tratten­ ni, perché sarebbe stato impossibile delegare al criterio del ragazzo la valutazione di ciò che era importante e di ciò che non lo era. Va da sé che il giorno dopo interruppe la mia siesta per restituirmi i libri per Villarroel. A quel punto si verificò la prima novità: don Juan, disse don Tadeito, non voleva altri libri di testo; voleva giornali vecchi, che lui doveva cercare a un tanto al chilo nella merceria, dal macellaio e dal fornaio. Poi, a suo tempo, seppi che i giornali, come i libri, andava­ no a finire nel deposito. Subito dopo, ci fu un periodo in cui non successe nulla. L’animo non ha regole: avevo addirittura nostalgia dei col­ pi che mi strappavano alla mia siesta. Volevo che succedes­ se qualcosa, di buono o di cattivo. Abituato a vivere inten­ samente, ora non potevo rassegnarmi a questa fiacca. Final­ mente una sera il mio alunno, dopo un prolisso inventario degli effetti del sale e di altre sostanze nutritive sull’organi­ smo di dona Remedios, senza il minimo mutamento di tono che potesse prepararmi a cambiare argomento, recitò: - Il mio padrino ha detto a dona Remedios che c’è un vi­ sitatore che sta nel deposito e che nei giorni scorsi stava pro­ prio per inciamparci perché guardava una specie di altalena da luna-park che non aveva registrato nei libri e che lui non ha perduto la calma anche se le condizioni del visitatore erano

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piuttosto preoccupanti e gli ricordava un bagre1 boccheggiante fuori dalla laguna. Disse che aveva indovinato a portare un secchio pieno d’acqua, perché senza pensarci aveva capito che gli chiedeva acqua, e lui non avrebbe permesso, con le mani in mano, che un proprio simile morisse. Non ottenne risultati consistenti e preferì portare vicino al visitatore un abbeveratoio. Riempi l’abbeveratoio a furia di secchi d’ac­ qua e non ottenne risultati consistenti. A un tratto si ricordò del mulinello e come il medico curante che prova, disse, per tentativi i rimedi con cui salvare un moribondo, corse a pren­ dere il mulinello e lo collegò al rubinetto. A vista d’occhio il risultato parve apprezzabile perché il moribondo ricominciò a vivere come se gli andasse proprio bene respirare l’aria ba­ gnata. Il padrino ha detto che ha perso un bel po’ di tempo con il suo visitatore, perché gli chiese come poteva se ave­ va bisogno di qualcosa e che il visitatore era davvero sve­ glio e che nel giro di un quarto d’ora già spiccicava qua e là qualche parola in castigliano e gli chiedeva i rudimenti per istruirsi. Il mio padrino disse che aveva mandato il figlioccio a chiedere i libri di testo delle scuole elementari al maestro. Siccome il visitatore era davvero sveglio imparò tutte le clas­ si in due giorni e in uno era già pronto per il diploma. Poi, ha detto il mio padrino, si è messo a leggere i giornali per ren­ dersi conto di come andava il mondo. Azzardai una domanda: - Questa conversazione si è svolta oggi ? - Eh, certo, - rispose, - mentre prendevano il caffè. - Il tuo padrino ha detto qualcos’altro? - Eh, certo, però non mi ricordo. - Come sarebbe non mi ricordo? - protestai irato. - Eh, lei mi ha interrotto, - spiegò il mio alunno. - Hai ragione. Ma non mi puoi lasciare cosi, - gli spiegai, - morto di curiosità. Su, un piccolo sforzo. - Eh, lei mi ha interrotto. - Lo so. Ti ho interrotto. Ho io tutta la colpa. - Tutta la colpa, - ripetè. - Don Tadeito è buono, - dissi. - Non può lasciare il suo Pesce d’acqua dolce [N. d. TJ.

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maestro cosi, a metà della chiacchierata, per continuare do­ mani o mai. Con profondo dolore ripetè: - O mai. Ero arrabbiato, come se mi avessero portato via un bene di grande valore. Non so perché pensai che il nostro dialogo consisteva in una lunga serie di ripetizioni e all’improvviso intravidi proprio in questo una speranza. Ripetei l’ultima fra­ se del racconto di don Tadeito: - Ha letto i giornali per rendersi conto di come andava il mondo. Il mio alunno continuò con aria indifferente: - Il mio padrino ha detto che il visitatore è rimasto sba­ lordito quando ha scoperto che il governo di questo mondo non è in mano alla gente proprio migliore, ma piuttosto alle mezze calzette, se non addirittura ai perdigiorno. Che simi­ le marmaglia avesse a disposizione la bomba atomica, ha det­ to il visitatore, era una roba davvero da rimanere senza pa­ role. Perché se l’avesse a disposizione la gente proprio mi­ gliore finirebbe per tirarla, perché si sa che se qualcuno ce l’ha, la tira; ma che debba averla quella marmaglia non è se­ rio. Ha detto che in altri mondi hanno scoperto la bomba prima di adesso e che quei mondi sono fatalmente esplosi. Che non hanno dato importanza alla loro esplosione perché erano lontani, ma che il nostro mondo è vicino e loro temo­ no che un’esplosione a catena li potrebbe coinvolgere. L’incredibile sospetto che don Tadeito si prendesse gio­ co di me mi indusse a interrogarlo con severità: - Ti sei forse messo a leggere Le cose che si vedono nel cie­ lo del dottor Jung ? Per fortuna non ascoltò l’interruzione e prosegui: - Il mio padrino ha detto che il visitatore ha detto che è venuto dal suo pianeta su un veicolo fabbricato apposta con grande fatica, perché da quelle parti manca il materiale ade­ guato e che è il frutto di anni di ricerche e di lavoro. Che è venuto come amico e come liberatore, e che chiedeva il pieno appoggio del mio padrino per portare avanti un piano per sal­ vare il mondo. Il padrino ha detto che il discorso con il visi­ tatore si è svolto questo pomeriggio e che lui, di fronte alla

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gravità della cosa, non aveva esitato a disturbare dona Remedios per avere la sua opinione, che dava per scontato ugua­ le alla sua. Poiché la pausa improvvisa non si concludeva, domandai qual era stata la risposta della signora. - Ah, non lo so, - disse. - Come sarebbe, ah non lo so? - ripetei, di nuovo arrab­ biato. - Li ho lasciati che parlavano e sono venuto via perché era l’ora della lezione. Ho pensato tra me: quando non arrivo in ritardo il maestro è tutto contento. Con la sua faccia da pecora piena di vanità aspettava un mio elogio. Con ammirevole presenza di spirito pensai che i ragazzi non avrebbero creduto al mio racconto se non aves­ si portato con me don Tadeito come testimone. Lo presi con forza per un braccio e a strattoni lo portai fino al bar. Li c’e­ rano gli amici, con in più il gallego Villarroel. Fino a quando avrò un po’ di memoria non potrò dimen­ ticare quella sera. - Signori, - esclamai, mentre spingevo don Tadeito ver­ so il nostro tavolo. - Vi porto la spiegazione di tutto, una novità di grande spessore e un testimone che non mi con­ sentirà di mentirvi. Don Juan, con ricchezza di particolari, ha comunicato la faccenda alla sua signora madre e il mio fedele alunno non ha perduto una sola parola. Nel deposito del magazzino, proprio qui, nella casa accanto, è alloggiato - indovinate chi? - un abitante di un altro mondo. Non al­ larmatevi, signori: all’apparenza il viaggiatore non dispone di un fisico robusto, dal momento che sopporta male l’aria secca della nostra città (potremo essere ancora in competi­ zione con Cordoba) e per non farlo morire come un pesce fuor d’acqua don Juan gli ha attaccato il mulinello, che inu­ midisce di continuo l’ambiente del deposito. E c’è di più: all’apparenza il motivo della venuta del mostro non deve provocare inquietudine. E venuto per salvarci, convinto che il mondo sia in procinto di esplodere per la bomba atomi­ ca, e senza riguardi ha informato don Juan del suo punto di vista. Naturalmente, don Juan, mentre gustava il suo caffè, ha domandato l’opinione di dona Remedios. Purtroppo il

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ragazzo qui presente - scossi don Tadeito come se fosse un fantoccio - è venuto via proprio in tempo per non ascoltare il parere di dona Remedios, e cosi non sappiamo cos’hanno deciso. - Lo sappiamo, - disse il libraio, muovendo come una tromba le sue labbra umide e grasse. Mi diede fastidio il fatto che mi correggessero a proposi­ to di una novità di cui mi credevo unico depositario. Do­ mandai: - Cosa sappiamo ? - Lei non deve irritarsi, - disse Villarroel, che sa vedere sotto le acque. - Se, come lei dice, il viaggiatore muore se gli si toglie il mulinello, don Juan lo ha condannato a morire. Venendo qui da casa mia, sono passato di fronte a Le Mar­ gherite e alla luce della luna ho visto perfettamente il muli­ nello che annaffiava il giardino come prima. - L’ho visto anch’io, - confermò Chazarreta. - Con la mano sul cuore, - mormorò Aldini, - vi dico che il viaggiatore non ha mentito. Presto o tardi scoppieremo con la bomba atomica. Non vedo via d’uscita. Come se parlasse da solo, Badaracco commentò: - Non ditemi che quei due vecchi, tra di loro, hanno li­ quidato la nostra ultima speranza. - Don Juan non vuole che gli cambino posto, - osservò il gallego. - Preferisce che questo mondo esploda, piuttosto che avere la salvezza da altri. Guardate un po’ voi, se è un mo­ do di amare l’umanità. - Odio per ciò che non si conosce, - commentai. - Oscu­ rantismo. Si dice che la paura aguzzi l’ingegno. La verità è che quel­ la sera qualcosa di strano aleggiava nel bar, e che tutti noi ti­ ravamo fuori delle idee. - Coraggio, ragazzi, facciamo qualcosa, - esortò Badarac­ co. - Per amore dell’umanità. - Perché lei, signor Badaracco, ha tanto amore per l’u­ manità? - domandò il gallego. Arrossendo, Badaracco balbettò: - Non lo so. Lo sappiamo tutti. - Cosa sappiamo, signor Badaracco? Se lei pensa agli uo­

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mini, li trova forse ammirevoli? Io credo l’esatto contrario: stupidi, crudeli, meschini, invidiosi, - dichiarò Villarroel. - Quando vi sono le elezioni, - riconobbe Chazarreta, - la tua brava umanità si mette rapidamente a nudo e si mostra per quella che è. Vince sempre il peggiore. - L’amore per l’umanità è una frase senza senso? - do­ mandai. - No, signor maestro, - rispose Villarroel. - Chiamiamo amore per l’umanità la compassione per il dolore altrui e la venerazione per le opere dei nostri grandi ingegni, per il Chi­ sciotte del Monco Immortale, per i quadri di Velâzquez e di Murillo. In nessuno dei due casi, quell’amore vale come ar­ gomento per ritardare la fine del mondo. Le opere esistono soltanto per gli uomini e dopo la fine del mondo (arriverà quel giorno, per la bomba o per una morte naturale) non avranno né giustificazioni né pretesti, mi creda. Quanto al­ la compassione, è produttiva se c’è un fine prossimo... Sic­ come nessuno, in nessun modo, può sfuggire alla morte, che venga subito, per tutti, e cosi la somma del dolore sarà il mi­ nimo possibile! - Stiamo perdendo tempo con i preziosismi di queste chiac­ chiere accademiche e proprio qui, al di là di questo muro, muo­ re la nostra ultima speranza, - dissi con un’eloquenza che fui il primo ad ammirare. - Bisogna agire subito, - osservò Badaracco. - Ben pre­ sto sarà troppo tardi. - Se gli invadiamo il magazzino, don Juan, al massimo, può arrabbiarsi, - osservò Di Pinto. Don Pomponio, che si era avvicinato senza che lo sentis­ simo e che per poco non ci fece cadere dallo spavento, pro­ pose: - Perché non mandate questo ragazzo, don Tadeito, co­ me avamposto ? Sarebbe la cosa più prudente. - Giusto, - approvò Toledo. - Don Tadeito collega il mu­ linello nel deposito e spia un po’, per venirci a riferire com’è il viaggiatore dell’altro mondo. In frotta uscimmo nella notte, illuminata da una luna im­ passibile. Quasi piangendo, Badaracco implorava: - Generosità, ragazzi. Non importa se mettiamo in peri­

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colo la pelle. Da noi dipendono tutte le madri e tutte le crea­ ture del mondo. Di fronte al magazzino ci raggruppammo, vi furono avan­ zate e ritirate, passaggi da un’opinione all’altra, movimento. Alla fine Badaracco raccolse il coraggio e spinse dentro don Tadeito. Il mio alunno tornò dopo un interminabile momento per comunicarci: - Il bagre è morto. Ci disperdemmo tristemente. Il libraio tornò indietro in­ sieme a me. Per una qualche ragione che non riesco assolu­ tamente a comprendere, la sua compagnia mi confortava. Di fronte a Le Margherite, mentre il mulinello annaffia­ va con monotonia il giardino, esclamai: - Io gli rinfaccio la sua mancanza di curiosità, - per poi ag­ giungere, con lo sguardo assorto nelle costellazioni: - Quan­ te Americhe e Terranove infinite perdiamo stanotte. - Don Juan - disse Villarroel - ha preferito vivere nella sua legge di uomo limitato. Ammiro il suo coraggio. Noi due, non ci azzardiamo neppure a entrare qui dentro. Dissi: - E tardi. - E tardi, - ripetè.

Un leone nel parco di Palermo

... Hideous animal, get hence! THE SPHINX

Il dottor Standle-Zanichelli servirà da prologo. Tutto co­ minciò, dunque, nel Club Atlètico, quel mercoledì, alla fine del pomeriggio, pochi minuti prima che il leone fuggisse dal giardino zoologico. L’addetto al guardaroba, Daniel, era stan­ co: sin dalla mattina era stato un giorno di grande movi­ mento, con il club pieno. I soci protestavano perché c’era po­ ca acqua calda, e lui scendeva a caricare la caldaia; se ne an­ davano senza pagare l’asciugamano o urlavano perché lui non era di sopra a distribuire a ciascuno la sua ostia di sapone ros­ sastro. Stava calando la sera. Ormai troppo nervoso, il po­ vero Daniel era sempre più stralunato, e aveva la bava alla bocca dalla voglia di bersi un mate. Perché mai Melania lo preparava tiepido? Mancava poco al momento più bello: quello di chiudere il guardaroba e di andarsene nella sua stan­ za. Rimanevano soltanto il dottor Standle-Zanichelli (il soli­ to ritardatario) e un socio che quel pomeriggio non aveva tro­ vato un buon pretesto per sfuggire alla temuta partitina con il dottore. Questi, in canottiera, assorto a fissare lo specchio mentre divideva i suoi capelli in due metà uguali e ondulate, concionava di fronte a un pubblico composto di due perso­ ne: il socio già citato e Daniel. Il primo annuiva con cenni del capo e muoveva gli occhi, in un va e vieni progressiva­ mente sempre più rapido, tra l’orologio della parete di fon­ do e l’orario dei treni della parete vicina. Quanto a Daniel, sorrideva con modestia, non capiva una sola parola, gli era ri­ masta soltanto la forza di aspettare che quei signori se ne an­ dassero, chiudere tutto, correre nella sua stanzetta, chiedere a Melania, se non era troppo tardi, di preparargli qualche ma­ te, tiepido di sicuro, con l’erba che aveva usato a colazione,

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se voleva, ma ne aveva un tale desiderio ! Dopo avrebbe fat­ to un salto, di gran corsa, al Deportivo... L’ostinato dottor Standle-Zanichelli continuava: - Voi credete che l’ambiente naturale dell’uomo sia la ci­ viltà, ma io vi domando: non potrebbe essere l’uomo una be­ stia intelligente ma feroce che, predestinata a suicidarsi, ha inventato la civiltà, strada lunga e tortuosa, per arrivare al­ l’obiettivo di divorarsi da sé, come una spregevole iena pri­ va di pietà ? Da migliaia di anni a questa parte reprimiamo i nostri istinti: l’aggressività, l’animalità eccetera. Si direb­ be, dunque, che la civiltà ha vinto. Non crediatelo. Esplo­ sioni di criminalità dovunque, un bambino delinquente a te­ sta, psicanalisti che scoprono nel prossimo un groviglio di demoni, sono altrettante prove del fatto che gli istinti stan­ no recuperando terreno, che la marea della civiltà sta alla fi­ ne ritirandosi. - Se io non mi ritiro subito, - confessò, armandosi di tut­ to il suo coraggio, l’Altro Socio, - sono già cinque treni che ho perduto, mentre lei continua a spiegare quanto è perico­ loso reprimere gli impulsi. - Un momento, - disse con dignità il dottore. - L’ac­ compagno alle scale. Non le offro un passaggio nella mia co­ moda automobile perché l’ho lasciata a casa. Sto seguendo il mio programma Vita Sana, pedalo su una bicicletta Peugeot, mi tengo in forma. Standle-Zanichelli ci sarà per parecchio tempo ancora! Il povero Daniel chiuse il guardaroba. I tre uomini si pre­ cipitarono rumorosamente giù per le scale, che risuonarono come un tamburo. Lorenzo, il gallego del bar, di solito cor­ tese e addirittura servile, sporgendo la faccia esplose: - Non mi fate sentire la radio, furbastri. Statevi zitti, in­ somma. - Il libro dei reclami! - ruggì Standle-Zanichelli. - Lasci perdere il libro dei reclami, - replicò l’Altro So­ cio. - Questo gallego qui lo distruggo con un pugno solo. Daniel domandò: - Perché non vi ammazzate una buona volta ? La bambinaia dei Retner, una madre per Orlandito (bam­ bino modello) durante tutto il tempo che i suoi veri genitori

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percorrevano i Caraibi in lungo e in largo con la crociera del­ la Caronia, brandendo una bottiglia di Ferrochina li informò: - Il leone è scappato dal giardino zoologico. Entrarono tutti nel bar - sembrava un salone strappato da un qualche minuscolo castello Tudor - mentre l’apparec­ chio radio spiegava: - Un automobilista non identificato lo ha visto attraver­ sare imprudentemente la strada ed entrare nel parco. Portavoci della polizia sostengono che in questo momento il leo­ ne si dovrebbe aggirare intorno al recinto del Club Atlètico. - Viva la patria! - sussurrò Orlandito. - Bisognerebbe chiudere il portone, - osservò l’Altro Socio. - Il capo della polizia a cavallo promette che ci sarà un’o­ perazione di bonifica, - rispose Lorenzo. La bambinaia assicurò: - L’intendente in persona chiede alle coppie e alla popo­ lazione del posto di mantenere la calma. La radio prosegui: - A mezzanotte in punto si concluderanno l’operazione di bonifica e il pericolo. - Un leone non modifica i miei piani, - dichiarò StandleZanichelli. - In bicicletta! - Passando potrebbe chiudere il portone, - suggerì l’Al­ tro Socio. Standle-Zanichelli rispose con una risata ambigua, agitò la mano, se ne andò. - Vado io a chiuderlo, - urlò Orlandito, ma si arrampicò sul bancone del bar e rovesciò il barattolo dell’amido Rémy. - Se non mi fossi abbuffato di maialino a Calamocha, in questo stesso momento l’avrei già bello che messo al forno, - assicurò Lorenzo. Daniel se ne andò nella sua stanza. Giorno dopo giorno, verso il crepuscolo, si ripeteva una situazione sempre identi­ ca. Non appena lui apriva la porta, Melania, indaffarata nel cucinino, circondata da tre bambini cenciosi e con il più pic­ colo in braccio, senza voltarsi annunciava: «Adesso arriva». Seduto sul letto matrimoniale, mentre aspettava con grande ansia il mate, Daniel guardava sua moglie - magra, scapiglia­ ta, con il vestito tutto in disordine -, meditava sul silenzioso

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lavorio dell’incuria, scuoteva la testa, mormorava con tene­ rezza: «E una brava persona». Quindi arrivava il mate fred­ do. E poi Melania sorrideva tristemente e domandava: «Per­ ché non ti vai a fare una partita a ludo1 con il gallego ? Se te ne stai qui in giro mentre cucino mi dà ai nervi». Dicendo­ si che avrebbe dovuto controllare se il gallego giocava a lu­ do (se non sapeva giocare, avrebbe dovuto insegnarglielo quanto prima), andava al Deportivo, proprio li di fronte, si abbassava, penetrava nel cespuglio delle ortensie come in un bosco segreto. Dopo un momento - un lungo momento, perché le donne non sono puntuali, neppure quando si trat­ ta del loro piacere - sentiva un sussurro, un agitarsi tra le ortensie e poi scorgeva Susana, «la moglie del collega» del Club Deportivo, che veniva a incontrarlo. Ben presto si di­ cevano «Addio, amore mio» e ognuno, cautamente, torna­ va a casa sua. Quel pomeriggio la situazione cambiò. Quando Daniel socchiuse la porta, con un recipiente in ciascuna mano Me­ lania lo affrontò gridandogli: - Non chiedermi mate perché ti scortico come un maiale. - E cosi hai scaldato l’acqua, oggi, vero? - domandò Da­ niel. - Io, al tuo posto, mi farei un bagnetto. - Susana ha un odore migliore ? Non si erano mai parlati cosi brutalmente, ma oggi a Da­ niel quel modo di trattarsi sembrava naturale. Per paura del­ l’acqua che bolliva non aggredì Melania. Si buttò sul letto, sbadigliando, già scalzo, si massaggiò i piedi, ebbe voglia di Susana, respirò profondamente, si prese nelle mani il piede destro, cominciò un movimento da animale in gabbia. Im­ maginò se stesso, acquattato, correre sulle quattro zampe in mezzo alle ortensie. Poi si distese, in attesa; subito si ripre­ sentò, da lontano, la testa ricciuta di Susana, simile a quella di una pecora, e quindi Susana, che galoppava sulle quattro zampe verso di lui. Dato che simili visioni lo turbavano, sbuffò irato e si alzò in piedi. Pensò di uscire dalla stanza, senza lasciare a Melania il tempo di gettargli addosso l’acqua bollente, e di fuggire al Club Deportivo, ma si ricordò del 1 Gioco simile alla dama [N. d. TJ.

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leone; sbuffò di nuovo, stavolta con una specie di lamento, e subito si ributtò sul letto, si massaggiò i piedi, riprese il suo movimento. - Se oggi non vai da Susana, - dichiarò Melania, - ci va­ do io, e le cavo gli occhi. Era molto decisa, ma si attardava a sciogliere il nodo del suo grembiule. Intanto, al Club Deportivo, affacciata alla finestra della cucina, Susana pensava: «Quel vigliacco non viene. Adesso vado io li di fronte e gli dico che se non la lascia subito e non rimane con me non è un uomo. Finalmente gli dirò quello che penso: vivere con quella donna è una depravazione. E se lei apre bocca, le dirò che prima di rivolgermi la parola si faccia un bagno, per favore». Nel bar del Club Atlètico, seduti a un tavolino, non lon­ tano dal caminetto, la bambinaia e l’Altro Socio stavano be­ vendo; Lorenzo, con i gomiti sul bancone, biascicava tra i denti parole incomprensibili, e Orlandito andava avanti e in­ dietro scrutandoli con odio. - Dato che qui ci faremo notte, - osservò l’Altro Socio, e scopri che la bambinaia, abbassandosi la scollatura, lo guar­ dava con occhi stranamente languidi, - mangeremo, la si­ gnorina e io, una fetta di filetto a testa, molto tenera e con due uova sopra. - Né tenere né dure, - lo contraddisse Lorenzo. - Male­ dizione ! L’Altro Socio alzò la mano verso dove teneva gli occhi fis­ si, e gridò: - Ahi. Aveva ricevuto una gomitata nel fegato. La bambinaia, dopo aver difeso cosi fieramente la scollatura, rideva scioc­ camente, come se avesse perduto tutte le forze. - Mi chiamo Renata, - informò, atteggiando le labbra ba­ gnate a una smorfia simile a un bacio. - Fa lo stesso, - commentò Lorenzo. - Cascate proprio male, perché io non lavoro dopo l’orario, proprio no, e tutte le Renate possono farsi venire il singhiozzo, lor signori pos­ sono grugnire e, là fuori, il leone di Numanzia reincarnato può grugnire ancora più forte.

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L’Altro Socio si alzò e, nel dubbio che volessero offen­ derlo, avanzò con aria provocatoria. - Io sono una scimmia! - squittì Orlandito, dall’alto de­ gli scaffali. Buttò giù una bottiglia di Cinzano e un’altra di whisky Cavallo Bianco. - Mangerete, - avverti Lorenzo. - Mangerete maialino o almeno cinghialino da latte. Con un lungo bastone cercò di far scendere il bambino, mentre Renata diceva dolcemente: - Io, signore, le indicherò le carni più tenere. In quel momento l’apparecchio radio diede la notizia dell’avvenuta cattura del leone, che era stato di nuovo sistemato nella sua gabbia. Prima che le persone riunite nel bar potes­ sero commentare la notizia, una delle espressioni più vigo­ rose della natura la smentì: il ruggito del leone. Fu un rug­ gito così vicino che parve provenire dalla radio o da uno dei presenti (proveniva, senza dubbio, dal parco) e così grande da coinvolgerli tutti, quasi che l’intero club precipitasse nel­ le fauci di un gigantesco leone. Il bar rimase al buio. - Le valvole! Ti pareva che non sarebbero saltate, con tut­ to questo chiasso ? Adesso sì che sento meglio ! - esclamò Lo­ renzo. - Che freddo, - gemette Renata e si strinse contro l’Al­ tro Socio. Abbracciandola, questi comunicò: - Con quel leone proprio qui fuori, il buio non mi piace. Assorto, Lorenzo osservava la fiamma moribonda del ca­ minetto. A un tratto, il fuoco si ravvivò in frenetiche fiam­ mate. Il dialogo, di conseguenza, fu serrato. - Guardate l’ingresso. - Lì c’è la luce. - Ma allora non sono saltate le valvole. - Questo ragazzino bisognerebbe ammazzarlo ! Ha girato l’interruttore della luce. - Che carino. Orlandito rise. Lorenzo accese la luce. L’Altro Socio disse: - Non è carino per niente, Renata. Sono i nostri vestiti che hanno riacceso il fuoco ! Guarda come bruciano !

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- Il bambino li ha gettati nel fuoco ! Ha gettato tutto il mucchietto dei nostri vestiti! - ammise Renata. Rivolta a Lo­ renzo, aggiunse: - Se fossi in lei, signore, andrei a prepara­ re al più presto quel maialino, - strizzò un occhio, - e divi­ derei con noi il pranzo. Daniel entrò nel bar. - Non mi prenderete, - gridò Orlandito. - E neppure mi spaventate. - Ma il leone si che ti spaventa, - affermò con un tono ri­ flessivo Daniel. - Non ce l’hai il coraggio di uscire nel parco. - Bene! Non si è mai sentita e non si sentirà mai una fra­ se migliore! - applaudì Lorenzo. - Molto bene, - esclamò l’Altro Socio. - Voglio mangiare! - protestò Renata, afflitta e tutta smorfie. - Anch’io sto soffrendo la fame, lo sappia pure, signori­ na Renata, - spiegò Lorenzo, - ma ne faccio voto all’illusio­ ne di un giusto castigo. - Vedrete, vedrete, non ho paura, - gridò Orlandito, cam­ minando sull’orlo di uno scaffale, con le braccia in alto. Cercarono di prenderlo, ma riuscì a fuggire. Fuggirono an­ che, ma di nascosto, Renata e l’Altro Socio. Lorenzo, guida­ to dall’istinto, li trovò in cucina che squartavano e divorava­ no un cosciotto di vacca. Al di sopra della preda ci fu uno scambio di occhiate torve. Lo scontro parve inevitabile. L’Al­ tro Socio e Renata si allontanarono, perché erano sazi. Lo­ renzo mangiò. Poco dopo, russavano tutti. Alle dieci e mezzo del mattino li svegliò il notiziario radio, con una trasmissione straordinaria che sanciva la seconda, im­ minente e totale cattura del leone, che per di più era già si­ stemato nella sua gabbia del giardino zoologico. Com’era pre­ vedibile, risuonò immediatamente - secondo l’impressione di tutti, nelle immediate vicinanze del club - l’immenso ruggi­ to ferale. Lo seguì un terrorizzato gridolino umano, che mi­ se in risalto - come quelle persone che si fanno fotografare vicino ai monumenti - le eccezionali proporzioni del ruggito. Sicuramente per dimostrare che il leone non lo spaventava, Daniel commentò: - Questa sì che è bella. Sono le dieci e mezzo passate e il dottor Standle-Zanichelli non è ancora arrivato.

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- Più che la mania potè la paura, - sentenziò Renata. - A me oggi non mi incastra per la sua partitina. Speria­ mo che non si arrabbi, - chiari l’Altro Socio. - Guardate, guardate, - gridò Orlandito. Con la testa in giù, come una scimmia o una marmotta, aggrappato al vano delle tende, guardava attraverso la ban­ diera del club, e faceva segni all’esterno. Si addossarono tut­ ti alla finestra. Al di là del reticolato videro la strada, come una striscia azzurra, e nella frangia figure geometriche, due cerchi, qualcosa che a uno parve una squadra, a un altro un trapezio, a un altro un triangolo, e una macchia scarlatta. Poi si distrassero, perché, come animali, non tenevano l’attenzione ferma su qualcosa, e cominciarono a combatte­ re per Renata. L’Altro Socio, racchetta alla mano, iniziò a distribuire colpi, anche alla sua amica. La battaglia continuò; a poco a poco il trofeo in palio cambiò: non si trattava più di Renata, ma di burro, marmellata, pane e budino all’inglese. Si distrassero di nuovo, stavolta dalla noia, per addentare la colazione. Daniel si accorse dell’assenza di Orlandito. Rena­ ta gemette: - Sarà andato nel parco ! Per calmarla, l’Altro Socio rispose: - Non mancherà da mangiare. - Bisogna tenere delle scorte, - lo corresse la bambinaia. - Non è mai stata cosi formale una donna nuda né si è mo­ strata, ahimè, cosi dotata di senno. Mi sta bene se oggi mi sono svegliato con meno formalità di un gatto, ma chi non darebbe la propria merenda e non farebbe salti mortali per un’occhiata alla scena del piccolo Orlandito che inciampa nel­ la boccaccia del leone ? - Forse non lo vedremo, - suggerì l’Altro Socio, - ma sa­ pere che la cosa è avvenuta sarebbe davvero una bella con­ solazione. - Io voglio vederlo, - chiese Renata. - Io vado a vedere se Orlandito è qui in casa, - disse Da­ niel. La percorse tutta rapidamente. Poi, con il timore che gli altri lo sorprendessero, vergognandosi del suo impulso, corse nel parco, a salvare il bambino. Lungo la strada si imbattè in

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ciò che da lontano sembrava un insieme di figure geometri­ che e una macchia scarlatta; risultò che si trattava della bici­ cletta del dottor Standle-Zanichelli, squartata, e di una poz­ za di sangue. Daniel non si fermò. Scosse il capo con aria com­ passionevole e, impaurito, guardando da una parte e dall’altra, si addentrò nel parco. L’odore degli eucalipti era violento. Da un ramo, chiaro nel folto, cantò un uccello. Daniel pensò ai figli che al suo fianco, a poco a poco, entravano nella vita; pensò a Melania, la sua compagna, e a Susana, il suo piacere segreto; si disse che gli sarebbe spiaciuto abbandonare un mondo cosi bello, ma siccome qualcuno doveva pur riporta­ re indietro il bambino smarrito, continuò ad andare avanti fi­ no a quando non lo trovò, proprio sulla riva del lago delle ca­ ravelle. Tenendosi per mano tornarono indietro. Lungo la strada incontrarono Renata, vestita con panni altrui, l’Altro Socio, in tenuta da tennis, e Lorenzo: ognuno, per Orlandito, si esponeva a uno sgradevole incontro con il leone. A dire il vero, non corsero pericoli: pochi minuti prima che Daniel si mettesse alla ricerca del bambino, il leone ab­ bandonava il parco a bordo della camionetta del canile mu­ nicipale. Questa circostanza non sminuisce, tuttavia, il co­ raggio di ciascuno di loro dal momento che la ignoravano. Seppero la notizia dalle voci di Melania e di Susana, che, cir­ condate dai piccoli, li aspettavano sulla porta del Club Atlè­ tico, e commentavano animatamente. L’episodio si concludeva li. Lasciò un’unica perdita, il dot­ tor Standle-Zanichelli, uomo dalla personalità vigorosa e in­ corruttibile. Gli altri, fino a quando rimasero vicini al leone, a causa della sua influenza si abbandonarono all’antica na­ tura animalesca che sta in fondo a ognuno. Furono aggressi­ vi, crudeli, codardi, sciocchi. Portata via la belva ad opera degli uomini del Municipio, in tutti prevalse di nuovo il cri­ terio umano, indubbiamente impuro a causa dell’ipocrisia, ma anche splendente di compassione e di coraggio.

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