La questione italiana. Il Nord e il Sud dal 1860 a oggi [2 ed.] 8858105575, 9788858105573

Dopo 150 anni di unità nazionale, da più versanti vengono messe in discussione sia la validità che la prospettiva del pr

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La questione italiana. Il Nord e il Sud dal 1860 a oggi [2 ed.]
 8858105575, 9788858105573

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Storia e Società

Francesco Barbagallo

La questione italiana Il Nord e il Sud dal 1860 a oggi

Editori Laterza

© 2013, Gius. Laterza & Figli www.laterza.it Prima edizione febbraio 2013

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Anno 2013 2014 2015 2016 2017 2018

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-581-0557-3

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a Tullia e Marta a Laura e Luciano, l’avvenire

La questione italiana Il Nord e il Sud dal 1860 a oggi



Premessa L’Italia ha 150 anni. Gli anniversari fissano i differenti momenti della vita e spronano ai bilanci: per le persone e per le altre realtà. Anche per gli Stati e le nazioni. L’Italia festeggiò i suoi primi cent’anni nel segno di un vigoroso sviluppo e di un nascente benessere, a non molta distanza da una nefasta dittatura e da una tragica guerra. Era un tempo che appariva aperto alle prospettive e alle speranze dei giovani, si definivano progetti di più equilibrate relazioni sociali e più lungimiranti politiche pubbliche; contrastati, come sempre, da diffusi interessi interni ostili ai cambiamenti e da altrettanto tradizionali interferenze straniere1. Passati altri cinquant’anni il panorama è profondamente mutato. Il mondo è cambiato radicalmente, nei decenni a cavallo del nuovo millennio. Sono scomparsi Stati e ideologie, sono riapparse nuove potenze di antica storia e civiltà, un rinnovato e uniforme sistema economico ha ribaltato equilibri ch’erano sembrati a lungo immutabili tra i continenti. In un quadro generale di grandi sconvolgimenti, il pendolo che ha visto oscillare l’Italia, nel suo

1   Preziosa testimonianza del mutare delle sensibilità e dei giudizi sul fondamentale tema dell’unificazione italiana è il confronto tra i due primi anniversari (1911 e 1961) compiuto mezzo secolo fa da Rosario Romeo: «Durante quest’anno centenario la memoria è corsa spesso a quelle altre celebrazioni con le quali la nazione festeggiò, a metà del cammino che sta dietro a noi, il primo cinquantennio dell’Italia unita. Allora, partecipazione larga, consapevole del sentimento nazionale [...] Adesso, sotto la cornice grandiosa delle manifestazioni ufficiali, certo senso di distacco non solo delle masse ma anche delle classi colte e dirigenti, [...] una certa fatica nello sforzo volenterosamente compiuto di riallacciare la odierna realtà italiana a quel passato, che tuttavia rimane il solo centro intorno al quale si possa richiamare, come a segno di unione, tutto il paese»: R. Romeo, Il Risorgimento: realtà storica e tradizione morale (1961), in Id., L’Italia liberale: sviluppo e contraddizioni, Il Saggiatore, Milano 1987, p. 3.

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percorso plurimillenario, tra primato e decadenza si va orientando pericolosamente verso un’altra fase di inquietante declino. In un’epoca segnata dalla perdita di potere e di valore degli Stati nazionali, di fronte a una nuova e largamente incontrollata forma di espansione mondiale del capitale finanziario e a profondi cambiamenti nella divisione internazionale del lavoro e nei rapporti sociali di produzione, può essere utile riflettere in termini storici sui problemi fondamentali che hanno caratterizzato il percorso unitario del nostro paese. Nell’età dell’informazione il tempo acrono, senza passato e privo di futuro, non può favorire l’analisi diacronica. Infatti la storia ha perduto da tempo il ruolo di interprete privilegiato delle vicende del mondo, sostituita da approcci più pronti a fornire risposte immediate al costante flusso informativo prodotto dall’universo in rete2. Nell’interconnessione globale spuntano però nuclei di interessi locali, difese identitarie, nuove aggregazioni sociali, e addirittura movimenti politici, che spingono a cercare altre strade di orientamento in un tempo che ha comunque necessità di futuro3. Perché la storia non potrà finire, fin quando si continuerà a nascere. Il territorio italiano ha il privilegio di aver prodotto più civiltà e di aver formato una coscienza storica collettiva ininterrotta lungo un tragitto plurimillenario, che ha alternato fasi espansive anche eccezionali a periodi di profonda decadenza. Da una identità italica incompiuta dentro l’impero romano alla frattura del VI secolo tra Longobardi e Bizantini, sia a Nord che a Sud. E poi il grande sviluppo, nel Trecento e Quattrocento, del capitalismo come sistema mondiale nella sfera dell’alta finanza e l’eccezionale fioritura delle arti a Firenze, Genova, Venezia, Milano e Siena. Quindi il declino, dalla fine del Cinquecento, nel particolarismo 2   M. Castells, The Information Age: Economy, Society and Culture, 3 voll., Blackwell, Oxford 1996-98 (trad. it. L’età dell’informazione. Economia, società e cultura, Università Bocconi Editore, 3 voll., Milano 2003-2008). 3   M. Castells, Communication Power, Oxford University Press, Oxford-New York 2009 (trad. it. Comunicazione e potere, Università Bocconi Editore, Milano 2009); Id., Networks of Outrage and Hope. Social Movements in the Internet, Polity Press, Cambridge 2012 (trad. it. Reti di indignazione e speranza. Movimenti sociali nell’era di Internet, Egea, Milano 2012).

Premessa

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oligarchico e nel localismo conflittuale delle cento città e nell’oscuramento del principio di responsabilità individuale e collettivo, tra «dissimulazione onesta» e opportunismo trasformistico4. Per oltre un millennio l’idea d’Italia, da Dante e Petrarca, si esprimerà soprattutto ai livelli più alti della consapevolezza linguistico-letteraria e insieme alla luminosa espansione delle arti, da Giotto a Michelangelo, definirà una sorta di identità nazionale, di forza culturale unica e fonderà la peculiarità storica e morale dell’Italia nel mondo moderno. L’Umanesimo e il Rinascimento maturati sul suolo italiano costituiranno un essenziale fondamento sia per la presa di coscienza dell’italianità, sia per la costruzione della civiltà moderna nel mondo5. L’unificazione darà forma unitaria di Stato e di nazione a un paese che aveva avuto il nome Italia circa due millenni prima e non era più stato unito dalla discesa dei Longobardi nel 568. Per tredici secoli la storia d’Italia è storia di diverse formazioni politiche e statali, che si confrontano dentro un sistema in continua tensione tra Stati italiani e potenze straniere. Si può quindi parlare di un carattere sostanzialmente multinazionale e di una dimensione fortemente regionale della storia italiana preunitaria6. Dopo 150 anni di unità nazionale, da più versanti vengono messe in discussione – o addirittura negate – sia la validità che la prospettiva del processo unitario. Già la fine del sistema politico italiano nato con la Repubblica aveva prodotto, sul finire del 4   A. Giardina, L’Italia romana. Storie di un’identità incompiuta, Laterza, RomaBari 1997; J. Le Goff, L’Italia fuori d’Italia. L’Italia nello specchio del Medioevo, e F. Braudel, L’Italia fuori d’Italia. Due secoli e tre Italie, entrambi in Storia d’Italia, II, Dalla caduta dell’Impero romano al secolo XVIII, Einaudi, Torino 1974, pp. 1943 sgg., 2091 sgg.; C.M. Cipolla, Storia economica dell’Italia pre-industriale, il Mulino, Bologna 1974; G. Galasso, L’Italia come problema storiografico. Introduzione, in Storia d’Italia, Utet, Torino 1979; F. Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo (secoli XV-XVIII), vol. III, I tempi del mondo, Einaudi, Torino 1982, pp. 113 sgg.; G. Bollati, L’Italiano. Il carattere nazionale come storia e come invenzione, Einaudi, Torino 1983. 5   E. Garin, L’umanesimo italiano: filosofia e vita civile nel Rinascimento, Laterza, Bari 1952; N. Sapegno, Il Trecento, Ricciardi, Milano-Napoli 1963; A. Chastel, I centri del Rinascimento, Feltrinelli, Milano 1965; G. Mazzacurati, Misure del classicismo rinascimentale, Liguori, Napoli 1967; E. Gombrich, Immagini simboliche. Studi sull’arte nel Rinascimento, Einaudi, Torino 1978. 6   G. Galasso, Potere e istituzioni in Italia. Dalla caduta dell’Impero romano ad oggi, Einaudi, Torino 1974.

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Novecento, sentimenti e riflessioni che ponevano in dubbio la saldezza del vincolo nazionale in una crisi acuta delle istituzioni, della rappresentanza politica, delle relazioni sociali7. Passati quasi vent’anni, una radicale crisi economico-sociale e politico-culturale ha colpito l’intero mondo occidentale, su entrambe le sponde atlantiche; mentre i pesanti limiti politici dell’Unione Europea ne stanno logorando anche l’economia e la moneta. Questi elementi di dimensione sovranazionale aggravano le tensioni e le polemiche interne alle realtà nazionali solcate da storiche fratture e contrasti, che tendono a divaricarsi e acuirsi, minacciando esiti dissolventi. In un panorama tempestoso, solcato da processi disgreganti, può essere utile allontanarsi per un momento dall’informazione in tempo reale e dai più innovativi microspecialismi e tornare a riflettere sui tempi e le forme che caratterizzarono la formazione e l’evoluzione dello Stato nazionale italiano. Per provare a capire meglio, se possibile, qualche vecchia ragione dei problemi attuali. Poi, visto che la contrapposizione Nord-Sud pare l’unico punto capace di saldare una discorde concordia nazionale, si può tornare anche su tale questione, che molti davano per superata e risolta trent’anni fa. Ma non era così.

7   G.E. Rusconi, Se cessiamo di essere una nazione. Tra etnodemocrazie regionali e cittadinanza europea, il Mulino, Bologna 1993.

I L’imprevista unità L’Italia tra declino e risorgimento Nel 1859 nessuno immaginava che due anni dopo sarebbe nato il Regno d’Italia, unificando in larga misura il territorio nazionale. Come la gran parte degli eventi storici, niente era predeterminato, tutto poteva andare diversamente. Del resto nemmeno i quattro «padri della Patria» – Vittorio Emanuele II, Cavour, Garibaldi, Mazzini – riuscivano a immaginare quello che sarebbe successo; ognuno aveva un progetto diverso; e le differenze erano grandi. Gli artefici della soluzione liberal-moderata potevano anche contentarsi di un regno dell’Alta Italia, favorito dalla diplomazia. I fautori della prospettiva democratica puntavano di nuovo su Roma da sottrarre al papa e sull’insurrezione del Sud. Un tempo si pensava che la conoscenza del processo politico che aveva portato, tra il 1859 e il 1861, all’unità d’Italia fosse diventata parte integrante della coscienza collettiva italiana, continuamente tramandata e irrobustita nel passaggio delle generazioni. Come è capitato negli Stati Uniti con la Costituzione del 1787 o in Francia con la Rivoluzione del 1789. Ma in Italia non pare sia andata così. E non sembra che le ragioni principali siano da ricercare soltanto nei limiti sociali del processo risorgimentale, che vide un’assai scarsa partecipazione delle masse contadine e popolari. Nemmeno basta riferirsi alle pur incisive fratture che hanno caratterizzato il percorso unitario: da quella territoriale fra Nord e Sud a quelle politico-ideologiche tra fascismo e antifascismo e poi tra comunismo e anticomunismo.

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Per comprendere le ragioni delle relazioni difficili tra le diverse popolazioni del territorio italiano e gli apparati e le istituzioni politiche bisogna andare più indietro nel tempo. La prospettiva va estesa, per riflettere almeno sui tratti fondamentali dell’epoca storica – tra Medioevo ed età moderna – che vide il territorio italiano prima ascendere al culmine del suo splendore economico e artistico e subito dopo precipitare in un profondo declino, politico e morale, economico e sociale. Gli incessanti conflitti tra i poteri oligarchici delle cento città italiane e poi degli Stati regionali provocarono, fra Trecento e Quattrocento, quella che Braudel chiamò la guerra italiana dei cento anni1 e che Burckhardt aveva già definito una «guerra di tutti contro tutti», dentro il cuore della civiltà italiana del rinascimento. «La guerra tra città e città divenne dunque endemica in tutta l’Italia settentrionale e centrale. [...] Nella maggior parte dei casi la guerra era contro la città indipendente più vicina [...] Le città grandi divoravano le piccole [...] E queste vittime erano città potenti, che avevano conquistato i loro vicini prima di essere, a loro volta, conquistate»2. Dentro questa realtà conflittuale nascerà, nel Quattrocento, la teorizzazione di Leon Battista Alberti sulla centralità della famiglia e sull’arte di gestire la «masserizia», lontani da una politica e da una società entrambe ostili e pericolose. Seguirà, nel Cinquecento, l’analisi di Guicciardini sul particolarismo degli interessi e la propensione a occuparsi del proprio «particulare», caratteristica dei suoi compatrioti in «fuga dalla libertà»3. Intanto sul suolo italiano si combattevano eserciti stranieri chiamati da principi e papi italiani. E Machiavelli si sforzava di indicare soluzioni politiche nel fuoco delle lotte che componevano e scomponevano la «crisi italiana», prospettando nei Discorsi

1   F. Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo (secoli XV-XVIII), vol. I, Le strutture del quotidiano, Einaudi, Torino 1980, pp. 339 sgg. 2   J. Burckhardt, La civiltà del Rinascimento in Italia, Sansoni, Firenze 1984, pp. 4 sgg. 3   F. Chabod, Scritti sul Rinascimento, Einaudi, Torino 1967; M. Berengo, L’Europa delle città. Il volto della società urbana europea tra Medioevo ed Età moderna, Einaudi, Torino 1999; G.M. Barbuto, Il pensiero politico del Rinascimento. Realismo e utopia, Carocci, Roma 2008.

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«un’operazione di lunga lena, il processo formativo di un popolo fattosi Stato»4. Sul finire del Cinquecento si aprirà la lunga fase della «decadenza» italiana, che segnerà il declino della civiltà urbana e della vita politica e l’esaurimento delle classi dirigenti. Sarà il tempo della Controriforma, della «ragion di Stato» e della «dissimulazione onesta», tra cinismo e opportunismo e infine l’oscuramento del principio di responsabilità individuale e collettivo, tra pentimento e perdono5. Sul terreno economico, dove città e regioni italiane avevano primeggiato per secoli, il crollo non risparmiò manifatture e commerci. «Alla fine del Seicento –scriverà Carlo M. Cipolla – l’Italia importava su larga scala manufatti da Inghilterra, Francia e Olanda. Esportava ormai prevalentemente materie prime e semilavorati: olio, grano, vini, lana e soprattutto seta. [...] L’Italia aveva iniziato la sua carriera di Paese sottosviluppato d’Europa»6. Nel Settecento l’Italia riemergerà con fatica e si aprirà all’influenza delle più avanzate realtà europee sul terreno culturale, nella grande stagione illuministica diffusa sia al Nord che nel Sud del paese7. Sul piano politico-istituzionale, invece, cambiò poco nella sostanziale dipendenza dei numerosi Stati italiani: al predominio spagnolo si aggiunse e poi si sostituì quello austriaco. La rivoluzione francese e il giacobinismo italiano apriranno un’epoca nuova che, nell’Europa del primo Ottocento, vedrà l’affermazione delle idee-forza della libertà e della nazione, tra cultura romantica e aspirazioni rivoluzionarie8. 4   C. Vivanti, Introduzione, in N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio. Seguiti dalle «Considerazioni intorno ai Discorsi di Machiavelli» di Francesco Guicciardini, a cura di C. Vivanti, Einaudi, Torino 1983, p. xiv. 5   F. Venturi, L’Italia fuori d’Italia, in Storia d’Italia, III, Dal primo Settecento all’Unità, Einaudi, Torino 1973, pp. 987 sgg.; G. Borrelli, Ragion di Stato e Leviatano. Conservazione e scambio alle origini della modernità politica, il Mulino, Bologna 1993; A. Prosperi, Riforma cattolica, controriforma, disciplinamento sociale, in Storia dell’Italia religiosa, a cura di A. Vauchez e G. De Rosa, Laterza, Roma-Bari 1994, vol. II, pp. 20 sgg. 6   C.M. Cipolla, Storia economica dell’Europa pre-industriale, cit., pp. 298 sg. 7   F. Venturi, Illuministi italiani, t. III, Riformatori lombardi, piemontesi e toscani, Ricciardi, Milano-Napoli 1958; Id., Illuministi italiani, t. V, Illuministi napoletani, Ricciardi, Milano-Napoli 1962; Id., Settecento riformatore. Da Muratori a Beccaria, Einaudi, Torino 1969. 8   G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, I, Le origini del Risorgimento, Fel-

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Esaurito il ciclone napoleonico, che lasciò anche in Italia profondi segni di cambiamento strutturali e istituzionali, tornarono a vivacchiare gli antichi Stati, delle dimensioni più varie, accomunati dalla irrilevanza e dalla dipendenza da potenze straniere, nonché dalla crescente distanza dai paesi europei in cammino sulla strada veloce dell’espansione capitalistica e dello sviluppo civile. La gran parte dei ceti dominanti e delle masse popolari, allora contadine, non si poneva, negli antichi Stati italiani, problemi diversi da quelli tradizionali del potere e della sopravvivenza9. Erano, come sempre, ristrette le élites che partecipavano attivamente alle passioni dell’epoca e mettevano a rischio il quieto vivere e la soddisfatta gestione degli affari propri. Le passioni dell’epoca romantica, che sconvolgeranno con rivolte e rivoluzioni l’ordine conservatore fondato sull’alleanza fra il trono e l’altare, saranno la libertà e il liberalismo, la nazione e la sua indipendenza, le pulsioni verso l’eguaglianza e la democrazia10. Così cominciarono a diffondersi, anche sul territorio italiano, nuove idee e nuove scelte di vita che rappresentarono, in forme e con obiettivi diversi, una forte spinta per il cambiamento dei tradizionali equilibri consolidati negli antichi Stati. Il Mezzogiorno borbonico nel dibattito storiografico Nel Settecento la dinastia borbonica del nuovo regno autonomo del Sud aveva tentato la strada delle riforme, col sostegno di un avanzato ceto intellettuale e tecnico di formazione illuministica. Ma era stata bloccata dalla resistenza e dalla difesa dei secolari privilegi messe in campo dalla feudalità e dalla Chiesa, che trinelli, Milano 1956; S.J. Woolf, La storia politica e sociale, in Storia d’Italia, III, Dal primo Settecento all’Unità, Einaudi, Torino 1973; P. Villani, Italia napoleonica, Guida, Napoli 1978; A.M. Rao, Esuli. L’emigrazione politica italiana in Francia (1792-1802), Guida, Napoli 1992; A. Scirocco, L’Italia del Risorgimento, il Mulino, Bologna 1990. 9   G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, II, Dalla Restaurazione alla Rivoluzione nazionale, Feltrinelli, Milano 1958; M. Meriggi, Gli stati italiani prima dell’Unità. Una storia istituzionale; il Mulino, Bologna 2002. 10   R. Romeo, Cavour e il suo tempo, 3 voll., Laterza, Roma-Bari 1969-84; F. Della Peruta, Democrazia e socialismo nel Risorgimento, Einaudi, Torino 1975.

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possedevano la gran parte delle proprietà terriere e diffondevano antiquati valori e comportamenti nella poco articolata società meridionale. La rivoluzione francese e la tragica esperienza della repubblica napoletana del 1799 determinarono poi la frattura mai più colmata tra i Borbone e le élites politiche e sociali del regno11. Soltanto all’aprirsi del Decennio francese, nel 1806, fu abolito nel Mezzogiorno continentale il sistema feudale. Scomparvero i poteri giurisdizionali del baronaggio, ma la nobiltà mantenne la gran parte delle proprietà, nonché il potere e il prestigio sociale. I valori e i modelli feudali venivano acquisiti dalla borghesia agraria che comprava le terre soprattutto dall’aristocrazia, che a sua volta estendeva le sue proprietà con l’acquisto dei beni messi in vendita dallo Stato. La manomorta ecclesiastica era l’altra fonte, minore, dell’espansione terriera della borghesia che limitava però, per scarsa possibilità o propensione, l’investimento di capitali al fine dell’ammodernamento dei sistemi di produzione12. L’espansione dell’agricoltura, sostenuta dalla crescita della popolazione e dall’aumento dei prezzi, favoriva lo sviluppo delle colture intensive (olivo, vite, agrumi, mandorlo) nelle aree costiere della Puglia e della Campania, della Sicilia e della Calabria. Restava però immutato il più diffuso e tradizionale sistema di produzione: il latifondo cerealicolo-pastorale. La convenienza dei proprietari a conservare questo antico sistema contrastava con l’interesse delle altre parti della società meridionale a trovare strade più moderne ed efficaci nell’organizzazione produttiva e nei rapporti sociali. Questo conflitto appariva già chiaro, nel 1907, a un esperto geografo, confortato in seguito dal giudizio di un grande economista agrario: «la granicoltura estensiva resiste per ragioni demografiche e economiche soprattutto, che determinano il tornaconto a mantenerle; ma da questo all’asserire che l’imponga la natura ci 11   A.M. Rao, P. Villani, Napoli 1799-1815. Dalla repubblica alla monarchia amministrativa, Edizioni del sole, Napoli s.d. [ma 1995]; Istituto italiano per gli studi filosofici, Napoli 1799 fra storia e storiografia, a cura di A.M. Rao, Vivarium, Napoli 2002. 12   P. Villani, La vendita dei beni dello Stato nel Regno di Napoli (1806-1815), Banca Commerciale Italiana, Milano 1964; A. Lepre, Storia del Mezzogiorno d’Italia, vol. II, Dall’Antico Regime alla società borghese (1657-1860), Liguori, Napoli 1986, pp. 192 sgg.

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corre lo stesso abisso che c’è fra il tornaconto del latifondista stesso a mantenerla e quello della società a cercare di distruggerla»13. Sembra anche significativo che, al culmine della felice stagione di rinnovamento della storiografia meridionale avviata nel secondo dopoguerra, un identico giudizio circa l’arretratezza prevalente nella gran parte dell’agricoltura meridionale ottocentesca fosse condiviso da uno storico politico di orientamento liberale e di origine borghese-terriera, che non aveva alcun timore di usare una terminologia di stampo marxista, e da uno storico che intendeva andare oltre la storiografia etico-politica, verso nuovi orizzonti di ricerca economico-sociali, stimolati prima dall’influenza marxiana e poi dalle molteplici suggestioni delle «Annales». Dopo il 1806, scriveva Ruggero Moscati, «non c’è reale differenza tra nobiltà e grossa borghesia e le due classi tendono a fondersi. Il concetto di proprietà è quello borghese, affermatosi in modo netto col codice napoleonico, ma il sistema di produzione, i rapporti sociali nelle campagne rimangono arretrati e semifeudali; la compenetrazione tra le due classi appare naturale e risponde alla esigenza di una solidale difesa di interessi ormai comune»14. In un’epoca in cui era ancora l’agricoltura a dare l’impronta all’intera società e i contadini erano il 90% della popolazione in molte province meridionali, «la vera debolezza del Mezzogiorno – insisteva Pasquale Villani – era nell’arretratezza delle campagne, proprio in quel settore dove era invece la riserva di forze che avrebbe assicurato – col concorso di altre favorevoli circostanze – la rapida evoluzione della Lombardia»15. Un convergente giudizio era espresso anche da Rosario Romeo, per il quale tra Sette e Ottocento si assiste nel Mezzogiorno continentale a «un vasto tracollo della proprietà nobiliare, sostituita in larga misura da nuovi borghesi: ma questo processo non determina un sostanziale mutamento nei metodi di conduzione agricola. L’affittuario dei latifondi meridionali, ad agricoltura 13   C. Maranelli, Considerazioni geografiche sulla questione meridionale, Laterza, Bari 1947, p. 17. Cfr. poi M. Rossi-Doria, Struttura e problemi dell’agricoltura meridionale (1944) in Id., Riforma agraria e azione meridionalista, Edizioni agricole, Bologna 1956, p. 29. 14   R. Moscati, La fine del Regno di Napoli. Documenti borbonici del 1859-60, Le Monnier, Firenze 1960, p. 37. 15   P. Villani, Mezzogiorno tra riforme e rivoluzione, Laterza, Bari 1962, p. 74.

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estensiva e a pascolo, conserva una fisionomia di semplice intermediario; la produttività rimane a un livello bassissimo, ostacolata da condizioni naturali e dall’irrazionalità di secolari ordinamenti agrari»16. Più di recente questi giudizi saranno confermati nei punti essenziali da Guido Pescosolido, che insisterà su «l’influsso negativo delle sopravvivenze precapitalistiche ancora presenti nel regime della proprietà, la vocazione assenteista di molti proprietari latifondisti, poco propensi all’impiego delle loro rendite in investimenti produttivi, in definitiva, i caratteri costitutivi della borghesia meridionale, più incline all’esercizio delle professioni liberali e all’espletamento di funzioni burocratico-amministrative che non alle attività genuinamente imprenditoriali e produttive»17. Peraltro il consenso su fondamentali categorie di interpretazione della storia del Mezzogiorno d’Italia era sempre stato più ampio e convinto di quanto non apparisse immediatamente. E trovava spiegazione anche nella qualità del confronto e della polemica politica. Alla svolta degli anni Sessanta, appunto intorno al primo centenario dell’unità, era diffusa, tra i diversi schieramenti politici e culturali, la consapevolezza del positivo sviluppo realizzato dall’Italia in un solo quindicennio dalle precedenti catastrofi della dittatura fascista e della disfatta bellica. C’era anche una larga coscienza degli squilibri e dei forti contrasti che restavano una costante del paese e spingevano quindi a riflettere sui caratteri e sui problemi del processo di unificazione nazionale. Tra diverse interpretazioni del passato e differenti prospettive per il futuro, in un tempo ancora propizio per l’analisi storica e per i progetti politici, appariva evidente la persistenza dello squilibrio territoriale tra Nord e Sud, nonostante i grandi cambiamenti realizzati anche nel Mezzogiorno durante gli anni Cinquanta. In effetti la Nota aggiuntiva al bilancio dello Stato preparata nel 1962 da Ugo La Malfa e da Pasquale Saraceno per il governo politico dello sviluppo economico era il programma

16   R. Romeo, Strutture sociali e movimento nazionale (1968-69), in Id., L’Italia unita e la prima guerra mondiale, Laterza, Roma-Bari 1978, pp. 35 sg. 17   G. Pescosolido, L’economia e la vita materiale, in Storia d’Italia, 1, Le premesse dell’unità. Dalla fine del Settecento al 1861, a cura di G. Sabbatucci e V. Vidotto, Laterza, Roma-Bari 1994, pp. 39 sg.

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riformatore del centro-sinistra, che non trovava affatto insensibile l’opposizione comunista. Proprio la «questione meridionale», per la sua costante centralità da tutti allora riconosciuta nella storia dell’Italia unita, diventava il principale terreno di scontro politico ma anche di confronto culturale tra le forze che si riconoscevano nella politica governativa e quelle schierate con l’opposizione. Il dibattito storiografico sul revisionismo risorgimentale, anzitutto gramsciano, e sul modello italiano di sviluppo industriale ne sarebbe stato il momento più alto e significativo18. Anche sul piano metodologico, al di là delle accentuazioni polemiche, non erano affatto distanti e contrapposti gli orientamenti della ricerca sulla storia del Mezzogiorno e della Sicilia prima e dopo l’unità. I maggiori studiosi meridionali di storia politica, Rosario Romeo e Giuseppe Galasso, avevano già fornito prove robuste di grande apertura verso l’economia e le altre scienze sociali, anzitutto sul terreno della ricerca. Galasso poi, ch’era il più legato alla lezione crociana, aveva avanzato una critica radicale a un asse portante della storia etico-politica applicata al Mezzogiorno d’Italia. La centralità assegnata da Croce al ceto intellettuale nella sua Storia del Regno di Napoli non pareva corrispondere al ruolo effettivamente svolto sul piano storico da questa particolare classe. «E come pensare altrimenti di una tradizione politica e culturale che fino all’ultimo non riesce a farsi espressione di tutta la nazione, che per fare il bene del suo paese deve marciare contro di esso e che, vittoriosa sul piano della storia e della civiltà, deve confessare di essere stata più o meno regolarmente sconfitta sul piano del potere, del governo, della società, della vita di ogni giorno? Che cosa è questo ethos (per così dire) che non riesce a diventare kratos e che non ha mai raccolto intorno a sé, in modo stabile e organico, l’anima del paese? E come restringere ad esso la tradizione nazionale napoletana se proprio esso ha dovuto, in ultima analisi, dissolversi come nazione napoletana nel più vasto ambito 18   R. Romeo, Risorgimento e capitalismo, Laterza, Bari 1959; R. Villari (a cura di), Il Sud nella storia d’Italia. Antologia della questione meridionale, Laterza, Bari 1961; L. Cafagna (a cura di), Il Nord nella storia d’Italia, Laterza, Bari 1962; La formazione dell’Italia industriale, a cura di A. Caracciolo, Laterza, Bari 1963.

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della nazione italiana per vedere affermati prima e consolidati poi i valori etici e gli ideali politici ai quali si ispirava?»19. La storia crociana sancisce la frattura tra il ceto intellettuale e la realtà del Mezzogiorno, già definita da Vincenzo Cuoco con la metafora di una «nazione Napoletana [che] si potea considerare come divisa in due nazioni diverse per due secoli di tempo, e per due gradi di clima»20. Ma, a differenza di Cuoco che spiegava così il conflitto tra giacobini e sanfedisti e il fallimento della repubblica napoletana del 1799, Croce non riesce a tenere insieme tutta la storia del regno, ponendo al centro della sua ricostruzione il ceto intellettuale, che non rappresenterà mai l’intera nazione e non riuscirà quindi a dare una direzione egemonica alla sua storia. Di qui il forte rilievo critico di Galasso a Croce di avere trascurato non tanto l’analisi della realtà economico-sociale, come allora si sosteneva dai nuovi orientamenti stimolati dalla trasformazione del Mezzogiorno e da impulsi provenienti dalla storiografia francese e inglese21, ma «proprio la complessa, pluridimensionale e contraddittoria articolazione nazionale del popolo napoletano, la difficoltà obiettiva di stringere in un unico nesso le molte e discordi fila di una storia singolare». La singolarità consisteva appunto nella difficoltà storica del Mezzogiorno a realizzare una fisionomia nazionale unitaria, dotata di una struttura sociale al tempo stesso coesa e articolata. Anzi, concludeva Galasso, «il Mezzogiorno, lungi dal possedere una siffatta unità, si è fino ai tempi più recenti distinto per opposti caratteri di disgregazione sociale e di debolezza dello spirito pubblico»22. La categoria dell’arretratezza per definire le diverse componenti della società meridionale nell’Ottocento borbonico ottocentesco viene rilanciata, sul finire degli anni Settanta, da uno studioso inglese di storia economica, John Davis. La sua ricerca 19   G. Galasso, Considerazioni intorno alla storia del Mezzogiorno d’Italia, in Id., Mezzogiorno medievale e moderno, Einaudi, Torino 1965, pp. 26 sg. 20   V. Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli (1801), edizione critica a cura di A. De Francesco, Animi-Piero Lacaita Editore, Manduria-Bari-Roma 1998, p. 326. 21   P. Villani, Risultati della recente storiografia e problemi della storia del Regno di Napoli (1734-1860), in Id., Mezzogiorno tra riforme e rivoluzione cit., p. 4. 22   G. Galasso, Considerazioni intorno alla storia del Mezzogiorno d’Italia, cit., pp. 28 sg.

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individua nell’azione dei gruppi commerciali napoletani, per lo più stranieri, un ostacolo al processo di modernizzazione, tanto da fargli meritare la definizione di «imprenditori dell’arretratezza». I capitalisti napoletani si comportavano come i mercanti e gli appaltatori dell’ancien régime, piuttosto che alla maniera degli imprenditori dell’Europa in via di industrializzazione. L’imprenditore di stanza a Napoli non operava sul mercato, ma eseguiva lavori per conto dello Stato borbonico. Agiva come «uomo del re», nei modi propri dell’antico regime. Rappresentava interessi che si giovavano della persistenza della condizione di arretratezza del regno, era favorito grazie a rapporti prilegiati col potere della corte, che degradava fino ai camerieri del re e della regina, al tempo di Francesco I. «In effetti, erano proprio gli imprenditori e i capitalisti del Sud che, forse da soli, avevano il maggiore interesse nel campo economico, politico e sociale, a perpetuare le condizioni di arretratezza»23. Di lì a poco, in un saggio dedicato alla figura storica dell’imprenditore nel Mezzogiorno d’Italia, Galasso avrebbe espresso pieno consenso all’analisi del giovane storico britannico e al suo giudizio circa «la labilità estrema della classe economica napoletana». L’elemento principale per definire la società meridionale «resta a nostro avviso, l’arretratezza delle campagne meridionali e del loro sistema produttivo. Questo operava in un contesto economico e sociale caratterizzato, peraltro, in misura schiacciante proprio dalle sue arretrate componenti agrarie e rurali; e presentava, inoltre, da tempo ormai remoto una egualmente alta dipendenza da iniziative forestiere nei suoi settori extra-agricoli, così come era dipendente dal mercato internazionale per la sua produzione agricola»24. Intanto, sempre sul finire degli anni Settanta, si tracciava un primo bilancio degli studi innovativi condotti, nell’ultimo quindicennio, sulla storia delle campagne meridionali nell’età moderna e contemporanea per impulso soprattutto di Pasquale Villani, con importanti contributi di Giuseppe Galasso, Aurelio Lepre, Maurice Aymard, Franco De Felice e molti più giovani studiosi. Un 23   J.A. Davis, Società e imprenditori nel regno borbonico 1815-1860, Laterza, Roma-Bari 1979, p. 323. 24   G. Galasso, L’imprenditore, in Id., L’altra Europa. Per un’antropologia storica del Mezzogiorno d’Italia, Mondadori, Milano 1982, p. 203.

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convegno e la pubblicazione degli atti avrebbero fornito ricche indicazioni e consistenti risultati di ricerca sulle aziende agrarie meridionali, le trasformazioni del paesaggio e degli assetti colturali, le tecniche e la struttura della produzione, le condizioni di vita dei contadini. L’obiettivo principale, indicato dall’organizzatore e curatore dell’opera Angelo Massafra, era di analizzare «le risposte date alle sollecitazioni del mercato sia in un contesto indiscutibilmente feudale, sia – anzi soprattutto – nei decenni in cui, tra la fine del XVIII sec. e l’Unità, più rapido divenne il processo di transizione dall’antico regime ad una fase storica in cui la proprietà e l’uso della terra, la produzione e il mercato dei prodotti agricoli si sono organizzati sulla base di rapporti sempre più nettamente borghesi e capitalistici»25. A metà degli anni Ottanta si realizzava una iniziativa, sempre curata da Massafra, che sceglieva programmaticamente la categoria della «modernizzazione» per indagare specificamente il Mezzogiorno d’Italia tra la crisi dell’antico regime e l’unità. Questa volta non ci si limitava alle campagne, ma si allargava l’indagine alle manifatture e al commercio, alle istituzioni amministrative e alla stratificazione sociale, con particolare attenzione alle élites urbane. Il ponderoso volume sul Mezzogiorno preunitario, da cui era assente anche questa volta la Sicilia, si apriva con una dichiarazione programmatica del curatore. L’iniziativa era inserita «nel vivo di un processo di revisione storiografica», che intendeva andare oltre «una tendenza, che ha segnato profondamente gli studi sul Mezzogiorno fra età moderna e contemporanea, a fare dell’arretratezza non solo il tema di ricerca dominante, ma anche la categoria d’analisi principale». Non si poteva contestare «il giudizio complessivo di John Davis sull’incapacità dello Stato, dell’economia e della società meridionali di raccogliere e vincere la ‘sfida’ della rivoluzione industriale e commerciale che investì l’Europa in quei decenni». Ma si sollecitava, già nelle linee programmatiche del convegno, una nuova prospettiva di ricerca che attraverso un’analisi territo25   Problemi di storia delle campagne meridionali nell’età moderna e contemporanea, a cura di A. Massafra, Dedalo, Bari 1981, pp. 6 sg.

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rialmente differenziata riesaminasse «le vicende del Mezzogiorno nella prima metà del XIX sec. rilevandone non solo gli aspetti che denunziano ritardi ed insufficienze rispetto ad altre e più avanzate esperienze storiche coeve, ma anche gli elementi, non sporadici né sempre destinati a vita effimera, di modernizzazione dell’apparato produttivo, dell’organizzazione sociale, delle istituzioni, dei modi e degli strumenti di governo e di uso del territorio»26. Sarà quindi una iniziativa editoriale, il proseguimento della einaudiana Storia d’Italia in Le regioni dall’Unità a oggi, a favorire la realizzazione almeno parziale di questo programma innovativo di ricerca regionale, concentrato peraltro sul periodo avviato dal processo di unificazione nazionale, rispetto a una lunga tradizione di analisi differenziata delle realtà provinciali e regionali risalente alla grande stagione della cultura illuministica meridionale27. Anche la nuova rivista «Meridiana», nata nel 1987, si proponeva di innovare la conoscenza storica del Mezzogiorno, guardando più ai cambiamenti che alle persistenze, sulla scia dell’ottimismo che faceva ritenere a molti, negli anni Ottanta, finalmente risolta la questione meridionale, grazie all’espansione della piccola e media impresa lungo la direttrice adriatica, da Nord verso Sud, e a qualche illusione politica. L’importanza della politica per il risorgimento dell’Italia La diffusa crisi dello Stato-nazione nell’età della globalizzazione e l’acuita fragilità dello Stato nazionale italiano, sottoposto da alcuni decenni a proteste e tensioni secessioniste, con punte di nostalgie restauratrici sia religiose che politiche, inducono a riconsiderare il valore di penetranti giudizi storiografici, a lungo oscurati in seguito alle semplificazioni della retorica risorgimenti26   Il Mezzogiorno preunitario. Economia, società e istituzioni, a cura di A. Massafra, Dedalo, Bari 1988, pp. 5 sg., 21 sg. 27   G. Galasso, La filosofia in soccorso de’ governi. La cultura napoletana del Settecento, Guida, Napoli 1989; M.A. Visceglia, Regioni e storia regionale nel Mezzogiorno d’Italia: note per un profilo storiografico, in Dimenticare Croce? Studi e orientamenti di storia del Mezzogiorno, a cura di A. Musi, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1991, pp. 13 sgg.

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stica e alla dissoluzione dell’idea di patria e di nazione provocata dai miraggi imperialistici della dittatura fascista; nonché al prevalere nel secondo dopoguerra delle forze sociali e delle correnti ideali di matrice socialistica e cattolica, estranee o avverse alla tradizione risorgimentale. Il patriottismo e il sentimento nazionale, oltre che nei più avanzati ambienti liberali, trovarono in Mazzini l’interprete intransigente e costante della via rivoluzionaria per una Italia repubblicana e democratica, volta alla formazione di uno Stato fondato su uno stretto rapporto con la nazione e su un’ampia base popolare, in modo da preparare nuove forme di convivenza civile e politica28. In questa prospettiva non si può che condividere il giudizio espresso, quarant’anni fa, da Romeo, cui sembrava necessario «un ripensamento della storia risorgimentale che tenga ben fermo il valore del processo unitario come filo rosso di tutta la ricostruzione, ma che riesca nel tempo stesso a far propri tutti quei contenuti sociali e civili che la vecchia storiografia meramente politica e culturale lasciava, nella più parte dei casi, al di fuori del suo ambito»29. Sulla base delle nuove esperienze vissute in Italia e nel mondo, si possono ormai superare passate e comunque stimolanti polemiche, per convenire largamente sul fatto che non furono soprattutto economiche, ma etiche e politiche, le ragioni che fondarono il processo di unificazione nazionale. In Italia non ci fu nessuna unione doganale come lo Zollverein tedesco, né vi erano scambi economici significativi tra Nord e Sud prima dell’unità30. Quindi si può posporre l’analisi del divario economico territoriale al momento dell’unificazione, rispetto alla ricostruzione dei motivi ideali e culturali e dei processi politici che produssero l’imprevedibile esito dell’unità nazionale. Al cospetto delle opportunistiche insicurezze che negli ultimi decenni hanno favorito il successo di tanti equivoci «revisionismi», risultano ben più utili per la comprensione delle vicende 28   S. Mastellone, Mazzini e la Giovine Italia (1831-1834), Domus Mazziniana, Pisa 1960; F. Della Peruta, Mazzini e i rivoluzionari italiani. Il «partito d’azione». 1830-1845, Feltrinelli, Milano 1974. 29   R. Romeo, L’interpretazione del Risorgimento nella nuova storiografia (1970), in Id., L’Italia unita e la prima guerra mondiale cit., p. 22. 30   Pescosolido, L’economia e la vita materiale cit., pp. 12 sgg.

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che portarono al crollo del più grande Stato italiano preunitario, qual era il Regno delle Due Sicilie, i giudizi espressi, mezzo secolo fa, da due storici di solida tradizione liberale. Il Risorgimento, scriveva Nino Cortese, «fu essenzialmente opera della cultura, in quanto, più che a particolari strutture economiche, cui oggi da non pochi si è preso a fare riferimento, ad essa è da attribuire la formazione della coscienza nazionale e almeno l’impostazione del programma liberale»31. L’assoluta chiusura della dinastia borbonica alle istanze culturali e politiche dei settori più moderni delle classi dirigenti del Sud non si modificò nemmeno quando qualche sovrano giunse ad assumere misure di un certo rilievo sul terreno economico. Dopo la definitiva rottura del 1848, sottolineava Ruggero Moscati, Ferdinando II non riuscì a «comprendere che è impossibile un progresso, un miglioramento economico senza che da esso si generino problemi etico-politici; non comprese sovratutto che la borghesia che egli stesso, pur senza rendersene conto, contribuiva a creare e potenziare, si sviluppava fuori e quindi in definitiva contro i rigidi quadri del paternalismo borbonico, accentuando il solco esistente tra governo e paese»32. Anche uno storico legato alla tradizione democratica di Mazzini e di Cattaneo come Galasso aveva insistito per tempo sulla «natura essenzialmente politica del moto risorgimentale del Mezzogiorno. [...] Nel 1860 il fatto rivoluzionario riguardava ormai l’ordinamento dello Stato. Liberali e democratici, cavourriani e garibaldini, monarchici e repubblicani, esuli e non esuli, i «patrioti» promuovevano la soluzione unitaria»33. Nell’attuale esperienza di un secolo XXI che vede esaurirsi il ruolo della direzione politica, in un mondo occidentale che attende lumi ogni giorno dal pendolo dei mercati finanziari, può dare qualche luce lo sguardo rivolto ai sentimenti e alle scelte di tanti giovani immersi in un mondo povero e romantico, qual era 31   N. Cortese, Il Mezzogiorno ed il Risorgimento italiano, Libreria Scientifica Editrice, Napoli 1965, p. 43. 32   R. Moscati, I Borboni in Italia, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1970, p. 108. 33   G. Galasso, Mezzogiorno e Risorgimento, in Id., Il Mezzogiorno nella storia d’Italia, Le Monnier, Firenze 1977, pp. 316 sg.

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il territorio italiano nel primo Ottocento, pronti a immolarsi per un ideale: il risorgimento, la rinascita dell’Italia. Il principe di Metternich-Winneburg aveva ragione. L’Italia era solo una espressione geografica, un territorio incapace di darsi una direzione politica unitaria. Dopo aver espresso il più potente ed espansivo impero della storia antica e dato un ordine istituzionale e giuridico al mondo occidentale, il territorio italiano aveva creato, nei secoli che prepararono l’era moderna, due differenti prospettive, connettendole in modi originali e produttivi: l’affermazione e l’espansione della economia finanziaria e il rinascimento delle arti fondato sulla centralità della persona umana. Dopo un intenso, plurisecolare declino, l’illuminismo e le trasformazioni venute dalla Francia della rivoluzione e di Napoleone produssero novità e cambiamenti anche profondi in molti Stati italiani. Ma la debolezza della struttura sociale e della coscienza civile e politica appariva diffusa nei diversi Stati restaurati, proprio nei termini descritti dall’analisi impietosa compiuta nel 1824 da Giacomo Leopardi nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani. L’assenza di una «società stretta» e di un «buon tuono» tra gli italiani indicava la mancanza di una società e di un’etica civile, atte a formare classi dirigenti capaci di realizzare una efficace direzione politica e di perseguire l’obiettivo dell’autonomia e della indipendenza dalla potenza straniera, l’Austria, cui il congresso di Vienna aveva affidato il controllo del territorio italiano. «Ora il passeggio, gli spettacoli e le Chiese sono le principali occasioni di società che hanno gl’italiani, e in essi consiste, si può dir, tutta la loro società [...] Ciascuna città italiana non solo, ma ciascuno italiano fa tuono e maniera da sé. Non avendovi buon tuono, non possono avervi convenienze di società (bienséances) [...] Le classi superiori d’Italia sono le più ciniche di tutte le loro pari nelle altre nazioni. Il popolaccio italiano è il più cinico de’ popolacci [...] l’Italia è, in ordine alla morale, più sprovveduta di fondamenti che forse alcun’altra nazione europea e civile [...] Gli usi e i costumi in Italia si riducono generalmente a questo, che ciascuno segua l’uso e il costume proprio, qual che egli sia»34. 34   G. Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani, introduzione di S. Veca, cura di M. Moncagatta, Feltrinelli, Milano 1991, pp. 49, 50, 58, 63, 67. Sul carattere meridionale dell’Italia cfr. N. Moe, L’Italia sud d’Europa, in

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Questa era l’Italia del primo Ottocento, quale appariva allo sguardo di uno dei suoi più alti ingegni. Contro questa realtà dell’Italia combatteranno, andranno in carcere e in esilio i giova­ ni patrioti delle varie parti del paese, specialmente del Nord, dalle Alpi e dalla valle padana. Intanto nel nuovo Regno delle Due Sicilie continuavano a svolgersi due storie diverse: una a Napoli e nell’Italia meridionale, un’altra in Sicilia. L’unione dei due regni in seguito alla restaurazione del 1816 con Ferdinando I non giovò affatto ai Borbone. Mentre nel Mezzogiorno si continuò a procedere sulla strada della monarchia amministrativa del decennio francese35, in Sicilia fu semplicemente cancellato il modello inglese applicato a uno Stato siciliano fondato sulla costituzione di stampo aristocratico del 1812. L’ampio decentramento riconosciuto all’isola fu quindi sancito da un luogotenente generale del re: il figlio di Ferdinando I, Francesco, e poi il fratello di Ferdinando II, Leopoldo. Ma la dinastia borbonica non volle mai assegnare poteri di rappresentanza alle forze sociali e politiche siciliane, su cui gravava da sempre il dominio del potere baronale, peraltro largamente accettato dagli altri strati sociali36. La cancellazione del Regno di Sicilia fu considerata in tutta l’isola l’ennesimo sopruso compiuto da Napoli contro l’autonomia e l’indipendenza di quello che era considerato generalmente lo «Stato-nazione» siciliano. Era una storia antica, che risaliva alla guerra del Vespro, tra Napoli e la Sicilia, tra gli Angiò e gli Aragona, non per caso di lì a poco divulgata dagli studi di Michele Amari37. Non servì certo a migliorare i rapporti tra le due parti del regno l’introduzione del passaporto per transitare al di là e al di qua del faro. Anzi rafforzò la convinzione isolana che la prima guerra d’indipendenza la ‘nazione’ siciliana aveva da farla contro Id., Un paradiso abitato da diavoli. Identità nazionale e immagini del mezzogiorno, l’ancora del mediterraneo, Napoli 2004, pp. 25 sgg. 35   A. Scirocco, Il Mezzogiorno nell’età della Restaurazione, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1971. 36   R. Romeo, Il Risorgimento in Sicilia, Laterza, Bari 1950; F. Renda, Storia della Sicilia dal 1860 al 1970, vol. I, I caratteri originari e gli anni della unificazione italiana, Sellerio, Palermo 1984, pp. 45 sgg. 37   A. Crisantino, Introduzione agli «Studii su la storia di Sicilia dalla metà del XVIII secolo al 1820» di Michele Amari, Mediterranea, Palermo 2010.

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Napoli e la dinastia borbonica che, accolta con tutti gli onori al momento dell’esilio, aveva conculcato l’autonomia dell’isola dopo averne dissolto l’antica dimensione statuale. Poi, negli anni Trenta, un breve tentativo riformistico del giovane Ferdinando II volto alla riduzione dei persistenti poteri feudali produsse la nomina a luogotenente di Leopoldo conte di Siracusa, che si mostrò tanto disponibile verso l’autonomia siciliana da instillare nel fratello il sospetto di pericolose convergenze verso prospettive indipendentistiche. Così il troppo attivo principe borbonico fu richiamato a Napoli, la luogotenenza fu abolita e a riportare l’ordine in Sicilia giunse il ministro di polizia Ferdinando Del Carretto. Venne ripristinato il più duro assolutismo regio, che avrebbe celebrato i suoi fasti poco più di un decennio dopo, nel 1848-49. Dall’Alta Italia all’Italia unita Ricordate alcune questioni importanti delle vicende italiane prima dell’Italia, si può ora cercare di ricostruire la storia del complicato processo unitario, che sembra ormai conosciuto solo dai migliori studiosi di queste storie. La nascita dello Stato nazionale italiano, come gli altri snodi della storia dell’Italia contemporanea, a partire dalla rinascita antifascista e repubblicana, sono stati vittime, nell’ultimo trentennio, della crisi della storia, svoltasi insieme alla riduzione nei minimi termini della morale e della politica. Nei primi decenni della ricostruzione e dello sviluppo, la storiografia ha accompagnato questa fase positiva della storia italiana con ricerche innovative e discussioni fruttuose, che indagando il passato cercavano di contribuire a preparare un futuro migliore. All’aprirsi degli anni Ottanta, quando ancora non si erano ben compresi il carattere e gli effetti della crisi mondiale sviluppatasi nel decennio precedente, si metteva in moto il ciclone che avrebbe presto chiarito ogni dubbio circa la nuova era globale del predominio dell’economia finanziaria e dell’espansione rivoluzionaria della società in rete. La radicale novità produceva effetti sconvolgenti, in larga parte positivi, ma anche negativi: portava alla dissoluzione una protagonista della precedente fase storica, l’Unione Sovietica; apriva

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la strada a una inimmaginabile fusione di comunismo e mercato nella nuova potenza cinese; preparava l’imprevedibile espansione di gran parte dei paesi sottosviluppati in un nuovo, inedito equilibrio nella divisione internazionale del lavoro; fondava l’illusoria ideologia di una equazione sempre positiva tra mercato e democrazia; favoriva l’espansione finanziaria della criminalità organizzata liberata da ogni vincolo e controllo. In Italia il processo di globalizzazione e la crescente affermazione del potere dei mercati finanziari hanno accentuato una fase storica di declino economico, di disagio sociale, di degrado etico e politico. La cosiddetta «seconda repubblica» ne è stata l’infelice immagine. La storiografia, nel suo piccolo, ha subìto danni enormi dalle crescenti incursioni dei giornali e delle televisioni nella diffusione di una vulgata per lo più pseudo-storica, quasi sempre aliena da un’accurata ricerca scientifica. L’attivismo di sedicenti storici forniti di grande potere mediatico ha inaugurato una triste stagione di inconsistenti revisionismi, che si sono aggiunti alle presunte «invenzioni» di realtà ben consistenti, nell’illusorio tentativo di innovare col mero ricorso a nuove categorie interpretative coniate nell’ambito di altre solide esperienze storiografiche. E poi, in un disperante clima politico-culturale, siamo giunti ai nordismi e ai sudismi, all’esaltazione della Chiesa di Lepanto e delle resistenze clericali ai «soprusi» dell’Italia liberale, alle nostalgie neo-borboniche e alle celebrazioni di briganti e brigantesse del Sud. Perciò è bene ricominciare dall’inizio per cercare di ripristinare la conoscenza di alcuni fatti essenziali, che hanno preceduto e caratterizzato il processo di unificazione nazionale e forse riescono a spiegare almeno in parte le ragioni della persistenza di vecchie questioni e dell’emergerne di nuove, che spesso rivelano un nocciolo antico. Anzitutto è opportuno ricominciare da un fatto fondamentale, oggi quasi dimenticato, che può invece contribuire a chiarire meglio tanti problemi aggravati nell’Italia attuale. Lo Stato nazionale italiano nacque nel marzo 1861 in una forma e secondo modalità assolutamente impreviste dagli stessi, diversi protagonisti dell’impresa, che perciò fu considerata e definita giustamente una «rivoluzione» compiuta in nome degli ideali di libertà, di nazione e anche di democrazia.

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Il principale artefice politico fu Camillo Benso conte di Cavour, che anzitutto riuscì a rafforzare il peso politico del piccolo e debole Regno di Sardegna e i rapporti con le potenze liberali della Francia e della Gran Bretagna. La partecipazione alla guerra di Crimea e poi, nel 1858, gli accordi di Plombières con Napoleone III inserirono il Piemonte sabaudo nel disegno espansivo dell’imperatore francese, che si proponeva di modificare gli equilibri tra le potenze europee stabiliti nel congresso di Vienna. Il progetto franco-piemontese prevedeva soltanto la formazione di un regno dell’Alta Italia, che assegnava ai Savoia il Lombardo-Veneto, i ducati asburgici e le Legazioni pontificie in Emilia e in Romagna. Doveva poi costituirsi un regno dell’Italia centrale con la Toscana, le Marche, l’Umbria e la gran parte del Lazio. Il papa avrebbe mantenuto solo Roma e il territorio circostante, insieme alla presidenza onoraria della confederazione dei quattro Stati italiani, che doveva comprendere anche il regno borbonico. In sostanza i cambiamenti rilevanti erano l’espansione dello Stato sabaudo in tutta la pianura padana, la forte riduzione dello Stato pontificio a vantaggio del costituendo Stato centrale e, soprattutto, la sostituzione del predominio francese a quello austriaco. Le ambizioni napoleoniche si estendevano peraltro sia verso il centro Italia con Girolamo Bonaparte, sia verso il Sud con Luciano Murat. La seconda guerra dell’indipendenza italiana iniziò nella primavera del 1859 senza avere affatto il proposito di unire tutta la penisola. Garibaldi, coi Cacciatori delle Alpi, e la gran parte degli altri patrioti democratici, nel nome di Vittorio Emanuele II, parteciparono subito a questa impresa dagli obiettivi pur limitati. Soltanto Mazzini se ne tenne lontano, considerando l’iniziativa piemontese volta a un riduttivo «ingrandimento» dinastico e non mirata all’unificazione italiana. Soltanto per l’Italia unita il rivoluzionario democratico avrebbe accantonato la pregiudiziale repubblicana e sostenuto l’azione della monarchia sabauda38. L’Austria finì per scendere in guerra confidando nella vittoria. Ma la sconfitta subìta in Lombardia annullò il suo potere di con38   G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, IV, Dalla Rivoluzione nazionale all’Unità, Feltrinelli, Milano 1964, pp. 305 sgg.

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trollo della penisola. Si diedero alla fuga il granduca di Toscana e i duchi di Parma e di Modena, tutti Asburgo. E scoppiò la rivolta nelle Legazioni pontificie: in Emilia, in Romagna, nelle Marche, in Umbria. Cominciarono subito a fioccare le richieste di annessione al regno di Vittorio Emanuele II. Queste impreviste novità, che rischiavano di far fallire il progetto egemonico francese, spinsero nell’estate 1859 Napoleone III all’armistizio di Villafranca con Francesco Giuseppe. Il Piemonte riceveva soltanto la Lombardia, senza il Veneto. La guerra per l’unità nazionale pareva ridursi a una espansione dinastica, come aveva detto Mazzini. Cavour si dimise da primo ministro, in uno dei suoi scatti d’ira, frequenti come gli scontri col re. I risultati della guerra gli apparivano tanto modesti da offuscare effettivamente il carattere nazionale dell’impresa. Eppure era stato conseguito un importante obiettivo: il dominio austriaco sul territorio italiano era finito. Nell’Italia centrale, inoltre, non si costituiva un nuovo Stato sotto l’influenza francese, ma si determinava un vuoto di potere che si sarebbe colmato, nel marzo 1860, coi plebisciti di adesione «alla monarchia costituzionale di re Vittorio Emanuele II»39 . Cavour riprendeva le redini del governo piemontese nel gennaio ’60. Otteneva da Napoleone III l’abbandono delle clausole di Villafranca e il consenso all’annessione della Toscana, dell’Emilia e della Romagna. In cambio consentiva, nonostante la mancata cessione austriaca del Veneto, il passaggio alla Francia, sempre mediante plebisciti, dei luoghi natali della dinastia e di Garibaldi: la Savoia e Nizza. La via liberale all’unificazione nazionale sembrava giunta al suo limite. Ma si era già modificato il progetto iniziale che prevedeva i regni dell’Alta Italia e del Centro. Questo cambiamento aveva accentuato l’interesse verso la «questione italiana» della Gran Bretagna, che intendeva contenere gli ampliamenti sia territoriali che egemonici della Francia napoleonica. Era soprattutto l’interesse dell’impero inglese, ben più che la simpatia espressa dalla parte liberale dell’opinione pubblica e della classe politica della Gran Bretagna, a convincere i governi liberali (non quelli conservatori) a non intervenire per bloccare il processo dell’unificazione italiana.   A. Scirocco, In difesa del Risorgimento, il Mulino, Bologna 1998, pp. 128 sgg.

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Come per tempo precisò Rosario Romeo, che nonostante «i tentativi di conservare la Sicilia al Borbone e in genere l’azione volta a ostacolare l’annessione del Mezzogiorno, la politica seguita dall’Inghilterra nel 1860 [è] potuta apparire, grazie soltanto al suo rifiuto di ogni impegno diretto mascherato da difesa del ‘nonintervento’, come quella che ha più contribuito all’unità italiana, quasi alla pari con la Francia, che nel 1859 aveva versato tanto sangue sui campi di Lombardia, è un mito ottocentesco che la storiografia ha troppo tardato a dissipare»40. Ora che l’iniziativa nazionale dei moderati e dei liberali italiani pareva essersi conclusa con effetti limitati, s’intensificò ed ebbe ampiezza e successo imprevisti l’azione delle forze democratiche. Eppure Garibaldi sembrava al momento fuori gioco, preso com’era dalla profonda avversione per Cavour, che aveva appena ceduto Nizza alla Francia. Mazzini a sua volta cercava di rilanciare il programma rivoluzionario, puntando anzitutto a liberare Roma dal dominio pontificio per attaccare in seguito lo Stato borbonico: «al Centro, al Centro mirando a Sud»41. Ma poi, in una vorticosa successione di eventi, venne rilanciato il progetto di una spedizione garibaldina in Sicilia sostenuta da Vittorio Emanuele II, anche in funzione anticavouriana. Soltanto l’anno prima Cavour aveva invitato il nuovo re delle Due Sicilie Francesco II a combattere insieme contro l’Austria. Ora, nel marzo 1860, saranno due siciliani, mazziniani, Francesco Crispi e Rosolino Pilo a presentare la richiesta di guidare la rivolta del Sud a Garibaldi, rifugiatosi a Caprera in odio a Cavour. Così ancora una volta, come soprattutto nel 1848 europeo, l’insurrezione esplose in Sicilia, a Palermo, nell’aprile del 1860. Il programma di Rosalino Pilo era nel nome di Garibaldi e di Maz40   Romeo, Cavour cit., p. 737. Giorgio Candeloro, a sua volta, aveva ricordato che «quando si cominciò a parlare dell’impresa progettata da Napoleone III e da Cavour, tanto il governo conservatore quanto l’opposizione liberale si dimostrarono ostili»; la ragione dell’ostilità inglese «era essenzialmente il timore di veder turbato l’equilibrio europeo, di cui l’Austria era uno dei pilastri, a favore della Francia in Italia e della Russia in Oriente. Il governo britannico pertanto cercò di fare il possibile per impedire la guerra [del 1859] svolgendo un’opera di mediazione»: Candeloro, Storia dell’Italia moderna, IV cit., p. 309. 41   G. Galasso, Garibaldi, il Mezzogiorno e l’unificazione italiana, in Id, La democrazia italiana da Cattaneo a Rosselli, Le Monnier, Firenze 1982, pp. 30 sgg.

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zini, ma potrà solo annunciarlo, perché morirà in battaglia. Crispi invece correrà a convincere Garibaldi e Vittorio Emanuele II e diventerà il principale organizzatore della spedizione dei Mille42. Dopo tante sconfitte tragiche nel Mezzogiorno continentale, dai fratelli Bandiera a Pisacane, si avviava finalmente a compimento la previsione mazziniana che il Sud sarebbe stata la «polveriera d’Italia». Ora poteva cambiare la direzione del movimento nazionale: «L’insurrezione siciliana – scriveva Mazzini a fine maggio – cancella l’iniziativa di Plombières per farla trapassare nel popolo». Si tornava a parlare di rivoluzione, di democrazia, di Mezzogiorno: era la prospettiva unitaria di Mazzini che riemergeva dopo tante sconfitte e trasformava radicalmente il processo di unificazione nazionale. La grande novità era che «per la prima volta una regione italiana insorgeva di sua iniziativa contro il regime esistente»43. E non era per caso la Sicilia: schierandosi compatta per l’unità di tutta l’Italia, l’isola diventava protagonista della svolta democratica impressa da Mazzini e da Garibaldi. Era la miccia che provocava l’esplosione e quindi il crollo del fragile edificio del regno borbonico, che la miopia politica di Ferdinando II aveva finito per contrapporre alle correnti forme politiche ed economiche dell’Europa progressiva, e per smarrire alla fine anche il sostegno della borghesia agraria delle province meridionali. Era l’occasione storica della Sicilia per liberarsi finalmente della intollerabile supremazia napoletana e per insorgere in massa contro il Regno delle Due Sicilie che le aveva sottratto, anche nella forma, una identità statale sempre ambita. In prima fila, come sempre, si schierava l’aristocrazia terriera che, secondo un puntuale giudizio di Francesco Renda, ebbe «un ruolo dissolvente per la monarchia borbonica, fino a provocarne la caduta, e una funzione di coagulo unitario per la monarchia sabauda, subentrata nell’isola in sostituzione della prima. Sarebbe un paradosso considerare i Borboni più antifeudali dei Sabaudi. Eppure, il ba42   A. Recupero, La Sicilia all’opposizione (1848-74), in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. La Sicilia, a cura di M. Aymard e G. Giarrizzo, Einaudi, Torino 1987, pp. 58 sgg. 43   Romeo, Cavour cit., p. 700.

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ronaggio siciliano fu ostinatamente perseguitato dai primi e innalzato ostentatamente ai più alti onori e benefici dai secondi»44. Se la Sicilia dimostrò di essere la «polveriera d’Italia», le province del Nord furono il serbatoio delle giovani energie ideali che misero in gioco la vita per unire il Sud al resto d’Italia: volontariamente e con grande entusiasmo. Un aspetto importante del processo di costruzione nazionale, di cui si è perso largamente il senso e il ricordo, è proprio il fatto che la spedizione garibaldina per liberare il Sud dalla dinastia borbonica fu composta di giovani patrioti dell’Italia del Nord: i più numerosi erano i bergamaschi, che avevano accolto da liberatore Garibaldi nel ’59 e un anno dopo, a fine maggio ’60, sarebbero entrati per primi a Palermo, guidati da Francesco Nullo. La fortuna dell’impresa in Sicilia fu determinata essenzialmente dal larghissimo sostegno ricevuto da tutte le classi sociali: nobiltà, borghesia, contadini e ceti popolari, uniti dalla forte ostilità verso Napoli e il regime borbonico. Presto, dopo gli iniziali entusiasmi garibaldini, i contadini si allontaneranno dall’impresa, perché non avevano ottenuto la terra, attraverso la quotizzazione dei demani, e perché rifiutavano un arruolamento che nell’isola non era mai stato obbligatorio. L’unità interclassista antiborbonica si sarebbe dissolta nei contrapposti interessi di classe intorno alla proprietà e alla gestione delle terre. Garibaldi era troppo preso dalle battaglie e dagli obiettivi militari e politici, per i quali era più sensibile e preparato, e che peraltro non gli lasciavano tregua sia per gli ostacoli interni al movimento nazionale che per quelli frapposti dalle grandi potenze. Intanto si susseguivano gli scontri armati e su questo terreno Garibaldi dimostrò coraggio e abilità strategica; mentre l’esercito borbonico, che pure combatté con valore, fu certamente sfavorito dall’età dei generali comandanti, tutti ultrasettantenni, e dall’isolamento nella società siciliana. Sia la Francia che l’Inghilterra, pur divisi da interessi fortemente in contrasto, cercarono entrambe di evitare il passaggio dello stretto e l’avanzata garibaldina nel Mezzogiorno continentale, che peraltro preoccupava molto anche Cavour. Ancora a fine luglio

  Renda, Storia della Sicilia cit. p. 23.

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’60 il primo ministro liberale britannico lord Russell s’impegnò per favorire l’alleanza tra il Regno di Sardegna e quello delle Due Sicilie, in accordo con Napoleone III, che a giugno aveva convinto Francesco II alla tardiva e inefficace svolta in senso costituzionale. Quindi l’Italia unita ancora non si scorgeva, e non pareva avere il sostegno di alcuna potenza. Cresceva invece l’entusiasmo nell’opinione pubblica dell’Europa liberale sia per la causa italiana, che per l’impresa garibaldina. Nell’estate 1860, Garibaldi risalì rapidamente lungo l’Italia meridionale sostenuto da una intensa partecipazione delle province: con migliaia di volontari calabresi, lucani, cilentani e col favore crescente di una borghesia agraria pronta al cambiamento di regime. In questa fase convulsa, percorsa da eventi imprevisti, si contrapposero ancora differenti progetti di unificazione nazionale45. Cavour, che non aveva mai pensato all’unità con il Sud ed era più che preoccupato delle iniziative democratiche in crescente espansione, provò senza successo a far insorgere i moderati e liberali napoletani prima che arrivasse Garibaldi. Riuscì invece a bloccare il progetto democratico-rivoluzionario di Agostino Bertani, sostenuto da Mazzini, che aveva preparato una spedizione contro lo Stato pontificio per liberare Roma. Il trionfale ingresso di Garibaldi a Napoli, dov’erano pericolosamente confluiti Mazzini e addirittura Cattaneo, convinse Cavour a far propria l’indicazione mazziniana «al Centro, mirando al Sud», ma con due essenziali varianti: era l’esercito guidato dal re che invadeva le Marche e l’Umbria e non marciava verso Roma, ma verso Napoli per farsi consegnare il regno del Sud, prima che le cose si complicassero ulteriormente46. In questo modo un altro grosso pezzo dello Stato pontificio era acquisito al nuovo regno italiano, con l’indispensabile consenso di Napoleone III, irritato per il fallimento del suo disegno egemonico, ma ancor più preoccupato dell’espansione verso Roma 45   A. Scirocco, I democratici italiani da Sapri a Porta Pia, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1969. 46   Candeloro, Storia dell’Italia moderna, IV cit., pp. 432 sgg.; Romeo, Cavour cit., pp. 745 sgg.; A. Scirocco, Il Mezzogiorno nella crisi dell’unificazione (1860-61), Società Editrice Napoletana, Napoli 1981, pp. 35 sgg.

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e Venezia dell’impresa garibaldina e dei progetti mazziniani. La cavalcata del re verso il Sud era anche l’unico modo per concludere, a totale vantaggio della dinastia sabauda e della soluzione monarchica del processo unitario, la gloriosa impresa di Garibaldi che, già convinto di suo e per di più incalzato da Mazzini, non era affatto alieno dal dirigere il suo vittorioso esercito verso Roma. Nell’autunno del 1860 si conclude il processo dell’unificazione italiana, iniziato nella primavera del 1859, con il plebiscito che annette l’enome territorio del Regno delle Due Sicilie al già esiguo Regno di Sardegna. Invece del ristretto regno dell’Alta Italia, vassallo della Francia napoleonica, sta per nascere il Regno d’Italia, uno dei più grandi e popolati Stati d’Europa, cui mancano ancora Roma e il Veneto per completare l’unità dell’intero territorio nazionale. È un risultato che supera ogni previsione e speranza. Soltanto la fede unitaria di Mazzini aveva indicato la prospettiva di una Italia tutta unita e repubblicana. Gli altri protagonisti avevano perseguito obiettivi contrastanti tra loro e comunque più limitati. Lo stupore enorme per la realizzata unificazione era ben espresso nell’aula del Parlamento subalpino, a Torino, nell’ottobre ’60: «V’hanno di taluni i quali stanno come sbigottiti di questi pressoché sovrannaturali avvenimenti»47. L’Italia era stata fatta. Il problema più arduo era risolto, e in una misura imprevedibilmente ampia. L’ingegno politico di Cavour era stato decisivo nel saper usare a vantaggio dell’Italia, per la prima volta dopo tanti secoli di dipendenza, le potenze straniere; riuscendo anche a contenerne l’invadenza. Sulla banda opposta Mazzini, che pure nello Stato italiano restava un terrorista condannato a morte, vedeva quasi realizzato il sogno unitario per cui s’era battuto più di tutti. Garibaldi, col suo temerario coraggio, l’indubbia abilità militare e il generoso idealismo diventava l’eroe italiano più amato al mondo, dall’America alla Gran Bretagna, alla Russia. Il re Vittorio, ostile a Cavour soprattutto per motivi personali, restava la figura più modesta in questo quadro diventato presto oleografico. 47   Così dichiarava il deputato piemontese Desiderato Chiaves, il 9 ottobre 1860 (C. Petraccone, Le due civiltà. Settentrionali e meridionali nella storia d’Italia dal 1860 al 1914, Laterza, Roma-Bari 2000, p. 11).

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La proclamazione del Regno d’Italia nel marzo 1861 avrebbe dimostrato che la rapida unificazione territoriale apriva soltanto un processo, subito rivelatosi ancora più difficile e complicato, di unificazione civile dei diversi popoli che per secoli avevano vissuto differenti storie in molteplici Stati. In altri termini, il processo di statizzazione in Italia era avvenuto con estrema rapidità, dopo un lungo ritardo48. Altra cosa era il processo di nazionalizzazione che era solo all’inizio e, al di là della retorica politica e culturale, avrebbe conosciuto un percorso molto più lungo, contraddittorio, accidentato49. Le peculiari difficoltà che avevano tanto ritardato in Italia la formazione di uno Stato nazionale, dalle invadenze straniere al centrale potere della chiesa cattolica, non potevano dissolversi in ragione di un’improvvisa e inattesa unità50. Il problema fondamentale era l’imprevista e non da molti auspicata unione tra Nord e Sud, che l’iniziativa democratica di Mazzini e di Garibaldi e le speranze degli esuli meridionali avevano aggiunto al più limitato programma del liberalismo cavouriano. La drammaticità della questione, che non a caso resterà il nodo irrisolto della storia dell’Italia unita, era ben presente ai più autorevoli ma diversamente orientati statisti piemontesi, Massimo marchese d’Azeglio e Camillo conte di Cavour. Uniti nella diagnosi, avevano prospettato due opposte soluzioni, entrambe dure e radicali. D’Azeglio, poco sensibile alle vie liberali del progresso, era convinto che: «I più pericolosi nemici d’Italia non sono gli Austriaci, sono gl’Italiani. E perché? Per la ragione che gl’Italiani hanno voluto far un’Italia nuova e loro rimanere gl’Italiani vecchi di prima, colle dappocaggini e le miserie morali che furono ab antico la loro rovina; perché pensano a riformare l’Italia, e nes-

48   Sul modello statocentrico adottato dal liberalismo italiano cfr. P. Costa, Lo Stato immaginario. Metafore e paradigmi nella cultura giuridica italiana fra Ottocento e Novecento, Giuffrè, Milano 1986; U. Allegretti, Profilo di storia costituzionale italiana. Individualismo e assolutismo nello stato liberale, il Mulino, Bologna 1989. 49   Fare gli Italiani. Scuola e cultura nell’Italia contemporanea, a cura di S. Soldani e G. Turi, il Mulino, Bologna 1993; B. Tobia, Una patria per gli italiani. Spazi, itinerari, monumenti nell’Italia unita (1870-1900), Laterza, Roma-Bari 1991. 50   C. Vivanti, Lacerazioni e contrasti, in Storia d’Italia, I, I caratteri originali, Einaudi, Torino 1972, pp. 869 sgg.

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suno s’accorge che per riuscirci bisogna, prima, che si riformino loro»51. Profondamente pessimista sul «carattere» degli italiani per la loro debolezza morale e civile, non stupisce che d’Azeglio si domandasse se valesse la pena di imporre l’unità al Mezzogiorno. Di opposto avviso era ormai Cavour, visto il felice esito monarchico del processo unitario e nel dicembre 1860 scriveva al re che bisognava: «Imporre l’unità alla parte più corrotta più debole d’Italia. Sui mezzi non vi è pure gran dubbiezza: la forza morale e se questa non basta la fisica»52. Certo, già non sembrava una unione tra pari. Anzi la distanza tra le parti faceva subito pensare alla necessità di misure drastiche. Qualche mese dopo però Cavour lanciò un fermo monito contro la repressione militare e una grande speranza di futuro per il Sud, ma poco dopo morì: «Non sarà insultando i Napoletani che li si cambierà [...] Nessuno stato d’assedio, nessuno di questi mezzi dei governi assoluti. Tutti sanno governare con lo stato d’assedio. Io li governerò con la libertà e mostrerò quel che possono fare di queste belle contrade dieci anni di libertà. In vent’anni, saranno le province più ricche dell’Italia. No, nessuno stato d’assedio, ve lo raccomando»53.

51   M. d’Azeglio, I miei ricordi, a cura di A.M. Ghisalberti, Einaudi, Torino 1971, p. 4. 52   Romeo, Cavour cit., p. 869. I fondamentali carteggi cavouriani sono stati pubblicati nei cinque volumi titolati La liberazione del Mezzogiorno e la formazione del Regno d’Italia, Zanichelli, Bologna 1949-54. 53   E. Artom, Il Conte di Cavour e la Questione Napoletana, in «Nuova Antologia», 1° novembre 1901, p. 152. Cfr. M.L. Salvadori, Cavour e il Mezzogiorno, in Id., Il mito del buongoverno. La questione meridionale da Cavour a Gramsci, Einaudi, Torino 1963, pp. 23 sgg.

II Conflitti e squilibri Un Mezzogiorno sconosciuto e in rivolta La costruzione politica e amministrativa di un solido Stato nazionale apriva una serie di problemi che risulteranno non meno complessi e drammatici di quanti ne comporterà la difficile e lenta formazione di una solidarietà civica collettiva, di una coscienza nazionale capace di integrare l’intera popolazione dentro un quadro condiviso di valori e di prospettive. La «rivoluzione» italiana non aveva conosciuto la partecipazione delle masse contadine e non era stata nemmeno «borghese» nel senso di perseguire preminenti obiettivi economici. Era stata essenzialmente una rivoluzione politica, realizzata da élites – aristocratiche, borghesi, popolari – mosse da spinte culturali e morali nel nome della libertà, dell’indipendenza e, in certi casi, della democrazia. Questi limiti di partecipazione saranno poi aggravati dal costante riproporsi di un peculiare problema, caratteristico delle minoranze acculturate del paese: il pervicace senso di insoddisfazione e di inadeguatezza tipico della coscienza collettiva degli italiani, per cui il presente era sempre incomparabile al passato di glorie e grandezze. Questa inquietudine indeboliva una precaria identità nazionale e minava ulteriormente la strutturazione e l’avanzamento di un paese giunto tardi alla meta, nemmeno largamente condivisa, dell’unità statale1. 1   Le più acute riflessioni al riguardo si trovano nell’ultimo dei Saggi sulla concezione materialistica della storia. Da un secolo all’altro di Antonio Labriola (Scritti filosofici e politici, a cura di F. Sbarberi, Einaudi, Torino 1973, vol. II, p. 855); nella

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La consapevolezza della distanza e delle profonde differenze tra il Nord e il Sud fu immediata già al momento dell’annessione e si diffuse con la discesa verso Napoli e Palermo di politici, amministratori e militari del Nord. Queste prime osservazioni della realtà meridionale confermavano e precisavano il quadro già dipinto a fosche tinte dagli esuli liberali del Sud rifugiatisi dopo il 1848 soprattutto a Torino e a Firenze. Il «piemontesissimo» Giuseppe Massari, di origine pugliese, invocava «una grossa invasione di moralità piemontese». Il romagnolo Luigi Carlo Farini passava dalla dittatura in Emilia alla luogotenenza generale a Napoli senza lasciare tracce memorabili, tranne una frase poco prima di arrivare anche lui a Teano: «Che barbarie! Altro che Italia! Questa è Affrica». Nella discussione parlamentare sulle modalità di annessione del Regno delle Due Sicilie, il democratico milanese Giuseppe Ferrari sottolineò, nell’ottobre ’60, la «diversità» del Mezzogiorno e la frattura profonda tra le due parti d’Italia, avviando subito la riflessione sulle «due Italie». L’anno dopo, nel primo dibattito del Parlamento italiano sulla situazione meridionale, Ferrari propose senza successo la nomina di una commissione d’inchiesta. Inviato poco dopo dal governo italiano in missione al Sud, Diomede Pantaleoni aprì invece un altro pericoloso capitolo dei difficili rapporti tra le diverse parti d’Italia: «La civiltà di queste provincie è molto diversa ed inferiore a quella dell’Italia superiore». Quindi si poteva tenerle solo «colla forza o col terrore della forza». Perciò: «Truppa, truppa, truppa»2. Il crollo repentino del Regno delle Due Sicilie fu favorito dall’isolamento internazionale del regime assolutistico, cui era rimasto introduzione di Gaetano Salvemini al libro di A.W. Salomone, Italian Democracy in the Making. The political scene in the Giolittian Era 1900-1914, Temple University Press, Philadelphia 1945 (trad. it. L’età giolittiana, De Silva, Torino 1949, p. 4); e in un intervento di Rosario Romeo, Potere, classi sociali, sviluppo economico, in Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, L’Italia unita nella storiografia del secondo dopoguerra, a cura di N. Tranfaglia, Feltrinelli, Milano 1985, p. 295. 2   G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, V, La costruzione dello Stato unitario, Feltrinelli, Milano 1968, pp. 143 sgg.; A. Scirocco, Il Mezzogiorno nella crisi dell’unificazione, cit., pp. 90 sgg.; R. Romanelli, L’Italia liberale (1861-1900), il Mulino, Bologna 1979, pp. 21 sgg.; N. Moe, Altro che Italia: dominazione e rappresentazione del sud nel biennio 1860-1861 (1992), in Id., Un paradiso abitato da diavoli, cit., pp. 159 sgg.; Petraccone, Le due civiltà cit., pp. 15 sgg.

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soltanto il sostegno della lontana Russia, dalla disgregazione sociale e dal ritardo economico, che spinsero le borghesie provinciali alla scelta unitaria, e infine dalla decisiva azione separatistica della Sicilia. Il rapido disfacimento della struttura statale borbonica, avviato dalla fallimentare svolta costituzionale di Francesco II, fu reso ancora più confuso dai limiti della dittatura garibaldina e dai continui contrasti tra questa e il governo piemontese. L’imprevista vittoria garibaldina aveva imposto l’unione di Nord e Sud, che andava ben oltre i progetti di Cavour e dei liberali. Nemmeno i democratici peraltro, al di là della prospettiva unitaria, avevano elaborato determinati orientamenti di governo per la costruzione del nuovo Stato unitario. A conferma del ruolo importante della personalità nella storia, la scomparsa di un esperto e lungimirante statista come Cavour aggravò drammaticamente la già precaria situazione, che non trovò guide altrettanto capaci in Bettino Ricasoli, Urbano Rattazzi, Luigi Farini. Già prima della decisiva vittoria di Garibaldi sull’esercito borbonico al Volturno, ai primi di ottobre ’60, si erano avuti episodi di «reazione», che univano contadini in rivolta, bande di briganti e militari borbonici, com’era accaduto ad Ariano Irpino e a Isernia a settembre. Nel 1861, specialmente dall’estate, si determinò una rapida espansione delle insorgenze contadine, acuite dalle mancate quotizzazioni dei demani; si estese la formazione e l’attività delle bande brigantesche; si sviluppò una vasta guerriglia da parte dei soldati e sottufficiali dell’esercito borbonico ch’erano per lo più di origine contadina. Del resto il brigantaggio era sempre stato un fenomeno diffuso nella società meridionale e rilevante nella strutturazione delle forme del potere. Va meditato, anche alla luce dei recenti sviluppi, il giudizio espresso a suo tempo da un attento storico pugliese quale Guglielmo Pepe: «Quando si parla dell’Italia meridionale e delle Regioni circostanti Roma, non bisognerebbe mai dimenticare che si parla di Paesi nei quali il brigantaggio è stato endemico per secoli; dove a dirla con schiettezza il brigantaggio era una classe sociale e il capo brigante una forza contesa dai politici»3. 3   G. Pepe, Il Mezzogiorno d’Italia sotto gli Spagnoli. La tradizione storiografica, Sansoni, Firenze 1952, p. 61.

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Nel conflitto esploso tra lo Stato italiano e la chiesa cattolica, l’intensa propaganda del clero colpito dalle leggi contro la manomorta ecclesiastica chiudeva il cerchio di una estesa rivolta che aveva un solido fondamento sociale e un preciso obiettivo politico: la restaurazione borbonica col sostegno del papa, che ospitava Francesco II, e di potenze quali l’Austria, la Spagna e la stessa Francia. La feroce guerriglia esplosa in tutte le province meridionali diffuse in Europa l’idea della precarietà del processo unitario e della fragilità del nuovo Stato italiano. Il generale Enrico Cialdini, che veniva dall’esperienza della guerriglia carlista in Spagna, assunse il comando del VI corpo d’armata dell’esercito italiano inviato a reprimere le rivolte: quasi 115 mila militari nel 1863. Fu una guerra feroce, da entrambe le parti. L’episodio più tragico si svolse nel Sannio beneventano. All’uccisione di due soldati italiani in combattimento a Pontelandolfo seguì il massacro a Casalduni di altri quaranta, che si erano arresi. La rappresaglia dell’esercito italiano fu terribile, come la cronaca apparsa il 18 agosto 1861 sulla «Gazzetta di Torino». «Ponte Landolfo e Casalduni non esistono più; le fiamme han divorato le case; le armi hanno raggiunto coloro che non si erano dati alla fuga. Le ombre dei soldati italiani saranno placate. Il terrore invase le valli e si diffuse sino alle porte di Napoli. Esempio spaventevole, ma giusto, ma necessario». Già allora, nel novembre ’61, in un discorso alla Camera, il democratico Ferrari parlò di «guerra civile». Di certo si sa che i morti di queste battaglie, intense soprattutto dal 1861 al 1865, furono più numerosi che nelle guerre per l’indipendenza. Il generale Cialdini, con rappresaglie durissime, riuscì a mantenere il controllo del territorio, impedendo ai rivoltosi e ai briganti di occupare interi paesi. Quindi nell’estate ’62, in occasione dell’impresa garibaldina bloccata in Aspromonte, fu decretato lo stato d’assedio nel Sud e furono assegnati i pieni poteri al generale Alfonso La Marmora, nominato prefetto di Napoli e comandante del VI corpo d’armata. Stato d’assedio e legislazione eccezionale per la repressione del brigantaggio, introdotta con la legge Pica dell’agosto 1863, caratterizzeranno la militarizzazione del Mezzogiorno continentale. Insieme a una dura repressione, i tribunali militari garantirono però che briganti e rivoltosi non fossero passati immediatamente per le armi, ma avessero un regolare processo. Le operazioni com-

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piute tra il 1863 e il 1865 da bersaglieri e carabinieri, dalla cavalleria e dalla guardia nazionale riuscirono a contenere le azioni di briganti e rivoltosi, che continuarono in tono minore fino al 18704. Il «mistero divino» della classe dirigente Fra i tanti ritardi indagati, e di recente anche negati, del Mezzogiorno d’Italia forse non si è dato più il necessario risalto alle limitate capacità di direzione politica espresse dalle personalità e dai gruppi prevalenti nelle città e nelle campagne del Sud. Nell’Ottocento preunitario e unitario questo difetto fu, nella generalità dei casi, evidente. E venne largamente analizzato, da Pasquale Turiello a Gaetano Salvemini, da don Luigi Sturzo ad Antonio Gramsci, specie riguardo ai caratteri della nuova borghesia agraria e intellettuale del Sud. Sarà Guido Dorso a definire «un mistero divino» il processo di formazione di una classe dirigente5. Rispetto all’Italia meridionale era sempre stata e continuava ad essere molto differente la situazione della Sicilia. Il dominio di una compatta feudalità e successivamente il potere delle borghesie agrarie e poi urbane riusciranno a esprimere nell’isola una capacità di rappresentanza sociale e una qualche direzione politica, per lo più fondata sul mito della «nazione siciliana» vessata da poteri statuali esterni6. Il principale lascito negativo della dinastia borbonica soprattutto nella capitale e poi nel Mezzogiorno continentale forse consiste proprio nella distruzione del valore dell’attività politica operata nel corso dell’Ottocento. Ne diede efficace testimonianza, 4   F. Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’unità, Feltrinelli, Milano 1966; Candeloro, Storia dell’Italia moderna, V cit., pp. 162 sgg.; R. Martucci, L’invenzione dell’Italia unita 1855-1864, Sansoni, Milano 1999, pp. 287 sgg. Una documentata ricostruzione storica delle conseguenze della dissoluzione dell’esercito borbonico, che dimostra le numerose falsificazioni della recente propaganda neo-sudista, si trova ora in A. Barbero, I prigionieri dei Savoia. La vera storia della congiura di Fenestrelle, Laterza, Roma-Bari 2012. 5   G. Dorso, La classe dirigente dell’Italia meridionale, in Id., Dittatura, classe politica e classe dirigente, Einaudi, Torino 1955, p. 9. 6   G. Giarrizzo, Introduzione, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. La Sicilia cit., pp. xix sgg.; G. Barone, Egemonie urbane e potere locale (1882-1913), ivi, pp. 191 sgg.; Renda, Storia della Sicilia cit., pp. 32 sgg.

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all’alba del Novecento, Francesco Saverio Nitti: «Esiste a Napoli grande numero di persone oneste; ma vive ancora tra esse il pregiudizio che sia meglio disinteressarsi della politica, anzi che il disinteressarsene sia non solo una convenienza, ma un dovere. Alla respectability napoletana aggiunge qualche cosa il non occuparsi di politica, per tradizioni borboniche durate fino ad ora»7. L’attuale declino economico e politico dell’Italia ha rilanciato contrasti e polemiche tra nordismi e sudismi, naturalmente nella forma della farsa dopo l’esperienza della tragedia vissuta nei primi anni unitari. Fra i tanti revisionismi inventati sui giornali e negli spettacoli televisivi si assiste da tempo a un infondato rimpianto del Regno delle Due Sicilie, ormai sottratto al signorile ricordo di appartati nostalgici e gettato impietosamente nell’agone di inconsistenti polemiche, che provano a riesumare vecchie storie di primati una tantum, di complotti internazionali, di legittimismi statuali, di guerre non dichiarate e di tradimenti, per di più tra cugini reali quali erano Francesco II e Vittorio Emanuele II. Anche l’orientamento di parte della ricerca storica, che si applica a originali aspetti di minore rilievo dando per risolte le questioni principali, rischia di oscurare gli elementi fondamentali dei processi storici, con effetti deleteri nella pubblica opinione e nella coscienza civile, che già non vivono un momento felice. Proprio in un’epoca in cui si va dissolvendo il tradizionale ruolo della politica, è bene non sottovalutare la sua centralità in altre fasi della storia. Perciò è opportuno ribadire, con Alfonso Scirocco, che l’unità italiana fu «il risultato di una scelta politica di fondo della parte più autorevole delle classi dirigenti della penisola, sostenuta negli anni decisivi da una tensione ideale che diede all’unità il valore di risorgimento nazionale»8. L’incontro-scontro tra Nord e Sud al momento dell’unificazione risultò condizionato essenzialmente dalla politica, che riassumeva al livello più alto le condizioni della società e dell’economia. Non pare messo in dubbio che la politica era praticata, seppure in maniere diverse, più conservatrici o progressive, al governo o 7   F.S. Nitti, Su i recenti casi di Napoli, in «La Riforma Sociale», 1900; ora in Edizione nazionale delle opere di F.S. Nitti, vol. III, Scritti sulla questione meridionale, a cura di M. Rossi-Doria, Laterza, Roma-Bari 1978, p. 229. 8   Scirocco, In difesa del Risorgimento cit., p. 166.

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nella forma di una radicale opposizione, nelle diverse realtà territoriali italiane; ma non nel regno borbonico, che alla politica opponeva un secco fin de non ricevoir. Non è difficile rispondere al quesito circa la strana annessione del più grande regno della penisola al piccolo Piemonte. Il Regno di Sardegna giunse a diventare il Regno d’Italia perché era l’unico antico Stato italiano che si era dato una costituzione, un parlamento, un regime liberale ed era guidato da uno statista che seppe guadagnarsi il sostegno o almeno la non ostilità delle potenze liberali e fece del Piemonte l’unico referente della massima parte dei patrioti italiani sparsi in tutte le regioni. Il Regno delle Due Sicilie invece era ancora uno Stato assoluto. Ferdinando I e Ferdinando II avevano entrambi spergiurato e ritirate le costituzioni dopo il fallimento delle rivoluzioni del 1821 e del 1848. Anche il parlamento era stato abolito. La politica in genere non era gradita. Bastava il sovrano a governare, con i suoi cortigiani e funzionari. I liberali e i democratici di Napoli e delle province, compresa in questo caso la Sicilia, avevano due sole strade: il carcere e l’esilio. E furono queste le strade dove si formò la classe politica meridionale d’ispirazione liberale e italiana, tra il 1848 e il 1860, quando si trasformò in classe dirigente nazionale e tornò al Sud nelle vesti di deputato e di ministro9. Le difficili relazioni tra questi politici e la società meridionale furono già ricordate da Croce, anche grazie a quanto gli aveva detto lo zio e tutore Silvio Spaventa, che aveva percorso per intero questo drammatico tragitto. «Gli antichi esuli, che fecero parte di quei primi gabinetti, e in genere gli uomini di destra o «consorti» meridionali, riportarono allora la taccia di essersi disinteressati del Mezzogiorno, e anzi di aver dato verso di esso non dubbi segni di noncuranza e di sprezzo. E nondimeno quegli uomini meritavano qualche scusa, perché, assorti dapprima negli studi e poi gettati negli ergastoli o 9   Sul gruppo politico guidato a Napoli da Silvio Spaventa negli anni dell’unificazione nazionale cfr. L. Musella, Relazioni, clientele, gruppi e partiti nel controllo e nell’organizzazione della partecipazione politica (1860-1914), in Storia d’Italia. Le Regioni dall’Unità a oggi. La Campania, a cura di P. Macry e P. Villani, Einaudi, Torino 1990, pp. 733 sgg.; Id., Lo stato come partito. Silvio Spaventa e i suoi compagni di lotta al potere, in Id., Individui, amici, clienti. Relazioni personali e circuiti politici in Italia meridionale tra Otto e Novecento, il Mulino, Bologna 1994, pp. 13 sgg.

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cacciati in esilio, poco conoscevano delle condizioni effettive di questo paese, e anche perché (sia lecito dir cosa aspra, ma vera), troppo vi avevano sofferto, troppe delusione, troppa incomprensione, troppi abbandoni; e, ora che l’avevano legato all’Italia, godevano nel respirare in più largo aere e ripugnavano a ricacciarsi nella sua molta volgarità e nelle sue travagliose miserie»10. Il Mezzogiorno si presenta quindi all’appuntamento unitario con una classe dirigente spaccata in due parti. I ceti dominanti a Napoli e nelle varie province si sono tenuti prudentemente lontani da ogni attività politica, notoriamente sgradita al governo. Hanno dedicato invece tutte le loro energie alla gestione amministrativa del potere locale, finalizzato all’acquisizione e alla tutela dell’esercizio dei titoli della proprietà terriera, all’assegnazione dei lavori in appalto, alla distribuzione mirata degli impieghi pubblici. Gli esuli invece hanno potuto ulteriormente affinare, guardando all’Europa dalle parti più avanzate d’Italia, la loro progredita cultura politica liberale, già messa alla prova della dura esperienza carceraria. Eredi della grande tradizione illuministica di Ferdinando Galiani, Antonio Genovesi, Gaetano Filangieri, hanno pensato di trovare nella centralità degli intellettuali-funzionari all’interno della hegeliana teoria dello Stato il modello prussiano adatto a imprimere dall’alto il moto innovatore necessario per rendere dinamica la statica società meridionale. Lo statalismo radicale di Silvio Spaventa e di Carlo Poerio, di Francesco De Sanctis e di Pasquale Stanislao Mancini, di Giuseppe Pisanelli e di Ruggero Bonghi si costituisce come alternativa sia alla debole strutturazione della società meridionale, sia alla tradizione borbonica di negazione della politica come strumento di organizzazione sociale e civile. Resta il dubbio se la maturazione di questa idea giacobina e prussiana di direzione politica accentrata e dall’alto derivasse dalla scarsa o, non piuttosto, dalla buona conoscenza dei meccanismi che caratterizzavano la vita sociale e amministrativa della capitale e delle province meridionali nel regime borbonico. L’espulsione della politica dalle attività correnti nel regno aveva finito per accentuare le lotte locali per il potere amministrativo ed economico-sociale e   B. Croce, Storia del Regno di Napoli, Laterza, Bari 1967, p. 247.

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la tendenza alla tradizionale cura dei personali interessi, attraverso l’accaparramento degli impieghi, degli appalti e dei più vari privilegi. Come scriveva il filosofo Bertrando Spaventa al fratello, nel giugno 1862, «per contentare i napoletani ci vuole altro che misure d’interesse generale e pubblico [...] quel che ci vuole è tante misure quanti sono i singoli individui; bisogna contentarli tutti uno per uno: a ciascuno una pensione, o un impiego, o una croce, o qualcos’altro»11. A distanza di quasi due anni dall’annessione non era diminuita la richiesta di impieghi e di pensioni. La «impiegomania» era esplosa nel passaggio da un regime all’altro, veniva alimentata dai nuovi pretendenti «patriottici» ed era stato un altro elemento di sconcerto per i funzionari piemontesi inviati da Cavour a Napoli, già capitale apparentemente opulenta di un regno che si era dissolto12. Distanze e divario La repentina scomparsa del più grande e più antico Stato italiano lasciò una lunga scia di contrasti e di recriminazioni, in un generale contesto peraltro di riaccomodamento dei ceti proprietari e abbienti nei gangli decisivi del nuovo regime. Lo stereotipo allora diffuso era quello letterario del «paradiso abitato da diavoli», sorto tra i ricchi e colti viaggiatori europei durante il settecentesco grand tour, tra i meravigliosi resti di Ercolano e Pompei e gli incantevoli paesaggi marini, ma anche tra pezzenti cenciosi e tremendi banditi13. Al momento dell’unità la scoperta nordica della «barbarie» del Sud, aggravata dalle atrocità dei briganti, si accompagnava all’idea patriottica della grande ricchezza naturale del Mezzogiorno, alla 11   B. Spaventa, La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea, a cura di G. Gentile, Laterza, Bari 1909, p. 311. 12   Scirocco, Il Mezzogiorno nella crisi dell’unificazione cit., pp. 103 sg.; Romeo, Cavour cit., pp. 868 sg.; Petraccone, Le due civiltà cit., pp. 26 sgg. 13   A. Mozzillo, Viaggiatori stranieri nel Sud, Edizioni di Comunità, Milano 1964; G. Galasso, Le magnifiche sorti e regressive di una grande capitale, in A. Mozzillo, La dorata menzogna. Società popolare a Napoli tra settecento e ottocento, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1975, pp. xv sgg.; C. De Seta, L’Italia del Grand Tour. Da Montaigne a Goethe, Electa, Napoli 1992.

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convinzione diffusa che le terre meridionali fossero tutte fertili e ubertose e che il loro vigoroso rigoglio sarebbe ripreso una volta abbattuto il regime borbonico. Si credeva allora che la libertà sostituita al dispotismo avrebbe portato grandi progressi dappertutto. Non ci si poteva aspettare altro dalla caduta di un sistema di governo definito «la negazione di Dio» da un testimone autorevole qual era lord William Gladstone, deputato conservatore di Oxford, ministro e futuro premier britannico, giunto a Napoli nell’autunno 1850 durante il processo ai patrioti liberali14. E invece il Mezzogiorno non era un immaginario eden e la libertà non appariva in grado di cambiare tutto. Del resto, al momento, la libertà aveva lasciato spazio allo stato d’assedio. Eppure, nonostante il duro impatto iniziale, la formazione dello Stato nazionale italiano resta l’impresa più positiva e aperta al futuro compiuta dagli italiani dopo l’invenzione della banca e il rinascimento delle arti. Certo non era affatto semplice riunire e indicare percorsi comuni a genti da sempre divise in tanti Stati e città, che parlavano una lingua largamente incomprensibile fuori del proprio stretto territorio e che, in larghissima misura, non sapevano né leggere né scrivere. Ma l’operazione fu condotta e largamente realizzata, seppure lentamente e tra grossi limiti e contrasti, sociali e territoriali. In questi tempi di crescente disunione italiana si assiste invece alla diffusione, in tal caso unitaria, degli aspetti più tradizionali e deteriori del «carattere» nazionale. La tendenza antica alla deresponsabilizzazione personale e collettiva favorisce ora, di nuovo, misoneistici localismi e separatismi, che puntano da diverse posizioni allo stesso obiettivo: la delegittimazione dello Stato nazionale sulla base dell’esito negativo di scelte e percorsi che pure sono stati prodotti da classi dirigenti espressione comunque di larghe fasce della cosiddetta società civile. Così, mentre in occasione del centenario unitario si discuteva 14   Lord Gladstone a Napoli fu accompagnato, anche nella visita alle carceri dove incontrò Carlo Poerio, dal corrispondente del «Times», un ministro del culto presbiteriano, antipapista e antiborbonico, che soggiornava per lo più a Capri: R. Ciuni, Lettere al «Times» da Capri borbonica. Le corrispondenze di Henry Wreford che mutarono l’opinione politica d’Europa sul Regno delle Due Sicilie, a cura di E. Mazzetti, Edizioni La Conchiglia, Capri 2011, pp. 118 sgg.

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sulla genesi storica del modello industriale italiano, che pareva allora nel suo massimo fulgore; passato un altro mezzo secolo sembra diventato un lontano ricordo anche la successiva fase di sviluppo nei distretti industriali di piccola e media impresa. La glocalizzazione, risultante dall’intreccio tra la globalizzazione e gli assetti locali, si considera da più parti ormai aver sostituito l’ordine fissato nel Seicento a Westfalia con la formazione degli Stati nazionali. L’età dell’informazione e la società in rete impongono quindi la necessità di aggiornare ai tempi profondamente mutati prospettive e programmi. Ne scaturiscono, sul terreno della ricerca sociale, proposte di illuminato riformismo che invitano a riflettere criticamente sulle scelte centralistiche prevalse al momento dell’unificazione nazionale e riproposte sostanzialmente nell’Italia repubblicana. Espresso il dovuto omaggio agli artefici dell’unità e della rinascita nazionale, da Cavour ad Alcide De Gasperi, si prova a rilanciare l’attualità della prospettiva federalista e regionalista di Cattaneo, di Marco Minghetti, di Stefano Jacini, accantonata nel 1861 per le ricordate vicende, ma considerata più rispondente sia ai caratteri della storia preunitaria e soprattutto più aggiornata e utile nell’attuale mondo della finanza globale. Da qui è scaturito, ad esempio, un «progetto Nord», che si intende qualificare dal rapporto con il mondo, e non più dal modo del Nord di stare in Italia, nei termini precedenti della «questione settentrionale». La rottura dell’unità del paese, ha precisato Piero Bassetti, primo presidente della regione Lombardia, si può evitare solo rispettandone le differenze profonde e ponendo in termini del tutto nuovi il tema del loro superamento. La soluzione sarebbe quindi nel «porre la questione del Nord come questione di ‘una regione multi-nodale del mondo’ e non più come parte settentrionale della Repubblica Italiana». Il «progetto Nord» andrebbe comunque «centrato sulla assoluta priorità dei rapporti con un Sud che guardi anch’esso al resto del mondo e non al solo Nord come terreno di realizzazione del proprio sviluppo»15. 15   P. Bassetti, Prefazione a La crisi italiana nel mondo globale. Economia e società del Nord, a cura di P. Perulli e A. Pichierri, Einaudi, Torino 2010, pp. ix sgg.; cfr. pure, nello stesso volume, i saggi di P. Perulli e A. Pichierri, La crisi italiana e il Nord, pp. 3 sgg.; P. Bianchi, Sviluppo senza ricerca, pp. 263 sgg.; A. Bagnasco, Il

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Mentre il Nord avanzato traffica col mondo, come del resto ha sempre fatto, il Sud appare sempre più lontano da una progettualità efficace e attardato a rilanciare polemiche inconsistenti, anche in reazione al becero localismo separatistico e razzistico diffusosi nel Settentrione durante l’ultimo ventennio. Al di là di vetuste litanie mediterranee – che nei secoli hanno spaziato da Napoli «regina del Mediterraneo» a Brindisi «porta per l’Oriente», fino all’esaltato «mare nostrum» – le regioni meridionali non sono ancora pronte a puntare, come ha suggerito Bassetti, al «ripristino di relazioni antiche col resto del mondo [che] può essere validissima alternativa alla tradizionale tentazione di risolvere i propri problemi rivolgendosi al centro»16. I tentativi encomiabili di cercare strade nuove per rilanciare un’altra stagione di sviluppo, dopo uno stallo quarantennale, mentre il mondo si è messo a correre all’insaputa dell’Italia, non traggono certo giovamento dalle presunte novità affermate circa le condizioni economiche e sociali esistenti nelle differenti parti del paese al momento dell’unità. Di recente in Italia si è largamente adottata una categoria interpretativa di robusto spessore, elaborata da insigni studiosi quali Eric J. Hobsbawm e Terence O. Ranger: l’invenzione della tradizione17. Ma, in un paese di scoppiettante originalità come il nostro, la tradizione non è mai stata in auge come invece in Gran Bretagna; visto che mai nessuno s’è dichiarato conservatore, nonostante la pervicace, diffusa avversione a qualsiasi riforma, anche ciò in palese dissonanza dalla tradizione britannica. Così si è pensato bene di adattare meglio questo canone euristico alla situazione italiana, trasformandolo in una sorta di invenzione della realtà, che corrisponde meglio fra l’altro alla realtà virtuale dell’attuale società dello spettacolo18. Si è proceduto quindi a vari tentativi di ribaltare solide acNord: una città-regione globale?, pp. 389 sgg. Sulla «questione settentrionale» cfr. Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Annali, a. XLI, La questione settentrionale. Economia e società in trasformazione, a cura di G. Berta, Feltrinelli, Milano 2007. 16   Bassetti, Prefazione cit., p. xix. 17   L’invenzione della tradizione, a cura di E.J. Hobsbawm e T.O. Ranger, Einaudi, Torino 1987. 18   G. Debord, La società dello spettacolo (1967), Baldini Castoldi Dalai, Milano 2001.

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quisizioni storiografiche, frutto di pluriennali ricerche condotte con metodi diversi e differenti orientamenti interpretativi, che avevano fissato alcuni punti fermi. Principali vittime di questo sedicente revisionismo privo di fondamento documentario sono stati l’unità italiana e il Mezzogiorno. Tecniche privilegiate quelle correnti della propaganda giornalistica e televisiva. Ma riprendiamo il filo di una fondata analisi delle condizioni economiche e sociali del Nord e del Sud negli anni dell’unificazione. I punti essenziali da ribadire sono questi. Con l’unificazione italiana l’arretratezza meridionale confluisce dentro un più ampio assetto politico ed economico, che appare comunque distante e in complessivo ritardo rispetto alle maggiori potenze che in forme diverse avevano avviato processi di intenso sviluppo industriale: Gran Bretagna, Francia, impero asburgico, Stati germanici, Belgio. Il reddito individuale in Italia era un quarto di quello inglese e un terzo di quello francese. Il divario che distingue e contrappone subito quelle che Giustino Fortunato definirà «le due Italie» si inserisce quindi dentro un più generale ritardo che colloca il nuovo Stato italiano a notevole distanza dai più avanzati paesi del tempo: specialmente sul terreno dello sviluppo manifatturiero e industriale e sul piano della disponibilità di capitali e di risorse energetiche, all’epoca ferro e carbone19. Del resto sarà proprio Fortunato, al principio del Novecento, a definire efficacemente il carattere pre-capitalistico dell’economia e della società meridionale prima dell’unità, in netta polemica con alcune affermazioni di Nitti. Questi, nella sua grande opera su Il Bilancio dello Stato dal 1862 al 1896-97, sopravvalutava, con strano pregiudizio mercantilistico in un produttivista come lui, l’importanza del numerario nel regno borbonico, ricco di monete d’argento e parco nell’imposizione fiscale, che comportava però scarsissime iniziative statali. Il suo giudizio sullo stato dell’economia meridionale al momento unitario era perciò positivo; ciò che mancava al regno borbonico invece «era ogni educazione politica»20 .

19   G. Pescosolido, Dal sottosviluppo alla questione meridionale, in Storia del Mezzogiorno d’Italia, diretta da R. Romeo e G. Galasso, vol. XII, Edizioni del Sole, Napoli 1991, pp. 19 sgg.; F. Barbagallo, Meridionale, questione, in Enciclopedia delle Scienze Sociali, vol. V, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1996, p. 615. 20   Il Bilancio dello Stato e la sua riduzione Nord e Sud (1900) sono stati ri-

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Fortunato giudicò errate queste considerazioni del suo migliore allievo e rispose con un quadro penetrante della condizione strutturale dell’Italia meridionale al momento dell’unità: «Essa viveva di una economia primitiva, in cui quasi non esisteva la divisione del lavoro, e gli scambi erano ridotti al minimo: si lavorava più spesso per proprio sostentamento, anziché per produrre valori di scambio [...] le città mancavano di scuole, le campagne di strade, le spiagge di approdi; e i traffici andavano ancora a schiena di giumenti [...] i capitali quaggiù giacevano inoperosi e ricorrevano a una sola fonte d’impiego, quella del debito pubblico, la più facile a fruttare, ma di tutte la meno fruttifera». In ogni caso, era la lucida conclusione di Fortunato, che si giovava della esperienza imprenditoriale del fratello Ernesto, rara nel Sud: «Se le imposte erano poche e tenue il debito pubblico e copiosa la moneta, tutta la nostra costituzione economica di Stato era impotente a dare impulso alla produzione della ricchezza»21. L’Italia unita è un paese agricolo, molto differenziato nella struttura delle forme produttive e dei rapporti sociali. La presenza di manifatture e di opifici anche consistenti non aveva ancora aperto l’era della produzione industriale in fabbrica con l’uso delle macchine, salvo alcuni settori militari d’interesse statale e qualche altro di iniziativa straniera. Il limitato inserimento dell’economia italiana nel mercato mondiale – ha scritto Valerio Castronovo – «non rappresentò una leva capace di spezzare il circolo vizioso dell’arretratezza economica di ampie zone della penisola e di rendere meno marginale la posizione di altre rispetto alle aree europee più progredite»22. L’Italia, quindi, al 1860 era un paese ancora attardato nell’era pubblicati in F.S. Nitti, Scritti sulla questione meridionale. Saggi sulla storia del Mezzogiorno – Emigrazione e lavoro (1899-1909), Laterza, Bari 1958. Cfr. anche F. Barbagallo, Francesco S. Nitti, Utet, Torino 1984, pp. 95 sg. 21   La questione meridionale e la riforma tributaria (luglio 1904) fu poi pubblicata nei due volumi Il Mezzogiorno e lo Stato Italiano 1880-1910, stampati per la prima volta a sue spese da Fortunato nel 1911 presso l’editore Laterza di Bari, e successivamente nel 1925 dall’editore Vallecchi di Firenze, che ne fece una nuova edizione nel 1973. Si può leggere ora in G. Fortunato, Scritti politici, a cura di F. Barbagallo, De Donato, Bari 1981, pp. 93 sgg. Le citazioni sono tratte dalle pagine 118-21. 22   V. Castronovo, Storia economica d’Italia. Dall’Ottocento ai giorni nostri, Einaudi, Torino 1995, p. 45.

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pre-industriale, con i lenti ritmi di vita, i redditi esigui e le forme di autoconsumo tipiche della società agrarie. Dentro questo complessivo ritardo dell’intero paese si colloca quindi l’arretratezza dell’economia e della società meridionale. Le ragioni principali del forte ritardo dell’economia meridionale consistevano essenzialmente in una sostanziale dipendenza dal mercato internazionale, sia per la produzione agricola che nei settori extra-agricoli, e in una estrema esiguità del mercato interno. «Espressione principale dell’arretratezza economica delle provincie meridionali al momento dell’unificazione – ha scritto Pasquale Saraceno – era la posizione dell’agricoltura, che si presentava in quelle regioni pressoché come la sola fonte di reddito; per di più questa agricoltura era notevolmente arretrata in confronto a quella degli altri Stati italiani»23. La scarsa mercantilizzazione, e quindi il carattere arretrato e stagnante, dell’economia meridionale, poco prima della caduta del Regno delle Due Sicilie, era confermata dal livello bassissimo del commercio estero pro capite: 5,5 ducati rispetto ai 9 dell’arretrato Stato pontificio e ai 40 del Regno di Sardegna24. Le attività manifatturiere erano per lo più di livello artigianale e producevano per l’autoconsumo o per un ristretto mercato locale. L’industria laniera concentrata nella valle del Liri era di ridotte dimensioni e debole sul piano tecnologico e organizzativo. Più avanzati erano gli stabilimenti tessili delle valli del Sarno e dell’Irno, costruiti e diretti da imprenditori svizzeri e tedeschi discesi al Sud al tempo del blocco continentale napoleonico. Erano invece imprenditori inglesi e francesi gli industriali che avevano impiantato gli stabilimenti metalmeccanici nelle aree costiere intorno alla capitale. Mentre gli arsenali militari, il cantiere navale di Castellammare, la grande officina ferroviaria di Pietrarsa

23   P. Saraceno, La mancata unificazione economica italiana a cento anni dalla unificazione politica, in L’economia italiana dal 1861 al 1961, Giuffrè, Milano 1961, ora in Id., Sottosviluppo industriale e questione meridionale. Studi degli anni 19521963, Svimez-il Mulino, Bologna 1990, pp. 148. 24   A. Graziani, Il commercio estero del Regno delle Due Sicilie dal 1832 al 1858, in «Archivio economico dell’unificazione italiana», serie I, vol. X, fasc. 1, RomaTorino 1960; F. Bonelli, Il commercio estero dello Stato pontificio nel secolo XIX, in «Archivio economico dell’unificazione italiana», serie I, vol. XI, Roma-Torino 1961.

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erano gestiti direttamente dallo Stato borbonico e godevano quindi di alti dazi, come tutte le altre industrie, ed erano garantite dalle commesse statali25. La distanza economica tra Nord e Sud non era particolarmente significativa, perché si collocava dentro sistemi caratterizzati dai bassi indici di espansione delle società pre-industriali. Per la stessa ragione non appaiono così rilevanti nemmeno i divari del reddito pro capite, sui cui sistemi di calcolo per l’Ottocento regna spesso il mistero, così come il dubbio sulla validità dei dati censuari. Al principio degli anni Sessanta Richard S. Eckaus indicò come semplicemente «plausibile una differenza del 15-20% nel reddito pro capite fra Nord e Sud»26. Al riguardo non sono state ancora completate ricerche originali, nemmeno di tipo cliometrico, fondate cioè su modelli econometrici applicati alla storia economica. Di recente però Vittorio Daniele e Paolo Malanima hanno affermato, sulla base di varie supposizioni, che «non esisteva, all’Unità d’Italia, una reale differenza Nord-Sud in termini di prodotto pro capite»27. L’inesistenza di un significativo divario economico tra Nord e Sud già al momento dell’unità è sostenuta anche da Stefano Fenoaltea28. Questo punto di vista è stato condiviso dagli studiosi e i dirigenti della Svimez (Associazione per lo sviluppo dell’industra nel Mezzogiorno)29. 25   L. De Rosa, Iniziativa e capitale straniero nell’industria metalmeccanica del Mezzogiorno 1840-1904, Giannini, Napoli 1968; S. De Majo, L’industria protetta. Lanifici e cotonifici in Campania nell’Ottocento, Edizioni Athena, Napoli 1989. 26   R.S. Eckaus, Il divario Nord-Sud nei primi decenni dell’Unità, in La formazione dell’Italia industriale cit., p. 116. Il saggio era comparso, in lingua inglese, due anni prima: R.S. Eckaus, The North-South Differential in Italian Economic Development, in «The Journal of Economic History», XXI, 3, september 1961, p. 300. Una esauriente analisi del divario tra Nord e Sud lungo tutto il periodo unitario è ora in E. Cerrito, Dati e studi sul divario tra Mezzogiorno e resto del paese nel lungo periodo, in «Studi Storici», 52, 2011/2, pp. 261 sgg. 27   V. Daniele e P. Malanima, Il prodotto delle regioni e il divario Nord-Sud in Italia (1861-2004), in «Rivista di politica economica», 97, marzo-aprile 2007, p. 274. Cfr. pure V. Daniele, P. Malanima, Il divario Nord-Sud in Italia 1861-2011, Rubbettino, Soveria Mannelli 2011. 28   S. Fenoaltea, I due fallimenti della storia economica: il periodo post-unitario, in «Rivista di politica economica», 97, marzo-aprile 2007, pp. 341 sgg.; Id., L’economia italiana dall’Unità alla Grande Guerra, Laterza, Roma-Bari 2006. 29   A. Giannola, Il Mezzogiorno nell’economia italiana. Nord e Sud a 150 anni dall’unità, in «Rivista economica del Mezzogiorno», XXIII, 2010, n. 3, pp. 593

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Vera Zamagni invece, preoccupata pure dell’uso pubblico da parte «sudista» di queste stime regionali, ha opportunamente invitato a prendere queste affermazioni «con molta cautela». Anche perché i dati ottocenteschi sull’occupazione regionale nell’industria e nei servizi provengono dai censimenti della popolazione, che non indicavano né il grado di qualifica del lavoro, né la produttività. Per rendere meglio comprensibile la delicata materia, la studiosa ha ricordato come, un quarto di secolo fa, denunciò che «fino al censimento del 1881 vennero classificate come operaie tessili centinaia di migliaia di donne meridionali che occasionalmente in casa si dedicavano alla filatura e/o alla tessitura per i bisogni domestici. Se, dunque, non si tengono presenti le deformazioni dei censimenti e non si usa nelle stime un qualche indicatore di occupazione e produttività, il risultato sarà di produrre stime regionali (o provinciali) che sottovalutano i divari regionali anche pesantemente»30. Se la disponibilità di dati affidabili per la valutazione delle condizioni dell’industria e anche dei servizi ha fatto pochi progressi, restano ancora da rivedere con sistemi aggiornati, specie per i confronti regionali, le stime dell’agricoltura, ch’era il settore largamente caratterizzante l’economia italiana nei primi decenni unitari. In sostanza si resta ancora debitori alle grandi inchieste parlamentari dell’epoca, coordinate dai senatori Stefano Jacini ed Eugenio Faina31, e alle analisi di esperti economisti coevi quali Ghino Valenti32. sgg.; L. Bianchi, D. Miotti, R. Padovani, G. Pellegrini, G. Provenzano, 150 anni di crescita, 150 anni di divari: sviluppo, trasformazioni, politiche, in «Quaderni Svimez», n.s. 31, marzo 2012, Nord e Sud a 150 anni dall’Unità d’Italia, pp. 51 sgg. 30   V. Zamagni, La situazione economica e sociale del Mezzogiorno negli anni dell’unificazione, relazione letta al convegno su «La cultura politica, giuridica ed economica nel Mezzogiorno al momento dell’unificazione politica», Istituto italiano per gli studi filosofici, Napoli 28 ottobre 2011, pp. 3 sg.; Ead., A century of change: trends in the composition of the labour force, 1881-1981, in «Historical Social Research», ottobre 1987, n. 44, pp. 36 sgg. Cfr. pure Ead., Dalla periferia al centro. La seconda rinascita economica dell’Italia 1861-1981, il Mulino, Bologna 1990. 31   Giunta parlamentare per l’inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola, Atti, 16 voll., Roma 1882-86; Atti della inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini nelle province meridionali e nella Sicilia, 8 voll., Bertero, Roma 1907-11. 32   G. Valenti, L’Italia agricola dal 1861 al 1911, in Cinquant’anni di storia italiana, a cura della Reale Accademia dei Lincei, Hoepli, Milano 1911, vol. II, pp. 1 sgg.

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Come ha riconosciuto anche lo studioso più attento a questo problema, Giovanni Federico: «Il ricorso a dati quantitativi è limitato e comunque si tratta sempre di dati parziali»33. La discussione riaperta sulla misura del divario tra Nord e Sud al momento dell’unità si è arricchita di nuovi contributi, che hanno messo in luce l’importanza di diversi indicatori, vecchi e nuovi, per segnalare il livello dello sviluppo di determinate aree. Nelle società pre-industriali, com’era l’Italia nel 1861, i divari di reddito non sono particolarmente significativi, come diventeranno invece con l’avanzare dell’industrializzazione. L’indicatore più importante che distanziava fortemente l’Italia dai paesi europei più sviluppati riguardava l’istruzione. E, non per caso, era lo stesso segnalatore del più pesante divario tra Nord e Sud. Dieci anni dopo l’unità il Piemonte e la Lombardia avevano tassi di analfabetismo di poco superiori al 40%. Le regioni meridionali viaggiavano ancora su livelli extraeuropei, tra l’80 e il 90%. I bambini che frequentavano le scuole elemementari nelle due regioni del Nord erano il 90%, al Sud il tasso di scolarità era fermo al 18%. Napoli nel 1874 aveva ancora il 60% di analfabeti, quando a Milano erano il 23%34. Il sistema scolastico nel regno borbonico aveva conosciuto una fase relativamente positiva nel periodo illuministico, specie per i contributi di Genovesi e poi di Cuoco. Durante l’Ottocento l’istruzione migliore fu fornita nelle scuole private, dirette da grandi personalità: letterati quali Basilio Puoti e Francesco De Sanctis, economisti come Francesco Fuoco e Antonio Scialoja. L’istruzione pubblica era affidata al ministero degli Affari ecclesiastici e quindi al clero, sotto la protezione dello Spirito Santo35. Del resto, 33   G. Federico, Ma l’agricoltura meridionale era davvero arretrata?, in «Rivista di politica economica», 97, marzo-aprile 2007, p. 319. Cfr. pure Id., Le nuove stime della produzione agricola italiana, 1860-1910: primi risultati ed implicazioni, in «Rivista di storia economica», n. 19, 2003, pp. 359 sgg. 34   L. Cafagna, Nord e Sud nella storia dell’Unità d’Italia, in «Rivista giuridica del Mezzogiorno», XXV, 2011/1-2, p. 57. 35   A. Broccoli, Educazione e politica nel Mezzogiorno d’Italia, La Nuova Italia, Firenze 1968; R. De Lorenzo, Società economiche ed istruzione agraria nell’Ottocento meridionale, Franco Angeli, Milano 1998; M. Lupo, Tra le provvide cure di Sua Maestà. Stato e scuola nel Mezzogiorno tra Settecento e Ottocento, il Mulino, Bologna 2005; S.A. Granata, Le reali società economiche siciliane. Un tentativo di modernizzazione borbonica (1831-1861), Bonanno, Acireale-Roma 2008.

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nel grande regno circondato «dall’acqua salata e dall’acqua santa», i giornali erano stampati direttamente dalla polizia. Dall’enorme analfabetismo e dalla rara istruzione primaria il degrado saliva fino all’antica università fondata da Federico II. Un opuscolo anonimo su Le piaghe dell’istruzione pubblica napoletana veniva distribuito a Napoli nell’agosto 1860. Poco prima quindi che uno degli esuli liberali, responsabili secondo il becero revisionismo corrente di aver diffuso la «leggenda nera» di un retrivo regime borbonico, realizzasse da ministro il suo progetto «europeo» di riforma dell’università. «Io voglio fare – scrisse nel 1861 Francesco De Sanctis – dell’università di Napoli la prima università di Europa»36. Un altro settore fondamentale, dove risaltava il pesante ritardo accumulato nelle province meridionali, era costituito dai sistemi di comunicazione e dalle dotazioni di strade e di ferrovie. La retorica dei primati conseguiti nel regno borbonico si condensa nel primo tratto ferroviario italiano costruito per una decina di chilometri da Napoli a Portici, al fine precipuo di congiungere più rapidamente i due palazzi reali. Nei primi anni Sessanta l’Italia aveva 2.400 chilometri di linee ferroviarie: la dotazione meridionale si limitava a 126 chilometri, in esercizio come sempre nei dintorni dell’ex capitale37. La condizione delle strade non era migliore: soltanto quattro strade nazionali si dipartivano da Napoli ed erano in pessime condizioni. Per il resto, centri urbani in espansione e fertili o desolate campagne vivevano in quasi completo isolamento. Un altro settore centrale per una prospettiva di sviluppo versava al Sud in condizioni particolarmente gravi di arretratezza organizzativa: le strutture del credito. Restavano solitari il Banco di Napoli, che aprì la prima filiale a Bari nel 1857, e il Banco di Sicilia, che emettevano solo fedi di credito; la moneta cartacea cominciò a circolare nel 1866, con il corso forzoso. Nel Regno delle Due Sicilie non c’erano Casse di risparmio, fornitrici di credito alle piccole imprese, che al Nord s’erano dif36   L. Russo, Francesco De Sanctis e la cultura napoletana (1928), Sansoni, Firenze 1959, pp. XII, 1 sgg. 37   G. Pescosolido, Arretratezza e sviluppo, in Storia d’Italia, 2, Il nuovo stato e la società civile 1861-1887, a cura di G. Sabbatucci e V. Vidotto, Laterza, RomaBari 1995, p. 228.

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fuse dall’inizio dell’Ottocento: la prima si aprì a Napoli nel 1861, la seconda a Cosenza l’anno dopo. C’era solo qualche Monte di Pietà e qualche Monte frumentario che faceva credito in natura. Il problema del credito fondiario al Sud, in definitiva, era nelle mani di «prestatori privati, che esigevano alti tassi d’interesse»38, altrimenti detti usurai. Negli ultimi tempi si è avviata una nuova linea di ricerca nella storia economica, attenta agli «indicatori sociali» dello sviluppo e del benessere. Oltre all’istruzione e alla mortalità infantile da tempo indagate, la statura media, l’aspettativa di vita e categorie nuove come l’indice di sviluppo umano e l’indice di qualità della vita vengono analizzati lungo tutta la storia unitaria. Una più elevata statura indica generalmente un maggior consumo di sostanze nutritive, con la riserva però che l’aumento del reddito riduce la quota destinata al nutrimento e che la difformità delle diete alimentari nelle diverse regioni italiane influisce anch’essa sulle altezze medie. Le rilevazioni delle leve militari sull’altezza dei coscritti nei primi anni unitari consentono di verificare la statura media più bassa della popolazione italiana rispetto ai paesi più sviluppati e una differenza di ben tre centimetri – che rappresenta una quota molto alta – tra i militari del Nord e quelli del Sud. In entrambi i casi si conferma, anche per questa via, l’arretratezza italiana e, al suo interno, quella ancor più intensa del Sud. Sul lungo periodo secolare questi indicatori sociali attesteranno invece un significativo processo di convergenza tra Nord e Sud, in contrasto con la crescita del divario per prodotto e per reddito39. La distanza negativa tra l’Italia e l’Europa avanzata, al momento dell’unificazione, non deve però far dimenticare la distanza, questa volta in positivo, che si crea tra la condizione marginale degli Stati italiani pre-unitari nel contesto europeo e l’accelera38   L. De Rosa, La rivoluzione industriale in Italia e il Mezzogiorno, Laterza, Roma-Bari 1973, p. 94.; Id., Il Banco di Napoli nella vita economica nazionale (18631883), L’Arte tipografica, Napoli 1964. 39   E. Felice, I divari regionali in Italia sulla base degli indicatori sociali (18712001), in «Rivista di politica economica», 97, marzo-aprile 2007, pp. 359 sgg.; Id., Divari regionali e intervento pubblico. Per una rilettura dello sviluppo in Italia, il Mulino, Bologna 2007; G. Vecchi, In ricchezza e povertà. Il benessere degli italiani dall’Unità a oggi, il Mulino, Bologna 2011.

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zione impressa dal nuovo Stato unitario per la creazione delle condizioni favorevoli al successivo sviluppo economico e a quella «capacità sociale di crescita» di cui abbiamo visto poc’anzi i principali indicatori. In questo senso, si può condividere il giudizio espresso da Gianni Toniolo, sui primi decenni unitari, in una recente ricerca sullo «sviluppo economico moderno» dell’Italia dal 1861 a oggi: «Nonostante la modestissima crescita di produzione e produttività, il primo trentennio unitario vide un non trascurabile miglioramento delle dimensioni non monetarie del benessere come la speranza di vita alla nascita, la mortalità infantile, l’altezza delle reclute, l’alfabetizzazione. L’incidenza del lavoro minorile diminuì, come pure quella della povertà»40. In conclusione di questi raffronti, vecchi e nuovi, sembra comprensibile lo sconcerto espresso da uno studioso come Luciano Cafagna, che a questi temi ha dedicato tutta una vita di ricerca, di fronte ai recenti raffronti tra le condizioni del Nord e del Sud al momento dell’unità, e in particolare al confronto tra l’agricoltura irrigua della valle padana dai «livelli di capitalizzazione (fondiaria e di esercizio), tecniche e produttività di livello incomparabilmente più alto che nel Sud [...] con il povero ‘latifondo contadino’ del Sud». Quasi parafrasando i giudizi ripetuti dai maggiori economisti agrari del Novecento sul latifondo meridionale come «economia dell’assurdo», a Cafagna è parso semplicemente «assurdo [...] che si sia potuto favoleggiare di inesistenza o irrilevanza di disparità economiche fra Nord e Sud prima dell’unificazione»41.

40   G. Toniolo, L’Italia e l’economia mondiale, 1861-2011, Banca d’Italia Eurosistema, Roma 12 ottobre 2011, p. 9. 41   L. Cafagna, Nord e Sud nella storia dell’Unità d’Italia, cit., pp. 56 sg.

III La questione meridionale, il meridionalismo Il Mezzogiorno come problema Il Mezzogiorno si presenta come questione meridionale subito dopo l’unificazione nazionale, dentro il nuovo Stato italiano. L’unità congiunge due diverse formazioni economico-sociali, corrispondenti largamente alla divisione territoriale tra Nord e Sud, caratterizzate da un differente grado di sviluppo, che soltanto in alcune aree settentrionali poteva definirsi pienamente capitalistico. Le propensioni al decentramento e all’autogoverno locale, secondo il modello inglese e gli interessi delle classi dirigenti regionali, ch’erano diffuse specie tra i liberali del Centro-Nord, furono bloccate dalle rivolte esplose nelle province meridionali. I progetti di organizzazione dello Stato in base ai principi del decentramento amministrativo vennero accantonati e si definì un rigido accentramento istituzionale e amministrativo di stampo giacobino-napoleonico, caratterizzato dalla centralità dell’istituto prefettizio a livello provinciale1. L’intreccio di liberalismo e autoritarismo si aggraverà decisamente, già nei primi anni unitari, con la continua proclamazione di stati d’assedio e di leggi eccezionali per il Mezzogiorno e per la Sicilia2. L’unificazione normativa, con l’estensione alle altre regioni della legislazione vigente in Piemonte, comportò pesanti conse-

1   E. Ragionieri, Politica e amministrazione nella storia dell’Italia unita, Laterza, Bari 1967. 2   R. Romanelli, Il comando impossibile. Stato e società nell’Italia liberale, il Mulino, Bologna 1988, pp. 7 sgg.

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guenze per il Sud. La pressione fiscale era molto bassa nel regno borbonico, perché era molto ridotta la spesa pubblica per i servizi sociali essenziali: dal sistema di comunicazioni all’istruzione, ai lavori pubblici. Con l’unità gravarono anche sulle province meridionali le forti spese sostenute dal Piemonte nelle guerre risorgimentali e i costi delle strade e delle ferrovie ora necessarie per l’unificazione del mercato nazionale e la commercializzazione dell’economia italiana, che si agganciava a quelle europee più avanzate3. La politica economica liberistica del primo ventennio unitario favorì l’agricoltura meridionale nel settore delle colture pregiate d’esportazione (agrumi, vite, olivo, mandorlo); ma colpì le manifatture e i cantieri ch’erano stati protetti con alti dazi. La vendita statale di un milione di ettari di terreni demaniali e della manomorta ecclesiastica completò al Sud il processo di libera circolazione della terra. La profusione dei capitali nell’acquisto delle nuove proprietà precluse la possibilità di investimenti produttivi anche a quella parte della borghesia agraria meridionale meno restia a introdurre più moderne forme produttive e rapporti sociali meno gravosi per i contadini, che intanto avevano perduto gli ultimi usi civici di semina, pascolo, legnatico4. Questione meridionale e unità nazionale La questione meridionale non è una «invenzione», come si è affermato anni fa con leggerezza. Non per caso è ancora oggi irrisolta. Non è stata inventata dai «meridionalisti», vittime di polemiche senza fondamento. Se, dopo 150 anni, il rapporto tra Nord e Sud è ancora una questione aperta, c’è una ragione profonda 3   E. Sereni, Capitalismo e mercato nazionale in Italia, Editori Riuniti, Roma 1966. 4   F. Barbagallo, La modernità squilibrata del Mezzogiorno d’Italia, Einaudi, Torino 1994, pp. 5 sgg.; F. Cammarano, La costruzione dello stato e la classe dirigente, G. Pescosolido, Arretratezza e sviluppo, entrambi in Storia d’Italia, 2, Il nuovo stato e la società civile 1861-1887, a cura di G. Sabbatucci e V. Vidotto, Laterza, Roma-Bari 1995, pp. 3 sgg., 217 sgg. Cfr. anche P. Pombeni, La rappresentanza politica, R. Romanelli, Centralismo e autonomie, entrambi in Storia dello Stato italiano dall’Unità a oggi, a cura di R. Romanelli, Donzelli, Roma 1995, pp. 73 sgg., 125 sgg.

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che attiene alla genesi storica e ai forti contrasti del processo di unificazione nazionale. La «liberazione» del Mezzogiorno e della Sicilia, si è visto, avviene in forme molto diverse dall’adesione del Centro-Nord al Regno di Sardegna. In Alta Italia il processo unitario è guidato con mano ferma da Cavour e dai ceti dirigenti regionali dello stesso orientamento liberal-moderato. Al Sud invece si sviluppa una guerra rivoluzionaria contro un grande Stato, guidata da Garibaldi, sostenuta con entusiasmo da quasi tutta la Sicilia, quindi con la partecipazione più o meno attiva di significativi strati popolari e proprietari delle province meridionali. Il Regno delle Due Sicilie, che Garibaldi consegnerà a Vittorio Emanuele II, costituisce una realtà molto diversa dalle altre regioni italiane, non solo per la sua strutturazione economico-sociale e politico-culturale, ma per i peculiari caratteri democratici e rivoluzionari del processo che porta all’unità nazionale. La forma in cui avviene l’unificazione penalizzerà fortemente il contributo democratico, con l’emarginazione di Garibaldi, dell’esercito garibaldino, delle forze democratiche sia pur circoscritte e prive di progetti politici determinati, cui sarà aperta soltanto la strada dell’assorbimento nella struttura liberal-moderata del Regno d’Italia. Il liberalismo italiano, rappresentato da un Cavour scomparso prematuramente senza eredi alla sua altezza, non riuscirà a gestire in modo adeguato l’imprevista espansione nel regno del Sud, praticamente sconosciuto nelle sue diverse tradizioni e culture, e rapidamente giudicato e liquidato quale mero problema di ordine pubblico. Le rivolte contadine per la terra, che già Garibaldi non aveva saputo affrontare, e le prevedibili reazioni borboniche ed ecclesiastiche, volte a restaurare il precedente regime, indussero i nuovi governanti italiani a usare le misure militari e autoritarie degli stati d’assedio e delle leggi eccezionali per stabilire il nuovo ordine nel Mezzogiorno e in Sicilia, fondato anzitutto sulla tutela delle proprietà, ch’era garanzia essenziale per tutte le classi dirigenti italiane. Una situazione già resa drammatica dai repentini cambiamenti politici venne ulteriormente complicata dai tentativi di riprendere, a breve distanza dalla vittoriosa impresa, il percorso rivoluzionario che aveva liberato il Sud puntando di nuovo verso Roma, la fatidica, mancata capitale d’Italia. Il ferimento di Garibaldi

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sull’Aspromonte nell’estate 1862 porrà fine in modo drammatico alla prospettiva democratica e rivoluzionaria e insieme al tradizionale doppio gioco del re e del presidente-cortigiano Urbano Rattazzi, capo della Sinistra storica. Per il Sud si inasprirà la cura di stati d’assedio e di leggi eccezionali, in contrasto con le ultime volontà di Cavour. La questione meridionale nasce da questi fatti drammatici e si definisce subito, già nei mesi gloriosi dell’avanzata garibaldina, ben prima quindi che appaia dalle lettere e poi negli scritti di politici e studiosi. In Sicilia, che costituisce da sempre una questione a sé stante, ha subito i connotati delle lotte contadine, delle questioni demaniali, dei conflitti locali: la tragica impresa di Nino Bixio a Bronte è solo la vicenda più nota. Poco dopo, appena giunto a Napoli Garibaldi, si avranno le prime insorgenze contadine, in Molise, in Irpinia. A Napoli, che rappresenta un’altra peculiare questione, è sintomatico quanto accade tra il crollo del regno borbonico, la dittatura garibaldina, le luogotenenze piemontesi. Un autorevole esponente della proprietà terriera e della cultura meridionale, l’avvocato e professore di diritto commerciale Liborio Romano, liberale della Terra d’Otranto, massone, carbonaro attivo nei moti del 1820 e del 1848, esule in Francia, poi graziato dal re, diventa ministro dell’Interno nell’effimero governo costituzionale di Francesco II, ma contemporaneamente viene segnalato a Cavour dal diplomatico marchese di Villamarina «per i sentimenti molto italiani». Passerà alla storia per aver risolto in modo originale e significativo il problema dell’ordine pubblico all’arrivo di Garibaldi a Napoli: lo affiderà alla responsabilità dell’organizzazione criminale camorristica, previo accordo formale col suo capo, Salvatore De Crescenzo5. Transitato nel governo formato dal Luogotenente Farini, Romano dovrà però convivere con Silvio Spaventa, che procederà in direzione opposta, avviando una dura lotta contro la camorra a Napoli e poi dalla capitale Torino dove, da segretario generale del ministero dell’Interno, inasprirà questo impegno contribuendo a definire la «procedura per la repressione del brigantaggio e dei   L. Romano, Memorie politiche, Marghieri, Napoli 1870, pp. 14 sgg.

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camorristi nelle province infette», la legge eccezionale dell’agosto 1863, la «legge Pica»6. Sin dal formarsi quindi dello Stato italiano si definiscono, all’interno delle classi dirigenti meridionali e quindi negli apparati statali, due orientamenti contrapposti nei confronti delle organizzazioni criminali, che avranno un grande avvenire nel Sud. In Sicilia l’uso politico della mafia per combattere altri delinquenti ebbe un autorevole protagonista nel giovane marchese di Rudinì, Antonio Starrabba, quand’era prefetto di Palermo. Qualche anno dopo, il procuratore generale presso la Corte d’appello di Palermo Diego Tajani – come denuncerà da deputato della Sinistra alla Camera nel 1875, prima di diventare ministro guardasigilli – sarà rimosso per aver emesso un mandato di cattura contro il questore di Palermo per le collusioni della pubblica sicurezza con la mafia, durante la prefettura con poteri speciali del generale Giacomo Medici, ch’era stato uno dei capi militari dell’esercito garibaldino7. È questo il contesto storico in cui si definisce l’unità nazionale e insieme l’immediato contrasto fra Nord e Sud. Le differenze, le incomprensioni, i conflitti sono reali, e motivati. Non c’è niente di inventato. Anzi, qualcosa di inventato c’è. Sono i primati: anzitutto quelli dell’Italia e di Roma, da Gioberti e da Mazzini, per nobili fini, ma fuori della realtà attuale. Gli asseriti primati del regno borbonico poi non hanno nemmeno il conforto della storia romana e del rinascimento economico e artistico in vista dell’era moderna. Sono soltanto tentativi isolati, senza futuro, in un mare di arretratezza politica, culturale, economica, con qualche sprazzo luminoso e solitario di modernità. Destra e Sinistra storica nel Mezzogiorno E gli esuli liberali e democratici del Mezzogiorno e della Sicilia, diventati deputati e ministri del Regno d’Italia, militanti per lo più nella Destra storica, ma anche nella Sinistra, dove poi parecchi 6   M. Marmo, Il coltello e il mercato. La camorra prima e dopo l’unità d’Italia, l’ancora del mediterraneo, Napoli-Roma 2011, pp. 21 sgg.; F. Barbagallo, Storia della camorra, Laterza, Roma-Bari 2010, pp. 20 sgg. 7   Renda, Storia della Sicilia cit., p. 202.

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trasmigreranno? Sono stati dipinti, tempo fa, quali denigratori della loro patria, come gli antifascisti nel ventennio, creatori della «leggenda nera» di un retrivo regime borbonico8, fornitori di artefatti documenti per l’azione dei governi liberali inglesi volta a colpire il più grande regno legittimamente insediato sul territorio italiano, esecutori infine di una politica repressiva imposta da un regime autoritario a un paese ormai ignoto e anche disprezzato dagli esuli tornati al seguito dei conquistatori del Nord. A 150 anni dalla nascita dell’Italia e della questione meridionale può essere utile provare a ricostruire la realtà almeno sul piano storiografico, ricorrendo, come s’è fatto per il risorgimento anche per l’Italia liberale, a qualche opera vecchia ma ricca di acume. In una pregevole descrizione dei caratteri distintivi delle classi dirigenti del processo unitario, Raffaele Romanelli, più di un trentennio fa, attribuiva a merito dei liberali napoletani – Silvio Spaventa anzitutto, De Sanctis, Mancini, Bonghi, Scialoja – di aver fornito al movimento nazionale: «Concezioni di vasto respiro dottrinario, fondate su di una teoria dello Stato e dei rapporti tra questo e la società civile che divergevano radicalmente dal sentire dei moderati settentrionali. Orientate al mondo filosofico germanico, quelle concezioni erano però radicate nell’esperienza storica del Mezzogiorno, e si ricollegavano per molte vie alla sua tradizione di pensiero civile e riformatore, alla spinta innovatrice del giacobinismo e del pensiero democratico»9. Questa tradizione meridionale arricchiva il liberalismo cavouriano, fondato sul parlamentarismo e sul liberismo di derivazione inglese e francese, di un impianto giuridico di teoria dello Stato e delle istituzioni di stampo germanico. La Destra storica si servirà del contributo originale degli «hegeliani» di Napoli per organizzare il nuovo Stato e per dirigerlo con forme autoritarie che saranno spesso giudicate eccessive, anche di fronte all’enormità dei problemi da affrontare. Il punto più debole dello statalismo unitario si verificherà proprio nel Mezzogiorno e sarà di carattere politico e sociale: l’estraneità e l’isolamento nella società meridionale, l’esigua rappresen8   G. Galasso, Il Mezzogiorno da «questione» a «problema aperto», Animi-Lacaita, Manduria-Bari-Roma 2005, pp. 16 sgg. 9   Romanelli, L’Italia liberale cit., pp. 24 sg.

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tatività sociale e quindi l’estrema difficoltà a costituire una solida direzione politica, che bloccherà la capacità di realizzazione e le possibilità di successo politico degli uomini della Destra storica guidati da Spaventa nelle province meridionali. La sconfitta definitiva nel Mezzogiorno giungerà nel 1874, quando il giornale di Bonghi «La Perseveranza» riconoscerà che viaggi e discorsi dei notabili della Destra scesi da Nord a Sud erano serviti a poco, di fronte alle «invenzioni» della nutrita stampa di opposizione10. Il capo della Sinistra meridionale era allora Giovanni Nicotera, figura molto discussa e poco limpida fin dal suo esordio mazziniano nella infelice spedizione di Carlo Pisacane11. Molto apprezzato da Vittorio Emanuele II che, s’è visto con Rattazzi, aveva un debole per i cortigiani di Sinistra, Nicotera si era costruito un forte partito personale nel Mezzogiorno con un programma fatto di due punti: lavori pubblici in abbondanza al Sud, in particolare ferrovie, e opposizione alla perequazione fondiaria, a tutela dei proprietari meridionali. Erano questi gli obiettivi principali che Nicotera, ergendosi a rappresentante dell’intero Mezzogiorno dopo aver emarginato Crispi dalla direzione della Sinistra meridionale, indicava all’azione dei prossimi governi, di cui sarebbe stato autorevole e discusso protagonista12. Nell’atrio dell’antico convento di Santa Maria la Nova a Napoli, nell’autunno 1874, Nicotera lanciò la sua campagna politica di rivendicazione sudista con un fermo incitamento: «Bisogna vincere ad ogni costo». Intorno a lui c’erano il duca di San Donato, prossimo sindaco di Napoli e per trent’anni presidente della provincia, il direttore del «Roma» Giuseppe Lazzaro e l’esperto 10   A. Berselli, Il governo della Destra. Italia legale e Italia reale dopo l’Unità, il Mulino, Bologna 1997, pp. 596 sgg. 11   Nicotera «era stato a sua volta fatto segno di atroci sospetti per la parte avuta nella spedizione del Pisacane, e ne era seguito uno scandaloso processo con la condanna degl’ingiusti accusatori, ma anche con l’ombra che sempre lasciano queste cose». B. Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Laterza, Bari 1967, p. 92. Cfr. pure L. Cassese, La spedizione di Sapri, Laterza, Bari 1969. 12   Una valutazione positiva della Sinistra e di Nicotera si trova in A. Capone, L’opposizione meridionale nell’età della Destra, Edizioni di storia e letteratura, Roma 1970; Id., Destra e Sinistra da Cavour a Crispi, in Storia d’Italia, diretta da G. Galasso, XX, Utet, Torino 1981, pp. 274 sgg. Una diversa prospettiva fondava l’opera di G. Carocci, Agostino Depretis e la politica interna italiana dal 1876 al 1887, Einaudi, Torino 1956.

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organizzatore di clientele napoletane Pasquale Billi. All’appuntamento elettorale non sarebbe mancato peraltro, ancora una volta, l’impegno di Francesco De Sanctis e della sua «Sinistra giovane»13. Sul particolare «meridionalismo» di Nicotera, che espresse le sue doti politiche soprattutto nella gestione faziosa del ministero dell’Interno, è secco e duro il giudizio di Aldo Berselli: «Il programma di Nicotera era regionalista, muoveva dall’arretratezza del Mezzogiorno e si limitava a chiedere un palliativo: i lavori pubblici. Si trattava dunque di un meridionalismo malinteso, anacronistico, paternalistico»14. Meglio disposto a valutare l’energia politica del deputato salernitano e la sua difesa degli interessi meridionali, Galasso non intende ignorare però la strumentalità politica e «il carattere assolutamente schematico, e, per così dire, scheletrico, che il delinearsi di una politica più specificamente definibile come meridionalistica presenta nelle proposte di Nicotera»15. Più in generale, riguardo all’azione dei politici di Destra e di Sinistra, si può ancora utilmente ricorrere all’esperta valutazione di Benedetto Croce, che muoveva dal liberalismo impregnato di etica dei primi e dalle maggiori aperture democratiche dei secondi, per concludere che «l’uno e l’altro partito, la Destra e la Sinistra, erano tutt’insieme conservatori e progressisti nel loro indirizzo generale, e che il divario sorgeva solo su questioni concrete e particolari, nelle quali ciascun componente di quei presunti partiti era in accordo o in dissenso coi suoi, in dissenso o in accordo con gli avversari». A riprova di questa fondata affermazione, Croce portava un chiaro esempio dei contrasti e delle differenze politiche che finiva13   Berselli, Il governo della Destra cit., pp. 546 sg. Illuminante è anche la descrizione che Berselli fa del «partito» nicoterino: «In pratica Nicotera aveva costituito un suo partito, che monopolizzava tutto il ‘patriottismo salernitano’ e raggruppava le varie consorterie liberali governative, quali che fossero le loro convinzioni politiche. Era amico dei proprietari e degli operai delle manifatture di Pellezzano, come dei proprietari terrieri delle province della Campania. [...] Di fatto aveva inventato e praticato il trasformismo, in tempi nei quali la trasformazione dei partiti non era ancora diventata tema di dibattito» (ivi, p. 832). 14   Ivi, p. 740. 15   G. Galasso, Sinistra storica e Mezzogiorno, in «Rivista storica italiana», LXXXX, 1978/1, pp. 72 sgg.; ora in Id., La democrazia da Cattaneo a Rosselli, Le Monnier, Firenze 1982, p. 88.

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no per contrapporre due eminenti personalità della Sinistra, uniti per giunta anche nella Pentarchia che si opponeva alla direzione di Depretis. Dopo un discorso di Crispi alla Camera nel dicembre 1878, «avendo egli rimproverato allo Zanardelli, a proposito dei circoli di repubblicani e internazionalisti, di non adoperare, per timore di scapitare nella popolarità, i mezzi di polizia che erano a sua disposizione, ne ebbe per risposta: «Il suo è linguaggio di Destra: vada a sedere a Destra!»16 . I primi revisionismi Se la Destra e la Sinistra liberale in Italia erano fatte in questo modo, risulta difficile condividere l’interpretazione di Giuseppe Giarrizzo, che riduce la questione meridionale a una creazione della Destra storica, delusa dalla sconfitta al Sud nel 1874, e immagina una Sinistra storica, che fonda «sul protagonismo meridionale la propria egemonia». Secondo questa tesi, «la denuncia nazionale dei ‘mali’ del Sud riconfigura la questione meridionale come la camicia di forza della barbara, arretrata società meridionale: e su questa base, moralmente nobile e politicamente sprovveduta, cresce la ideologia del Mezzogiorno, il ‘meridionalismo’». E ancora l’ideologia e il mito – si sostiene – costruiranno il soggetto storico «Mezzogiorno», finendo per deformare i problemi strutturali della società meridionale17. Riferimenti essenziali della riflessione di Giarrizzo sono anzitutto il contributo democratico e rivoluzionario portato all’unità nazionale soprattutto dalla Sicilia, con un ruolo decisivo di Crispi, che poi avviò la svolta statalista e industrialista di fine secolo; e quindi la grande cultura siciliana di fine Ottocento, dalla teoria dello Stato e delle istituzioni della scuola giuridica palermitana di Vittorio Emanuele Orlando, Gaetano Mosca, Santi Romano alla grande letteratura catanese di Giovanni Verga e del siculonapoletano Federico De Roberto.   Croce, Storia d’Italia cit., pp. 13, 16.   G. Giarrizzo, Mezzogiorno senza meridionalismo. La Sicilia, lo sviluppo, il potere, Marsilio, Venezia 1992, pp. xv-xvii. 16 17

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Nell’arduo tentativo di trovare una egemonia riformatrice della Sinistra siciliana, Giarrizzo aveva già individuato in Crispi il dinamico mediatore politico della via italiana alla modernizzazione industriale. «Eppure è da Crispi e dalla rivoluzione industriale, e dal ‘blocco storico’ industriali (del Nord)-agrari (del Sud) che bisognerà prendere le mosse [...] sommando protezionismo agrario a protezionismo industriale, quel ‘blocco’ era condizione obbligata di un’industrializzazione possibile. [...] La mediazione crispina, che privilegia il ruolo della siderurgia nel blocco industriale, introduce elementi di dinamismo entro il blocco agrario»18. Crispi può considerarsi uno statista – il primo espresso dal Sud nell’Italia liberale – certamente dotato di capacità realizzative e anche innovative. Nei due primi ministeri (1887-91) guidò una profonda riforma dell’organizzazione centrale e periferica dello Stato, rafforzando i poteri del governo e dell’amministrazione e riducendo quelli del parlamento19. Portò a compimento anche il progetto della Destra storica di rendere la «giustizia nell’amministrazione» autonoma dalla magistratura ordinaria20. Istituita la giustizia amministrativa, sarà affidata a Silvio Spaventa la presidenza della nuova sezione (la quarta) del Consiglio di Stato. Il modello politico crispino prevedeva una democrazia autoritaria di stampo germanico, fondata su una solidarietà nazionale degli interessi e dei diversi ceti sociali, governata da una borghesia capace di perseguire i nuovi obiettivi di sviluppo dell’industria pesante, per l’ammodernamento dell’esercito e della marina da guerra, di politica di potenza e di espansione coloniale. La suprema centralità dello Stato – in un modello che teneva insieme Stato, nazione, società, libertà – era intanto teorizzata dal fondatore della giuspubblicistica italiana Orlando, ancora sulla scia del Rechtstaat edificato dalla dottrina e dalla vicenda storica tedesca21. A questa teoria e pratica autoritaria dello Stato l’economista 18   G. Giarrizzo, Introduzione, in La modernizzazione difficile. Città e campagne nel Mezzogiorno dall’età giolittiana al fascismo, De Donato, Bari 1983, pp. 10 sg. 19   R. Romanelli, Francesco Crispi e la riforma dello stato nella svolta del 1887 (1971), in Id., Il comando impossibile cit., pp. 207 sgg. 20   S. Spaventa, La giustizia nell’amministrazione, a cura di P. Alatri, Einaudi, Torino 1949. 21   F. Barbagallo, Da Crispi a Giolitti. Lo Stato, la politica, i conflitti sociali, G. Barone, La modernizzazione italiana dalla crisi allo sviluppo, in Storia d’Italia, 3,

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pugliese liberista Antonio De Viti De Marco opponeva il modello liberale anglosassone, fondato sulle libertà individuali e l’autogoverno della società: uno Stato garantista fondato sul principio democratico, sul voto allargato alle donne, sulla diffusione dei controlli dal basso22. Sensibile alle questioni sociali, Crispi era abituato a considerare i conflitti e le lotte politico-sociali cospirazioni alimentate da potenze straniere (in primis la Francia) e finalizzate all’abbattimento dello Stato nazionale. Perciò nel 1894 represse i moti sociali della Sicilia e della Lunigiana con gli stati d’assedio, emanò leggi eccezionali, sciolse il partito socialista23. Il tentativo di procedere anche sulla strada riformatrice, investendo anzitutto il latifondo siciliano, non riuscì però nemmeno a intaccare la vincente resistenza sociale e politica dei proprietari terrieri dell’isola, che alleatisi alle più moderne espressioni dell’industria e del capitalismo agrario lombardo decretarono, insieme alla disfatta africana, la fine del progetto crispino24. Prima che fosse espressa, muovendo dalle vicende siciliane, questa critica del meridionalismo, Alberto Asor Rosa aveva già ridotto «la genesi stessa del pensiero meridionalista [a] un elemento fortemente moderato, – anticapitalistico e al tempo stesso, come sovente accade, antioperaio e antisocialista». All’operaismo marxista in auge negli anni Settanta del Novecento non piaceva che la questione meridionale fosse considerata «addirittura la questione nazionale». Su questa strada si rischiava di guardare «ai Liberalismo e democrazia 1887-1914, a cura di G. Sabbatucci e V. Vidotto, Laterza, Roma-Bari 1995, pp. 5 sgg., 252 sgg. 22   A. Cardini, Gli economisti, i giuristi e il dibattito sullo Stato dopo il 1880, in I giuristi e la crisi dello Stato liberale in Italia fra Ottocento e Novecento, a cura di A. Mazzacane, Liguori, Napoli 1986, pp. 175 sgg.; A. De Viti De Marco, Un trentennio di lotte politiche (1894-1922) (1930), Giannini, Napoli 1992. 23   N. Colajanni, Gli avvenimenti in Sicilia e le loro cause, Sandron, Palermo 1894; F. Renda, I fasci siciliani (1892-94), Einaudi, Torino 1978. 24   G. Manacorda, Crisi economica e lotta politica in Italia. 1892-1896, Einaudi, Torino 1968, ristampato in Id., Dalla crisi alla crescita. Crisi economica e lotta politica in Italia 1892-1896, Editori Riuniti, Roma 1993; Id., Crispi e la legge agraria per la Sicilia, in «Archivio storico per la Sicilia orientale», LXVIII, 1972/1, pp. 9 sgg., ora in Id., Il movimento reale e la coscienza inquieta. L’Italia liberale e il socialismo e altri scritti tra storia e memoria, a cura di C. Natoli, L. Rapone e B. Tobia, Franco Angeli, Milano 1992, pp. 15 sgg.; F. Fonzi, Crispi e lo «Stato di Milano», Giuffrè, Milano 1965.

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complessi problemi posti al nostro paese da uno sviluppo capitalistico ritardato e difficile con l’ottica alquanto settoriale della sua zona meno sviluppata», rafforzata dalla «vocazione anticapitalistica ed agraria» diffusa nella cultura politica italiana25. Su questo scivoloso terreno però non si incontravano soltanto Villari e Fortunato, Franchetti, Sonnino, Turiello: i primi meridionalisti, apertamente liberal-conservatori. La questione era più delicata e l’obiettivo più ambizioso: il riformismo democratico di Salvemini e, soprattutto, la linea «nazional-popolare» impressa al partito comunista da Antonio Gramsci. Una critica radicale colpiva quindi l’alleanza salveminiana tra contadini del Sud e operai del Nord26 e l’aggiornamento gramsciano di questo blocco sociale opposto a quello prevalente nel Nord giolittiano tra industriali e operai. Al convinto e mai dismesso liberismo antiprotezionistico Gramsci aveva aggiunto, nei primi anni Venti, l’influenza sovietica e terzinternazionalista dell’alleanza tra operai e contadini, opposta all’industrialismo operaista di Trockij. Poi, nelle tesi preparate con Togliatti per il congresso clandestino del PCdI a Lione nel gennaio 1926, e pochi mesi dopo in Alcuni temi della quistione meridionale, Gramsci aveva sottolineato la debolezza dell’industrialismo nel sistema capitalistico italiano e indicato nei contadini del Mezzogiorno e delle altre parti d’Italia una delle «forze motrici della rivoluzione italiana». Non era un caso che il «rapidissimo e superficialissimo» scritto sulla questione meridionale, dove per la prima volta appare centrale la figura e il ruolo dell’intellettuale, si distenda dal principio alla fine (interrotta dall’arresto di Gramsci) con riferimenti culturali e politici a Guido Dorso e a Piero Gobetti, che intanto era morto a febbraio, dopo aver appena pubblicato La rivoluzione meridionale di Dorso. E l’intellettuale irpino aveva apprezzato particolarmene, oltre ai torinesi consigli di fabbrica sulla scia di Gobetti, la critica di Gramsci al protezionismo parassitario del

25   A. Asor Rosa, La cultura, in Storia d’Italia, IV.2, Dall’Unità a oggi. La cultura, Einaudi, Torino 1975, pp. 911 sg. 26   Un esempio estremo di critica operaistica resta la biografia di G. De Caro, Gaetano Salvemini, Utet, Torino 1970.

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socialismo riformista e la scelta dell’alleanza con le masse contadine meridionali27. Questo revisionismo antigramsciano, o secondo il linguaggio del tempo antigramscista, sottoponeva i limiti agrari e contadini del meridionalismo di Salvemini, di Gramsci e di Dorso a una radicale «critica dell’ideologia meridionalistica», ad opera di Piero Bevilacqua, schierato anche lui sulle posizioni operaistiche. I tre non avevano compreso e accettato «i risultati del processo di accumulazione originaria in Italia». Di conseguenza «il meridionalismo si presenta tout court come ideologia perché non accetta il parto doloroso dell’accumulazione capitalistica e dello sviluppo, a causa dei modi in cui essi si riverberano nel Sud». La funzione ideologica del meridionalismo in Italia sarebbe quindi consistita nella «copertura ideologica e insieme di freno conoscitivo a fare emergere la classe operaia nella nudità della sua condizione reale, nella realtà materiale [...] dei bisogni più urgenti e più decisivi della sua lotta quotidiana come delle sue future ipotesi di rottura rivoluzionaria»28. Dovrebbe apparire chiaro ormai che la questione meridionale e il meridionalismo, lungi dall’essere una invenzione, sono stati e restano il punto centrale, continuamente dibattuto, della questione italiana, di uno Stato nazionale cioè che si è unito, dopo tanti secoli, in modo contraddittorio e, dopo un secolo e mezzo unitario, ancora non ha trovato il modo di risolvere i suoi contrasti basilari. I meridionalisti e la società meridionale di fine Ottocento Ma, allora, chi erano questi primi meridionalisti? Ce lo ha raccontato uno di loro, senza inventare niente. «Ho tuttora presente il giorno della estate del 1875, quando nella vetrina de’ librai di Napoli, io lessi per la prima volta il nome del Franchetti su d’un piccolo volume, Condizioni economiche ed ammininistrative delle 27   F. Barbagallo, Il Mezzogiorno, lo stato e il capitalismo italiano in Gramsci, in «Studi Storici», 29, 1988/1, pp. 21 sgg., ora in Id., L’Italia contemporanea. Storiografia e metodi di ricerca, Carocci, Roma 2002, pp. 85 sgg. 28   P. Bevilacqua, Critica dell’ideologia meridionalistica. Salvemini, Dorso, Gramsci, Marsilio, Padova 1972, pp. 11, 14.

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province napoletane, «appunti di viaggio», – seguito da uno «studio» su La mezzeria in Toscana d’un autore anch’esso sconosciuto, il Sonnino [...] Correva il felice anno in cui Le lettere meridionali del Villari avevano, tutt’a un tratto, richiamato la pubblica attenzione su quella che era, e rimane, la maggiore delle nostre quistioni di politica interna»29. Era quindi Giustino Fortunato a fissare, ben prima delle ricostruzioni politico-culturali del secondo dopoguerra italiano, la nascita di quella composita corrente di pensiero e azione politica definita «meridionalismo»30. Ha inizio allora la riflessione critica sulle condizioni delle province meridionali nello Stato italiano, che definisce il Mezzogiorno come questione centrale dell’antica nazione e del neonato Stato italiano e lo colloca al centro della politica nazionale, in quanto luogo dove precipitano ed emergono nella forma più chiara e dura le contraddizioni, i limiti, i ritardi del processo di unificazione nazionale31. Spetterà ancora all’intellettuale lucano rilanciare un lungimirante monito di Mazzini, rimasto per lo più incompreso e sottovalutato: «L’Italia sarà ciò che il Mezzogiorno sarà». La nascita del meridionalismo liberal-conservatore sarà completata nel 1878 con la pubblicazione della fiorentina «Rassegna Settimanale» diretta da Franchetti e Sonnino col patronato di Villari32. Fortunato ne sarà il corrispondente meridionale e scriverà alcuni saggi fondamentali sul carattere e i limiti delle classi dirigenti napoletane e meridionali, sulla plebe e la camorra, sul nuovo fenomeno dell’emigrazione dalle campagne meridionali33. E, ancora nel 1878, Villari raccoglierà anche le riflessioni sulla fragilità e i limiti della costruzione unitaria, provocate dall’esperienza traumatica delle sconfitte di Custosa e di Lissa nella guerra

29   G. Fortunato, A ricordo di Leopoldo Franchetti (1917), in Id., Pagine e ricordi parlamentari, Vallecchi, Firenze 1927, pp. 163 sg. 30   G. Galasso, Passato e presente del meridionalismo. Genesi e sviluppi, vol. I, Guida, Napoli 1978, pp. 13 sgg.; Id., Il pensiero meridionalistico dall’unità d’Italia al fascismo, in Storia del Mezzogiorno d’Italia cit., vol. XIV, pp. 427 sgg. 31   F. Barbagallo, Mezzogiorno e questione meridionale (1860-1980), Guida, Napoli 1980, pp. 16 sgg. 32   R. Villari, Alle origini del dibattito sulla «questione sociale», in Id., Conservatori e democratici nell’Italia liberale, Laterza, Bari 1964, pp. 43 sgg. 33   Fortunato, Scritti politici cit., pp. 29 sgg.

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con l’Austria del 1866, nel libro Le lettere meridionali e altri scritti sulla questione sociale in Italia34. Nello stesso anno, sempre per impulso di Villari e guidato a Napoli e dintorni da Fortunato, Renato Fucini pubblicò Napoli a occhio nudo. Lettere ad un amico35. Sotto la stessa influenza, l’anno prima, la giornalista mazziniana Jessie White Mario aveva raccolto gli articoli pubblicati sul quotidiano napoletano «Il Pungolo» nel volume La miseria in Napoli, stampato come il precedente a Firenze da Le Monnier36. All’interno della questione meridionale nasceva la «questione di Napoli»37. L’antica capitale era ancora tra le città più popolate d’Europa, con 450 mila abitanti, insieme a Londra, Parigi, Vienna, San Pietroburgo. Ma non era più città regia, sede di molteplici funzioni amministrative, e luogo di residenza dell’aristocrazia e della borghesia fondiaria, che ne aveva creato l’apparente opulenza, consumandovi le rendite prodotte dalle province. I bassi malsani, i fondaci sudici, le grotte degli spagari descritte per primi da Villari e da Francesco Mastriani mostreranno una Napoli diversa dalla tradizione oleografica che appariva dalle «ville di delizie» allora digradanti dalle pinete di Posillipo verso Marechiaro. Fortunato descriverà senza orpelli i tratti prevalenti nell’aristocrazia e nella borghesia napoletane, scarsamente capaci di svolgere il ruolo di «classi dirigenti». Nella corrispondenza dell’estate 1878 alla «Rassegna Settimanale» scriverà: «Nella grande maggioranza degli onesti è immutata la tendenza ereditaria alla noncuranza di tutto e di tutti; è fiacca, disgregata, indifferente, pettegola, sospettosa; vuol vivere in pace, oziosamente, di rendite; non ha fede, né carattere, non ha sdegni né amori; rifugge tuttora dagli obblighi di coltura e di socievolezza imposti da’ nuovi ordini politici»38. Qualche anno prima, in una corrispondenza del 1872 al quotidiano fiorentino «La Nazione», il valente e indigente allievo di

34   P. Villari, Le lettere meridionali e altri scritti sulla questione sociale in Italia, introduzione di F. Barbagallo, Guida, Napoli 1979. 35   R. Fucini, Napoli a occhio nudo, introduzione di A. Ghirelli, nota bio-bibliografica di L.G. Sbrocchi, Einaudi, Torino 1976. 36   J. White Mario, La miseria in Napoli, introduzione di U. Vuoso, Imagaenaria, Ischia 2005. 37   G. Aliberti, La «questione di Napoli» nell’età liberale (1861-1914), in Storia di Napoli, vol. X, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1971, pp. 221 sgg. 38   Fortunato, Scritti politici cit., p. 37.

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Bertrando Spaventa, allora militante nella Destra storica, Antonio Labriola, si era impegnato a indagare le «cagioni della indifferenza dei napoletani alla vita pubblica» in occasione di un’elezione amministrativa e ne aveva tratto queste sconfortanti conclusioni. «Dalla più umile plebe fino ai piccoli negozianti dei quartieri bassi della città, ed alla piccola borghesia dei professionisti ed impiegati che tirano innanzi la vita come Dio vuole, non c’è che pochissimi che sappiano rendersi conto di una certa qual cosa che si chiama Comunità, con gli analoghi diritti e doveri [...] Da queste classi in su fino ai più ricchi, ed ai nobili, pochissimi sono quelli che hanno preso parte diretta alla vita pubblica, dacché ce n’è una e molti di giorno in giorno se ne disgustano e se ne allontanano»39. I connotati essenziali dell’attività politico-amministrativa nel Mezzogiorno saranno per lo più fondati sui rapporti parentali, le relazioni clientelari, le pratiche trasformistiche. Questi tratti accomuneranno i comportamenti delle oligarchie fondate sulla proprietà fondiaria, terriera e urbana, e gli atteggiamenti dei ceti emergenti piccolo e medio borghesi, che ascendono a nuove responsabilità pubbliche nel processo di cauta democratizzazione che prepara il dispiegarsi della società complessa e di massa nel Novecento. Il radicalismo tipico di una parte significativa dell’intellettualità meridionale sarà anche una conseguenza della difficoltà di rapporti tra struttura della proprietà e della produzione e forme innovative dei rapporti sociali e del ricambio politico. Il lento e faticoso allargamento dei confini sociali entro cui si formeranno i gruppi dirigenti locali e nazionali, nel passaggio dal notabilato agrario ai ceti intermedi urbani, non riuscirà per lo più a fornire un’alternativa credibile nelle province meridionali: né sul terreno dei comportamenti e della riorganizzazione delle relazioni nella società civile, né su quello delle prospettive di rinnovamento politico. Lo scivolamento della politica verso il clientelismo sarà analizzato da Pasquale Turiello, che definirà «la clientela, naturale transizione dagli infimi legami della camorra e della mafia a quelli nobilissimi del partito politico». E preciserà il suo punto di vista, 39   A. Labriola, Lettere napoletane, in «Cronache meridionali», luglio-agosto 1954, pp. 558 sgg.; cfr. A. Labriola, Scritti politici 1886-1904, a cura di V. Gerratana, Laterza, Bari 1970, pp. 13 sgg.

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di conservatore e di acuto analista, circa il carattere dell’azione politica svolta dalla Sinistra liberale: «La Sinistra riesce a rappresentar meglio in Italia l’individuo nostro disciolto, e perché meglio lo intende, meglio lo maneggia. Finché duri tale però la sua aggregazione non può essere che inorganica, il legame non può essere che quello degli interessi individuali, consapevoli o non: e però è spinta fatalmente alla clientela»40. A 24 anni Turiello aveva combattuto con Garibaldi nella Compagnia del Matese, che aveva dichiarato decaduto il governo pontificio nella enclave di Benevento. Poi, nel 1866, aveva seguito Garibaldi in Trentino, addetto al suo stato maggiore e, l’anno dopo, sempre con Garibaldi, aveva partecipato al fallito tentativo di liberare Roma dal dominio pontificio. Un garibaldino quindi transitato fra i patrioti della destra storica e dedicatosi, con grande acume, allo studio dei rapporti tra potere politico e società civile, tra masse e Stato nell’Italia post-unitaria. La critica della politica come clientelismo e la polemica antiparlamentare, diffuse nell’Italia di fine Ottocento, trovarono nel giurista palermitano Gaetano Mosca l’originale teorico della classe politica e del ruolo delle élites. Governo e parlamento erano giudicati un mercato per la compravendita di solidarietà e complicità, concessioni e favori. La politica non era che gestione del potere. La selezione della classe politica non avveniva mediante la crescente partecipazione dei cittadini al processo decisionale, ma si realizzava nello scontro tra «camarille e combriccole»41. Le analisi acute di questi grandi intellettuali, che spesso lasceranno l’attività pratico-politica, dedicandosi agli studi, e passeranno dal garibaldinismo rivoluzionario all’autoritarismo colonialista come Turiello o dal liberalismo di Destra al socialismo e al marxismo teorico come Labriola, che guarderà peraltro anche lui verso una espansione libica, si segnalano per fondarsi su un’analisi realistica della realtà da loro direttamente vissuta e ricostruita con un grande impegno etico e politico. Queste riflessioni, indagini, inchieste 40   P. Turiello, Governo e governati in Italia (1882), a cura di P. Bevilacqua, Einaudi, Torino 1980, pp. 142, 127. 41   G. Mosca, Teorica dei governi e governo parlamentare (1883), Elementi di scienza politica (1895), in Id., Scritti politici, a cura di G. Sola, 2 voll., Utet, Torino 1982.

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costituiscono pertanto un documento storico molto più affidabile di tanti recenti schizzi impressionistici, motivati da improbabili applicazioni di modelli estrapolati da lontani e differenti contesti, da contingenti impulsi politici, viziati talora da palesi anacronismi. Questi intellettuali liberali – ch’erano anche proprietari terrieri nei casi di Fortunato, Franchetti e Sonnino – hanno una peculiare caratteristica, che continua a distinguerli nella ormai lunga vicenda storica italiana. Sono conservatori e riformisti. E in Italia nessuno si è mai dichiarato conservatore, né si è mai riusciti a realizzare compiutamente un programma riformatore. Piuttosto che nostalgici epigoni della Destra storica, sentono congeniale il riformismo del partito conservatore britannico, del tutto estraneo alla politica italiana: «to reform is to conserve, to conserve is to reform». Da dove nasceva questa esigenza riformatrice dei primi meridionalisti liberal-conservatori? Da una causa interna: la piena coscienza della debolezza della recente costruzione nazionale, che attendeva ancora una effettiva unificazione territoriale e la diffusione tra le classi contadine e popolari di un solido consenso sociale. E dai rivolgimenti internazionali che sconvolgevano l’Europa: la Comune di Parigi nel 1871, l’erompere della questione sociale, la diffusione del socialismo, gli attentati anarchici, che nel 1878 colpiranno anche il giovane re Umberto I, salvato dal vecchio mazziniano e garibaldino Benedetto Cairoli. L’Inchiesta in Sicilia di Sonnino e Franchetti nel 1875 e quelle successive restano un modello insuperato di analisi della realtà economico-sociale della Sicilia e del Mezzogiorno. L’originalità di questo approccio ai problemi del Sud consiste nell’attenzione agli aspetti fondamentali della struttura economica, nella centralità dei rapporti di proprietà e di produzione all’interno di una indagine acuta dei rapporti sociali. Il merito storico di questi intellettuali liberali resta quello di aver indagato per primi i caratteri della incompiuta unificazione nazionale e di averne indicato il fulcro nella questione del Mezzogiorno d’Italia. Altro che invenzione, nostalgie conservatrici, incomprensione dell’avvenire democratico42. Erano le prime, fon42   Sulla peculiarità della Sinistra democratica meridionale si espresse Fortunato, già nella sua prima lettera a Villari: «Qui si parla spesso, ed ovunque, di ‘democrazia’: ma il più grande equivoco regna sul riguardo. Democrazia sì, ma nel significato

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date denunce della più grave questione nazionale, che purtroppo non avrebbe più lasciato il centro della scena politica italiana. In occasione del centenario unitario, Pasquale Saraceno denuncerà ancora la persistenza di una «mancata unificazione economica italiana a cento anni dall’unificazione politica»43. Passati altri cinquant’anni, la situazione è apparsa ulteriormente aggravata e, insieme al campo economico, si è rimesso in dubbio, da più parti, il valore dello stesso processo di unificazione politica, il significato positivo dell’unità italiana per tutte le parti del paese. Incredibilmente sono tornati in auge concetti e giudizi che parevano sepolti dalla coltre del tempo: la razza, il clima, il diverso grado di civiltà; pregiudizi di un antiquato eurocentrismo al tempo del risorgimento e dell’espansione globale delle potenze asiatiche. Localismi etnici e ideologie subalterne hanno riproposto, in rozze forme populistiche di grande successo popolare, lo scontro tra nordismo e sudismo, tra confusi secessionismi e improbabili neo-borbonismi e neo-clericalismi. In un coacervo di continua reviviscenza di un passato che non passa, di un eterno ritorno dell’eguale, di una insopprimibile coazione a ripetere, si è fatto un salto all’indietro nel tempo e sono riapparse, nelle forme involgarite della società spettacolare, pregiudizi e polemiche che pareva fossero state superate oltre un secolo fa. Sul finire dell’Ottocento, la potente e solidale nazione moderna vanamente perseguita dalla «ossessione unitaria» di Crispi si era già spaccata nelle due Italie descritte dall’antropologia positivistica, che razionalizzava nei termini pseudo-scientifici dell’epoca le opinioni e i sentimenti diffusi nelle regioni del Centro-Nord verso i connazionali della bassa Italia. La frattura territoriale tra Nord e Sud veniva allora acuita proprio dalla politica crispina di rafforzamento della struttura autoritaria dello Stato. Crispi era percepito dalle differenti forze spartano: democrazia per gli uomini, non per gl’iloti; e qui gl’iloti sono appunto i contadini. La sinistra meridionale non è radicale, non è progressista: è democratica a vantaggio dell’unica classe che rappresenta, l’alta e la bassa borghesia; e chi spera che i ministri napoletani possano mai votare una legge agraria o il suffragio universale, ha tempo fino al giorno del giudizio!» (G. Fortunato, Carteggio 1865/1911, a cura di E. Gentile, Laterza, Roma-Bari 1978, Napoli 4 novembre 1875, p. 10). 43   Saraceno, La mancata unificazione economica italiana a cento anni dalla unificazione politica cit.

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sociali e politiche unite nello «Stato di Milano» come un aspirante dittatore del Sud, espressione dell’arretrata società meridionale che, attraverso lo statalismo accentratore, intendeva appropriarsi della ricchezza prodotta dalla moderna società settentrionale. Su questa linea si incontravano al Nord conservatori e democratici, liberali e socialisti, industriali e agrari, borghesi e operai44. Non stupirà allora che ad esprimere nel modo più chiaro il carattere e il programma di questa strana alleanza sarà la rivista del nascente socialismo italiano, diretta da Filippo Turati: «È la lotta fra il medio-evo feudale, che domina nel meridione e spande le sue propagini in tutta la campagna italiana e gl’inizi dell’età moderna, della fase industriale che albeggia nelle plaghe più civili e più colte specialmente del settentrione. Fra queste due civiltà, o piuttosto fra questa incipiente civiltà e quella putrefatta barbarie, la lotta è disegnata ormai: sono due nazioni nella nazione, due Italie nell’Italia, che disputano pel sopravvento»45. Era l’infelice traduzione politica dell’interpretazione in chiave razzistica della questione meridionale operata dall’antropologia positivistica di Enrico Ferri, Alfredo Niceforo, Giuseppe Sergi. Un altro socialista, in fama di apostolo tra i braccianti padani, Camillo Prampolini coniava la deleteria formula di un’Italia divisa tra «nordici» e «sudici». Il repubblicano Napoleone Colajanni, siciliano, rigettava per primo la tesi della razza come «causa unica» dell’arretratezza meridionale e nel saggio Per la razza maledetta (1898) indicava la realtà dello sfruttamento sociale dei contadini del Sud, che già aveva denunciato al tempo della lotta dei Fasci siciliani. All’alba del Novecento, mentre s’avviava l’industrializzazione italiana nel Nord-Ovest, Gaetano Salvemini, socialista pugliese, rigettava il falso criterio razzistico confrontando il rapporto attuale tra l’Italia del Nord e quella del Sud con le relazioni esistenti tra il Lombardo-Veneto e l’impero austriaco prima del 1859.   Barbagallo, Da Crispi a Giolitti cit., pp. 43 sgg.   Tattica elettorale. Il nostro parere, in «Critica sociale», 1-16 gennaio 1895, p. 22. Alla fine dell’anno la rivista rilanciava gli stessi giudizi, giudicando la sospensione dell’aggiornamento del catasto decisa dal governo crispino un favore ai proprietari meridionali e un grande passo «verso l’assoggettamento dell’Italia civile, operosa, moderna, dell’Italia europea, all’Italia meridionale, baronale, africana, borbonica»: Finanza feudale, in «Critica Sociale», 1-16 dicembre 1895, p. 233. 44 45

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«L’Austria assorbiva imposte dall’Italia e le versava al di là delle Alpi; considerava il Lombardo-Veneto come il mercato naturale delle industrie boeme; con un sistema ferreamente protezionista impediva lo sviluppo industriale dei domini italiani. E i Lombardi erano allora ritenuti fiacchi e privi di iniziativa, ed era ormai ammesso da tutti che il popolo lombardo era ‘nullo’. Cristina Belgioioso pubblicava degli Studi su la storia di Lombardia, nei quali cercava di spiegare ‘il difetto di energia nei Lombardi’ e gli scrittori d’Oltralpe spiegavano le condizioni arretrate dell’Italia con l’inferiorità della razza. Non altrimenti oggi degli sciocconi, camuffati da antropologi vanno nel Sud, misurano un centinaio di nasi [...] e ne ricavano la inferiorità della razza meridionale di fronte alla settentrionale»46. Salvemini era convinto che il Meridione avesse ancora una «struttura sociale semi-feudale, che è di fronte a quella borghese dell’Italia settentrionale un anacronismo»: una struttura latifondistica disastrosa che impediva la formazione di una borghesia moderna, una piccola borghesia affamata e subalterna alle classi superiori, un enorme proletariato agricolo disprezzato e privo di qualunque diritto. «Nelle cause di questa malattia non c’entrano niente né il clima né la razza; le cause sono esclusivamente sociali»47. Sotto l’impressione dei drammatici moti sociali del 1898, Salvemini indicava nei contadini gli artefici del riscatto del Mezzogiorno e proponeva la loro alleanza con gli operai del Nord per riformare l’Italia48. Turati avrebbe invece orientato il partito socialista secondo la differente formula della «egemonia della parte più avanzata del paese sulla più arretrata, non per opprimerla, ma anzi per sollevarla e per emanciparla»49.

46   G. Salvemini, La questione meridionale e il federalismo, in «Critica Sociale», 16 luglio 1900, ora in Id., Movimento socialista e questione meridionale, a cura di G. Arfé, Feltrinelli, Milano 1963, p. 167. 47   G. Salvemini, La questione meridionale, in «Educazione Politica», 25 dicembre 1898, ora in Id., Movimento socialista e questione meridionale cit., p. 73. 48   Ivi, p. 89; Salvemini, La questione meridionale e il federalismo cit., p. 191. 49   F. Turati, A proposito di Nord e di Sud. Per fatto personale, in «Critica sociale», 16 giugno 1900.

IV Il modello italiano di sviluppo e il Mezzogiorno L’industrializzazione al Nord, l’emigrazione dal Sud La crisi agraria europea, provocata dalla prima unificazione del mercato mondiale1, e l’adozione del protezionismo statalista avviarono, sul finire dell’Ottocento, il processo della industrializzazione italiana. Superata la devastante crisi bancaria2 seguìta negli anni Novanta agli eccessivi investimenti nelle speculazioni immobiliari, soprattutto di Roma capitale e del risanamento post-colerico di Napoli, procederà rapidamente, nella favorevole congiuntura mondiale, la formazione del «triangolo industriale»: Milano-Torino-Genova. Quest’area dell’Italia nordoccidentale era fortemente avvantaggiata da un plurisecolare sviluppo agricolo, dalla diffusa istruzione e strutturazione civile, dagli scambi ravvicinati con i mercati europei più avanzati3. Da questo momento il meccanismo di sviluppo industriale produrrà effetti moltiplicativi nella crescita dei ritmi di espansione delle aree industriali, accentuerà la forbice nelle ragioni di scambio tra manufatti industriali e derrate agricole e farà quindi 1   M. de Cecco, Economia e finanza internazionale dal 1890 al 1914, Laterza, Bari 1970. 2   A. Confalonieri, Banca e industria in Italia (1894-1906), 3 voll., il Mulino, Bologna 1980; L’Italia e il sistema finanziario internazionale 1861-1914, a cura di M. de Cecco, Laterza, Roma-Bari 1990; La Banca d’Italia. Sintesi della ricerca storica 18931960, a cura di F. Cotula, M. de Cecco e G. Toniolo, Laterza, Roma-Bari 2003. 3   L’industrializzazione in Italia (1861-1900), a cura di G. Mori, il Mulino, Bologna 1981; V. Zamagni, Industrializzazione e squilibri regionali in Italia, il Mulino, Bologna 1978.

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aumentare progressivamente il divario tra Nord e Sud. In un’economia basata sull’agricoltura, in una società pre-industriale i ritmi di crescita non erano alti, le differenze tra le diverse aree non erano forti. Tutto cambierà con l’avanzare dello sviluppo industriale. La storia del Novecento mostrerà, pur fra notevoli trasformazioni, la connessione tra i rapidi processi di sviluppo industriale del Settentrione e il più lento avanzare del Mezzogiorno sulla strada dell’espansione e della modernità. L’interdipendenza squilibrata fra le due parti del paese diverrà la costante fondamentale del peculiare modello italiano di sviluppo economico-sociale4. Il problema fondamentale per l’avvio e il consolidamento di un processo di industrializzazione in un mercato aperto è costituito dal finanziamento delle importazioni necessarie per il funzionamento dell’industria e per l’alimentazione della popolazione. Bisogna quindi trovare i mezzi finanziari per mantenere in equilibrio la bilancia dei pagamenti, quando la bilancia commerciale è squilibrata e c’è un forte deficit perché le importazioni superano e di molto le esportazioni. Questa era la situazione dell’Italia tra Ottocento e Novecento. Da dove vennero i capitali che consentirono lo sviluppo della prima «rivoluzione industriale» in Italia?5 Su questo punto si è determinata una inedita convergenza di giudizi intorno all’interpretazione fornita da Franco Bonelli riguardo all’agente determinante l’accelerazione dello sviluppo industriale italiano nel primo quindicennio del Novecento6. I mezzi finanziari per l’industrializzazione italiana verranno ora soprattutto dalle rimesse dei milioni di meridionali emigrati nelle Americhe. «Le circostanze che avevano consentito all’Italia di diventare una nazione moderna e quelle che, subito dopo, l’avevano av4   R. Villari, L’interdipendenza tra nord e sud, in «Studi Storici», 18, 1976/2, pp. 5 sgg. 5   R. Romeo, Breve storia della grande industria in Italia 1861-1961, Cappelli, Bologna 1972, pp. 65 sgg. 6   Per la totale condivisione, e quasi l’accaparramento, dell’interpretazione di Bonelli cfr. L. Cafagna, I modelli interpretativi della storiografia, in Dualismo e sviluppo nella storia d’Italia, Marsilio, Venezia 1983, pp. 396 sgg.; Pescosolido, Arretratezza e sviluppo cit., pp. 257 sgg. Castronovo ha definito il fenomeno migratorio «una sorta di ‘arma segreta’ della nostra industrializzazione»: Castronovo, Storia economica d’Italia cit., pp. 114 sg.

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viata sulla strada dello sviluppo capitalistico non erano giunte a trasformare né in tutto né in parte la gran massa di contadini in coltivatori proprietari e quindi in potenziali consumatori di prodotti industriali all’interno. Qui non importa riprendere l’ormai annosa questione sul perché ciò avvenne o sulle alternative possibili e su quelle mancate: quel che conta è il fatto che dalla metà degli anni Novanta l’Italia è già un paese che ha scelto di esportare in massa forza-lavoro, trasformando così in emigranti produttori di reddito all’estero quelli che potevano essere, qualora si fosse seguita una diversa strada, una massa di produttoriconsumatori all’interno»7. In tal modo l’agricoltura, da cui proveniva la gran parte degli emigranti, veniva di nuovo posta, anche se in forma diversa dai decenni precedenti, al servizio dell’industrializzazione. L’interdipendenza tra Nord e Sud, proprio nello sviluppo del processo di industrializzazione, era stata dimostrata da Bonelli già in una ricerca sulle conseguenze della crisi internazionale del 1907 sull’industria italiana in formazione. Il salvataggio della Fiat, colpita da una crisi di liquidità, fu allora operato dalla Banca d’Italia utilizzando temporaneamente le rimesse spedite tramite il Banco di Napoli dagli emigrati meridionali nelle Americhe. «Si può ben dire che l’altra Italia, quella agricola e quella degli emigrati, quasi non si accorse di quello che stava succedendo, ma dalla crisi essa fu coinvolta nella misura in cui aveva fornito al sistema bancario i mezzi che allora servirono a sbloccare la situazione di impasse in cui si era cacciata la gestione bancaria del triangolo industriale. Una crisi come quella del 1907 rappresenta l’occasione storica in cui si consolidano le basi raggiunte da uno sviluppo che verrà definito, in tempi più recenti, di tipo dualistico»8. Nel primo quindicennio del Novecento gli espatri per lo più transoceanici dal Mezzogiorno e dalla Sicilia saranno circa quattro milioni9. L’emigrazione meridionale rappresenterà un feno-

7   F. Bonelli, Il capitalismo italiano. Linee generali d’interpretazione, in Storia d’Italia. Annali 1, Dal feudalesimo al capitalismo, Einaudi, Torino 1978, p. 1222. 8   F. Bonelli, La crisi del 1907. Una tappa dello sviluppo industriale in Italia, Fondazione Einaudi, Torino 1971, p. 169. 9   F. Barbagallo, Lavoro ed esodo nel Sud 1861-1971, Guida, Napoli 1973, pp. 54 sgg.

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meno innovativo e sconvolgente, nonché un asse portante del modello italiano di sviluppo capitalistico. In occasione del primo cinquantennio unitario uno studioso esperto come Francesco Coletti operò una significativa connessione tra Nord e Sud, non così positiva però come si voleva mostrare: «Ciò che per il Settentrione è stata la grande industria, per il Mezzogiorno è stata l’emigrazione. In questo modo, con questi diversi mezzi, il nuovo regime soddisfaceva gli antichi bisogni delle popolazioni»10. Il Mezzogiorno agli inizi del Novecento Nel XX secolo il Mezzogiorno si presenta come una realtà sempre più differenziata: ancora largamente arretrata lungo la dorsale appenninica, dinamica e in movimento nelle aree costiere. Il più consistente processo di trasformazione capitalistica si sviluppa nell’agricoltura pugliese, dove si diffonde la grande azienda cerealicola con forti aggregati bracciantili, affiancandosi alla più antica pratica della coltivazione intensiva dei prodotti ortofrutticoli. Giardini, orti irrigui e seminativi arborati ricoprono l’area costiera campana, tra le foci del Garigliano e del Sele, con una intensa frammentazione della proprietà. La Sicilia mostra una rinnovata capacità d’espansione economica sostenuta dalle richieste di colture pregiate, in particolare gli agrumi e le mandorle, provenienti in misura crescente dal mercato interno. La favorevole congiuntura internazionale determinerà anche una significativa riorganizzazione delle strutture commerciali e una consistente crescita dei centri e dei ceti urbani11. 10   F. Coletti, Dell’emigrazione italiana, in Cinquant’anni di storia italiana cit., p. 216. 11   Una documentazione di grande rilievo si trova ancora nei volumi per regioni dei citati atti sulla inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini nelle province meridionali e nella Sicilia del 1907-11. Cfr. pure D. Taruffi, L. De Nobili, C. Lori, La questione agraria e l’emigrazione in Calabria, Barbera, Firenze 1908. Innovative ricerche si trovano nella einaudiana Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. Oltre ai citati volumi sulla Sicilia e la Campania, si vedano La Calabria, a cura di P. Bevilacqua e A. Placanica, Einaudi, Torino 1985; La Puglia, a cura di L. Masella e B. Salvemini, Einaudi, Torino 1989; L’Abruzzo, a cura di M. Costantini e C. Felice, Einaudi, Torino 2000. Cfr. pure F. De Felice, L’agricoltura in Terra di Bari dal 1880 al 1914, Banca Commerciale Italiana, Milano 1971; F. Barbagallo,

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Al principio del Novecento la questione meridionale irrompe sulla scena parlamentare e impone decisioni importanti al governo. È un passaggio decisivo nella storia dell’Italia contemporanea. Il fallimento dei tentativi di fine Ottocento di dare una forma nettamente autoritaria alle istituzioni statali era stato sancito dall’assassinio politico del re Umberto I. Il governo liberal-democratico di Zanardelli e di Giolitti nel 1901, lasciando libertà di sciopero nella pianura padana, si inimicava la gran parte della deputazione parlamentare, di estrazione terriera, e si reggeva grazie al frequente sostegno del partito socialista. Nel Mezzogiorno gli scioperi inizieranno l’anno dopo nelle aree bracciantili pugliesi. Ma intanto si aggravavano i tradizionali motivi di crisi nelle campagne, dalle calamità naturali agli ostacoli nell’esportazione delle colture pregiate. Una novità era rappresentata invece dal mutato atteggiamento dei proprietari meridionali verso la perequazione fondiaria. Negli anni Ottanta si erano opposti per evitare l’accertamento dei tanti beni non censiti, quali le terre demaniali di cui s’erano appropriati12. Nel nuovo secolo invece gli interessi agrari del Sud si univano nella denuncia della sperequazione dell’imposta fondiaria a danno delle province meridionali e nella richiesta conseguente di accelerare le operazioni di accertamento catastale al fine di una congrua riduzione dell’imposizione13. Nel dicembre 1901 l’opposizione agraria guidata da Salandra e Sonnino presenterà una mozione sul Mezzogiorno che suonava sfiducia al governo Zanardelli-Giolitti e contava di raccogliere il consenso della gran parte dei tanti deputati meridionali di orientamento conservatore, eletti mentre si esauriva il tentativo reazionario del ministero guidato dal generale Luigi Pelloux. Pochi mesi prima era stata pubblicata la relazione del senatore Giuseppe Saredo, presidente del Consiglio di Stato che aveva di-

Stato, Parlamento e lotte politico-sociali nel Mezzogiorno (1900-1914), Università di Napoli, Arte Tipografica, Napoli 1976; A.L. Denitto, F. Grassi, C. Pasimeni, Mezzogiorno e crisi di fine secolo, Milella, Lecce 1978; A. Cormio, Le campagne pugliesi nella fase di ‘transizione’ (1880-1914), in La modernizzazione difficile cit., pp. 147 sgg.; Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea, a cura di P. Bevilacqua, 3 voll., Marsilio, Venezia 1989-91; S. Lupo, Il giardino degli aranci. Il mondo degli agrumi nella storia del Mezzogiorno, Marsilio, Venezia 1990. 12   De Felice, L’agricoltura in Terra di Bari cit., pp. 41 sgg. 13   Barbagallo, Stato, Parlamento cit., pp. 137 sgg.

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retto la Commissione d’inchiesta sull’amministrazione comunale di Napoli, istituita l’anno prima dal governo Saracco, in seguito alle dimissioni del deputato Alberto Casale. Il deus ex machina dell’amministrazione napoletana era stato condannato in sede giudiziaria dopo la campagna del giornale socialista «La Propaganda» contro le forme clientelari e camorristiche della gestione amministrativa e politica nell’ex capitale. Anche il deputato conservatore Giacomo De Martino, seguace di Rudinì, allo scopo di non lasciare ai soli «sovversivi» la campagna moralizzatrice, aveva denunciato i sistemi «camorristici» della «triade Summonte-Casale-Scarfoglio»14. L’inchiesta Saredo avrebbe sottolineato l’importanza e la gravità della «questione di Napoli». Il riordino amministrativo degli enti locali, «la moralità nell’amministrazione», ripetutamente violata per la stesura dei contratti con le società straniere di gestione dei servizi pubblici, era condizione indispensabile per la ripresa economica della città. La Commissione sottolineava infine il comune interesse nazionale per un intervento dello Stato mirato a sollecitare lo sviluppo produttivo e civile di Napoli15. Avversario più autorevole dell’inchiesta e alfiere delle personalità e interessi inquisiti dalla Commissione d’inchiesta era stato l’onorevole avvocato Pietro Rosano, amico e stretto collaboratore di Giolitti, sia come sottosegretario all’Interno nel suo primo governo, sia come organizzatore dei deputati meridionali di tendenza giolittiana. Il punto debole dell’avvocato napoletano era l’intreccio di interessi politici e di motivi professionali che lo legavano al corrotto sistema di potere clientelare di Napoli e ne facevano il più influente rappresentante dell’estesa, problematica provincia di Caserta. Il deputato giolittiano intratteneva rapporti costanti con i principali esponenti degli ambienti camorristici dentro le istituzioni locali e nazionali. Il più potente era il deputato di Sessa Aurunca Peppuccio Romano, che farà eleggere ad Aversa, dopo il suicidio di Rosano nel 1903, l’alto burocrate di origine triestina e poi mini-

14   F. Barbagallo, Il Mattino degli Scarfoglio (1892-1928), Guanda, Milano 1979, pp. 60 sgg. 15   Reale Commissione d’Inchiesta per Napoli, Relazione sulla amministrazione comunale (1901), Ristampa anastatica a cura di S. Marotta, introduzione di F. Barbagallo, Vivarium, Napoli 1998.

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stro giolittiano Carlo Schanzer. Peppuccio era da sempre in stretti rapporti d’affari col capocamorra Vincenzo Serra, che da Aversa controllava la malfamata area dei Mazzoni, nel basso Volturno16. Qualche anno dopo, il socialista Oddino Morgari definì alla Camera il collega Romano «il maggiore esponente delle camorre di Terra di Lavoro». Il ministro delle Poste Schanzer si affrettò a inviare al sindaco di Aversa questo telegramma di piena solidarietà al suo efficiente grande elettore: «Fiducioso che l’on. Romano saprà dimostrare pienamente l’insussistenza delle accuse a lui mosse, io mi auguro di tutto cuore che egli possa superare al più presto questo grave e doloroso momento della sua vita»17. Quale avvocato Rosano aveva anche accolto, nel dicembre 1899, la richiesta del deputato palermitano Raffaele Palizzolo di difenderlo dall’accusa di coinvolgimento nell’omicidio mafioso del marchese Emanuele Notarbartolo, già sindaco di Palermo e direttore generale del Banco di Sicilia, nonché amico personale di Rudinì. E aveva ignorato il consiglio, rivoltogli dal senatore Urbano Rattazzi anche a nome di Giolitti, di «trovar modo di liberarsi dell’ufficio inopportunamente accettato»18. Le denunce di commistione tra corruzione, affarismo, politica e amministrazione vedevano convergere, in questo passaggio di secolo l’estrema sinistra e la destra rudiniana e sfociavano in una comune lotta contro la camorra a Napoli e contro la mafia a Palermo. I plurimi intrecci tra le vicende delle due capitali del Sud vedevano anche l’avvocato e deputato radicale Carlo Altobelli, avversario del blocco di potere napoletano nicoterino-crispino, patrocinare alla Corte d’assise di Milano le ragioni di Leopoldo Notarbartolo contro Palizzolo insieme al socialista palermitano Giuseppe Marchesano19. Come Pietro Rosano nel sistema politico napoletano, così Raf-

  Barbagallo, Storia della camorra cit., pp. 75 sg.   «Corriere della Sera», 27 maggio 1907. Attaccato anche da giornali moderati coma la «Gazzetta di Torino», in quanto eletto dalle camorre casertane, Schanzer si limiterà a cambiare collegio nelle elezioni del 1909. 18   Cfr. la lettera del senatore Rattazzi a Giolitti del 16 dicembre 1899 e quelle del giorno precedente di Rosano a Rattazzi e a Giolitti, in Istituto Giangiacomo Feltrinelli, Dalle carte di Giovanni Giolitti. Quarant’anni di politica italiana, I, L’Italia di fine secolo 1885-1900, a cura di P. D’Angiolini, Feltrinelli, Milano 1962, pp. 391 sg. 19   S. Lupo, Storia della mafia dalle origini ai giorni nostri, Donzelli, Roma 1996, pp. 103 sgg. 16 17

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faele Palizzolo aveva un ruolo centrale nel molto variegato blocco di potere costituito a Palermo intorno a Ignazio Florio, artefice tra l’altro con Raffaele Rubattino della potente Navigazione generale italiana. Come a Napoli, ancor più a Palermo l’intreccio tra alta e bassa camorra e mafia era la chiave più adeguata a comprendere le vicende più complicate e rilevanti. Sembra quindi riduttivo, anche se molto espressivo e pieno di futuro, il ritratto dell’abile politico e faccendiere palermitano disegnato da Gaetano Mosca, dichiarato oppositore del suffragio universale e della incalzante democratizzazione della politica: «Era popolarissimo se la popolarità consiste nell’essere facilmente accessibile a persone di ogni classe, di ogni ceto, di ogni moralità. La sua casa era indistintamente aperta ai galantuomini e ai bricconi. Egli accoglieva tutti, prometteva a tutti, stringeva a tutti la mano, chiacchierava infaticabilmente con tutti; a tutti leggeva i suoi versi, narrava i successi oratori riportati alla Camera, faceva capire quante e quali aderenze potentissime avesse»20. Mafia, camorra e rapporti sociali e di potere nelle campagne e nei maggiori centri urbani costituiscono quindi la miscela esplosiva che riporta il Mezzogiorno al centro della scena politica italiana e del dibattito parlamentare all’inizio del Novecento. Contro la mozione di sfiducia al governo Zanardelli presentata da Antonio Salandra interverrà, a nome di molti altri deputati del Sud, l’economista veneto Luigi Luzzatti, autorevole negoziatore della politica commerciale italiana, con una impegnativa dichiarazione, che già si era ascoltata e che sarà ripetuta in ogni buona occasione: «Quale sarà l’avvenire e il destino del Mezzodì, tale sarà l’avvenire e il destino di tutta l’Italia». Preoccupato di smentire strumentalismi di parte su un tale problema, Salandra dichiarava che, senza una profonda trasformazione della struttura economica meridionale, «non vi è possibilità di riscossa, neanche negli ordini più elevati della politica, dell’amministrazione, della morale». Il socialista Vittorio Lollini notò subito che pareva una vera e propria «enunciazione di materialismo storico»21. 20   G. Mosca, Palermo e l’agitazione pro-Palizzolo, in Id., Uomini e cose di Sicilia, Sellerio, Palermo 1980, p. 52. 21   Atti Parlamentari, XXI Legislatura, Camera dei Deputati, Discussioni, tornate del 9 e 10 dicembre 1901, pp. 6544 sgg.

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La legislazione speciale Da questo intenso confronto politico scaturì la legislazione speciale per il Mezzogiorno, che innoverà rispetto al principio della uniformità della normativa, fino allora adottato dallo Stato unitario. E indicherà la prospettiva di un intervento statale differenziato in alcune aree del Mezzogiorno, volto a correggere gli squilibri territoriali che si andavano aggravando in connessione con la crescente intensità dell’industrializzazione settentrionale. Nel 1902 il governo Zanardelli procederà rapidamente ad av­ viare la realizzazione degli impegni per il Sud, assunti in parlamento e condivisi da un vasto schieramento politico che pareva superare i precedenti conflitti politici e sociali, in una vasta aggregazione di liberali e conservatori, riformisti, produttivisti e latifondisti. Ad aprile fu insediata la Reale Commissione per l’incremento industriale di Napoli, incaricata di operare le scelte preparatorie per una legge speciale. A giugno fu varata la legge che avviava la costruzione dell’acquedotto pugliese, attesa da oltre un decennio e fortemente patrocinata da Salandra e dalla Camera di commercio di Bari. A dicembre iniziarono i lavori per la costruzione della ferrovia «direttissima» tra Napoli e Roma, lungo la costa via Formia, rispetto alla linea interna per Cassino. Zanardelli, nonostante le precarie condizioni di salute, si accinse al faticoso viaggio in Basilicata, che pose le premesse per la successiva legge speciale del 1904. Questo intervento, criticato da Fortunato per la sua parzialità, si pose essenzialmente il problema della sistemazione idraulico-forestale, del riassetto idrogeologico dell’area lucana. E ottenne risultati di un certo rilievo nel rimboschimento dei bacini montani e nella sistemazione idraulicoforestale, nella bonifica del litorale ionico e nell’espansione della rete stradale e ferroviaria22. La legge speciale per la Basilicata fece esplodere immediatamente continue richieste per un eguale trattamento nelle aree meridionali che ritenevano, peraltro fondatamente, di trovarsi in condizioni non meno gravi della regione lucana. Organizzazioni 22   Inchiesta Zanardelli sulla Basilicata (1902), a cura di P. Corti, Einaudi, Torino 1976; G. Barone, Mezzogiorno e modernizzazione. Elettricità, irrigazione e bonifica nell’Italia contemporanea, Einaudi, Torino 1986, pp. 14 sgg.

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economiche e rappresentanze amministrative e politiche del Molise, dell’Abruzzo, della Calabria, del Sannio, dell’Irpinia presentarono, in forme unitarie che superavano i diversi schieramenti politici, istanze che Zanardelli, nel suo ultimo anno di vita, non intendeva prendere in considerazione. Un diverso ascolto venne dal nuovo presidente del Consiglio Giolitti che, già al principio del 1904, incaricò l’onorevole Gaspare Colosimo, che aveva sostituito il cognato Rosano quale organizzatore alla Camera dei giolittiani del Sud, di far votare all’intera deputazione meridionale un ordine del giorno, che sanciva la «necessità di estendere gradatamente, secondo il criterio del maggior bisogno e compatibilmente con le disponibilità del bilancio, alle Provincie che si trovano in condizioni analoghe a quelle della Basilicata le disposizioni contenute nel presente disegno di legge». Nel febbraio 1906 Sidney Sonnino, meridionalista convinto e politico di sicura integrità, formò il suo primo governo, che sarebbe durato solo tre mesi. Ma ebbe un carattere decisamente liberaldemocratico per la presenza dei radicali guidati da Edoardo Pantano. L’aspetto originale di questa alleanza era nel fatto che Sonnino e Pantano avevano guidato, rispettivamente, la maggioranza reazionaria e l’opposizione ostruzionistica nella battaglia parlamentare di fine secolo sulle leggi eccezionali «liberticide» presentate dal governo Pelloux. Il programma di questo governo era incentrato su un riformismo meridionalistico, che riconosceva la questione meridionale quale «questione fondamentale della vita della Nazione». La proposta più rilevante era la riduzione del 30% dell’imposta fondiaria (con esclusione dei redditi superiori a 6.000 lire) a vantaggio soprattutto dei medi proprietari meridionali, cui era imposto di fornire le sementi e le anticipazioni colturali ai contadini, in modo da rendere più solidali i rapporti tra le contrapposte classi sociali nelle campagne del Sud. Oltre al modello della mezzadria toscana, già proposto un trentennio prima, era anche un tentativo per frenare l’esodo in massa dei più giovani e validi lavoratori del Sud. Per combattere «la vergogna dell’analfabetismo» si intendeva poi, con una impegnativa scelta laica e anticlericale, iniziare la «graduale avocazione allo Stato della scuola del popolo», la scuola primaria. L’incremento della legislazione sociale prevedeva quindi la formazione

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di un ministero del Lavoro e l’attivazione del fondo di invalidità per le assicurazioni operaie. Sonnino presentò, in alternativa alle leggi speciali, dei «Provvedimenti per le province meridionali, per la Sicilia e per la Sardegna», a carattere generale, che prevedevano modifiche ai contratti agrari, contro cui si schierò la gran parte dei proprietari e dei deputati meridionali. Nemmeno il meridionalista liberista e radicale De Viti De Marco, pur condividendo il generale disegno di riconsiderazione unitaria del problema del Mezzogiorno e l’ostilità alle leggi speciali, riuscì ad apprezzare, da grande proprietario qual era, il limite di seimila lire posto alla riduzione dell’imposta fondiaria. Sonnino, nonostante la sua opposizione alla legislazione speciale, dichiarò, nel febbraio 1906, di votare a favore della legge per la Basilicata, «come voterei qualunque altra che in questo momento, compatibilmente con la situazione generale finanziaria, porgesse un sollievo qualsiasi alle sofferenze delle Provincie meridionali». È molto significativo però che, proprio nella qualità di presidente del Consiglio, spiegasse i motivi politici della sua ostilità alla legislazione speciale, con chiarezza e con la grande onestà, che non gli procurò mai il consenso parlamentare necessario a proseguire nell’azione di governo. In linea con l’opposizione liberistica, ma soprattutto sulla base della lunghissima esperienza parlamentare, denunciò con nettezza il rischio di «lasciare praticamente in mano al potere esecutivo un sì potente mezzo di corruzione politica e di asservimento parlamentare, specialmente alla vigilia od antivigilia di elezioni generali, in quanto si faccia dipendere dal grado di ministerialismo dei rappresentanti delle singole Provincie la estensione più o meno sollecita di questa legge»23. Nel giugno 1906 Giolitti tornò al potere e fece rapidamente approvare alcuni dei provvedimenti per il Mezzogiorno proposti da Sonnino, eliminando però i limitati miglioramenti dei contratti agrari, indigesti per i proprietari e i deputati meridionali. In particolare fu subito approvata, sul modello lucano, una legge speciale per la Calabria orientata anch’essa alla sistemazione idraulica e   Barbagallo, Stato, Parlamento cit., pp. 179 sgg., 380 sgg.

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all’incremento delle infrastrutture, per una efficace politica delle acque e dei boschi. A differenza della legislazione nazionale, questo provvedimento speciale consentiva di unificare sul piano legislativo diverse attività che in genere rimanevano distinte: bonifiche, irrigazioni, difese idrauliche, boschi. Notevoli furono anche le realizzazioni nella costruzione di strade e di ferrovie. Invece dei provvedimenti generali per il Sud indicati dal governo Sonnino, Giolitti istituì la Commissione parlamentare d’inchiesta sulla condizioni dei contadini nelle province meridionali e nella Sicilia. Molto utile per gli studiosi, questa inchiesta non produsse miglioramenti alla condizione salariale e normativa dei contadini del Sud, che furono invece determinati dall’esodo in massa nelle Americhe. Ma il provvedimento più importante assunto da Giolitti nel 1906 fu la conversione della rendita preparata dal ministro del Tesoro Luzzatti che, riducendo gli interessi pagati ai possessori di titoli di Stato, fu il segno tangibile dei progressi realizzati dall’economia e dalla società italiana. Lo sviluppo e il benessere erano diffusi però in forme eccessivamente squilibrate sul piano sociale e tra le diverse aree del paese. Contro «l’onda di vana grandezza» sollevata dalla riduzione della rendita protesterà in parlamento Nitti, denunciando «il disquilibrio fondamentale della nostra vita economica» e indicando i drammatici «primati» nazionali dell’emigrazione, della malaria, dell’analfabetismo24. La crisi economica del 1907 appare un tornante decisivo nella storia italiana del primo quindicennio del Novecento, più di quanto non apparisse ai contemporanei. Prodotta da una carenza di liquidità finanziaria a livello internazionale, di cui si sono già visti gli effetti sulla Fiat salvata dalle rimesse meridionali, questa crisi sancisce il pieno inserimento dell’Italia nel mercato mondiale. E funge da cartina di tornasole sia per le contraddizioni cumulate nel precedente decennio di intenso sviluppo, sia per gli squilibri che tenderanno a divaricare sempre più il paese sul piano territoriale, settoriale, sociale. La fase di depressione, che si congiungerà con la successiva cri24   F.S. Nitti, Discorsi parlamentari, Camera dei Deputati, Roma 1973, vol I, pp. 104 sgg. (tornata del 15 febbraio 1907).

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si del 1913, accentuerà la tendenza alla concentrazione industriale nell’area delimitata dal «triangolo» del Nord-Ovest e alla riduzione del peso economico e sociale del Sud, anche per l’ampliarsi della forbice tra i prezzi dei prodotti agricoli e dei manufatti industriali25. L’esiguità del mercato interno rimarrà un limite fondamentale per un processo di industrializzazione costretto a puntare, tra ricorrenti difficoltà, sulle esportazioni e sulle commesse statali. Il ruolo centrale delle banche miste (Banca Commerciale e Credito Italiano) nel finanziamento alle imprese industriali determinò una condizione di dipendenza delle imprese che preparerà durissimi scontri e tentati ribaltamenti di ruolo. Lo stesso ampliarsi dell’intervento statale nei processi economici sarà sempre attento ad evitare collisioni con le maggiori concentrazioni finanziarie e industriali, il cui peso uscirà rafforzato dalla crisi. Come sottolineò per tempo Sabino Cassese, a proposito del successivo sviluppo degli enti di gestione pubblica, una mitologia statalista non va sostituita a quella liberista: «Un’espansione dell’azione pubblica non fu neppure all’origine del fenomeno degli enti, istituiti spesso a richiesta di questo o quel gruppo di interessi privati»26. La prospettiva meridionalistica di Nitti A Napoli intanto la Commissione per l’incremento industriale presieduta dal sindaco Luigi Miraglia svolse rapidamente i lavori e scelse la linea esposta da Nitti nelle sue opere27: sviluppo della grande industria e derivazione pubblica della forza motrice dal Volturno. Fu sconfitta la prospettiva sostenuta dal mondo com25   G. Orlando, Progressi e difficoltà dell’agricoltura, in Lo sviluppo dell’economia italiana negli ultimi cento anni, a cura di G. Fuà, vol. III, Franco Angeli, Milano 1969; Bonelli, La crisi del 1907 cit. 26   S. Cassese, Le istituzioni amministrative, in Fondazione Feltrinelli, L’Italia unita nella storiografia del secondo dopoguerra cit., p. 65. 27   F.S. Nitti, La città di Napoli: studi e ricerche su la situazione economica presente e la possibile trasformazione industriale con un’appendice su le forze idrauliche dell’Italia e la loro utilizzazione, Alvano, Napoli 1902; Id., Napoli e la questione meridionale, Pierro, Napoli 1903. Questo secondo saggio è parte integrante di Id., Scritti sulla questione meridionale, 3, Napoli e la questione meridionale - Il porto di Napoli - L’ora presente - Il partito radicale, a cura di M. Rossi-Doria, Laterza, Roma-Bari 1978, pp. 11 sgg.

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merciale e finanziario napoletano, che avrebbe preferito una espansione del commercio di transito e della piccola industria. Sul finire del 1903 Giolitti, appena divenuto presidente del Consiglio, incaricò Nitti di preparare il disegno di legge, che fu consegnato a marzo e, approvato dalla Camera, divenne la legge speciale per Napoli dell’8 luglio 1904. Per una metropoli delle dimensioni di Napoli non c’era, a giudizio di Nitti, alternativa a uno sviluppo di tipo industriale fondato sulla grande impresa. La sua corrosiva polemica diveniva sferzante contro le «illusioni pericolose»: Napoli grande albergo, grande museo, grande porto per l’Oriente. «Le locuzioni poco precise, le frasi indeterminate hanno sempre un fascino sulle menti meridionali. Così che l’idea che Napoli deva essere il ‘grande porto per l’Oriente’, una frase banale, ma tante volte ripetuta, diventata una specie di aforisma commerciale, torna ad aver fortuna. L’Oriente è immenso: ma la fantasia è assai più immensa. E sono queste due immensità che si uniscono sovente per non produrre nulla. Ma le frasi sono spesso più fatali a un paese della sua povertà: vi sono frasi che uccidono più della povertà stessa»28. Una metropoli novecentesca non poteva vivere solo di turismo e di musei; un porto non poteva espandersi senza un adeguato hinterland produttivo29. Napoli doveva trasformarsi in una città preminentemente industriale, divenendo anche un modello per il Mezzogiorno. Quindi bisognava allargare il territorio comunale, aggregando i comuni finitimi, definire un’area industriale franca, portare in città energia idroelettrica a buon mercato per l’uso ­industriale. Questo programma di rinnovamento strutturale, che da Napoli andava esteso al Mezzogiorno, doveva rompere il principio della «desolante uniformità legislativa dell’Italia» e realizzarsi mediante una legislazione speciale calibrata sulle specifiche esigenze di Napoli e del Sud. In tal modo Nitti si distingueva dagli altri meridionalisti, a parte il suo amico Colajanni industrialista e protezionista, che restavano legati al liberismo agricolo e al rifiuto delle leggi speciali.   Nitti, Napoli e la questione meridionale cit., p. 114.   Id., Il porto di Napoli (1910), ripubblicato in Id., Scritti sulla questione meridionale. La città di Napoli cit., pp. 189 sgg. 28 29

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La prospettiva industrialista di Nitti si fondava sulla sostituzione dell’elettricità al vapore e quindi sul controllo pubblico delle fonti di energia. Nitti era convinto che l’Italia si trovasse a una svolta della sua storia e indicava una linea di politica economica che gli sembrava adeguata a perseguire l’obiettivo di uno sviluppo più equilibrato sul piano territoriale. Dal controllo delle acque pubbliche dipendeva tutta la complessa strategia di rinnovamento agro-industriale per il Mezzogiorno e per Napoli: produzione della forza motrice a buon mercato, bonifiche, irrigazione, trazione elettrica, sistemazione dei fiumi, lotta alla malaria. La proposta di nazionalizzare l’energia elettrica non perseguiva il fine politico di accrescere il ruolo dello Stato. Ma si proponeva uno scopo meramente economico, intendendo utilizzare lo Stato al fine di un più diffuso sviluppo produttivo. Come lo Stato dava l’acqua per l’irrigazione delle terre, così doveva dare la forza elettrica alle macchine per favorire lo sviluppo industriale. La nazionalizzazione dell’energia elettrica era solo lo strumento essenziale per un generale programma di espansione produttiva, che intendeva contemperare interessi imprenditoriali ed esigenze della collettività. Ma questa anticipatrice proposta non riuscì a superare le resistenze politiche e ideologiche e i corposi interessi delle potenti società elettriche private30. La ‘nittiana’ legge speciale per Napoli prevedeva agevolazioni fiscali e doganali, infrastrutture e commesse per sollecitare l’iniziativa capitalistica locale e per richiamare il capitale settentrionale verso un processo di industrializzazione, che vedrà sorgere a occidente il grande impianto siderurgico dell’Ilva a Bagnoli e a oriente una estesa zona industriale, dove s’insediarono numerose imprese del Nord e aziende locali. Sul piano politico la scelta nittiana costituiva, rispetto all’antigiolittismo diffuso tra i diversi meridionalisti, l’unico esempio di collaborazione col riformismo giolittiano che, bloccato presto sul piano nazionale e lontano dall’operare per il difficile riequilibrio 30   Gli scritti apparsi tra il 1901 e il 1903 negli Atti del Reale Istituto d’Incoraggiamento di Napoli furono raccolti nel volume La conquista della forza. L’elettricità a buon mercato. La nazionalizzazione delle forze idrauliche (1905), ripubblicato in Id., Scritti di economia e finanza. La conquista della forza. Il capitale straniero in Italia (1905-1915), a cura di D. Demarco, Laterza, Bari 1966, pp. 7 sgg.

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tra le due aree del paese, appariva temporaneamente disponibile a sostenere interventi determinati nella realtà meridionale. Il programma produttivistico nittiano aveva acquisito una dimensione nazionale, ma conteneva un preciso spessore meridionalistico. Sviluppo industriale integrato alla meccanizzazione e alla produzione agricola e gestione pubblica dell’energia per l’industrializzazione erano i cardini di una politica economica nazionale, che aveva una occasione di sperimentazione nel Sud, e anzitutto a Napoli. Per Nitti il punto fondamentale era la modernizzazione capitalistica del paese attraverso l’industrializzazione. L’energia idroelettrica era lo strumento essenziale di questo processo che, grazie alla dislocazione delle acque, poteva anche provare a riequilibrare almeno in parte i rapporti strutturali tra le due parti del paese. Quindi sviluppo capitalistico diffuso e avvio al superamento della questione meridionale. L’elettrificazione, nel progetto nittiano, era lo strumento di un ambizioso processo di sviluppo, più ampio ed equilibrato di quello avviato in Italia sul finire dell’Ottocento. Il punto debole della grande capacità programmatica nittiana era nella carenza di forze disposte a sostenerne la realizzazione, oltre che nella ferma ostilità degli interessi elettrici privati. Le sue difficoltà nascevano dalla volontà di rappresentare un modello ideale con scarso riscontro nella realtà: una borghesia produttiva e culturalmente egemone, difficile a trovarsi nel Mezzogiorno d’Italia. L’intellettuale positivista era convinto della sicura prevalenza della scienza accoppiata alla politica, per una fede tenace nella forza della ragione indicata dagli scienziati, dagli esperti tecnici. Lo studioso diventerà politico per cercare di realizzare gli ambiziosi progetti di trasformazione del Mezzogiorno: deputato dal 1904, sarà ministro dell’Economia prima della guerra e ministro del Tesoro durante il conflitto, quindi presidente del Consiglio nel primo dopoguerra. Un forte impegno etico-politico sosterrà sempre l’acuta ricerca e proposta nittiana. Scienza, società e politica sono strette in un intreccio, che muove dall’analisi della realtà per produrre innovativi progetti di intervento politico: la scienza come fondamento

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per la trasformazione della realtà, la cultura e la tecnica al servizio della politica31. Relatore politico per la Calabria e la Basilicata nell’Inchiesta sulle condizioni dei contadini meridionali, Nitti produrrà un’opera di grande respiro e di solida progettualità, che resta un modello originale e innovativo di inchiesta sociale e politica e completa la sua prospettiva di rinnovamento strutturale volta a modificare, almeno parzialmente a vantaggio del Mezzogiorno, il modello particolarmente squilibrato dello sviluppo capitalistico italiano. Dopo l’analisi del bilancio territoriale dello Stato italiano e il progetto di Napoli industriale, Nitti completava l’ambizioso programma di studio e di proposta politica meridionalistica. Un programma di rinnovamento economico per la Basilicata e la Calabria doveva fondarsi su una grande politica forestale, una politica di boschi e di acque, un grande demanio forestale, un grande demanio idraulico. Quindi rimboschimento, energia elettrica, irrigazione e bonifica, muovendo dalla ricostituzione del territorio. Tutto era cambiato a causa dell’esodo in massa: i contadini non chiedevano più modifiche dei contratti agrari. I salari erano cresciuti perché si era rarefatta la forza-lavoro, i fitti erano diminuiti, il valore della terra raddoppiato. «Questo enorme movimento emigratorio, che non ha precedenti nella storia d’Italia, costituisce la causa modificatrice più profonda dell’assetto economico morale, sociale del Sud d’Italia, all’infuori di ogni influenza del Governo e della borghesia»32. Nitti veniva indicato da Giolitti come ministro di Agricoltura, industria e commercio proprio nei giorni in cui si celebrava il cinquantenario dell’unità italiana. E a Torino, dinanzi al re e alla regina, il ministro inaugurava, a fine aprile 1911, l’Esposizione 31   Barbagallo, Francesco S. Nitti cit., pp. 116 sgg.; Id., Introduzione, in F.S. Nitti, Il Mezzogiorno in una democrazia industriale. Antologia degli scritti meridionalistici, a cura di F. Barbagallo, Laterza, Roma-Bari 1987, pp. xxvi sgg. 32   La relazione di Nitti e le Note e Appendici furono pubblicate negli Atti della inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini nelle province meridionali e nella Sicilia cit., vol. V, t. III, Basilicata e Calabria, Bertero, Roma 1910. Questi due tomi sono stati ripubblicati (salvo alcune appendici) in F.S. Nitti, Scritti sulla questione meridionale. Inchiesta sulle condizioni dei contadini in Basilicata e in Calabria (1910), Laterza, Bari 1968.

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internazionale dell’industria e del lavoro. Il positivo empirismo di cui era largamente dotato il neo-ministro gli fu indispensabile per portare a compimento due fondamentali progetti, alternativi ai princìpi sbandierati fino a pochi giorni prima. Il liberismo antimonopolistico fu immediatamente accantonato quando Giolitti avviò la battaglia per il monopolio statale delle assicurazioni, che non riuscì a prevalere sui potenti interessi delle società private anche internazionali, ma portò alla creazione dell’Istituto nazionale delle assicurazioni (Ina). Era il primo ente pubblico di gestione, che si sarebbe poi diffuso nel processo di crescente intervento statale nell’economia. Era la prima azienda industriale con distinta personalità giuridica, creata dallo Stato e capace di gestione autonoma con un proprio consiglio di amministrazione. Iniziò qui la collaborazione di Nitti con personalità di grandi qualità tecnocratiche, quali Alberto Beneduce e Vincenzo Giuffrida. Contemporaneamente il neo-ministro doveva procedere in senso inverso, dal pubblico al privato, proprio nel settore dell’energia elettrica. Dimenticate le recenti polemiche, Nitti abbandonò l’isolata trincea della pubblicizzazione della forza motrice, pur limitata a Napoli e al Mezzogiorno. E affidò il processo di modernizzazione produttiva del Sud alle forze dell’imprenditorialità privata rappresentate dalle aggressive società elettriche del gruppo Banca Commerciale-Sme, che avevano in Maurizio Capuano l’esperto manager meridionale fiduciario del capitale svizzero impegnato nel settore e nell’ingegnere Angelo Omodeo il maggiore tecnico nazionale nel campo dei bacini montani e degli impianti idroelettrici. Per il duttile empirismo nittiano il fine era più importante dei mezzi. L’obiettivo fondamentale era l’industrializzazione fondata sull’elettrificazione. Fallito il progetto di pubblicizzare le fonti di energia, non restava che puntare sulle società private per accrescere la produzione di energia elettrica necessaria allo sviluppo industriale. Alla centralità dello Stato subentrava la centralità del capitale privato. Ma era pur sempre uno strumento per un fine di valore generale: l’espansione industriale. Su questa linea, rivolta alla elettrificazione e alla modernizzazione agricolo-industriale del Sud si realizzava un importante accordo tra i ministeri dell’Agricoltura e dei Lavori pubblici e tra i rispettivi ministri, i radicali Nitti e Ettore Sacchi, con l’aiuto di

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funzionari ed esperti di grande livello quali Meuccio Ruini, Arrigo Serpieri, Eliseo Jandolo, Angelo Omodeo. Ne risultò la legge del 1911 sulle opere di sistemazione idraulico-forestale e di bonificazione e, due anni dopo, la legge che agevolava la costruzione di grandi bacini artificiali per la produzione di energia elettrica in Sardegna e in Calabria. Sempre d’intesa tra i due ministeri fu preparata la legge del 1913, che agevolava la costruzione di grandi laghi artificiali in Sardegna e in Calabria ai fini della produzione di energia elettrica e, in secondo luogo, a scopo d’irrigazione. La grandiosità degli impianti e la consistenza degli investimenti, previsti in 66 milioni di lire, assicurò, fin dal principio, alle società imprenditrici il rinnovo a sessant’anni del trentennio di durata normale delle concessioni, previsto dalla vecchia legge del 1884. La costruzione e l’esercizio del grande bacino artificiale sul Tirso in Sardegna furono concesse a un gruppo finanziario il cui presidente era Vittorio Cini della società Bastogi e vicepresidente era Pietro Fenoglio della Banca Commerciale. Il complesso sistema di laghi artificiali sulla Sila fu concesso a una società emanazione sempre della Bastogi e della Comit insieme alla Sme e alla Société franco-suisse pour l’industrie électrique, presieduta da Maurizio Capuano. Le agevolazioni erano quelle previste dalla legislazione speciale, che dalla Calabria si estendevano alla Sardegna33. Libertà al Nord, repressione al Sud La politica giolittiana, che guiderà gli anni della prima industrializzazione italiana, si adeguava ai limiti territoriali posti all’espansione dei livelli produttivi e delle libertà democratiche e non riusciva a perseguire l’obiettivo di un tendenziale riequilibrio territoriale nel processo espansivo del paese. Un modello di sviluppo concentrato e parziale, sul piano territoriale e a livello settoriale, impediva che il processo di modernizzazione industriale si rea33   Barbagallo, Francesco S. Nitti cit., pp. 169 sgg.; cfr. pure G. Mori, Le guerre parallele. L’industria elettrica in Italia nel periodo della grande guerra 1914-1919, in «Studi Storici», XIV, 1973/2, pp. 292 sgg., ora in Id., Il capitalismo industriale italiano, Editori Riuniti, Roma 1977, pp. 141 sgg.

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lizzasse in una dimensione complessivamente nazionale, com’era accaduto nei paesi più avanzati. L’incontro tra liberalismo e riformismo, tra Giolitti e Turati, si infrangeva di fronte alla realtà frammentata di una nazione propensa – per la sua costituzione sociale e territoriale – piuttosto a dividersi tra conservazione e radicale trasformazione, che a unirsi nelle forme mediane e tendendenzialmente equilibratrici del riformismo, sia conservatore che progressivo. Le libertà politiche e sindacali e il riformismo produttivistico, che accompagnano nel Centro-Nord la trasformazione industriale e la prima modernizzazione italiana, non hanno corso nelle province meridionali. Qui domina ancora, sul terreno sociale e politico la proprietà fondiaria, che è inserita pienamente negli equilibri governativi nazionali. Ed è per questo che le organizzazioni e le lotte sociali delle masse contadine e dei meno numerosi operai e operaie meridionali sono escluse programmaticamente dal riconoscimento assicurato nella pianura padana alle libertà di associazione sindacale e di sciopero. Nel quindicennio giolittiano l’esercito italiano sarà invocato dai proprietari e deputati anzitutto pugliesi e dislocato nelle aree calde, a più forte densità di braccianti, per garantire la tutela della libertà del lavoro. Al principio del 1908 il ministro della Guerra Severino Casana replicherà esasperato alle richieste continue della Direzione generale della Pubblica sicurezza: «Se in tutti i paesi che richiedono frequenti invii di truppa per servizio di P.S. si dovessero impiantare distaccamenti permanenti, i reggimenti dislocati nell’Italia meridionale non basterebbero a fornirli». A non essere tutelata nel Sud era la libertà di sciopero, viste le reiterate disposizioni governative, spesso firmate personalmente da Giolitti, che definivano associazioni a delinquere le leghe contadine e indicavano gli articoli 146, 154, 248 del codice penale per procedere rapidamente agli arresti e alle imputazioni giudiziarie. In questo senso un filo di continuità legava le lotte sociali nel Mezzogiorno giolittiano con il vasto movimento di braccianti, mezzadri, coltivatori scesi in lotta nella Sicilia del 1893 e colpiti dalla repressione crispina34.   Barbagallo, Stato, Parlamento cit., pp. 292, 282.

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L’analfabetismo ancora di massa, il disfacimento del tessuto sociale nelle vastissime aree di emigrazione, la riduzione della politica a rapporti clientelari, il rifiuto viscerale delle classi dominanti meridionali di aprire canali di comunicazione con le masse lavoratrici connotavano il quadro in cui si esprimeva, in scoppi improvvisi e incontrollati sanzionati dai ricorrenti ‘eccidi proletari’, il ribellismo delle masse subalterne meridionali. Come attesterà anche il relatore per le Puglie dell’Inchiesta parlamentare del 1909-10 Enrico Presutti: «Vi è in fondo nei proprietari la convinzione che i contadini non sono uomini come loro. Il comm. Dalmazzo, ispettore generale al ministero dell’Interno, mandato a Cerignola a comporre lo sciopero del maggio scorso, ebbe a dirmi di aver letto sul viso dei rappresentanti dei proprietari la meraviglia per la uguaglianza del trattamento formale, che esso faceva ai proprietari ed ai contadini, facendo sedere gli uni e gli altri accanto a sé»35. Ai primi del Novecento si cercherà di arginare e canalizzare lo spontaneo e drammatico ribellismo dei lavoratori meridionali con una difficile e ingrata opera di organizzazione politica e sindacale. Con Arturo Labriola, Ernesto Cesare Longobardi e soprattutto con Giuseppe Di Vittorio assumerà, specialmente tra i nuclei operai campani e nelle leghe bracciantili pugliesi, le forme radicali del sindacalismo classista e rivoluzionario, quanto più sarà spinta ai margini degli equilibri sociali, politici e territoriali garantiti dalla mediazione giolittiana. L’accordo iniziale tra il liberalismo democratico di Giolitti e il socialismo riformista di Turati non riuscì a consolidarsi per l’incapacità di affrontare il problema fondamentale della costruzione unitaria, che stava nell’aggravamento dei contrasti e degli squilibri tra le due grandi realtà territoriali. Il modello economico di sviluppo concentrato sul piano regionale, privo di una dimensione complessivamente nazionale, finiva per impedire anche, sul versante politico, l’allargamento delle prospettive del liberalismo verso un riformismo dotato di un ampio respiro nazionale. Un riformismo produttivistico, che comprendeva la rendita 35   E. Presutti, Puglie, in Atti della inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini cit., p. 604.

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fondiaria dominante al Sud, ed escludeva le lotte sociali dei contadini e degli operai meridionali dal riconoscimento assicurato nella pianura padana alla libertà di sciopero, era un riformismo dimezzato. E, in quanto tale, si dimostrava incapace di conseguire quegli obiettivi di espansione economico-sociale diffusa e tendenzialmente riequilibratrice, o almeno non del tutto squilibrata, che non potevano non caratterizzare una prospettiva politica riformistica.

V Guerra, dopoguerra, fascismo Antigiolittismo e meridionalismo: Guido Dorso e Luigi Sturzo «La questione dell’intervento, conterranei, è una questione es­ senzialmente meridionale.» Così scriveva al principio del 1915 Guido Dorso sul «Popolo d’Italia». E riceveva i complimenti per l’articolo dal direttore del nuovo quotidiano, Benito Mussolini: «Buonissimo, invece, Meridional-Sozial-Democratie»1. L’intervento nella guerra mondiale può essere la grande «occasione» del Sud per liberarsi dal «dominio dei preti», dei «camorristi», delle «congreghe»2. E soltanto la guerra poteva finalmente liberare l’Italia dal «giolittismo». L’antigiolittismo è il cemento che unifica radical-democratici e nazionalisti, sindacalisti rivoluzionari e grandi gruppi dell’industria bellica, tutti ferventi interventisti. Come saranno entusiasti fautori dell’intervento quasi tutti i meridionalisti, eccetto Fortunato e Nitti. Nella visione interamente politica della questione meridionale, Dorso vede nella guerra il colpo di grazia per il giolittismo e quin-

1   L’articolo Meridional-Sozial-Demokratie veniva pubblicato su «Il Popolo d’Italia» del 18 gennaio 1915. La lettera di Mussolini, inviata da Milano il 23 gennaio 1915, accenna a un articolo mandato da Dorso sul Salandrismo, non pubblicato perché non gli era piaciuto: G. Dorso, Carteggio (1908-1947), Annali 1991-92 del Centro di ricerca Guido Dorso, a cura di B. Ucci, Edizioni del Centro Dorso, Avellino 1992, p. 10. 2   M. Caronna, Guido Dorso e il Partito meridionale rivoluzionario, CisalpinoGoliardica, Milano 1972, p. 43; M.L. Salvadori, Il pensiero politico di Guido Dorso, in Guido Dorso e i problemi della società meridionale, Annali 1987-88 del Centro di ricerca Guido Dorso, introduzione di A. Maccanico, Edizioni del Centro Dorso, Avellino 1989, pp. 19 sgg.

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di la prima tappa della rivoluzione meridionale e della rivoluzione italiana. L’impostazione è tutta mazziniana: sul banco d’accusa è anzitutto «la conquista regia», la «piemontesizzazione», la politica trasformistica avviata da Cavour col «connubio» e giunta all’apice con Giolitti e i suoi «ascari» meridionali. Il liberismo ortodosso di De Viti De Marco fornisce a Dorso, come a Salvemini e a Gramsci, la categoria del Sud «mercato coloniale» di consumo dei manufatti del Nord. Anche Nitti, nella sua fase liberistica ottocentesca, userà questa categoria, che le successive ricerche hanno dimostrato infondata, e vi aggiungerà, sempre nella sua opera sul Bilancio dello Stato, le altrettanto discutibili affermazioni sul «drenaggio» post-unitario di capitali dal Sud al Nord e sul «sacrificio» compiuto dal Mezzogiorno nel processo unitario. Dorso riprende nel Novecento la teoria mazziniana della rivoluzione meridionale e italiana, sconfitta dall’esito risorgimentale, e prova a rilanciare il progetto di un Partito meridionale d’Azione, nell’intento, utopico, di ribaltare la soluzione risorgimentale nella direzione della rivoluzione democratica. Ma il soggetto individuato per la rivoluzione, la borghesia intellettuale meridionale, non sarà mai in grado di cogliere le «occasioni storiche» che compariranno nei due dopoguerra novecenteschi. E nemmeno si troveranno i «cento uomini di acciaio» capaci di operare una radicale trasformazione della società meridionale. A Dorso non resterà che prendere atto che «la formazione di una classe dirigente è un mistero della storia... un mistero divino»3. Giolittismo e trasformismo meridionale saranno anche i principali obiettivi polemici del sacerdote siciliano Luigi Sturzo, avversario radicale dello Stato liberale che aveva abbattuto lo Stato pontificio, e altrettanto critico della organizzazione prevalentemente latifondistica della struttura agraria meridionale. Democratico cristiano con Romolo Murri e Giuseppe Toniolo, avverso al clerico-moderatismo subalterno ai governi liberali, e in particolare a Giolitti, Sturzo punta al superamento dello Stato liberale mediante l’organizzazione delle masse popolari in partiti politici. Fonderà il partito popolare come alternativa al partito socialista, 3   G. Dorso, La rivoluzione meridionale (1925), Einaudi, Torino 1955; Id., Dittatura, classe politica e classe dirigente cit., p. 9; Id., L’occasione storica, Einaudi, Torino 1955.

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in una prospettiva politica dove il suffragio universale e il sistema elettorale proporzionale finiranno per cancellare il tradizionale predominio liberale. Nel Sud, popolato dalle clientele trasformistiche ministeriali, bisognerà anzitutto rinnovare la struttura agraria, sostituendo al latifondo la piccola proprietà contadina e allargando gli spazi e i poteri delle autonomie locali. La prospettiva meridionalistica e regionalistica di Sturzo è tutta rivolta a costruire una ordinata società di democrazia rurale, lontana dall’industrialismo e dall’urbanizzazione, che portano conflitti e socialismo. Il suo modello ideale è un mondo agricolo fondato sui valori spirituali e sociali della tradizione cattolica, in una dimensione economica tutta orientata verso le produzioni agricole e verso commerci in espansione nell’intero bacino mediterraneo, aperta a un colonialismo di popolamento, per assorbire l’emigrazione. Il progetto riformistico di Sturzo non si fermava alla frantumazione del latifondo e all’assegnazione di piccoli lotti ai contadini, ma indicava anche le condizioni essenziali per un rinnovamento produttivo, che consistevano innanzitutto nelle bonifiche e nella diffusione della viabilità. Nel discorso di Napoli del gennaio 1923 su Il Mezzogiorno e la politica italiana riaffermerà la centralità politica e nazionale della questione meridionale. Schierato su posizioni antifasciste, l’anno dopo fu costretto all’esilio, anche per l’intervento filo-fascista del Vaticano4. L’esplosione del divario nella guerra Forse non si è valutata abbastanza l’importanza decisiva delle guerre nella definizione dei rapporti tra Nord e Sud e la loro incidenza nella determinazione e la crescita del divario territoriale. Si è visto quanto pesò il costo delle guerre risorgimentali sui rapporti finanziari tra le due sezioni dello Stato unitario. La partecipazione alla prima guerra mondiale segna l’inizio di un periodo trenten-

4   G. De Rosa, Luigi Sturzo, Utet, Torino 1977; Scritti politici di Luigi Sturzo, introduzione e cura di M.G. Rossi, Feltrinelli, Milano 1982; Galasso, Il pensiero meridionalistico cit., pp. 81 sgg.

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nale, che rappresenta la fase storica più negativa per la struttura economica e sociale meridionale. La guerra bloccherà il parziale intervento statale avviato con la legislazione speciale a favore del Sud, sposterà le risorse verso l’area più industrializzata che si espanderà enormemente in connessione con le tante necessità belliche, stimolerà fortemente la crescita del divario e aumenterà intensamente la distanza tra Nord e Sud. I grandi gruppi meccanici e siderurgici impegnati nelle produzioni per la guerra – Ansaldo, Ilva, Fiat – decuplicarono il numero di occupati: mediamente da 5.000 a 50.000, ognuno; la produzione non conobbe limiti, e così i profitti. Eguale sviluppo ebbero l’industria chimica per gli esplosivi con la Montecatini e le potenti imprese elettriche che raddoppiarono la produzione, nonché le manifatture tessili per il vestiario militare. La base industriale del Nord-Ovest, che aveva avviato da un quindicennio il suo sviluppo, sfruttò l’occasione bellica per decollare definitivamente verso una società industrializzata5. In Campania parteciparono all’impresa l’Ilva e l’Armstrong di Pozzuoli, i cantieri navali di Castellammare, le fabbriche d’armi napoletane e le Manifatture cotoniere meridionali6. La presenza di qualche altra impresa meridionale non bastava però a frenare il processo di distanziamento accelerato che allora iniziò tra la società ancora rurale del Sud e il «triangolo industriale» in forte espansione. «La guerra, dunque – ha sottolineato Vera Zamagni –, si rivelò un pessimo affare per il sud del paese, che si vide completamente privato di quell’attenzione che era andato ricevendo nel periodo giolittiano e fu testimone impotente degli enormi flussi di spesa pubblica diretti al rafforzamento delle aree già relativamente più sviluppate. Era inevitabile, a quel punto, che il divario Nord-Sud si allargasse ulteriormente»7. La guerra produsse un pesante indebitamento dell’Italia con gli Stati Uniti e la Gran Bretagna e una grande inflazione per l’ec5   A. Caracciolo, La crescita e la trasformazione della grande industria durante la prima guerra mondiale, in Lo sviluppo economico italiano cit., pp. 195 sgg.; Acciaio per l’industrializzazione. Contributi allo studio del problema siderurgico italiano, a cura di F. Bonelli, Einaudi, Torino 1982. 6   A. De Benedetti, La Campania industriale. Intervento pubblico e organizzazione produttiva tra età giolittiana e fascismo, Athena, Napoli 1990. 7   Zamagni, Dalla periferia al centro cit., p. 290.

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cessiva circolazione di carta moneta8. Gli enormi profitti spinsero i grandi gruppi industriali a farsi la guerra tra loro, prima ancora che finisse il conflitto mondiale. Ne scaturì la cosiddetta «scalata alle banche», per il controllo del mercato dei capitali necessari al costoso processo di riconversione delle industrie belliche. Questa guerra industriale-finanziaria finì nel 1921 col fallimento dell’Ansaldo e della Banca di Sconto e col crollo dell’Ilva9. L’economia bellica aveva prodotto un grande trasferimento di risorse dall’agricoltura all’industria. La guerra aveva alimentato un flusso ininterrotto della ricchezza del paese sulla direttrice Sud-Nord, attraverso la tassazione dei redditi agricoli e l’utilizzazione del risparmio accumulato nel Mezzogiorno per finanziare la produzione bellica collocata per lo più nel Settentrione. Anche la crisi del dopoguerra ebbe conseguenze pesanti nel Mezzogiorno, dove l’inflazione giocò a sfavore della ragione di scambio tra manufatti settentrionali e derrate meridionali e, soprattutto, ridusse in cenere il capitale monetario dei piccoli risparmiatori depositato nei mille uffici postali del Sud10. Le difficoltà connesse al processo di riconversione industriale resero necessari interventi di sostegno e di salvataggio delle imprese settentrionali, che impedirono qualsiasi intervento a favore dell’economia meridionale, contribuendo anche per questa via ad accelerare il divario tra le due aree. Intanto chiudevano le grandi fabbriche metalmeccaniche tra Pozzuoli e Castellammare. I movimenti di occupazione delle terre sviluppatisi dopo la guerra nelle regioni meridionali provocarono nel 1919 l’emanazione del decreto Visocchi, che assegnò a cooperative di contadini poveri terre incolte e mal coltivate della proprietà latifondistica. Non fu dato però alcun sostegno per avviare un processo di trasformazione fondiaria. Anzi, la reazione agraria giunta al potere

8   G.C. Falco, L’Italia e la politica finanziaria degli alleati 1914-1920, Ets, Pisa 1983. 9   V. Castronovo, Giovanni Agnelli, Utet, Torino 1971; P. Frascani, Politica economica e finanza pubblica in Italia nel primo dopoguerra (1918-1922), Giannini, Napoli 1975; La transizione dall’economia di guerra all’economia di pace in Italia e in Germania dopo la Prima guerra mondiale, a cura di G. Mori e P. Hertner, il Mulino, Bologna 1983; A.M. Falchero, La Banca italiana di sconto 1914-1921. Sette anni di guerra, Franco Angeli, Milano 1990. 10   De Rosa, La rivoluzione industriale in Italia e il Mezzogiorno cit., pp. 158 sgg.

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col fascismo ottenne subito l’annullamento del decreto e la restituzione ai grandi proprietari anche di quei terreni incolti. Contemporaneamente, nei primi anni Venti, si bloccava pure l’emigrazione, in seguito al nuovo orientamento della legislazione nordamericana, che fermava del tutto il flusso di contadini meridionali verso gli Stati Uniti, che ancora nel primo dopoguerra aveva toccato livelli molto elevati. Correnti minori si sarebbero rivolte, per un po’, verso l’Argentina e il Brasile. Il fascismo, la ex questione meridionale, il Mezzogiorno Dopo le elezioni del 1924, a settembre, Mussolini si recò a Napoli e tenne un discorso dal balcone del Municipio, che si concluse con l’auspicio di: «vedere Napoli potente, prospera, veramente regina del Mediterraneo nostro». La retorica e la propaganda, con la fusione tra la regina del Mediterraneo e il ­mare nostrum, toccavano i massimi livelli espressivi. Quindici anni dopo, a fine marzo 1939, a Reggio Calabria Mussolini parlò per primo della «invenzione» della questione meridionale e, da par suo, ne inviduò anche i responsabili, il movente, la soluzione. «I vecchi governanti avevano inventato, allo scopo di non risolverla mai, la cosidetta questione meridionale. Non esistono questioni settentrionali o meridionali. Esistono questioni nazionali, poiché la nazione è una famiglia, e in questa famiglia non ci devono essere figli privilegiati e figli derelitti»11. La soluzione finale era stata peraltro sancita già nel 1934, all’interno del XXIII volume della Enciclopedia Italiana diretta da Giovanni Gentile, ad vocem da Raffaele Ciasca, prediletto allievo di Giustino Fortunato che, dopo un’accurata disamina delle «due Italie», aveva concluso: «Di una ‘questione meridionale’ non si può più, oggi, legittimamente parlare, e perché tante differenze sono scomparse e perché ormai sono in piena attuazione i provvedimenti del governo fascista che mirano, intenzionalmente, a elevare il tono dell’Italia agricola specialmente meridionale. Ma

11   G. Galasso, Mezzogiorno e fascismo negli anni venti, in Id., La democrazia da Cattaneo a Rosselli cit., pp. 160 sg.

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più ancora, perché ogni traccia di contrasto, di antagonismo, ogni senso di interessi diversi, sono scomparsi dagli animi per la fusione operata dalla guerra mondiale e dal fascismo». Restavano alcuni problemi «tecnici», da affidare ai tecnici. Alla politica c’era chi badava, per tutti. Nel contesto tecnocratico più avanzato del Sud, quello napoletano, nasceva la rivista «Questioni meridionali», naturalmente al plurale, per iniziativa della Sme di Giuseppe Cenzato12, sotto l’occhio vigile di Alberto Beneduce, deus ex machina dell’economia dirigista negli anni Trenta. Su questa rivista, al principio del 1935, l’autorevole segretario generale della Confindustria Gino Olivetti scriveva un articolo intitolato La ex questione meridionale. I problemi del Mezzogiorno e delle isole però erano rimasti, anzi si erano aggravati. L’eccessivo aumento della popolazione acuiva lo squilibrio con le scarse risorse disponibili. Nel quindicennio 1921-36 le regioni meridionali e insulari avevano un incremento demografico di 2,2 milioni di persone rispetto all’aumento di 3,5 milioni di abitanti registrato nell’intero sessantennio 18611921. Da 9,5 milioni di abitanti nel 1861 si era giunti nel 1936 a 15,2 milioni e si sarebbe arrivati a 17,4 milioni nel 195113. Questo fortissimo incremento demografico era dovuto anzitutto all’andamento nettamente positivo del movimento naturale della popolazione. A differenza del Nord, il Sud continuava a registrare un’alta natalità e un’alta fecondità, di tipo mediterraneobalcanico; mentre il tasso di mortalità si era fortemente abbassato. C’era poi il blocco della grande emigrazione, imposto prima dagli Stati Uniti, e poi anche in America latina. Non può stupire quindi che negli anni Trenta, nonostante la battaglia per la ruralizzazione decretata dal regime, si sviluppò per la prima volta dalle campagne del Sud una forte, incontrollata corrente migratoria verso i centri industriali del Nord14. 12   M. Fatica, Giuseppe Cenzato, in I protagonisti dell’intervento pubblico in Italia, a cura di A. Mortara, Franco Angeli, Milano 1984, pp. 431 sgg. 13   Statistiche sul Mezzogiorno d’Italia 1861-1953, Svimez, Roma 1954, pp. 10 sgg. Per il Mezzogiorno continentale cfr.: G. Galasso, Lo sviluppo demografico del Mezzogiorno prima e dopo l’unità, in Id., Mezzogiorno medievale e moderno cit., pp. 303 sgg.; Barbagallo, Lavoro ed esodo nel Sud 1861-1971 cit., pp. 141 sgg. 14   A. Treves, Le migrazioni interne nell’Italia fascista. Politica e realtà demografica, Einaudi, Torino 1976.

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Un altro insuccesso della campagna ruralista del fascismo fu segnato dall’avanzare nel Mezzogiorno del processo di urbanizzazione, soprattutto nelle pianure e lungo le coste della Sicilia, della Campania, della Puglia. Più indietro restavano le altre regioni, in un panorama meridionale sempre più articolato. Da Napoli industriale alle pianure bonificate lungo la costa campana dal Volturno al Sele, le tre grandi città siciliane con diversificate funzioni industriali e commerciali, i nuovi capoluoghi di Brindisi, Taranto, Ragusa, l’espansione commerciale e agricola di Bari e di Foggia, dove si scontravano fazioni fasciste legate a diversi interessi economici e distinti gruppi sociali15. Nonostante l’entusiasmo profuso, le battaglie di Mussolini non avevano il successo sperato. Nel 1925 veniva lanciata la «battaglia del grano», nella prospettiva autarchica di conseguire l’autonomia alimentare dell’Italia, in vista di una guerra connessa all’ambìto ruolo di potenza emergente. Nella sostanza, era una operazione di propaganda. In termini economici non era una grande idea, anche perché l’impostazione produttivistica, volta ad accrescere la produttività ma non l’estensione della coltivazione granaria fu disattesa nel Mezzogiorno, dove l’espansione delle colture cerealicole in terreni impervi e inadatti colpì pesantemente il patrimonio zootecnico, in particolare l’allevamento ovino. Secondo i calcoli dell’economista agrario tedesco Friedrich Vöchting, la cui opera sulla questione meridionale fu tradotta e pubblicata a cura della Cassa per il Mezzogiorno: «l’ecatombe ovina dev’essere costata all’Italia, fra il 1926 e il 1929, una perdita netta di ben 400 milioni di lire, contro un ricavo lordo di 200 milioni della battaglia del grano»16. La rivalutazione della lira, la successiva deflazione e il blocco dell’emigrazione decretato anche dal regime ebbero conseguenze devastanti sulle condizioni economiche e i livelli di vita dei lavo15   G. Barone, Stato e Mezzogiorno (1943-60). Il «primo tempo» dell’intervento straordinario, in Storia dell’Italia repubblicana, I, La costruzione della democrazia, coordinata da F. Barbagallo, Einaudi, Torino 1994, pp. 298 sgg.; L. Masella, La difficile costruzione di una identità (1880-1980); e E. Corvaglia, Tra sviluppo e consenso: dalla crisi del blocco agrario al corporativismo dipendente, in La Puglia cit., pp. 356 sgg., 821 sgg. 16   F. Vöchting, La questione meridionale, Istituto Editoriale del Mezzogiorno, Napoli 1955, p. 531.

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ratori agricoli. In Calabria nel 1929 i salari dei braccianti furono ridotti del 20% e continuarono a scendere negli anni seguenti: in ogni caso non riuscivano a lavorare più di 90 giorni all’anno17. Umberto Zanotti-Bianco, fondatore dell’Associazione nazionale per gli interessi del Mezzogiorno d’Italia (Animi), nel settembre 2008 visse in una tenda nello sperduto paese calabrese di Africo per compiere un’inchiesta sulla miseria e sulla fame diffusa in quelle zone, aiutato dal giovane Manlio Rossi-Doria. «Sono talmente stanco – scriveva – di tutto il luridume, di tutte le malattie, di tutte le lacrime senza speranza di questa povera gente! Essa non ha per rifugiarsi che povere tane buie e sconsolate, e quando mi ritrovo solo a notte, nella mia tenda, non so sottrarmi dall’impulso di gridare aiuto per loro». Il regime non apprezzò questa inchiesta, che disonorava «il nostro paese all’estero», e impose una stretta sorveglianza di polizia a Zanotti-Bianco, sia a Roma che nei suoi viaggi al Sud18. Fino al 1929 la congiuntura internazionale favorita da prezzi agricoli crescenti aveva consentito una forte esportazione di prodotti ortofrutticoli e di colture specializzate anche dalle province meridionali, in particolare di agrumi e di mandorle19. Ma la sovrapproduzione americana e australiana provocò già nel 1926 una caduta dei prezzi agricoli, che si aggravò dopo la crisi del ’29. Le esportazioni di vino, olio, arance e limoni subirono un duro colpo e con esse l’agricoltura meridionale più avanzata. La riduzione degli scambi commerciali, sfociata nella chiusura autarchica di fine anni trenta, mise in crisi i distretti delle colture pregiate esportatrici, rendendo insostenibili le condizioni di vita nelle campagne meridionali: «Sono stati – ha scritto Manlio RossiDoria – quelli dal 1929 al 1935 gli anni della disperazione nera in 17   P. Bevilacqua, Le campagne del Mezzogiorno tra fascismo e dopoguerra. Il caso della Calabria, Einaudi, Torino 1980, pp. 57 sgg. 18   U. Zanotti-Bianco, Storia dell’Associazione nazionale per gli interessi del Mezzogiorno nei suoi primi 50 anni di vita, in L’Associazione nazionale per gli interessi del Mezzogiorno d’Italia nei suoi primi cinquant’anni di vita, Collezione Meridionale Editrice, Roma 1960, pp. 66 sg.; cfr. pure U. Zanotti-Bianco, Tra la perduta gente (Africo, 1928), in «L’Alpe», XVI, maggio 1929, pp. 201 sgg.; ripubblicata dall’Animi nella Collezione Meridionale, Roma 1947. 19   P. Bevilacqua, Clima, mercato e paesaggio agrario nel Mezzogiorno, in Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea, a cura di P. Bevilacqua, vol. I, Spazi e paesaggi, Marsilio, Venezia 1989, pp. 667 sgg.

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tutto il Mezzogiorno, resa più grave dal continuo, rapido aumento della popolazione presente, per la cresciuta eccedenza naturale determinata dalla ridotta mortalità e per l’assoluta mancanza di sbocchi migratori»20. La granicoltura estensiva invece si diffuse ulteriormente per l’interesse dei proprietari del Sud a fruire dei ripetuti aumenti del dazio doganale, risorto dopo una lunga sospensione: 27,50 lire per quintale nel 1925; 50 lire nel 1929, 75 nel 1931. In questo modo si dava respiro al decrescente potere degli agrari meridionali e si favoriva la diffusione al Sud dei concimi chimici prodotti al Nord dalla Montecatini21. Invece di promuovere il passaggio a una maggiore varietà colturale e a una rotazione con l’inserimento delle trascurate colture foraggere, «raccomandata da tutti i competenti ab antiquo, la politica agraria fascista non fece che ribadire, colla sua svolta verso l’autarchia granaria, la vigente unilateralità tanto biasimata, e conquistò il progresso attuale, dovuto anche nel Sud ai suoi sistemi di serra, a prezzo di un’ipoteca, palese o ancora latente, sulla futura produttività del suolo»22. Connesso alla «battaglia del grano» fu l’altro cardine della politica agraria del fascismo, la «bonifica integrale», posta in essere con le leggi del 1924, 1928, 1933 sotto la guida di Arrigo Serpieri, grande tecnico agrario della Scuola di Portici23. La novità del concetto di «bonifica integrale» consisteva nel superamento della tradizionale concezione della bonifica, inte20   M. Rossi-Doria, Ripensare il passato: considerazioni sulla questione meridionale (1975), in Scritti sul mezzogiorno, introduzione di A. Graziani, l’ancora del mediterraneo, Roma 2003, p. 163. 21   G. Tattara, Cerealicoltura e politica agraria durante il fascismo, in Lo sviluppo economico italiano 1861-1940, a cura di G. Toniolo, Laterza, Roma-Bari 1973, pp. 379 sgg.; J.S. Cohen, Rapporti agricoltura-industria e sviluppo agricolo, in L’economia italiana nel periodo fascista, a cura di P. Ciocca e G. Toniolo, il Mulino, Bologna 1976, pp. 392 sgg. 22   Vöchting, La questione meridionale cit., p. 528. 23   M. Rossi-Doria, La facoltà agraria di Portici nello sviluppo dell’agricoltura meridionale, in «Quaderni storici», XII, 1977, pp. 836 sgg.; L. D’Antone, Politica e cultura agraria: Arrigo Serpieri, in «Studi Storici», 20, 1979/3, pp. 609 sgg.; C. Fumian, Modernizzazione, tecnocrazia, ruralismo: Arrigo Serpieri, in «Italia contemporanea», XXXI, 1979, pp. 3 sgg.; P. Bevilacqua, M. Rossi-Doria, Lineamenti per una storia delle bonifiche in Italia dal XVIII al XX secolo, in Eid., Le bonifiche in Italia dal ’700 a oggi, Laterza, Roma-Bari 1984, pp. 57 sgg.

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sa soltanto come risanamento idraulico e lotta alla malaria, per allargarla a una successiva, permanente fase di trasformazione fondiaria. La bonifica comportava al Sud la divisione del latifondo e la formazione di piccole proprietà, in un panorama di scelte produttivistiche e di riforma agraria, che richiedevano l’investimento di cospicui capitali pubblici, che veniva ostacolato dagli interessi dei grandi gruppi industriali del Nord. Insieme alle opere pubbliche finanziate dallo Stato, i proprietari meridionali avrebbero dovuto investire per la trasformazione fondiaria notevoli capitali, che peraltro non era facile reperire nella crisi degli anni Trenta. Serpieri, sottosegretario alla bonifica integrale dal 1929 al 1935, provò a superare la resistenza degli agrari, specialmente pugliesi, con la minaccia dell’esproprio; ma fu costretto alle dimissioni, dopo il voto negativo del Senato sulla sua legge24. Le forti opposizioni sociali ed economiche e le crescenti difficoltà finanziarie portarono all’accantonamento degli ulteriori progetti di bonifica e trasformazione fondiaria: «Già nel 1934, su 1,1 milioni di ettari interessati con opere pubbliche ad una trasformazione agraria, quest’ultima dimostrava un avviamento molto lento e non sempre razionale su due terzi della superficie, e su un terzo non era stata affatto incominciata a causa della difficoltà di passare dalla fase delle opere pubbliche (controllate dallo Stato) a quella degli interventi privati»25. La bonifica comunque mise in valore vasti terreni meridionali, ampliando la superficie agraria utilizzabile e diffondendo la piccola proprietà contadina. Quest’opera di colonizzazione, estesa specialmente in Campania e in Puglia, si inquadrava anche nella politica di «sbracciantizzazione», dettata al fascismo dal timore della combattività delle masse bracciantili, concentrate al Sud nel Tavoliere foggiano e nella Terra di Bari. Il mito di un’armonica «ruralità» sostenne la diffusione dei contratti di colonia parziaria e il consistente ampliamento dell’area della mezzadria con la politica degli appoderamenti. 24   G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, vol. IX, Il fascismo e le sue guerre, Feltrinelli, Milano 1981, pp. 298 sgg. 25   G. Haussman, Il suolo d’Italia nella storia, in Storia d’Italia, I, I caratteri originali, Einaudi, Torino 1972, p. 112.

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Durante il regime fascista le ragioni di scambio tra agricoltura e industria aumentarono la distanza tra i prezzi agricoli e quelli industriali, avvantaggiando i secondi: gli agricoltori pagavano sempre di più per i concimi chimici e i trattori industriali, sempre più diffusi. La crisi internazionale degli anni Trenta aggravò le precedenti scelte nazionali di politiche deflattive e protezionistiche, orientate ormai verso l’autarchia. Gli alti prezzi e i bassi salari compressero ulteriormente la domanda interna. Il basso livello dei consumi dei lavoratori fu attestato da un rapporto dell’Ufficio internazionale del lavoro: nel 1929 in provincia di Salerno le famiglie occupate nell’agricoltura consumavano la metà della carne, uova e latticini rispetto alle famiglie dei ceti medi. Tra il 1928 e il 1934 gli italiani mangiavano meno carne, burro, uova e molto meno zucchero dei paesi europei avanzati. L’eccezionalità dello zucchero dipendeva dal suo costo quadruplicato rispetto ai prezzi internazionali, in conseguenza dell’alto dazio protettivo26. La crisi internazionale degli anni Trenta colpì duramente l’intreccio tra grandi banche e gruppi industriali, che rischiarono il fallimento generale insieme alla Banca d’Italia, garante in ultima istanza degli istituti di credito più esposti. La nascita dell’Istituto per la ricostruzione industriale (Iri) nel 1933 scaturisce dalla necessità di evitare il fallimento delle banche, con la conseguente rovina dei risparmiatori, e di salvare il patrimonio industriale, più che da un progetto volto ad accrescere la direzione statale del­ l’economia. L’operazione fu diretta dal casertano, già socialriformista e nittiano, nonché alto dignitario della massoneria, Alberto Beneduce, con la collaborazione del banchiere e tecnocrate Donato Menichella, figlio di un agricoltore pugliese. Lo Stato coprì le enormi perdite delle banche e delle industrie, operando una imponente redistribuzione del reddito nazionale a vantaggio della grande finanza e della grande industria. Banca Commerciale, Credito Italiano e Banco di Roma divennero «banche d’interesse nazionale». L’Iri acquisì la gran parte delle maggiori industrie, a partire da 26   P. Corner, L’economia italiana fra le due guerre, in Storia d’Italia, 4, Guerre e fascismo. 1914-1943, a cura di G. Sabbatucci e V. Vidotto, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 347 sg.

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quelle siderurgiche e belliche (Ansaldo, Terni, Cogne). Da «nave ospedale», secondo la definizione dei primi dirigenti, l’Iri diventò un ente pubblico permanente che assicurava allo Stato ampie funzioni direttive dell’economia italiana27. Pasquale Saraceno, dal principio consulente e poi dirigente dell’Istituto, giudicò la complessa serie di interventi pubblici, effettuati dalla riconversione dell’industria bellica fino alla costituzione dell’Iri, tra il 1918 e il 1933, «una serie di interventi pubblici che, nel loro insieme, ci appaiono oggi come una forma grandiosa di finanziamento pubblico a posteriori di una espansione industriale localizzata soprattutto nel Nord»28. Il presidente dell’Iri Beneduce affidò alla Sme di Giuseppe Cenzato il compito di stimolare anche nel Mezzogiorno una crescita dell’industrializzazione sostenuta dallo Stato e incentrata nell’area napoletana e di favorire il rinnovamento tecnologico e organizzativo del fragile apparato produttivo locale. Beneduce, che era anche presidente dell’antica Bastogi, divenuta società finanziaria, e dell’Icipu (Istituto di credito per le opere di pubblica utilità) elevò la quota del capitale italiano nella Sme (fondata dagli svizzeri) dal 5 al 15% e favorì la nascita di imprese elettromeccaniche, come l’Ocren (Officine costruzioni e riparazioni elettromeccaniche)29. 27   Castronovo, Storia economica d’Italia cit., pp. 286 sgg.; E. Cianci, Nascita dello Stato imprenditore in Italia, Mursia, Milano 1977; La Banca d’Italia e il sistema bancario 1919-1936, a cura di G. Guarino e G. Toniolo, Laterza, Roma-Bari 1993; F. Bonelli, Alberto Beneduce (1877-1944), in I protagonisti dell’intervento pubblico in Italia cit., pp. 329 sgg.; M. de Cecco, Splendore e crisi del sistema Beneduce: note sulla struttura finanziaria e industriale dell’Italia dagli anni venti agli anni sessanta, in Storia del capitalismo italiano dal dopoguerra a oggi, a cura di F. Barca, Donzelli, Roma 1997, pp. 389 sgg.; Donato Menichella. Testimonianze e studi raccolti dalla Banca d’Italia, Laterza, Roma-Bari 1986; F. Bonelli, Lo sviluppo di una grande impresa in Italia. La Terni dal 1882 al 1962, Einaudi, Torino 1975; P. Rugafiori, Uomini, macchine, capitali. L’Ansaldo durante il fascismo 1922-1945, Feltrinelli, Milano 1981; M. Franzinelli, M. Magnani, Beneduce, il finanziere di Mussolini, Mondadori, Milano 2009; L. D’Antone, Da ente transitorio a ente permanente, in Storia dell’IRI, 1, Dalle origini al dopoguerra. 1933-1948, a cura di V. Castronovo, Laterza, Roma-Bari 2012, pp. 168 sgg. 28   Saraceno, La mancata unificazione economica italiana a cento anni dalla unificazione politica cit., p. 163. 29   A. De Benedetti, Il sistema industriale (1880-1940), in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. La Campania cit., pp. 396 sgg.; G. Bruno, Risorse per lo sviluppo. L’industria elettrica meridionale dagli esordi alla nazionalizzazione, Liguori, Napoli 2004, pp. 189 sgg.

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Nel 1939 Beneduce, con la consulenza tecnica di Cenzato, porta a compimento il lungo e complesso risananamento della società Unes (Unione esercizi elettrici), operante nel centro Italia e in varie altre zone e collegata con la Terni, e la trasferisce nell’area di esercizio della Sme. Per Beneduce e per l’Iri l’impresa diretta da Cenzato è ormai «il vero centro propulsore di tutte le iniziative che tendono alla trasformazione economica del Mezzogiorno». Il progetto, di evidente matrice nittiana, è di consolidare intorno alla Sme «un centro finanziario di strutture e potenzialità non diverse dalle capacità consolidate dei grandi gruppi operanti al Nord»30. Come dirà poi Saraceno, i dirigenti dell’Iri (Beneduce, Menichella, Giordani, Cenzato, Saraceno stesso) pensavano al futuro dell’industria italiana orientato verso il Sud, grazie anche alle scelte dell’Istituto: «In particolare interessava loro rendersi conto dei modi con i quali il sistema industriale esistente si sarebbe esteso alla parte del paese ove l’industria non era ancora giunta. L’estensione dell’industria a tutto il territorio nazionale in un modo o nell’altro, era avvenuta in tutti i paesi industrializzati dell’Occidente europeo; sembrava naturale domandarsi in qual modo tale estensione avrebbe avuto luogo nel nostro paese, non se essa sarebbe avvenuta, secondo il pensiero ancor oggi prevalente»31. In questa chiave procedeva la ristrutturazione e l’ampliamento dell’industria metalmeccanica nell’area napoletana, sotto la direzione dello scienziato Francesco Giordani, che sostituirà nel 1939 il dimissionario Beneduce alla presidenza dell’Iri. In quell’anno la Navalmeccanica rimetteva in sesto e unificava il cantiere di Castellammare (rilevato dalla Marina militare), il cantiere di Vigliena per riparazioni navali e la Società Bacini e Scali Napoletani. A questi tre cantieri si aggiungevano due impianti di meccanica navale: le Officine meccaniche (già Miani e Silvestri) e il Silurificio Italiano. Inoltre, come ha poi ricordato Saraceno, «poiché taluni degli impianti ora citati erano filiazioni di imprese aventi sede a

30   A. De Benedetti, Cenzato, l’Iri e l’industria a Napoli, 1933-1943, in Radici storiche ed esperienza dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno (Taormina, 1819 novembre 1994), a cura di L. D’Antone, Bibliopolis, Napoli 1996, p. 172. 31   P. Saraceno, L’intervento dell’Iri per lo smobilizzo delle grandi banche: 19331936, in Alberto Beneduce e i problemi dell’economia italiana del suo tempo, Iri, Roma 1985, p. 125.

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Milano e a Genova, se ne dispone il passaggio a società aventi sede a Napoli»32. Contemporaneamente si avviava a Pomigliano d’Arco la costruzione del grande impianto aereonautico affidato alla gestione dell’Alfa Romeo, controllata dall’Iri33. Questo grande stabilimento, di dimensioni quasi triple rispetto all’Ilva di Bagnoli, sarà raso al suolo dai bombardamenti anglo-americani del maggio-giugno 1943, che distrussero anche l’Ocren e altre aziende dell’area orientale. A settembre saranno i tedeschi in ritirata a far saltare in aria, contemporaneamente, tutti gli impianti industriali collocati lungo la fascia costiera da San Giovanni a Teduccio fino a Pozzuoli. Quale presidente dell’Unione industriale di Napoli dal 1932, Cenzato realizzerà un vasto programma di iniziative culturali di grande spessore, seguendo anche qui la convinzione e l’insegnamento nittiano che «la preparazione culturale» fosse «il problema centrale della industrializzazione del Mezzogiorno». Insieme a Giordani, a Girolamo Ippolito, professore di idraulica industriale, e al presidente dell’Acquedotto pugliese Gaetano Postiglione, già nella primavera ’32 Cenzato creava la Fondazione politecnica per il Mezzogiorno d’Italia, in stretto collegamento con la gloriosa Scuola di ingegneria napoletana, per favorire l’interazione fra ricerca e industria. Nel 1934 Cenzato e Giordani davano vita alla rivista «Questioni meridionali», in stretto rapporto con il comitato di studi economici della Confindustria e con l’obiettivo di esaminare «il problema dell’economia meridionale [...] nel quadro degli interessi nazionali». Tra i principali collaboratori sarà Gino Olivetti, la cui funzione di segretario generale della Confindustria verrà abolita, per evitare che apparisse la rimozione per motivi razziali34. Nell’ambito della Fondazione politecnica sarà preparato nel 1936 il Piano regolatore generale della città di Napoli, approvato 32   P. Saraceno, Introduzione, in Id., Sottosviluppo industriale e questione meridionale. Studi degli anni 1952-1963 cit., p. 10. 33   L. D’Antone, L’architettura di Beneduce e Menichella, in Storia dell’IRI, cit., pp. 234 sgg. 34   De Benedetti, Cenzato, l’Iri e l’industria a Napoli cit., pp. 153 sgg.; cfr. pure G. Savarese, L’industria a Napoli, Guida, Napoli 1984; S. Barca, L’etica e l’utilità: appunti sul «meridionalismo razionale» dell’ingegner Cenzato, in «Meridiana», n. 31, 1998, pp. 137 sgg.

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nel 1939 e coordinato da Luigi Piccinato nel segno di «una lucida impostazione razionalistica [...] il miglior piano che Napoli abbia avuto nella sua storia»35. Inattuato per la guerra, sarà accantonato nel dopoguerra per lasciare campo libero alla speculazione edilizia. Tra le operazioni urbanistiche dell’anteguerra vanno invece segnalati il parziale risanamento del rione Carità, accanto al Municipio, dove sarà edificato un nuovo centro direzionale, con il palazzo delle Poste di Giuseppe Vaccaro e il Banco di Napoli di Marcello Piacentini, la nuova Banca nazionale del lavoro, l’Ina, gli uffici finanziari, la Provincia, la Casa del Fascio e quella del Mutilato, con un carattere stilistico oscillante tra razionalismo modernista e monumentalismo di regime. Un altro significativo intervento urbanistico espanderà il rione occidentale di Fuorigrotta e costituirà la Mostra d’Oltremare, in linea con i progetti imperiali accesi dalla conquista dell’Etiopia36. Dalla metà degli anni Trenta il regime fascista sostituirà i progetti rivolti alla modernizzazione dell’agricoltura con una politica di riarmo bellico, che sfocerà nella guerra in Etiopia e nella partecipazione alla guerra civile spagnola. Ai contadini meridionali il regime offriva la prospettiva della colonizzazione in Africa e del volontariato militare in Spagna. Per Napoli si rispolverava il mito del grande porto militare e coloniale che si espandeva oltremare, nel Mediterraneo, verso l’Africa italiana37. Nel 1938, per la prima volta in Italia, l’industria supera l’agricoltura nella composizione del reddito nazionale: rispettivamente il 34,9% e il 33,4%. Ma la contrapposizione territoriale è fortissima. Il contributo del Nord al reddito industriale è più che doppio di quello del Sud: il 43% rispetto al 20,7%. Nel 1939 gli addetti all’industria erano al Nord il triplo che al Sud; i capitali investiti nelle industrie del Centro-Nord erano l’83% del totale nazionale, al Mezzogiorno restava il 16,6%. I consumi di energia elettrica per abitante nel Sud erano un quarto di quelli del Nord. Il consu-

35   V.E. De Lucia, A. Jannello, L’urbanistica a Napoli dal dopoguerra a oggi: note e documenti, in «Urbanistica», 65, luglio 1976, p. 7. 36   P. Varvaro, Una città fascista. Potere e società a Napoli, Sellerio, Palermo 1990, pp. 192 sgg. 37   G. Galasso, Intervista sulla storia di Napoli, a cura di P. Allum, Laterza, Roma-Bari 1978, pp. 227 sgg.

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mo di elettricità a fini industriali vedeva il rapporto Centro-Nord/ Sud suddiviso tra l’80 e il 20%. Il ristagno complessivo del Mezzogiorno nel regime fascista è segnalato anche dalla riduzione del reddito netto per abitante che, nel decennio 1928-38, cala da 1.802 a 1.718 lire. Nel Settentrione, a conferma delle pesanti difficoltà del decennio, c’è solo un leggero aumento, ma su una base quasi doppia del dato meridionale: si passa infatti da 3.198 a 3.365 lire38. Il ventennio fascista è il periodo storico in cui aumenta di più il divario tra Nord e Sud. Lo sviluppo dell’industrializzazione nell’area centro-settentrionale favorito dai salvataggi e dalle guerre, la stasi dell’industria al Sud e la dipendenza dei nuovi impianti da imprese del Nord, la mancata modernizzazione dell’agricoltura meridionale, la sovrappopolazione cresciuta nel Sud per i ridotti sbocchi migratori e di lavoro sono i principali motivi di aggravamento di una questione meridionale che si ripresentava acuita nella nuova stagione democratica. In un rapporto all’Assemblea costituente, nel ’47, un protagonista dei tentativi di espandere l’industria nel Sud come Cenzato doveva riconoscere che «l’industria meridionale risulta pressoché stazionaria tra l’inizio del secolo e la seconda guerra mondiale o anzi in lievo decremento»39. Come documenterà la Svimez nel dopoguerra, tra la fondazione dell’Iri nel 1933 e il dicembre 1940 fu dislocato nel Sud il 10% dei nuovi grandi impianti per l’industria bellica; nel 1938 circa il 42% della produzione industriale del Mezzogiorno era diretta dal Nord40. La mancata trasformazione agraria delle province meridionali, dovuta al blocco della bonifica integrale e alla svolta del regime fascista verso la guerra e il potenziamento dell’industria bellica, produsse un notevole indebolimento dei proprietari terrieri, che   Statistiche sul Mezzogiorno d’Italia 1861-1953 cit., pp. 683 sgg.   G. Cenzato, S. Guidotti, Il problema industriale del Mezzogiorno, in Ministero per la Costituente, Rapporto della Commissione economica presentato all’Assemblea costituente, Istituto poligrafico dello Stato, Roma 1947, vol. II, Industria, I, 2, p. 394. 40   N. Gallerano, La disgregazione delle basi di massa del fascismo nel Mezzogiorno e il ruolo della masse contadine, in Operai e contadini nella crisi del 1943/1944, Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia, Feltrinelli, Milano 1974, pp. 437 sg. 38 39

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mantenevano da sempre il controllo politico-sociale del Sud. La concentrazione industriale e finanziaria, provocata dallo sviluppo dell’Iri in organismo dirigente la ristrutturazione dell’economia italiana, ridusse il ruolo dell’agricoltura, e in particolare il potere del settore più arretrato che non aveva secondato i progetti modernizzatori del regime. Il calo della produzione agricola meridionale nel corso degli anni Trenta era un segno di questa crisi41. La perdita di peso politico degli agrari meridionali fu segnalata anche dalla decisione di Mussolini di lanciare, al principio del 1940, la campagna per la divisione del latifondo in Sicilia, l’«assalto al latifondo». Sostanzialmente fallita la bonifica per le opposizioni proprietarie, la legge di colonizzazione del latifondo siciliano si proponeva l’obiettivo della trasformazione delle grandi proprietà. Veniva costituito l’Ente di colonizzazione e si imponeva questa volta ai proprietari l’obbligo «di attuare la colonizzazione dei propri fondi con la creazione di unità poderali e la stabilizzazione di famiglie coloniche sul fondo». Era un’operazione politica che intendeva colpire il conservatorismo dei latifondisti. Ma ormai il tempo era finito42.

41   R. Villari, La crisi del blocco agrario, in L’Italia contemporanea 1945-1975, a cura di V. Castronovo, Einaudi, Torino 1976, pp. 122 sgg.; V. Castronovo, La politica economica del fascismo e il Mezzogiorno, in «Studi Storici», 17, 1976/3, pp. 37 sgg.; Nord e Sud nella crisi del 1943-1945, Atti della tavola rotonda (Catania, 14-15 marzo 1975), Pellegrini, Cosenza 1977. 42   S. Lupo, L’utopia totalitaria del fascismo (1918-1942), in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. La Sicilia cit., pp. 462 sgg.

VI Il Mezzogiorno al centro della rinascita nazionale La terra e i contadini: Guido Dorso e Manlio Rossi-Doria Caduto il fascismo e crollato il Regno d’Italia, saranno invece gli agrari siciliani a riprendere l’iniziativa e a cercare di ricontrattare il loro ruolo nel nuovo assetto politico che si dovrà definire nella penisola. O, ancora meglio, a rimettere in discussione lo Stato unitario e a puntare sul separatismo dell’isola dall’Italia, senza negarsi di guardare chi agli Stati Uniti, chi all’impero britannico, poco interessati peraltro a questi fantastici progetti. Il barone Lucio Tasca Bordonaro, grande agrario, diede per tempo alle stampe L’elogio del latifondo siciliano, dichiarandolo il miglior sistema di conduzione agricola per la Sicilia interna. Il grano della Sicilia tornava importante nella scarsezza e nella fame degli anni della guerra e del dopoguerra e alimentava un mercato nero dove operavano tutte le figure sociali, dai baroni ai banditi. L’occupazione alleata e la rottura tra le due Italie favorirà l’esplosione in Sicilia del separatismo, guidato da antichi notabili del liberalismo e della massoneria come Andrea Finocchiaro Aprile e Giovanni Guarino Amella e dall’aristocrazia agraria dei Tasca, Alliata, Arezzo, Notarbartolo, Starrabba. Il Movimento per l’indipendenza della Sicilia (Mis) rilancerà il sicilianismo, ideologia di grandiose aspirazioni nazionali materiata di più limitati interessi locali e sociali, contro i Comitati di liberazione nazionale e contro i partiti democratici che si riorganizzano e combattono contro nazisti e fascisti nel Centro-Nord. Il separatismo si darà un

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partito armato (Evis), cui aderiranno pure i banditi di Salvatore Giuliano1. Guido Dorso, nell’estate 1944, definirà il separatismo siciliano «l’ultima evoluzione del trasformismo meridionale» e ne denuncerà la contrapposizione al drammatico processo in atto di ricomposizione democratica e antifascista dell’unità italiana: «Mentre i partiti antifascisti a base unitaria si diffondono nell’isola per proseguire ivi, come altrove, l’opera del Risorgimento, e cercare di allargare le basi politiche dello Stato, con l’apporto decisivo di quelle masse, che la rettorica regia accusava di separatismo, il fenomeno aberrante si produce a opera di questi corifei dell’ancien régime che vedono in pericolo il loro chiuso e violento predominio regionale»2. Il separatismo riproponeva in modo radicale il vecchio schema ideologico del sicilianismo interclassista a forte direzione proprietaria, che verrà riassorbito nel dopoguerra dentro le forme dell’autonomismo regionale, riconosciuto all’isola con lo statuto speciale, che servì a superare le spinte separatistiche e a riannodare i fili del lacerato tessuto nazionale3. Il Sud viene alla ribalta politica e culturale, dopo la liberazione dall’occupazione tedesca ad opera delle truppe angloamericane, nel convegno di studi sui problemi del Mezzogiorno organizzato dal Partito d’Azione il 3 dicembre 1944 a Bari. Guido Dorso legge il saggio su La classe dirigente del Mezzogiorno. Manlio Rossi-Doria inizia la sua splendida relazione intitolata La terra: il latifondo e il frazionamento, riconoscendo anzitutto «come Guido Dorso sia oggi davvero il nostro capo spirituale» e fissa un preciso giudizio che mantiene tutto il suo valore, nonostante le negazioni inventate in questi tempi grami. «Il merito di quel gruppo, eterogeneo nella sua composizione e altissimo nella sua ispirazione, cui si è dato il nome di ‘meridionalisti’, è stato 1   R. Mangiameli, La regione in guerra (1943-1950), ivi, pp. 516 sgg. Cfr. pure G.C. Marino, Storia del separatismo siciliano 1943-1947, Editori Riuniti, Roma 1979. 2   G. Dorso, Separatismo, in «Il Nuovo Risorgimento», 1° agosto 1944, ora in Id., L’occasione storica, a cura di C. Muscetta, Animi-Laterza, Roma-Bari 1986, p. 19. 3   G. Giarrizzo, Sicilia politica 1943-1945. La genesi dello Statuto regionale, in «Archivio Storico per la Sicilia Orientale», LXVI (1970), pp. 9 sgg.; F. Renda, Storia della Sicilia dal 1860 al 1970, Sellerio, Palermo 1987, vol. III, pp. 48 sgg.

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quello di avere impostato su piano nazionale, come problema nazionale, la ‘questione meridionale’, di aver dimostrato che, se tale questione non si risolve, tutta la vita della Nazione ne resta indebolita e minacciata, e una vera, civile e moderna democrazia non può nascere in Italia»4. Segue una magistrale descrizione della struttura sociale dell’economia agricola del Mezzogiorno, che non è uno solo, ma molti: quello «nudo» dell’agricoltura estensiva, quello «latifondistico», quello «alberato» dell’agricoltura intensiva, quello intermedio dell’agricoltura «promiscua». Il centro di quest’acuta analisi è la valutazione delle grandi e medie aziende cerealicolo-pastorali a ordinamento capitalistico che, nelle condizioni date, costituiscono comunque «un modello di razionalità». Ma questa agricoltura, diffusa nel Meridione e nelle isole, «ne rappresenta anche una delle ragioni più potenti di inferiorità e di confusione e marasma. Essa rappresenta certo un mirabile circolo tra montagna e pianura, tra estate e inverno, adatto al clima e al naturale circolo della fertilità, ma è, ciò nonostante, un circolo di miseria, che conserva e riproduce miseria, che impedisce il vero progresso agrario e il nascere d’una moderna agricoltura nell’una e nell’altra parte del circolo. Quest’agricoltura è, allo stesso modo di quella contadina dell’interno, un’agricoltura dell’assurdo e la civiltà moderna più non consente assurdi nell’ordinamento della produzione e della società»5. L’arretratezza dell’agricoltura meridionale si concentra nelle zone interne: l’«osso» rispetto alla «polpa» costiera dei successivi approfondimenti6. Qui domina il «sistema latifondistico», che non è solo la grande proprietà, ma anche la media e la piccola proprietà borghese e anche una parte della proprietà contadina. L’intuizione originale di Rossi-Doria rispetto ai meridionalisti di fine Ottocento, come metterà in evidenza lui stesso, consiste nell’aver messo insieme le tante cause della «immobilità» meridionale, unificandole in un «sistema di rapporti sociali», in una «struttura economica e sociale»: il «latifondo contadino».   Rossi-Doria, Struttura e problemi dell’agricoltura meridionale cit., p. 3.   Ivi, pp. 4, 9, 11. 6   M. Rossi-Doria, Dieci anni di politica agraria nel Mezzogiorno, Laterza, Bari 1958. 4 5

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Se il clima, la malaria, la mancanza di acqua e di strade, le basse rese unitarie, il difetto di capitali «pesano così gravemente e così uniformemente su tutto il Mezzogiorno interno, gli è perché tutto un sistema di rapporti sociali, tutto un ordinamento della produzione – se si vuole, provocato da quelle condizioni e bene adatto ad esse – le rende ancor più dure e insuperabili di quanto, per loro natura, non sarebbero e le fa continuare ad agire sempre più duramente»7. La bonifica, fin dai tempi della occultata collaborazione d’anteguerra alla rivista «Bonifica e colonizzazione», una riforma agraria non collettivistica né generalmente espropriatrice, la ristrutturazione produttiva dell’organizzazione agricola sui modelli avanzati delle fattorie americane: sono questi i passaggi fondamentali nell’azione meridionalistica del maggiore esperto e riformatore delle campagne meridionali. L’anno prima che Dorso e Rossi-Doria incitassero, al convegno azionista di Bari, alla rivoluzione meridionale e alla distruzione del «blocco agrario», i contadini poveri della Calabria avevano ripreso a invadere le terre degli enormi latifondi nel marchesato di Crotone, subito dopo l’8 settembre 1943. A metà del 1944 era un ministro dell’Agricoltura calabrese e comunista, Fausto Gullo, a preparare il decreto che concedeva le terre incolte alle cooperative dei contadini, sulla falsariga del decreto Visocchi del primo dopoguerra. Ora però le dimensioni del fenomeno erano più vaste. Le lotte contadine invadevano terreni di superficie doppia rispetto alle occupazioni effettuate dopo la prima guerra mondiale. I decreti Gullo e poi i decreti del ministro democristiano Antonio Segni nel 1946 assegnarono alcune centinaia di migliaia di ettari di terre incolte ai contadini del Meridione e della Sicilia e stabilirono la proroga dei contratti agrari e il blocco delle disdette. Ma soltanto nell’anno 1947 le cooperative di contadini avanzarono richieste per oltre un milione di ettari. 7   M. Rossi-Doria, Struttura e problemi dell’agricoltura meridionale cit., p. 29. Cfr. pure P. Villani, Manlio Rossi-Doria e la tradizione meridionalistica, in «Studi Storici», 31, 1990/1, pp. 203 sgg.; E. Pugliese, Il pensiero di Manlio Rossi-Doria, in M. Rossi-Doria, La gioia tranquilla del ricordo. Memorie 1905-1934, il Mulino, Bologna 1991, pp. 327 sgg.; E. Bernardi, Riforme e democrazia. Manlio Rossi-Doria dal fascismo al centro-sinistra, Rubbettino, Soveria Mannelli 2010, pp. 59 sgg.

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La reazione degli agrari, a difesa della rendita fondiaria, fu durissima. La strage di Portella della Ginestra, affidata alla banda di Salvatore Giuliano per il 1° maggio 1947, fu la vicenda più tragica. Ma, al di là della resistenza padronale, le cooperative, che duravano mediamente non più di un triennio, funzionarono male e prevalse nettamente il sistema inefficiente della quotizzazione individuale8. Alla fine della seconda guerra mondiale – scriverà un esperto agrario quale Corrado Barberis – «l’identificazione del Mezzogiorno con la ruralità e della ruralità con l’agricoltura era un fatto assodato». Qualche anno dopo, il censimento verificava che quasi il 70% della popolazione del Mezzogiorno continentale viveva nei comuni rurali; mentre nelle regioni del Nord si era scesi al 50%9. I movimenti di lotta contadini ripresero nel Mezzogiorno sul finire degli anni Quaranta e contribuirono al varo delle leggi riformatrici nel 1950. Ma già prima, in occasione del referendum istituzionale del 2 giugno 1946, i contadini meridionali avevano dato un contributo decisivo alla nascita della Repubblica. Mentre le maggiori città del Sud – da Napoli, a Palermo, a Catania – indirizzavano alla monarchia più dell’80% dei voti, mostrando di non essere all’avanguardia del rinnovamento, erano le campagne e i contadini meridionali che, dopo aver avviato la disgregazione del blocco agrario, assestavano il colpo definitivo al sistema di potere monarchico, che aveva garantito anche gli equilibri conservatori del Mezzogiorno, dopo aver favorito l’avvento della dittatura fascista. Dieci giorni prima del referendum, Dorso scrisse sulla «Gazzetta del Mezzogiorno» di Bari un articolo intitolato I cafoni sono repubblicani, che si apriva con la significativa affermazione: 8   P. Cinanni, Lotte per la terra nel Mezzogiorno, 1943-1953: terre pubbliche e trasformazioni agrarie, Marsilio, Venezia 1979; Campagne e movimento contadino nel Mezzogiorno d’Italia dal dopoguerra a oggi, 2 voll., De Donato, Bari 1979-80; F. Renda, Movimenti di massa e democrazia nella Sicilia del dopoguerra, De Donato, Bari 1979; A. Rossi Doria, Il ministro e i contadini. Decreti Gullo e lotte nel Mezzogiorno 1944-1949, Bulzoni, Roma 1983; E. Bernardi, Il primo governo Bonomi e gli angloamericani: i «decreti Gullo» dell’ottobre 1944, in «Studi Storici», 43, 2002/4, pp. 1105 sgg. 9   C. Barberis, Città e campagna nel Mezzogiorno d’Italia dal dopoguerra ad oggi, in Guido Dorso e i problemi della società meridionale cit., p. 346.

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«L’avvenimento più importante dell’attuale momento politico è indubbiamente costituito dal fatto che la grande maggioranza dei contadini meridionali si è già fermamente dichiarata per la repubblica». Rossi-Doria scrisse poi che la repubblica aveva vinto grazie al voto dei contadini meridionali: nelle tipiche zone latifondistiche del Mezzogiorno – la Calabria, gli Abruzzi, la Sicilia interna – il 35-40% dei voti era stato repubblicano10. Disfatta e rinnovamento dello Stato nazionale Nell’estate del 1943 si dissolve il Regno d’Italia, lo Stato nazionale monarchico fondato nel 1861. La resistenza armata, organizzata dai partiti antifascisti contro l’occupazione nazista del CentroNord e contro il regime-fantoccio di Salò, estrae dalla escludente frattura fascista e dalla disfatta bellica le consunte idee di patria e di nazione e le ripropone in una nuova prospettiva di libertà e di democrazia. «Solo a questa condizione – scriveranno in una memoria del 17 settembre 1943 i partigiani di ‘Giustizia e Libertà’ Giorgio Diena e Vittorio Foa – l’Italia, oggi passivo campo di battaglia, cesserà di essere una semplice espressione geografica»11. L’Italia non ha più alcuna autonomia e una sovranità solo formale e limitata al Centro-Sud, sottoposta al potere militare della Gran Bretagna e degli Stati Uniti, quando riprende a lottare per tornare a esistere come Stato e come nazione. Il predominio delle potenze vittoriose, tra cui sarà anche l’Unione Sovietica, inciderà in modo decisivo sugli sviluppi politici ed economico-sociali della ricostruzione italiana. Ma saranno forti anche i contrasti tra i nuovi partiti democratici circa il carattere e la forma di una nazione tutta da ridefinire. 10   L’articolo di Dorso del 23 maggio 1946 è in Dorso, L’occasione storica cit., pp. 174 sgg.; M. Rossi-Doria, [Il voto per la Repubblica in Campania], in La Campania dal Fascismo alla Repubblica, I, Società e politica, a cura di P. Salvetti, Regione Campania - Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1977, pp. 758 sgg. Cfr. anche la relazione di Rossi-Doria al convegno organizzato dalla Fondazione Einaudi a Torino nella primavera 1967, in Nord e Sud nella società e nell’economia italiana di oggi, Fondazione Einaudi, Torino 1968, p. 308. 11   C. Pavone, Tre governi e due occupazioni, in «Italia contemporanea», n. 160, 1985, p. 70.

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Il giudizio più radicale l’aveva forse espresso, già nel carcere fascista, il liberal-democratico Ernesto Rossi, circa «le caratteristiche di un popolo abituato per secoli a liberarsi col confessionale d’ogni preoccupazione sulla valutazione dei problemi morali, ed a rinunciare nelle mani dei dominatori stranieri a ogni dignità di vita sociale»12. Da queste premesse deriverà il progetto degli intelletttuali azionisti che cercarono, senza successo, di rilanciare la sconfitta tradizione repubblicana e democratica del Risorgimento in una prospettiva di rivoluzione democratica italiana, inserita dentro un processo altrettanto rivoluzionario per costruire una federazione europea, oltre i confini nazionali e le devastazioni nazionalistiche13. Nella primavera 1945 l’Italia è di nuovo unita, almeno nella forma istituzionale. Nella realtà è ancora divisa tra regioni che hanno vissuto vicende diverse al Nord e al Sud: bombardamenti e occupazione alleata, occupazione tedesca e resistenza. La lotta partigiana ha dato un contributo essenziale alla riunificazione del paese dopo la disfatta del ’43. La Resistenza, come esperienza collettiva di una minoranza del popolo italiano che ha difeso in armi il diritto alla libertà e alla indipendenza, diviene il più alto riferimento morale e il fondamento etico-politico del travagliato processo di ricostruzione dell’unità statale e dell’identità nazionale. Rappresenterà quindi il carattere più elevato e il connettivo più solido per la ricostituzione dell’ordinamento dello Stato e per la riunificazione della comunità nazionale14. L’Italia contemporanea rinasce in modo drammatico e faticoso dalle ceneri dello Stato nazionale monarchico. Dal 1943 al 1947, fino alla firma del trattato di pace l’Italia è priva della sovranità 12   E. Rossi, Elogio della galera. Lettere 1930/1943, a cura di M. Magini, Laterza, Bari 1968, p. 62. 13   L. Valiani, Il problema politico della nazione italiana, in Dieci anni dopo. 1945-1955. Saggi sulla vita democratica italiana, Laterza, Bari 1955, pp. 17 sgg.; G. De Luna, Storia del Partito d’Azione. La rivoluzione democratica (1942-1947), Feltrinelli, Milano 1982, pp. 42 sgg. 14   Claudio Pavone ha giustamente rivendicato, sul piano storiografico oltre che su quello etico-politico, l’importanza di «riconoscere nella Resistenza una dimensione utopica, che è cosa ben diversa dall’attribuirle illusioni che poi la storia avrebbe giustamente smentito»: C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991, pp. 578 sgg.

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nazionale e resta per le potenze vincitrici un paese sconfitto. Le potenze alleate non accetteranno mai di distinguere tra le responsabilità belliche del regime fascista e le prospettive di rinnovamento della nazione italiana15. I contrasti e le lotte scuotono profondamente, negli anni tra la guerra e il dopoguerra, la società italiana, storicamente segnata da caratteri particolaristici e conflittuali, poco incline all’aggregazione solidaristica e a una salda coesione nazionale. La dialettica continuità-cambiamento caratterizzerà il drammatico quinquennio 1943-48 di formazione dell’Italia democratica. Le forze politiche e sociali sostenitrici di mutamenti strutturali dello Stato e della società si scontrano con quelle che difendono gli equilibri politici e sociali consolidati. Le divisioni e i conflitti intestini, che si rinnovano a partire da tradizioni antiche, si intrecceranno con lo scontro frontale che segnerà, dalla fine della guerra, il nuovo equilibrio bipolare tra Stati Uniti e Unione Sovietica e condizionerà pesantemente gli sviluppi della politica italiana16. Il primo a parlare di «continuità dello Stato», per denunciarne i pericoli conservatori e restauratori degli assetti sociali ed economici e dei poteri burocratici e giudiziari, sarà Guido Dorso, già nell’estate 1945. «Ed è per questo che la concezione della continuità dello Stato, svolta in sede politica in periodi di profonda crisi istituzionale, è addirittura bolsa. Essa non solo è erronea, ma è senza scopo. Meglio vale parlare di evoluzione dello Stato e tenere in pectore di rallentare l’evoluzione per quanto è possibile. Certo lo Stato, in senso ideale, continua anche attraverso la rivoluzione, come continua la circolazione delle élites, ma i nostri bravi conservatori non si riferiscono allo Stato ideale, ma allo Stato storico, deprecano proprio il profondo ed oscuro fenomeno

15   E. Aga-Rossi, L’Italia nella sconfitta, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1985; H. MacMillan, Diari di guerra. Il Mediterraneo dal 1943 al 1945, il Mulino, Bologna 1987; Fondazione Istituto Gramsci, Annali, VI, Antifascismi e Resistenze, a cura di F. De Felice, Carocci, Roma 1997. 16   D.W. Ellwood, L’alleato nemico. La politica dell’occupazione anglo-americana in Italia 1943-1946, Feltrinelli, Milano 1977; J.L. Harper, L’America e la ricostruzione dell’Italia 1945-1948, il Mulino, Bologna 1986; F. Barbagallo, La costruzione della democrazia, in Storia dell’Italia repubblicana, I cit., pp. 5 sgg.; C. Pavone, Alle origini della Repubblica. Scritti su fascismo, antifascismo e continuità dello Stato, Bollati Boringhieri, Torino 1995.

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della circolazione delle élites, al quale anzi vorrebbero ribellarsi mantenendo ai posti direttivi elementi ormai sconfitti e potenzialmente sclassificati»17. Anche in questo caso Dorso rivelava una capacità non comune di guardare nel futuro, di vederne subito le possibilità e i pericoli. Non temeva di prospettare soluzioni che potevano apparire ed essere utopiche. Del resto suo maestro e riferimento fisso restava Mazzini. Comunque, la classe politica italiana sarà, nel dopoguerra, completamente nuova, per necessità più che per scelta, almeno rispetto al regime fascista. La partecipazione attiva alla liberazione del paese dalla sopraffazione nazista dava largo spazio all’iniziativa dei giovani anche nelle strutture dirigenti dei nuovi partiti. Un’altra novità sarà rappresentata dai forti legami che questa nuova classe politica stringerà, in larga misura, con le due potenze contrapposte sulla nuova scena del mondo, nonché con la potenza spirituale della chiesa cattolica, che però costituisce anche l’altro Stato oltre Tevere. Un conflittuale internazionalismo verrà quindi a sostituire il nazionalismo esasperato che aveva condotto alla disfatta l’Italia monarchica e fascista18. Il Nord è percorso dalle aspettative di radicali cambiamenti sociali e politici prospettati nella lotta partigiana. Nel Mezzogiorno riprendono vigore le tendenze più tradizionali dello spirito pubblico nazionale in opposizione frontale all’antifascismo, alla cosiddetta «esarchia» di governo dei partiti del Comitato di liberazione nazionale. Il referendum istituzionale registrerà la spaccatura tra un Nord repubblicano e un Sud monarchico, cui si cercherà di porre qualche riparo con l’elezione di un monarchico napoletano come Enrico De Nicola a capo provvisorio del nuovo Stato repubblicano. 17   G. Dorso, La continuità dello Stato, in «L’Azione», Napoli, 15 luglio 1945, ora in Id., L’occasione storica cit., p. 37. 18   A. Gambino, Storia del dopoguerra. Dalla Liberazione al potere Dc, Laterza, Roma-Bari 1978; A. Giovagnoli, Le premesse della ricostruzione. Tradizione e modernità nella classe dirigente cattolica del dopoguerra, Nuovo Istituto Editoriale Italiano, Milano 1982; E. Di Nolfo, Le paure e le speranze degli italiani (1943-1953), Mondadori, Milano 1986; G. Miccoli, La Chiesa di Pio XII nella società italiana del dopoguerra, in Storia dell’Italia repubblicana, I cit., pp. 537 sgg.; G. Quagliariello, La formazione della classe politica in Italia, in La formazione della classe politica in Europa (1945-1956), a cura di G. Orsina e G. Quagliariello, Lacaita, Manduria 2000, pp. 31 sgg.

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Mentre i conflitti crescevano d’intensità su tutti i terreni, un percorso collaborativo unirà invece le diverse forze politiche nella preparazione della nuova Costituzione democratica. Nascerà lo Stato sociale di diritto, uno Stato pluriclasse che tutela anche i diritti sociali dei cittadini, considerati persone autonome di fronte allo Stato e uniti da legami di solidarietà. La Costituzione, promulgata il 1° gennaio 1948, fisserà la funzione centrale dei partiti politici, necessari per l’esercizio effettivo della sovranità popolare e per la realizzazione del principio democratico. Il cemento più forte dell’intesa costituzionale tra i diversi partiti sarà l’antifascismo, espresso nella lotta di resistenza e nella prospettiva di una democrazia dai forti connotati sociali. Il nuovo sistema politico-istituzionale si fondava sulla premessa di un ampio accordo tra i partiti e le forze sociali, intorno al preminente indirizzo politico della Costituzione. Ma la divisione del mondo nel conflitto bipolare Usa/Urss spaccherà anche l’Italia e determinerà il fallimento del tentativo di realizzare un sistema politico caratterizzato dalla possibilità di un’alternativa tra la maggioranza e l’opposizione19. L’Iri di Menichella e Saraceno, il ministro dell’Industria Morandi, la Svimez L’iniziativa dell’Iri di espandere, in vista della guerra, la siderurgia e l’industria aereonautica e metalmeccanica nell’area napoletana si infranse nelle distruzioni belliche, che riguardarono il 35% dell’industria meridionale, mentre al Nord i danni si limitarono al 12,4% del patrimonio industriale20. 19   E. Cheli, Costituzione e sviluppo delle istituzioni in Italia, il Mulino, Bologna 1973; M.S. Giannini, I pubblici poteri negli Stati pluriclasse, in «Rivista trimestrale di diritto pubblico», XXIX (1979), pp. 389 sgg.; M. Fioravanti, Costituzione, amministrazione e trasformazioni dello Stato, in Stato e cultura giuridica in Italia dall’Unità alla Repubblica, a cura di A. Schiavone, Laterza, Roma-Bari 1990, pp. 50 sgg.; G. Zagrebelsky, Il diritto mite. Legge diritti giustizia, Einaudi, Torino 1992. 20   G. Cenzato, Sul problema industriale del Mezzogiorno, in Contributi allo studio del problema industriale del Mezzogiorno, Svimez, Roma 1949, pp. 5 sgg., ora in Nuovo meridionalismo e intervento straordinario. La Svimez dal 1946 al 1950, a cura di V. Negri Zamagni e M. Sanfilippo, Svimez-il Mulino, Bologna 1988, p. 123.

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Nell’estate 1944 gli Stati Uniti del presidente Roosevelt mettono a disposizione del governo italiano, insediatosi da poco a Roma liberata, un controvalore in dollari delle cosiddette am-lire, poste in circolazione per le spese di occupazione del Mezzogiorno, da adoperare per l’acquisto di materiali americani: nel 1945 l’importo raggiungerà i 339 milioni di dollari del tempo. Intanto l’enorme inflazione, provocata al Sud dalla immissione delle am-lire e dalla caduta dei sistemi di controlli della moneta, aveva diffuso il mercato nero, la corruzione, la criminalità. Pasquale Saraceno, dirigente dell’Iri, fu allora incaricato di dirigere un ufficio straordinario presso il ministero dell’Industria, a Roma, per la definizione dei criteri di utilizzazione di queste risorse. In cinque mesi fu preparato il documento, che al principio del 1945 venne presentato alla Commissione alleata col titolo First Aid Plan: era il Piano di primo aiuto, che però dovrà essere profondamente modificato in seguito alla liberazione del Nord e alla fine della guerra. Già tra aprile e maggio, Saraceno si reca in missione a Milano, con due ufficiali anglo-americani, si insedia nella sede dell’Iri e procede alla ridefinizione del problema dei rifornimenti industriali, che non riguarda più soltanto il Mezzogiorno e il territorio italiano liberato nel ’44, ma l’intero paese e quindi la grande industria settentrionale, rimasta quasi intatta21. A Milano il Cln-Alta Italia era presieduto dal socialista Rodolfo Morandi, che era anche un autorevole storico della grande industria in Italia22. All’interno del Cln operava una Commissione centrale economica, presieduta dal liberale Cesare

21   P. Saraceno, La questione meridionale nella ricostruzione post bellica 19431950, intervista di L. Villari, Svimez-Giuffrè, Milano 1980, pp. 20, 31-40; questo testo rappresenta la seconda edizione, concessa dall’editore Laterza alla Svimez, del volume di P. Saraceno, Intervista sulla Ricostruzione 1943-1953, a cura di L. Villari, Laterza, Roma-Bari 1977. Cfr. pure P. Saraceno, Origini e vicende dei primi piani di ripresa eseguiti nel dopoguerra (1945), in Id., Ricostruzione e pianificazione (1943-1948), a cura e con introduzione di P. Barucci, Svimez-Giuffrè, Milano 1974, pp. 141 sgg. 22   R. Morandi, Storia della grande industria in Italia, Laterza, Bari 1931 (ripubblicato da Einaudi, Torino 1959). Cfr. pure A. Agosti, Rodolfo Morandi. Il pensiero e l’azione politica, Laterza, Bari 1971; P. Barucci, Ricostruzione, pianificazione, Mezzogiorno. La politica economica in Italia dal 1943 al 1955, il Mulino, Bologna 1978, pp. 201 sg., 323 sg.; M. Salvati, Amministrazione pubblica e partiti di fronte alla politica industriale, in Storia dell’Italia repubblicana, I cit., pp. 438 sgg.

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Merzagora, dirigente e poi commissario del gruppo Pirelli23. In collaborazione con questa commissione del Cln e con l’aiuto di alcuni funzionari dell’Iri, Saraceno preparò, stavolta in due mesi, maggio-giugno 1945, il Piano di massima per la determinazione delle importazioni industriali dell’anno 1946. Morandi si interessò molto a questo documento, la cui paternità volle che si attribuisse al Cln-Alta Italia. Saraceno, nei suoi ricordi, ha collocato nei giorni successivi alla liberazione le prime «indimenticabili conversazioni» con Morandi: «E rimane per me motivo di ammirato stupore la rapidità con cui Morandi pervenne allora al cuore del problema italiano; pervenne cioè alla conclusione che primo problema da affrontare fosse quello di cominciare subito a modificare radicalmente il meccanismo esistente nel senso di rendere, sia pure gradualmente, più omogenea economicamente la società italiana». Proprio l’accantonamento del Piano di primo aiuto dimostrava a Saraceno, e Morandi era perfettamente d’accordo, che «nella logica del sistema esistente, ogni progresso mosso solo da convenienze economiche e non condizionato da altre considerazioni, non poteva che consolidare e in qualche caso accrescere il divario tra il Mezzogiorno e il resto del paese»24. La fine della guerra e la ricomposizione unitaria dell’Italia finivano per giocare anch’essi, come sempre, a vantaggio del Nord. Le materie prime importate dagli Stati Uniti non potevano che andare nelle regioni industrializzate del Settentrione e qualcosa al Centro. «In conseguenza – commenterà Saraceno – il Mezzogiorno rimase escluso, in quel periodo, dalla rivitalizzazione della nostra economia determinata dalla ripresa delle importazioni industriali. Quindi non solo, come vedremo meglio poi, la questione meridionale non venne allora risolutamente posta, ma addirittura in quegli anni il divario Nord-Sud certamente aumentò, dato il modo con cui le importazioni potevano essere utilizzate»25. 23   N. De Ianni, Cesare Merzagora, un tecnocrate al potere, in C. Merzagora, Lo strano paese. Scritti giornalistici 1944-1986, a cura di N. De Ianni, Prismi, Napoli 2001, pp. 13 sgg. 24   P. Saraceno, Presentazione a Il Mezzogiorno alla Costituente, a cura di P. Barucci, Svimez-Giuffrè, Milano 1975, pp. vi sg. 25   Saraceno, La questione meridionale cit., p. 49, 59.

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Il passaggio dal Piano di primo aiuto al Piano di importazioni sposta risorse previste per il Sud verso il Nord. È una necessità, ma è anche iniquo che non giunga nel Mezzogiorno nulla delle risorse compensative degli sconvolgimenti prodotti nelle province occupate dall’immissione delle am-lire e comprensive per di più delle rimesse inviate a casa dagli emigrati meridionali. In questo quadro Saraceno si convince che «in mancanza di misure specifiche per il sistema produttivo del Mezzogiorno si sarebbe avuto un aggravamento della questione meridionale». La soluzione viene vista nell’avvio «di quel processo di industrializzazione del Mezzogiorno al quale, almeno presso l’Iri, da tempo si pensava». E bisogna fare in fretta, perché le acquisizioni del progresso tecnologico realizzato dai paesi più avanzati per le esigenze belliche erano facilmente trasferibili nell’industria italiana, e ne avrebbero aumentato rapidamente la produttività. «In sostanza, il divario Nord-Sud, già grave prima del conflitto non poteva non essere aggravato dal tipo di ricostruzione che si sarebbe determinato in assenza di condizionamenti ispirati al pensiero che occorresse intraprendere subito una politica di industrializzazione del Sud»26. La scelta di riprendere «subito» la strada dell’industrializzazione del Mezzogiorno ha quindi due motivazioni: il rilancio dell’espansione avviata dall’Iri nell’anteguerra e, soprattutto, la fondata consapevolezza che il divario tra Nord e Sud, acuito dagli sviluppi industriali nelle due guerre mondiali, sarebbe schizzato ancora più in alto se il Sud fosse rimasto fuori dal rinnovamento industriale post-bellico. Nell’estate 1946, subito dopo il referendum e l’elezione del­ l’Assemblea costituente, i rapporti tra Saraceno e Morandi si fanno più intensi. Il dirigente socialista diventa ministro dell’Industria e del commercio nel secondo ministero De Gasperi. Saraceno è nel comitato direttivo della Commissione centrale dell’industria. Qualche mese prima, ad aprile, Morandi promuove, con il suo Istituto di studi socialisti, un Convegno per lo studio dei problemi del Mezzogiorno. È una svolta nella politica del Psiup, che non si era occupato fino ad allora della questione meridionale, mentre, nella mozione finale del convegno, si accenna alla 26

  Ivi, pp. 109 sg.

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«necessità di un incremento di una economia industriale» nell’Italia meridionale27. Da ministro socialista e da studioso della concentrazione industriale, Morandi non ha dubbi a schierarsi per il rafforzamento della struttura di comando centralizzata dell’economia italiana. L’Iri, commissariato dal governo Bonomi sotto la direzione del radicale Leopoldo Piccardi, consigliere di Stato e già ministro con Badoglio, attraversa un periodo difficile per gli attacchi della scienza e della propaganda liberistica e dei più corposi interessi dell’industria privata contro un Istituto additato come una creatura del dirigismo fascista, da eliminare in ossequio alla libertà antifascista. Menichella intanto aveva dovuto subire ingiuste critiche e l’Alto commissariato per le sanzioni contro il fascismo intendeva sottoporlo a un processo di epurazione nell’estate ’44. Contemporaneamente, ai primi di luglio, Menichella consegnava un richiesto rapporto sul ruolo dell’Iri nell’economia italiana, che sarà molto apprezzato dal capitano americano Andrew M. Kamarck, posto dalla Commissione di controllo alleata alla direzione dell’Iri. Questo ufficiale, come altri funzionari del Tesoro americano, era stato spedito nell’autunno ’43 a dirigere la Sottocommissione finanziaria del Governo militare alleato. Intanto, su richiesta del Commissario straordinario all’Iri Piccardi, il governo italiano decideva di non dar corso al processo di epurazione. Completamente scagionato, Menichella riprendeva le funzioni di direttore generale dell’Iri e diventava subito un prezioso collaboratore di De Gasperi, specie nella ripresa dei rapporti economici con gli Stati Uniti. Quindi, nel 1947, sarà indicato da Einaudi come suo successore al governo della Banca d’Italia28. 27   L. Ganapini, I pianificatori liberisti, in Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia, Gli anni della Costituente. Strategie dei governi e delle classi sociali, Feltrinelli, Milano 1983, pp. 37 sgg., 99 sgg. 28   A.M. Kamarck, Donato Menichella: la Commissione di controllo alleata e l’Iri, l’Eca e la Banca d’Italia; M. Ferrari-Aggradi, Donato Menichella: i momenti più difficili, premessa di un grande impegno a servizio dello Stato, in Donato Menichella cit., pp. 103 sgg. Per la relazione storica sull’Iri cfr. D. Menichella, Le origini dell’Iri e la sua azione nei confronti della situazione bancaria, in Id., Scritti e discorsi scelti. 1933-1966, Banca d’Italia, Roma 1986, pp. 128 sgg.; cfr. pure C. Spagnolo, Tecnici e politici in Italia. Riflessioni sulla storia dello Stato imprenditore dagli anni trenta agli anni cinquanta, Ciriec-Angeli, Milano 1992; L. D’Antone, L’«interesse straordinario» per il Mezzogiorno (1943-60), in «Meridiana», 24, 1995, pp. 29 sgg.;

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Nel marzo 1946, ministro dell’Industria il democristiano Giovanni Gronchi, si avvia la ripresa finanziaria dell’Iri, con l’aumento del fondo di dotazione da due a dodici miliardi. Lungo una linea di continuità con Gronchi, e in accordo col nuovo ministro del Tesoro e delle Finanze, il democristiano Piero Campilli, si muoverà Morandi, convinto della positività del ruolo direttivo dello Stato e quindi dell’Iri nell’economia italiana29. Mentre in Italia nasce la Repubblica, e l’Assemblea costituente inizia i lavori per la Carta costituzionale, uno storico dell’industria, marxista e leninista, come Morandi e tecnocrati industrialisti (Menichella, Giordani, Cenzato, Saraceno), che guidano l’economia pubblica italiana in accordo prima con Mussolini e poi con De Gasperi e con Einaudi, si incontrano spesso per «impostare il problema dell’industrializzazione del Mezzogiorno». Li unisce, scriverà Saraceno, «quella che noi chiamiamo la concezione meridionalistica dello sviluppo italiano, quella concezione che ci ispirò quando, insieme a Morandi, nel 1946, si diede vita alla Svimez, e che ritenevamo potesse abbastanza rapidamente prevalere nel nostro paese»30. Il che non avverrà. È evidente invece la derivazione da Nitti di questa strategia, che punta a modificare in direzione meridionalistica il modello italiano di sviluppo capitalistico, riducendo il divario tra le due sezioni territoriali del paese. Altrettanto evidenti sono i legami di questo «nuovo» meridionalismo, incentrato sull’intervento attivo dello Stato, con le teorie dello sviluppo economico affermate nel dopoguerra sul piano internazionale da molti studiosi: Arthur Lewis, Paul Rosenstein-Rodan, Hollis Chenery, Gardner Ackley, Gunnar Myrdal, Jan Tinbergen. Da queste teorie discendono politiche attive dell’offerta rivolte a potenziare la struttura economica con mirati investimenti produttivi. Sulla banda opposta si F. Ricciardi, Il «management» del «governo della scarsità»: l’Iri e i piani di ricostruzione economica (1943-1947), in «Studi Storici», 46, 2005/1, pp. 127 sgg.; G. Fumi, Dalla fine del fascismo allo statuto del 1948, in Storia dell’IRI, cit., pp. 528 sgg. 29   M. Salvati, Stato e industria nella ricostruzione. Alle origini del potere democristiano (1944/1949), Feltrinelli, Milano 1982, pp. 244 sgg.; F. Barca, Compromesso senza riforme nel capitalismo italiano, in Storia del capitalismo italiano dal dopoguerra a oggi cit., pp. 9 sgg. 30   P. Saraceno, Presentazione a Il Mezzogiorno alla Costituente cit., p. x.

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collocheranno le politiche tese ad alimentare la domanda tramite il sostegno ai redditi delle famiglie e delle imprese31. Saraceno, settentrionale di genitori meridionali, era un cattolico impegnato già nel ’43, insieme al conterraneo valtellinese Guido Paronetto (destinato a morte precoce) e al cognato Ezio Vanoni, nella stesura del Codice di Camaldoli per la fondazione della Dc32. Manterrà una grande ammirazione per le capacità intellettuali e di governo e «per la fondamentale coerenza di pensiero e di carattere» del socialista Morandi, che metterà insieme industriali e banchieri, enti pubblici e imprese private, per avviare subito uno sviluppo industriale del Mezzogiorno. «Egli non dubitò un momento che lo sviluppo del Mezzogiorno andava subito avviato nel quadro esistente e che non era lecito evadere da questo dovere rifugiandosi nell’attesa di un ordine diverso da quello che Egli pur avversava»33. Il ministro Morandi, nel settembre ’46, si reca a visitare i grandi impianti industriali napoletani e resta colpito dal calore e dalla fierezza degli operai del cantiere di Castellammare e dell’Ilva di Bagnoli. In questa occasione afferma che la soluzione del problema meridionale deve «far leva sull’estensione e lo sviluppo dell’industria nel sud d’Italia». La grande industria napoletana dovrà anzitutto risorgere dalle distruzioni belliche e poi espandersi e irradiarsi nel Meridione. «Bisogna liberarla da quel carattere di grande filiale dell’industria e del capitale settentrionale che le ha impedito di ramificare le proprie radici come industria meridionale, quale invece deve essere, e non ha consentito l’espansione locale della piccola e media industria in funzione integrativa»34. A novembre Morandi presentò il progetto della Svimez agli autorevoli e interessati interlocutori dell’Iri (Paratore), della Ban31   A. Giannola, Meridionalismo, in Cultura italiana. Economia, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2012, pp. 501 sg. 32   Per la comunità cristiana. Principi dell’ordinamento sociale a cura di un gruppo di studiosi amici di Camaldoli, Studium, Roma 1945. Cfr. pure M.L. Paronetto Valier, La redazione del Codice di Camaldoli, in «Civitas», 1984/4, pp. 9 sgg. 33   P. Saraceno, Presentazione a Il Mezzogiorno alla Costituente cit., pp. ix sg. 34   L’intervista di Morandi all’«Avanti!» del 4 settembre 1946 è stata ripubblicata in R. Morandi, Democrazia diretta e ricostruzione capitalista 1945-48, Einaudi, Torino 1960, pp. 112-14; e in Nuovo meridionalismo e intervento straordinario cit., pp. 55-57.

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ca d’Italia (Menichella), dell’Imi (Siglienti), della Finsider (Sinigaglia), della Sme (Cenzato), del Banco di Napoli (Ricciardi), della Montecatini (suo fratello Luigi), della Federconsorzi (Albertario) e poi Giordani, Saraceno, Vincenzo Caglioti, Stefano Brun. A dicembre ’46 fu costituita l’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno (Svimez). Presidente era Morandi, vicepresidenti Paratore e Cenzato, segretario generale Saraceno. Il manifesto programmatico, scritto da Morandi nel marzo 1947, indicava l’importanza nazionale della questione meridionale e la necessità di promuovere uno sviluppo fondato sull’industria; era infatti intitolato La ricostruzione nazionale e lo sviluppo dell’economia industriale del Mezzogiorno35. La guerra fredda, la terra, la Cassa Contemporaneamente, nel marzo 1947, la «dottrina Truman» segnava l’inizio della guerra fredda nel mondo bipolare. Il presidente del Consiglio De Gasperi era già stato a Washington, a gennaio, per riprendere le relazioni e per un prestito, accompagnato da Menichella, ma non da Saraceno, cui gli Stati Uniti avevano negato il visto d’ingresso36. Soltanto a febbraio, con la firma del trattato di pace, l’Italia riacquista la sovranità nazionale perduta nel settembre ’43. A fine maggio si conclude l’esperienza italiana dei governi di unità nazionale; il nuovo ministro del Bilancio Einaudi e il nuovo governatore della Banca d’Italia Menichella guidano la «stretta creditizia» per abbattere l’inflazione e avviare la ripresa dell’economia37. 35   M. Finoia, Il ruolo di Donato Menichella nella creazione della Svimez e della Cassa per il Mezzogiorno, in Donato Menichella cit., pp. 323 sgg.; Nuovo meridionalismo e intervento straordinario cit., pp. 14 sgg.; D’Antone, L’«interesse straordinario» per il Mezzogiorno (1943-60) cit., pp. 35 sgg. 36   D. Ivone, Giuseppe Pella e la politica liberista nella ricostruzione economica del secondo dopoguerra, in «Rivista internazionale di storia della banca», n. 24-25, 1982, pp. 104 sgg. 37   R. Petri, Dalla ricostruzione al miracolo economico, in Storia d’Italia, 5. La Repubblica 1943-1963, a cura di G. Sabbatucci e V. Vidotto, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 324 sgg.; C. Spagnolo, La stabilizzazione incompiuta. Il piano Marshall in Italia (1947-1952), Fondazione Istituto Gramsci - Carocci, Roma 2001.

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A giugno gli Stati Uniti lanciano il «piano Marshall» per sostenere lo sviluppo dell’Europa e bloccare l’espansione del comunismo sovietico. Il consolidamento della lira, con l’accumulo di riserve valutarie, renderà possibile il riequilibrio dei conti con l’estero. Gli aiuti americani contribuiranno a riorganizzare l’economia, evitando i rischi connessi alla liberalizzazione del commercio e all’integrazione italiana nel mercato mondiale. L’espulsione di manodopera industriale e agricola provocata da una economia liberalizzata avrebbe creato problemi sociali difficili da gestire. Era necessario creare un nuovo equilibrio tra le necessità della concorrenza mondiale e le ragioni della tranquillità sociale38. A settembre Stalin unisce nel Cominform i paesi comunisti e i partiti comunisti italiano e francese. L’Italia è di nuovo spaccata a metà, ora dal conflitto bipolare. Dall’antitesi fascismo/antifascismo si passa allo scontro fra comunismo e anticomunismo. Gli Stati Uniti preparano piani militari per il controllo della penisola e inviano navi cariche di grano e minacce di cessare gli aiuti nel caso di una vittoria elettorale dei comunisti alleati con i socialisti39. Il voto del 92% degli italiani decreterà, il 18 aprile 1948, la larga vittoria della Dc e dei partiti centristi. Intanto, nell’autunno ’47, la diffusione degli scioperi tra i braccianti di tutta l’Italia, dalla valle padana alla Sicilia, aveva prodotto il decreto sull’imponibile di manodopera, con l’assunzione straordinaria di lavoratori disoccupati imposta dai prefetti agli imprenditori agricoli. Nel 1947 riprendeva la tragica tradizione degli «eccidi contadini» nel Sud: erano uccisi dalla polizia braccianti pugliesi a Cerignola, a Corato, a Campi Salentina. Come nel primo dopoguerra, erano spesso i sindaci a guidare le occupazioni delle terre, con la fascia tricolore. Sindacati e partiti di sinistra diedero vita alla Costituente della terra, che presentò al Senato, nel giugno ’48, un progetto di riforma fondiaria. Ma il governo centrista di De Gasperi, in vista 38   F. Romero, Gli Stati Uniti in Italia: il Piano Marshall e il Patto atlantico, in Storia dell’Italia repubblicana, I cit., pp. 241 sgg.; A. Brogi, L’Italia e l’egemonia americana nel Mediterraneo, La Nuova Italia, Firenze 1996. 39   J.E. Miller, Roughhouse diplomacy: The United States confronts Italian Communism, 1945-1958, in «Storia delle relazioni internazionali», V, 1989, pp. 290 sgg.; cfr. pure A. Varsori, La Gran Bretagna e le elezioni politiche italiane del 18 aprile 1948, in «Storia contemporanea», XIII, 1982, pp. 16 sgg.

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del 18 aprile, aveva già disposto per decreto, tra febbraio e marzo ’48, «provvidenze a favore della piccola proprietà contadina» e istituito una Cassa per l’erogazione di mutui a favore dei coltivatori diretti. La diffusione della proprietà individuale, a scapito del movimento cooperativo, contribuì ad estendere il consenso alla Dc nelle campagne meridionali40. I conflitti erano diffusi anche nelle fabbriche, dove gli operai scioperavano contro i licenziamenti. Nelle manifestazioni di protesta a Modena, per il licenziamento di quattrocento operai alle Fonderie riunite, gli spari della polizia lasciarono sul terreno sei morti. Durante le occupazioni delle terre a Melissa, in Calabria, nell’autunno 1949, furono uccisi due ragazzi e una donna. Tra il 1947 e il 1950 persero la vita, in questi conflitti sociali, 64 lavoratori e più di 3.000 furono feriti41. Nell’autunno del 1949 e poi nella primavera del 1950 il segretario della Cgil Giuseppe Di Vittorio, insieme al vicesegretario Vittorio Foa e al giovane Bruno Trentin, presentò il «Piano del lavoro»: un progetto di sviluppo produttivistico, di ispirazione keynesiana, elaborato da economisti di prevalente orientamento socialista e democratico, Alberto Breglia, Giorgio Fuà, Sergio Steve, Paolo Sylos Labini. L’obiettivo era riassorbire la disoccupazione strutturale di oltre due milioni di lavoratori; il programma prevedeva la nazionalizzazione delle società elettriche, lo sviluppo delle bonifiche e dell’irrigazione con la riforma agraria e un ente speciale per costruire case, scuole, ospedali, strade e altre infrastrutture necessarie alla trasformazione del paese42. Va sottolineata al riguardo una doppia, infelice coincidenza. Contemporaneamente, a novembre ’49 e ad aprile ’50, Togliatti rappresenta il Pci a due riunioni del Cominform: la prima de  Barone, Stato e Mezzogiorno (1943-60) cit., pp. 347 sgg.   L. Musella, I sindacati nel sistema politico; M.G. Rossi, Una democrazia a rischio. Politica e conflitto sociale negli anni della guerra fredda, entrambi in Storia dell’Italia repubblicana, I cit., pp. 867 sgg., 913 sgg.; G. Caredda, Governo e opposizione nell’Italia del dopoguerra 1947-1960, Laterza, Roma-Bari 1995. 42   Cgil, Il piano del lavoro, Roma 1950; Il Piano del lavoro della Cgil 1949-1950, Feltrinelli, Milano 1978; Barucci, Ricostruzione, pianificazione, Mezzogiorno cit., pp. 242 sgg.; Il Piano del Lavoro e il Mezzogiorno, a cura di A. Gianfagna, Ediesse, Roma 2008; M. Gozzelino, Keynes e la cultura economica della CGIL. Un’analisi del Piano del lavoro nella prospettiva della Teoria Generale, Ediesse, Roma 2011. 40 41

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creta la bolscevizzazione e la rinuncia alle prospettive nazionali dei partiti comunisti, la seconda vede l’ideologo sovietico Suslov indicare la lotta per la pace quale obiettivo principale di tutti i partiti comunisti. Lo scenario era la prospettiva di una terza guerra mondiale, in vista della prossima guerra in Corea. Non fu un caso perciò se questo progetto di sviluppo produttivo, alternativo alla lotta di classe e a orizzonti di guerra, fu definito da Togliatti «un’anticaglia del meridionalismo» e venne rapidamente liquidato dal Pci come una sorta di ideologia neocapitalistica43. L’acuirsi del disagio e delle lotte sociali in tutto il paese trovava sensibili, nello schieramento governativo, i repubblicani, i socialdemocratici e la sinistra democristiana guidata dal giovane vicesegretario Giuseppe Dossetti e dai ministri Ezio Vanoni e Amintore Fanfani44. Anche i dirigenti degli aiuti americani premevano da tempo sul governo italiano perché i fondi venissero utilizzati a fini produttivistici e di sviluppo per ridurre le tensioni sociali, invece di essere accantonati come riserve valutarie a sostegno della lira; ma su quest’ultimo punto concordavano Einaudi, Menichella e anche Saraceno. Il capo dell’Eca (Economic Cooperation Administration) Paul Hoffman era invece sulle stesse posizioni dei gruppi della sinistra al governo45. Il ministero De Gasperi si convinse quindi a varare nel 1950 un ampio quadro di riforme: un programma decennale di investimenti per bonifiche e lavori pubblici, una politica di intervento straordinario nel Sud con l’istituzione della Cassa per il Mezzo43   F. Barbagallo, Il PCI dal Cominform al ’56: i ‘casi’ Terracini, Magnani, Giolitti, in «Studi Storici», 1990/1, ora in Id., L’azione parallela. Storia e politica nell’Italia contemporanea, Liguori, Napoli 1990, pp. 288 sgg. 44   G. Baget Bozzo, Il partito cristiano al potere. La DC di De Gasperi e di Dossetti. 1945-1954, Vallecchi, Firenze 1974; P. Pombeni, Il gruppo dossettiano e la fondazione della Democrazia Cristiana (1943-1948), il Mulino, Bologna 1979; Alcide De Gasperi. L’età del centrismo. 1947-1953, a cura di G. Rossini, Edizioni Cinque Lune, Roma 1990. 45   J. McGlade, Lo zio Sam ingegnere industriale. Il programma americano per la produttività e la ripresa economica dell’Europa occidentale (1948-1958); C. Esposito, Il Piano Marshall. Sconfitte e successi dell’amministrazione Truman in Italia; C. Spagnolo, La polemica sul «Country Study», il fondo lire e la dimensione internazionale del Piano Marshall; R. Ranieri, Il Piano Marshall e la ricostruzione della siderurgia a ciclo integrale, tutti in «Studi Storici», 37, 1996/1, pp. 9 sgg.; R. Gualtieri, Piano Marshall, commercio estero e sviluppo in Italia: alle origini dell’europeismo centrista, in «Studi Storici», 39, 1998/3, pp. 853 sgg.

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giorno, una parziale riforma agraria, la «legge Sila», lo sviluppo della siderurgia fondato sull’accordo tra la Finsider di Oscar Sinigaglia e la Fiat di Vittorio Valletta46, la riforma fiscale del ministro Vanoni con la dichiarazione personale dei redditi. Lo stralcio di riforma agraria del 1950 sancirà l’eliminazione degli agrari meridionali dalla classe dirigente del paese; i proprietari terrieri del Sud non condizioneranno più gli equilibri sociali e politici nazionali. Il «blocco agrario», che aveva dominato il Mezzogiorno durante tutto il Regno d’Italia, era stato colpito già nel 1944 dalla formazione della Federazione nazionale dei coltivatori diretti, per iniziativa della Dc, sotto la guida di Paolo Bonomi. Piccoli proprietari, fittavoli, mezzadri si univano in una sorta di «partito contadino», che darà un’identità sociale e politica a vastissimi ceti medi agricoli, rappresentati in Parlamento da un cospicuo gruppo eletto nella Dc e attivi nelle amministrazioni locali. Il controllo e il sostanziale assorbimento della Federconsorzi consegnerà alla Coldiretti l’intera gestione del sistema di sicurezza sociale per i contadini, fondato sui consorzi agrari istituiti dal fascismo per la gestione degli ammassi e degli approvvigionamenti alimentari, la compravendita dei macchinari e attrezzi agricoli, la distribuzione di sementi e concimi chimici. Il progetto di riforma agraria del ministro democristiano Antonio Segni, coadiuvato dai tecnici Mario Bandini, Giuseppe Medici, Manlio Rossi-Doria fu parzialmente bloccato dalla Confagricoltura e da oltre un centinaio di deputati dc guidati dall’imprenditore agricolo salernitano Carmine De Martino. Alla fine lo «stralcio» si limitò ai terreni suscettibili di bonifica e di trasformazione fondiaria. Con i diversi provvedimenti, compresa la legge regionale siciliana, furono espropriati circa 700 mila ettari. La dimensione dei poderi fu bassa nel Mezzogiorno, intorno ai cinque ettari; tanto da non stimolare l’efficienza produttiva delle imprese. Si allargarono le basi del consenso alle istituzioni e alla Dc, che però pagò un prezzo elettorale elevato al Sud, per lo spostamento di consistenti fasce sociali conservatrici verso i partiti di destra47.   P. Bairati, Vittorio Valletta, Utet, Torino 1983.   Barone, Stato e Mezzogiorno (1943-60) cit., pp. 354 sgg.; P. Pezzino, La riforma agraria in Calabria, Feltrinelli, Milano 1977; P. Villani, N. Marrone, Riforma agraria e questione meridionale. Antologia critica 1943-1980, De Donato, Bari 1981; 46 47

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Insieme ai provvedimenti per l’agricoltura, la scelta più importante assunta dal governo De Gasperi nel 1950 fu l’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno e l’avvio della politica di intervento straordinario al Sud. Le ricostruzioni più recenti, che si sono valse della ricca documentazione americana insieme ai documenti della Banca mondiale, della Banca d’Italia e dell’Iri, hanno messo in luce il ruolo centrale svolto da Donato Menichella nella nascita della Cassa48. Il governatore della Banca d’Italia partecipò intensamente all’iniziativa e scelse il nome del nuovo ente, perché i meridionali capissero bene, dirà ricordando De Gasperi nel ’64, che «questa volta, finalmente, c’erano i denari»49. Decisivo fu il contributo alla redazione del progetto della Cassa fornito da Giordani e Saraceno, presidente e segretario generale della Svimez50. Si è offuscata invece l’importanza del cambiamento politico che chiude, tra il 1947 e il 1948, la fase storica della resistenza antifascista e della ricostruzione economica, caratterizzata da un largo consenso politico, che aveva favorito la collaborazione di forze e personalità di diverso orientamento nella ricerca di prospettive innovative per la costruzione e lo sviluppo della nuova Italia democratica. Piero Barucci, che ha collaborato intensamente con Pasquale Saraceno nella ricostruzione anche documentaria delle iniziative e delle imprese degli intellettuali-tecnocrati fautori di un «nuovo meridionalismo», sottolineò più di trent’anni fa la peculiarità del clima politico e culturale che aveva consentito la rapida ricostruzione del paese dopo la disfatta bellica. «Il motivo centrale fu quello della ricostruzione come ‘dovere nazionale’ sul quale doveva manifestarsi una ‘solidarietà sociale’. Il miracolo dei tempi inG. Fabiani, L’agricoltura italiana tra sviluppo e crisi (1945-1985), il Mulino, Bologna 1986; S. Casmirri, Cattolici e questione agraria negli anni della ricostruzione 19431950, Bulzoni, Roma 1989; G. Massullo, La riforma agraria, in Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea, III, Mercati e istituzioni, a cura di P. Bevilacqua, Marsilio, Venezia 1991, pp. 509 sgg. 48   D’Antone, L’«interesse straordinario» per il Mezzogiorno cit., pp. 41 sgg. 49   D. Menichella, Stabilità e sviluppo dell’economia italiana 1946-1960, 1, Documenti e discorsi, a cura di F. Cotula, C.O. Gelsomino e A. Gigliobianco, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 830. 50   S. Cafiero, Storia dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno (1950-1993), Animi-Lacaita, Manduria-Bari-Roma 2000, pp. 26 sgg.

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credibilmente brevi nell’opera di ricostruzione ebbe in quell’ampio consenso il principale alimento»51. I cambiamenti che si producono nel 1947-48 sono altrettanto radicali e importanti di quelli realizzati nel 1945-46: cambia, e non è poco, il segno e la prospettiva politica. Innanzitutto, come Barucci sottolineò52, c’è il ruolo importante mantenuto dal liberismo di Einaudi e della Confindustria53, seppure in collaborazione fattiva con la direzione politica di De Gasperi e della Dc e con lo statalismo tecnocratico rappresentato al massimo livello da Menichella e realizzato dalla rilanciata struttura dell’Iri e poi dall’Eni di Enrico Mattei. Di recente Barucci ha molto attenuato questo giudizio parlando di un «breve interregno della egemonia liberale (che è limitato al periodo che va dai primi di giugno ai primi di settembre del 1947)» e di un ruolo decisivo del ministro del Lavoro Fanfani «nell’orientare la politica economica del Governo, con il rifinanziamento dell’Iri, la nascita di Finmeccanica, le misure in favore delle piccole imprese», oltre al «piano Ina-casa». E ha sottolineato «la grandezza di quel disegno degasperiano», fondato su tre pilastri: la scelta di campo occidentale, la costruzione di una Europa unita anche politicamente e la «edificazione di una ‘economia mista’ all’interno della quale assicurare i fondamenti solidaristici – e non solo individualistici – in modo da garantire coesione sociale fra le varie economie regionali»54. Intanto, sotto i colpi della guerra fredda, cadeva anche l’intesa definita nel biennio successivo alla guerra tra il socialista Morandi e il democristiano Saraceno, intorno al principio ­­dello   Barucci, Ricostruzione, pianificazione, Mezzogiorno cit., p. 155.   «Senza dubbio – scrisse Barucci nel ’78 – la reazione c’era, e ci sarebbe stato da meravigliarsi se non fosse stata presente, ove si tenga conto che si era appena usciti dal periodo fascista. Ma ciò che conta è che non si fu capaci di trovare una politica economica che fosse sostitutiva a quella che fu attuata e che la reazione sicuramente sostenne» (ivi, p. 158). 53   «Al posto di un clima – ribadì Barucci – dominato dalla curiosità per sperimentare e dal coraggio (qualcuno, e forse a ragione, potrà dire dall’incoscienza) per avventurarsi in soluzioni del tutto nuove, ne subentrò uno dominato dalle tradizionali certezze»: P. Barucci, Introduzione a P. Saraceno, Gli anni dello schema Vanoni (1953-1959), a cura di P. Barucci, Svimez-Giuffrè, Milano 1982, pp. 7 sg. 54   P. Barucci, La politica economica durante l’epoca democristiana, in «Studi Storici», 53, 2012/1, pp. 119 sgg. 51 52

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Stato come «regolatore supremo del sistema finanziario»55, che aveva già guidato l’azione dell’Iri di Beneduce e Menichella. L’«economia regolata» di Morandi e l’«economia mista» di Saraceno erano fatte per intendersi e si erano intese sul punto centrale del rilancio post-bellico dello sviluppo del sistema economico italiano, riequilibrato in senso meridionalistico. Perciò risultava indispensabile l’industrializzazione del Mezzogiorno. Il divario tra un’area industriale avanzata com’era diventata il Nord e un’area arretrata qual era il Sud non si poteva più colmare senza un’industria diffusa, accanto a un’agricoltura da ammodernare e a un turismo da inventare. Il profondo mutamento del clima politico mondiale, prima ancora che Morandi chiudesse la sua esperienza di governo, veniva attestato, già sul finire del ’46, dal mancato visto americano a Saraceno, troppo amico dei socialcomunisti, oltre che «planista». Sembra ben fondato quindi il giudizio espresso da Barucci circa la difficile situazione in cui venne a trovarsi l’innovatore tecnocrate meridionalista. «Non si fa fatica ad avvertire che i termini nuovi del contendere erano ormai tali da confinare Saraceno in una posizione se non marginale almeno secondaria. [...] Per quanto sia oggettivamente difficile da provare, si ha la precisa sensazione che Saraceno, come sollecitatore di temi di politica economica abbia avuto un periodo di eclissi negli anni che vanno dal 1948 al 1953». Anche se mantiene un ruolo fondamentale nella Svimez e nell’Iri, Saraceno apparirà defilato proprio nell’anno delle riforme degasperiane e della fondazione della Cassa e, salvo il costante impegno di lavoro nella Svimez, fino alla preparazione dello «Schema Vanoni» nel 195356. Il punto fondamentale è che la Svimez di Morandi, Saraceno e Giordani aveva elaborato una proposta di riequilibrio meridionalistico del modello di sviluppo italiano post-bellico fondato su un intervento straordinario dello Stato che consentisse l’industrializzazione del Sud. Eliminato dalla partita il socialcomunista 55   M. de Cecco, Donato Menichella e la struttura del sistema bancario italiano, in Donato Menichella cit., p. 82. 56   P. Barucci, Introduzione, in Saraceno, Gli anni dello schema Vanoni cit., pp. 8 sgg.; cfr. anche la testimonianza scritta resa da Saraceno sullo «Schema Vanoni» in Barucci, Ricostruzione, pianificazione, Mezzogiorno cit., pp. 261-63.

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Morandi, Saraceno prova ancora, nel 1949, a dimostrare l’inadeguatezza della politica dei «due tempi», che rinviava sine die l’industrializzazione, rispetto all’obiettivo storico di eliminare il divario tra Nord e Sud, puntando alla massima occupazione in loco. Senza lo sviluppo di una industria meridionale l’intervento straordinario rischiava di favorire il Nord più che il Sud, perché allargava una domanda di prodotti che il Mezzogiorno non era in grado di acquisire che dal Settentrione57. Nel maggio 1950 sarà il nuovo dirigente della sezione sociologica della Svimez, il cattolico comunista Giorgio Ceriani Sebregondi, a collegare strettamente la depressione attuale dell’Italia meridionale a «uno stato di arretratezza dovuto alla mancata o insufficiente partecipazione di quelle regioni allo sviluppo economico, soprattutto industriale, avvenuto in Italia dopo l’unificazione nazionale»58. Del resto già nel 1948 il direttore generale della Svimez Alessandro Molinari aveva presentato un ampio quadro del Mezzogiorno quale «zona arretrata e depressa», collocandolo quindi all’interno della teoria delle «aree depresse», che prevedeva politiche di sviluppo di stampo keynesiano per favorire l’espansione e il «decollo» delle aree arretrate e dei paesi sottosviluppati59. E nel 1949 insisteva sulla «necessità e urgenza di industrializzare il Mezzogiorno»60. La legge che istituisce nell’agosto 1950 la Cassa per il Mezzogiorno modificherà il progetto di Saraceno e Menichella in alcuni punti fondamentali. Anzitutto scompare l’industrializzazione e il colpo per Saraceno e la Svimez è decisivo. Poi un emendamento presentato da Amintore Fanfani e da Fiorentino Sullo istituiva il 57   P. Saraceno, Spesa pubblica, risparmio nazionale e prestiti esteri in una politica di sviluppo economico dell’Italia meridionale, in Aspetti economici, tecnici e giuridici dell’industrializzazione del Mezzogiorno, Svimez, Roma 1949, pp. 5 sgg.; ora in Nuovo meridionalismo e intervento straordinario cit., pp. 157 sgg. 58   G. Ceriani Sebregondi, La Cassa per il Mezzogiorno. Scritto del maggio 1950: analisi critica del Disegno di Legge per l’istituzione della «Cassa», in Id., Sullo sviluppo della società italiana, Boringhieri, Torino 1965, p. 33; ripubblicato in Mezzogiorno e programmazione 1954-1971, a cura di M. Carabba, Svimez-Giuffrè, Milano 1980, p. 82. 59   A. Molinari, Il Mezzogiorno d’Italia, in «Moneta e Credito», 1948/4, pp. 476 sgg.; ora in Nuovo meridionalismo e intervento straordinario cit., pp. 59 sgg. 60   Contributi allo studio del problema industriale del Mezzogiorno cit.

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non previsto Comitato dei ministri, che riduceva l’autonomia amministrativa del nuovo ente, definendo la «funzione della Cassa meramente strumentale nella esecuzione del piano del Comitato dei Ministri»61. Si riduceva in tal modo anche la somiglianza con il m ­ odello prescelto della Tennessee Valley Authority, agenzia creata dal New Deal americano per lo sviluppo di un’area depressa. Questa scelta era criticata dal giovane intellettuale meridionalista Francesco Compagna, che denunciava il riapparire delle tradizionali burocrazie62. Alla fine tramontò anche la candidatura di Francesco Giordani proposta da Menichella e fortemente sostenuta dalla Birs per la presidenza, che sarà affidata poi al presidente del Consiglio di Stato Ferdinando Rocco. I rapporti tra il presidente della Cassa e il ministro per il Mezzogiorno Campilli furono tesi e difficili per un quadriennio63. Nel 1954 Campilli sceglierà come presidente un altro esperto e giovane consigliere di Stato, Gabriele Pescatore, che per ben 22 anni svolgerà la sua delicata funzione sulla scia della migliore tradizione italiana di commis d’état, da Menichella a Saraceno64. Il passaggio parlamentare del disegno di legge sulla Cassa aveva risentito delle opposizioni molteplici di uno schieramento molto vasto e articolato. Tutto il fronte liberistico e privatistico, formato dai teorici e dai politici come Einaudi e Giuseppe Pella e sostenuto dalle imprese industriali del Nord, definirà poi inutili «doppioni» le industrie meridionali immaginate da Morandi e Saraceno. Il nuovo potere, partitico e parlamentare, dell’Italia

61   S. Cafiero, Menichella meridionalista, in Stabilità e sviluppo negli anni Cinquanta, 2, Problemi strutturali e politiche economiche, a cura di F. Cotula, Laterza, Roma-Bari 1999, p. 498. 62   «Si può in sostanza affermare che allontanandosi troppo dal modello delle Authorities anglosassoni nel disegnare la struttura della Cassa per il Mezzogiorno, si è provocata la riapparizione, attraverso il Comitato interministeriale, di quella burocrazia che era stata esclusa perché ritenuta inadeguata a risolvere problemi i cui termini vanno molto al di là dell’ordinaria amministrazione»: F. Compagna, Vuoto tecnico, in «Il Mattino d’Italia», 2 febbraio 1951, cit. in Cafiero, Menichella meridionalista cit., p. 497. 63   R. Napoletano, Gabriele Pescatore il Grande Elemosiniere, Edizioni Sintesi, Napoli 1988, pp. 34 sgg. 64   G. Pescatore, La «Cassa per il Mezzogiorno». Un’esperienza italiana per lo sviluppo, il Mulino, Bologna 2008.

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democratica non apprezzava l’eccessiva autonomia di organismi amministrativi dotati comunque di notevoli poteri e di somme cospicue da attribuire65. L’opposizione socialcomunista era guidata da Giorgio Amendola e da Francesco De Martino sulla tradizionale linea del mutamento dei rapporti di classe e di una generale riforma agraria ed era ostile all’istituzione di un organismo tecnico di cui vedeva solo i possibili sviluppi politico-clientelari66. E soprattutto era saldamente schierata con l’Unione Sovietica, mentre scoppiava la guerra in Corea. Perciò restavano completamente isolati Giuseppe Di Vittorio e il suo meridionalismo da tempo di pace67. Ulteriori motivi di polemica e di concorrenza venivano infine dai ministeri e dalle burocrazie68. Va segnalato peraltro che tra i primi a denunciare i tentativi di snaturare il carattere straordinario del nuovo ente, già durante la discussione parlamentare, era stato Francesco Compagna69. Ma il testo del disegno di legge, sostanzialmente condiviso e difeso da De Gasperi, subì sostanziali cambiamenti perché il nuovo quadro istituzionale, fondato sulla centralità dei partiti (per lo più frammentati in correnti), apprezzerà sempre meno e condizionerà sempre più l’autonomia dell’azione amministrativa. In effetti, commenterà quando la Cassa era ormai scomparsa Salvatore Cafiero a lungo direttore della Svimez, non era più realizzabile «ciò 65   S. Cafiero, La nascita della «Cassa» (1975), in Id., Tradizione e attualità del meridionalismo, Svimez-il Mulino 1989, pp. 49 sgg.; Il Mezzogiorno nel Parlamento repubblicano (1948-72), a cura di P. Bini, vol. I, Svimez-Giuffrè, Milano 1976; Mezzogiorno e partiti politici, a cura di D. Novacco, Svimez-Giuffrè, Milano 1977. 66   L’intervento di Amendola alla Camera dei deputati è stato parzialmente pubblicato in Villari, Il Sud nella storia d’Italia cit., pp. 633 sgg. 67   Impressionante, tra gli altri, risulta il radicale cambiamento di Emilio Sereni, artefice da ministro, nel ’46-’47, del produttivistico Centro economico italiano per il Mezzogiorno e, nel 1950, stalinista al punto da essere redarguito per il suo estremismo da Antonio Roasio e da Pietro Secchia. Cfr. F. Barbagallo, Il PCI, i ceti medi e la democrazia nel Mezzogiorno (1945-1947), Il PCI dal Cominform al 1956, in Id. L’azione parallela cit., pp. 261 sgg., 294 sg. 68   Ceriani Sebregondi, La Cassa per il Mezzogiorno, in Mezzogiorno e programmazione cit., p. 86. 69   Gli articoli L’assalto contro la Cassa e L’assalto alla Cassa furono pubblicati sul quotidiano napoletano «Il Mattino d’Italia» il 12 e il 15 settembre 1950. Cfr. G. Ciranna, «Nord e Sud» e l’intervento straordinario, in F. Compagna, Il meridionalismo liberale. Antologia degli scritti, a cura di G. Ciranna e E. Mazzetti, Laterza, Roma-Bari 1988, pp. xxxviii sg.

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che era stato possibile ai tempi di Giolitti e di Nitti, e ancor più ai tempi di Mussolini e di Beneduce: affidare cioè l’azione dello Stato in campo economico a enti pubblici svincolati dal diretto controllo politico e posti nelle mani di una dirigenza puramente tecnica»70. La Cassa si presentava comunque, ed era una novità positiva, come un ente accentratore e propulsore di un sistema di intervento caratterizzato da una programmazione pluriennale; era gestita da un ente speciale e nuovo rispetto all’apparato statale. Il cospicuo impegno finanziario dello Stato, fissato in mille miliardi di lire lungo dieci anni, doveva avere carattere «aggiuntivo» rispetto alla ripartizione ordinaria della spesa pubblica per settori e aree. Lo sviluppo del Sud andava perseguito con un intervento programmato di tipo intersettoriale (agricoltura, lavori pubblici, turismo e più in là industria), che non era tenuto, per la prima volta, a rispettare le regole amministrative dell’annualità del bilancio. E nel primo quinquennio della Cassa fu molto importante e diffusa l’opera di infrastrutturazione del territorio meridionale, così come fu notevole la trasformazione agraria grazie alla realizzazione di un vasto programma di irrigazione e di bonifica. Il finanziamento dell’impresa s’era sperato, nel progetto di Menichella, che venisse dalla Birs (Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo), anche per i buoni uffici del suo esperto economico Paul Rosenstein-Rodan, legato alla Svimez. Ma il contributo internazionale fu più modesto del previsto, e il danaro venne essenzialmente dal governo italiano e dal Fondo lire proveniente dagli ultimi aiuti previsti dall’Erp (European Recovery Program). La delusione di Saraceno per la mancata realizzazione dell’industrializzazione meridionale progettata dalla Svimez sarà espressa solo alcuni decenni dopo, sommessamente, nelle premesse a raccolte di suoi scritti. Nel 1969 scriverà in una nota: «Quanto allo scarto tra aspettative prevalenti prima della fine della guerra e pensiero ispiratore della politica successiva va ricordato che l’istituzione della Cassa non fu il risultato di una evoluzione di quel pensiero, ma della ricerca di uno strumento adatto all’ottenimento di prestiti internazionali; fu poi la pressione dei problemi irri  Cafiero, Menichella meridionalista cit., p. 493.

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solti a portare la Cassa su posizioni meno inadeguate alla natura di quei problemi»71. Nel 1982, in un’altra premessa, dirà in forma succinta ma chiara: «Solo nel 1950 si ebbe però la Cassa per il Mezzogiorno, con compiti peraltro limitati per parecchi anni allo sviluppo agricolo e alla costruzione di infrastrutture; insomma non si ebbe un programma orientato al fine della riduzione del divario»72.

71   P. Saraceno, Premessa, in Id., Ricostruzione e pianificazione (1943-1948) cit., p. 61. 72   P. Saraceno, Premessa, in Id., Gli anni dello Schema Vanoni cit., p. 78.

VII Lo sviluppo, lo squilibrio, l’esodo L’Italia e il Sud alla metà del Novecento Nel 1951 l’Italia è un grande paese di 47,5 milioni di abitanti, ancora largamente agricolo, in via di modernizzazione. Nell’agricoltura lavorano ancora in 8 milioni, il 42% della popolazione attiva; nell’industria il 32%; nel terziario il 26%. Un quarto degli italiani non vive in città; ma in campagna, in collina, in montagna. I redditi delle famiglie italiane sono molto bassi: un ottavo di quelli inglesi. Nel 1953 sono pubblicati gli atti della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla miseria in Italia. Ci sono ancora due milioni di disoccupati ufficiali. Oltre il 21% della popolazione vive in abitazioni inadeguate, prive nel 92% dei casi di una vasca da bagno. Il 65% delle famiglie non mangia carne, se non una volta la settimana. L’Italia è ancora un paese largamente povero. Ma è anche un paese assai giovane. Più di un quarto della popolazione, al censimento del 1951, ha meno di 15 anni. I vecchi oltre i 65 anni sono solo l’8%. Ogni donna ha in media 2,4 figli. Riprende con forza l’emigrazione, sia interna che oltre confine: verso il «triangolo industriale» del Nord-Ovest italiano, verso l’Europa e di nuovo verso l’America. Nel decennio 1955-64, quello del «boom», dal Mezzogiorno emigrano 2,4 milioni di persone, di cui 1,3 milioni si trasferiscono nel Centro-Nord1.

1   E. Pugliese, Gli squilibri del mercato del lavoro; E. Sonnino, La popolazione italiana dall’espansione al contenimento; A. Signorelli, Movimenti di popolazione e trasformazioni culturali, tutti in Storia dell’Italia repubblicana, II, La trasformazione

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L’economia italiana si espande con una forza imprevista. Il prodotto interno lordo (Pil) cresce di quasi il 6% l’anno, come i più avanzati paesi europei, trainato dall’industria. Allora non si sapeva, ma l’Italia era riuscita a inserirsi positivamente nel ciclo economico mondiale post-bellico, che poi sarà definito «l’età dell’oro» dello sviluppo capitalistico. Il forte sviluppo degli anni Cinquanta trae origine dal consolidamento della lira operato da Einaudi e Menichella nel ’47 e avanza con la liberalizzazione degli scambi realizzata nel 1951 dal ministro del Commercio estero La Malfa, sulla scia del precedente ministro Merzagora e in accordo col presidente della Confindustria Costa, ma contro la dura resistenza di forti gruppi industriali, restii a rinunciare alle tradizionali protezioni statali. Altro decisivo fattore propulsivo dello sviluppo fu la persistenza di bassi salari, che favorì un lungo periodo di alti profitti2. Anche il Mezzogiorno si inserì dentro questo processo di sviluppo e di modernizzazione, con un aumento del Pil che sfiorava il 5% tra il 1955 e il 1964. Ma l’occupazione non agricola al Sud aumentò solo del 27% del totale nazionale, rispetto a una popolazione meridionale ch’era il 36% del paese. E l’emigrazione dal Sud, l’arma segreta del capitalismo italiano, contribuì fortemente allo sviluppo intenso del Nord, com’era già capitato al principio del Novecento. Quindi l’aumento del divario tra Nord e Sud, che era fortemente cresciuto tra le due guerre mondiali, finalmente era stato bloccato. Il quarto di secolo che inizia nel 1950 è l’unico periodo dell’Italia: sviluppo e squilibri, t. I, Politica, economia, società, Einaudi, Torino 1995, pp. 421 sgg., 532 sgg., 589 sgg. 2   A. Graziani et al., Lo sviluppo di un’economia aperta, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1969; L’economia italiana dal 1945 a oggi, a cura di A. Graziani, il Mulino, Bologna 1972, pp. 52 sgg.; M. D’Antonio, Sviluppo e crisi del capitalismo italiano 1951-1972, De Donato, Bari 1973; B. Bottiglieri, La politica economica dell’Italia centrista (1948-1958), Edizioni di Comunità, Milano 1984, pp. 124 sgg.; M.L. Cavalcanti, La politica commerciale italiana 1945-1952. Uomini e fatti, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1984; M. Salvati, Economia e politica in Italia dal dopo guerra a oggi, Garzanti, Milano 1984; G. Carli, Cinquant’anni di vita italiana, in coll. con P. Peluffo, Laterza, Roma-Bari 1993, pp. 25 sgg.; G. Bruno, Le imprese industriali nel processo di sviluppo (1953-73), in Storia dell’Italia repubblicana, II, t. I cit., pp. 365 sgg.; A.L. Denitto, Confindustria e Mezzogiorno (1950-1958). Dibattiti e strategie sull’intervento straordinario, Congedo, Galatina 2001.

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nella storia unitaria dell’Italia in cui si realizza una significativa «convergenza» dell’economia meridionale rispetto a quella nazionale, e quindi si riduce il divario, anche perché il Mezzogiorno ha un inedito, consistente rilievo nel governo del paese3. Ma nemmeno in questo felice e unico periodo si è riusciti ad aggredire strutturalmente il divario territoriale caratterizzante il modello italiano di sviluppo. Perciò Saraceno ha potuto poi commentare, riferendosi al momento centrale di questo periodo, che «è facile rendersi conto come al termine di un decennio di rilevante espansione economica, che con tutta probabilità non si ripeterà più nella nostra storia, il divario non potesse che presentarsi praticamente invariato: il livello medio del prodotto pro-capite del Sud che, riferito alla popolazione residente, era il 54% di quello del Nord nel 1954, ne era infatti il 55% nel 1963»4. Le resistenze sociali e politiche al cambiamento erano molto forti nel Mezzogiorno. Le riforme seppur parziali realizzate con le leggi del 1950 costarono alla Dc una pesante sconfitta elettorale già nelle elezioni amministrative del 1951 e del 1952 e poi nelle elezioni politiche del 1953, che segnarono la fine politica di De Gasperi. Il leader democristiano era peraltro ben conscio del fatto che l’anticomunismo era la carta vincente della Dc, mentre il riformismo sociale era quella perdente sul piano elettorale. La Dc e i partiti di governo rifiutarono comunque l’alleanza coi partiti di destra vittoriosi al Sud, nonostante la forte pressione del Vaticano di Pio XII5. In ogni caso è utile ricordare che lungo tutta la storia dell’Italia unita è stato sempre più facile mobilitare le forze ostili ai cambiamenti e alle riforme che unire i settori politici e sociali orientati verso le posizioni progressive. Non va nemmeno dimenticato che, ai primi anni Cinquanta, nel Mezzogiorno iniziava soltanto il processo di profonda trasformazione che avrebbe cambiato un mondo rurale segnato dalla contrapposizione tra proprietari e contadini in una società urbana fondata su differenziati ceti intermedi.

  Giannola, Il Mezzogiorno nell’economia italiana cit., pp. 596 sgg.   P. Saraceno, Premessa, a Id., Gli anni dello Schema Vanoni cit., pp. 72-74. 5   A. Riccardi, Il «partito romano» nel secondo dopoguerra (1945-1954), Morcelliana, Brescia 1983. 3 4

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Cultura e politica al Sud negli anni Cinquanta L’arretratezza economica e la depressione sociale trovavano riscontro nella conservazione politica, di tipo largamente misoneistico, che dominava largamente nelle campagne e nella città meridionali al principio degli anni Cinquanta. In Campania tutti i capoluoghi tranne Caserta erano amministrati da coalizioni di monarchici e neo-fascisti, a partire da Napoli, governata a lungo dal populismo affaristico e plebeo di Achille Lauro6. È in questa Napoli, che vive uno dei momenti politici e culturali più desolanti, che nascono nel 1954 due riviste dichiaratamente meridionalistiche. «Cronache meridionali» è fondata al principio dell’anno da Mario Alicata, Giorgio Amendola e Francesco De Martino, quale espressione del movimento di lotte soprattutto contadine per la rinascita del Mezzogiorno. Riferimento teorico era il meridionalismo gramsciano, con la centralità dei contadi­ni del Sud per la rivoluzione italiana. La rubrica «Biblioteca meridionalistica», curata da Rosario Villari, svolgeva il compito culturale fondamentale di riannodare tutta la composita filiera del pensiero e dell’azione meridionalistica costruita intorno alla trasformazione del rapporto tra il Mezzogiorno e lo Stato italiano. L’obiettivo politico era di spezzare la continuità fra la tradizione meridionalistica e la politica governativa di intervento straordinario, fondata sulla teoria delle aree depresse, definita «neocapitalistica»; e di rapportarla invece all’azione politica per il Sud svolta dall’opposizione socialcomunista. La rottura del ’56 tra socialisti e comunisti, l’esaurirsi delle lotte sociali e l’esodo dal Sud misero in crisi la rivista già sul finire degli anni Cinquanta. Mentre i socialisti accettavano l’intervento straordinario e avviavano l’esperienza governativa di centro-sinistra, i comunisti chiudevano «Cronache meridionali» nel 1964. Alla fine del 1954 nasce «Nord e Sud» per iniziativa di Francesco Compagna, dell’europeista Renato Giordano e degli storici Vittorio de Caprariis, Giuseppe Galasso e Rosario Romeo, sotto l’alto patronato di Ugo La Malfa e di Manlio Rossi-Doria. Il nome

6   P. Totaro, Il potere di Lauro. Politica e amministrazione a Napoli 1952-1958, Laveglia, Salerno 1990.

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della rivista era stato suggerito da Mario Pannunzio, direttore de «Il Mondo», con cui Compagna collaborava; ma è evidente la filiazione da Nitti, come sarà forte l’influenza di Croce, di Salvemini, di Dorso. Questa rivista, che manterrà stretti rapporti con l’attività culturale e politica della Svimez, si caratterizzerà per l’originale contributo scientifico alla politica dell’intervento straordinario per lo sviluppo industriale del Sud, in un orizzonte segnato da una forte convinzione europeistica e da una solida fedeltà atlantica7. Compagna – cui si deve anche l’espressione «intelligenza tecnica» riferita agli intellettuali-tecnici meridionalisti dell’Iri, della Banca d’Italia, della Svimez8 – aggiungerà un forte accento dorsiano per il rinnovamento della conservatrice classe dominante del Sud, anche in opposizione alle prime operazioni trasformistiche avviate dalla Dc per lo sgonfiamento e l’assorbimento delle destre meridionali. Suoi principali bersagli, in una intensa e corrosiva polemica culturale e politica, di ascendenza sia salveminiana che nittiana, saranno la retorica sudista e reazionaria diffusa dal giornalista Edoardo Scarfoglio tra la piccola borghesia intellettuale del Mezzogiorno tra Ottocento e Novecento e il deteriore populismo affaristico del monarchico sindaco di Napoli Achille Lauro. Ma il contributo meridionalistico del geografo Compagna, influenzato dagli studi di Pierre George e di Jean Gottman, sarà particolarmente innovativo nell’indicare il nuovo ruolo delle città nel Sud, le dinamiche attuali dei movimenti migratori, le più aggiornate strategie di sviluppo industriale, le prospettive aperte al Mezzogiorno d’Italia dalle prime forme di unione europea9. Negli anni Cinquanta andò crescendo il ruolo politico-culturale dell’Istituto di economia e politica agraria di Portici, grazie alle incessanti iniziative di Manlio Rossi-Doria, che incrementò largamente i rapporti di scambio culturali con gli studiosi di 7   Questi princìpi ideali saranno affermati nel primo numero della rivista da U. La Malfa, Mezzogiorno nell’Occidente, in «Nord e Sud», n. 1, dicembre 1954. 8   F. Compagna, La lotta politica italiana nel secondo dopoguerra e il Mezzogiorno, Laterza, Bari 1950, p. 134. 9   F. Compagna, Labirinto meridionale (Cultura e politica nel Mezzogiorno), Neri Pozza, Venezia 1955; Id., I terroni in città, Laterza, Bari 1959; Id., Lauro e la Democrazia Cristiana, Opere Nuove, Roma 1960; Id., La questione meridionale, Garzanti, Milano 1962; Id., L’Europa delle regioni, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1964; Id., La politica della città, Laterza, Bari 1967.

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scienze sociali americani e del resto del mondo, dall’economia alla sociologia rurale, dall’antropologia culturale all’economia e politica agraria. Riforma agraria, politiche di sviluppo, pianificazione regionale furono gli ambiti privilegiati di una intensa attività politico-culturale di respiro internazionale, prospettiva europea, fondamento saldamente meridionalista. Nel 1959 si costituì il Centro di specializzazione e ricerche per il Mezzogiorno di Portici per iniziativa dei ministeri della Pubblica istruzione e dell’Agricoltura, della Cassa per il Mezzogiorno e della Ford Foundation. Col direttore Rossi-Doria collaborarono intensamente, tra gli altri, Claudio Napoleoni, direttore della Scuola di sviluppo economico della Svimez, e Giuseppe Orlando, direttore tecnico dell’Istituto nazionale di economia agraria, insieme ai giovani Giovanni Coda Nunziante, Michele De Benedictis, Augusto Graziani, Gilberto Marselli. Intensi furono gli scambi e la collaborazione con la rivista «Nord e Sud» in un comune, costante impegno meridionalistico10. Il Mezzogiorno contadino a cavallo degli anni Cinquanta è oggetto di attenzione e interesse da diversi versanti culturali e politici. Dagli affreschi letterari e pittorici di Carlo Levi e di Renato Guttuso alla narrativa e alla poesia di Tommaso Fiore e Rocco Scotellaro si costruirà anche il mito della «civiltà contadina», che troverà peraltro originali supporti scientifici nell’antropologia culturale di Ernesto De Martino, nell’economia e politica agraria di Rossi-Doria, nella sociologia di ispirazione cattolica di Ceriani Sebregondi e di un impegnato settore della Svimez, fino alla pedagogia della testimonianza di Danilo Dolci, seguace di Aldo Capitini e di Gandhi. La società contadina del Sud oscilla pericolosamente tra una immobilità segnata dal tramandarsi di comportamenti tradizionali, impregnati di princìpi e valori religiosi, e la disponibilità alla 10   A. Graziani, L’economia del Mezzogiorno nel pensiero di Manlio Rossi-Doria; G. Marselli, Manlio Rossi-Doria e l’avvio delle ricerche sociologiche nel Mezzogiorno, entrambi in Manlio Rossi-Doria ed il Mezzogiorno, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1990; G. Galasso, Profilo di Rossi-Doria, in Id., Il Mezzogiorno da «questione» a «problema aperto» cit., pp. 227 sgg.; L. Costabile, Il Centro di specializzazione e ricerche economico-agrarie per il Mezzogiorno e la «Scuola di Portici», in La formazione degli economisti in Italia (1950-1975), a cura di G. Garofalo e A. Graziani, il Mulino, Bologna 2004, pp. 269 sgg.; S. Misiani, Manlio Rossi-Doria. Un riformatore del Novecento, Rubbettino, Soveria Mannelli 2010, pp. 480 sgg.

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rivolta e alle lotte guidate ora dai partiti di sinistra. È in questo contesto che avviene negli anni Cinquanta la «scoperta sociologica» del Mezzogiorno, sul piano italiano, ma anche sul terreno internazionale e in particolare americano. Nel Mezzogiorno si gioca la scommessa dello sviluppo di un’area depressa in competizione diretta con l’iniziativa di lotta socialcomunista. Dentro questa storia si spiega l’attenzione concentrata da più parti sulla condizione e la prospettiva del Sud. Come ha scritto un autorevole studioso e testimone quale Galasso, muovendo dal libro di E.C. Banfield (Le basi morali di una società arretrata), «l’interesse per il Mezzogiorno era più che comprensibile al di qua di ogni rozza presentazione dei giovani studiosi americani allora venuti in Italia come fanterie dell’imperialismo americano in marcia, nonché delle fondazioni degli istituti che li sostennero e ne finanziarono gli studi come sezioni della Central Intelligence Agency. Come sempre, anche in questo caso il rapporto fra politica e cultura, fra interessi espansionistici di una grande potenza e movimento intellettuale di una grande cultura era un rapporto estremamente complesso»11. È significativo che la ferma polemica contro la mitizzazione della «civiltà contadina» e il suo populismo conservatore di equilibri tradizionali, insieme alla lotta contro il populismo laurino, fu uno dei pochi punti di pieno accordo tra «Nord e Sud» e «Cronache Meridionali», schierate a sostegno dello sviluppo industriale del Sud. Giorgio Amendola esprimerà bene questa insofferenza verso infondate nostalgie di inesistenti paradisi perduti: «Quando sento rimpiangere, come avviene qualche volta, la bella civiltà contadina meridionale dei vecchi tempi, io rivedo le ragazze di Capri e di Siano [a Siano, come a Capri, le ragazze facevano le bestie da soma, NdA], le donne sempre a piedi nudi, le famiglie ammucchiate nei ‘bassi’, la sporcizia e la mancanza d’acqua, e anche le case dei ‘signori’ senz’acqua corrente e senza servizi igienici; un mondo aspro di lotte e, per qualche soldo, di odi tenaci, nel quale dominava, sotto la coltre bigotta, una sensualità animalesca. [...] 11   G. Galasso, L’esplorazione sociologica (1977), in Id., Il Mezzogiorno da «questione» a «problema aperto» cit., p. 199.

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Dov’era la pretesa civiltà contadina, di cui oggi si favoleggia, se non in un groviglio di passività sociale, di vecchie superstizioni e di obbedienza servile?»12. La difficile strada per l’industrializzazione del Mezzogiorno La scelta politica di limitare l’attività della Cassa per il Mezzogiorno a una prima fase di «preindustrializzazione», contro il parere della Svimez e di Saraceno, viene messa in crisi già nel 1952, in seguito alla decisione della Banca mondiale (Birs) di concedere i promessi prestiti solo per determinati progetti industriali nel Sud13. I conseguenti conflitti di interessi politici ed economici, locali e nazionali per giungere all’individuazione degli enti cui attribuire l’erogazione del credito industriale finanziato da questi prestiti fu risolto solo nel 1953. L’esercizio del credito industriale agevolato nel Mezzogiorno fu affidato a tre istituti regionali: l’Istituto per lo sviluppo economico dell’Italia meridionale (Isveimer) costituito già nel 1938, l’Istituto regionale per il finanziamento delle piccole e medie industrie della Sicilia (Irfis) creato dalla regione Sicilia nel ’52, e il Credito industriale sardo (Cis) per la Sardegna14. L’inaspettata riapparizione della prospettiva industriale per il Sud, grazie alla ferma richiesta della Birs, rilanciò l’iniziativa di Saraceno, che nel novembre 1953 presentò la relazione introduttiva al convegno promosso dalla Cassa per il Mezzogiorno sul tema della industrializzazione del Sud15. Il dato politico più significativo di questo convegno, presieduto dal ministro per l’Intervento straordinario nel Mezzogiorno Pietro Campilli, fu la convinta adesione espressa dal segretario della Cgil Di Vittorio, particolarmente apprezzata in tempi di guerra fredda anche per la disponibilità a un impegno comune.   G. Amendola, Una scelta di vita, Rizzoli, Milano 1976, pp. 47 sg.   Cafiero, Storia dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno cit., pp. 44 sgg.   A.L. Denitto, Istituti e dinamiche dei finanziamenti straordinari: l’Isveimer dalle origini agli anni del miracolo economico, in Radici storiche ed esperienza dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno cit., pp. 243 sgg. 15   Cfr. la testimonianza resa da Saraceno a P. Barucci in Ricostruzione, pianificazione, Mezzogiorno cit., pp. 261 sg. 12 13

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«Le nostre critiche – disse Di Vittorio – erano dirette a portare la Cassa per il Mezzogiorno nella direzione che ora sembra prefiggersi. Cioè l’industrializzazione delle regioni meridionali. È per questo che noi siamo lieti che la Cassa affermi in questo congresso il proposito di compiere ogni sforzo per promuovere l’industrializzazione [...] mettiamoci dunque all’opera tutti, con maggiore slancio e maggior impegno, per realizzare finalmente le legittime speranze dei nostri fratelli che più soffrono»16. La relazione di Saraceno, elaborata sulla base di ricerche della Svimez, rilancerà la prospettiva di una programmazione dello sviluppo italiano riorientato verso il Mezzogiorno e andrà a costituire una parte fondamentale dello Schema decennale di sviluppo del reddito e della occupazione, più noto come Schema Vanoni, che sarà presentato e acquisito dal ministro del Bilancio. Vanoni lo farà quindi approvare dal congresso della Dc a Napoli e dal Consiglio dei ministri tra il giugno e il dicembre 1954. Lo sviluppo accelerato degli anni del boom economico, quando l’aumento del Pil superò ogni previsione, ridurrà però l’attenzione e l’impegno governativo verso il Mezzogiorno e farà accantonare lo Schema e le sue ipotesi di programmazione in direzione meridionalistica17. Nel triennio precedente il Trattato di Roma, che istituirà nel 1957 il Mercato comune europeo (Mec) e l’Euratom, il problema dello sviluppo del Mezzogiorno, documentato dagli studi della Svimez, verrà comunque posto all’attenzione di numerosi organismi europei: dall’Organizzazione economica della comunità europea (Oece) alla Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca). Infine sarà inserito nel Trattato di Roma un «Protocollo concernente l’Italia», che riconoscerà di interesse comune euro  Ivi, p. 350.   Nel suo ultimo scritto Saraceno testimonia come lo Schema Vanoni andrebbe meglio definito Schema Saraceno, perché fu redatto nella Svimez e rimase a livello di studio. «Esso venne preparato dalla Svimez con la prospettiva di vederlo utilizzato per la formulazione da parte del Governo, di un programma economico per il decennio 1955-64. Questo utilizzo non ebbe però luogo e lo schema rimase con la sua caratteristica di studio: il nome Vanoni ricorda solo il membro del Governo che avrebbe dovuto ricavarne un vero e proprio piano e che, invece, non ebbe neppure modo di perfezionarne la punteggiatura. L’attribuzione a Vanoni è opera, credo, di giornalisti che confusero la preparazione dello Schema, che fu opera della Svimez, con almeno un inizio di redazione di un piano: P. Saraceno, Introduzione a Id., Studi sulla questione meridionale 1965-1975, Svimez-il Mulino, Bologna 1992, pp. 15 sg. 16 17

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peo il conseguimento degli obiettivi «di un programma decennale di espansione economica che mira a sanare gli squilibri strutturali dell’economia italiana, in particolare grazie all’attrezzatura delle zone meno sviluppate del Mezzogiorno e nelle Isole e alla creazione di nuovi posti di lavoro per eliminare la disoccupazione»18. La formazione della Comunità economica europea (Cee) fornirà una grande spinta al processo di espansione già in atto nella economia e nella società italiane. Nel 1962 il tasso di sviluppo italiano sarà inferiore solo a quello tedesco e superiore agli indici di crescita degli altri paesi europei. A un secolo dall’unità nazionale, l’Italia non era più tanto distante dalle realtà d’Europa maggiormente avanzate. Per oltre un decennio gli aumenti della produttività furono di gran lunga superiori ai livelli salariali, mantenuti bassi dalla scarsa conflittualità, mentre i profitti crescevano e gli investimenti si espandevano del 10% l’anno. Tra il 1959 e il 1963 le esportazioni aumentarono del 16% per anno. La produzione di automobili e di frigoriferi quintuplicò. La produzione di acciaio solo negli anni Cinquanta aumentò da 3 a 10 milioni di tonnellate. Anche l’industria pubblica conobbe un ulteriore, grande sviluppo in Italia e nel mondo con l’Iri e con l’Eni di Enrico Mattei, istituito nel 1953, cui fu dato dal governo il monopolio della ricerca e dello sfruttamento di idrocarburi nella Val Padana, nonostante l’opposizione delle grandi società petrolifere americane e angloolandesi. L’espansione dell’impresa pubblica grazie al sostegno governativo, e alla non ostilità dell’opposizione, trovò un decisivo punto d’approdo politico nella costituzione del ministero delle Partecipazioni statali, alla fine del 1956, quando le imprese dell’Iri lasciarono la Confindustria e insieme alle altre aziende a partecipazione statale diedero vita a una nuova associazione, l’Intersind. Questo straordinario sviluppo si fondò quindi su una rapida espansione delle esportazioni e sulla disponibilità di un grande serbatoio di manodopera a buon mercato, collocata largamente al Sud e pronta a trasferirsi al Nord, abbandonando case e terreni 18   Il documento è pubblicato in P. Saraceno, Schema Vanoni e integrazione europea nella politica meridionalistica degli anni ’50, in Id., Gli anni dello schema Vanoni (1953-1959), a cura e con introduzione di P. Barucci, Svimez-Giuffrè, Milano 1982, pp. 65 sg.

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distribuiti dalla riforma agraria e dalla legge Sila. È impressionante riscontrare, al principio e a metà del Novecento, nelle due fasi storiche del massimo sviluppo industriale al Nord, riprodursi lo stesso squilibrio, che vede esplodere l’esodo in massa dal Sud. Tra i due censimenti del 1951 e del 1971 si registra l’esodo di oltre quattro milioni di meridionali: poco meno meno di tre milioni dal Mezzogiorno continentale, oltre un milione dalla Sicilia19. È difficile negare l’interazione tra i due fenomeni – sviluppo al Nord/esodo dal Sud – acuita nel secondo caso, quando prevale il richiamo a Nord-Ovest dei lavoratori meridionali. Oltre al lavoro sottopagato nelle fabbriche settentrionali, la bilancia dei pagamenti segnava saldi attivi grazie anche, come sempre, alle «rimesse» degli emigrati meridionali ora soprattutto nei paesi europei. È così che la lira viene proclamata nel 1960 moneta dell’anno e Menichella il migliore governatore di una banca centrale. Per ricompensarsi il grande e silenzioso tecnocrate, radicalmente «diverso» dagli epigoni del suo ceto, pensò bene di ridursi lo stipendio e la liquidazione. Questa fase di grande espansione dell’economia italiana negli anni Cinquanta, intensificata per gli effetti della formazione del Mercato comune europeo, rafforzò ulteriormente il sistema industriale del Centro-Nord, cui si indirizzarono sia cospicui investimenti pubblici, sia la stessa domanda di prodotti industriali attivata dalla Cassa in un Mezzogiorno che non era ancora attrezzato a produrli20. L’intervento straordinario limitato alle infrastrutture e all’agricoltura era ormai chiaramente insufficiente. Si rischiava un nuovo aumento del divario territoriale; era quindi indispensabile estendere l’intervento statale sul terreno industriale. Ma c’erano anche ragioni politiche che determinavano, ­nella seconda metà degli anni Cinquanta, «l’eclisse dell’astro meridio­ nale nel firmamento politico italiano», come scrisse subito Giu­ seppe Galasso, convinto altresì che «tra il 1955 e il 1958 la politica meridionalistica era caduta in una impasse pressocché semiparalizzante»21.   Barbagallo, Lavoro ed esodo nel Sud 1861-1971 cit., pp. 251 sgg.   P. Saraceno, Prospettive, nel 1969, dello sviluppo economico del Mezzogiorno (1969), in Id., Studi sulla questione meridionale 1965-1975 cit., pp. 124 sgg. 21   G. Galasso, Contraddizioni della politica meridionalistica, in «Nord e Sud», 19 20

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Da una parte il «miracolo economico» a Nord-Ovest pareva la migliore soluzione per l’economia italiana e rinfocolava lo scetticismo liberistico, palesato dall’economista inglese Vera Lutz e da Einaudi contro il velleitario spreco dell’industria al Sud, cui si opponeva ancora una volta la più efficace funzionalità dei flussi migratori22. In effetti l’esodo contadino alleggeriva la pressione sul mercato del lavoro e, sul piano politico, disinnescava il pericolo socialcomunista nelle regioni meridionali, dove appariva in aperto deflusso anche la vandea di destra, attivata dallo stralcio di riforma agraria. Per differenti motivi il Mezzogiorno non pareva più un’emergenza sociale e politica. L’avvio del Mercato comune europeo (Mec), con le deroghe favorevoli al Mezzogiorno inserite nel Trattato di Roma ad opera di Saraceno, consentirà di superare le resistenze dei liberisti e dell’industria del Nord ad avviare l’industrializzazione del Sud. Il nuovo sistema delle partecipazioni statali dà inizio alla strategia di insediamento dell’industria di base nel Mezzogiorno a sostegno dell’espansione dell’industria esportatrice del Nord, in una congiunzione di interessi e di prospettive di sviluppo tra Nord e Sud. Si apre così nel 1957 una seconda fase della politica di intervento straordinario, che proroga la durata della Cassa al 1965 e avvia un processo di industrializzazione con diverse, consistenti misure di sostegno. Ministro dell’Industria è il liberale napoletano Guido Cortese, che si distingue dal segretario del partito Giovanni Malagodi per il sostegno assicurato all’intervento pubblico nel Mezzogiorno23. Gli enti locali costituiscono ora i «Consorzi per le aree di sviluppo industriale», cui spetta attrezzare le zone destinate all’insediamento manifatturiero, secondo la prospettiva della concentrazione delle iniziative in «poli di sviluppo», elaborata dagli economisti François Perroux e Albert O. Hirschman24. Finanziamenti VIII, giugno 1961, ora in Id., Il Mezzogiorno da «questione» a «problema aperto» cit., pp. 285 sgg. 22   V. Lutz, Alcuni aspetti strutturali del problema del Mezzogiorno: la complementarietà dell’emigrazione e dell’industrializzazione, in «Moneta e credito», n. 56, 1961, pp. 407 sgg.; L. Einaudi, Il Mezzogiorno e il tempo lungo, in «Corriere della Sera», 21 agosto 1960. 23   N. Novacco, Introduzione, in Mezzogiorno e partiti politici, a cura di D. Novacco, Svimez-Giuffrè, Milano 1977, p. 42. 24   F. Perroux, L’Europe sans rivages. Ouvrage et articles, Presses Universitaires

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agevolati e riduzioni fiscali sono i principali incentivi per diffondere l’installazione di piccole e medie industrie meridionali. Poi, nel 1959 e nel 1962, apposite leggi estenderanno gli incentivi alle grandi aziende, sia pubbliche che private, che si dimostreranno più pronte a inserirsi in questo nuovo circuito industriale, finanziato largamente dallo Stato25. Viene quindi sancito l’obbligo per le imprese a partecipazione statale di destinare al Mezzogiorno almeno il 60% degli investimenti per i nuovi impianti industriali e il 40% degli investimenti totali. Le amministrazioni pubbliche devono riservare il 30% delle commesse di fornitura e il 40% dei loro investimenti a imprese meridionali. «In questa situazione, e con particolare riferimento proprio all’intervento straordinario nel Mezzogiorno, le imprese pubbliche diventano, quindi, lo strumento privilegiato della politica industriale»26. Dopo il 1960 saranno localizzati nel Mezzogiorno i due terzi circa dei nuovi impianti siderurgici. Il IV centro siderurgico, avviato a Taranto nel luglio ’60 comincerà ad essere operativo già due mesi dopo, con una tecnologia avanzata e un forte impatto sul traffico del porto e sulla nascita di numerose aziende, che produssero un consistente aumento dell’occupazione e un robusto sviluppo dell’area provinciale27. Insieme alla siderurgia il settore che riceverà i più cospicui finanziamenti a tasso agevolato sarà quello chimico e petrolchimico: dal 23% del totale negli anni Cinquanta, arriverà a superare il 42% nell’ultimo quadriennio 1971-7428. Fin dal principio gli incentivi andarono sia alle imprese pubbliche che a quelle private, in un’aspra competizione iniziata tra la Montecatini, monopolista de Grenoble, Grenoble 1990; A.O. Hirschman, The strategy of economic development, Yale University Press, New Haven (Conn.) 1959. 25   F. Barca, S. Trento, La parabola delle partecipazioni statali: una missione tradita, in Storia del capitalismo italiano dal dopoguerra a oggi cit., pp. 201 sgg. 26   Bruno, Le imprese industriali nel processo di sviluppo cit., p. 406. 27   M. Pizzigallo, Storia di una città e di una «fabbrica promessa»: Taranto e la nascita del IV centro siderurgico (1956-1961), in «Analisi storica», VII, 1989, pp. 73 sgg.; M. Bonel, Siderurgia e sviluppo economico: il caso del Centro siderurgico di Taranto, in Studi in onore di Pasquale Saraceno, a cura di M. Annesi, P. Barucci e G.G. Dell’Angelo, Svimez-Giuffrè, Milano 1975, pp. 119 sgg. 28   A. Del Monte, A. Giannola, Il Mezzogiorno nell’economia italiana, il Mulino, Bologna 1978, p. 309.

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privata durante il fascismo, e l’Anic del gruppo Eni. Poi intervennero la Sir di Nino Rovelli e la Liquichimica di Raffaele Ursini e la «guerra chimica» per l’accaparramento dei finanziamenti statali e la conquista di un mitico potere intrecciò interessi industriali e fazioni dei partiti di governo (anzitutto Dc e poi Psi), fino alla completa rovina della chimica italiana29. Dopo il vecchio stabilimento della Montecatini a Brindisi sorsero come funghi grandi impianti chimici e petrolchimici in Sardegna (a Porto Torres, a Cagliari, e a Ottana lontana dal mare coi «gemelli» contrapposti Anic e Sir), in Sicilia (a Priolo-Augusta, a Ragusa, a Gela), in Puglia (a Brindisi e a Manfredonia), a Pisticci nel Materano, a Crotone in Calabria. Gli shock petroliferi del 1973 e del 1979 e soprattutto le guerre di potere che portarono al fallimento della Sir e della Liquichimica e alla velleitaria «conquista» della Montedison da parte del presidente dell’Eni Eugenio Cefis nel 1971 chiusero questa storia emblematica dei guasti irreversibili prodotti dalla mancata distinzione tra direzione politica e interessi economici. Le ragioni dell’imprenditorialità e della politica sono progressivamente sostituite da quelle degli affari e del potere. «Boiardi di stato» saranno chiamati questi manager legati alle sovvenzioni statali e quindi alle decisioni degli uomini di governo, cui devono perciò corrispondere adeguati finanziamenti per le più varie esigenze politiche30. Giorgio Ruffolo, già segretario del Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica), ha espresso un giudizio equilibrato sulle preminenti responsabilità politiche per il fallimento del controllo statale di uno sviluppo economico largamente sovvenzionato da risorse pubbliche. «Certamente la classe politica, a mio modo di vedere, ha la responsabilità maggiore perché non capì che la contrattazione programmata doveva essere programmata e non semplicemente contrattata. La contrattazione programmata divenne invece molto contrattata e pochissimo programmata: programmata signifi29   L. Mattina, A. Tonarelli, Lo sviluppo della chimica. Gruppi di interesse e partiti nell’intervento straordinario, in Radici storiche ed esperienza dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno cit., pp. 463 sgg. 30   E. Scalfari, G. Turani, Razza padrona, Feltrinelli, Milano 1976.

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cava che certi vincoli che noi avevamo definito, perché le imprese non tralignassero, dovevano essere osservati dalla classe politica. Invece anche nell’ambito politico ci fu l’oligopolio! Quei conflitti che il potere politico avrebbe dovuto dominare finirono per trasformarsi in conflitti regolati da gruppi di pressione. [...] Però la programmazione ha come fondamentali presupposti una onestà di fondo e un potere politico capace di sollevarsi sopra i grandi poteri economici. [...] Quando però gli arbitri si mettono a giocare con i giocatori, succede quello che è successo»31. La parziale ma consistente industrializzazione realizzata nel Mezzogiorno tra gli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta è stata accolta, fin dall’inizio e poi ininterrottamente, da molteplici critiche incise nella memoria da espressioni icastiche, quali «cattedrali nel deserto», «industrializzazione senza sviluppo»32. La polemica liberistica che voleva il Meridione adatto solo all’agricoltura e al turismo, oltre che all’emigrazione, si allargava e coinvolgeva nuovi adepti nel fronte privatistico avverso all’espansione delle partecipazioni statali e delle industrie di base nel Sud. Recenti analisi dei risultati conseguiti nel tempo da questo processo di industrializzazione tendono ad esprimere giudizi più articolati, distinguendo tra esperienze e modalità di realizzazione diverse e considerano comunque radicale il cambiamento prodotto dalla politica dei poli di sviluppo nel lungo periodo. Elio Cerrito ha giudicato «infondato il giudizio secondo cui lo sforzo di creazione di grandi industrie esterne nel Mezzogiorno con la politica dei poli – consistente o insufficiente che si voglia giudicare – sia stato unicamente un grave insuccesso e una dissipazione. I poli industriali (contrastando con successo un fenomeno di distruzione di piccole attività secondarie tradizionali) hanno innalzato il reddito e il numero di occupati delle aree di insediamento [...] nella maggior parte dei casi, le industrie create si sono saldamente radicate nel tessuto produttivo meridionale [...] in importanti casi 31   G. Ruffolo, intervista, in S. Ruju, La parabola della petrolchimica. Ascesa e caduta di Nino Rovelli. Sedici testimonianze a confronto, Carocci, Roma 2003, pp. 69 sg. 32   Meridionalismo in crisi?, a cura di G. De Rita, A. Collidà e M. Carabba, Franco Angeli, Milano 1966; E. Hytten, M. Marchioni, Industrializzazione senza sviluppo. Gela: una storia meridionale, Franco Angeli, Milano 1970.

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si sono create strutture redditive, e si è creato un indotto, talora significativo, non necessariamente strettamente locale»33. La politica delle partecipazioni statali realizzava una parziale risposta alla congestione industriale del Nord, dopo il «miracolo economico», dislocando verso il Sud una parte cospicua dell’industria pesante di base, bisognosa di grossi investimenti e produttrice di limitata occupazione. Ma, su questo terreno, i meridionali stavano provvedendo da tempo ad abbandonare la loro terra, andando ora verso Nord col «treno del Sole», come prima s’imbarcavano a Napoli per le Americhe. La nuova politica industriale – ha sottolineato per tempo Graziani – fu concepita nel quadro dell’ipotesi generale «che la disoccupazione strutturale del Mezzogiorno dovesse e potesse ormai trovare soluzione fuori dei confini del Mezzogiorno. Da questo assunto preliminare discendeva che lo sviluppo industriale doveva svolgere anzitutto la funzione di accrescere l’efficienza del sistema produttivo meridionale aumentando il livello del reddito e della produttività del lavoro; non sembrava invece essenziale che l’industrializzazione dovesse risolvere anche il problema della disoccupazione»34. La principale ragione della svolta governativa verso l’industria di base localizzata al Sud non ha una motivazione preminentemente meridionalistica, ma corrisponde a una esigenza della politica industriale nazionale, che deriva dalla fine delle politiche protezionistiche conseguente all’avvio del Mercato comune europeo. Come ha scritto Adriano Giannola: «In un mercato che vede progressivamente eliminate le possibilità di accordare protezioni anche alle industrie nascenti di natura strategica, la politica regionale, con il suo sistema di incentivi, rappresenta un surrogato ideale della politica protezionista; in questa ottica si muove decisamente l’Italia in quegli anni. La politica industriale realizza così alcune importanti scelte strategiche e consegue un equilibrio e una complementarità tra grande industria pubblica e privata particolarmente efficace»35. 33   E. Cerrito, I poli di sviluppo nel Mezzogiorno. Per una prospettiva storica, in «Studi Storici», 51, 2010/3, p. 794. 34   Graziani, L’economia italiana dal 1945 a oggi cit., p. 70. 35   A. Giannola, L’evoluzione della politica economica e industriale, in Storia

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Come nel ’50, anche nel ’57, peraltro, viene emanata una legge compensativa di favore per le aree depresse del Centro-Nord, che arrivano a comprendere una popolazione pari a un terzo di quella meridionale. Intanto il Comitato dei ministri estende i suoi poteri di direzione e controllo politico alla diretta amministrazione e gestione, attribuendosi anche la funzione di definire l’ammontare dei contributi erogati dalla Cassa. In principio si erano individuate soltanto quattro aree dove concentrare lo sviluppo industriale nel Mezzogiorno: NapoliCaserta-Salerno, Bari-Taranto-Brindisi, Catania-Siracusa, Porto Torres. E in effetti qui saranno allocati i maggiori impianti. Ma poi interventi politici e pressioni locali estesero a un cinquantina il numero delle aree e dei nuclei industriali. Come noterà un esperto dirigente della Svimez, emergenze continue e «preoccupazioni di natura elettorale e di autoconservazione del ceto di governo furono alla base di un numero cospicuo di provvedimenti che allargarono il campo di azione della Cassa, in non pochi casi fino ad annullare il carattere di straordinarietà e di aggiuntività che la sua azione avrebbe dovuto avere»36. Del resto il rischio di svuotamento della politica di industrializzazione del Sud era stato denunciato per tempo, visto il pericolo già molto diffuso che «esigenze di demagogia elettorale, ignoranza o inettitudine, o altri tipi di speculazione operino contro i processi in atto o auspicati di concentrazione degli investimenti e contro la formazione di ‘poli di sviluppo’, rivendicando invece una industrializzazione diffusa e l’‘eguaglianza delle opportunità’ per tutta quanta l’area meridionale»37. Gli anni Sessanta si aprono con alcune importanti novità: riprendono e si diffondono le lotte e quindi crescono i salari; si apre la prospettiva economico-sociale della programmazione, mentre avanza il progetto politico del centro-sinistra. Ministro per il Mezzogiorno è il democristiano Giulio Pastore, già segretario della Cisl che, nell’aprile del ’60 in Parlamento e a ottobre in un convedell’Italia repubblicana, III, L’Italia nella crisi mondiale. L’ultimo ventennio, t. I, Economia e società, Einaudi, Torino 1996, p. 434. 36   S. Cafiero, Storia dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno cit., p. 53; Id., Le migrazioni meridionali, Svimez-Giuffrè, Milano 1964. 37   Galasso, Contraddizioni della politica meridionalistica cit., p. 290.

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gno della Dc a Bari, presenta due importanti relazioni sull’avvio di una industrializzazione al Sud concentrata nei «poli di sviluppo» e sostenuta da nuovi organismi quali il Formez (Centro di formazione e studi) e lo Iasm (Istituto per l’assistenza allo sviluppo del Mezzogiorno)38. Il punto più importante è però l’inserimento della politica meridionalistica dentro la politica economica dell’intero paese, in vista di un’auspicata programmazione nazionale. Il dibattito parlamentare, al principio del 1961, registrerà l’importante consenso sulla proposta della programmazione da parte del repubblicano La Malfa, del socialista Antonio Giolitti e anche del comunista Giorgio Napolitano, responsabile della commissione meridionale del partito. La Malfa giungerà a indicare la Cassa per il Mezzogiorno come possibile apparato amministrativo della programmazione nazionale39. Approdo significativo di questo intreccio tra programmazione e meridionalismo sarà la Nota aggiuntiva alla Relazione generale sulla situazione economica del paese presentata nel maggio 1962 dal ministro del Bilancio La Malfa40, con la collaborazione di Saraceno; che aveva da poco presentato la relazione su «Lo Stato e l’economia» al primo convegno di studi della Dc a San Pellegrino e sarà presto nominato vicepresidente della nuova Commissione nazionale per la programmazione economica41. La Nota indicava i tre squilibri principali del modello di sviluppo italiano: tra industria e agricoltura, tra Nord e Sud, tra consumi privati e servizi pubblici. Insisteva sulla necessità di definire e attuare un progetto di governo politico dello sviluppo economico. 38   Comitato dei ministri per il Mezzogiorno, Relazione sull’attività di coordinamento, presentata al Parlamento dal ministro Giulio Pastore il 20 aprile 1960, Roma 1960; G. Pastore, Relazione al convegno della Dc su «La politica di sviluppo nel Mezzogiorno: risultati e prospettive», in Mezzogiorno e partiti politici cit., pp. 174 sgg. 39   La Malfa ne parlerà prima nell’estate ’61 in tv, e poi nel settembre ’62 in un discorso alla Fiera del Levante a Bari, ora in U. La Malfa, La politica economica in Italia (1946-1962), Comunità, Milano 1962. 40   Ministero del Bilancio, Problemi e prospettive dello sviluppo economico italiano, in Id., La programmazione economica in Italia, Roma 1967, vol. II, pp. 89 sgg. 41   La relazione di Saraceno del 16 settembre 1961 è riprodotta parzialmente in Mezzogiorno e partiti politici cit., pp. 199; cfr. F. De Felice, Nazione e sviluppo: un nodo non sciolto, in Storia dell’Italia repubblicana, II, t. I cit., pp. 783 sgg.

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Perciò erano necessarie una programmazione economica e una direzione politica per orientare una nuova fase di sviluppo verso l’obiettivo di superare questi squilibri e realizzare una più solida strutturazione economico-sociale del paese, al fine di conseguire l’unificazione economica a cento anni da quella politica. Ma la prima metà degli anni Sessanta sarà caratterizzata anche da tensioni e rapporti problematici tra gli organi politici e le strutture tecniche e scientifiche dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno, rappresentate ai vertici dal ministro Pastore, con la struttura tecnica diretta da Enzo Scotti, e dalla Svimez di Saraceno e, sull’altro versante, dagli organismi politici e tecnici che avrebbero dovuto guidare la programmazione dell’economia nazionale negli anni del centro-sinistra: i ministri socialisti del bilancio e della programmazione economica Antonio Giolitti e Giovanni Pieraccini e il segretario dell’ufficio di programmazione Giorgio Ruffolo. Una legge del 1965 trovò una mediazione che affidava al Comitato dei ministri per il Mezzogiorno un «piano di coordinamento» dell’intervento pubblico ordinario e straordinario al Sud. Nel 1967 fu anche approvato il primo programma economico nazionale per il periodo 1966-70 e istituito il Comitato interministeriale per la programmazione economica (Cipe). Ma presto il processo di pianificazione si bloccò insieme alla legge urbanistica, alla riforma delle società per azioni e all’attuazione delle regioni a statuto ordinario42. La ripresa del ciclo espansivo nella seconda metà del 1966, superata la «congiuntura» negativa del triennio precedente, rimetteva in moto il circuito liberistico che insisteva nel considerare ottimale la connessione tra l’industrializzazione settentrionale e l’emigrazione meridionale. Nell’importante convegno meridionalistico organizzato dalla Fondazione Einaudi a Torino nella primavera 1967, gli intellettuali impegnati nella rivista «Nord e Sud» – Compagna, Rossi-Doria, Galasso, Graziani – fecero il punto sulla situazione, che vedeva da tempo in grave difficoltà l’idea e la pratica dell’intervento statale riequilibratore del divario territoriale. 42   M. Carabba (a cura di), Introduzione, in Mezzogiorno e programmazione (1954-1971), Svimez-Giuffrè, Milano 1980, pp. 34 sgg.

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Augusto Graziani si dichiarava convinto che «la politica di sviluppo del Mezzogiorno si trova in una fase di stanchezza [...] ma dovrà realizzarsi unicamente lungo una direttrice che è quella dell’industrializzazione delle regioni meridionali». Le forze politiche però non sembravano più capaci di assumere decisioni in grado di orientare lo sviluppo verso il Sud, nonostante le preoccupanti forme di congestione raggiunte nelle regioni settentrionali. E questo, perché «esiste la convinzione che la linea della decongestione non debba essere ricercata industrializzando le regioni meridionali, ma possa essere fruttuosamente perseguita estendendo l’industrializzazione al di fuori del triangolo economico tradizionale, in altre regioni circonvicine dell’Italia settentrionale». Nella stessa occasione Galasso parlava di «una crisi grave, quasi di esaurimento, del pensiero meridionalistico», visto che le indicazioni della programmazione quinquennale prevedevano come obiettivo soltanto il mantenimento, e non più il superamento, del divario tra Nord e Sud. Il «miracolo economico», la «congiuntura» negativa del ’64, il rilancio del liberismo e della competitività internazionale dell’industria del Nord avevano ormai oscurato la prospettiva del riequilibrio meridionalistico del modello di sviluppo italiano43. Passeranno altri due anni e Compagna affermerà ancora con forza: «Quello che a nostro giudizio è l’obiettivo, e non uno degli obiettivi, della programmazione: la progressiva cancellazione del confine fra le due Italie, l’Italia della piena occupazione e quella dell’emigrazione». La politica di programmazione, così come quella dell’intervento straordinario, non poteva che fondarsi su una «concezione meridionalista dello sviluppo italiano»44. Era stato questo il disegno di Nitti, era questo il progetto di Saraceno. Ma dopo un ventennio di politica di intervento straordinario e qualche anno di programmazione incompiuta, l’obiettivo del superamento del divario tra l’Italia industriale e l’Italia migrante sembrava uscito dalle concrete prospettive dei governi di centro-si43   A. Graziani, La politica per il Mezzogiorno: sue realizzazioni e sviluppi; G. Galasso, Vecchi e nuovi orientamenti del pensiero meridionlistico, entrambi in Nord e Sud nella società e nella economia italiana di oggi cit., pp. 147 sgg. 44   F. Compagna, La concezione meridionalista dello sviluppo italiano, in «Nord e Sud», n. 179, ottobre 1969, ora in Id., Il meridionalismo liberale cit., pp. 238 sgg.

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nistra, che non erano riusciti a realizzare l’auspicato «governo dello sviluppo», orientandolo in direzione meridionalistica. Sul finire degli anni Sessanta nasce l’Alfasud a Pomigliano d’Arco, nell’area dov’era sorto nel 1939 lo stabilimento aeronautico dell’Alfa Romeo e nel ’49 l’Aerfer-Aeritalia: zona industriale quindi, non «cattedrale nel deserto» e nemmeno, semplicisticamente, «cimitero» industriale45. Come il presidente dell’Alfa Romeo Giuseppe Luraghi ha precisato a suo tempo, la decisione dell’insediamento fu assunta con convinzione e in pieno accordo tra l’Iri, la Finmeccanica e l’Alfa Romeo: per impegno meridionalistico, per decongestionare il Nord, per usufruire degli incentivi. La scelta quindi era stata dell’azienda, al di là delle pressioni politiche. Né c’erano dubbi sulla qualità della manodopera locale, che aveva una solida e antica tradizione proprio nella metalmeccanica, come Luraghi sapeva bene: «Dopo un adeguato addestramento, quando lo vogliono e quando sono messi in condizione di farlo, i lavoratori meridionali sono in grado di compiere gli stessi lavori di quelli di qualsiasi altra zona»46. L’interessata polemica della Fiat, che scommetteva sulla irrealizzabilità di un’industria automobilistica al Sud, si sarebbe ribaltata, appena avviata l’Alfasud, con l’insediamento sovvenzionato di ben otto stabilimenti meridionali della Fiat tra il 1969 e il 1972. Il presidente Luraghi avrebbe respinto anche la definizione di «cattedrale nel deserto», dimostrando la capacità dell’azienda di generare un notevole indotto in tempi relativamente rapidi. Insieme alla sottoutilizzazione dell’impianto e all’incapacità di soddisfare la domanda, il tallone d’Achille dell’Alfasud fu nel reclutamento degli operai non specializzati. Le domande di lavoro pare che raggiungessero la vetta di 200 mila. La gestione delle pratiche era affidata agli uffici di collocamento locali, che non erano in grado di resistere alle pressioni esercitate da un fronte vastissimo, che andava dai politici e amministratori locali fino ai camorristi, senza escludere i parroci. L’incontro con le incessan45   D. De Masi, A. Signorelli, L’industria del sottosviluppo, Guida, Napoli 1973, p. 115. 46   G. Luraghi, Alfasud: Mezzogiorno di fuoco, in «Espansione», supplemento al n. 64, febbraio 1975, p. xvi.

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ti agitazioni del tempo accentuò una conflittualità permanente sconfinante spesso nel ribellismo endemico47. Nell’estate 1970 il socialista Giolitti torna al ministero del Bilancio e presenta, dopo quello del ’67, un secondo Programma di sviluppo economico nazionale per il quinquennio 1971-75. Programmazione economica e intervento nel Mezzogiorno sono affidati alla competenza del Cipe. Viene soppresso il Comitato dei ministri per il Mezzogiorno, che aveva diretto per un decennio la politica dell’intervento straordinario. La programmazione però resterà lettera morta, come certificherà uno dei suoi più attivi promotori48. Intanto, nel mondo, si conclude l’‘età dell’oro’ dello sviluppo capitalistico e tramonta l’era dell’industrialismo fordista, mentre inizia il predominio dei mercati finanziari, rispetto agli Stati, nel governo della moneta e dell’economia. In Italia si avvia una forte ripresa delle lotte sociali, che produrrà un’ondata di aumenti salariali tra il 1969 e il 1973, tale da acuire la difficoltà dell’industria italiana a confrontarsi con costi di lavoro meno distanti da quelli europei. Contemporaneamente l’aumento del prezzo del petrolio e la crisi energetica del 1973-74 danno impulso a un intenso processo di ristrutturazione industriale caratterizzato dal decentramento produttivo, che realizza il triplice obiettivo di ridurre la pressione sindacale, diminuire il costo del lavoro, accrescere la flessibilità della forza-lavoro. La ristrutturazione industriale degli anni Settanta investe il Nord-Est con il decentramento in piccole e medie imprese locali di tutti i settori trasferibili all’esterno dei sistemi di produzione delle grandi imprese private del Nord-Ovest. I forti incentivi statali, che configuravano una sorta di protezionismo nascosto ai controlli europei, e la maggiore quiete sociale nel Sud determinarono l’ultima e più intensa stagione dell’industrializzazione meridionale. Il consistente flusso di investimenti industriali nel Mezzogiorno è stato interpretato da Graziani «come risultato di una lotta fra gruppi finanziari, e precisamente fra gruppi pubblici 47   A. Vitiello, Come nasce l’industria subalterna: il caso Alfasud a Napoli 19661972, Guida, Napoli 1973; D. Salerni, Sindacato e forza lavoro all’Alfa-sud. Un caso anomalo di conflittualità industriale, Einaudi, Torino 1980. 48   G. Ruffolo, Rapporto sulla programmazione, Laterza, Roma-Bari 1973.

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e gruppi privati, lotta nella quale i gruppi pubblici avrebbero prescelto le regioni del Mezzogiorno come base territoriale preferita per la propria espansione»49. Tra il 1969 e il 1973 si sviluppa la fase più incisiva di investimenti industriali nel Mezzogiorno, che crescono dal 28% al 44% del totale italiano. La ragione di questa eccezionale congiuntura non va tanto cercata in un successo ritardato della prospettiva meridionalistica. Ma corrisponde anzitutto ai contingenti interessi e bisogni della grande industria pubblica e privata italiana, in una fase di profonda ristrutturazione. Si può quindi condividere il giudizio che: «Per buona parte degli anni Sessanta le partecipazioni statali hanno rappresentato uno dei principali strumenti di una consapevole politica industriale, volta al potenziamento dello sviluppo capitalistico nazionale»50. La grande industria pesante ha bisogno di enormi finanziamenti che trova, nel caso delle aziende pubbliche, nell’accrescimento dei «fondi di dotazione» attribuiti dal governo alle imprese a partecipazione statale, specialmente nei settori siderurgici, chimici e meccanici. Ma la situazione finanziaria dell’Iri e delle altre imprese pubbliche diventerà sempre più precaria, a metà degli anni Settanta, per il crescente indebitamento. Il sistema delle partecipazioni statali cumulerà passivi sempre più elevati, specialmente nella siderurgia, nei cantieri navali, nell’Alfasud51. A loro volta le grandi imprese private puntavano sui cospicui e diversificati incentivi statali accresciuti dal sistema della «contrattazione programmata», che allargava la loro sfera d’intervento nella definizione della politica delle sovvenzioni pubbliche52. Ma, già alla fine degli anni Sessanta, accanto agli incentivi erano l’aspra conflittualità operaia e l’ingovernabilità della grande fabbrica a convincere improvvisamente la Fiat a prendere la strada del Sud. Decentramento produttivo, decongestionamento sociale e territoriale, deverticalizzazione aziendale allontaneranno per la 49   A. Graziani, Il Mezzogiorno nel quadro dell’economia italiana, in Investimenti e disoccupazione nel Mezzogiorno, a cura di A. Graziani e E. Pugliese, il Mulino, Bologna 1979, p. 47. 50   Del Monte, Giannola, Il Mezzogiorno nell’economia italiana cit., pp. 335 sg. 51   Castronovo, Storia economica d’Italia cit., pp. 495 sgg. 52   Graziani, L’economia italiana dal 1945 a oggi cit., pp. 98 sgg.; S. Petriccione, Politica industriale e Mezzogiorno, Laterza, Roma-Bari 1976, pp. 45 sgg.

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prima volta la Fiat da Torino e dintorni e, insieme ai forti incentivi statali, provocheranno una forte spinta alla «meridionalizzazione» della Fiat. Nel primo triennio degli anni Settanta la Fiat costruirà ben sette impianti al Sud, diversi per localizzazione e comparti produttivi. Il più grande sarà la carrozzeria insediata a Cassino, con oltre 10 mila operai, e poi 3-4 mila a Termoli, a Bari, a Lecce, a Termini Imerese; infine due fabbriche con mille operai a Sulmona e 600 a Vasto. Alla fine degli anni Settanta gli stabilimenti Fiat occuperanno nel Sud circa 41 mila operai, il 15% di tutti i lavoratori del gruppo53. La seconda fase dell’industrializzazione, sviluppatasi tra la fine degli anni Sessanta e il primo triennio dei Settanta, porterà il Mezzogiorno «a essere l’area più dinamica assieme alle regioni centro-nord-orientali sia dal punto di vista del prodotto che dell’occupazione manifatturiera. [...] Questo stato di cose è destinato a interrompersi e a regredire rapidamente con la svolta che la politica economica nazionale subisce tra il 1974 e il 1975»54. Nel 1971 la nuova legge di rinnovo della Cassa, ne trasferiva gran parte delle competenze alle neonate regioni. Abolito il comitato dei ministri per il Mezzogiorno, il coordinamento degli interventi veniva attribuito al Cipe, affiancato ora da un comitato dei presidenti delle regioni meridionali. Si prevedevano anche «progetti speciali» finalizzati a precisi obiettivi di sviluppo, addirittura di importanza strategica. Ma poi ci si limiterà a finanziare semplici opere pubbliche. O, peggio ancora, a progettare imprese impossibili, come risposta politica al malessere che esplodeva dappertutto nel Mezzogiorno dei primi anni Settanta. Il caso emblematico sarà rappresentato dall’indicazione di un V centro siderurgico (mai nato) nella piana di Gioia Tauro, come ricompensa politica per la mancata assegnazione del capoluogo regionale a Reggio Calabria, con conseguente devastante rivolta cittadina. L’eccesso di produzione siderurgica già emersa a livello europeo e il tracollo finanziario già evidente del sistema delle 53   D. Cersosimo, Da Torino a Melfi. Ragioni e percorsi della meridionalizzazione della Fiat, in Radici storiche ed esperienza dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno cit., pp. 535 sgg. 54   Giannola, L’evoluzione della politica economica e industriale cit., pp. 437-39.

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partecipazioni statali non trovarono adeguata considerazione politica. Del resto il degrado politico del governo pubblico dell’economia aveva inventato un altro caso incredibile, collocando un impianto petrolchimico al centro della Sardegna, a Ottana, lontano dal mare, con la motivazione della lotta al banditismo sardo55. La scomparsa dalla scena pubblica italiana dei grandi tecnocrati che avevano costruito e governato, su ampia delega prima di Mussolini e poi di De Gasperi, l’originale economia mista di mercato e Stato è un fattore non secondario della rovina dell’impresa pubblica in Italia in una fase di radicale crisi mondiale e di devastante crisi economica e politica nazionale56. Comunque, quando si arriverà al momento del bilancio complessivo dell’intervento straordinario, si potrà constatare, grazie a un’accurata analisi di Enrico e Guglielmo Wolleb, che in definitiva la spesa pubblica per l’industrializzazione nel Sud è stata più contenuta di quanto non si sia immaginato. «Si scoprirà poi che la proclamata priorità data alle politiche industriali al Sud è in realtà solo apparente: le risorse dedicate a questo fine sono infatti scarse sia in riferimento al Pil meridionale, sia in riferimento al valore delle spese destinate ad altre finalità di politica economica, ed in particolare quelle di natura assistenziale, sia a quelle convogliate attraverso la politica ordinaria nel Centro-Nord»57. Comunque per un ventennio – dal Trattato di Roma a metà anni Settanta – il Mezzogiorno aveva avuto un posto importante dentro un quadro di politica industriale nazionale. Dall’Unità si realizzava per la prima volta «un costante e significativo processo di convergenza dell’economia meridionale rispetto alle medie nazionali». Le due fasi dell’intervento infrastrutturale e dell’industrializzazione concentrata avevano attivato una intensa «politica dell’offerta», finalizzata allo sviluppo e al mutamento strutturale. In seguito si passerà alla «politica della domanda» di risorse, 55   S. Petriccione, L’industrializzazione tradita: memorie e commenti di un amministratore pubblico (1968-1979), Guida, Napoli 1980. 56   Cafiero, Storia dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno cit., pp. 85 sg. 57   E. Wolleb, G. Wolleb, Divari regionali e dualismo economico. Prodotto e reddito disponibile delle regioni italiane nell’ultimo ventennio, Svimez-il Mulino, Bologna 1990, p. 20.

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assicurate in forma assistenziale a un Mezzogiorno, sempre più segnato da una «dipendenza» strutturale58. Intanto il mondo stava cambiando radicalmente. Nel 1973 cominciava una nuova epoca storica, dominata da una differente forma di capitalismo, che sarebbe presto diventato globale e «informazionale», secondo l’acuta analisi di Manuel Castells59. Era finito il tempo dell’industrialismo fordista. E in Italia non funzionava più l’economia mista, che aveva dato grandi risultati, con l’Iri e con l’Eni, finché l’interesse nazionale era prevalso sull’intreccio malsano di affari e potere. La crisi del petrolio e i costi crescenti delle materie prime, la rivincita del capitale finanziario sulla politica di Bretton Woods, l’esplosione in Italia dell’inflazione e poi del debito pubblico in tempi di stagnazione depressiva (la «stagflazione») segnavano la fine di un’epoca, tra i bagliori prettamente italiani di stragi, terrorismi e violenze diffuse.

  Giannola, Il Mezzogiorno nell’economia italiana cit., pp. 593 sgg.   Castells, L’età dell’informazione: economia, società, cultura cit.

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VIII Modernità dei consumi e modernizzazione apparente La trasformazione dell’agricoltura Nella seconda metà del Novecento cambia radicalmente il volto del Sud. Scompare, già dagli anni Sessanta, il paesaggio tradizionale di un Mezzogiorno agrario e contadino. Da questione agraria – di terre, proprietari, contadini – qual era stata per secoli, si trasforma in questione essenzialmente urbana. Il grande esodo dalle campagne e dalle zone interne del Sud produce, insieme all’emigrazione verso il Nord e l’Europa, il rigonfiamento delle città costiere, definite da prevalenti funzioni terziarie e burocratiche, largamente parassitarie. Dal 1950 al 1975 l’esodo rurale investe quasi cinque milioni di meridionali, per lo più uomini in età di lavoro. Tra i due censimenti del 1951 e del 1981 gli addetti all’agricoltura meridionale si riducono da tre milioni e 600 mila a poco più di un milione. Nello stesso periodo si intensifica la diffusione delle innovazioni tecnologiche: i trattori si espandono da 9 mila a 190 mila. Bonifica e irrigazioni favoriscono il raddoppio della produzione agricola meridionale tra il ’50 e il ’75. Nelle zone costiere, regno dei prodotti ortofrutticoli, dell’olio e del vino, il valore della produzione per ettaro è il triplo delle zone interne, dedite alla cerealicoltura e ai prodotti dell’allevamento1. «L’agricoltura – ha scritto Rossi-Doria nel ’77 – ha registrato, 1   M. Rossi-Doria, Sviluppo e ristagno dell’agricoltura merionale (1981), in Id., Scritti sul mezzogiorno cit., pp. 135 sgg.

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negli ultimi trent’anni, progressi maggiori di quelli dei periodi precedenti e di quelli conseguiti contemporanemente nelle altre regioni d’Italia»2. In particolare la produzione agricola meridionale era raddoppiata nel ventennio 1950-703. Restavano i problemi di debolezza strutturale dell’agricoltura meridionale, legata essenzialmente al frazionamento della proprietà e quindi alla dimensione delle aziende, inadeguata rispetto alle esigenze poste dai processi di trasformazione. Altrettanto problematica permaneva la struttura dei mercati, con un potere contrattuale delle molteplici figure di intermediari di gran lunga superiore a quello dei produttori, mentre cresceva la tradizionale infiltrazione della criminalità in un settore, quello ortofrutticolo, che garantiva profitti molto elevati per la quantità e la qualità della produzione. Un aspetto positivo era invece rappresentato da una crescente stabilità dei prezzi, rispetto alla tradizionale oscillazione anno dopo anno. Saranno definitivamente superate, anche al Sud, le vecchie forme contrattuali della mezzadria e della colonia parziaria, a vantaggio della proprietà coltivatrice, sia nella forma dell’azienda capitalistica che contadina. La politica agricola comunitaria ha penalizzato in un primo periodo l’agricoltura meridionale, sia perché ha favorito le aziende capitalistiche, poco diffuse al Sud, sia per un regime di prezzi vantaggioso per i prodotti continentali e sfavorevole per le produzioni mediterranee. Successivamente le decisioni europee hanno modificato il loro orientamento, con un maggiore sostegno al regime dei prezzi e alle possibilità di espansione delle colture meridionali. L’agricoltura meridionale si è profondamente trasformata, a partire dagli anni Sessanta, dentro il processo di modernizzazione che ha riguardato l’agricoltura italiana per impulso anzitutto della politica agricola europea e con una crescente articolazione regionale dopo il 1970. «Rispetto ad allora si è superata la netta

2   M. Rossi-Doria, Trent’anni alle spalle: un tentativo di valutazione della politica per il mezzogiorno (1977), ivi, p. 183. 3   G. Marenco, Un’analisi disaggregata dello sviluppo agricolo del Mezzogiorno nel decennio 1960-70 e negli anni più recenti, in L’agricoltura nello sviluppo del Mezzogiorno, a cura di M. De Benedictis, il Mulino, Bologna 1980, pp. 31 sgg.

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differenziazione tra aree di sviluppo e aree di decadenza, si sono moltiplicati i sentieri di crescita delle prime e si sono parzialmente riequilibrate in vario modo anche le seconde»4. Il Sud scivola ai margini della politica italiana A metà degli anni Settanta inizia un’altra storia per il Mezzogiorno d’Italia. Finisce l’epoca in cui, bene o male, il Sud aveva avuto un ruolo e una considerazione significativa nella politica e nell’azione del governo e delle forze di opposizione. Il mondo sta cambiando profondamente, anche se all’inizio è difficile accorgersene. L’Italia è squassata più che mai al suo interno: tra chi vuole cambiare, chi vuole conservare, chi vuole mandare tutto all’aria. Gli italiani, per lo più, si illudono di essere padroni del loro destino, grazie alla grande tradizione culturale, di cui molti peraltro sono inconsapevoli, e all’enorme flessibilità di comportamenti, che invece è un carattere molto diffuso. Purtroppo non vivono in un’area defilata, ma al centro di una zona strategica della politica mondiale e finiscono, ancora una volta, per restare vittime delle più diverse interferenze straniere, concordi nel colpire i conati di autonomia emergenti nella penisola al centro del Mediterraneo5. Nel 1976 una legge proroga per altri cinque anni l’attività della Cassa per il Mezzogiorno. Il sostegno al governo Andreotti produce l’astensione del Pci sulla proroga, la sua partecipazione agli organi di gestione e l’istituzione di una Commissione parlamentare di controllo sugli interventi nel Mezzogiorno. Il ruolo di gestione attribuito alle regioni, insieme allo Stato, non potrà invece realizzarsi perché le regioni meridionali non riusciranno nemmeno ad eleggere i loro rappresentanti nel Consiglio di amministrazione della Cassa.

4   G. Fabiani, L’agricoltura italiana nello sviluppo dell’Europa comunitaria, in Storia dell’Italia repubblicana, II, t. I cit., p. 348. 5   F. Barbagallo, L’Italia repubblicana. Dallo sviluppo alle riforme mancate (1945-2008), Carocci, Roma 2009, pp. 97 sgg.; G. Fasanella, C. Sestieri, con G. Pellegrino, Segreto di Stato. La verità da Gladio al caso Moro, Einaudi, Torino 2000; M. Gotor, Il memoriale della Repubblica. Gli scritti di Aldo Moro dalla prigionia e l’anatomia del potere italiano, Einaudi, Torino 2011.

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Ma ormai la politica degli incentivi e delle agevolazioni non è più in grado di far sorgere al Sud imprese nuove e produttive, può solo mantenere in piedi aziende in crisi e cercare di preservare l’occupazione esistente. La crisi che, a metà anni Settanta, chiude l’«età dell’oro» dimostra ottimistica la previsione di crescita della domanda dei prodotti di base, che aveva fondato la politica industriale italiana, di cui erano parte rilevante gli investimenti per l’industrializzazione del Sud e il riequilibrio territoriale del paese. Si determina così una capacità produttiva in eccesso rispetto alla domanda del mercato, che provocherà la crisi finanziaria delle grandi imprese, specie pubbliche. La strategia delle partecipazioni statali aveva prodotto un sovradimensionamento dell’industria di base piuttosto che investimenti nei settori a tecnologia più avanzata essenzialmente per due ragioni: mancava una politica della ricerca con finanziamenti adeguati e poi era forte la pressione sociale per aumentare la scarsa occupazione nel Sud. Crescevano perciò gli sprechi e le distorsioni in un sistema di impresa pubblica, che era stato negli anni Cinquanta un modello di efficienza, ma veniva poi piegato verso interessi e prospettive politico-clientelari, su scala nazionale e a livello locale. La legge del 1977 per la riconversione e ristrutturazione industriale orienterà definitivamente il sostegno statale verso l’industria settentrionale, che dovrà adeguarsi ai cambiamenti radicali in atto nelle forme della produzione e dell’organizzazione del lavoro, per poter continuare a competere nel mercato internazionale. Il Mezzogiorno sarà toccato molto poco da questi finanziamenti a causa del suo debole tessuto industriale. Se ne giovarono invece gli stabilimenti meridionali delle grandi aziende del Nord, a partire dai nuovi impianti costruiti dalla Fiat a Cassino, a Termoli e infine a Melfi6. Si accentuò ancora una volta la concentrazione dello sviluppo industriale, con la conseguente emarginazione produttiva della gran parte del Mezzogiorno. Tra il 1979 e il 1981, quando si svilupperà il massimo sforzo di ristrutturazione dell’industria italia6   G. Bruno, L. Segreto, Finanza e industria in Italia (1963-1995), in Storia dell’Italia repubblicana, III, t. I cit., pp. 539 sgg.

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na, gli investimenti industriali al Sud toccheranno la soglia minima del 20% del totale nazionale. L’adesione al Sistema monetario europeo (Sme) nel 1979, con i suoi vincoli di equilibrio monetario e di integrazione finanziaria, ridurrà ulteriormente le possibilità di una politica di riequilibrio regionale e sociale7. Si ponevano così le premesse per l’avvio, negli anni Ottanta, di un drammatico processo di «deindustrializzazione» meridionale, che faceva ripartire il divario tra Centro-Nord e Sud e smantellava la struttura produttiva di intere aree regionali, come quella campana, dov’era stata più intensa l’espansione delle imprese industriali a partecipazione statale. A fronte di questo rapido declino dell’area meridionale di più antica industrializzazione, il cui simbolo sarebbe stata la chiusura dell’Italsider di Bagnoli, si svolgeva un positivo processo di espansione della piccola e media impresa lungo il litorale adriatico, specie in settori tradizionali quali l’abbigliamento e il mobilificio. Nord e Sud: i sussidi statali aumentano i consumi al Sud di prodotti del Nord Negli anni Settanta la crisi della grande impresa e i processi di decentramento produttivo favoriranno l’espansione delle piccole e medie imprese nella «Terza Italia» dell’area Nec (Nord-EstCentro) e poi, in misura ridotta, lungo il Mezzogiorno adriatico, dall’Abruzzo alla Puglia8. Lo sviluppo di una nuova imprenditoria locale, dal Teramano al Barese, di certo un fenomeno molto positivo, provocava però un eccessivo entusiasmo, che faceva addirittura intravvedere nuove possibilità di soluzione della questione meridionale, lungo strade diverse dal passato. Sulle ali della pic7   A. Graziani, L’economia italiana e il suo inserimento internazionale, ivi, pp. 366 sgg. 8   A. Bagnasco, Tre Italie. La problematica territoriale dello sviluppo, il Mulino, Bologna 1977; F. Pontarollo, Tendenze della nuova imprenditoria nel Mezzogiorno degli anni ’70, Franco Angeli, Milano 1982; Industrializzazione senza fratture, a cura di G. Fuà e C. Zacchia, il Mulino, Bologna 1983; Mercato e forze locali: il distretto industriale, a cura di G. Becattini, il Mulino, Bologna 1987; S. Cafiero, R. Padovani, Grande e piccola impresa nello sviluppo economico del Mezzogiorno, in «Rivista economica del Mezzogiorno», III, 1989/3, p. 451.

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cola impresa e all’insegna di un auspicato sviluppo «endogeno», c’era chi già immaginava uno spostamento dell’epicentro della crescita dal Centro al Mezzogiorno d’Italia, e vedeva finalmente attivarsi l’agognato «meccanismo autonomo di sviluppo»9. La relativa diffusione di un processo di specializzazione spaziale della produzione induceva il presidente del Censis Giuseppe De Rita a parlare di un nuovo tipo di insediamento territoriale «a pelle di leopardo»10. Una diffusa presenza di piccola impresa, favorita dall’espansione dei distretti industriali, sostituiva l’insediamento concentrato tipico della grande impresa dell’era fordista, sfruttando la crescita di domande flessibili, non più standardizzate sul mercato internazionale11. Nel 1979, mentre stava per chiudersi l’esperienza dell’intervento straordinario, che non aveva risolto ma almeno fermato e parzialmente ridotto il divario tra Nord e Sud nella fase di maggiore sviluppo del paese, il XIII Rapporto del Censis (istituto di ricerca del Cnel) presentava un’originale interpretazione della storia e della situazione attuale del Mezzogiorno, che considerava superata la dicotomia arretratezza/sviluppo per analizzare la realtà di un Mezzogiorno differenziato e in movimento e prevedeva, con grande ottimismo, una prossima soluzione della questione meridionale12. Questo benemerito ottimismo, in anni che non offrivano in Italia occasioni e motivi per un sua diffusa produzione, non era condiviso dalla tradizione meridionalistica che si era spesa nel sostegno alla politica di intervento straordinario attraverso la Cassa, che aveva avuto il merito di porre il Mezzogiorno al centro della politica italiana e di favorirne la trasformazione e l’espansione, 9   G. Lizzeri, Politica industriale e sviluppo economico del Mezzogiorno, in «Quaderni Isveimer», 1978/11-12; Id., Nel Mezzogiorno qualcosa si muove, in «Il Sole 24 Ore», 9 dicembre 1978. 10   La nuova geografia socio-economica del Mezzogiorno in relazione ai modelli diffusivi di imprenditorialità locale, Censis, Roma 1981. 11   S. Brusco, Piccole imprese e distretti industriali, Rosenberg&Sellier, Torino 1989; M. Omiccioli, L.F. Signorini, Economie locali e competizione globale, il Mulino, Bologna 2005. 12   Il Mezzogiorno emergente, in XIII Rapporto sulla situazione sociale del paese Censis, Roma 1979, ora in Gli anni del cambiamento. Il rapporto sulla situazione sociale del paese dal 1976 al 1982, Franco Angeli, Milano 1982, pp. 386 sgg.; G. De Rita, Nuovi termini della questione meridionale, in «Quindicinale di note e commenti Censis», XV, 1979, n. 324, pp. 933 sgg.

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anche se parziali. Certo, l’obiettivo di Saraceno di superare il divario Nord-Sud e unificare economicamente il paese non era stato raggiunto. E questo ispirava a Galasso un giudizio di stampo dorsiano sugli anni del «miracolo economico» e del centro-sinistra come «una grande occasione perduta»13. L’affermazione negli anni Ottanta del neo-liberismo e dell’individualismo privatistico, fondato sulla teoria ultraliberistica del Washington consensus adottato dal Fondo monetario internazionale e perseguito dalle politiche di Thatcher e di Reagan, accentuerà la critica all’interventismo statale di stampo keynesiano e farà immaginare l’avvio di uno sviluppo autopropulsivo nel Mezzogiorno d’Italia grazie all’azione della nuova imprenditoria locale. Un contributo teorico importante all’affermazione di una nuova teoria della crescita, fondata sui vantaggi provocati dalla localizzazione e dalla concentrazione di attività produttive sul territorio, verrà quindi dagli Stati Uniti con la New Economic Geography14. Lungo questa strada l’economista Mariano D’Antonio avrebbe presto criticato la logica sottostante un modello «unitario» di sviluppo imitativo per le aree depresse e indicato invece nella crescita della piccola impresa l’avvio di uno «sviluppo autocentrato» nel Mezzogiorno15. «Si inaugura per il Sud – avrebbe in seguito commentato Giannola – la liturgia dello sviluppo autopropulsivo affidato alle piccole imprese locali, con un vagheggiamento di quanto si andava impetuosamente verificando nelle regioni del Centro-Nord-Est. [...] La cloroformizzazione delle analisi e del dibattito sul problema dello squilibrio territoriale è un aspetto rilevante del degrado politico che caratterizza gli anni ottanta in Italia»16. La spesa pubblica nel Mezzogiorno già da metà anni Settanta si era spostata dagli investimenti produttivi al sostegno dei 13   G. Galasso, Meridionalismo 1978: il saio dell’umiltà, in Id., Passato e presente del meridionalismo, II, Cronache discontinue degli anni settanta, Guida, Napoli 1978, p. 216, ora in Id., Il Mezzogiorno da «questione» a «problema aperto» cit., p. 306. 14   P. Krugman, Increasing Returns and Economic Geography, in «Journal of Political Economy», 99/3, 1991, pp. 483 sgg. 15   Indagini Territoriali, Unioncamere, Il Mezzogiorno degli anni ’80: dallo sviluppo imitativo allo sviluppo autocentrato, a cura di M. D’Antonio, Franco Angeli, Milano 1985. 16   Giannola, L’evoluzione della politica economica e industriale cit., p. 469.

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redditi, mediante la crescita di stipendi e pensioni, che incenti­ vavano la domanda e accrescevano quindi il livello dei consumi di merci, prodotte in larga misura nell’area centro-settentrionale17. Diverse ricerche econometriche indicheranno i modi di funzionamento del sistema economico meridionale rispetto al modello nazionale e all’economia del Centro-Nord negli anni Ottanta. La domanda meridionale di merci non attivava una struttura produttiva al Sud, ma veniva soddisfatta dalle imprese del CentroNord. Attraverso questo meccanismo la gran parte delle risorse pubbliche indirizzate al sostegno dei redditi meridionali ritornava al Centro-Nord come domanda di prodotti. La crescita dei redditi meridionali sosteneva così lo sviluppo produttivo dell’Italia centro-settentrionale18. Nel Mezzogiorno d’Italia accadeva quindi che crescessero insieme i consumi e i disoccupati, mentre riprendeva ad aumentare il divario rispetto al Centro-Nord e alle aree avanzate d’Europa19. Si era creato un meccanismo di interazione per cui le grandi imprese collocate nel Nord del paese si giovavano largamente della spesa pubblica che, invece di favorire l’industrializzazione del Sud, consolidava l’espansione delle aziende settentrionali, sia sussidiandone la parziale dislocazione nelle province meridionali, sia sostenendole come terminale della crescente domanda di 17   A. Graziani, Il blocco sociale del Sud (1982), in Id., I conti senza l’oste. Quindici anni di economia italiana, Bollati Boringhieri, Torino 1997, pp. 155 sgg.; N.M. Boccella, Il Mezzogiorno sussidiato. Reddito, prodotto e trasferimenti alle famiglie nei comuni meridionali, Franco Angeli, Milano 1982; A. Giannola et al., Crisi industriale e sistemi locali nel Mezzogiorno: indagine sul cambiamento in tre regioni meridionali, Franco Angeli, Milano 1985. 18   M. Damiani, C. Del Monte, L. Litta, Un modello macroeconometrico biregionale (Nord-Sud) per l’economia italiana: risultati preliminari, in «Contributi all’analisi economica. Ricerche quantitative e basi statistiche per la politica economica», n. 1, 1987, p. 58; Il modello econometrico biregionale Svimez dell’economia italiana (DModels): presentazione e primi risultati, in «Studi Svimez», n. 1, XL, 1987, p. 28; M. D’Antonio, R. Colaizzo, G. Leonello, Un modello a due regioni. Centro Nord-Mezzogiorno dell’economia italiana, in «Rassegna economica», n. 6, LI, 1987, p. 1087; A. Del Monte, A. Giannola, I problemi dello sviluppo industriale del Mezzogiorno, in Nella competizione globale. Una politica industriale verso il 2000, a cura di A. Battaglia e R. Valcamonici, Laterza, Roma-Bari 1989, pp. 304 sg. 19   G. Galli, M. Onado, Dualismo territoriale e sistema finanziario, in Banca d’Italia, Il sistema finanziario nel Mezzogiorno, numero speciale dei «Contributi all’analisi economica», 1990, pp. 10 sgg.

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merci proveniente dal Mezzogiorno sussidiato tramite il sostegno statale ai redditi individuali. Questa politica conseguiva quindi il doppio risultato di consolidare un nuovo blocco di potere politico-amministrativo nelle regioni meridionali e di giovare all’economia settentrionale indirizzando verso di essa una quota consistente delle risorse trasferite provvisoriamente verso Sud. Questo conveniente equilibrio di interessi durerà grosso modo dalla crisi petrolifera del ’73 fino alla seconda metà degli anni Ottanta. Un nuovo blocco di potere politico-sociale Dalla metà degli anni Settanta riprende a crescere il divario tra Nord e Sud e, all’interno del Sud, tra il Mezzogiorno adriatico e il Mezzogiorno tirrenico. La ristrutturazione industriale e la connessa modernizzazione dei servizi all’impresa, sostenute dallo Stato con incentivi e tolleranza dell’evasione fiscale e del lavoro nero, investono la parte nordorientale del paese e si diffondono scendendo lungo la costa adriatica. Il Mezzogiorno tirrenico viene invece colpito dalla progressiva scomparsa delle imprese industriali a partecipazione statale e dall’espansione di una moderna criminalità di orizzonte internazionale. Le mafie del Sud, già molto attive nel contrabbando di tabacco e di armi e nel narcotraffico, si costituiscono ora come imprese economiche abili a intercettare una quota consistente dei finanziamenti statali, erogati negli anni Ottanta non più come investimenti produttivi ma nella forma di assistenza alla dipendenza e alle emergenze del Mezzogiorno20. Già alla scadenza della legislazione straordinaria nel 1980 si determinava una caduta di attenzione e di proposta politica per il Sud, frammista di frequente al fastidio per l’aggravarsi delle condizioni produttive e occupazionali delle regioni ­meridionali21. La 20   S. Lupo, Le mafie, in Storia dell’Italia repubblicana, III cit., t. II, Istituzioni, politiche, culture, Einaudi, Torino 1997, pp. 241 sgg.; Barbagallo, Storia della camorra cit., pp. 147 sgg. 21   S. Cafiero, Le difficili prospettive della politica meridionalistica, in «Rivista economica del Mezzogiorno», II, 1988/1, pp. 123 sgg.

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concentrazione delle risorse statali nella riconversione dell’industria settentrionale provocava un ritardo quadriennale del governo nella preparazione di una nuova legge per il Mezzogiorno. Solo alla fine del 1983 veniva approvata una legge di iniziativa governativa per il rilancio della politica di intervento straordinario nel Mezzogiorno. Ma, al principio di agosto 1984 un voto parlamentare «imprevisto» non approvava l’ennesimo decreto di proroga della Cassa per il Mezzogiorno. L’avvio del processo, non breve, di liquidazione della Cassa non comportava però la fine della politica di intervento straordinario, che andava «rinnovata» nelle intenzioni del governo e anche dell’opposizione comunista. Le novità sarebbero consistite nella restituzione di competenze e funzioni alle amministrazioni ordinarie e in programmi triennali proposti dalle regioni e attuati da una pluralità di soggetti pubblici e privati, amministrativi e imprenditoriali. Questi progetti però erano ancora al livello di un disegno di legge, che sarebbe pervenuto alla V commissione della Camera soltanto nel maggio 198522. La nuova normativa per il Mezzogiorno sarebbe stata promulgata nel marzo 1986: la legge 64 veniva approvata, qualche mese prima ma senza la copertura finanziaria, con l’astensione comunista e col voto contrario della Sinistra indipendente, guidata dal deputato e giurista napoletano Gustavo Minervini23. La complessità dei meccanismi e degli adempimenti sul piano del coordinamento e del decentramento si univa alla difficoltà di individuare il soggetto titolare di iniziativa nei grandi interventi intersettoriali24. La macchinosità delle procedure, la scarsa funzionalità dei nuovi organismi (Dipartimento, Agenzia), l’incapa-

22   Atti parlamentari, Senato della Repubblica, IX Legislatura, Disegni di legge e relazioni. Documenti, Disegno di legge n. 969, comunicato alla Presidenza il 9 ottobre 1984, pp. 2 sgg. 23   Atti parlamentari, Camera dei deputati, IX Legislatura, Discussioni, seduta del 19 febbraio 1986, pp. 38881 sgg. 24   M. Allegra, Evoluzione della normativa sulla esecuzione di infrastrutture nel Mezzogiorno: prime considerazioni; G. Corso, Gli accordi di programma; C. Meoli, Le Regioni e il nuovo intervento straordinario, tutti in «Rivista giuridica del Mezzogiorno», II, 1988/1; M. Annesi, Bilancio di una legge, in «Rivista giuridica del Mezzogiorno», III, 1989/2.

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cità delle regioni meridionali sul terreno programmatico si congiungevano con la difficoltà di individuare concrete prospettive di sviluppo produttivo. Bastavano due anni per redigere rapporti ufficiali sul fallimento della legge 64. La Relazione generale sulla situazione economica del paese 1988 attestava che la spesa pubblica nelle regioni meridionali era ormai sganciata da qualsiasi ipotesi generale di trasformazione e rispondeva per lo più a esigenze di carattere locale e particolare25. Il giudizio critico di Graziani era stato invece immediato: «Gli interventi rivolti ai settori produttivi, come le provvidenze previste dalla legge 64 per il Mezzogiorno o dalla legge De Vito a favore di iniziative cooperative, sembrano più orientati a perpetuare la tradizione dei sussidi clientelari che non alla formazione di nuova capacità produttiva»26. In questo orizzonte finiva per inscriversi anche la limitata determinazione di «accordi di programma», uno dei punti innovativi della legge 64. Nel maggio ’87 il ministro per il Mezzogiorno ne stipulava due: il primo prevedeva quasi 2.000 miliardi di contributi alla Fiat su 3.200 di investimenti programmati per la ristrutturazione dell’impianto di Cassino; il secondo assegnava alla Olivetti 567 miliardi di contributi statali su un investimento di 770 nel Sud. Poco dopo il mercante di grano Franco Ambrosio avrebbe avuto circa 900 miliardi, anche grazie al sostegno del presidente della commissione Bilancio della Camera Cirino Pomicino. La difficoltà di trovare qualcosa di nuovo e di più efficace per un intervento a favore del Mezzogiorno era stata però «fortunosamente» superata già da qualche anno, grazie al terremoto del novembre ’80 in Campania e in Basilicata, da cui era scaturito un nuovo settore dell’economia e della politica dello sviluppo: «l’economia e la politica della catastrofe»27. 25   Ministero del Bilancio e della Programmazione economica, Relazione generale sulla situazione economica del paese 1988, Roma 1989. 26   A. Graziani, Mezzogiorno oggi, in «Meridiana», 1987/1, p. 215. 27   A. Becchi, Catastrofi, sviluppo e politiche del territorio: alcune riflessioni sull’esperienza italiana, in «Archivio di studi urbani e regionali», n. 31, 1988; L’affare terremoto. Libro bianco sulla ricostruzione, a cura di F. Barbagallo, A. Becchi e I. Sales, Sciba, Angri 1989.

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Contro il parere di lungimiranti tecnici e politici, da RossiDoria a Compagna28, da Minervini a Vezio De Lucia, che volevano evitare il ricorso a leggi e organismi speciali, fu scelta la strada dei poteri straordinari per la gestione dell’enorme spesa pubblica destinata, lungo gli anni Ottanta, alla ricostruzione delle aree terremotate e a variegate «grandi opere», più o meno connesse. L’esigenza di liberare la spesa pubblica da lacci e lacciuoli venne esposta per tempo alla Camera dall’onorevole Cirino Pomicino: «Mi domando fin dove le procedure di tipo garantista che noi puntualmente tentiamo di immettere nel servizio della spesa pubblica, e quindi gestire dalla pubblica amministrazione, siano o possano essere ancora un retaggio di un paese moderno che ha bisogno, anche rispetto ai livelli di inflazione esistenti nel paese, di avere una spesa pubblica rapida, pronta nei suoi meccanismi e nella sua capacità di erogazione. Questo è un problema politico, che noi dovremo affrontare quando andremo ad affrontare più specificamente il problema del Mezzogiorno»29. L’istituzionalizzazione dell’emergenza, a partire da questa occasione ed estesa poi agli eventi più diversi, metterà in moto un processo di sostituzione dell’eccezione alla norma, in un nuovo contesto di procedure e di poteri straordinari, liberati dai controlli amministrativi e contabili. La concentrazione e l’incontrollabilità dei poteri modificherà il funzionamento del sistema politico-amministrativo, operando una restrizione del processo di rappresentanza e di decisione democratica30. L’espansione delle autonomie e dei poteri locali nel Mezzogiorno non rinnoverà dal basso il sistema politico, ma ne accentuerà e diffonderà i difetti: spartizione clientelare delle risorse, lottizzazione degli incarichi, incapacità di progettazione generale, tutela di interessi polverizzati, cointeressenze in operazioni illeci-

28   Università di Napoli/Centro di specializzazione e ricerche economico-agrarie di Portici, Situazione, problemi e prospettive dell’area più colpita dal terremoto del 23 novembre 1980, Einaudi, Torino 1981; F. Compagna, Dal terremoto alla ricostruzione, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1981. 29   Atti parlamentari, Camera dei deputati, VIII Legislatura, Discussioni, seduta del 10 aprile 1981, pp. 28786 sg. 30   F. Barbagallo, Concentrazione dei poteri, riduzione della democrazia, diffusione dei modelli criminali, in Camorra e criminalità organizzata in Campania, a cura di F. Barbagallo, Liguori, Napoli 1988, pp. 61 sgg.

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te, contiguità interessata e sempre più subordinata alle organizzazioni criminali31. Il consolidamento e l’espansione delle mafie negli anni Ottanta sono connessi alla diffusione di comportamenti illegali e criminali nell’attività politica e amministrativa. Il controllo dei cospicui flussi di spesa pubblica decentrata determina la formazione di un nuovo ceto di mediatori politici – amministratori locali, rappresentanti di enti pubblici – largamente permeabile alle pressioni di clan criminali impegnati a espandere con l’inserimento nel ricco mercato degli appalti pubblici la potenza economica acquisita col narcotraffico e le altre imprese illegali32. Ai precedenti rapporti di subordinazione che legavano la criminalità alla politica si sostituiscono forme di cointeressenza in vere e proprie lobby politico-criminali, coalizioni affaristiche impegnate ad acquisire quote consistenti dei flussi di spesa pubblica. I clan criminali operano con efficacia nell’intreccio tra decisioni politiche, relazioni sociali, iniziative economiche. In questo senso non si contrappongono, ma si inseriscono dentro lo Stato, la società, l’economia. Si consolida e si propaga un modello di spartizione allargata, che produce un miscela micidiale di traffici e affari legali e illegali, interessi economici, sostegni elettorali, attività criminali. Il forte incremento della spesa pubblica per la ricostruzione post-sismica, deviata dalle abitazioni alle grandi e spesso inutili infrastrutture a partire dal 1983, giunge alla fine del «grandioso decennio» alla cifra iperbolica di 60 mila miliardi di lire. Questo processo decennale trasformerà la Campania nel luogo privilegiato di intrecci tra clan criminali in ascesa, potentati politici, amministrazioni locali, grosse imprese edili di tutte le specie (private, pubbliche, cooperative)33. 31   F. Barbagallo, G. Bruno, Espansione e deriva del Mezzogiorno, in Storia dell’Italia repubblicana, III, t. II cit., pp. 416 sgg. 32   L. Graziano, Clientelismo e sviluppo politico: il caso del Mezzogiorno, in Id., Clientelismo e mutamento politico, Franco Angeli, Milano 1974, pp. 352 sgg.; A. Pizzorno, Il sistema pluralistico di rappresentanza, in L’organizzzione degli interessi nell’Europa occidentale, a cura di S. Berger, il Mulino, Bologna 1983, pp. 534 sgg.; G. Gribaudi, Mediatori. Antropologia del potere democristiano nel mezzogiorno, Rosenberg&Sellier, Torino 1991, pp. 65 sgg. 33   Commissione parlamentare di inchiesta sulla attuazione degli interventi per la ricostruzione e lo sviluppo dei territori della Basilicata e della Campania colpiti dai terremoti del novembre 1980 e febbraio 1981, Relazione conclusiva e relazio-

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Il crescente degrado della vita politica e delle condizioni civili e il distorto funzionamento delle istituzioni e degli enti locali nella gran parte del Mezzogiorno stimolava, verso la metà degli anni Ottanta, una riflessione sociologica ed economica, che metteva in risalto l’importanza dei fattori politico-istituzionali e socio-culturali per favorire o ritardare lo sviluppo economico. Si attutivano invece gli entusiasmi circa la diffusione della piccola impresa lungo il Mezzogiorno adriatico. Arnaldo Bagnasco sottolineava i guasti prodotti dalla subordinazione del mercato alle modalità di governo politico e amministrativo consolidate nel Sud. «La società meridionale è oggi la parte della società nazionale con maggiore regolazione politica, il contrario delle regioni centro-nordorientali che sono la parte della società nazionale a maggiore componente di regolazione di mercato. Inoltre si tratta di un sistema politico organizzato per gestire il sottosviluppo. Da questo punto di vista, un presupposto essenziale per l’industrializzazione diffusa è una grande trasformazione politica»34. Anche Sylos Labini insisteva sulla centralità dei fattori politico-istituzionali e civili per rendere efficace una strategia di sviluppo economico e criticava la sottovalutazione della «arretratezza storica dell’assetto civile» della società meridionale, che costituiva invece un grosso ostacolo allo sviluppo economico. Per questo gli appariva ora prioritario, in un piano di sviluppo del Mezzogiorno, la riorganizzazione delle istituzioni, «cominciando dagli organi rappresentativi e andando poi alla pubblica amministrazione, alla giustizia, alle scuole»35. Carlo Trigilia avrebbe quindi stigmatizzato l’abnorme estensione del ruolo regolativo delle strutture politiche, sia statali che criminali: «il vincolo forse principale a un crescita autropropulsiva del Mezzogiorno viene oggi proprio dal suo interno: risiede nel peso ne propositiva, approvate il 27 gennaio 1991, Camera dei deputati-Senato della Repubblica, Roma 1991; F. Barbagallo, Napoli fine Novecento. Politici camorristi imprenditori, Einaudi, Torino 1997, pp. 61 sgg. 34   A. Bagnasco, Le tre Italie rivisitate, in «Progetto», n. 14, 1983. 35   P. Sylos Labini, L’evoluzione economica del Mezzogiorno negli ultimi trent’anni, in «Banca d’Italia – Temi di discussione», n. 46, 1985, pp. 3 sgg.; Id., Intervista su sottosviluppo e Mezzogiorno, in «Rivista economica del Mezzogiorno», II, 1988, p. 22.

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eccessivo dei rapporti di potere politico nella società»36. La regolazione politica e la scarsa incidenza delle regole di mercato accrescono nel Mezzogiorno il potere delle organizzazioni criminali, che si pongono al centro delle relazioni sociali, economiche, politiche. Intanto, già dalla metà degli anni Ottanta, il quadro economico internazionale mutava le direttrici di marcia. Dopo una fase dominata dal decentramento produttivo iniziava un periodo di crescente concorrenzialità e integrazione dei mercati internazionali che, mediante accordi e fusioni, incrementava le dimensioni d’impresa, necessarie per i grandi investimenti nella ricerca e nelle nuove tecnologie. In questo nuovo contesto era evidente il rischio di una ulteriore marginalizzazione delle regioni meridionali. Da qui nasceva la rinnovata insistenza della Svimez, guidata ancora da Saraceno, per un forte rilancio del processo di industrializzazione nel Mezzogiorno. Nel Rapporto del 1988 si denunciava l’improduttività della ingente spesa pubblica erogata al Sud, perché era «sempre preponderante il peso dei ceti direttamente o indirettamente interessati ad una spesa pubblica, della quale la funzione distributiva ha prevalso su quella di propulsione dello sviluppo»37. Ma il quadro che presenta la gran parte del Mezzogiorno a cavallo dell’ultimo decennio del Novecento è tra i più oscuri e preoccupanti, sia per la mancanza quasi assoluta di prospettive di lavoro legale specie per giovani e donne, che per le drammatiche condizioni della convivenza civile, degradate per il dilagare della criminalità. Nell’autunno 1989 interverrà anche la Conferenza dei vescovi italiani per denunciare il carattere «incompiuto, distorto, dipendente e frammentato» del peculiare tipo di sviluppo realizzatosi nel Mezzogiorno e parlerà in definitiva di una «modernizzazione senza sviluppo»38. L’anno dopo Saraceno e la Svimez denunceranno «le mere apparenze della modernità» e dedicheranno un 36   C. Trigilia, Le condizioni «non economiche» dello sviluppo: problemi di ricerca sul Mezzogiorno d’oggi, in «Meridiana», n. 2, 1988, p. 184; C. Trigilia, Sviluppo senza autonomia. Effetti perversi delle politiche nel Mezzogiorno, il Mulino, Bologna 1992. 37   Rapporto Svimez 1988 sull’economia del Mezzogiorno, il Mulino, Bologna 1988. 38   Episcopato Italiano, Sviluppo nella solidarietà. Chiesa italiana e Mezzogiorno, Edb, Bologna 1989, p. 5.

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capitolo del Rapporto 1990 alla crisi della legalità e delle istituzioni nel Mezzogiorno. «Ma quando la modernizzazione è solo apparente e non investe le basi economiche, le strutture sociali, i modi di partecipazione alla vita collettiva, con essa possono ben convivere fenomeni di sopraffazione e di asservimento, di indistinzione tra pubblico e privato, di scambio di protezioni e fedeltà personali, le cui radici sembrerebbero invece appartenere a un lontano passato lazzaronesco e feudale. Questa convivenza di modernizzazione apparente e di residuati socio-culturali del passato è il terreno comune di coltura dell’assistenzialismo, della corruzione e della piccola e grande criminalità»39. Profondamente scoraggiato, a pochi mesi dalla morte, Saraceno denuncerà il predominio nel Mezzogiorno di un nuovo «blocco sociale», più diffuso e quindi molto più forte del vecchio «blocco agrario», che era stato il bersaglio del meridionalismo otto-novecentesco. «È all’azione di questo nuovo blocco sociale, che possono in ultima analisi ricondursi l’esaurimento di fatto, cui si è assistito in questi anni, della politica meridionalistica, e la sua sostituzione con interventi parziali di breve periodo, destinati a far fronte a questa o a quella emergenza con il ricorso sempre più frequente a procedure e strumenti speciali e derogatori, che hanno di fatto sottratto quegli interventi ai normali controlli di efficacia e di efficienza»40. Il Mezzogiorno moderno degli anni Novanta è percorso da figure sociali e da aggregazioni di interessi che si sono agganciati proficuamente al nuovo corso di espansione assistita e sono inseriti, a vari livelli, dentro molteplici meccanismi di ripartizione controllata politicamente delle risorse pubbliche. Su questa base si consolida un sistema politico-amministrativo che gestisce, secondo criteri antitetici ai princìpi di legalità e di interesse pubblico, diversi circuiti di mercato (politica, appalti, lavoro). Il vertice è occupato da politici, imprenditori, tecnici, clan criminali; alla base premono vasti e differenziati settori della società, per ottenere risposte anche a bisogni essenziali. Si diffonde una 39   Rapporto Svimez 1990 sull’economia del Mezzogiorno, il Mulino, Bologna 1990, p. 17. 40   Ivi, p. 19.

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nuova forma di «legalità criminale», che permea questa lunga fase di espansione assistita del Mezzogiorno e trova piena espressione nella applicazione della legislazione straordinaria alle più diverse emergenze41. Lo scambio politico di protezioni, favori, sussidi, affari produce un sottosistema regionale di potere politico tipico delle economie e delle società dipendenti che, per sopravvivere, ha ogni interesse a bloccare la formazione di un contesto economico-sociale regolato dai meccanismi del mercato. Era quanto sosteneva da tempo Graziani e ribadirà nel ’90 in un convegno della Società italiana degli economisti, sui problemi e le prospettive dello sviluppo economico. «Si lamenta sovente il fatto che, nelle regioni del Mezzogiorno, mancherebbe lo spirito imprenditoriale e la disposizione al rischio. Ma, cosa assai più grave, sulla quale non si richiama l’attenzione con sufficiente vigore, è che nelle regioni del Mezzogiorno non soltanto la capacità delle amministrazioni è largamente inadeguata rispetto alle esigenze dello sviluppo, ma si ha addirittura l’impressione che le classi dominanti e i responsabili della cosa pubblica assumano, rispetto allo sviluppo e all’evoluzione della struttura economica, un atteggiamento di scarso interesse, se non addirittura ostile»42. L’apparato politico-amministrativo e il sistema economico del Sud dipendevano entrambi dal controllo dell’assegnazione delle risorse esterne e quindi erano definiti dalla mancanza di autonomia e dalla dipendenza subalterna. Così vivevano e prosperavano. Senza questo quadro di riferimento entrambi gli apparati sarebbero rapidamente scomparsi. Quindi non potevano che essere almeno disinteressati rispetto a una prospettiva di sviluppo autonomo, da cui sarebbero stati semplicemente cancellati43. Al principio degli anni Novanta il Mezzogiorno non può certo definirsi arretrato. Anzi, si è inserito in qualche modo nell’economia europea e si è agganciato ai paesi avanzati, pur mantenendo la distanza dall’Italia settentrionale, che però è tra le aree più svilup  Barbagallo, La modernità squilibrata del Mezzogiorno d’Italia cit., pp. 70 sg.   A. Graziani, Sulla teoria dello sviluppo economico, in Il Mezzogiorno. Sviluppo o stagnazione?, a cura di M. D’Antonio, il Mulino, Bologna 1992, p. 27. 43   Barbagallo, Bruno, Espansione e deriva del Mezzogiorno cit., p. 418. 41 42

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pate d’Europa. Nel decennio 1981-91 la deindustrializzazione ha investito le regioni meridionali dove s’erano insediate le imprese pubbliche e le aziende sovvenzionate dallo Stato, soprattutto quelle straniere: gli addetti all’industria si riducono di 110 mila unità, determinando una forte contrazione dell’occupazione legale. Il fatto poi che molti di coloro che dichiarano di non avere un’occupazione svolgano attività illegali o sommerse non migliora la situazione. «Semmai – noterà una ricerca della Banca d’Italia – la aggrava, sottolineando i fattori di disgregazione sociale e di diffusione della criminalità che trovano nella carenza di posti di lavoro stabili un terreno di coltura particolarmente fertile»44. Nel settembre 1991 un comitato presieduto da Massimo Severo Giannini presentava una proposta di referendum abrogativo limitata agli interventi infrastrutturali e non agli incentivi alle attività produttive della politica di intervento straordinario. Ma la spesa statale per il Sud era ormai assimilata, in larga parte dell’opinione pubblica italiana, all’improduttività e allo spreco, sia per motivi reali, sia per l’incalzante polemica antimeridionale della Lega Nord45. In realtà la spesa pubblica, come spesa di amministrazioni centrali e territoriali, risulta più alta nel Centro-Nord che nel Mezzogiorno. Per quanto diffuse, sono quindi false le affermazioni che attribuiscono al Sud un eccessivo volume di spesa pubblica. «In questo contesto – secondo un documentato giudizio della Svimez – è difficile affermare che il Mezzogiorno soffre di un eccesso di risorse o che spende troppo; è piuttosto sulla capacità ed efficacia della spesa che occorrerebbe indirizzare le critiche e gli interventi»46. Recenti comparazioni hanno dimostrato come sia stato di gran lunga maggiore l’impegno finanziario realizzato dalla Germania unita, tra XX e XXI secolo, per avviare il superamento dello squilibrio che penalizzava fortemente la Germania dell’Est. Si stima intorno ai 1.500 miliardi di euro la somma dei trasferimenti netti verso la Germania orientale per il periodo 1991-2003. L’integrazio  Galli, Onado, Dualismo territoriale e sistema finanziario cit., pp. 10 sgg.   Cafiero, Storia dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno cit., pp. 138

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sgg.

46   Rapporto Svimez 2010 sull’economia del Mezzogiorno, il Mulino, Bologna 2010, p. 235.

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ne tra le due aree germaniche poteva così progredire rapidamente: già tra il 1991 e il 1996 il Pil era cresciuto del 44,9% in Germania Est rispetto all’aumento del solo 2,6% nella Germania Ovest. Nello stesso periodo il Pil per abitante della Germania Est era raddoppiato in rapporto al Pil dell’area euro, crescendo dal 41 all’80%47. Non va dimenticata peraltro la profonda differenza nella struttura economica delle due regioni europee. Tra le guerre mondiali il Mezzogiorno d’Italia aveva visto peggiorare la sua condizione di area agricola largamente arretrata. Negli anni Trenta invece la Germania dell’Est era una delle regioni industriali più sviluppate d’Europa, sede delle imprese tecnologicamente più avanzate del mondo, con un reddito per abitante più alto della Germania occidentale di circa il 27%48. La severa politica di bilancio conseguente alla firma del trattato di Maastricht nel ’92 e il disfacimento del sistema politico italiano nel ’93 accelerarono la cessazione dell’intervento straordinario, fissata per decreto legge al 15 aprile 1993, anche al fine di evitare lo svolgimento del referendum. Nel ’93 si realizzò l’evento positivo dell’insediamento Fiat a Melfi. Un ultimo «accordo di programma» aveva concesso agevolazioni finanziarie per 3.100 miliardi di lire a fronte di un investimento aziendale di 6.600 miliardi. Era una «fabbrica integrata» secondo il nuovo «modello Toyota», subentrato a quello fordista e basato sul principio del just in time. La produzione era correlata alla domanda e aumentava la «flessibilità» nell’organizzazione della forza-lavoro, favorita dalla minore tradizione sindacale dell’area49. Insieme all’intervento straordinario, che da molto tempo era diventato profondamente diverso dal progetto iniziale, strutturalmente fallito anzitutto sul terreno politico, cessava definitivamente l’attenzione e l’interesse per il Mezzogiorno, che da molto tempo aveva anch’esso perduto la centralità goduta nel primo decennio del dopoguerra. 47   A. Gieseck, Prospettive per il processo di convergenza economica della Germania dell’Est, in «L’Industria», n.s., XXVII, gennaio-marzo 2006, p. 45. 48   H.-W. Sinn, F. Westermann, Due «Mezzogiorni», ivi, p. 49. 49   L’industrializzazione del Mezzogiorno: la Fiat a Melfi, Svimez-il Mulino, Bologna 1993; D. Cersosimo, Da Torino a Melfi. Ragioni e percorsi della meridionalizzazione Fiat, in «Meridiana», n. 21, 1994, pp. 61 sgg.

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Del resto non era solo l’antimeridionalismo razzistico della Lega Nord a lanciare palle infuocate contro il Sud, di cui si voleva ignorare il sostegno fornito allo sviluppo del Nord con la forzalavoro a buon mercato, poi con l’insediamento dell’industria di base e la delocalizzazione dell’industria dal Nord, infine con l’acquisto crescente di merci settentrionali. L’espansione differenziata e la parziale modernizzazione diversamente realizzata nelle province del Mezzogiorno aveva prodotto una visione ottimistica della condizione meridionale, troppo facilmente assimilata alle parti più avanzate d’Italia, in una concezione sostanzialmente neo-liberistica della diffusione autoctona dello sviluppo. La parziale espansione di alcune aree meridionali ma soprattutto la geniale idea, naturalmente meridionale, di dissolvere il Mezzogiorno in tanti piccoli, amabili Sud erano riuscite nell’impresa storica di abolire la questione meridionale. In verità era la seconda volta, dopo il fascismo, che si procedeva alla negazione di questa «invenzione». Purtroppo si trattava di analisi errate e di speranze illusorie. Il crescente sviluppo delle tre mafie italiane (con l’appendice pugliese) e il loro predominio in tre grandi regioni come la Campania, la Calabria e la Sicilia, che pure era fenomeno ben visibile e conosciuto, avrebbe dovuto raffreddare gli eccessivi entusiasmi. Ma, come aveva ben visto Nitti, le «illusioni pericolose» mantenevano un grande fascino sulle menti meridionali. E così anche dal Sud veniva un originale contributo alla dissoluzione della questione meridionale che, alla fine del Novecento, scompariva dallo scenario politico italiano. Mentre si affermava, con un vero colpo di teatro, la «questione settentrionale»50. Questa sì era una «invenzione», ma di grande successo: il male davvero «oscuro» della più ricca e sviluppata macroregione d’Europa, che si scopriva vittima d’ingiustizia fiscale a vantaggio del Sud51. 50   Analisi di ampio respiro si trovano in Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Anno XLI – La questione settentrionale. Economia e società in trasformazione, a cura di G. Berta, Feltrinelli, Milano 2007. 51   Un modello di propaganda senza fondamento si trova in L. Ricolfi, Il sacco del Nord. Saggio sulla giustizia territoriale, Guerini, Milano 2010.

IX Da un millennio all’altro Le aree depresse d’Italia Gli anni Novanta si aprono nel modo peggiore per il Mezzogiorno d’Italia. La grave crisi economica, internazionale e nazionale, spegne i malriposti entusiasmi e ottimismi degli anni Ottanta. Il contenimento della spesa statale e la necessità di ridurre il debito pubblico, per corrispondere ai parametri di Maastricht, aggravano le condizioni del Mezzogiorno, che vede diminuire anche il flusso delle risorse trasferite mediante l’intervento ordinario dello Stato. Nella prima metà degli anni Novanta, mentre si completa il processo di globalizzazione, il Sud attraversa un periodo di intensa recessione, aggravata dalla lunga mancanza di qualsiasi azione pubblica fino al 1998. La disoccupazione meridionale ascende a livelli altissimi, proprio mentre al Nord c’è quasi piena occupazione. L’indice di disoccupazione nel 1996 sfiora il 22% e oscilla dal 12% di Ragusa al 30,5 di Caserta, fino al 34,6% di Enna. Torna a crescere il divario tra Centro-Nord e Sud. Nel decennio 1985-95 il prodotto per abitante al Sud scenderà dal 60 al 55% di quello registrato nel Centro-Nord. Si riduce anche la spesa pubblica pro capite nel Mezzogiorno rispetto alla spesa nelle regioni del Centro-Nord. Di conseguenza si abbassa il livello dei consumi meridionali1. Intanto la «questione meridionale» scompare anche nella decisiva sede europea, mentre era stata inserita nel Trattato di Roma 1   Rapporto Svimez 1997 sull’economia del Mezzogiorno, il Mulino, Bologna 1997, pp. 227 sgg.

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del ’56 con un paragrafo scritto da Saraceno. Ora veniva inglobata nel vasto e generico contenitore delle aree depresse europee. In relazione con gli obiettivi definiti dalla politica regionale dell’Unione Europea, con la riforma dei Fondi strutturali nel 1988 e con le integrazioni del 1993, la politica regionale italiana inserirà le iniziative a sostegno del Mezzogiorno all’interno del sistema del nuovo intervento ordinario nelle «aree depresse del territorio nazionale». I «fondi strutturali» europei, da cofinanziare a livello nazionale e regionale, hanno per primo obiettivo la «promozione dello sviluppo e dell’adeguamento delle regioni in ritardo di sviluppo». In quest’ambito rientrano tutte le regioni meridionali, tranne una parte dell’Abruzzo, con una popolazione di circa 20 milioni di abitanti. Gli aiuti europei sono poi previsti per le aree «gravemente colpite dal declino industriale» (obiettivo 2), e per «lo sviluppo e l’adeguamento strutturale delle zone rurali» (obiettivo 5b). Nel 1994-95 i governi Berlusconi e Dini procedono alla definizione delle «aree depresse del territorio nazionale», che potranno ricevere i finanziamenti europei. L’iniziativa spetta al ministro del Bilancio Giancarlo Pagliarini, leghista. Diventano «aree depresse» le più ricche e industrializzate zone d’Europa: quasi tutto il territorio compreso tra Milano e Varese, molti comuni veneti intensamente sviluppati, quartieri di Torino, Genova, Trieste, Reggio Emilia. La definizione di «area depressa» consente a questi ricchi territori di godere anche dei benefici previsti da una legge presentata dal ministro delle Finanze Tremonti, che tra l’altro defiscalizza gli investimenti. La scarsa pubblicità di questa vicenda, creativa di «ricche aree depresse», portò molti commentatori, disinformati o in malafede, a criticare per questi benefici, rivolti essenzialmente al Nord, il solito assistenzialismo meridionale. Solo il limite europeo al territorio incentivabile impedirà che l’Italia divenga tutta intera un’area depressa. Comunque altri 11,5 milioni di abitanti del Centro-Nord vivono in territori ufficialmente «depressi». In tal modo si certifica che 31,5 milioni di italiani vivono in «zone depresse»: il 56% dell’intera popolazione2. 2   Rapporto Svimez 1994 sull’economia del Mezzogiorno, il Mulino, Bologna 1994, pp. 13 sgg., 195 sgg.; Gli interventi nelle aree depresse del territorio nazionale, a cura di M. Annesi e D. Piazza, Svimez-il Mulino, Bologna 1996; S. Cafiero,

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La stagione dei sindaci e dello sviluppo locale Il crollo repentino del sistema politico italiano e quindi anche del blocco di potere dominante al Sud, insieme alla forte reazione emotiva esplosa dopo gli assassini mafiosi dei giudici Falcone e Borsellino, provocarono una diffusa richiesta di cambiamento che si manifesterà nell’elezione diretta di sindaci di orientamento progressista nelle principali città del Sud: Bassolino a Napoli, Orlando a Palermo, Bianco a Catania, Falcomatà a Reggio Calabria. L’estesa partecipazione sociale al cambiamento politico diffuse la speranza di una possibile strutturazione civile dei comportamenti e delle prospettive delle popolazioni e delle rinnovate classi dirigenti meridionali. Il fallimento delle politiche dirigiste dall’alto stimolava una crescente fiducia nelle possibilità di trasformazione positiva insite nell’iniziativa locale, sia amministrativa e politica, che sociale ed economica. La stagione delle speranze nei nuovi amministratori locali coincide con l’esaltazione dello sviluppo endogeno delle piccole imprese. Colpisce che proprio il sociologo che aveva meglio descritto i «vincoli che vengono dalla pervasività della politica nella società meridionale» si convinca subito delle capacità politiche dei nuovi amministratori e delle solide prospettive dello sviluppo locale anche al Sud3. Tra il 1996 e il 1998 il governo Prodi e in particolare il ministro del Tesoro Ciampi sono impegnati nella storica impresa di conseguire gli obiettivi richiesti per l’adozione della comune moneta europea. Negli stessi anni al Sud si afferma una sorta di egemonia culturale a fondamento sociologico e microeconomico, fondata sulle teorie e i concetti del capitale sociale, dello sviluppo endogeno, della valorizzazione delle amministrazioni e delle forze economiche e sociali locali4.

Questione meridionale e unità nazionale 1861-1995, La Nuova Italia Scienifica, Roma 1996, pp. 215 sgg. 3   Trigilia, Sviluppo senza autonomia cit., p. 8; Id. (a cura di), Cultura e sviluppo. L’associazionismo nel Mezzogiorno, Donzelli, Roma 1995. 4   A. Bagnasco, F. Piselli, A. Pizzorno, C. Trigilia, Il capitale sociale. Istruzioni per l’uso, il Mulino, Bologna 2001.

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Principale bersaglio polemico sarà il «nuovo» meridionalismo industrialista della Svimez di Saraceno e la politica «statalista» dell’intervento straordinario attraverso la Cassa, nonché il pervicace industrialismo dei «vecchi» meridionalisti e dei macroeconomisti. All’origine dell’ondata sociologica e della «nuova» storia dei Sud c’era stata, nel 1979, la scoperta della «pelle di leopardo» emersa nel ricordato Rapporto del Censis di De Rita, che poi nel 1986 suggerirà la strategia insita nella sfortunata legge 64 per l’intero Mezzogiorno, e che ora ricompare come presidente del Cnel per sostenere, in una prima fase, la politica della «programmazione negoziata» lanciata dal ministro Ciampi. Sarà l’esperienza dei patti territoriali, dei contratti d’area, dei contratti di programma, fondata sulla valorizzazione e l’istituzionalizzazione dei «localismi vitali»5. Presto nasceranno contrasti tra il Cnel e il ministero del Tesoro, e De Rita abbandonerà l’impresa al suo destino, che non sarà fausto6. «È sorprendente e amaro – commenterà poi Isaia Sales, già sottosegretario al Tesoro – verificare come, per alcuni riformatori delle politiche pubbliche e per alcuni ‘missionari’ dello sviluppo locale, il giudizio su strumenti da essi voluti e costruiti cambia a seconda del fatto che si abbia o meno un ruolo nella loro concreta attuazione»7. A ogni modo, nella seconda metà degli anni Novanta, si determina un processo di espansione dell’industria esportatrice messa in piedi dalle piccole imprese meridionali, favorito anche dalle precedenti svalutazioni della lira. Anche in Campania e in Basilicata, oltre che nell’area adriatica dall’Abruzzo alla Puglia, si attiverà uno sviluppo locale di produzioni manifatturiere leggere del cosiddetto Made in Italy: tessile, abbigliamento, pellami, calzature, mobilio8. Tra il 1996 e il 1999 il prodotto interno lordo del Sud registrerà risultati positivi: aumenterà del 2,2% annuo, poco più della media 5   G. De Rita, A. Bonomi, Manifesto dello sviluppo locale, Bollati Boringhieri, Torino 1998; G. Becattini, Distretti industriali e made in Italy. Le basi socio-economiche dello sviluppo italiano, Bollati Boringhieri, Torino 1998. 6   A. La Spina, La politica per il Mezzogiorno, il Mulino, Bologna 2003. 7   I. Sales, Riformisti senz’anima, l’ancora del mediterraneo, Napoli 2003, p. 34. 8   L. Meldolesi, Dalla parte del Sud, Laterza, Roma-Bari 1998; G. Viesti, Come nascono i distretti industriali, Laterza, Roma-Bari 2000.

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nazionale. Cresceranno anche il numero delle imprese, l’esportazione, il turismo. Nel quinquennio 1996-2001 l’occupazione meridionale aumenta di oltre 390 mila unità; nello stesso tempo, però, trasferiscono la residenza nel Centro-Nord circa 400 mila meridionali9. In questo periodo si sviluppa anche un evento molto negativo per il Mezzogiorno, che aveva sempre sofferto di una inadeguata presenza e di una insufficiente e discutibile attività delle banche e dell’intero sistema finanziario. Tra un secolo e l’altro si conclude la strana storia della privatizzazione e della fine dell’autonomia del Banco di Napoli. Con una trattativa riservata gestita dal presidente del Consiglio Romano Prodi e dal ministro del Tesoro Ciampi, fuori del controllo del mercato e dell’opinione pubblica, un’asta molto particolare assegna, nel 1997, il 60% del capitale e la gestione del Banco di Napoli all’Istituto nazionale assicurazioni (Ina) e alla Banca nazionale del lavoro (Bnl) per soli 61,6 miliardi di lire. Qualche anno dopo Ina e Bnl acquisiranno una p ­ lusvalenza di circa 3.000 miliardi quando, nel giugno 2000, il gruppo Sanpaolo-Imi comprerà per 6.000 miliardi il Banco di Napoli, che due anni dopo verrà incorporato e perderà, dopo 500 anni, la sua autonomia. A nulla serviranno le proteste e le dimissioni del presidente della Fondazione Banco di Napoli, Minervini, che già aveva inutilmente denunciato in Parlamento i pericoli della legislazione straordinaria per la ricostruzione post-sismica, vent’anni prima10. La «nuova programmazione» mancata Nel 1998, dopo oltre un quinquennio dalla fine dell’intervento straordinario, il governo italiano guidato da Prodi, realizzata l’a-

  Rapporto Svimez 2001 sull’economia del Mezzogiorno, il Mulino, Bologna 2001.   G. Minervini, La crisi del Banco di Napoli e gli interventi della Fondazione. Alcuni documenti, in Dieci anni dell’Istituto Banco di Napoli. Fondazione. 19912001, Napoli 2002; A. Giannola, Il credito difficile, l’ancora del mediterraneo, Napoli 2002; N. De Ianni, Banco di Napoli spa. 1991-2002: un decennio difficile, Rubbettino, Soveria Mannelli 2007. 9

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desione all’euro, decide di occuparsi di nuovo del Mezzogiorno. Il ministero del Tesoro, bilancio e programmazione economica, diretto da Carlo Azeglio Ciampi, costituisce il Dipartimento per le politiche di sviluppo e di coesione (Dps), con il compito di realizzare una «nuova programmazione» degli investimenti pubblici nel Mezzogiorno, in stretta collaborazione e con la piena responsabilizzazione delle amministrazioni regionali e locali. A guidarlo rimarrà per lungo tempo Fabrizio Barca, già dirigente del servizio studi della Banca d’Italia e attento analista delle peculiari forme del capitalismo italiano. Al principio di maggio ’98 l’Italia è finalmente tra gli undici paesi che adottano l’euro come moneta comune. Pochi giorni dopo il Parlamento approva il Documento di programmazione economica e finanziaria (Dpef) presentato dal governo Prodi. Gli obiettivi fondamentali sono due: il rilancio del processo di privatizzazione e lo sviluppo del Sud come «nuova missione politica nazionale», dopo l’insperata adozione dell’euro. Verrà anche fissato un obiettivo per il Programma di sviluppo del Mezzogiorno (Psm): un aumento annuo del Pil del 4%. Era molto tempo che in Italia non si parlava più di programmazione, dopo l’infelice esperienza degli anni Sessanta. Ora la si riproponeva, ma in forma «nuova»; sulla scia del «nuovismo» anni Novanta, rappresentato da una «società civile» che sembrava improvvisamente comparire da un paese che si voleva diverso dalla deprecata «repubblica dei partiti». La nuova politica per il Mezzogiorno si definiva ora come Nuova politica regionale (Npr) e intendeva voltare pagina rispetto all’archiviato intervento straordinario. Puntava invece sullo sviluppo locale dei tanti Sud, sotto la guida di un’amministrazione ordinaria più attenta alle «diverse, diversissime aree», e non più «segnata dalla preferenza per moduli autoritari inadatti a incorporare modelli istituzionalmente orientati al consenso». L’altro punto caratterizzante questa nuova prospettiva di governo per il Sud era la piena fiducia nella «responsabilizzazione dei livelli locali di governo, segnatamente di quello regionale, nelle scelte di investimento». In tal modo – concludeva il principale responsabile di questa ardua impresa – «l’operatore pubblico potrà corrispondere al vento nuovo che spira dal Sud. Concorrendo al cambiamento.

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Per la sua parte»11. Purtroppo il vento del Sud si era già afflosciato nella tradizionale bonaccia, limitando l’estensione e la qualità dei processi di sviluppo locale, e comprimendo rapidamente le capacità di direzione politica e di governo amministrativo delle élites meridionali, che s’erano appena rinnovate. In effetti il cambiamento politico e le esperienze più rilevanti di sviluppo locale si erano concentrate in pochi anni, essenzialmente nel quinquennio 1993-98, dopo l’elezione diretta dei sindaci e prima della programmazione negoziata. Si può parlare quindi di una grande speranza, piuttosto che di una «grande svolta». Lo stesso autore di questa ottimistica definizione dovrà riconoscere poi che «dall’inizio degli anni Duemila questo percorso si è certamente arrestato. Non è facile dire cosa stia esattamente accadendo nella politica delle città del Sud»12. Di sicuro c’era che il tasso di crescita s’era fermato intorno alla metà di quello previsto al 4%. Innanzitutto, dal principio del XXI secolo, il Mezzogiorno veniva colpito, in misura maggiore del Centro-Nord, dall’intensificarsi della concorrenza internazionale attivata dai grandi e medi paesi emergenti: in Asia, in America latina, in Africa. E poi la primavera del risveglio meridionale era sfiorita presto in un rapido autunno. Sindaci e amministratori erano volati verso Roma, al governo, in Parlamento, o tornavano a perdersi in una scadente gestione del potere locale. Gli stessi Rapporti annuali redatti dal Dipartimento per le politiche di sviluppo e di coesione riconosceranno di non aver superato le resistenze dei «ceti dirigenti, amministrativi e imprenditoriali del Sud», che quindi torna a essere definito nel 2005 «un territorio arretrato». L’elenco delle opere compiute con i Progetti per lo sviluppo e i finanziamenti europei è davvero deprimente e dà il senso drammatico di un’altra occasione mancata13. Tra il 1998 e il 2006 la spesa effettiva nel Mezzogiorno è stata di 181 miliardi di euro, comparabile quindi con quanto speso 11   F. Barca, Introduzione, in La nuova programmazione e il Mezzogiorno, Premessa di C.A. Ciampi, Donzelli, Roma 1998, pp. 31 sgg. 12   G. Bodo, G. Viesti, La grande svolta. Il Mezzogiorno nell’Italia degli anni novanta, Donzelli, Roma 1997; G. Viesti, Mezzogiorno a tradimento. Il Nord, il Sud e la politica che non c’è, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 41. 13   N. Rossi, Mediterraneo del Nord. Un’altra idea del Mezzogiorno, Laterza, Roma-Bari 2005, pp. 53 sgg.

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dall’intervento straordinario. Ma il divario tra il Sud e il CentroNord è rimasto invariato, in termini di prodotto pro-capite. Più in generale, secondo il giudizio di alcuni studiosi della Banca d’Italia, per lo sviluppo del Mezzogiorno contano soprattutto le po­litiche nazionali rispetto a quelle regionali. Le debolezze strutturali del Sud, a partire dalla inadeguatezza dei servizi delle pubbliche amministrazioni (istruzione, giustizia, sicurezza, trasporti, sanità) sono particolarmente nocive in un contesto internazionale  sempre più competitivo e producono il ristagno dell’attività produttiva14. Intanto, appena compiuta la storica missione dell’euro, Prodi veniva mandato a casa. Massimo D’Alema era il primo ex comunista a diventare presidente del Consiglio, e forniva un contributo di rilievo alla originale esperienza della «guerra umanitaria», che procederà a bombardare le popolazioni serbe per difendere i «diritti umani» degli albanesi del Kosovo. Come sempre, c’erano diritti più diritti degli altri. Nel frattempo avanzava speditamente il processo di autodistruzione dello schieramento di centro-sinistra al governo. La propaganda antimeridionale della Lega Nord e il successo del centrodestra nelle regioni settentrionali convincevano un centro-sinistra alla disperata ricerca di consenso politico al Nord a far propria l’ideologia della «questione settentrionale» e del connesso federalismo, ch’era la versione debole e largamente inconsistente del farsesco secessionismo leghista. Con una rapidità degna di altre imprese, come ad esempio l’intentata riduzione della disoccupazione giovanile e meridionale, il governo presieduto da Giuliano Amato faceva approvare alla fine della legislatura, nel marzo 2001, una legge costituzionale di riforma dello Stato di tipo federalistico. Fu un’altra operazione politica fallimentare, perché lese il principio della ricerca del massimo consenso per i cambiamenti della Costituzione e perché non portò alcun vantaggio ai suoi ideatori, tanto meno al paese. 14   L. Cannari, M. Magnani, G. Pellegrini, Critica della ragione meridionale. Il Sud e le politiche pubbliche, Laterza, Roma-Bari 2010, pp. 54 sg., viii sg. Il fallimento del disegno di «nuova programmazione» tentato dalla Nuova politica regionale è analizzato anche da A. La Spina, La politica per il Mezzogiorno nell’Italia repubblicana, www.sisp.it/files/papers/2011/antonio-la-spina-1083.pdf, 8 agosto 2011.

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In questi gorghi politici, sempre più autoreferenziali e lontani dagli interessi collettivi, erano già scomparsi tutti i ‘mezzogiorni’ immaginati a percorrere nuove strade di sviluppo, aperte dalle molteplici iniziative avviate dalle rinnovate élites locali. L’alba del nuovo millennio non vedeva sorgere purtroppo l’auspicato processo di trasformazione della società meridionale, variegata da sempre. Segnava piuttosto la scomparsa del Mezzogiorno, nel suo insieme, dall’agenda politica italiana: sia di centro-destra che di centro-sinistra. E questo era l’unico punto di congiunzione unitaria in un paese che pareva aver perso l’orientamento, e anche la bussola. Le mafie del Sud nell’Italia e nel mondo I governi italiani nel nuovo millennio si occupano poco del Sud, tornato a essere uno soltanto e a stare sempre peggio. Il silenzio calato sul Mezzogiorno nella politica nazionale si accompagna alla rinnovata incapacità dei ceti dirigenti del Sud di cogliere quella che si presenta come l’ultima occasione di giovarsi di aiuti esterni per proiettarsi finalmente sulla strada di un solido sviluppo economico-sociale. I cospicui sostegni dell’Unione Europea si disperdono per lo più, nell’Italia del Sud, in azioni e provvedimenti pulviscolari, in­ capaci di progettare ad ampio raggio interventi strutturali in grado di avviare una ripresa dell’espansione e del lavoro produttivi. Il territorio meridionale conserva invece, largamente, questi tratti negativi: debolezza della strutturazione civile, inadeguatezza del contesto istituzionale, esigue capacità realizzative sia del ceto politico che dei funzionari amministrativi, anche quando non si cade nella collusione con le imprese illegali e criminali. Per questo la limitata esperienza dei «distretti industriali» è stata nel Sud molto più debole e precaria che nelle più coese e meglio amministrate regioni del Centro-Nord15. Per questo il Mezzogiorno è toccato solo marginalmente dalla rivoluzione tecnologica e produttiva di fine Novecento e dalle innovazioni legate 15   P. Barucci, Mezzogiorno e intermediazione «impropria», Svimez-il Mulino, Bologna 2008, p. 148.

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alla nuova «economia della conoscenza». Per questo il rischio più grave, nella gran parte del Sud, è il crescente ruolo della criminalità nella gestione d’impresa e nell’offerta di lavoro, sia legale, che illegale. In tutto il Mezzogiorno la lotta alle mafie è stata delegata in modo esclusivo alle forze dell’ordine e alla magistratura. Come se fosse solo un fatto criminale. E non fosse diventato invece, nel corso di alcuni decenni, l’assetto economico-sociale prevalente in almeno tre regioni del Sud. Tutti i governi del nuovo millennio e il ceto politico-amministrativo dell’intero paese fanno a gara nel cercare di ignorare il problema. Non vogliono sentire parlare del crimine al Sud e in fondo nemmeno del Sud, anche se ormai le tre mafie dell’Italia meridionale si sono insediate e operano alacremente in tutto il paese: dalla capitale alla Lombardia, dalle coste emiliano-romagnole a quelle toscane, dal confine orientale del Friuli-Venezia Giulia a quello occidentale del Piemonte e della Liguria. Mentre i governi nazionali e gli enti regionali e locali sotterrano la «questione meridionale», in linea con gli intellettuali postmoderni che l’avevano già tumulata insieme al «meridionalismo», i mafiosi dei nuovi sistemi criminali fanno grandi affari per il mondo, sulle ali della globalizzazione neoliberista, e si consolidano nei loro territori come principali datori di lavoro e di opportunità a strati sociali emarginati e a molteplici ceti professionali di aggiornata competenza16. Di recente Barucci, pur indicando i punti di eccellenza nel Mezzogiorno, ha insistito opportunamente sulle «intermediazioni improprie», che delegittimano al Sud l’attività delle funzioni pubbliche e dell’organizzazione dello Stato e contemporaneamente dissolvono le caratteristiche proprie del mercato, producendo clientelismo, illegalità, economia sommersa. Ha quindi concluso che «mediamente nel Mezzogiorno italiano il mercato non funziona: predominano rapporti di tipo familistico/amicale che ne minano la capacità di crescere economicamente e di essere un’area dove è stabilmente assicurata una radicata vita democratica». E ha posto una domanda che attende 16

  Barbagallo, Storia della camorra cit., pp. 213 sgg.

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risposte, non ancora pervenute: «È possibile, e più che altro è corretto, occuparsi del Mezzogiorno italiano senza indagare sugli effetti economici della corruzione, della diffusa illegalità, della impresa che si afferma e vive con metodi spiccatamente criminali, quasi che questa fenomenologia fosse non esistente, oppure presente in modo mediamente normale?»17. Barucci tenne questa conferenza nella prima «Giornata del Mezzogiorno», organizzata nel giugno 2007, a Napoli, dall’Istituto italiano per gli studi filosofici. Nella stessa occasione Piero Vigna, già procuratore nazionale antimafia, lesse una relazione dal titolo parlante, Il mercato sono loro. Si denunciava anzitutto la formazione di un «blocco sociale mafioso», la cosiddetta «zona grigia» o «borghesia mafiosa», che «pur non essendo parte organica del gruppo criminale, ne è talvolta complice, talaltra connivente o, nel migliore dei casi, portatrice di una indifferente neutralità». Venivano poi indicate le diverse e numerose forme in cui si intrecciavano attività illecite e imprese legali: relazioni dei clan mafiosi con ambienti amministrativi, politici, economici, finanziari; controllo delle imprese gestite dai titolari non pregiudicati; collaborazione associativa nella forma dei subappalti o della distribuzione di prodotti alimentari, e tante altre forme di cointeressenze. In ogni caso l’obiettivo dell’impresa criminale è l’alterazione e il sovvertimento delle regole del mercato «per assumervi posizioni di monopolio o di oligopolio»18. Le mafie italiane si sono affermate come il giocatore favorito in una partita con le carte truccate. Hanno eliminato la concorrenza e hanno ucciso il mercato già asfittico in larghissima parte del Sud, grazie all’enorme accumulazione criminale di capitale, che riciclano e investono, supportate dai consulenti più esperti, in settori centrali e numerosi dell’economia legale. Pienamente inserito nei processi di globalizzazione e integrazione finanziaria, perfettamente operativo nei più aggiornati sistemi di rete, il potere criminale manovra le tecnologie più avanzate e sfrutta le garanzie di impunità assicurate da mercati sempre meno controllati.   Barucci, Mezzogiorno e intermediazione «impropria» cit., pp. 157-161.   P.L. Vigna, Il mercato sono loro, Istituto italiano per gli studi filosofici, Napoli 2007, pp. 10 sgg. 17 18

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Il più acuto studioso delle nuove forme assunte dal processo globale di ristrutturazione capitalistica, affermatosi grazie alla diffusione delle reti informatiche a fine Novecento, ha lanciato un messaggio drammatico che andrebbe meditato: «L’economia criminale globale sarà un fattore fondamentale nel XXI secolo, e la sua influenza economica, politica e culturale pervaderà tutte le sfere della vita. Il punto non è stabilire se le nostre società saranno in grado di eliminare le reti criminali, ma capire se le reti criminali finiranno o meno per controllare una parte sostanziale della nostra economia, delle nostre istituzioni e della nostra vita quotidiana»19. In una fase della storia mondiale, segnata da una gravissima crisi finanziaria ed economica, la potenza finanziaria e la crescente infiltrazione nell’economia legale dei clan criminali dovrebbe suscitare maggiori preoccupazioni di quante se ne vedano. Valutazioni sempre approssimative stimano il fatturato annuo delle tre mafie italiane intorno ai 70 miliardi di euro. Per valutare lo sviluppo delle organizzazioni criminali basti pensare che nel 1993 la stima della Commissione parlamentare antimafia non oltrepassava i 24 mila miliardi di lire (12 miliardi di euro). Le tre mafie italiane, considerando insieme i loro fatturati, sono ormai al vertice della classifica mondiale del settore. Va quindi considerato con attenzione l’allarme lanciato, a fine luglio 2009, dal governatore della Banca d’Italia Mario Draghi in una audizione davanti alla Commissione parlamentare antimafia. In una fase di gravissima recessione mondiale, come quella iniziata nel 2008, si può determinare un fenomeno di enorme gravità: «le imprese vedono inaridirsi i propri flussi di cassa e cadere il valore di mercato del proprio patrimonio. Entrambi i fenomeni le rendono più facilmente aggredibili da parte della criminalità organizzata»20. Sul finire del 2009 il governatore è tornato sull’argomento e ha definito il Mezzogiorno d’Italia «il territorio arretrato più esteso e popoloso dell’Unione Europea», dove permane un ritardo allarmante nei servizi essenziali: dall’istruzione alla giustizia, dalla 19   M. Castells, L’età dell’informazione. Economia, società e cultura, vol. III, Volgere di millennio, Egea Università Bocconi Editore, Milano 2008, p. 424. 20   Barbagallo, Storia della camorra cit., p. 270.

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sanità ai trasporti, dalla gestione dei rifiuti alla distribuzione idrica. E al centro di tutto si sviluppano le mafie: «La criminalità organizzata infiltra le pubbliche amministrazioni, inquina la fiducia tra i citttadini, ostacola il funzionamento del mercato e accresce i costi della vita economica e civile»21. 21   E. Polidori, Draghi: mafia infiltrata nello Stato, in «la Repubblica», 27 novembre 2009.

X Il Mezzogiorno attuale La triste storia del Fas Gli ultimi rapporti della Svimez sul Mezzogiorno e il volume di statistiche sui rapporti tra Nord e Sud, pubblicato in occasione del centocinquantenario dell’unità, consentono di delineare un quadro preciso e preoccupante dell’attuale condizione del Mezzogiorno d’Italia1. La statistica è sempre stata un punto di forza della cultura italiana che ha fornito, fin dalla grande stagione positivistica otto-novecentesca, strumenti preziosi per l’azione politica, che naturamente ha avuto differenti tempi e modalità di intervento. Tanto per ricordare un solo nome, significativo in questa storia, Beneduce iniziò la sua attività da statistico, nella preparazione del primo ente pubblico di gestione in Italia, l’Istituto nazionale delle assicurazioni. L’ultimo trentennio non è stato, per l’Italia, un periodo positivo sul piano politico e nemmeno sul terreno economico-sociale. Nel Mezzogiorno, naturalmente, è andata peggio. Si è cominciato a parlare di declino del paese, per l’arretramento produttivo e qualitativo nell’assetto in continuo movimento della divisione internazionale del lavoro. Il tasso di crescita nel trentennio è stato in Italia dell’1,5%, al Sud dell’1,1%: quindi il divario interno si è allargato. L’esigenza europea di formare un mercato unico ha privilegia1   Rapporto Svimez 2010 cit.; Rapporto Svimez 2011 sull’economia del Mezzogiorno, il Mulino, Bologna 2011; Rapporto Svimez 2012 sull’economia del Mezzogiorno, il Mulino, Bologna 2012; Svimez. 150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011, il Mulino, Bologna 2011.

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to le misure atte a favorire la concorrenza e a ridurre gli aiuti di Stato. L’Italia è stata molto solerte nel rispettare queste direttive europee: già negli anni Novanta le sovvenzioni pubbliche sono crollate dall’1,7% allo 0,4% del Pil. Mentre l’Unione Europea non si preoccupava di ridefinire una politica industriale, erano i singoli Stati che rilanciavano una propria politica industriale, con sostegni alle imprese di tipo fiscale che sfuggivano ai controlli europei, concentrati sull’erogazione statale di risorse finanziarie. L’ammontare delle risorse destinate all’industria calava drasticamente in Italia, sicché il livello dell’intervento pubblico era largamente inferiore alla media europea. Paradossalmente era proprio la patria del liberismo europeo, la Gran Bretagna, a realizzare il più ampio programma decennale di innovazione industriale, con investimenti pubblici in ricerca e sviluppo. Nel 2009, dopo lo scoppio della crisi, i 27 paesi dell’Unione Europea hanno esteso l’intervento a favore dei settori produttivi: le sovvenzioni all’industria e ai servizi sono salite da 295 a 412 miliardi. Attualmente in Italia gli aiuti di Stato costituiscono soltanto lo 0,38% del Pil, rispetto allo 0,62% dell’Unione Europea; il dato italiano corrisponde alla metà di quelli della Germania e della Francia. «Nell’insieme – ha osservato la Svimez – il modello italiano sembra quello di un Paese che non ha più bisogno di politica industriale. Non solo l’ammontare delle risorse è stato fortemente ridimensionato, ma gli stanziamenti residui hanno per la quasi totalità carattere non selettivo»2. Il caso italiano, di mancata convergenza delle regioni in ritardo con quelle più ricche, rappresenta una eccezione nell’Unione Europea a 27 membri. I paesi meno sviluppati entrati negli ultimi anni hanno tutti un alto tasso di crescita, che determina quindi un forte processo di convergenza. Il risultato è che aumenta il distacco dell’Italia del Sud rispetto alle altre regioni europee. Tra il 1995 e il 2007 il prodotto pro capite del Mezzogiorno rispetto alla media europea è sceso di dieci punti: dal 79 al 69%3. Alla fine del 2002 il governo Berlusconi istituì il Fondo per   Rapporto Svimez 2011 cit., p. 373.   Rapporto Svimez 2010 cit., pp. 49-51.

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le aree sottoutilizzate (Fas), che unificava le risorse aggiuntive nazionali per le c.d. «aree depresse» e ne destinava al Mezzogiorno l’85%. L’obiettivo, fissato nel Documento programmatico economico e finanziario (Dpef) 2004-2007, era di «accelerare e qualificare la spesa in conto capitale per favorire l’aumento di competitività delle aree il cui potenziale è sottoutilizzato, con particolare attenzione per il Mezzogiorno». Per il 2003 il Cipe ripartì le risorse aggiuntive per un totale di circa 11,5 miliardi di euro, divisi più o meno a metà tra infrastrutture e incentivi4. Ma il ristagno dell’intera economia italiana e la mancanza di un disegno generale di sviluppo del paese, insieme alla distrazione dal Mezzogiorno di gran parte degli investimenti previsti, non consentirono alcuna crescita significativa del Sud e allargarono invece il divario col Centro-Nord. Tra il 2000 e il 2008, quindi prima dell’esplosione della crisi mondiale, la crescita del Pil al Sud è stata poco più della metà di quella del Centro-Nord, ridotta peraltro all’1%. Che la gestione del Fas non sia andata come previsto, all’interno di una generale «disattenzione» statale per il Mezzogiorno, è dimostrato dalla dimensione complessiva della spesa pubblica in conto capitale: quella destinata al Sud, tra il 2001 e il 2009, cala dalla punta massima del 41,1 al 33,5% dell’intera spesa in conto capitale del paese. «I dati relativi alla spesa nel Mezzogiorno – ha osservato opportunamente la Svimez – servono a smentire l’idea, purtroppo assai diffusa anche nella pubblicistica, di un Sud inondato da un fiume di pubbliche risorse; ma stanno anche ad indicare come la spesa in conto capitale aggiuntiva (comunitaria e nazionale) in tale area sia valsa negli ultimi anni solo a compensare il deficit della spesa ordinaria (che nel 2007 – ultimo anno per cui si dispone di informazioni – è stata pari ad appena il 21,4% del totale nazionale, inferiore di circa 16 punti al citato peso naturale dell’area, di quasi 9 punti rispetto all’obiettivo del 30%, a tal titolo indicato nei documenti governativi). Lo storico vizio di sostitutività dell’intervento speciale»5. 4   Ministero dell’Economia e delle Finanze - Dipartimento per le Politiche di sviluppo, Il Fondo per le Aree Sottoutilizzate. Elementi informativi sull’attuazione nel 2003, maggio 2003, pp. 1, 8. 5   Rapporto Svimez 2011 cit., p. 472.

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La polemica strumentale sull’eccesso della spesa pubblica nel Mezzogiorno finge di ignorare che la quota più elevata della spesa complessiva della pubblica amministrazione è costituita dalla spesa degli enti di previdenza, localizzata per quasi il 73% nel Centro-Nord e solo per poco più del 27% nel Mezzogiorno, a causa delle forti differenze dei livelli di occupazione e di retribuzione nelle due aree del paese6. Nel 2007 il governo Prodi definiva, con il Quadro strategico nazionale (Qsn), una programmazione settennale (2007-13) fondata sull’unificazione degli strumenti finanziari della politica di coesione e di sviluppo (Fondi strutturali europei, cofinanziamento nazionale, risorse aggiuntive nazionali). La legge finanziaria 2007 incrementava il Fas con oltre 64 miliardi per il 2007-13, che si aggiungevano ai circa 29 miliardi di Fondi strutturali e ai 32 di cofinanziamento nazionale per giungere alla cifra complessiva di 125 miliardi di euro. Almeno il 30% delle risorse assegnate in questo periodo era riservato al finanziamento di infrastrutture e servizi di trasporto strategici nelle regioni del Sud. In questo quadro il Fondo per le aree sottoutilizzate assumeva «un ruolo ‘chiave’ di strumento generale della politica regionale-nazionale per il riequilibrio economico tra Centro-Nord e Mezzogiorno e per il superamento del dualismo territoriale»7. In particolare dal 2008, in seguito alla crisi economica mondiale, il Fas sarà distorto dal suo obiettivo di sostegno al Mezzogiorno e verrà utilizzato in funzione anticiclica per il rilancio dell’economia italiana. Le risorse per investimenti in infrastrutture saranno usate a copertura di oneri correnti: ad esempio per risanare i bilanci dei comuni di Roma e di Catania. I «tagli» decretati nel giugno 2008 decurtarono il capitolo relativo al Fas di circa 8 miliardi. Tra il 2008 e il 2010 le risorse del Fas saranno destinate verso aree non comprese nelle politiche di coesione e dirottate verso le tante emergenze prodotte dalla crisi. Nel 2008 e nel 2009 saranno usate per rifinanziare il Servizio sanitario nazionale. Quindi verranno «stornate» dagli obiettivi strutturali di sviluppo delle   Rapporto Svimez 2010 cit., p. 235.   Ivi, pp. 196 sg.

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regioni meridionali e indirizzate verso le regioni più industrializzate, come sempre. Il Cnel ha valutato in circa 26 miliardi le risorse nazionali del Fas dirottate verso impieghi differenti dalle «finalità proprie del Fondo, che erano e che avrebbero dovuto restare finalità – meridionaliste – di ‘sviluppo’ territoriale, verso la ‘coesione’ nazionale»8. Le politiche di coesione risulteranno così bloccate in seguito alla distrazione dei fondi ad esse destinate. L’efficacia degli interventi di sostegno e di sviluppo sarà poi condizionata dai ritardi strutturali della società meridionale. Resta infatti assai scarsa la qualità dei servizi pubblici essenziali offerti nel Mezzogiorno: giustizia, sanità, istruzione, trasporti, lavori pubblici, gestione dei rifiuti. Il tentativo di riforma federalista dello Stato, trasferendo importanti competenze, aggraverà l’incapacità di gestione efficiente di molti enti locali del Sud: anche perché è poco diffusa «la consapevolezza che obiettivo delle politiche di intervento è quello di servire la società nel suo insieme, non i politici e i burocrati che l’amministrano o le imprese che ricevono gli incentivi»9. Alla fine del 2009 la Banca d’Italia dedica una giornata di studio al Mezzogiorno in rapporto alle politiche nazionali. Nel rilanciare l’impegno per la «questione meridionale» il governatore Draghi traccerà un quadro ancora una volta sconfortante della situazione politico-sociale del Mezzogiorno: «Alla radice dei problemi del Sud stanno la carenza di fiducia tra cittadini e tra cittadini e istituzioni, la scarsa attenzione prestata al rispetto delle norme, l’insufficiente controllo esercitato dagli elettori nei confronti degli amministratori eletti, il debole spirito di cooperazione: è carente quello che viene definito capitale sociale. Questi elementi richiedono una maggiore attenzione da parte di economisti e statistici. Accurate informazioni quantitative su questi fenomeni, sulla loro evoluzione nel tempo, sono essenziali per valutare quali innovazioni anche istituzionali siano in grado di modificare lo stato delle cose»10.

  Ivi, p. 216.   Ivi, p. 382.   Ivi, p. 557.

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La Fiat fabbrica meno in Italia Ma le concrete prospettive di sviluppo e di lavoro al Sud, al principio del 2010, si fanno invece sempre più oscure. L’amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne conferma la chiusura entro il 2012 della fabbrica siciliana di Termini Imerese, che dà lavoro a 1.700 operai: «La Fiat è una multinazionale e i sindacati devono rendersi conto dell’equilibrio necessario fra domanda e offerta. Nessuno può ignorare la realtà. [...] Con questo mercato qua parlare di riabilitare lo stabilimento di Termini Imerese è da pazzi. Non lo farebbe nessuno»11. A febbraio inizia la «ricerca di soluzioni industriali alternative», affidata all’agenzia governativa Invitalia (Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa), che agirà da advisor per la valutazione delle proposte di investimento e reindustrializzazione dell’area. La Sicilia, tramite il presidente della Regione Raffaele Lombardo, si impegna a mettere a disposizione risorse e investimenti per 350 milioni di euro12. A primavera però l’orizzonte sembra schiarirsi. Il 21 aprile, durante l’Investor day del gruppo Fiat, il presidente John Elkann e l’amministratore delegato Marchionne annunciano agli italiani la nascita di una nuova fabbrica, «che appartiene a tutti noi. Fabbrica Italia. Per costruire più veicoli Fiat in Italia e portare più Italia nel mondo nasce Fabbrica Italia, il più straordinario piano industriale che il nostro Paese abbia mai avuto. Nei prossimi cinque anni la produzione di auto e veicoli commerciali in Italia passerà da 800 mila a 1 milione e 650 mila unità all’anno. Più del doppio. Il Gruppo impegnerà quasi il 70% degli investimenti mondiali negli stabilimenti italiani. [...] Fabbrica Italia non è solo il piano industriale di Fiat: è il modo migliore per dimostrare l’impegno che da sempre ci lega al nostro Paese, un impegno fatto di stima, di rispetto e di libertà». Completano questa lettera d’impegni le firme autografe di Elkann e di Marchionne13. 11   Fiat, Termini Imerese chiuderà entro il 2012, su www.liberoquotidiano.it/ news, 12 gennaio 2010. 12   E. Lilli, Fiat: Termini Imerese non ci interessa più, su www.omniauto.it/ magazine, 5 febbraio 2010. 13   www.omniauto.it/magazine, 27 aprile 2010; www.linkiesta.it, 27 ottobre 2011.

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Il piano prevede un impegno complessivo della Fiat di 20 miliardi di euro. Ma compaiono subito problemi seri e resisten­ ze insuperabili al disegno della Fiat di limitare fortemente i diritti dei lavoratori, sanciti dall’articolo 41 della Costituzione e dallo Statuto dei diritti dei lavoratori, e di estendere i poteri dell’azienda circa la licenziabilità del lavoratore ritenuto inadempiente rispetto al contratto individuale (e non più nazionale) di lavoro14. La Fiom-Cgil rifiuta, a metà giugno 2010, i termini dell’accordo proposto dalla Fiat per il rilancio dello stabilimento di Pomigliano d’Arco, che prevede la costruzione della nuova Panda trasferita dalla Polonia e un investimento di 700 milioni. Il referendum tra i 5.200 lavoratori vedrà prevalere il consenso all’accordo, sostenuto da tutti gli altri sindacati, nazionali e di categoria. Ma il voto negativo del 36% rispetto al 62% dei consensi determinerà forti apprensioni circa la governabilità dell’azienda. La Fiat decide pertanto, a luglio, di dar vita a una New company-Fabbrica Italia Pomigliano, che resterà fuori da Confindustria e riassumerà con un nuovo contratto individuale i lavoratori disponibili ad accettare le condizioni imposte dall’azienda15. Il duro scontro con la Fiom e gli operai di Pomigliano mette a nudo le difficoltà di realizzare il progetto Fabbrica Italia secondo le modalità di lavoro richieste dall’impresa. Già a luglio la Fiat decide di dirottare da Mirafiori in Serbia l’investimento di 350 milioni previsto per il nuovo modello «L-o», che sostituirà Musa, Idea e Multipla. Sono previsti finanziamenti del governo serbo per 250 milioni di euro e 400 milioni di investimenti europei dalla Bei (Banca europea per gli investimenti). «Non è un ritiro dal progetto Fabbrica Italia», precisa dalla sede della Chrysler in Michigan Sergio Marchionne, ma «decideremo impianto per impianto». E indica come esempio di «sindacato responsabile» l’americana Uaw (United Auto Workers)16. 14   Pomigliano (Fiat) La Fiom spiega le ragioni del no, su www.quattroruote.it/ notizie, 17 giugno 2010. 15   Pomigliano, il plebiscito non c’è stato, su www.repubblica.it/economia, 23 giugno 2010. 16   R. Polato, Fiat, «Fabbrica Italia» perde pezzi. I fondi per Mirafiori? In Serbia, su www.corriere.it/economia, 22 luglio 2010.

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«È vero che Marchionne può andare in Serbia – commenterà un esperto giornalista economico – ma quante Serbie ha sotto mano oggi, per quali quantità e fin dove può gestire la complessità accentrando tutto il potere?» Già ad agosto 2010 il destino di Fabbrica Italia e dei connessi 20 miliardi appare molto incerto. E la responsabilità non sembra attribuibile ai riottosi operai italiani. È sulle colonne del «Corriere della Sera» che appaiono più complesse analisi. «Ebbene, il futuro di Fabbrica Italia è appeso a due fili oggi invisibili ai più: il primo è la capacità mai scontata di progettare modelli vincenti ad alto valore aggiunto, e perciò adatti a essere prodotti in paesi ad alto costo del lavoro; il secondo è il ciclo dell’economia che, rallentando il ritorno degli investimenti, potrebbe minare le finanze aziendali»17. La Fiat insiste però nel volere anzitutto precisi impegni sindacali per la gestione del piano di investimenti. In una riunione di ottobre 2010 nella sede confindustriale ribadisce che Fabbrica Italia «non partirà se non ci sarà l’impegno formale delle organizzazioni sindacali ad assumersi precise responsabilità del progetto». Altrettanto ferma sarà la replica del segretario della Fiom Maurizio Landini, con la denuncia del «rischio che per effettuare investimenti in Italia si facciano a spese dei diritti dei lavoratori»18. Passa un mese e, a novembre, anche il segretario della Cisl Raffaele Bonanni appare molto preoccupato circa la determinazione della Fiat a realizzare effettivamente i programmi annunciati: «Marchionne dica quello che vuole fare, la smetta di combattere con la Fiom e apra invece un tavolo di discussione con Mirafiori»19. Anche tra gli economisti crescono i dubbi sulla realizzabilità del programma annunciato per l’Italia dalla Fiat, che deve anzitutto riuscire a «superare due grandi sfide: riequilibrare la gamma prodotti e migliorare l’efficienza produttiva». L’azienda soffre del livello di utilizzo medio degli impianti, specie italiani, più basso 17   M. Mucchetti, Marchionne Fabbrica Italia Fiat e Chrysler, su www.vip.it/, 30 agosto 2010. 18   «Fabbrica Italia», Fiat ai sindacati «Non parte senza vostro impegno formale», su www.repubblica.it/economia, 5 ottobre 2010. 19   Cisl e Cgil: «Marchionne sveli i piani», su www.lettera43.it/economia, 20 novembre 2010.

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d’Europa (55%), che determina il costo medio delle auto e quindi la redditività dell’impresa. «Nel complesso il gruppo Fiat chiude il 2010 con perdite in Europa vicine a 1 miliardo di euro»20. Nel 2011 crescono le preoccupazioni per gli slittamenti nei tempi di realizzazione dei progetti di sviluppo della Fiat in Italia, sia per il deterioramento congiunturale, sia per i cambi di programma in corsa21. A ottobre interviene la Consob (Commissione nazionale per le società e la Borsa) per avere notizie dello «straordinario piano industriale» presentato dalla Fiat l’anno prima. La risposta dell’azienda è dura ed esprime «disappunto per il fatto che la dettagliata richiesta della Consob sul piano Fabbrica Italia sia divenuta di pubblico dominio e sia stata ripresa dalla stampa e strumentalizzata». Vengono confermati i 20 miliardi di investimenti in Italia, con la precisazione «innovativa» che «il progetto Fabbrica Italia non è mai stato un piano finanziario, ma l’espressione di un indirizzo strategico». In ogni caso, dati i necessari adeguamenti alle condizioni del mercato, «Fiat non è quindi in condizione di fornire informazioni circa il proprio piano finanziario ad un livello di dettaglio tale da consentire un riscontro nei termini richiesti da Consob»22. «Fabbrica Italia non esiste più – commenterà ‘il manifesto’ –. Esattamente a diciotto mesi dal lancio (era il 21 aprile 2010, Lingotto), l’amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne ha deciso che non ne parlerà più, stufo – sostiene – di essere frainteso. L’ha detto a brutto muso alla Consob giovedì scorso, dopo aver sminuito il piano tre giorni prima. Parlando all’Unione industriali di Torino indica infatti Fabbrica Italia come ‘non altro che una dichiarazione d’intenti’, ridotta successivamente a ‘indirizzo’ nel testo distribuito alla stampa»23. In effetti nel 2011 la Fiat limiterà le sue iniziative alla chiusura 20   D. Grasselli, Quello che sappiamo di Fabbrica Italia, su www.lavoce.info/ articoli, 25 gennaio 2011. 21   A. Malan, Le incertezze di Fabbrica Italia: mercato italiano in crisi e nessun prodotto per l’export, su www.ilsole24ore.com/art/economia, 4 ottobre 2011. 22   Fiat, utili in crescita. Su Fabbrica Italia botta e risposta con la Consob, su www.corriere.it/economia, 27 ottobre 2011. 23   Dolori e motori dei nostri tempi, a cura di F. Paternò, http://blog.ilmanifesto.it/autocritica/2011/10, 29 ottobre 2011.

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di due impianti meridionali: lo stabilimento di Termini Imerese, che produceva le Lancia Ypsilon, e la fabbrica Irisbus Italia di Flumeri in Irpinia, produttrice di autobus. Vanno, temporanemente, in cassa integrazione 2.200 lavoratori siciliani e 1.000 irpini (compresi quelli dell’indotto). In entrambi i casi si fa avanti un imprenditore molisano, Massimo Di Risio, titolare della Dr Motor, impresa operante a Macchia d’Isernia, peraltro in condizioni di pesanti difficoltà finanziarie. Gli operai irpini di Irisbus, con quattro mesi di sciopero e di presidio da maggio a novembre 2011, rifiutano la trattativa con Di Risio che non considerano affidabile24. In Sicilia invece le trattative con l’imprenditore molisano procedono a lungo. Ancora ad aprile 2012 il responsabile di Invitalia afferma con ecccessiva sicurezza: «I lavoratori sono garantiti, da dicembre partirà la nuova Termini Imerese. [...] Puntiamo a chiudere il passaggio a Dr Motor e alle altre quattro società ai primi di dicembre». Ma, al principio dell’estate, il ministero dello Sviluppo deve riconoscere l’insussistenza delle risorse finanziarie dichiarate disponibili da Di Risio e pone fine alla lunga e inutile trattativa. Si cercano altri acquirenti, si spera nell’interesse della Bmw25. In Irpinia intanto appare in difficoltà anche uno stabilimento modello, la «fabbrica integrata» della Fiat a Pratola Serra, produttrice di motori di cilindrata medio-alta: la Fabbrica Motori Automatizzati (Fma). Nel 2010 e nel 2011 i giorni lavorati sono soltanto 85 e 88. Per il 2012 è prevista la cassa integrazione per l’intero anno. Le speranze di salvare questo stabilimento e i suoi 1.800 lavoratori sono riposte nel progetto di un nuovo motore da produrre a partire dal 2013 in accordo con la Suzuki. Si rende perciò necessaria una ristrutturazione per l’adeguamento degli impianti. Il che 24   Lilli, Fiat: Termini Imerese non ci interessa più cit.; G.A. Falci, A Termini Imerese l’era post Fiat non riesce a partire, su www.linkiesta.it/termini-imerese, 3 aprile 2012; Irisbus, Di Risio si ritira Fiat annuncia la chiusura, su www.repubblica. it/economia, 14 settembre 2011; Marchionne: Irisbus ad Avellino non produrrà più autobus, su www.ilmattino.it, 5 aprile 2012; Irisbus, il documento di Resistenza Operaia per Bersani, su www.irpinianews.it/Politica/news, 15 giugno 2012. 25   Falci, A Termini Imerese l’era post Fiat cit.; Bmw potrebbe prendere Termini Imerese, su www.lettera43.it/economia, 19 maggio 2012; Termini Imerese nel caos la Dr Motors non ha più i soldi per il rilancio, su www.corriere.it/economia, 21 giugno 2012; L. Ales, I soldi fantasma diventano incubo, su www.sudmagazine.it/ economia, 4 giugno 2012.

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significa cassa integrazione da giugno 2012 a ottobre 2013. C’è chi teme di finire come Termini Imerese. Esclusa la Fiom da ogni contatto, non accetta questo accordo la Ugl metalmeccanici26. Intanto a Pomigliano d’Arco vengono prodotte le nuove Panda, dal principio del 2012. Ma, a marzo, si diffondono voci di chiusura di altri stabilimenti Fiat in Italia. Interviene il ministro del Lavoro Elsa Fornero per assicurare che la chiusura di Mirafiori e Pomigliano è stata smentita dai vertici del gruppo. A maggio la Fiat mette in cassa integrazione tutti gli impiegati di Mirafiori27. Nella Newco di Pomigliano intanto sono stati assunti 2.146 lavoratori, nessun iscritto alla Fiom. A giugno 2012 il Tribunale di Roma condanna la Fiat per comportamento antisindacale e ordina di assumere 145 lavoratori iscritti al sindacato metalmeccanici della Cgil. La Fiat ricorre in appello28. Sembra svanito il progetto Fabbrica Italia. Da più parti si invoca l’arrivo in Italia di marchi stranieri, per la precisione tedeschi: Bmw, Volkswagen29. Al principio di luglio l’amministratore della Fiat dichiara che, visto l’andamento del mercato, almeno una delle quattro fabbriche d’auto italiane (Mirafiori, Cassino, Pomigliano, Melfi) è a rischio. Ma la situazione sembra anche peggiore. Rispetto alle 650 mila auto prodotte nel 2009 (e alla previsione di 1.400 mila nel 2014 del progetto Fabbrica Italia), «le 450 mila automobili che 26   M. Fumagallo, Fiat Pratola Serra a motori spenti, su mobile.ilmanifesto.it/ archivi/fuoripagina, 17 gennaio 2011; Alla FMA (gruppo Fiat) di Pratola Serra comincia un anno di cassa integrazione, su www.clashcityworkers.org, 21 dicembre 2011; G. Del Guercio, Fiat, a Pratola Serra i motori Suzuki, su www.economiaweb. it, 1 giugno 2012. 27   E. Veri, La Panda è in vendita, in arrivo nuove cause Fiom, su www.linkiesta.it, 28 gennaio 2012; Fiat Pomigliano, fabbrica in ansia, in «la Repubblica», 6 marzo 2012, sezione Napoli; Fiat: Fassina, Fabbrica Italia resta sulla carta, su www. rassegna.it/articoli, 18 maggio 2012; Mirafiori alla Volkswagen? La Fiom quasi se lo augura: «Fiat si sta deitalianizzando» «Fabbrica Italia» non esiste più: investiti appena 3 miliardi, su qn.quotidiano.net/motori/auto, 31 maggio 2012. 28   Qualche giorno dopo la sentenza Marchionne, dalla Cina, farà questa stizzita dichiarazione: «Questa legge non esiste in nessuna parte del mondo, da quanto ne so. [...] Un evento unico che interessa un particolare paese che ha regole particolari che sono folcloristicamente locali»: Marchionne: sentenza Pomigliano è folklore locale ma Fiat rispetterà legge, su www.ilmattino.it, 28 giugno 2012. 29   http://economia.panorama.it, 21 giugno 2012, G. Cordasco, Fiat, Marchionne ha esagerato. E la Fiom si è appellata alla statistica; L. Salvia, «Fiat riassuma 145 iscritti Fiom». Il Tribunale: a Pomigliano condotta antisindacale. Torino: ci appelleremo, in «Corriere della Sera», 22 giugno 2012.

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verranno prodotte in Italia nel 2012 potrebbero tranquillamente uscire da una sola fabbrica. Rendendo superflue le altre tre»30. Passano pochi giorni e viene annunciata la cassa integrazione a Pomigliano per le due ultime settimane di agosto31. Siamo ancora nel luglio 2012 quando Marchionne, in una dichiarazione all’«Herald Tribune», attacca frontalmente la Volkswagen, accusandola di operare una guerra dei prezzi responsabile di «un bagno di sangue». La realtà, invece, vede l’impresa tedesca dominare il mercato con i suoi tanti modelli rinnovati, e con la conseguente fiducia delle banche che concedono tassi di credito più bassi. La replica immediata della Volkswagen invita l’amministratore della Fiat a dimettersi da presidente dell’Acea, che riunisce le fabbriche d’auto europee, visto che non ne difende gli interessi32. Uno studioso esperto come Luciano Gallino, confrontando i successi americani della Chrysler e i fallimenti italiani ed europei della sua controllante Fiat, spiega questa apparente contraddizione col fatto che «il gruppo Fiat, e più ancora la famiglia Agnelli che lo controlla, hanno smesso da decenni di credere che il gruppo dovesse produrre soprattutto automobili. L’ultimo ad che cercò di concentrare sull’auto gli investimenti, la ricerca, le strategie di localizzazione e di vendita, la rete internazionale dei fornitori, fu forse Vittorio Ghidella, negli anni Ottanta. [...] Pare evidente che il nuovo ad abbia cercato il successo dove la posta si giocava tutta sull’auto, e, stando ai commenti (ma anche ai dati) americani, lo abbia ottenuto. All’innegabile successo oltre Atlantico corrisponde l’insuccesso della Fiat nel nostro paese e in Europa, con i costi pagati dai lavoratori italiani e dall’intera nostra economia»33. Poco prima che si dilegui l’estate del 2012, una «Precisazione della Fiat» annuncia che ormai «è impossibile fare riferimento al piano Fabbrica Italia». Il progetto dei 20 miliardi di finanziamenti Fiat svanisce nel nulla34. 30   P. Griseri, Fiat, addio Fabbrica Italia. Chi resterà tra Melfi e Mirafiori?, in «la Repubblica/Affari&Finanza», 9 luglio 2012. 31   R. Polato, City car nei piazzali, in «Corriere della Sera», 19 luglio 2012. 32   A. Tarquini, Volkswagen attacca Marchionne «Insopportabile, vada via da Acea», in «la Repubblica», 28 luglio 2012; M. Mucchetti, Fiat e Volkswagen i veri contrasti, in «Corriere della Sera», 29 luglio 2012. 33   L. Gallino, La latitanza degli Agnelli, in «la Repubblica», 28 luglio 2012. 34   P. Griseri, Fiat: Fabbrica Italia è superata scelte produttive in piena autonomia;

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La depressione meridionale In Italia anche la recessione marcia a due velocità: naturalmente è più intensa e veloce nel Mezzogiorno. Le previsioni della Svimez per l’economia meridionale nel 2012, basate sul modello econometrico bi-regionale, delineano una prospettiva allarmante35. La contrazione del Pil, prevista col segno negativo di –1,8% in Italia, al Sud precipita a –2,9%. Stesso discorso per l’occupazione che dovrebbe ridursi ancora dell’1,6% nelle regioni meridionali, rispetto alla media nazionale negativa dello 0,5%. Anche gli investimenti, si prevede, diminuiranno al Sud dell’8% rispetto alla media italiana del 6%36. La drammatica crisi dell’occupazione nel Mezzogiorno è attestata dalla perdita di posti di lavoro nel triennio 2008-10: ne sono spariti 280 mila rispetto ai 532 mila scomparsi nell’intera Italia. Come ha sottolineato il direttore della Svimez Riccardo Padovani: «Nelle regioni meridionali, pur essendo presente il 30% degli occupati italiani, si è concentrato il 53% delle perdite di lavoro determinate dalla crisi». Circa 100 mila posti di lavoro si sono perduti nella sola Campania, che rappresenta ormai «una crisi nella crisi»: quasi la metà dei 119 mila addetti scomparsi nell’industria meridionale lavoravano in Campania37. Il rapporto Svimez del 2012 ha confermato queste previsioni. Giudizi ormai trancianti sottolineano «l’evidenza di un Mezzogiorno che, rispetto alle altre aree svantaggiate dell’Europa, non riesce ad affrancarsi dal suo cronico sottosviluppo». Il recupero, tra il 2000 e il 2011, di un punto e mezzo percentuale registrato dal Pil per abitante nelle regioni meridionali rispetto a quello Id., Addio definitivo ai 20 miliardi promessi ora si trema da Cassino a Pomigliano, entrambi in «la Repubblica», 14 settembre 2012. 35   Rapporto di previsione territoriale 01/2012, Svimez-Irpet (rapporto chiuso con i dati disponibili al 20 aprile 2012). 36   Svimez: l’impatto delle manovre pesa sul Sud. Pil 2012 a -2,9%, su www. entilocali.ilsole24ore.com/art/sviluppo-e-innovazione, 8 giugno 2012; Gpg Imperatrice, L’apocalisse meridionale: per Svimez nel 2012 il PIL del Sud crollerà (-2,9%), contro -1,8 Nazionale e -1,4 del Centro-Nord, su www.rischiocalcolato.it, 9 giugno 2012,. 37   E. Imperiali, Industria a picco, 120 mila posti persi in tre anni, in «Corriere del Mezzogiorno», 17 aprile 2012; Svimez, recessione più forte al Sud. La Campania «doppia» la Lombardia, su www.repubblica.it/economia, 6 giugno 2012.

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dell’intero paese (dal 56,1 al 57,7%) ha provocato questo beffardo commento: «così continuando ci vorrebbero quattro secoli per riprendere lo svantaggio». Peraltro si tratta di un miglioramento apparente, determinato dal calo della popolazione meridionale rispetto all’aumento degli abitanti nel Centro-Nord. Nello stesso periodo infatti l’attività economica al Sud si è ridotta dello 0,3%, mentre nel Centro-Nord è cresciuta del 4,4%38. La Svimez è preoccupata in particolare della riduzione degli investimenti concentrata nel Mezzogiorno con una forte diminuzione delle risorse del Fas (che ha assunto dal maggio 2011 la denominazione di Fondo per la coesione e lo sviluppo, Fsc). Nel triennio 2011-13 si determinerebbe una riduzione delle spese per investimenti di 4,4 miliardi al Sud, contro una riduzione di 5,5 miliardi nel Centro-Nord. L’uscita dalla recessione e l’inizio della ripresa sono previste dalla Svimez per il 2013. Ma il Pil, si prevede, aumenterà leggermente nel Centro-Nord dello 0,4%, mentre al Sud dovrebbe calare anche se solo dello 0,1%, con le eccezioni positive dell’Abruzzo (+0,5), Basilicata (+0,3), Molise (+0,2)39. Un rapporto della Svimez sulla finanza dei Comuni ha dimostrato nel 2011 che, diversamente da quanto si crede e si afferma diffusamente, i cittadini meridionali, in rapporto al Pil, pagano più imposte degli abitanti del Centro-Nord. Le maggiori imposte comunali, che coprono più dell’80% dei tributi, sono l’addizionale Irpef, l’Ici e la Tarsu (per l’immondizia). Queste imposte comunali, nell’ultimo ventennio, sono aumentate al Sud del 151%, mentre nel Centro-Nord l’aumento è stato dell’82%. Tra il 1991 e il 2010 le entrate tributarie nei comuni del Centro-Nord sono raddoppiate, passando da 224 euro pro capite a 408 euro. Nel Mezzogiorno sono quasi triplicate, crescendo da 121 a 30340. Nella premessa a questo rapporto il presidente della Svimez Adriano Giannola ha sottolineato le pesanti conseguenze finanziarie per i Comuni italiani, e in particolare per quelli meridionali, determinate dalla concomitanza dell’attuazione della legge sul federalismo fiscale e delle gravose manovre correttive adottate dallo   Rapporto Svimez 2012 cit., pp. 485, 36 sg.   Rapporto di previsione territoriale 01/2012 cit., p. 19. 40   Rapporto Svimez 2011 sulla finanza dei Comuni, a cura di F. Pica e S. Villani, in «Quaderni Svimez» n. 30, 2012. 38 39

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Stato per ridurre il rapporto debito/pil. L’autonomia di bilancio dei Comuni si è abbassata, con gravi conseguenze per la capacità di spesa sociale, che al Sud risulta già inferiore di oltre il 35% rispetto al resto d’Italia. La riforma del federalismo fiscale, «qualunque cosa questa espressione significhi», secondo il preoccupato e preoccupante giudizio di Giannola, «rischia di rivelarsi insostenibile, specie per i Comuni del Mezzogiorno perché si traduce in un’elevata pressione fiscale a fronte una fornitura di servizi del tutto insufficiente»41.

  Ivi, p. 10.

41

Conclusione La stasi dell’Italia e la trasformazione del mondo Il mondo sta cambiando rapidamente in questo nuovo millennio. Ma in Italia non è molto diffusa la percezione della nuova realtà in movimento oltre i confini. Forse anche perché nel nostro paese, più ancora che in altri d’Europa, di questi profondi cambiamenti si sentono soprattutto gli effetti negativi sul piano sociale. Il processo in atto da circa un ventennio si caratterizza per due aspetti essenziali: la diffusione globale del capitalismo informazionale e della società in rete, ben definiti da Castells, e una nuova divisione internazionale del lavoro in seguito al ribaltamento dei rapporti tra quelli che nel XX secolo venivano chiamati paesi sviluppati e paesi sottosviluppati. L’imprevisto, forte sviluppo di grandi e medi paesi dell’Asia, dell’America latina e ora anche dell’Africa, insieme alle crisi e al ristagno dei già dominanti Stati europei e nordamericani, ha cambiato e continua a cambiare il mondo con processi molto rapidi e intensi, che hanno modificato radicalmente la struttura e il funzionamento dei sistemi economici e delle relazioni sociali, delle forme politiche e istituzionali, dei comportamenti culturali. In questa nuova era l’Italia stenta a svolgere un ruolo significativo. Come tutte le fasi storiche di cambiamenti profondi, anche questa è caratterizzata da una continua competizione e da una forte selezione. Questi sono requisiti essenziali per la partecipazione alla nuova sistemazione degli assetti mondiali, che comporta pesanti conseguenze di polarizzazione ed esclusione sociale in un nuovo sistema, segnato da imprevedibili novità, come la fusione del più autoritario comunismo con il massimo sfruttamento di mercato.

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Dopo la seconda guerra mondiale l’Italia, nel suo conflittuale insieme, fu capace di partecipare da protagonista alla grande trasformazione definita poi l’«età dell’oro» dello sviluppo capitalistico mondiale. Oggi appare molto meno attrezzata per questa nuova impresa globale. Purtroppo è una società statica e seduta su rinnovati privilegi e antichi difetti, impreparata ad affrontare un confronto duro, ma fondato sulla capacità di innovare. L’esclusione dei giovani dal lavoro e dal futuro in tutta Italia e specialmente nel Sud, che è fenomeno diffuso anche in altri paesi europei, si accompagna da noi a un blocco totale della mobilità sociale. Il tramonto della politica nell’ultimo trentennio ha favorito in Italia il predominio totalizzante di una sorta di familismo dei clan, che impedisce l’affermazione delle qualità personali in qualsiasi ambito. La selezione in Italia, salvo rare eccezioni, non avviene per confronti di merito, ma per relazioni personali, familiari, di clan. È questo il cemento che unisce, nell’Italia contemporanea, quello che è rimasto della società e della politica. L’inconsistenza e l’inadeguatezza della classe dirigente esprime il degrado politicoculturale di una gran parte del paese. Per tornare al tema in oggetto, le attuali polemiche tra leghismo e sudismo sono una delle tante espressioni deteriori di questo degrado. La centralità del Mezzogiorno nella storia dell’Italia unita non è stata una invenzione dei meridionalisti, tanto meno dei meridionali, spesso distratti da lamenti e nostalgie infondate. Non per caso il Sud fu al centro della politica nazionale per tutto il quindicennio del dopoguerra, che vide l’Italia emergere dalla disfatta nazionale e ascendere tra i paesi più sviluppati del mondo. Soltanto una Italia unita da Nord a Sud può aspirare a svolgere nel mondo un ruolo adeguato alla sua tradizione culturale e differente dalla sua inconsistenza politica pre-unitaria. Basta conoscere la storia d’Italia per esserne convinti. Ma chi conosce e chi fa conoscere oggi in Italia la storia plurimillenaria di questo paese? Le occasioni possibili per il Mezzogiorno e per l’Italia L’Italia e in particolare il Mezzogiorno sono stati per millenni un crocevia di popoli che scendevano dall’Europa o venivano dal Mediterraneo. Dopo il lungo predominio delle rotte atlantiche,

Conclusione

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che segna l’inizio del mondo moderno, l’espansione attuale delle potenze asiatiche ha dato una nuova centralità al bacino del Mediterraneo e, anche per questa via, può favorire nuovi processi di trasformazione. L’internazionalizzazione dei sistemi economici e l’integrazione crescente dei mercati richiede sempre più efficienti sistemi di comunicazione. La collocazione geografica del Mezzogiorno al centro del Mediterraneo, ch’era stata un elemento negativo riguardo all’industrializzazione di fine Ottocento per la distanza dall’Europa, rappresenta oggi un’occasione importante di sviluppo, se si riuscirà a fornire efficienti infrastrutture di trasporto e di servizi, adeguate all’incremento dei traffici e alla mobilità delle merci e delle persone. Nell’ultimo quindicennio il contributo statale alla creazione delle opere per le varie modalità di trasporto al Sud è stato quasi nullo1. Ne risulta un forte deficit, specie riguardo alle connessioni tra le diverse modalità (strade, ferrovie, porti, aeroporti), che impedisce nel Mezzogiorno lo sviluppo della moderna logistica, intesa come integrazione dei diversi servizi di trasporto. Sarebbe utile concentrare su progetti di sviluppo di questa portata i contributi finanziari europei e nazionali, piuttosto che disperderli a pioggia per interventi di scarso o nullo rilievo. Ma nell’attuale dibattito politico-culturale italiano questi problemi non destano sufficiente interesse. Nel decennio passato ha avuto una notevole espansione il sistema portuale del Mezzogiorno, in seguito all’incremento dei traffici tra l’Asia e l’Europa: i tre grandi porti hub dedicati principalmente a servizi di transhipment (Gioia Tauro, Taranto, Cagliari), altri tre per il traffico feeder (sussidiario): Salerno, Catania, Palermo; oltre naturalmente al porto di Napoli e alla sua più ampia autonomia e rete di relazioni. Il servizio di transhipment prevede il trasferimento dei container da navi di grandi dimensioni a navi più piccole. Il porto di Gioia Tauro è stato tra il 1998 e il 2007 il più importante nel Me1   V. Di Giacinto, G. Micucci, P. Montanaro, Effetti macroeconomici del capitale pubblico: un’analisi su dati regionali, in Mezzogiorno e politiche regionali, Banca d’Italia, novembre 2009.

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La questione italiana. Il Nord e il Sud dal 1860 a oggi

diterraneo per movimentazione dei container. Poi è cominciata l’ascesa di Port Said in Egitto, favorita dai costi più bassi2. Grandi potenzialità di sviluppo ha il porto di Taranto, come ha ricordato un giornalista molto esperto della Cina contemporanea in occasione del blocco giudiziario del grande impianto siderurgico dell’Ilva a causa del procurato disastro ambientale. «La città è il porto più vicino a Suez, e quindi l’imbocco ideale per l’Europa delle merci dalle Indie, come aveva capito due secoli fa Napoleone che per primo cominciò i lavori della base militare e mercantile.» Due grandi società mondiali di trasporti di Hong Kong e di Taiwan hanno investito da molti anni a Taranto nella prospettiva di farne il loro centro di transhipment nel Mediterraneo, trasformando la città in una nuova Rotterdam, sempre che autorità locali e nazionali realizzino finalmente le necessarie opere portuali e infrastrutturali, o le affidino alle stesse società in cambio di precise concessioni3. Un’altro settore di sviluppo per il Mezzogiorno potrà essere il campo innovativo delle fonti di energie rinnovabili ed eco-compatibili (eolico, solare, bioenergie, geotermia). In particolare può essere esteso nel Sud lo sviluppo dell’energia geotermica, molto sottovalutata in Italia. Nel luglio 2012 Svimez e Srm (Studi e Ricerche per il Mezzogiorno) hanno presentato un rapporto su Energie rinnovabili e territorio, indicando nella «economia verde» fondata sullo sfruttamento intensivo del sole e del vento una concreta possibilità di sviluppo del Mezzogiorno. Nel campo delle fonti tradizionali inoltre sono consistenti le riserve petrolifere lucane, per ora concentrate nella Val d’Agri, ma in espansione verso altri territori e quindi in grado di ridurre la dipendenza energetica italiana dall’estero4. La necessità di trovare nuove vie di sviluppo per il Mezzogiorno, dove anche le notevoli potenzialità del capitale turistico sono utilizzate solo parzialmente, è stata acuita dalle conseguenze della crisi ancora in corso. Basti pensare che, nel biennio metà 2008-metà   Rapporto Svimez 2011 cit., pp. 549 sgg.   F. Sisci, Visto da Pechino. Per i colossi cinesi di Hutchison Whampoa ed Evergreen decisivo il rispetto degli impegni. Servono certezze anche sul porto, in «Il Sole 24 Ore», 29 luglio 2012. 4   Rapporto Svimez 2011 cit., pp. 729 sgg.; Svimez-Srm, Energie rinnovabili e territorio. Scenari economici, analisi del territorio e finanza per lo sviluppo, direzione di M. Deandreis e R. Padovani, Giannini, Napoli 2011; A. Bonomi, Il paradigma green che può rilanciare il Mezzogiorno, in «Il Sole 24 ore», 15 luglio 2012. 2 3

Conclusione

223

2010, il 60% delle persone che hanno perduto il lavoro si è concentrata nel Sud, dove c’è soltanto il 25% degli occupati in Italia. L’occupazione giovanile nelle regioni meridionali è scesa nel 2010 al 31,7% rispetto al 56,5% del Nord. Quindi al Sud lavora, per lo più in forme precarie, a stento un giovane su tre, altrove uno su due. Si può concludere, con la Svimez, che «la questione generazionale italiana diventa emergenza e allarme sociale nel Mezzogiorno»5. Nel 2009 la Commissione europea ha avviato la riforma della politica di coesione in vista del nuovo ciclo di programmazione successivo al quinquennio 2007-2013. Il commissario per la politica regionale affidò all’esperto italiano Fabrizio Barca la preparazione di un documento di base per giungere a una revisione della politica di coesione, aumentandone l’efficacia rispetto ai parziali risultati conseguiti e alla grave crisi dell’Europa nell’economia mondiale. Il «Rapporto Barca» ha quindi indicato una strategia di sviluppo territoriale volta a incrementare sia l’efficienza economica che l’inclusione sociale, mediante cambiamenti istituzionali e forniture di beni e servizi e attraverso la concentrazione delle risorse su determinate priorità6. Su questa base propositiva la Commissione europea ha proceduto nel 2010 alla riforma della politica di coesione, esposta nella «Quinta relazione sulla coesione economica, sociale e territoriale». È stata così riformulata la Strategia di Lisbona, presentata nel 2000 e largamente fallita, in un nuovo programma chiamato Europa 2020. L’obiettivo della crescita appare ora definito con tre aggettivi: intelligente, sostenibile, inclusiva. I riferimenti sono alla conoscenza innovativa della società in rete, all’utilizzo delle energie eco-compatibili e, last but not least, all’allargamento del mercato del lavoro7.   Rapporto Svimez 2011 cit., p. 209.   Ivi, pp. 287 sgg.; F. Barca, An agenda for a reformed Cohesion policy. A placebase approach to meeting European Union challenges and expectations, Independent Report prepared at the request of Danuta Hubner, Commissioner for Regional Policy, by Fabrizio Barca, aprile 2009; L. Polverari, R. Vitale, Riflessioni sulla riforma della politica di coesione per il periodo 2014-2020: stato del dibattito e prospettive per l’Italia, in «Rivista giuridica del Mezzogiorno», 2010/4, pp. 1211 sgg. 7   Comunicazione della Commissione, Una strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva, Bruxelles, 3 marzo 2010. 5 6

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La questione italiana. Il Nord e il Sud dal 1860 a oggi

Il conseguimento di un obiettivo così impegnativo richiede il rafforzamento del potere di governo europeo, come ha sottolineato la risoluzione del 16 giugno 2010 del Parlamento europeo. Altrimenti la prospettiva è il declino dell’Europa, con ulteriore decremento dello sviluppo e dell’occupazione. I principali obiettivi indicati dal programma Europa 2020 sono: un tasso di occupazione (tra i 20 e i 64 anni) del 75%, investimenti nella ricerca e sviluppo (R&S) al 3% del Pil, 40% di laureati o diplomati, tasso di abbandono scolastico inferiore al 10%. Questi obiettivi europei sono stati tradotti e modificati in obiettivi nazionali nei Piani nazionali di riforma (Pnr) dei diversi Stati dell’Unione Europea. Il Pnr italiano è stato presentato dal governo Berlusconi nell’aprile 2011 all’interno del nuovo Documento di economia e finanza (Def). La gravità della situazione italiana è dimostrata dal fatto che gli obiettivi fissati sono largamente inferiori a quelli europei e la condizione attuale del Mezzogiorno è, naturalmente, a livelli molto più bassi. La spesa per ricerca e sviluppo prevista dall’Italia è la metà di quella europea (1,5% del Pil). Per il tasso di occupazione l’obiettivo massimo è il 67-69%, ma il Mezzogiorno oggi sfiora soltanto il 48%. Per l’abbandono scolastico l’obiettivo italiano è il 15-16% (rispetto al 10% europeo), e la situazione al Sud è molto pesante. Per l’istruzione universitaria si scende dal 40% europeo al 26-27% dell’obiettivo italiano; oggi l’Italia sfiora il 20%, ma il Mezzogiorno è molto più indietro. Rispetto infine alla riduzione prevista per l’Europa di 20 milioni di persone a rischio povertà, va segnalato che nella gran parte del Mezzogiorno questa fascia arriva al 25% della popolazione8. L’Italia, protagonista nell’avvio della costruzione europea che indicava già nello statuto l’obiettivo dello sviluppo del Mezzogiorno d’Italia, oggi naviga a vista. In una Unione Europea composta da 27 Stati membri, molti dei quali usciti di recente da condizioni economico-politiche molto difficili, l’Italia appare bloccata e in caduta libera in tutte le classifiche che indicano i livelli di sviluppo e di civiltà. Dispiace ripeterlo, ma la sola classifica che ci vede in testa nel mondo è quella della criminalità organizzata.   Rapporto Svimez 2011 cit., pp. 300 sgg.

8

Conclusione

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Nel dopoguerra pareva che ci fosse capitata la più grande sventura, per avere in casa e nella forma più ampia il conflitto bipolare, che bloccava lo sviluppo di un sistema politico «normale» di alternanza al governo. Questo però non ha impedito il progresso e la «grande trasformazione» del paese. Oggi che siamo da tempo tutti sciolti da vincoli ideologici e da condizionanti legami internazionali siamo riusciti a far crollare in Italia il confronto politico-culturale a livelli infimi, in una sorta di «eterno ritorno» dell’interesse esclusivo al proprio «particulare». A 150 anni dall’unificazione l’Italia ha bisogno di un nuovo «risorgimento», per poter svolgere un ruolo significativo in un mondo che si sta rinnovando velocemente e profondamente. Come s’è visto, l’unità dell’intero paese quasi nessuno se l’aspettava, eccetto pochi «esaltati» come Mazzini e Garibaldi. Disse bene il deputato piemontese: in tanti restarono «come sbigottiti di questi pressoché sovrannaturali avvenimenti». In un mondo globalizzato e dominato da grandi potenze territoriali ed economiche, il futuro dell’Italia non si può rinchiudere nei confini del regno dell’Alta Italia, come s’era concordato tra Cavour e Napoleone III. I politici sono indispensabili per realizzare i progetti storici, ma sono gli utopisti che guardano nel futuro. Mazzini quasi solo vide l’Italia tutta unita. Ed espresse un altro vaticinio: «L’Italia sarà quel che il Mezzogiorno sarà». La questione meridionale è nata insieme all’Italia nel 1861. Ha compiuto anch’essa 150 anni. Quindi sono gemelle, e non si sono mai separate. Sono diverse, ma hanno avuto un destino comune. La differenza principale era che il Nord stava dentro l’Europa, il Sud era proteso verso l’Africa. Oggi la logistica ha annullato questa differenza. E il difetto di un tempo si è trasformato in una opportunità. Ricordate Farini: «Altro che Italia! Questa è Affrica». Oggi il Mediterraneo non è più un mare di retorica, ma è di nuovo al centro dei traffici globali. Quando si tornerà in Italia a condizioni politiche e culturali in grado di progettare e realizzare nuove forme di sviluppo e di progresso civile, si potrà guardare al Mezzogiorno come possibile volano per una ripresa dell’intera società italiana, liberata dal familismo dei clan e rifondata sulla preparazione e la capacità di lavoro del più esteso e inattivo capitale giovanile, accumulato e mortificato da ormai troppo tempo.

Indici

Indice dei nomi Ackley, G., 130. Aga-Rossi, E., 123n. Agnelli, famiglia, 215. Agosti, A., 126n. Alatri, P., 64n. Albertario, E., 132. Alberti, L.B., 8. Ales, L., 213n. Aliberti, G., 69n. Alicata, M., 148. Allegra, M., 180n. Allegretti, U., 32n. Alliata, famiglia, 116. Allum, P., 113n. Altobelli, C., 82. Amari, M., 22. Amato, G., 198. Ambrosio, F., 181. Amendola, G., 142 e n, 148, 151, 152n. Angiò, dinastia, 22. Annesi, M., 157n, 180n, 192n. Aragona, dinastia, 22. Arezzo, famiglia, 116. Arfé, G., 75n. Artom, E., 33n. Asor Rosa, A., 65, 66n. Aymard, M., 16, 28n. Badoglio, P., 129. Baget Bozzo, G., 135n. Bagnasco, A., 44n, 175n, 184 e n, 193n. Bairati, P., 136n. Bandiera, fratelli, 28. Bandini, M., 136. Banfield, E.C., 151. Barbagallo, F., 46n, 47n, 56n, 59n, 64n, 67n, 68n, 69n, 74n, 78n, 79n, 80n, 81n, 82n, 86n, 92n, 94n, 95n, 104n, 105n, 123n, 135n, 142n, 155n, 173n,

179n, 181n, 182n, 183n, 184n, 187n, 200n, 202n. Barberis, C., 120 e n. Barbero, A., 38n. Barbuto, G.M., 8n. Barca, F., 110n, 130n, 157n, 196, 197n, 223 e n. Barca, S., 112n. Barone, G., 38n, 64n, 84n, 105n, 134n, 136n. Barucci, P., 126n, 127n, 134n, 137, 138 e n, 139 e n, 152n, 154n, 157n, 199n, 200, 201 e n. Bassetti, P., 44 e n, 45 e n. Bassolino, A., 193. Battaglia, A., 178n. Becattini, G., 175n, 194n. Becchi, A., 181n. Belgioioso, C., 75. Beneduce, A., 93, 104, 109-111, 139, 143, 204. Beregno, M., 8n. Berger, S., 183n. Berlusconi, S., 192, 205. Bernardi, E., 119n, 120n. Berselli, A., 61 e n, 62 e n. Berta, G., 45n, 190n. Bertani, A., 30. Bevilacqua, P., 67 e n, 71n, 79n, 80n, 106n, 107n, 137n. Bianchi, L., 50n. Bianchi, P., 44n. Bianco, E., 193. Billi, P., 62. Bini, P., 142n. Bixio, N., 58. Boccella, N.M., 178n. Bodo, G., 197n. Bollati, G., 5n.

230 Bonanni, R., 211. Bonaparte, G., 25. Bonel, M., 157n. Bonelli, F., 48n, 77 e n, 78 e n, 88n, 101n, 110n. Bonghi, R., 41, 60-61. Bonomi, A., 194n, 222n. Bonomi, I., 129. Bonomi, P., 136. Borbone, dinastia, 11, 22, 28. Borrelli, G., 9n. Borsellino, P., 193. Bottiglieri, B., 146n. Braudel, F., 5n, 8 e n. Breglia, A., 134. Broccoli, A., 51n. Brogi, A., 133n. Brun, S., 132. Bruno, G., 110n, 146n, 157n, 174n, 183n, 187n. Brusco, S., 176n. Burckhardt, J., 8 e n. Cafagna, L., 14n, 51n, 54 e n, 77n. Cafiero, S., 137n, 141n, 142 e n, 143n, 152n, 161n, 169n, 175n, 179n, 188n, 192n. Caglioti, V., 132. Cairoli, B., 72. Cammarano, F., 56n. Campilli, P., 130, 141, 152. Candeloro, G., 9n, 10n, 25n, 27n, 30n, 35n, 38n, 108n. Cannari, L., 198n. Capitini, A., 150. Capone, A., 61n. Capuano, M., 93-94. Carabba, M., 140n, 159n, 163n. Caracciolo, A., 14n, 101n. Cardini, A., 65n. Caredda, G., 134n. Carli, G., 146n. Carocci, G., 61n. Caronna, M., 98n. Casale, A., 81. Casana, S., 95. Casmirri, G., 137n. Cassese, S., 61n, 88 e n. Castells, M., 4n, 170 e n, 202n, 219. Castronovo, V., 47 e n, 77n, 102n, 110n, 115n, 167n. Cattaneo, C., 20, 30, 44.

Indice dei nomi Cavalcanti, M.L., 146n. Cavour, C. Benso, conte di, 7, 25-26, 27 e n, 29-33, 36, 42, 44, 57-58, 99, 225. Cefis, E., 158. Cenzato, G., 104, 110-112, 114 e n, 125n, 130, 132. Ceriani Sebregondi, G., 140 e n, 142n, 150. Cerrito, E., 49n, 159, 160n. Cersosimo, D., 168n, 189n. Chabod, F., 8n. Chastel, A., 5n. Cheli, E., 125n. Chenery, H., 130. Chiaves, D., 31n. Cialdini, E., 37. Ciampi, C.A., 193-196, 197n. Cianci, E., 110n. Ciasca, R., 103. Cinanni, P., 120n. Cini, V., 94. Ciocca, P., 107n. Cipolla, C.M., 5n, 9 e n. Ciranna, G., 142n. Ciuni, R., 43n. Coda Nunziante, G., 150. Cohen, J.S., 107n. Colaizzo, R., 178n. Colajanni, N., 65n, 74, 89. Coletti, F., 79 e n. Collidà, A., 159n. Colosimo, G., 85. Compagna, F., 141 e n, 142 e n, 149 e n, 163, 164 e n, 182 e n. Confalonieri, A., 76n. Cordasco, G., 214n. Cormio, A., 80n. Corner, P., 109n. Corso, G., 180n. Cortese, G., 156. Cortese, N., 20 e n. Corti, P., 84n. Corvaglia, E., 105n. Costa, A., 146. Costa, P., 32n. Costabile, L., 150n. Costantini, M., 79n. Cotula, F., 76n, 137n, 141n. Crisantino, A., 22n. Crispi, F., 27-28, 61, 63-65, 73. Croce, B., 14-15, 40, 41n, 61n, 62, 63n, 149.

Indice dei nomi Cuoco, V., 15 e n, 51. D’Alema, M., 198. Dalmazzo, ispettore generale, 96. Damiani, M., 178n. D’Angiolini, P., 82n. Daniele, V., 49 e n. Dante Alighieri, 5. D’Antone, L., 107n, 110n, 111n, 112n, 129n, 132n, 137n. D’Antonio, M., 146n, 177 e n, 178n, 187n. Davis, J.A., 15, 16n, 17. d’Azeglio, M., 32, 33 e n. Deandreis, M., 222n. De Benedetti, A., 101n, 110n, 111n, 112n. De Benedictis, M., 150, 172n. Debord, G., 45n. de Caprariis, V., 148. De Caro, G., 66n. de Cecco, M., 76n, 110n, 139n. De Crescenzo, S., 58. De Felice, F., 16, 79n, 80n, 123n, 162n. De Francesco, A., 15n. De Gasperi, A., 44, 128-130, 132-133, 135, 137-138, 142, 147, 169. De Ianni, N., 127n, 195n. Del Carretto, F., 23. Del Guercio, G., 214n. Dell’Angelo, G.G., 157n. Della Peruta, F., 10n, 19n. Del Monte, A., 157n, 167n, 178n. Del Monte, C., 178n. De Lorenzo, R., 51n. De Lucia, V.E., 113n, 182. De Luna, G., 122n. De Majo, S., 49n. Demarco, D., 90n. De Martino, C., 136. De Martino, E., 150. De Martino, F., 142, 148. De Martino, G., 81. De Masi, D., 165n. De Nicola, E., 124. Denitto, A.L., 80n, 146n, 152n. De Nobili, L., 79n. Depretis, A., 63. De Rita, G., 159n, 176 e n, 194 e n. De Roberto, F., 63. De Rosa, G., 9n, 100n. De Rosa, L., 49n, 53n, 102n.

231 De Sanctis, F., 41, 51-52, 60, 62. De Seta, C., 42n. De Viti De Marco, A., 65 e n, 86, 99. De Vito, S., 181. Diena, G., 121. Di Giacinto, V., 221n. Dini, L., 192. Di Nolfo, E., 124n. Di Risio, M., 213. Di Vittorio, G., 96, 134, 142, 152-153. Dolci, D., 150. Dorso, G., 38 e n, 66-67, 98 e n, 99 e n, 117 e n, 119-120, 121n, 123, 124 e n, 149. Dossetti, G., 135. Draghi, M., 202, 208. Eckaus, R.S., 49 e n. Einaudi, L., 129-130, 132, 135, 138, 141, 146, 156 e n. Elkann, J., 209. Ellwood, D.W., 123n. Esposito, C., 135n. Fabiani, G., 137n, 173n. Faina, E., 50. Falchero, A.M., 102n. Falci, G.A., 213n. Falco, G.C., 102n. Falcomatà, I., 193. Falcone, G., 193. Fanfani, A., 135, 138, 140. Farini, L.C., 35-36, 58, 225. Fasanella, G., 173n. Fatica, M., 104n. Federico, G., 51 e n. Federico II, imperatore del Sacro Romano Impero, 52. Felice, C., 79n. Felice, E., 53n. Fenoaltea, S., 49 e n. Fenoglio, P., 94. Ferdinando I, re delle due Sicilie, 22, 40. Ferdinando II, re delle Due Sicilie, 20, 22-23, 28, 40. Ferrari, G., 35, 37. Ferrari-Aggradi, M., 129n. Ferri, E., 74. Filangieri, G., 41. Finocchiaro Aprile, A., 116. Finoia, M., 132n.

232 Fioravanti, M., 125n. Fiore, T., 150. Florio, I., 83. Foa, V., 121, 134. Fonzi, F., 65n. Fornero, E., 214. Fortunato, E., 47. Fortunato, G., 46, 47 e n, 66, 68 e n, 69 e n, 72 e n, 73n, 84, 98, 103. Francesco Giuseppe, imperatore d’Austria, 26. Francesco I, re delle Due Sicilie, 16, 22. Francesco II, re delle Due Sicilie, 27, 30, 36-37, 39, 58. Franchetti, L., 66-68, 72. Franzinelli, M., 110n. Frascani, P., 102n. Fuà, G., 88n, 134, 175n. Fucini, R., 69 e n. Fumagallo, M., 214n. Fumi, G., 130n. Fumian, C., 107n. Fuoco, F., 51. Galasso, G., 5n, 14, 15 e n, 16 e n, 18n, 20 e n, 27n, 42n, 46n, 60n, 61n, 62 e n, 68n, 100n, 103n, 104n, 113n, 148, 150n, 151 e n, 155 e n, 161n, 163, 164 e n, 177 e n. Galiani, F., 41. Gallerano, N., 114n. Galli, G., 178n, 188n. Gallino, L., 215 e n. Gambino, A., 124n. Ganapini, L., 129n. Gandhi, M.K., 150. Garibaldi, G., 7, 25-32, 36, 57-58, 71, 225. Garin, E., 5n. Garofalo, G., 150n. Gelsomino, C.O., 137n. Genovesi, A., 41, 51. Gentile, E., 73n. Gentile, G., 42n, 103. George, P., 149. Gerratana, V., 70n. Ghidella, V., 215. Ghirelli, A., 69n. Ghisalberti, A.M., 33n. Gianfagna, A., 134n. Giannini, M.S., 125n, 188. Giannola, A., 49n, 131n, 147n, 157n,

Indice dei nomi 160 e n, 167n, 168n, 170n, 177 e n, 178n, 195n, 217-218. Giardina, A., 5n. Giarrizzo, G., 28n, 38n, 63 e n, 64 e n, 117n. Gieseck, A., 189n. Gigliobianco, A., 137n. Gioberti, V., 59. Giolitti, A., 162-163, 166. Giolitti, G., 80-81, 82 e n, 85-87, 89, 92-93, 95-96, 99, 143. Giordani, F., 111-112, 130, 132, 137, 139, 141. Giordano, R., 148. Giotto, 5. Giovagnoli, A., 124n. Giuffrida, V., 93. Giuliano, S., 117, 120. Gladstone, W., 43 e n. Gobetti, P., 66. Gombrich, E., 5n. Gotor, M., 173n. Gottman, J., 149. Gozzelino, M., 134n. Gramsci, A., 38, 66-67, 99. Granata, S.A., 51n. Grasselli, D., 212n. Grassi, F., 80n. Graziani, A., 48n, 107n, 146n, 150 e n, 160 e n, 163, 164 e n, 167n, 175n, 178n, 181 e n, 187 e n. Graziano, L., 183n. Gribaudi, G., 183n. Griseri, P., 215n. Gronchi, G., 130. Gualtieri, R., 135n. Guarino, G., 110n. Guarino Amella, G., 116. Guicciardini, F., 8. Guidotti, S., 114n. Gullo, F., 119. Guttuso, R., 150. Harper, J.L., 123n. Haussman, G., 108n. Hertner, P., 102n. Hirschman, A.O., 156, 157n. Hobsbawm, E.J., 45 e n. Hoffman, P., 135. Hytten, E., 159n. Imperiali, E., 216n.

Indice dei nomi Ippolito, G., 112. Ivone, D., 132n. Jacini, S., 44, 50. Jandolo, E., 94. Jannello, A., 113n. Kamarck, A.M., 129 e n. Krugman, P., 177n. Labriola, An., 34n, 70 e n, 71. Labriola, Ar., 96. La Malfa, U., 13, 146, 148, 149n, 162 e n. La Marmora, A., 37. Landini, M., 211. La Spina, A., 194n, 198n. Lauro, A., 148-149. Lazzaro, G., 61. Le Goff, J., 5n. Leonello, G., 178n. Leopardi, G., 21 e n. Leopoldo di Borbone, 22-23. Lepre, A., 11n, 16. Levi, C., 150. Lewis, A., 130. Lilli, E., 209n, 213n. Litta, L., 178n. Lizzeri, G., 176n. Lollini, V., 83. Lombardo, R., 209. Longobardi, E.C., 96. Lori, C., 79n. Lupo, M., 51n. Lupo, S., 80n, 82n, 115n, 179n. Luraghi, G., 165 e n. Lutz, V., 156 e n. Luzzatti, L., 83, 87. Maccanico, A., 98n. Machiavelli, N., 8, 9n. MacMillan, H., 123n. Macry, P., 40n. Magini, M., 122n. Magnani, M., 110n, 198n. Malagodi, G., 156. Malan, A., 212n. Malanima, P., 49 e n. Manacorda, G., 65n. Mancini, P.S., 41, 60. Mangiameli, R., 117n.

233 Maranelli, C., 12n. Marchesano, G., 82. Marchioni, M., 159n. Marchionne, S., 209-212, 214n, 215. Marenco, G., 172n. Marino, G.C., 117n. Marmo, M., 59n. Marotta, S., 81n. Marrone, N., 136n. Marselli, G., 150 e n. Martucci, R., 38n. Masella, L., 79n, 105n. Massafra, A., 17 e n, 18n. Massari, G., 35. Mastellone, S., 19n. Mastriani, F., 69. Mattei, E., 138, 154. Mattina, L., 158n. Mazzacane, A., 65n. Mazzacurati, G., 5n. Mazzetti, E., 43n, 142n. Mazzini, G., 7, 19-20, 25-28, 30-32, 59, 68, 124, 225. Mazzoni, famiglia, 82. McGlade, J., 135n. Medici, Gia., 59. Medici, Giu., 136. Meldolesi, L., 194n. Menichella, D., 109, 111, 129 e n, 130, 132, 135, 137 e n, 138-141, 146. Meoli, C., 180n. Meriggi, M., 10n. Merzagora, C., 126, 127 e n, 146. Metternich-Winneburg, K. von, principe di, 21. Miccoli, G., 124n. Michelangelo Buonarroti, 5. Micucci, G., 221n. Miller, J.E., 133n. Minervini, G., 180, 182, 195 e n. Minghetti, M., 44. Miotti, D., 50n. Miraglia, L., 88. Misiani, S., 150n. Moe, N., 21n, 35n. Molfese, F., 38n. Molinari, A., 140 e n. Moncagatta, M., 21n. Montanaro, P., 221n. Morandi, R., 126 e n, 127-128, 130, 131 e n, 132, 138-141. Morgari, O., 82.

234 Mori, G., 76n, 94n, 102n. Mortara, A., 104n. Mosca, G., 63, 71 e n, 83 e n. Moscati, R., 12 e n, 20 e n. Mozzillo, A., 42n. Mucchetti, M., 211n, 215n. Murat, L., 25. Murri, R., 99. Muscetta, C., 117n. Musella, L., 40n, 134n. Musi, A., 18n. Mussolini, B., 98 e n, 103, 105, 115, 130, 143, 169. Myrdal, G., 130. Napoleone Bonaparte, imperatore dei francesi, 21. Napoleone III, imperatore dei francesi, 25-26, 27n, 30, 225. Napoleoni, C., 150. Napoletano, R., 141n. Napolitano, G., 162. Natoli, C., 65n. Negri Zamagni, V., vedi Zamagni, V. Niceforo, A., 74. Nicotera, G., 61 e n, 62 e n. Nitti, F.S., 39 e n, 46, 47n, 87 e n, 88n, 89 e n, 90-91, 92 e n, 93, 98-99, 130, 143, 149, 164, 190. Notarbartolo, famiglia, 116. Notarbartolo, E., 82. Notarbartolo, L., 82. Novacco, D., 142n, 156n. Novacco, N., 156n. Nullo, F., 29. Olivetti, G., 104, 112. Omiccioli, M., 176n. Omodeo, A., 93-94. Onado, M., 178n, 188n. Orlando, G., 88n, 150. Orlando, V.E., 63-64, 193. Orsina, G., 124n. Padovani, R., 50n, 175n, 222n. Padovano, R., 216. Pagliarini, G., 192. Palizzolo, R., 82-83. Pannunzio, M., 149. Pantaleoni, D., 35. Pantano, E., 85.

Indice dei nomi Paratore, G., 131-132. Paronetto, G., 131. Paronetto Valier, M.L., 131n. Pasimeni, C., 80n. Pastore, G., 161, 162n, 163. Paternò, F., 212n. Pavone, C., 121n, 122n, 123n. Pella, G., 141. Pellegrini, G., 50n, 198n. Pellegrino, G., 173n. Pelloux, L., 80, 85. Pepe, G., 36 e n. Perroux, F., 156 e n. Perulli, P., 44n. Pescatore, G., 141 e n. Pescosolido, G., 13 e n, 19n, 46n, 52n, 56n, 77n. Petraccone, C., 31n, 35n, 42n. Petrarca, F., 5. Petri, R., 132n. Petriccione, S., 167n, 169n. Pezzino, P., 136n. Piacentini, M., 113. Piazza, D., 192n. Pica, F., 217n. Piccardi, L., 129. Piccinato, L., 113. Pichierri, A., 44n. Pieraccini, G., 163. Pilo, R., 27. Pio XII (E. Pacelli), papa, 147. Pisacane, C., 28, 61 e n. Pisanelli, G., 41. Piselli, F., 193n. Pizzigallo, M., 157n. Pizzorno, A., 183n, 193n. Placanica, A., 79n. Poerio, C., 41, 43n. Polato, R., 210n, 215n. Polidori, E., 203n. Polverari, L., 223n. Pombeni, P., 56n, 135n. Pomicino, C., 181-182. Pontarollo, F., 175n. Postiglione, G., 112. Prampolini, C., 74. Presutti, E., 96 e n. Prodi, R., 193, 195-196, 198, 207. Prosperi, A., 9n. Provenzano, G., 50n. Pugliese, E., 119n, 145n, 167n. Puoti, B., 51.

Indice dei nomi Quagliariello, G., 124n. Ragionieri, E., 55n. Ranger, T.O., 45 e n. Ranieri, R., 135n. Rao, A.M., 10n, 11n. Rapone, L., 65n. Rattazzi, U., 36, 58, 61, 82 e n. Reagan, R., 177. Recupero, A., 28n. Renda, F., 22n, 28, 29n, 38n, 59n, 65n, 117n, 120n. Ricasoli, B., 36. Riccardi, A., 147n. Ricciardi, F., 130n, 132. Ricciardi, L., 132. Ricolfi, L., 190n. Roasio, A., 142n. Rocco, F., 141. Romanelli, R., 35n, 55n, 56n, 60 e n, 64n. Romano, L., 58 e n. Romano, P., 81-82. Romano, S., 63. Romeo, R., 3n, 10n, 12, 13n, 14 e n, 19 e n, 22n, 27 e n, 28n, 30n, 33n, 35n, 42n, 46n, 77n, 148. Romero, F., 133n. Roosevelt, F.D., 126. Rosano, P., 81, 82 e n, 85. Rosenstein-Rodan, P., 130, 143. Rossi, E., 122 e n. Rossi, M.G., 100n, 134n. Rossi, N., 197n. Rossi Doria, A., 120n. Rossi-Doria, M., 12n, 39n, 88n, 106, 107n, 117, 118 e n, 119 e n, 121 e n, 136, 148-150, 163, 171 e n, 172n, 182. Rossini, G., 135n. Rovelli, N., 158. Rubattino, R., 83. Rudinì, A. Starabba di, 59, 81-82. Ruffolo, G., 158, 159n, 163, 166n. Rugafiori, P., 110n. Ruini, M., 94. Ruju, S., 159n. Rusconi, G.E., 6n. Russell, J., 30. Russo, L., 52n. Sabbatucci, G., 13n, 52n, 56n, 65n, 109n, 132n.

235 Sacchi, E., 93. Salandra, A., 80, 83-84. Salerni, D., 166n. Sales, I., 181n, 194 e n. Salomone, A.W., 35n. Salvadori, M.L., 33n, 98n. Salvati, M., 126n, 130n, 146n. Salvemini, B., 79n. Salvemini, G., 35n, 38, 66-67, 74, 75 e n, 99, 149. Salvetti, P., 121n. Salvia, L., 214n. Sanfilippo, M., 125n. Sapegno, N., 5n. Saracco, G., 81. Saraceno, P., 13, 48 e n, 73 e n, 110 e n, 111 e n, 112n, 126 e n, 127 e n, 128, 130 e n, 131 e n, 132, 135, 137, 138 e n, 139 e n, 140 e n, 141, 143, 144n, 147 e n, 152 e n, 153 e n, 154n, 155n, 156, 162 e n, 163-164, 177, 185, 192. Saredo, G., 80-81. Savarese, G., 112n. Savoia, dinastia, 25. Sbarberi, F., 34n. Sbrocchi, L.G., 69n. Scalfari, E., 158n. Scarfoglio, E., 149. Schanzer, C., 82 e n. Schiavone, A., 125n. Scialoja, A., 51, 60. Scirocco, A., 10n, 22n, 26n, 30n, 35n, 39 e n, 42n. Scotellaro, R., 150. Scotti, E., 163. Secchia, P., 142n. Segni, A., 119, 136. Segreto, L., 174n. Sereni, E., 56n, 142n. Sergi, G., 74. Serpieri, A., 94, 107-108. Serra, V., 82. Sestieri, C., 173n. Siglienti, S., 132. Signorelli, A., 145n, 165n. Signorini, L.F., 176n. Sinigaglia, O., 132, 136. Sinn, H.-W., 189n. Sisci, F., 222n. Sola, G., 71n. Soldani, S., 32n. Sonnino, E., 145n.

236 Sonnino, S., 66, 68, 72, 80, 85-87. Spagnolo, C., 129n, 132n, 135n. Spaventa, B., 42 e n, 70. Spaventa, S., 40 e n, 41, 58, 60-61, 64 e n. Stalin (I.V. Džugašvili), 133. Starabba, famiglia, 116. Steve, S., 134. Sturzo, L., 38, 99-100. Sullo, F., 140. Suslov, M.A., 135. Sylos Labini, P., 134, 184 e n. Tajani, D., 59. Tarquini, A., 215n. Taruffi, D., 79n. Tasca, famiglia, 116. Tasca Bordonaro, L., 116. Tattara, G., 107n. Thatcher, M., 177. Tinbergen, J., 130. Tobia, B., 32n, 65n. Togliatti, P., 66, 134-135. Tonarelli, A., 158n. Toniolo, G., 54 e n, 76n, 99, 107n, 110n. Totaro, P., 148n. Tranfaglia, N., 35n. Tremonti, G., 192. Trentin, B., 134. Trento, S., 157n. Treves, A., 104n. Trigilia, C., 184, 185n, 193n. Trockij (L.V. Bronštejn), 66. Turani, G., 158n. Turati, F., 74, 75 e n, 95-96. Turi, G., 32n. Turiello, P., 38, 66, 70, 71 e n. Ucci, B., 98n. Umberto I, re d’Italia, 72, 80. Ursini, R., 158. Vaccaro, G., 113.

Indice dei nomi Valcamonici, R., 178n. Valenti, G., 50 e n. Valiani, L., 122n. Valletta, V., 136. Vanoni, E., 131, 135-136, 153 e n. Varsori, A., 133n. Varvaro, P., 113n. Vauchez, A., 9n. Veca, S., 21n. Vecchi, G., 53n. Venturi, F., 9n. Verga, G., 63. Veri, E., 214n. Vidotto, V., 13n, 52n, 56n, 65n, 109n, 132n. Viesti, G., 194n, 197n. Vigna, P.L., 201 e n. Villani, P., 10n, 11n, 12 e n, 15n, 16, 40n, 119n, 136n. Villani, S., 217n. Villari, L., 126n. Villari, R., 14n, 66, 68 e n, 69 e n, 72n, 77n, 115n, 142n, 148. Visceglia, M.A., 18n. Visocchi, A., 102, 119. Vitale, R., 223n. Vitiello, A., 166n. Vittorio Emanuele II, re d’Italia, 7, 2528, 31, 39, 57, 61. Vivanti, C., 9n, 32n. Vöchting, F., 105 e n, 107n. Vuoso, U., 69n. Westermann, F., 189n. White Mario, J., 69 e n. Wolleb, E., 169 e n. Wolleb, G., 169 e n. Woolf, S.J., 10n. Zacchia, C., 175n. Zagrebelsky, G., 125n. Zamagni, V., 50 e n, 76n, 101 e n, 125n. Zanardelli, G., 63, 80, 83-85. Zanotti-Bianco, U., 106 e n.

indice del volume

Premessa 3 I.

L’imprevista unità

7

L’Italia tra declino e risorgimento, p. 7 - Il Mezzogiorno borbonico nel dibattito storiografico, p. 10 - L’importanza della politica per il risorgimento dell’Italia, p. 18 - Dall’Alta Italia all’Italia unita, p. 23

II. Conflitti e squilibri

34

Un Mezzogiorno sconosciuto e in rivolta, p. 34 - Il «mistero divino» della classe dirigente, p. 38 - Distanze e divario, p. 42

III. La questione meridionale, il meridionalismo

55

Il Mezzogiorno come problema, p. 55 - Questione meridionale e unità nazionale, p. 56 - Destra e Sinistra storica nel Mezzogiorno, p. 59 - I primi revisionismi, p. 63 - I meridionalisti e la società meridionale di fine Ottocento, p. 67

IV. Il modello italiano di sviluppo e il Mezzogiorno

76

L’industrializzazione al Nord, l’emigrazione dal Sud, p. 76 - Il Mezzogiorno agli inizi del Novecento, p. 79 - La legislazione speciale, p. 84 - La prospettiva meridionalistica di Nitti, p. 88 - Libertà al Nord, repressione al Sud, p. 94

V. Guerra, dopoguerra, fascismo

98

Antigiolittismo e meridionalismo: Guido Dorso e Luigi Sturzo, p. 98 - L’esplosione del divario nella guerra, p. 100 - Il fascismo, la ex questione meridionale, il Mezzogiorno, p. 103

VI. Il Mezzogiorno al centro della rinascita nazionale La terra e i contadini: Guido Dorso e Manlio Rossi-Doria, p. 116 - Disfatta e rinnovamento dello Stato nazionale, p. 121 - L’Iri di Menichella e Saraceno, il ministro dell’Industria Morandi, la Svimez, p. 125 - La guerra fredda, la terra, la Cassa, p. 132

116

238

Indice del volume

VII. Lo sviluppo, lo squilibrio, l’esodo

145

L’Italia e il Sud alla metà del Novecento, p. 145 - Cultura e politica al Sud negli anni Cinquanta, p. 148 - La difficile strada per l’industrializzazione del Mezzogiorno, p. 152

VIII. Modernità dei consumi e modernizzazione apparente

171

La trasformazione dell’agricoltura, p. 171 - Il Sud scivola ai margini della politica italiana, p. 173 - Nord e Sud: i sussidi statali aumentano i consumi al Sud di prodotti del Nord, p. 175 - Un nuovo blocco di potere politico-sociale, p. 179

IX. Da un millennio all’altro

191

Le aree depresse d’Italia, p. 191 - La stagione dei sindaci e dello sviluppo locale, p. 193 - La «nuova programmazione» mancata, p. 195 - Le mafie del Sud nell’Italia e nel mondo, p. 199

X. Il Mezzogiorno attuale

204

La triste storia del Fas, p. 204 - La Fiat fabbrica meno in Italia, p. 209 - La depressione meridionale, p. 216

Conclusione

219

La stasi dell’Italia e la trasformazione del mondo, p. 219 - Le occasioni possibili per il Mezzogiorno e per l’Italia, p. 220



Indice dei nomi 229