Ultime notizie dal sud 8860886600, 9788860886606

Nel 1996, a Parigi, due amici seduti davanti a un mate progettano un libro sul Sud del mondo. Sono uno scrittore e un fo

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Ultime notizie dal sud
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Table of contents :
Ultime notizie dal Sud
Dedica
A proposito di questo libro
Strada facendo...
Anaya enea
Il cuore della mia memoria
Il Tano
Racconti di ubriachi
La signora dei miracoli
Lo Sceriffo
L’ultimo viaggio del Patagonia Express
Il Folletto
Gauchos della Patagonia
Il cinema della fine del mondo
Ringraziamenti
Indice

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NARRATORI DELLA FENICE

LUIS SEPÚLVEDA ULTIME NOTIZIE DAL SUD Con fotografie di Daniel Mordzinski Traduzione di Ilide Carmignani

UGO GUANDA EDITORE IN PARMA

Titolo originale: Últimas noticias del Sur

In copertina: fotografia di © Daniel Mordzinski Grafica di Guido Scarabottolo

Per essere informato sulle novità del Gruppo editoriale Mauri Spagnol visita: www.illibraio.it www.infinitestorie.it ISBN 978-88-6088-791-7 © Luis Sepúlveda and Daniel Mordzinski, 2011. By arrangement with Literarische Agentur Mertin Inh. Nicole Witt e.K., Frankfurt am Main, Germany © 2011 Ugo Guanda Editore S.p.A., Viale Solferino 28, Parma Gruppo editoriale Mauri Spagnol

www.guanda.it Quest’opera e` protetta dalla Legge sul diritto d’autore. E` vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

Al mio amato fratello Osvaldo Soriano. Ci siamo salutati per l’ultima volta a Buenos Aires. Uno ha proseguito il suo viaggio nel Sud del Mondo, l’altro nel Sud dell’Anima. Alla brava gente che ci ha accolto a sud del 42° parallelo

A proposito di questo libro

L’idea di questo libro nacque un pomeriggio del 1996, bevendo mate a Parigi. Daniel Mordzinski e io – Daniel è il mio « socio » in tutto quello che seguirà – avevamo voglia di andare oltre il rapporto di eterno concubinato testo-fotografia che ci aveva spinti in giro per il mondo a fare reportage per riviste e giornali, perché si era sempre trattato di incarichi limitati sia come estensione sia come numero di immagini e spesso, al momento di pubblicare, il nostro lavoro era stato soggetto a voleri oscillanti fra il politicamente corretto e il timore di perdere il posto. La censura moderna, esercitata da gente che non ha paura della disoccupazione ma di essere « espulsa dal mercato », non proibisce ma cancella, taglia, « edita » in nome di una precauzione vigliacca, di una prudenza pusillanime. Così un giorno siamo partiti per il Sud del Mondo, per vedere cosa trovavamo da quelle parti. Il nostro itinerario era molto semplice: iniziava per ragioni logistiche a San Carlos de Bariloche, dal 42° parallelo sud scendeva, restando sempre in territorio argentino, fino a Capo Horn, e poi risaliva dalla Patagonia cilena fino all’Isola Grande di Chiloé. Tremilacinquecento chilometri più o meno, eppure, malgrado la semplicità, l’itinerario tradiva l’impronta dei viaggiatori inglesi che si muovono sem11

pre per confermare una tesi, e se questa non coincide con la realtà che incontrano, be’, peggio per la realtà. La nostra tesi era che saremmo stati capaci di coprire quella distanza, ma tutto ciò che abbiamo visto, ascoltato, fiutato, mangiato, bevuto appena arrivati, ci ha detto che nel corso di un mese avremmo fatto a stento qualche centinaio di chilometri, e siccome non siamo inglesi abbiamo accantonato quella stupida tesi. Poche settimane dopo essere rientrati in Europa, il mio socio mi ha consegnato una cartellina piena di belle fotografie in formato lavoro e non abbiamo più parlato del libro. Quello che avevamo visto e vissuto nel Sud del Mondo è diventato argomento di conversazione con gli amici, la sua compagna e la mia conoscono a memoria tanti aneddoti di quei giorni di zaino e vento, i suoi figli e i miei hanno ascoltato attenti le avventure di questi due veterani della strada e forse saranno loro a riprendere il cammino. Non abbiamo più parlato del libro perché il mio socio capisce che i libri sono bestie molto strane, imprevedibili, e che ci sono storie che preferiscono essere raccontate al calore di un bicchiere di vino, che amano accomodarsi in mille modi nella bocca di chi racconta, finché non arriva il momento in cui loro e solo loro decidono di diventare parole su carta. I miei libri si mettono sempre in ordine da sé, il loro ordine è aleatorio, anarchico, perché non vogliono essere la memoria dell’autore, vogliono essere la memoria collettiva, e a poco a poco si scrivono 12

da soli in modo impercettibile come l’aria pura e limpida che la gente migliore difende con il massimo impegno. Tutte le storie che seguono sono senza dubbio circondate dall’aura dell’inesorabilmente perduto, per via di quell’« inventario delle perdite » di cui parlava Osvaldo Soriano, il prezzo crudele della nostra epoca. Mentre viaggiavamo, senza meta, senza tempi prestabiliti, senza bussola né altre trappole, quella formidabile meccanica della vita che riunisce sempre chi si assomiglia ci ha portato a incontrare molti dei « barbari » a cui allude la poesia di Kostantinos Kavafis. I loro sogni erano temibili, perciò sono stati annientati o respinti in territori estremi appositamente prescelti, ma hanno continuato lo stesso a seminare l’insonnia fra i signori del potere, che sempre più ossessionati dal pericolo del loro ritorno hanno ordinato alle banche di screditarli, e a dei completi mentecatti di scrivere libri sull’« idiozia dei barbari ». E i « barbari » hanno risposto piantando boschi, immaginando un’alternativa alla disumanizzazione del sistema imperante, organizzando la vita, perché vivere fosse un po’ più di un verbo. Così, bevendo mate insieme a loro, insieme ai « barbari », abbiamo visto l’aurora australe scrivere con calligrafia elettrica gli ultimi versi della poesia di Kavafis: « È che fa buio e i Barbari non vengono, / e chi arriva di là dalla frontiera / dice che non ce n’è neppur l’ombra… / E ora che faremo senza i Barbari? / (Era una soluzione come un’altra, dopo tutto…) » 14

Strane bestie i libri. Questo ha deciso la sua forma definitiva quattro anni fa: volavamo sopra lo Stretto di Magellano a bordo di un fragile aeroplanino che sobbalzava alla mercé del vento, il pilota malediceva le nuvole perché gli impedivano di vedere dove diavolo era la pista di atterraggio, i punti cardinali sembravano ormai un riferimento assurdo, quando il mio socio ha detto che là in basso c’erano storie e fotografie che ancora ci mancavano. E in effetti era vero. Poi siamo tornati in Europa, lui in Francia e io in Spagna, e ancora una volta il libro ha smesso di stare al centro della nostra attenzione. Il mio socio però non ha mai saputo che questo libro che scrivevo lentamente era il mio rifugio, il luogo a cui tornavo ogni volta che mi sentivo bene, perché così sono i viaggi felici nei ricordi. Un giorno ho deciso che la redazione finale era terminata e che era giunta l’ora dell’addio. Mettere il punto a una storia o a una serie di storie che ami è la cosa più dura del mondo. È un saluto definitivo. Non si torna mai alla felicità delle pagine che prendono pian piano vita. Questo libro è nato come la cronaca di un viaggio compiuto da due amici, ma il tempo, i violenti cambiamenti dell’economia e l’avidità dei vincitori lo hanno trasformato in un libro di notizie postume, nel romanzo di una regione scomparsa. Nulla di quanto abbiamo visto è ancora come lo avevamo conosciuto. In qualche modo siamo i fortunati che hanno assistito alla fine di un’epoca nel Sud del 16

Mondo. Di quel Sud che è la mia forza e la mia memoria. Di quel Sud a cui mi aggrappo con tutto il mio amore e tutta la mia rabbia. Ecco perché queste sono Le ultime notizie dal Sud.

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Strada facendo...

Ci mettemmo in marcia senza sapere che quell’anno era fiorita la quila. Accade al massimo tre volte in un secolo e quindi merita di essere definito un prodigio. La quila è una varietà di bambù andino che cresce nelle profonde gole della Cordigliera. Resiste al vento, alla neve, al freddo intenso dei lunghi inverni australi e al sole cocente delle brevi estati. I suoi fusti raggiungono svariati metri d’altezza, sono duri, elastici, e le foglie hanno un tenero colore verde che riempie di allegria quei paraggi. I primi abitanti della Patagonia usarono canne di quila per sostenere le pelli di guanaco delle rucas, le loro tende, e le utilizzarono anche per fabbricare le lance che frenarono l’avanzata di tante cavallerie nemiche durante la Conquista. In seguito, quando verso il 1880 iniziò la colonizzazione della grande regione australe e la stampa britannica evidenziò non la fragile bellezza di quel mondo ma le sue potenzialità economiche subordinate alla « triste necessità di annientare i barbari », le lance di quila tornarono ad affrontare gli invasori insieme alle frecce e alle boleadoras; stavolta però furono sconfitte dal piombo e dai cavilli legali di quei predoni avidi di terre che non avrebbero mai amato, di ricchezze che avrebbero ingrassato i 18

banchieri europei, e di un prestigio che la Storia non ha ancora iniziato a giudicare. Gli indios della Patagonia hanno avuto un lungo rapporto con la quila e non solo per la sua versatilità, ma anche per le sue doti di tragico e infallibile oracolo. Ogni volta che è fiorita la quila sono arrivati tempi di dolore e devastazione. Il suo fiore è di un intenso e premonitorio color rosso, e i tehuelche calcolavano la loro età in base alle sue fioriture. Chi era stato testimone più di due volte di quel prodigio aveva sicuramente molto da raccontare al calore del fuoco. Oggi in Patagonia restano pochi tehuelche e mapuche. Sono i sopravvissuti che, tenendosi ben stretta la loro dignità, hanno deciso di non essere più un simpatico dettaglio etnico per il sollazzo dei turisti e, su entrambi i versanti della Cordigliera delle Ande, vivono ed esercitano una formidabile cultura fatta di resistenza e di memoria. Le altre etnie sono scomparse, schiacciate dalle regole di un progresso di cui nessuno è capace di individuare i frutti; di loro restano appena il ricordo o le testimonianze raccolte da qualche studioso che svolge il proprio lavoro sotto la sorveglianza del pregiudizio e del sospetto. È molto difficile scrivere la storia dei vinti, ma la quila è ancora lì che cresce nelle gole, unita d’inverni all’errabondo destino dei gauchos più poveri. Quando il mese di marzo accorcia le giornate, quando le ottarde solcano il cielo fuggendo i rigori invernali e il vento ammassa le nuvole nelle valli, i gauchos radunano il bestiame e prendono la via della Cordigliera, dei pascoli invernali. Non sono molti i 20

bovini in questa terra esausta su cui un tempo pascolavano i guanachi e che poi, nell’epoca d’oro della lana, fu calpestata da milioni di pecore. Sulle falde della Cordigliera, i gauchos lasciano gli animali nei canneti, protetti dal vento gelido dietro pareti rocciose. Ben presto inizia a nevicare e man mano che aumenta lo strato di neve sulle canne, queste si piegano per il peso e s’inarcano formando una specie di stalla naturale. Sotto quel tetto di canne e neve gli animali mangiano foglie di quila, ricca fonte nutritiva che li sostenta fino alla primavera seguente, bevono l’acqua che gocciola in pozze e smuovono loro stessi le canne perché il metano degli escrementi esca e non li asfissi. In settembre i gauchos fanno ritorno e li riportano nelle verdi valli estive, sui teneri pascoli da ingrasso, all’euforia dell’accoppiamento, alla terribile selezione fra chi resterà in vita e chi sarà squartato dagli affilati artigli dei condor o soccomberà nelle fauci dei puma o sulle meravigliose grigliate che profumeranno la vita degli uomini. E la quila continuerà a crescere nelle gole, affondando le lunghe radici nel terreno arricchito dallo sterco del bestiame. L’anno che il mio socio e io ci siamo messi in viaggio è fiorita per l’ultima volta la quila. I suoi infausti fiori rossi hanno tinto di rosso la Patagonia andina e non c’è stato bisogno di aspettare a lungo per sapere da quale parte arrivava la disgrazia.

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Anaya enea

Quando mia nonna Susana apparecchiava l’enorme tavola sotto il pergolato di vite della casa di famiglia, curava bene la simmetria dei bicchieri e la freschezza dei fiori, i limoni spandevano il loro aroma e i tovaglioli ricamati erano le bandiere di benvenuto del suo anaya enea. Poi aspettava orgogliosa, sull’uscio, l’arrivo dei figli, dei nipoti e dei compagni. La sua lingua, quel basco che non aveva mai dimenticato, era piena di parole magiche come queste due, anaya enea, « luogo dove si incontrano i fratelli », e quel luogo per me è Buenos Aires. Era proprio là che mi trovavo quando un temporale estivo scatenò il finimondo sulla città più vitale dell’America Latina. L’aria profumava delle jacarande cantate da Susana Rinaldi, ma il cielo spalancò senza pudore le sue chiuse e l’acqua invase le strade; eppure era una bella mattina, come erano belle le portegne che camminavano in fretta mentre la pioggia incollava addosso i vestiti regalando loro una seconda pelle suggestiva e tentatrice. Le nubi grondavano acqua e i giornali esposti nelle edicole sputavano fuori il nome di un nuovo eroe dell’umanità. Warren Christopher, allora segretario di Stato USA e portavoce del Fondo monetario internazionale – le due cose vanno sempre insieme – dichiarava che il 23

ministro argentino dell’Economia Domingo Cavallo, paladino del neoliberismo e trafficante di armi – le due cose vanno sempre insieme – nonché responsabile di una tragedia che iniziava a profilarsi e che avrebbe finito per rovinare il paese, era il nuovo eroe dell’umanità. Mancano eroi, sosteneva Louis Althusser, in bilico sul baratro della demenza. Ci sono troppi eroi, lamentava Walter Benjamin sull’orlo del suicidio. È odioso l’eroismo a caratteri cubitali, le presunte virtù su due colonne, gli onori scritti su un assegno in bianco, i meriti messi all’asta. Per scongiurare il pericolo in agguato ogni volta che gli statunitensi parlano di libertà, dio o eroismo, mi dedicai a quello che so fare meglio e cioè perdere tempo. Per riuscirci, la cosa migliore è proporsi una semplice dimostrazione logica, ad esempio: « i biglietti per viaggiare in treno si vendono nelle stazioni », e lanciarsi alla verifica dell’assioma, anche se può sembrare pleonastico. La prima cosa che feci fu telefonare a un’istituzione dalla sigla onomatopeica, FIAF, Fundación Instituto Argentino de Ferrocarriles che, da quanto potevo ricordare, aveva il più grande museo ferroviario d’America. Sull’elenco telefonico di Buenos Aires comparivano tre numeri sotto quella sigla. Al primo tentativo di comunicazione rispose una donna e con parole gentili ma sconsolate mi spiegò che, per colpa della privatizzazione delle ferrovie argentine, era rimasta senza 24

lavoro. La fondazione non aveva più una sede né un museo né un telefono, e lei si trovava casualmente lì per ritirare degli oggetti personali. Alla seconda chiamata rispose un uomo dal tono indifferente. Con aperto disinteresse disse che era negli ex uffici della fondazione per ritirare dei tappeti messi all’asta qualche settimana prima, ma aggiunse che potevo ottenere qualunque informazione sulle ferrovie argentine andando al caffè pasticceria El Retiro. In quel locale si ritrovavano tutti i giovedì gli ex membri e il comitato direttivo della FIAF per bere un bicchierino e parlare di treni. La terza chiamata non ebbe risposta. Il telefono squillò invano in qualche ufficio deserto, come in un tango. Per perdere tempo ci vuole anche del metodo. Il passo successivo fu andare alla stazione più vicina, quella di Retiro. Il bell’edificio trasudava nostalgia. Tutta Buenos Aires è coperta da una patina di nostalgia, ma non di malinconia, perché i bei tempi con una società piena di progetti ci sono stati, come c’è stata una città aperta e cosmopolita, centro di diffusione culturale. C’è stata anche una povertà dignitosa. Si sente nostalgia delle cose strappate, non delle fantasie. I raffinati azulejos dell’atrio centrale parlavano di lunghi viaggi verso mete ignote e la luce irreale prodotta dai loro riflessi creava un’atmosfera d’incertezza. La stessa atmosfera doveva aver avvolto gli emigranti giunti da tutti gli angoli della terra per costruire quell’opera monumentale chiamata Argentina. 25

Tredici biglietterie allineate in uno spazio ovale di ceramiche verdi, barriere con passamani di legno lucidato da migliaia di dita, da migliaia di emozioni. A un capo dell’atrio centrale scarsamente illuminato c’era una mostra allestita su pannelli. Il tema della mostra erano gli ottant’anni della stazione, anniversario di un’antichità recente in un continente dove tutto è nuovo, perché l’antichità dei latinoamericani inizia con noi stessi. Sui pannelli erano esposte mappe ferroviarie e una riproduzione del catalogo della ditta inglese che aveva fornito le ceramiche di Malaga e gli azulejos portoghesi. E in mezzo le dettagliate spiegazioni di un’assenza. « Questo luogo, per quasi ottant’anni, ha ospitato il modellino della locomotiva a vapore 191 dell’allora Ferrocarril Central Argentino. L’originale conserva ancora adesso il record di velocità per un treno di linea, stabilito dal leggendario macchinista Francisco Savio. Il modello in scala, con le sue ruote, le sue bielle e il meccanismo di trasmissione che si azionava inserendo una monetina, divenne il simbolo di Retiro. Ma la 191 non ha potuto celebrare gli ottant’anni della stazione perché non c’è, è stata venduta, è stata rubata, e non c’è neppure il modellino. Così non funziona più il meccanismo che lasciava a bocca aperta migliaia di bambini, dei quali ha fatto parte sicuramente anche Lei. La restituzione alla sede storica è stata negata. Anche in forma temporanea. Ma noi non ci arrendiamo: dove c’è un treno, c’è vita. Fundación Instituto Argentino de Ferrocarriles. » Io sono stato uno di quei bambini rimasti a bocca 26

aperta davanti alla 191. Quando ero piccolo, alla fine dell’estate, andavo in treno con la mia famiglia da Santiago del Cile a Buenos Aires. Era un lungo viaggio sulla linea transandina che si inerpicava sopra la Cordigliera fino a raggiungere la prima fermata importante, sul confine, al passo di Cristo Redentor. A quasi quattromila metri di altezza scendevamo tutti per sbrigare le formalità doganali e io rabbrividivo davanti alla forza di una frase scritta sul granito: « Scompariranno queste montagne prima che cileni e argentini spezzino il loro vincolo di amicizia ». La nostra destinazione finale era l’Once, il quartiere ebraico. Là compravamo vestiti per il duro inverno di Santiago, e libri, tanti libri. Quando calava la notte portegna, in un albergo di calle Suipacha, mio fratello e io esaminavamo i gioielli pubblicati da « Billiken » e i fumetti di Patoruzú, mentre i nostri genitori, con indosso i vestiti buoni, se ne andavano a ballare il tango. Appena arrivavo alla stazione di Retiro e poi quando ripartivo per Santiago, la prima cosa che facevo era infilare delle monetine nella macchina che azionava il portentoso meccanismo della 191 e metteva in movimento i suoi muscoli di acciaio. Sognavo e ancora sogno quella macchina a vapore. Non so se sono un uomo coraggioso, ma so che non temo la morte perché l’ho sempre vista legata alla vecchia locomotiva. Mi aspetta su un binario deserto, io infilo le ultime monetine nella fessura, le bielle iniziano a muoversi, escono sbuffi di vapore, salgo senza voltarmi indietro e me ne vado. Tutto qui. 27

All’altro capo dell’atrio centrale, mani moderne avevano innalzato un insolente cubo di acciaio e vetro, con il cartello SERVIZIO CLIENTI, perché ai privatizzatori, ai nuovi eroi dell’umanità, la parola viaggiatore suona scomoda, forse sovversiva. Non siamo più persone o cittadini, siamo clienti di un bordello trasparente, sorvegliato da telecamere, dentro non ci sono donne ma bambole di silicone che non fumano, non bevono, non cantano, e i magnaccia non esibiscono orgogliose cicatrici ma diplomi della scuola di Chicago. Nel cubo, un anziano cercava di farsi capire da un giovane impiegato dai modi indifferenti. « Quarantacinque anni. Ho lavorato quarantacinque anni per le ferrovie. Capisci? » stava spiegando l’anziano. « E a me che me ne importa? Le cose sono cambiate. I treni sono stati privatizzati » ribatté l’impiegato. L’anziano si aggrappava a una tessera plastificata, a un dignitoso documento che lo accreditava come pensionato delle ferrovie con il diritto a tariffe ridotte. Lo vidi uscire abbattuto, non aveva capito. Quell’anziano avrebbe potuto benissimo essere Francisco Savio, il mitico macchinista che aveva stabilito il record di velocità per un treno di linea. Quell’anziano era uno dei tanti uomini sconfitti dal nuovo eroe dell’umanità. « La gente non vuol farsi entrare in testa che il paese si è modernizzato » si giustificò il giovane dipendente quando fu il mio turno. « A che ora parte il primo treno per la Patagonia? » 28

La sorpresa provocata dalla domanda costrinse l’impiegato a un intenso sforzo mentale per ricordare, con stitica concentrazione, la risposta indicata nel manuale del servizio clienti, che in tempi di restrizioni neoliberistiche ha un solo comandamento: il cliente non sa mai quello che vuole. « Questo te lo dicono all’ente » rispose con palese disagio. « Ente. » Parola terribile. Dopo aver scoperto che si trattava dell’ente che gestiva il traffico ferroviario, mi avviai verso l’incrocio fra avenida del Libertador e avenida Ramos Mejía. Pioveva ancora, dei lampi squarciavano il cielo portegno ed ero decisamente fradicio quando affrontai l’addetto alla reception del vecchio palazzo delle ferrovie argentine, un tizio dall’aspetto bonaccione che mi ascoltò annuendo con aria comprensiva senza poter nascondere la cadenza canterina della gente di Salta. « Non so cosa dirti, caro mio. Sono matti quelli dell’università a mandarti in treno in Patagonia. E poi si stupiscono se i ragazzi smettono di studiare. » L’uomo aveva serissimi problemi di vista, ma, grato per gli anni che mi toglieva di dosso confondendomi con uno studente, presi un’aria da martire e insistetti che dovevo andare in Patagonia in treno. L’impiegato sospirò, preoccupato e solidale. « Sai che facciamo? Tu mi lasci un documento, io ti do questo tesserino da visitatore, sali al nono piano e cerchi qualcuno che possa risponderti. » Perché al nono piano? Con la certezza che quella domanda mi avrebbe accompagnato fino all’ultimo 29

dei miei giorni, entrai in ascensore. C’è gente che si incarica con innocenza di fomentare l’incertezza che ci tiene in vita. Mentre l’ascensore saliva, ricordai un vecchio professore cileno che esclamava sempre: « Fa freddo, ma il letto di Domitila è ancora più freddo ». Un giorno gli chiesi cosa intendesse e mi rispose che era un antico detto cervantino. Con il passare degli anni mi sono letto tutta l’opera di Cervantes, ho consultato molti dizionari di modi di dire in varie lingue, ma non ho mai scoperto alcun riferimento al letto di Domitila. Al nono piano trovai l’ambiente triste dei traslochi. Alcuni impiegati infilavano cartellette in scatoloni di cartone, altri fumavano guardando la pioggia, altri ancora spostavano scrivanie vuote o fissavano le pareti con facce da vedovi. Tentando di non disturbare girai per i corridoi cercando un cartello che mi orientasse, una parola come australe, sud, fine del mondo, finché non scorsi una porta con la scritta SEGRETERIA. Bussai più volte. Non ottenendo risposta entrai e mi trovai davanti una ragazza davvero attraente con il telefono incollato all’orecchio. Parlava con una smorfia ben studiata di civetteria, a quanto pareva un certo Felipe voleva a tutti i costi invitarla fuori. Lei rispondeva che quel giorno no, non poteva proprio, e nemmeno il giorno dopo, forse nel fine settimana. Accennai a uscire, ma mi trattenne con un gesto. « Aspetta un attimo, Felipe » disse prima di dedicarmi la sua attenzione. « Vorrei sapere dove si prende il treno per la Patagonia » sparai con un sorriso impeccabile. 30

Il suo sguardo azzurro si atteggiò a tristezza. Il telefono languì nella mano ornata da svariati anelli e braccialetti. « L’impiegato del servizio clienti di Retiro mi ha detto che lei è l’ente » aggiunsi con innocenza. Magia, segreti, insondabili misteri dei funzionari, il fatto è che le mie parole la scossero e si consultò con Felipe. « Devi andare in calle Hipólito Irigoyen 250, dodicesimo piano, ufficio 1210. Là c’è la Commissione nazionale per il traffico ferroviario. È il palazzo del ministero dell’Economia e si trova davanti alla Casa Rosada » mi informò con pedagogica soddisfazione. « Felipe è sicuro? » insistetti. I suoi bracciali tintinnarono mentre metteva il vivavoce perché potessi sentire il sì deciso di Felipe. Un tipo fantastico, Felipe. Nella casa del nuovo eroe dell’umanità, dodicesimo piano, ufficio 1210, mi ricevette una bionda sui sessanta che subito scaricò la rogna a un ingegnere ferroviario casualmente presente, il quale di sicuro stava meditando sulle squisitezze di una bella bistecca visto che era ormai mezzogiorno, ma mi invitò lo stesso nel suo ufficio. In mezzo a un mare di cartine mi chiese in cosa poteva aiutarmi. « Vorrei sapere dove si prende il treno per andare in Patagonia » ripetei per l’ultima volta. « Queste informazioni le danno a Retiro. C’è un servizio clienti » disse guardandomi incredulo. Uscii dalla tana dell’eroe con un sapore di trionfo in bocca. I privatizzatori, i modernizzatori, i vincitori 31

avevano potere e denaro, grazie ai loro satelliti e alle loro telecamere potevano dire di controllare tutto, ma qualcosa gli sfuggiva: non sapevano come superare la barriera fra l’egoismo assurto a estetica della miseria e un mondo in cui la gente continuava ad accettare l’incertezza non come una maledizione, ma come la forza motrice che permette di costruire quelle piccole certezze la cui somma è la base fondamentale dell’esistenza. I vincitori non sapevano come arrivare in Patagonia, ma io sì, e non sapevano nemmeno che adagiata lungo il Río de la Plata c’era ben più di una città in vendita.

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Il cuore della mia memoria

Decidemmo di cenare all’Edelweiss perché a volte eravamo contenti di tradire l’inventario delle perdite che ci serviva da scusa per girare Buenos Aires fino all’alba. Il locale, un tempo pieno di chiassosi commensali, era quasi deserto, ma i ravioli al tuco non avevano permesso alla crisi di privarli del loro consueto sapore di pomodoro e origano. Cenammo, bevemmo una bottiglia di vino rosso e al momento del caffè ci raggiunse Enrique Pinti, l’istrione, il comico più caustico di tutta l’America Latina, e proprio per questo il più pericolosamente sovversivo. Ma quella mitragliatrice di battute sagaci e spiritose quasi non aprì bocca per tutta la serata e si unì al silenzio dei due camerieri che si avvicinarono per ascoltare quanto raccontava Osvaldo. Soriano aveva appena pubblicato L’ora senz’ombra, il suo ultimo romanzo, e ci spiegava che certi libri offrono un riparo durante la stesura, ma che questa diventa una lotta fra la tentazione di tirarla per le lunghe e l’onestà dell’autore che detesta i trucchi stilistici e una prolissità senza senso. « Ci sono poi altri libri » diceva Soriano « che catturano lo scrittore, che si oppongono all’inevitabile finale e lo spingono verso abissi a cui è meglio non avvicinarsi. » 33

« Come la vita » rifletté uno dei camerieri. « Né più né meno » confermò Soriano, perché delle tante cose in cui crede uno scrittore, lui aveva fede soprattutto in una, quella che ci avverte del pericolo di confondere la vita che scorre dentro le pagine di un libro con l’altra che ribolle fuori dalla copertina. Quando leggiamo o scriviamo, mettiamo in atto una fuga, la più pura e legittima delle evasioni, ne usciamo più forti, rinnovati, forse migliori. In fondo, malgrado tante teorie letterarie, noi scrittori siamo come quei personaggi del cinema muto che nascondevano una lima in una torta in modo che il detenuto potesse segare le sbarre della cella. Offriamo fughe temporanee. Uscimmo dall’Edelweiss e, come sempre, iniziammo a vagare senza meta per gli ampi viali di quella città che si ama o si odia. Ogni tanto, i venditori dei chioschi o i camerieri di qualche caffè fermavano il mio amico. « Bravo, Soriano. Continua così, Soriano. Ti vogliamo bene, Soriano » gli dicevano, e io mi sentivo orgoglioso di lui che, timido come sempre, mormorava grazie rosicchiando i resti di un avana che gli si sfilacciava tra i denti. Da quando un medico gli aveva proibito di fumare, ogni mattina comprava un Montecristo (ma le sue mattine cominciavano alle cinque del pomeriggio) e se lo rosicchiava a poco a poco, con un’aria da castoro paziente. Camminavamo e parlavamo degli amici assenti, di amati fantasmi, di libri di viaggio, soprattutto di quelli che non erano stati scritti con una Polaroid ma con 34

l’inchiostro indelebile che sgorga dalle arterie del ricordo dei perdenti di ieri, di oggi, di sempre. Entravamo nei caffè, ci sedevamo a un tavolo vicino a una finestra e continuavamo a chiacchierare secondo un rituale che non era mai stato deciso ma che rispettavamo rigorosamente. Benché Osvaldo, per ordine del medico, potesse bere solo un bicchiere di vino a pasto, ordinavamo sempre un’acqua minerale e due whisky, e a un certo punto, dopo aver bevuto il mio, gli chiedevo se potevo bere anche il suo. « Sei tremendo. È il terzo whisky che mi soffi » brontolava Soriano. Verso le quattro del mattino ci ritrovammo in un bar dove eravamo entrati sedotti dal suo aspetto triste. Luci al neon, bancone, tavoli e sedie di metallo e di un materiale spaventoso che non so né voglio sapere come si chiama. Eravamo seduti in un angolo, ordinammo un’acqua minerale e due whisky, e quando stavamo iniziando a sviluppare una teoria sulle descrizioni magistrali dell’illuminazione degli interni nei romanzi di Eric Ambler, si avvicinò dal bancone l’unico altro cliente. Era alto, robusto, con braccia muscolose che tradivano, per via di un’ancora tatuata, un passato da marinaio. Sembrava parecchio ubriaco ma aveva ancora un passo sicuro. Ci chiese una sigaretta e io gli diedi il pacchetto di Particulares. Ne prese una. Poi cercò di accenderla con un cerino, ma le sue mani scoordinate non riuscivano a sfregare la capocchia sulla striscia di carta vetrata, così gli offrii anche del fuoco. 36

« Io glielo avevo detto ai ragazzi che non andava bene, che stavamo esagerando... » farfugliò a mo’ di ringraziamento, ma non poté continuare perché un cameriere gli ingiunse di lasciarci in pace. « Voleva solo una sigaretta, tutto qui » disse Osvaldo. « A volte fa il coglione e spaventa la clientela » spiegò il cameriere. Il tizio tornò al bancone, ordinò un bicchierino che gli fu servito di malavoglia, e poi si prese la testa fra le mani. Si tirava i capelli con violenza, era ovvio che cercava di farsi male, e si passava con insistenza le dita sugli occhi come per allontanare qualcosa che vedeva solo lui. « È proprio andato » commentò Osvaldo. Ogni tanto il barista lo osservava con diffidenza, ma il tipo perseverava nel suo strano rituale di tirarsi i capelli, stropicciarsi gli occhi e guardare verso la porta con aria impaurita. A un certo punto si frugò nelle tasche, non trovò le sigarette che voleva e tornò al nostro tavolo. Gli indicai il pacchetto e lo invitai a sedersi. Accettò accomodandosi con movimenti goffi, accese una sigaretta e riattaccò la solfa interrotta dal cameriere. « Io glielo avevo detto ai ragazzi che non andava bene, ma non mi hanno dato retta, mi hanno detto: se te la fai sotto adesso, te la fai sotto sempre... » « Tosti questi ragazzi » osservò Soriano. « La vita gli ha fatto venire la pelle dura, e anche a me, ma abbiamo esagerato e io gliel’ho detto ai ragazzi... » 38

Non occorreva essere Eric Ambler per capire che quel tizio aveva la coscienza nera come il carbone. Dava lunghe boccate alla sigaretta, i suoi occhi vitrei non ci guardavano, tutta la sua attenzione era concentrata su qualche regione immonda, su un pezzo terribile e nauseante della storia recente, su quello che Conrad ha chiamato cuore di tenebra. « Bel tatuaggio » gli dissi perché continuasse a parlare. « Sì, me lo sono fatto quando ero in marina. Non avrei mai dovuto lasciare la marina, ma i ragazzi mi hanno chiamato... » « Ha combattuto alle Malvine? » domandò Soriano. « No, io mi occupavo d’altro, avevo altri compiti, per quello conosco i ragazzi. Ma abbiamo esagerato, troppi morti... » Cortázar ha spiegato che è assurdo cercare le storie, perché sono loro che acquattate, nascoste, stanno in paziente attesa dello scrittore che avrà la missione di scriverle. Soriano e io ci credevamo fermamente, solo non avevamo mai pensato che una storia potesse scegliere tutti e due, che ci stesse aspettando in un bar poco illuminato. Non volevamo quella storia infame, piena di merda, ma era lì e usciva faticosamente a scatti dalla bocca lurida di quello straccio d’uomo. Conosceva il cuore di tenebra e ci invitava a entrare. « Così avete esagerato » lo pungolò Osvaldo perché continuasse. « Tanti morti, più di ottanta. Io non ho niente contro gli ebrei, non mi hanno mai fatto niente di male... » 39

Quel rottame umano si interruppe, erano entrati tre uomini, tre quarantenni che si diressero con passo sicuro al nostro tavolo. Uno di loro non riusciva a nascondere la pistola che portava sotto il giubbotto di pelle. « Vieni con noi, Cacho, andiamo a bere qualcosa da un’altra parte » disse uno. « Vi stava importunando con le sue cazzate? » domandò un altro. « Ci ha chiesto una sigaretta. Gli abbiamo detto di andarsene ma sembra sordo » rispose Soriano. « Scusate. È un coglione di prim’ordine » e insieme lo portarono via. « Deve pagare qualcosa? » gridò quello che sembrava il capo. « Niente. Ma che non torni più » rispose il barista. Uscirono. Davanti al bar li aspettava un’automobile con il motore acceso. Osvaldo bevve un piccolo sorso del suo bicchiere d’acqua, fece una smorfia e sputò dei pezzettini del Montecristo. « Che figlio di puttana » commentò. Chiesi il conto, pagammo e ci avviammo in silenzio. Buenos Aires è una città che si ama o si odia, non ci sono vie di mezzo. « Stiamo pensando la stessa cosa, suppongo » mormorò Soriano. Aveva ragione. Stavamo pensando tutti e due alla tragedia dell’Asociación Mutual Israelita Argentina. Alle nove e cinquantatré del 18 luglio 1994, una bomba aveva fatto saltare quel centro della comunità ebraica di Buenos Aires. Ottantasei vittime aveva pro40

vocato quell’attentato terroristico. Argentini, cileni, boliviani. Il governo di Menem aveva fatto tutto il possibile per sabotare le indagini e dopo uno scandaloso show di testimonianze fabbricate dalla polizia, piste false turche e iraniane, erano stati processati venti uomini, quindici dei quali erano poliziotti di Buenos Aires, di quella stessa polizia che il governatore della città, Duhalde, definiva la migliore del mondo. Forse eravamo stati accanto a uno di quei criminali, forse il caso aveva voluto che quel relitto umano si sedesse al nostro tavolo per farfugliare frammenti di una storia nascosta, i cui dettagli sono noti solo nelle cloache del potere. E cosa potevamo fare? Quello che osano fare certi nostri personaggi? È vero che loro si prendono la rivincita e si vendicano per noi e per tutti quelli che conservano la sacrosanta rabbia degli sconfitti, dei traditi, ma i nostri vendicatori sono ingenui, sono di carta, nelle loro vene scorrono fiumi di inchiostro, è per questo che sono integerrimi. Continuammo a camminare, due uomini, due scrittori profondamente innamorati della vita, finché arrivammo all’incrocio tra avenida Santa Fe e calle Paraná. « Pensiamoci su con calma e quando torni ne parliamo » disse Soriano. Come sempre ci scambiammo un abbraccio fraterno: stammi bene, stammi bene anche tu, chiamami appena torni, ciao, ciao. L’ascensore mi lasciò davanti alla porta della cucina dell’appartamento di Zulema e Jaime. Entrai e 41

corsi al balcone che si affacciava su avenida Santa Fe. Qualcosa d’indefinibile, un imperativo dettato dalla vita stessa, mi ordinava di fare l’ultimo inventario della presenza del mio più caro fratello. Osvaldo Soriano stava camminando a passi lenti verso avenida Callao, si fermò a salutare un edicolante, più avanti si chinò ad accarezzare un gatto vagabondo e poi continuò ad allontanarsi, sempre di più, finché la sua sagoma scomparve sotto gli alberi, finché non restò altro che il suo ricordo imperituro, definitivo, testardo, inossidabile, radicato per sempre nel cuore della mia memoria.

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Il Tano

Eravamo diretti a El Maitén perché da lì partiva la Trochita per Esquel. Stava facendo giorno quando ci lasciammo alle spalle la costa orientale del lago Lezana che, fortunatamente per Pedro Cifuentes – Pedro Patagonia per gli amici –, per le sue fate e i suoi folletti del bosco, non compariva ancora sulle carte. L’alba era fredda e diafana, gli uccelli cantavano mattinieri, gli scoiattoli annusavano tutto con movenze da piccoli aristocratici pelosi e l’incessante toc-toc dei picchi ci salutava come un rullo di tamburo. Non c’era una sola nuvola nel cielo della Patagonia. Pensavamo di fare circa sei ore di marcia lenta, in modo da arrivare nei dintorni del lago Cholila e riposarci là nelle ore più calde, che sono tremendamente calde da quando il buco nell’ozono si è piazzato sopra il mondo australe. Avevamo con noi abbastanza mate e sigarette, un thermos di acqua calda e un sacchetto di focaccine fritte che ci aveva dato la madre di Pedro Patagonia. Era una giornata magnifica, il vento soffiava senza posa, la Renault bianca gentilmente offerta dal concessionario della casa automobilistica francese aveva il serbatoio pieno, e noi l’umore alle stelle. Avanzavamo lentamente su una strada sterrata perché, come dice la gente in Patagonia, sbrigarsi è il 43

modo migliore per non arrivare e hanno fretta solo quelli che scappano. In più, ogni tanto dovevamo fermarci, scendere, aprire e poi richiudere i cancelli per tenere il bestiame da questa o dall’altra parte delle recinzioni di filo spinato. Aprirli è facile, ma chiuderli richiede il suo tempo perché bisogna capire gli strani meccanismi inventati dai gauchos. In quei momenti ti sembra di sentir gracchiare i teros in modo piuttosto sarcastico. Il corvo di Poe ripeteva « mai più », i teros non sono corvi ma una volta che chiusi un cancello nella maniera sbagliata li sentii chiaramente gracchiare « coglione » da un ramo. Superato l’ultimo ostacolo imboccammo la strada, sempre sterrata, che porta a Cholila. Il mio socio controllava la sua Leica, anche se non c’era molto da fotografare. A nord, sud ed est avevamo la rada steppa patagonica, e a ovest le lontane, verdi pendici della Cordigliera. Dei chimangos seri come preti di paese ci guardarono passare dal loro osservatorio su un palo del telegrafo e, non appena il mio socio alzò l’obiettivo, spiccarono il volo. Con le nuvole o senza, il cielo in Patagonia sembra sempre basso, smette di essere l’immensa volta celeste di altre latitudini per schiacciare il viaggiatore. In un viaggio precedente, mentre passavo a cavallo nelle vicinanze di Río Mayo, avevo trovato un gaucho che cavalcava in direzione opposta alla mia. Non posso dire che ci incontrammo perché lui dormiva, ma i cavalli si fermarono faccia a faccia per ricordarci le usanze umane. L’immobilità fece sussultare il cavaliere, che aprì gli occhi. 44

« Come va, amico? » mi salutò. « Bene, e lei? » « Siamo qua, fra la terra e il cielo » disse lui e spronò il cavallo. Ed è così. Nella steppa patagonica si sta fra la terra e il cielo. Questo, insieme all’immutabile pianura, permette di vedere qualunque cosa, oggetto o dettaglio, per lontano che sia, e tutto acquista un carattere nuovo, straordinario. L’automobile aveva un mangianastri e noi una cassetta di Jorge Cafrune. Facemmo i primi trenta chilometri cantando in coro a squarciagola: « L’Uruguay non è un fiume ma un cielo blu che passa », e non ci dispiacque che il vento cambiasse umore e si trasformasse in raffiche che scuotevano la macchina sollevando cortine di polvere ai lati. Guardavamo la strada solitaria, non avevamo incrociato nessun altro veicolo, persona o animale, finché non scorgemmo qualcosa all’orizzonte confuso nel polverone. Un uomo camminava nella nostra stessa direzione. Lo raggiungemmo. Era giovane, aveva lunghi capelli neri, baffi folti su un sorriso amichevole e un paio di occhiali da motociclista per proteggersi dalla polvere. Il mio socio abbassò il finestrino e lo salutò con un « Buongiorno, amico » a cui l’altro rispose con un ilare: « Lo sarà di sicuro ». « Dove va di bello? » « Vado avanti, come quasi tutti » replicò lui. « Una logica schiacciante » commentò il mio socio, e lo vedemmo proseguire. Si muoveva con scioltezza, come se si godesse con particolare piacere quella 45

camminata in mezzo al vento e alla polvere. A tratti si portava una mano sopra gli occhiali a mo’ di visiera e scrutava l’orizzonte. Lo raggiungemmo di nuovo. « Cerca qualcosa? » Si fermò, tolse gli occhiali da motociclista e ci osservò con calma prima di rispondere. « Sto cercando un violino. » Perché no? Ci può esser qualcosa di più sensato che cercare un violino in mezzo alla steppa? Se avesse risposto che cercava un ago, avremmo dedotto che si trattava di un eremita che era meglio lasciare solo, ma un violino è una metafora della dolcezza o della tristezza, perciò gli rispondemmo che negli ultimi trenta chilometri non ne avevamo visto nemmeno uno. « Non mi stupisce, ma io lo troverò. Chi cerca trova. » Allora parcheggiammo l’automobile lungo la strada e ci unimmo alla ricerca. Dopo aver camminato per un paio di chilometri in mezzo a quel polverone atroce, senza scambiare neppure una parola, ascoltando il sibilo del vento e anche il vasto repertorio dello sconosciuto che fischiettava di tutto, dalle canzoni di Silvio Rodríguez alla Cavalleria rusticana, giungemmo alla conclusione che cercare un violino in quelle condizioni era particolarmente difficile. Vedemmo pecore, teros, altre pecore, ciuffi di calafate, ma niente che somigliasse a uno strumento a corde. Eppure il sorriso di quel tizio restava inalterabile, come lo zelo con cui continuava a cercare. « Ma questo violino quando l’ha perso, amico? » 46

« Chi ha detto che l’ho perso? Come facevo a perderlo se ancora non l’ho trovato? » ribatté in un’altra schiacciante dimostrazione di logica. Continuammo a camminare, cercando il violino con gli occhi mezzo chiusi per evitare la polvere che si infilava da tutte le parti, ma che non infastidiva quell’uomo, grazie ai suoi occhiali. « Hai un nome? » domandò il mio socio. « Certo, sono un cristiano come tutti gli altri. Però, anche se ce l’ho, mi chiamano il Tano perché il mio vecchio era tano.* Veniva dalla Calabria. Ehi, se non volete continuare a cercare, nessuno vi obbliga ad accompagnarmi. » Non è giusto contraddire un uomo impegnato in un compito serio come quello di trovare un violino a sud del 42° parallelo, perciò continuammo quella marcia lenta. Vento, polvere e ancora vento. Ogni tanto il mio socio e io ci guardavamo e ci dicevamo in silenzio: « Altri due chilometri e poi torniamo alla macchina », finché il tipo non affrettò il passo costringendoci prima a trottare e poi a correre fino a una montagna di legname ammucchiato in mezzo alla steppa. Erano resti di staccionate, rami secchi, pezzi di traversine delle ferrovie, tutto sistemato come per accendere un gigantesco falò, e a giudicare dalla polvere che lo copriva era lì da un pezzo. Il Tano si tolse il giubbotto e cominciò a separare i legni. Li spolverava, li annusava, ci batteva sopra con * Soprannome dato agli immigrati italiani in Argentina e Uruguay. (N.d.T.) 48

le nocche avvicinando l’orecchio, finché non trovò un resto di traversina e gli dedicò particolare attenzione colpendolo con un minuscolo martello d’argento. Allora si tolse gli occhiali da motociclista e con gli occhi lucidi per l’emozione abbracciò il pezzo di legno. « Lo abbiamo trovato, ragazzi! Erano mesi che lo cercavo e finalmente l’ho trovato » gridò esultante e ci abbracciò, e anche noi ci abbracciammo festeggiando la scoperta. Il pezzo di legno doveva pesare una settantina di chili e tutti e tre insieme lo portammo fino alla strada. Incurante della fatica, il Tano continuava a rallegrarsi per la sua fortuna. Ci spiegò che il caso lì non c’entrava niente, perché sapeva che per la costruzione delle ferrovie, del vecchio espresso patagonico, gli inglesi non solo avevano raso al suolo i più grandi boschi della Patagonia andina, ma avevano anche importato legname dall’India. Legni pregiati, legni nobili, legni fatti per la musica, assicurava il Tano. Una volta sulla strada, il mio socio gli chiese come pensava di trasportare quella pesante traversina. « Passerà qualcuno, un camion, un carretto. Non ho fretta » rispose senza smettere di accarezzare il suo tesoro. « Se vuoi, vado a prendere la macchina » mi offrii. « Fantastico, ragazzi! Voi ci portate a casa e io ricambio il favore con un bell’agnello alla griglia. » Non dimenticheremo mai il Tano che, sul sedile posteriore, guardava con tenerezza il suo pezzo di legno cantandogli canzoni e augurandogli un dolce fu50

turo nelle mani di un’interprete bionda dalle dita affusolate. Dopo quattro ore di viaggio ci fermammo davanti a un cartello con la scritta: CUESTA DEL TERNERO 5 KM. Da lì partiva una stradina che ci portò a una spaziosa casa di legno dipinta di giallo ocra. « Siamo arrivati. Benvenuti, ragazzi. » Entrammo in una casa-laboratorio ordinatissima, impeccabile. Da una parte, dietro un grande banco da lavoro su cui si vedeva un contrabbasso fissato con morse ed elastici, si allineavano utensili e ferri vari di un’attività antica e nobile. Accanto, dei barattoli di ceramica sfoggiavano etichette con nomi che rievocavano l’alchimia o qualche altra perduta arte medievale: aloe, trementina, gommagutta, sangue di drago, anima di mare. « Un po’ di musica, ragazzi? » domandò il Tano e Vivaldi cominciò a risuonare a sud del 42° parallelo. Il Tano era un liutaio ed era giunto in Patagonia nel 1980, convinto che nei boschi andini avrebbe trovato il legno adatto a creare meravigliosi strumenti a corda. Allora aveva vent’anni e fuggiva dall’orrore insediato a Buenos Aires dalla dittatura. Si era così formato in Patagonia, insieme agli alberi vivi e alle rovine dei boschi sacrificati in nome di un progresso che aveva favorito pochi allevatori, e che poi era scomparso senza spiegazioni. Conosceva ogni segreto della crescita dei tronchi, degli effetti del vento sull’essiccazione, delle minime sensuali possibilità acustiche nascoste nei condotti della linfa, del benefico effetto esercitato da certi funghi che danno elasticità, e allo 51

stesso tempo si era laureato, da perfetto autodidatta, in Storia universale della musica. La sua casa-laboratorio era priva di elettricità, come tutte le altre case lungo la strada, perché in quell’angolo del villaggio globale non era ancora arrivata e chissà se i suoi fili sarebbero mai giunti fin lì, ma a lui non importava. Il Tano era dotato di due mani creative che avevano deviato un ruscello, avevano costruito un ingegnoso meccanismo per sfruttare l’energia dell’acqua e gli avevano regalato una minicentrale idroelettrica per far funzionare i suoi macchinari, oltre a fornire corrente al suo impianto stereo. Passammo il pomeriggio e la notte a casa del Tano. Mentre l’agnello si dorava sul fuoco, ci parlò di sua moglie e delle figlie, che vivevano lontane perché a questi abitanti del villaggio globale nessuno aveva chiesto se avevano le scuole. Più tardi, fra un mate e l’altro, lo vedemmo lavorare con spazzole di bronzo sulla traversina, finché non apparve un acceso color rosso: il cuore vivo e palpitante di un violino. Fuori il vento ululava la sua invidia. Dentro, il Tano ci mostrava i segreti del legno spiegando nei dettagli la grande rigidità delle venature, che una volta tagliate avrebbero conferito alla parte una giusta flessibilità. Quel legno, che era abete rosso, sarebbe diventato la cassa armonica su cui si sarebbe innestato il manico con una parte di ebano per la tastiera. Poi, continuò il Tano, sarebbero entrati in azione gli alesatori per inserire i piroli. Malgrado il vento, uscimmo a fumare guardando le stelle. Senza dare importanza alla cosa, il Tano ci 52

confidò che era un liutaio di grande prestigio. Aveva un contratto in esclusiva con l’orchestra sinfonica di Berlino per riparare e costruire strumenti unici, irripetibili, che suonavano per la prima volta nella grande solitudine della Patagonia. Il giorno dopo partimmo molto presto. Bevemmo l’ultimo mate con il Tano e lo lasciammo tutto preso dal suo lavoro, dal suo legno, dal suo violino, che un giorno rallegrerà uno spirito angosciato, o lo caricherà di maggiore nostalgia latinoamericana se il musicista che lo suona è come Becho, quello della milonga di mio fratello Alfredo Zitarrosa: Becho vuole un violino che sia uomo / che non nomini amore né dolore…

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Racconti di ubriachi

Sulle coste dell’immenso lago Nahuel Huapi si erge San Carlos de Bariloche, ancora a nord del 42° parallelo. È una bella città turistica, così ordinata da sembrare un paesino svizzero abbandonato per sbaglio a quelle latitudini. Ha buoni alberghi, meravigliosi ristoranti europei, gelati fantastici e un’industria artigianale del cioccolato paragonabile a quella di Orvieto in Italia o di Waldshut nella Foresta Nera. Questa è la parte che si vede sulle cartoline, ma San Carlos de Bariloche ha tutto attorno una cintura di povertà che non ha mai smesso di crescere e che tuttavia, per gli amministratori del luogo, è invisibile. Lì sopravvivono, nelle brevi estati e nei lunghi e duri inverni, i cabecitas negras: argentini, cileni, chilote e mapuche che sbrigano i lavori più pesanti mentre l’opulenza dorme, mentre gli abitanti biondi e con gli occhi azzurri riposano nell’autocompiacimento di sapersi eredi di chi un tempo arrivò in nave dal vecchio continente, per stabilirsi come colono in un paradiso disabitato. Nessuno si chiede perché nella toponomastica locale abbondino i nomi della vecchia lingua mapuche. San Carlos de Bariloche ha un muro trasparente ma impenetrabile, contro il quale sbattono gli sguardi azzurri degli abitanti più anziani, quasi tutti con 54

cognomi tedeschi, svizzeri, austriaci o croati. Forse vedono ancora le strade, le case di pietra di quella città alpina trapiantata nel Sud del Mondo piene di bandiere naziste che festeggiavano la conquista della Polonia, l’occupazione della Francia, mentre loro marciavano sventolando la croce uncinata. Un giorno conoscemmo un fotografo che ci chiese di non svelare il suo nome. Ci invitò a casa sua e, bevendo mate, ci mostrò vari archivi di foto dal 1938 al 1945. In quelle immagini, immuni al passare del tempo, San Carlos de Bariloche appare un lurido nido di nazisti, e non a caso, se si pensa alle origini della città. Nel 1903, un perfetto idiota di nome Apolinario J. Lucero ricevette dal governo argentino il compito di effettuare un primo censimento della popolazione e di suggerire a chi consegnare le terre strappate ai mapuche in un passato ancora fresco e grondante sangue. Fra le sue conclusioni, che si possono leggere ancora oggi, ne spicca una: « La popolazione attuale è abbastanza numerosa; è formata da indigeni che provengono dal Cile, chilote o cileni dell’arcipelago di Chiloé, e tedeschi arrivati per lo più dallo stesso paese. Di questi abitanti gli unici davvero in condizione di diventare coloni sono i tedeschi, perché gli indios e i chilote sono buoni solo come braccianti. Indios e chilote sono gente nociva, che non appena raggranella un po’ di denaro si dà a ogni sorta di vizi e di eccessi ». Se la fondazione della città è legata a questo documento, chi può stupirsi dell’incontenibile entusiasmo per il nazismo che la città ha esibito per più di un decennio? 55

Il mio socio e io, però, andammo a San Carlos de Bariloche perché purtroppo divergiamo in campo alimentare e volevamo dirimere in modo pacifico i nostri dissapori: lui si nutre sostanzialmente di dolciumi, gelati e soprattutto dessert. Io li detesto. Forse per questo, quel pomeriggio lo lasciai in una cioccolateria, perché si rimpinzasse senza inibizioni, e mi infilai nel bar più vicino a bere una bella birra e a mangiarmi un paio di panini imbottiti. Dentro c’era un tizio che attirava l’attenzione per come si reggeva in piedi, con le gambe larghe e le ginocchia attaccate al bancone, e che per di più si aggrappava a un bicchiere di vino come a una maniglia. Se lo lasciava, cadeva inevitabilmente a terra. Era l’unico cliente, per cui ci mise poco a notare la mia presenza e cominciò a osservarmi coi suoi occhi azzurri, acquosi per l’alcol, sperduti in una faccia conciata dai venti più feroci. Ordinai due churrascos e un’Austral ben fredda. Il barista andò a prendere la carne alla brace e il tipo si azzardò a staccare una mano dal bancone. « La birra è per i cavalli, li fa pisciare di gusto » disse indicandomi con un dito tremante. Per tutta risposta, nitrii meglio che potei e lui lo prese come un segno di amicizia, così si scostò di qualche centimetro dal banco, fece un mezzo passo a lato e ingollò un sorso di vino per poi attaccare a raccontare. « Il mio trisnonno era Davy Crockett, quello che morì a El Álamo » disse affidandosi sempre al tremito dell’indice per dare enfasi alle parole. 57

« Mi dispiace. Doveva essere una gran persona » risposi prima di incontrare la schiuma rinfrescante della birra. Il barista mormorò un « abbia pazienza » che non infastidì il discendente di Davy Crockett. Cominciai a calcolare quante generazioni ci volevano per essere trisnipote di qualcuno. Il tipo continuava a muovere il dito. Era il suo modo di mettere in ordine le parole. « Lo ammazzarono i messicani. Ammazzarono anche Jim Bowie, quello dei coltelli. Erano tutti e due dei disgraziati e sono morti combattendo per dei figli di puttana. Alle salute dei messicani » esclamò alzando il bicchiere. Mi unii al suo brindisi mentre mi si apriva l’archivio dei neuroni e mi riportava al cinema Capitol, nel quartiere della mia infanzia. La battaglia di Alamo. John Wayne era Davy Crockett e Richard Widmark era Jim Bowie. Mi venne voglia di fischiettare la musica del film, quella triste ballata composta da Dimitri Tiomkin che faceva da sudario a un pugno di morti in mezzo alle rovine di una chiesa, mentre noi cileni, stipati nel vecchio cinema Capitol, gridavamo: « Viva il Messico! » inneggiando alla vittoria del generale Santa Anna. Accidenti, a volte le sceneggiature vengono fraintese dal pubblico. « Un altro bicchiere di vino per il mio amico » ordinai al barista, e invitai il tizio a un tavolo. Il trisnipote di Davy Crockett aveva voglia di parlare e solo un cretino si sarebbe lasciato sfuggire l’occasione di ascoltare un uomo con antenati di quel calibro. Fra un sorso e l’altro mi raccontò la storia di John 58

Crockett, Jarred Jones e George Newbery, texani senza occupazione nota i primi due, inglese e dentista il terzo. I tre si conobbero alla fine del 1880. Come tanti altri avventurieri erano arrivati in Argentina in cerca di ricchezze, decisi a conquistarle a ogni costo. Non andava troppo per il sottile quella gente. Prima si dedicarono a cacciare indios nel Chaco, il nordest argentino, ma smisero presto perché la paga era bassa e per di più i toba non erano affatto entusiasti di farsi ammazzare. Seccati per l’ingratitudine degli indios che si rifiutavano di essere il prezzo del progresso, decisero di cercare ambienti più favorevoli. John Crockett raccontò tutto quello che sapeva del Brasile, delle possibilità offerte dal caffè e dagli allevamenti di bestiame, ma Jarred Jones, il più giovane del gruppo, li convinse pronunciando una parola strana: Patagonia. Si misero così in viaggio verso sud, verso un territorio da cui dio non era mai passato e dove la legge era solo un’invenzione degli scribacchini per giustificare lo sterminio degli indios. Nei vasti territori australi i tre gringos continuarono a cacciare indios per la maggior parte dell’anno, ma in primavera ammazzavano anche i chulengos, i bianchi cuccioli del guanaco, le cui pelli erano molto apprezzate dall’industria europea. Bisognava uccidere un centinaio di animali perché qualche vecchia danarosa si coprisse con una fine pelliccia di chulengo. Cacciavano e vivevano da soli nei boschi ai piedi delle Ande. Si nutrivano di pudú, un piccolo cervo dalla carne molto saporita, e di huemul, un’altra varietà di cervo andino. Cacciavano, ma la fortuna continuava 59

a mostrarsi sfuggente, per cui decisero di separarsi e di tentare la sorte con altri mestieri. John Crockett andò a Buenos Aires. Là conobbe una bella inglese di nome Elizabeth Walters, famosa per le sue doti fisiche, la sua smodata ambizione e l’abilità nel maneggiare il Winchester calibro 32.30. La bella inglese gli propose di sposarla, non senza avvertirlo però che lo home sweet home non rientrava fra le sue priorità: voleva lui come marito perché aveva bisogno di un uomo forte, deciso, ma ci sarebbe andata a letto solo quando il materasso coniugale fosse stato imbottito di ricchezze. Convolarono a nozze, e due mesi dopo Elizabeth Walters e John Crockett attraversarono la Cordigliera delle Ande alla testa di un piccolo drappello di trenta uomini, per lo più detenuti croati del carcere di Buenos Aires la cui libertà era stata comprata dalla felice coppia. Così, trentadue cavalieri, più una carovana di cinquanta mule, si addentrarono nei fitti boschi del versante cileno della Patagonia. Sei mesi dopo estraevano l’oro dalla miniera Madre de Dios, vicino alla foce del Baker, nel Golfo di Penas. Il Baker trascinava con sé l’oro dalle viscere della Cordigliera, molto oro, ma erano pochi gli avventurieri che osavano spingersi fino a quei confini estremi. Il fatto di non poter contare su rifornimenti regolari frenava l’avidità, inoltre il Baker è il fiume con la maggior portata d’acqua di tutto il Cile e per descrivere la sua corrente basta un aggettivo: spaventosa. In quella sperduta regione del mondo australe con foreste impenetrabili, piogge infinite, nevicate 60

improvvise che seppellivano le costruzioni, boschi di lenga, coigüe e cannella, e imponenti araucarie che superavano i cinquanta metri d’altezza, Elizabeth Walters nutrì i minatori con il suo fucile e fece fuori senza pietà chiunque tentasse di sottrarle anche solo un grammo della sua fortuna. Ancora oggi, cent’anni dopo, a Caleta Tortel, un bel paesino con strade e case di legno che si erge sulla riva del Baker ed è l’unico insediamento umano nelle vicinanze del Golfo di Penas, agli abitanti che vanno in cerca di legna o dei frutti saporiti dell’araucaria capita di trovare resti di scheletri e, fra le ossa, proiettili calibro 32.30. Un collezionista di Coyhaique, fra vari oggetti appartenuti a pionieri, mi mostrò il Winchester di Elizabeth Walters. Sul calcio era inciso: « Che Dio abbia pietà della tua anima », una comoda invocazione che sicuramente la aiutava a conciliare il sonno sul suo letto durissimo, perché l’inglese dormiva su un materasso imbottito con tutto l’oro del Baker. « Il mio bisnonno scopava in un letto d’oro. Così generò mio nonno, David John Crockett » spiegò il trisnipote dell’eroe di El Álamo, facendo segno al barista di riempirgli ancora il bicchiere. Jarred Jones e George Newbery non si allontanarono più dalla Patagonia argentina. Il primo si arrese alla magia di quegli spazi sterminati e condusse una vita nomade. Viveva di quello che cacciava, imparò a usare le boleadoras e senza volere fu il primo esploratore a visitare territori in cui non avevano mai messo piede neppure i tehuelche. Il vento della steppa lo 62

sprofondò in un letargo perenne, raramente scendeva da cavallo, dormiva in sella e con gli anni perse l’abitudine di parlare. Quanto a Newbery, girava le fattorie e gli stabilimenti per la lavorazione della lana, che in genere appartenevano agli inglesi, estraendo molari, otturando carie o impiantando protesi d’oro, finché non gli arrivò all’orecchio la notizia della distribuzione delle terre e decise di prendere fissa dimora in una fattoria tutta sua. Gli sconfinati territori del sud furono assegnati in due modi. Bastava invocare la Ley de Hogar, che era come dire « Vivo qui, sono straniero e voglio delle terre », per ottenere diecimila ettari con un unico inconveniente: i soldi da spendere in munizioni per sterminare gli indios che ci abitavano. Altrimenti si potevano comprare dei buoni per finanziare la Campagna del Deserto, uno dei grandi genocidi della storia del continente americano. I buoni servivano a pagare la soldataglia e i mercenari sterminatori. Una volta fatto il lavoro sporco, si potevano cambiare. Tanti buoni, tante migliaia di ettari, ma molti degli acquirenti li persero e finirono nelle mani di usurai, di giocatori d’azzardo professionisti o nei bordelli itineranti che giravano il Sud del Mondo. Le chatas, enormi carri tirati da dozzine di buoi, erano alberghi mobili in cui lavoravano meretrici dai costumi severi e dai pacati modi europei. Molte fortune che ci hanno lasciato raffinati palazzi, come quello di Sara Braun a Punta Arenas, nacquero dal duro lavoro di queste donne. Varie canzoni e leggen63

de popolari che si ascoltano ancora oggi nelle taverne parlano di una tedesca di Stoccarda di nome Berta Klein. Arrivò assunta come istitutrice da una famiglia inglese, nel giro di pochi mesi capì che fra le gambe aveva un tesoro più desiderato di tutto l’oro, di tutta la terra e di tutte le pecore. Senza pensarci due volte, abbandonò l’abito grigio da governante per un vestito dalla scollatura generosa e dopo tre lustri di arduo lavoro amatorio divenne proprietaria di trecentomila ettari di terra sui due lati della Cordigliera. Passarono gli anni, lentamente, come tutto in Patagonia, e Jarred Jones sentì che i lunghi inverni gli entravano nelle ossa. Era arrivato il momento di scendere da cavallo e mettere radici da qualche parte, ma non in un posto qualunque. Una bella zona vicino al lago Nahuel Huapi gli era rimasta impressa e andò dalle autorità a reclamarla appellandosi alla Ley de Hogar e al fatto che quelle terre erano rimaste disabitate fin da quando, nel 1884, i legittimi proprietari, tutti mapuche guidati dal cacicco Inacayal, erano stati espulsi e in gran parte uccisi dalle bande sterminatrici che ripulivano la regione dagli indios. Il suo amico George Newbery, però, lo precedette e piantò il primo palo che lo accreditava come proprietario di quel paradiso. Nacque così un odio che si protrasse per decenni, e che fu lasciato in eredità a figli e nipoti. « Negli anni Cinquanta, una pronipote di Jarred Jones ebbe la sfortuna di innamorarsi di un pronipote di George Newbery. Le famiglie si rifiutarono di prenderli in considerazione e quei due poveri ragazzi si 64

suicidarono. Romeo e Giulietta » disse il discendente di Davy Crockett fissando il fondo del bicchiere. Jarred Jones non si rassegnò a restare senza una bella tenuta. Approfittando della sua esperienza di avventuriero, divenne esploratore al servizio del governo argentino e delle compagnie di allevamento avide di nuove terre. Guidò addirittura il famoso perito Francisco P. Moreno nella spedizione alle sorgenti del Río Negro e, nell’agosto del 1900, ottenne in premio dal presidente Roca per i suoi servigi diecimila ettari sulle rive del suo amato lago Nahuel Huapi, proprio accanto alla proprietà dell’ex amico. Là Jones fondò la fattoria Tequel Malal, destinata all’allevamento di pecore, mucche e cavalli. Un giorno del 1938 rivide il suo amico John Crockett. Il figlio di Davy Crockett, abbandonato da Elizabeth Walters (la bella inglese era stata sedotta da un cileno, baro di professione e terrore dei casinò del Río de la Plata), continuava a rimuginare sulle sue disgraziate corna e sull’ingratitudine dell’unico erede, e morì pochi giorni prima di compiere novantanove anni rievocando le sue sventure aurifere e coniugali davanti a un Jarred Jones sempre più laconico. Jones e Newbery, invece, non si rivolsero la parola per quarant’anni, finché una sera d’inverno il texano non ebbe un forte ascesso a un molare che lo fece quasi impazzire. Si ricordò che l’unico dentista era l’odiato inglese e gli inviò un peón per chiedergli se era disposto a curarlo. Qualche ora dopo il peón tornò al galoppo. « Dice di sì, ma che vada lei. » 65

Jarred Jones, con la mascella legata, salì su un cavallo e galoppò fin laggiù nella neve. Arrivò, entrò, si sedette sulla poltrona da dentista e posò il revolver sul tavolinetto degli strumenti. Newbery fece lo stesso. « Apri la bocca » ordinò l’inglese, e il texano obbedì con gli occhi chiusi. George Newbery prese una pinza e, senza darsi nemmeno la pena di guardare il flacone di etere anestetico, gli estrasse il molare. Jarred Jones sudava stringendo i braccioli con le mani. « Fa male? » gli chiese l’inglese. « Non sono venuto qui per chiacchierare » rispose il texano e non si parlarono più. Jarred Jones morì nel 1957 a novantatré anni. Di George Newbery, il trisnipote di Davy Crockett non mi diede alcuna notizia.

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La signora dei miracoli

Le nuvole erano così basse che si potevano toccare. Scendendo una collina ci entrammo dentro, l’automobile fu circondata da una fitta cortina di nebbia, perdemmo l’orientamento e il caso ci fece lasciare la strada che collega El Bolsón a El Maitén e prendere un sentiero. In Patagonia sostengono che fare dietrofront e tornare indietro porti sfortuna, perciò ligi alle usanze del luogo andammo avanti, perché il nostro destino è sempre avanti e alle spalle dobbiamo avere solo la chitarra e i ricordi. Proseguimmo per circa tre chilometri a passo d’uomo, confidando nell’immutabile solitudine della stradina, finché le nuvole si portarono un po’ al di sopra del veicolo: la luce filtrata da quel setaccio umido dava un’inquietante sfumatura grigiastra alle cose. Stranamente, il vento immancabile soffiava con dolcezza e potevamo percepire i profumi delle erbe e dei fiori selvatici che certo crescevano vicinissimo a noi. Dopo una curva, i profumi si fecero molto più forti, si trasformarono in fragranze che impregnavano l’aria, e quello fu un invito a fermarci. A un centinaio di metri dalla strada c’era una casa, una casa stranamente piccola perché le costruzioni patagoniche sono funzionali alle esigenze di quella vi67

ta dura. Servono da abitazione, rimessa degli attrezzi e persino da stalla per allevare le pecore che, se sono troppo deboli, vengono respinte ed espulse dal calore del gregge. Ci avvicinammo e ci accorgemmo sorpresi che la casetta era circondata di rose, garofani, gerani e gigantesche ortensie che diffondevano il loro linguaggio di colori e profumi. È insolito vedere giardini in Patagonia. Quando il vento spira da sud strappa con mano crudele i germogli e i petali o taglia gli steli con la sua falce gelida. Cercando la porta d’ingresso scorgemmo l’orto e restammo a bocca aperta davanti alle dimensioni della frutta e della verdura. Zucche che dovevano pesare più di quaranta chili, alcayotas enormi, due meli e un pero con i rami stracarichi separavano gli ortaggi dal campo di fragole, che crescevano basse. Era un giardino dell’eden, un inno alla generosità della terra. Qualche centinaio di chilometri più a nord c’è El Bolsón, in una valle protetta da montagne, e lì la presenza di orti e frutteti è normale, i suoi abitanti vivono di questo, ma in mezzo alla steppa e alla mercé del vento e delle intemperie quell’oasi appariva irreale. Avvisata dai latrati di un cane, una donna anziana si affacciò alla porta. Era piccola, perché gli anni riducono la statura e con implacabile pietà ci avvicinano all’abbraccio definitivo della terra. Ci fece segno di avvicinarci e obbedimmo. All’interno la casa aveva la sobrietà che soltanto la vita solitaria concede. Il caminetto acceso e invitante, il bollitore annerito in un angolo, perché l’acqua fosse sempre calda ma senza bollire, una conocchia, un 68

canestro per raccogliere la lana già cardata e tre sgabelli bassi di legno. Ai muri erano appesi un calendario, un’immagine della Madonna di Luján e una fotografia che mostrava la signora da giovane accanto a un uomo serio e cerimonioso. La padrona di casa ci invitò ad accomodarci, gettò nel focolare qualche stecco per ravvivare il fuoco e poi ci servì mate e focaccine fritte. Il suo volto aveva mille solchi e i suoi occhi ci osservavano con attenzione, ma tutta la sua espressività era legata a un dolce sorriso che le abbelliva le labbra rinsecchite. Ci chiese se ci piacevano le focaccine fritte, le rispondemmo di sì perché erano davvero buonissime, e mi azzardai a chiederle se viveva sola. « Sola? No, vivo con il mio cane, le pecore, le piante e i fiori » rispose con voce serena, con la lenta cadenza della gente del Sud, con quel modo di parlare che amo, che non ho trovato in nessun altro posto al mondo e che rende grande la mia lingua, perché la gente del Sud avverte il carattere fondante delle parole e quando le pronuncia dà vita alle cose che nomina, popolando la durezza della steppa. Le fiamme del caminetto e il crepitare della legna secca invitavano a restare in silenzio. Il fuoco ha un altro modo di raccontare la stessa storia. La donna si sistemò la conocchia fra le gambe e cominciò a filare. Le nuvole grigie tosate alle pecore la primavera precedente diventavano sottili linee bianche. Né il mio socio né io apparteniamo alla schiera di chi cerca la luce e la pace interiore. Sanamente agnostici, sappiamo che la pace interiore la dà il fare al 69

momento giusto il proprio dovere, e che per trovare la luce basta spalancare gli occhi, ma ci sentivamo bene lì, a bere mate accanto alla vecchia signora, lasciandoci ipnotizzare dal linguaggio del fuoco. Il mio socio ruppe il silenzio per chiederle quanti anni aveva. « Novantacinque appena compiuti » rispose lei con una smorfia di civetteria. « Quando li ha compiuti? » « Oggi. È il mio compleanno. » Doña Delia Rivera de Cossio era nata nel 1901 a San Carlos de Bariloche, quando la città ricca e turistica di adesso non era altro che un avamposto dove i pionieri facevano rifornimento per poi proseguire verso sud, verso il profondo sud, in cerca di terre. A diciott’anni aveva conosciuto Giacomo Cossio, un emigrante sardo che, come tanti altri italiani, era arrivato in Patagonia in cerca del pane e del vino che la miseria europea gli negava. Insieme avevano costruito quella casa, avevano avuto figli che erano cresciuti e se n’erano andati lontano, in salvo dal vento e dalla solitudine. Giacomo Cossio aveva trovato lavoro fra le squadre di operai che costruivano la linea ferroviaria del Patagonia Express, aveva perso la vita in un incidente e ora le sue ossa riposavano in fondo al cortile, vicino a un melo, lontano dalla Sardegna, sotto un cielo con nuvole a portata di mano. I figli non erano più tornati e doña Delia era rimasta sola, sola?, no, con il suo cane, le pecore, le piante, i fiori, il silenzio e la tomba dell’uomo serio e cerimonioso della fotografia, che 71

un tempo era stata in bianco e nero ma che quel giorno sfoggiava la patina seppia degli anni. La abbracciammo, le facemmo gli auguri, la baciammo, il mio socio chiese se poteva scattarle qualche foto e doña Delia rispose: « Volentieri », prima però doveva mettersi in ordine. Fu questione di un attimo. Mettersi in ordine aveva voluto dire togliersi il grembiule e pettinarsi i capelli bianchi. Ligio alle usanze del rispetto, il mio socio iniziò con una polaroid. Clic, ronzio, il foglietto che spuntava come una lingua bianca, le prime macchie caotiche e la luce che riordinava un rettangolo di realtà. « Quella sono io? » commentò guardandosi. Doña Delia a diciott’anni si era sposata, aveva lasciato San Carlos de Bariloche e non vi aveva più fatto ritorno. Aveva trascorso quasi tutta la vita in quel posto in mezzo alla steppa, e quando le chiedemmo se non avesse voglia di tornarvi, soltanto per rivedere la sua città natale, rispose di sì, ma che aveva paura perché le avevano detto che Bariloche era una città enorme, con tante automobili e gente che non aveva mai il tempo di bere un mate. « Sono così, io? » rifletté con la polaroid in mano. « Dal vivo è molto più carina, molto più bella » disse il mio socio, e le chiese di posare con la conocchia, accanto al focolare, vicino al ritratto seppia. Io uscii a vedere l’orto, contai una ventina di ortaggi diversi, mangiai delle fragole fantastiche e vidi delle lepri che si avvicinavano a balzi fino al cane, accolte con assoluta indifferenza. Le mie conoscenze di agronomia e di orticoltura sono abbastanza limitate, ma mi stupii 72

che in quell’orto le erbacce non interferissero con la crescita delle piante. Poi andai a vedere i fiori, soprattutto delle rose dai petali rosso cardinale molto coriacei, che profumavano intensamente, e notai che i grossi gambi erano segnati da solchi simili a quelli sul volto della donna. Quei rosai parlavano dei lunghi e duri inverni sopportati, ma nei loro fiori schiusi non c’era alcun rancore. Il mio socio finì di scattare le foto e tornammo al silenzio del focolare. Le mani di doña Delia alle prese con la conocchia raccontavano mille storie. Quasi un secolo di vita nel semplice e indispensabile compito di coprire i corpi. Il peggior secolo dell’umanità non aveva toccato quelle mani né la sana abitudine di essere utile senza saperlo. « È duro l’inverno da queste parti? » domandai. Allora lei posò la conocchia, raccolse da terra un ramoscello secco e cominciò a sfregarlo con le dita come se cercasse le parole nella fragilità del legno. « A volte è duro, a volte peggio. Il brutto non è il freddo, né il vento, né la neve. La neve arriva piano e resta. Il brutto sono le gelate, perché sono traditrici » disse mentre le dita non smettevano di sfregare il ramoscello. Guardai il mio socio. Vedeva anche lui quello che vedevo io? Mentre ci raccontava le pene delle pecore con le mammelle ferite dalla gelata, doña Delia continuava ad accarezzare un boccio secco che lentamente si era aperto e come per magia offriva i candidi petali del candido fiore del melo. « Come ha fatto? » domandò il mio socio. 73

« Cosa? » si sorprese lei. « Il fiore » aggiunsi indicando il ramoscello fiorito nelle sue mani. « Non lo so. Dicono che ho un dono. Quello che tocco, vive » rispose timidamente. Con assoluta naturalezza, doña Delia ripeté il miracolo di prendere un ramoscello secco, accarezzare un boccio e risvegliare il fiore addormentato della fertilità. Con la sua voce calma ci spiegò che la gente andava da lei quando una pecora o una mucca erano sterili. Le bastava toccarle perché i loro ventri diventassero fertili. Lo stesso accadeva con gli alberi rovinati dal vento, con le piante, con tutto ciò che era nato per crescere e dare frutti. E le facevano visita anche uomini pieni di vergogna o donne tristi che, nove mesi dopo, brindavano alla sua salute nei battesimi. Doña Delia non era né vegetariana né macrobiotica. Ignorava le mille teorie dell’energia bloccata e non si considerava un essere eccezionale. Quando le chiedemmo se sapeva da dove le venisse quel dono della fertilità, buttò della legna sul fuoco prima di rispondere. « Dal mio amore per questa terra. Ogni volta che guardo la pampa brulla penso che Dio ha sbagliato. » Era quasi sera quando lasciammo doña Delia. La vedemmo tirare del granturco alle galline, accarezzare il cane, chinarsi per raddrizzare uno stelo piegato, entrare in casa, chiudere la porta e accendere una candela che inondò d’oro l’unica finestra. 74

Il sole tramontava dall’altra parte delle Ande, l’orchestra dei grilli accordò i suoi strumenti. Moriva un giorno in Patagonia, ma all’alba dell’indomani quella novantacinquenne che aveva festeggiato il suo compleanno con due uomini arrivati dalla strada avrebbe continuato a coltivare la meravigliosa abitudine di vivere. Questa è una storia solo apparentemente a lieto fine, perché mentre festeggiavamo il compleanno di doña Delia, l’ombra dell’esempio dato da Carlo e Luciano Benetton incombeva sul suo umile paradiso. La Patagonia ha la condanna di essere uno degli spazi più incontaminati della terra. Quando nel resto del mondo l’aria pura delle origini sarà appena un ricordo, in Patagonia resterà una realtà quotidiana, e questo le conferisce un valore perfettamente calcolabile, perché il denaro è vigliacco ma non sciocco. La rivista « Forbes » è una specie di pubblicazione pornografica che dà notizia delle più grandi fortune della terra, e nel gruppetto di multimilionari che si sono appropriati della ricchezza di tutta l’umanità, il fatto di possedere qualche migliaio di ettari in Patagonia è quasi un segno di distinzione o una prestigiosa tacca sul calcio dell’anima. Non sanno dire dove inizi il Cile o finisca l’Argentina, i problemi e i pregi dei due paesi li lasciano indifferenti, l’unica cosa che importa è esibire titoli di proprietà. Una quindicina di anni fa Carlo e Luciano Benetton comprarono novecentomila ettari. Per capire le dimensioni di questa distesa di terra bisogna pensare, se si può, a un milione di stadi da calcio. 76

A sentir loro, avrebbero portato il progresso. Invece portarono recinzioni di filo spinato, tagliando le vie della transumanza ai gauchos e alle poche specie selvatiche sopravvissute, e posero limiti assurdi a una regione che può essere limitata solo dal cielo e dalla terra. Ted Turner, il miliardario fondatore della CNN a capo del gruppo multimediale AOL-Time Warner, seguì l’esempio dei Benetton, e lo stesso fece un tappetto, con i muscoli pompati dagli steroidi, la cui intelligenza aveva colpito un intellettuale di nome Ronald Reagan: Sylvester Stallone. Per indicare la forza delle armi si parla di potere di distruzione. Per indicare la forza di distruzione di certi uomini si deve parlare di potere d’acquisto. Il potere d’acquisto di Rambo puntò direttamente alle terre in cui doña Delia viveva la sua fertile longevità insieme al cane, alle pecore, alle erbacce miracolose, ai fiori dal profumo selvatico, alla frutta dai sapori antichi e sacri. Malgrado il suo terribile potere d’acquisto, paradigma della volontà non in senso nietzschiano ma secondo quei sempliciotti di Hollywood, Stallone non poté comprare e non perché non ne avesse voglia. A volte gli eccessi di sottomissione davanti ai potenti attivano quei meccanismi di resistenza che danno dignità al genere umano. La stima che fecero le autorità argentine per quella fetta di Patagonia era una cifra talmente irrisoria che un gruppo di allevatori argentini consigliò alle autorità di non essere così benevole verso un compratore straniero. Il governo naturalmente non rispose, ma per puro 77

caso il 5 marzo 2003 « Le Nouvel Observateur » pubblicò un’inquietante notizia che infiammò ancora di più gli animi: il governo argentino stava studiando la possibilità di cedere la Patagonia agli Stati Uniti, in cambio della cancellazione dell’enorme debito contratto con il Fondo monetario internazionale. La notizia corse di spaccio in spaccio, di focolare in focolare, e agricoltori, allevatori ed ecologisti sollevarono un tale scompiglio che l’acquisto non fu mai perfezionato. Così Rambo, il guerriero invincibile capace di sbudellare migliaia di vietnamiti, di abbattere elicotteri russi a sassate combattendo insieme ai talebani in Afghanistan, fu sconfitto da una vecchietta di quasi cent’anni senza altre armi che l’amore per la propria terra. Succedono cose del genere in Patagonia. E questo sì che è davvero un lieto fine per la storia.

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Lo Sceriffo

Eravamo vicino a El Bolsón, una pittoresca città sul confine tra le province di Río Negro e del Chubut. Il vento piegava i giganteschi pioppi intorno al cimitero e il fogliame creava un’immensa cupola a protezione della pace di chi vi riposava, gente arrivata nel Sud del Mondo piena di sogni, ambizioni, speranze, progetti, amori e odi, piena dei materiali elementari che forgiano il nostro breve passaggio sulla terra. Gente arrivata da ogni parte, portandosi dietro i propri costumi e la propria lingua, e finita lì, in un cimitero dimenticato e battuto dal vento, unita nella quiete sotterranea e nell’idioma universale della morte. Un uomo con una sigaretta che gli penzolava dalle labbra disponeva dei fiori rinsecchiti su una tomba. « Ci hanno detto che Martin Sheffields è sepolto qui. » « Lo Sceriffo. Sì, è qua, quel serpente. » Non era né giovane né vecchio, il suo volto indurito dal sole e dal vento poteva avere qualunque età. « Sa qual è la sua tomba? » insistetti. « Sì, lo so, ma bisogna stare attenti quando ci si avvicina, perché quel bastardo è stato sepolto con tutte e due le colt in mano e se è di malumore ci prende a revolverate » rispose mentre si avviava. 79

Lo seguimmo passando fra tombe di polacchi, italiani, ebrei, spagnoli, russi, inglesi e anche criollos. Martin Sheffields comparve in Patagonia agli inizi del Novecento. Parlava uno spagnolo approssimativo, pieno di espressioni tex-mex, e l’inventario del suo patrimonio era breve: due splendide colt attaccate alla coscia, un cavallo bianco ben sellato alla texana e una stella da sceriffo appuntata sul risvolto della giacca. Era come un personaggio di Marcial Lafuente Estefanía* molto lontano dal selvaggio West degli Stati Uniti. « È qui e mi auguro molto sotto » disse l’uomo indicando una sepoltura senza nessuna scritta. La tomba era coperta da uno strato di terra ocra, secca e dura, quasi pietrosa, e sopra c’era una margherita di plastica con i petali calcinati dal sole. Un po’ poco per abbellire il sepolcro di uno dei grandi miti della Patagonia. Probabilmente Sheffields morì nel 1939, non si sa con certezza, anche se su di lui sono state redatte varie biografie, basate sul sentito dire, da scrittori che si sentono proprietari della storia di una regione in cui miti, leggende e verità cambiano a seconda di come gira il vento, perché in Patagonia la storia è un genere narrativo che non si assume l’onere del rigore cronologico né di una grande obiettività. Di solito * Marcial Lafuente Estefanía (1903-1984): popolarissimo scrittore spagnolo che fra il 1939 e il 1984 pubblicò più di duemila romanzi di ambientazione western. (N.d.T.) 80

nelle taverne, quando qualcuno vuol raccontare un fatto già piuttosto noto, riceve questa raccomandazione: raccontalo da poeta, non da professore. La storia è semplicemente un pretesto per arricchire l’oralità e tirar tardi davanti al fuoco con un mate in mano. Certi dicono che fu ammazzato e altri che morì d’infarto in groppa al suo cavallo bianco, mentre cercava l’oro nelle centinaia di corsi d’acqua che nascono dai laghi andini. Comunque sia, venne ritrovato da alcuni mulattieri quando era morto già da varie settimane. I condor e i chimangos si erano fatti un gran festino con quel tizio di un metro e ottantacinque per oltre cento chili di peso. Gli avevano ridotto a brandelli i pesanti vestiti invernali per arrivare fino alle budella, lasciando lo scheletro bello pulito, ma non erano riusciti a strappargli i due revolver che teneva in pugno. È così che fu ritrovato lo scheletro e si capì che era lui perché era armato. I mulattieri, brave persone come tutti i solitari, lo coprirono con dei sassi e i resti rimasero là, accanto al torrente Las Minas, finché nel 1959 uno o una dei dodici figli che aveva avuto con María Ancapichún, una mapuche ricordata ancora oggi con timore reverenziale, decise di trasferire le ossa nel cimitero di El Bolsón. María Ancapichún, a quanto raccontano, doveva essere alta e robusta come lui. Altrimenti non si spiega la remissività degli uomini che, quando la vedevano comparire nelle taverne, preferivano allontanarsi 82

precipitosamente dal tavolo da gioco rovesciando il mazzo piuttosto che ricevere una delle sberle con cui alla fine metteva ko il marito. Da una distanza di sicurezza, la guardavano portare Sheffields sulle spalle fino al cavallo, brontolando: « Guai a chi tocca le sue carte, mi fa fare un altro figlio e torna ». Raccontano che lo scheletro non resistette al viaggio in chata sulle dissestate strade patagoniche e andò in pezzi, ma le colt rimasero attaccate alle ossa delle mani. Una margherita di plastica sulla sua tomba e la stella da sceriffo in una vetrina del museo di San Carlos de Bariloche sono tutto quel che è rimasto di Martin Sheffields. Tutto? No, ha lasciato anche una storia che diverte, divide e appassiona. Succede sempre così con i picari e gli avventurieri. C’è chi sostiene che nacque a Baltimora e chi invece che venne al mondo nella Tom Green County, in Texas. Alcuni documenti conservati negli archivi dell’Agenzia investigativa Pinkerton assicurano che trascorse la sua giovinezza nello stato dello Utah. Era un cowboy come tanti, anche se abbastanza abile con le armi, e si ritrovò ad assistere in prima fila allo sterminio del Mucchio Selvaggio, un miniesercito di banditi che rapinavano banche e treni formato, oltre ad altre celebrità, da « Black Jack » Ketchum, Harry Tracy, « PO8 » Logan, un bardo che aveva l’abitudine di scrivere poemi epici sui propri misfatti, « Flat Nose » Curry e Butch Cassidy. Alla fine del 1898 gli uomini della Pinkerton erano riusciti a imporre la legge del più forte, cioè degli al83

levatori e dei proprietari delle ferrovie, nei territori del West degli Stati Uniti, dopo aver catturato o eliminato quasi tutti i banditi. Ma gliene mancava uno: Butch Cassidy. Nel 1901, la Pinkerton ricevette una notizia allarmante: Butch Cassidy aveva lasciato il territorio dell’Unione a bordo del piroscafo Soldier Prince, che era diretto a Buenos Aires. E non viaggiava solo. Lo accompagnavano una maestra di nome Etta Place e un tipo incensurato che si faceva chiamare Sundance Kid. Subito la Pinkerton decise di mettere un investigatore sulle loro tracce e affidò l’incarico a Frank Dimaio, un italoamericano che, appena arrivato a Buenos Aires, venne a sapere che il terzetto aveva acquistato seimila ettari di terra vicino a Cholila, in Patagonia, ma proprio quando si accingeva a partire per il Sud del Mondo scoprì le attrattive della capitale argentina. Conobbe una bella ragazza figlia di italiani, sentì il richiamo di una vita sedentaria e mandò all’inferno la Pinkerton stabilendosi a Buenos Aires come commerciante di calzature. Fino al 1976, nel quartiere di San Telmo, vicinissimo alla piazza dove ogni domenica si tiene il miglior mercato d’antiquariato al mondo, c’era il negozio Calzature Dimaio e dentro, al posto d’onore, era appeso il distintivo da detective del suo fondatore. In America Latina, il destino immancabilmente piega la volontà dei gringos. Sempre nel 1901, Martin Sheffields entrò in contatto con la Pinkerton. Secondo alcuni, fu assunto dalla sede che l’agenzia investigativa aveva a Houston, in 84

Texas. Secondo altri, dalla sede di San Francisco, dove scontava una breve condanna come « vagabondo recidivo ». Comunque fosse, la taglia di cinquantamila dollari sulla testa di Butch Cassidy gli parve un ottimo motivo per visitare l’Argentina. Giunse così a Buenos Aires il 6 febbraio 1902. Sui registri dell’Hotel de Inmigrantes del porto, la struttura di prima accoglienza da cui, a partire da metà Ottocento, per oltre un secolo, passarono migliaia di nuovi arrivati, si segnò come Martin Sheffields, sceriffo degli Stati Uniti, e forse mostrò la stella d’argento che vari anni prima aveva sottratto nel Montana a uno sceriffo autentico, ma rovinato dall’alcol. Nel suo peculiare spagnolo tex-mex deve aver chiesto come diavolo si arrivava in Patagonia. La capanna di tronchi che Etta Place, Butch Cassidy e Sundance Kid costruirono vicino a Cholila è ancora lì e grazie alla solidità della struttura resterà in piedi per anni. Quando ci andai insieme al mio socio, ci abitava la famiglia Sepúlveda. Un pomeriggio, sotto un cielo burrascoso, chiacchierammo e prendemmo il mate con don Aladino Sepúlveda, il padrone di casa, un vecchietto dallo sguardo infantile, furbo come una volpe. « Certo che li trovò. Venne qui a parlare con loro. Io non ero ancora nato, ho appena fatto ottantaquattro anni ma me l’ha raccontato mio padre. Deve essere successo nel 1902, Sheffields arrivò in sella a un cavallo bianco, non ebbe mai cavalli di altri colori, dal cancello gridò: ’Butch! Sun!’, e i due uomini gli risposero in spagnolo che si chiamavano don Pedro e 86

don José. Allora Sheffields scoppiò a ridere, per poco non cadde da cavallo a forza di sghignazzare, e poi parlarono fra loro in gringo. » Non sapremo mai cosa si dissero, ma è evidente che arrivarono a un accordo di pacifica convivenza, perché i telegrammi spediti da Sheffields all’Agenzia Pinkerton fra il 1902 e il 1905 ripetevano sempre lo stesso ritornello: « L’Argentina è un paese molto grande, ma sono sulle loro tracce ». Nel 1905, un cittadino degli Stati Uniti che viaggiava sotto il nome di Andrew Duffy si presentò alla capanna di Cholila. In realtà si chiamava Harvey Logan, era uno dei soci fondatori del Mucchio Selvaggio, e due anni prima aveva lasciato la prigione di Knoxville in Tennessee a modo suo: sparando. La fuga si era chiusa con quattro guardie tranquillamente occupate a ingrassare i vermi. Quello stesso anno Butch Cassidy, Etta Place, Sundance Kid e il nuovo arrivato rapinarono il Banco del Sur, a Santa Cruz. Nel frattempo, Sheffields si annotava cose di cui non informava mai la Pinkerton. Nella sua casa alle Guaitecas, il neozelandese Jo Giglian, appassionato collezionista di qualunque cosa si riferisca a Butch Cassidy, mi ha fatto vedere un taccuino rilegato in pelle marrone che viene attribuito a Martin Sheffields. In un appunto datato ottobre 1907 si legge: « Quando sono usciti portandosi via il denaro degli inglesi, potevo sparargli. Potevo sparargli ma non l’ho fatto ». Nel 1907, i ragazzi e la maestra avevano rapinato il Banco de la Nación, a Villa Mercedes, e le cose si erano complicate perché Harvey Logan aveva 87

ucciso il direttore. Nel taccuino di Sheffields c’è scritto: « All’inizio non ho riconosciuto la donna, perché era vestita da uomo. Quel morto ci darà dei problemi ». Non conosceremo mai i termini dell’accordo a cui erano giunti Butch Cassidy, Sundance Kid, Etta Place e Martin Sheffields nella capanna di Cholila, ma è molto probabile che una parte del bottino delle rapine a varie banche servisse a comprare il silenzio dello Sceriffo, perché nel 1907 acquistò cinquemila ettari vicino a El Maitén, nel Chubut. Deve essere stata una contrattazione dura e interessante. Se partecipava anche Harvey Logan, erano in quattro contro uno, quattro argomenti di diverso calibro contro le due 45 del cacciatore di taglie. Don Aladino Sepúlveda ci disse che, secondo suo padre, la trattativa di Sheffields con i banditi era durata vari giorni e altrettante notti. Si erano ubriacati, avevano gridato, riso, inveito con parole che il criollo non capiva, e alla fine lo Sceriffo si era allontanato sul suo cavallo bianco. « Volete sapere cosa penso? » chiese don Aladino Sepúlveda. « Certo che vogliamo saperlo » gli risposi staccando delle schegge di legno dalla capanna. Ce le ho ancora. « Sheffields disse agli altri che non voleva morti. I morti complicano sempre le cose. Uno può essere l’uomo più inoffensivo del mondo, ma appena muore, complica la vita a parecchia gente. » Nel mondo bancario, è noto, ci sono due forme di protagonismo: il ladro in giacca e cravatta e il rapina88

tore mascherato. Dopo i fatti di Villa Mercedes, Butch Cassidy, Etta Place e Sundance Kid abbandonarono per qualche tempo l’attività bancaria. Harvey Logan scomparve senza lasciare traccia. Etta Place tornò clandestinamente negli Stati Uniti, dove morì di cancro. Butch e Sundance vendettero la tenuta di Cholila e se ne andarono più a sud, ai confini del mondo. Attraversarono lo Stretto di Magellano e si spinsero nella Terra del Fuoco, dove passarono alla leggenda come due romantici veterani che assaltavano banche e portavalori per finanziare rivoluzioni anarchiche. Una tomba senza nome e una margherita di plastica. Lo Sceriffo ha lasciato ben poco dietro di sé in Patagonia. « È ancora vivo qualcuno che l’ha conosciuto? » chiesi all’uomo con la sigaretta che gli penzolava dalle labbra. « Resta una figlia. L’ultima figlia ancora in vita di quel furfante » rispose lui in un tono che univa l’ammirazione al disprezzo. Il giorno dopo decidemmo di far visita alla figlia di Martin Sheffields. Ci andammo con l’automobile del nostro sponsor, che dava già i primi segni di cedimento per via delle strade dissestate, e chiacchierando con la gente del posto durante le soste che facevamo per mangiare, rifornirci di benzina e controllare una cartina che ci sembrava ogni volta di scala più grande, cominciammo a scoprire il nesso fra lo Sceriffo e la costruzione delle ferrovie patagoniche. Nel 1933 si cominciarono a stendere i binari che 89

collegano Ñorquinco a El Maitén e furono gli agnelli di Sheffields a nutrire le squadre di operai. Allo Sceriffo piaceva intrattenere gli uomini con la sua sorprendente abilità di tiratore. Era capace di far volar via la sigaretta dalle labbra a qualche ragazzino preso alla sprovvista e addirittura di strinare i baffi a un altro, e riuscirci con una pallottola calibro quarantacinque non è cosa da poco. Quando finalmente la linea ferroviaria fu completata, Martin Sheffields regalò sei vitelloni e trenta agnelli per il grande asado dei festeggiamenti. Incontrammo vari vecchi di Esquel, El Maitén, Leleque e Cholila che ricordavano la generosità del gringo, ma questo disprezzo per la ricchezza, unito al gran numero di figlie e figli seminati per le terre australi, finì per rovinarlo. Ecco perché cercava oro quando morì, o venne ucciso. « Sa chi era Martin Sheffields? » chiesi in una taverna a un anziano che subito mi offrì la zucca del mate. « Certo! Lo sanno cani e porci » rispose accettando una sigaretta. « Allora mi racconti. » « Era un uomo solo. Ebbe molti amici, molti figli, ma era un uomo solo. Nessuno sapeva da dove avesse tirato fuori i soldi per comprare tutte quelle terre che poi perse. Dicono che fosse venuto qui a catturare i banditi gringos, ma non li prese. Era un gran tiratore e quando si ubriacava gli piacevano le scommesse pesanti. Per esempio scommetteva che avrebbe fatto volar via i tacchi a una signora, impugnava il revolver e sparava. Se il fidanzato o il marito protestavano, gli regalava un paio di pecore e la faccenda era chiusa. 90

Arrivò ad avere più di centomila pecore quando la lana valeva tanto oro quanto pesava, eppure si vestiva come un vagabondo. Andava in giro di qua e di là, sempre solo. In sella al suo cavallo bianco, passava da Cholila a Esquel, da Ñorquinco al Portezuelo, sempre solo. A volte si fermava nelle taverne, giocava a carte, perdeva a tutto spiano, cantava con una femmina seduta sulle ginocchia, ma all’improvviso si alzava, si metteva in un angolo e continuava a bere per conto suo. Era un uomo solo, non perché gli amici, le donne o i figli lo avessero abbandonato, ma perché si era abbandonato da sé. Un uomo solitario, strano, ma con un gran senso dell’umorismo. Conosce la storia del plesiosauro? » Il grande scherzo di Sheffields. Un giorno del 1922 scrisse una lettera al direttore del giardino zoologico di Buenos Aires, descrivendogli un animale che aveva il suo habitat nelle acque della Laguna Negra. Il quadro era così esatto, così rigoroso, che nessun esperto ebbe il minimo dubbio: si trattava di un plesiosauro. Dozzine di istituzioni scientifiche di tutto il mondo si contesero il diritto di catturarlo. Warren Harding, presidente repubblicano degli Stati Uniti, minacciò rappresaglie se non si metteva il plesiosauro nelle mani dello Smithsonian Institution. La corona britannica giudicò inconcepibile che il plesiosauro non fosse esaminato da specialisti del British Museum. Venne persino composta una canzone, il popolare Tango del plesiosauro. Alla fine arrivarono a Buenos Aires tutti quelli che volevano a ogni costo impadronirsi dell’animale prei91

storico e, fra mille sgambetti, avanzarono a frotte verso la Patagonia, dove scoprirono che l’animale della Laguna Negra era un tronco d’albero foderato di pelli bovine. I patagoni risero a crepapelle per lo scherzo di Sheffields, sghignazzano ancora oggi, ma né le autorità argentine né gli scienziati dell’epoca presero la cosa con altrettanto spirito. Poco prima di El Maitén, lasciammo la dura strada di sassi e ci dirigemmo a ovest, imboccando il sentiero terroso che portava a casa di Juana Sheffields, l’ultima figlia dell’avventuriero burlone. Per farci coraggio in mezzo al gran polverone che ci seccava la gola e ci faceva temere per le macchine fotografiche, cantavamo a squarciagola: « L’Uruguay non è un fiume, è un cielo blu che passa », con i teros che gracchiavano la loro disapprovazione, finché dopo un paio di ore vedemmo comparire la capanna costruita dallo Sceriffo per la figlia. Era in un posto di una bellezza impressionante, in mezzo a querce, pioppi, lecci, alberi di tek. L’aria profumava di legno vergine della Patagonia andina, di sterco di animali sani, di erbe che rallegravano l’anima. Juana Sheffields aveva ottantasei anni e un’aria altera. C’era molto orgoglio in quella donna che si appoggiava a un bastone per camminare. Il suo volto, pieno di territori che forse erano stati popolati da tutti gli amori e da tutti gli odi, era decisamente patagonico perché restava latente l’incrocio della madre mapuche con il padre gringo, portatore a sua volta di chissà quali miscugli di sangue. Mi offrì una sedia, davanti a lei, e la zucca del mate. 92

Con gesti civettuoli si lisciò il grembiule e controllò la simmetria dei capelli bianchi raccolti in un vigoroso chignon. Mentre il mio socio la fotografava, chiese cosa ci avesse portato lì. « Suo padre. Ci parli di suo padre. » « Martin Sheffields. Lo sceriffo Martin Sheffields. È stato lui a costruire questa casa e molte altre. Era un uomo. È stato amato e odiato per questo, perché era un uomo. Non è mai stato facile essere un uomo. » « Un uomo molto portato agli scherzi pesanti. » « Sciocchezze. Aveva un gran senso dell’umorismo, ma non ha mai fatto del male a nessuno. È vero che ogni tanto, quando si ubriacava, gli veniva voglia di scommettere. Una volta non ha preso bene la mira e ha portato via il naso a un gaucho, ma non ha mai fatto del male a nessuno. » « C’è chi dice il naso e anche il resto della testa. » « Diamine, la vita era così allora. Non era facile, non è mai stata facile la vita in Patagonia, e poi si vive e si muore da tutte le parti. Lui è morto solo. Così devono morire gli uomini. » « Siamo stati a visitare la sua tomba. È molto trascurata. » « È stato un errore portare le sue ossa al cimitero. Dovevamo lasciarlo là dove lo avevano trovato, accanto al torrente Las Minas, ma noi figli siamo stati deboli. Di uomini come mio padre non ce ne sono più e il modo migliore per rispettarlo è non fare visita al cimitero. » Prima che ce ne andassimo, doña Juana Sheffields 94

ci diede un po’ di pane appena sfornato e uova sode per il viaggio. I modi affettuosi con cui avvolse tutto in una tovaglietta contrastavano con la durezza delle parole e dei gesti. Prendemmo la via del ritorno sotto un cielo nuvoloso che annunciava un temporale, ma non ci importava perché sapevamo che la strada è una continua sorpresa. Dopo mezz’ora, un acquazzone cadde sull’ampia vallata, più avanti passammo sotto un imponente arcobaleno e, sulla strada per Cholila, ci fermammo a contemplare un gruppo di cavalieri che galoppavano in lontananza. Uno di loro montava un cavallo bianco e ci domandammo se stessero galoppando sulla pianura di questo o dell’altro lato della vita, e se l’uomo in groppa al cavallo bianco non avesse per caso una stella da sceriffo appuntata sul risvolto.

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L’ultimo viaggio del Patagonia Express

Sapevamo che la Trochita partiva da El Maitén il martedì con patagonica precisione, fra le otto del mattino e mezzogiorno, e che dopo aver raggiunto Esquel ritornava il giovedì, mettendosi in marcia con identica puntualità per ripercorrere al contrario i trecentocinquanta chilometri a cui erano stati ridotti, dopo le privatizzazioni e la morte delle ferrovie argentine, gli originari millesettecento del Patagonia Express. Quella mattina la stazione appariva stranamente deserta. Da quanto ci risultava, il vecchio treno continuava a essere l’unico mezzo di trasporto per gli abitanti di El Maitén che dovevano andare a Esquel a comprare beni di prima necessità, a farsi vedere dal medico o a lottare contro la burocrazia. La biglietteria era chiusa e così cominciammo ad aggirarci per la stazione senza incontrare nessuno, finché non arrivammo davanti all’officina e sentimmo la musica di una radio e delle voci. Era un capannone enorme e là, fra tonnellate di metallo arrugginito, una locomotiva a vapore che mostrava parte delle sue viscere d’acciaio e tre vagoni di legno, scorgemmo un gruppo di uomini vestiti con la classica tuta blu dei meccanici. 96

Erano sei ferrovieri di età diversa, i quattro più anziani facevano una partita a truco e gli altri due, più giovani, stavano a guardare passandosi la zucca del mate e valutando la bravura dei giocatori e la rima dei versi che accompagnavano ogni giro di carte. « Cosa raccontate di bello, ragazzi? » ci salutò uno di loro vedendoci. Rispondemmo al saluto e subito fummo invitati a bere mate e a mangiare pane e formaggio. « Possiamo sapere cosa vi porta da queste parti? » chiese un altro. « Il treno. Ci hanno detto che partiva oggi per Esquel. » Il nostro piano di lavoro per quel giorno era abbastanza semplice: il mio socio avrebbe fatto il viaggio a bordo, scattando foto in interno, mentre io lo avrei seguito in automobile. Saremmo rimasti a Esquel fino al giovedì e poi saremmo rientrati al contrario, io in treno riempiendo di appunti la mia Moleskine, e il mio socio in macchina, scattando foto in esterno. « È vero. Partiva oggi, ma non è partito e non partirà » dichiarò uno dei meccanici. « E quando parte? » domandammo. « Questo non lo sa nessuno. È charteado » spiegò uno dei più giovani. Che termine strano, fu la prima cosa che pensammo, ma non ci sorprese. Lo spagnolo fonda la sua ricchezza sull’adozione di parole che provengono dal lessico indigeno, oppure nascono dalle difficoltà fonetiche degli emigranti che parlano altre lingue o dai 98

problemi di comprensione dei criollos davanti a vocaboli sconosciuti. Un paio di anni fa la Real Academia de la Lengua Española ha accettato il termine chimichurri, definendolo una salsa composta di olio, aceto, sale, origano e spezie che serve a insaporire la carne. La sua radice etimologica, secondo l’Academia, è una voce aymara, ma non è vero. La parola chimichurri viene dalle difficoltà di qualche gaucho mezzo sordo che, lavorando come peón per un allevatore inglese, avrà sentito migliaia di volte l’ordine: « Give me curry », perché si sa che gli inglesi accompagnano le carni con il curry e chiamano così qualunque salsa speziata. Se uno che non sa l’inglese ascolta cento volte « Give me curry », gli resta nell’orecchio; se ascolta la stessa frase duecento volte, una specie di profilassi uditiva l’abbrevia in « givme curry »; dopo trecento volte si trasforma in un’unica parola: « gimicurry », ma visto che si riferisce a una cosa concreta, l’ingegno adatta il suono e lo rende gradevole, nuovo, per definire non la salsa insipida degli inglesi ma il condimento popolare dei gauchos, che prima di chiamarsi chimichurri era miseramente definito salamoia. « Give me curry... » « Givme curry... » « Gimicurry... » chimichurri! « Charteado da chartear? » indagò il mio socio. Sì, da chartear, un nuovo verbo maledetto derivato a sua volta da charter. Un’associazione di oziosi milionari texani amanti delle ferrovie a vapore avevano charteado il Patagonia Express per un periodo indefinito, senza curarsi del fatto che gli abitanti di El Maitén, Esquel, Ñorquinco e Leleque sarebbero rimasti 99

senza il loro unico mezzo di trasporto. Poderoso caballero es don Dinero.* Un treno sequestrato dal potere d’acquisto di alcuni sfaccendati con la complicità di un funzionario corrotto inviato da Buenos Aires per stabilire la « non redditività » della vecchia linea ferroviaria. Erano ormai undici giorni che la Trochita era in mano a quei turisti e i ferrovieri, senza nascondere la loro rabbia, cercarono di consolarci suggerendoci una soluzione. « Oggi arriva uno di quelli. Credo che sia cubano o dominicano, è il loro interprete. Parlate con lui e forse vi lasceranno salire sulla Trochita » disse Marcelo, un tipo che non dimenticheremo mai. Decidemmo di aspettare l’interprete chiacchierando con il gruppo. Come tutti i patagoni, ciascuno di loro aveva qualcosa da raccontare, ma discorrevano lentamente, come per non dare importanza a quello che dicevano. « Avete visto la locomotiva che stiamo riparando? È un gioiello, una Maffei 350, tedesca, costruita nel 1915. Non ci sono più macchine del genere in nessun posto al mondo. Ne abbiamo due e sono parte della storia della Trochita. Questa linea ferroviaria è stata costruita dagli inglesi, ma non alla maniera inglese. Di solito loro ci mettono cent’anni a fare un treno che deve durarne duecento, perché il trasporto delle merci e dei passeggeri sarà sempre un affare sicuro. * « Don Denaro è un potente cavaliere »: verso, divenuto proverbiale, tratto da una composizione satirica di Francisco de Quevedo y Villegas (1580-1645). (N.d.T.) 100

Invece, sono venuti in Patagonia per costruire un treno che collegasse le loro proprietà e gli permettesse di far arrivare la lana al porto d’imbarco. Dei passeggeri e degli altri tipi di merci non gli è mai importato nulla » dichiarò uno. Quell’uomo in tuta blu conosceva la storia delle ferrovie argentine, in particolare quella del Patagonia Express. Fin dal 1905, gli interessi ferroviari britannici erano stati strettamente legati alle speculazioni dei proprietari terrieri. Benché al parlamento argentino venissero presentati numerosi progetti di reti ferroviarie, che per legge dovevano essere statali, alla fine si scontravano sempre con il fatto che i terreni attraversati dal treno erano ogni volta, guarda caso, di proprietà dei latifondisti britannici. Il governo argentino offriva indennizzi, ma loro li rifiutavano. Con l’appoggio della Corona crearono invece società ferroviarie e così per esempio, nel 1908, la compagnia ferroviaria inglese che iniziò i lavori della linea San Antonio-Nahuel Huapi era proprietaria di settecentocinquantamila ettari di terra patagonica. Ovviamente stesero i binari ai confini dei loro fondi, il che li autorizzò subito ad appropriarsi delle terre limitrofe. « Non fecero un bel lavoro, non abbiamo niente di cui ringraziarli. Sapevano che le ferrovie dovevano durare quanto durava la fortuna della lana. Portarono delle rimanenze, macchine che non erano adatte alla regione. Comprarono rottami francesi, come le locomotive HH Saint Pierre dismesse dalle ferrovie transandine che collegavano Santiago del Cile a Men101

doza. Quelle macchine alpine perdevano acqua da tutte le parti, avevano caldaie verticali a quattro tubi, un vero lusso per una zona arida. Qui piove pochissimo, questa è una steppa semidesertica » aggiunse Marcelo. « La nostra tratta però è diversa. Qua gli inglesi credevano di dirigere ma i nostri compaesani lavorarono a modo loro. E pensi che all’epoca non erano stati fatti neppure i rilievi topografici. Il primo studio del terreno venne effettuato solo nel 1911, con l’appoggio della commissione idrogeologica. Dieci uomini a cavallo coprirono centomila chilometri quadrati. Costò lacrime e sangue stendere i binari perché vi passasse la Trochita, gli operai facevano una media di venti chilometri all’anno, d’inverno lavoravano a venti gradi sotto zero, dovevano avere un bel po’ di alcol in corpo per sopportare il freddo, e così ci siamo abituati a fare colazione come i tanos, con il Cinzano. Il peggio veniva a primavera perché arrivavano le epidemie di influenza e ancora non si conoscevano gli antibiotici. Erano dei veri duri, quelli » disse con orgoglio uno dei vecchi. « Raccontagli la storia di Lund il Pelato » lo incoraggiò Marcelo. « Enrique Lund era un ingegnere danese, un uomo biondissimo, ed era l’unico ad avere una tenda con il doppio tetto. Durante il giorno ci teneva accesa una stufa a cherosene e la sera la toglieva per non asfissiare. Fuori c’erano venti gradi sotto zero e siccome quel vichingo era molto alto, quando dormiva la testa gli toccava il telo della tenda, il suo respiro creava 102

umidità, questa si congelava, i capelli si attaccavano al telo e quando lui si svegliava, tirandosi su, se ne strappava un bel ciuffo. Fu così che Enrique Lund rimase pelato » concluse il vecchio e tutti facemmo coro alle sue risate. L’arrivo di un insolente fuoristrada con luccicanti paraurti cromati e fari sul tetto spense l’allegria nel capannone. Veniva a grande velocità, frenò sollevando una nuvola di polvere e quando questa col vento si disperse, scesero quattro campioni di bellezza texana, tre uomini e una donna che assieme facevano mezza tonnellata di grasso, tutti vestiti come per un safari nella savana africana. Scese anche l’autista, un uomo magro, pettinato in modo impeccabile con la brillantina, e con una catena d’oro al collo degna del Queen Mary. Per essere perfetta le mancava solo l’ancora. Il quartetto di ciccioni sghignazzava senza posa, specialmente la donna, e al richiamo delle loro risate accorse svelto il capostazione, un tipo un po’ meno voluminoso dei texani che non smetteva più di inchinarsi chiedendo in cosa poteva essere utile. L’autista faceva anche da interprete e parlava con un inconfondibile accento cubano. Con un gesto interruppe le dimostrazioni di servilismo del capostazione e, indicando il mio socio che in quel momento scattava qualche foto alla vecchia locomotiva tedesca, puntualizzò: « Le avevamo detto che, finché il treno era nostro, non volevamo attorno nessun giornalista ». Avevo intenzione di tranquillizzarlo spiegandogli che non eravamo giornalisti, solo due viaggiatori che 104

passavano per caso da lì, ma Marcelo fu più svelto: « Sono amici miei, volevano vedere l’officina e li ho invitati. E poi il treno voi l’avete soltanto charteado. Non è di vostra proprietà ». « Però dovevi avvisarmi, Marcelo. Questi signori pagano bene e mi hanno chiesto di non essere infastiditi da nessuno. Se ognuno fa quello che vuole non faremo mai progressi » si lamentò il capostazione. « Nella stazione comandi tu, ciccio. Ma nell’officina conti come il due di picche » ribatté uno dei vecchi meccanici. Il capostazione rispose con un gesto di disprezzo e prendendo per il braccio la texana mormorò un « no problem » che strappò nuove risate alla grassona. Il mio socio e io approfittammo della circostanza per parlare con il cubano. « Vogliamo salire sul treno, fare qualche foto, tutto qui. Ci dai una mano? » domandò il mio socio. Il cubano ci osservò con attenzione prima di rispondere. « Quanto siete disposti a pagare? » « Dì una cifra e vediamo » suggerì il mio socio. Il cubano andò a parlare con i tre grassoni che guardavano divertiti il capostazione e la cicciona, confabulò con uno di loro, annuì con la sua testa impomatata e tornò da noi. « Prima di parlare di soldi vogliamo sapere se siete voi quei comunisti che protestano perché abbiamo charteado il treno » indagò in tono minaccioso. « Tu sei cubano? » gli chiesi. « Cubano-americano » rispose lui alzando il mento 105

in un gesto che voleva essere di orgoglio patriottico o di qualche altra sciocchezza imparata alla Fondazione cubano-americana di Miami. « Quanto? » tagliò corto il mio socio. « Per cinquemila dollari vi portiamo alla prossima stazione. Solo andata. » La stazione successiva era a una trentina di chilometri, un po’ meno di un’ora di viaggio sulla Trochita. Il cubano si accarezzò i capelli impomatati aspettando la risposta. « Tu lo capisci bene lo spagnolo? » gli chiesi con il mio tono più amichevole. « Certo, non a caso sono l’interprete del gruppo » mi assicurò lui dandosi di nuovo delle arie. « Allora dì ai tuoi capi che vadano a farsi fottere, solo andata » aggiunse il mio socio nel suo tono più gentile. Il fraterno scambio di opinioni con il cubano-americano sarebbe arrivato alle carezze con i pugni chiusi, ma fummo interrotti dalle urla isteriche della texana: la cicciona con una mano trascinava il capostazione e con l’altra indicava l’officina, inscenando un dramma epico che mi riportò alla mente i volti terrorizzati degli yankee che scappavano dal Vietnam. Uno dei grassoni vestiti per la caccia agli elefanti uscì di corsa dall’officina seguito molto tranquillamente da uno dei meccanici più anziani con una chiave inglese in mano. « Porti subito via questi cafoni » disse il vecchio. Non ci fu bisogno di ripetere l’ordine perché i quattro texani e il cubano-americano salirono sul 106

fuoristrada e se la svignarono lasciandosi alle spalle un gran polverone. Il capostazione gli corse dietro e lo vedemmo sparire nella nuvola. « Qui non c’è nessun fenomeno da baraccone. Nemmeno Toñito » precisò il vecchio e ci invitò a entrare di nuovo nell’officina. Seduto su una cassa di legno vedemmo un tipo enorme, poteva essere un adolescente appena guarito dall’acne o un uomo maturo. Era alto quasi due metri, molto robusto, e il suo volto dagli evidenti tratti mapuche passava dal sorriso amichevole al timore di aver fatto qualcosa di sbagliato. Toñito amava il treno e tutto quello che aveva a che fare con il treno. Soffriva di un ritardo mentale che l’aveva fermato per sempre al vulnerabile livello di un bambino di sei anni, ma era stato adottato dai ferrovieri di El Maitén e faceva le veci di un eterno apprendista, quando era necessario aiutava con la sua gran forza a sollevare oggetti pesanti, aveva un permesso per viaggiare gratis sulla Trochita ogni volta che voleva e, per di più, i ragazzi dell’officina gli avevano fabbricato un veicolo a pedali in grado di spostarsi su rotaia. Felice del suo ferro-quadriciclo, Toñito andava in giro sui binari e tornava a informarli di eventuali guasti. « Quel cafone gli ha dato un cioccolatino e vedendo che Toñito aveva problemi a scartarlo, si è pisciato addosso dalle risate e ha cominciato a fargli fotografie » brontolò il vecchio offrendoci la zucca del mate. « Cafone » ripeté Toñito con la bocca piena di cioccolato. 108

« Be’, siamo rimasti senza treno » osservai. Bevemmo il mate in silenzio, fumammo una sigaretta. Il mio socio chiese se poteva scattare qualche foto all’officina e i ferrovieri acconsentirono con entusiasmo; io rimasi accanto al difensore di Toñito, che prese una costata d’agnello e cominciò a tagliare il grasso. « Vi piace l’agnello al disco? » domandò. « A chi non piace? » risposi, perché era vero. Marcelo ravvivò le braci della forgia e ci posò sopra il disco di ferro su cui avrebbero messo a cuocere la carne quando fosse stato rovente. Allora il grasso sarebbe colato via piano dai bordi, l’odorino avrebbe trasformato la fame in ingordigia e le costine dorate, croccanti, prive di grasso ci avrebbero convinto ancora una volta che il miglior agnello del mondo è quello della Patagonia, tanto più se si mangia con le mani in un’officina ferroviaria. « Ragazzi » dichiarò Marcelo servendo qualche bicchiere di vino, « voi siete venuti a fotografare la Trochita e la fotograferete. » « Ben detto! » esclamò uno dei vecchi. Il mio socio e io ci guardammo decisi ad accettare qualunque cosa ci proponessero, perché a sud del 42° parallelo la fiducia nasce senza mezzi termini, senza ambiguità né goffi richiami alla prudenza. « Vi aspetto domattina presto, alle sette, al campo da calcio. E portate qualche soldo per comprare la nafta » suggerì Marcelo. Uscimmo dall’officina contenti e salutammo i ferrovieri con calorose strette di mano. Il resto del po110

meriggio lo passammo a visitare El Maitén, prendemmo alloggio in una pensione dai letti duri e al tramonto andammo a mangiare in un ristorante che ci sedusse col suo nome, Patagonia Express, e ci rimpinzò con uno dei migliori matambre che avessimo mai assaggiato. Poi ci sedemmo in un parco a guardare le migliaia di stelle che illuminano il cielo della Patagonia. Stranamente quella sera il vento soffiava con folate gentili, quasi dolci, e all’improvviso, passandoci la bottiglia di vino che avevamo preso, scoprimmo che stavamo rimuginando le stesse idee. Quel viaggio aveva il marchio indelebile dei commiati. Ovunque ci dirigessimo, sempre a sud del 42° parallelo, la gente ci diceva che tutto stava cambiando molto in fretta, e non in meglio. Se negli anni Settanta scomparivano le persone ingoiate dalla macchina dell’orrore, in quei giorni scomparivano cose che fino ad allora erano sempre naturalmente esistite, come parte indiscutibile della vita. All’improvviso non c’erano più. Gli insegnanti e i genitori scoprivano di colpo che erano spariti i fondi governativi che garantivano la merenda a scuola, così come era sparita una parte degli stipendi, e i dipendenti statali ricevevano dei buoni, pezzi di carta senza corso legale che potevano essere scambiati con merci, pane, latte, in negozi i cui proprietari erano, guarda caso, legati alle famiglie dei politici locali, per un valore considerevolmente più basso di quello che millantavano di avere. Negli ospedali patagonici scomparivano le medicine e non c’erano fondi per acquistarle, non si poteva far ricorso per reclamare e il fantasma delle privatizza111

zioni, oltre all’ipotetica possibilità che nel paese arrivassero farmaci prodotti all’estero, a prezzi più « competitivi », non alleviava l’angoscia dei medici né degli infermieri. Mentre cenavamo, una coppia seduta a un tavolo vicino parlava della necessità di andarsene, di emigrare, ma senza una meta precisa. L’uomo, con un tono sconfitto, aveva detto che lì era tutto marcio, che non c’era futuro; la donna, dopo un breve silenzio, aveva chiesto se il posto in cui eventualmente sarebbero andati era migliore. Allora l’uomo si era riempito di vino il bicchiere e aveva osservato il liquido scuro prima di rispondere che non lo sapeva, ma che non importava, perché anche le loro speranze erano marce. Come in tanti altri paesi delle lontane province del Sud, a El Maitén la gente aveva l’abitudine di sedersi dentro la stazione a guardar passare il treno. È un’usanza che conferma l’esistenza del tempo e dell’universo: se il treno è passato vuol dire che è partito da un posto e va in un altro. Il mio socio e io bevevamo il vino osservando le stelle, El Maitén era immersa nel buio e in qualche angolo della steppa i sequestratori della Trochita dovevano lamentarsi della scomodità dei vagoni mentre dalla sua dignitosa umiltà di immaginetta sbiadita la Madonna di Luján doveva guardarli con occhi ancora più tristi del solito, perché la tristezza è l’unica cosa che lasciano i vincitori al loro passaggio. Il giorno dopo, alle sette, interrompendo una partita di calciatori mattinieri, andammo da Marcelo, che ci aspettava accanto al suo vecchio ma impecca112

bile biplano Curtiss Falcon. Quell’aereo era un vero veterano dell’aria. Come poi ci raccontò, Marcelo l’aveva comprato da un pilota che aveva cercato di mettere in piedi un servizio postale, il quale a sua volta lo aveva comprato da un altro pilota che ora trasportava singoli passeggeri ora si dedicava alla pubblicità, trainando nei cieli di paesini stupefatti lo striscione di qualche negozio di scarpe o farmacia. « Cileno, guarda la pancia di questo animale: ha dei ganci da siluro, perciò è possibilissimo che sia uno degli aerei che nel 1931 bombardarono la flotta cilena durante la sollevazione della marina militare » spiegò Marcelo accarezzando quel bestione. Il mio socio non è mai entusiasta di volare, né sui comodi aerei di Air France né tanto meno su un Curtiss Falcon vecchio come l’abitudine di camminare. E infatti ebbe subito da ridire, borbottando chissà cosa, ma Marcelo, con una domanda, ci fece capire che aveva voglia di spiccare il volo. « Voi due, più le macchine fotografiche, quanto peserete più o meno? » « Mah… un centocinquanta chili » risposi. « Allora ce la fa. Andiamo, ragazzi, che è una bellissima mattina. » Salimmo sull’apparecchio ma non fu facile accomodarci. Marcelo occupò il posto a poppa, dove il Curtiss aveva i comandi, e noi il posto fra le ali. Il mio socio pesava una ventina di chili meno di me, per cui si sedette sulle mie ginocchia stringendo in una mano la borsa delle macchine fotografiche e nell’altra la cintura di sicurezza, che però bastò solo per me. 113

« Partenza, ragazzi » gridò Marcelo, e l’aereo cominciò a rollare verso il fondo del campo da calcio. Ho volato su differenti aerei e in tanti paesi e grazie alla mia esperienza posso unirmi a chi non si stanca di ripetere che in Patagonia ci sono i migliori piloti del mondo. Marcelo era uno di loro. Fece decollare dolcemente il vecchio Curtiss sotto un cielo di un azzurro trasparente, senza una sola nuvola, senza altra presenza che il vento eterno della Patagonia. Dopo aver sorvolato per dieci minuti la steppa seguendo i binari del treno, avvistammo la Trochita. Il vecchio espresso patagonico avanzava lentamente, una grossa scia di fumo usciva dal comignolo della locomotiva e subito veniva dispersa dal vento. Dalla pianura infinita, il vecchio treno ci faceva segnali di vapore e fumo, ci invitava ad avvicinarci a lui, amico dai muscoli di ferro e dal cuore di fuoco. Tenendoci a un centinaio di metri d’altezza lo sorvolammo, riconoscendo il cubano-americano e altri gringos che affacciati ai finestrini ci facevano energicamente segno di allontanarci, di non scattare foto. Il più insistente era il capostazione e in quel momento il mio socio dimenticò la sua paura dell’altezza, farfugliò un « tienimi per le gambe », si alzò in piedi e inquadrò il soggetto. Volammo sopra il treno, accanto al treno, di fronte al treno, lo seguimmo quasi attaccati ai fianchi nelle due direzioni, mentre i padroni provvisori della Trochita erano ormai passati ai gesti osceni. Marcelo rideva a crepapelle. 114

« Ragazzi, vi ricordate il romanzo di Soriano? » domandò sghignazzando nel vento. Certo che ci ricordavamo Mai più pene né oblio, il formidabile romanzo in cui Cerviño, un protagonista molto simile a noi, interpretato al cinema dal grande Ulíses Dumont, bombarda con dello sterco chi cerca di rubargli i sogni. Per di più anche l’aereo su cui volavamo si chiamava Torito, come quello di Soriano, battezzato con vernice rossa sulla fusoliera di tela. Ci mancava solo un carico di merda da rovesciare su quei gringos. « Forza, Torito, vola! » gridò Marcelo passando ancora una volta sulla Trochita, sulla locomotiva che sbuffava forse contagiata dalla nostra allegria vendicatrice. L’atterraggio sul campo da calcio fu dolce come il decollo. Scendemmo dal Curtiss Falcon mezzo anchilosati e aiutammo Marcelo a coprire l’aereo con un pesante telone. Eravamo riusciti a fotografare la Trochita, il vecchio espresso patagonico, il leggendario Patagonia Express, e ci consideravamo soddisfatti, ma nell’officina i ferrovieri ci riservavano ancora una sorpresa. Quando ci avvicinammo, uno dei vecchi uscì e chiese a Marcelo di intrattenerci un momento facendoci visitare la stazione. Lo seguimmo e vedemmo le biglietterie chiuse, la sala d’aspetto con le sue serie panche di legno e una stufa per riscaldare l’acqua dell’immancabile mate che ha sempre accompagnato i viaggiatori. Sul marciapiede attrasse la nostra attenzione un contenitore di cemento e un curioso cartel116

lo che avevamo visto in altre zone, sempre in stazioni abbandonate. Il cartello diceva: SI PREGA DI NON SPUTARE PER TERRA e raccontammo a Marcelo che quell’avviso lo avevamo visto, per esempio, su un altro dei bei treni che attraversavano il nord dell’Argentina, un « treno delle nuvole » che partiva da Salta e risaliva lentamente la Cordigliera fino alla frontiera con la Bolivia, a La Quiaca. La nostra conversazione fu interrotta dall’inconfondibile fischio di un treno e tornando nell’officina vedemmo l’imponente Maffei 350 che innalzava una densa colonna di fumo e muoveva le bielle, facendo girare le ruote e trainando due carrozze passeggeri. Lentamente la locomotiva uscì dall’edificio e uno dei vecchi azionò la leva dello scambio perché il treno imboccasse i binari della stazione. « Eccolo, ragazzi. Il vecchio Patagonia Express. Volete farci un giro? » disse uno dei ferrovieri. Ci guardammo a vicenda, guardammo anche il treno che sbuffava per la voglia di partire verso la steppa e stringemmo forte la mano a quegli uomini che esibivano l’orgoglio più sano del mondo, quello del lavoro ben fatto, quello di essere parte di un insieme indispensabile: l’orgoglio di classe, semplicemente. « I gringos sono andati verso nord, perciò noi andremo a sud » disse il macchinista. Allora il mio socio ebbe l’idea più brillante. « E se avvisassimo la gente del paese che c’è il treno? » « Fantastico, ragazzi! » esclamò il capofficina, e Toñito ricevette l’ordine di correre dagli abitanti di 117

El Maitén a dire che due ore dopo sarebbe partito il treno per Esquel, gratis. Ed esattamente due ore dopo, con perfetta puntualità, la locomotiva mandò sbuffi di vapore che bagnarono di nebbia le banchine, il fochista cominciò a buttare palate di carbone nella caldaia e noi ci accomodammo sulle due carrozze in mezzo a una cinquantina di persone felici di poter nuovamente contare sul loro unico mezzo di trasporto. Toñito iniziò a suonare un’armonica vicino a una signora che andava all’ospedale di Esquel, Marcelo ci presentò una bella ragazza con una fascia su cui si leggeva « Miss Trochita 1995 », l’ultima reginetta di bellezza della grande famiglia dei ferrovieri della Patagonia, un vecchio professore con un paio di occhiali spessi che gli ingrandivano le pupille annunciò che avrebbe recitato una poesia e i suoi versi cantarono la pienezza di un viaggio verso la speranza. Poi una chitarra fu la migliore compagnia per navigare lentamente nella steppa. Quel viaggio fu una festa. Per il mio socio e per me, quel viaggio fu il più bello della nostra vita, perché era nato dalla determinazione di un gruppo di uomini che, infischiandosene delle ovvie rappresaglie che avrebbero subito, avevano deciso che due viaggiatori venuti da molto lontano dovevano essere testimoni del loro amore per il lavoro. Era limpida l’aria della steppa, erano allegri i volti affacciati ai finestrini delle carrozze, era compatta la colonna di fumo che usciva dalla locomotiva, era chiaro e onnipresente il fischio che annunciava il pas118

saggio del treno, era dolce il vigore delle bielle che con tutta la forza dell’acciaio spingevano le ruote, e lo sferragliare del convoglio invitava a bere il mate offerto dal passeggero accanto mentre le conversazioni passavano in rassegna tutte le cose della vita. Fu un viaggio allegro, molto allegro, perché fu l’Ultimo Viaggio del Patagonia Express.

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Il Folletto

Arrivammo a El Bolsón, un posto alla Tolkien nel cuore della Patagonia, con due ben ponderate intenzioni: il mio socio voleva assaggiare le famose fragole del luogo e io desideravo ardentemente una vasca da bagno piena di acqua calda per togliermi di dosso la polvere accumulata in varie settimane di viaggio. El Bolsón offre l’aria trasparente della Contea e mi domando se Tolkien non l’avesse visitato prima di scrivere Il signore degli anelli. Il paese si trova al centro di una valle molto fertile e le sue strade gli conferiscono un’atmosfera da villaggio di pionieri, ma di pionieri che si vestono come hippy anni Sessanta e che assicurano con la massima naturalezza di avere frequenti contatti con fate, elfi e folletti. Stavamo camminando verso la Plaza de Armas – il mio socio pronto a fotografare il primo individuo con gli orecchi a punta che avessimo incontrato – quando all’improvviso sentii una mano molto piccola tirarmi i pantaloni. Pensai a un bambino, ma voltandomi – il mio socio fece come me – vidi un lillipuziano interamente vestito di rosso con un ricamo che diceva IL FOLLETTO su un berretto altrettanto rosso. Una folta barba bianca gli copriva quasi tutta la faccia, e le rughe intorno agli occhi stanchi tradivano 120

una vecchiaia ribadita dalle vene e dalle macchie sul dorso delle mani. L’omino vestito di rosso che ci arrivava appena alle ginocchia blaterava in una lingua incomprensibile e, visto che non lo capivamo, ci spiegò a cenni che voleva da fumare. Gesticolando, agitava due orecchie appuntite e un naso lungo e assai affilato. Gli offrii una sigaretta, lui prima di portarsela alla bocca salì sul davanzale di una vetrina e, di nuovo a cenni, mi chiese da accendere. Gli tesi l’accendino, lui aspirò e subito fu preso da un attacco di tosse che lo costrinse a scendere di nuovo a terra. Mi guardò arrabbiato, buttò via la sigaretta, mormorò qualcosa di incomprensibile che però aveva tutta l’aria di un insulto, sia pure soffocato, e si allontanò senza smettere di tossire. A quanto pare i folletti e le sigarette di tabacco nero non andavano d’accordo. « E quello cosa diavolo era? » mormorò il mio socio. A breve distanza c’era un bar con dei tavoli sul marciapiede, ci sedemmo e ordinammo due birre. In silenzio assaporammo la stupenda birra di El Bolsón e quando una simpatica cameriera si avvicinò a domandare se desideravamo altro, le raccontai quello che avevo visto. « Sì, è Coquito, il Folletto » rispose lei. « Stiamo parlando dello stesso nano vestito di rosso? » insistetti. La cameriera ci tenne una piccola conferenza sull’arte di distinguere un nano da un folletto, sottolineando i particolari antropomorfici dei nani, di cui 121

Coquito in quanto folletto era completamente sprovvisto, e poi concluse che discuterne era come cercare il pelo nell’uovo. « Ma si suppone che i folletti stiano nei boschi » ribattei. « Certo, da queste parti i boschi sono pieni di folletti, ma a Coquito piace bere qualche bicchierino e così vive in mezzo a noi. » Ci fermammo tre giorni a El Bolsón senza lasciarci convincere dai benefici del vegetarianismo, pernottammo in casa di una maestra, ci rimettemmo in forze e nel frattempo cercai di scoprire qualcos’altro sullo strano personaggio che incontravamo spesso nei bar, alla fiera dell’artigianato o al posto telefonico pubblico, dove andammo per parlare qualche minuto con le nostre famiglie. Era ovunque. La sua statura minima spiccava, anche se può sembrare un controsenso, e la gente gli offriva volentieri un mate o un bicchierino. « Per noi è una specie di talismano. Se porti fortuna o no è da vedere » ci disse un venditore al mercato. « Gli piacciono da morire il vino e la birra. Non so se gli altri folletti alzino tanto il gomito, ma il nostro Coquito è una spugna » ci spiegò la farmacista del paese. Tutti parlavano di lui con simpatia e per quanto insistessimo a domandare chi era, da dove veniva, la sua età, ricevemmo solo risposte evasive. Era un folletto semialcolizzato, viveva lì e basta. El Bolsón è in una valle fertile di una bellezza impressionante e si presume che sia abitato da europei e 123

dai loro discendenti fin dalla fine dell’Ottocento. Stabilire se era una valle che per qualche ragione fu ignorata dai mapuche o se questi vennero espulsi dopo battaglie che un giorno saranno studiate è compito degli storici; vero è che non esistono dati sicuri sulla sua fondazione come villaggio, enclave di coloni o avamposto, ma è più o meno assodato che, quando nel 1902 fu stabilito il confine tra Argentina e Cile, i suoi abitanti continuarono a sentirsi lontanissimi da tutto e abbandonati al loro destino. Disgraziatamente il mondo australe è stato meta di molte canaglie e pazzi in cerca di una rapida fortuna. Basti citare Julius Popper, un rumeno naturalizzato argentino che, dopo aver ottenuto un finanziamento dal governo per un impianto di sfruttamento aurifero nella Terra del Fuoco, armò un miniesercito di mercenari croati vestiti con uniformi da zuavi e, nel settembre del 1886, prese possesso della Terra del Fuoco in nome della regina Carmen Sylva di Romania. Lo scherzo non piacque al governo argentino, che però si vide nell’impossibilità di reagire perché Popper si era stabilito nella parte cilena della Terra del Fuoco. Pare che avesse inventato un congegno abbastanza efficace per lavare l’oro, ma quello che sappiamo con certezza è che l’oro raccolto venne utilizzato per coniare monete con la sua effigie, oggi molto apprezzate dai numismatici; stampò anche francobolli che non servirono mai per spedire lettera alcuna, e fu un miserabile assassino, sterminatore dell’etnia ona. A El Bolsón arrivò anche un altro pazzo, ma di tutt’altro stampo: nel 1912 un certo Otto Tip, un te124

desco che aveva cercato senza successo di coltivare il luppolo nel sud del Cile, varcò la frontiera, si stabilì in quella fertile valle e l’anno successivo cominciò a produrre birra per la felicità dei primi abitanti del luogo. Secondo la leggenda, quando la spumeggiante bevanda era pronta, il tedesco issava una bandiera bianca e invitava tutti a bere senza altri limiti che l’allegria. Durante una di queste baldorie a base di birra, convinse gli abitanti della necessità di separarsi dall’Argentina e diventare una repubblica indipendente. Otto Tip fu così il primo presidente della Repubblica autonoma di El Bolsón, che durò tre mesi e si dissolse, con la stessa naturalezza della schiuma, prima dell’arrivo delle truppe inviate dal governo di Buenos Aires. Ma Coquito, il Folletto, era lì in carne e ossa. Non si trattava di un’allucinazione provocata dalle molte birre che il mio socio e io ci scolammo. La seconda sera a El Bolsón la dedicammo a far fuori due gigantesche bistecche accompagnate dalle meravigliose verdure del posto e, all’improvviso, mentre ordinavamo un’altra birra, il Folletto si materializzò al nostro tavolo. Ci osservava con i suoi occhietti minuscoli, muovendo le orecchie appuntite e il naso affilato. « Hai fame? Vuoi mangiare con noi? » domandò il mio socio. Lui rispose nella solita lingua incomprensibile, ma stavolta afferrammo tre parole: Coquito, pesos e goccetto. « Così ti chiami Coquito e vuoi dei pesos per un 125

goccetto. Mangia con noi, Coquito » lo invitò il mio socio. Il Folletto accettò, posò il bastone e si arrampicò su una sedia. Era nostra intenzione offrirgli una sugosa bistecca come quelle che avevamo noi nel piatto, ma il padrone del locale conosceva il Folletto e i limiti digestivi della sua età, per cui gli servì un gran piatto di minestra che il minuscolo omino attaccò a mangiare con entusiasmo. Di cosa si parla con un folletto? Gli offrimmo una birra e fra una cucchiaiata di minestra e l’altra lui mormorò la parola vino, quindi ordinammo una bottiglia di malbec e brindammo con lui. Il vino lo rese loquace e anche se era difficile capire cosa diceva, quando arrivammo al dessert ci aveva raccontato più o meno questo: molti anni prima, così tanti che non ricordava più con esattezza quanti, era uno dei numerosi folletti che abitavano a Borgo Folletti, villaggio magico e segreto nascosto tra le selve alle pendici della Cordigliera, vicino a Epuyén. Là viveva felice facendo quello che fanno i folletti, e cioè scorrazzare per i boschi e raccogliere ghiande e fragoline, rispettando rigorosamente il codice dei folletti che proibiva in modo tassativo di farsi vedere e ancor di più di avere qualsiasi contatto con gli umani. Ma un giorno, ci raccontò mentre stappavamo la seconda bottiglia di vino, si ritrovò faccia a faccia con una bella ragazza che si chiamava Tamara Díaz e si innamorò come solo un folletto può fare. Violando il codice si mise a parlare con lei, la ragazza gli disse 126

che lo trovava simpatico, minuscolo ma simpatico, e decisero di rivedersi in quello stesso punto del bosco. A quanto pare, un altro folletto fece la spia e fu subito convocata un’assemblea di folletti, nel corso della quale si decise di punirlo. Gli tolsero i poteri da folletto, lo fecero crescere fino a raggiungere la statura di un bambino di cinque anni, lo accompagnarono ai margini del bosco e là, con delle formule magiche, gli fecero dimenticare la strada per Borgo Folletti. « In altre parole, ti hanno mandato in esilio per amore » commentai. « Ancora vino » rispose il Folletto. Bevve altri due o tre bicchieri e, di colpo, non era più lì con noi. Un vero peccato perché si perse delle meravigliose crêpes al dulce de leche. Quando stavamo per chiedere il conto, si avvicinò il padrone con una bottiglia di liquore alle erbe selvatiche. « Volete sapere la verità? » domandò mentre riempiva i bicchieri. Secondo il padrone, un certo Toribio Bermúdez l’aveva trovato per terra all’entrata del paese, nudo e mezzo morto di freddo. Erano ormai passati una ventina di anni, nessuno capiva l’astruso idioma dell’omino, finché a un venditore ambulante di aghi e cucirini, un oriundo di Trevelin, era sembrato di riconoscere delle mezze parole in gaelico, lingua che l’uomo parlucchiava, tanto che fu autorizzato a fare da interprete. L’unica cosa che riuscirono a cavargli fu che era un folletto e che chiedeva con insistenza della bella Tamara. Il padrone, uno di Mendoza, non credeva nei fol128

letti e ricordava che pochissimo tempo prima della comparsa dell’omino da El Bolsón era passato un circo itinerante, la cui più grande attrazione erano dei nani irlandesi mascherati da folletti. « Lei sa quanto alzano il gomito gli irlandesi? Io credo che Coquito sia uno di quei nani che quando si ubriacavano facevano un gran bordello. Sarà caduto dal camion mentre se ne andavano o lo avranno buttato fuori gli altri nani » disse con enfasi. « Può darsi, ma ha le orecchie a punta e un naso da folletto » ribatté il mio socio. « Fratello, qui tutti abbiamo le orecchie strane perché d’inverno i geloni sono una cosa seria. E il naso, be’, Coquito frequenta tutta la gente che passa da El Bolsón, vengono molti rasta, hippy, fricchettoni di ogni genere, e siccome Coquito è simpatico gli danno una canna di marijuana, una pista di neve, delle anfetamine, e ha il naso ridotto così per via di tutto quello che si mette in corpo. » Un mattino luminoso ci preparammo a partire da El Bolsón per continuare il nostro viaggio verso il Sud del Mondo. Prima però decidemmo di bere un ultimo caffè in paese e fu allora che si avvicinò a noi un uomo cerimonioso: sapevamo che era uno di quei poeti che vendevano i loro versi alla fiera dell’artigianato. « Vi hanno mentito, ragazzi » disse sedendosi al nostro tavolo. « Può darsi, ma su cosa? » indagò il mio socio. « Su Coquito. Come fa a essere irlandese Coquito? È argentino, e quello che vi dirò è confidenziale, 129

ragazzi. Coquito è arrivato a El Bolsón nel 1954 in veste di delegato personale e plenipotenziario di Juan Domingo Perón e della Fondazione Evita Perón. Venne qui per aiutare la gente in tutti i modi possibili. Fu accolto con la banda e scese all’Hotel Piltriquitrón, il più lussuoso della Patagonia. Si chiamava Omar Villalba e piccoletto com’era aveva una grande autorità, i gendarmi gli rendevano omaggio e la gente cominciò a volergli bene perché andava di qua e di là a risolvere problemi. Andava a El Manso e regalava un paio di cucine, andava a Puelo e distribuiva sacchi di zucchero, andava a Mallín e donava una lavagna alla scuola. Comprò decine di ponchos ai mapuche e li consegnò alla gente più povera dicendo che i cappotti erano per i dottori e i ponchos per i lavoratori. Si fece amare da tutti, finché un giorno il comandante della gendarmeria lo arrestò sostenendo che era un impostore, che il vero Omar Villalba, anche lui molto basso, era rimasto a Bariloche nell’offensiva condizione di pegno vivente, finché la delegazione peronista non aveva pagato una settimana di baldorie nel bordello di una svizzera. Così Coquito venne arrestato e malmenato, e sapete cosa disse al comandante? Gli disse: ma guarda un po’ come va il mondo, fino a qualche giorno fa lei mi puliva le scarpe e ora io devo leccarle le suole. Lo pestarono bene, Coquito, e lo ridussero così, con la fissa di essere un folletto. » « Quindi non si chiamava né si chiama Omar Villalba » dissi al poeta. « E allora? È un brav’uomo, Coquito. » 130

Ci congedammo dal poeta perché sentivamo il richiamo della strada. Uscendo dal paese vedemmo il Folletto che ci salutava con la mano. Passarono gli anni e un giorno, a Gijón, il nostro amico Lucas Chiappe ci raccontò che Coquito era scomparso. Viveva in una minuscola casetta sulla riva del fiume Quemquemtreu, dove intagliava piccoli folletti di legno che vendeva ai turisti. Coquito mancò per vari giorni ai suoi appuntamenti, a El Bolsón, e dei vicini andarono a vedere cosa gli era successo, ma l’unica cosa che trovarono fu il suo bastone. Non si è mai saputo il suo nome, né la sua età, né da dove venisse, né dove fosse andato, perché è questo il destino dei folletti.

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Gauchos della Patagonia

Quella mattina partimmo presto da Cholila, dopo aver consegnato alla macelleria le chiavi dell’albergo di cui eravamo stati gli unici ospiti, e ci mettemmo in viaggio ben riforniti di yerba mate e acqua calda, nonché di un fantastico salamino che ci aveva regalato il padrone dell’hotel. Io stavo guarendo da una tosse canina che mi aveva fatto stare abbastanza male per giorni, tossivo fino ad asfissiare e cercavo sollievo nell’unica medicina che mi offrivano gli spacci della steppa: lo sciroppo di eucalipto. Per fortuna a Cholila trovai un buon espettorante e degli antibiotici che mi tolsero di dosso il malanno. « Dove andiamo, signor Eucalipto? » domandò il mio socio seduto al volante. « A sud, socio, sempre a sud » risposi. La steppa patagonica è un invito al silenzio delle voci umane, perché la possente voce del vento racconta di continuo da dove viene e, carica di odori, dice tutto quello che ha visto. Così, in silenzio, percorremmo un centinaio di chilometri sulla strada di sassi, incrociammo un paio di volte dei veicoli che arrivavano in direzione opposta e rispettammo il rituale di ridurre la velocità e appoggiare i palmi delle mani sul parabrezza nel caso schizzasse qualche pietra al passaggio dell’altro mezzo. 133

Era quasi mezzogiorno quando ci fermammo e scendemmo dall’automobile per berci un mate seduti sul ciglio della strada. Allora vedemmo il cavaliere che si avvicinava di gran carriera nella steppa. Quando fu a una cinquantina di metri da noi, rallentò dal galoppo al trotto e poi mise al passo la sua splendida cavalcatura. Era vestito interamente di nero, con un fazzoletto rosso al collo, come per una festa, e quando con un gesto lo invitammo a prendere la zucca del mate scese di sella. Sulla sua schiena brillò il coltello d’argento infilato di traverso nella fascia che gli cingeva i fianchi. Era un gaucho giovane che beveva il mate guardandosi gli stivali e che dopo il terzo disse grazie, segno che era abbastanza, e riafferrò le briglie del cavallo. « Andate da don Pascual? » domandò. « Non sappiamo niente. Cosa c’è da don Pascual? » « Ma la marchiatura. Con questo cielo così bello e senza nuvole cos’altro volete che ci sia? Dovreste proprio andarci » disse prima di spronare il cavallo e allontanarsi al galoppo. Accendemmo il motore e seguimmo la nuvola di polvere lasciata dal gaucho, che si allungava parallela alla strada. Un paio di chilometri più avanti trovammo un cancello aperto e un altro gaucho in sella che ci faceva cenno di entrare. « È per di qui che si va da don Pascual? » « Sì, da quella parte, sempre dritto » rispose mentre chiudeva il cancello e si allontanava anche lui di gran carriera. 134

Arrivammo così in un piazzale circondato da una palizzata e con un paio di alberi dall’ombra accogliente. Vedemmo vari gauchos che spingevano dei vitelli in un recinto, mentre altri vicino agli alberi si dedicavano ad arrostire una fila di agnelli infilati su uno spiedo a croce e due vitelle aperte come libri. Il profumo della carne alla brace titillava le papille. Scendemmo dalla macchina e ci avvicinammo a un gruppo di gauchos, tutti molto eleganti, vestiti di nero e con un fazzoletto rosso al collo, che al centro del piazzale, con movimenti lenti, armoniosi, pieni di dignità, mostravano le prodezze di cui erano capaci con il lazo. Uno, partendo da un lieve movimento del polso, faceva roteare la corda di pelle intrecciata e un cerchio perfetto gli saliva sopra la testa, poi con piccoli gesti se lo calava giù intorno alle spalle, alla vita, fin quasi a toccare terra. Un altro creava con il lazo un anello rotondo, verticale, che attraversava più volte applaudito da tutti. Il mio socio e io stavamo contemplando ammirati questi gauchos quando fummo interrotti da un uomo di una certa età, molto robusto, con un basco abbassato sulle sopracciglia. « Conoscete le bestie che sono nel recinto? Si chiamano vitelle e presto diventeranno vacche. A certe persone sembrano brutte, ma bisogna saperle guardare. Dentro sono piene di bistecche, filetti, animelle, latte, formaggio, e fuori sono coperte di scarpe, cinture, giubbotti e persino portachiavi » disse tendendoci la mano. 137

« Don Pascual? » « In persona. Da dove venite, ragazzi? » Gli dicemmo la verità: eravamo due viaggiatori che volevano raccontare com’era la gente della Patagonia. Ci ascoltò con attenzione, e quando gli chiedemmo il permesso di scattare qualche foto, annuì e ci pregò di cominciare da un certo Guillermo. Subito dopo fece un fischio e dal recinto un uomo a cavallo rispose con un cenno del capo per chiedere cosa volesse. « Il piccoletto, fatelo venire qua » ordinò don Pascual. Si avvicinò un uomo a cavallo, con pantaloni dalla gamba ampia, per protezione, e un pesante giaccone di lana; il suo modo di muoversi rendeva difficile capire dove finisse il suo corpo e iniziasse quello della bestia. Erano un tutto sincronizzato fin nei più piccoli movimenti. Non vestiva con l’eleganza dei gauchos, che continuavano a stupire con la loro abilità al lazo, ma in vita mia non avevo mai visto niente di più simile a un centauro. Più tardi, scoprimmo che alla marchiatura degli animali venivano gauchos da tanti posti, che si trattava di un lavoro importante, che si faceva con allegria, e che erano presenti anche gli arrieros, uomini come Guillermo che conducevano fin lì da soli le mandrie di bestiame dai pascoli invernali alle falde della Cordigliera. « Eccomi, don Pascual » salutò l’uomo. « Visto che sei il più bello di tutti, ora ti fanno una foto. » 138

« Su o giù? » chiese. Il mio socio andò a stringergli la mano e spiegò che gli avrebbe scattato una foto in sella, ma che non s’innervosisse perché la prima era di prova. Mise a fuoco la Polaroid e, dopo il clic dell’otturatore, uscì la lingua bianca senza immagini. Don Pascual e vari gauchos si avvicinarono a guardare e accolsero con esclamazioni ilari la comparsa delle macchie di luce, d’ombra, finché l’immagine non apparve perfettamente nitida. « Sei tu, Guillermo, sei tu! » esclamò uno. Il mio socio gli passò la fotografia e l’uomo a cavallo la guardò con stupore, poi sorrise, la osservò ancora, si palpò la barba, forse per controllare se era la stessa che vedeva, poi il berretto e i pantaloni da superbo cavaliere, e alla fine accarezzò la testa al suo cavallo. « Sono così? » domandò restituendo la foto. « È per lei, don Guillermo, la tenga » rispose il mio socio. L’uomo smontò, capimmo perché lo chiamavano piccoletto e cominciò a mostrare la polaroid a tutti fra esclamazioni di giubilo. Era la prima volta che vedeva la propria immagine in una foto e, come lui stesso continuava a ripetere, anche il Canelo, il suo cavallo, non l’avevano mai fotografato. Il mio socio si allontanò con la sua attrezzatura e io rimasi lì a guardare un lazo che volava e si infilava al collo di una vitella: il gaucho la trascinò al centro del piazzale, dove in tre la immobilizzarono a terra, su un fianco, mentre un quarto gaucho si avvicinava col 140

marchio di ferro incandescente e lo imprimeva sull’animale con una delicatezza dettata da anni di esperienza, segnando la pelle pelosa senza mai bruciare la carne. Vennero marchiati un centinaio di capi fra commenti soddisfatti, finché il suono di una campana non ci chiamò all’ombra degli alberi. Le mogli, le figlie, le fidanzate e le sorelle dei gauchos avevano apparecchiato un tavolo enorme, coperto di stuzzicanti insalate, di vassoi con centinaia di empanadas, e la mano energica della donna più anziana tagliava e distribuiva generose fette di pane appena sfornato. Anche noi prendemmo il pane e andammo con i gauchos da don Pascual, che con il suo coltello dall’impugnatura d’argento tagliava pezzi irresistibili di carne sugosa, profumata, e li posava sulle fette. C’è un prima e un dopo quando si mangia un asado in mezzo ai gauchos più veri, fra gente che affronta il lavoro non come una maledizione biblica, ma come il modo più dignitoso di stare al mondo. Mangiammo a quattro palmenti, dalla carne di manzo passammo a quella d’agnello, croccante e senza un filo di grasso, e alleggerendo il vino con un goccio di soda vedemmo gli animali aperti a croce scomparire piano, diventando scheletri abbrustoliti, per la felicità dei cani. Quando le donne annunciarono che stavano arrivando il caffè e le torte, spuntarono anche una fisarmonica e delle chitarre. Accettammo del mate, per mandar giù la carne, e poi decidemmo che era il mo143

mento di rimetterci in cammino. In Patagonia apprezzano chi arriva mostrando rispetto e anche chi se ne va al momento giusto, in segno dello stesso rispetto. L’ora della chitarra è anche quella delle confidenze, il momento di sfogare tra un gin e l’altro le proprie pene. Dopo esserci congedati con energiche strette di mano, con dei « buona fortuna, ragazzi » che traboccavano sincerità, ci allontanammo e, in macchina, scoprimmo che ci avevano preparato un « pensierino » per il viaggio: pane, fette di torta, un po’ di frutta e addirittura una bottiglia di vino. Quando arrivammo al cancello che ci riportava sulla strada principale scendemmo e gridammo a squarciagola: buona fortuna, fratelli! E poi proseguimmo verso sud. Sempre verso sud.

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Il cinema della fine del mondo

Un vento gelido spazza le strade di Punta Arenas e agita le acque color acciaio dello Stretto di Magellano. Siamo a metà marzo e gli stormi di ottarde che abbandonano la Terra del Fuoco ci dicono che la breve estate australe è terminata. Ben presto le giornate si accorceranno, la Patagonia diventerà la patria del freddo, della neve, di notti lunghissime, e gli abitanti di tutti e due i lati dello Stretto si chiederanno: e adesso cosa diavolo facciamo? La stessa domanda se la posero più di novant’anni fa due pionieri della Terra del Fuoco: Antonio Radonic, un croato la cui idea di fortuna era trovare un posto tranquillo per vivere in pace, e José Böhr, un tedesco che aveva girato mezzo mondo, da Costantinopoli a Santiago, e poi si era stabilito nell’emisfero australe. I due arrivarono insieme in quello che allora era soltanto un gruppo di quattro o cinque case costruite davanti alla baia Inútil e parteciparono alla cerimonia che battezzava quel luogo perennemente sferzato dal vento con il promettente nome di Porvenir, avvenire. Suppongo che durante la loro prima notte invernale, quando il vento minacciava di portarsi via le lamiere che proteggevano i muri, e il mate amaro con « malizia », un goccetto di acquavite, era l’unico mo146

do efficace per tenersi caldi, gettassero un altro po’ di legna nel fuoco per poi chiedersi: e adesso cosa diavolo facciamo? E la risposta fu: apriamo una sala cinematografica. La prima sala cinematografica della Fine del Mondo. Antonio Radonic aveva ventun anni e José Böhr diciannove. « Il viaggio sarà agitato » ci avverte il pilota del Piper bianco come un cigno che ci attende nel campo di aviazione di Punta Arenas. Porvenir è quasi di fronte a Punta Arenas, ma sullo Stretto di Magellano, con venti che soffiano a centocinquanta chilometri l’ora, non si può volare in linea retta. Bisogna fare un lungo giro fino all’Atlantico e cercare uno dei passaggi che, una volta dall’altra parte, permettano di atterrare in caso di difficoltà. Ho ripetuto più di una volta che i piloti della Patagonia sono i migliori del mondo. In qualche modo, anche se non lo dicono, si sentono eredi di Günter Plüschow, un berlinese arrivato a Punta Arenas nel 1929, come capitano di una piccola goletta chiamata Feuerland, Terra del Fuoco, con un equipaggio di quattro uomini e un cane, Schnauf, dopo una traversata intrapresa due anni prima a Büssum, sul Mare del Nord. Oltre ai cinque dell’equipaggio e al cane, a bordo della Feuerland c’era anche il Condor d’Argento, un idrovolante biposto Heinkel che fu il primo apparecchio a solcare i cieli australi. Günter Plüschow s’innamorò del cielo della Fine del Mondo e tracciò le prime rotte aeree, abbozzan147

do una guida che oggi i piloti tengono ancora in grande considerazione e rispetto. Un giorno del 1931 decollò alla volta del ghiacciaio Perito Moreno e non fece mai più ritorno. « Bene, andiamo » dice il pilota e l’aeroplano si mette a correre sulla pista. Dopo pochi minuti stiamo volando sopra una colonia di pinguini impassibili, che ci osservano con sprezzante disinteresse da aristocratici. Quando era ragazzo, José Böhr visitò Buenos Aires e fu sedotto, conquistato o almeno convinto dalla più grande invenzione di tutti i tempi: il cinema. Vide ogni film che poté, molti realizzati dai primi pionieri dell’arte cinematografica, ne assorbì la tecnica e, mettendo mano ai risparmi della famiglia, ordinò una cinepresa in Francia, una Pathé, la numero 1220 per essere esatti. Con quella cinepresa arrivò a Punta Arenas, insegnò a Radonic tutto quello che sapeva e, nel 1916, filmò con l’amico un cortometraggio di otto minuti intitolato Matrimonio yamaná, che mostrava la cerimonia nuziale di due indios di un’etnia australe oggi estinta. Con quel film, unica testimonianza esistente sugli yamaná, nacque il cinema documentaristico cileno. Böhr, Radonic e gli yamaná protagonisti dovettero aspettare un anno, finché un giorno del 1917 una nave battente bandiera francese attraccò a Punta Arenas per consegnare il prezioso carico: la pizza con la pellicola sviluppata e un proiettore. Matrimonio yamaná fu presentato davanti a un pubblico attonito di 148

emigranti, gauchos e indigeni, in uno spaccio di Punta Arenas strapieno di gente. Tuttavia, mentre la sua prima esperienza come regista veniva sviluppata in un laboratorio parigino, José Böhr girava già la sua seconda opera, stavolta un film. Come scenario bastò il pugno di case che c’era a Porvenir, mentre la recitazione toccò a Radonic, oltre che ad alcuni vicini non molto convinti di dove si andavano a cacciare. Nacque così il primo film realizzato in Cile. Un biglietto della lotteria narra le divertenti peripezie di un uomo che, dopo aver scoperto sul giornale di aver vinto alla lotteria, va a riscuotere il premio, ma il vento crudele della realtà gli strappa di mano il biglietto. È dolce l’atterraggio nella Terra del Fuoco, e dopo aver sbrigato la formalità di avvisare le autorità aeronautiche del nostro arrivo saliamo sull’unico taxi di Porvenir per dirigerci alla prima sala cinematografica della Patagonia e della Terra del Fuoco. Porvenir ha strade parallele orientate da est a ovest e altre trasversali che finiscono davanti alle acque della baia Inútil. La maggior parte delle costruzioni risalgono all’epoca della fondazione. Sono state costruite con il legname dei boschi, un tempo ricchi, che coprivano gran parte della regione e che poi furono rasi al suolo in nome di un progresso rappresentato dagli allevatori, le cui vacche e pecore perirono in fretta a quelle temperature polari. Per ripararsi dal vento perenne capace di insinuarsi nella cruna di un ago, gli abitanti proteggevano le loro 150

case rivestendole di lamiere. Proprio in una di queste abitazioni veniamo accolti dalla signora Morrison, che malgrado parli lo spagnolo lento della gente del Sud continua a considerarsi scozzese come i suoi genitori arrivati alla fine dell’Ottocento, e don Tomás Radonic, figlio di Antonio, il socio e compagno di avventure di José Böhr. « Scriva che mio padre si chiamava Antonio Radonic Scarpa, detesto che ignorino il cognome di mia nonna » puntualizza quest’ultimo. Dopo le presentazioni, ci invitano ad accomodarci davanti al fuoco e cala un imbarazzante silenzio che nessuno osa interrompere. La signora Morrison ci lancia occhiate diffidenti e don Tomás ci studia cullandosi sulla sua sedia a dondolo. Il fuoco scalda ma quella coppia ha qualcosa che gela l’atmosfera, tanto più che arriviamo da grandi dimostrazioni di calore umano a cui ormai ci siamo abituati. Due giorni prima di attraversare lo Stretto di Magellano, abbiamo visitato il posto dove Miguel Littin stava girando Terra del Fuoco, un film di cui ho scritto la sceneggiatura, e in una pausa delle riprese sono andato a fare una galoppata con un amico, l’attore cubano Jorge Perugorría, che nella storia interpreta l’avventuriero Julius Popper. La felicità di montare due cavalli stupendi, che si godevano come noi la libertà di quello spazio sconfinato, è stata bruscamente interrotta dai gesti energici di un uomo dall’altra parte della recinzione di filo spinato che separava la pianura dalla strada. All’inizio abbiamo pensato che ci salutasse e abbiamo risposto ai 152

saluti, ma l’uomo si è tolto il giubbotto e agitandolo ci ha ingiunto di avvicinarci, facendo allo stesso tempo cenno con la mano di avanzare lentamente, passo passo. Una volta davanti a lui, ci ha invitati a seguirlo, sempre lentamente, fino a un cancello vicino, che ha aperto per farci passare sulla strada, e là ci ha abbracciati con calore: « Che fortuna avete avuto, ragazzi, che fortuna! Avete rischiato la vita, cari miei, e non si fa ». Ogni volta che Jorge Perugorría e io raccontiamo di aver galoppato in un campo minato rabbrividiamo all’idea che potevamo finire dilaniati. Nel 1982 la dittatura militare argentina di Galtieri si era lanciata nell’avventura delle Isole Malvine, che era finita male e aveva comportato il definitivo indebolimento della potente casta parassitaria dei militari dopo anni e anni di dominio sulla storia del paese. L’esercito e la marina da guerra cileni, per ordine del dittatore Pinochet, avevano appoggiato in segreto l’Inghilterra, permettendole di usare le loro basi nella zona australe per i rifornimenti alle truppe e lo spionaggio, ed era stato allora che si era rinfocolato un vecchio conflitto territoriale sul confine tra le due nazioni. A Galtieri, dopo la sconfitta alle Malvine, conveniva proseguire e vincere un’altra guerra minore, e a Pinochet la prospettiva di un conflitto consentiva di restare al potere. Così, preparandosi alla guerra, Pinochet aveva ordinato di piazzare mine antiuomo su migliaia di chilometri di territorio australe e naturalmente, dopo, si erano dimenticati di toglierle. 153

Si erano limitati a lasciare dei cartelli quadrati di lamiera gialla con su un teschio nero come avvertimento, che nel giro di pochi mesi il vento della Patagonia aveva sbiadito. È su quelle mine che abbiamo galoppato Jorge Perugorría e io, e quando si è saputo non c’è stato uomo o donna di Punta Arenas che non ci abbia manifestato il suo affetto e la gioia di vedere che eravamo usciti vivi da quella pianura maledetta. L’unica cosa che avevano lasciato i militari cileni e argentini al loro passaggio era stata paura e diffidenza. Forse a quella gente non era ancora passato il cosiddetto « effetto militare ». « Bene. Cosa volete da noi? » dice finalmente la signora Morrison, e don Tomás si schiarisce la voce appoggiando la domanda della moglie. « Volevamo salutarvi e chiedervi se era possibile vedere la sala cinematografica. » Proprio in quel momento sopraggiunge il più giovane dei Radonic, un importante calciatore cileno che è in compagnia della sua bella fidanzata. « Scusate la diffidenza, ma ogni volta che qualcuno di Santiago arriva a Porvenir è per portare via qualcosa. Avevamo molti film e materiale girato da José Böhr e da mio nonno Antonio, e si sono portati via tutto. Ci hanno promesso di restaurare quel materiale e di inviarcene delle copie, ma non lo hanno mai fatto. Si sono persino offerti di rimettere in sesto il cinema e dichiararlo monumento nazionale. Solo promesse, che si è portato via il vento » ci spiega il giovane Radonic. 155

Le parole dello sportivo rompono il ghiaccio e la signora Morrison ci invita a prendere l’once, il five o’clock tea dei cileni. Dispone sul tavolo tazze, piatti e un’appetitosa torta ricoperta di cioccolato che presenta come scozzese, e mentre ci godiamo la sua ospitalità penso che, ovunque ci troviamo nel mondo australe, ascoltiamo ogni volta la stessa storia. La Patagonia e la Terra del Fuoco sono sempre state considerate territori da saccheggiare senza riguardo. In nome del bestiame e del progresso sono state sterminate intere etnie, razze, foreste e, quando non è rimasto più nemmeno un indio vivo, se ne sono cercati i resti, le mummie, per mandarle nei musei del mondo. Probabilmente molti film girati da José Böhr e Antonio Radonic sono oggi patrimonio di cineteche private, i cui proprietari non si sono mai chiesti come e in quali condizioni furono girati. Dopo che abbiamo assaporato la deliziosa torta scozzese, don Tomás serve dei bicchierini di acquavite che beviamo nel solito silenzio, senza nessuna diffidenza, perché in Patagonia e nella Terra del Fuoco il buon silenzio è parte della comunicazione. Il buon silenzio ha una sua particolare eloquenza e un messaggio inequivocabile. Capiamo che quel silenzio è un invito a visitare la sala cinematografica, e infatti la signora Morrison si alza in piedi, prende un mazzo di grosse chiavi e ci porta nella stanza del tesoro. L’ampio locale dalle pareti di legno, trasformato 156

in rimessa per i vecchi mobili di famiglia, fa ancora respirare l’aria di una sala cinematografica. Manca qualche fila di poltrone, ma il palco con la quinta su cui si montava lo schermo invita ad accomodarsi da qualche parte, ad aspettare il momento in cui si spengono le luci per dare inizio alla magia del cinema, per entrare nel mondo creato dall’ingegno umano nella sua impresa più felice e gloriosa: sconfiggere la tirannia del tempo. In quella sala unica, dove gli spettatori vedevano film fatti nel loro universo, nel loro habitat, nel loro ambiente quotidiano, che mostravano le loro abitudini, feste, costumi, lavori, gioie e dolori, interpretati da vicini, famigliari e conoscenti, la realtà si deve essere vista ricompensata dalla creazione artistica come raramente è accaduto nella storia dell’umanità. Si sa che José Böhr e Antonio Radonic girarono una cinquantina di film, alcuni come Fra gli ona o Gente dei canali sono citati in varie storie del cinema, ma nessuno sa che fine abbiano fatto quei gioielli precursori del cinema universale. Nella cabina il proiettore aspetta ancora, dritto e vigile, che due mani diligenti vi collochino la pellicola, la facciano passare dai misteriosi perni che regolano la tensione e i fotogrammi comincino a sfilare davanti al ciclopico arco voltaico che, con tutta la forza della luce, spingerà le immagini sullo schermo. Su un fianco del proiettore, sopra il mobile che ospitava le pizze, restano appena dei pezzetti di cel159

luloide, muti testimoni del saccheggio, e le prese della corrente vuote ricordano vene aperte in attesa che torni ogni film realizzato con la vecchia Pathé 1220. José Böhr e Antonio Radonic si separarono nel 1925. Il croato continuò a gestire la sala cinematografica e la tenne aperta fino al 1945. Böhr, sedotto dal cinema, andò prima a Buenos Aires, dove si distinse come prolifico compositore musicale, poi decise di tentare la sorte a Hollywood. Fra le tante canzoni che compose José Böhr ce n’è una che fece il giro del mondo e che fu cantata e ballata in numerose lingue. Ha un ritornello che dice: e aveva un neo sul volto che mi piaceva molto. Mezzo mondo è convinto che la proprietaria del neo sia una delle tante donne incontrate da Böhr negli Stati Uniti, eppure nel piccolo ma dignitoso museo regionale di Porvenir si può vedere la mummia di un’india yagán ritrovata sull’isola Tres Mogotes, vicinissimo a Capo Horn. Quella donna, che chiamarono Kela – bella, in lingua yagán – conserva ancora oggi la perfezione del suo volto e sulla guancia destra sfoggia un seducente e misterioso neo. Dopo esserci congedati dalla signora Morrison e dai Radonic, torniamo al campo di aviazione e riprendiamo l’aereo per Punta Arenas. Non c’è niente di paragonabile a un volo al tramonto sullo Stretto di Magellano. Il sole che si ritira verso il Pacifico incendia la pianura e riflette le sue fiamme sui ghiacciai. Tutto diventa una gigantesca brace e allo160

ra, come gli antichi navigatori che attraversavano lo Stretto su fragili imbarcazioni di pelli di foca, uno sussurra con rispetto: « Sì, è vero. Questa è la Terra del Fuoco ».

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Ringraziamenti

A Tony López Lamadrid, Luigi Brioschi, Anne Marié Métailié, Manuel Valente e Giorgios Miresiotis, che hanno sostenuto con entusiasmo questo viaggio da cui, forse, sarebbe uscito un libro. Al concessionario Renault di San Carlos de Bariloche, che nel 1996 ci consegnò un’automobile a una sola condizione, quella di restituirla « ben rodata ». A Lucas Chiappe e alla sua gente di Epuyén. A Pedro Cifuentes, « Pedro Patagonia » per gli amici. A Zulema e Jaime Mordzinski per la loro generosa ospitalità. Ai ferrovieri di El Maitén e in particolare a Marcelo, il nostro pilota vendicatore. A Viviana, Carmen, Jonas, Anael, Carlos, Paulina, Sebastián, Max, León y Jorge, che hanno ascoltato frammenti di queste storie. A José Manuel Fajardo, Karla Suárez, Antonio Sarabia, Lauren Mendinueta, Alfonso Mateo Sagasta, Emilia e Víctor Andrescu per l’infinita pazienza con cui hanno ascoltato, fra un asado e l’altro, questi racconti. A tutti quelli che ci hanno dato una mano nel corso del viaggio.

Indice

A proposito di questo libro Strada facendo… Anaya enea Il cuore della mia memoria Il Tano Racconti di ubriachi La signora dei miracoli Lo Sceriffo L’ultimo viaggio del Patagonia Express Il Folletto Gauchos della Patagonia Il cinema della fine del mondo

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