Ultimatum all'esistenza. Conversazioni e interviste (1949-1994) 8865427507, 9788865427507

«Per me scrivere è un ultimatum all'esistenza», afferma Cioran in una delle preziose interviste raccolte nel presen

414 11 2MB

Italian Pages 480 [481] Year 2020

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD FILE

Polecaj historie

Ultimatum all'esistenza. Conversazioni e interviste (1949-1994)
 8865427507, 9788865427507

Citation preview

Mille e una storia 5 Collana diretta da Gerardo Fortunato

Ladri di Biblioteche

Emil Cioran

Ultimatum all’esistenza Conversazioni e interviste (1949-1994) A cura di Antonio Di Gennaro

La scuola di Pitagora editrice

Collana promossa dall’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici In copertina: Emil Cioran (© Archivio Heinz-Norbert Jocks)

Copyright © 2020 La scuola di Pitagora editrice Via Monte di Dio, 14 80132 Napoli www.scuoladipitagora.it [email protected] isbn isbn

978-88-6542-750-7 (versione cartacea) 978-88-6542-751-4 (versione elettronica nel formato PDF)

Printed in Italy – Stampato in Italia

INDICE

Intervista con Jean Lessay Intervista con Jean Amrouche Intervista con Christian Bussy Intervista con Leonhard Reinisch Lettere di Emil Cioran a Leonhard Reinisch Intervista con Ben Amí Fihman Lettera di Emil Cioran a Ben Amí Fihman Intervista con Jean-François Duval Intervista con Rossend Arqués Intervista con Fred Backus (I) Intervista con Irene Bignardi Intervista con Verena von der Heyden-Rynsch Intervista con Josef Osterwalder Intervista con Hans-Jürgen Heinrichs Intervista con Rosa Maria Pereda Intervista con Philippe D. Dracodaïdis Interviste con Alina Diaconú Lettere di Emil Cioran ad Alina Diaconú Intervista con Anca Visdei Intervista con Ben Salem Himmich Intervista con Alfred Koch

7 11 21 37 57 59 87 89 93 105 131 137 153 157 197 205 231 257 263 273 283

Intervista con Laurence Tacou Intervista con Josefina Casado Intervista con Benedetta Craveri Intervista con Dieter Bachmann Intervista con Jean-Louis Ézine Intervista con Fernando Savater Intervista con Georges Walter Intervista con Vasile Andru Intervista con Ignacio Vidal-Folch Intervista con Ann Van Sevenant Intervista con Ion Deaconescu Lettere di Emil Cioran a Ion Deaconescu Intervista con Heinz-Norbert Jocks Intervista con Fred Backus (II)

299 319 325 333 337 341 351 377 389 393 403 439 443 455

Nota ai testi 469

INTERVISTA CON JEAN LESSAY*1

Caro amico, se permette, parlerò agli ascoltatori della sua giovinezza, al suo posto. Spiegherò che è nato in Romania nel 1911, dove ha fatto studi di filosofia, che ha scritto un saggio davvero notevole su Bergson, che ha pubblicato in romeno i suoi primi quattro libri, inclusi Il libro delle lusinghe e Al culmine della disperazione, che le è valso un premio giovanile di letteratura romena. In che anno è venuto in Francia? Nel 1937. Credo che il soggiorno nel nostro Paese sia stato molto gradito, dal momento che da allora non è più ripartito. Sì, è così, ma dopo sono venuto in Francia come borsista dell’Istituto francese di Bucarest. Sono rimasto qui. All’inizio ero venuto per scrivere una tesi, cosa che non ho mai fatto. Su Kierkegaard, credo.

* Trascrizione dal francese di Chada Maghraoui Hassani; traduzione italiana di Vincenzo Fiore.

7

Ultimatum all’esistenza

Sì. Ha cambiato le sue idee lungo la strada, e dalla filosofia è passato alla letteratura. Vuole raccontarci come è nata l’idea del Sommario di decomposizione, che ha appena riscosso un così grande successo, sia in libreria che di critica? Sa, ho scritto in romeno fino al 1945. A quel punto ho cambiato idea, ho voluto mettermi alla prova con il francese. Il Sommario di decomposizione è il risultato di questo tentativo. Si dice che lei deve molto ai moralisti francesi, è vero? È esatto, ai moralisti francesi, un po’ alla metafisica tedesca, molto alla filosofia greca e un po’ a Dostoevskij. Vedo che ciò che eredita dai moralisti francesi – a parte le loro concezioni e le loro espressioni letterarie – è anche questa preoccupazione per la lingua, che l’ha fatta notare per il premio Rivarol. Questo fa di lei uno scrittore romeno, che scrive in una lingua attualmente un po’ trascurata, intendo nel suo stile classico e talvolta prezioso. Perché ho frequentato molto il XVIII secolo. In particolare, c’è un libro di cui si parla molto poco e che ho letto tre volte, unicamente per affinare il mio stile, per così dire. Si tratta del libro di Madame de Staal-Delaunay La Bastille sous la régence. È un libro poco conosciuto, ma probabilmente uno dei migliori che ci siano. Si è anche detto che il pessimismo, il pessimismo estremamente nero che emana dal suo Sommario di decomposizione, sia figlio della nebbia della Germania; altri ci hanno intravisto un’influenza molto chiara dei moralisti francesi, che sono spesso pessimisti. Le piacerebbe spiegare un po’ il suo pessimismo, che le ha già procurato così tanti amici, come tanti nemici?

8

Intervista con Jean Lessay

Se sono state poste in relazione alcune visioni che ho della vita con gli eventi contemporanei, con le vicende storiche, ecc., è tutto falso. Credo che avrei scritto questo libro in qualsiasi epoca, poiché è il frutto di un temperamento, piuttosto che di congiunture. Si dice che lei deve molto alla musica e, in particolare, alla musica francese. È vero? Non è proprio così. Mi piacciono molto Bach e Brahms, sono i miei musicisti preferiti. E ha anche studiato e scritto su Debussy e Ravel? Oh, questo è ancor meno vero. Beh, li apprezzo molto, ma non sono i compositori che preferisco. Intende continuare a scrivere in francese, anche se potrebbe scrivere in romeno, in tedesco, in inglese – i suoi libri saranno tradotti in queste ultime due lingue. Quale sarà la sua prossima opera? Il mio prossimo lavoro sarà una raccolta di piccoli paradossi che probabilmente si chiamerà Petites réflexions pour personnes fatiguées. È una raccolta di riflessioni, disorganica e sconnessa. Credo che lei sia affezionato a questo stile – che rappresenta una parola fuori moda – e che consiste nello scrivere alla maniera dei moralisti o degli aforismi di Nietzsche… Ma proprio da questo punto di vista, infine, sono stato molto influenzato dai moralisti francesi, soprattutto da Chamfort e da La Rochefoucauld. Ho frequentato molto Joubert. E poi vorrei ricordare specialmente lo scrittore contemporaneo che più mi ha influenzato: Paul Valéry. È lo scrittore contemporaneo che ho letto di più nella mia vita.

9

Ultimatum all’esistenza

E che continua ad amare, immagino… Ah sì, sì. Ecco, credo che sia una cosa estremamente incoraggiante che, nel disordine della letteratura, il ritorno del classicismo francese avvenga attraverso alcuni giovani scrittori, venuti dall’altra parte dell’Europa.

10

INTERVISTA CON JEAN AMROUCHE*

L’anno scorso è stato pubblicato un libro dal titolo provocatorio: Sommario di decomposizione. Il suo autore, Emil Cioran, è nato in Romania nel 1911 e vive a Parigi dal 1937 dove, dice, continua a condurre una vita da studente. Il libro e l’autore erano sconosciuti sino a quando Cioran è stato insignito del premio Rivarol. Ricordo che tale premio è destinato ad aiutare gli scrittori stranieri di lingua francese ed è assegnato da una giuria dove figurano: Gide, Jules Romains, Paulhan, Gabriel Marcel, Daniel-Rops, Émile Henriot, Jean Schlumberger, Henri Troyat, e forse dimentico qualcuno. Questo Sommario di decomposizione è un violento pamphlet filosofico, costituito da brevi capitoli estremamente serrati nel pensiero e nel linguaggio. Senza dubbio, non si fa molta fatica a rilevare, sottesi a questo specifico testo, una confessione contenuta, richiami velati, una denuncia tragica e disperata, che assume i colori della disperazione, della veemenza e dell’accusa. Di un’accusa contro questo mondo, per come è stato costruito dall’uomo e contro l’uomo stesso, probabilmente non per come avrebbe voluto essere, ma per come è diventato. Cioran è qui davanti a me, vicino a voi [ascoltatori], e vorrei chiedergli di fare un po’ di luce su un problema che lo assilla personalmente, ma che va oltre la sua persona. Si tratta della situazione nel mondo odierno di quel che i Greci chiamavano “meteco”. * Trascrizione dal francese e traduzione italiana di Laureto Rodoni.

11

Ultimatum all’esistenza

Cioran, può rispondere su questo particolare argomento, o preferisce parlare d’altro? Lei è qui per esprimere ciò che le sta a cuore. Sì, ecco… quando ho scritto il capitolo Tribolazioni di uno straniero non mi riferivo alla situazione del meteco ad Atene, ma piuttosto a Roma. Pensavo soprattutto alla condizione dello straniero in una Roma crepuscolare – all’intellettuale, al sofista greco o al teologo orientale – smarrito in una Roma che non credeva più in nulla, che non aveva più accesso alla sua mitologia e che, per forza di cose, non poteva rappresentare un punto saldo per questo solitario proveniente da un altro luogo. Questo solitario venuto da un altro luogo, in fondo, era lei. Questa Roma che ha perso completamente il contatto con la propria mitologia, con i suoi dèi; questa Roma in armi; questa Roma materialista; questa Roma che sembra aver perso ogni fede nella vita spirituale, è per caso Parigi? Ahimè, sì. Dico questo per chiarire il mio pensiero. In realtà, non parlavo solo di Parigi, ma dell’Occidente, l’Occidente in generale. Sono venuto fin qui dai Balcani. Ho visitato alcuni Paesi europei. Ho assimilato le loro civiltà, ho approfondito le loro letterature e mi sono fermato a Parigi. Ebbene, la condizione dell’intellettuale che ha perso la sua patria interiore e viene a vivere in altre civiltà è molto tragica, poiché arriva un momento in cui non può più spendere sé stesso, non ha più nulla da spendere. Ha sprecato le sue ammirazioni. Si pone [allora] il tragico problema: in che modo quest’inaridimento interiore si concilia con l’inaridimento delle civiltà? Il mio problema era come stabilirmi in un Occidente che ha perso la fiducia in sé stesso. Lei scrive all’inizio del capitolo intitolato Tribolazione di uno straniero: «Nato in qualche tribù sfortunata, percorre in lungo e in largo i viali dell’Occidente. Innamorato successivamente di diverse patrie, non spera più di trovarne una: irrigidito in un crepuscolo intemporale, cittadino del mon-

12

Intervista con Jean Amrouche

do – e di nessun mondo –, è inefficace, non ha nome né vigore»1. Sottoscriverebbe ancora questa frase d’apertura? Credo di sì. Per quanto riguarda l’inizio, sa, non importa che io provenga da qualche tribù, io vengo dalla Romania. L’importante è comprendere che «percorrere in lungo e in largo i viali dell’Occidente» significa accogliere la malinconia di quest’Occidente agonizzante. È più o meno ciò che intendevo dire. Secondo lei, dunque, l’Occidente è in declino e così appare agli occhi di un orientale come lei, Cioran? È ben più di una sensazione, è una sorta di certezza. Risale a molto tempo fa l’intuizione di una mancanza di vitalità dell’Occidente, della sua preparazione all’agonia. L’Occidente è certamente condannato. Inconsciamente tutti lo sanno, ma pochi osano affermarlo. Cosa le fa dire che l’Occidente sia condannato? È un riferimento al famoso libro di Spengler? Certamente…, da un lato. Ma c’è anche qualcos’altro: una mancanza di vitalità che si percepisce ovunque. Una sorta di volontà di abdicazione. Non sto parlando soltanto sul piano politico. Quest’aspetto è secondario. Dico che c’è una sorta di inaridimento emotivo in Occidente, tra gli Occidentali, una sorta di anemia – non la chiamerò perniciosa – ma è certamente incurabile. Alla fine, Cioran, questa è un’affermazione che non possiamo contraddire, dato che è lei a dire di provare questa sensazione.

1 E. M. Cioran, Sommario di decomposizione, tr. it. di M. A. Rigoni e T. Turolla, Adelphi, Milano, 1996, p. 132.

13

Ultimatum all’esistenza

Sì. Ma la sensazione che lei prova, e andrò addirittura oltre, l’esperienza molto dolorosa e tragica che può aver vissuto, non può non essere confermata da osservazioni concrete e oggettive. Potrebbe citare alcuni fatti su cui si fondano le sue convinzioni? Sì. Lei sa che sul piano intellettuale sono arrivato grosso modo a questa visione dell’Occidente agonizzante grazie allo studio che ho fatto in merito alla fine dell’Impero romano. È stata una passione della mia vita. Su quest’argomento ho consultato un mucchio di libri, in particolare quello famoso di Gibbon sul declino dell’Impero romano e altre opere di storici, come ad esempio Svetonio. Ho trovato sorprendenti analogie tra lo stato d’animo di oggi e quello di Roma, diciamo, prima del sacco, dell’invasione di Alarico. Ecco, sul piano intellettuale, una sorta di eclettismo. Non siamo più in grado di produrre da soli idee originali e quindi le importiamo. Anche sul piano religioso, c’è una sorta di… come dire, di vuoto interiore: ufficialmente crediamo, ma in maniera esteriore… oppure [crediamo] nella chiesa, se parliamo del cattolicesimo. Certo, difendiamo ancora il cattolicesimo, ma non ci facciamo più uccidere per esso. Di fatto, vi è una sorta di diminuzione di intensità, a tutti i livelli. Basti pensare che anche il pensiero filosofico contemporaneo in Francia proviene dalla Germania e che la stessa Germania è approdata a una sorta di stagnazione. Ma questo forse significa semplicemente che l’Occidente, oggi, non può più essere una tale o tale nazione; non può più essere tale o tale altra città, considerata come una sorta di vasto laboratorio del pensiero. L’Occidente è un insieme infinitamente più complesso e vasto che abbraccia sia l’Europa che l’America e altre nazioni da esse molto lontane: “colonie”, non in senso politico o economico, bensì in senso intellettuale e spirituale, che l’Occidente ha esteso sull’intero pianeta…

14

Intervista con Jean Amrouche

Sì… …ovunque l’intelligenza dell’Occidente, e il suo spirito di analisi, sintesi, ricerca, scoperta, conquista, si siano profondamente insediati in mentalità radicalmente diverse. È per questo che allora lei, Cioran, che si è definito un po’ sommariamente come qualcuno venuto da una sorta di Paese intermedio tra Oriente e Occidente, sperimenta questa specie di dicotomia interiore tra due versanti dell’umanità: da un lato l’Oriente, dall’altro l’Occidente, e forse traspone nella dimensione di questo grandioso crepuscolo ciò che è semplicemente il suo dramma personale, il suo dramma interiore? Sì, sono d’accordo con lei. Voglio però aggiungere questo: tutto quello che potrei dire in termini di “storia” del mio libro è per me secondario. Interpreto il problema sul piano personale e metafisico. Certo, visto che ho un’innata sensibilità all’ansia, è ovvio che questa sensibilità abbia influito in maniera determinante sulla mia visione della storia. Lei fa riferimento a quest’ansia, Cioran. È proprio questo che mi interessa. Quest’ansia mi sembra costituisca la base della mentalità, del clima interiore in cui vive, si macera, soffre il meteco, [un tema su] cui vorrei tornare. Sì… Questo meteco che probabilmente è lei, ma non solo lei… Questo meteco è al contempo ognuno dei milioni di transfughi nel mondo. Tutti coloro che forse non hanno altro mezzo se non quello di proclamarsi, con una sorta di finzione del tutto illusoria, “cittadini del mondo”, tutti coloro che non hanno patria, tutte queste persone sradicate devono in qualche modo riconoscersi in lei, in quest’ansia davvero straziante a cui lei dà una forma particolarmente efficace nella voluta concisione del suo libro. Sì, ma vorrei precisare una cosa. È ovvio che io, diciamo, come “meteco”, ho subìto una sorta di esasperazione della mia sensibilità primi-

15

Ultimatum all’esistenza

tiva, a causa di questo fenomeno. Ma la mia visione del mondo non è dovuta alla mia condizione di meteco. Posso dire che questa condizione ha conferito un po’ più di peso, un po’ più di intensità drammatica a una visione solida, comunque e ovunque. Senza di essa, forse, non avrei raggiunto… Quest’ansia, forse, non si sarebbe trasformata in disperazione. Ma, mi dica… vorrei chiederle: sente di aver perso completamente una patria, una parte della carne, dello spirito e dell’anima e di non aver trovato una nuova patria in cui mettere radici? Ho assolutamente questa sensazione. Sa… vorrei dire questo: sul piano teorico, posso considerarmi separato, o come dire, strappato da tutto. Ciò non impedisce, tuttavia, che ci siano delle concessioni, a causa di una vitalità o di una sensibilità non estinta e che ci spinge a fare compromessi. In teoria, mi considero un uomo completamente distaccato da tutto e mi paragono volentieri, senza presunzione alcuna, ai monaci buddhisti che percorrono i viali. Sì, ma proprio questo tipo di monaco buddhista, senza dubbio, percorrerebbe i viali con questa superiore serenità del distacco, mentre lei, lei può avere una serenità, ma noi non la percepiamo. Lei ha, diciamo, una sorta di “serenità imprecante”, con la maledizione che sgorga dalle sue labbra. Io sono quello che si potrebbe definire uno “scettico violento”. In effetti, è stato difficile, come posso dire… Uso quest’immagine del monaco buddhista poiché lucidamente mi considero distaccato da tutto, ma allo stesso tempo affermo che da un punto di vista pratico non lo sono. Sì, distaccato, cioè “sottoposto a distacco”. Lei però non è l’autore di questo distacco. Esso non è il risultato di un esercizio spirituale.

16

Intervista con Jean Amrouche

No, ma è il risultato di una riflessione. Viene da una riflessione, ossia lei nota di essere distaccato. Ma sembra che nel fatto stesso di essere distaccato, di essere strappato dalle sue radici vitali, da quest’Oriente di cui non vuole costruire una sorta di patria più o meno favolosa e illusoria dello spirito, sembra che alla fine la ferita… questo taglio che le è stato inferto sia ancora estremamente doloroso. Ed è per questo, forse, che il suo destino è esemplare; ed è interessante meditare su di esso. Poiché in questo stesso capitolo lei dice più avanti: «Non avendo nulla da amare nel loro paese, ripongono il loro amore altrove, in altre contrade, dove il loro entusiasmo stupisce gli indigeni»2. E qui c’è qualcosa di profondamente toccante. In quali idoli riponeva inizialmente il suo fervore? È che… Il mio caso è alquanto particolare, nel senso che ho subìto delle feroci infatuazioni. Io, ad esempio, ho spinto la mia ammirazione sino alla frenesia. Ho trascorso un lungo periodo della mia vita, per così dire, dedicandomi alla metafisica tedesca. C’era solo la metafisica tedesca. Sono venuto in Francia e mi sono imbattuto nei moralisti francesi. Tutto quello che esulava dai moralisti francesi mi sembrava sciocco, insensato, privo di valore. Quali moralisti francesi? Chamfort, La Rochefoucauld, Joubert; in realtà tutti i moralisti francesi, credo, senza eccezioni. Sì… e poi questi moralisti francesi o certi filosofi francesi come Bergson, che lei ha studiato in particolare, hanno finito per deluderla perché poco dopo aggiunge: «Troppo sollecitati, i loro sentimenti si logorano e si degradano, l’ammirazione in primo luogo…»3. 2 3

Ibid. Ibid.

17

Ultimatum all’esistenza

L’ammirazione… È terribile ciò che dice. Se l’ammirazione stessa si spegne, se essa si esaurisce, cosa resta? Rimane questa terribile affermazione che lei ancora fa: «Mi sono fabbricato innumerevoli idoli, ho innalzato dappertutto troppi altari e mi sono inginocchiato davanti a un’infinità di dèi. Adesso, stanco di adorare, ho sperperato la dose di delirio avuta in sorte»4. Sono molto contento che lei abbia menzionato Bergson, poiché pensavo di potermi far capire più facilmente partendo, in questo caso, da lui. Ecco… ho avuto una considerevole infatuazione per Bergson. E poi è stato molto interessante. Perché me ne sono allontanato? Perché sono arrivato a un punto in cui mi sono reso conto che questa filosofia dello “slancio vitale”, che in passato mi aveva tanto affascinato, doveva essere “ribaltata”, per così dire. Si spieghi meglio… Sì, sono partito dall’affermazione di un pensatore tedesco che ha scritto un piccolo studio su Bergson che dice questo: «Bergson non ha visto il tragico paradosso della vita che, per mantenersi, deve distruggersi». E in quel momento ho capito che, in fondo, la visione della vita che più mi si confaceva non è quella dello slancio vitale sempre in espansione, ma piuttosto di uno slancio vitale rivolto contro di sé. Il doppio fenomeno dell’evoluzione e dell’involuzione… Sì, certo, allora ponevo l’accento su questo, il che spiega anche l’idea del mio libro. In seguito sono diventato sensibile agli aspetti negativi della vita. Cioè, a un certo punto ho anche detto che «la vita è tutto ciò che si decompone». Esattamente l’inverso dello “slancio vitale”. 4

18

Ibid.

Intervista con Jean Amrouche

Riconosco che possano esserci dei limiti, qualcosa di unilaterale in questa visione, che corrisponde al mio stato attuale. Per me, ad esempio, la visione più giusta della vita è quella che hanno i personaggi della tragedia: è evidente che c’è più verità in Macbeth che in qualsiasi libro di filosofia. Sì, certo che c’è più verità, lei lo dice bene, ma è una verità che si colloca su un altro piano. La scala del tragico non è quella della vita quotidiana. No, ma è l’unica che funziona. Sì, ma allora è una scala, come dire, così diversa dalla nostra. È una scala in cui l’uomo sta esattamente di fronte agli dèi, e per essere di fronte agli dèi, si proclama loro rivale e quasi loro pari. E senza questa preliminare divinizzazione dell’uomo, che lo eleva al rango di eroe tragico, non c’è tragedia. Non c’è alcuna tragedia, ma aggiungo questo: non penso affatto alla quotidianità. Credo proprio che quello che lei ha appena affermato rappresenti l’unica posizione valida, che il resto sia “riempimento”, cioè “esistenza”. In realtà, credo che tutto ciò che non è tragico sia irrisorio e accidentale, e come tale è di interesse soltanto per l’anagrafe o per la storia letteraria. Sì, certo, ma ci siamo allontanati dal problema del “meteco” così come lo avevo posto all’inizio. E vorrei che ci tornassimo, prima di concludere quest’intervista troppo breve e molto difficile. E mi scuso se glielo richiedo in questa forma, come dire, poco approfondita, per non dire improvvisata. Lei dice che il meteco, «stanco di adorare» ha «sperperato la dose di delirio avuta in sorte»5; [quindi] non ha altra risorsa se non la disperazione. Ha perso una patria. Non ne ha trovata un’altra, né una patria secondo la carne, 5

Ibid.

19

Ultimatum all’esistenza

secondo la società, e nemmeno – lei dice – una patria secondo lo spirito. E questo perché, man mano che offre la sua fede e il suo fervore agli dèi, si rende conto che questi dèi sono in fondo solo idoli, idoli di legno marcio che non tarderanno a decomporsi. Bene, lei pensa che questo sia un destino che possa essere generalizzato al mondo d’oggi? Temo di sì. Credo che ogni uomo, ovunque, stia diventando un meteco nell’universo. Ed è da questo punto di vista, da questa allusione metafisica, che le mie divagazioni possono avere un senso. Credo davvero che il meteco, così come l’ho presentato, stia per diventare il modello o, piuttosto, il destino di tutti gli uomini d’oggi. Perché? Perché è evidente che la terra, per così dire, non è più una patria. Ognuno ha più o meno la sensazione della precarietà e della fine. Questa sensazione di una fine comporta, in fondo, che nessuno abbia più una patria. Non esiste più una patria eterna, non si prova più l’ingenua sensazione di una sorta di “radicamento”. Questo sentimento della provvisorietà diventerà inevitabilmente un sentimento tragico… È per questo che, secondo me, in ogni uomo c’è un futuro meteco… «In ogni uomo c’è un futuro meteco». Credo che su quest’espressione da lei spontaneamente formulata sia possibile terminare la nostra intervista. È questa la formula che sottoporremo alla meditazione dei nostri ascoltatori.

20

INTERVISTA CON CHRISTIAN BUSSY*

La prima domanda che mi viene in mente è la seguente: perché ha lasciato la Romania? Sono venuto qui come inviato dell’Istituto francese di Bucarest per continuare i miei studi a Parigi. Dovevo preparare una tesi alla Sorbona, che non ho fatto. Non ho mai pensato seriamente di continuare i miei studi, di diventare un accademico e sono rimasto a Parigi dal 1937, anno del mio arrivo. Perché è rimasto? Sono rimasto perché fui sorpreso dalla guerra e poi perché Parigi, credo, sia la sola città dove io possa vivere. È l’unica città dove si possa vivere senza professione, senza carriera, senza un destino esteriore, ed io mi ci sono trovato molto bene. Per me, la Romania è stata una tappa della mia vita, nulla più. All’epoca, se non erro, la sua tesi riguardava Bergson…

* Traduzione italiana di Massimo Carloni.

21

Ultimatum all’esistenza

No, quello era un diploma. Un diploma che risale a molto tempo prima, era il 1932, alla fine dei miei studi in Romania. Tuttavia, riguardo alla tesi che dovevo fare a Parigi, non ho ancora trovato l’argomento! A partire da quale momento, lei ha scelto di non avere un destino? A dire il vero, da quando sono qui. Ho sempre vissuto in questo quartiere da studente e posso anche dirle che, fino al 1950, ero iscritto, immatricolato alla Sorbona come studente, e ho vissuto proprio così. Nel 1950 mi convocarono dicendomi: «Ascolti, lei ora ha quarant’anni, è finita, non può più mangiare in mensa ecc.». Devo dire che quello è stato per me il colpo più grande! Sa, ho vissuto da parassita dell’università, pur non avendo nulla in comune con essa. Credo che questo sia un punto molto importante per me, perché, sul piano materiale, è stato veramente un colpo terribile. Poiché all’epoca mi dissero: «Ascolti, è finita, [il limite] è abbassato a ventisette anni»; l’età mi permetteva di andare alle mense. Allora, se tutto ciò fosse continuato, il mio progetto di vita era stabilito: avrei vissuto da studente sino alla morte, con tutti i vantaggi materiali che ciò comporta. Quando lei è arrivato, nel 1937, ha cercato di incontrare persone che stimava? Assolutamente no. Devo dire che a Parigi ho incontrato scrittori solo quando ho pubblicato il mio primo libro, quindi nel 1949. Prima conoscevo delle persone, ma non ho mai pensato di dover incontrare uno scrittore, un filosofo, un intellettuale. Sono sempre vissuto fuori da tutto questo. Ciò nonostante, con il suo libro, lei ha saltato la barriera… Sì. Devo dire che, in un certo senso, ho cercato di rifarmi. Per alcuni anni ho condotto una vita non proprio mondana, ma la vita dei

22

Intervista con Christian Bussy

cocktails. Dal 1950 al 1953-54 ho conosciuto parecchia gente, uscivo tantissimo, ma alla fine mi sono stancato. In fondo, ho sempre vissuto ai margini della società. Ai margini di tutto, cioè, una sorta di emarginato con tutto ciò che ne consegue e che corrisponde bene alla mia visione delle cose, ai miei gusti personali. Perché, nonostante tutto, nel 1949 ha deciso di scrivere un libro? In un certo senso, era comunque entrare in società? No, ecco cos’è accaduto. Nel 1947 ero in vacanza vicino a Dieppe e mi divertivo a tradurre Mallarmé in romeno e d’un tratto mi sono detto: «Ma tutto ciò è assurdo, poiché non ritorno in Romania!». Tradurre Mallarmé in una lingua sconosciuta è tempo perso, no? Ho buttato via tutto, sono rientrato a Parigi e mi sono messo a scrivere in francese. Così è nato quel libro, il primo che ho pubblicato, Sommario di decomposizione, uscito due anni dopo. Non è stato per entrare in un circuito, ma solo per esplodere, insomma, è molto difficile da spiegare. Non so perché lo abbia scritto, ma devo dire che, in fondo, tutto quanto ho scritto, l’ho fatto, diciamo, in momenti di depressione. Una specie di terapia. Non era per farne un libro. I miei libri non sono tali. Alla domanda: «Perché lei scrive?», Paul Valéry rispondeva: «Per debolezza». È un po’ il suo caso? È molto più che per debolezza: per miseria, miseria interiore! Addirittura, se vuole, per tracollo più che per debolezza. E dunque, alla fine, non per necessità. Se vuole: per non sbraitare, per non urlare… Ma, in ogni caso, non certo per scrivere un libro. Il libro capita, è frutto del caso. Forse, anche per incontrare delle persone? No, questo davvero non lo credo.

23

Ultimatum all’esistenza

Per avere testimoni? Veramente no. Nel trasmettere un articolo, sì: bisogna elaborare un testo con un’idea implicita, rivolgendosi a qualcuno. Ma quando si scrive qualcosa per sé stessi, in momenti, diciamo, di crisi, non si pensa agli altri. Direi che, in fondo, l’atto di scrivere è per me una sorta di dialogo. Con lei stesso? Non con me stesso, con Dio. Io non sono credente. Non lo sono, ma neppure posso dire di essere miscredente. Per me l’incontro con Dio, forse, è nell’atto di scrivere. È come una solitudine che ne incontra un’altra. Una solitudine di fronte a un’altra solitudine. Essendo Dio più solo di sé stesso... dunque, l’atto di scrivere, che in teoria disprezzo, in pratica diventa apprezzabile, insomma, lo colloco molto in alto, come vede. Dicono che lei sia nichilista, è vero o falso? Cos’è il nichilismo? Io non sono nichilista, non sono niente. Credo di avere degli accessi di nichilismo. Veda, è molto difficile da spiegare. Si può dire di Buddha che sia nichilista? Non è possibile... È molto complicato... Davvero, non vedo come poter rispondere a una tale domanda, rimanendo del tutto sincero. Di certo sono un negatore, tuttavia la mia negazione non è astratta, quindi un esercizio. È una negazione viscerale, dunque, nonostante tutto, un’affermazione; è un’esplosione. Uno schiaffo è forse una negazione? Dare un ceffone... È un’affermazione... È un’affermazione, ma le mie negazioni somigliano a degli schiaffi, quindi sono affermazioni. Tuttavia, non mi ritraggo, non ho paura del mio nichilismo o pessimismo o come vogliamo chiamarlo, veramente

24

Intervista con Christian Bussy

non m’importa. C’è il lato nichilista, ma non si tratta di questo, non credo sia importante. Perché Cioran è un ribelle? Io non sono un ribelle. Chi si ribella, vuole rimediare a qualche cosa. Il ribelle è un militante; io non sono un militante. È pur vero che ho denunciato parecchie cose, ma con un sentimento dell’irreparabile. Per esempio, non si può dire che Baudelaire sia un ribelle, proprio perché egli aveva il sentimento dell’irreparabile e neppure Pascal era un ribelle, aveva il sentimento dell’irreparabile. In tal senso, io mi sento prossimo loro: non sono un ribelle. Andiamo più a fondo: lei è un disperato allora? Nemmeno. Come dire... Cerco di inquadrarla. Tutto ciò ha delle implicazioni negative. Come ho già detto, non mi tiro indietro. È evidente che, teoricamente, sono riuscito a esprimere una posizione disperata, poiché essa non conduce a niente, da nessuna parte, è inutilizzabile. Attenzione però, io ho sempre voluto essere inutilizzabile. Ciò non m’infastidisce affatto e, curiosamente, non m’impedisce neppure di vivere, giacché accetto tale situazione. Del resto non voglio uscirne, dal momento che penso non vi siano vie d’uscita. Non ve ne sono, vero? Ho sempre sostenuto che, se vi fosse un’uscita, l’avrei trovata. Perciò non c’è ragione, no? Comunque sia, non mi ritengo più stupido di altri. Avrei potuto trovare un’uscita, ma ritengo che non ve ne siano, ciò ha fatto sì che io mi sia adoperato a guardare le cose. Dopotutto, se considera l’aspetto apologetico in Pascal, cosa resta? Delle consolazioni sulla condizione umana, sulla condizione della terra in cui viviamo, ecc.

25

Ultimatum all’esistenza

Pascal è un moralista? Certamente, attenzione però. Come dicevo, se si elimina l’aspetto apologetico, restano delle constatazioni, disperate se lei vuole, insomma, in ogni caso, lucidissime. Proprio quello che anch’io ho voluto fare. Ho constatato le cose senza indicare i rimedi. Se parlo di rimedi, è proprio per dimostrare che sono pressoché inutilizzabili e che non vi è un rimedio essenziale. Ed è ciò che esprime il mio ultimo libro: Il funesto demiurgo. La creazione è una sorta di creazione tarata, di un Dio tarato. Allora, se vuole, non credo si possa propriamente parlare di disperazione. Non sono disperato, molto semplicemente constato. Pur essendo così severo, lei conserva comunque dei soggetti di ammirazione, di amicizia? Sì, senza dubbio. Ho la passione dell’amicizia, ho sempre avuto grandissimi amici, ma non necessariamente nell’ambiente letterario. Per esempio, l’uomo che ho ammirato di più nella mia giovinezza è una persona che non ha scritto nulla e che aveva sicuramente del genio. Si trova in Romania, è qualcuno incapace di scrivere, ma è un uomo straordinario. Mi dirà: «È lei ad affermarlo!». Certo, tuttavia ritengo che le persone vadano giudicate in senso assoluto. Non ho mai valutato le persone in funzione di quello che fanno, ma sempre e solo per quello che sono. Ciò che uno è, non ciò che fa. Per questo motivo, quando si dice che qualcuno è un fallito, perché non ha combinato nulla, non ha alcuna importanza. Non ritengo che ci si debba realizzare, ma occorre comunque essere qualcuno. Nella mia vita ho conosciuto persone straordinarie di cui non si parlerà mai in letteratura, ma ciò non è affatto importante. Ciò che un individuo è. Le dirò di più. Sul piano metafisico, credo che una conversazione con qualcuno che soffre di angosce personali, come una portinaia inquieta, sia più interessante di quella con un filosofo soddisfatto di sé, infatuato. Nella mia vita ho veramente appreso tanto e a contatto con ogni sorta di persone. In questo sen-

26

Intervista con Christian Bussy

so, posso dire di non aver frequentato molto l’ambiente intellettuale, né in Romania, né qui, né altrove. Ho imparato tanto da un sacco di gente, al di fuori del circuito intellettuale, e questo è fondamentale. Di conseguenza, devo dire che ho conosciuto diverse persone che hanno avuto grande influenza su di me, specialmente in gioventù, e nessuna di loro era scrittore, proprio nessuno. Potrei citare molti casi di persone che non hanno mai fatto nulla. Non so se mancassero di talento, a riguardo non posso esprimere giudizi, ma erano persone a cui riconoscevo una netta superiorità su di me e che erano andati più avanti nella percezione della realtà, erano più lucidi di me e, di conseguenza, erano superiori e io ero molto felice di frequentarli. A loro debbo tantissimo, nonostante, come le dicevo, essi non abbiano lasciato nulla, non abbiano scritto niente, ma ciò non ha alcuna importanza. Hanno scritto tramite lei, “per procura”? Se vuole, debbo loro moltissimo perché erano individui estremamente lucidi e, in fondo, credo che la lucidità sia la qualità eminente di una persona, la qualità per eccellenza, tipica di un uomo che ha compreso. Ora, nella vita ho notato che ci sono pochissime persone che hanno veramente compreso. Si possono incontrare grandissimi scrittori che non hanno capito niente, persone di gran talento, che non valgono nulla. Al contrario, nella vita s’incontra qualcuno per caso, in un caffè, ed è una rivelazione, un uomo che ha approfondito, che si è arrovellato sui grandi problemi. E ho notato, per esempio, che sul piano religioso, ciò è molto interessante, soprattutto con persone prive di una formazione intellettuale compiuta, che non sono passate dall’università. Dunque, ci tengo ad affermare il debito di riconoscenza che ho verso quelle persone. Non ve ne sono molte, tuttavia ve ne sono, e io ho sempre avuto amici a quel livello, se vuole, sin dall’infanzia. Una piccola eccezione è Henri Michaux, ma è un po’ come lei, uno scrittore anti-scrittore.

27

Ultimatum all’esistenza

Ammiro molto Michaux, è un uomo straordinario. Mi spiace molto che abbia lasciato questo quartiere. Abitava qui, qui vicino, in un palazzo signorile in rue Séguier. Ora lo vedo di meno, ma è un uomo ammirevole che è rimasto sé stesso, ammirevole perché poteva parlare di qualsiasi cosa. Quali punti in comune hanno Cioran e Michaux? Mi piaceva molto osservare Michaux, farlo parlare. A volte uscivo con lui. Mi portava a vedere film scientifici, documentari che non m’interessavano più di tanto. Ciò che m’intrigava era capire perché Michaux vi s’interessasse tanto. Erano pellicole di biologia, di mineralogia ecc. Michaux ne era appassionato. Solo più tardi ho capito il perché. Nei suoi libri sulla droga, egli aveva mostrato tanta obiettività, tanto scrupolo nell’essere obiettivo e scientifico. Egli possiede anche una inclinazione scientifica, ed è andando con lui a quel cinema che ho messo subito in relazione i suoi libri sulla droga e la cultura scientifica; poiché, in realtà, i suoi libri, ovviamente, lo rivelano sia come poeta che come uomo di scienza. Michaux ha qualcosa di Gandhi, un uomo che va al fondo delle cose, molto coscienzioso e tenace, l’opposto del classico scrittore francese, il contrario di Valéry, benché tra loro vi siano punti in comune. Ma Michaux vuole esaurire qualsiasi argomento. In tal senso, è certamente uno degli scrittori più profondi, l’uomo che non ha cercato di eludere i propri temi. La letteratura è inevitabilmente elusione e, in questo senso, egli è uscito dalla letteratura, lei capisce cosa intendo dire. Egli provava ad osservare anche lei, ad esaurirla? Non credo, non credo. Su di lui ho citato un aneddoto che all’epoca mi aveva profondamente colpito. Era di sera e parlammo di un sacco di cose sino alle due di mattina. Era un dopocena, avevamo appena finito di parlare del destino dell’uomo, di grandi temi, quando la voce

28

Intervista con Christian Bussy

di Michaux cambiò improvvisamente e io percepii una certa emozione, sa… l’idea della scomparsa dell’uomo lo aveva colpito e la sua voce si fece tremolante. Sono passati circa quindici anni da allora, ma io non ho mai dimenticato quell’emozione, perché all’epoca ero molto più imbarazzato di quanto lo sia adesso. Ora sono un po’ più stanco, più anziano. Allora credevo che la sparizione dell’uomo non fosse una cosa tanto deplorevole ecc., e ricordo che al momento provai una sorta di delusione. Perché lamentarsi della scomparsa dell’uomo… Eppure, trovai molto bello che Michaux avesse avuto una reazione così sincera e umana, così spontanea. È un uomo delizioso. Col tempo, in base a quello che attualmente vede intorno a lei, è diventato ancor più cinico? Ha ragioni in più per esserlo? No, no. Sono meno cinico perché sa, in fondo, con l’età tutto si esaurisce, anche il cinismo. Non ho superato il cinismo come attitudine teorica. Non l’ho superato. Ma lo si supera sul piano affettivo, nel senso che tutto si logora. Non c’è motivo di rinnegare tutto ciò che ho scritto, dire che mi sono sbagliato, perché le cose, in fondo, non sono così terribili. No. Tuttavia, crediamo un po’ meno alle cose quando sono state espresse. Per quale motivo? Perché si sono attenuate, nel senso che il fatto di scrivere – è noto, tutti lo sanno, lo dicono – è in un certo senso una sorta di “profanazione”, perché le cose alle quali si credeva pienamente, a partire dal momento in cui le si esprimono, contano meno per noi. A tale proposito, posso fare un esempio. Un giorno scrissi sul suicidio e sino ad allora era un tema che mi ossessionava, ci pensavo continuamente, ma dal momento in cui ne scrissi, notai che vi pensavo meno. In tal senso, quindi, scrivere è una “profanazione” perché si uccide l’argomento. Il che è terapeutico. È un esorcismo… No, vale per qualsiasi argomento. Tutti i temi affrontati nella mia

29

Ultimatum all’esistenza

vita, per il fatto di averne parlato, li ho in parte uccisi. Ed è per questo che, ritornando ai miei amici, quelli che non scrivevano, erano più puri di me, perché non avevano esternato, non si erano espressi, non avevano sputato i loro dèmoni interiori, non se n’erano liberati. Tutti gli argomenti, intendo dire veramente tutte le ossessioni di cui ho parlato, si sono affievolite. Ad esempio, prendiamo Dio: tutta la mia vita ho frequentato i mistici, li ho amati sempre tanto... Ho notato che scrivendo su certe cose ce ne distacca, e spesso mi sono chiesto: «Perché i mistici scrivono?». Comunque sia, c’è una contraddizione, non le pare, tra il vivere in Dio e il parlare di Dio; sarebbe meglio non parlarne, non si dovrebbe barare. Quindi, per ritornare alla domanda che mi ha posto, posso risponderle. Ritengo di credere meno a tutto ciò che ho scritto, per via del deterioramento. E lei presentiva il deterioramento? L’ho presentito, dal momento che l’ho anche scritto. Quando ero giovane, la mia idea era che non si dovesse superare i trent’anni, che se non mi fossi ucciso a quell’età sarei stato un pover’uomo… Ebbene, sono diventato quel pover’uomo. A questo punto, è naturale porle la domanda: perché non si è suicidato? Appunto! Ciò che mi ha salvato è stata l’idea del suicidio, senza la quale mi sarei sicuramente ucciso. Ciò che mi ha permesso di vivere è l’aver avuto sempre a disposizione quella risorsa, per cui, veramente, senza quell’idea non avrei potuto sopportare la vita. La sensazione di essere incastrato quaggiù… non so cosa. Per me l’idea del suicidio è sempre legata all’idea di libertà. Forte di tale idea mi sono detto: «Posso sopportare qualsiasi cosa, dal momento che tutto dipende da me»; e devo dire che, contrariamente a quanto si pensa, il suicidio è un’idea positiva. È un’idea stimolante.

30

Intervista con Christian Bussy

Non è una fuga? Non è affatto una fuga, tutt’altro. Si tratta dell’idea, io parlo dell’idea, è l’ossessione del suicidio. Io non parlo del suicidio, ma del pensiero del suicidio. Il cristianesimo ha commesso un errore psicologico colossale escludendo il suicidio, intendo l’idea del suicidio. Questo è molto importante. Sono riuscito a superare tutti i momenti difficili della mia vita grazie all’idea di questa scappatoia e credo veramente che si possa sopportare tutto a condizione di vivere con l’idea del suicidio. Non c’è bisogno di uccidersi, ovviamente lo si può fare, ma l’importante è averne l’idea. Il cristianesimo ha la grandissima responsabilità di aver screditato tale idea. Nell’antichità, è noto presso gli stoici, ma non solo tra gli stoici, vi era una metodica del suicidio tra i filosofi che trovo veramente interessante ed è del tutto desueta, non essendo più praticata da nessuno. Si tratta del suicidio per sospensione della respirazione, una specie di auto-soffocamento. Ritengo che sia un modo piuttosto elegante di uccidersi; ma il problema non è questo, non è l’atto del suicidio, è l’idea. Non bisogna bandire quell’idea. Al contrario bisogna sfruttarla; devo dire che, da giovane, ho divorato tutte le biografie dei suicidi; insomma i miei eroi erano persone morte giovanissime e io ne ho tratto un certo beneficio. Anzi, devo confessare che grazie alla passione per il suicidio, grazie a quell’idea sono riuscito a raggiungere la mia età. Non sarei mai potuto arrivare a sessant’anni senza di essa, mai, ne sono pienamente convinto, per cui si tratta di un’idea positiva. Si sente vicino a Dostoevskij? Sì, ho sempre letto Dostoevskij e credo sia lo scrittore che ho amato di più. Di tutti i suoi personaggi, di tutti gli eroi dei suoi romanzi, quelli che preferisco sono Ivan Karamazov e Stavrogin, nei quali, veramente, mi sono riconosciuto. La profonda ragione per cui adoro il mondo di Dostoevskij, se vuole, è quel misto di distruzione, quella passione distruttiva che sfocia in qualcos’altro. Non necessariamente nella fede.

31

Ultimatum all’esistenza

Naturalmente preferisco gli eroi negativi di Dostoevskij, ma negativi non è il termine esatto, è solo per semplificare. Dove sfociano allora? Si distruggono, si rovinano perché vanno troppo lontano. Soprattutto perché Dostoevskij ha raggiunto veramente il limite. Tutti i suoi personaggi varcano un limite. Ogni individuo ha una specie di limite che non deve superare. Ebbene, i personaggi di Dostoevskij lo superano. Insomma, è l’eccesso, la passione dell’estremo in Dostoevskij ad avermi sempre affascinato. In realtà, credo che se c’è qualcuno che comprendo, per così dire, “intimamente”, questi è Stavrogin, oltre che Ivan Karamazov, così come l’uomo del “sottosuolo”. Vivere consiste in questo? È questo! Vivere è distruggersi, non per una mancanza, ma per una sorta di pienezza pericolosa. In Dostoevskij non sono gli omuncoli, i debolucci, gli anemici che si distruggono, sono gli individui che esplodono, che giungono sino in fondo a sé stessi e oltrepassano tale limite. È questa l’avventura, nel senso nobile del termine? È l’avventura completa, nel senso nobile del termine. In fondo, probabilmente, ogni essere è qui per distruggersi. Ma questa distruzione non ha nulla di deprimente. Non sono depressi, perché sono come semi-dèi, persino delle divinità. So che lei ama la musica, ma non conosco il perché. Non amo tutta la musica, tuttavia essa ha svolto un ruolo importantissimo nella mia giovinezza. Ora un po’ meno. Ma in gioventù è stata un elemento fondamentale e devo confessare che una delle mie

32

Intervista con Christian Bussy

grandi passioni, davvero molto grande, è stata Bach. Una grandissima passione ed è quella che più di tutte è rimasta assolutamente intatta. Persino la mia passione per Dostoevskij è diminuita, ma non quella per Bach. La si può spiegare? Io non cerco di farlo. Dico Bach perché è il compositore che amo di più, ma in ambito musicale ho ascoltato un po’ di tutto, anche se preferisco Bach, che per me è stato una specie di religione. In genere, avverte un sentimento di responsabilità, in particolare verso gli altri? Assolutamente no. Non l’ho mai avuto. E anche quando scrivo, per esempio, non penso mai che ciò che scrivo possa fare del male agli altri. Si dice che Gide abbia causato la rovina di una generazione. No, per me tale problema non esiste perché, ad ogni modo, non ho lettori. Ho il vantaggio di essere senza lettori, quindi non devo avere quel senso di responsabilità, che, in ogni caso, non avrei comunque. Ritengo che si scriva per far del male, nel senso “superiore” del termine, per turbare, perché anch’io, tutto quanto ho letto nella mia vita, l’ho letto per sconvolgermi. Uno scrittore che, in un modo o in un altro, non martirizza, non m’interessa. Deve farci soffrire, altrimenti non vedo la necessità di leggerlo. In fondo, sulla questione della responsabilità le risponderei in modo molto concreto. Gioco forza, tuttavia, anch’io ho qualche lettore. Tali persone sono per lo più dei poveracci; persone pietose, infelici, e persino, la maggior parte, nevrotici. Ebbene, leggere alcune mie pagine è stato per loro una sorta di liberazione. In realtà, il problema della responsabilità, con le sue implicazioni negative, non si è mai posto e non si pone. Evidentemente, se i miei libri circolassero, forse, non avrei lo stesso sentimento; tuttavia, anche in quel caso, vede, ad ogni modo, dato che la vita è quella che è, vale a dire una cosa assolutamente terribile, non vedo perché la si dovrebbe “imbellettare”, per-

33

Ultimatum all’esistenza

ché eludere il problema del male. È un problema reale che ci si è posti da sempre; la Genesi esordisce con il problema del male. Non possiamo riesumarlo con i buoni sentimenti, bisogna avere il coraggio di essere crudeli, no? Soprattutto sul piano retorico e in questo mi riconosco, se vuole, una sorta di ferocia intellettuale. La vita, in fondo, è la morte. La sola domanda che ci si pone nei confronti della vita è la risposta; l’unica risposta che ci si pone nei suoi riguardi è la morte? All’incirca è la stessa cosa. Ma cercherò di andare oltre. Ho superato in parte, se vuole, l’ossessione della morte, nel senso di essere giunto alla conclusione che, in fondo, la chiave di tutto non è la morte, ma la nascita. Il dramma non è morire, ma nascere. Ciò non toglie, ovviamente, che si possa essere ossessionati dalla morte. Allora, in realtà, la conclusione a cui sono giunto è che, in fondo, sarebbe stato meglio non nascere. Siamo qui, ma ciò non toglie che il grande problema sia la nascita, non la morte. In tal senso, il buddhismo, come religione, mi sembra tutto sommato più profondo del cristianesimo, dal momento che la grande tragedia è la nascita e non la morte. Tutto vi ruota attorno. Avere la consapevolezza che la nascita sia una cosa buona o una catastrofe. Personalmente, credo che la nascita sia una catastrofe, ma questo non implica per nulla un giudizio pessimista sulla vita, perché si può sopportare benissimo la vita, anche con sentimento, prenda il caso di Buddha. Cioran, lei ha scritto: «Solo un mostro può permettersi il lusso di vedere le cose così come sono»1. Lei si ritiene più o meno “mostruoso”? Probabilmente sì, poiché credo, effettivamente, che vedere le cose 1 «Seul un monstre peut se permettre le luxe de voir les choses telles qu’elles sont». Tale affermazione si ritrova sulla quarta di copertina del volume francese E. M. Cioran, Histoire et utopie, Gallimard, Paris, 1960.

34

Intervista con Christian Bussy

così come sono, renda la vita quasi insopportabile. In tal senso, ho notato che tutte le persone che agiscono, possono farlo solo perché non vedono le cose così come sono. E io, poiché ritengo di aver visto, diciamo in parte, le cose come sono, non ho potuto agire. Sono sempre rimasto ai margini degli atti. Quindi, è auspicabile per gli uomini vedere le cose così come sono? Non so. Credo che le persone, generalmente, ne siano incapaci. Allora, è vero che solo un mostro può vedere le cose come sono, poiché il mostro è uscito dall’umano. D’altra parte, lei ha anche scritto, e qui c’è una sorta di “luce”: «Siamo tutti in fondo a un inferno, dove ogni attimo è un miracolo»2. Ebbene, ciò che intendevo dire con quella frase è che il fatto di vivere è una cosa talmente straordinaria, soprattutto quando si vedono le cose come sono, che questa vita, totalmente disprezzata, diciamo a livello teorico, appare straordinaria sul piano pratico. Vivere contro l’evidenza, ogni momento, diventa una sorta di eroismo. In fondo, questo momento, quest’incontro è, in qualche modo, eccezionale? Non era prevedibile, soprattutto non per lei? Assolutamente. È in piena contraddizione con tutto ciò che penso: non bisognerebbe parlare di sé, è anche una forma della miseria di ognuno. Ma questo è nella trasmissione? Sì. Bene, allora nessun commento su questo punto!

2

Id., Il funesto demiurgo, tr. it. di D. Grange Fiori, Adelphi, Milano, 1986, p. 161.

35

INTERVISTA CON LEONHARD REINISCH*

E. M. Cioran vive da più di trent’anni a Parigi. Sono seduto sui tetti della città, vicino a Place de l’Odéon, in questa conversazione con un uomo della cui filosofia mi occupo da vent’anni, da quando apparve in tedesco il suo primo libro. Si chiamava Lehre vom Zerfall, titolo in realtà mal tradotto, poiché la parola “décomposition” si riferisce al modo in cui gli uomini operano con il Tutto, con ciò che chiamiamo “storia” e “vita”. All’epoca, il libro mi colpì profondamente: giunse in un tempo in cui Albert Camus e altri ci offrivano una filosofia dell’uomo in rivolta, e, se così si può dire esagerando, il libro di Cioran fu un vero e proprio “colpo basso”. Da allora, altri quattro libri sono stati pubblicati in lingua tedesca, l’ultimo nel 1973 con il titolo Die verfehlte Schöpfung. Anche qui, di nuovo, tutto il profondo pessimismo di un uomo che mediante la scrittura non si aggrappa alla vita, ma che forse si tiene ancora un po’ lontano dalla morte. Così, la mia prima domanda, molto provocatoria, è: perché lei vive ancora? Questa domanda, naturalmente, è molto importante per me. Devo dire che ho sempre vissuto la vita come qualcosa di particolarmente problematico e mi sono sempre stupito del fatto che potessi continuare a vivere. Avevo circa 17 anni quando capii che potevo vivere, ma solo * Traduzione italiana di Annunziata Capasso e Mattia Luigi Pozzi.

37

Ultimatum all’esistenza

ai margini della vita, parallelamente alla vita. E a quel tempo ero convinto che avrei potuto vivere, forse, ancora dieci o, a gran fatica, anche vent’anni. È stato davvero un paradosso per me – ormai sono vecchio, ho 65 anni – quando recentemente un amico di gioventù, che ho rivisto per la prima volta dopo 35 anni, mi ha detto: «La vita ha un senso, ecco perché sei riuscito a vivere così a lungo!». Quindi, sin da giovane, la vita è stata per me qualcosa di assolutamente inconcepibile. A questo punto, mi permetto d’interromperla. Questo suo amico ha detto: «La vita ha un senso». Anche lei dice a sé stesso: «La vita ha un senso?». No, non lo dico, ma il mio amico disse che era quasi sconvolto del fatto che io fossi ancora in vita, dato che aveva sempre creduto che mi sarei suicidato. Beh, non mi sono suicidato non perché la vita avesse un senso, ma perché ho potuto vivere grazie al pensiero del suicidio… L’idea del suicidio non è un’idea distruttiva, ma un’idea corroborante, direi. E il suicidio rappresenta per lei perfino una risposta positiva? È ciò che intendo dire. Ecco il motivo per il quale inizialmente ho parlato di Albert Camus. Nel periodo dopo il 1945 si avvertiva davvero la disperazione nei confronti della vita, così simile, credo, a quella cui lei fa riferimento nel titolo del suo primo libro… In romeno. Avevo 21 anni, studiavo a Bucarest e il tema principale era appunto la disperazione. Esso è già riconducibile alla “filosofia della vita”, cui lei appartiene, anche se sarebbe meglio definirla una “filosofia della morte”.

38

Intervista con Leonhard Reinisch

All’epoca ero molto influenzato da un filosofo tedesco che oggi non si legge praticamente più, ma che ammiro molto: Georg Simmel. Sì, purtroppo Georg Simmel è stato quasi del tutto dimenticato, e persino rinnegato da alcuni dei suoi allievi. Penso ad esempio a György Lukács che nel suo libro Die Zerstörung der Vernunft scrive in modo così iniquo del suo grande maestro, da cui tra l’altro ha imparato molto. Alla menzione del nome di Simmel mi altero sempre, perché penso all’ingratitudine degli allievi. Lei sa che anche Heidegger, nello stesso periodo, ha scritto sulla morte. Penso che la sua concezione della morte rappresenti, come dire, una trasformazione terminologica della metafisica della morte che Simmel ha sviluppato nel suo volume Lebensanschauung. Tra l’altro Heidegger, nel suo capitolo sulla morte, cita Simmel che, a mio parere, è stato il più grande saggista e filosofo tedesco, se non altro della sua generazione. C’è qualcosa di Simmel che mi ha sempre enormemente colpito. Mi riferisco al suo saggio sullo straniero, nel quale non solo ha rappresentato l’ebreo come lo “straniero” ma, al tempo stesso, ha anche descritto ciò che più tardi verrà comunemente denominato, in filosofia, “alienazione”. Alla base, questo fondamentale pensiero è strettamente legato alla sua idea per cui si vive realmente solo ai margini. Lei, infatti, parla della vita al margine della vita nonostante la possibilità del suicidio e senza che lo si porti a compimento. E questo mi porta di nuovo a parlare del suo primo libro pubblicato in Germania: Lehre vom Zerfall o della “décomposition”. Il volume fu tradotto da Paul Celan, e ciò m’interessa sotto due aspetti. Il primo riguarda la morte di Celan, che probabilmente non è stata casualmente un suicidio. Il secondo: vi conoscevate bene? Eravate amici? Dire amici sarebbe troppo perché Celan, in realtà, era un uomo impossibile. Quando tradusse il mio libro, lo vedevo quasi ogni giorno.

39

Ultimatum all’esistenza

Sapeva essere il più amabile degli uomini, molto cortese e gentile. Successivamente iniziò a soffrire – dobbiamo proprio chiamarle così – di manie di persecuzione. Le faccio un esempio. Lo incontro per strada e lui dice: «Venga con me. C’è qui una libreria che forse lei non conosce». Lì ha comprato un dizionario molto costoso, facendoselo confezionare come un regalo. Io non volevo accettarlo. Era per natura molto generoso. Sì, era un uomo capace di donare tutto sé stesso, ma – mi è capitato in più occasioni di incontrarlo a Monaco alla fermata del tram – al contempo di credere che un qualche antisemita lo stesse seguendo. In vita mia non ho incontrato nessuno che fosse così vulnerabile. Egli rappresentava per me la vulnerabilità assoluta. Una conversazione con lui era estenuante, perché si doveva costantemente stare attenti a non dire nulla che potesse ferirlo. Una volta fui invitato a casa sua e ritornai a casa completamente sfinito. Non si può infatti avere una conversazione con qualcuno, rimanendo sempre “all’erta”. Una conversazione dev’essere, in qualche modo, non del tutto consapevole. Credo che per noi, ora, sia un po’ così, e questo è anche un bene per la nostra conversazione. Penso infatti che tra Celan e lei vi sia un’affinità non solo “geografica”. Provenite entrambi dall’Oriente, se così si può dire, entrambi avete trovato la vostra patria a Parigi, entrambi siete uomini che hanno esercitato un’incredibile disciplina linguistica; perché il suo disprezzo per la letteratura consiste proprio in questo: lei vede nella letteratura una sorta di crescita del cancro della parola. Celan nella sua Sprachgitter si è comportato allo stesso modo: si può ancora dire solo ciò che non deve essere assolutamente taciuto. Dunque, a tale riguardo, sussistono tra di voi molti punti in comune e alla mia domanda iniziale, perché lei è ancora qui e non si è suicidato, Celan ha risposto in modo esattamente opposto: con il suo suicidio.

40

Intervista con Leonhard Reinisch

Sì, ma non bisogna dimenticare che egli non poteva evitarlo. Io sono nato in un paesino. Mio padre era un prete ortodosso e, in qualche modo, sono più “primordiale” di Celan, più spontaneo, diciamo che forse avevo più vitalità, in senso del tutto primitivo. La vita mi ha sempre interessato in modo tremendo. Sa, c’è un’espressione di Baudelaire che rappresenta per me una sorta di sintesi della mia vita. Baudelaire parla di estasi e di orrore della vita. Li ho sempre vissuti entrambi. Quindi, per me, il suicidio è un caso estremo di questa doppia esperienza. Rieccoci al tema centrale della sua filosofia. Mi sembra importante essere consapevoli del fatto che, dopo il 1945, molti giovani abbiano visto nel duo Camus-Cioran le due possibilità dell’uomo, ossia la rivolta e la rovina attraverso la decomposizione. Inoltre, entrambi avete sostenuto che, alla fine, la soluzione migliore sarebbe quella di guadagnare ancora una volta da quest’assurdità e da questa rivolta una risposta affermativa alla vita, nella consapevolezza di questa stessa assurdità – su cui ritorneremo dopo. Non a caso, Ionesco è uno dei migliori amici che lei abbia mai avuto, insieme a Beckett, e in questo senso tra voi c’è certamente grande vicinanza. Tuttavia, c’è una cosa che mi stupisce. In alcune note biografiche si afferma che lei, in quel periodo, abbia lavorato anche per «Les Temps Modernes» e collaborato con Sartre. Non riesco a comprendere a pieno perché Sartre avrebbe però ugualmente disprezzato la sua concezione, come lei la sua. Sì, giusto. Per me Sartre non significa nulla. La sua opera mi è estranea e la sua figura, in realtà, non m’interessa. Nemmeno L’essere e il nulla. In qualche modo, tutto questo è superficiale per me. Egli ha descritto “il nulla”, ma dal di fuori, tutto è, come dicono i francesi, “costruito”. Ciò che m’interessa è il suo destino esteriore, non la sua filosofia. Ora, sicuramente il pensiero di Sartre è anche un pensiero politico, ma voglio dire: ciò che egli vi ha aggiunto di originale è l’esistenzialismo, che in realtà è molto vicino a lei come filosofo della vita.

41

Ultimatum all’esistenza

Certamente. Ma Pascal o Kierkegaard non sono nulla per lui. Egli, per così dire, è per un esistenzialismo “oggettivo”, mentre definirei il mio un esistenzialismo “soggettivo”. Io ho una dimensione religiosa. Egli sicuramente no. Assolutamente, non ho alcuna profonda relazione con lui. Quanto alla dimensione religiosa – che io stesso, dall’esterno, non negherei a nessuno –, lei l’ha ben determinata, anche se probabilmente lei sarebbe inaccettabile come ortodosso di qualsiasi Chiesa. Nel Medioevo, lei sarebbe stato bruciato vivo a causa dei suoi libri. Avrebbe, per così dire, compiuto il suicidio sul rogo per averli scritti. Sa che il mio ultimo libro, Il funesto demiurgo, è stato vietato in Spagna? Chiaro, anche se il libro è fondamentalmente religioso. Contiene persino una teologia, certo non dogmatica, ma – lei crede nel diavolo? Per quanto mi riguarda, credo che il diavolo sia sempre stato una grande idea, ho sempre pensato al diavolo. E devo dire che senza il diavolo non si può spiegare nulla; senza di esso, soprattutto, non si può capire la storia. Lo stesso vale per il peccato originale. Ricordo bene la conversazione che ebbi qualche anno fa con il cardinale Daniélou. Gli dissi che senza il peccato originale il cristianesimo non avrebbe senso e la storia sarebbe incomprensibile. Al riguardo mi rispose: «Lei è troppo pessimista, il peccato originale non è così importante». Per me, tuttavia, il peccato originale è un’idea indispensabile per capire la storia. Devo addirittura dire che per me è indispensabile al fine di realizzarmi un po’ come essere cristiano, altrimenti potrei dire di essere uguale a un qualunque socialista che crede nel progresso. E io risposi: «Reverendo, lei è troppo pessimista». Infatti, se per la

42

Intervista con Leonhard Reinisch

Chiesa certe idee diventano di secondaria importanza, allora questo è un sintomo. Quella volta, ricordo molto bene, ho persino litigato con lui. Se la Chiesa è così liberale, allora è finita, tutto ciò non ha più senso. E io stesso, come lei sa, non sono cristiano, sebbene mio padre sia stato parroco di Sibiu e abbia ricoperto un ruolo importante all’interno della Chiesa ortodossa in Transilvania. Per me, devo dire, la religione è molto importante. Ma personalmente non riesco a credere. Senza l’esperienza religiosa non potrei vivere, ma sono assolutamente incapace di essere credente. Non ne sono più in grado. Ha mai analizzato qualche volta la questione o cercato di capire perché la pensa in questo modo? No, ma ho sempre letto i mistici e nella mia vita ho anche avuto esperienze mistiche. Ad esempio, prendo come punto di riferimento della mia vita un’esperienza che ho vissuto circa trent’anni fa, forse più. Successe tutto improvvisamente, sentivo che il tempo – passato, presente e futuro – si era concentrato in me a tal punto che ero diventato il centro del tempo. Allora ho iniziato a leggere molte cose sulla mistica, perché credo che in me ci sia una tendenza mistica; queste estasi, questi eccessi, la follia, le esagerazioni mistiche, tutto questo l’ho ritrovato molto più nel misticismo che nella letteratura. Per lo stesso motivo, per tutta la vita, mi sono interessato a Dostoevskij, perché ha sempre descritto situazioni-limite. E in cosa si differenzia la mistica da una situazione-limite? Si è sempre sull’orlo di qualcosa. Devo dire che nella mia vita non ho avuto nessuna religione, nessuna fede particolare, eppure mi sono sempre ritrovato nei mistici. Forse, in altre epoche sarei finito in monastero, ma comunque mi sento a casa in quest’ambiente. Lei è stato definito, talvolta, anche uno “gnostico”. Sì, il mio ultimo libro, Il funesto demiurgo, è stato influenzato dagli gnostici, ma è una questione di parentela spirituale. A dire il vero, io

43

Ultimatum all’esistenza

non sono stato influenzato dagli gnostici, ma dai loro successori: bogomili e catari. I bogomili sono vissuti in Bulgaria, appartengono all’orizzonte di pensiero dei Balcani e credo che non sia un caso se io mi senta realmente come un moderno bogomilo. L’idea che il mondo sia stato creato da un Dio malvagio, qualcosa di simile a un’idea distrutta di Dio, che di conseguenza non è compromesso nello scandalo della creazione. Il diavolo si dimostra dunque come il più potente fintantoché esiste la creazione. Questa è la storia del mondo come processo di rovina. E così siamo di nuovo approdati a Daniélou. Sì, sì, questa per me è un’idea centrale. Se si tralascia l’idea del diavolo, non si può capire l’andamento del mondo, è incomprensibile. I bogomili chiamavano il diavolo “Satanael”. Il Creatore è in realtà una caricatura di Dio. Qualche volta è chiamato anche “Scimmia di Dio”. Sì è vero, “Scimmia di Dio”. Dopo la “morte di Dio”, siamo tutti inevitabilmente razionalisti, non crediamo più a Dio e al diavolo, ma l’idea del diavolo è assolutamente necessaria per me. E oggi, certo, siamo tutti anche, potremmo dire, manichei, bogomili e catari. Anche se teoricamente siamo contrari, interiormente siamo vicini a queste eresie. Mi chiedo se lei abbia ragione affermando ciò. Leszek Kołakowski, filosofo polacco, ha recentemente scritto un importante saggio dal titolo Il diavolo può essere salvato?, in cui inizialmente si avvicina molto al suo pensiero, ma in seguito pone la domanda se il peccato originale significhi non già il motivo fondamentale, ma un elemento che esiga e renda possibile la redenzione. In ogni caso, da quanto ho visto dai suoi libri, quando lei lascerà questo mondo, se ne andrà da non liberato.

44

Intervista con Leonhard Reinisch

Per me non c’è liberazione se non in senso buddhista. Lei saprà che nel buddhismo esiste l’idea che si possa raggiungere il Nirvana anche in vita. Quindi, io credo che l’uomo non possa oggettivamente essere liberato, ma ci sono dei momenti in cui si è liberati. Questi sono i grandi momenti della vita, in cui si vive fuori dalla storia. Poco fa le ho menzionato un esempio: la sensazione di essere il centro del tempo. È stata una sensazione così forte che, per non gridare, dovetti mettermi il pugno in bocca. Diciamo, qualcosa come un’estasi. Ciò significa, tuttavia, che la sua essenza è più vicina alla mistica cristiana che al buddhismo. Tra l’altro, leggendo i suoi libri, spesso ho avuto la sensazione di non condividere il suo pensiero. Forse avrò anche torto, lo so bene, però una cosa mi è chiara: l’epoca attuale le dà molta più ragione di quanta lei potesse attendersi venti o trent’anni fa. Poiché l’intera ideologia del progresso, contro cui lei ha combattuto sin dall’inizio, e l’uomo civilizzato, che lei ha condannato con amara ironia, si trovano davvero ora di fronte a una crisi evidente. Oppure, utilizzando le sue parole, che riprendo quasi con timore –, lei scrive: «La mia visione dell’avvenire è così precisa che, se avessi dei figli, li strangolerei all’istante»1. Allora, devo dire, spero lei non abbia bambini. Le dirò, ho quattro figli. Posso spiegarle con calma. Per me significa: nella vita potrei fare di tutto, ma non procreare. Io non ho voluto sposarmi per timore di avere figli. Così come mi oppongo al cosiddetto progresso, allo stesso modo mi oppongo alla riproduzione. Quest’idea non è affatto nuova. Ci sono filosofi scolastici che alla 1 E. M. Cioran, L’inconveniente di essere nati, tr. it. di L. Zilli, Adelphi, Milano, 1991, p. 120.

45

Ultimatum all’esistenza

questione teorica in merito a cosa accadrebbe se tutti gli uomini fossero monaci e tutte le donne suore, hanno risposto: «Sì, di fatto sarebbe la liberazione dell’uomo da sé stesso e la strada verso Dio». Essi hanno inoltre affermato che per loro questo era un messaggio totalmente positivo. Ebbene, per me è un’esperienza personale. Quando vedo un bambino, o ad esempio un neonato, divento terribilmente triste. Quando i miei amici mi spediscono un annuncio di nascita, non so mai come rispondere. Non posso affatto rispondere. Non potrei assolutamente assumermi la responsabilità di gettare qualcuno in questo mondo. E se la vita, l’uomo, la storia, domani dovessero cessare, non sarei triste. Signor Cioran, lei certamente non si è sposato, non ha nemmeno avuto figli, ma ha una compagna. La questione della sessualità non è del tutto esclusa dal suo pensiero. Anzi, molto si riferisce a tale problema. L’elogio della pigrizia, dell’indifferenza, che lei ha citato, come anche un certo elogio della totale astinenza di contro alla riproduzione. Eppure, qualcosa rimane. Forse quando lei afferma che gli uomini ne hanno ancora bisogno per esistere, almeno come animali. Quando ero giovane, in tutta onestà, adoravo le prostitute. Nei Balcani il bordello era un sostituto al salotto. A Sibiu andavo al bordello due o tre volte a settimana. In quel luogo mi sentivo accolto! La vita sessuale aveva per me un solo significato: andare a letto con le prostitute. Lei considerava quindi le donne come prostitute? Sì. Per me la donna era la prostituta. Una donna che non era una prostituta non mi interessava affatto. Il cambiamento nella mia vita è avvenuto dopo l’arrivo dei tedeschi a Parigi. Iniziai ad avere un rapporto normale con donne che non erano prostitute e considerai ciò come la prima grande sconfitta della mia vita – poiché prima ero totalmente

46

Intervista con Leonhard Reinisch

libero. Da allora cominciai a dipendere dalle donne e compresi quello che in precedenza non avevo ben capito: che non posso fare a meno delle donne. Devo aggiungere, però, che ho accettato questa sconfitta senza grandi difficoltà. E uno dei motivi risiede nel riconoscimento che anche io sono un animale… In qualche modo, il “voler-essere-animale” o il “ritornare-all’animale” è ugualmente – anche senza tale riferimento – un aspetto della sua filosofia. Lei certamente vuole dire che l’uomo è solo la forma prematura, migliore della scimmia della creazione, ovvero del diavolo, e che non avrebbe dovuto mangiare quella mela. Sarebbe veramente dovuto rimanere allo stato di vita animale, in modo da sentirsi ancora a casa. Esattamente. Io credo che la strada che l’uomo ha imboccato sia una strada sbagliata. L’uomo sarebbe dovuto rimanere un animale con un’aggiunta di coscienza, potremmo dire: un animale riflessivo. Ma siamo andati troppo lontano, e può soltanto finire male. Solo per capire meglio, chi è andato troppo lontano? L’uomo non solo è diventato il sovrano assoluto del mondo, ma è anche sul punto di sterminare gli animali: egli è solo al mondo, è rimasto solo con sé stesso e ciò non va affatto bene. Lo si percepisce, è un disagio – non semplicemente il disagio della cultura di cui ha parlato Freud –, ma è molto più profondo. Io posso dire solo una cosa. Per me la storia ha un senso, poiché la riconduco a una concatenazione di eventi salvifica, una concatenazione sensata, se così possiamo definirla. Non riesco davvero ad ammettere che si dica: «Io sarei stato molto più volentieri un animale, vorrei considerare la donna come un animale». Per l’appunto, ho trovato un senso anche nella riproduzione e per questo accetto la storia, mentre lei invece dice: «Sarebbe molto meglio se il mondo andasse in rovina, almeno per quanto riguarda l’umani-

47

Ultimatum all’esistenza

tà». Oltre a ciò, lei dovrebbe comunque spiegare se l’umanità è colpevole di essere diventata tale. In effetti, gli uomini non sono colpevoli, ma è come se fossero all’interno di una fatalità. Non riesco a spiegare come questo processo avrebbe potuto essere evitato. Ma ciò che constato è che la strada che abbiamo intrapreso è quella sbagliata. Perché siamo qui? Solo per vivere… e forse per patire la vita, ma come spettatori, non come creatori. Lei esattamente dice: «La strada intrapresa dall’uomo è una strada sbagliata», e contemporaneamente afferma: «Egli subisce questa strada, lungo la quale bruscamente si trova gettato». Questi sono i vecchi paradossi, che abbiamo precedentemente constatato. Vorrei spiegarlo in termini biblici. Questo può davvero sembrare un paradosso, ma personalmente ho l’impressione di essere caduto dalle mani di Dio. Di conseguenza credo che l’uomo, che si affaccenda dalla mattina alla sera è, come dire, un uomo maledetto, appartiene all’inferno. Questa non è vita. Guardi l’animale, non fa assolutamente nulla. Mangia e sta a guardare. Con ciò, ritorniamo dunque al problema di Adamo ed Eva: al peccato originale. Ai suoi occhi anche questo è il peccato originale. Noi stessi forse siamo un po’ fortunati – ma cosa significa “noi” –, dovrei piuttosto dire che io sono un po’ fortunato a essermi imbattuto in questo orrendo dilemma, e so esattamente che innanzitutto mi distinguo dagli animali e che in una donna non vedrei mai solamente l’animale. In secondo luogo, d’altro lato, dico che non potrei farci granché con questo “paradiso degli animali”. Lei sa bene che non bisogna farsi prendere troppo dalle donne. Bisogna parlarne in modo assolutamente sincero. Bisogna avere l’onestà di esaminare l’atto sessuale. È qualcosa di straordinariamente importante e allo stesso tempo insignificante, è quasi ridicolo.

48

Intervista con Leonhard Reinisch

Su questo punto non ci contraddiciamo affatto. Mi interessava sapere il suo parere circa la donna come partner dell’uomo. Beh, la donna per me è un problema di secondaria importanza. Io non potrei vivere fisicamente senza la donna, ma questo è, diciamo, metafisicamente irrilevante. I principali problemi sussistono al di fuori di questa rigida necessità o, più precisamente, al di fuori di questa fatalità. Essa non risolve affatto il problema più importante dell’esistenza umana. Ho sempre l’impressione che la vita che viviamo non sia la vita autentica. L’autentica vita, come dire, è per me la vita contemplativa. Esattamente, anche da questo siamo partiti. Io dicevo che da un lato lei è quasi un monaco, lei segue, in modo del tutto singolare, il precetto evangelico della povertà e persino quello dell’astinenza rispetto alla donna. Al tempo stesso, però, lei ha pagato il tributo alla pulsione fisica e si è detto: «Devo ugualmente prendere in considerazione l’aspetto biologico». A mio avviso c’è qui una sorta di incoerenza. Le darò nuovamente una risposta indiretta. Flaubert una volta disse: «Io sono un mistico e non credo in nulla». Questa massima è come un marchio sulla mia vita – in questa inconciliabilità sono incluse tutte le contraddizioni che ho vissuto. Essere un mistico significa aver raggiunto un limite e avere ancora qualcosa da rivendicare e, nello stesso tempo, non impegnarsi. Nel mondo mi sento come un uomo che non si impegna in nulla. Sembra che la parola “mistico” possa essere sostituita con la parola “cinico”. Credo che la sua religione consista in una certa forma di esigenza di “asocialità”, poiché una socialità al modo di alcuni santi – come oggi sentiamo predicare dappertutto – è una socialità che, effettivamente, fa qualcosa di completamente sbagliato: prepara infatti soltanto a quella compassione che, come ha sempre affermato Nietzsche, è la cosa peggiore, in quanto può diffondere la superbia nei confronti degli altri.

49

Ultimatum all’esistenza

Sono assolutamente d’accordo. Lo devo ammettere: sono del tutto asociale, sebbene conosca molto da vicino le sofferenze dei miei simili. Non sono un socialista, perché per me la questione sociale è insolubile. Dunque non è assenza di compassione né mancanza di interesse verso il prossimo; ma considero ciò come qualcosa di non importante. La miseria è di secondaria importanza. Per anni ho vissuto di patate, mangiavo quasi solo patate. Ho conosciuto l’indigenza, ma questo è irrilevante. L’importante è ciò che uno è. Filosoficamente parlando, la più grande esperienza a Parigi è stata, per me, un mendicante: un mendicante di professione. A riguardo, ho trovato un suo bell’aforisma, che recita: «Guardate la grinta di chi è arrivato, di chi ha faticato, in un campo qualsiasi. Non troverete traccia di pietà. Ha la stoffa di cui è fatto un nemico»2. Sa, ho conosciuto molte persone la cui vita è stata un successo. Devo dire che queste persone sono state per me una grande delusione. Al contrario, le persone la cui vita è stata un fallimento, sono molto più interessanti. Cerco di spiegarlo in modo più preciso: se qualcuno è soddisfatto della propria vita, allora è metafisicamente poco interessante. Gli uomini davvero interessanti sono quelli che oggettivamente non si sono realizzati. Qui emerge una certa contraddizione che la riguarda. Lei ha scritto molti libri, molto discussi e sicuramente anche molto attaccati. Ma, allo stesso tempo, bisogna dire che, in un certo qual modo, lei si è anche manifestato in quella storia, che lei avversa così tanto, e perciò lei stesso è un paradosso. Nella vita ci sono paradossi che bisogna accettare senza cercare di spiegarli. Io sono un avversario della storia, e lei ha perfettamente ragione: io non appartengo ad essa. Ma l’importante è per cosa uno si 2

50

Id., Il funesto demiurgo, tr. it. di D. Grange Fiori, Adelphi, Milano, 1986, p. 133.

Intervista con Leonhard Reinisch

impegna pienamente. Il senso del mio pensiero o della mia esperienza vissuta è questo: io aspiro a superare la storia. Non posso farlo, perché è impossibile. E lei sa che noi, soprattutto in Europa occidentale, in Occidente, siamo come contagiati dalla storia. Questa è la nostra malattia. Non c’entra qui il suo rapporto con il popolo da cui discende? Spesso si parla dello spiccato senso dei romeni per lo scetticismo, per il nichilismo. Io conosco la Germania, la Francia e l’Italia, conosco la Spagna e l’Inghilterra. Ma non c’è nessun popolo che sia così scettico-nichilista, così pessimista, come quello romeno. Poiché l’esperienza fondamentale dei romeni è l’esperienza dell’inutilità: io l’ho vissuta nel periodo della mia infanzia e devo dire che è stata un’eredità gravosa per tutta la mia vita. Mi sembra che nel suo ultimo libro lei abbia scritto di odiare gli Occidentali, perché amano e addirittura esigono che li si odi. Quindi lei li odia e si sente come un Orientale? Sì, mi sento come un Orientale. Quando arrivai in Europa occidentale, vi giunsi con questa sensazione: essa non ha avvenire. Questo è, come dire, un continente maledetto, senza futuro. Naturalmente anche l’Europa dell’Est non ha un avvenire, è risaputo, ma non ha neppure una storia. Il futuro non esiste; da lì si ha una buona prospettiva sull’Europa. Ormai vivo in Europa occidentale da oltre trent’anni, ma vivo come uno straniero, mi sento uno straniero. Ritorniamo ora all’argomento che, in definitiva, rappresenta il problema centrale dei suoi libri. Nella misura in cui ho vissuto la storia in maniera un po’ consapevole e all’interno di grandi tradizioni, e per l’appunto ho figli, anch’io ho la sensazione che se lei condanna l’ideologia del progresso, allora al momento lei ha incontestabilmente ragione. Lei dice: «L’Europa dell’Est

51

Ultimatum all’esistenza

non ha avuto una storia e io come Orientale – posso chiamarla così? – ho la sensazione che l’unica storia che realmente viene fatta, e precisamente nella maniera più funesta e su scala mondiale sotto l’egida della grande “Scimmia di Dio”, detta diavolo, sia la storia dell’Occidente, per così dire la nostra storia che, con la sua fatalità, fra non molto condurrà verso una catastrofe totale». Questo è, pressappoco, ciò che ho letto nei suoi libri. Quando sono venuto qui, prima della guerra, le persone per strada dicevano: «La situazione è questa, noi dobbiamo fare questo o quest’altro». Subito dopo la sconfitta della Francia, durante la guerra e anche successivamente, notai qui a Parigi che il francese aveva una sola idea: fuggire via dalla storia, mai più nessuna responsabilità. Tutti vivevano in tale direzione. Forse è espresso in modo brusco, ma vorrei dire di più: questo sentimento oggi è comune in Inghilterra, in Germania, in tutta l’Europa occidentale. Non è questa una grande incoerenza della sua filosofia, giacché lei, per così dire, rimprovera agli europei l’irresponsabilità di fronte alla storia, sebbene lei stesso dica che l’unica salvezza è essere senza storia? Certamente. Ma se io sono contro la storia, lo sono su un piano metafisico. L’Europa occidentale non è contro la storia per ragioni metafisiche, ma per incapacità, per sfinimento. Tra l’altro anche François Bondy ha notato quest’incoerenza vent’anni fa in una recensione per la «Neuen Zürcher Zeitung», dove affermava che Cioran da un lato è contro la storia, dall’altro dice che l’Europa vuole uscire dalla storia. Durante la nostra conversazione mi sono già abituato ai suoi paradossi, con i quali lei convive da sempre. No. Questo continente è stato per secoli il centro della storia mondiale, e noi dell’Est Europa adoravamo l’Europa occidentale. È per questo che sono venuto a Parigi: per vedere che questo è semplice-

52

Intervista con Leonhard Reinisch

mente mero passato. Se gli europei occidentali rifiutassero la storia per ragioni metafisiche o mistiche, come ad esempio fa l’India, allora sarei d’accordo, ma è solo per mera stanchezza, mero sfinimento. Sono popoli che non hanno più alcuna missione. Se in politica siamo già andati così lontano, e probabilmente consideriamo la corrente buddhista come una moda piuttosto ridicola in Europa occidentale, che potrebbe però diffondersi ulteriormente, tuttavia non è quasi mai emerso, come ora lei sembra sperare, che presto la Cina prenderà in mano la storia mondiale. Di questo sono convinto, come lo sono per il futuro della Cina. Nel 1890 venne a Parigi il più grande filosofo russo dell’epoca, Vladimir Solov’ëv, e tenne una conferenza sul panmongolismo. Le persone lo trovarono ridicolo. Ciò che lui aveva previsto, oggi, è realtà: il futuro è là. Qui però devo correggerla. Per Solov’ëv, infatti, il panmongolismo era più una minaccia per la Terza Roma che per l’Europa occidentale. Egli ha creduto ancora nella Terza Roma a Mosca, fino alla sua fine. Non dimentichi però che egli si è quasi convertito al cattolicesimo. Ma vede, personalmente credo che l’Europa fra dieci, venti o cinquant’anni, sarà completamente dominata dalla Russia; non militarmente, ma l’egemonia della Russia mi sembra inevitabile. Tuttavia, ciò che è storico ha un effetto provvisorio e il futuro appartiene alla Cina o ai neri, o non saprei. D’altra parte, l’Europa vive e pensa come un continente privo di futuro. Ma tutto questo, devo aggiungere, è secondario. I problemi storici sono fondamentalmente giornalismo. Forse anche la filosofia della storia è giornalismo. Qui giungiamo a una questione davvero difficile. La storia mondiale e la storia sacra, come viene insegnato in quasi tutte le religioni, non sono mai state puro e semplice giornalismo, ma parte integrante dell’autorealizzazione

53

Ultimatum all’esistenza

di ogni singolo individuo. Dopotutto, anche la grande Teresa d’Ávila dava consigli ai Pontefici. Non era insomma una donna completamente apolitica. Un mese fa ho incontrato un uomo singolare, un ministro libanese, politicamente di sinistra, persino radicale. Ecco ciò che m’interessava di lui: era un fanatico del Vedanta e molto esperto di metafisica indiana. Gli ho chiesto: «Come si può essere, allo stesso tempo, ministri e seguaci di una metafisica che è al cento per cento non-storica, e persino antistorica?». La sua risposta: «In teoria, questa è una contraddizione, ma in pratica non lo è. Per me la storia è un’apparenza e, nella misura in cui vivo in quest’apparenza, faccio il mio dovere, sono un ministro. Questo è il mio lavoro, ma non è importante; lo faccio bene, ma senza crederci. La cosa più importante per me è altrove». Non è la risposta alla sua domanda? Questa è la risposta alla domanda che lei ha rivolto al ministro, non alla mia. Ricominciamo dunque. Perché non si è tolto la vita? Perché si affaccenda così tanto in una storia nella quale, a suo avviso, non è possibile la liberazione? Questa è stata per me la cosa peggiore che lei mi abbia detto in quest’intervista, persino più grave della più grande catastrofe mondiale preannunciata anche nel Vangelo. Sa, io credo che bisogna essere onesti con sé stessi e riconoscere tutte le proprie contraddizioni. Ho sempre detto di non essere fatto per l’isolamento dal mondo, anche se quest’isolamento sarebbe il mio ideale. E credo che noi tutti, educati secondo la tradizione ebraico-cristiana, non abbiamo tale predisposizione. Questo è il motivo per cui non potrei mai essere un vero buddhista. Ora sono quasi tentato di mettere in discussione la domanda che desideravo porle. Inizialmente lei diceva che i romeni sono per natura non solo scettici, ma addirittura cinici. Pensa questo anche di sé stesso?

54

Intervista con Leonhard Reinisch

I cinici greci sono tra i miei autori preferiti. Diogene è un uomo che stimo enormemente, mentre il filosofo che apprezzo di più, della tradizione greca e occidentale, è Pirrone, lo scettico. Una cosa ammiro in lei: sostanzialmente, il modo in cui ha realizzato questo tipo di vita. Lei giustamente dice: «Se non imparo ogni giorno a sopprimere un nuovo bisogno, non è possibile continuare». In realtà, questo lo dice oggi il Club of Rome. Ma la domanda rimane: come può credere – e questo ci riporta nuovamente alla storia – alla realizzazione di qualcosa di collettivo? Non posso assolutamente. Io mi considero un sostenitore della fine della storia. Io credo davvero che l’umanità finirà quando tutti gli uomini saranno come me. E questa non è presunzione. Data la sua avversione alla procreazione, tutto ciò è perfettamente chiaro. Alla fine della nostra conversazione, immagino il resto della storia del mondo quasi come una lotta tra quelli senza figli contro quelli con figli, tra coloro che si aspettano ancora un futuro qui e coloro che affermano: «Non c’è mai stato futuro». Ho esagerato ora? No, non ha esagerato. Ci saranno sempre persone che non crederanno più nel futuro. Penso che l’idea del progresso sia davvero superata ora, ma si continuerà ad andare avanti. Probabilmente il futuro giocherà un ruolo sinistro, ma l’umanità perderà sempre più la fede in esso. Penso che stiamo entrando in una fase storica in cui la tragedia sarà, come dire, all’ordine del giorno. Se lei avesse detto: «Il “principio speranza” non conta più nulla», allora avrei risposto: «Sì, ora non conta davvero più nulla». Ma il “principio fede”? Forse l’umanità scoprirà la verità – voglio dire la verità come com-

55

Ultimatum all’esistenza

pleta chiaroveggenza –, quando non ci sarà più alcuna illusione. Ma allora la storia cesserà. Dopo il “principio speranza” e il “principio fede”, un’ultima domanda: il “principio libertà”. Cosa ne pensa lei, dato che prima ha vissuto a Berlino, nel periodo nazista, poi è venuto a Parigi per mantenere il suo pensiero in quella che abbiamo definito la sua forma “asociale”, ossia quasi per lei solo? Cosa significa per lei la libertà? La libertà è per me il diritto di essere eretico. Io non potrei vivere in uno Stato in cui vige una filosofia ufficiale; perché per temperamento sono un eretico, addirittura un apostata. La libertà rappresenta a mio avviso la possibilità non solo di pensare diversamente rispetto agli altri, ma di vivere le proprie contraddizioni, con disinvoltura. Dove non c’è libertà, bisogna occultare le proprie intime contraddizioni e ciò non è un bene per l’equilibrio di una persona. Se preferisce, la libertà è per me, semplicemente, l’unica forma di salute.

56

LETTERE DI EMIL CIORAN A LEONHARD REINISCH*

1. Parigi, 17 giugno 1982 Mio caro amico, tante grazie per il volume e per lo splendido articolo, che mi è stato inviato da un membro della “Schopenhauer-Gesellschaft”. La mia nullità è stata doppiamente lusingata! Decomporsi può essere persino piacevole – finora non lo sapevo. L’amicizia fa miracoli di questo genere… Penso spesso a Lei, al Suo coraggio di difendere valori senza appoggiarsi a illusioni. La vera disperazione è quella tacita, occulta, la Sua. Io, per debolezza, mi comporto come un trombettiere. Ancora una volta tante grazie. Saluti molto cordiali a Lei e a Miriam, anche da parte di Simone. Suo, E. M. Cioran

* Traduzione italiana di Germaine Stephanie Kremer e Mattia Luigi Pozzi.

57

Ultimatum all’esistenza

2. Parigi, 3 febbraio 1988 Caro amico, avrei dovuto ringraziarla prima per le così tante conversazioni e confessioni che mi ha inviato. Ma provengo da un popolo dimenticato da Dio e, con l’età, i miei acciacchi si fanno sentire di più. Ho trovato molto acute le Sue osservazioni riguardanti importanti problemi esistenziali (senso della vita, ecc.) che hanno un valore testamentario. Temi dell’addio? … Nel frattempo ho preso la decisione di non fare più progetti, di non scrivere più nessun libro, di essere finalmente libero da me stesso. In fondo sono rassegnato e mi rallegro di potere, a poco a poco, rinunciare a tutto. A Lei e a Miriam, tanti cordiali saluti anche da Simone. Suo, Cioran 3. Parigi, 16 gennaio 1989 Mio caro amico, per un pantofolaio come me niente è tanto incantevole quanto la descrizione di un vero viaggio. Sono stato in Corsica due volte, la prima volta prima della guerra, la seconda volta circa 25 anni fa, purtroppo come turista, non come escursionista. Che Christian, Michael e Petrus siano stati capaci di una tale impresa mi sembra normale, ma è miracoloso che Lei ci sia riuscito. Che vitalità! I santi l’hanno favorita. Saluti molto cordiali da parte nostra a entrambi. Suo, Cioran

58

INTERVISTA CON BEN AMÍ FIHMAN*

Il mio primo incontro con Cioran ebbe luogo in un bel pomeriggio di primavera del 1976. Quel giorno, un vecchio amico in visita a Parigi, il fotografo cubano Jesse Fernandez, preso da un impulso improvviso, mi trascinò senza preavviso all’ultimo piano di rue de l’Odéon 21, indirizzo dove viveva discretamente questo scrittore la cui fama sarebbe diventata, nel corso degli anni, considerevole. In precedenza, Jesse – un personaggio leggendario per i cubani – ed io avevamo fatto squadra a New York all’epoca di un incontro con Borges. Sta di fatto che quando ci precipitammo in coppia all’improvviso a casa di Cioran, questi ci fissò dalla soglia del suo eremo con un certo stupore, chiedendosi, senza dubbio, cosa questi due sconosciuti, dall’aria di banditi tropicali, andassero a fare lì. Per quanto mi riguarda, conoscevo appena il suo nome all’epoca! L’avevo solo sentito menzionare per inciso e con sorrisi maliziosi nell’ambiente letterario parigino. A ventisette anni, avevo appena preso una laurea in Lettere moderne alla Sorbona e mi preoccupavo soprattutto della messa a punto e della diffusione della rivista di letteratura fantastica «L’Œil du Golem», allora agli inizi. Ritorniamo a Cioran: una volta dissipato l’effetto sorpresa provocato dalla nostra intrusione intempestiva, ci ricevette con affabilità e * Traduzione italiana di Vincenzo Fiore e Concetta Iannaccone.

59

Ultimatum all’esistenza

cortesia, cominciando a dialogare senza preamboli, come se l’avessimo interrotto il giorno prima e senza calcolare il suo tempo. Egli esprimeva i suoi pareri anticonformisti e disillusi con vivacità e con un accento proveniente direttamente dai lontani Carpazi. Fummo conquistati di primo acchito. Io ebbi la sensazione che, da parte sua, le nostre origini – Cuba, l’esilio, il Venezuela – contribuissero a renderci simpatici ai suoi occhi. Nei mesi che seguirono il nostro primo incontro, avendo cominciato a leggere i suoi libri e armandomi di coraggio, non ho resistito al desiderio di fargli visita diverse volte. Quando, avendo lasciato Parigi, gli scrissi per proporgli un’intervista per il quotidiano venezuelano «El Nacional», egli accettò senza convenevoli. Alla fine del 1978, abbiamo registrato due cassette di conversazioni. Jesse, come due anni prima, fece numerose foto. La violoncellista Claude Baron-Renault si era aggiunta a noi. Jesse ed io ascoltammo il nostro ospite, molto in vena a confidarsi senza riserva alcuna e a scherzare scandendo le sue arguzie con scoppi di risate. Il viso mobile ed espressivo, la testa appoggiata spesso su una mano, Cioran si rivolse a noi con naturalezza, calore e amicizia. Del quartetto che formavamo quel mattino resto, oggi, il solo testimone. Senza dubbio, non dispiaceva al moralista scettico che era, sviluppare davanti al suo uditorio – il giovane scrittore, la solista appassionata e il fotografo esiliato – i suoi ragionamenti misantropi riguardo all’umanità, all’esistenza e al loro avvenire catastrofico. Egli si lasciò andare all’esercizio con vivacità e buon umore comunicativo. Acute e spontanee, le sue risposte sgorgavano senza imbarazzo dalla fonte. I nostri scambi sembrarono rallegrarlo a più riprese. Il suo pessimismo era coperto da un velo d’allegria, l’umano faceva la sua parte con brio. Cioran aveva un’inclinazione per la Spagna come pure per i Paesi sudamericani, rampolli esotici della sua stirpe latina. Questo dovette contribuire alla benevolenza che provò nei miei riguardi. Una versione parziale della registrazione apparve prestissimo in spagnolo, a Caracas, dove l’autore de La caduta nel tempo era già stato tradotto e, poco dopo, a Bogotá. A tutt’oggi, quest’intervista talvolta

60

Intervista con Ben Amí Fihman

piccante, sempre avvincente, è rimasta inedita in Francia. Essa testimonia che il residente dell’abbaino filosofico di rue de l’Odéon non ha mai abbassato la guardia davanti alle chimere della vita in società. Nonostante gli anni, è proprio il giovane sciabolatore di Bucarest che ho visto, quel giorno, maneggiare la sua flamberga demistificatrice da spadista consumato e sottile. Una flamberga che egli non ha mai permesso di rinfoderare. L’emozione, a trent’anni di distanza, resta intatta. Come potrebbero riassumersi le differenze tra la persona che arriva all’improvviso a Parigi dalla Romania nel 1937 e quella che ci riceve oggi, nel 1978, e che è divenuta uno scrittore di lingua francese? Non c’è stato un cambiamento profondo. Il mio arrivo in Francia segna una tappa importantissima nella mia vita, ma la mia visione delle cose non è un’acquisizione occidentale. Ho cominciato a scrivere nel 1932-1933. Ero uno studente e il mio primo libro era sulla disperazione. Vi si trova in germe tutto ciò che ho detto in seguito. Ciò che è cambiato è la formulazione, non il sentimento fondamentale. Si possono trovare in questo sentimento tutte le spiegazioni che si vorranno: si può dire che è l’ereditarietà… Ciò non spiega niente, in fondo. Io direi che nella mia famiglia regna una sorta di pessimismo latente. Quando ho cominciato i miei studi, a 17-18 anni, volevo intraprendere una carriera universitaria. Volevo diventare professore di filosofia. Per tre anni, da studente, ho letto tantissimo. Leggevo fino alle quattro del mattino, tutta la filosofia tedesca, tutto ciò che si può immaginare. Di lì a tre anni, ho cominciato a cambiar tono, trovavo che non era molto serio ed è accaduta una catastrofe nella mia vita. Non dovrei parlarne, perché in fondo è meglio non dare spiegazioni precise a certe visioni delle cose. Ma è comunque importante. Ho perso il sonno, a dire la verità. Vale a dire, ho iniziato a vegliare, e tutto ciò che avevo imparato durante quegli anni mi sembrava vuoto. Ho visto che la filosofia non mi aiutava a superare questa crisi. L’insonnia, tutti la conoscono, ma l’insonnia assoluta, è l’esperienza più grave che si possa abbattere su

61

Ultimatum all’esistenza

qualcuno. Molto di più di una malattia incurabile o di stare in un campo di concentramento o condannato a morte. Il senso profondo del sonno è la discontinuità: lei si corica, dorme e l’indomani ricomincia un’altra giornata. È un altro uomo, contemporaneamente lo stesso e non più lo stesso. Quando non dorme, al contrario, c’è una continuità assoluta. Si corica e l’indomani è lo stesso della vigilia. Non c’è questo taglio che rappresenta il sonno. Per me, il più gran libro che sia stato mai scritto è il Macbeth, soprattutto per le riflessioni sul sonno che vi si trovano. È un libro che mi affascina, che traduce meglio quello che provo. La vera tragedia è di vivere in una continuità assoluta. Perché la vita è sopportabile solo per il taglio che rappresenta la notte di sonno. Se alle otto del mattino, lei è lo stesso del giorno prima alle otto di sera, è spacciato. Perché ha tutta la notte per rimuginare le cose che ha vissuto. Tutti quelli che si attivano, che producono, ricominciano la vita in modo perpetuo. Senza taglio non ricomincia nulla, si è in una continuità insopportabile. L’impossibilità di dimenticare: è questa l’essenza del giorno prima. Parlo dell’insonnia non come malattia ma come dramma metafisico. L’essere vivente, l’essere pensante deve poter dimenticare, altrimenti non regge all’urto. Quando sono sprofondato in questo dramma, tutto ciò che avevo letto non mi serviva più a niente. Kant mi era inutile, come pure quasi tutti i filosofi. È in quel momento che mi sono rivolto un po’ verso la poesia… Ho abbandonato tutte le mie ambizioni “serie”, la carriera da professore di filosofia. Mi sono reso conto che questo non serviva a nulla… Perché la filosofia, se non aiuta, non ha alcun senso. Perché apprendere la filosofia? Essa non si apprende. Ho capito che era falso e quindi mi sono distaccato da tutto quel mondo che avevo frequentato. Ma la poesia mi ha aiutato. Nei poeti si trovano delle esperienze profonde, non nei filosofi. A 18-19 anni, ho compreso che ero senza alcun appoggio, da nessuna parte. Questo sentimento di totale disorientamento metafisico non mi ha mai abbandonato. Esisteva, senza dubbio, già prima in me, ma si è aggravato con il tempo, perché sono arrivato alla conclusione che non c’è alcuna base solida. Ognuno ha dei momenti in cui percepisce queste cose. Le faccio

62

Intervista con Ben Amí Fihman

un esempio. Era nel 1947 in un caffè del boulevard Saint-Michel. Ero con un amico ingegnere che aveva appena inventato un nuovo tipo di elica. Egli mi spiegava in cosa consisteva la sua invenzione e non capivo niente. Accanto a noi, c’era un giovanotto davanti a un grande foglio di carta. Questo mi ha intrigato, guardavo ciò che stava per fare… Dopo un quarto d’ora, prende la penna e scrive a caratteri cubitali sul foglio: «La vita – quale mistero insondabile», e si ferma. Resta ancora cinque minuti e se ne va. Quest’uomo aveva appena vissuto un momento filosofico o metafisico… [ride]. Egli ha avuto un’intuizione in apparenza banale, ma ha impiegato tempo per scrivere questa banalità essenziale. C’è gente che vive queste cose non per attacco, ma in maniera continua. Si possono dividere gli uomini in due categorie: quelli che hanno dei momenti metafisici, delle ispirazioni, dei turbamenti e delle crisi, e quelli che vivono in una crisi più o meno continua. Questa distinzione divide l’umanità in due categorie irriducibili. Nei miei giudizi sugli uomini, non ho mai detto: quest’individuo ha una tale concezione politica oppure è gentile, buono, cattivo… Questo non mi interessa… Mi interessa unicamente il suo grado di lucidità. Conosco un tipo che è profondamente disonesto in tutto ciò che fa. Mi ha detto che un giorno a 17 anni era stato convocato all’obitorio per identificare il cadavere di suo padre. Egli si era adoperato, ingannando la vigilanza del custode, per restare da solo nell’obitorio tutta la notte. Ebbene, questo tizio che tutti disprezzano, io non posso disprezzarlo. Perché quest’esperienza lo ha segnato per il resto dei suoi giorni. Nel giudizio che esprimo sulla gente, tengo sempre conto di questo. Un giorno, ho avvicinato una ragazza sul boulevard Saint-Michel. Erano le undici di sera e l’ho accompagnata a casa, abitavo dalla parte di Porte d’Orléans. Ad un tratto, si è trovata in vena di confidenze e mi ha parlato della sua solitudine. Mi ha detto: «La sola cosa animata che ho nella vita è la sveglia. È il solo contatto che ho con la vita». C’era in lei un sentimento di solitudine straordinario e quasi permanente. Mi sono detto: «Questa ragazza è al di sopra di un filosofo che scrive sulle categorie o sulla Erkenntnistheorie». Quindi non penso che… perché il problema si pone… può porsi: ma

63

Ultimatum all’esistenza

perché dare a questo sentimento di solitudine un tale valore? Può essere un’illusione come un’altra? E io non credo, non credo questo. Penso che sia la realtà, no? L’essere umano è profondamente solo. La verità è là e tutto il resto è menzogna, ma una menzogna che tutti praticano, io compreso. Anch’io mi attacco a un sacco di cose, che ho coscienza di non fare in modo molto sincero [ride]. Posso dunque dire che nella vita sono un impostore, perché non dovrei fare ciò che faccio, dal momento che non ci credo. Ma ciò non mi impedisce di essere un essere vivente, con degli istinti, degli appetiti, ecc. E, in quanto vivente, sono nella menzogna. Questo è ciò che intendo. Quindi, si potrebbe dire: la vita è sopportabile in queste condizioni? All’inizio, quando ne ho avuto la rivelazione, ho pensato che mi sarei ucciso il prima possibile. Ma… Era in Romania? Sì, in Romania. Pensavo di non arrivare mai alla trentina, ma si va avanti, e ci si abitua un po’ anche a questo. Ci si abitua all’intollerabile, all’intollerabile visione delle cose, non è vero? Io non sono stato molto infelice nella vita, poiché non mi è importato di niente, non ho lavorato come tutti. Ho vissuto senza mestiere, che è comunque un’impresa. Ho vissuto come un benestante povero. Sono stato pensionato a vent’anni, perché non potevo lavorare. Ero molto scaltro per comprendere che, con la mia visione delle cose, non potevo fare niente. Ho insegnato in un liceo per un anno ed è stata una catastrofe. Dopo un anno, è stato necessario abbandonare. Ho scatenato un putiferio in classe. Era impossibile. Non era possibile per gli alunni o per lei? Per entrambi [ride]. E nemmeno per la scuola! Era tra i motivi che mi hanno spinto a venire in Francia. Prima, la mia idea era di vivere a Parigi. Era una follia, ma la mia scelta era buona nel senso che non avrei potuto vivere senza mestiere altrove. In una città di provincia,

64

Intervista con Ben Amí Fihman

o dovunque, avrei dovuto fare qualcosa. A Parigi si può vivere senza fare niente, anche ai margini della società, questo non ha alcuna importanza. È la sola città, o era la sola città, perché ora sta diventando impossibile. Qui è possibile cavarsela ogni giorno, senza identità, con dei sotterfugi, degli espedienti, dei trucchi… Altrove, è difficile. Ora non è più possibile, perché bisogna pagare delle tasse a diciassette anni, cose così… Si è spacciati! Ho vissuto come uno studente fino a quarant’anni. Mangiavo alla mensa, ero iscritto alla Sorbona [ride]. È stata una sorta di crollo quando sono stato convocato, nel 1950, e mi hanno detto: «Ascolti, lei ha superato il limite di età. Alla mensa dello studente si può mangiare fino a ventisette anni». Per me, era la fine perché avevo previsto di vivere negli alloggi per gli studenti fino alla morte. Non avevo avuto bisogno di affrontare questo problema. Quindi, è stato risolto. Bah, per dirle, la vita era molto facile prima, perché c’erano pochi studenti. Così, era un lusso essere uno studente. Avrei potuto, alla mia età, essere uno studente, no? Il sentimento di onorabilità sociale non è mai esistito per me. Me ne infischio… Quando si ha questa visione della vita, ci sono un sacco di cose che diventano impossibili. Si bara. Si possono fare bene solo le cose in cui si crede un po’, anche molto. Siccome io non ci credevo, le facevo lo stesso, ma male. Mi sono veramente intrufolato. Ho fatto finta di vivere… Si può dire: come si fa con questa concezione della vita a essere diventato vecchio? Se fossi stato sposato, se avessi avuto dei figli, se avessi dovuto guadagnarmi la vita, non avrei potuto reggere. Ma, avendo vissuto come un ozioso, ho dovuto solo sopportare la mia visione delle cose, non le responsabilità della vita. Non avrei potuto sopportare entrambe. Per me, la più grande tragedia sarebbe stata quella di avere figli. L’ho capito subito. Ho evitato la catastrofe. Mi sento assolutamente incapace di prendere su di me la responsabilità di qualcun altro. Non è stato mai tentato dall’immagine di un Cioran sistemato, sposato? No, no… Due o tre volte, forse… Ma mi sono ripreso subito.

65

Ultimatum all’esistenza

Ha fatto richieste di matrimonio? Nessuna richiesta, ma proposte, così… Quando ero giovane, non completamente lucido. Ma l’idea di fondare una famiglia era per me inconcepibile. Avevo da sopportare me stesso in primo luogo. Sopportare gli altri sarebbe stato impossibile. Buddha, quando ha avuto l’illuminazione, l’intuizione della vacuità, ha lasciato la famiglia. In fondo era questo, il risveglio di Buddha. Il sentimento della vacuità, che tutto è irreale. A partire da quel momento, ha lasciato moglie e figli [ride]. Posso dire di aver avuto una sorta di risveglio dello stesso genere di quello di Buddha, ma io avevo il vantaggio di non essere sposato. In questo senso, sono stato più lucido di lui [ride]. Ma, in tal caso, apro anche una parentesi: il buddhismo ha giocato un certo ruolo nella mia vita. Non sono buddhista, ma se avessi optato per una religione, sarebbe stato per il buddhismo. Mi sento più vicino ai saggi greci antichi, a Marco Aurelio, a Epitteto che a Buddha, ma egli ha comunque segnato un momento nella mia vita… In gioventù, bevevo abbastanza. Mi ubriacavo spesso, almeno una volta a settimana; e, quando rientravo completamento ubriaco a casa, leggevo i sermoni di Buddha. Era una sorta di libro prediletto delle mie sbornie. Se mi disprezzo, è perché vedendo le cose come Buddha e facendo le stesse costatazioni, non ho mai avuto la forza di separarmi completamente dalle apparenze, di rompere, di ritirarmi in solitudine. Perché ho un fondo scettico che mi rende incapace di prendere una decisione nella vita. Non ne ho mai prese, non ne vedo la necessità. Questo sarebbe in contraddizione con la forma stessa del mio spirito, poiché io metto in dubbio tutto. Prendo delle decisioni solo quando sono messo con le spalle al muro: mai io stesso! Buddha non era scettico, mentre io rimetto persino in discussione ciò che apprezzo di più: il risveglio, la percezione del nulla… attraverso una sorta di perversità scettica. Quando si ha il dubbio in sé, non è possibile liberarsene. Lei può fare qualsiasi cosa, esso arriva. È come una malattia allo stomaco.

66

Intervista con Ben Amí Fihman

Sì. Il dubbio è una sorta di cattiva digestione. Può seguire una dieta, mangiare cose pericolose o meno, se ha lo stomaco rovinato, tutto ciò che mangia le farà male. Il dubbio è quasi la stessa cosa. Esso è là, non ci si può liberare da esso. Compreso nella scrittura? Compreso… Soprattutto? Soprattutto nella scrittura! Quando parlavo d’impostura – è una parola molto forte –, ma io ne sono parte. L’impostore è un tipo che fa delle cose senza crederci. Dunque, è quello che ho fatto. Ho scritto pochissimo, ma ho comunque scritto. Ho pertanto una scusa: scrivere mi ha fatto un bene pazzesco. Devo dire che questa, secondo me, è l’unica terapia. Sì, una delle grandi terapie. Ma se non aderisce alle idee che esprime, c’è in questo un atto di irresponsabilità. No, perché nella vita, non si è sempre un impostore. È un’impostura metafisica. Sì, sì, ho compreso. Io sono sempre cosciente di tutto ciò che faccio, è questo che chiamo impostura. Essere cosciente di tutto, essere doppio. Tutto ciò che ho scritto, l’ho fatto nei momenti in cui era necessario che lo scrivessi, per liberarmi di qualcosa. Era un sollievo. Parlo spesso del cafard, di crisi gravissime, di depressione, ecc. Tutto ciò che ho scritto, l’ho scritto

67

Ultimatum all’esistenza

veramente per necessità, per liberarmi da uno stato intollerabile. Ho fatto una specie di cura, di terapia. È la funzione essenziale, per me, della scrittura. Non si scrive per trasmettere qualcosa, ma unicamente per disfarsene. Quando scrivo un libro, non penso mai ai lettori, possibili o futuri. Ho sempre pensato che dovessi scrivere per me stesso. Da giovane, ho scoperto presto la funzione liberatrice della scrittura. Non nel senso che si debba comunicare qualcosa o che occorra trasmettere un messaggio, nient’affatto! Ma è una specie di peso, di pressione interiore che deve essere superata. E posso dirlo, io credo davvero che se sono ancora in vita, lo devo anche a questo. Perché ogni volta che… in alcuni momenti, ci sono degli istanti intollerabili, a volte, attacchi di cafard inauditi, si ha voglia di buttarsi dalla finestra. Trovare la formula teorica di uno stato fisico o psichico è un’immensa liberazione. Alle parole, in cui non credo in assoluto, vi credo nella pratica, nel senso che mi hanno aiutato. Sono degli aiuti, sostituiscono le pillole e le cure. Queste parole, che sono finzioni, mi hanno aiutato. Dunque, credo, se vuole, nell’utilità della formulazione o dell’espressione. Quindi, è comunque un’arringa, se vuole, per scrivere nonostante tutto. Ho ricevuto una lettera da due giovani dell’Andalusia – avevano letto uno dei miei libri, non so quale – che mi hanno detto: «Perché continua a scrivere?». Ho risposto: «Perché mi aiuta a vivere…». Faccia un’esperienza: se detesta qualcuno, ha voglia di ucciderlo, di offenderlo o di schiaffeggiarlo, prenda un pezzo di carta e scriva venti volte «X è un mascalzone». È incredibile, ma lo odierà di meno. Ha voglia di suicidarsi: il fatto di scrivere sul suicidio le farà superare il suicidio, perché lo proietta fuori di lei. È un sacrilegio in fondo, ma un sacrilegio utile. Scrivere una lettera d’insulto, è formidabile. Perdona qualcuno che le ha fatto un torto, nel momento stesso in cui lo insulta per iscritto. Dunque, è salutare… Questa funzione terapeutica è essenziale per me. Posso dire che in questo senso i miei libri sono sinceri. Dirà che mi contraddico, perché dico che non ci credo. Ci credo nella misura in cui sono un povero individuo, ma se insiste: a che serve scrivere, perché pubblicare? In effetti, è assurdo!

68

Intervista con Ben Amí Fihman

Tanto più che i suoi libri sono “imprese” di demolizione. C’è dunque un atto positivo nella sua scrittura. Lei attacca l’esistenza stessa. Sì, è così. Per me, scrivere è un ultimatum all’esistenza. Questo è il significato di tutti i miei libri. È così: una sorta di ultimatum reiterato all’esistenza. È un attacco liberatorio. Si può sopportare l’esistenza, demolendola. Ho un po’ un temperamento combattivo, sebbene io non faccia nulla. Non mi attivo nella vita. Ma in realtà, per temperamento, sono un po’ aggressivo. Ma l’attacco, per me, ha questa funzione, dal momento che non si può fare altro. Ma qualcosa mi intriga. Il modo in cui la espone, la scrittura passerebbe per lei al primo grado, sarebbe una reazione a ciò che subisce nell’esistenza. Ma essa si rivela alla fine un atto al terzo o al quarto grado, poiché in primo luogo lei non scrive nella sua lingua materna, ha adottato una sorta di maschera linguistica… E in secondo luogo, in questa maschera linguistica, non c’è mancanza di abilità; lei è ritenuto essere una sorta di maestro straniero della lingua francese, poiché c’è nella sua scrittura una sorta di arcaismo e dei richiami stilistici di epoche diverse della lingua francese. Questa scrittura che, in principio, è un atto selvaggio, diventa un atto civile. Bisogna che le parli di questa lotta con la lingua francese. Si abbozza quando si scrive, è l’espressione di uno stato: si scrive senza pensare alle parole. È esattamente – mi scusi – come un’eiaculazione. Ho cominciato a scrivere in francese a trentasette anni. Questo è molto importante. Non ero vecchio, ma ero nel mezzo della vita. Ho compreso il dramma di scrivere in una lingua che non è la propria e di trasformare l’atto di scrivere in un’azione cosciente. L’abbozzo non è cosciente, anche in francese, lo scrivo così. Ma questo non va. Io ho sempre il complesso dello straniero. Non bisogna che questo sappia di “straniero”. Il Sommario di decomposizione l’ho scritto quattro volte. La bozza era veramente un’esplosione, ma la prima versione non era pubblicabile e ho riscritto il libro quattro volte. È diventata una sorta di operazione

69

Ultimatum all’esistenza

cosciente. È un dramma scrivere in una lingua che non è la propria. E lo considero anche il più grande dramma nella vita di qualcuno. Perché, in fondo, si può cambiare lingua a dieci, quindici o anche a vent’anni, ma non a trentasette, perché a trentasette si è formati. Scrivere in francese era per me come quando un tempo si scriveva in latino. Ho riflettuto molto su questa lingua. Il francese è diventato una delle mie ossessioni, dato che non è una lingua che si addice al mio temperamento. Io non ero fatto per scrivere in francese, ma mi sono trovato qui e avevo l’impressione di dovermi sempre moderare. Ciò era contro l’idea stessa di scrittura. È per questo che ho detto che scrivere in francese è stato, per me, come mettere la camicia di forza. Evidentemente, ho letto molto gli autori del XVIII secolo, anche esageratamente. Quindi, è vero che è una maschera. La sua espressione è giustissima, e questo mi dà una sensazione di irrealtà. Se la scrittura è un atto di liberazione, lei si è liberato all’interno di una camicia di forza. È vero. Sono rimasto impressionato quando ho letto che Pascal aveva riscritto sei volte Le provinciali. Per me, questo è stato uno choc. Quando scrivevo in romeno, era un abbozzo, me ne fregavo. In questa lingua, bene o male scrivere non ha alcuna importanza. Mentre qui occorre che sia ricercato. Quando si è presi dalla lettura dei suoi libri, ci si chiede talvolta perché non ci sono più interiezioni, grida… Perché le ho soppresse nella seconda o nella terza versione… [ride]. Ho voluto rendere i miei libri onorevoli. In fondo si avvicina molto, nel metodo e nell’intento, ai poeti. In una poesia…

70

Intervista con Ben Amí Fihman

Si elimina, si elimina. È necessario che il poeta misuri le sue grida. Assolutamente. Si elimina, si sopprime. La lingua francese è per questo uno strumento straordinario, perché è una lingua molto povera. Quando sono arrivato a Parigi avevo ventisette anni, fino ad allora avevo mangiato senza sapere di mangiare. Senza averci mai riflettuto. Abitavo allora in rue du Sommerard, presso il Museo Cluny, in un alberghetto e la mattina verso le 9:00 scendevo per telefonare. C’era il gestore, sua moglie e suo figlio. Tutte le mattine preparavano il menù. Il menù per la sera. All’inizio, pensavo che avessero degli invitati, ma dopo ho capito: essi riflettevano, era un programma! Dunque un atto cosciente. Da quel momento, ho cominciato a riflettere anch’io sul fatto di mangiare. Mangiare è un atto di civiltà. Prima mangiavo come un animale… qualsiasi cosa. Ed è scrivendo in francese che ho preso coscienza dell’atto di scrivere. Parallela a questa presa di coscienza dell’atto di mangiare è l’atto di scrivere. Quando scrivevo nella mia lingua materna, era istintivo. Lo scrittore che scrive in una lingua che non è la sua è due o tre volte cosciente. Qualsiasi scrittore francese è un bambino rispetto a me; può essere mille volte superiore, avere genio, ma se il criterio è la coscienza, in confronto a me è un ingenuo. Si può vivere un dramma metafisico, ma si può anche vivere un dramma in quanto scrittore. Penso a tutti gli individui che, per ragioni diverse, hanno dovuto cambiare lingua durante la loro esistenza. Quando ho preso questa decisione, mi trovavo in riva al mare e leggevo Mallarmé. Volevo tradurlo in romeno, ma era assurdo! Allora ho lasciato perdere e ho anche rinunciato alla mia lingua madre. Sono entrato in un altro mondo. Un amico che la legge da tempo ha un’opinione sul Sommario di decomposizione e sulla sua opera in generale, che vorrei sottoporle. Egli dice che lei non crede assolutamente a ciò che dice in questo libro, che è un esercizio di retorica, che se dicesse esattamente il contrario sarebbe lo stesso libro.

71

Ultimatum all’esistenza

È troppo semplice. O troppo intelligente. Il primo libro che ho scritto a ventuno anni è esattamente come il Sommario di decomposizione, ma da giovane. È redatto in un’altra lingua, il romeno. L’ho scritto in modo incosciente, perché il problema dello stile, della forma, nemmeno esisteva. Ma è certo che mi contraddico spesso, ne sono cosciente. Mi si può dire: lei dice una cosa e dieci pagine più avanti dice il contrario! Io lo faccio di proposito: ho scritto il primo testo in tale stato e il secondo in un altro. Non posso ora sistemarli per farne un insieme. Non scrivo un libro da professore, un sistema. Sono l’individuo più antisistematico che esista. Sarei disonesto a sistemare le cose per non contraddirmi. Allora, evidentemente, per qualcuno che ha una formazione universitaria e che legge questo… Io sono disprezzato da tutti i professori in Francia, per loro non esisto. Un giorno ho tessuto l’elogio dei suoi libri davanti a qualcuno della facoltà. È insensato. Uno mi ha detto: «È un mattacchione, Cioran è un mattacchione». [Ride]. Oh sì, sì. No, ma è evidente, perché questo non sta in piedi. Lei glielo ricambia, d’altronde. Assolutamente. Per me, l’università non esiste neanche, è niente. Non ci sono parole per qualificarla! Ritengo che dovrebbe essere soppressa subito, dappertutto. Ma questo non suscita interesse. Io enuncio delle cose che corrispondono a degli stati. Ho detto che ero «il segretario delle mie sensazioni». L’originalità di un individuo sono le sue contraddizioni. Più sono insensate, meglio è. Perché esse lo esprimono. Io non sono credente, ma ho letto tutti i mistici, perché ho conosciuto l’estasi nella mia vita. L’estasi senza fede. Dunque, da un lato, non

72

Intervista con Ben Amí Fihman

posso parlarne perché sono scettico; ma, dall’altro, conosco questi stati estremi. Se fossero formulati in termini religiosi, mi si prenderebbe per un credente. Ma parlo di un’intensità che rasenta la religione. È una contraddizione sul piano teorico, ma non sul piano affettivo. Posso essere scettico e conoscere questi stati estremi che sfiorano il delirio. Siccome voglio essere onesto con me stesso, devo accettare queste incoerenze. Ma per qualcuno che crede al sistema, è un’aberrazione, è il lato comico. Lì dove è lei, quasi dieci anni fa, era seduto qualcuno che aveva trascorso quattro anni a Mosca per farvi un dottorato di Estetica. Era un romeno, desiderava fare il professore. Dopo quattro anni, è ritornato da Mosca ed è piombato sui miei libri. Questo ha scatenato in lui una crisi religiosa. Ha abbandonato gli studi e mi ha detto questo, che mi ha impressionato: «Prima di averla letta, vivevo in un sistema, volevo elaborare qualcosa. E quando ho visto questi frammenti più o meno contraddittori, tutto è crollato». Egli si è trovato così disorientato che ha avuto una crisi religiosa. Voleva entrare in convento. Nello stesso tempo, mi ha detto: «Questo mi ha liberato». Personalmente, credo al “dio frammento”. Credo che il frammento esprima ciò che si è, in un momento, ma anche in assoluto. Perché questo momento si ripete, ma non occorre cercare la coerenza. Io non l’ho cercata, ed è questo ciò che sconcerta la gente. Si potrebbe immaginare, in uno stato del tutto comico, che io presenti uno dei miei libri come tesi di dottorato. Il tizio mi direbbe: «Ma ecco ciò che ha detto a pagina tale o talaltra! Non è possibile!». Ed io non potrei giustificarmi. Non cerco la verità ma il vero. Posso chiamarla filosofo? No. Beh, è uno scrittore, non so... Sì, sì.

73

Ultimatum all’esistenza

È uno scrittore che attrae più i poeti, gli artisti, che i filosofi o i professori? I filosofi mi dicono che dovrei cambiare stile. Questo non ha alcun senso. E poi, io attraggo anche le vecchie e le giovanissime [ride]. Le racconto una storia straordinaria, accaduta proprio qui. Da un po’ di tempo ricevevo le lettere deliranti di una donna: «Non c’è che lei al mondo», ecc. Inaudito! Queste lettere non erano scritte troppo male, ma io ho diffidato. Nessuna voglia. Poi, comunque, è stato necessario risponderle. Ho detto: «Ascolti signora, non voglio vederla, ma un giorno verrò a trovarla». Lei scriveva, come me, delle lettere forti: «C’è solo lei, solo lei!». Quand’anche questo non mi lusinga, ma sa, era una donna… E la racconto perché la storia è assolutamente autentica. Io adoro, mi piace enormemente la musica magiara, sono nato in Transilvania, in quella regione che apparteneva all’Austria-Ungheria prima della guerra del ’14, la musica ungherese mi tocca profondamente. Un pomeriggio ascoltavo, afflitto da una sorta di cafard, della musica magiara e dei fado, e sono precipitato in uno stato strano. Ho detto: «Vedrò questa donna». Le ho telefonato immediatamente: «Voglio vederla subito! Dove abita?». «A dieci chilometri da Parigi, ma posso prendere un taxi». «Allora venga subito!». «Arrivo tra un’ora». Ero in un tale stato che avevo veramente bisogno che qualcuno mi dicesse: «Lei è il più grande, lei è…». Era un momento di debolezza, in tutti i sensi. Alle otto, suonano alla porta. Quando apro, scoppio a ridere! Era una donna molto, molto vecchia, settantacinque anni. Una nana, non più grande di così, tutta storta, con degli occhiali da sole neri. Non potevo più smettere di ridere. Che ironia! Ero piuttosto seccato. Ed è rimasta lì per quattro ore a parlare. Era straordinaria, mi ha raccontato tutta la sua vita. Mi ha detto ciò che non aveva mai raccontato a nessuno, perfino la sua prima notte di nozze, tutto, tutto. Delle cose inaudite, enormi. Era un essere… respinto dalla vita, un mostro. Ma non era un’imbecille. Una sera passeggiavo con un tizio e gli ho detto: «Le persone che amano i miei libri sono lo scarto dell’umanità». Era un tizio

74

Intervista con Ben Amí Fihman

che mi aveva scritto per incontrarmi [ride] e ho aggiunto: «Mi scusi, ci sono delle eccezioni!». Delle eccezioni? [Ride]. Ma poi le persone appassionate… dico che ci si può interessare a qualcuno, no? Ma la gente davvero, c’è chi ne ha fatto una sorta di malattia. C’è una coppia che sta per divorziare a causa mia. La donna ama i miei libri e il marito li detesta. Sono fenomeni morbosi, no? Ho notato spessissimo che le lettere che ricevo provengono da infatuati, da mezzi matti o da persone in disperazione nera. Molti mi hanno detto che è a causa mia che non si sono suicidati. Quando non sto bene, ciò che mi sostiene è leggere un testo estremo. Credo che la negazione, se è violenta, non è cattiva. Purifica. Mi hanno accusato, a destra e a sinistra, di essere un distruttore: sì, ma non assolutamente. Un sacco di gente a Parigi mi telefona, che vuole suicidarsi. Si aggrappano a me. Teoricamente sono per il suicidio: credo che il suicidio sia la soluzione. Ma nello stesso tempo la mia teoria è che il suicidio, l’idea del suicidio aiuti a vivere. Un mese fa, qui, un giornalista tedesco doveva intervistarmi per la televisione tedesca. È uno che ha avuto un destino tragico, un sopravvissuto di Auschwitz. Egli ha scritto un libro sul suicidio in tedesco: L’apologia del suicidio. Io non volevo che venisse. Parlava perfettamente francese e io non posso parlare in tedesco con uno che parla francese. Si è suicidato dopo qualche giorno. Non a causa mia, si è suicidato perché voleva suicidarsi. Io credo che volesse venire a Parigi e dopo suicidarsi. Ho avuto un dispiacere enorme. Ci sono altri giornalisti che sono venuti, compreso quello che è stato qui l’altro giorno, anche lui in condizioni terribili e mi ha detto: «Ma perché lei non si è suicidato mentre l’altro si è suicidato?». Gli ho risposto: «Beh, perché non ha capito la mia teoria del suicidio». Io dico che, senza l’idea del suicidio, mi sarei suicidato da sempre. E questo è assolutamente vero. Per me, è stata davvero una grande idea. Infine, credo che nelle chiese si dovrebbe dire alla gente: «Ascoltate, non uccidetevi perché... potete

75

Ultimatum all’esistenza

uccidervi in qualsiasi momento». Questa è la mia tesi: il suicidio aiuta a vivere. È una mia convinzione profonda – sto provando a essere scettico – che senza quest’idea, in realtà, la mia vita non sarebbe stata tollerabile. Non sono stato oggettivamente un disgraziato nella vita, ma lo sono stato soggettivamente. Ho potuto sopportare tutto perché questo dipende da me. Quest’idea dipende dall’etica, ed è stata la stoltezza di tutte le religioni ad averla condannata. Esse hanno incatenato la gente, mentre bisognava dar loro questa speranza. È come per gli Stoici? Sì, gli Stoici: Seneca, Marco Aurelio, tutti, tutti… Si può uscire dalla vita, non è una prigione. Senza l’idea del suicidio, si soffoca. Di quest’uomo che si è ucciso, ho letto il libro. Egli non aveva un’idea terapeutica del suicidio. Dunque, la morte volontaria è una soluzione e occorre realizzarla, bisogna arrivarci. Per me, è stata il solo appoggio solido che abbia trovato. E a tutte le persone che sono sul punto di suicidarsi, dico: «Mi avete frainteso, no, al contrario, visto che avete questa soluzione a portata di mano dovete solo rimandarla». È per questo che ho definito la vita come uno “stato di non suicidio”. Conosce i giardini del Palazzo Reale? È quanto di più bello ci sia a Parigi. Passeggiavo con un professore canadese sotto i porticati, quando qualcuno mi chiama. Era una donna che conoscevo. Saliamo a casa sua e questo professore che era un grande neurologo, le cita il nome di un professore con il quale aveva lavorato in Francia. Lei risponde: «È un amico». E lui chiede: «Ma conosceva sua figlia?». Lei: «Naturalmente, la conoscevo. Si è suicidata». A ventidue anni. Va a cercare uno dei miei testi che s’intitola Incontri col suicidio e me lo mostra sottolineato dalla ragazza. Poi dice: «Ma lei non c’entra per niente. Erano anni che mi aveva confidato di volersi suicidare». Sembra che fosse molto carina per la sua età. Aveva il suicidio dentro, non poteva sfuggirvi. La mia teoria, proprio come l’idea di Rilke, è che ognuno ha la morte in sé. Lei si era suicidata senza una ragione oggettiva. Ci sono dei pretesti

76

Intervista con Ben Amí Fihman

al suicidio, ma il suicidio è anteriore al pretesto. Lei lo aveva in sé, era predestinata. Per me, è il solo privilegio dell’uomo. Il suicidio, il fatto di poter disporre del proprio destino, è qualcosa di così potente come un dio. È stato sempre interpretato male ciò che ho scritto sul suicidio. Per me, è un’idea positiva. Poco prima, parlava di queste donne che vengono a trovarla. Ci sono degli argomenti che evita un po’: sono l’amore e la sessualità. Che ruolo hanno giocato nella sua vita l’amore e le donne? Grandissimo, devo dire. Mi intendo meglio con le donne che con gli uomini. Ma non ho parlato di questo per reazione contro i contemporanei. Non vale la pena affrontare quest’argomento, poiché lo si trova ovunque. Ma doveva avere delle idee precise su questi argomenti, delle idee personali? Sì, ma ne ho parlato pochissimo. Soprattutto, della sessualità. Bisogna dire che in gioventù avevo letto quel libro straordinario e folle di Weininger. Quel libro mi ha fatto molto male per quattro o cinque anni. Avevo l’abitudine di frequentare le puttane. La donna era esclusa dalla mia vita, o meglio, c’erano solo le puttane. Per me, il bordello era una sorta di tempio. Ho cambiato parere più tardi, ma questo è durato alcuni anni. È un libro che corrispondeva anche a qualcosa. Ero di un orgoglio straordinario. È per questo che ho orrore dei giovani, ritrovo in loro la stessa cosa; e non posso sopportarlo, perché ciò mi fa ricordare di quello che ero in quel periodo. Attaccavo tutti, mi consideravo come il solo individuo perbene, ecc. Devo dire che ho avuto, a sedici anni, un’esperienza infelice. Abitavo in Romania, in una città di provincia. Mi ero infatuato di una ragazza, scioccamente, così… Un giorno leggevo Shakespeare, in una foresta dove andavo spesso, quando la vidi con uno dei miei compagni di classe che chiamavamo “il pidocchio” [ride].

77

Ultimatum all’esistenza

Tutti provavano per lui un disprezzo totale. Quando l’ho visto con questa ragazza sono sprofondato. Lei esce con questo “pidocchio”? Questo mi ha segnato per tantissimo tempo. Non volevo vedere altro che puttane. È durato per quattro o cinque anni. Ma questo si spiega anche perché c’è una tradizione nell’Est Europa, come nei romanzi russi… Come pure in America Latina. Sì, anche. Si inizia sempre per avvicinare le puttane. È una civiltà. Vale a dire, sono le civiltà del bordello. Io ci andavo per ballare… Ho assistito al matrimonio di una puttana, ero il testimone. Sono state amicizie molto solide… Ho vissuto così molto intensamente fino all’età di ventidue, ventitré anni, ma anche dopo, perfino a Parigi. In tutte le città dove sono andato, ho sempre frequentato un po’ le prostitute, per curiosità e per fedeltà al mio passato. Questo ha contato enormemente per me, anche nei miei libri si parla spesso di loro. Per esempio, nel capitolo Filosofia e prostituzione. Mi rendo conto ora di quanto questa domanda sia legittima. Anche dopo che sono diventato una persona seria, che ho vissuto con delle donne oneste [ride]. Un amico, grandissimo poeta venezuelano, Juan Sánchez Peláez mi diceva: «Quando si è affezionati alle puttane, lo si è per sempre». Egli mi ha raccontato che si era appena sposato con una ragazza americana molto bella, a Parigi… La prima sera, dopo il matrimonio, è uscito in strada a cercarne una. È straordinario. È quello che avrei fatto da giovane. Adesso non più, ma a ventidue, ventitré anni, sì. Ma solo noi possiamo comprenderlo, per un francese è incomprensibile. Sì.

78

Intervista con Ben Amí Fihman

O anche per un inglese o per un tedesco. No, no, impossibile. Ho avuto delle storie straordinarie così. Ho insegnato per un anno e avevo detto ai miei allievi che vietavo loro di andare al bordello dopo le nove di sera. Era per noi! Nel pomeriggio sì, ma non la sera... Allora, evidentemente, essi lo raccontavano ai genitori [ride]. Un giorno, in un momento di follia, ci vado eccezionalmente di pomeriggio. Il bordello era una sorta di salotto, si fumava, non si andava di fretta. Le prostitute non guardavano l’orario. Si poteva restare un’ora, due… Io fumavo e una signora mi disse: «È strano, sento che è in uno stato simile al mio. Credo di comprendere la sua condizione». «Cosa intende dire?». «Io ero molto legata a mio marito che ho perso giovanissimo e, da allora, ogni volta che faccio l’amore, vedo il suo cadavere accanto a me». E aggiunge: «Lei è in uno stato analogo». Ho trovato la sua intuizione psicologica straordinaria. In fondo, queste donne hanno un’esperienza della vita inaudita. È per questo che, quando posso, le cito. Ma, avendo conosciuto questo, come parlare dell’amore? Non ha più senso. Che valore ha per lei tutta la tradizione della poesia amorosa? Ho amato molto Keats. Un tempo leggevo molta poesia, poi me ne sono allontanato. Keats… era giustamente l’impossibilità, ciò che è interessante nell’amore è l’impossibilità. È la morte, il fatto che sia condannato. L’amore non fa che aggravare un destino tragico. È il mordente della tragedia. Mi ricordo di un suo testo dove dice pressappoco: «All’epoca, passeggiavo in bicicletta su tutte le strade di Francia e, talvolta, trovavo un cimitero di campagna, mi coricavo sull’erba e fumavo. Considero questo periodo come il più attivo della mia vita».

79

Ultimatum all’esistenza

Ho girato tutta la Francia, una parte dell’Inghilterra, perfino la Catalogna in bicicletta. Era quando sono arrivato in Francia, nel ’37. Un giorno, incontro uno studente romeno che lasciava Parigi e che aveva una bicicletta da vendere. La compro subito. Una bicicletta da corsa. Partivo per mesi. Avevo una borsa dello Stato francese, perché ero venuto qui per fare una tesi. Era un pretesto. Una menzogna, non sapevo neanche l’argomento. Ma è la menzogna che mi ha fatto vivere. Non avevo molto denaro, ma andavo negli ostelli della gioventù. C’erano quelli cattolici e quelli comunisti. Dunque, andavo in entrambi! [Ride]. Ho girato tutta la Francia, andavo nei cimiteri di campagna, mi stendevo tra le tombe e fumavo. Ero un grande fumatore. Era una sorta di realizzazione. Devo dire che mi sono imbattuto in un tipo intelligente, il Direttore [Alphonse Dupront] che mi ha detto: «In fondo, è più interessante conoscere la Francia che fare una tesi». Perché, di tutti quelli che seguiva, io ero il solo che poteva parlargli di qualsiasi cosa, dei Pirenei, della Bretagna… Quello che mi ha colpito in quel testo, più del significato, era l’immagine che dava di un’Europa tramontata per sempre… Che è un cimitero. È l’opinione che ho avuto al mio arrivo in Francia. Non è solo la Francia, è tutta l’Europa occidentale. Ora tutti lo sanno, ma io l’ho avvertito subito. Quando si conosce un po’ la storia della Francia, quando si sa del ruolo considerevole che questo popolo ha potuto giocare… Quando sono venuto in Francia, ho visto che la gente aveva solo un’idea: schivare le responsabilità. In fondo, il francese si era lasciato andare interiormente, era finita. Era un ultimo sussulto del ’40, ma, ora, tutto ciò che accade nel mondo, qui ha solo un’eco lontana. È ancora più vero per gli inglesi. Essi sono fuori dal gioco, fuori circuito. Io che ho studiato molto la fine dell’Impero romano, ritrovo qui tutti i sintomi e gli stigma di questo declino. La simmetria è straordinaria. Non penso che la storia si ripeta, ma ci sono dei momenti essenziali nella storia di ogni popolo. C’è una sorta di corso, di

80

Intervista con Ben Amí Fihman

itinerario… L’Inghilterra m’interessa enormemente. La mia idea, ora, è che ho sbagliato indirizzo. Sarei dovuto andare in Inghilterra, invece di venire qui; perché le qualità e soprattutto i difetti dei francesi mi sono molto noti. L’Inghilterra è molto diversa. È sassone, non latina. È così. Il contatto con un popolo che mi è molto estraneo sarebbe stato per me più fecondo. Ma in fondo è secondario. Ciò che è interessante, è questo presentimento che qualcosa finisca. Ciò che è terribile, è che i francesi sono quasi indifferenti al declino della loro lingua. Ho lasciato la Romania soprattutto perché volevo venir fuori da una lingua provinciale. Non sono venuto qui con l’idea di scrivere in francese, ma non volevo più abitare in un Paese la cui lingua coincide con la frontiera. Ora constato che quasi tutti gli stranieri che vedo a Parigi non conoscono il francese. Con i tedeschi parlo in tedesco, con gli inglesi in inglese, ecc. E anche con i giovani spagnoli, bisogna parlare in inglese. Il francese è una lingua che… Che si restringe. Che si restringe a vista d’occhio. Quando sono arrivato a Parigi nel 1937, tutti parlavano francese: gli stranieri, i turisti. Tutti sapevano rivolgere le loro domande in francese. Ora, parlano nella loro lingua. Nell’ufficio postale tutti gli stranieri parlano in inglese. Ho lasciato il provincialismo dei Balcani per cadere in un provincialismo futuro, già quasi attuale. È un dramma immenso. C’è solo l’Africa che parla francese. Ma pubblicare in Francia non ha le stesse ripercussioni che pubblicare in Romania. Evidentemente. Ma la Francia, prima della guerra, era il Paese. Quando si legge ciò che la Francia ha potuto essere nel XVIII secolo,

81

Ultimatum all’esistenza

è inimmaginabile! La donnetta meno importante che aveva un salotto a Parigi, esercitava una sorta di dittatura intellettuale sull’Europa! Madame de Geoffrin aveva un salotto che frequentavano tutti gli scrittori conosciuti dell’epoca. Era una borghese intelligente, ma che sapeva appena scrivere. Un giorno, era stata invitata dal re di Polonia. Durante il tragitto a Vienna, l’imperatore d’Austria, che passava in carrozza per strada, chiede chi fosse quella signora e presenta i suoi omaggi a questa borghese di Parigi! Io conosco un grande sapiente che vive a New York, che lavora a una ricerca sul codice genetico, egli è nato nella stessa città di Paul Celan, in Austria-Ungheria, prima della guerra del ’14. È nato in una famiglia molto ricca e ha avuto una governante francese. Ultimamente, mi ha detto: «Per me, una cosa merita di esistere solo se è detta in francese» [ride]. È uno che scrive in inglese o in tedesco, che conosce benissimo il francese, naturalmente, e che ne ha mantenuto il culto. Per un giovane è inconcepibile. Nei suoi libri, tre specie di personaggi sembrano averla veramente interessata: i mistici, i poeti e i falliti. I falliti, soprattutto! È un fenomeno un po’ balcanico, sul modello del romanzo russo prima della Rivoluzione. Il fallito è un uomo che ha abbastanza doni e che non li sfrutta; che lascia perdere, che distrugge la sua vita, non si realizza. Ho constatato che quelli che chiamiamo “falliti” sono persone profondamente interessanti, che hanno una saggezza nella vita. In gioventù, ho frequentato molto questo genere di persone e mi hanno segnato. Non avevano fatto niente, ma avevano riflettuto sul loro insuccesso. Lo avevano trasformato in filosofia e dunque giustificato. A questo punto, posso veramente parlare di influenza. Questo poteva essere pericoloso, perché essi incoraggiavano la mia tendenza a vedere l’altro lato delle cose. In Romania conoscevo un tale che doveva diventare curato. Il giorno del suo matrimonio, al momento di andare in chiesa, taglia la corda, scompare e abbandona tutti: la sua futura moglie, i parenti, gli invitati. Per mesi era introvabile. Questo ragazzo

82

Intervista con Ben Amí Fihman

ha esercitato su di me un’enorme seduzione, perché tutto ciò che dicevo, lo distruggeva. Un giorno eravamo insieme e abbiamo incontrato una donna. Io ero entusiasta, mi piaceva enormemente. Era molto più grande di me. Allora, quando egli ha notato che ero molto affascinato, mi ha detto – sembra insensato ma è la verità –: «Hai visto dietro al suo orecchio destro?». No, non avevo guardato e non mi interessava. Egli ha insistito perché lo facessi. In seguito, incontro la ragazza e faccio in modo di guardare dietro il suo orecchio. Aveva un foruncolo infame. È crollato tutto! [Ride]. Questo tizio era un demone, perché si trattava di un dettaglio assurdo. La funzione di un tipo del genere è quella di falciare lo slancio degli altri, di rovesciare tutto per terra. Ed egli ha sempre ragione. Evidentemente. Tutto ciò che è negativo esercita una sorta di attrazione. Era un grande psicologo. Aveva un’intuizione inaudita. Ce n’era un altro che passava per un grande genio, quando era giovane. Egli non ha mantenuto le sue promesse. Non ha fatto assolutamente niente, ma la sua conversazione era appassionante, perché rimpiangeva di non aver fatto niente. Aveva l’aria rassegnata, ma emanava una sorta di amarezza profonda. Talvolta, dopo una notte intera a parlare con lui, avevo l’impressione che tutto sprofondasse. Avevo una sorta di vertigine. Quello che diceva era convincente. Egli vedeva ciò che non si vede, ma che esiste. Tutto crollava. Ho conosciuto un sacco di gente così... che avevano un fascino demoniaco. Io non mi lasciavo ingannare, sapevo che questa era la conoscenza. La conoscenza è accedere alle cose vietate. Non bisogna toccare l’albero della scienza, perché è pericoloso per la vita. La conoscenza è distruttrice. È la mia convinzione profonda. Poco fa parlavamo di prodotti culturali francesi di esportazione. C’è tutta una cultura di esportazione francese, come lo strutturalismo, i nuovi filosofi. Cosa ne pensa?

83

Ultimatum all’esistenza

Quando sono arrivato a Parigi, prima della guerra, l’universitario non era accettato in un salotto. C’era una tradizione in Francia: lo scrittore era uno che non insegnava, che era un po’ appassionato di lettere. Dopo la guerra, tutto è cambiato. Gli scrittori sono diventati professori universitari, per guadagnarsi da vivere. Sono diventati degli impiegati. Questo ha cambiato tutto. Nelle case editrici, ora, sono dei professori, prima erano uomini di lettere. Lo scrittore aveva questa funzione di essere l’intermediario di tutto, egli non sapeva niente di preciso, era brillante. Adesso, gli scrittori si lanciano in teorie, sono quasi tutti nell’università e tutto il panorama intellettuale è cambiato. Personalmente, sono contrario. Ritengo che questo sconfinamento sia una sorta di patto di tradimento. Quando si pensa, per esempio, a un Valéry; egli ha vissuto di espedienti tutta la vita e alla fine è stato nominato professore. Vale a dire che faceva fatica a sbarcare il lunario. Ed era normalissimo che non avesse la vita assicurata: che si sia prestato a dei compromessi, che gli fosse piaciuto farsi invitare a dei banchetti, perché non poteva permetterseli. Passava per un parassita, ma l’umiliazione faceva parte della sua condizione. E non era così tanto male. Io non faccio l’apologia della povertà, ma trovo che si debba conoscere l’umiliazione nella vita. Non la si conosce se si diventa professore universitario subito e tutto è sistemato. È vero che si esportano i manufatti dall’università all’estero e che, anche in Francia, sono loro che dominano. L’identità francese ha preso l’aspetto dalla Germania e dall’America, dove l’università è un’immensa realtà. Io sono stato invitato in America più volte, ma ho sempre rifiutato, perché non voglio andare in un’università. Desidero parlare a degli esseri viventi, non a studenti, perché questo non fa parte del mio stile di vita. Ebbene, in Francia, sfortunatamente, ora prevale questo criterio. Che sia l’influenza americana o tedesca, io non so esattamente da dove provenga, senza dubbio da entrambe. Soprattutto americana, è molto forte nella scuola americana. Sì, sì; è così.

84

Intervista con Ben Amí Fihman

Per questo l’arte è decaduta nell’università in America. È finita come arte. È orrendo, e non si addice al genio francese. Lo scrittore francese, che non sapeva niente di preciso, ha ora una specialità. È funesto per la letteratura francese. Si vede ciò che significa la supremazia delle scuole. Bisogna portare un’etichetta. A mio avviso, è terribile far parte di qualcosa. Quando mi si dice: «Sono fatto così», il dialogo per me non ha più senso. In fondo ci sono solo dei problemi, concreti o astratti, ma occorre affrontarli senza far parte di una confraternita o di un movimento. Occorre essere sé stessi. Non abbiamo bisogno di dire: «In quanto a questo, io penso sia così». Nient’affatto! È per questo che sono contro l’impiego – intellettuale intendo – e credo che lo scetticismo sia una buona scuola. Quando si è scettici, si è forzatamente fuori da ogni scuola, anche dalla scuola scettica. Bisogna rimettere in discussione persino lo scetticismo. Ma questa cultura universitaria in Francia ha sviluppato una sorta di dogmatismo, è funesto, e io me ne sento completamente fuori. Io mi sento straniero qui. Non straniero a Parigi, ma nella vita intellettuale, perché trovo che questa dittatura dello scrittore divenuto accademico non sia tollerabile. Che valore attribuisce allo strutturalismo, ad esempio? Non mi interessa, assolutamente. Non ha rapporto con la letteratura. Può avere un interesse sul piano universitario, ma non nelle riviste letterarie. Mi fa vomitare. Tutti questi metodi, queste maniere sistematiche di affrontare soprattutto la poesia, sono inconcepibili. Non si sa se sia aritmetica o statistica. È di una pretesa inaudita. È dissezione, una sorta di anatomia della letteratura che non è tollerabile. Quando leggo una poesia non ho bisogno di sbucciarla, di tagliarla a pezzi. Ho assistito recentemente alla discussione di una tesi – una tesi notevole – su Dostoevskij. È uno che ha lavorato dieci anni, che conosce perfettamente il russo. In seguito, ho letto questa tesi, che è ottima in quanto

85

Ultimatum all’esistenza

tesi, ma che è segnata da questo metodo. Ho scritto all’autore: «Dostoevskij è lo scrittore che conosco meglio, l’ho letto diverse volte, lo conosco benissimo, ma mi ha fatto male vederlo tagliato a pezzi. Non ne resta più niente». Io non voglio più leggere Dostoevskij ora, bisogna che aspetti. Questo mi ha reso malato. Tutto era spiegato! Quando leggo uno scrittore, me ne nutro. Fa parte della mia vita. Ma in quel caso ho detto: «L’ha proiettato completamente fuori, l’ha operato, ucciso». Io ero nello stesso tempo indignato e afflitto. Egli ha risposto subito a quella lettera, che era cortese, perché è uno che apprezzo, dicendo: «Ha ragione!». Quando si parla di Dostoevskij, bisogna dire ciò che Dostoevskij è stato per sé stessi. È la sola cosa interessante. Perché fare della psicanalisi su tutto? La psicanalisi può essere utile in casi precisi, ma non in tutti… Perché scavare così, perché distruggere qualcuno in quel modo? È inconcepibile! Quando si fa l’amore, non si pensa alle budella di una donna. Non si guarda all’interno. Quando si ama qualcuno, lo si ama in profondità. In quel caso è superficiale, per me non c’è metodo in letteratura. Piaccia o non piaccia. Si approfitta di qualcosa, si assume un’opera, ma non si fa chirurgia. Legge ancora letteratura? Pochissimo. Sono assolutamente incapace di leggere romanzi. Posso leggere delle poesie, poesie in prosa e delle memorie. Ho letto centinaia di libri di memorie. Segno della vecchiaia! Ho anche fatto un’Antologia del ritratto che sta per uscire in Spagna. Il ritratto negli scrittori francesi, da Saint-Simon fino a Tocqueville, è una grande passione. Posso leggere qualsiasi libro di memorie, anche di uno scrittore inetto che nessuno avrebbe l’idea di leggere. Perché è sempre interessante vedere come finisce la sua esistenza. Qualsiasi essa sia. Una portinaia può avere un destino fantastico. Tutto ciò che è ricordo, mi tocca profondamente. Amo anche la biografia, perché è molto interessante vedere come ciascuno rovini la propria vita.

86

LETTERA DI EMIL CIORAN A BEN AMÍ FIHMAN*

Parigi, 3 maggio 1980 Caro amico, ho appena trascorso un mese davvero brutto a causa di un’influenza a cui sono seguite complicazioni. Mi sono detto: se la mia affezione tutto sommato banale (per un mese, e che tuttavia) può provocare tali malesseri, come devono essere quelli che conosce Ben Fihman! Noi siamo tutti salvati e perduti dalla chimica: in che stato ci mettono questi prodotti! Sono mesi e mesi che Lei ne fa esperienza, nello stesso tempo benefica e demoniaca. Non avrei mai creduto che avesse una simile forza d’animo e un tale coraggio. Noi siamo tutti, a vari livelli, dei martiri nostro malgrado, lo saremmo anche senza i nostri mali, per il semplice fatto di esistere. Nella sua lettera c’è un riferimento ai primi giorni della sua malattia e allo stato di grazia che ne ha conosciuto e da cui occorre distogliersi per poter condurre una vita “normale”. Questo passaggio mi ha intrigato molto (la parola è troppo vaga) e quando sarà a Parigi, spero il prima possibile, le chiederò delle precisazioni al riguardo. Indovino di cosa si tratta, ma preferisco le sue confessioni alle mie ipotesi. * Traduzione italiana di Vincenzo Fiore.

87

Ultimatum all’esistenza

Non le dirò nulla sulla situazione del mondo, il mio disgusto raggiunge il suo. Penso più che mai che è ora che l’uomo svuoti i luoghi e abbandoni la scena. Se non lo fa volontariamente, lo farà con la forza, attraverso l’incatenamento fatale dei suoi atti. Non trova che stiamo assistendo non tanto allo svolgimento della storia, quanto a uno spettacolo che sta per finire? Guardiamo e attendiamo. La nullità degli attori introduce una nota di commedia in quello che avrebbe dovuto sollevare almeno un’epopea. Sopporti ancora un po’ i carnefici così competenti, così efficaci, e venga qui liberato da un così lungo e immeritato incubo. Con tutta la mia amicizia, Cioran

88

INTERVISTA CON JEAN-FRANÇOIS DUVAL*

Lei scrive: «Non tutto è perduto, restano i barbari»1. Cosa intende dire? In questo momento, mi pongo il problema della catastrofe: a livello storico e in sé. Non so quale forma assumerà, ma, personalmente, sono assolutamente convinto che l’apocalisse sia inevitabile; e che non ha nulla a che fare con l’essere barbari o civilizzati. Questa catastrofe finale ritarda un po’, ma credo anche che, nel periodo che stiamo vivendo, la caduta del mondo civilizzato sarà molto rapida. Sono quasi certo che la Russia occuperà tutta l’Europa, senza neanche la guerra; perché i popoli super civilizzati sono spacciati. Questo credo. Devo dire che ho studiato molto la caduta dell’Impero romano. Ora ne riparlano tutti; perché è evidente, ci sono enormi simmetrie. La barbarie, inoltre, sta accadendo ora in altro modo. Non ci sono più le invasioni barbariche. I barbari si insinuano. Parigi, in parte, è già occupata da barbari. C’è un’infiltrazione, una diversa forma di invasione. Ma le conseguenze saranno identiche. È un processo che avrà conseguenze molto gravi, non c’è bisogno di discuterne. E su tutti i piani: in letteratura… in tutto! Prenda la metrò alle dieci di sera in direzione di Clignancourt, * Traduzione italiana di Vincenzo Fiore. 1 E. M. Cioran, La tentazione di esistere, tr. it. di L. Colasanti e C. Laurenti, Adelphi, Milano, 1984, p. 46.

89

Ultimatum all’esistenza

soprattutto il venerdì e il sabato sera. C’è un’altra umanità. Non ha più niente a che fare con la Francia. L’unica profonda differenza è che prima le tribù erano omogenee, mentre ora c’è una specie di popolazione variegata dappertutto. C’è chi occupa, chi s’insinua e chi presto manifesterà. Sta già cominciando. Già da ora ci sono manifestazioni di questi individui, di operai stranieri… Ce ne sono quattro milioni… E c’è una popolazione che non lavora, che viene qui da tutti i continenti. Presto i francesi, forse, non saranno minoritari numericamente, ma a Parigi lo saranno. «Già imperversano le ideologie, mitologie degradate, da esse saremo impoveriti, annullati»2, si legge nei suoi scritti. Cosa intende dire? Si parla, al contrario, dalla pubblicazione di Arcipelago Gulag di Solženicyn e con l’arrivo dei “nuovi filosofi”, della fine delle ideologie. Credo che qui, sì, stiamo già assistendo alla fine delle ideologie. In parte, è già successo. Perché qui, c’è una popolazione stanca. Ma le ideologie stanno conquistando l’Africa come stanno raggiungendo l’Asia. Non dimentichi che la Cambogia è un prodotto dell’utopia parigina! Quei cinque individui che hanno fatto quello che hanno fatto in Cambogia avevano studiato qui: queste sono le teorie parigine! Nella testa di questi ragazzi, ecco cosa ha prodotto. Come vede l’emergenza dell’islam? Questo è stato possibile a causa della fine degli antichi imperi, delle antiche civiltà. È il vuoto che hanno lasciato. L’islam avrebbe potuto attendere ancora per secoli. Ma dal momento in cui l’Inghilterra non ha voluto più un solo paese, la più piccola isola, l’angolo più piccolo del mondo – così pure la Francia – dal momento in cui tutti questi Paesi si sono ritirati, questi individui si sono svegliati. Erano popoli dormienti 2

90

Ivi, pp. 38-39.

Intervista con Jean-François Duval

– in questo sta la gravità della cosa – popoli addormentati che si sono svegliati! E, come nella Spagna del IX secolo, l’islam giocherà un ruolo molto importante. Perché questi popoli hanno accumulato energia. Non sono logori. E poi, si accontentano di essere molto scabri. È molto importante. Ciò avrà conseguenze enormi. Nell’arco di due anni abbiamo visto cose inimmaginabili. Cosa abbiamo visto? Rinascere un’illusione? Una nuova illusione, ma un’illusione potente. Che l’America sia in ginocchio, che la Francia sia in ginocchio e tutto l’Occidente, di fronte a Paesi come questi... È molto importante e molto serio. Poi, sono persone che accettano di soffrire. Qui, nessuno accetta più di soffrire... La gente non è in grado di rinunciare a nulla né di soffrire... È per questo. Quello che è successo in Polonia è davvero impressionante. Abbiamo visto che c’erano Paesi in Europa che avevano ugualmente delle risorse, proprio in virtù dell’oppressione che avevano subìto – comprende? In maniera unanime. In Occidente, è inconcepibile. La mia teoria è che l’Europa occidentale sia spacciata. L’Europa esisterà ancora per l’Est. Perché? Perché questi individui sono stati schiacciati dalla storia. Dunque, non l’hanno vissuta, ed essa è sempre riservata a coloro che non l’hanno vissuta. È per questo che, a mio avviso, l’Occidente è condannato. Per quanto concerne “la fine della storia”… È molto delicato. È un argomento che si presta a qualsiasi commento, qualsiasi interpretazione, la fine della storia. Perché, in fondo, è la fine dell’uomo, sì o no? Io credo che l’uomo sia veramente minacciato. Ma ogni previsione è rischiosa e ridicola. Non sappiamo in quale forma, ma avvertiamo in maniera molto chiara che l’uomo ha preso una strada sbagliata, e che, se ci riflettiamo, non può finire bene. Tutto ciò che l’uomo intraprende finisce in maniera opposta rispetto a ciò che

91

Ultimatum all’esistenza

ha concepito. Quindi, l’intera storia ha un significato ironico. Queste sono cose che ho già detto, ma bisognerebbe svilupparle ulteriormente. Arriverà un momento in cui l’uomo avrà realizzato esattamente il contrario di quello che avrebbe voluto. Per me, è evidente. Cosa intendo per “fine della storia” è questo, e vado anche oltre. Sa perché in questo momento si parla così tanto di Hitler? Perché Hitler ne è un esempio. È l’uomo che ha realizzato, punto per punto, il contrario di quello che avrebbe voluto – la negazione di tutto il suo programma, di tutto ciò che voleva. È il fallimento assoluto. Ed è perciò, immagino, che le persone siano così interessate a lui. Non sanno perché, ma è per questo: il mostruoso fenomeno del fallimento umano. È l’individuo che si è proposto certe cose che erano assurde, dementi, tutto ciò che si vuole. Voleva realizzarle, ma ha realizzato esattamente il contrario. Ha fallito su tutti i piani. A mio avviso, è questa, inconsciamente, la ragione per cui le persone si interessano a questo fenomeno. Perché devono avvertire che ciò significhi qualcosa. Veda, anche Stalin voleva instaurare il marxismo ovunque. E più la Russia diventava potente, più il marxismo si svuotava del suo contenuto. Di fatto, possiamo dire che anche la Russia ha realizzato l’esatto contrario di quello che avrebbe voluto. Come spiega questo fenomeno? L’uomo è un animale uscito dal suo equilibrio naturale, che si è lanciato in un’avventura anormale, che necessariamente gli si ritorce contro. L’uomo ha il destino di un genio, che si lancia in un affare fantastico, ma ne paga anche le conseguenze. Egli è troppo eccezionale perché finisca bene. Segue una strada che non può che condurlo alla rovina. Non è pessimismo! Non ho mai affermato la nullità dell’uomo, ma considero che ha preso un sentiero sbagliato, che non poteva non prendere.

92

INTERVISTA CON ROSSEND ARQUÉS*

Senza l’idea del suicidio mi sarei già suicidato. Con ciò voglio dire che per me il suicidio è un’idea positiva, che aiuta a vivere. Senza la possibilità di uscire dalla vita, questa sarebbe insopportabile. In tutti i momenti difficili della mia vita, e non solo in questi, ho sentito una specie di liberazione pensando che era tutto nelle mie mani, che ero padrone del mio destino. Forse devo parlare di orgoglio, però è qualcosa che va oltre l’orgoglio, è una specie di onnipotenza. Dal momento in cui uno sa che può disporre della propria vita diventa un vero Dio. Sono contrario all’orgoglio relativo ma non a quello assoluto; è bene che l’uomo sostituisca Dio, ma è meschino e ridicolo dire che è più intelligente, buono, dotato, ricco, ecc. del vicino. Tuttavia l’orgoglio filosofico è, secondo me, qualcosa di molto bello, dato che è segno di ribellione contro il destino. Forse questo orgoglio è come la risata della iena mentre divora carogne o quella del cammello in pieno deserto? Forse l’uomo è orgoglioso del proprio vuoto, del proprio nulla? Sì, forse. Ma ora mi riferisco all’aspetto positivo del suicidio. Al * Traduzione italiana di Carla Cau.

93

Ultimatum all’esistenza

suicidio come atto. Il cristianesimo ha privato l’uomo di una risorsa straordinaria. Il peggiore crimine del cristianesimo è l’aver condannato quest’atto, visto che, facendolo, ha condannato l’uomo. Cosa vuol dire pensare al suicidio? Perché – mi dicono – non si è suicidato? Perché per me il suicidio – malgrado abbia sentito molte volte la tentazione di uccidermi – non implica l’idea di sparire, ma quella di poter sopportare la vita. Il suicidio è una specie di salvezza. Pensando «da me dipende il fatto di sbarazzarmi di tutto», si ha la sensazione di essere unici e, conseguentemente, uno si ritiene libero, nel pieno senso della parola. Il cristianesimo, quindi, ha tolto all’uomo questa grande possibilità. In questo caso, e non solo in questo, il paganesimo è infinitamente superiore. Mi ha sempre affascinato la figura dell’antico sapiente. Quell’uomo che dice: «La fine di tutto è nelle mie mani». Lei sa che mi piacciono molto Epitteto, Seneca e Marco Aurelio, li ho letti durante tutta la mia vita. Senza la fede il cristianesimo non sarebbe niente. Invece il paganesimo non è una fede, ma una saggezza. Non esiste saggezza cristiana, esiste soltanto una dottrina della salvezza, una fede. Uno che non ha fede, come me – che non sono antireligioso, ma non ho la fede – il cristianesimo non può aiutarlo, mentre il paganesimo sì, perché non richiede un’adesione. Propone una forma di vita, la propone solamente, ma non la impone. Il cristianesimo è una religione di schiavi, non nel senso sociale del termine, ma in quello spirituale e metafisico, di qualcuno che dipende da un altro. In ogni caso sono contro il cristianesimo per altre ragioni. Credo che il politeismo, come visione religiosa, si opponga all’intolleranza; la tolleranza non è possibile in un sistema monoteista. Sarebbe contraddittorio. Se esiste solamente un Dio, non può esserci che una sola verità; se esistono più dèi, ci sono più verità. Conseguentemente, la tolleranza si concepisce solo partendo da un certo scetticismo. Non esiste verità assoluta, ma molte verità, molte opinioni. Nel politeismo si tolleravano più o meno tutte le religioni, meno il cristianesimo. Perché? Perché il cristianesimo è intollerante. Qualsiasi monoteismo implica necessariamente intolleranza.

94

Intervista con Rossend Arqués

Kierkegaard diceva che il cristianesimo nel momento in cui afferma un dogma, e nega i sensi, afferma la perversione di tale dogma. In questo senso si potrebbe dire che è possibile fare una lettura “pagana” – sebbene tollerante – del cristianesimo. Ciò che è interessante nel cristianesimo non risiede nel cristianesimo in sé, ma nelle reazioni che esso ha suscitato. L’interesse non sta nel dogma, ma nelle eresie. Lo gnosticismo, per esempio; io accetto la gnosi. Ma si potrebbe dire che tutte queste sono correnti che si oppongono al cristianesimo dal suo stesso interno. Senza dottrina non c’è eresia. Al contrario, il politeismo non implica nessuna idea di eresia, perché non c’è una verità assoluta. In seno al cristianesimo, se non si ha la fede, si è infelici. Che cosa la spinse a pensare al suicidio? Tutti pensano, in un determinato momento della vita, al suicidio. Credo non ci sia nessuno che lo ignori. Le farò un esempio straordinario. Conoscevo una persona, che è morta da poco, con la quale ho mantenuto un’amicizia durata 25 anni. E ne aveva 80 quando mi disse: «Amico mio, è la prima volta nella mia vita che ho sentito la tentazione del suicidio». Me lo disse come se si trattasse di qualcosa di mostruoso. Era un uomo molto dotato e molto conosciuto. Incomprensibile, sì, perché quando io avevo 17 anni pensavo costantemente al suicidio e con il tempo finì col diventare un’ossessione, finché si placò. Egli tuttavia, nonostante fosse un filosofo, non si pose mai questo problema. Il suicidio non ha nessuna relazione con il livello intellettuale. Qualsiasi uomo semplice può sentire questa tentazione. La riflessione sul suicidio implica un livello intellettuale, non altrettanto il sentimento del suicidio. In un’altra occasione lei mi diceva: «Chi non ha provato l’insonnia, le notti in bianco, non può sapere cosa sia il suicidio». Che rapporto esiste fra questi due stati?

95

Ultimatum all’esistenza

La mia teoria è che il novanta per cento dei suicidi sono dovuti all’insonnia. I medici non sono d’accordo, ma quasi tutte le persone che ho conosciuto ossessionate dal suicidio, soffrivano d’insonnia, perché… Cos’è l’insonnia? È il tempo infinito. Non dormire, ed ogni secondo, ogni minuto esiste nel trascorrere delle ore. Uno sente che il tempo non passa, e se ciò si prolunga troppo, arriva a mettere in discussione la vita stessa. Invece di dimenticare, non dormendo, tutto resta vivo nella memoria. E questa impossibilità di dimenticare è una delle cause del suicidio. L’uomo non è fatto per tollerare il tempo, né fisicamente né psichicamente, non è fatto per sentire che ogni minuto è realtà e che si trova solo di fronte al tempo che non passa o che passa molto lentamente. Perché si lavora? L’uomo lavora per dimenticare il tempo, visto che se pensasse continuamente al trascorrere del tempo, diventerebbe matto. L’insonnia, tuttavia, presuppone l’obbligo, la costrizione a registrare questo lento e interminabile scorrere del tempo. E arriva un momento in cui questa sensazione diventa intollerabile. Penso ad un poeta che si suicidò per questo motivo. Stanco di sopportare le ore di veglia, si alzò dal letto e si buttò dalla finestra. Quando uno non può dormire, sente il bisogno di fare qualcosa di avventato. Ma se si analizza profondamente il processo mentale di questo individuo, è evidente che è in relazione col tempo, e questa relazione non suppone una riflessione filosofica, si tratta di qualcosa di intollerabile. L’ho provato io stesso. Ho passato tutta la mia giovinezza senza dormire, ma per fortuna non avevo nulla da fare, non dovevo lavorare. I miei non erano ricchi, ma potevano finanziare le mie insonnie. Ma se avessi dovuto lavorare, credo che non avrei avuto la forza necessaria per farlo. Molto spesso si vede gente che deve lavorare e non chiude occhio tutta la notte e deve fare uno sforzo enorme per essere attivo la mattina dopo. La cosa tragica di questa veglia è che l’uomo non può sopportarla per molto tempo. Viviamo grazie alla discontinuità. Uno va a letto, dorme, si alza, ed è come se incominciasse una nuova vita. Ma se non dorme, non inizia mai niente. Allora vive una fatale continuità. E questa continuità, funesta, tragica e

96

Intervista con Rossend Arqués

insopportabile, porta al suicidio. Perché, se non si dorme, alle otto del mattino si è come alle otto di sera del giorno prima. E tutto si mette in discussione… Tutto. Appunto! Perché iniziare? Perché lavorare? Non ha senso. Tutto si mette in discussione quasi automaticamente. Si potrebbe dire che il suicidio come “atto” è una ininterrotta rimessa in discussione di tutto. C’è una relazione fra il suicidio e la malinconia? Diretta. Sì, è fondamentale. La malinconia viene considerata come uno stato patologico. Da sempre la malinconia è stata associata al suicidio. Cos’è la malinconia?… La malinconia presuppone anche uno stato in cui si percepisce la brevità, la nullità, la vanità di tutte le cose. Se si vuole, la malinconia è lo stato patologico – sebbene per me non lo sia – della riflessione sul tempo. Si è malinconici perché si ricorda il passato; l’immagine del passato implica sempre una reazione malinconica. Evidentemente, esiste la malinconia clinica, che è una malattia. Nei manicomi, quelli che si suicidano sono di solito i malinconici. Tutti siamo malinconici. È questo uno dei vantaggi dell’uomo. Non m’immagino nessun animale malinconico, anche se forse può esserlo la scimmia. L’uomo è l’unico essere vivente che si suicida? Sì, il suicidio è un’invenzione dell’uomo. Per il suicidio questi si distingue dalle altre creature, dalle bestie. È per questa immensa possibilità che egli ha un posto privilegiato nella natura. È un animale, ma un animale che può cessare d’esistere. Però ci sono animali che si suicidano.

97

Ultimatum all’esistenza

Sì, ci sono bestie che si suicidano in gruppo, per una specie di pazzia. Tuttavia nell’uomo, anche quando è pazzo, c’è un momento di riflessione. Si è detto che l’uomo è un animale razionale, ma non è questo il motivo. L’uomo è unico in ragione dei propri atti. Sono convinto del fatto che l’umanità finirà ma… come dire, non con una specie di suicidio collettivo… solo che l’uomo arriverà ad uno stato tale che non potrà continuare a sopportare la vita. Il suicidio diventerà la sua normale condizione. L’uomo è un’anomalia della natura. L’essere umano è un’immensa avventura, e arriverà un giorno in cui quest’avventura cadrà su di lui come una maledizione. Paragono l’uomo ad un genio che dà tutto ciò che può e dopo è finito. L’uomo è condannato non dalla tecnica, dagli avvenimenti, dalla guerra atomica, ecc., ma dalla sua stessa impresa. Il suicidio, di conseguenza, sarà la normale risposta al problema dell’esistenza. Prima o poi, per l’uomo tutto diventerà insopportabile. A volte immagino gli ultimi uomini. Saranno degli esseri sempre sull’orlo del suicidio. E questo perché l’uomo è andato troppo lontano, ha superato i propri limiti. Chiunque supera sé stesso deve subire le conseguenze di tale trasgressione. L’uomo è, nel senso metafisico del termine, un avventuriero. E non può tornare sui propri passi. L’uomo va verso la distruzione di sé stesso perché è questo il suo destino. Nessun animale è uscito dalla propria condizione. Solo l’uomo lo ha fatto. E ora non può tornare indietro. Potrebbe salvarsi se ritornasse allo stato animale. Ma questo è impossibile. Di conseguenza, bisogna che segua la sua strada. Finirà forse nella demenza, nella stupidità, ma sarà la logica conclusione di un destino geniale. L’uomo è un mostro. E “mostro” non è un concetto negativo, ma un’idea tragica. Quindi, lei crede che sia un controsenso la concezione dell’uomo come creatore, come poietés? Dato che l’uomo, quanto più va avanti nelle sue fatiche per capire il mondo, tanto più affonda nella palude della sua stessa distruzione. Non sarà questa auto-immolazione la sua più grande creazione? No, non condivido questa fiducia nella creatività umana. Credo che

98

Intervista con Rossend Arqués

l’idea della maledizione sia inseparabile dall’idea dell’uomo. È impossibile capire l’essere umano senza l’idea della maledizione. Essa si trova nell’intimo dell’uomo. Se questi non fosse un animale maledetto, non offrirebbe nessun interesse. L’uomo come animale creatore? Sì, va bene, può essere filosofo, poeta, scrittore… ma perché continuare? L’importante è l’aspetto negativo della creazione. L’uomo è compromesso con questa creazione che lo rovinerà. È questo che rende interessante la storia, in quanto creazione dell’uomo. Parlare delle infinite possibilità dell’uomo non è altro che un’aberrazione. Ma qualcosa lo spinge a superare i propri limiti. Per me l’uomo sarà vittima della sua stessa creazione. Tutto ciò che egli compie è anormale, per cui sarà punito. Da chi? Dal proprio destino. Si potrebbe dire che la bomba atomica è la volgare conseguenza di questa necessità di analizzare tutto. Per questo l’ecologia non ha senso, è anch’essa espressione dell’inquietudine che prova l’uomo davanti al suo ineluttabile destino. È una reazione ingenua. L’uomo è un animale demoniaco. Il suo problema sta nel fatto che non può essere saggio, vuole esserlo ma non ci riesce. Ci sono parecchi scienziati ma pochissimi saggi. È questo il dramma dell’umanità. Nella sua concezione del mondo, si avverte un “aut-aut” fondamentale fra la percezione passiva e l’attività, il movimento, dando una precisa priorità alla prima. È l’inattività uno dei suoi ideali? Il mio sogno è l’assoluta passività. La mia visione del mondo oscilla tra la saggezza e la tragedia. E ambedue sono incompatibili tra di loro, visto che la saggezza è la negazione della tragedia. Secondo me, senza la tragedia non è possibile capire la storia. La saggezza, al contrario, significa uscire dalla storia. Le ho già detto che oscillo tra questi due poli. Ed è per questo che mi sono occupato della filosofia indù e ho capito che non era fatta per me. Perché?

99

Ultimatum all’esistenza

Perché sono troppo sensibile al dramma storico, che la filosofia indù non prende in considerazione. Quando mi resi conto che questo dramma mi interessava, ho smesso di occuparmi di quella filosofia… Per lei che rapporto c’è tra il suicidio e la passione? È impossibile concepire il suicidio di una persona indifferente. Il suicidio implica la passione, eccetto nel caso, raro, dei filosofi pagani che ho citato prima. Normalmente il suicidio è legato ad una sensazione d’intensità. Non è possibile concepirlo diversamente. Se uno si spara un colpo o si butta nella Senna, non può essere in uno stato di tranquillità. Si fa, come dicono bene i giornali, “in un momento di disperazione”. Mi ricordo il primo libro che scrissi quando avevo vent’anni, si intitolava Sulle vette della disperazione. Sa perché scelsi questo titolo? Pensai a molti altri, ma nessuno mi andava a genio. Finalmente mi venne in mente il titolo di un giornale in cui avevo letto «X, “sulle vette della disperazione”, si buttò dalla finestra» e questo fu il titolo che diedi al libro. La cosa certa è che il suicidio implica o la sommità o il baratro, le vette o l’abisso, l’estrema felicità o la disperazione. Il suicidio contiene un mistero, qualcosa di inafferrabile all’analisi positiva, scientifica. Che cosa ne pensa dei tentativi di spiegazione scientifica, sociologica, psicanalitica del suicidio? Personalmente non mi interessa nessuna spiegazione oggettiva del suicidio. Trovo più interessante una qualsiasi confessione scritta da una persona qualunque che le statistiche sociologiche o le considerazioni degli psicanalisti. Penso che non si possa sistematizzare. L’unico centro d’interesse è per me l’individuo, l’uomo solo di fronte a questa enorme decisione, di fronte a questa totale messa in discussione di tutto ciò che esiste. Ci sono persone che sembrano essere condannate al suicidio. Come saprà, tre fratelli di Wittgenstein si suicidarono. E lo stesso Wittgenstein fu sempre ossessionato dal suicidio; se non lo portò a termine

100

Intervista con Rossend Arqués

fu perché considerò che, con tre suicidi in famiglia, non ne valeva la pena. Quello che mi interessa è questa predisposizione. Ciò che spinge al suicidio non sono le pressioni esterne, ma una sorta di determinazione interiore. Conobbi una bella e ricca contessa polacca che si suicidò, senza alcun motivo. Il suicidio è misterioso. Parte da un sentimento di impossibilità, però nessuno potrà mai sapere di che tipo d’impossibilita si tratta. Il suicidio è solitudine assoluta, che nessuna spiegazione scientifica può delucidare: è l’atto individuale per eccellenza. È in questo senso che i romantici tedeschi parlavano di “atto geniale”. Novalis, Schlegel… Certo, il suicidio è un atto geniale perché presuppone l’affermazione assoluta dell’individualità. Mi hanno sempre affascinato due suicidi dell’epoca romantica: quello di Carolina von Günderrode, una poetessa tedesca che si suicidò nel 1806, affondandosi un pugnale nel cuore; e quello di Heinrich von Kleist, il quale ugualmente si portava dentro l’idea del suicidio, solo che era ossessionato dal bisogno di suicidarsi in compagnia. Kleist voleva suicidarsi con qualcuno, prima lo propose a sua cugina e ad altre persone, infine trovò una donna consenziente. Con il Romanticismo si inaugura una nuova concezione del suicidio. A partire da allora appare la figura del suicida che parla, narra le ragioni della sua auto-immolazione. Nel Romanticismo è fondamentale l’idea dell’Io (Fichte, ecc.). Questa problematica portata sino alle sue estreme conseguenze non può escludere il suicidio, come possibilità. Dal momento in cui si riflette profondamente intorno al problema dell’Io, si avvertono le forme estreme di questa idea. Cosicché non è per niente strano che i romantici abbiano riproposto il problema del suicidio. Dopo questi, chi fu ossessionato dal suicidio fu Dostoevskij. Il suicidio è costantemente presente nella sua opera. Egli non parla a titolo personale, ma proietta nei suoi personaggi la sua preoccupazione su questo tema.

101

Ultimatum all’esistenza

Kirillov… Sì, Kirillov, Stavrogin… Kirillov si spinse troppo in là e non gli restava altra via d’uscita che il suicidio. Qui si dimostra la mia tesi secondo la quale l’uomo che oltrepassa i propri limiti finisce con l’avere una sola scelta. Un tipo come Kirillov non era capace di integrarsi nella vita. Vedo in lui una sorta di prefigurazione della fine dell’umanità. Durante un’altra conversazione lei mi disse che uno dei suicidi che più l’avevano colpito era stato quello di Otto Weininger. È nota l’influenza che ebbe questo psicologo negli ambienti intellettuali e aristocratici austriaci e tedeschi: Wittgenstein, ecc.; ma quale fu l’influenza che l’autore di Sesso e carattere esercitò su di lei? Quando ero giovane ero affascinato da Weininger! A 16 anni lessi il suo libro Sesso e carattere, che esercitò su di me un’influenza enorme. Lessi tutto ciò che si era scritto su di lui. È un libro molto interessante perché spiega l’odio verso sé stesso. Inoltre distrusse la donna, completamente. La annientò. Disse che la donna non aveva una realtà ontologica. Negò alla donna la condizione di essere. Weininger mi travolse tanto che per alcuni anni la mia unica relazione con le donne fu attraverso le puttane. Neanche guardavo le mie compagne di corso, andavo solamente nei bordelli. Ho avuto bisogno di molto tempo per liberarmi di questo peso. O forse ciò che mi salvò fu un certo scetticismo, scetticismo in quanto compromesso con la realtà, e non in quanto conseguenza finale di tutto. In ogni caso, il suicidio di Weininger è uno dei più logici che mai abbia registrato la storia. Lei ha parlato in alcune occasioni dell’aspetto immorale del suicidio. A che cosa si riferiva? Questo aspetto si vede in tutta chiarezza nel caso di Hitler. Se egli non avesse pensato al suicidio avrebbe capitolato. Tuttavia, questo è

102

Intervista con Rossend Arqués

un tema delicato, sebbene molto importante. Si sa che nel 1942 Hitler dichiarò al capo dello Stato Maggiore nazista che avevano perduto la guerra. Nonostante ciò la continuò sino all’intera distruzione del suo Paese, e non solo di questo. Avrebbe forse proseguito senza avere la certezza del suicidio? Questo atto comporta casi tanto immorali come quello di Hitler. Così che possiamo dire che il suicidio può essere causa di incredibili tragedie. Con questo ci rendiamo conto sino a che punto sia complesso il suicidio. Hitler stesso andò troppo lontano. Nell’ultimo discorso che tenne in Germania nel 1943 disse: «Siamo tra l’essere e il non-essere». Questa è una domanda propria di Amleto, non di un capo di Stato. Un capo di Stato non ha il diritto di porre la sua nazione davanti a questo bivio. Hitler impose il suo dramma personale alla nazione. Ma egli sapeva di possedere il suicidio. Si potrebbe dire che distrusse il suo Stato per colpa del suicidio. Nessuno ha impostato le cose come io le sto impostando ora, ma sono convinto che in parte ho ragione, perché perfino per un criminale il suicidio rappresenta un’uscita decorosa dalla vita. In conclusione, qual è stata la reazione dei lettori dopo la pubblicazione di Incontri col suicidio? Da quando pubblicai le mie riflessioni sul tema nel libro Le mauvais démiurge, sono molte le persone che mi scrivono o mi telefonano dicendo che stanno per suicidarsi e mi chiedono che cosa devono fare. Poco fa mi ha scritto un giovane dicendo che stava per suicidarsi e che voleva un consiglio da me. Io non potevo dirgli di non farlo, anche se credo che il suicidio sia una soluzione, ma neppure potevo spingerlo ad uccidersi. La soluzione per cui optai fu di dirgli di rimandare al giorno seguente il proposito di ammazzarsi, e così fino al giorno in cui non ne potesse più.

103

INTERVISTA CON FRED BACKUS (I)*

Lo scrittore franco-romeno Emil Cioran si rivolge contro l’intera umanità, contro tutti i sistemi metafisici e ideologici e infine contro sé stesso. «Ho approfondito una sola idea», scrive, «e cioè che tutto quel che l’uomo compie si ritorce fatalmente contro di lui»1. La sua prima opera francese, Sommario di decomposizione, apparve nel 1949. Qualche anno fa ha pubblicato Squartamento, un libro sulla fine della storia. Con Confessioni e anatemi del 1987, annunciava la fine della sua carriera di scrittore. «Era inevitabile che perdessi la mia fede nel futuro della letteratura, della filosofia e di tutto l’armamentario. Le nostre idee rivelano o camuffano a malapena i nostri difetti. Lì, e in nessun altro luogo, si cela in ultima istanza la giustificazione della follia dello scrivere». Sin da giovane, Cioran soffre di insonnia. Vivendo in «un inferno mozzafiato di una giornata eterna», come i mistici del passato che si sforzavano di essere vigili, andava frequentemente in estasi. Con una differenza soltanto: Cioran non crede in Dio, «questa bella e altisonante allucinazione». Cioran è nato a Rășinari nel 1911, figlio di un prete ortodosso. Nel 1937 si trasferisce a Parigi, dove è rimasto da allora come apolide non cittadino.

* Traduzione italiana di Annaclaudia Giordano. 1 E. M. Cioran, L’inconveniente di essere nati, tr. it. di L. Zilli, Adelphi, Milano, 1991, p. 182.

105

Ultimatum all’esistenza

«Non c’è posizione più falsa dell’aver capito e rimanere ancora in vita» . Sullo stipite della porta, verniciato di marrone scuro, un foglietto fissato con una puntina da disegno: “Cioran”, scritto con una biro blu. Vive qui ormai da circa trent’anni: «Essere un barbaro e poter vivere soltanto in una serra!»3. Proprio nel sottotetto, affacciato su migliaia di canne fumarie del sesto arrondissement. Stretto tra il boulevard Saint-Germain e l’Odéon, al di là del Jardin du Luxembourg, il parco dove passeggia ogni giorno. Preferibilmente di buon’ora, quando la nebbia mattutina fa perdere al paesaggio i suoi contorni e la notte svanisce. È la sua prima vera casa da quando da Bucarest è arrivato a Parigi nel 1937. Per quasi vent’anni ha alloggiato in hotel, in rue Racine e rue Monsieur-le-Prince. Sempre ai piani più alti, in piccole stanze, dove di notte aveva la sensazione di essere isolato dal mondo. Un po’ di anni fa ricevette una lettera da un’amica che non aveva più visto dalla guerra: «Per tutto questo tempo ho pensato che fossi morto. Che cosa ti è successo?». Lui rispose: «Mi sono trasferito dal quinto al sesto arrondissement». Emil Cioran: sin da giovane ha dormito a malapena e lavorato solo di notte. Per quasi cinquant’anni ha goduto del prestigio di una fama occulta. Ora, a 76 anni, rischia di essere celebre in tutto il mondo. Solo una manciata di lettori, perlopiù scrittori, conosceva i suoi libri. «Ma oggi vengo citato persino nelle riviste femminili. Una catastrofe per uno come me!». «Il Pol Pot della letteratura», lo ha definito una volta un critico, alludendo all’azione distruttiva del suo spietato nichilismo. Al tempo stesso Jean-François Revel su l’«Express» è giunto alla conclusione che Cioran sia il più fine prosatore francese dopo Paul Valéry. Al culmine della disperazione è il titolo del primo libro di Cioran pubblicato nella Romania prebellica. A quel punto sembra essere rimasto per tutta la vita. Lo scritto provocò uno shock. Sua madre pianse quando lo lesse. Sedici anni dopo è apparso il suo debutto francese: il Sommario di decomposizione. 2

2 3

106

Ivi, p. 175. Id., Squartamento, tr. it. di M. A. Rigoni, Adelphi, Milano, 1981, p. 128.

Intervista con Fred Backus (I)

Nella penultima edizione della Modern Encyclopedia of World Literature è descritto come un «catalogo di istinti omicidi umani e inclinazioni alla follia». Cioran scrive: «Chissà se ognuno di noi non aspira al privilegio di uccidere tutti i suoi simili… Ma questo privilegio è concesso a pochissimi e mai interamente: tale restrizione spiega da sola perché la terra sia ancora popolata. Siamo soltanto dei mediocri assassini»4. «Il libro – dice ora Cioran – era un confronto tra la vita e me, in cui una cosa era fondamentale: uno di noi doveva sparire». Il testo era appena uscito quando incontrò Albert Camus da Gallimard. Camus voleva essere gentile e disse: «Signor Cioran, ora deve entrare nel flusso delle idee». Cioran rimase ammutolito. Da dove tirava fuori Camus tale arroganza? Il suo libro, disse in seguito al suo editore, «era infatti il risultato della circolazione delle idee». Presunzione? Questo è ciò che alcuni critici hanno a lungo sostenuto. Il loro fastidio era diretto al modo arrogante con cui Cioran coltiva la sua scepsi e con cui fa susseguire a ritmo serrato e a mo’ di diktat le sue affermazioni negative fino al midollo, prive di dimostrazione e senza un nesso coerente, generalizzando in maniera estrema. I suoi ammiratori lo paragonano a Bataille, Pascal, Kafka, Kierke­ gaard, Schopenhauer, ma soprattutto a Nietzsche. Come Nietzsche, Cioran è cresciuto in campagna, figlio di un prete, soffre di un fisico cagionevole e di un estremo nervosismo, scrive con riluttanza, in maniera aforistica e antisistematica. Al contrario di Nietzsche, però, Cioran non vede apparire nessun Übermensch. E questa è solo una differenza. «Gli rimprovero le sue infatuazioni e persino i suoi fervori. Non ha abbattuto idoli se non per sostituirli con altri. […] Molto più vicino mi è un Marco Aurelio. […] trovo più conforto, e perfino più speranza, in un imperatore stanco che in un profeta folgorante»5. La citazione è tratta da L’inconveniente di essere nati, una delle raccolte di aforismi successiva al Sommario di decomposizione, che testimonia uno stile sempre più pungente e raffinato. 4 Id., Sommario di decomposizione, tr. it. di M. A. Rigoni e T. Turolla, Adelphi, Milano, 1996, p. 135. 5 Id., L’inconveniente di essere nati, cit., pp. 82-83.

107

Ultimatum all’esistenza

Uno dei suoi aforismi recita: «Non esiste sensazione falsa»6, non esistono false esperienze. Che cosa intende dire? Un uomo non può essere ingannato dalle sue “esperienze”? No, no, le racconterò qualcosa di simpatico. Qualche anno fa ero alla ricerca di un direttore del complesso ospedaliero Cochin, vicino alla Sorbona. Non lo avevo mai incontrato prima. Mi raccontò che aveva affisso alle pareti del suo reparto, in grande, alcune frasi del libro. Leggeva i miei testi come medicina, non per studiare il mio caso, ma per vedere cosa avessi scritto sulla malattia. E questa frase: «Non esiste sensazione falsa», vuol dire semplicemente che l’esperienza è sovrana. Nella mia visione l’esperienza è il metro di valutazione, qualcosa di assoluto, inconfutabile. Non è possibile dire a qualcuno: «Ciò che hai sperimentato non è vero». Per un medico è molto importante prendere coscienza di questo. Deve partire dal presupposto che ciò che il suo paziente racconta è sentito così reale da essere la sua verità. Il tema della malattia è molto ricorrente nella sua opera. Lei scrive: «La paura rende coscienti – la paura morbosa e non la paura naturale. Altrimenti gli animali avrebbero raggiunto un grado di coscienza superiore al nostro»7. La malattia è una questione di intensità. Tutto ciò che è malattia va molto più in profondità di ciò che si definisce normale. Possiamo dire che la malattia sia un grado di realtà superiore rispetto alla condizione di normalità. Sotto tutti gli aspetti. Ho sempre pensato che le persone che non hanno conosciuto alcuna malattia siano superficiali. La malattia è stata anche la causa di questo libro. Da dove nasce il titolo L’inconveniente di essere nati?

6 7

108

Ivi, p. 86. Ivi, p. 76.

Intervista con Fred Backus (I)

Avevo intenzione di lavorare su questo tema, che sia una grande tragedia essere nati. Non la sofferenza e la morte, ma la nascita come prima tragedia, in tutti i sensi. Una domenica a Dieppe stavo ascoltando il BBC World Service, un panel di cinque persone che rispondeva a domande poste da ogni parte del mondo. Una francese chiese se non fosse meglio non essere nati. Io sapevo a priori che la risposta sarebbe stata: nella vita si deve provare a fare qualcosa per l’umanità, ecc. Un uomo, uno scrittore sconosciuto, disse: «Io sono dell’idea che sarebbe meglio se non fossimo nati». Però – e questa è la cosa interessante – aggiunse: «Non ho motivo di lamentarmi, guadagno bene, conduco una vita normale, ecc.». Come se si trattasse di un dettaglio irrilevante affermò: «Da piccolo ho trascorso cinque anni a letto, paralizzato». Ho capito subito perché la pensasse così sull’essere nati. Una persona normale non lo avrebbe detto. Cinque anni a letto! Ha riflettuto, fuori dalla vita. Ma la cosa incredibile è che lui consideri quegli anni insignificanti, come una “station passé”. Per lui era come se si trattasse di un aneddoto… ma è l’unica spiegazione del suo parere anomalo. Quest’uomo ordinario aveva vissuto un’esperienza straordinaria, aveva compreso una verità profonda, ma senza conoscerne il motivo. Per me è importante sapere quali malattie abbiano avuto le persone. Prenda Swift, ad esempio. Ho letto tantissimo di lui, lo adoro immensamente, ho esaminato tutti i ricordi che sono riuscito a trovare su di lui dal XVIII secolo. Sono giunto alla conclusione che uno dei motivi della sua misantropia deve essere ricercata nella sua otalgia. Swift aveva dei terribili mal d’orecchio, una delle cose più tremende che esistano. Ogni volta che lo leggo, penso al suo mal d’orecchi… Non voglio ricavarne una teoria, ma quando guardo me stesso, la cosa peggiore che ho scritto riguarda la sete di vendetta: Odissea del rancore, in Storia e utopia, è scritta sotto l’influsso del mal d’orecchio. Non riuscivo più a sopportarlo… volevo rivalermi sull’umanità intera, dopo anni di mal d’orecchio. Si potrebbe pensare che lo abbia scritto perché determinate persone mi hanno fatto molto soffrire. Non è così. Forse sarà meschino ammetterlo, ma è la verità. Naturalmente, il mal d’orecchio non era l’unica causa, ma sicuramente la molla.

109

Ultimatum all’esistenza

Nel suo libro, L’inconveniente di essere nati, lei afferma: «La chiaroveggenza è il solo vizio che renda liberi – liberi in un deserto»8. Crede che altri scrittori, ad esempio Hölderlin e Tommaso d’Aquino, non abbiano più scritto perché a un certo punto sono andati troppo lontano? Lei confonde due cose. In francese c’è il concetto di lucidité e clairvoyance. Chi è lucido sta al di fuori delle cose, non è più capace di illusioni. Non resta deluso ma semplicemente non è più partecipe di nulla. Questo non ha niente a che fare con l’esperienza di Hölderlin o di un altro mistico. Perché si tratta di due poli: lucidité e clairvoyance, Klarsicht ed Extase. Io mi sono molto lamentato per la lucidité. Rende sterili, infruttuosi. Questo inibisce anche la scrittura. Il che è pericoloso intellettualmente. Mentre l’estasi, l’Erleuchtung, è qualcosa di completamente diverso: il cambiamento in direzione dell’assoluto, della grande esperienza. Valéry parla di una “lucidità assassina”. Ma io riformulo: “suicida”. È il contrario della mistica; la mistica è ispirazione, essere aperti. E naturalmente anche questo può paralizzare. In riferimento alla scrittura? Sì, sì. Tutto ciò che è estremo è pericoloso per la scrittura. Anche l’estasi. Per scrivere bisogna avere la capacità di coltivare illusioni, credere che ciò che si scrive sia davvero importante, attribuire importanza alle parole, alle espressioni, ecc. Non si può figurare Cristo o Buddha come scrittori, perché sono andati troppo lontano, oltre un determinato limite. Shakespeare ad esempio: quando scrive è un compromesso con il mondo, una certa mediocrità. Shakespeare si è spinto spiritualmente molto lontano, ma l’unico scrittore che ha oltrepassato i confini pur continuando a scrivere è stato Dostoevskij. È l’unico scrittore ad aver indagato come uomo tutto, ogni problema della mistica, della mitologia, della fede, Dio e tutto ciò che si vuole. Ecco perché, secondo 8

110

Ivi, p. 18.

Intervista con Fred Backus (I)

me, è il più grande scrittore, il più profondo. Ma perché? Perché Dostoevskij non ha scacciato da sé il vecchio Adamo. Spiritualmente è andato molto lontano, ma in lui era sempre vivo il vecchio Adamo. E questo miscuglio genera un’incredibile vivacità, che si incontra molto raramente. Dostoevskij era tutto rivolto a Dio, ma non era purificato interiormente. Era un uomo pieno di odio e di invidia e per questo è colui che ha descritto l’estasi nella maniera più impressionante. E lei? Baudelaire parlava di una “postulation contradictoire”, di una tendenza contraddittoria nell’uomo. Io stesso l’ho sentita in tutta la mia vita. In me ho sempre avvertito il vecchio Adamo, ma anche il desiderio di qualcos’altro. Ma volevo rimanere fedele alla mia natura, non soffocarmi, non essere qualcuno che ha raggiunto “la verità” o Dio sa cosa. Tutti coloro che parlano di mistica… non sono sinceri… e sanno di mentire. Soltanto perché hanno letto i mistici credono di averla raggiunta, ma non è così. Conosco molti grandi teologi che hanno scritto ogni sorta di libri sulla religione, ma rispetto a loro mi sento molto più avanti. Riconosco di non avercela fatta, ma l’ho accettato. Solo per questo la mia vita è diventata sopportabile. La vita non è tutta un fallimento? Voglio dire: anche il mediocre fallisce, ma così presto, così debolmente, così velocemente che non lo si considera neppure un fallimento. Mentre un vero grande fallimento è quello di uno come Dostoevskij. Voleva scrivere un romanzo sul grande peccatore, vero? Oh sì. Ma è stata la grande fortuna di Dostoevskij che sia morto in tempo. Voleva scrivere un seguito de I fratelli Karamazov, con Alëša come protagonista. Sarebbe stato un romanzo irrealizzabile. La figura di Alëša non è in grado di compiere malvagità. E un romanzo senza il male è un romanzo senza vita, senza nervi, senza qualsiasi cosa, niente.

111

Ultimatum all’esistenza

Sarebbe stata una catastrofe per Dostoevskij. Non si può scrivere un romanzo sugli angeli. Anche Lautréamont aveva un progetto simile. Dopo I canti di Maldoror voleva scrivere qualcosa sul bene. Ma anche lui è morto “in tempo”, come direbbe lei. Tutta la letteratura è scritta su Satana. È il tema principale, il senso della letteratura. Fa sempre da sfondo. Non appena si castra il diavolo, la letteratura è finita! Perché Lucifero è caduto? Non riusciva più a reggere la noia. Non si sopportava più come un angelo qualunque e voleva sfogarsi. Tutta la letteratura è essenzialmente una rivolta contro Dio. Per questo la letteratura contemporanea è così spenta? Sì, la letteratura non riesce più a sollevarsi contro nessuno. Si può scacciare via la noia? No, no. Ho sofferto terribilmente di un sentimento che la gente chiama “noia”. E ho provato continuamente a scacciarla con la lettura. La noia è un’esperienza che ottunde la mente. È il pericolo più grande per un monaco in un monastero. Se ne parla molto nei testi medievali, dell’acedia, la sensazione che sopraffà il monaco all’improvviso. In pieno giorno, egli fa qualcosa che non gli è consentito: guarda fuori dalla finestra. Invece di pregare? Invece di pregare. Era anche il pericolo per i Padri del deserto in Egitto. In assoluto il più grande pericolo per lo spirito. Mi sono sempre sentito come un monaco senza fede. Sono in un monastero senza credere. I francesi hanno un bel termine per renderlo: cafard, una sorta

112

Intervista con Fred Backus (I)

di stanchezza del mondo, di tutto. Una forma profana di acedia. Io ne ho sofferto moltissimo… è una malattia… qualcosa in me non quadra. Ne L’inconveniente di essere nati si avverte molto “cafard”. È un libro molto forte ma, in qualche modo, emana una pace, come dopo un massacro. Non so. Non volevo più scrivere come una volta, in uno stato di isterismo. Vedevo che non ne avevo più voglia, non sentivo più quell’impeto interiore. Ho sempre vissuto in modo febbrile, ma è successo qualcosa nella mia vita per cui è cambiato anche il mio approccio alla scrittura. Una volta era un attacco, un’aggressione, un menare schiaffi. Ora è legato più alla stanchezza, ecco cosa mi definisce. Sono sorpreso di aver resistito così a lungo. Anche quando ero felice ho sempre avuto una sensazione di disagio. Questo è diventato il programma della mia vita, il mio motto. Non ero senza vitalità, tutt’altro. Pedalavo cento chilometri al giorno… la mia stanchezza era in fin dei conti un prendere le distanze dalla vita. Da qui le fantasie sul suicidio? Il suicidio ha giocato un ruolo completamente diverso. Ho pensato al suicidio ogni giorno. Assurdo, in fondo. Ma questo è stato provvidenziale per me. Ho scoperto il suicidio da giovanissimo e l’ho sempre tenuto davanti a me: «Non devi commiserarti, perché hai una via d’uscita!». Si può sopportare la vita solo grazie all’idea del suicidio. Questo ci rende come Dio! Possiamo liberarci. Quest’idea si incontra anche nella saggezza pre-cristiana. È grazie al suicidio che è possibile respirare. Pensa che lei morirà suicida? Molto possibile, ma non è assolutamente nulla di tragico. Sarebbe un successo: sopravvivere è tragico. Ho sempre pensato che non avrei superato i trent’anni. Un paio di anni fa ho ricevuto la visita di

113

Ultimatum all’esistenza

un filosofo romeno, un amico d’infanzia, non ci vedevamo da più di trent’anni. Ha sofferto tanto, è stato in carcere e cose simili, un uomo molto interessante. Ma odia ciò che scrivo. Lo trova assurdo. Ha detto qualcosa di molto interessante, vale a dire: «Il fatto che tu sia diventato così vecchio dimostra che la vita ha un senso». Ed è vero, non ci avevo mai pensato. La mia vita in Romania era totalmente in tensione, così febbrile, così vitale e aggressiva. Ma ho resistito. Una delle sue opere romene, Lacrimi și Sfinți, del 1937, è stata ora tradotta in francese: Des larmes et des saints. Per quale motivo ripubblicare oggi in Francia uno scritto di cinquant’anni fa su un tema così inattuale come i “santi”? La traduzione non è stata una mia idea, non è stato un mio progetto, ma dell’editore dei Cahiers de L’Herne, un romeno, che continuava a insistere. Io non ne vedevo l’utilità, giudicavo l’opera assolutamente intraducibile. C’erano già stati due tentativi di traduzione in francese, ma io ritenevo che il libro non dovesse apparire in questa lingua. Non funziona. È troppo “balcanico”. Quindi, perché ora sì? Oh, lo ha tradotto un’amica, un’interprete. L’editore lo voleva per forza e mi sono sentito più o meno obbligato. Concordammo di tralasciare molte cose, molti dettagli sui santi che sarebbero stati indice di cattivo gusto. Dichiarazioni di cui ora si vergogna? No, no. Il libro racchiude un misto del mio stile vecchio e nuovo. Chi conosce le mie opere romene lo nota subito. Non riesco più a riconoscere questo libro come mio, ma non posso neanche rinnegarlo. Sono io… ma l’io di allora… è diverso dall’io di oggi.

114

Intervista con Fred Backus (I)

Sotto quale aspetto? Il libro è apparso nel 1937, l’unico anno in cui ho lavorato come insegnante in un liceo di Brașov, un’antica città, allora culturalmente importante, al confine con i Carpazi. Una città di provincia, ma pur sempre una sorta di centro. Insegnavo filosofia, vivevo in cima a una montagna e stavo attraversando una crisi religiosa. Cominciai a interessarmi in maniera ossessiva ai santi e alla mistica e per un anno intero ho letto soltanto libri sui santi e Shakespeare. E questo è ciò che insegnava? No, la mia attività di docente era un fiasco. Il preside era molto scontento di me. Tutto ciò che facevo era assurdo: anarchia. Avevo due, tre studenti che erano bravi, il resto… pfff. Assegnavo loro compiti d’ogni genere. Ad esempio: scrivere in trenta minuti su questo o quel tema; cosa in cui erano bravi. Ma conoscevo il loro livello, per cui non era necessario che li leggessi tutti e davo voti ai loro temi senza leggere. Quando li riconsegnai, due studenti esclamarono sconcertati: «Non è possibile! Non è vero!». Uno era piuttosto bravo, l’altro scarso. Ma avevano entrambi lo stesso cognome e li avevo scambiati per sbaglio. Avevano capito subito che non avevo letto i loro componimenti, ma io ero ostinato e dissi che non riuscivo a spiegare da un punto di vista psicologico perché il meno bravo, improvvisamente, ora era bravo e l’altro scarso. Alcuni studenti avevano simpatia per me, altri assolutamente no. Non sono riuscito a insegnargli niente, non avevo un programma, ma conducevo una vita assurda, insieme a Shakespeare. Shakespeare? Ero così ossessionato da Shakespeare che avevo deciso di non parlare più con nessuno, se non con lui. Mi isolavo il più possibile. Ogni giorno andavo a mangiare da solo in un Café viennese, alle due del pomeriggio.

115

Ultimatum all’esistenza

A un certo punto apparve un mio collega, l’insegnante di educazione fisica, e mi chiese: «Posso sedermi con lei?». «Chi è lei?», domandai. «Non mi conosce? Sono l’insegnante di educazione fisica. Sono un suo collega». «Lei non è Shakespeare?». «No, davvero non sa chi sono?». «Quindi lei non è Shakespeare?». «No». «Sparisca allora!». Andò subito a scuola per spifferare ai quattro venti: «Cioran è impazzito!». Tutto ciò che facevo era assurdo e ho capito subito: «Se rimango qui, vado a picco!» – e me ne sono andato il più presto possibile a Parigi». Come hanno reagito alle sue opere, ad esempio a La Trasfigurazione della Romania, un – se ho ben capito – feroce atto d’accusa sul clima politico dell’epoca? Oh, quella è apparsa soltanto in edizione limitata. È stata accolta molto male. È stata anche un’edizione scadente. Mircea Eliade aveva corretto le bozze di stampa. Terribile. L’avevo scritta in due mesi, mentre facevo il servizio militare. Non riuscivo a reggere, andai dal generale e gli dissi: «Io qui non resisto!». L’ho scritta per odio, odio contro la Romania. Gli ungheresi, in seguito, ne hanno estrapolato citazioni favorevoli. Anche qui a Parigi, con frasi del tipo: «Come ha affermato una volta il grande sociologo Cioran, la Romania è…», e così via. Il mio odio era assolutamente esagerato. Ridicolo. Ho scritto ad esempio: «Vorrei una Romania popolata come la Cina e con il destino della Francia»9. Assurdo! Anche il libro sui santi è stato accolto molto male. L’editore l’aveva accettato senza leggerlo, ma uno dei compositori della tipografia di Bucarest gli segnalò il contenuto impossibile. Mi telefonò e mi disse: «Non posso pubblicare il suo libro. Ho costruito la mia fortuna con l’aiuto di Dio, e ciò che lei dice su Dio è così grave…». Mi recai subito a Bucarest, ma lui non volle saperne. Un altro editore non era più possibile. Dovevo andare a Parigi, avevo una borsa di studio… Un amico, allora, mi ha aiutato. Con un taxi abbiamo portato a casa sua tutti gli 9

116

Id., Schimbarea la față a României, Editura Humanitas, Bucureşti, 1990, p. 99.

Intervista con Fred Backus (I)

esemplari. Sono andato a Parigi e, in mia assenza, è stato pubblicato, come una sorta di edizione privata. Le reazioni sono state terribili. Solo una giovane armena mi scrisse una lettera positiva: il libro più tragico che avesse mai letto. Mia madre scrisse: «Come hai potuto? Come hai potuto scriverlo? Un libro così mistico ma con cose così orribili?». Come ad esempio? Per esempio frasi del tipo: «Solo tra le braccia di una puttana, penso a Dio». Questa non l’ho trovata nell’edizione francese. No, è una delle frasi che ho eliminato. Mia madre comprese subito il doppio senso e riteneva che il libro dovesse essere ritirato dalla circolazione. Le ho risposto: «Non posso! Di’ a tutti che è l’unico libro profondamente religioso di tutti i Balcani». Frequentava molto le prostitute? Ogni giorno. Andavo quotidianamente al bordello. Ne parlavo anche a scuola; avvertivo gli studenti che non dovevano azzardarsi a venire al bordello a questa o quell’ora perché sarebbe stato il mio turno e gli avrei dato uno schiaffo di persona… ero davvero un fallimento come insegnante. Eppure lì, una volta, è accaduto qualcosa di impressionante. Come in ogni circostanza, anche nel bordello parlavo di suicidio. Non per una banale solitudine, vivevo con due donne, due sorelle… Ma una delle prostitute disse: «Lei parla proprio come io parlo ai miei clienti, assentandosi». «Bene, dissi, ma io ho le mie ragioni. Quali sono le sue?». Lei rispose: «Mio marito è morto e da allora vedo sempre il suo cadavere giacere accanto a me. E quando la sento parlare così è come se lei fosse come me». Questa cosa mi fece una forte impressione. Mi affannavo per tutto, ero stufo di tutto.

117

Ultimatum all’esistenza

Lavorava a tempo pieno come insegnante? No, ufficialmente avevo dieci ore di lezione. Ma non andava bene. Qualche studente iniziò a odiarmi. Facevo domande impossibili, del tipo: «Qual è la differenza tra psichico e psicologico?». Uno studente rispose: «Tutto ciò che è psicologico è malato e tutto ciò che è psichico è sano». «Sciocchezze!», gridai. «Tutto ciò che è psichico è malato! Una psiche normale non esiste!». La classe si spaventava. Le mie reazioni erano così irruenti. Il preside non sapeva cosa fare con me. Solo i santi potevano procurarle ancora conforto? No, no. Erano una specie di ossessione per me. Avevo sete di religione, ma non riuscivo a credere. Ero andato in estasi quattro volte di seguito. Il motivo non era patologico, ma religioso. Era una percezione… non di Dio, ma del trascendente, di intensità assoluta. Perché il titolo Lacrime e santi? Lacrime… perché piangere è la più grande purificazione interiore che esista, una virtù della santità, un ghiacciaio interiore. I santi sono votati a questa pratica. Io personalmente ho pianto molto poco, ma ho sempre desiderato farlo. Lei voleva diventare santo? Ne avevo paura. Avevo una profonda ammirazione per Teresa d’Ávi­ la, per me la più grande santa di sempre. Ma lei non è riuscito a convertirsi, come è accaduto ad esempio a Edith Stein? No, ma stimo moltissimo Edith Stein. Non mi sono convertito no-

118

Intervista con Fred Backus (I)

nostante la mia incredibile devozione per Teresa d’Ávila, la donna di maggior temperamento che ci sia mai stata. Ma io sono diverso. La fede è un’energia, la mia intensità è troppo labile. E non è più nemmeno tanto attuale. Chi vuole diventare santo oggi? Una religione che si avvia alla sua fine non produce più santi. Ma chiunque può attraversare una crisi del genere. In me ha prevalso la scepsi. Io sono scettico per natura. Un misto di scettico e isterico, uno “sgorbio” quindi da un punto di vista religioso. Proprio come questo libro, che è un misto di verità e menzogna. Stilisticamente è molto incontrollato. Non l’ho riscritto tre o quattro volte come i miei libri francesi. L’ho scritto di notte, poiché avevo sempre la sensazione di scoppiare e non riuscivo a dormire. E sa, di notte si è davvero una persona completamente diversa rispetto al giorno. Non si tiene più assolutamente conto del mondo. L’unico interlocutore è Dio, anche se non risponde mai. Scriveva ogni notte? No, di solito la notte andavo in giro per la città. Da qui il mio culto per le prostitute. Erano i miei unici interlocutori. Avevo l’impressione di vegliare insieme a loro sulla città. Per quanto tempo? Anni di fila, anche quando vivevo ancora a casa, a Sibiu. Mia madre era disperata. Una catastrofe di figlio che aveva studiato filosofia e ora in strada, notte dopo notte. Quando ancora una volta mi buttai sul divano esclamando: «Non ce la faccio più!», lei disse: «Se lo avessi saputo avrei abortito». Ebbe l’effetto di una liberazione interiore. La consapevolezza che la mia esistenza non aveva alcuna necessità. Sa, avevo studiato filosofia molto seriamente e, soprattutto per i giovani, la

119

Ultimatum all’esistenza

filosofia è pericolosa. Se ne diventa boriosi, si inizia a vantarsi, si finisce per essere incredibilmente presuntuosi. Gli studenti di filosofia sono in realtà insopportabili, arroganti e hanno una vanità provocatoria. Ma poi è successo qualcosa. Ebbi un crollo. Persi la capacità di dormire. Tutte le mie notti sono diventate insonni, ero costantemente sveglio, notte e giorno. Sibiu era molto bella e io me ne andavo in giro tutte le notti. Ero diventato una specie di fantasma e la gente pensava che fossi malato di mente. Così mi sono detto: «Devi scrivere un libro». Al culmine della disperazione? Sì, un titolo pomposo e al tempo stesso banale. All’epoca era una costruzione giornalistica nella rubrica “faits divers”. Quando qualcuno si suicidava, si diceva che era arrivato “al culmine della disperazione”. Quando ho scritto il libro ero convinto che solo il suicidio fosse ancora in grado di salvarmi. Come furono le reazioni? Tutti erano spaventati, specialmente i miei genitori. Io non soffro di manie di protagonismo, conosco i miei limiti, ma provi a immaginare un Nietzsche il cui primo libro fosse stato Ecce homo, che avesse quindi iniziato con un tracollo e avesse scritto in seguito La nascita della tragedia e le altre opere… Io ho cominciato con un libro totalmente bizzarro e sono diventato sempre più normale, fin troppo! Il mio primo libro era caratterizzato da un’infernale, e quindi provocatoria, sincerità. Un conoscente mi confidò: «Mia moglie ha scaraventato il tuo libro nella stufa, non lo sopportava più!». Mia madre in particolare era molto spaventata: «Che cosa deve esserti capitato? – chiese. Chi scrive cose del genere è dannato; farò venire il dottore». Il dottore venne, fece un paio di domande e si rivolse quindi a mia madre: «Suo figlio probabilmente ha la sifilide». E sa, all’epoca la sifilide era una specie di malattia di prestigio. Ad uno che si comportava in maniera un po’ stravagante

120

Intervista con Fred Backus (I)

affibbiavano subito il marchio “affetto da sifilide”! C’era persino uno jugoslavo, Smilianitch, che aveva scritto un libro intitolato Le génie et la syphilis, in cui voleva dimostrare che chi non aveva avuto la lue non doveva avere neanche nessuna pretesa. Elencò molti nomi di personaggi particolarmente dotati e contagiati. Io rimasi profondamente impressionato, volevo assolutamente essere affetto da sifilide. Mia madre mi costrinse a sottopormi a un prelievo del sangue, ma quando lo specialista dopo qualche giorno disse: «Il suo sangue è puro», e chiese «Sarà sicuramente sollevato?», la mia risposta fu: «A dire il vero, no». La mia situazione era decisamente senza prospettive. Cosa direbbe, secondo lei, uno psichiatra di questa storia? Niente. Non capirebbe. Io non disdegno la psicanalisi, ma conosco molto bene me stesso e tutti i retroscena. Non c’è nessuna spiegazione. Malgrado le mie crisi, conducevo una vita sessuale normale. È stata una crisi fondamentale. Ho parlato con degli psichiatri. Tre o quattro volte a settimana facevo visita a un amico neuropsichiatra. Lavorava in un istituto, uno splendido edificio con un giardino bellissimo. Inoltre ero innamorato di una paziente. Ma nessuno poteva aiutarmi. Avevo non solo un disturbo comune, ma anche un’insolita Weltanschauung. Era la mia natura: una mancanza di equilibrio. I medici non potevano fare niente. Non aveva un rapporto disturbato con i suoi genitori? Nient’affatto. I miei genitori erano persone normalissime. Io non potevo essere curato. Mi ero analizzato a sufficienza. Quello che avevo vissuto era un salto “al di là” della vita. Ho iniziato a scrivere per guarire me stesso. Ciò che stupisce tutti è il perfetto francese con cui lei si è “curato” come straniero.

121

Ultimatum all’esistenza

Ci sono voluti dieci anni prima che iniziassi a scrivere in francese. All’improvviso ho capito che dovevo abbandonare il romeno e ho cominciato a esprimermi in una lingua adottiva. La prima versione del Sommario di decomposizione è nata troppo in fretta, in uno stato di ebbrezza. La feci leggere a un amico francese e il suo giudizio, la sua diagnosi, fu senza giri di parole: «Non va bene, è la lingua di un cane randagio, bisogna riscriverlo completamente!». E così ho fatto, ma solo dopo aver riflettuto a lungo sulla lingua francese. C’è ancora un’altra cosa che devo raccontare. Conoscevo un vecchio, un basco, che aveva perso un braccio durante la prima guerra mondiale. Era un grande esperto della lingua basca, forse il più grande. Aveva scritto appena un paio di articoli, per il resto non aveva fatto niente nella sua vita. Lo ammiravo già molto solo per questo. Come me viveva nel Quartiere Latino e al tempo stesso era un grande conoscitore della lingua francese. Innamorato del francese puro, un purista fanatico. Ma era anche incredibilmente erotomane e durante le sue passeggiate si rivolgeva con piacere alle donne, specialmente alle prostitute, per rovesciare su di loro nella maniera più raffinata possibile ogni sorta di oscenità. Spesso andavo con lui a Montparnasse, dove c’erano le sue prostitute preferite. E non appena sentiva da quelle donne anche il più insignificante errore grammaticale, subito le correggeva come un maestro di scuola e a voce alta, in modo che tutti potessero ascoltarlo. Era l’insegnante ideale per me. Parlava l’antica lingua scritta che, certamente al giorno d’oggi, nessuno parla più. Potevo ascoltarlo per ore. Uscivo con lui almeno tre, quattro volte a settimana. Le sue osservazioni offensive erano molto sottili. Possedeva una vasta raccolta di letteratura erotica, libri che leggeva essenzialmente per le ingegnosità linguistiche. Spesso mi chiedeva: «Comprende questa raffinata frase oscena?». Questo vecchio invalido mi ha influenzato molto. Lo consultavo continuamente su formulazioni grammaticalmente superate e difficili a cui volevo ricorrere. E lui continuava a insistere: «Se non vuole scrivere così allora ritorni nei Balcani!». In questo modo ho riscritto quattro volte il mio primo libro francese. Ogni volta gliene

122

Intervista con Fred Backus (I)

leggevo qualche pagina e ogni volta quasi si addormentava. Grazie a lui, lo stile è diventato il mio credo e la mia superstizione e ho iniziato ad ammirare il XVIII secolo, l’epoca del francese perfetto, oramai morto. Allora, nei Salotti di Parigi, ogni minimo inciampo era compromettente. Ritornando al libro dei santi, cos’è la santità? L’estremo bene. L’eccesso ultimo del bene. Ma anche l’angoscia. La santità ha pure i suoi aspetti negativi. Soprattutto le donne ne scrivono. Il fatto di non riuscire più a credere, non riuscire più a pregare; la sensazione che Dio si sia allontanato da loro, che non abbiano più energie, che siano totalmente abbandonate, disperate… Ciò che destava il mio interesse era l’intensità di quella condizione. E la misura del loro masochismo? Il masochismo appartiene a tutte le persone che vivono un’avventura spirituale. Il bisogno di soffrire – altrimenti non si riesce a perdersi “al di là” di sé stessi. Sono tutte persone affette da masochismo e mania di protagonismo. Vedono soltanto “io” e “Dio”. È incredibile l’immagine che ci costruiamo di noi stessi. Ma può essere contemporaneamente molto proficuo, se non è patologico. Le persone modeste non realizzano nulla di grande. Le belle parole che spesso si dicono sulla modestia dei grandi uomini: assolutamente naïf. Chiunque voglia qualcosa di grande o profondo crede di essere il centro dell’universo, il resto è menzogna. Eppure questo non si può bollare come volgare egocentrismo o egoismo, è qualcosa di diverso. Perciò non mi interessano psicologi o psichiatri. Questi vedono qualcosa di volgare, solo i difetti generali della natura. Il tipo di megalomania che intendo io va più in profondità. Si soffre soprattutto se si è soli. Sono questi i momenti più interessanti della vita, non l’uno o l’altro discorso con un uomo o una donna, con una creatura… non sono questi i momenti essenziali. Esse-

123

Ultimatum all’esistenza

re assolutamente soli, soltanto allora la vita ha un senso, quando tutto è finito resta solo l’io. Lei scrive molto male e molto bene di Dio. Con incredibile disprezzo e grande passione. È l’unica vera originalità di questo libro. Al tempo stesso, ribrezzo e bisogno di Dio. Per chi non ne è mai stato tormentato, risulta assolutamente incomprensibile. Curioso che sia andato esaurito in tre giorni. Incomprensibile! È molto fuori moda, anche da un punto di vista filosofico. Dio non esiste più in filosofia, è stato mandato in pensione. Secondo me, è diventato anche totalmente inattuale. Per una persona normale, questo è un libro ridicolo. E cosa si cela secondo lei dietro il successo? Non lo so. Io lo sento come una vergogna. Di Esercizi di ammirazione sono state vendute cinquantamila copie. Tutti i giornali e le riveste ne hanno scritto. Terribile! È un libro sugli scrittori, quindi potevo ancora capirlo. Ma il successo dell’altra mia opera… ho scritto per demolire tutto, tranne la musica. Non ne ho neanche più voglia. Dieci libri in Francia, cinque in Romania: è troppo! Tutto è veramente senza avvenire. Forse il mio successo oggi è dovuto al fatto che non ho mai mentito, come Sartre, che ho sempre detto la verità. Finché Sartre era un dio, i miei libri non venivano letti. Oggi si sa che ogni utopia è anche una menzogna. Ha conosciuto Sartre? No, in fin dei conti non mi interessava. Dopo la guerra lo incrociavo spesso al Café Flore, l’unico all’epoca a essere riscaldato. A volte

124

Intervista con Fred Backus (I)

sedevo accanto a lui intere sere, ma non gli ho mai rivolto la parola. Mi era simpatico a distanza, poi diventava così banale. Naturalmente era di un talento inimmaginabile, ma mancava di maturità intellettuale. Sartre, in fondo, non ha vissuto, non ha avuto una vecchiaia. Io credo che si possa capire la vita solo quando si è stanchi, quando si prendono le distanze. Questo Sartre non lo ha mai fatto. Alla fine dei suoi anni era ancora lo stesso di quando ne aveva ventuno. Non voglio dire una bestemmia, ma semplicemente non era della mia stessa risma, voleva sempre essere coinvolto, impegnato. Era un “giovane vecchio”, proprio come Bertrand Russell. Uno che voleva rimanere sempre attuale, il che è immaturo. In uno dei suoi libri lei definisce Hitler un “chierichetto” in confronto a quello che ancora ci attende. Sì, io non riesco davvero a credere in un futuro. Nemmeno a livello storico. Io credo davvero che la fine dell’avventura “umana” sia prossima. Lo si dice ormai piuttosto spesso. Naturalmente, è iniziato con l’idea del Giudizio Universale. Ma ora è diverso e, a dire il vero, è per me anche poco desiderabile. Io rimango distaccato. Me ne interesso perché so che l’uomo sta subendo un tracollo, molto prima di quanto si creda, ma anche questo non è fondamentale. Quando parla di rovina si riferisce soltanto all’Occidente? Sì, sì, i popoli civilizzati stanno andando a picco. Non hanno più alcuna forza vitale. Non è pessimismo culturale, è molto più di questo, ma credo che in Europa ci sia solo un futuro per i Paesi dell’Est. L’Occidente non lo vuole più, vuole solo quiete, cosa che però non gli è

125

Ultimatum all’esistenza

concessa. Recentemente ho avuto una conversazione con V. S. Naipaul. Lui crede nel mondo libero, nella tecnica, nel progresso. Presumeva che i russi siano troppo stupidi per realizzare determinate macchine e definiva romantico il mio punto di vista. Ma quando io parlo di futuro lo intendo a un altro livello. Solo i popoli che sono in grado di soffrire hanno ancora un futuro. La storia non è un progresso verso la qualità, come credono gli utopisti. I russi lo sanno, ma non cadranno nello stesso errore di Hitler, loro hanno pazienza. Herzen, un diplomatico del secolo scorso, lo ha predetto benissimo: «La Russia – disse – si impossesserà prima delle idee dell’Occidente e poi conquisterà l’Occidente con quelle stesse idee». Come dovremmo figurarcelo? Come una massiccia pressione da parte della Russia sull’Europa, specialmente ora che i russi hanno scoperto che la Cina non è una minaccia. Il grande errore dei russi in questo momento è non aver capito quanto siamo stanchi. In realtà, non hanno affatto bisogno di minacciare. I russi sono un popolo con una tradizione secolare di repressione e atrocità. Nella seconda guerra mondiale i soldati tedeschi divennero più brutali a contatto con il nemico russo. Di recente ho proposto questa riflessione in una conversazione con Iosif Brodskij. Lui è stato pienamente d’accordo con me. Nei Paesi occidentali le persone non hanno più energia. Vogliono solo gioia individuale, turismo e cose simili. Non hanno più voglia di niente. La storia – non lo dico seriamente ma è la verità – è solo un gioco. Con quest’idea non si va da nessuna parte, eppure è la verità. Tutta la storia ti procura una sensazione simile a quella dopo l’atto sessuale: tutto per niente! Non ci sono dei veri spettatori, ma siamo tutti un po’ spettatori. È come una fiera: dopo un paio d’ore viene smontato tutto. È tutto così surreale… come in un cimitero militare: migliaia di tombe anonime, questi eroi, tutti giovani di diciannove, vent’anni. Pazzesco! Hanno combattuto, ma per cosa? I francesi per la difesa della civilizzazione, i tedeschi per l’onore o per

126

Intervista con Fred Backus (I)

chissà cosa… assurdo!… Assolutamente ridicolo! Ma cosa significa tutto ciò? In sostanza… che deve sempre accadere qualcosa, che vogliamo per forza tenerci impegnati con qualcosa, ma sarebbe stato meglio andare a dormire. La storia è come il teatro. Guardo una bella tragedia e mi commuovo. È così toccante. Poi però esco in strada, chiamo un taxi e vado in un ristorante per una tazza di caffè. Odio l’umanità, la storia del mondo, ma sono affascinato dal drammatico. Tutto ciò che respira è una tragedia. La vita è il romanzo della materia, molto impersonale, inconsapevole e indifferente. L’uomo è il romanzo della vita. Sarebbe stato meglio se non fosse mai esistito. Nient’altro che materia indifferente, sarebbe stato meglio! Una volta lei ha definito il saggio su Joseph de Maistre il suo “testamento politico”. L’ho scritto più di vent’anni fa. Un editore mi chiese di scegliere tra uno dei suoi scritti meno noti. Non conoscevo così bene l’opera di de Maistre, ma sapevo che era disprezzato e che nessuno voleva sentirne parlare. L’unica cosa che volevo era mostrare ai francesi che, nonostante le sue idee, fosse un grande scrittore. Ma non riuscivo a convincere nessuno. Ora c’è stata una ristampa e all’improvviso se ne parla molto… All’epoca ricevetti molti rimproveri. Avevo scoperto che è molto attuale, che è nostro contemporaneo. Che sia reazionario o meno è irrilevante, ma già allora aveva affrontato tutte le questioni del nostro tempo: la guerra, la rivoluzione, ecc. Soltanto François Mauriac fu entusiasta del libro e scrisse un articolo estremamente positivo. Lei definisce il pensiero rivoluzionario soltanto una forma più giovane e più recente di quello reazionario. Tutto ciò che la rivoluzione fa finisce con la propria negazione. Non c’è alcuna differenza sostanziale, la rivoluzione ricade su sé stessa. Parlo del peccato originale. Il reazionario è in preda al peccato originale,

127

Ultimatum all’esistenza

all’idea che l’uomo sia già condannato sin dall’inizio. Gli utopisti vedono il paradiso nel futuro, ma questo è assolutamente impossibile. Il reazionario è maggiormente condizionato dalla storia, dall’immutabilità dell’essere umano, per questo va molto più in profondità. Si spinge fino al nocciolo, senza illusioni, e non può rimanere deluso. Mentre il rivoluzionario è sempre deluso. Lei va ancora oltre. Il rivoluzionario prende la strada sbagliata e ricade. Anche il reazionario è prigioniero di un “istorismo”, cosa che lei illustra nel confronto tra profezia e mistica. Il profeta è ancora nella storia, il mistico no. E de Maistre è ancora interamente nella storia, cosa di cui era perfino ossessionato. La mistica è l’unica via d’uscita dalla storia, dalla politica, da tutti i valori. La mistica supera la storia. Il mistico è l’uomo estremo. Forse l’autodistruzione è ancora un passo ulteriore, ma se si vuol credere che l’esistenza abbia un senso, allora la mistica ne è il punto più alto, l’ultima stazione, il massimo che un uomo possa raggiungere, perché ha superato il presente, il passato e il futuro. Oltre ci sono solo il cinismo e l’autodistruzione. Ecco perché dico: non parliamo più di fede, ma di estasi, del culmine, e così via. Perché attraverso ciò l’uomo può dire: non ho bisogno del futuro, io sono al di sopra del tempo. Tutto, in fondo, anche la stessa politica, è un problema di tempo, di quale atteggiamento si assume nei riguardi del tempo. Il rivoluzionario crede che il tempo, in un modo o nell’altro, sia un processo di arricchimento, un successo a termine e così via. Divinizza il tempo. Questa è la rivoluzione! Il reazionario dice: bisogna diffidare del tempo, il tempo ha qualcosa di demoniaco, di distruttivo, il tempo è un pericolo. Ed è vero. Il tempo è un pericolo. Il tempo non è la strada per il paradiso! Ma qual è allora l’alternativa? Essere uomini storici senza rivoluzione? Reazione e rivoluzione appartengono entrambe alla commedia. Ci

128

Intervista con Fred Backus (I)

sono solo differenze di grado, ma sono irreali. Reale è ciò che non è determinato dalla storia, ciò che se ne distacca. È quanto Dostoevskij fa dire a Kirillov: l’attimo eterno. Il resto non è importante. La fede nei partiti politici, nella rivoluzione, nella reazione… tutte illusioni, allucinazioni. Ma allora tutto è allucinazione! Sì, ma l’uomo che non ha guardato oltre, che non ha visto “al di là”, rimane imprigionato. Crede in ciò che fa. Pensa che tutto ciò che si svolge nella storia sia importante, e rimane attivo. Ma l’uomo attivo è come un attore intrappolato nel suo ruolo. Solo quando alla fine muore è disilluso. Perciò, le uniche persone interessanti sono quelle davvero disilluse e che tuttavia rimangono nella storia. Quelli che hanno perso la speranza, che non partecipano più, che non hanno più illusioni, coloro che dicono: «Ora mi sento libero!». L’austriaco Günther Anders definisce “antiquato”, superato e inutile parlare ancora di “essenza dell’uomo”. Non è vero! L’uomo è rimasto lo stesso, un animale condannato, tragico, catastrofico. La tecnica non ha intaccato l’essenza dell’uomo. Günther Anders è molto acuto. Ha molto vissuto. Fa una brillante diagnosi di quest’epoca e smaschera la tecnica. Ma è una diagnosi storica. Non ha accesso alla mistica. È contro quest’epoca ma al tempo stesso è nel bel mezzo di essa. Io credo che non sia andato così a fondo come pensa. Egli crede di avere analizzato tutto: l’essenziale. Lui è nella storia. E lei?

129

Ultimatum all’esistenza

Io appartengo a questo periodo, ma non nella sostanza. Non sono un mistico, ma se c’è qualcosa di buono nella mia opera è proprio il fatto che non appartiene a questo tempo. Qualcosa in me non fa parte di questo secolo, ecco perché posso avere rispetto di me stesso. Io non vorrei analizzare questo secolo nello specifico, non ha senso, non ne vale la pena. Naturalmente vi apparteniamo, la tecnica è un dato di fatto. Ma credo che dobbiamo pensare a un livello diverso. Come Beckett? Sì, sì. In Finale di partita e Aspettando Godot i personaggi sono come una commedia della vita, mostrano la vacuità dell’esistenza. Beckett ha l’intuizione della nullità di tutto. Non è un nichilista, questa parola non ha alcun senso, dice troppo e troppo poco. Il punto è capire… non morire come un idiota, come un ingenuo, come un bamboccio. Non si deve morire con le illusioni. Ma la maggior parte delle persone non può vivere senza illusioni, hanno opinioni e così via che difendono. È un lusso che l’uomo può permettersi come animale straordinario… ma può anche essere scettico. Pertanto, per me la scepsi è allo stesso livello della mistica. Ho sempre pensato a me stesso come a un mistico senza dio. Non posso credere in un dio personale. Non seguo Dostoevskij nel suo atteggiamento nei confronti del cristianesimo. Lo comprendo, ma ciò che mi piace di Dostoevskij è l’individuo che non riesce a credere. Questo era Dostoevskij: l’uomo che non riesce a credere, il “negatore” onnipresente.

130

INTERVISTA CON IRENE BIGNARDI

Come nasce un famoso moralista? Chi si nasconde dietro il “cavaliere del cattivo umore” (la definizione è di Alfredo Giuliani che l’anno scorso, su «Repubblica», recensì il suo Squartamento), dietro il professionista del pessimismo cosmico, lo scettico per continua disillusione, il cesellatore dell’aforisma apocalittico che non vede nella storia altro che una caduta nel tempo e nel futuro, il cammino verso la catastrofe? Niente di più facile che andarglielo a chiedere. E. M. Cioran, romeno traslocato quasi mezzo secolo fa a Parigi, settantun anni asceticamente portati, una bella testa da “scienziato pazzo”, un’amabilità che contraddice il suo malumore letterario, è in Italia per la prossima uscita presso Adelphi del suo volume Storia e utopia, una raccolta di saggi, di origine e occasione diversa, sui suoi temi preferiti. Cioran mi riceve nella bellissima stanza all’Accademia di Francia che lo ospita, alta su Trinità dei Monti. «Ha visto che meraviglia?» ammicca, indicando gli immensi soffitti a cassettoni. «E dire che tutta la mia vita sono vissuto in mansarde… E adesso che ho una vera casa, è alta solo un metro e ottanta». Come nasce, signor Cioran, un pessimista che fin dai titoli dei suoi libri si annuncia ammantato di umor nero: Sommario di decomposizione, Squartamento, La caduta nel tempo, L’inconveniente di essere nati, Sillogismi dell’amarezza? Come è nato lo scrittore – o il filosofo – che pensa

131

Ultimatum all’esistenza

che «un gran passo avanti fu compiuto il giorno in cui gli uomini capirono che, per potersi tormentare meglio, bisognava radunarsi, organizzarsi in società»; che «nel corso dei tempi la libertà non occupa più tempo di quanto ne occupi l’estasi nella vita di un mistico»; che esistono solo due cose importanti «la metafisica e il pettegolezzo»? Pettegolezzo? No, non ha mai detto pettegolezzo, ha detto aneddoto. E poi non si sente affatto un filosofo. «Non lo sono per temperamento, anche se per tre o quattro anni della mia vita mi sono occupato esclusivamente di filosofia». Immaginiamo allora una cittadina dei Carpazi, alla fine degli anni Venti, un piccolo genio bizzarro con genitori comprensivi, un padre prete ortodosso, una mamma con tendenza alla malinconia, e la biblioteca del metropolita a disposizione. Oltre a un’improvvisa crisi di insonnia che dura quattro anni. «È stato allora che ho cominciato a vedere le cose in modo diverso. Avevo sempre creduto ciecamente nella filosofia, ero affascinato dai grandi sistemi – Kant, Hegel, Fichte. Ma a partire dal momento che qualcosa mi costringeva a restare sveglio tutta la notte, che per me notte e giorno erano la stessa cosa, che, mentre per gli altri ogni mattino cominciava un’altra vita, per me si era creata una continuità assoluta, esasperata, esacerbata del tempo, ho scoperto che la filosofia non trovava una risposta agli interrogativi creati da questa mia esperienza, che era fatta per gente senza temperamento e senza storia. E l’ho abbandonata, per l’esperienza, le cose vissute, la follia quotidiana. In altre parole, ho scoperto gli scrittori e i poeti. Quelli che ho amato tutta la vita, Pascal e Baudelaire, per esempio: gente a cui penso ogni giorno, anche se non li leggo più da molto tempo. Ora leggo solo autobiografie, lettere, memorie, le cose più disparate, per saperne di più sulla gente. Pascal e Baudelaire hanno delle ossessioni che sono sorelle delle mie, non perché io mi senta parente del loro genio, ma perché mi sento ferito come loro. E poi Leopardi, e la nostra comune amica Madame du Deffand. E poi tutti i russi che sono riuscito a leggere, a partire dal mio adorato Dostoevskij».

132

Intervista con Irene Bignardi

Allora Cioran il pessimista è nato dalle sue letture? «È nato soprattutto da quella veglia ininterrotta per anni… Chi sono, allora? Sono uno… non ossessionato da me stesso, perché non sono un egoista, ma uno che a partire dalla sua giovinezza ha attinto tutto dall’interno. E a partire dal momento in cui continuate a rigirarvi attorno a voi stessi e alle vostre ossessioni, e avete tolto di mezzo tutto il resto, non rimangono in scena che due personaggi: voi stesso e Dio». Dio? Allora lei è credente? «Ma certo che no. Ma non sono areligioso. Perché so che se eliminate l’universo e la storia, alla soglia estrema della solitudine siete costretti ad affacciarvi su Dio, che è il punto estremo di questa solitudine interiore: un partner con cui dialogare. Si può andare più lontani ancora, con i mistici. Ho fatto anche quest’esperienza. Vivevo così febbrilmente, allora, che ho trovato nei mistici quello che non riuscivo a trovare nei filosofi». Tutto questo capitava al giovane Cioran, che non era capace di far niente, di “lavorare”, ma aveva la fortuna di avere dei genitori comprensivi che hanno finanziato le sue insonnie. «Ho sempre vissuto di espedienti. Da allora in poi, una sola volta ho tentato di “lavorare”. Per un anno ho insegnato filosofia in un liceo. Ma mi soprannominarono presto il “demente”, il pazzo: e un giorno mi sorpresero a insegnare ai ragazzi che tutto è malato, anche il principio d’identità…». Così, a ventisette anni e con l’aiuto di una borsa di studio del governo francese, il nostro giovane “cavaliere del malumore” si trasferisce a Parigi. «Avrei dovuto fare una ricerca, ma in realtà sono stato in giro in bicicletta per un anno: i Pirenei, la Bretagna…». E siccome si era nella Francia del Fronte Popolare, il giovane apolitico-apocalittico Cioran dormiva alternatamente negli ostelli della gioventù comunisti e cattolici. «È così che sono guarito dall’insonnia. Mi ha salvato la bicicletta. La vita è cambiata. Era gradevole, in un certo senso. Ho cominciato a vivere come un parassita».

133

Ultimatum all’esistenza

Giura di non aver mai più lavorato in vita sua. «Ho vissuto a Parigi un po’ ai margini della società, ho mangiato fino ai quarant’anni alle mense studentesche, fino a che mi hanno chiamato e mi hanno detto: “Scusi, ma adesso basta”. Parigi era come vivere in provincia, allora, il sogno della mia vita. Abitavo sempre in soffitta, ho alloggiato in decine di alberghi, traslocando ogni volta di pochi metri, sempre tra il V e il VI arrondissement. Parigi era la sola città del mondo dove si poteva essere poveri senza vergogna, senza complicazioni, senza drammi. Parigi era la città ideale per essere un fallito...». Non lo è più? «No, ora anche lì bisogna “guadagnarsi da vivere”. Un giorno un ragazzo di Montpellier è venuto a trovarmi e mi ha detto: “Sa, vorrei proprio vivere come lei”. Gli ho risposto: “Mi spiace, sei arrivato troppo tardi. Io sono stato l’ultimo fortunato…”». Anche con le donne la vita di Cioran è stata da irregolare: «Sono sempre stato semisposato. Ho, filosoficamente parlando, una psicologia da macrò. Ma siccome sono un intellettuale, sono un macrò solo a metà. Per me non c’è che un assoluto, ed è la mia libertà, la possibilità di disporre del mio tempo. E penso che per disporre del proprio tempo bisogna essere pronti ad accettare tutti i sacrifici, anche il disonore. Ho sempre ritenuto normale che gente che aveva più soldi di me mi desse del denaro. È una cosa che hanno fatto tutti gli scrittori, anche se ora non più perché lo Stato si occupa di loro. Per la mia indipendenza ho accettato dunque non che le mie donne lavorassero per me, ma che mi aiutassero a vivere. Piuttosto che andare otto ore in ufficio a occuparmi di cose che non mi riguardano assolutamente. È una cosa che penso sempre, guardando nelle banche quelle file di ragazze che battono educatamente a macchina: pensi se un bel giorno tutti smettessero di fare le cose che fanno e che non gli interessano per nulla. Forse ci sbraneremmo a vicenda, esploderebbe la follia del cannibalismo, la vita cesserebbe, al limite… Ma quella che conduciamo è talmente demenziale…».

134

Intervista con Irene Bignardi

Qualcosa però, in tanti anni, Cioran ha sicuramente fatto. Ha scritto e riscritto i suoi libri, perché aveva “il complesso del meteco”, fino a diventare uno dei massimi prosatori della lingua francese di oggi. «È stato un adattamento difficile. Il romeno è una lingua estensibile, adatta a parlare di religione, di sentimenti. Quando sono passato al francese ho avuto la sensazione che mi avessero messo una camicia di forza». L’unica soluzione è stata dimenticare la lingua materna. «Ma con l’età c’è il rischio che ritorni. Anzi, scopro che, pur detestando i Balcani, il fatto di essere balcanico, man mano che invecchio lo divento sempre di più. Ha mai sentito parlare dei bogomili, una setta religiosa simile ai catari, che si è sviluppata tra i Bulgari? Be’, pensavano che il mondo fosse una creazione di Satana, perché Dio, che è buono, non avrebbe potuto creare questo mondo che è cattivo. È il mio modo di vedere. E dovevo venire a Parigi per scrivere un libro che si intitola Il funesto demiurgo e formulare esattamente questa teoria… E i Traci, che abitavano anche loro dalle mie parti, e piangevano alla nascita di ogni bambino? Ho impiegato un sacco di parole per dire la stessa cosa ne L’inconveniente di essere nati. Più invecchio, più mi ricollego alle mie origini…». Qualcuno la accomuna ai grandi reazionari. «Reazionario? Mi sono occupato del pensiero reazionario in de Maistre, questo è tutto. Certo, non so essere ottimista nel senso politico della parola, penso che anche quando si spera bisogna sperare con scetticismo, so che non ci si può illudere; se si conosce minimamente la storia, che una società possa in qualunque modo rimediare al male fondamentale che è immanente alla vita…». Ed essendo quello che è, quale pensa sia il pubblico di Cioran? «Lo scrittore Cioran (ne parlo malvolentieri, perché ci sono poche cose ridicole come essere uno scrittore) è stato riscoperto qualche anno fa, dopo un oblio di venticinque anni, con i Sillogismi dell’amarezza, che è diventato un breviario dei giovani, soprattutto della gioventù berlinese».

135

Ultimatum all’esistenza

E come lo spiega? «Forse perché nel momento in cui Sartre ha smesso di essere un dio, è stato possibile che spuntassero tanti piccoli dèi. Fino a pochi anni fa la gioventù è stata così entusiasta che i miei libri sembravano grotteschi. Ora che la storia si è incaricata di spegnere molti entusiasmi, mi hanno riscoperto. Molti giovani invecchiati, e qualche signora isterica».

136

INTERVISTA CON VERENA VON DER HEYDEN-RYNSCH*

Da tempo lei presta una grande attenzione a Elisabetta d’Austria. Che cosa ha suscitato in lei tanto interesse per questa figura così spesso incompresa? Vorrei cominciare con una citazione: «Il pensiero della morte purifica, come un giardiniere che strappa le erbacce del suo giardino. Ma è un giardiniere che vuole starsene sempre solo e va in collera quando i curiosi occhieggiano nel suo giardino. Per questo tengo davanti al viso l’ombrellino e il ventaglio, perché il giardiniere possa lavorare indisturbato». Queste poche frasi, che ho letto nel 1935 (allora avevo ventiquattro anni), segnano l’inizio del mio appassionato interesse per l’Imperatrice Elisabetta. Allora le ho lette in francese, nella prefazione di Maurice Barrès al libro di Christomanos. La parola “lavorare”, termine quanto mai neutro, era resa assai felicemente col verbo “jardiner”. Questa traduzione libera, ma così precisa, conferiva al testo una sfumatura poetica che mi avrebbe addirittura perseguitato, fino a diventare un’ossessione. Nelle sue pagine introduttive Barrès scrive che le confidenze di Elisabetta, così come le ha raccolte Christomanos, compongono «il più stupefacente * Traduzione italiana di Maria Gregorio.

137

Ultimatum all’esistenza

poema nichilista che mai sia stato vissuto». Anche lei lo definirebbe nichilista, o sarebbe più propenso a interpretarlo sotto il segno del desengaño? “Nichilista” non è il termine esatto, perché qui non si tratta di nichilismo, bensì di qualcosa che attiene al sentimento della vita. “Nichilista” ha una connotazione filosofica che sarebbe fuor di luogo attribui­ re a Elisabetta, benché a volte traspaia dalle sue parole una venatura nichilista. Io la definirei in tutto e per tutto desengañada, disincantata, appartata dal mondo. Nichilismo è una posizione attiva, e niente era più contrario al suo atteggiamento. Anzi, proprio i nichilisti del suo tempo la odiavano poiché intuivano che l’Imperatrice non condivideva le loro opinioni. Se era incapace per natura di assumere una posizione, come poteva professare un’ideologia? Sissi non ha mai mostrato interesse per le correnti di pensiero del suo tempo, non ha mai partecipato al dibattito delle idee. Non dimentichiamo che la formazione di Sissi era esclusivamente letteraria, non filosofica. Tutta la sua cosiddetta “filosofia” veniva da Shakespeare, dai buffoni di Shakespeare. Questa era la sua filosofia; non si tratta dunque di nichilismo, bensì di suprema ironia. L’Imperatrice aveva letto moltissimo Shakespeare; e quando penso alla sua visione del mondo mi vengono in mente le parole che Amleto rivolge a Rosenkrantz e Guildenstern. Amleto esalta la magnificenza dell’universo, del cielo e della terra: parla dell’uomo come di un essere straordinario, della creatura più alta, aggiungendo però che ai suoi occhi tutto questo è “quintessence of dust”. Polvere, quintessenza della polvere: ecco la parola che potrebbe compendiare la visione che Sissi aveva del mondo. Maria Valeria, la figlia prediletta di Sissi, attribuisce l’amarezza di sua madre al fatto che «sentiva di essersi ingannata sul conto di tante persone che un tempo aveva amato». E presenta sua madre come una giovane donna che sarebbe andata incontro alla vita piena di speranze, ma poi, incompresa e delusa, fu costretta a fuggire dal mondo e a disprezzarlo. Lei condivide questa opinione?

138

Intervista con Verena von der Heyden-Rynsch

No, non credo assolutamente che il motivo principale sia da ricercare in delusioni esterne. La sua posizione verso la vita, se vogliamo chiamarla così, non è dovuta alle sue esperienze: queste, se mai, hanno contribui­ to a rafforzarla. Direi che in lei la delusione era innata, era presente fin dall’inizio. Si osserva qualcosa di analogo in chi pratica l’ironia: il motivo profondo non è esterno, bensì interno. Potremmo dire che Elisabetta sentiva l’esigenza di essere delusa da eventi esterni, ed era un’esigenza che corrispondeva alla sua struttura interiore. Il disincanto faceva parte del suo essere, era in lei fin dal primo momento. Sissi diceva ad esempio: «La follia è più vera della vita». Avrebbe potuto sostenere questa idea anche senza aver mai subìto una sola delusione. Perché mai amava tanto i buffoni di Shakespeare? Perché, ovunque si trovasse, andava a visitare i manicomi? Si può affermare che Sissi nutriva una vera passione per ciò che è estremo, per tutto ciò che si discosta dal destino comune, per ciò che si pone al di fuori della condizione umana. E sapeva benissimo di portare anche in sé la follia, il rischio della follia. C’era in lei una stupefacente combinazione: timidezza e insieme senso di superiorità. La consapevolezza della propria unicità la sosteneva, le dava forza – perché non vanno dimenticate tutte le tragedie che si abbatterono sulla sua famiglia; ma non per questo modificò in alcunché la sua vita o fu sensibile a influssi esterni. Si allontanò sempre più dagli uomini sentendo che tutto le era concesso, che lei era unica, che il mondo non la riguardava. Mi ricorda una veggente, anzi la voce dell’oracolo: distante da tutti, eppure vigile, inesorabile. Direi che in Elisabetta trovarono un punto d’incontro romanticismo e mondo classico. Christomanos, in una pagina del suo libro, scrive che l’Imperatrice era «un mondo interiore di tristezze organizzate». Ma questa parola “organizzate”, che sembra esprimere la volontà di essere triste, non è contraria alla sua natura? Sì, il termine è inesatto. È vero l’opposto. Organizzato, infatti, significa sistematico. La tristezza era il suo stesso temperamento, e dunque

139

Ultimatum all’esistenza

anziché “organizzato” io direi “organico”. “Organizzato” implica qualcosa di esteriore, è assolutamente fuorviante. In lei tutto era determinato, dettato dal carattere. Quando parlava della vita, degli uomini, dei loro rapporti reciproci, ogni sua considerazione scaturiva da una natura intrinsecamente malinconica. Che cos’è in realtà la malinconia? Risponderei così: la malinconia non è l’infelicità, bensì il sentimento dell’infelicità, perché non è detto che la persona malinconica sia sempre oggettivamente infelice. Questo sentimento non ha nulla a che vedere con fatti reali, con esperienze negative o col mondo concreto in generale. No, è il sentimento che potrebbe far pesare su di noi l’infelicità persino in paradiso. Si dà spesso il caso di malinconici che non hanno mai avuto a soffrire per cause esterne. Anche senza gli eventi luttuosi di cui fu testimone, Sissi avrebbe avuto la stessa visione della vita, perché l’esperienza della dannazione non presuppone necessariamente l’inferno. Del resto, lei stessa definisce la vita come una malattia. Soltanto la solitudine equivaleva per lei alla salute, per così dire. Ma torniamo alla malinconia: che cos’è, in verità? È la certezza dell’universale futilità, l’apoteosi dell’invano. O meglio: un amalgama di grazia e di sventura, di bellezza e di desolazione, è l’ineluttabile come melodia eterna, come tono di fondo della vita. L’Ottocento conobbe due vette della malinconia: Brahms e Sissi. Se la malinconia fosse l’unico metro per giudicare gli spiriti, la figura di Sissi si potrebbe senz’altro paragonare a Brahms. Inutile dire che qui non è in questione il genio, bensì un’analogia di sensibilità. Sissi non era particolarmente dotata, non aveva “genio”, e per quanto ne so non si è mai interessata alla musica di Brahms; ma la malinconia l’ha segnata a tal punto da legittimare il paragone con lui. Lei in quanto fenomeno – lui in quanto creatore. Li accomunava anche la passione idolatrica per tutto quanto era magiaro. L’impronta magiara è ciò che più mi attrae nella musica di Brahms. È noto che il giovane Brahms era amico di un violinista ungherese, Reményi. Fecero molti viaggi insieme, e Reményi lo iniziò alla musica del suo Paese. Fu un’esperienza che lo segnò per sempre. Esiste

140

Intervista con Verena von der Heyden-Rynsch

una tristezza specificamente ungherese… Tre sono le forme di tristezza in Europa: la russa, l’ungherese e la portoghese. Personalmente, la seconda è quella che mi attrae di più, e del resto io stesso sono figlio dell’Austria-Ungheria. Tutto ciò che era ungherese esercitava uno strano fascino su Sissi; e forse fu questa l’unica vera passione della sua vita. Dal punto di vista politico la sua predilezione per l’Ungheria era un suicidio, perché la politica ungherese, lo sciovinismo ungherese, fu il motivo principale del crollo della monarchia danubiana. Ma di questo parleremo poi. Si è spesso rimproverato a Sissi di coltivare la malinconia. Nel caso di un artista, questo trova qualche giustificazione nella sua attività creatrice; per Sissi invece si sarebbe trattato di un esercizio meramente egocentrico, egoistico, come se volesse coltivare un fermento di autodistruzione. Che cosa ne pensa? Sissi fu una grande egoista, non c’è dubbio, ma per me questa non è un’obiezione, non è un’accusa. Come tutti coloro che non hanno più illusioni o, meglio, che nutrono illusioni soltanto riguardo a sé stessi, Elisabetta non si occupava che di sé, era assolutamente egocentrica. Baudelaire disse una volta che al solo pronunciare la parola “malheur” provava una sorta di voluttà. Altrettanto vale per Sissi. Il disincanto è una visione del mondo quasi istintiva, perché spesso i suoi adepti sanno già tutto, fin dall’inizio, degli uomini e delle cose, sanno che cos’è in gioco, senza dover cercare troppo. Il loro temperamento li costringe a pensare a questo modo. Il disincanto è una forma di conoscenza, una conoscenza non sistematica, eppure… In definitiva la chiamerei una filosofia che precede l’esperienza, una metafisica quasi automatica. Ed è inoltre la via migliore per sfuggire alla volgarità, nel senso che permette di non essere mai come gli altri. La disillusione, conseguenza della malinconia, è la via maestra dell’isolamento. Sissi parla spesso dell’ironia come di un’arma che la protegge dalla vita, che svela il ridicolo e quindi lo sconfigge.

141

Ultimatum all’esistenza

L’ironia è soltanto una maschera dell’infelicità. È una via indiretta, una via traversa, e tutti coloro che sono feriti nell’intimo la scelgono per nascondere la loro vera condizione, per non dover parlare della propria infelicità. È l’espressione intellettuale di una vulnerabilità interiore. Io credo che Sissi abbia amato tanto Heine a causa della sua ironia, non perché fosse un grandissimo poeta! Heine ha conosciuto questa vulnerabilità come nessun altro, e ha trovato nell’ironia una copertura per dar voce ai propri sentimenti. È questo il senso profondo dell’ironia: una forma elegante per mascherare la propria sanguinante nudità e tuttavia esprimersi. In Germania manca una grande tradizione del genere ironico. Heine costituisce un’eccezione. L’ironia tedesca è troppo insistente, troppo colorata di filosofia, troppo esplicativa e minuziosa, vuole chiarire, giustificare, invece di essere concisa, fulminante. Il tedesco vuole dare un fondamento alla sua ironia, farne un sistema – col romanticismo ha abbozzato una teoria al riguardo, ma in pratica non ha fatto molti passi avanti… Prendiamo Sartre, ad esempio, che indubbiamente possedeva una certa ironia, ma in questo era molto tedesco. Non per niente era alsaziano! L’ironia di Sartre è sempre troppo insistente, troppo carica, si direbbe quasi professorale, cioè troppo sistematica. L’ironia dev’essere profonda, ma non deve andare a fondo. Non occorrono argomenti per giustificarla. L’ironia di Sartre aveva una sfumatura alsaziana, e perciò le mancava la lievità di quella francese. Vorrei fare una breve digressione. Borges, durante un incontro qui a Parigi, mi disse per prima cosa che la Germania gli aveva riservato una grande delusione. Voleva tenere un discorso su Heine, e i suoi interlocutori l’avevano guardato senza capire, e per di più con un sorrisetto sprezzante. A suo dire, i tedeschi non erano più in grado di capire Heine; la stessa cosa gli era successa anche quando aveva parlato di Schopenhauer. Queste reazioni lo avevano molto turbato. Che cos’è l’illusione? Lei crede che si possa postularne la necessità?

142

Intervista con Verena von der Heyden-Rynsch

Penso a uno degli ultimi grandi saggi dell’India, Ramana Maharshi. Una volta gli domandarono: «Che cos’è l’illusione, che cosa è Maya?». Rispose: «Maya è: osservare il ghiaccio senza pensare che è acqua». È una risposta molto profonda. Chi è prigioniero dell’illusione vede dappertutto soltanto ghiaccio, e quando alla fine si accorge che è acqua rimane perplesso. Sissi, invece, percepiva l’illusione in un modo molto particolare. Non l’abbandonava mai la sensazione che tutto è irreale, Maya. Ne parlava spesso. Se qualcuno ha bisogno di tutta una vita per spogliarsi delle proprie illusioni, è impossibile intendersi con lui, perché una via così graduale, un procedere tanto lento, durano troppo a lungo. Ottant’anni sono troppi per arrivare finalmente a capire… Riuscirvi già a quindici, a vent’anni, questo sì è interessante. È il caso di Sissi, il che naturalmente non esclude che questa esperienza s’intensifichi col passare del tempo. Ma tutto era già presente in germe. Eppure l’illusione le era necessaria. In questo senso Sissi parla di una «mascherata interiore» cui è costretta a piegarsi, e parla della «testa d’asino delle nostre illusioni» che non ci stanchiamo mai di accarezzare, che dobbiamo continuare ad accarezzare. Anche Sissi postulava l’illusione, come tutti coloro che rinunciano al suicidio pur essendo perfettamente consapevoli della vanità della vita. Ciascuno viene a patti con l’illusione, fino a un certo punto. È una necessità assoluta, fa parte del gioco. Oltre che per Heine, Sissi mostrava una grande predilezione per Achille. Potrebbe spiegare questa affinità? Sissi ammirava Achille perché la tristezza, diceva, era per lui molto più importante, aveva molto più valore della vita stessa. Achille viveva soltanto per i propri sogni, e soltanto la sua volontà gli era sacra. Come poteva Sissi non esserne affascinata? Tutto questo corrispondeva esattamente al suo modo di vedere le cose. Lo si potrebbe definire un egocentrismo “divino”… Ma non dimentichiamo che in lei la tristezza non era una forma di autocompiacimento estetizzante. Parole come queste: «Le vere lacrime non si possono versare, e quelle che si versano scor-

143

Ultimatum all’esistenza

rono tutte invano», sono una chiave importante per capire Elisabetta e per conoscerla davvero. Brigitte Hamann sostiene che Sissi perseguì un solo scopo, la realizzazione di sé, e che proprio per essere arrivata a questo ideale di autorealizzazione senza limiti sarebbe stata profondamente infelice. Sì, è proprio così! La sua autorealizzazione consisteva in una profonda infelicità. Era il suo modo di essere, la sua natura! Sissi, ad esempio, considerava perfettamente normale che tutto un Impero lavorasse per lei, per consentirle di realizzarsi, di portare la sua tristezza in giro per il mondo e su tutti i mari. Per i contemporanei era una grave provocazione; per noi invece non ha più alcuna importanza. La storia è cinica e immorale. La stessa Elisabetta, del resto, possedeva quel genere di cinismo di cui si può dire che è una forma degradata di ironia. È certo che di tanto in tanto aveva accessi del più feroce cinismo, ma altre volte si batteva a favore di qualcuno, era molto generosa, senza però un’ombra di “amore per il prossimo”. Il suo comportamento lunatico irritava quelli che le stavano intorno, ma per noi i giudizi e i criteri morali che si riferiscono al passato hanno un valore relativo. Per i posteri è pressoché irrilevante persino il fatto che tutto un Impero abbia dovuto soffrire per lei e a causa sua. Come spiega che Sissi, che considerava l’amore qualcosa da non prendere sul serio e che persino verso i figli, fatta eccezione per Maria Valeria, dimostrava una certa freddezza, prendesse invece tanto a cuore l’affare Pacher, un suo flirt platonico e romanzesco, e se ne occupasse al punto da trarne ispirazione per lunghe poesie d’amore? Si può parlare in questo caso delle fantasie di una donna frustrata? No, fu soltanto un gioco. Non dimentichiamo che Sissi doveva annoiarsi a morte. Non aveva interessi reali, se si escludono le “manie” del momento: cavalcare, fare ginnastica, curare il proprio corpo, ecc.

144

Intervista con Verena von der Heyden-Rynsch

Doveva pure crearsi dei pretesti! Io credo che fosse incapace di provare una vera passione, un amore… L’illusione, inseparabile dalla passione, forse per lei sarebbe stata impossibile, inaccettabile. Forse si è innamorata per gioco, ma col passare degli anni il suo atteggiamento di fondo nei rapporti umani concreti si fece sempre più eccentrico. Chiamava il mare il suo “confessore”, e un albero che cresceva a Gödöllö il suo “confidente”, il suo “migliore amico”. Di questo albero parlava quasi con accenti amorosi: «Sa tutto di me, sa quel che accade quando siamo lontani». Sulla sua fedeltà non aveva dubbi: «Non rivelerà mai niente a nessuno». Si fidava del mare e di quell’albero, non degli uomini: è un tratto molto significativo. Così si poneva fuori della comunità degli umani – e in questo è la sua grandezza. Troviamo un atteggiamento simile in Re Lear. Io credo che le sue parole più importanti siano proprio quelle che si riferiscono all’albero di Gödöllö. Anche da un punto di vista filosofico. Qui siamo all’acme, e a paragone di questo tutto il resto è soltanto secondario, perché qui vediamo che in ultima istanza tutto era irreale per lei, che la realtà per lei era soltanto fumo, Maya. La sua sofferenza, io credo, era assolutamente reale, ma veniva trasfigurata dalla malinconia. La valanga di tremende sciagure che si abbatté su di lei fu, per così dire, soltanto una dimostrazione, una conferma che il suo sentimento istintivo nei confronti della vita non era errato. Lei userebbe l’aggettivo “panteista” per definire il rapporto di Sissi con la natura, il suo rapporto quasi assoluto con un albero? No. Forse sarebbe anche legittimo, ma perché farne un sistema? Quel rapporto nasceva dal fatto che sul mare o vicino a quell’albero Sissi si sentiva a casa sua, a suo agio. Ripeteva di continuo che stava volentieri soltanto dove non c’è traccia di esseri umani, che sfuggiva il “contagio” degli uomini. Non così, invece, quando si trattava di gente semplice, di pescatori, contadini, matti del villaggio, che amava particolarmente e andava sempre a cercare. Non era timidezza quella che la induceva a evitare gli uomini, bensì ripugnanza. A questo proposito non

145

Ultimatum all’esistenza

posso non pensare a un’altra figura della mia giovinezza. A Sibiu c’era un manicomio che io visitavo spesso – vi lavorava un mio amico medico. L’istituto era situato fuori città, e io ci andavo quasi ogni giorno per fare una bella passeggiata. Tra gli altri pazienti era ricoverata una finlandese sulla quarantina, sempre vestita di nero. Ogni volta la vedevo tutta sola nel parco dell’istituto. Discorrevamo in tedesco, poiché non conosceva né il romeno né il francese. Un giorno la incontrai su un sentiero appartato e le domandai: «Ma che cosa fa tutto il giorno?». Rispose: «Faccio l’Amleto». Una risposta che sarebbe stata appropriata in bocca a Sissi. Anche il tema del tempo ricorre di continuo nell’universo mentale di Sissi. C’è una spiegazione, secondo lei? Quel che Sissi dice del tempo mi sembra molto interessante, anche dal punto di vista filosofico. A suo dire, il sentimento del tempo è sempre doloroso poiché ci trasmette il senso della vita. Questo sì è un giudizio sulla vita! Per le persone attive il sentimento del tempo non è mai doloroso, anzi è una forza propulsiva, perché vogliono integrarsi nel tempo. Ma per coloro che percepiscono il tempo con troppa consapevolezza, cioè percepiscono e sentono lo scorrere del tempo in quanto tale, il tempo diventa qualcosa di paralizzante, un antipolo alla vita, qualcosa che distrugge la vita. Il tempo mette a nudo l’esistenza. Per Sissi il sentimento del tempo era doloroso non già perché le svelasse la vita, bensì perché la metteva in contatto con la vita! Che cosa saranno mai stati per lei i giorni, le notti? Sappiamo che dormiva pochissimo e si alzava ogni mattina alle 5. Se passiamo in rassegna le sue annotazioni, i suoi appunti, è chiaro che le sue notti erano insonni, erano notti “bianche”. Dovevano piacerle molto, perché finalmente poteva essere tutta sola con sé stessa. Si può dunque dire che era più che delusa, poiché deluso è chi si aspetta pur sempre qualcosa dalla vita. Sissi non ha nemmeno perduto le sue illusioni: non ne aveva. Poteva magari essere delusa da singole persone, ma il suo disincanto era molto più profondo. E qui ritorna il nome di Amleto. Il quale avreb-

146

Intervista con Verena von der Heyden-Rynsch

be tenuto un monologo simile a quello che tutti conosciamo anche se non avesse saputo dell’assassinio del padre. Quel delitto fu soltanto uno stimolo, venne a confermarlo nel suo senso dell’esistenza, nella sua visione della vita. Ma già prima molte cose gli erano chiare. Così fu per Sissi: anche senza tante tragedie le sue parole non sarebbero risultate molto diverse. Forse avrebbero avuto un’enfasi minore: gli avvenimenti erano dunque una sorta di nutrimento, rafforzavano ciò che era già presente, come nel caso di Amleto. L’essenziale non viene dall’esterno… Ed è proprio questo che l’affascina tanto in Sissi! Sì, mi affascina, perché è quasi teatro, inutile quasi, una tragedia in sé e per sé! Il tempo vi ha la sua parte, ma non è tempo essenziale… Il senso della vanità di tutte le cose non era costantemente amplificato in Sissi dal presagio della morte? In lei il senso della morte era dominante. Fu vicina alla morte, da viva, più di molti morti… Per lei tutto contribuiva a esemplificare, a intensificare quel presagio. Persino in mezzo alla natura tanto amata il pensiero della morte non la abbandona – a un certo punto descrive la terra come un “corpo morto” su cui ci muoviamo veloci, e le stelle come “spoglie luccicanti e lontane”. Nutriva una singolare predilezione per i volti dei morti, poiché in essi si esprimeva tanto “dolore e scherno”: «È lo scherno della vittoria sulla vita, che ha inflitto tanti patimenti…». Uno dei temi ricorrenti di Sissi è il destino, non è vero? È il tema centrale di tutte le conversazioni, il punto iniziale e finale: il destino. Sissi diceva di essere in cerca del suo destino e interpretava tutto in quella luce. Ad esempio, durante un viaggio per mare, vedendo un gabbiano nero che seguiva la nave da otto giorni, volle subito scorgervi un segno del proprio destino. Vale la pena di sottolineare questo

147

Ultimatum all’esistenza

punto, perché l’idea del destino ha radici nel mondo antico, non appartiene all’Europa occidentale, al patrimonio culturale dell’Occidente. Direi addirittura che l’idea del destino comincia e finisce a Vienna; ed è sopravvissuta soltanto nell’Europa sudorientale. Certo, a rigor di termini è presente dappertutto, ma non come idea fissa, non come principio esplicativo dell’esistenza, come tema centrale di una sensibilità. Sotto questa specie la troviamo in Sissi, che talvolta ne parla al modo di una contadina dei Balcani! Naturalmente tutto questo ha a che vedere anche con l’Austria, perché l’Austria, per effetto dell’impatto slavo, appartiene in certo qual modo all’Europa sudorientale. Sotto la sua frivolezza e la sua spensieratezza, l’Austria nasconde qualcosa di molto più profondo, qualcosa che ha origine appunto nella cultura dell’Europa sudorientale. In Sissi questo aspetto è molto importante. Per lei destino significa un’esperienza sensibile, e non, come per i tedeschi, soprattutto un’idea, un’idea lineare. In lei parla il fatalismo orientale quando dice di sé che la sua fine sarà tragica, ma che nessuno ne è responsabile, e non c’è niente da fare, giacché così ha da essere… In questo senso va letta un’altra sua affermazione, là dove dice che nulla può influire su di lei perché si affida esclusivamente alle sue voci interiori. Da qui anche il suo disprezzo per la politica, che considerava un autoinganno, giacché tutto accade spontaneamente, «per intrinseca necessità e perché una situazione è matura». Sissi aveva presentito da tempo il crollo dell’Impero. Era più che un presagio, eppure questo non l’ha particolarmente turbata. Era consapevole della minaccia, ma sapeva anche che tutto è provvisorio e condannato. È sempre vissuta con questa sensazione e ha sempre voltato le spalle alla politica. Ritiene che il suo atteggiamento, il suo comportamento abbiano affrettato la fine della monarchia absburgica?

148

Intervista con Verena von der Heyden-Rynsch

Lei stessa era un simbolo della fatalità. Quel che importa sottolineare in Elisabetta d’Austria è che un caso come il suo è possibile soltanto alla fine di una dinastia. È noto che Francesco Giuseppe aveva in animo di sposare non lei, bensì la sorella maggiore, ma rimase subito affascinato da Sissi. Già questo fu un segno del destino, poiché egli scelse proprio la persona che non avrebbe dovuto sposare. Francesco Giuseppe era un uomo mediocre, certamente non all’altezza di lei. Quella scelta segnò il destino personale di Sissi, ed è al tempo stesso un simbolo nella storia dell’Austria: Sissi era l’espressione di una civiltà al tramonto; e naturalmente non mi riferisco a lei quindicenne, bensì all’Imperatrice adulta. Nel suo temperamento c’era la stessa fragilità della monarchia danubiana! Certo, la sua predilezione per il popolo ungherese ha affrettato la fine della duplice monarchia. Sissi ha sempre privilegiato gli ungheresi a spese degli altri gruppi etnici, la cui rivolta era diretta più contro Budapest che contro Vienna. Io non nutro sentimenti antiungheresi, al contrario, ma da un punto di vista politico l’atteggiamento di Sissi fu un grave errore. Se è vero che presentiva il pericolo in generale, è altrettanto vero che il territorio della politica nei suoi particolari le era precluso. Sissi era come incantata da tutto ciò che vi è di seducente nel popolo ungherese. Brigitte Hamann ritiene che l’amore di Sissi per l’Ungheria sia dovuto in primo luogo al suo odio per Vienna e per la suocera… No, su questo non sono proprio d’accordo. Il motivo principale – ed è ben comprensibile – era il fascino che esercitavano su di lei la mentalità, la lingua, la gente. Non è un caso che proprio l’albero che tanto l’attraeva crescesse a Gödöllö: il suo miglior amico era dunque un albero ungherese! Non vorrei attribuire a questo particolare un rilievo eccessivo, ma… L’idea del suicidio ha avuto molta importanza per Sissi?

149

Ultimatum all’esistenza

È un’idea che l’ha accompagnata per tutta la vita. Specialmente dopo la morte di Rodolfo, di cui si sentì responsabile. Non si può essere posseduti dalla malinconia e non pensare al suicidio. Il legame è strettissimo. Il suicidio è in fondo il coronamento della malinconia, la sua conseguenza estrema – almeno in coloro che sono un po’ troppo coerenti! L’idea del suicidio è inseparabile dalla malinconia. Lo era anche in Sissi. Ne parla spesso, con passione, ma senza avere la forza di attuarlo. La figura di Elisabetta è più attuale che mai. Perché, secondo lei, Sissi è così importante per noi? A mio parere, soprattutto perché la Vienna di allora prefigura il crollo dell’Occidente. Potremmo dire che il tramonto dell’Austria fu la prova generale del nostro. Quel che accadde allora a Vienna accadrà a noi alla fine di questo secolo. Sarà il prossimo atto della tragedia storica dell’Europa. Di qui, secondo me, il rinnovarsi di un interesse appassionato per la persona di Sissi e per il suo tempo. Oggi tutto è in sfacelo, tutto cade in rovina. Sissi è il simbolo di un mondo condannato. Lei stessa era troppo raffinata, troppo nobile, troppo – senza posterità. Una sorta di maledizione pesava sulla sua famiglia e quasi su tutta la cultura alla quale apparteneva. Se fosse questione soltanto della sua vita, della sua personale esistenza, già varrebbe la pena di occuparsene. Ma, dopo tutto, si tratterebbe semplicemente di un caso. Sissi invece è al tempo stesso un caso e un simbolo. Per questo non la si può trascurare. Come fenomeno umano fu la figura più affascinante di una decadenza, di una rovina. La fine della Russia zarista non ebbe la ventura di potersi esprimere in una figura analoga, poiché la Zarina, la “tedesca”, era interessante soltanto sotto l’aspetto psicopatico, non possedeva alcun fascino, alcuna attrattiva particolare: fu anche lei un’eccezione, ma in senso negativo. Nella storia sono significativi soltanto i periodi di decadenza, poiché allora si pongono tutte le questioni dell’esistenza in generale e quelle

150

Intervista con Verena von der Heyden-Rynsch

della storia in quanto tale. Tutto si innalza a toni di tragedia, ogni evento acquista una nuova dimensione. Le fantasie, le ubbie, le bizzarrie di una Sissi potevano presentarsi soltanto in un periodo del genere. Costituirono, per così dire, lo sfondo della catastrofe imminente, di cui tutti erano più o meno consapevoli. Per questo la sua figura è tanto significativa e grandiosa! Per questo noi la comprendiamo meglio dei suoi contemporanei.

151

INTERVISTA CON JOSEF OSTERWALDER*

Signor Cioran, supponiamo che un giovane diciottenne venga da lei a chiederle: «Cosa devo fare nella mia vita?». Cosa risponderebbe? Spesso capita che i giovani vengano da me. Ma di solito hanno una domanda diversa: «Come si fa a diventare scrittori?». A loro posso solo dire questo: «Dovete togliervi dalla testa ogni idea di carriera, denaro e successo». Uno scrittore può vivere solo nella miseria, non può neanche provvedere a una famiglia. Il successo rovinerebbe tutto. Ecco perché ho perfino rifiutato tutti i premi. E questa è la sola cosa che i giovani cercano da lei: un consiglio per la carriera? Non solo, ci sono anche coloro che si confrontano con la mia opera. Da un po’ di tempo ho dei colloqui con una ragazza di 19 anni che in passato ha tentato il suicidio. Quando fu salvata, dichiarò di essere stata spinta a quel gesto da certi cupi passaggi dei miei scritti. Su iniziativa di alcuni conoscenti ho parlato con lei per tre ore e le ho spiegato come io intendo il suicidio. Le ho mostrato il motivo per cui, secondo * Traduzione italiana di Claudia Tatasciore.

153

Ultimatum all’esistenza

me, l’idea (non l’atto!) del suicidio sia così importante. È proprio il pensiero di poter porre fine alla mia vita che mi aiuta a rimanere in vita. Talvolta sono stato descritto come l’apologeta del suicidio. Mi hanno completamente frainteso. Penso solo che occorra essere onesti: si può vivere senza scorgere alcun senso. Sì… scoprire se la vita abbia o meno un senso, può essere persino un’avventura. Lei ha una visione pessimistica dell’umanità? Non penso che esista un progresso. L’essenza dell’uomo è un’altra. Senza l’idea del peccato originale l’uomo per me è inconcepibile. Secondo me è fondamentale l’idea che l’uomo abbia iniziato con una caduta, che egli provenga dal paradiso perduto e che la storia non sia altro che lo sviluppo del peccato originale, il trionfo del peccato originale. Diversamente, la storia del mondo mi sembra incomprensibile. Non intendo ciò in senso biblico-cristiano, piuttosto sono influenzato dal buddhismo. Quando ero giovane assorbivo i discorsi del Buddha come l’alcol, ne ero veramente impregnato. E il buddhismo è stato per lei una via? Lo credevo, fino a quando mi sono reso conto che sarebbe stato un’impostura descrivermi così. Io sono solo intellettualmente libero, non interiormente purificato. In comune con il Buddha ho solo l’aspetto negativo, la cognizione del vizio; per la parte attiva, sono inadatto per un perfezionamento interiore. La vita è un vizio, ma non riesco a sbarazzarmene. Supponiamo però che giunga un angelo e le proponga di diventare libero. Dia un’occhiata al mio ultimo libro: sulla copertina è raffigurato un angelo. Il libro è molto pessimista, assolutamente disperato, ma per la copertina ho voluto quest’immagine. In verità non so perché, è suc-

154

Intervista con Josef Osterwalder

cesso in maniera del tutto inconscia. Quest’angelo etiope, che ha un aspetto tenebroso e occhi penetranti, è anche un dèmone. Cose del genere hanno a che fare con gli scritti di Meister Eckhart, che d’altronde considero il più grande pensatore occidentale, colui che ha concepito il sistema metafisico più profondo. Quindi il suo pessimismo possiede una dimensione mistica? Sì, parlo sempre di religione e di mistica, ma la maggior parte dei francesi non l’ha notato. Fondamentalmente, io sono un mistico mancato. Un mistico in cui qualcosa non ha funzionato; il momento negativo è troppo forte in me. Sono convinto che la vita sia lo sviluppo di una delusione. Non sono riuscito a essere colui che avrei dovuto essere. La delusione per me equivale alla “conoscenza”. Questa è un’idea nota anche ai mistici, ma a differenza loro, io non ce l’ho fatta a compiere il salto, a superare la delusione. Non può o non vuole? Ci sono persone benedette che sono salvate fin dalla nascita. Altre, come me, devono passare la vita a cercare, torturandosi fino alla morte. L’auto-tormento fa parte della loro natura, una risposta le ucciderebbe spiritualmente. Pensi solo a Pascal. Non solo le idee, anche il suo semplice stile di vita sembra quello di un monaco. C’è un’altra cosa: conosco anche la malattia dei monaci, “l’accidia”, che possiamo tradurre con “inerzia interiore”. Mi sono annoiato tutta la vita. La noia però è molto pericolosa per lo spirito. Ed è peraltro la tipica minaccia per il monaco, che ha meditato a lungo e in maniera intensa su Dio e all’improvviso si sente esposto a un vuoto abissale. E allora rischia di perdere tutto e di abbandonare il deserto. L’uomo cerca

155

Ultimatum all’esistenza

l’assoluto, ma c’è qualcosa che mina tutto. Comprende questa frase del mio libro L’inconveniente di essere nati? «Dio è, anche se non è»1.

1 E. M. Cioran, L’inconveniente di essere nati, tr. it. di L. Zilli, Adelphi, Milano, 1991, p. 168.

156

INTERVISTA CON HANS-JÜRGEN HEINRICHS*

Se non sentissi sopra di me il soffitto poco più alto di un uomo e non vedessi il tavolo da cucina ricoperto di Resopal, se non sentissi fisicamente l’inestricabile mescolanza di libri e di calze, camicie e pantaloni indossati spesso, se lì in mezzo non vedessi, davanti a me, la figura piccola e magra con la faccia sveglia, forse non crederei di essere stato davvero in rue de l’Odéon in una giornata d’estate, di aver salito le scale, senza batticuore. Mi sembrava così naturale, conoscevo l’opera e ammiravo l’autore. Potevo tranquillamente affrontarlo. E stavamo quasi per camminare anche nella Parigi notturna, dopo le nostre passeggiate nel labirinto dei suoi pensieri, e la sua convinzione che tutto fallisce, deve fallire e che è giusto così. E mi è piaciuto che in tutto questo lui potesse essere così sereno. È stato così facile per noi dire “insensato”. I miei incontri importanti in quegli anni avevano sempre qualcosa di un rapporto padre-figlio, che poi puntualmente si dissolveva. Così è andata anche con Cioran. Ma non è stato meglio così? In questo modo i confini sono stati di nuovo rispettati: tra me e il suo mondo alto un metro e cinquanta in Place de l’Odéon, un mondo che difendeva con

* Traduzione italiana di Germaine Stephanie Kremer e Mattia Luigi Pozzi.

157

Ultimatum all’esistenza

così tanta forza e nella cui vastità ho visto la Bulgaria e la Russia, la Persia, la Spagna e l’Italia. Quando penso oggi, a distanza di tanti anni, al nostro incontro, prevale una volta la vicinanza, persino l’intimità, un’altra la distanza, una volta la confidenza, poi di nuovo l’estraneità, un’estraneità infinita. Se ricordo bene una frase di Iosif Brodskij, egli diceva che le persone sono ciò che sono per noi nella nostra memoria. Questa è la vita: un collage di ricordi, bucato e che si colora successivamente. E se dovessi “valutare” oggi l’opera di Cioran – cosa che comunque sono riluttante a fare – sarebbe al massimo nel senso in cui Clifford Geertz ha detto degli eroi dell’etnologia che la loro opera – il loro linguaggio, il tono che hanno adottato, la parola che hanno messo in gioco – sopravvive anche se ciò che hanno sostenuto si dimostra insostenibile. Ciò che rimane è un grande sentimento di importanza intellettuale e il fatto che qualcuno ha sperimentato, pensato, penetrato interamente un’altra forma di pensiero e di vita. Il detto di Cioran secondo cui tutto fallisce, fallisce perdutamente, non ha più importanza nella mia vita in questa forma, e tuttavia: che potere esercitava su di me un tempo quest’idea… Rileggendo la conversazione, a volte sono sopraffatto dalla bellezza e dalla poesia che nascono dal fondo della disperazione (inscenata?): quando Cioran descrive la sua assenza di fini e la sua insicurezza, quando si dipinge come mistico e “uomo del frammento”, che implora il tramonto e tuttavia vive la vita, quando motiva il suo interesse per gli impostori e dà a sé stesso del bugiardo e del ruffiano. Quando perdo di vista i libri di Cioran per un po’ di tempo, mi sembra di essermene allontanato così tanto da non subire più il loro incantesimo. Però non appena mi capitano sotto gli occhi, sono immediatamente afferrato dalla loro ricchezza di pensiero e dalla loro forma cifrata, catturato nel labirinto di formule del tutto peculiari, nella meravigliosa alternanza di verità e menzogna, di indeterminatezza e chiarezza. Cioran ha trovato una bella formulazione anche per questo: «L’autore, non meno dell’opera, deve dissimulare la propria identità, ri-

158

Intervista con Hans-Jürgen Heinrichs

velare di sé tutto meno l’essenziale, perseverare nell’incantesimo e nella solitudine, sovrano infeudato alle parole, loro schiavo abbagliato»1. Signor Cioran, parliamo della situazione che lei vive qui a Parigi, ai margini dei circoli intellettuali e artistici. Una tematica che lei tratta ripetutamente è che lei considera questa città, Parigi, come la fonte della sua sventura, e allo stesso tempo è la città dalla quale è rimasto catturato finora e senza la quale probabilmente non sarebbe in grado di vivere. Ma cosa la trattiene tuttavia qui, dove ha così pochi amici, in realtà solo stranieri, come lei dice? La prima volta che ho visto Parigi è stato nel 1935. Ero venuto per un mese e ho capito subito di dover tornare, e ho fatto di tutto per venire a Parigi per un periodo più lungo. E così ho ricevuto una borsa di studio dall’Istituto francese di Bucarest e sono poi tornato qui nel 1937, con il pretesto di scrivere una tesi di dottorato. Ma non avevo nemmeno l’argomento, era solo un imbroglio da parte mia. Quindi non me ne sono occupato affatto, ma ho avuto una borsa di studio per diversi anni. Quello che ho fatto, in realtà, è stato girare in bicicletta per tutta la Francia, ovunque: in montagna, in Bretagna, nei Paesi Baschi, per mesi. E il direttore dell’Istituto francese di Bucarest, che mi aveva mandato qui, invece di essere indignato, pensò che fosse molto meglio di una tesi di dottorato. Sono stato fortunato che quest’uomo mi abbia compreso. Questi “auberges de jeunesse”, questi ostelli della gioventù – in Francia allora, forse anche adesso, c’erano ostelli comunisti e cattolici, e io frequentavo entrambi – per me rappresentavano un buon contatto umano: stavo per molto tempo insieme a persone semplici, a lavoratori, studenti, cattolici – o Dio sa cosa. Era un’esperienza interessante per uno straniero, perché eravamo allo stesso livello. E per essere straniero, conosco molto bene la Francia, sono stato ovunque, 1 E. M. Cioran, Esercizi di ammirazione. Saggi e ritratti, tr. it. di M. A. Rigoni e L. Zilli, Adelphi, Milano, 1988, pp. 124-125.

159

Ultimatum all’esistenza

per mesi – e poi c’era un lato comico: ogni anno dovevo mandare a Bucarest una raccomandazione di un professore che confermava che stavo realmente lavorando a qualcosa. Ma io non conoscevo nessun professore! Ora, a Parigi c’era un grande conoscitore dei mistici, Jean Baruzi, che aveva scritto un libro meraviglioso su Giovanni della Croce. L’ho abbordato al Jardin du Luxembourg con queste parole: «Conosco i suoi libri e mi interessano molto». E così parlammo per un’ora della mistica spagnola. Alla fine mi disse: «Vorrei incontrarla di nuovo». «Sì, va bene – risposi – ma ho assolutamente bisogno di una raccomandazione per la Romania». – «Che raccomandazione? – chiese Baruzi – io non la conosco, non so chi è lei». «Non ha alcuna importanza. So che è una cosa balcanica, ma non fa niente. Ho bisogno di questa raccomandazione per poter rimanere a Parigi l’anno prossimo». – «Non so chi lei sia e purtroppo non posso darle nessuna raccomandazione». Ne rimasi molto deluso! E poi ho chiamato uno che conosceva un professore di filosofia, Louis Lavelle, oggi probabilmente dimenticato. E questo conoscente è venuto con me da Lavelle, e io gli ho detto: «Ho bisogno di una raccomandazione». – «Non la conosco, come posso farle una raccomandazione?». E ho risposto: «Bene, parlerò di filosofia per un’ora». Ho parlato di ogni sorta di filosofo; dai tempi della mia gioventù conoscevo molto bene Georg Simmel e la filosofia della vita tedesca. Ho parlato di questo e persino di Klages. Lavelle non conosceva assolutamente nessuno di loro e non aveva la minima idea di queste cose. Alla fine disse: «Sì, vedo che se ne intende. Quindi cosa devo scrivere?». – «La prego di scrivere che le ho fatto una buona impressione». E lo fece. È così che mi sono sempre arrangiato, visto che non avevo nessun rapporto coi professori e avevo chiuso con l’università. Quando sono arrivato a Parigi, ho capito che la cosa interessante per me è vivere con persone che in realtà vivono senza lavorare. Io stesso sono un esempio di disoccupato: non ho mai lavorato in vita mia, non ho mai avuto una professione. Solo una volta in Romania, per un anno, ho insegnato filosofia. È stato insopportabile per me. E questo è stato anche il motivo per cui sono venuto a Parigi. Nel proprio Paese bisogna fare qualcosa,

160

Intervista con Hans-Jürgen Heinrichs

all’estero invece no. La mia fortuna è stata vivere più di quarant’anni della mia vita come straniero, senza professione e – come posso dire? – anche senza stato, come apolide. La cosa interessante di Parigi, credo, è che si debba vivere qui essenzialmente estraniati, come stranieri, così da non appartenere a una nazione, forse solo a una città. Mi sento in qualche modo parigino, ma non francese, questo assolutamente no. Allo stesso tempo il suo pensiero è totalmente legato alla lingua. È inimmaginabile che lei sia riuscito a mantenere tale forma dell’aforisma, del trattato e del saggio senza un’identificazione incredibilmente intensa anche con la lingua. A questo proposito è sorprendente che la lingua francese, che per di più non le piace molto – lei scrive che è una lingua molto distinta, condizionata dai parigini o dalla tradizione francese, e anche dall’Illuminismo –, sia la lingua in cui lei ha trovato tuttavia una patria. Dunque, ho un atteggiamento molto complesso nei confronti della lingua francese. Quando ho iniziato a scrivere in francese, mi sono detto che non era una lingua per me. Mi sentivo come in una camicia di forza. Ma ora, da alcuni anni, da quando la lingua francese sta affondando ovunque, mi sento in qualche modo legato a questa lingua che tramonta. I francesi sono, non direi indifferenti, ma accettano la cosa – io no. E più la lingua francese viene boicottata dal mondo, più mi sento vicino a questa lingua. Forse anche perché le cause perse, tutto ciò che non funziona e fallisce, esercita su di me una forza di attrazione. E quest’isolamento della lingua francese mi affascina. Il contatto con la lingua francese all’inizio è stato molto, molto difficile per uno come me che viene dai Balcani e che si accingeva a scrivere in francese. In Romania tutti sapevano il francese e altre lingue, ma io vengo dalla Transilvania, e lì si parlava solo tedesco o ungherese. Ma ho preso la cosa molto seriamente e tutto quello che ho scritto in francese, l’ho riscritto più volte: ad esempio il primo libro che ho pubblicato, il Sommario di decomposizione, quattro volte. Per me è stata davvero una sfida l’idea che dovevo scrivere come un francese, quindi di competere con

161

Ultimatum all’esistenza

i francesi – forse un’idea un po’ folle. Non mi è riuscito, o in qualche modo invece sì – almeno così dicono i francesi; questo non posso giudicarlo. La lingua francese adesso ha per me una forza di attrazione che prima non aveva. Per temperamento avrei dovuto scrivere in spagnolo, ungherese o russo. Il rigore della lingua francese è incompatibile con il mio temperamento. Ma è esattamente questo che ora mi piace di questa lingua. Questa passione che lei ha per la decomposizione e per ciò che sta tramontando ha in primo luogo chiaramente una radice nell’esperienza che la storia è una storia incessante di decomposizione e un irreversibile processo di decadenza. D’altra parte, non ci si può liberare dalla sensazione di avere a che fare con un’esperienza personale molto intensa, forse anche un’esperienza fisica e corporea di decomposizione. Lei vede la sua dottrina, la sua teoria, per quanto aforistica, più in una tradizione generale del pensiero del XX secolo – diciamo, a partire da Nietzsche, in una tradizione del pessimismo, della scepsi – o la vede piuttosto in gran parte anche nella sua esperienza corporea? È assolutamente personale! Ovviamente ho letto Nietzsche, conosco questi orientamenti, ma non sono stati determinanti. È assolutamente personale e corrisponde alle mie sensazioni interiori, alle “sensations” come dicono i francesi – e non ai sentimenti. Sono sempre stato attratto da questo lato oscuro delle cose, direi non dalla mia infanzia, ma dalla mia gioventù. Ho scritto molto sulla noia ed è qualcosa che ho sperimentato. E non credo che sia necessariamente morboso; purtroppo o per fortuna – come preferisce – corrisponde a una realtà. Credo, senza alcun romanticismo, che il lato notturno delle cose sia molto più essenziale del lato luminoso. Nella mia gioventù ero – molto meno di adesso – assolutamente ossessionato dalla morte come idea, giorno e notte, era addirittura una fissazione. Quindi era inevitabile che sul piano filosofico fossi attratto più da questo stato d’animo apocalittico che dallo spirito della filosofia. La sua domanda è del tutto legittima: è venuta dall’inter-

162

Intervista con Hans-Jürgen Heinrichs

no e non attraverso la lettura. È in me, condizionata da molte cose, tra cui l’insonnia e il modo in cui ho vissuto la mia vita. Sa, quando sono venuto a Parigi, ho scritto un articolo su Parigi – che avrebbe potuto avere conseguenze molto brutte per me – contenente una citazione da I quaderni di Malte Laurids Brigge di Rilke. La prima frase suona così: «Si viene qui per vivere, io penso piuttosto che qui si muoia». Per i romeni che vivevano a Parigi, questa città era come la “lumière” e Dio solo sa cosa – io ho scritto: «È la città più triste del mondo». «La gente muore per la tristezza», lei scrive. E questo ha fatto una pessima impressione in Romania. Persino il direttore dell’Istituto francese era indignato: «È impossibile scrivere una cosa del genere!». Parigi era per me un inferno affascinante. Un inferno? Un inferno, un inferno! All’epoca mi piaceva molto il libro di Rilke. Sentivo una parentela, anche con Rilke come poeta; oggi mi interessa meno. Ci sono due libri che, per me, rappresentano, esprimono (exprimer) Parigi. Appunto questo libro di Rilke, I quaderni di Malte Laurids Brigge, e poi il primo libro di Henry Miller, Tropico del Cancro: il contrario di Rilke, la Parigi dei bordelli, delle prostitute e dei ruffiani, delle cose sporche. Ed è anche questa la Parigi che ho conosciuto, idee completamente contraddittorie di Parigi e della verità. Ho vissuto questa Parigi delle persone solitarie e delle prostitute. Amato o... …vissuto e anche amato. Ho conosciuto molte persone. Un uomo, per esempio, che ha avuto una grande influenza su di me era un vecchio signore che viveva qui nel Quartiere Latino, il più grande esperto e specialista della lingua basca. Ha scritto molto poco, solo qualche

163

Ultimatum all’esistenza

articolo, e per il resto non faceva niente. Era molto ricco, un fannullone. Lo incontravo spesso la sera e facevamo delle passeggiate. Mi ha conquistato per la lingua e mi ha fatto una grande impressione – vedrà ora il perché. Aveva una passione per la lingua francese e discutevamo sulle sue sottigliezze e finezze. Ad esempio, parlavamo spesso con le vecchie prostitute, e se una di queste signore commetteva un errore grammaticale, lui la correggeva sempre, e questo mi piaceva immensamente, perché in questo modo mi faceva fare attenzione alla lingua. C’era anche l’idea di Bataille di fare una rivista con le donne di un bordello. Avevo visto la stessa cosa già in Romania; nei Balcani la vita dei bordelli era molto sviluppata. E questo anche a Parigi, fino a prima della guerra – dopo di che è finita o ha preso un’altra forma. Ma quando sono arrivato qui ho parlato tanto con queste signore. All’inizio della guerra vivevo in un albergo non lontano dal boulevard Saint-Michel ed ero molto amico di una prostituta, una vecchia signora con i capelli bianchi. Siamo diventati buoni amici, cioè, voglio dire, era troppo vecchia per me. Ma era un’attrice incredibile, con un talento per la tragedia. La incontravo quasi ogni notte verso le due o le tre del mattino, perché tornavo sempre molto tardi in albergo. Era all’inizio della guerra, nel 1940 – o no, scusi, era prima della guerra, durante la guerra non si poteva uscire dopo mezzanotte. Andavamo in giro insieme e lei mi raccontava la sua vita – e i gesti, il modo in cui parlava: ero affascinato! Era incredibile, una grande, grande attrice, e anche il suo linguaggio e la sua forza espressiva erano eccezionali. Queste esperienze, con gente del genere, sono quindi molto più interessanti per me che gli incontri con gli intellettuali. Il modo in cui lei descrive il suo passato a Parigi, i rapporti con le prostitute e la sua predilezione per gli emarginati, mi ricorda molto Peter Altenberg, che lei sicuramente conosce, che ha scritto molto bene sulle prostitute.

164

Intervista con Hans-Jürgen Heinrichs

D’altra parte, ci sono molti scrittori che forse avrebbero anche vissuto una vita da “outsider”, ma che a causa di varie circostanze, magari a causa di una donna, sono finiti tuttavia in una forma di vita borghese, senza che per questo stravolgessero il loro pensiero, senza cadere preda di un pensiero illusorio. Pensa che un pensiero legato alla verità debba essere connesso a una forma di vita ascetica o non è piuttosto così, che la vita può scendere a molti compromessi senza che il pensiero abbracci esso stesso i compromessi? La seconda versione è la migliore, in ogni caso è quella giusta per me. Non ho condotto una vita ascetica, appartengo quindi alla seconda categoria. Ho avuto nostalgia dell’ascesi per tutta la vita, e – come posso dire? – mi piacciono molto le donne. Ho un punto in comune con Sartre. Sartre, prima di morire, disse che andava sempre molto più d’accordo con le donne che con gli uomini. Questo è anche il mio caso: preferisco le donne agli uomini. E sa perché? Perché la donna è più “déséquilibrée” dell’uomo – più squilibrata. La donna è un essere molto più morboso e patologico dell’uomo. Sente molto meglio le cose che un uomo non può sentire. Ho notato che le donne sono più vicine al mio modo di scrivere rispetto agli uomini, in generale è così. Sono rimasto molto colpito quando ho letto che Sartre aveva detto di preferire la conversazione con le donne a quella con gli uomini. Quando una volta mi è stato chiesto come sono riuscito a vivere senza una “professione”, ho risposto che ero un ruffiano. Questo non è vero, ma dietro a quest’affermazione qualcosa di giusto, qualcosa di vero c’è. Lo dico semplicemente così: è tutto normale. Per me “ruffiano” è un termine molto più ampio. Voglio dire, quando uno scrittore vive con una donna che provvede alla vita di entrambi, allora è un ruffiano. Molti scrittori rispettabili che conosco a Parigi hanno vissuto come parassiti delle loro mogli. In questo senso, anche se non sono stato sposato, anch’io sono stato un ruffiano. I rapporti che ha con gli uomini da cosa devono essere caratterizzati? Da esperienze di pensiero simili, dall’esperienza della solitudine, del dubbio, o

165

Ultimatum all’esistenza

esiste un livello che contiene ancora una dimensione della comunicazione completamente diversa? In generale le persone che mi piacciono non devono pensare come me, questo no. Ma in qualche maniera devono essere turbate, non necessariamente tanto, ma fino a un certo grado. Tutte le persone a cui tengo, con le quali ho un’amicizia molto intima, sono sempre state quelle che in qualche modo non hanno fatto centro nella vita – così è stato in Romania e anche a Parigi –, che in qualche modo hanno fallito come esseri, sebbene fossero molto talentuosi. Che non hanno sfruttato il loro talento, che in fin dei conti non hanno fatto nulla nella vita, anche se erano dotati. Ciò che io definisco un “raté” – non esiste una parola tedesca per “raté” – è qualcuno che ha fallito nella vita. Come Baudelaire per esempio era un “raté”: si immagini un Baudelaire che non ha scritto – questi erano i miei migliori amici nella vita, che avevano fatto incredibili esperienze interiori ma non le esprimevano, che erano dotati ma non sfruttavano il loro talento. Allo stesso tempo c’è anche un altro tipo che lei ammira molto, lo spirito esaltato. È qualcuno che utilizza il suo talento, perlomeno convertendolo in linguaggio o in qualsiasi altra forma di estasi. Voglio dire, non è del tutto vero che colui che fallisce nella sua vita è per lei l’ideale costante. Perché alla fine i suoi lavori sono di una coerenza incredibile. E a volte ho l’impressione che l’intera sua opera sia molto più sistematica di quella di un filosofo sistematico. Credo che difficilmente ci sia una domanda esistenziale che l’uomo possa porsi che non appaia nella sua riflessione. Quindi è una sensazione molto strana ciò che rimane alla fine della lettura dei suoi lavori. La sensazione che lei, mediante questa forma, questo aver vissuto sull’orlo della disperazione, sull’orlo del fallimento, sull’orlo del suicidio, abbia introdotto nelle sue domande una continuità e un rigore straordinari, che le consentono di trattare tutte le fasi della vita umana, dalla nascita e naturalmente prima della morte, come un filosofo sistematico, qualcuno che fa del pensare una professione, non potrebbe mai fare.

166

Intervista con Hans-Jürgen Heinrichs

Credo ci sia una spiegazione: ho scritto soltanto quando non potevo fare nient’altro – per necessità. I miei scritti, i miei libri danno solo un’immagine parziale di ciò che ho vissuto, e anche di ciò che ho detto. Perché scrivo solo quando sono depresso, in stato di abbandono e di disperazione. Potrei dire che la disperazione in me è un’esperienza quotidiana. In francese “cafard”; non esiste una parola tedesca per questo, forse “Katzenjammer” o qualcosa di simile. Tutto quello che ho scritto è unilaterale. Perché? Perché scrivo soltanto in queste condizioni. In questi momenti mi sento fuori dal mondo, dal mondo degli uomini, e ho totalmente la sensazione di essere dannato. In fondo ho avuto una vita molto felice in quanto sono sempre stato libero. Non devo lamentarmi, non ci sono molte persone che hanno un’esistenza come la mia. Ma ho ogni giorno questi attacchi di disperazione, di cafard, molto di più nella mia gioventù che ora, ma comunque per tutta la mia vita, come un’ossessione. Ed è vero: non ho provato a liberarmene. Ma scrivendo mi sono comunque liberato. Per me solo la scrittura è una vera terapia. Nella mia vita ho scritto molti libri e ho sempre notato che quando scrivo una lettera, una lettera molto intima, è per me un incredibile sollievo. E tutto ciò che ho scritto era solo per arrivare alla liberazione o per avere l’illusione della liberazione, del sollievo. Questo è il motivo per cui ho scritto – altrimenti perché avrei dovuto scrivere? In teoria non credo nell’utilità della scrittura o nell’avere un “nome” oppure no. Esprimere queste sensazioni di oppressione, come uomo del naufragio, è stata la mia forma di salute. Sono sicuro di non essermi rovinato soltanto perché ho scritto, perché mi sono espresso. Se non mi fosse rimasto questo, mi sarei sicuramente rovinato. Ho sempre pensato che mi sarei rovinato e non avrei raggiunto i trent’anni – questo era per me il limite. Invece? Sono diventato vecchio. Ma questo ha una certa unità, perché le mie idee o le mie ossessioni sono in fondo coerenti. Ho sempre scritto la stessa cosa sugli stessi problemi. È un ruminare, un ruminare all’infinito cose impossibili, di qualcuno che ha vissuto appartato e che è stato volontariamente inutile.

167

Ultimatum all’esistenza

A questo punto vorrei parlare della tesi che mi è rimasta dopo la lettura. Due cose: la prima, che la lingua, come ha già detto, è stata per lei il mezzo migliore per sopravvivere. Io credo però che il mezzo migliore sarebbe stata la meditazione. E inoltre che non è stato il suo legame con i filosofi che prima ha nominato, con i filosofi della vita, a essere decisivo, ma quello con la filosofia idealistica, dialettica. Ho l’impressione che il principio di negazione come suo principio generale segua in fondo soltanto un impulso: giungere alla redenzione assoluta, allo stato primordiale, al puro stato prenatale. Questo è assolutamente corretto. E questo significa che, se questa attività della negazione potesse essere praticata nella forma più conseguente, la scrittura sarebbe per lei superflua, e sarebbe allora raggiunto lo stato della coincidenza di essere e di nulla: il Nirvana, lo stato assoluto della meditazione. Non ci sarebbe più da lamentarsi del problema di un mondo che si sta decomponendo, ci sarebbe soltanto la semplice contemplazione del nulla. Quando parlo di filosofia della vita, questo appartiene solo alla mia gioventù ed è ora del tutto superato. Ma ciò che dice è molto vero. La mia tragedia, se posso usare parole così grosse, è stata che ho constatato, che mi sono reso conto che, sebbene fossi molto attratto dal buddhismo, non potevo essere un vero buddhista. Per anni mi sono – come posso dire? – dato delle arie e mi sono detto: «Ma tu sei un buddhista!». Avrei voluto essere buddhista, ma non potevo. Questa impossibilità mi ha reso un po’ umile. Perché dopotutto – lei ha ragione – di regola avrei dovuto superare tutte queste preoccupazioni, la paura della morte e tutto il resto. Ma qualcosa in me mi ha sempre trattenuto, come un ostacolo. Quindi non sono stato in grado di redimermi attraverso la visione dei buddhisti. C’è una scuola buddhista che mi ha impressionato molto: la Scuola Madhyamika. La Scuola Madhyamika viene generalmente considerata come estremamente nichilista. È l’idea della redenzione attraverso la negazione assoluta, attraverso lo sviluppo

168

Intervista con Hans-Jürgen Heinrichs

dialettico e, come lei dice, logico: tutto esplode sotto l’analisi e la dialettica – poi arriva la liberazione, e tutto è superato. Ero molto, molto attratto e affascinato da questa filosofia. Ancora oggi considero come la somma, come il punto più alto che lo spirito umano abbia raggiunto una meditazione alla maniera della Scuola Madhyamika, ossia: l’analisi e la distruzione di tutti i concetti, di tutti i sistemi, e così il Nirvana appare all’orizzonte. Per me il Nirvana all’orizzonte era soltanto una fascinazione. Ho notato che tengo a tutto ciò che disprezzo. In fondo, non avevo una vocazione spirituale; anche se, nella mia gioventù, la mia vita spirituale era molto più intensa di adesso. Con gli anni sono diventato più superficiale e persino più frivolo. Ero deluso di me stesso e ho capito in seguito che non avevo, per così dire, una carriera metafisica davanti a me. Da questo punto di vista, devo riconoscere che la mia vita è un fiasco. Ma in teoria avevo capito: sapevo esattamente che direzione avrei dovuto seguire. Solo che non l’ho fatto. Sono troppo letterato, troppo ossessionato dalla lingua. Non era nel mio destino che io mi realizzassi, mi perfezionassi spiritualmente e facessi progressi, questa vera liberazione, che mi redime dai concetti di decadenza, dalla paura e da tutto il resto. Penso che ci sia qualcosa di impuro dentro di me, di cui non posso liberarmi. Onestamente, anch’io mi devo considerare un “raté”, uno spirito fallito. Non sono stato degno del mio ideale. Devo dire che con l’età le cose vanno male, sempre, per questo odio le persone anziane, le donne, gli uomini, sono assetati di gloria, avidi di tutto ciò che detesto. Credo che dopo cinquant’anni le persone dovrebbero scomparire: estinguersi. Io stesso, se mi paragono a quello che ero, sono la caricatura di me stesso – spiritualmente parlando. Ed è per questo che non si dovrebbe essere interessati a invecchiare. Ho sempre creduto che sarei morto giovane. Ma non mi è stato concesso. Sembra quasi che molti che vivono sull’orlo del suicidio vivano meglio e più a lungo. Questa è la più grande ironia. Per tutta la vita ho pensato solo al

169

Ultimatum all’esistenza

suicidio, ho parlato così tanto del suicidio, ne ho anche scritto. In verità potevo vivere soltanto con quest’idea. È stata un rifugio per me. Non è un’idea molto dignitosa, in ogni caso, mi sono sempre detto: «Puoi sopportare la vita perché puoi ucciderti quando vuoi». L’idea del suicidio è stata per me un così grande aiuto, e sono persino dell’opinione che dovrebbe essere raccomandata nelle scuole e nelle chiese a coloro che sono oppressi e che non trovano una via d’uscita. A Parigi ci sono persone che vengono da me, giovani ragazze che sentono l’impulso di uccidersi e sono riuscito ad aiutarle dicendo che si può vivere molto bene con l’idea del suicidio. Senza l’idea del suicidio la vita sarebbe insopportabile! La concezione negativa del suicidio è del tutto stupida, e la mia obiezione al cristianesimo è che non ha capito quest’idea e che l’ha combattuta per duemila anni. Al contrario, è un’idea molto utile, che dà l’illusione della libertà. È molto importante disporre della propria vita, fare ciò che si ama e che si vuole – anche uccidersi, ovviamente. Quest’immagine che lei ha di sé stesso come essere impuro e malriuscito è legata al rapporto con suo padre, che era prete e quindi ha esemplificato un ideale di massima purezza, o perlomeno la tendenza alla purezza? C’è, a quanto vedo, nei suoi aforismi soltanto un’annotazione sull’infanzia, che ricordo essere stato il periodo più bello della sua vita, e che non vorrebbe scambiare con nessun altro paesaggio sulla terra. Il che è al tempo stesso sorprendente, perché l’infanzia è anche qualcosa di barbaro, innanzitutto dal punto di vista della servitù sotto il padre. Per me vale il contrario. Credo di essere stato molto infelice nella vita perché la mia infanzia è stata così straordinaria. Sono nato nei Carpazi, in un villaggio molto bello, e lì ho vissuto, per così dire, come un animale selvatico – ero completamente libero. E i miei genitori sono stati comprensivi, non mi hanno tormentato. Credo di essere stato punito nella vita per aver avuto un’infanzia del genere. Ho dovuto pagare per questo – bisogna sempre pagare, non è vero? – e questo era il motivo. Non avrei mai voluto lasciare quel villaggio, quella vita selvaggia

170

Intervista con Hans-Jürgen Heinrichs

in montagna. Quando sono andato al liceo a Hermannstadt ho pianto così tanto. Iniziò il mio tramonto: la caduta dalla mia infanzia in questa vita. E ancora adesso sono molto felice se posso fare un lavoro manuale, da qualche parte in giardino. Tutto ciò che non è intellettuale mi piace immensamente. La mia infanzia è stata la pre-civilizzazione: un villaggio totalmente primitivo. Per me la civiltà è stata una caduta: una catastrofe. L’ironia è che vivo a Parigi da più di quarant’anni. L’ironia è anche una condanna. Ora, devo ricordare che in vita mia ho letto davvero molto, troppo, in gioventù in Romania spesso fino alle quattro del mattino. Ho letto tantissimo, ma per disperazione, solo per non pensare. Ho studiato filosofia, ma ho evitato la filosofia, il filosofare – volevo solo accumulare confessioni e libri –, una paura della vita. E questo è durato alcuni anni, circa fino ai ventun anni. Poi ho presto notato che la verità non è nei libri – è nelle sensazioni. Solo ciò che si è vissuto è ricco di idee. La sostanza nelle sensazioni – non nei libri, non nelle idee. Devo dire che quasi tutto quello che ho scritto è davvero sentito e vissuto. Questa è forse la mia grande scusa, che non è teorica, ma fisiologica. Tutto ciò che ho scritto può essere tradotto in termini fisiologici. O per dirla in altro modo: potrei dire, in riferimento a tutto ciò che ho scritto, che proviene, che nasce da questa sensazione, da questo sentimento o da questa esperienza. Tutto è stato in qualche modo concreto. Per me questo è il punto di partenza: riguardo tutto ciò che ho scritto, potrei dire che è sorto in questo o in quel momento, sotto queste condizioni, in questo stato. Ciò non è necessariamente un vantaggio e per un filosofo non è importante – ma io non sono un filosofo. Sono al margine della letteratura. Una volta lei ha detto che tutto ciò che si scrive riguarda in fondo Dio o sé stessi. Ma con quello che dice ora si aggiunge una terza dimensione: il situazionale. Il fisiologico è uno stato nel quale si conosce sé stessi. Ma non ci si conosce mai indipendentemente da una situazione. Per questo ho trovato questa frase molto insoddisfacente, perché esiste sempre un immenso numero di relazioni coscienti, inconsce, complicate, situazionali, anche spaziali tra

171

Ultimatum all’esistenza

Dio, come metafora dell’inafferrabile, e la propria esperienza corporea. E di questo fa parte per esempio anche una città come Parigi, dove si sentono le cose in una maniera completamente differente rispetto al suo giardino. Sa, questa storia con “io” e “Dio” – Dio, come lei dice, come “metafora” – è davvero molto importante, perché per tutta la vita sono stato dominato dalla sensazione di solitudine. Sono molto socievole, sono noto come una persona socievole e conosco tantissime persone. Sono spesso invitato, mi piace molto mangiare, ecc. – ma in fondo la solitudine è stata per me la più grande esperienza. Ho sempre avuto la sensazione di essere solo. Non so spiegare bene perché. È così. L’idea che in fondo esistano solo “io” e “Dio” – ciò che intendevo con questo non era un concetto metafisico e nemmeno un concetto teologico. È solo l’espressione finale di questo sentimento di solitudine… quando tutto, tutto scompare, tutto perde di realtà. E lo sperimento quasi ogni giorno. Ho la sensazione che tutto ruoti intorno a questo “io” e poi intorno a questa metafora, “Dio” – e tutto è scomparso. È come il limite, il limite estremo, che raggiungo più o meno ogni giorno. Quindi ho bisogno di questo concetto, di “Dio”: dà il significato di una conversazione, sebbene non ci sia conversazione, solo l’illusione della conversazione, sostituisce un po’ il dialogo. Dà l’illusione – è sopportabile –, l’illusione della comunicazione. Quindi “io” e “Dio”, e tutto è niente! Io stesso non sono niente – e anche Dio. Forse è anche questo il punto che le ha impedito di rivolgersi a un’altra religione. Lei ha bisogno dell’idea del Dio personificato…? …della conversazione. Per me Dio è – come posso dire? – quando si è raggiunto questo limite estremo. È questa solitudine estrema. E ciò caratterizza l’estrema solitudine per noi che siamo involontariamente cristiani. L’idea della conversazione, della comunicazione, forse non ha alcun significato per un buddhista, lui l’ha superata, noi no. È istintivo per le persone in Oriente. Io naturalmente non credo in Dio, ma Dio

172

Intervista con Hans-Jürgen Heinrichs

è nondimeno per me una realtà, perché ho un dialogo con qualcuno, quando non c’è più nulla c’è Lui, con cui parlo senza parole. Ciò significa che non posso sopportare la solitudine assoluta. Ed è per questo che, come lei ha detto una volta, in una conversazione ci si dovrebbe comportare come un epilettico. Lo stato di estasi rende la conversazione senza senso… …e inutile. Il reale ha un significato religioso, ma in verità gira tutto intorno alla solitudine, in fondo l’individuo è assolutamente solo. E Dio è l’invenzione di questa solitudine. È molto giusto quello che dice: “Dio” è una metafora. Ma questo ci appartiene, perché il monoteismo ci ha plasmato, sin dall’infanzia. Normalmente non dovrei parlare di “Dio”. Perché? Ma lo faccio. Mettendo ora insieme alcune delle cose che ha detto e ha scritto, la definirei un “mistico della vita prenatale”. Suona molto bello. Da un lato, lei dice che tutti i vissuti che meritano di essere esternati sono già stati espressi dai mistici. Dall’altro, spinge l’esperienza della solitudine fino allo stato prenatale, perché con la nascita inizia il terribile. L’esperienza del mistico e il desiderio dello stato precedente, dello stato prenatale, caratterizzano entrambi il “mistico del prenatale”. Esatto. Un libro che ho scritto, L’inconveniente di essere nati, contiene un’idea davvero folle. Che cos’è l’essere prima di esistere? Logicamente non ha nessun senso, invece emotivamente sì. È un’idea istintiva. Devo dirle una cosa, visto che ha parlato dei miei genitori, di mio padre: mi sono liberato dalle mie origini. Ma stranamente sono attratto dai bogomili, da questo manicheismo balcanico, dall’idea che la nascita sia una catastrofe. È stato quasi inevitabile che io tornassi

173

Ultimatum all’esistenza

inconsciamente alle mie origini. L’idea che non Dio, ma Satana, un piccolo Satana, “Satanael”, abbia creato il mondo, mi ha affascinato. Per questo ho scritto il libro Il funesto demiurgo, ispirato un po’ dai bogomili. Che io sia ritornato alla mia patria originaria, a questo mondo spirituale sul Danubio, ai Carpazi, che io, dentro di me, a Parigi, sia tornato a quest’idea, lo trovo curioso. L’idea, come lei dice, di una “mistica del prenatale” appartiene a questo mondo: all’Oriente. Anche se volevo liberarmi dalle mie origini, non ci sono riuscito. Perché alla fine tutte queste idee – il manicheismo e anche la gnosi, una gnosi forse un po’ degenerata –, provengono in parte dai Balcani. Non ci si libera del proprio “commencement”, della propria origine. Ho scritto molto contro la mia madrepatria, per esempio che essere romeno è ridicolo, e ho notato allo stesso tempo che nella vita sono molto fatalista. Il fatalismo è la religione nazionale in Romania, tutti sono fatalisti, nella vita quotidiana e in ogni cosa. Quindi – non ci si libera di sé stessi. Da un lato si potrebbe dire che la sua vita è una vita fallita, la sua opera è un’opera fallita, che si orienta in realtà solo verso contraddizioni e in fondo contrapposizioni irrisolvibili, verso le discrepanze tra una religione europea e una extra-europea, tra un pensiero europeo e uno, diciamo, arcaico. È la difficoltà di conciliare la propria vita, che vuole installarsi al di fuori della funzionalità, con l’accadere della storia del mondo, che appunto è considerato come l’accadere della decomposizione. Così, da un lato, ci sarebbe la possibilità di considerare la sua opera come un fallimento, perché la vita è fallita e l’opera è nata solo da una proiezione delle possibilità di vita fallite. E che, ad esempio, per una teoria della storia come storia di decomposizione interminabile non esistono prove oggettive, ma soltanto l’esperienza soggettiva. D’altra parte, ha senso descrivere questa vita e quest’opera come il tentativo di un’esperienza assoluta, deludente, di descrivere il mondo e di raffigurare tutte le rotture, anche i naufragi reali e le reali insolubilità, come la descrizione adeguata, come la più adeguata descrizione possibile della posizione dell’uomo nel mondo. Sono possibili due interpretazioni molto contraddittorie della sua opera.

174

Intervista con Hans-Jürgen Heinrichs

Sa, ho sempre vissuto nelle contraddizioni e non ne ho sofferto. Se fossi stato un sistematico, avrei dovuto mentire, avrei dovuto trovare una soluzione. Ma ho accettato l’insolubile e, devo dire, provo persino una certa voluttà, la voluttà dell’insolubile. Non ho mai cercato di appianare – i francesi dicono “concilier” –, di conciliare. Ho sempre accettato le contraddizioni così com’erano, e anche tutto ciò che ho vissuto, sia nelle mie questioni personali sia in quelle teoriche. Non ho mai avuto un obiettivo, non ho mai voluto trovare un risultato. Credo che in sé e per sé non possa esistere alcun risultato, alcun obiettivo. È tutto – non privo di senso, la parola sarebbe troppo forte, ma in fondo non necessario. Per questo non ho potuto fare nulla nella vita perché non è necessario. Perché devo fare qualcosa? Ma qualcosa ho fatto, solo che era istintivo. Se fossi stato del tutto coerente, di norma non avrei dovuto fare assolutamente nulla. Facendo qualcosa, mi sono contraddetto, ho vissuto nella contraddizione. E credo che tutti in fondo vivano così. Le racconterò una cosa, forse totalmente stupida: quando lei va a un funerale – è banale eppure importante –, quando vede che un amico, insieme al quale due o tre giorni prima ancora rideva, scompare senza lasciare alcuna traccia – come si può, dopo di ciò, costruire ancora un sistema? Per me è inconcepibile! Un mio conoscente, cui volevo molto bene, un ebreo polacco, un uomo simpaticissimo e interessante, con il quale ho riso molto su tutto – era ancora più nichilista di me. Ma al suo funerale: per me è stato, come posso dire? È banale, lo sanno tutti. Ma se lo si traduce in termini filosofici – qual è la conclusione? La conclusione è: persino il nichilismo è una dogmatica. È tutto ridicolo, senza sostanza, finzione. Per questo non sono un nichilista, perché il nulla è ancora un programma. In fondo è tutto irreale. Tutto esiste in superficie, tutto è possibile, tutto è dramma. Esiste l’amore – e mi sono sempre chiesto: «Se si è capito tutto, come ci si può innamorare?». Ma questo succede nella vita, mi ha sempre fatto ridere. Questa è la verità e la cosa interessante nella vita. Ora divento completamente ottimista: la vita è davvero interessante e ha una forza di attrazione perché non ha alcun senso. E perciò faccio sempre questo esempio: si può asso-

175

Ultimatum all’esistenza

lutamente disperare, essere nichilista, e tuttavia innamorarsi come un idiota. Quindi questa impossibilità teorica, che però nella vita è del tutto possibile, fa sì che la vita abbia innegabilmente un certo fascino. Si soffre, ci si ride sopra, si fa quello che si vuole, ma questa contraddizione fondamentale, questa impossibilità fondamentale, rende forse la vita degna di essere vissuta. Quando lei va a un funerale… e il suo amico è steso laggiù nella tomba… e dopo lei ha un appuntamento con una donna – voglio dire, è impensabile. Com’è possibile? Ma com’è possibile questo? Ma è possibile, e questo è ciò che rende la vita interessante, questa impossibilità assoluta, teorica e anche pratica. Per me è una contraddizione fondamentale, perché di norma o vorrei suicidarmi o dormire tutto il giorno. Ma no! Ho nemici e amici, sono coinvolto, ecc. So che è un gioco – ed è appunto questo che è interessante della vita. Un termine del Vedanta, il più grande sistema metafisico dell’India, per l’idea che tutto, la creazione, è solo un gioco. La parola per questo è “l¤la”. Per me la filosofia indiana è la più grande e la più profonda, la filosofia tedesca viene solo al secondo posto, dopo quella indiana. Nel Vedanta l’idea del gioco è un’idea principale, la più grande che ci possa essere: l’intera creazione è solo un gioco della divinità. E, mio Dio, si sa che è così: un gioco. Eppure ci si tormenta, si vive, si hanno relazioni, storie d’amore. La cosa interessante è l’impossibilità teorica delle passioni – non esiste nessun fondamento teorico, filosoficamente è impossibile, assurdo, ridicolo. Ma queste passioni esistono. E lei può avere una coscienza metafisica e comportarsi come un cameriere o, Dio solo sa, come un idiota. E questo è il fascino della vita, questa impossibilità quotidiana, questa follia: si sa che tutto è privo di senso e infondato, ma si hanno tutte le passioni, come le persone che non ci pensano mai. E questo è ciò che trovo interessante della vita, questa contraddizione essenziale e questa impossibilità essenziale: ciò rende la vita sopportabile. Leggendo i suoi libri mi sono spesso chiesto come mai qualcuno, solo a partire dall’esperienza della solitudine, del dubbio e della disperazione, scriva con una tale sicurezza frasi di un’incredibile chiarezza ed evidenza.

176

Intervista con Hans-Jürgen Heinrichs

E credo che in questa sfera ci sia qualcosa come un momento di saggezza. L’esperienza dell’assenza di senso crea uno spazio libero per la disillusione, che permette di scrivere in una maniera diversa da chi deve considerare in continuazione sé stesso e gli altri, la propria moralità e i tentativi di un’interpretazione del senso. Mentre, quando si è guadagnato questo livello di esperienza, cosa che credo debba fare ogni persona che vive la vita con una certa consapevolezza, è inimmaginabile che uno non conosca l’assenza di senso... …è impossibile! Ma come si fa a gestire? Ho la sensazione che lei, avendo trovato la scrittura come “professione”, e anche con questa continuità, sia riuscito a non impazzire e a non tacere. Lei “flirta” con il silenzio perché il silenzio le sembra la forma più appropriata. Sì! …e allo stesso tempo la scrittura è l’impulso che la tiene in vita. Si crea una strana contraddizione: voler tacere, ma dover scrivere per poter vivere. È assolutamente vero quello che dice. Sa, non ho mai scritto come autore; mi creda, non sono assetato di gloria e non mi comporto come un autore, e non posso sopportarlo nemmeno se lo fanno altre persone. Non sono mai stato prudente e ho detto tutto quello che mi passava per la testa. In questo modo ho in un certo senso smascherato l’esistenza e per questo mi considerano un cinico. Sono cinico soltanto nell’espressione, per il resto, nella mia vita, non lo sono per niente. Eppure riconosco il valore del cinismo come atteggiamento tassonomico. Ho sempre detto che si dovrebbe scrivere ciò che nel momento viene vissuto come verità, anche ciò che non si dovrebbe dire, anche se potrebbe essere imbarazzante, frivolo o spudorato. Per me non esiste nessun limite nell’esprimere il sentimento della verità, quando voglio scrivere o sapere qualcosa. Non ho mai, mai pensato alle conseguenze.

177

Ultimatum all’esistenza

E nessuno si è suicidato per questo. Al contrario, conosco molte persone che dicono: «Grazie a lei non mi sono suicidato». E le persone che soffrono di depressione, quando mi leggono, capiscono che si può andare ancora oltre nella depressione. La depressione stessa è uno stadio del cammino della vita, per dirla con Kierkegaard. Quindi non ho l’impressione di aver avuto, se posso dire così, una carriera negativa. E comunque, sa, alla fine tutto è lo stesso, no? Ha perfettamente ragione quando dice che la mia opera è fallita, tutto quello che ho fatto. Ma doveva essere così, perché altrimenti sarebbe stato sbagliato, avrebbe avuto un obiettivo, avrebbe portato a qualcosa. È questa la realtà dei fatti. Doveva fallire perché tutto è fallito. E ciò, volevo dire, è anche la cosa interessante della vita. Il fallimento è quasi l’essenziale della vita. Il fallimento è più importante della morte, una legge universale di tutto quello che vive. Tutto deve fallire, e fallisce! Per me ciò non è necessariamente deprimente. Fa parte del gioco – la morte è solo il coronamento di un grande fallimento, la morte è la conseguenza amministrativa. Ma questo non deve necessariamente condurre alla disperazione. È davvero così: ciò che si chiama “speranza” – tutti vivono con la speranza – è qualcosa di assolutamente falso in sé e per sé. Si può essere disperati e avere speranze. Fa parte di questo gioco. Ho spesso creduto di essere totalmente senza speranza. Non è vero, ho speranze come tutti gli altri. Ma so che le mie speranze non sono reali. E questa è l’unica differenza tra la mia visione del mondo o, forse è già dire troppo, il mio atteggiamento e quello degli altri. Ho tutte le speranze e faccio tutte le stupidaggini che fanno gli altri. Ma sono assolutamente consapevole dell’inconsistenza di tutto ciò che faccio. Così sono nella vita: come essere vivente non sono un vero essere vivente – sono doppio. Sono in entrambe le cose e tutto quello che faccio è doppio. Da un lato c’è l’atto della vita e dall’altro la comprensione che tutto… Mi sono interessato a Valéry, sa perché? Ero studente in Romania e ho letto in una rivista una citazione di Valéry, non mi viene in mente... non ricordo esattamente…, l’idea che tutto sia inganno.

178

Intervista con Hans-Jürgen Heinrichs

Ricordo soltanto che lei considera il fatto che Valéry sia stato compreso come una grande disgrazia. Sì. La sua opera mi ha in un certo modo impressionato. Valéry – non mi piace come poeta, ma come spirito sì – era un uomo privo di illusioni e in fondo anche disperato. Quello che trovo molto importante in ciò che lei ha detto, e che rafforza la mia convinzione, è che c’è una differenza basilare tra quello che viene chiamato “pessimismo”, “nichilismo”, e l’esperienza antecedente della disperazione e del declino. Quindi, il pessimismo è un sistema alquanto facile da liquidare, cui ci si può opporre argomentando, ma l’esperienza di cui lei parla è legata alla vita di ogni singola persona, ed esiste dunque un’esperienza “pessimista” al di là della quale nessuno può porsi. Ci si può sempre collocare al di là di un sistema pessimista, ma mai oltre l’esperienza del pessimismo. È giusto. Dicono che sono pessimista – non è vero! Queste categorie pedantesche sono ridicole. So esattamente che cos’è il pessimismo. Ma, come lei dice, si tratta dell’esperienza di essere un essere vivente. Non si è pessimisti nella vita, non ha senso. Si è come gli altri, e parlo di cose vissute. Ho fatto l’apologia della scepsi e anche quella del pessimismo, ma questo non è importante. L’importante è ciò che viviamo e come lo esprimiamo. Quando otto o nove anni fa ho notato per la prima volta i suoi lavori, ho provato un certo timore, forse per un senso di affinità con esperienze che non volevo affrontare. Molto simile a ciò che si prova leggendo Nietzsche, dove si ha la sensazione di essere poi completamente nell’esperienza e che non si può soltanto “spiluzzicare”. Ho avvertito molto velocemente che il suo pensiero vive della rispettiva esperienza e non del desiderio di sistematizzare l’esperienza e in questo modo di liquidarla. Contemporaneamente, ho avuto l’impressione che lei ripetesse solamente un gran numero di idee, di strutture, che sono state proposte dalla storia del pensiero, e lo facesse in

179

Ultimatum all’esistenza

una forma molto arguta: certe esperienze di pensiero della filosofia occidentale, soprattutto dell’idealismo – e qui innanzitutto la negazione, quindi una parte del pensiero dialettico –, che lei, come ha detto prima, assolutizza e rende unilaterale. E poi certi princìpi della filosofia della vita: la domanda sulla nascita, sugli stadi della vita, sull’età, sul flusso della vita nel quale lei si inserisce. Ed è strano come ci si senta così tanto familiari con i suoi testi. Nonostante tutta la disperazione che esprimono e la negazione, non sono per nulla testi che rendono depressi o soli, ma testi che ti fanno addirittura sentire a casa. E me lo spiego non solo perché ci si vede confrontati con esperienze simili, che solitamente non sono espresse in modo così crudo, ma anche perché lei ripete l’intera storia del pensiero occidentale, arricchita dalla filosofia orientale, in una maniera molto semplice, anche semplificata, falsata. E mette la soggettività del suo punto di vista laddove, per esempio, Johann Gottlieb Fichte ha cercato di arrivare quando ha posto l’Io, che poi ha visto nuovamente tolto nel sapere, volendo riflettersi all’infinito in una riflessione filosofico-trascendentale. Lì, a un certo punto, lei pone semplicemente il soggetto che sta facendo l’esperienza – ciò che un filosofo trascendentale non si permetteva: argomentare in maniera così immediata, così da “filosofo della vita”. Questo mi sembra quindi essere lo spettro che crea una vicinanza con i suoi lavori. È del tutto corretto: “esperire” è la parola giusta per quello che sento e penso, tutto è riferito a questo. Vorrei dire una parola su Nietzsche. Nietzsche ha avuto una grande influenza su di me in gioventù. Adesso mi sento molto lontano da lui. Perché? Perché ha costruito la sua teoria. Ha scritto, creato, elaborato un ideale, un’idea dell’uomo, dei valori “en fonction de”, come dicono i francesi, in funzione di questa visione. E così ho avuto l’impressione che fosse tutto un po’ sbagliato. Come profeta, persino come analista – anche quando è analista, è ancora profeta – voleva a tutti i costi “portare” qualcosa, creare qualcosa, giocare un ruolo nella cultura, ecc. E si immagini: oggi posso leggere con piacere soltanto le sue lettere, perché nelle sue lettere è l’opposto di quello che è nei suoi scritti. Nelle sue lettere si vede com’era: un povero diavo-

180

Intervista con Hans-Jürgen Heinrichs

lo. E tutti questi eroi, questo eroe del pensiero che ha un ruolo nei suoi libri, questa megalomania, mi sembra sbagliata. Anche se senza dubbio geniale, è in qualche maniera non veritiero. Per me Nietzsche è nelle lettere, lì Nietzsche è sé stesso. Per questo mi sono allontanato da gran parte delle sue opere. Nietzsche si è imposto una visione del mondo. Non più libero dalle sue idee e dai suoi scopi, è diventato completamente dipendente, schiavo delle sue idee. Per me non è stato un uomo libero, almeno non nei suoi libri. Riconosco il vero Nietzsche soltanto nelle sue lettere. Forse esagero un po’, ma c’è qualcosa di vero in quello che dico. Era l’eroe della mia gioventù; ora non più – anche se è acuto e cinico, per me è troppo “giovanile”. Nietzsche non ha espresso le sue esperienze di vita, ha sempre avuto solo un’idea: bisogna superare, superare, superare – questo in fondo è molto tedesco. Forse è questo l’errore dei tedeschi in generale e anche del pensiero tedesco: bisogna superare, bisogna costruire, bisogna fondare. E perciò la storia tedesca è un fallimento senza eguali, una catastrofe, perché i tedeschi hanno costruito la loro storia. I tedeschi mancano di saggezza, hanno genio, ma nessuna saggezza. Non vivono la storia e la vita stessa, vogliono sempre fondare – costruire. E in filosofia ciò che viene raggiunto è solo sistema. Che tutto debba essere omogeneo è, direi, un peccato idiota, persino una tara. Sono troppo sistematici, hanno vissuto e crea­to una storia sistematica e ne hanno tratto le conseguenze. I tedeschi erano fuori dalla vita. Credo che la storia tedesca in generale sia stata in qualche modo a parte – profonda e separata. C’è qualcosa di irreale nell’intero destino tedesco. È un popolo impressionante e tragico, anche perché i tedeschi si sono presi molto sul serio e non ci hanno mai riso sopra. Non esiste un’ironia tedesca, i tedeschi hanno scritto sull’ironia, ma non l’hanno mai vissuta o “pratiqué” – praticata, ne hanno solo parlato e ragionato. E questa è la causa del fallimento tedesco. Perché, in fin dei conti, considerando che la nazione tedesca era la più geniale d’Europa, in ogni caso la più dotata, è un fallimento che una nazione del genere abbia potuto rovinarsi in questa maniera, quasi senza precedenti; non solo la seconda guerra mondiale, anche la prima. Ma la storia tedesca

181

Ultimatum all’esistenza

e lo spirito tedesco erano in qualche maniera al di là, perché si pensava troppo in modo sistematico. È vero: i tedeschi non hanno nessuna “sagesse”, nessuna saggezza, si deve riconoscerlo, per quanto sia strano. Si potrebbe dire che questo principio della costruzione, della fondazione, delle innovazioni, delle invenzioni, del progresso, sia il principio generale di una storia che lei descrive come una storia di declino? Sì. Le sue esperienze e il suo sapere rispetto a questa concezione della storia derivano principalmente dalla storia dell’età moderna o vede quest’esperienza compiuta nel tramonto delle culture arcaiche verso le cosiddette società civili? Quest’ultima cosa non direi – ho riflettuto molto sulla storia –, proviene principalmente dall’età moderna. Devo confessare che mi sono dedicato molto alla caduta dell’Impero romano, in una maniera persino morbosa, era per me come un’idea fissa e un’ossessione. Ho letto molto al riguardo e le ultime tracce del paganesimo mi hanno sempre rattristato – anche per questo sono contro il cristianesimo. In realtà non è il problema della “décadence”, ma dell’esaurimento – come una nazione perde il proprio genio per esaurimento interno. Naturalmente le nazioni vengono spesso distrutte dalle invasioni, ecc., ma qui sto parlando soltanto di una civiltà che ha davvero un destino. È strano vedere come da un momento all’altro ci sia una svolta: si vede, si sente – e ciò può accadere in questa maniera anche in un individuo, in un singolo essere – che non si crede più in sé stessi. E appunto, questo è molto importante per una civiltà. Con i romani lo si poteva vedere bene: l’inevitabilità del fenomeno, l’impossibilità di salvare una civiltà, così come un individuo, così come una cultura. Da qui, quando parlo del “fallimento” di una civiltà, di un individuo, deriva il mio sentimento, il mio affetto per questo fenomeno. In fondo mi interessa un popolo soltanto

182

Intervista con Hans-Jürgen Heinrichs

dal momento in cui qualcosa non funziona più. Si vede: qualcosa si è rotto. E lo continuo a dire, non perché godo del male altrui, davvero no – ma perché è quasi l’inizio della saggezza. Quando si è in declino, la coscienza è molto più forte, molto più ampia. C’è un distacco da sé stessi, si è, per così dire, fuori di sé, fuori da sé stessi. La decadenza come fenomeno in sé e per sé è, filosoficamente parlando, un “fuori”. Vale per la coscienza collettiva e anche per l’individuo, il fatto che non si è più “dentro”: qualcosa si è rotto in qualcuno – e attraverso ciò si capisce che si vive, anche se forse è troppo tardi. Di colpo si è consapevoli di sé stessi e del proprio destino. E lo stesso vale per una civiltà, no? Con “decadenza” non intendo un concetto politico, sarebbe troppo semplice, in fondo è ovvio e non interessante. È il processo psicologico che avviene quando un individuo, una collettività e un popolo entrano in qualcosa di nuovo e sentono di essere condannati. Quest’idea della maledizione, anche per l’individuo, la sensazione della “malédiction” nasce nel momento in cui qualcosa va storto. È incurabile, non è una malattia, ma l’individuo non è più quello di prima. E allo stesso modo può valere per una civiltà ciò che Galiani e altri già nel XVIII e XIX secolo hanno scritto sull’Europa: la sensazione che si stia gradualmente giungendo alla fine. Le civiltà mature che possiedono questa coscienza mi hanno sempre attratto. Naturalmente anche l’ascesa è interessante, l’alba di un popolo, di una civiltà, ma per il livello filosofico preferisco il tramonto. Si è filosoficamente molto più avanzati di qualcuno che ha “capito”. Per me ci sono solo due categorie di persone: quelli che non hanno e quelli che hanno “capito”. Posso apprezzare soltanto qualcuno che ha “capito”. E questo non ha nulla a che fare con il livello intellettuale in generale. Alcuni, che sono poco istruiti, hanno “capito”, altri, molto colti, invece no. Conosco persone, il cui livello filosofico è immenso, che, sebbene non abbiano letto i grandi filosofi, hanno sensibilità per questa “svolta”: qualcosa non è più ciò che era, ed è perduto per sempre. Questo mi ha sempre attratto nella storia, perciò mi sono interessato a Roma e alla storia moderna. Ho notato subito, ed è molto interessante da vedere, che le persone che sono arrivate

183

Ultimatum all’esistenza

qui dall’Europa dell’Est hanno la stessa prospettiva: qualcosa va storto. Non possono spiegarlo, ma lo sentono. Quello che rende la storia interessante, come ricerca e come realtà, è quando si verifica questa svolta. Pertanto si deve vedere la decadenza solo da questo punto di vista. Devo dire che nutro un grande amore per la Spagna, l’unico Paese che possedeva l’ossessione della decadenza. E questo molto presto, dopo la Conquista, dopo la grande epoca e la fine delle conquiste. Seguirono poi due o tre secoli dominati dall’idea di decadenza, che è diventato il concetto centrale della storiografia spagnola. Ecco perché ho un grande debole per la Spagna, perché la Spagna esercita su di me una tale forza di attrazione. Prima della guerra volevo andare in Spagna per ascoltare le lezioni di Ortega y Gasset. Due mesi prima avevo fatto domanda e aspettavo una borsa di studio. Ma poi è scoppiata la guerra civile, altrimenti la mia vita sarebbe andata in maniera completamente diversa. Forse sarei diventato spagnolo e in ogni caso sarei rimasto in Spagna. Mi ha davvero affascinato che un popolo così straordinario come quello spagnolo, per intero, avesse al proprio apogeo la consapevolezza del declino. Hanno sempre continuato a scriverne e a pensarci, si sono immersi nella loro sconfitta, e se ne sono compiaciuti. I popoli che hanno mancato il proprio destino mi sono sempre piaciuti immensamente. Da questo punto di vista, anche i tedeschi. Essi non hanno la storia che avrebbero potuto meritare. Con un Bach, un Hegel, un Kant o un Hölderlin, la Germania avrebbe dovuto avere un’altra storia. Ma si è lasciata sfuggire la sua storia. Non è riuscita a essere ciò che avrebbe dovuto essere. Mi piace questa dimensione patetica della storia. L’Inghilterra non mi ha mai interessato come destino – non ha un destino, e in fondo nemmeno la Francia. La Germania invece sì: come un genio che non si è realizzato. A questo punto vorrei parlare di due cose. Una è il rapporto tra il reazionario e il rivoluzionario in lei. Ma prima: da qualche minuto ho avuto l’impressione che lei avrebbe dovuto scrivere soltanto un’opera, ossia l’Edipo. Nel destino di Edipo è contenuto tutto.

184

Intervista con Hans-Jürgen Heinrichs

È vero, è la pura verità, l’inevitabile... …la figura di Edipo è la sua figura. …cerca il proprio tracollo... …e con quale violenza, passione ed estasi! Ha fatto tutto per distruggersi... …e diventare infelice. Qualche giorno fa ho visto un film di Pasolini che ha messo in scena il destino di Edipo in una forma incredibilmente bella, perché rappresenta Edipo come una persona che vive e va in giro adesso. Anche in altri punti della nostra conversazione ho pensato a Pasolini, per esempio al significato che ha attribuito alla povertà, non come una categoria politica o una miseria sociale, ma piuttosto come opportunità per l’essere umano di vivere le sue possibilità. È una chance spirituale. L’incertezza è assolutamente necessaria; per esempio, uno scrittore, la cui vita è sicura, è perduto. In passato, quando erano assolutamente abbandonati, poveri e morivano infelici, gli scrittori in realtà erano decisamente migliori dal punto di vista letterario. Wittgenstein lo sapeva e ha dato via i suoi soldi. Tolstoj – Wittgenstein era suo allievo – invece no. Tolstoj ha conservato il suo patrimonio. Wittgenstein, da vero discepolo, ha lasciato tutto, e questo lo ha salvato spiritualmente. Sa, ho vissuto molto più intensamente quando possedevo due, in realtà soltanto un abito, e per anni soltanto una piccola valigia. Oggi non sono ricco, pago raramente le tasse, guadagno molto poco – ma vivo “abbastanza”, posso mangiare quello che voglio, viaggiare, ecc. – in qualche modo la mia vita è di-

185

Ultimatum all’esistenza

ventata sicura. E questo mi ha procurato un grande danno – un danno spirituale. Prima a Parigi vivevo alla giornata. Ero spiritualmente molto più fresco, anche più giovane naturalmente – ma ero un’altra persona. Non sapevo cosa avrei fatto il giorno dopo. Ho vissuto in hotel per venticinque anni ed ero sempre come un animale, come una bestia selvaggia, che è minacciata – teso e tuttavia in qualche modo fresco. La sicurezza è spiritualmente un pericolo incredibile, così come la salute perfetta è una catastrofe per lo spirito. Quindi: che cosa si può fare? Gli scrittori, sfortunatamente, sono o troppo miserabili, troppo poveri o troppo ricchi. So per esperienza personale che con la sicurezza si diventa più poveri, si diminuisce interiormente. L’uomo deve sentirsi minacciato e insicuro. Qui mi pongo solo sul piano spirituale, perché per un operaio questo non ha senso, ha bisogno di sicurezza. Ma un intellettuale, diciamo uno scrittore, deve sentirsi mancare il terreno sotto i piedi. Se è ancora completamente “piantato” nel terreno, è, come dire, ben… …è consolidato... …è perduto. E poi si crea un’opera o – Dio solo sa – si diventa un grande scrittore: “qualcuno”. E questo è male. Una volta c’erano molte malattie, e questa era una fortuna per l’uomo… …quindi lei dopotutto è nietzschiano? No, intendo la fortuna per lo scrittore e non per le persone in generale. Oggi ci sono soltanto due, tre malattie veramente gravi, e questo è un pericolo. E qui parlo, come ho detto, solo di queste persone anormali, per esempio gli scrittori. Per la gente non ha alcun senso. Il cervello ne ha bisogno… Per esempio, ero un grande bevitore di caffè e un grande fumatore. Ora non fumo più e non bevo nemmeno caffè. Ho buttato via tutti gli stimolanti – non potevo sopportarlo, ero in un tale stato nervoso – e mi sono detto: rinuncerò a tutto e correrò il rischio

186

Intervista con Hans-Jürgen Heinrichs

di non scrivere più. E in realtà ora scrivo molto meno perché il cervello ha bisogno di stimolanti: sfortuna, malattia o gli eccitanti. Finora, devo dire, non sono stato particolarmente infelice. Ma da quando ho messo da parte gli eccitanti, ci ho rinunciato, ho messo in pericolo il mio rendement – come si dice? –, la mia produttività, la mia forza creativa, perché il cervello deve essere in uno stato anomalo per creare qualcosa. Proprio per questo, quando in gioventù non sono riuscito a dormire per anni, ho avuto l’impressione di essere una persona straordinaria. Da quando dormo, non bene, ma almeno dormo, mi sento sminuito. Non sono più lo stesso. Tutto ciò che è spiritualmente elevato deve essere intenso! E di norma non si è intensi. Solo che oggi non reggo più gli eccitanti, mi fanno impazzire e non riesco più a sopportarmi. Ma la mia vita era molto meglio con il tabacco, tre pacchetti di sigarette, quando bevevo alcolici, non dormivo e passavo “notti bianche”. Ero davvero qualcuno, non come scrittore, ma vivevo intensamente e avevo l’impressione che ogni giorno fosse straordinario. Ora devo accettare di spegnermi gradualmente… Sono davvero l’espressione attenuata, indebolita di una versione, la versione indebolita di me stesso. Lo noto tutto il tempo e sono rassegnato. Ma perché no? Fa parte del gioco. Sostengo di non voler essere uno scrittore prolifico, non voglio intraprendere una carriera come tale. Forse avrei dovuto scrivere solo un libro, eppure ho continuato a scrivere perché le giornate sono troppo lunghe. Ogni scrittore dovrebbe scrivere soltanto un libro. Perché non si trasferisce in campagna, adesso che tutto è scritto? Ho una mansarda a Dieppe, ma lì il clima è così rigido che non lo sopporto. Se avessi una casa di campagna, credo che mi piacerebbe tanto coltivare la terra e condurre una vita totalmente primitiva. Ma è troppo tardi per questo, in fondo è troppo tardi per tutto, e questo è anche ciò che è interessante della vita. Si rimpiange tutto, il bene e il male.

187

Ultimatum all’esistenza

Che cosa non rimpiange? Che ha scritto, per esempio? Credo di aver scritto cinque, sei o sette o dieci aforismi che esprimono qualcosa. Come Benn parla delle sei poesie... …otto! – un poeta scrive otto poesie, dice Benn, e ha ragione! Quindi – senza sapere quali – credo di aver scritto otto aforismi che esprimono qualcosa. O non otto aforismi, piuttosto ho avuto otto eruzioni: così come ho vissuto alcune estasi nella mia vita, che non sono più ritornate. Per questo mi considero, come ho detto prima, una caricatura di me stesso. Quando ero in grado di provare “estasi”, non molte, solo poche, avevo davvero l’impressione di essere qualcuno, non qualcuno in senso umano, e che la vita valesse la pena di essere vissuta. Nella mia gioventù, a venticinque anni e anche prima, ho vissuto momenti che si ritrovano soltanto nei mistici. Il mio interesse per la mistica deriva da lì. Questi stati li ho ritrovati nei mistici. E non li ho sperimentati perché leggevo i mistici, ma il contrario. Sono momenti straordinari, unici… si compete con Dio, per parlare di nuovo di Lui, e si è veramente al massimo livello… Non esiste un prima e un dopo – il tempo è tolto. È per momenti come questi che vale la pena di aver vissuto. Michel Leiris una volta ha detto: «Preferisco essere posseduto piuttosto che parlare dei posseduti». È il livello dell’universale, del generale, che è contenuto nei suoi aforismi e che forse crea un sostituto per la vita. Come se il pensiero, la lingua, avessero creato un sostituto per questa elementarità o universalità che non può essere raggiunta nella vita. Questo può essere vero. Sa, ora sono costretto a considerarmi uno scrittore – viene dall’esterno, non dall’interno. Come ho già detto, prima non avevo la sensazione di essere uno scrittore. Ma adesso, con l’età, non posso trovare una spiegazione, il fatto che abbiamo fatto

188

Intervista con Hans-Jürgen Heinrichs

quest’intervista, che dopotutto si sia parlato di me, cambia un po’ la cosa. Io stesso non so esattamente con cosa ho a che fare. Quando si scrive, non si pensa di scrivere. Ma dopo la pubblicazione, lei ha qualcosa davanti. La cosa migliore è però lo scrittore sconosciuto. La mia vita a Parigi era molto semplice; nel 1949 ho pubblicato il Sommario di decomposizione e per tre mesi si è parlato molto di me. E dopo di che, per trent’anni, ero quasi sconosciuto. L’ho trovato molto buono, in un certo senso era la mia chance. Le faccio un esempio: trent’anni fa ho scritto un libretto, Sillogismi dell’amarezza. Quando uscì, la gente e i miei amici dissero: «Come puoi essere così primitivo, è assolutamente ridicolo!». E in Francia sono state vendute non più di duemila copie in venticinque anni, anche se il libro costava solo quattro franchi. Ma all’improvviso i giovani se ne sono interessati. Insomma, il destino del libro è straordinario. E così mi sono reso conto di essere in qualche modo uno “scrittore”. Prima non “esistevo”. Un autore non deve mai sapere, non deve mai avere la sensazione di avere dei lettori. E scrivere un libro con la consapevolezza di essere scrittore è una catastrofe. Per un giovane scrittore, il successo è la cosa peggiore che possa capitare. Ne sono convinto. Bisogna aspettare… non essere famoso. Essere famosi è una sconfitta – la gloria: la più grande condanna! Questo non significa desiderare comunque il successo? …Sì, viene come una malattia, semplicemente così, in fondo bisogna essere scettici: è impossibile dire cosa è fallito nella vita e cosa no, discutere se abbia un senso. Potrebbe immaginare di scrivere in una forma diversa da quella del saggio, del trattato o dell’aforisma? Ad esempio un’opera teatrale o un romanzo? No. Sarebbe assolutamente impossibile! Tutto ciò che ho scritto è un risultato: gli aforismi non sono scritti all’inizio come aforismi. [Ho

189

Ultimatum all’esistenza

scritto] una pagina... poi ho buttato via tutto e ho ricominciato da capo. Per scrivere un romanzo bisogna scegliere i dettagli. Ma trovo i dettagli impossibili e arriverei subito alla fine. Potrei sempre cominciare solo con il quinto atto. Un’opera teatrale, un romanzo comincerebbero con l’epilogo, perché io vedo sempre la fine. Un libro, narrativa; assolutamente nessun genere letterario mi sarebbe possibile con un atteggiamento del genere. Infatti: non sono uno scrittore, sono un... non so... un uomo del frammento. Quando ha avuto una storia d’amore ha visto allo stesso tempo la fine della relazione? Per tutto il tempo! Per tutto il tempo penso alla fine, ma la fine può durare... La mia idea fissa riguardo a tutto era la fine. Pratico addirittura un’ossessione della fine: in ogni impresa, in tutto ciò che ho fatto, in ogni inizio vedo la fine. Quest’idea è più della morte: la fine immanente di tutto. E anche quella della storia – tutto mira alla fine. Questo non descrive un’interpretazione metafisica e un modo di esprimersi della quotidianità, perché implica che le situazioni finiscono? E in fondo non c’è niente di tragico. Invece sì, quando si tratta della fine universale. Con quest’idea tutto diventa inutile. Perché mai si dovrebbe fare qualcosa? L’idea della fine disturba nella vita. Si crede senza credere, e questa è la fine, l’idea della fine. Si finge di credere, ed è, come dico sempre, doppio – in tutto ciò che si fa, si è metafisicamente insinceri. Non ci si identifica con niente – questo è l’altro lato, e questo è quello che è. Perciò mi sono sempre interessato agli impostori, ai truffatori, ai bugiardi, a tutti coloro i quali sono incredibilmente consapevoli. Possiedono tutto per riflettere, per diventare filosofi, pensatori e scrittori. Questa doppia vita che conducono è estremamente interessante. E anche chi si trova nelle mie condizioni è davvero come un truffatore. Crede e non crede. Ho sempre

190

Intervista con Hans-Jürgen Heinrichs

avuto una propensione per queste persone, a cui appartiene anche il filosofo, su un altro livello: l’analisi fuori dall’idea di analisi... Non pensa – pensa sul pensare. E questa è, in un certo senso, un’impostura. Un titolo come Sillogismi dell’amarezza esprime una logica intrisa di filosofia della vita. Ciò che lei pratica è una combinazione della purezza del pensiero, delle strutture di pensiero della logica, con esperienze esistenziali. Forse anche Heidegger avrebbe avuto la chance di farlo, se non avesse voluto diventare un pensatore sistematico. Heidegger ha creduto troppo nelle parole. Ma anche lei crede nelle parole! Non come lui. Non ho creato nessuna parola. Heidegger non ha risolto, ma superato tutte le difficoltà creando parole. Lo considero altamente disonesto. Non nego che Heidegger fosse un genio, ma era anche un impostore. Invece di risolverle, poneva le domande, creava parole e ha spostato – “deplacé” – i problemi mediante le parole, come posso dire?, generandoli. Un esempio potrebbe essere il concetto di “verità” che, sia per lei sia per Heidegger, è centrale. In Heidegger la verità diventa l’idea greca dello “svelamento” e da questo sorge poi una filosofia. Mentre lei opera con il concetto di verità e dice che esiste una verità vera che non si distingue essenzialmente dalla verità, ma solo dal fatto che si è consapevoli della menzogna e dell’inganno. Per me Heidegger era davvero troppo ingenuo; anche se furbo come un contadino – può essere? –, aveva troppa fiducia nelle parole. Era, direi, inconsciamente furbo. Anche lei è inconsciamente furbo, vero?

191

Ultimatum all’esistenza

Un po’ lo sono… …consapevolmente furbo. – Quando prima ha parlato della fascinazione che prova per la storia romana, che è una storia di declino, ho pensato molto a Ernst Jünger. Ha detto recentemente qualcosa del genere in un’intervista allo «Spiegel». Ma sa, questo è molto comune oggi e almeno in Francia molto diffuso, questo interesse per la decadenza di Roma. Ed è legittimo. In fondo anche i cristiani, i teologi… dagli stoici agli apostoli è un declino. Ma questo accade sempre di nuovo ed era inevitabile. Il mondo antico era consumato, come l’epoca odierna. Tutti i beni sono consumati – Dio non è morto: è consumato, gli dèi sono consumati. E questo è assolutamente scontato, per questo la nostra epoca è in un certo senso estremamente interessante, quasi una chance – se si vuole. Questionario E. M. Cioran: Il fallimento è più importante della morte Il suo motto? Non dimenticare mai il tuo emetico. Chi o che cosa avrebbe voluto essere? L’aiutante di Lucifero. Il suo tratto caratteriale principale? Oscillazione. Che cosa apprezza di più nei suoi amici? Rassegnazione.

192

Intervista con Hans-Jürgen Heinrichs

Il suo più grosso errore? Autoconsumazione. Il suo sogno di felicità? Quale sarebbe per lei la più grande disgrazia? Perdersi la fine del mondo. Che cosa vorrebbe essere? Non ciò che sono e nemmeno nessun altro. Il suo colore preferito? Il suo fiore preferito? Un’ortica allegra. Il suo uccello preferito? Il suo scrittore preferito? Teresa d’Ávila. Il suo poeta preferito? Eminescu (un romeno!). Il suo eroe nella realtà? L’astinente Leonhard Reinisch. Le sue eroine nella storia? -

193

Ultimatum all’esistenza

I suoi nomi preferiti? Che cosa detesta di più? Gli ottimisti e i pessimisti. Quali personaggi storici disprezza di più? Fanatici. Quali conquiste militari ammira di più? Le ritirate. Quale riforma ammira di più? Quale dono di natura vorrebbe possedere? Indifferenza. Come vorrebbe morire? Con distinta scepsi. Il suo stato d’animo attuale? Non particolarmente brontolone. Qual è per lei la disgrazia più grande? La visita di un filosofo noioso. Dove le piacerebbe vivere? Con Eva senza Adamo. Che cos’è per lei la perfetta felicità terrena? Vivere nel luogo appena nominato.

194

Intervista con Hans-Jürgen Heinrichs

Quale errore scusa più facilmente? Negligenza. Il suo eroe preferito nei romanzi? Stavrogin. Il suo personaggio preferito nella storia? Le Régent [Filippo II, Duca di Orléans], il libertino più simpatico di tutti i tempi. Le sue eroine preferite nella realtà? Le sue eroine preferite nella poesia? Il suo pittore preferito? Il suo compositore preferito? Il compositore delle Variazioni Goldberg. Quale qualità apprezza di più in un uomo? Ironia. Quale qualità apprezza di più in una donna? Adulazione. La sua virtù preferita? Assenza di illusioni. La sua attività preferita? Rileggere.

195

INTERVISTA CON ROSA MARIA PEREDA*

«Abbiamo parlato degli dèi!». È così che Cioran ha riassunto quest’intervista alla compagna; «come d’abitudine», aggiunse ridendo. Tale lucida filosofia non ha nulla del professore noioso, del filosofo inacidito o lamentoso; tutt’altro. È questa la sorpresa: una persona di corporatura esile, sorridente, attenta, dall’umorismo pungente e non necessariamente amaro, che conduce una vita assolutamente normale anche se ritirata, che ha qualcosa dei vecchi esistenzialisti – nel suo pensiero il vuoto raggiunge anche e soprattutto l’esistenza stessa – nella sua maniera di vivere, di conversare, di camminare. Egli coltiva l’amicizia come coltiva l’amore. Di sé stesso, Cioran dice che è lo straniero per eccellenza, e lo dice in spagnolo. A Parigi, quest’uomo nato in Romania nel 1911, occupa da qualche tempo una mansarda, al settimo piano senza ascensore… Si vanta un po’ di essere povero, ma per riuscire a invitarlo bisogna ricorrere a strane strategie, perché insiste per pagare il conto tutte le volte. Ha vissuto quattordici anni in un alberghetto parigino, in rue Monsieur-le-Prince, che ha dovuto lasciare perché, a suo dire: «Le povere prostitute del Quartiere Latino facevano troppo scandalo». Anche lì, nessun ascensore. E se ve ne è uno come nell’hotel madrileno, non * Traduzione italiana di Vincenzo Fiore.

197

Ultimatum all’esistenza

lo prende, per tenersi in forma. Nella località balneare di Liérganes (nei pressi di Santander), è guarito da un’affezione respiratoria. Fra i suoi amici spagnoli cita: Manuel Arce, Ricardo Gullón, Rafael Conte e il compianto Morantes. Ama Toledo e Segovia, dove è andato, durante questo viaggio, alla ricerca di un’impossibile aljama. È venuto in Spagna molto spesso, ama la Spagna. Come per questo viaggio, viene tutte le volte in incognito. E potrebbe proprio essere un personaggio completamente sconosciuto qui, perché è un filosofo insolito – la Spagna non è il Paese della varietà filosofica – se non ci fossero state le prime traduzioni di Fernando Savater, che ha discusso su di lui una tesi di dottorato, che ha fatto scandalo. Altre traduzioni sono seguite a quella di Savater, cosa che lo porta a dire, scherzosamente, che è più conosciuto in Spagna che in Francia. Comunque, ciò che tocca la conoscenza – voglio dire questa volta la fama, la popolarità – lo sgomenta e lo lascia indifferente. A prova di ciò, quest’aneddoto: egli ha rifiutato un premio allettante che non gli avrebbe fatto male – circa mezzo milione di pesetas – perché ciò avrebbe comportato apparizioni alla televisione francese. E questo, mai. Intendiamoci bene, egli fa queste affermazioni mentre scoppia a ridere: «Soltanto il riso ci permette di vivere». Il tema è dunque quello dello scetticismo, uno scetticismo totale, risultato della lucidità. Dopotutto, rinunciare a un premio e alla popolarità di qualche minuto, è ben poco per qualcuno che ha rinunciato alla sua patria – lui è apolide – e alla sua lingua. E a tante cose ancora. Tutto ciò con umorismo. La differenza tra la sua personalità e gli argomenti che affronta è il primo argomento di conversazione. «In società – dice – sono gioviale, parlo di tutto e di niente, sono sempre allegro, è vero. Sono come un pessimo attore, che improvvisa tutto il tempo. Quando scrivo, è sempre per liberarmi da qualche cosa, per liberarmi da un’oppressione. Scrivo solo per liberarmi da me stesso, dalle mie ossessioni, in modo che i miei libri siano un aspetto di me… I giovani aspettano sempre che parli della morte, del suicidio, di cose

198

Intervista con Rosa Maria Pereda

come queste. Ma nella vita quotidiana, faccio astrazione dallo scrittore. Non faccio lo scrittore tutto il giorno». Delle sue ossessioni, egli dice: «Sfortunatamente, hanno qualcosa a che vedere con il senso della mia vita. Esattamente, con il vuoto metafisico della vita». E spiega: «Ho cominciato a scrivere durante la giovinezza, dopo aver terminato gli studi di filosofia a ventuno anni. All’epoca, cominciavo a non credere più nella filosofia che fino ad allora era tutto per me. Ah! La filosofia, quella tedesca soprattutto, i grandi sistemi filosofici… Il resto mi era indifferente, compresa la poesia. Ma in quel momento, mi resi conto che la filosofia non ha niente da dire agli uomini che si dibattono nelle difficoltà, ovviamente interiori. Compresi che ti insegna a porre problemi e questioni, ma poi ti abbandona alla tua sorte, perché le sue risposte sono sempre discutibili. Inoltre, essa ha qualcosa di molto pericoloso: ti gonfia d’orgoglio, ti rende un megalomane. Proprio per questo, i filosofi sono gli uomini più insopportabili, e io ero il più insopportabile di tutti. Quando leggevo Kant, o chiunque di loro, da Kant a Schopenhauer, avevo l’impressione di essere un dio… Il mondo, le donne, me stesso, tutto mi era indifferente. Avevo qualcosa di un mostro. La crisi fu molto seria. Tornai alla letteratura, soprattutto alla poesia. Oggi leggo un po’ di filosofia, per una specie di fedeltà, ma quello che mi interessa è tutto ciò che somiglia a un documento diretto, a una confessione personale: le corrispondenze, i diari, le memorie… Dovunque l’autore parla di sé stesso, perché solo di sé si può parlare. L’io è l’unico tema dello scrittore, con i suoi problemi. Se è in grado di risolverli, tanto meglio, altrimenti non ha importanza. Sa cosa diceva Montaigne? Diceva: “Sono la materia delle mie opere”. Ebbene, credo sia questa la definizione dello scrittore e specialmente del poeta. Se non è per parlare di sé, a che serve scrivere? Per parlare degli altri? Non ne vale la pena». «Potrebbe dire che sono egoista. No, io no… Sì, sì è vero, ma che vuole? Bisogna scrivere di ciò che si conosce. Non siamo mai sicuri di conoscerci. E che ci conosciamo o meno, ci cerchiamo sempre. Io credo che un’opera sia la ricerca indefinita di sé stessi».

199

Ultimatum all’esistenza

Ma sulle sue opere, gli dico, questo Cioran che conosco e che tutti chiamano per cognome e non per nome, compresa la sua compagna Simone, Emil viene nascosto. «Sì, ma non totalmente. Nel mio caso, non si tratta di un’indiscrezione concreta. Si tratta di un’indiscrezione costante, ma astratta». E ritorna al suo tema: «D’altra parte, perché leggiamo? Per ritrovarci. Per ritrovare la nostra stessa immagine negli altri. Dopo la mia rottura con la filosofia, decisi di mettermi alla ricerca di me stesso. Lei dirà che è narcisismo: niente di più falso. Quando si scrive, è davvero sulle proprie miserie. Chi legge vi si riconosce, così quello che sembra essere egoismo è in realtà una forma di carità, di altruismo, perché nelle miserie personali gli altri si riconoscono. Non trova che sia quasi cristiano? Dico questo – aggiunge – perché sono stato spesso biasimato di parlare solo di ciò che mi riguarda. Ebbene sì: quelli che parlano di problemi generali mi sembrano vuoti, molto spesso. E se vuole che glielo dica, la filosofia in fondo alla sua profondità è vuota». Di conseguenza, i filosofi non interessano tanto più Cioran, che dice di essere letto maggiormente dagli studenti che dai professori di filosofia, con qualche eccezione, come Savater, ma di lui, egli dice: «Ha carattere». Ci sono anche, naturalmente, nomi concreti che sfuggono alla regola: María Zambrano. «È assolutamente affascinante. Dopo una conversazione con lei, scrissi un libro. Parlammo di diverse cose, di Ortega e dell’utopia. Dopo quest’incontro, ho scritto Storia e utopia, che non è stato pubblicato in Spagna, ma che è apparso in Messico. È una donna con un fascino straordinario. L’ho conosciuta grazie a un amico comune, un pittore sorprendente, Angel Alonso, che vive a Parigi e che, si figuri, non ha mai esposto le sue opere, per orgoglio o non so per quale ragione, dato che è un grande pittore. Ma María Zambrano – continua Cioran – ha una rilevanza particolare: è allo stesso tempo filosofa e poetessa». Allo stesso modo di come Storia e utopia è nato da una conversazione con Zambrano, «tutti i miei libri – dice Cioran – hanno sempre qualcosa che ha a che vedere con il quotidiano. E in questo momento,

200

Intervista con Rosa Maria Pereda

scrivo soprattutto aforismi, possono nascere ovunque, da qualsiasi frase che mi sorprenda, da qualsiasi tema che provochi la mia riflessione… Naturalmente, il processo è complesso: l’aforisma è una conclusione. Scrivo due o tre foglietti e ne pubblico la fine. Risparmio al lettore il percorso del mio pensiero. Credo di fare aforismi per pigrizia. La lingua francese è particolarmente idonea per questo. In Francia, c’è una lunga tradizione dell’aforisma. Questa lingua è magnifica per il laconismo, la definizione, la formula, ma fatale per la poesia. La poesia è semplice in spagnolo, in tedesco, in inglese, ma non in francese. In francese, Shakespeare non è possibile… Ma ho scelto questa lingua liberamente. Ho accettato le sue difficoltà e devo dire che adesso, come lingua, la amo. Rivarol, un pensatore reazionario estremamente intelligente, segnalava la probità del francese. Quel modo di non prestarsi all’ambiguità, quella specie di qualità morale che interdice l’imprecisione, sono forse catastrofici per la poesia, ma magnifici per la formulazione e per l’espressione. E per questo, per quanto mi riguarda, è la lingua perfetta, quella che permette di evitare gli errori e offre chiarezza». Cioran reclama che il romeno, la sua lingua materna, gli torna di tanto in tanto alla memoria: «Sì, man mano che invecchio, essa ritorna sempre più spesso. Per scrivere in francese, mi è stato necessario eliminare completamente la mia lingua materna, di cessare di utilizzarla del tutto. Di obliarla, di farla sparire anche dalla corrispondenza con mia madre o con mio fratello, persino dai miei sogni. Quando ho iniziato a scrivere in francese, ho capito che dovevo scegliere. Bisogna pensare nella lingua in cui si scrive. Se lei vuole scrivere in francese, dovrà smettere di sognare in spagnolo. Io sogno sempre in francese o in tedesco, ma mai in romeno». Dice scherzosamente che questa rottura deve essere completa e che essa colpisce anche la coppia: «Non si può parlare a casa la propria lingua materna, ed è per questo che la mia compagna è francese». «Ho cambiato lingua a trent’anni – precisa – fu un’avventura legata alla mia condizione di straniero totale». Dice straniero in spagnolo, come per accentuarlo, e aggiunge: «Essere giuridicamente apolide è

201

Ultimatum all’esistenza

anche qualcosa che mi soddisfa enormemente, perché lo sono, perché mi sento libero. In fondo, abbandonare la propria lingua madre è una sorta di tradimento. Ebbene, accetto la mia condizione di traditore, ma per me è meno importante di quella di straniero. Per me, è come non appartenere a nulla e a nessuno, essere come in aria. Si hanno radici, ma molto sottili, assolutamente inefficaci. Credo che intellettualmente sia molto importante: è come essere Dio, poiché è il culmine della libertà. È essere abbandonato come Dio. Negli ultimi tempi, amo paragonarmi a Dio e non è per megalomania. E non è poi così folle: questo ruota attorno all’idea di libertà e inutilità. Bisogna che io corregga ciò che ho appena detto: si deve parlare di sé stessi e di Dio». «Dio è inutile. E io sono inutile come Dio. Io non parlo di Dio come Dio, come quello delle religioni. Parlo di Dio come di un essere solitario. Per me, Dio è una specie di punto di riferimento. Non si può comprendere la propria solitudine senza l’idea di Dio, che è l’essere solo per eccellenza. Dio è per me, che non sono credente, l’io portato all’estremo. Dio è il punto estremo della mia solitudine. Dio è la solitudine nella sua realizzazione perfetta. Noi siamo imperfetti, ma Dio è perfettamente solo». Parla ora della mistica, di Teresa d’Ávila, di Eckhart, «il pensatore più profondo d’Occidente», che è stato, dice, per quanto lontano si possa andare, oltre Dio per trovare la verità, e la verità era il nulla. La verità, che è migliore di Dio, l’obbligava persino a oltrepassare Dio. E in tal caso era il Nulla Supremo, la grande verità. «Mi piacerebbe – dice ad un certo punto – essere un mistico e non essere condannato. Ma secondo me, erano tutti perseguitati per una giusta ragione, perché avevano l’audacia di paragonarsi a Dio». Cioran afferma di essere oramai interessato al buddhismo Madhyamika e al suo pensatore Nagarjuna, «un Zenone preoccupato dalla liberazione». «Se aderissi a una religione, sarei buddhista, perché questa religione non è questione di fede, ma soltanto di conoscenza. Intendiamoci bene, la conoscenza, il rischio per eccellenza, rivela l’illusione che spiega cos’è la vita, se può esserci una spiegazione a questo». Dopo

202

Intervista con Rosa Maria Pereda

aver citato Pirrone, il padre dello scetticismo, e desiderato la ß)nyata, il vuoto, come concetto liberatore per eccellenza, se ne esiste uno, Cioran afferma che in realtà la vita può essere intesa solo come un miraggio, come un’illusione. «Tutto è irreale. Se fosse reale, sarebbe una tragedia stupida. La storia, per parlare senza eccessi, è deplorevole e la morte non è tollerabile. D’altra parte, il carattere irreale della vita non la rende più sopportabile, ma il concetto d’illusione riesce a renderci coscienti del fatto che nulla ha importanza. La conoscenza è precisamente il meccanismo che smantella le illusioni, che le fa cessare di apparire reali e che ci mostra le illusioni per quello che sono; la conoscenza assoluta conduce al suicidio, non alla serenità, ma a quella specie di coscienza per cui la vita non ha interesse. Più si riflette sulla vita, meno essa ha senso. Naturalmente, l’azione è inutile come la vita stessa. Io chiamo azione tutto ciò che facciamo: pensare, amare, non diciamo lavorare. L’azione dispensa dalla riflessione e dalla conoscenza. Tutto ciò che si fa è illusorio, irreale». E i bambini? «I bambini sono l’illusione portata all’estremo. È la sola concessione che io non mi sia fatto in tutta la vita: dare alla luce un essere condannato a morte. In realtà, questo non ha più molta importanza. Comunque, tutto questo finirà male». La vita: «Uno spettacolo privo di senso e quasi mai interessante, spettacolo dove chi è lucido sa di essere solo una comparsa. Si è solo un fantasma sulla terra… Nient’altro che uno scettico che non ha più illusioni. Ma non un disperato. La disperazione è disincanto attivo. Quando avevo ventuno anni, ho scritto un libro sulla disperazione, una protesta, un’aggressione contro il mondo. Oggi no, oggi non ho più illusioni. La disillusione è una forma di conoscenza. Perché: quando si è, in conclusione, disillusi? Quando ci si rende conto di essere stati ingannati. E se qualcuno si è sempre ingannato, e soprattutto, lo sa, possiede una conoscenza suprema. Si può dire che la disillusione, portata alle sue forme estreme, sia la suprema forma di conoscenza». E la passione? «La passione è il movimento inverso. Ha qualcosa, qualcosa di misterioso e di irrazionale, che ci costringe a continuare la

203

Ultimatum all’esistenza

commedia, o ci permette di farlo, e questa cosa è la passione, precisamente. Ogni passione corrisponde a un appetito inconscio di sofferenza. È il masochismo profondo della natura umana che vuole soffrire perché vuole avere coscienza di sé stessa. È solo nella sofferenza che siamo coscienti di vivere. Naturalmente, a questa passione frenetica si oppone, irrimediabilmente, la conoscenza. Ci si sbaglia sempre, anche in quegli amori che durano fino alla morte. Perché in tal caso, se questo non è successo prima, la passione comunque sia, si scontra con la liberazione finale che è, lei lo sa bene, la coscienza che nulla, in fin dei conti, ha la minima importanza».

204

INTERVISTA CON PHILIPPE D. DRACODAÏDIS*

Se consulto le enciclopedie francesi, leggo: «Cioran, nato nel 1911, saggista e moralista romeno che, a partire dal 1949, si esprime in francese». Cosa vuol dire saggista? Cosa vuol dire moralista? Cosa ne pensa? Il moralista non è affatto qualcuno che si occupa di morale. È colui che riflette sul destino dell’uomo, che è ossessionato dall’uomo. I moralisti francesi sono questo: La Rochefoucauld, Chamfort. Sono tormentati dall’insania dell’essere umano, dal suo lato mostruoso, che è il più interessante. È la creatura fallita, se così si può dire. Ero affascinato da loro, ma non all’inizio della mia vita. In principio ho studiato filosofia in modo abbastanza serio, ma alla fine ne sono rimasto deluso e ho trovato risposte nei moralisti che hanno l’enorme vantaggio di essere brevi. Sono geni della formula. E in fondo, ciò che resta di un pensiero, si sa, è solo qualche massima. Ho sempre preferito la brevità, ma non inizialmente. Ho scritto cinque libri in romeno, ma in un altro stile, perché la lingua romena è molto flessibile e meravigliosamente sprovvista di rigore. Il passaggio alla lingua francese, devo confessarlo, è stato per me una sfida. In un Paese come la Romania non esiste una tradizione stilistica, ognuno scriveva a modo suo, senza alcuna pretesa. Ho atte* Traduzione italiana di Massimo Carloni.

205

Ultimatum all’esistenza

nuato tutto ciò. Ho paragonato il passaggio al francese a un’esperienza da camicia di forza. Non ci si può muovere. Si è costretti, si è tenuti a rispettare certe regole. In romeno si scriveva a piacimento, era l’arbitrio assoluto. Il francese è stato per me un’esperienza davvero cruciale e, come dire, una delle più grandi prove della mia vita. Penso che la prova più grande della sua vita sia quella di essere nato. Se guardo nei suoi libri, leggo: «Secondo la Cabbala, Dio creò le anime fin dal principio, ed esse stavano tutte davanti a lui sotto la forma che avrebbero preso più tardi incarnandosi. Ognuna di esse, quando è giunto il suo tempo, riceve l’ordine di andare a raggiungere il corpo che le è destinato, ma ciascuna implora vanamente il suo Creatore di risparmiarle quella schiavitù e quella ignominia. Più penso a quel che dovette accadere quando giunse il mio turno, più mi dico che se c’è stata un’anima più recalcitrante delle altre a incarnarsi quella fu proprio la mia»1. Ritengo vi sia un senso d’estraneità, ossia Cioran si considera uno straniero sulla terra. Uno straniero che si trova ad affrontare nel mondo cose bizzarre, un po’ alla Baudelaire. Si avverte un “inconveniente di essere nati”. Non è vero? Sì. Allora devo dire che il mio primo libro, scritto a 21-22 anni, recava un titolo altisonante: Al culmine della disperazione. Si tratta di un pessimo titolo, ma ascolti perché l’ho scelto. In Romania, quando avveniva un suicidio, diciamo… Ho scelto quel titolo, assai banale, perché corrispondeva perfettamente allo stato in cui ero. Credo di averlo ultimato in un mese e mezzo e si trattò, come dire, di un’esplosione. In esso c’è un lato filosofeggiante che mi disturba. Tempo fa, nel rileggerlo, ho trovato che non andava, perché ritengo estremamente fastidioso il miscuglio dello stile filosofico e del lirismo alla romena. Ma il libro, in sé, ha segnato un periodo. Attualmente in Romania è un libro che costa molto. Non è mai stato ristampato per una semplice ragione: non volevo, per via del tratto 1 E. M. Cioran, L’inconveniente di essere nati, tr. it. di L. Zilli, Adelphi, Milano, 1991, pp. 141-142.

206

Intervista con Philippe D. Dracodaïdis

giovanile che non mi piace. Allo stesso tempo, però, non posso rinnegarlo. Quando uscì, tutti pensavano che mi sarei suicidato. La mia famiglia, tutti… Ma, al contrario, averlo scritto è stato per me una sorta di terapia. Ovviamente, è un libro totalmente disperato che, ad ogni modo, si salva grazie a una certa idea filosofica – avevo fatto studi filosofici abbastanza approfonditi – e so che in Romania, adesso, è il più ricercato dai giovani. Uno dei miei amici romeni, che è il più grande filosofo romeno, – uno degli uomini più eminenti, è di origine greca – l’altro giorno mi ha raccontato di essere andato a Iaşi, la capitale della Moldavia, per esporre quella teoria, dicendo: «No, no, non si tratta del mio libro: è Al culmine della disperazione di Cioran…». Perché? Perché credo che qualsiasi giovane di vent’anni deve necessariamente passare attraverso quel genere di crisi, e infine, come le dicevo, non voglio rinnegare quel libro perché contiene tutto quanto ho scritto in seguito. Ed è proprio ciò che mi è stato detto, che in fondo avrei potuto fermarmi lì! Tutto ciò che ho fatto è stato dare un’altra forma a quel sentimento della vita, una sorta di disperazione e di disgusto di fronte all’esistenza, voglio dire che non ho fatto alcun progresso riguardo al pensiero, alla vita, all’azione, perché quell’intuizione, per così dire “primordiale”, si è rivelata per me pressoché esatta. In seguito, non ho fatto che giocare d’astuzia. Passando al francese, in ogni caso, ho dato una sorta di dignità all’espressione, evolvendo quindi sul piano dello stile, ma non su quello del pensiero. Vuole dire che sin dall’inizio è stato coerente con quanto dice, che «Soltanto il riso ci permette di vivere»2; la disperazione, dunque, è prossima al riso e tutto ciò non è tipicamente balcanico? Se vuole… Sì, è possibile. Un mio amico, un armeno, un umanista di circa ottant’anni, a cui sono molto legato, l’altro giorno mi ha scritto che era giunto per lui il momento di farla finita. Voleva una sorta di approvazione da parte mia. Gli ho detto che un giorno bisogna pur uccider2

Id., Intervista con Rosa Maria Pereda, supra, p. 198.

207

Ultimatum all’esistenza

si, ma finché puoi ridere, aspetta; perché il riso salva la vita, la rende sopportabile, ma se ci si trova nell’impossibilità di ridere, se il ridere diventa una cosa interdetta, o completamente superata, allora bisogna andarsene. Devo dire che ho avuto il dono di ridere quasi ogni giorno, in tutti i momenti più disperati della mia vita, e credo davvero che dal riso emerga qualcosa di molto profondo nell’uomo. Probabilmente, è grazie al riso che l’uomo è uomo. E comunque, la risata può sorgere anche in momenti tragici. Suo padre è stato testimone di qualcosa di simile. Una delle cose che mi ha maggiormente colpito durante l’infanzia, riguarda mio padre, il quale, di ritorno da un funerale, ci raccontò quest’episodio. Al funerale di una bambina di cinque-sei anni, al momento della deposizione del feretro, quando la bara fu calata nella tomba, la madre scoppiò a ridere, d’un riso interminabile. Ovviamente, ritengo si trattasse di un accesso di follia, ma non ne sono del tutto certo, poiché una sepoltura è una cosa talmente insensata! Quando mi è capitato di assistere al funerale di qualche amico, spesso, sono stato sul punto di scoppiare a ridere. Persone che amavo molto… Perché ciò è talmente assurdo, il corpo della persona con cui m’intrattenevo a conversare, gettato ventiquattro ore dopo così, come spazzatura, è impensabile! Anziché piangere, penso si possa sicuramente scoppiare a ridere. Ed è curioso che io sia rimasto ossessionato dalla storia della madre che ride davanti a quell’insensato spettacolo che annienta ogni cosa. Il riso, tuttavia, non mi sembra tipico dei filosofi, direi al contrario che i filosofi siano piuttosto costipati, e che sono pochi i filosofi, i pensatori che godono del vantaggio di ridere. Sì, ma io non sono un filosofo. Personalmente, non considero i filosofi grandi uomini, mentre lo sono i poeti, gli scrittori. Un Dostoevskij è più grande di qualsiasi filosofo. Io stesso mi sono distaccato dalla

208

Intervista con Philippe D. Dracodaïdis

filosofia perché la trovo insopportabile, vuole dimostrare cose indimostrabili. La filosofia è noiosa, per quanto, beninteso, possa essere profonda. Non amo un pensiero privo di accento personale. Preferisco una divagazione a un ragionamento sostenuto. In tal senso, lei avrebbe dovuto amare Montaigne, non Pascal. Ma questa è una storia complicata, perché, ovviamente preferisco Pascal a Montaigne. È una questione di temperamento. Ci sono diverse cose. Nella mia vita non ho mai esercitato un lavoro serio, tranne un anno quando ho insegnato filosofia in una città di provincia in Transilvania. Qui potevo leggere – ricordo che Montaigne era introvabile – solo alla biblioteca tedesca, e così ho letto Montaigne in tedesco. Che delusione! Non rende, non rende affatto! Era pesante, sapeva di dimostrazione, di filosofia tedesca appunto. Fu un fallimento totale e ritengo che ciò mi abbia segnato per il resto della vita, perché in seguito lessi Montaigne in francese e, naturalmente, trovai che era molto meglio. Tuttavia, Montaigne non mi ha mai profondamente attratto. Le ragioni sono diverse. Sento profonde affinità con Pascal: è anche colui che mi ha ossessionato di più nella vita. Ho vissuto con Pascal, ma senza leggerlo sempre, tutt’altro, non lo conosco neppure tanto bene. Ma era una passione, un’ossessione. Sono stato ossessionato da Pascal, così come da Baudelaire, un poeta che leggo poco, ma sono figure che vivono in me. C’è una sorta di segreta intimità che mi spinge a un’incondizionata ammirazione nei loro confronti. In Montaigne c’è qualcosa che non va. Sono sempre stato affascinato dallo scetticismo tragico. Ora, in Montaigne, tale accento non esiste. Vi sono delle implicazioni tragiche, anche pessimiste, ma tutto ciò non tocca nel profondo. Non c’è niente da fare: o si è per Montaigne o per Pascal. Detto questo, reputo Montaigne un saggio più grande di Pascal. Pascal rappresenta un’esistenza tragica, drammatica. È un eroe da tragedia, al contrario di Montaigne. È proprio una questione di temperamento. Per quanto mi riguarda, nel mezzo della notte penso a Pascal, non a Montaigne.

209

Ultimatum all’esistenza

Ma lei ha detto che Montaigne non rende in tedesco. Possiamo concludere, con ciò, che la fortuna dei francesi è di aver avuto Montaigne? Ah, sì! Un mio amico ha fatto un film su Montaigne per la televisione tedesca. E sa, è andato a fotografare ciò che è rimasto del castello. Mi ha detto: «Occorrerebbe comunque una conclusione su Montaigne». Letteralmente, ho cominciato così: «La grande fortuna della Francia è di aver iniziato con Montaigne. La sfortuna della Germania è di aver iniziato con Lutero, un isterico». Non credo che sia solamente una formula, ciò corrisponde a qualcosa di reale. È evidente: hanno giocato pressappoco lo stesso ruolo, una sorta di partenza. Montaigne ha dato il tono alla Francia e Lutero alla Germania. È quasi una risposta. Non credo che il parallelismo sia arbitrario. Dato che nei suoi libri lei parla di scetticismo, di pirronismo, credo che Montaigne le sia congeniale. Sì, ma qualcosa in me non va. Sono rimasto molto affascinato dagli scettici greci. Sa, c’è un libro francese veramente notevole, Les sceptiques grecs, apparve sul finire del XIX secolo e lo stesso Nietzsche l’ha consultato molto. Egli cita il libro di Brochard. Gli ultimi scritti di Nietzsche sono segnati da quel libro. È per via di Nietzsche che l’ho letto. È un libro davvero notevole. Era esaurito ed è stato ristampato qualche anno fa. In Montaigne, che conosceva benissimo gli scettici greci, è presente un accento un po’ frivolo. Personalmente, amo la frivolezza, ma penso sempre che sia fuori questione ciò che ognuno fa delle proprie disgrazie. Penso, infine, allo scetticismo di Pascal. Montaigne mi disturba. Nella vita, di solito, amo le cose frivole, ma su questo piano ho fatto la mia scelta. È lecito supporre che lei scriva dei sillogismi, degli aforismi come dice, perché anche Pascal ha scritto dei pensieri?

210

Intervista con Philippe D. Dracodaïdis

Sì, assolutamente. Ovviamente, ho scritto degli aforismi per pigrizia, se vuole. [L’aforisma] è decisamente più breve e si ha l’impressione di qualcosa di profondo. Ma c’è dell’altro. Ho scritto anche in francese. Il mio primo libro non era un libro di aforismi, ma di saggi. Il secondo era un libro di aforismi. La cosa curiosa è che Sillogismi dell’amarezza fu uno straordinario insuccesso. In vent’anni, furono vendute poche centinaia di copie. Dicevano che era un pessimo libro. A mio avviso, non lo era affatto. Lo consegnai all’editore. Ma tutti mi dissero: «Come hai osato scrivere un libro così superficiale, così disonorevole?». Mi ricordo di persone molto serie che hanno detto: «Non è possibile, sei finito!». Dalla casa editrice tedesca mi dissero: «Non si pubblicherà più niente di lei perché tutto ciò non è serio!». Stessa reazione in Francia. Assistetti a un insuccesso analogo. Senta cosa è accaduto venticinque anni dopo. È stato ristampato in edizione tascabile e, da libro più che disprezzato – non tanto denigrato perché alla fine non era letto – è diventato una sorta di breviario dei giovani. Gli studenti lo leggevano e ricordo di averne incontrati alcuni che, riguardo alla filosofia, mi chiedevano: «Ha letto Sillogismi dell’amarezza?». [Ed io:] «Oh, no! Non leggo cose del genere. È indegno!». In ogni caso, è diventato una sorta di breviario: non esagero! Ed è in seguito a quel libro che ho iniziato a essere un po’ conosciuto in Francia. Sino ad allora, lo ero appena. L’ho riletto e ho notato che effettivamente non era male, c’era qualcosa. È un libro che ho scritto in un periodo di profonda disperazione. Mi rendo conto che contiene una dose di cinismo quasi insopportabile. Ma veda a che punto la nuova generazione è più seria rispetto alla precedente. Perché questo libro, che ho scritto in modo totalmente sincero, in seguito a una serie di prove, a una crisi terribile, contiene veramente qualche cosa. E i giovani se ne sono accorti. So che lo citano persino nei loro lavori, in virtù di una serie di massime piuttosto virulente, di un cinismo quasi intollerabile per i vecchi, ma non per i giovani. Allora in Germania accadde esattamente la stessa cosa: al momento della pubblicazione, fu un insuccesso totale, totale! Vent’anni dopo,

211

Ultimatum all’esistenza

d’un tratto, specialmente la gioventù berlinese fece proprio quel libro. E mi si poteva vedere ritratto in un giornale: mi trovavo in una noce in un mare di escrementi ed ero sul punto di annegare. Ad ogni modo, [l’articolo] non era così beffardo, perché il commento era piuttosto favorevole. Alla fine, era una forma di annegamento abbastanza onorevole, anche filosoficamente. Ecco perché cito quest’esempio. È molto importante per i giovani: quando si pubblica un libro che poi fallisce, non bisogna mai disperare. A Parigi, ho incontrato tanti giovani scrittori disperati per via del fallimento, dell’insuccesso… Il fallimento o meno si realizza nell’arco di vent’anni, perché il successo immediato non prova nulla. Occorre attendere, perché, a mio parere, è più difficile prevedere il destino di un libro che quello di un individuo. È tutto qui l’interesse di pubblicare libri. Non si può sapere ciò che un libro diventerà. Non è possibile prevedere l’eco che susciterà. Ed è quasi l’unica ragione che giustifica l’atto di scrivere. In fondo: perché scrivere libri? Comunque vada, è un’avventura, una grande avventura. Davvero è la sola consolazione, perché è intollerabile… Sa, in Francia, tutti gli scrittori abitano a Parigi. Ci si incontra sempre per strada, è inevitabile. Si vedono solo persone molto cattive e, direi, inacidite, disperate, perché non tutti possono avere successo. Al contrario, a essere comune è il fallimento; ciò fa sì, come vede, che l’atto di scrivere abbia profonde implicazioni. Tutto questo segna un destino. Il libro stesso è un destino. Se il libro non è un destino, non esiste. È questa la verità. Non importa che esso sia buono o cattivo, ma unicamente il suo essere un destino. Penso sia un po’ difficile accettare ciò che lei scrive, ad esempio, in Sillogismi dell’amarezza: «Coltivano l’aforisma soltanto coloro che hanno conosciuto la paura in mezzo alle parole, quella paura di crollare con tutte le parole»3. E ancora: «L’aforisma? Un fuoco senza fiamma. Si capisce che nessuno vi si voglia riscaldare»4. 3 4

212

Id., Sillogismi dell’amarezza, tr. it. di C. Rognoni, Adelphi, Milano, 1993, p. 15. Id., L’inconveniente di essere nati, cit., p. 139.

Intervista con Philippe D. Dracodaïdis

Un po’ mi contraddico. D’altronde, è per tale ragione che cito questi due esempi. La parola “aforisma” è greca e significa anche “scomunica”. In ambito religioso viene utilizzata per scomunicare qualcuno dalla Chiesa. Perché non utilizza il termine “massima”, o “riflessione” o “sentenza”? Perché sono parole logore. È ovvio che non potevo scrivere “Massime”, perché in Francia la tradizione della massima è tale che sarebbe stato pretenzioso da parte mia dire: «Ecco, sui miei testi metterò “Massime”». Non era possibile. Preferisco Sillogismi dell’amarezza. A me non sembrava tanto male ed evitavo di dire “massime”. Così ci si concede una sorta di dignità, mentre rimango nella tradizione francese. In Francia è molto difficile, soprattutto perché la tradizione è molto importante. Bisogna essere modesti! Ritenevo inoltre che Sillogismi dell’amarezza si accordasse meglio col tono. Aveva un carattere eccessivo che i libri dei francesi non avevano più, perché gli stessi francesi sono più sottili. Il francese ha “tatto”. Quando si arriva dai Balcani, il “tatto” è del tutto superfluo. Allora, lei si sente vicino a La Rochefoucauld, a Chamfort? Senza dubbio di più a Chamfort. Devo dire che ho letto tutti i moralisti francesi. Compreso Vauvenargues? È il più distinto, sebbene il più insignificante. Ve n’è uno che all’estero non è conosciuto, nemmeno in Francia: Joubert. È uno degli spiriti più raffinati che siano esistiti in Francia. È vissuto durante la rivoluzione. Ebbe un’esistenza molto mediocre. Fu anche ispettore scolastico, un amico di Chateaubriand. In fondo, era un solitario, e ha coltivato anche questo genere letterario. È stato veramente una delle menti più

213

Ultimatum all’esistenza

fini dell’epoca. Chateaubriand era la vedette. Oggi si può sempre leggere Chateaubriand, per esempio le Memorie d’oltretomba. Ma Joubert, che era conosciuto grazie alla sua cerchia di amici, lo si può leggere integralmente. Non è il caso di Chateaubriand. Lei ha parlato di “tatto” della lingua francese. A tale proposito utilizza spesso il termine “probità”. Dice: «Vi è della probità nella lingua francese». Del resto, quel termine è stato utilizzato da Rivarol. È la parola di Rivarol. Rivarol, come saprà, ha scritto un testo notevole. Nel 1784 l’Accademia di Berlino aveva posto la questione pressappoco in questi termini: perché il francese è una lingua universale? Quali sono i motivi? A tutt’oggi la risposta di Rivarol è ancora di estremo interesse, perché ne fornisce le ragioni. Egli scrive questa frase veramente bella e profonda: «la probità che è legata al genio di questa lingua». In effetti, in francese, si ha l’impressione di non poter barare. Ovviamente si può barare, come in tutte le lingue. La lingua possiede un rigore, l’ho sperimentato nel romeno dove avevo l’impressione di poter dire qualsiasi cosa. In francese no, perché, innanzitutto, bisogna che un testo sia intelligibile. Per un francese, per uno scrittore francese, l’oscurità può essere tanto un segno di debolezza, quanto di eccessiva profondità. Ma, di solito, quando si scrive un testo in francese, occorre che sia intelligibile. Il termine “probità” non riguarda un carattere morale, piuttosto è l’aspetto intelligibile a essere indispensabile. Quando le scrivono una lettera in francese, deve capire subito se il tipo ha una bella mente o meno. Molto spesso in francese si dice: “Il n’a pas la tête bien faite” [Non è una testa ben fatta, ndt]. È molto importante. Non si tratta di logica. Non è questo il problema. Tuttavia, non si deve barare sulle parole. Per esempio, quando leggiamo il tedesco, perfino l’inglese, si ha l’impressione di qualcosa di arbitrario, soprattutto in prosa. In francese no. Se leggiamo un testo francese, si vede subito se qualcuno vuole qualcosa o meno. Ciò non accade quando si legge un libro di filosofia in tedesco. In inglese è uguale.

214

Intervista con Philippe D. Dracodaïdis

L’inglese non ha lo stesso rigore del francese. Ritengo una calamità il fatto che l’inglese sia diventato lingua universale. Qui, come in tutti i Paesi dove si viaggia, l’inglese è onnipresente. Questo è troppo. Penso che il francese sia la lingua ideale per la prosa, ma non per la poesia. La poesia inglese è senza dubbio superiore, è un dato incontestabile. Gli inglesi sono grandi poeti. Tuttavia, riguardo alla prosa, lo strumento ideale è la lingua francese. Allora, perché lei si considera un traditore della lingua materna, visto che ama a tal punto il francese da trovarvi tanti vantaggi? Mi scusi, ancora una cosa: lei si ritiene un traditore della lingua materna o paterna? No, no, “materna”. Ne è certo? Sì, sì! No! Ecco… Ho cominciato a scrivere in francese a 37 anni. Arrivai a Parigi nel 1937, con una borsa di studio, dovevo scrivere una tesi, che non ho mai fatto. Barai e il direttore dell’Istituto francese di Bucarest venne in Francia a trovarmi. Mi disse: «Lei non ha fatto la tesi!». Gli risposi: «Mi dispiace, non ho trovato l’argomento. Ma conosco la Francia come nessun altro, perché l’ho percorsa tutta in bicicletta, in lungo e in largo». Allora, quel direttore dell’Istituto francese, che era una persona perbene, mi disse: «Ascolti, è meglio conoscere la Francia che fare una tesi». Effettivamente mi perdonò, per così dire, perché avevo barato. Ero stato un bugiardo. Sa cosa mi è successo? Dopo un anno, mi chiese la raccomandazione di due professori universitari. Personalmente, non ne conoscevo nessuno. Ero a Parigi, conducevo una vita un po’ sotterranea, ai margini della società. Mi occorrevano due referenze per Bucarest, due lettere di raccomandazione da parte di professori della Sorbona o del Collège de France. Non ne conoscevo nessuno. Era urgente e volevo assolutamente che la mia borsa fosse prolungata. Come fare? Allora telefonai a una persona, uno studente

215

Ultimatum all’esistenza

romeno, e gli chiesi: «Conosci qualche professore?». Egli rispose: «Ne conosco uno: Louis Lavelle». Lavelle era un filosofo molto stimato, di cui conoscevo vagamente l’opera. Gli dissi: «Pensi possa concedermi una raccomandazione?». – «Solitamente no. Non ti conosce». – «Ma è urgente. Questione di pochi giorni». Allora fissammo un appuntamento, andammo da Lavelle, erano le undici e mezza del mattino. Cominciò a parlare di varie cose. Ed io, con nonchalance, feci sfoggio delle mie conoscenze, soprattutto, sapendo che non conosceva bene la filosofia tedesca, iniziai a citare nomi, di continuo, per quasi mezz’ora. Vidi che prendeva appunti: «Come si chiama quello?». A mezzogiorno venne la moglie. Era ora di pranzo. Quindi chiese: «Cosa vuole?». – «Signore, mi occorre una raccomandazione». – «Per cosa?». Gli dissi: «Sono inviato dall’Istituto francese e chiedono una raccomandazione, per restare ancora un anno a Parigi». – Rispose: «Ma sa, non la conosco». A quel punto si alza, era un signore molto dignitoso, era il critico del giornale «Le Temps», non era dunque uno qualunque. Ma come scrittore era un po’ insignificante. Notai che assunse un’aria disperata: «Come si chiama?». – Scrissi il mio nome. Uscì e dopo qualche minuto tornò con una brevissima lettera, ma alla fine utile. In ogni caso, me ne occorreva una seconda. Come trovarla? Andavo al Luxembourg, ho sempre abitato nei suoi dintorni, ci ho passato tutta la mia vita e un giorno, chi vi incontro? Un grande studioso, il maggior conoscitore della mistica spagnola: Jean Baruzi, autore di un libro straordinario, ammirevole, San Giovanni della Croce, un bel libro, ancora il migliore sull’argomento. Conoscevo lui, come del resto la sua opera. Lo vidi seduto su una panchina e gli dissi: «Buongiorno, lei è…?». – «Cosa vuole?». Allora risposi: «Conosco la sua opera, signore». Iniziai a farne un elogio ditirambico e parlammo così per un’ora e mezza. Era impossibile dirgli di raccomandarmi, così, nel bel mezzo del giardino e allora gli dissi: «Io... vorrei rivederla». Subito dopo aggiunsi: «Sì, ma a patto di farmi una raccomandazione». E lui: «Ma come una raccomandazione? Non la conosco!». – «Ma ha parlato con me per un’ora e mezza». – «Ma ciò non basta». E io: «Signore, non ritiene che io meriti di rimanere ancora

216

Intervista con Philippe D. Dracodaïdis

un anno a Parigi?». – «Senz’altro! Ma come può pretenderlo, io non la conosco! Non faccio mai simili cose!». Allora me ne andai. Ero totalmente disperato. Finalmente m’imbattei in un professore un po’ più generoso, più accomodante, che mi fece la raccomandazione. Tutto ciò solo per dirle fino a che punto ero fuori, allo stesso tempo, dal mondo ufficiale e dalla cultura. Non so se lei conosce il libro, a mio avviso un gran libro, I quaderni di Malte Laurids Brigge di Rilke. È il libro più profondo, triste e desolato su Parigi. Quel libro inizia così: «Si viene qui per vivere o meglio per morire». E ricordo di aver scritto un articolo su Parigi inviato in Romania, che iniziava con questa citazione e che scandalizzò tutti, poiché per i romeni Parigi rappresentava la felicità. Deve sapere che i romeni avevano un solo sogno: spendere tutti i loro averi a Parigi e poi suicidarsi. Il loro sogno era finire la vita a Parigi, quindi sperperare tutto. Parigi è sicuramente una delle città più tristi che ci siano; è bellissima, ma è molto malinconica. Allora scrissi un articolo che partiva dalla citazione di Rilke e che si rivelò, per me, fatale. Credo che nel primo capitolo di Storia e utopia, intitolato Su due tipi di società, lei affermi esattamente la stessa cosa attribuendola a Chamfort: «Ciò detto, non dimentico in nessun momento che i suoi abitanti, i quattro quinti, come notava già Chamfort, “muoiono di tristezza”»5. Certo! Il libro di Rilke è un libro straordinario, è una visione di Parigi che non è quella corrente. A mio avviso, si tratta di una visione molto profonda, è una delle città che segnano di più. Personalmente, non ho mai voluto lasciare Parigi. Sono quarant’anni che vi abito e non ho potuto abbandonarla. Impossibile partire. Su questa nozione di “tristezza” vorrei ci soffermassimo un attimo, poiché nei suoi libri la tristezza va un po’ oltre, non direi fino al nichilismo, ma 5

Id., Storia e utopia, a cura di M. A. Rigoni, Adelphi, Milano, 1982, p. 32.

217

Ultimatum all’esistenza

fino al nada spagnolo. Scusi, non mi riferisco al nada spagnolo “negativo”, quanto piuttosto a quello “creativo”. Esatto. Sono stato molto influenzato dagli spagnoli, dalle loro ossessioni e dal nulla che fa parte della loro vita quotidiana. Non parlo del nulla-vuoto, se così posso dire. Sebbene ciò possa apparire contraddittorio e ridicolo, si tratta di una sorta di nulla sostanziale. Si vive nel nulla, nel nada, si è avvolti dentro e ciò caratterizza tutta la Spagna. Ho sempre amato quest’aspetto marginale della Spagna. Dopo la Conquista, dopo aver creato quell’Impero straordinario, un intero popolo, per così dire, si è raccolto, si è immerso in sé stesso, è uscito dalla storia, dopo una delle più grandi avventure mai realizzate. Quindi, è il lato sublime e fallimentare della Spagna che mi ha sempre affascinato; ed esso rappresenta anche la forma ideale dell’insuccesso. Per me è questa la Spagna ed è stata una delle ossessioni della mia vita. Se vuole, osservi la storia della Francia. Si è sviluppata grazie alle rivoluzioni, tuttavia, lungo l’intera storia della Francia, è presente una sorta di coesione interna. Non si può parlare di fallimento. Forse ci sono stati degli insuccessi, ma non fallimenti. Per questa ragione, il francese non è un essere tragico. Può essere triste, ma non tragico. Lo spagnolo è un essere tragico. Questa nazione, che si ripiega su sé stessa, è contraddistinta da una sorta di solidarietà. Adesso rientra nella storia, ma per tre secoli ha vissuto in una passività tormentata, il che rende la mistica spagnola una delle più grandi. D’altronde, è questo il motivo per cui penso che, qualunque cosa dica, lei rimane un sentimentale, un estroverso. Ho qui davanti l’inizio del testo Su due tipi di società, che sembra molto importante. Riassume ciò che lei ha sostenuto sulla lingua, ma, se permette, qui è decisamente meglio. Sì, sì! «Dal Paese che fu il nostro e che non è più di nessuno, mi solleciti, dopo

218

Intervista con Philippe D. Dracodaïdis

tanti anni di silenzio, a fornirti particolari sulle mie occupazioni, come pure su questo mondo “meraviglioso” che ho, secondo te, la fortuna di abitare e di percorrere. Potrei risponderti che non faccio nulla e che questo mondo non è affatto meraviglioso. Ma una risposta così laconica non potrebbe, nonostante la sua esattezza, appagare la tua curiosità, né soddisfare le molteplici domande che mi poni. Ce n’è una, a mala pena distinguibile da un rimprovero, che mi ha colpito in modo del tutto particolare. Vorresti sapere se ho l’intenzione di tornare un giorno alla nostra propria lingua o se intendo invece restare fedele a quest’altra, nella quale supponi, del tutto gratuitamente, che io mi muova con agio che non ho, che non avrò mai. Raccontarti per filo e per segno la storia dei miei rapporti con questo idioma d’accatto, con tutte queste parole pensate e ripensate, affinate, sottili fino all’inesistenza, piegate sotto le esazioni della nuance, inespressive per aver tutto espresso, di una precisione spaventevole, cariche di stanchezza e di pudore, discrete perfino nella volgarità, vorrebbe dire intraprendere la narrazione di un incubo. Come puoi immaginare che uno scita vi si possa adattare, che ne afferri il significato preciso e le maneggi con scrupolo e probità? Non ce n’è una sola la cui eleganza estenuata non mi dia la vertigine: più nessuna traccia di terra, di sangue, di anima in esse. Una sintassi d’un rigore, d’una dignità cadaverica le rinserra e assegna loro un posto da cui neanche Dio potrebbe smuoverle. Quanto consumo di caffè, di sigarette e di dizionari per scrivere una frase un po’ corretta in questa lingua inavvicinabile, troppo nobile e troppo distinta per il mio gusto! Disgraziatamente, me ne sono accorto soltanto a cose fatte, e quando era troppo tardi per allontanarmene; altrimenti, non avrei mai abbandonato la nostra lingua, di cui mi capita ancora di rimpiangere l’odore di freschezza e di marciume, il miscuglio di sole e di sterco, la bruttezza nostalgica, la superba scompostezza. Tornarvi, non posso; la lingua che ho dovuto adottare mi trattiene e mi soggioga con le pene stesse che mi è costata. Sono un “rinnegato”, come tu insinui? “La patria non è che un accampamento nel deserto”, si dice in un testo tibetano. Io non vado così lontano: darei tutti i paesaggi del mondo per quello della mia infanzia. Ma devo pure aggiungere che, se ne faccio un paradiso, responsabili ne sono soltanto le prestidigitazioni o le infermità della memoria. Siamo tutti

219

Ultimatum all’esistenza

inseguiti dalle nostre origini; il sentimento che m’ispirano le mie si traduce necessariamente in termini negativi, nel linguaggio dell’autopunizione, dell’umiliazione accettata e proclamata, dell’assenso al disastro»6. Vorrei qui sottolineare anche la parola “autopunizione”. Vi è una sorta di rinnegamento di sé stessi. Assolutamente. A mio avviso, ciò caratterizza gran parte della sua opera. Perché l’odio di sé? L’odio di sé è un sentimento abbastanza diffuso, almeno credo. Non penso che tutti lo provino, ma lo si può sperimentare di tanto in tanto, o in modo più o meno costante. E devo dire, in proposito, che ho scritto due pagine che hanno suscitato scandalo in Romania. Si è sfiorato veramente il tragico. Nel 1956, in un libro intitolato La tentazione di esistere, ho scritto un piccolo capitolo: Piccola teoria del destino, dove ho parlato delle mie origini, del popolo romeno ecc., se vuole, in un accesso di follia. Ciò si è rivelato così grave che tutta la stampa romena si è scatenata contro di me, da sinistra a destra; in fondo, non c’è né sinistra né destra, ma persone di destra mi hanno attaccato. Mi hanno attaccato tutti. Mio padre mi scrisse una lettera: «Ti intimo di rinnegare quel testo!». Lei crede si possa rinnegarlo? Dissi di sì. Per darle un esempio degli eccessi a cui si arriva quando si è colti dall’odio di sé, le parlerò di due fenomeni: del filosofo russo Čaadaev e di Weininger, un pensatore più recente, tipici esempi dell’odio di sé, di intelligenze rivolte contro sé stesse. Quel testo è del 1956, scritto in un attacco di semi-follia. Giudicherete voi. Si tratta di un estratto dal suo libro La tentazione di esistere e dal capitolo che reca il titolo: Piccola teoria del destino: «Vi sono dei Paesi che 6

220

Ivi, pp. 11-12.

Intervista con Philippe D. Dracodaïdis

godono di una sorte di benedizione, di grazia: tutto riesce loro bene, persino le sciagure, persino le catastrofi; ve ne sono altri che non riescono a venire a capo di nulla e i cui trionfi equivalgono a delle sconfitte. Quando vogliono affermarsi e fare un balzo in avanti, una fatalità esterna interviene a spezzare il loro slancio e a ricondurli al punto di partenza. A loro ogni opportunità è negata, perfino quella del ridicolo. Essere francese è un’evidenza: per questo non si soffre né ci si rallegra; si dispone di una certezza che giustifica la vecchia domanda: “Come si può essere Persiano?”. Il paradosso d’essere Persiano (nella fattispecie Rumeno) è un tormento che occorre saper sfruttare, un difetto da cui trarre profitto. Confesso che un tempo considerai un’onta l’appartenere a una nazione qualunque, a una collettività di vinti, sulle cui origini nessuna illusione mi era concessa. Credevo, e forse non mi sbagliavo, che il nostro popolo discendesse dalla feccia dei Barbari, dai relitti delle grandi Invasioni, da quelle orde che, incapaci di proseguire la loro marcia verso Ovest, si accasciarono lungo i Carpazi e il Danubio, per rintanarvisi e sonnecchiare, massa di disertori ai confini dell’Impero, plebaglia imbellettata con un pizzico di latinità. Tale il passato, tale il presente. E tale l’avvenire. Quale prova per la mia giovane arroganza! “Come si può essere Rumeno?”, a questa domanda potevo rispondere soltanto con una incessante mortificazione. Odiando i miei, il mio Paese, i suoi contadini fuori del tempo, irretiti dal loro torpore e come sprizzanti ebetudine, arrossivo d’esserne l’erede, li rinnegavo, mi ritraevo dalla loro sub-eternità, dalle loro certezze di larve pietrificate, dalle loro fantasticherie geologiche. Avevo un bel cercare nei loro tratti il guizzo, le smorfie della rivolta: la scimmia, ahimè, stava morendo in loro. E invero, non appartengono forse ai minerali? Non sapendo come pungolarli, come animarli, giunsi a vagheggiare lo sterminio. Ma non si massacrano delle pietre. Lo spettacolo che mi offrivano giustificava e sconcertava, alimentava e scoraggiava la mia isteria. E incessantemente maledivo il caso che mi aveva fatto nascere tra loro. Una grande idea li possedeva: quella del destino; la ripudiavo con tutte le mie forze, non scorgendovi altro che un sotterfugio da codardi, una scusa per tutte le abdicazioni, un’espressione del buon senso e della funerea

221

Ultimatum all’esistenza

filosofia. A cosa aggrapparmi? Il mio Paese, la cui esistenza visibilmente non aveva senso alcuno, mi appariva come un compendio del nulla o una materializzazione dell’inconcepibile, come una sorta di Spagna senza secolo d’oro, senza conquiste né follie, e senza un Don Chisciotte delle nostre amarezze. Farne parte: che lezione d’umiliazione e di sarcasmo, che calamità, che lebbra!»7. Non si può immaginare la reazione che questo brano scatenò in Romania. Tutta la stampa, all’unanimità. Impossibile giustificarmi! Non fu possibile e soprattutto, devo dire, la lettera di mio padre mi sconvolse. Lui sapeva quanto amassi i contadini, in particolare in Romania, essendo nato nei Carpazi, tra le montagne, dove spesso andavo a passeggiare. Mi piaceva parlare con i pastori, che avevano una sorta di profondità, non è vero? Gente al di fuori della storia. Ma fu durante un impeto di orgoglio che scrissi quelle cose, in una frenesia di rinnegamento. Vi sono due casi di cui parlerò brevemente: il primo è un filosofo russo quasi sconosciuto, ma il caso è abbastanza curioso. Si chiama Čaadaev, fu discepolo di Hegel, studiò in Germania e scrisse in francese. Tra le altre cose, fu ispettore scolastico. In una lettera scritta a Nicola I, disse: «Mi scusi se è scritta in francese, ma non padroneggio molto bene il russo». Il francese era la lingua della buona società. Tutti parlavano il francese: Puškin, Gogol’, tutti. Scrisse anche un libro in francese, un po’ più equilibrato, si trattava di un’aggressione terribile contro la Russia. Ciò accadde quando in Russia, in seguito alle guerre napoleoniche, le popolazioni speravano in un’epoca di libertà. Avvenne il contrario, sotto Napoleone I ci fu il terrore. Scrisse quel testo in francese e non fu mai più ristampato, un documento praticamente inaccessibile – non so perché – dove parla della sventura di essere russo, della sfortuna di esserlo, in un attacco di disperazione inaudita. Il libro fu pubblicato, e cosa accadde? Fu dichiarato pazzo. Di lui non si parlò più e alla fine 7 Id., La tentazione di esistere, tr. it. di L. Colasanti e C. Laurenti, Adelphi, Milano, 1984, pp. 52-53.

222

Intervista con Philippe D. Dracodaïdis

condusse una vita solitaria, ma influenzò profondamente gli scrittori russi. Ed è singolare che non sia conosciuto in Occidente, che esistano deficienze culturali del genere, perché è di estremo interesse. In seguito attaccò la Chiesa Ortodossa, sostenendo che il dramma della Russia era di non essere cattolica, perché, in tal caso, sarebbe stata comunque in contatto con l’Occidente. Ma ciò che è interessante, è il tono patetico del testo. Quindi è davvero un esempio sorprendente dell’odio di sé, molto frequente presso i russi. Il secondo caso è molto più conosciuto e recente: è il caso di Otto Weininger. Scrisse un libro, Geschlecht und Charakter (Sesso e carattere), che apparve all’inizio del 1900. L’autore si suicidò a ventitré anni dopo averlo terminato. È un libro famoso, tradotto in francese con un ritardo di ottant’anni. È un documento sconvolgente, perché Weininger, da ebreo, attacca il suo popolo, e scrisse un testo di un antisemitismo così feroce che non se la presero più di tanto, perché era talmente esagerato, a tal punto folle che, effettivamente, anche uno come Witt­ genstein, che era un grande ammiratore di Weininger, e anche Karl Kraus, si resero conto che dietro tutto ciò si celava una profonda tragedia personale. Non si trattava affatto di odio, non c’entrava per niente il razzismo, tutto questo non aveva alcun senso. Si trattava di una tragedia personale, non è vero? Più avanti, nello stesso libro, si trova un attacco fantastico contro la donna in quanto tale, a cui non riconosce alcuna esistenza metafisica; questa è la peggiore delle fantasie. Quel libro, che ricordo di aver letto a diciassette anni, mi sconvolse completamente, in particolare l’attacco contro le donne, qualcosa d’inaudito e di molto convincente. Ma i due testi che abbiamo letto, il secondo più che il primo, lo dico per provocarla, mi fa pensare a Giuliano l’Apostata. Come personaggio, ho l’impressione che le piaccia. Ovviamente. È una delle figure più affascinanti, più tragiche della storia. Essendo figlio di prete ero per forza anticristiano. Mio padre era

223

Ultimatum all’esistenza

un uomo molto perbene e ha sempre svolto la sua professione come si deve. Per me era un po’ umiliante. Prima di pranzo, ci obbligava a pregare. Mi infastidiva essere figlio di “pope”, con tutta la connotazione che ciò comporta nei Balcani. Per mia madre, essere moglie di un prete, significava una specie di decadenza, tanto più che era di famiglia quasi aristocratica. In Transilvania, che faceva parte dell’Impero austro-ungarico, c’era una sorta di aristocrazia, vi erano dei romeni ricchi, dei baroni. Il padre di mia madre era un barone. Pertanto, una figlia di barone che sposa un prete, un “pope”, rappresenta una decadenza inaudita. Ma la spiegazione è molto semplice. Il barone voleva avere un maschio. Aveva avuto sette figlie. Era ricco, desiderava lasciare in eredità la sua fortuna e finalmente l’ottavo fu un maschio. Così, lasciò tutte le figlie al primo venuto, a un “pope”, a chiunque. Si sbarazzò di loro. Tutta la sua fortuna è passata al figlio. (Non ricordo più perché io stia raccontando tutto questo!). Quindi, ero affascinato da Giuliano l’Apostata perché comprese il pericolo rappresentato dal cristianesimo per la cultura antica. E lui, che conosceva Platone, dopo aver letto i Vangeli si chiese: «Come è possibile contrapporre testi del genere a Platone?». Si capisce perfettamente la sua disperazione. Ed è, indubbiamente, uno dei personaggi più patetici della storia. Credo volesse vessare a ogni costo il cristianesimo, farlo sparire, soffocare. Commise una sciocchezza, anche se non era tale, perché, a mio parere, si rese conto che la sua opera, la sua impresa non sarebbe riuscita. Come spiegare altrimenti che sia andato a lottare contro i Parti, dove trovò la morte! Perché quell’avventura militare, totalmente insensata, per un uomo che aveva tutt’altra causa da difendere? A mio parere, in cuor suo, non credeva alla possibilità di arginare il cristianesimo, che per lui era la grande catastrofe. Dal punto di vista intellettuale era una catastrofe, poiché, una volta letta la filosofia antica, i Vangeli possono apparire toccanti ma, nonostante tutto, miseri. Ad ogni modo, fu uno dei personaggi storici più profondi e sconvolgenti. Personalmente, sono stato affascinato da questa figura.

224

Intervista con Philippe D. Dracodaïdis

Da un personaggio che possiede al contempo un lato mistico a lei familiare, visto che predilige anche Santa Teresa d’Ávila. Del resto lei scrive: «Le due donne che ho frequentato di più: Teresa d’Ávila e la Brinvil­ liers»8. Sì, ma è un po’ eccessivo. È lei che lo scrive. Certo. La Brinvilliers fu la più grande avvelenatrice. Una donna straordinaria, devo riconoscerlo. Su di lei ho raccontato di tutto, poiché le sue gesta sono incredibili. Allo stesso tempo rimasi affascinato da Teresa d’Ávila e così mi sono detto, non essendo credente, occorre trovare una sorta di equilibrio in tale passione. Allora, come dire, associai il misticismo al crimine totale. Personalmente, essendo un uomo senza carattere, ammiro molto gli individui che ne hanno uno, come quelle due donne. Nel leggere la vita dell’avvelenatrice, si rimane affascinati. Tuttavia, non si può ammirare un’avvelenatrice contemporanea. Mentre un’avvelenatrice di tre secoli fa, è un’altra cosa. A mio avviso, ciò è paradossale. Non riesco a giustificarlo facilmente. Potrei dirle che il paradosso, se si guarda un po’ ai filosofi spagnoli che lo praticano, è una forma della filosofia contemporanea. È vero, il paradosso è un fenomeno contemporaneo. Tutti gli spagnoli hanno praticato il paradosso. In Spagna, si può lanciare qualsiasi paradosso. Anche in Francia, ma occorre che il paradosso sia elegante. I francesi sopportano con difficoltà, diciamo, l’aspetto balcanico delle espressioni. Deve essere un po’ mitigato. In Francia conta solo l’insulto raffinato. Se è grossolano, non interessa. Nella storia della Francia la tradizione dei salotti è molto importante, direi capitale. Se non si cono8

Id., Squartamento, tr. it. di M. A. Rigoni, Adelphi, Milano, 1981, p. 142.

225

Ultimatum all’esistenza

sce la vita dei salotti in Francia… sono molte le cose che sfuggono, ciò è assolutamente indispensabile. In quello che sto per citarle, c’è un paradosso in più. Lei scrive: «Fate una cura di inefficacia! Accostatevi ad un tipo di civilizzazione differente dalla vostra»9. Lei lo afferma a proposito di Lao Tzu. L’ho praticato tutta la mia vita. Ero affascinato da ciò che non avevo. E aggiunge: «Meditate Lao Tzu e i suoi discepoli, la loro dottrina dell’abbandono, del lasciar correre, della sovranità dell’assenza»10. Ho provato anch’io, come tutti, il taoismo. Mi vantavo persino di essere taoista, sino al giorno in cui mi resi conto che era una farsa, perché sono una persona abbastanza esplosiva, che si controlla con difficoltà. Presi quindi come modello Lao Tzu, l’uomo più indifferente, lo spirito distaccato da tutto. Ma si trattò, più che altro, di un’infatuazione. Ciò non significa che io sia in grado di assimilarlo. Si tratta unicamente di voler essere l’uomo che non sono. Certo, ma ritorniamo alla letteratura. Personalmente, sono rimasto molto stupito, piacevolmente sorpreso, nel vederla citare pensatori greci come Gregorio Palamàs o Giovanni Clìmaco. È perché suo padre era un sacerdote ortodosso che lei scrive qualcosa di stupefacente. Non sapevo che Gregorio Palamàs avesse detto una cosa così sensazionale. Scrisse: «Nessuna parola può sperare altro che la propria disfatta»11. E ritengo sia ciò che lei abbia praticato con una certa lucidità. Diciamo di sì. Vorrei ricordare una persona. Conoscevo un teologo romeno, veramente notevole, che conosceva benissimo tutta la teologia Id., Pour et contre l’histoire, «La Table Ronde», n. 63, Paris, mars 1953, p. 17. Ibid. 11 Cfr. Id., L’inconveniente di essere nati, cit., p. 137. 9

10

226

Intervista con Philippe D. Dracodaïdis

orientale. È stato grazie a lui che ho avuto la fortuna di leggere certi testi. Sì, ma come ha incontrato Gregorio Palamàs? Lo ha letto in romeno o in francese? In romeno, certamente. Era nella biblioteca di suo padre, oppure…? No, fu quel mio amico, il teologo, una persona tutt’ora vivente, pubblicò anche dieci volumi della Filocalia, un libro straordinario. La Filocalia è uno dei testi religiosi più belli. Ad ogni modo, per riprendere i temi che abbiamo cercato di affrontare... Mi sono imbattuto in un suo testo che si intitola Su una civiltà esausta, dove dice: «Meno coinvolto, più libero, l’estraneo la esamina senza calcolo e meglio ne coglie i punti deboli. Se la civiltà cade in rovina, accetterà all’occorrenza di cadere con essa, di constatare gli effetti del fatum su di essa e su di sé. Quanto ai rimedi, non ne possiede e neppure ne propone. Poiché sa che non si può curare il destino, non si spaccia per guaritore con nessuno. La sua unica ambizione: essere all’altezza dell’Incurabile…»12. È un testo che lei scrisse nel maggio del 1956 per la «Nouvelle Revue Française». Lo ritiene ancora valido? No, credo tuttavia che l’Occidente sia condannato. Non posso parlare di quest’argomento, è ancora attuale. L’Occidente è destinato alla rovina, è condannato, non per un accidente politico: è storicamente condannato. Una civiltà non può durare all’infinito. È vero che la Francia è una civiltà importante, che è presente da mille anni. Riesce a immaginare cosa significa ciò? E questo è il caso… La Francia è stata 12

Id., La tentazione di esistere, cit., p. 27.

227

Ultimatum all’esistenza

comunque uno dei Paesi più civilizzati d’Europa. Storicamente la Francia è il Paese più minacciato. La decadenza storica può durare molto tempo, ma è in atto una sorta di fatalità. Adesso in Francia, quando se ne parla, hanno tutti questo sentore. Ma il caso è identico per la Germania, l’Inghilterra, sono Paesi che si sono consumati presto. Un popolo può mantenersi solo se non si prodiga, solo se si lascia trascinare così. Tuttavia, non si fa la storia impunemente. Da questo punto di vista, l’Occidente è piuttosto vulnerabile e condannato, non trova? Dobbiamo essere obiettivi. Ad esempio, i russi si sono prodigati molto meno e ora ne traggono i vantaggi. E quando si parla della rivoluzione compiuta dalla Francia; essa è stata sempre presente nella storia e ciò si deve pagare. Ognuno espia, se vuole, il proprio genio. Occorre avere una visione tragica della storia, altrimenti non si comprende niente. Non vale la pena farsi molte illusioni, la storia è spietata. Uno storico che non ha il senso tragico del divenire non comprende nulla degli avvenimenti! Penso che lei affronti un argomento al quale Axelos ha cercato di dare una risposta. Credo lei lo conosca. Sì, sì, è un filosofo, io non lo sono. Ha adoperato lo stile filosofico. È una persona molto perbene, vero? Ma, lei ritiene che la civilizzazione sia tragica e che debba espiare, come dice, i propri successi? Perché da qualche parte lei scrive: «L’uomo si riavrà mai dal colpo mortale che ha inferto alla vita?»13. È qualcosa che si applica all’Occidente e non all’Oriente? No, ciò si applica all’uomo in generale. Non ha niente a che vedere con l’Occidente. Effettivamente, l’uomo, per lo più, è un essere condannato, una creatura votata allo scacco, a un destino tragico. In 13

228

Id., Sillogismi dell’amarezza, cit., p. 113.

Intervista con Philippe D. Dracodaïdis

generale accade questo, l’Occidente ne rappresenta un caso. L’uomo è intaccato alla radice, è un avventuriero che pagherà cara quest’avventura umana, che non può finire bene. Basta osservare gli avvenimenti, i decorsi storici, come spariscono le civiltà. Si vede che l’uomo ha preso necessariamente e inevitabilmente una brutta china. Non parlo dell’idiozia della bomba atomica, ciò è banale, ma l’uomo, dato l’andamento precipitoso della storia odierna, è evidente che non può finire bene. Ad ogni istante, la sola questione da porsi è per quanto tempo ancora tutto questo possa durare. Vero? Ma la caduta dell’uomo è inevitabile. Ne sono assolutamente convinto. La precipitazione sarà funesta e ineluttabile. L’uomo è un animale condannato e non c’è assolutamente nulla da fare a riguardo. Ed io, pur non essendo credente, devo ammettere che c’è una cosa che mi ha profondamente segnato: l’idea del peccato originale. Per me, si tratta di una visione straordinaria. C’è un solo libro che dovremmo leggere: la Genesi, il primo capitolo della Bibbia. Vi è detto tutto. È l’intera storia del divenire, il destino dell’uomo, c’è tutto ed è al contempo una filosofia della storia; è detto tutto sull’uomo come tale, il dramma della conoscenza, tutto, tutto. È il libro più profondo, il più profetico. Se lo si legge, si comprende tutto; la Genesi è quanto basta. Ad ogni modo è straordinario se si pensa che diversi secoli prima di Gesù, nel deserto, fu concepita una tale premonizione della catastrofe, dell’avventura umana. Vi è detto tutto, senza pietà. Si può concepire benissimo la storia del peccato originale senza essere credenti. C’è una tara iniziale legata all’apparizione dell’uomo. È quella la sua originalità ed è evidente che tutto ciò non può finire bene. È assolutamente certo. Si può immaginare qualsivoglia fine della storia, ogni precisazione è inutile, ma essa rimane inevitabile. Quanto tempo durerà ancora tutto questo, non possiamo saperlo. Ma la catastrofe è sicura, questa è la sola cosa che si possa dire. Per concludere, vorrei utilizzare di nuovo i suoi testi, ritornando sugli argomenti che abbiamo già trattato. Lei scrive: «Quando si sa quello che contano le parole, la cosa sbalorditiva è che ci si sforzi di enunciare una

229

Ultimatum all’esistenza

qualsiasi cosa e che ci si riesca. Ci vuole, è vero, una sfrontatezza soprannaturale»14. E ancora: «Pensano profondamente soltanto coloro che non hanno la sventura di essere dotati di senso del ridicolo»15. Più avanti: «Tutti questi passanti fanno pensare a gorilla deboli e stanchi, e che ne avrebbero abbastanza di imitare l’uomo»16. E soprattutto scrive: «Essere, vuol dire essere incastrati»17. Sì. Non so come tradurlo in greco. Ma è vero, no? È vero. Va di pari passo con la nozione di catastrofe di cui parlava. Sì. In fondo, sono delle evidenze. Non occorre insistere. Delle evidenze dette molto bene. Sì, forse. L’uomo parla solo di cose evidenti. Sì, è vero. Personalmente, ritengo che si possa concludere. Si può terminare con “essere incastrati”. Sì, con “essere incastrati”. Ecco, la ringraziamo…

Id., Squartamento, cit., p. 126. Ivi, p. 137. 16 Ivi, p. 122. 17 Ivi, p. 107.

14 15

230

INTERVISTE CON ALINA DIACONÚ*

Con Cioran a Parigi Ci sono incontri che si realizzano in un universo non contaminato da pregiudizi. Paraggio delle idee, dove si sta dietro, come ombre. Se non relegati, quasi non necessari. In questo luogo astratto, palpabile solo attraverso i lampi del pensiero e dei sentimenti, nacque il mio primo incontro con Cioran e con la sua lucida insolenza. Arrivarono poi altre scoperte, fino a scolpire nella mia memoria una figura che avrebbe assunto le forme del mito. Questo viaggio si era alimentato attraverso La tentazione di esistere, Il funesto demiurgo, L’inconveniente di essere nati, Storia e utopia, vale a dire, grazie a quella forma di complicità – probabilmente perfetta – che è la lettura. Mancava solo, come desideravo, l’incontro personale. Un incontro che non avevo mai forzato, perché confidavo, sopra ogni cosa, nella saggezza del caso e in una certa confabulazione, tipica dei disegni divini. Il punto era che prima di partire per l’Europa, avevo passato intere settimane a rileggere libri di Cioran, già sottolineati. Giorno e notte. E avevo finito per buttare giù un questionario, incompleto non c’è dub* Traduzione italiana di Marisa Salzillo.

231

Ultimatum all’esistenza

bio, e indegno del destinatario delle mie domande. Infilai il quaderno con gli appunti nel disordine del mio bagaglio, sicura che non mi sarebbe servito a nulla, dal momento che non possedevo una sola informazione concreta sull’indirizzo o sul numero di Cioran a Parigi. E anche perché, ne ero convinta, Cioran doveva essere, prima di tutto, abitante di un mondo irraggiungibile, al quale nessuno poteva avvicinarsi. Ero a Parigi da qualche giorno. Era un venerdì e di lì a qualche ora sarei dovuta partire per Bruges per una parentesi turistica di fine settimana. E se riuscissi a rintracciare Cioran? L’idea affiora per la prima volta, contornata, tra l’altro, dalla fretta. Un amico romeno mi dà un numero di telefono che non esiste più. Mi avverte, ad ogni modo, che Cioran non vuole più parlare in romeno. Dopo questa piccola sconfitta telefonica, decido di contattare la Gallimard. Spiego cose inspiegabili, chiedo un indirizzo, il nuovo numero. Dall’altra parte, una voce glaciale spezza il mio entusiasmo. Il consiglio che ricevo è di scrivere una lettera alla casa editrice, che l’editore farà recapitare a “Monsieur Cioran”. È tutto ciò che possono fare per me. Do un’occhiata all’orologio; solo un’ora e mezza mi separa dalla partenza per Bruges. Su un foglio di carta, traccio righe incerte sulla mia incerta identità, che una mano altrettanto incerta ritira all’ufficio postale. Prevedo ciò che è prevedibile: il silenzio. Vado a Bruges: un piccolo Eden tra canali ghiacciati, anatre, cigni e bucolici salici piangenti. Il lunedì mattina, di ritorno da quel sogno medievale e fiammingo, verso l’altro sogno, quello del Quartiere Latino, sono risvegliata da un terzo sogno: appena varcata la soglia dell’albergo, mi informano che c’è un messaggio per me. «Le ha telefonato il signor Cioran». «Ha lasciato un numero a cui richiamare, un indirizzo, qualcosa?», chiedo. In portineria, la nota non riporta nient’altro. L’abisso e l’utopia continuano a separarci. Eppure, una sorta di impazienza si è impadronita di me come un solletico, una puntura di zanzara, e stimola la mia coscienza e l’incoscienza. Ma il prurito peggiora.

232

Interviste con Alina Diaconú

È curiosità, ma anche percepire che i miracoli sono possibili, quando ci sono persone miracolose. Cioran chiama una seconda volta. Stavolta rispondo io. La sua voce è esitante, timida, direi. Chiedo un incontro. «Di cosa parleremo?», mi domanda. Dentro di me, mi chiedo lo stesso. «Di cosa parleremo se ha detto tutto nei suoi libri e se ciò che ancora non ha detto, forse, è un segreto o, al contrario, qualcosa che non ancora è stato rivelato?». Prometto di riflettere sulle domande, di “lavorarci”, gli dico, e insisto su quel termine, non osando confessare che esse sono già state pensate, o abbozzate, o “lavorate” da tanto tempo, anni, in virtù di uno stupore crescente che è dentro me da almeno dieci anni e che solo io conosco. Mi invita a casa sua quel pomeriggio stesso, ma non ho le forze per confrontarmi con lui così all’improvviso. Devo “rimuginare” un po’ su quest’incontro. «Domani, alle undici, va benissimo». La mia voce suona ferma, euforica. La sua, tremula, forse un po’ triste. Odio le mie maschere e invidio la sua umiltà che diventa violenza solo nella letteratura, nel suo pensiero scritto, pertanto, furia controllata alla perfezione. Siamo praticamente vicini. Lui vive nei pressi del Teatro Odéon mentre io sono a Saint Germain-des-Près. «Le dispiace se registro la nostra conversazione?». «No». «Le dà fastidio se vengo con un fotografo?». Promette di darmi egli stesso una foto. Insisto sul fotografo. Ripete che mi darà la foto. Proprio come Bartleby, non si nega in modo diretto, ma mi fa capire che «preferirebbe di no». La mattina dopo, arrivo davanti al vecchio portone d’ingresso: premo il pulsante del citofono “alla francese” e il portone si apre da solo con un cigolio. Comincio a salire le scale. Il quinto piano è in realtà un sesto piano, se si considera l’ammezzato. Accanto alla porta, in basso a destra, su un foglio di carta, a quanto pare messo lì da poco, vedo la scritta “Cioran”. La benevolenza di questo gesto, mi emoziona. Chi troverò dietro quella porta? Nella mia testa, un profilo energico e remoto di una quarta di copertina di qualche libro. A quel profilo associo, come in un identikit, quella voce esile e vacillante che sussurrava

233

Ultimatum all’esistenza

al telefono parole in francese: una voce che lo rendeva, come direbbe Nietzsche, “umano, troppo umano”. E dicendo “umano” dico “amabile” e anche “vulnerabile”. Un uomo minuto, con una massa di capelli grigi, un ciuffo arruffato che gli cade sulla fronte, sopracciglia irsute e l’aspetto un po’ impacciato ma garbato, mi fa cenno di entrare. Lo seguo attraverso una specie di mansarda strapiena di libri e finisco in una stanza più grande, bianca. Un tavolo qui, alcune sedie lì, qualche disegno alle pareti. Sto per sedermi su una delle sedie. «No, si segga di fronte a me, così può vedere Notre-Dame». Attraverso la finestra noto l’inconfondibile cuspide di una delle chiese a me più care. Ho voglia di ribattere: «Non sono venuta per vedere la chiesa», ma mi trattengo, perché so che lui sa che non sono venuta per questo. So anche che è un atto di modestia da parte sua, non necessario, in realtà. Sono nervosa e intuisco che anche lui lo è un po’. È affabile. La nostra conversazione inizia a rilento, come prevedibile. Le prime frasi che imbastisco imbarazzano me stessa, ma lui è troppo sagace per non mostrarsi tollerante. Intrecciamo, in francese, pensieri spezzettati: la Romania, l’Argentina… l’America del Sud. Con grande emozione, mi parla della scrittrice Susana Soca. Era la Victoria Ocampo dell’Uruguay. «Io l’ho conosciuta Victoria Ocampo», sussurra. Ma il suo cuore è (o era) per Susana Soca. «Era una donna stupenda, molto ricca – mi racconta. Ha imparato il russo solo per conoscere Pasternak. Morì in un incidente aereo… Henri Michaux era innamorato di lei, voleva sposarla, ma lei non volle…», mi dice Cioran. Alla prima pagina del numero 11 della rivista della Biblioteca Nazionale Francese, che mi regala e che avrei letto quella stessa sera – un testo firmato da Cioran reca il seguente titolo: Lei non era di qui. È un omaggio postumo dedicato a Susana Soca. Una prosa gemellata con la poesia da quel tocco di ispirazione che non sembra nemmeno appartenere a questo mondo, e chissà a quale…

234

Interviste con Alina Diaconú

«È il più grande prosatore francese di oggi», ha scritto Jean-François Revel nel 1979, a proposito di Cioran. Prosatore nel senso in cui gli altri sono definiti poeti. Non perché, Dio ce ne guardi, scriva prosa poetica, ma perché raggiunge con la prosa, con i mezzi della prosa e dicendo ciò che non è dicibile se non in prosa, l’equivalente di ciò che è la perfezione poetica. Avverto che parlando di Bucarest e di Susana Soca, ci stiamo addentrando in questioni di discendenza, metamorfosi, in ciò che è fondamentale (e che non smette di essere aneddotico, ma fino a che punto?) ovvero la biografia, inseparabile dall’ideologia, anche se nel suo caso, la parola più appropriata sarebbe “dottrina”. E mentre premo il tasto del mio registratore, guardo quest’uomo di settantaquattro anni, il cui volto sembra averne compiuto appena venti e la cui vivacità si nega a qualunque forma di stanchezza o declino, che ha la meglio persino sulla parte più restia del suo scetticismo. Non saprei dire se i suoi occhi siano azzurri. Li ricordo chiari, senza averne colto l’esatta sfumatura. Ricordo, invece, il gilet di lana grigio, il maglione vinaccia, potrei quasi descrivere le scarpe che portava. Ma non il colore preciso dei suoi occhi… La mia osservazione è stata talmente grossolana, frivola, che detesto questa mia approssimazione. Io e lei apparteniamo a una categoria molto speciale, siamo romeni di origine. Che ruolo ha giocato nella sua formazione e nel suo pensiero l’infanzia trascorsa in Romania? Un ruolo enorme. La mia infanzia è stata l’unico periodo felice della mia vita, perché vivevo in montagna. Sono nato in Transilvania, in mezzo ai Carpazi, a dodici chilometri da un’importante città, Sibiu. Anche Sibiu ha giocato un ruolo importante, ma quel paesino natale di Răşinari ha lasciato in me ricordi indelebili. Lei sa, con la vecchiaia, più si va avanti, più si ricorda. Ed io conservo un’immagine così nitida di quel luogo e di quando, a dieci anni, fui costretto a lasciarlo. Nel 1920 non c’erano auto. Prendemmo un carro con cavalli, c’erano mio padre,

235

Ultimatum all’esistenza

il cocchiere, che era un contadino, e io seduto dietro. In quei dodici chilometri che mi separavano dalla città stetti così male che avevo voglia di urlare. Sapevo che c’era qualcosa di definitivo, una conclusione. Si hanno questi sentimenti e queste intuizioni quando si è giovani. La felicità, per me, era finita per sempre. Ero disperato. In quel paesino conducevo una vita selvaggia. A casa ci tornavo solo per mangiare, stavo fuori tutto il giorno, adoravo parlare con i contadini e con i pastori, gente molto primitiva ma, d’altra parte, le uniche persone interessanti. È per questo che posso dire che la fine del paradiso terrestre, per me, furono i miei dieci anni. Finì tutto a dieci anni, per sempre? Sì, per sempre. Dovetti andare al liceo, in città, e i miei genitori mi sistemarono in una pensione. Lì c’erano due donne sassoni e io non ero più a casa, mi sentivo straniero. Quelle donne, inoltre, ci trattavano con enorme disprezzo perché eravamo romeni. C’era già la xenofobia? No, era disprezzo per un popolo senza storia, perché per gli austro-ungarici i romeni erano come dei mezzi selvaggi, senza cultura, senza tradizione. E quindi quelle donne mi dicevano: «Avresti dovuto restartene lì, tra le montagne». Nei suoi libri lei parla dei “vantaggi dell’esilio” e anche di quella “scuola di vertigine” che è l’esilio nelle sue prime manifestazioni. Questa sensazione svanisce quando lei è diventato uno scrittore francese? In tutta franchezza, ho vissuto in seguito con una grande angoscia, con una sensazione di essermi dissociato dalle mie origini, di essere diventato apolide.

236

Interviste con Alina Diaconú

A che età è arrivato in Francia? A ventisei anni. Sono venuto qui per un anno e questa è stata la grande fortuna della mia vita, perché Parigi per me era un sogno. Quando arrivai, nel 1937, ci rimasi solo un mese, giurando però di tornare. In Romania feci il possibile per ritornare. E ci riuscii con una menzogna, perché dissi che avrei scritto una tesi di dottorato alla Sorbona. Si figuri, alla Sorbona ci sono andato solo due volte in vita mia… Mentii. Ad ogni modo, riuscii ad ottenere, per diversi anni, una borsa di studio dall’Istituto francese di Bucarest. Arrivato a Parigi, mi resi conto che non avrei potuto combinare nulla a livello accademico, non valeva la pena sforzarsi tanto. Invece di dedicare tempo alla tesi, impiegai le mie giornate a girare la Francia in bicicletta. Quando il direttore del centro che mi aveva inviato qui arrivò a Parigi mi chiese se avessi lavorato alla tesi e io risposi che, in verità, non avevo fatto altro che andare in bicicletta. E lui mi disse: «Meglio così». Era un uomo molto intelligente. A quell’epoca io non avevo un soldo, non potevo dormire in albergo, mi fermavo sempre negli ostelli della gioventù, sia comunisti che cattolici. Riuscii a conoscere così lo spirito dei francesi. Mi resi conto che i francesi non avrebbero combattuto, nel 1940, perché conoscevo la loro mentalità. Io sostenevo che non sarebbero entrati in guerra, perché erano stufi, stanchi della storia, di tutte quelle false glorie. Tutti mi dicevano che era ridicolo ciò che affermavo, impossibile, ma io ne ero sicuro perché avevo carpito quel loro senso di scoramento. Io ho conosciuto la Francia attraverso gli ostelli. Lei ha analizzato con estrema profondità la persecuzione degli ebrei. A sua volta, in quanto straniero, ha sofferto forme di discriminazione in un Paese così noto per la sua xenofobia, come la Francia? Credo che a tale proposito lei stia esagerando, perché la Francia è xenofoba solo a parole, non nei fatti. Parlo degli intellettuali, si capisce. In Francia, l’intellettuale straniero che scrive in francese è visto estre-

237

Ultimatum all’esistenza

mamente bene. Si tratta di un popolo che adora la lingua e questo è molto importante. Nel momento in cui si scrive in francese, si approda ad uno status diverso. L’uomo francese, per me, è scrittore. Tutti i francesi lo sono. E lei Cioran, come si definisce? Io sono apolide. Ho voluto esserlo, era il sogno della mia vita. Non essere niente è un sentimento di straordinaria libertà. Sono un cittadino che vive in Francia, ma non sono francese. Da un punto di vista amministrativo sono apolide e questo mi piace molto perché corrisponde alle mie idee. I francesi mi considerano francese perché scrivo nella loro lingua e sono sempre orgogliosi quando uno scrittore straniero scrive in francese. Per loro, la patria essenziale è la lingua stessa. Ed è ciò che mi piace della Francia: il culto della lingua. E questo non esiste da nessun’altra parte. Durante la Grande Guerra, venivano trasmessi tutti i giorni bollettini dell’esercito. Uno di questi era il Bollettino della lingua, e un terzo delle lettere spedite durante la guerra vertevano su problemi linguistici. Ciò è un fatto unico al mondo, nella storia. Le dirò una cosa che può interessarle, perché lei, come me, ha dovuto cambiare lingua. Quando ho iniziato a scrivere in francese, ho pensato, come tutti i romeni, che sarebbe stato molto facile. Il francese è una lingua estremamente difficile. Tanto più per me che venivo dalla Transilvania e che avevo genitori di cultura ungherese. Per me la questione della lingua è stata un supplizio, perché non mi ero proposto di scrivere in francese come poteva farlo uno straniero, ma di farlo come fossi stato io stesso francese. Si parla spesso del destino di essere scrittore. Io non saprei dire se si tratta di destino, vizio, o cosa… Entrambe le cose.

238

Interviste con Alina Diaconú

Lei ha dichiarato varie volte che non c’è alcun avvenimento che valga davvero la pena di essere narrato. Allora, perché scrive? Ci sono affermazioni che si fanno in solitudine, come se si fosse Dio. Scrivere è un atto di megalomania. È come se si stesse scrivendo un testamento. Quindi è evidente che, in senso assoluto, scrivere è assurdo come lo è respirare. Quando si scrive, si è soli con sé stessi, non si pensa alle conseguenze né agli altri. È come stare da soli di fronte al Nulla. Pertanto, le affermazioni che uno fa agli altri possono sembrare assurde, ma sono vere per uno, specialmente nel momento in cui le scrive. Quando si è soli, si è Dio. Ed è per questo che scrivere è un atto straordinario, perché si arriva a competere con Dio. Mi viene in mente la differenza che lei ha stabilito tra “filosofi” e “pensatori”. Ha detto che i filosofi scrivevano per i professori, mentre i pensatori lo facevano per gli scrittori. Tale affermazione mi sembra ancora vera. I tedeschi mi hanno attaccato su questa questione, perché lì ci sono più filosofi. Per me, il filosofo è un miserabile che costruisce qualcosa, un mondo, ma non risiede nella vita stessa. Non è un combattente interno, ma costruisce un sistema. Il pensatore, invece, è qualcuno che scava nell’esistenza, che dice delle verità, che non costruisce un insieme. Un poeta non ha bisogno di leggere i filosofi, ma deve leggere i pensatori. Pascal, ad esempio, è un filosofo ma in sostanza è un pensatore, perché tutto quanto ha scritto lo ha fatto a partire da esperienze concrete, da tragedie personali. Sarebbe come la differenza tra arte e scienza? Non proprio. Il filosofo disprezza il pensatore. E il pensatore disprezza il filosofo…

239

Ultimatum all’esistenza

[Ridiamo]. Sì, senza dubbio. Hanno ragione entrambi. È evidente che Dostoevskij è un grande pensatore, ma non si può dire che sia un filosofo. Shakespeare è il più grande pensatore di tutti i tempi. Lei ha criticato il fatto che gli scrittori scrivano sempre “un libro di troppo”, ma al di là di una ragione di vanità, che nessuno discute, non crede che cerchino di rispondere a domande che si moltiplicano, a una catena di dubbi che li spingono a scrivere un libro dopo l’altro? Ciò che detesto – e a Parigi se ne vedono tanti – sono gli scrittori che scrivono enormemente, che pubblicano tanti libri. Ho orrore delle “opere complete”. Quello che bisognerebbe fare, non mediante un regime totalitario, ma attraverso la democrazia, è impedire che scrivano così tanto. Tutti scrivono troppo. Non sarà perché sono gli editori a chiederlo? Beh, non è importante. Dopotutto, ogni scrittore è sempre povero, non può vivere certamente di libri. Anche lei ha scritto troppi libri? Sì, anch’io. Le opere complete di uno scrittore mi danno la nausea. Il mio editore tedesco voleva pubblicare le mie opere complete e ho rifiutato, ovviamente. E poi, io ho scritto cinque o sei libri, perché queste opere complete? Tra l’altro, non sono ancora morto… Lei non ha vissuto di letteratura… Per niente. Ho fatto la vita dello studente. Ho sempre fatto affidamento su borse di studio o roba del genere. I libri non mi hanno mai dato da vivere per più di due mesi e mezzo. Ho fatto qualche traduzione dall’inglese, c’è stata gente che mi ha notato e mi ha aiutato…

240

Interviste con Alina Diaconú

Nei suoi libri c’è un’esaltazione dei mendicanti. Non le sembra una posizione un tantino romantica? È una faccenda superata. Mi riferivo a un’epoca precisa: si può vivere perfettamente senza fare niente, totalmente liberi. E invece guardi un po’ come stanno le cose: anche i mendicanti hanno finito per deludermi. Quindi… è ancora più scettico? Sì. Ho perso anche quel poco di speranza. A Parigi ho conosciuto molta gente. Ho avuto, come si suol dire, un periodo mondano. Per tre o quattro anni sono stato a cene e feste… il complesso del povero che vuole vedere come vivono i ricchi. In Francia, anche questo è un vantaggio: quando si è invitati a casa di ricchi a cui interessa la letteratura, si è trattati da pari. Non ti chiederebbero mai come fai a vivere o a pagare l’affitto. Questo perché il mecenatismo in Francia non esiste più, è scomparso insieme alla monarchia. Lei però ha abbandonato la vita sociale molto presto… Sì, certo. Ho provato per qualche tempo, ma solo per curiosità. Dato che in gioventù avevo letto molto Proust, mi interessava conoscere una certa mentalità. Era molto interessante. Ho qui una sua affermazione: «Una civiltà esiste e si afferma soltanto grazie ad atti di provocazione»1. Credo, però, che lei non abbia nulla contro i pacifisti. Per niente. Anche questa è una provocazione. 1 E. M. Cioran, La tentazione di esistere, tr. it. di L. Colasanti e C. Laurenti, Adelphi, Milano, 1984, p. 29.

241

Ultimatum all’esistenza

Vorrei parlare della guerra, ora. La guerra è stata inventata dall’uomo. La vita stessa è una guerra. L’uomo è l’unico animale che distrugge sé stesso. Lei ha detto che l’uomo è il cancro della natura. Esattamente. Non voglio parlare della bomba atomica, non perché non sia reale, lo è, ma perché mi fa orrore parlarne come fanno tutti al giorno d’oggi. Però è logico che esista, visto che l’uomo non fa altro che autodistruggersi, lo fa da quando esiste e ora ha trovato la maniera definitiva per farlo. Quindi, la bomba atomica è il risultato logico, non della scienza, ma del destino umano, è il coronamento dell’uomo. Non è un incidente. Con la bomba, l’uomo ha trovato ciò di cui aveva bisogno. Lei è pacifista? Sì, lo sarei… se la pace fosse possibile. Ma più che pacifista sono un disertore per natura. Non mi vedo in nessun tipo di esercito. La guerra è un’invenzione dell’uomo, certo, ma del maschio. Non è un’invenzione di una donna. Beh. Ora che le donne stanno arrivando al potere, staremo a vedere… A questo punto mi interessa sapere cosa pensa della lotta della donna per la liberazione, perché io lo considero un fenomeno... …Molto importante. Credo che ci sia una generale stanchezza del maschio. Ciò possiede un senso profondo, non è solo la conseguenza di qualcosa. Penso che il maschio non creda più in sé stesso, perché al-

242

Interviste con Alina Diaconú

trimenti la donna non avrebbe potuto giocare il ruolo così straordinario che ha adesso. Non è un successo delle donne, ma una sconfitta dell’uomo? Ogni successo, nella vita, è a discapito di qualcuno. Non crede che il mondo possa cambiare attraverso l’emancipazione della donna? No. Di certo non migliorerà. Io non sono credente, ma in senso filosofico credo nel peccato originale, anche se non nel senso ufficiale, cristiano. L’uomo è viziato fin dall’inizio. È stato condannato dalla sua origine e contro ciò non si può fare nulla. Ecco perché si distrugge. Per lei, dunque, con la donna al potere sarebbe lo stesso? Sicuramente. Perché la donna possiede ogni tipo di qualità, ma è di certo più invidiosa dell’uomo. Io non la vedo così. Le donne sono molto più gelose degli uomini. È stato così che Adamo ha sbagliato, per colpa di una donna. Ma quella è una storia misogina, la prima! L’uomo è caduto per colpa della donna e quella storia ha un significato. Lei sa che gli uomini che hanno scritto la Bibbia erano persone che non avevano nulla da fare. Non esistevano libri da leggere, niente… Erano uomini che riflettevano e meditavano e che hanno visto l’uomo ai suoi inizi e quelle visioni erano molto profonde. Quindi, all’inizio della storia, quella visione dell’uomo non è stata casuale. Dopo si

243

Ultimatum all’esistenza

è meditato molto di meno rispetto a quei pastori. Per me, è importante meditare fino all’ossessione. Ho letto in un suo libro una critica agli anacoreti. Ne parlava molto male. Male e bene. È una cosa meschina da parte mia. Ho letto molto sugli anacoreti e mi sono reso conto che sarei incapace di imitarli. Li invidia? Sì. È una sorta di odio del vinto. Ho letto tanto riguardo i primi cristiani, sulla vita nel deserto… ma ho anche capito, molto presto, di essere molto freddoloso, uno che in un convento non potrebbe stare, dato che, come lei sa, i conventi non hanno riscaldamenti. [Risate]. È stupido, ma bisogna dire la verità. In tutta la mia vita non ho passato più di tre giorni in un convento. E sono fuggito. Faceva molto, molto freddo… Potrebbe andare in India. Lì farebbe troppo caldo. Sa, io sono ossessionato dall’India, sono un grande ammiratore del buddhismo. Le racconterò una cosa che di certo la interesserà e che, anzi, mi piacerebbe che lei raccontasse, perché si tratta di una persona tuttora in vita, proveniente dall’Argentina. Conoscevo una donna, qui a Parigi, che con l’India si riempiva sempre la bocca. Lei era molto ricca e io molto povero. Il suo amante, che era mio amico, le disse: «Ascolta, dobbiamo trovare una casa a Cioran», ma lei era molto avara, malgrado si vantasse delle sue conoscenze induiste e dei benefici della privazione. A casa sua conobbi un uomo straordinario, un tagliatore di diamanti, argentino. Non ricordo il suo nome. Era andato in India per affari, era rimasto lì due anni, restandone molto affascinato. Io gli chiesi come, essendo lui un tagliatore di diamanti,

244

Interviste con Alina Diaconú

potesse essere interessato alla spoliazione. E lui mi rispose: «I soldi non sono assolutamente nulla». Era ebreo e molto ricco. E riuscì a convincermi. È stato l’unico uomo che, parlando di queste cose, mi ha dato la sensazione di essere sincero. L’unico che, in quelle questioni spirituali, non ingannava nessuno. Mi dica, Cioran, lei ha mai praticato esercizi di tipo spirituale come la meditazione? No. Ho appreso un po’ la filosofia induista, ma ad influire davvero nella mia vita è stato il buddhismo. Io non sono buddhista perché non sono niente, ma il buddhismo mi ha colpito per i seguenti motivi: primo, la vita di Buddha – perché anch’io in tutta la mia esistenza sono stato impressionato dall’esperienza di vedere un vecchio e poi un morto – e inoltre per il processo che ha portato Buddha alla liberazione. Ho fatto la stessa esperienza, sono stato tentato dalle rinunce totali, ma alla fine non ho rinunciato. Vivo tra contraddizioni. Come lei, vengo da un Paese abbastanza primitivo, ma malgrado tutto ho vissuto le contraddizioni del mondo civilizzato. La psicanalisi, la interessa? Sì, ma come fenomeno, non come terapia. Ancor di più come fenomeno culturale. Conosco qualcosa di Freud, ma l’unico libro che davvero m’interessa è Il disagio della civiltà. Non ho mai sperimentato la psicanalisi, perché mi sono sempre curato da solo. Non ho conflitti psichici. Questa non si chiama “onnipotenza”? No, perché mi conosco abbastanza bene. Nessuno può aiutarmi. Se non mi aiuta Buddha, non sarà certo Freud a riuscirci.

245

Ultimatum all’esistenza

Io vengo dall’Argentina, un Paese violento e contraddittorio quasi come la Romania, e che per giunta si trova dall’altra parte del mondo. Lei una volta ha dichiarato che «L’avvenire appartiene alla periferia del globo»2. Lo penso tuttora. E dire che io cambio spesso opinione, ma non su questo punto. A lei, che vive lì, potrebbe sembrare paradossale. Io vivo in un mondo agonizzante, un mondo dove la cultura e la tolleranza si sono esaurite. Un posto che ha smesso di credere in sé stesso. C’è una sorta di orgoglio che ancora lo mantiene in vita, ma l’Occidente è ormai corroso dai propri complessi di inferiorità, per dirla col linguaggio di Freud. È finito, maturo per assaporare la sconfitta, è marcio. Non ha voglia di giocare alcun ruolo nella storia. A mio modo di vedere, non sarà l’America del Nord ma quella del Sud, insieme ai Paesi dell’Est che rimpiazzeranno l’Occidente. Potrà sembrare strano, ma non è certo falso. La Francia è il Paese più consumato, perché è quello più storicamente avanzato. Pertanto, è il Paese che più di tutti può dirsi finito. Lei crede che l’America Latina, un conglomerato di Paesi quasi sempre poveri e governati da dittature, non avrà lo stesso destino dell’Europa dell’Est? Il problema politico non è un problema eterno, è complicato, ma non ha nulla a che vedere con la vitalità di un popolo. Quando lei parla con un poeta sudamericano, uno che si esprime in maniera indipendente, avverte che c’è qualcosa in lui. Ciò che salva un popolo è la sua vitalità. Glielo dicevo perché sono appena stata a Praga e tre anni fa sono andata a Bucarest. In entrambi i casi mi sono imbattuta in città morte; si tratta di Paesi che di certo non sembrano avere vitalità. Quei popoli hanno sofferto enormemente, ma non sono per niente 2

246

Ivi, p. 43.

Interviste con Alina Diaconú

finiti, hanno un futuro. Sono popoli che sono tra parentesi nella storia, ma non sono popoli logori, mentre l’Occidente lo è. Crede che la situazione nei Paesi dell’Est cambierà? Sì, e lo vediamo già in Polonia, ad esempio. E sa perché? Perché hanno una vita sotterranea. Lei sa che io non parlo romeno perché non voglio farlo. I romeni in Romania sono moralmente a pezzi, è vero, ma quando si parla con loro, lei avverte “un non so che”. È la catastrofe, la disgrazia. D’altra parte, il vuoto interiore è il sintomo sicuro e terribile della scomparsa di una civiltà. Questo è il “logorio storico”. Mi ha turbato molto leggere la sua affermazione che il futuro di un popolo sarebbe la tirannia, il “cesarismo”, o qualcosa di molto simile… Sì, l’ho detto, ma non intendevo in senso politico. Io ho detto che un popolo che non sopporta la tirannia si sente ferito e questo lo salva. Perché ha, come gli schiavi, una forza interiore. Voglio che sia molto chiaro, perché spesso ho una maniera paradossale di esprimere ciò che penso, ma nelle questioni politiche ciò è molto pericoloso. Ci sono tante mie frasi che possono suonare in modo orribile. C’è un periodo della sua biografia che non abbiamo ancora toccato. Da quando aveva dieci anni, l’età in cui la mandano via da Răşinari, fino al suo arrivo a Parigi, cosa accade? Ho studiato filosofia, ero allievo di Tudor Vianu, un uomo notevole, fine, brillante. Le racconto un episodio molto triste. A una cena organizzata dalla Gallimard, arriva Vianu e succede una cosa tremenda; nessuno lo conosce, proprio lui, il più colto tra i presenti. Che ingiustizia! E tutto questo perché era rimasto in Romania, perché non era partito. Ho studiato con lui a Bucarest, poi ho insegnato filosofia a Brașov per un anno, anche se si è trattata di un’esperienza fallimentare. Non

247

Ultimatum all’esistenza

mi è piaciuta. Inoltre, all’epoca ero anarchico o roba del genere e non poteva funzionare. Quindi, l’Istituto francese di Bucarest, nel 1937, mi manda in Francia. Una curiosità: perché lei si firma E. M. Cioran? In primo luogo, perché il mio nome mi fa orrore. In secondo luogo, perché uso il sistema di firma inglese, come Eliot, Lawrence… La letteratura inglese mi ha segnato a vita. In Grecia, ad esempio, Platone era Platone, Socrate era Socrate, no? I nomi sono roba per parrucchieri! Gli scrittori russi non le interessano? Certo, anche. Dostoevskij, Gogol’, Čechov, Tolstoj, tutti… e Andreiev. Di Andreiev ho letto assolutamente tutto, la sua opera completa. Le piace Borges? Sì, molto. Lei sa che l’opera di Borges si è diffusa qui e in tutto il mondo grazie al suo traduttore francese, Roger Caillois, che era amico di Victoria Ocampo. Conosco anche Juarroz… e chi invece mi piace molto è Porchia. Legge narrativa? Quasi niente. Ancora meno i romanzi. Nel romanzo non riesco a entrare. Quel carattere progressivo che ha, non mi piace. In Re Lear, ad esempio, la tragedia inizia immediatamente, una volta levato il sipario. Nel romanzo, è tutto molto noioso… Perché tutta questa impazienza? Non lo so.

248

Interviste con Alina Diaconú

Quando sono stata in Spagna mi sono resa conto che lei è un autore molto letto da quelle parti. La Spagna è l’unico Paese che amo. Ho una vera passione per la Spagna. Amo il suo genio sconfitto. Tale passione risale alla Romania. Un giorno, su un treno, a bordo di un vagone di terza classe, è salito un contadino spagnolo. Era sfinito e lasciando cadere la sua bisaccia a terra mi guarda e mi dice: «¡Que lejos está todo!» (Come tutto è lontano!). Quella frase è all’origine del mio amore per la Spagna. Cioran, essere iconoclasta non è una religione diversa, ma è comunque una religione? In qualunque caso, è la religione dei non religiosi. È appena arrivato mio marito Ricardo. Cioran lo aiuta a togliersi il giaccone. In ogni suo movimento trapela un tenero garbo. La vee­ menza è scomparsa, al suo posto è arrivata una dolcezza unica che detta i suoi gesti. Dov’è quel «Robespierre che decapita idee, apologie, progetti sublimi con la ghigliottina di uno degli stili più fini della sua epoca», come ha scritto Fernando Savater? L’intervista è finita. Mi porge due piccole foto: una, in bianco e nero, con il volto di un anziano che non sembra essere lui, l’altra, un’istantanea a colori, scattata in un parco. E qui sì, sembra lui. Gli esprimo i miei dubbi, accennando nuovamente alla possibilità di far salire un fotografo. Tentenna. Mi chiede se davvero le foto che mi ha dato non mi piacciano. Gli dico di no. Oltre a non piacermi, non rendono, non sono utilizzabili. Ci chiede un minuto. Va di là e torna con una busta di plastica verde, in cui sono raccolte, in una confusione totale, immagini di diversa grandezza. Mi mostra una foto che stavolta mi accontenta. «Non so, in questa foto ero molto più giovane», mormora. Cerco di convincerlo che sono cambiati solo i capelli, che ora sono bianchi. Accetta.

249

Ultimatum all’esistenza

Mi prega di non dimenticare il nome della fotografa perché sarebbe ingiusto. Mi rendo conto allora di questa traccia di amore per la giustizia, già emersa quando aveva parlato di Tudor Vianu. Gli chiedo se stia scrivendo qualcosa. Ci dice che tra non molto uscirà un libro, ma che non è sicuro del titolo. «Ho due titoli – dice – vediamo cosa dite voi: Aveux et Anathèmes o Ce maudit moi». «Ce maudit moi è un titolo eccellente, non c’è paragone». «Non è pretenzioso mettere ‘io’ alla mia età?». «Le assicuro di no. È un gran titolo. È il titolo». So che il mio tono suona un po’ perentorio, ma allo stesso tempo sono certa che non c’è alcuna insicurezza che io voglia nascondere. «Lo chieda a suo marito», mi suggerisce. «Glielo traduca». Obbedisco. Cioran ci ascolta mentre parliamo in spagnolo. Adora la nostra lingua. Almeno questa è l’impressione che mi dà. Ricardo la pensa come me, meglio la seconda. «Se entrambi siete d’accordo, è andata. Volete un whisky per festeggiare?». Ci guardiamo. Non vogliamo disturbare, ma sappiamo di dover accettare. Appare poi con un vassoio e un whisky, insieme a una rivista letteraria che purtroppo non si pubblica più, ci dice, e che mi regala: «La Délirante». Un’edizione raffinata, con una riproduzione di Bacon in copertina e un magnifico testo di Cioran. Mi regala anche Squartamento, in edizione spagnola, tradotto da María Dolores Aguilera e Sillogismi dell’amarezza, in edizione venezuelana, tradotto da R. Panizo de Prado in collaborazione con lo stesso Cioran. Siamo alla fine. Ci congediamo. Gioia e tristezza si confondono, avvolgendomi in una schiva confusione. «Ci vediamo…», sussurro, tanto per dire qualcosa. Usciamo in strada. A Parigi c’è sempre così tanto da fare! Corriamo. Sono piena di libri e di frasi che già suonano lontane, che tento di riprodurre, ma che sulle mie labbra assumono un carattere apocrifo.

250

Interviste con Alina Diaconú

Sono prive di energia. Come se certi pensieri fossero fatti per essere letti o pronunciati solo dalla bocca del loro autore, in virtù di un rituale inalienabile. Quando torniamo in hotel sono le dieci passate. Mi consegnano una busta e aggiungono: «Un signore è venuto qui poco fa e ci ha consegnato questa». Sul retro leggo “Cioran”. Apro e con emozione leggo: «Cara Alina Diaconù, una spiacevole omissione: ho dimenticato di menzionare il nome di Alejandra Pizarnik. Abitava nel mio quartiere, più precisamente in rue St-Suplice. Quante volte ho dovuto incrociare questa sconosciuta che portava con sé una disperazione che comprendo perfettamente!». Il suo senso di giustizia, di nuovo. Il mattino seguente, lo chiamo. Mi ripete che sarebbe stato molto ingiusto da parte sua dimenticare Alejandra Pizarnik. Mi chiede come sto. Gli confesso di star male perché devo lasciare Parigi. «Odio andarmene – gli dico – a me piace arrivare». «Non bisogna andarsene – sussurra con voce tremolante – per questo io ho smesso di andare. Alla fine, che senso ha andarsene? Non ha nessun senso». Avrei voglia di dargli una risposta molto ovvia e allo stesso tempo, inevitabile: «Se uno non va, resta…». D’altra parte, conoscere Cioran è stato per me come un “non restare”. Senza quell’incontro, il mio viaggio sarebbe stato diverso. Perché un sogno, un sogno fondamentale, non si sarebbe realizzato. Parigi, inverno 1985

251

Ultimatum all’esistenza

Cioran e «le porcherie della Storia» Trascorsi quasi due anni dalla nostra ultima conversazione, il solo suono della sua voce all’altro capo del telefono, prima mi rasserena, poi mi rende allegra. Gli chiedo la cosa più ovvia: «Come sta?». Cioran si lamenta dell’età e mi ricorda che tra non molto compirà 80 anni. (Quando inizia la vecchiaia? – mi chiedo mentre resto all’ascolto. O detta in altro modo: quando si smette di essere giovani? C’è un momento decisivo, preciso, tangibile?). Céline afferma che la maggior parte di noi muore nell’ultimo istante; il resto lo fa con vent’anni d’anticipo, o ancora prima. Sono, secondo lui, “i dannati della Terra”. E i filosofi, dove si collocano? Cicerone parlava della filosofia come di una “preparazione alla morte”. I filosofi, quindi, hanno a disposizione una preparazione migliore rispetto al resto dei mortali? Compresi gli scettici e gli iconoclasti come Cioran? Lo vedrò qualche giorno dopo. Era da tempo che volevo conversare con lui di un suo amico: un altro romeno, nato in Bucovina, un poeta tedesco che, essendo ebreo, fu perseguitato, senza tregua, dai nazisti prima e dagli stalinisti poi. Morì a cinquant’anni, gettandosi nella Senna. Paul Antschel, meglio conosciuto come Paul Celan. Sono tentata dal menzionare anche un altro suo grande amico, morto di recente, Beckett. Ma non parlerò di nessuno dei due. Gli eventi di Romania ci toccano troppo da vicino, per poterli evitare. In tutta Parigi, del resto, non si parla d’altro. Alla televisione, alla radio, in strada. La Francia è corsa in aiuto della Romania, offrendo ogni tipo di collaborazione. Cioran è un po’ stanco di dover esprimere opinioni sulla vicenda. Sono giorni che lo cercano, da quando è iniziato il massacro. Ho letto in una rivista (credo «Le Nouvel Observateur») che, quando a Timișoara è iniziata l’insurrezione, Cioran stava pensando di scrivere un articolo che si sarebbe intitolato “Le Néant Valaque” (Il

252

Interviste con Alina Diaconú

Nulla valacco, Valacchia è l’antico nome del cuore della Romania). In quell’articolo avrebbe parlato della «storia di una nazione disgraziata e fallita, di un popolo suicidario». Il gran clamore che ne seguì, lo persuase a cambiare i suoi progetti, il che – confessa oggi – lo rende molto felice. Già al telefono, avevamo toccato l’argomento, il suo carattere imprevedibile, quasi utopico. «Sono le porcherie della Storia», mi dice, ridendo. Tra qualche mese, i suoi libri saranno pubblicati nel suo Paese d’origine. In romeno, naturalmente. È un pomeriggio primaverile (una rarità nel mese di febbraio) e quando arrivo in rue de l’Odéon, a Parigi c’è persino il sole. Ho appena letto altre dichiarazioni di Cioran alla stampa: «Per mezzo secolo, non sono tornato in Romania […] L’unica cosa che davvero mi attrae sono i paesaggi dei Carpazi che circondano il villaggio della mia infanzia, Răşinari. C’erano lì un giardino e un cimitero. Amavo il giardino e amavo il cimitero dove un becchino molto saggio, molto vecchio e molto filosofo, mi riforniva di teschi. Ho pensato spesso che sarei dovuto restare in quel villaggio, tra quei contadini analfabeti». Arrivata, senza fiato, alla porta (dopo aver salito a piedi i sei piani che, in realtà, sono sette), mi chiede: «Come? Non ha preso l’ascensore?». Nemmeno l’avevo visto, il nuovo ascensore. È impossibile che il progresso sia arrivato qui, in casa di un uomo che deplora la scomparsa degli analfabeti – penso. Ho sempre ritenuto che coloro che sanno ridere, sanno anche vivere. E Cioran è una persona che ride di gusto. Ride di ogni cosa, ma prima di tutto, di sé stesso. Con la medesima forza. Mi piace tornare in posti come questo, al contempo remoti e familiari. Cerco il confortante paesaggio immobile, le cose situate praticamente nello stesso posto, il bianco delle pareti, la finestra e la bellissima vista, il tubo cromato del riscaldamento, il tavolo davanti al quale ci siamo seduti, il quadro con il disegno di Michaux. Ma oggi mi imbatto in una sorpresa: un ritratto di Cioran, a matita, di piccolo formato. «Lo

253

Ultimatum all’esistenza

ha fatto una donna, una romena» – è la spiegazione che ricevo. Mi colpisce il modo in cui il suo sguardo sia stato immortalato. Cioran è quello di sempre, forse solo un po’ più magro. Ma è attivo, affabile. «Misantropo, ma delizioso», ha scritto di lui non molto tempo fa, descrivendolo perfettamente, Patrice Bollon, che lo ha definito anche come «il maggior stilista attuale della nostra lingua». Commento, con una certa titubanza, l’atteggiamento provocatorio che riscontro negli immigrati arabi che affollano sempre più le strade di Parigi. Cioran sostiene che l’idea è esattamente questa, che vogliono conquistare il Paese e che si tratti, in fondo, di una cosa inevitabile. «Il potere e il fanatismo dell’islam sono inarrestabili. Ho già detto che tra cinquant’anni Notre-Dame sarà una moschea. Un mio amico dice che mi sbaglio. Che accadrà solo tra dieci anni. Beh, credo che la verità stia nel mezzo…». Per lui, l’Europa continua a essere esausta. I francesi posseggono l’intelligenza, ma non la vitalità. La vitalità ora – per Cioran – è in America Latina. Si tratta di Paesi che hanno qualcosa per cui lottare. Che in fondo è quanto accade anche nel mondo musulmano. Essi, in più, posseggono un passato glorioso al quale vorrebbero tornare e che fornisce loro un impulso inarrestabile. «La civilizzazione è la fine della vitalità dei popoli». «E la riunificazione della Germania?» – chiedo per avvicinarmi all’area geografica che oggi più che mai marca il nostro nuovo incontro. Cioran ritiene che la Francia sia terrorizzata, non tanto dall’ipotetica rinascita nazista, che tanto viene proclamata, quanto da ragioni economiche. Il timore di fronte al predominio industriale di una Germania unica. Il nazismo, nella visione di Cioran, è ormai impensabile in Germania. «I tedeschi sono veramente pentiti di quanto è successo, c’è un profondo senso di colpa». Un giorno, era con un amico tedesco e con il suo figlioletto di circa dieci anni. Cioran chiese al ragazzino cosa pensasse dei tedeschi di prima. «Tutti assassini» – rispose. «Tale vissuto è molto profondo tra i giovani. D’altra parte, gli è stato insegnato proprio questo, il che rende impossibile un nuovo nazismo».

254

Interviste con Alina Diaconú

Squilla il telefono. Cioran risponde nella penombra di una delle minuscole stanze adiacenti che costituiscono il suo singolare “appartamento”. Ricordo che aveva detto a un giornalista che i rapporti di Ceaușescu con la Securitate erano relazioni «isteriche come quelle di Hitler con le SS». È sera. Ritornando accende la luce e tutto diventa improvvisamente irriconoscibile e quasi spettrale. È arrivato il momento di dirigersi verso “l’Est”, il tema fino ad ora tenuto relegato, ma che accomuna entrambi. Anche se il nostro dialogo si è svolto e continua a svolgersi in francese, e anche se lui ha scelto lo status di “apolide”. Se la memoria non mi inganna, uno dei temi dei Pensieri di Pascal si intitola “Miseria dell’uomo senza Dio”. Crede che si possa trovare in questa affermazione una delle ragioni degli avvenimenti nell’Europa dell’Est? Pascal sembra aver dimenticato che le epoche più torbide e inumane sono state quelle delle guerre di religione. Per me è evidente: qualsiasi Dio è sospetto. Pascal diceva anche che la giustizia senza forza è impotente, e che la forza senza giustizia è tirannica. Dopo quarantacinque anni di comunismo e venticinque con Ceaușescu al potere, avrà la giustizia la forza necessaria in un Paese degradato e brutalizzato come è la Romania di oggi? I romeni hanno sempre conosciuto l’ingiustizia. È un popolo che ha imparato a vivere senza illusioni. Da lì viene, allo stesso tempo, la sua debolezza e la sua forza. Per me è il popolo più scettico del mondo. Ho letto una dichiarazione in cui lei sostiene che non sia un caso che l’insurrezione sia iniziata in una città in cui il trenta per cento degli abitanti è di origine ungherese. Crede davvero che la rivoluzione romena sia stata, soprattutto, la rivoluzione degli ungheresi di Timișoara?

255

Ultimatum all’esistenza

No. La rivoluzione era nell’aria. Prima o poi, in un modo o nell’altro, sarebbe arrivata. Ma per i romeni è stato umiliante vedere gli ungheresi ribellarsi da soli. E questa umiliazione è stata la miccia dell’insurrezione, che ha riabilitato i romeni davanti ai propri occhi, e davanti al mondo intero. La libertà che, secondo Borges, è un’illusione necessaria, potrà trasformare la letteratura romena o lei ritiene che la creazione in Romania sia stata annientata come è successo nella Cina di Mao? Questi anni di schiavitù hanno segnato i romeni, nel bene e nel male. In altre parole, la loro frivolezza avrà ora un’altra dimensione. Parigi, autunno 1990

256

LETTERE DI EMIL CIORAN AD ALINA DIACONÚ*

1. Parigi, 6 marzo 1985 Cara Alina Diaconú, una spiacevole omissione: ho dimenticato di menzionare il nome di Alejandra Pizarnik. Abitava nel mio quartiere, più precisamente in rue St-Sulpice. Quante volte ho dovuto incrociare questa sconosciuta che portava con sé una disperazione che comprendo perfettamente! Sono molto contento della nostra conversazione di questa mattina. Cordialmente a entrambi, Cioran 2. Parigi, 13 luglio 1985 Cara Alina Diaconú, la ringrazio per la sua cortese lettera del 5 maggio, che mi annunciava l’imminente pubblicazione della nostra conversazione. Non so se * Traduzione italiana di Vincenzo Fiore.

257

Ultimatum all’esistenza

sia stata pubblicata; ad ogni modo, finora, non ho ricevuto nulla. La colpa è sicuramente del giornale o dell’ufficio postale. Congratulazioni per la borsa di studio. Il consiglio che mi permetto di darle è di evitare gli ambienti accademici, in America e altrove. Per uno scrittore, la conversazione con un autista è più fruttuosa che con un professore. Sono stato davvero felice di conoscerla e mi auguro di cuore di ospitarla un giorno qui o altrove. E. Cioran 3. Parigi, 29 novembre 1985 Cara amica, mi ha fatto piacere leggere la nostra conversazione con la sua cortese introduzione. Sono rimasto particolarmente colpito dal fatto che Lei abbia citato le mie parole su Alejandra Pizarnik. In fondo, Lei ha ragione di considerarmi un sentimentale. Lo sono veramente, poiché amo la grandezza, tutta la Patagonia, la musica magiara e il Fado. È stata in America? Ricordo che aveva una borsa di studio per non so più quale università. Qualunque cosa sia, non la prenda sul serio, perché non c’è pericolo più grande per uno scrittore che frequentare questo genere di istituzione. Cordiali saluti a Lei e al suo compagno. Cioran

258

Lettere di Emil Cioran ad Alina Diaconú

4. Parigi, 16 marzo 1986 Cara amica, grazie per la sua lettera e per l’emozione della poesia di Borges su Susana Soca (che forse meritava di meglio, ma comunque non è poi così male). Capisco un po’ lo spagnolo, ma Ionesco non lo comprende affatto. Sarebbe un peccato dedicare il suo romanzo a due vecchi ignoranti e, per giunta, stanchi. Ultimamente ho avuto problemi di salute. Ora sto meglio, ma l’esito di questa ulteriore prova la deluderà: ho deciso di non parlare più di me, di rinunciare alle interviste, insomma, di esercitarmi alla modestia. Inutile dire che sarei molto felice di rivederla ma senza “dialogo”, senza passione, senza scopo. Scriva un libro sulla Patagonia. È un argomento che mi ossessiona e che è più interessante dei Balcani e dei suoi rappresentanti. Pensandola affettuosamente, Cioran 5. Parigi, 9 luglio 1987 Cara amica, mi è piaciuta la sua traduzione e ho persino sentito che si è avvicinata alle mie sinistre certezze con amore... Per evitare qualsiasi complicazione proveniente dalla Francia o dalla Spagna mi ha pregato di dire che le avevo dato l’autorizzazione a tradurre Fratture [cfr. Confessioni e anatemi, ndt] prima che apparissero a Colonia. Le auguro di non conoscere mai la maledizione della notorietà. Non c’è niente di più umiliante e di più amaro. Con tutta la mia amicizia, Cioran

259

Ultimatum all’esistenza

6. Parigi, 31 marzo 1987 Cara amica, grazie per la sua lettera e per l’articolo di Posse (strano e complicato personaggio che mi piace molto). Se ho ben capito, il suo viaggio è stato un grande successo. Fa bene a mettersi in contatto con Codrescu. È molto bravo. Il mio ultimo libro è un bestseller a causa della televisione (ovviamente non ho partecipato ai programmi). Considero questo “successo” come una sconfitta, la peggiore della mia vita. La vecchiaia è una serie di sorprese, intendo umiliazioni. Anch’io sono stato molto contento di averla rivista e invio a entrambi un saluto molto, molto amichevole. Cioran 7. Parigi, 28 settembre 1987 Cara amica, inutile dire che la autorizzo a designarmi tra i tuoi sostenitori (!) e che risponderò alla Fondazione Gougenheim non appena mi chiederà la raccomandazione in questione. Ha assolutamente ragione di richiedere una borsa di studio; questo è quello che ho fatto io per tutta la vita... La definizione di Paradiso? Una borsa di studio a vita. Molto amichevolmente, Cioran

260

Lettere di Emil Cioran ad Alina Diaconú

8. Parigi, 20 settembre 1988 Cara amica, grazie per questo dialogo per niente immaginario, al contrario. Questa forma di conversazione dà a uno scrittore un’immagine molto più autentica e coerente di un’improvvisazione dove ci sono necessariamente argomenti più o meno frivoli. Ho spiegato a Sujère che non c’era nulla di inventato, dunque di inesatto nel suo articolo. Molto amichevolmente, Cioran 9. Parigi, 20 gennaio 1989 Cara amica, grazie per la lettera e per gli Aforismi. Una notizia che la sorprenderà: in Romania è stato pubblicato un intero volume di estratti delle mie opere uscite in Francia. Non l’ho ancora ricevuto, ma credo che la traduzione sia buona. Non è un libro che è stato pubblicato su di me, è solo un eccellente opuscolo di Mariana Sora. Non vedo l’ora di accogliervi entrambi in primavera. La avverto, tuttavia, che trovare uno studio o solo una mansarda è un’utopia. Qui l’anniversario della Rivoluzione tende verso la follia. Molto amichevolmente, Cioran

261

Ultimatum all’esistenza

10. Parigi, 2 aprile 1989 Cara amica, Lei ha la fortuna di vivere dall’altra parte del mondo. Ma noi che siamo qui, malgrado tutto, ancora abbastanza vicini alle nostre origini, siamo consapevoli dell’inferno natio. È così che, al dramma di esistere, si aggiunge quello di appartenere al più sfortunato dei popoli. Non c’è niente di più umiliante che sentirne parlare, – (e questo succede di frequente, essendo la Romania da qualche tempo alla... moda!) – parlare a Lei con pietà e un certo disprezzo, per un’etnia che sopporta tutto senza reagire. Tralasciamo quest’argomento. Grazie di occuparsi di noi dall’altra parte del mondo. Molto amichevolmente a entrambi, Cioran

262

INTERVISTA CON ANCA VISDEI*

Attraverso il suo silenzio, ha permesso che attorno a lui si sviluppassero credenze fantasiose: “nichilista”, “masochista disperato”, “demolitore di illusioni”. Ha appena pubblicato un saggio, Esercizi di ammirazione, cui seguirà, nel corso dell’anno, Confessioni e anatemi. Una manna, dal momento che il più schivo dei grandi scrittori di lingua francese rifiuta di rivelarsi al di fuori dei suoi libri. Odia le interviste, rifugge la stampa… e preferisce che si leggano le seguenti affermazioni come il risultato di una conversazione amichevole. Senza modifiche né interpretazioni. Contrariamente alla sua reputazione, Cioran è un uomo di grande allegria e di squisita cortesia. Colui che stronca Dio e la creazione in un aforisma di due righe, ti apre la porta della sua “caverna” zeppa di libri, a due passi dall’Odéon, con uno sguardo malizioso e un gesto premuroso e ospitale. È un giovane di settant’anni (sic!), con lineamenti raffinati, occhi chiari e criniera bianca. Un “leone bianco”, oltremodo conosciuto. Un pensatore? Un filosofo? In ogni caso, uno scrittore. Dà l’inebriante sensazione di essere qui sulla terra dall’inizio dei tempi, sotto identità appena diverse, a guardia della futilità del mondo, arma-

* Traduzione italiana di Laureto Rodoni.

263

Ultimatum all’esistenza

to dell’unico boomerang del suo pensiero che prevede tutto, compresa la vanità di ogni pensiero. Cioran non è abituato a ricevere giornalisti. Gli sembra di aver detto tutto nei suoi libri. Per quanto riguarda i dettagli autobiografici, anch’essi sono contenuti nelle sue opere. Con la sua aria beffarda, suprema cortesia volta ad alleggerire la gravità delle sue osservazioni, Cioran confessa: «Penso che ci sia solo una cosa che spiega e giustifica i libri: il loro valore terapeutico. Se non avessi scritto, avrei potuto fare cose mostruose. È meglio attaccare qualcuno che non ti piace con aforismi, piuttosto che spaccargli la faccia. L’unica funzione della scrittura: una vendetta senza rischi. Non attacchiamo solo le persone – che peraltro sopravvivono ai nostri attacchi –, ma soprattutto Dio. Nei libri riversiamo i cattivi sentimenti. Tutto ciò che ho scritto trae origine da un’esperienza personale. Per ogni riga dei miei libri, posso raccontare l’evento, l’ora e il giorno che mi hanno ispirato. Tutti i libri sono solo confessioni più o meno camuffate. Io vivo la scrittura come un’azione: una volta scritte due o tre cose in cui si giustizia l’universo, si può andare a fare una passeggiata». Ionesco evoca spesso lo stupore che lo coglie di fronte a questa capacità di Cioran di tornare a vivere piuttosto gioiosamente, dopo aver dimostrato in modo inconfutabile l’inanità di tutto. La scena è quella di una passeggiata comune, sulla “rive gauche”. Cioran subissa la Creazione, Dio e i suoi uomini, presagendo una vita diversa dopo una vita senza senso. È brillante, indiscutibile, definitivo. Ionesco si lascia convincere, diventa triste e sprofonda nella malinconia. Cioran, considerando esaurito l’argomento, si mette ad ammirare il paesaggio e ad architettare vari progetti. Il suo compagno, di solito, ha bisogno di qualche giorno per riprendersi e trovare “qualche nuovo motivo di speranza”. Cioran, però, non lo fa in modo provocatorio. È solo una perfetta osmosi tra il suo essere e il mondo. Cioran è Faust e Mefisto messi insieme, Jeckyll-che-vive e Hyde-che-scrive. È un asceta saggio (da quando ha rinunciato al caffè, all’alcool e alle sigarette, scrive solo aforismi), vera e propria incarnazione e santificazione del dubbio.

264

Intervista con Anca Visdei

È anche il contrario: uno studente incredibilmente giovane nella sua curiosità e nell’umorismo malizioso, un iconoclasta provocatorio nella più pura tradizione delle università tedesche, una mente sveglia che considera la fatuità rasserenante della pur minima certezza come un affronto personale e una sfida da raccogliere. È colui che ride della follia del mondo perché, nella sua integrità, non è mai caduto nella trappola delle solite vanità; è colui che non può sperare, perché la sua chiaroveggenza gli rivela che non c’è salvezza. A suo avviso, lo scrittore deve rinunciare ad avere una famiglia. Deve anche fare voto di povertà. L’ha fatto egli stesso, con raro rigore. Parla con umorismo dei suoi decenni di stenti: «Per vent’anni, con quasi nulla, il mio sostentamento era assicurato. Ho vissuto in un hotel economico e mangiato in mense universitarie. Uno dei giorni più bui della mia vita è stato quando sono stato convocato all’università e mi è stato detto che il limite di età per entrare nelle mense studentesche era di ventisette anni. Siccome ne avevo quaranta, per me era finita. Tutti i miei piani, tutto il mio futuro, sono andati in fumo quel giorno. Mi vedevo così bene nei panni dell’eterno studente, fallito e povero, bighellonando con altri rifiuti della mia specie nel Quartiere Latino. Corrispondeva così bene alla mia visione del mondo! Pensavo: “Bisogna fare tutto tranne che lavorare”. Con questo intendo: fare un lavoro che non piace. Per me, era l’ufficio, l’insegnamento. Non credo che la vita sia degna di essere vissuta se devi fare un lavoro che non ti interessa. Eppure il novantanove per cento delle persone fa cose che non gli piacciono. La vita vissuta in questo modo non ha senso. Condanna il mondo, la società e l’umanità. Se si arriva a questo punto, è meglio restare allo stato di natura». E Cioran fa riferimento a Dostoevskij che ha accettato di essere povero e senza famiglia. Il più grande di tutti insieme a Shakespeare, che ha «il vantaggio di essere un poeta e di scrivere in inglese». I due scrittori che sono arrivati ai limiti estremi dell’esperienza umana. Oltre, non c’è che la vertigine. «Dopo Shakespeare, si sarebbe dovuto smettere di scrivere opere

265

Ultimatum all’esistenza

teatrali e dopo Dostoevskij, di scrivere romanzi. Ma l’uomo è condannato: può solo andare avanti e schiantarsi. Posso sottoscrivere quanto ho appena affermato davanti a un notaio. So che il futuro ci condannerà. Non darò una scadenza perché non voglio compromettermi. Sulla data, esito, sulla faccenda: no!» Le interviste rilasciate da Cioran sono estremamente rare. Si proibisce una delle illusioni più frequenti del nostro tempo: prendersi sul serio con la complicità dei media. Se da un lato questo rifiuto va a beneficio dell’opera, dall’altro lascia nell’ombra le qualità umane dello scrittore. Perché non si può immaginare il calore di Cioran, la conversazione che dura ore, la sua ospitalità che concilia eleganza e semplicità. Cioran che offre una “grappa” romena. Cioran che, vivace come un folletto, ti scova, senza guardare, nelle sue montagne di libri un piccolo opuscolo. Cioran, infine, che parla più volentieri degli altri che di sé stesso. Il suo ultimo libro si intitola per l’appunto Esercizi di ammirazione. Pagine dedicate a Beckett, Joseph de Maistre, Valéry, Saint-John Perse, Michaux. Il secondo libro (che sarà pubblicato anch’esso quest’anno da Gallimard) è una raccolta di aforismi intitolata Confessioni e anatemi. Si conferma una doppia natura; per l’umanità l’anatema, per l’individuo, a volte miracolosamente, l’ammirazione. Un altro incantesimo, di cui si diventa consapevoli quando si incontra Cioran, è la perfezione del suo linguaggio. Non appena esprime un’idea, lo fa con una precisione talmente diabolica da restarne intrappolati. È necessario citarlo alla lettera: «Ho il complesso dello straniero: so che non posso permettermi tutta l’audacia, le omissioni e le violenze in francese. Tutte cose che facciamo naturalmente, istintivamente, nella nostra lingua, ne siamo consapevoli in una lingua straniera, anche se la possediamo perfettamente. Si rimane sempre consapevoli che le parole esistono indipendentemente da noi. Quest’intervallo tra noi e lo strumento-verbo è la ragione per cui ci sono pochissimi, quasi nessun poeta che scrive in una lingua diversa dalla propria lingua madre. Il Rilke dei Quaderni di Malte voleva a tutti i costi essere un poeta francese. Conosceva molto bene la lingua, ma la sua scommessa era impossibile.

266

Intervista con Anca Visdei

Come poeta, Rilke non esiste attraverso le sue poesie francesi. C’è un lato infantile, c’è questo divario tra il soggetto e la scrittura. Quando le parole esistono al di fuori di te, è impossibile fare poesia con esse. La poesia è in te. Un meteco dev’essere consapevole che, nel suo nuovo linguaggio, non può esprimere quella “morte sotterranea” dell’anima che è la “poesia”. Si può diventare poeta in una lingua che s’impara a cinque anni. Poi è troppo tardi». Per Cioran, il limite più audace che uno scrittore può raggiungere in una nuova lingua è l’ironia. Non se ne priva. Con una perseveranza che fa credere che essa sia solo il lucido travestimento di una disperazione così profonda che altrimenti sprofonderebbe nel grottesco: «L’ironia è il vizio delle sfumature». Ancora una volta, Cioran sacrifica la sua duplice natura: ammirando gli antichi Greci, vecchi maestri nel settore, gli unici a essere stati ironici e pensatori, e ammettendo allo stesso tempo che la filosofia indù, la più grande, quella che affronta tutti i grandi problemi, è totalmente priva di umorismo. Conoscere Cioran, dopo averlo letto, conferma un’ipotesi: esiste un prototipo di saggio occidentale. Con una doppia natura, che egli stesso descrive come entusiasta e delusa, come quel Buddha al quale è giunto per delusione e che non può seguire per il rischio di restarne deluso. Ha avuto il suo deserto, i suoi deserti. In più di un’occasione, il francese ha rischiato di perdere questo formidabile scrittore e Cioran ha rischiato di perdere il francese a cui dedica un vero e proprio culto. Tanto per cominciare, è nato a Rășinari, in Transilvania. Si parlava ungherese, tedesco e romeno, ma non molto francese. All’età di diciassette anni, lo scrittore arriva a Bucarest per studiare filosofia. Scopre un mondo nuovo: tutti parlano francese. Nella società, l’argomento di conversazione preferito è l’ultimo romanzo pubblicato a Parigi. Naturalmente, tutti l’hanno letto in originale: «L’importanza della lingua francese nella Romania prebellica è difficilmente immaginabile; c’erano trenta librerie francesi a Bucarest e un importante quotidiano scritto in francese. Nell’esportazione di libri in lingua francese, la Romania figurava al secondo posto, subito dopo il Belgio».

267

Ultimatum all’esistenza

Per il giovane Cioran fu uno sconvolgimento. Aveva appena lasciato Sibiu (nota anche come Hermannstadt), un centro molto importante della cultura tedesca, dove aveva appreso soprattutto la filosofia. Solo più tardi si è interessato alla poesia, alla letteratura e al misticismo: «La filosofia è stata una grande delusione per me. Non l’ho capito fino a quando non mi ci sono dedicato completamente per anni. È una disciplina pericolosa poiché il contatto con essa genera una totale mancanza di rispetto per tutti coloro che ne sono fuori. Coloro che la praticano, studenti e professori, sono spesso tipi pretenziosi. La filosofia lusinga l’orgoglio; ti dà una falsa idea di te stesso e del mondo. Bisogna averla conosciuta, ma solo per superarla. Apre gli orizzonti, ma ciò che conta prima di tutto è il contatto con la vita, le prove. La filosofia aiuta solo, nel migliore dei casi, a formulare. Il linguaggio filosofico non è appropriato per esperienze strettamente personali. In filosofia, ad esempio, il dolore non è ammesso. Viene lasciato ai curati e ai cattivi scrittori». Tra le sue esperienze personali, Cioran pone al primo posto la perdita del sonno. Si scusa con un sorriso: è consapevole di mettere la sua insonnia ovunque, ma è un’esperienza capitale. La perdita del sonno gli ha fatto capire la tragica, allucinante continuità del tempo, portandolo a una sensazione di non appartenenza al mondo. Durante quelle notti insonni, ebbe la rivelazione dell’inutilità della filosofia. Camminava da solo per le strade di Sibiu: «Eravamo solo io e le prostitute della città. Da allora, ho un grande rispetto per loro. Abbiamo vegliato insieme sul sonno degli altri. È stato un periodo tragico per me. Avevo finito gli studi, ma non ero bravo in niente. Ho insegnato filosofia per un anno. Dopo le mie notti insonni, andavo a scuola di cattivo umore e dicevo cose senza senso. Mi stavo rendendo ridicolo. Due o tre studenti seguivano. Gli altri sogghignavano. Non avevo idea di cosa mi sarebbe successo». Molto opportunamente, una borsa di studio dell’Istituto francese di Bucarest gli permette di andare a Parigi. Cioran aveva già pubblicato cinque libri in romeno, tra cui Il crepuscolo dei pensieri, che considera la preistoria della sua creazione, la sua prima incarnazione. Appena arrivato a Parigi nel 1937, Cioran ha un alibi: scrivere una tesi. Impossibile.

268

Intervista con Anca Visdei

Per dieci anni non ha cercato un solo argomento, convinto che non sarebbe mai stato in grado di scrivere in francese. Poiché la borsa di studio gli permette di vivere, inizia (stranamente) a studiare l’inglese. Durante l’Occupazione, frequenta la Biblioteca Americana, che rimane (curiosamente) aperta. E segue i corsi per l’“agrégation”. «Nella mia memoria, i tempi tristi dell’Occupazione rappresentano il formidabile incontro con i poeti inglesi. Ho letto, con il mio dizionario anglo-romeno, un vecchio libro introvabile, pubblicato a Bucarest nel 1880: i Lesser Poets, i poeti minori inglesi che sarebbero grandi poeti in qualsiasi altra lingua…». Nel 1947, un evento inaspettato. In un villaggio vicino a Dieppe, dove, per divertimento, si esercita a tradurre Mallarmé in romeno, si rende improvvisamente conto che non lascerà mai più la Francia e che ora deve scrivere in francese. Un vero e proprio risveglio mistico. Ritorna immediatamente a Parigi e scrive di slancio la prima versione del Sommario di decomposizione, all’epoca intitolata Esercizi negativi. Cioran ha trentasette anni. Il manoscritto, inviato a Gallimard, fu immediatamente accettato da Raymond Queneau. Cioran fa leggere il testo a un amico. Verdetto: «Puzza di meteco». Responso che lo induce a riscrivere il libro. Lo farà quattro volte e lavorerà giorno e notte per sviscerare i segreti della lingua francese. Per riuscirvi, rinuncia completamente al romeno. Capisce di essere sulla strada giusta quando, nei suoi sogni, sente suo padre che gli parla in francese. «Cambiare lingua per uno scrittore è un fenomeno tanto grave quanto cambiare religione per un uomo – ha detto Simone Weil. Lo scrittore ne trae l’illusione di una nuova vita, di un nuovo universo. Sono categorico? Se uno scrittore straniero (e con questo intendo solo coloro che hanno già pubblicato in un’altra lingua, che hanno avuto dapprima una carriera da scrittori) vuole iniziare a scrivere in francese, deve mettere completamente da parte la propria lingua madre. A volte mi dicono: “Mia moglie vuole parlare nella nostra lingua”. Io dico: “C’è un solo rimedio: il divorzio”».

269

Ultimatum all’esistenza

Durante questo studio “ossessivo” del francese, Cioran incontra un personaggio sorprendente: un francese molto ricco che non aveva mai lavorato in vita sua, un grande conoscitore della lingua basca, su cui, di tanto in tanto, pubblicava un articolo. Questo strano e colto mutilato della prima guerra mondiale, che parlava la lingua scritta del XVIII secolo, aveva frequentato le lezioni di Bergson e, dopo il basco, aveva una sola passione: il francese. «Al bordello, rimproverava le prostitute che commettevano errori di concordanza dei tempi. Urlava quando il congiuntivo imperfetto non veniva usato correttamente. Gli facevo sempre domande quando avevo difficoltà con il mio manoscritto. Un giorno lo invitai in un caffè del Quartiere Latino per leggergli alcune pagine del Sommario. Si è addormentato alla prima. Ciò mi ha provocato un terribile cafard. Eppure ha avuto una grande influenza su di me: aveva una passione per la parola, un’ossessione per la purezza della lingua. Era un esempio di questa straordinaria passione che è sempre esistita tra il francese e la propria lingua. Uno degli ultimi rappresentanti della lingua venerata come assoluto. Questo tizio aveva il vizio della lingua. Viveva per il francese». E Cioran, che annuncia con un sorriso distaccato la fine dell’umanità, si incupisce evocando il tramonto del francese e la scomparsa di questa borghesia colta che ha assicurato la trasmissione della lingua quasi ovunque nel mondo. Cita poi Erwin Chargaff, candidato al premio Nobel proveniente da Czernowitz, la città di Celan, piccola località della Bucovina e, allo stesso tempo, formidabile centro di cultura tedesca. «Chargaff diceva: “Solo ciò che viene espresso in francese merita di esistere”. Era un personaggio interessante. L’ho citato in un articolo pubblicato nella “NRF” e gli dedicherò un capitolo nel mio prossimo libro. Penso che scrivere all’infinito non abbia senso. Di ogni libro rimangono solo poche righe. Che senso ha moltiplicare i libri? Ma siccome non avevo niente da fare, ho scritto questo libro. Bisogna pur far finta di attivarsi un po’. Quando si invecchia, ci si stanca. E io sono sempre stato un po’ stanco».

270

Intervista con Anca Visdei

Cioran, a proposito di Michaux, evoca la razza dei nati stanchi. Senza includervisi. Chi è colui che il pudore trattiene dal definirsi? Un nato deluso? Un nato disperato? Dice di essere preda del cafard metafisico, quel cafard senza ragione che è fondamentalmente la malattia di tutti i mortali lucidi. Tutte le sue azioni ne sono contrassegnate, eppure la sua disperazione allegra è comunicativa e generosa. «Mi dicono spesso: “Nonostante quello che scrivi, sei uno degli uomini più gioiosi al mondo”. Ho davvero riso molto nella mia vita, ma questo non prova nulla. Ridere è un atto liberatorio. Ho appena ricevuto una lettera dalla Romania. Da un amico che sta pensando al suicidio. Mi chiede un consiglio. Ho detto: “Se non riesci più a ridere, fallo!”. Il riso è un atto di superiorità, un trionfo dell’uomo sull’universo, una meravigliosa trovata che riporta le cose alle loro giuste proporzioni». C’è voluto dell’umorismo perché Cioran sopportasse tutti gli anni di miseria durante i quali, solitario e indomito, ha costruito la sua opera. Il Sommario di decomposizione, pubblicato nel 1949, ebbe una certa risonanza. «Ne parlarono per qualche mese. Il secondo libro, Sillogismi dell’amarezza, è stato pubblicato con riluttanza da Gallimard. È stato un fallimento assoluto, un libro nato morto che non ha venduto per vent’anni. Ciò ancora mi stupisce; eppure era un libro molto economico. I miei amici mi facevano la predica: “Questo non è un libro serio, ti comprometterà!”. Una volta ho incontrato un mio amico filosofo per strada. Mi disse senza mezzi termini: “Questo libro non è degno di te!”. Beh, non ne ero così sicuro… Il resto della storia è interessante, soprattutto per i giovani. In Germania, il direttore letterario di Rowohlt, che doveva pubblicare i Sillogismi, li descrisse come “fondo del barile”. Furioso, rimandò il suo contratto a Gallimard, specificando che non avrebbe pubblicato più nulla di mio. Il Sommario di decomposizione era già stato un fallimento in Germania. Venti articoli. Tutti negativi. Vent’anni dopo, è stato pubblicato in formato tascabile. È stato un successo immediato. Grazie soprattutto ai giovani lettori. È solo da questa riedizione che la gente parla di me. I miei primi lettori erano studenti delle

271

Ultimatum all’esistenza

scuole superiori. Questa è una tendenza che da allora non si è più interrotta. Ho incontrato alcuni dei miei lettori. I loro insegnanti li avevano avvertiti che tutto ciò che scrivevo era superficiale. In Germania come in Francia si è verificato lo stesso fenomeno: l’eco è giunta vent’anni dopo grazie ai giovani. È un fenomeno generazionale. Infatti, è stato spesso detto che il mio pubblico è la gioventù eccentrica». Quando è il momento di lasciare Cioran, con le braccia cariche di libri (perché non ti lascerebbe mai andare via senza una copia dei testi di cui ti ha parlato e che ancora non conosci), già avverti la sua mancanza, la mancanza di questa relativa serenità che per gli altri è un trionfo, ma per lui è solo un “calvario riuscito”.

272

INTERVISTA CON BEN SALEM HIMMICH*

I suoi testi, se così si può dire, sono pieni di pessimismo e di rifiuto della vita. Cosa giustifica davvero quest’atmosfera depressiva e crepuscolare che si è stabilita nei suoi scritti come una norma o una regola che perfino il suo contrario non fa che confermare? Ciascuno di noi è predestinato a una visione della vita. Occorre dire però che è tutta una questione d’intensità. Perché ognuno può vedere il lato oscuro della vita, a intervalli o a seguito di certe esperienze. Ma ciò che è fondamentale sono la tensione e la durata. Da quando ero giovane, ho visto le cose come le ho descritte nei miei libri, sebbene non esprimano tutto, perché scrivo soltanto quando sono veramente sotto l’effetto di un’oppressione interiore. Questo spiega d’altronde l’aspetto monocorde e monotono dei miei scritti, che sono solo tentativi di liberarmi da tutto ciò che mi soffoca e mi pesa. Non scrivo per esprimere un’idea o definire una posizione, questa è la mia ultima preoccupazione, ma solo a scopo terapeutico. Devo confessare che i miei libri mi hanno aiutato molto a vivere, perché vi ho espresso tutte le cose di cui volevo sbarazzarmi. In ogni caso, questo tentativo di curarmi è stato per me, fino a un certo punto, una specie di successo, dal * Traduzione italiana di Vincenzo Fiore e Concetta Iannaccone.

273

Ultimatum all’esistenza

momento che non mi sono soppresso. Il fatto però di non aver nascosto questi stati o aver cercato di abbellirli, ecc., mi è stato di grande aiuto. Questo è il motivo per cui la mia concezione della scrittura non è affatto letteraria, quanto piuttosto terapeutica… Scrivere per scrivere non ha alcun senso per me. Bisogna scrivere per cercare di aiutarsi, poiché gli altri non possono nulla. In questo consiste, forse, la vera missione di uno scrittore. Perché un uomo perfettamente equilibrato, che bisogno avrebbe di scrivere? E poi, per dire cosa? Bisogna riconoscere che tale concezione è del tutto soggettiva. Se mai dovessi scrivere un altro libro, lo intitolerei: “Ce maudit moi” (Questo maledetto me). In fondo, tutto ciò che ho scritto ruota attorno a questo tema... Tuttavia, non dovremmo credere che tutto ciò sia soltanto soggettivo. Le sensazioni o i malesseri che descrivo possono essere provati da tutti. Occorre dunque oltrepassare la sfera puramente individuale. Credo che si possa essere universali solo andando in fondo a sé. Più ci si piega su sé stessi, più si approfondisce e si va oltre. L’urlo più personale può essere anche un grido universale. Quindi non dovremmo ridurre i malesseri di cui parlo a stati strettamente soggettivi, privi di significato oggettivo. Si apprende molto di più da una confessione che da una descrizione impersonale. Ecco perché amo tutto ciò che è diretto e tutto ciò che è personale. Ora – e non è semplicemente un effetto dovuto all’età – leggo particolarmente le autobiografie e le biografie anche a causa delle citazioni, e ciò che mi interessa in esse è l’uomo alle prese con sé stesso, con il proprio dramma interiore… Non le piacerebbe fare la genealogia della decadenza? Piacere? No, voluttà piuttosto. Ma la sua domanda è molto delicata perché c’è una volontà in ogni denuncia. Ogni negazione è un’avventura. Secondo me, non è così facile negare. Alle persone che mi rimproverano di essere un negatore, dico semplicemente di provare a negare e si renderanno conto che non è un compito facile. In ogni atto estremo di pensiero o di azione, c’è indubbiamente una voluttà; senza

274

Intervista con Ben Salem Himmich

la quale non negheremmo. Se la negazione fosse così spiacevole, ce ne asterremmo. Il pessimismo sovrano appare in lei per eccesso di intelligenza e di lucidità. Ma quando in altri l’intelligenza non c’è o non c’è affatto, il pessimismo non degenera in esagerazione, se non in frode? Questa parola, pessimismo, l’ho usata raramente, perché in alcuni si trasforma in una categoria troppo arbitraria. C’è un pensiero che si oscura a cui non interessano le conseguenze pratiche. Dopo, vengono a dirvi che ciò che state scrivendo porta le persone allo scoraggiamento, alla disperazione o al suicidio. Ma quando io scrivo, non penso alle conseguenze. Sebbene il mio modo di vedere le cose debba, in linea di principio, ferire, posso dirle che molti fra coloro che mi hanno letto hanno tratto una certa forza e persino coraggio dai miei libri; spesso sono stato accusato di aver fatto l’apologia del suicidio. La mia posizione è che si può vivere solo con l’idea del suicidio, perché la vita, se la si analizza da vicino, si disintegra, si dissolve e non regge; ma l’idea che possiamo liberarcene e sparire quando vogliamo è un’idea salvifica. Quindi l’idea del suicidio, invece di deprimere e annientare, salva: senza quest’idea, mi sarei ucciso da un pezzo. Contrariamente a ciò che si pensa, l’idea del suicidio è piuttosto stimolante. Il torto del cristianesimo è stato quello di aver denigrato quest’idea. Questo è ciò che hanno fatto tutte le religioni, incluso il buddhismo. Quanto a me, preferisco una pedagogia del suicidio. Se ne dovrebbe parlare nelle scuole per dissuaderne, ma mai in termini di crimine o di peccato. Lei è dentro o fuori dal dualismo ottimismo-pessimismo? Assolutamente! Anche se ho il gusto per la distruzione, ritengo di non essere un distruttore. Sono quindi fuori dall’ottimismo e dal pessimismo.

275

Ultimatum all’esistenza

Nei suoi testi lei sembra “affaccendarsi nell’incurabile”, ma a prezzo di quali esclusioni o di quali rinunce? In altre parole, cosa fa delle gioie, piccole o grandi, dell’esistenza? Il problema della rinuncia è estremamente complesso. Ma ecco: mi sono lusingato a lungo di essere buddhista. Ma dopo un po’ mi sono reso conto che c’era una parte di impostura in me, essendo, come la maggior parte degli uomini, incapace di rinunciare e di conseguenza di essere buddhista. La civiltà occidentale, a cui in parte appartengo, rende incapace alla rinuncia, soprattutto a causa di quell’ossessione dell’io che il buddhismo cerca giustamente di superare o, meglio ancora, di distruggere. Quest’ultimo è diventato una moda in Francia e in Germania, dove alcuni si definiscono buddhisti senza aver cambiato il loro modo di vivere. Ma il buddhismo non è nulla se non viene vissuto. Si può barare con il cristianesimo, ma non con la filosofia e l’esperienza buddhista... Per rispondere dunque alla sua domanda, direi che mentre sono affaccendato nell’incurabile, non sono in grado di rinunciare per davvero. Per la sua generazione, quella che ha denigrato i Sillogismi dell’amarezza, lei sarebbe un “funesto demiurgo”? Diciamo che per la generazione che ha vissuto nell’idolatria di Sartre, praticamente non esistevo. Negli ambienti intellettuali, influenzati dalla teoria dell’impegno, nei quali non vi è alcun culto se non per la storia e per la dialettica, non avevo importanza… Eppure è una generazione che ha conosciuto “il sentimento tragico della vita” o quantomeno la guerra e lo stalinismo. Sì, ma tutto ciò non le ha impedito di credere nella storia e di continuare ad affermare che questa abbia una finalità e un senso… Di conseguenza, le cose che scrivevo all’epoca apparivano semplici divaga-

276

Intervista con Ben Salem Himmich

zioni oziose, se non assurde… I miei scritti hanno cominciato a emergere solo quando siamo entrati in una grande delusione storica, che va oltre la questione politica propriamente detta, quella del marxismo o del non-marxismo, e quando abbiamo iniziato a diffidare della storia stessa, questo impasse infinito. Che la storia abbia un corso, non significa che abbia un senso o che ci siano lezioni da trarne, come pretende il marxismo. Su questo piano, pur essendo anticristiano, preferisco di gran lunga il cristianesimo che vede il senso della storia nel “giudizio finale” e per il quale il principe del mondo è Satana e Gesù un salvatore impossibilitato a cambiare il corso della storia o a far sparire il male dal mondo. Le cose così come sono e come le viviamo sembrano dar ragione a questa visione tragica. E la mistica? A leggere alcuni dei suoi testi, si ha l’impressione di essere in presenza di una mistica atea. Esatto! Sono un mistico fallito. Ho detto ateo… Alla fine, sono entrambe le cose allo stesso tempo. Quando avevo ventisei anni, ho scritto un libro in romeno sulla mistica e sulla santità, miscuglio fantastico e sconcertante, frutto di un’esperienza mistica fallita, a seguito della quale sarei dovuto andare in un convento o essere quello che sono… A quel tempo ero molto influenzato dalla mistica spagnola, ma anche dai poeti tedeschi e soprattutto da Rilke, il cui libro confessione mi aveva impressionato molto: I quaderni di Malte Laurids Brigge. Parlando di Parigi, egli inizia così: «E così, qui dunque viene la gente per vivere, crederei piuttosto che si muoia, qui». Giunto a Parigi nel 1937, ho pubblicato nel gennaio 1938 un articolo sullo stesso libro su un giornale romeno in cui condividevo la visione disperata e funebre di Rilke. Quest’articolo aveva scandalizzato molta gente. Tornando alla sua domanda, ribadisco la stessa obiezione che feci a un critico svizze-

277

Ultimatum all’esistenza

ro, che reputava “mistici” i miei libri. Ossia: sebbene sia un lettore di mistici, io non sono tale. Il teatro del suo amico e connazionale Ionesco ci presenta l’uomo sotto il segno dell’assurdo e del nanismo e sembra negare, se non ridicolizzare, la teoria nietzscheana del super-uomo. Condivide lo stesso sentimento? Ebbene sì. Ho molte analogie con Ionesco che, disperato e infelice, ha tanto umorismo. Ciò che pensa di Nietzsche in merito a questo inganno del “superuomo” mi sembra vero, poiché l’uomo è un fenomeno fallito la cui avventura non può che finire male. Sarei anche tentato di dire che l’umanità finirà per generare l’anti-superuomo. Fine o avvenire lontano tanto triste e deplorevole! In effetti, Nietzsche si è sbagliato a non rendersi conto che l’uomo ha già dato il meglio di sé. Sicuramente può ancora fare invenzioni straordinarie, ma sul piano spirituale, nella migliore delle ipotesi, non farà altro che ripetersi. Il mondo non offrirà mai dei mistici alla portata di coloro che sono già esistiti. La poesia, come pure la musica, tutto questo è alle nostre spalle. Naturalmente, resta ancora molto da fare nel campo delle realizzazioni tecniche e tante catastrofi ancora si produrranno, ma non è così che l’uomo sarà in grado di superare sé stesso. Le persone, tra l’altro, stanno iniziando ad avvertire che l’avventura umana potrà finire solo con il collasso, da qui forse il loro interesse. Il futuro non è altro che una parola vana che non suscita più entusiasmo. Secondo la sua osservazione del futuro, il marxismo, a parte i suoi modelli e le sue realizzazioni concrete, non sarebbe in fin dei conti un’utopia o un attentato alla vigilanza sovrana? Il marxismo era e resta un’utopia, ma è anche più di questo. Per intere masse è una sorta di religione. Nel mondo cristiano, è evidente che è stato in grado di trionfare e guadagnare terreno solo quando il cristianesimo cominciava a decadere.

278

Intervista con Ben Salem Himmich

Quindi intende ridurlo a una visione del mondo o a una religione? Forse è più di questo, ma voglio soffermarmi sull’elemento che certamente ne spiega il successo, ma anche sul fatto che nonostante i suoi fallimenti qua e là, continua a giocare un ruolo capitale nel destino del mondo. Posso anche sostenere che siamo tutti, consapevolmente o meno, in qualche modo marxisti. Operai o borghesi, come mi è solito constatare, ricorrono molto spesso a categorie di tipo marxista. L’esaurimento si inscrive nell’orizzonte lontano del marxismo, ma molto tempo dopo che avrà fatto il giro mondo e dimostrato che nessun Paese può permettersi il lusso di evitarlo. Ma allora dove vede i germi della sua scomparsa lontana e tuttavia necessaria? La sciagura del marxismo è che promette troppo e più di quanto possa dare. Ecco il motivo per cui molti marxisti finiscono per essere delusi. Questa è d’altronde la versione perfetta della conoscenza: essere lucidi vuol dire essere delusi. Tutti coloro che aderiscono a questo o quell’altro sistema o religione, finiscono un giorno o l’altro per essere delusi, e quindi costituiscono una minaccia reale per qualsiasi regime totalitario e corrotto. Quindi, per favore, non me lo chieda più, perché non ho mai fatto della chiaroveggenza. Lo stile aforistico che adotta e del quale sembra innamorato è una scelta deliberata di scrittura o un modo per sfuggire ai vincoli imposti dal pensiero filosofico, rigoroso e sistematico? Per quanto mi riguarda, è molto semplice. Dopo il Sommario di decomposizione, la scelta di formulare aforismi non esprime altro che la fatica di formulare frasi, di analizzare, dimostrare, ecc., quindi non è né più né meno che una sorta di abdicazione. Infine, ho preso gusto per questa forma di espressione che ha la virtù di consentire di tradurre

279

Ultimatum all’esistenza

stati passeggeri e sussulti emotivi, insomma: verità datate, parziali e particolari. Per rispondere meglio alla sua domanda: in me un aforisma in verità non è uno o, se vuole, non nasce mai da nulla; esso è spesso la conclusione di uno sviluppo o l’idea detta alla fine, che rende al lettore l’economia dei passi del pensiero, esprime solo l’addio. È per questo motivo che nessun filosofo serio come Aristotele o Hegel abbia prodotto aforismi. Nietzsche ne ha scritti perché era malato. Dato che la scrittura aforistica è da lei sostenuta con la forza del momento e dell’emozione, corre proprio il rischio della contraddizione e della ripetizione. Potrei citare nei suoi scritti dei pensieri contraddittori o ripetitivi. Le risparmio questa pena, poiché l’approvo pienamente. Essendo la contraddizione insita nella vita stessa, non vi presto neanche attenzione nei miei scritti. Quanto alla ripetizione, essa è una conferma, è l’espressione di un’ossessione. Scrivo aforismi perché faccio parte di quelli che subiscono la vita come un’ossessione. Ossessionati, lo siamo tutti in quanto esseri viventi… Sì, ma ci sono dei gradi. C’è gente che cambia ossessioni come cambia delle camicie. Quanto a me, ho una sola e unica ossessione. Comprendo perché ha scritto La tentazione di esistere, un intero testo contro il romanzo, direi anche un genere che non scriverà mai… Anche se mi minacciasse con una mitragliatrice, non lo farei. Sono incapace di scrivere un romanzo, vale a dire immaginare degli intrighi, di creare personaggi, di descrivere o di sviluppare, ecc. È infine fiero di esercitare dei colpi di fulmine sui suoi lettori che sembrano essere sempre più numerosi?

280

Intervista con Ben Salem Himmich

No, diciamo che tra essere sconosciuto o troppo conosciuto, preferisco la prima eventualità. Evidentemente, pubblicando libri, corro il rischio di essere noto. Ma faccio di tutto per non cadere nelle reti di una celebrità vistosa, evitando la stampa e i mass media. Ecco perché, dopo il Sommario di decomposizione, si è parlato un po’ di debutto, ho accettato per trent’anni di essere quasi inesistente. Secondo me, la notorietà è qualcosa di non auspicabile in sé; è catastrofica se la si cerca quando si è giovani. Una certa solitudine è indispensabile per lo scrittore o il pensatore. Inoltre, quando si è legati alla scrittura per una sorta di patto, si scrive prima per sé stessi. Dal momento che ha dato solo la quintessenza del suo pensiero sotto forma di aforismi, o conclusioni per parlare in termini accademici, ho l’impressione che tutto ciò che ha scritto non perirà. Sa, sono uno di quelli che pensano che si debba scrivere poco. E avendo scritto solo pochi libri, di me resteranno alla fine solo alcuni aforismi. Tendo persino ad approvare un giapponese completamente pazzo che dopo avermi inviato dei telegrammi, è venuto un giorno a trovarmi per dirmi con un tono che mi ha spaventato: «Signore, lei è un impostore!». «Sì, può essere, ma perché?», gli ho risposto. «Perché – ribatté – dopo aver scritto: “Siamo tutti in fondo a un inferno, dove ogni attimo è un miracolo”, non era più necessario prendere la penna per scrivere». Ammetta che l’obiezione di questo folle è legittima.

281

INTERVISTA CON ALFRED KOCH*

Se si legge l’intervista di Fritz Raddatz a Cioran pubblicata in «Die Zeit», in testa rimane un solo pensiero: “vendicare Cioran senza indugio”. Poi si finisce per non farlo, o è troppo tardi, intanto è passato un mese e la denuncia di questo censore della morale tedesca, che con un’ostinazione senza pari cerca, durante tutta l’intervista, di ricacciare il pensatore romeno nell’angolino del “piccolo terrorista”, se non addirittura del “criptofascista” – certi termini, nonostante le smentite, sembrano rimanergli addosso –, comincia ad annoiarmi e per la mia intervista non vorrei più partire da lì, se questo passo indietro non rappresentasse, soprattutto qui in Austria, una forma piuttosto tipica di critica morale: liquidare un tema prima ancora di aver iniziato a trattarlo. Cos’è successo, cosa muove il signor Raddatz? Innanzitutto un principio morale, che cito: «Pubblicare è già insegnare»1. E così lui, per due pagine, impartisce insegnamenti a Cioran su quel che non si può fare, su quel che non è ammesso. Ad esempio, definire la Storia una catastrofe. (Che ne sarebbe del donare speranza…). Oppure, scrivere sempre sul suicidio. E infine, in tutta serietà, non si può certo presentare la * Traduzione italiana di Claudia Tatasciore. 1 E. M. Cioran, Un apolide metafisico. Conversazioni, tr. it. di T. Turolla, Adelphi, Milano, 2004, p. 195.

283

Ultimatum all’esistenza

procreazione come «ginnastica grottesca accompagnata da grugniti»2! Perché, allora, dice il nostro protettore, si «inocula nello spirito degli altri il veleno dello scoramento, anche nel senso attivo della parola»3. Forse non in un lettore, ma di certo in un giornalista che sull’aereo per Parigi – concediamoglielo – ha sfogliato rapidamente qualche pagina di Cioran, inclusa la quarta di copertina (ovviamente si può credere a Raddatz quando afferma espressamente di aver «riletto […] tutto quello che esiste di suo in tedesco»4) e che poi, con le “catene logiche” del senso di responsabilità, asfalta tutta la sottigliezza e l’autoironia dell’aforista romeno. Ricominciamo quindi tutto da capo. Andiamo a Parigi per incontrare Cioran; un viaggio un po’ più lento in treno, durante il quale mi pongo l’arduo compito di scegliere qualche aforisma esemplare dello scrittore: Esperto nel dissimulare la propria sicumera, il saggio è qualcuno che non si degna di sperare5. * La paura sarà stata il nutrimento inesauribile della sua vita. Era gonfio, ricolmo, obeso di paura6. * Tutti questi passanti fanno pensare a gorilla deboli e stanchi, e che ne avrebbero abbastanza d’imitare l’uomo7. Ivi, p. 198. Ibid. 4 Ivi, p. 197. 5 Id., Il funesto demiurgo, tr. it. di D. Grange Fiori, Adelphi, Milano, 1986, p. 127. 6 Ivi, p. 119. 7 Id., Squartamento, tr. it. di M. A. Rigoni, Adelphi, Milano, 1981, p. 122. 2 3

284

Intervista con Alfred Koch

* Per giorni e giorni, voglia di perpetrare un attentato contro i cinque continenti, senza riflettere neanche un attimo ai mezzi8. * L’essere ideale? Un angelo devastato dallo humour9. * «Un aforisma dev’essere come un pugno, o uno schiaffo, o qualcosa del genere», dice ridendo. Siamo nella mansarda parigina di Cioran, libri ovunque, in cima una raccolta di opere di Dostoevskij e io rido di me stesso, perché mi aspettavo un vecchio in abito grigio scuro e calzini neri. Del resto, i temi quasi esclusivi della sua scrittura – per quanto li abbia presentati al mondo con acume, ironia e spesso divertimento – sono la morte, la sofferenza, la decadenza, la vacuità dell’esistenza. E invece mi trovo davanti uno slanciato settantacinquenne in abito chiaro, che con il suo viso privo di rughe, il naso prominente e i suoi occhi scaltri emana più vitalità di quella che potrei aspettarmi da certi lettori di queste pagine. Ma l’ho interrotto: «La cosa interessante dell’aforisma è che contiene verità insolite, momentanee e universali. Un misto di banalità e singolarità, così dev’essere. Una cosa che non può fare un prete, o chi possiede una fede o il giusto approccio alla vita. Non è possibile scrivere aforismi senza contraddirsi. È la “loi du genre”, la legge di questo genere letterario: scrivere liberamente. Non occorre un sistema. Un aforisma è come un testamento istantaneo. Deve dare l’impressione di valere per un istante – o per sempre». 8 9

Id., Il funesto demiurgo, cit., p. 133. Id., L’inconveniente di essere nati, tr. it. di L. Zilli, Adelphi, Milano, 1991, p. 155.

285

Ultimatum all’esistenza

* Mi piacerebbe essere libero, perdutamente libero. Libero come un nato morto10. * Ci sono cose che ho scritto in preda a semplici attacchi. Una volta ad esempio ho detto che quando esco di casa il mio primo pensiero è di uccidere tutti. E così un critico mi ha paragonato a Pol Pot. Ma è una follia… … Soprattutto, se si tiene conto della prima parte di questo aforisma, cioè che prova un tale desiderio dopo aver trascorso giorni e giorni nella sola compagnia della letteratura mistica, o qualcosa del genere… [Ride]… Esatto, sono convulsioni, stati momentanei. I tedeschi sono sempre pronti a considerare ogni cosa come un manuale di validità universale, una verità. Se fosse così sarebbe molto pericoloso. Ma io non posso ogni volta continuare a dire: «Attenzione, prego, questa è solo letteratura. Sono stati d’animo». Deve essere il lettore a deciderlo. Quel che è molto importante è che io non scrivo mai in una condizione di normalità. Non m’interessa. Scrivo solo quando voglio vendicarmi, quando sono disperato o quando voglio liberarmi di qualcosa. La scrittura ha un incredibile effetto sul mio equilibrio, è una terapia. Sono stato più volte accusato di essere un apologeta del suicidio. Quel che ho detto è che certo, si può porre fine alla propria vita, ma si può anche vivere con l’idea del suicidio. Perché chi ha conosciuto l’insopportabile riesce a sopportare la vita solo sapendo di poterla abbandonare, quando vuole. Io stesso ho sempre convissuto con quest’idea. Vietando il suicidio, il cristianesimo ha sottratto all’uomo l’aiuto più grande. È vie10

286

Ivi, p. 15.

Intervista con Alfred Koch

tato perfino pensarci! Così, è stato commesso un crimine. La vita stessa non è che una continua procrastinazione del suicidio. Naturalmente, può accadere che dopo essersi dedicati abbastanza a lungo alla lettura dei suoi testi non si riesca più a scendere in strada senza provare disgusto. Questa litania quasi divertita sulla vacuità della vita… D’altra parte, conosco una persona che soffriva di una grave depressione e si è sentita meglio dopo la lettura dei suoi Sillogismi dell’amarezza. L’ho letto in molte lettere. Persone che erano intenzionate a suicidarsi e mi scrivevano che non potevano più farlo perché perfino il suicidio non aveva più alcun senso [ride]. Questo è ciò che amano di me. Mi hanno scritto anche molte donne sprofondate nella disperazione… non dico di averle salvate, ma di certo le ho aiutate. Solo i tedeschi lo considerano ancora una negazione assoluta, qualcosa di negativo. Certo che è negativo, ma essendo una situazione limite, l’uomo è costretto a reagire: o suicidarsi o tornare indietro. E, in genere, l’uomo preferisce non arrivare alle estreme conseguenze. Per cui, non mi definirei uno scrittore positivo, ma forse… che vuole essere d’aiuto. Poiché squilla il telefono (dev’essere Eugène Ionesco; sì, i due sono amici), ho il tempo di tirare fuori dalla tasca l’illuminante saggio di Cioran su Joseph de Maistre, Sul pensiero reazionario. De Maistre, quest’ostinato reazionario cattolico del XIX secolo che come un profeta veterotestamentario si scagliava contro qualsiasi idea di futuro, è per Cioran un oggetto di studio insuperabile per quel che riguarda la natura umana. Ingiustamente dimenticato, quest’«ultimo rappresentante della Controriforma»11 è per lui di particolare attualità e merita di essere letto in un’epoca di illusioni infrante. Proprio «nella misura stessa in cui fu un “mostro”»12. Un mostro che amava presentare i tribunali dell’In11 Id., Esercizi di ammirazione. Saggi e ritratti, tr. it. di M. A. Rigoni e L. Zilli, Adelphi, Milano, 1988, p. 76. 12 Ivi, p. 13.

287

Ultimatum all’esistenza

quisizione spagnola come modello di giustizia, saggezza e umanità; che, se lo riteneva necessario, elogiava perfino la guerra come “divina”, o difendeva la schiavitù. Per Cioran, “un mostro” solo tra virgolette. Perché noi, i suoi oppositori, tra cui Cioran, abbiamo una «qualche misteriosa affinità»13 con questo fanatico che, a sua volta, ha qualcosa in comune con gli eretici che attacca con parole orribili. Perché con la sua franchezza non colorita dal temperamento, il furioso disprezzo di un de Maistre non è altro che l’acme, la degenerazione, la conseguenza smascherante di ogni ideologia, di ogni partito preso. E la nostra affinità con lui? Condannati a scegliere, ad aderire a un partito, noi esprimiamo «una stessa natura»14. Perché ogni presa di posizione equivale già a un disprezzo per la verità. L’eterno «paradosso di uno spirito partigiano»15 è il dover continuamente esecrare gli eccessi dell’avversario e legittimare i propri. Seguendo un de Maistre, che con le sue parole trasforma gli eccessi della reazione in conquiste dell’umanità, seguendo i suoi sofismi, le sue smentite e le sue rivelazioni, Cioran si chiede dove altro si potrebbe trovare chi con tanto odio, in modo così diretto e schietto, scagli i suoi insidiosi aggettivi contro ogni forma di cambiamento. Non è forse il «rappresentante di quella filosofia immanente a ogni regime irrigidito nel terrore e nei dogmi»16? Se essere “reazionario” significa illuminare il passato, esecrare ogni riforma, imbalsamare la tradizione, l’inizio, mentre essere “rivoluzionario” vuol dire sperare nel futuro e sventolare la bandiera del cambiamento, del divenire e della molteplicità, allora nella storia delle rivoluzioni riuscite si può osservare un curioso ribaltamento. Perché il rivoluzionario idolatra il divenire fino a quando non avrà stabilito l’ordine per il quale ha combattuto. Non appena ciò accade, già deve difendere il presente. Che presto diventa passato. Mentre il futuro, una Ivi, p. 71. Ivi, p. 21. 15 Ivi, p. 64. 16 Ivi, p. 56. 13 14

288

Intervista con Alfred Koch

volta splendente, viene proiettato indietro nel principio (si pensi alla gloriosa Rivoluzione d’Ottobre), cioè all’origine. Ecco che la rivoluzione diventa – secondo la convenzione linguistica sopra riportata – “reazionaria”. Un ribaltamento che secondo Cioran è inevitabile: «La tragicità dell’universo politico risiede in quella forza occulta che spinge ogni movimento a negare sé stesso, a tradire la propria ispirazione originaria e a corrompersi a mano a mano che si afferma e avanza»17. Questo il destino di ogni movimento di rinnovamento che è o può essere davvero rivoluzionario solo nel suo stadio prerivoluzionario. Perché anche dentro un anarchico si nasconde un piccolo de Maistre, che aspetta la sua ora. Diversamente da chi combatte per il futuro, un così cinico disprezzatore delle masse non ha bisogno di imporsi alcun vincolo: la sua dottrina gli consente di proclamare con irriverenza le amare intuizioni e i pensieri reconditi di un uomo di sinistra (che mai invece potrà pronunciare apertamente). Tale è ad esempio il motto di de Maistre che irride qualsiasi sentimento democratico di base: «Oso dire che quello che dobbiamo ignorare è più importante di quello che dobbiamo sapere»18. Per Cioran una verità lapalissiana, anche se deprimente: «In realtà, ogni ordine che vuole durare vi riesce solo grazie a una certa oscurità di cui si circonda, al velo che stende sui suoi moventi e sui suoi atti, a un qualcosa di “sacro” che lo rende impenetrabile alle masse»19. Se queste visioni, queste acquisizioni disincantate sono il destino di ogni dottrina vicina allo scopo o di ogni movimento di rinnovamento che ha avuto successo, la conseguenza non può che essere la rinuncia a ogni presa di partito o di posizione. Un’impresa destinata ripetutamente e necessariamente a fallire: certi aforismi di Cioran parlano proprio di questa impossibilità di vivere anche solo lontanamente una posizione scettico-radicale di tal sorta. Il confronto con Joseph de Maistre, con questo aggressivo «profeta Ibid. Ivi, p. 39. 19 Ivi, p. 40. 17 18

289

Ultimatum all’esistenza

del passato»20, ha tuttavia degli aspetti terapeutici (e in questo risiede il suo inestimabile valore): «[…] quanto più lo si pratica [de Maistre] e tanto più si pensa alle delizie dello scetticismo o all’urgenza di una difesa dell’eresia»21. Queste sono le ultime righe di un testo in cui Cioran, con un misto di repulsione e fascinazione, indaga la figura di de Maistre, finendo spesso col guardarsi allo specchio terrorizzato. Si specchia esattamente nel momento in cui vorrebbe stringere i pugni e colpirlo. Eugène ha riagganciato e noi proseguiamo con una domanda preparata. In Joseph de Maistre lei ha scritto che chi è profondamente deluso dalla storia o dalle proprie speranze ama cercare una sorta di rifugio nell’idea di decadenza. Ora, lei sottolinea sempre che la storia non ha alcun senso. D’altro canto però vi riconosce una direzionalità: la storia si muove direttamente verso la rovina. Quanto è serio in questa sua affermazione? Sono serissimo. L’uomo non può salvarsi, ne sono assolutamente convinto. Il ritmo è così disturbato dall’uomo che la catastrofe è inevitabile. E questa oggi non è più un’idea assurda. Non credo però che l’uomo scomparirà dalla faccia della terra. Una volta ho fatto l’esempio di una tribù, quel che restava di una popolazione argentina. Quaranta o cinquanta superstiti al massimo. Cercarono di aiutarli, ma loro non lo permisero. Non volevano più fare nulla. Balbettarono solo: «Siamo gli ultimi, gli ultimi». Ecco come possiamo immaginarci gli ultimi uomini: mezzi idioti, molto stanchi e degenerati, senza più alcuna voglia di partecipare. L’uomo si è terribilmente logorato. È come uno scrittore che non riesce più a scrivere o uno scultore che non riesce più a scolpire. Negli ultimi anni sono crollate molte idee e utopie. “Mancanza di pro20 21

290

Ivi, p. 13. Ivi, p. 78.

Intervista con Alfred Koch

spettive”, “paura del futuro”, “nessun futuro”: ecco alcune parole d’ordine coniate per descrivere quest’epoca. Lei si considera un autore attuale? Sì, qualcosa si è rotto, e molto in profondità. Non ha nulla a che vedere con la politica, con la disoccupazione giovanile o altro. Va molto più in profondità. La novità assoluta è che nessuno crede più che il futuro risolverà tutto. Sa, nei miei accessi di follia o di megalomania ho creduto che i miei libri fossero scritti per il tempo successivo alla catastrofe. Ma avevo torto, sono stati compresi già prima… Tuttavia, non ci sono vie d’uscita, la fine è inevitabile. Ecco, la vita sarà ancora più interessante in futuro… [ride]. Non c’è motivo di affliggersi, ma nemmeno di gioire. Questa è solo la storia implacabile. L’aforista autoironico che mantiene le distanze e l’apocalittico dalla risata sarcastica: due lati di Emil Cioran a cui possiamo ben aggiungere un terzo: il burlone con una tendenza occasionale alla provocazione, al gioco o perfino al dileggio del lettore devoto o precipitoso. È questa terza figura che deve aver preso il sopravvento quando il quotidiano «la Repubblica» voleva sapere di cosa vivesse realmente. Il giorno seguente, il giornale riportava che Cioran era un “magnaccia”. (Quando gli ho chiesto di cosa vivesse per davvero, mi ha confessato: «Borse di studio…». Di certo non dei suoi libri, su questo eravamo concordi. Il successo è arrivato piuttosto tardi, e solo con il suo ultimo libro – su Beckett tra gli altri – ha raggiunto vendite di un certo rilievo in Francia). È sorprendente anche che nell’intervista menzionata all’inizio le sue risposte più frequenti siano al massimo “giustissimo”, “è proprio così” o simili e, se la mia ipotesi è corretta, sono risposte un po’ più dure del piccolo attacco all’inizio dell’intervista. Un ultimo esempio: durante una conferenza in Grecia, Cioran non ha parlato d’altro che di uno dei suoi avi, un barone austriaco che aveva sette figlie, fino a che non arrivò finalmente un erede maschio a redimere il vecchio. Tutto questo solo per irritare un po’ la donna con cui vive, che viene da una famiglia di sinistra e che sedeva tra il pubblico.

291

Ultimatum all’esistenza

Un barone austriaco? La risposta è semplice: Cioran, che vive a Parigi dal 1937, proviene da un piccolo villaggio nei Carpazi non lontano da Sibiu, cioè Hermannstadt, nella Transilvania che un tempo apparteneva all’Impero austro-ungarico. L’infanzia trascorsa lì è per lui il paradiso terrestre. Se avessi una seconda vita, vorrei solo rivivere quei dieci anni in quel villaggio – e poi suicidarmi. Avevo un ottimo rapporto con la gente del posto, ero sempre all’aperto, immerso nella natura… quella primitività in senso positivo… …ma lei odia Rousseau… Odio Rousseau perché sbaglia. Io non direi che quella è la vera umanità, o cose del genere. Forse sto idealizzando, è possibile. Ma avevo un rapporto così intimo con la gente del posto. Avevamo un giardino – l’ho raccontato anche in un’altra intervista, ma non importa, è importante –, avevamo un giardino proprio accanto al cimitero. Andavo in quel cimitero quasi ogni giorno; quando c’era un funerale, ero sempre là. Non per curiosità, ma perché così si faceva. Quest’intimità con la morte non era affatto una faccenda deprimente. Può darsi che la mia ossessione per la morte, quest’idea fissa, provenga da lì. Ma non solo. E da cos’altro? Da qualcosa che arrivò dopo, a Hermannstadt… In quanto figlio di un prete ortodosso dovetti ovviamente frequentare il liceo… Studiavo filosofia quando è piombata la catastrofe della mia giovinezza: l’inferno dell’insonnia. Questa è stata la rivoluzione della mia vita. Improvvisamente non riuscivo più a dormire, ma ciò non aveva nulla a che fare con i miei studi. Qualcuno ha trovato una spiegazione?

292

Intervista con Alfred Koch

Nessuno riusciva a spiegarlo, nemmeno io. Con i sonniferi riuscivo a dormire appena due o tre ore. Quanto tempo è durata? Sei, sette anni. Poi è passata. Non del tutto, ma è diventata sopportabile. Ma tutto quel che ho capito della vita deriva da lì. Ero consapevole che non era tempo sprecato. Se non subito, molto presto mi liberai dell’illusione tout court, l’illusione che esista qualcosa di certo, un fondamento, un appiglio sicuro… Come si fa ad avere l’illusione di poter comprendere tutto? Semplice: la gente comune comincia ogni giorno una nuova vita, ogni mattina è un nuovo inizio. Se non dormi però non c’è alcun inizio: che siano le dieci del mattino o della sera, è uguale. Questa condizione è stata per me la conoscenza, la via diretta alla rivelazione. Il sonno è per me la radice dell’illusione. Senza quest’interruzione, si stabilisce una distanza con tutto, avevo l’impressione che anche la filosofia fosse “sonno”. Fatta eccezione per Nietzsche, anche lui una creatura o un eroe dell’insonnia. Ci sono cose che si possono scrivere solo nella veglia. Sei lì e non ci sei, tutto scompare, non puoi dimenticare, non puoi mai dimenticare te stesso, d’un tratto l’Io diventa come Dio o come il niente. * …Better be with the dead Than on the torture of the mind to lie In restless ecstasy. Macbeth – mio fratello, mio portavoce, mio messaggero, mio alter ego22.

22

Id., Squartamento, cit., p. 130.

293

Ultimatum all’esistenza

* È una condizione patologica eccezionale, difficile da sopportare. Ma, come ho detto, molto proficua. Non devi alzarti, sei sempre alzato, sempre sveglio, diventi lucido, perspicace, uno stato che nessuno può immaginare. Questa lucidità richiede una certa mancanza d’equilibrio. Bisogna perdere il proprio normale equilibrio per arrivare a percepire qualcosa di più profondo. Perché una visione più profonda dell’essenza delle cose, come è stato detto prima, presuppone uno squilibrio? Semplicissimo: spesso ho incontrato persone che non avevano letto nulla, che non avevano un’istruzione e c’era sempre qualcosa che non andava nella loro vita: malattia, sfortuna e Dio solo sa quale altro tipo di sconfitta. Avversità feconde sul piano spirituale. In qualche modo bisogna aver sofferto. Esiste qualcuno che non ha mai sofferto? Certo, ma dipende dalla frequenza dell’esperienza, dall’intensità. Non basta ammalarsi per un mese. Coloro che hanno fatto esperienze così profonde capiscono molto più degli altri. È questo che porta alla saggezza, non l’istruzione o cose simili. Se la saggezza o la veggenza derivano solo da condizioni o sensazioni personali, perché solo quelle negative, perché lo stesso risultato non potrebbe essere prodotto da uno stato piacevole, dall’estasi sessuale ad esempio? Perché una cosa del genere non dura a lungo, non si può paragonare a un dolore che dura giorno e notte. Se durasse a lungo sarebbe bellissimo. Ma è solo un accidente che non ha nulla a che fare con la metafisica.

294

Intervista con Alfred Koch

E che mi dice dell’indifferenza che si protrae a lungo, o della noia? Fa bene ad avervi accennato, perché la noia è un sentimento indescrivibile. I tedeschi non hanno una parola per “ennui”, vale a dire per quel malessere, quel senso di vuoto che non dura solo un istante, ma che permane a lungo e in cui tutto scompare… Sa, la noia è un sentimento così profondo che si proverebbe perfino in paradiso. Una cosa è importante: non è possibile distrarsi. Altrimenti ognuno potrebbe andare al cinema, o qualcosa del genere. Quest’esperienza rende veramente diversi dagli altri. Come fa a sapere che la maggior parte delle persone non conosce questo sentimento? Veda, non si può nascondere. Chi non lo conosce, si tradisce. La noia raggiunge il suo grado massimo quando ci si trova, ad esempio, in paesaggi particolarmente belli, dove una persona normale sarebbe colma di felicità. Ricordo un viaggio in Corsica. Era la cosa più bella che avessi mai visto, e poi all’improvviso, come una punizione, questo senso di vuoto. Una sensazione metafisica: non conoscere la ragione profonda della propria esistenza. A che scopo? C’è qualcosa di demoniaco in questa noia, che ti mina dall’interno. Qualcuno ha detto che anche il diavolo si annoia. Non direi sia così, ma c’è un fondo di verità. Si è puniti per essere vivi. Nel Sommario di decomposizione, tradotto in tedesco da Paul Celan (Lehre vom Zerfall), Cioran divide gli uomini in due categorie: quelli che non riescono a liberarsi del pensiero della morte, e quelli che, fin quando è possibile, la ignorano o la rimuovono. Non è raro che gli uni disprezzino gli altri, e viceversa. Paul Valéry, ad esempio, è uno di quelli che ridicolizza l’ansia di Pascal e si fa beffe del suo “abisso” esistenziale. In un saggio su Valéry del 1970, Cioran scrive: «Si è fatto persino un punto d’onore di ridicolizzare l’ansia metafisica. I tormenti di Pascal gli

295

Ultimatum all’esistenza

ispirano riflessioni da ingegnere. “Non c’è rivelazione per Leonardo. Non un abisso spalancato alla sua destra. Un abisso lo farebbe pensare a un ponte. Un abisso potrebbe servire alla sperimentazione di qualche grande uccello meccanico”. – Quando si leggono riflessioni così imperdonabilmente disinvolte, si ha una sola idea in testa: vendicare Pascal senza indugio»23. E poi nel 1986: «Il mio attacco a Valéry non era sincero. Ho sempre provato ammirazione per lui, ma non gli ho mai perdonato di aver scritto parole così miserabili e insolenti su Pascal. Era solo un gioco – anche per Valéry era solo un gioco, perché si sbagliava di grosso nel suo attacco: in realtà lui lo comprendeva molto bene. Non era un uomo religioso, ma quell’ansia l’ha capita molto bene, solo che voleva mostrare la sua superiorità e il suo disprezzo, voleva recitare la parte di colui che si è liberato dall’ansia. Esiste però una parentela sotterranea tra gli spiriti che si disprezzano pubblicamente. In fondo lui, come Pascal, era un uomo lacerato nell’intimo»24. La nostra conversazione dura da oltre due ore. Chiedo al settantacinquenne se non voglia fare una pausa, ma lui mi squadra e dice: «Vada a fumarsi una sigaretta!». Fumo alla finestra, con la vista sui cortili interni del Quartiere Latino, sullo sfondo uno scorcio sbiadito di Notre-Dame. Una volta ha scritto che le sue riserve religiose sono esaurite. D’altro canto nei suoi testi ricorrono spesso concetti come “Dio”, “Genesi”, ecc… Ha ragione, parlo sempre di Dio e di queste cose assolutamente fuori moda, di questi concetti ormai del tutto svuotati. Ci sono però nella religione alcune cose che mi hanno sempre affascinato, anche se non credo assolutamente in nulla. Il peccato originale, ad esempio, il 23 24

296

Id., Esercizi di ammirazione, cit., pp. 94-95. Non è stato possibile individuare l’esatto riferimento bibliografico della citazione.

Intervista con Alfred Koch

fallimento del paradiso, cioè il pensiero che il principio dell’uomo sia una catastrofe, una sciagura. Perché parlo di Dio? In parte deriva da quelle notti insonni, che mi hanno aiutato a comprendere i mistici pur senza avere fede. L’esperienza della solitudine assoluta rende quasi inevitabile l’idea di Dio. Tutto scompare, gli uomini, gli amici, i nemici… tutto, tutti, e nella solitudine estrema è inevitabile che si cerchi un interlocutore. L’idea di Dio ha avuto questa funzione per me: rivolgermi a qualcuno che per me non esiste affatto. Un’assurdità. Ma l’uomo è troppo debole per essere egli stesso il proprio interlocutore… fino alla fine. Lei parla molto al passato… Perché queste non sono che le tappe della mia vita. Mi sono occupato molto dello scetticismo, ho letto molto di Pirrone e altri, era una sorta di fede. Ho ridotto tutto, ho anche cercato di vivere, di agire come uno scettico. Ma ora non sento più questa intensità… Cosa caratterizza il suo stato attuale? Assolutamente nulla… [ride]. Sono un sopravvissuto, questa è la sconfitta della vecchiaia. Ma la cosa non mi disturba. Pubblicherò ancora un libro di aforismi, ma poi basta, ne ho abbastanza. E in quanto a saggezza, non ho raggiunto che il minimo risultato, sono quello che sono sempre stato – senza la stessa intensità.

297

INTERVISTA CON LAURENCE TACOU*

Quando ha visto il giornale, la mia portinaia era ovviamente molto felice e ha paragonato la sua foto e la sua stanza a quella della portinaia di Julien Green. Trovava fosse molto meglio casa sua. Beh, voglio dire… Comunque, l’anno dopo è stato il mio turno. Detto questo, il progetto era carino. Si tratta però pur sempre di imprese un po’… dubbie, non so… Questo tizio è un miliardario, credo… Voleva fare delle foto in riva al mare. Gli ho detto che rifiutavo. Non avrei comunque fatto 200 km per scattare delle foto! Gli ho proposto così le rive della Senna. Sa, gli ho dato come motivo il fatto che molti dei miei amici siano annegati lì. Alla fine, è voluto venire qui, con enormi apparecchi fotografici. Mi ha spaventato, oltre a mettermi un po’ di cafard! Quando ho visto quest’operazione grottesca… Ci sono volute quattro persone per montare l’attrezzatura. Eppure, il tizio era molto intelligente, molto colto, abbiamo parlato tutto il tempo di buddhismo… Tuttavia, non ho mai ricevuto le foto! Lo trovo inaccettabile, era il minimo che potesse fare… Lei è considerato un moralista, cosa ne pensa? Non va bene! Moralista è una parola che ha questo significato solo * Traduzione italiana di Laureto Rodoni.

299

Ultimatum all’esistenza

in francese. Moralista, in tutte le lingue, indica qualcuno che si occupa di morale. In Francia, il moralista è colui che riflette sull’uomo e che scrive frammenti. [Ride]. Questo è il moralista francese: è Pascal, è Chamfort… Non ha lo stesso significato in inglese, è un termine specificamente francese. Il moralista è qualcuno che scrive frammenti e dice fesserie. [Ride]. Io sono un autore… come dire? Sono un autore di frammenti. Ho scritto libri che non sono frammenti, ma il mio genere è preferibilmente quello dei frammenti, che è anche un genere da pigri. Perché ho notato che all’inizio, in pratica, il primo libro che ho scritto in francese, il Sommario di decomposizione, non sono frammenti, è un libro che si regge da solo. Ne ho scritti un paio che non sono libri da moralista, ma via via che ho provato disgusto per la scrittura, ho scritto sempre più frammenti, e ora non riesco quasi più a scrivere nient’altro. È un segno di stanchezza, in un certo senso. Ma ciò proviene da un disgusto per la scrittura? In parte sì. Perché cosa significa “scrivere frammenti”? È una tradizione così francese. Ci sono pochissimi moralisti in Germania, pochissimi anche in Inghilterra. Invece di scrivere una pagina, si scrive solo una proposizione, o due, o una frase. Così, molto spesso, ho scritto un testo di due o tre pagine e ho mantenuto solo la conclusione. Ciò significa che tutto lo sviluppo teorico, tutto il cammino che si è percorso, viene cancellato. A proposito di Valéry, lei ha detto che è una grande disgrazia essere compresi… Sì, ma non è intenzionale perché non si fa tutto volontariamente. Quando si scrive, non si può dire, l’ho scritto per un motivo o per un altro. Le cose che scrivo sono legate solo, principalmente, alle mie esperienze, alla mia vita, alle letture. Ma quando si scrive, non c’è continuità, non si ha nemmeno uno scopo. Ogni frammento è pieno di un mondo

300

Intervista con Laurence Tacou

in sé e di una verità, quindi frammentaria, necessariamente frammentaria, che può contraddire quella che segue. Non ha una visione coerente del mondo, è una successione di stati d’animo o fantasie, o di non so cos’altro… È discontinuo, è dovuto alla fatica di dimostrare. Perché l’ho detto? Perché scrivere adesso altre dieci frasi per giustificarlo? Beh, non ne vale la pena, va bene per gli insegnanti che scrivono libri e tengono lezioni. Un insegnante parla per un’ora intera di un tema che avrebbe potuto formulare in due frasi. Ma è un riempitivo, no? Si deve parlare, scrivere, manifestare. Beh, quando si scrive davvero, non si dimostra. Lei ha scritto: «Quando scendo in strada, ho un solo desiderio, uccidere!». Non è proprio così. C’è qualche parola in più: «Quando esco in strada, davanti alla gente, l’unica parola che mi viene in mente è “annientare”». Una giornalista tedesca molto, molto famosa, mi ha rimproverato per questa frase. Così le ho spiegato – perché ai tedeschi bisogna sempre spiegare – che quando si scrivono cose del genere, ci sono due tipi di testi, quelli che sono dovuti a un capriccio e quelli che corrispondono a una convinzione. Non tutti i giorni voglio uccidere tutti quando esco per strada. Può succedermi, ma non tutti i giorni, anzi solo in rare occasioni. Se lei ci vede una verità generale, è una catastrofe. Bisogna distinguere tra capricci, giochi intellettuali e convinzioni. Ci sono frasi che corrispondono a una profonda convinzione, sono verità, ma ci sono altre frasi che non lo sono, che sono davvero solo bizzarrie. Ma lei un po’ si diverte comunque a pronunciare frasi provocatorie come petardi? Sa, in fondo, nel mio caso, non ho scritto molto perché sono piuttosto pigro; perché penso che non si dovrebbe scrivere troppo; ma quando ho scritto, tutto quello che ho fatto corrispondeva a una necessità interiore. Potrebbe essere una vendetta. Molto spesso scriviamo per non

301

Ultimatum all’esistenza

spaccare la faccia a qualcuno. Ne facciamo un ritratto in tre righe. Soddisfiamo un bisogno, a volte profondo, a volte immediato. Spetta al lettore sentire ciò che è veramente pensato, la vera convinzione o il gioco intellettuale. Ovviamente, non si può dire alla fine di ogni frase se facciamo sul serio o meno. Quando ho scritto quella frase – “uccidere le persone” – essa corrispondeva a una sensazione molto forte… E perché si dicono queste cose? Perché l’unico modo per liberarsi di ossessioni e capricci è scriverli. C’è una sola terapia: l’espressione; questa è la giustificazione della scrittura. Ti libera da un’oppressione, anche da un capriccio, un capriccio può essere fastidioso… È l’unica terapia. È una cura che si fa attraverso l’espressione. Ovviamente, non tutto è serio, ma tutto può avere un significato ed è come un genere speciale perché queste per lo più sono le verità del momento. Il desiderio di spaccare la faccia a qualcuno non è un desiderio permanente. La vendetta intellettuale è la necessità di spaccare la faccia all’universo. Quando ero in Italia, un giornalista mi ha citato questa frase e mi ha chiesto se avessi ucciso qualcuno nella mia vita. Ho detto di no, ma che se a volte potessi uccidere tutti, lo farei volentieri. Sfortunatamente non è nei miei mezzi. [Ride]. Ma questo non significa che io abbia questo desiderio ogni giorno. No, di sicuro! [Risate]. Ma tutto ciò si rivolge a una folla… All’universo! A volte è rivolto a una persona specifica? Sì, è ovvio! Per lo più è così. Ma il desiderio di sopprimere il genere umano, ognuno ce l’ha in sé. Alcuni più raramente, altri più frequentemente. È evidente che, se nella mia vita avessi avuto l’opportunità di purificare l’aria, liberarmi, liquidare l’uomo, gli uomini piuttosto… l’avrei fatto in momenti di… tutti provano ira. La rabbia è il bisogno di distruggere. Siamo furiosi con l’uomo. Siamo furiosi con qualcuno, ma

302

Intervista con Laurence Tacou

possiamo esserlo anche con l’uomo in quanto tale. I sentimenti nascondono sempre un assassino, si sa. Ma lei non è un misantropo? Teoricamente, sono un misantropo, ma in pratica no; non tanto, ma teoricamente sì. Teoricamente trovo che l’uomo dovrebbe dimettersi, dovrebbe scomparire. Penso che se ne abbia abbastanza così. Io però non ho i mezzi per realizzare questo progetto. È evidente che tutte queste reazioni, tutti le sentono da qualche parte, tutti hanno questi istinti omicidi. Ma poiché non possiamo soddisfarli, ci rassegniamo. Crede nell’esistenza del diavolo? Il diavolo è il simbolo di qualcosa. Il diavolo non è un’invenzione comune. Esiste senza esistere. Credo che il diavolo sia il padrone del mondo. È reale come Dio. Lo stesso tipo di realtà. Il diavolo è allo stesso tempo finzione e realtà. Credo che la storia universale, la storia dell’uomo, sia inimmaginabile senza un pensiero diabolico, senza un disegno demoniaco. Nella storia, appare sempre. Il diavolo è il simbolo di qualcosa. Ma poiché il male è il motore della storia, il diavolo ha necessariamente un’esistenza implicita. Quello che è stato chiamato, ciò che i credenti chiamano diavolo, è davvero reale, non nella sua forma, ovviamente, ingenua… ma il diavolo è il grande agente del divenire della storia e la storia universale, senza l’idea del diavolo, è inconcepibile. Per me è una profonda convinzione. È il male che guida la storia. Si può concepire questo, senza il bisogno di una fede negativa. È un principio, il male, filosoficamente parlando, ma in realtà esso corrisponde a una realtà immanente. L’uomo è un’apparizione diabolica, ma ci sono dei gradi. [Ride]. Per essere diabolico? Sì. Non tutto è completamente diabolico, ecco perché ci sono dei

303

Ultimatum all’esistenza

gradi. Meno diabolico, abbastanza diabolico, e così via. Ma l’idea del diavolo è un’idea profonda e si vede che la storia è iniziata con l’idea del diavolo. È più efficace di Dio. Se si prende la storia universale, può essere spiegata a partire dal diavolo, è molto difficile spiegarla da Dio. Peraltro, nella Bibbia, Dio ha creato il mondo e basta. Ma ciò che è concreto è il diavolo, la caduta dal paradiso, la catastrofe in paradiso. Diciamo che prima della storia, l’uomo viveva in una sorta di paradiso che è crollato, e da questo, vale a dire dalla storia, è il diavolo che è presente. Possiamo quindi dire che la storia è essenzialmente demoniaca, qualunque sia l’idea che si ha di Dio. L’essenza demoniaca della storia è la mia convinzione più profonda e quando si pensa alla storia universale, può essere spiegata così, possiamo vedere molto chiaramente che si tratta di questo. Il diavolo è il grande agente della storia. Non abbiamo bisogno di fare rappresentazioni ingenue del diavolo, ci basta solo afferrarne l’idea per comprendere quindi la storia universale. [Ride]. È lui il grande chiarificatore? Sì, l’agente è il tipo che è presente negli eventi da sempre… Non appena l’uomo si agita, il diavolo è lì. Possiamo parlare del silenzio del diavolo quando non accade nulla, ma non appena le cose iniziano a smuoversi, nulla va più bene. Se escludiamo l’idea di una presenza demoniaca nei crimini umani, non si capisce nulla. Eppure, lei stesso è un credente? No, ma sono e sono sempre stato interessato alla fede, alle questioni religiose. Questo è molto importante perché in fondo l’idea del diavolo è un’idea religiosa. Un razionalista non parlerebbe mai del diavolo. Io ho una specie di religione senza fede, se vuole. Ho letto molti libri di teologia, libri religiosi, è sempre molto interessante e molto profondo perché hanno toccato l’essenziale. Per comprendere il pensiero religioso, non è necessario avere fede.

304

Intervista con Laurence Tacou

Parla principalmente di esperienze mistiche? Sì, delle esperienze mistiche… ma anche del pensiero religioso in quanto tale, perché il problema stesso del male è presente più nella teologia che in filosofia. È vero che, nel mio caso, sono impossibilitato ad avere fede; ho provato ad averla e se non l’ho avuta, è perché non è possibile. Ho letto molto i mistici, per un bisogno interiore. Quindi se fossi stato chiamato ad avere fede, l’avrei avuta, ma non era nel mio destino credere. L’impossibilità di credere è una sorta di fallimento religioso, ma non mi lamento, è così. Ho letto molti testi mistici in gioventù, ora di meno. Lei stesso era un mistico? Sono stato tentato da… Ah, tentato… Sì, ma le farò una confessione, un’ammissione. Con l’età, le risorse religiose che si possono avere in sé si eclissano, diminuiscono, perché per avere fede è necessario un surplus di vitalità. Con la stanchezza, non è possibile credere. E questa tentazione di avere fede… Ovviamente c’è la “preoccupazione religiosa”, come viene chiamata, che vorrebbe fissarsi su qualcosa. Quindi, la fede è data o non è data e io non sono stato fatto per avere fede. [Ride]. Questo è certo! Quindi, lei pensa che ci sia una specie di destino… Assolutamente sì. Potrei pregare dalla mattina alla sera, ventiquattro ore al giorno, non avrei mai la fede. Ma so cosa significhi la fede, ho

305

Ultimatum all’esistenza

letto i grandi mistici e mi ha sempre interessato. Ritengo addirittura che la teologia sia più profonda della filosofia, quindi è molto importante affrontare le questioni religiose, proprio per comprendere la storia. Ha mai corso il rischio, come dire, di essere contaminato in qualche momento dalla fede? Sì, ho corso quel rischio… [ride]. È tutto ciò che posso dire. Sa, nel mio caso, mio padre era un prete. Mio padre era un credente, ma niente di più, mia madre non lo era, ma faceva finta di esserlo. A sedici anni ero violentemente ateo. Mio padre soleva dire il Padre Nostro prima di mangiare, io uscivo di casa ogni volta, andavo in bagno. Leggevo libri atei. Ma poi ho letto molto sulla religione; per me il misticismo è molto bello e profondo. Ritengo che l’estasi sia il massimo che un essere possa raggiungere sulla terra, l’estasi ti avvicina a Dio e si diventa persino Dio, è straordinario. Io l’ho sperimentata, ma erano estasi che rasentavano la nevrosi, non estasi propriamente religiose… ma avrebbero potuto esserlo. Questo è lo stato supremo che può essere raggiunto. La sorprenderò, ne ho conosciute quattro nella mia vita, sono già un bel po’. Ma lei dice che rasentava la nevrosi? Beh, ero nevrotico. L’estasi che non è estasi religiosa è quando si ha l’impressione di essere il centro dell’universo, si è tutto, una specie di dio. Ma [tutto questo] è legato a un sentimento che non è solo intellettuale. È una sensazione straordinaria. È così straordinario che quando lo si sperimenta, dici a te stesso: «Posso aver sofferto nella mia vita, ma tutto è riscattato da questo. È straordinario». Ma deve esserci un minimo di squilibrio nervoso, non accadrà mai a qualcuno in uno stato normale. È patologico dal punto di vista medico ma… non importa. È davvero uno stato straordinario in cui si ha davvero l’impressione che tutto sia redento, che la felicità sia assoluta, tutto sia stato risolto, che si sia capito tutto e che sia uno stato unico, che purtroppo non possiamo

306

Intervista con Laurence Tacou

rinnovare come vogliamo. Ma bisogna anche dire che ciò è avvenuto durante il periodo in cui ho perso il sonno. È l’insonnia che mi mette in stati come questo, ma non sempre. Ho sperimentato l’insonnia per almeno sette anni. Ti mette in tali stati nervosi... in stati di incredibile intensità; e l’estasi è proprio l’intensità elevata al massimo. Chi non ha conosciuto queste terribili veglie non può conoscere l’estasi. L’estasi è davvero al limite del sopportabile, in senso buono. È una felicità quasi insopportabile, straordinaria. Tutti i grandi stati che conosciamo nella vita hanno qualcosa di morboso. Lo stato normale è un momento insignificante! [Ride]. E questo è straordinario, giustifica la vita. Lei cosa chiama destino? Il destino, in fondo, è molto semplice, uno è ciò che è, e non può essere diversamente. Il destino è l’idea del limite. Sei destinato a vivere entro questi limiti, non puoi andare oltre. Se non sei stato chiamato per andare oltre, non puoi andarci. È come il talento, il talento letterario, non puoi diventare un poeta; non puoi diventare un musicista; è veramente il destino, ognuno ha dei limiti e tutto dipende da essi. Non è la volontà che interviene. Quindi, in pratica, lei è fatalista? Non completamente, ma in gran parte. Un assassino, per esempio, era destinato, ha commesso un atto perché non poteva fare altrimenti. Siamo ciò che siamo e la volontà non può farci nulla. Non capiamo qualcosa perché abbiamo fatto uno sforzo. Sì, in una certa misura, ma nel profondo, no; era nel nostro destino percepire questo e anche conoscere un tale tipo di sventura. Seguire la propria via non è questione di volontà, è qualcosa di ben più profondo. Il fatto è che non possiamo cambiare direzione, pur sapendo che non è questa la strada da percorrere. Essere chiamati è questo, non si può fare diversamente. È vero, ma non per tutti. Non per esagerare… ma nella mia vita ho conosciuto

307

Ultimatum all’esistenza

molte persone. Ognuno segue la propria strada, ognuno è intrappolato dai propri limiti, non possiamo andare oltre. Solo i genitori immaginano che sia possibile… [ride], la progenie… Quando lei è venuto in Francia, ha deciso di non tornare più in Romania? Era ciò che volevo. Ma, se fossi rimasto lì, la mia visione della vita non sarebbe stata diversa. Certamente, sarebbe stata peggiore nella sostanza. In Francia, avrei dovuto essere l’uomo più felice del mondo perché era il sogno della mia vita, ma questo non ha cambiato minimamente la mia visione delle cose… solo la mia vita pratica. Per questo sono fatalista, ma non del tutto, perché ammetto che nel destino, nel corso della vita, ci sono cose impreviste che segnano e che sono evidentemente importanti. Ma ciò che sostengo è che la visione delle cose che scaturisce da sé stessi è quasi indipendente da tutto il resto. In sostanza, ci sono cose che non cambiano… La natura rimane, dobbiamo andare fino in fondo? È evidente. Per quelli senza illusioni, è il mio caso, un successo è essenzialmente piuttosto negativo. Alcune persone hanno attacchi di depressione quando le cose vanno bene perché la loro natura non riesce ad assimilare il successo. Sa, a volte, quando vediamo un paesaggio troppo bello, siamo presi da un attacco di malinconia, non è affatto gioia. Bisogna essere fatalisti, ma non assolutamente, bisogna ammettere piccole variazioni ma non essenzialmente… Non c’è possibilità di evoluzione dell’individuo al di fuori dell’esperienza mistica? Questa oppure un disturbo mentale…

308

Intervista con Laurence Tacou

Sono le uniche due scappatoie? Sì. [Ride]. Allora non c’è nessuna fatalità… Sì. [Ride]. È già qualcosa! [Risate]. C’è speranza! C’è speranza? Ci sono deviazioni di percorso… Ci sono persone, ad esempio, che passano da un fallimento all’altro e non sono infelici; ce ne sono altre, invece, che vivono senza fallimenti e che sono infelici. Io conosco persone che potrebbero suicidarsi mille volte di seguito, e altre che si suicidano quando non hanno un motivo oggettivo per farlo. E da dove proviene tutto questo? È in te, è il lato misterioso, è questo che rende la vita interessante. Il lato imprevedibile che dovrebbe essere prevedibile, ma non lo è. Mi ha detto che è stato affascinato dall’America Latina senza nemmeno averci messo piede… Viaggio solo nei Paesi limitrofi. Le dirò perché sono interessato all’America Latina. Credo che il futuro dell’Europa sia molto incerto; e credo addirittura che non avrà alcun futuro… e penso che sia l’America Latina l’erede dell’Europa, della cultura europea e non l’America del Nord. Mi pare sicuro almeno per i Paesi latini: Francia, Italia, Spagna.

309

Ultimatum all’esistenza

Inoltre, quest’impressione è ancora ben fondata. Tutti i sudamericani che ho incontrato, gli intellettuali, mi hanno fatto un’ottima impressione, e mi è sembrato che fossero più qualificati dei nordamericani per perpetuare la civiltà europea. Mi dirà: «Ma l’Europa non sparirà così!». È possibile, ma il declino della cultura occidentale è per me un’evidenza. È un’idea che circola da cinquant’anni e, a dire la verità, non credo al futuro dell’Europa in questo momento. Credo che ci sia usura. Quando si pensa che la civiltà francese ha mille anni! Mille anni di civiltà! Una civiltà non dura per sempre. Si è parlato di decadenza già all’inizio del XIX secolo. Ci sono sintomi molto chiari; in primo luogo, quando si vedono i sudamericani, lei è in una buona posizione per giudicare, hanno una vitalità che qui non esiste. Anche nei gesti, in tutto, non sono logori. Ridono di sé stessi, ma allo stesso tempo credono in sé stessi. Hanno ancora illusioni. Se volessimo definire l’Occidente ora, potremmo dire che è il tizio che ha perso tutte le sue illusioni. E questo è un sintomo? È un sintomo. Che cos’è la vita? È un’illusione in corso. [Ride]. Ma qui, le persone non vengono più ingannate, il che è un sintomo molto allarmante, ma non in termini di conoscenza. La lucidità non è necessariamente sinonimo di progresso, vitalità, è il contrario. La vita funziona davvero solo se non si riesce a vedere chiaramente. Non appena percepiamo le cose così come sono, la vita è minacciata. La decadenza può essere definita come un eccesso di lucidità. Ecco, l’eccesso di lucidità mi sembra una delle caratteristiche delle civiltà in declino. E non c’è speranza che l’Europa possa risalire questa china prima di diversi secoli? Ci sono civiltà che sono logore e che si trascinano a lungo. L’Impero romano, ad esempio, si è trascinato per almeno cinque secoli. Era del tutto spacciato nel V secolo, ma la decadenza romana è già molto chia-

310

Intervista con Laurence Tacou

ra a partire dal II e III secolo, è evidente. La decadenza occidentale è ora visibile, si può dire dalla guerra del 1914. È stato come una specie di tentativo di suicidio da parte dell’Europa: la grande catastrofe per la Francia e per la Germania. A mio parere, però, è la Francia che rappresenta l’essenza dell’Occidente. È il Paese più avanzato sul piano storico e anche il più stanco, molto più dell’Inghilterra e della Germania. È un Paese presente da secoli, che ha avuto una storia continua e intensamente vissuta e questo si paga. Lo si paga inesorabilmente! La civiltà occidentale è arrivata al limite delle sue possibilità? Non al limite, non esattamente al limite, ma sta perdendo quota, non per motivi politici. È [qualcosa di] più profondo, molto più profondo, è usura. Gli scrittori non possono creare all’infinito. C’è un limite, poi si scende la china. Per le civiltà, è assolutamente chiaro, non ha senso negarlo, non ne vale la pena! I sintomi del decadimento sono evidenti. Tutti ne sono consapevoli. Ovviamente, non è così facile da accettare, perché non si possono mettere le persone di fronte alla loro mancanza di avvenire. Il fenomeno è ancora relativamente lungo, possiamo registrarlo, ma… è come una lunga agonia. Ed è inesorabile? Inesorabile. La storia è spietata, non dobbiamo farci illusioni, è un processo inesorabile. Guardi la Francia, era la nazione più bellicosa d’Europa. Thomas Mann ha detto una cosa molto vera, ha detto: «La Germania è una nazione militare e la Francia è una nazione bellicosa». Beh, è così evidente che la Francia non lo sia più. La Francia si è logorata a forza di far guerre. Ha combattuto, ha fatto tre rivoluzioni nel XIX secolo. C’è una sorta di stanchezza storica e questo è ciò che caratterizza questo Paese. Non è per nulla [un fatto] politico, come si pensa, con tutta questa ridicola polemica tra destra e sinistra. È una stanchezza storica. Ovviamente, tutti lo capiscono quando parliamo dell’Impero

311

Ultimatum all’esistenza

romano. Eppure, questo è il destino di tutte le civiltà, anche della Francia. Contro ciò, non c’è assolutamente nulla da fare, tranne che ci sono agonie lente e altre più veloci. Ma lei pensa che questa civiltà europea continuerà ancora da qualche parte? Continuerà in America Latina. Forse mi sbaglio, ma sono certamente i sudamericani che la percepiscono e la capiscono meglio; l’hanno subita e la percepiscono molto meglio dei nordamericani, in ogni caso, attraverso le civiltà latine… Nondimeno, qui in Europa ci saranno altri centri di civiltà. Soprattutto perché la minaccia, non militare ma storica, che incombe sull’Europa è la Russia. La Russia non è storicamente stanca. Tra i principali Paesi europei è il popolo meno logoro… La Russia, per tutto il XIX secolo… è sorprendente vedere come i pensatori russi di ispirazione religiosa, ortodossa… Sa, il loro obiettivo è l’Europa; la Russia crede di avere la missione di dominare l’Europa! Soprattutto dal XIX secolo, consapevolmente, ma la cosa risale ancora a prima. È davvero ossessionata dall’Europa. Guardi la situazione attuale: la Russia cerca a tutti i costi di neutralizzare la Germania, invece di affrontare i gravissimi pericoli che minacciano il suo futuro, come la Cina, l’Oriente... resta ossessionata dall’Europa e non si tratta di un’ossessione casuale, è un’ossessione storica. Ha radici profonde. Nel XIX secolo, è evidente che ha prevalso il pensiero russo. Ma l’idea che spetti alla Russia salvare l’Europa… Oggi, questo ci fa ridere. I russi credono che l’Europa spetti loro di diritto. È di loro proprietà. Anche loro hanno parlato molto del declino dell’Occidente… dell’Occidente, non dell’Europa. Per tutto il XIX secolo i pensatori russi sono stati ossessionati dalla fine, dal declino dell’Occidente. Dostoevskij, tra gli altri, un pensatore, non solo uno scrittore, disse: «Adesso tocca a noi!». E questa è la storia universale: ognuno a turno! E così si è fottuti, sopraffatti. Questa cosa è implacabile! Le civiltà non logore avvertono perfettamente che le civiltà avanzate sono marce dall’interno. Da un

312

Intervista con Laurence Tacou

lato ciò le affascina e dall’altro fornisce loro delle idee. Non si tratta di disprezzo, perché ammiriamo la decadenza, perché la decadenza è raffinatezza, è sottigliezza… ma allo stesso tempo, coloro che non sono in questa fase, sentono che il futuro appartiene a loro… Capisce, la Francia è una nazione costruita interamente sulla religione. Perché è stata grande? Perché il cattolicesimo era grande, intollerante e aggressivo. La religione è una forza interiore, indipendentemente dalla verità o dalla menzogna, è la base della vita. Le religioni fanno parte della vita, le religioni sono quasi sinonimo di vita. È davvero una questione di illusione. Beh, in Francia il cristianesimo è logoro, questo è evidente. Mentre l’islam… È una religione, una forza trainante, questo è il motivo del suo successo, della sua attuale presenza nel mondo. L’uomo ha bisogno di un motivo… che gli viene dato dalla religione ed è perfettamente comprensibile. Pensare che Dio si prenda cura di te, ecco cos’è la religione, è pensare che Dio sia interessato a te. Sei interessato a Lui e Lui è interessato a te. Proietta una sorta di dinamismo tra gli individui. È coerente, in fondo. È persino straordinario, giustifica l’esistenza. È una forza interiore colossale, motivo per cui i tempi più crudeli sono stati i tempi della lotta religiosa. Pensa che l’islam sia una civiltà in pieno sviluppo? Sì, sì, certo. Molto stimolata internamente. Perché, in fondo, credere che Dio si prenda cura di te è una cosa enorme nell’esistenza di qualcuno, ancor più in quella di una comunità, di una nazione. Questo è ciò che si chiama “messianismo”. Credere che tutto ciò abbia una base profonda, che Dio sia con te e l’Occidente… Non dimentichi l’epoca delle conquiste religiose, di tutte queste scappatelle in Oriente, per andare a liberare la tomba di Gesù in Oriente. È una follia, ma la vitalità è proprio questo. Crede che l’islam sia oggi allo stadio del cattolicesimo al tempo delle crociate?

313

Ultimatum all’esistenza

Più o meno. Comunque, come può notare, è qui che si appoggiano, che alimentano il loro orgoglio perché non hanno ideologia, hanno fede. Credono nella loro missione, credono che Dio sia con loro. La fede è una visione oggettivamente falsa, ma non soggettivamente. Le Crociate non hanno avuto luogo per idee astratte, almeno in parte, ma la base psicologica è più profonda, è nell’inconscio. Non ci si può entusiasmare per qualcosa senza la fede. Anche le idee della Rivoluzione francese non erano idee religiose, ma erano state adottate con una sorta di sensibilità religiosa. Questa fede è anche un segno della giovinezza di una civiltà? Sì, certo. Non credo nel futuro della civiltà americana propriamente detta, ma credo che se l’America perdesse la fede, il che è possibile, crollerebbe. È questa sensibilità religiosa che la mantiene ancora. Dove vede svilupparsi forme di civiltà nel mondo? Per me l’America Latina è l’erede della civiltà europea, ma non la paragono con l’Oriente, per niente! Non è nemmeno possibile! Certo che no! È evidente che il futuro appartiene a Paesi come la Cina… I romeni provano affinità con qualche nazione in particolare? La Romania ha una situazione particolare. Mi pongo solo dal punto di vista della civiltà occidentale. La Francia ha avuto un’evoluzione normale. Ha attraversato tutte le fasi che una grande civiltà deve attraversare. Tutte le fasi… è molto importante. Ecco perché se parliamo di una decadenza francese, è solo in termini di storia universale, come la decadenza dei romani, come un normale e fisiologico declino, per così dire. [Ride]. Perché è inevitabile. La decadenza è reale quando non si può fare nulla, si può solo ridurre la velocità. È un processo fatale. Devo dire che forse sono fatalista nella mia visione della storia. I francesi non

314

Intervista con Laurence Tacou

lo sono, perché sono razionalisti, credono che l’uomo possa fare qualsiasi cosa. Sarò anche un fatalista, ma credo che ci siano fenomeni che sono davvero fatali, non c’è niente che possiamo fare al riguardo. Ma tutto ciò non ha nulla a che fare con i regimi politici? No, no, è qualcos’altro. L’Europa… la Francia è stata grande durante le epoche di tirannia; sotto Luigi XIV, non c’era libertà. Il sistema politico può solo frenare un’evoluzione, ma se il popolo non è logoro, non soccomberà, vincerà! Ma l’America Latina, ad esempio, è un continente che ha conosciuto molte dittature… Dittature che non l’hanno necessariamente indebolita al suo interno, poiché vediamo che i nemici di questi regimi sono pieni di vitalità. Queste persone non sono sprofondate. Per caso i cileni sono crollati? No! La dittatura è ovviamente pericolosa se dura un secolo, ma queste sono prove e l’Occidente le ha attraversate. Se il popolo non è internamente logoro, vincerà. È la base che trionferà. È evidente. [Ride]. Tutto ciò che trionfa nella storia, alla fine, viene dal basso. A mio avviso, questo è il processo. Sono i tipi che non si mettono in mostra, quelli silenziosi, gli analfabeti, ecc. Il futuro è loro. Questi strati sociali non sono logorati dalla cultura. Già così non è male sa, è molto, questo è ciò che costituisce la riserva di una nazione. L’impressione che ho, da lontano, dell’America Latina, è che ci sia questo strato di analfabeti… Trionferanno anche sui conquistatori? Sì, sarà un’altra fase, ma sto parlando dell’inizio del prossimo secolo, non di un’evoluzione successiva, se ce ne sarà una. Ma è evidente che l’America Latina oggi è di un certo livello, è innegabile, lo si vede da quello che pubblicano, da ciò che traducono, ma non si può descri-

315

Ultimatum all’esistenza

vere la fase finale. La fase finale sarà quando tutte le persone in fondo si ritroveranno in cima. È certo che tra cinquant’anni la società francese avrà un aspetto completamente diverso, addirittura inimmaginabile… Credo, ad esempio, che tra cinquant’anni Notre-Dame sarà una moschea. È inevitabile che, con l’usura del cristianesimo e del cattolicesimo, finiremo lì. Sa cos’è successo alla fine dell’Impero romano, prima che l’Impero romano affondasse… Come sono arrivate tutte le sette dell’Impero? Attraverso i servi, gli immigrati, se vuole. Come spiega il fatto che il cristianesimo sia riuscito a infiltrarsi nell’Impero romano? L’intellighenzia romana odiava il cristianesimo, ma esso passava attraverso i servi, gli stranieri, gli immigrati, ecc., e quando questi tipi sono diventati visibili, gli dèi romani sono spariti. Fu un processo fatale, perché qualcuno che era stato educato nella religione greco-latina non poteva aderire al cristianesimo, non era plausibile. E pensa che l’islam stia giocando lo stesso ruolo del cristianesimo in quel momento? È molto possibile. Perché, in fondo, ogni popolo ha più o meno una missione, questa missione può essere elaborata o può essere reale senza elaborazione, perché inconscia. La cultura occidentale era il tipo di cultura elaborata, questa civiltà può essere perpetuata in una forma molto meno consapevole. È tentato dal deserto? No, perché seguo una dieta che mi impedisce di viaggiare comunque e ovunque… L’altro giorno ho visto un uomo morto, un tizio che aveva viaggiato molto, ho guardato il suo cranio… tutte le immagini che aveva visto, i viaggi e ora la morte… Beh, non c’è più molto altro da fare allora…

316

Intervista con Laurence Tacou

Ci sono così tante cose da vedere e tutto ciò non ci aiuta. Ti dà l’illusione mentre contempli, non risolve nulla… Bisogna fare il minimo, non ne vale la pena, bisogna solo non crepare. Gli ambiziosi… Ecco da dove viene tutto il male. Le persone che vogliono lasciare il segno, che vogliono manifestarsi. Quante volte ho pensato alla Germania che era il Paese più laborioso; se la Germania non si fosse mossa, la storia, la conquista del mondo, tutti quegli ambiziosi… sarebbe il Paese più felice del mondo… Crede che le persone si stiano agitando sempre di più? No, ma tutti puntano a qualcosa… Lei sta mirando a qualcosa? No. Niente? No. Ho mirato a qualcosa nella mia vita, ma ora non più, perché ne ho abbastanza così. È vero, tutti parlano dei loro progetti, quando dico alla gente che non ne ho, non vogliono credermi… Piccoli progetti, piccole ambizioni… Ad esempio? Oh, non so, è così meschino. [Ride]. Voglio cambiare la copertina di un libro… [ride]. Cose insignificanti… Ma comunque, io ho scritto qualche libro, non erano ambizioni, era più un combattere… Non si può fare qualcosa senza un piccolo o grande disturbo. E credendo che sia importante, credendolo inconsciamente… Ho sentito dire che a lei piacciono i lavori in casa…

317

Ultimatum all’esistenza

Li adoro! Mi piace riparare i tubi… In casa, faccio tutte le riparazioni… con discutibile successo, tutto ciò che può essere fatto, lo faccio più o meno bene… E questo le dà grande soddisfazione? Enorme! Risale alla mia infanzia, nulla fa così bene. Questi sono gli unici momenti in cui sono felice… [ride]. Ma giuro, niente mi ispira di più che riparare qualcosa! Ti assorbe completamente e poi il risultato è visibile e c’è un minimo di ambizione [ride]. È una forma di felicità. Davvero, il “fai da te” è salutare… Ieri, ad esempio, ho finito i lavori in una mansarda, metà dei lavori, non completamente da solo, con un operaio, ma comunque! C’era solo il tetto, ma il resto, niente… Mi piaceva nella mia infanzia, andare a comprare cose… è grandioso. L’uomo è stato creato per questo, per fare bricolage, per mangiare il prossimo come un cannibale… L’uomo fa parte di un’economia chiusa, [dovrebbe] mangiare i suoi genitori, i suoi vicini… [ride]. Siamo a un punto di non ritorno… Prima c’erano alcune medicine, piante… donne anziane che si prendevano cura dei malati; a volte ci si riusciva, altre no. C’era la terra, c’era sempre qualche verdura… mangiavamo un animale talvolta, una bestia. Tutto era ridotto al minimo, non c’era così tanta ambizione. L’uomo avrebbe dovuto rimanere a questo stadio… E tutte le nuove tecniche? Tutto ciò non fa che complicare la vita, renderla un incubo… Sfortunatamente, a causa della moltiplicazione della popolazione, ho sentito dire che tra quarant’anni ci saranno dieci miliardi di mortali! Basta un solo pazzo sulla Terra per far esplodere una bomba. Tutte queste centrali atomiche logore e che si guastano, ora basta… In ogni caso, nella nostra epoca, il futuro non può che essere terribile. Le persone lo sentono, tutti lo dicono, è sicuro, assolutamente sicuro…

318

INTERVISTA CON JOSEFINA CASADO*

Originario della Romania (Rășinari, 1911), Cioran è da mezzo secolo che si accanisce contro la storia, Dio e l’uomo. Ironia della sorte, questo adepto del fallimento è diventato un fenomeno di attualità. Confessioni e anatemi – che raccoglie i suoi pensieri più recenti e che le edizioni Tusquets hanno appena pubblicato – in Francia ha avuto un successo di vendite. Quell’inopportuna celebrità lo ha fatto precipitare nella prostrazione. Dice di essere «stanco di ridere di Dio e del mondo». Abbiamo perso, per dirla con Susan Sontag, «uno degli ultimi panegirici dell’agonia dell’Europa»? Siamo troppo abituati ai filosofi trascendenti, che risolvono le loro speculazioni con il sostegno di un fondamento sistematico. Trovano posto nei manuali scolastici e nel midollo del dogmatico di turno. Cioran è fuori da tutto questo. Sa di aver fallito in tutto ciò che voleva essere: un filosofo mistico. È rimasto un aforista senza fede. Insiste sul fatto che non ci sia niente che giustifichi la nostra decisione di esistere. Da questa irriducibile certezza ha tratto una passione bestiale per la negazione. In gioventù ha letto innumerevoli filosofi tedeschi. Ha finito con: «So solo che non so niente». Segnato da Giobbe, Schopenhauer e Nietzsche, oltre che da Šestov, ha imposto il temperamento al di sopra della ragio* Traduzione italiana di Marisa Salzillo.

319

Ultimatum all’esistenza

ne. Ad un giornalista italiano che lo esortava a rivelare quali fossero i suoi mezzi di sussistenza rispose: «Faccio il pappone». È stato accusato di essere politicamente reazionario, “rassegnato” direbbe Vulcănescu. Altri gli hanno imputato un impeto aristocratico. Il famoso fotografo Richard Avedon avrebbe addirittura individuato tratti nevrotici. Essendo un temperamentale e un vitalista, come ha potuto passare la vita cercando ragioni per morire? Ho accettato il principio di contraddizione, fin dall’inizio. Non ho mai cercato di essere coerente con me stesso. Non scrivo per liberarmi da quelle che potrei chiamare “le mie ossessioni”; lo faccio per attenuarle. Sono impressioni che ho trasformato in problema. Sono reazioni personali alle quali ho fornito un alone metafisico. Per me la cosa importante è sempre stata la sensazione. Un’idea che non è una sensazione è un’idea senza vita. Ecco perché molto presto ho rinunciato ai filosofi e mi sono avvicinato agli scrittori. In particolare a Dostoevskij. All’origine di tutto questo c’era il disinganno. Questa sensazione non ha contribuito ad eliminare i suoi impulsi? Non le ha impedito di costruirsi un’identità compatta, basata sull’interazione con gli stimoli esterni? A vent’anni avevo perso tutte le mie illusioni, e il mio destino era segnato. Poi ho letto solo per riaffermare la mia visione delle cose. Pur avendo letto pensatori con una concezione della vita opposta alla mia, non sono stato influenzato da essi. Non sono mai stato così vicino al suicidio come in quel periodo. Se all’epoca qualcuno mi avesse detto che avrei superato i trent’anni, lo avrei preso a schiaffi. In fondo, ciò che ha fatto è stato ritardare il suo suicidio. Non ha detto, forse, che un libro è un suicidio differito? Ha ragione. Quando si ha la visione del suicidio, la si mantiene per

320

Intervista con Josefina Casado

sempre. Vivere con quest’idea è una cosa molto interessante. Direi, addirittura stimolante. Ascolti: circa sette anni fa ho incontrato un uomo che voleva suicidarsi. Siamo andati in giro per ore. Gli ho detto che avrebbe fatto meglio a ritardare il suo suicidio che, in fondo, quella era un’idea molto vitale che avrebbe potuto sfruttare. Questo sentimento tragico dell’esistenza si è accentuato nell’unico momento della sua vita in cui ha lavorato. Su cosa si fondava? Una delle esperienze fondamentali della mia vita è stata la noia. Da bambino ho provato questa sensazione di vuoto. Avevo non più di cinque anni. Ho dovuto aspettare i vent’anni per affondare completamente. È stato un periodo molto drammatico. Ho iniziato con crisi di insonnia, durate per anni. E questo è stato ciò che, curiosamente, mi ha aperto gli occhi. L’ho sognato stanotte. Ero studente in Romania. Erano le due del pomeriggio, ero appena tornato a casa, mia madre era sola. Ricordo di essermi buttato sul divano, ero distrutto, non ce la facevo più. Fu allora che mia madre mi disse: «Se avessi saputo, avrei abortito». Quella frase mi colpì molto. Da quel momento, ho seguito un percorso individuale. Come insegnante, fallirà. Sì. È stato un fallimento totale. Non era destino. Gli studenti non sapevano come comportarsi con me. Dicevano che ero pazzo. Era logico. Arrivavo con occhiaie terribili, ridevo di tutto, davo una sensazione di arbitrarietà. Quando me ne andai da quell’istituto, il preside si sfogò ubriacandosi. Non sono mai stato in grado di esercitare una professione. Avendo consapevolezza di questo fenomeno, sono riuscito ben presto a costruirmi una vita senza una base sociale. Mi sarebbe piaciuto essere uno studente a vita. Ci sono riuscito fino ai 40 anni. Un giorno mi convocarono e mi dissero che il limite di età [per usufruire della mensa] era di 27 anni. Ma questa non è stata la cosa peggiore. Ho

321

Ultimatum all’esistenza

vissuto in hotel per circa 25 anni. Quando non ho più potuto pagare la mensilità, tutto il mio sistema è crollato. È stato terribile per me. Per tutta la vita sono scappato dalle responsabilità. Sono stato un irresponsabile in tutto. Non ho mai avuto una visione del futuro. La proiezione costruttiva verso il futuro è un difetto del cristianesimo? La considera un altro inganno come la finzione di Dio? È tutta la vita che ci penso. Quando tutto cessa di esistere, quando sei solo nel cuore della notte, con chi si può parlare? Credo che la solitudine assoluta richieda l’idea di un Dio. Questo non ha niente a che fare con la fede. Per me, Dio è l’unica forma di dialogo possibile nel mezzo della notte. È un dialogo con sé stessi, che non mira a risolvere nulla. Lui è l’interlocutore inesistente. È l’esperienza limite. E Buddha, qual è il suo status? Il buddhismo non richiede la capitolazione dell’intelletto. Si basa sulla conoscenza e sull’intuizione. Nel buddhismo, se si comprende che il dolore è il centro di tutto, allora si è capito ogni cosa. È l’unica religione che accetterei, se dovessi accettarne una. Il cristianesimo è finito. Difende ancora un’idea di futuro. Stranamente, per la prima volta, sembra che la gente non creda più nel futuro. In Confessioni e anatemi non trovo la sua solita forza. È come se la lingua si fosse stancata; il tono, spento. Lei è la prima persona a farmi quest’osservazione. Anche un mio conoscente aveva intuito ciò, lei però ha saputo formularlo. È un’osservazione molto importante. Confessioni e anatemi è il libro di una capitolazione metafisica. Fino ad ora, ero convinto di quello che scrivevo, e scrivevo per convincermene ancora di più. Non ho più bisogno di dimostrare tutto questo. Ho la sensazione di essere diventato il disce-

322

Intervista con Josefina Casado

polo di me stesso. Inoltre, ho iniziato a provare sensazioni fisiologiche di stanchezza. Immagino sia la vecchiaia. Quando ho terminato questo libro, ho detto: «È finita! Non scriverò più. Non ne vale la pena. Continuare... per cosa?». Ho scritto quindici libri. È troppo tardi. Probabile che il successo di questo saggio abbia scatenato questa mia reazione. L’ho vissuto come un’umiliazione. Negli altri aforismi, l’io era impegnato a scavare inquietudini intrinseche: la storia, il tempo, la noia. Il confronto tra paganesimo e cristianesimo, la mistica, il silenzio. In quest’ultimo mostra una secolarizzazione dei problemi. Non abbiamo più Tacito né la “carogna che ci sconvolge e ci allarma”, ma abbiamo un dentista, la portinaia, ecc. Non appena si mischia il quotidiano con la metafisica, otteniamo il ridicolo. Un’altra eresia. Un altro sabotaggio. C’è una sproporzione tra l’evento di cui parlo e i grandi problemi. Qualsiasi cosa getta luce su ciò che è essenziale. E le donne? A loro dedica a malapena qualche riga. È un argomento molto delicato. Ho detto che la donna era più intelligente dell’uomo. È solo un cliché. Lo è. Ho dovuto scrivere poco sulle donne a causa di un pregiudizio antifrancese. Qui non si parla d’altro.

323

INTERVISTA CON BENEDETTA CRAVERI

[…] Nel suo saggio su Borges, lei scrive: «Non radicarsi, non appartenere a nessuna comunità – questo è stato e questo è il mio motto»1. Eppure, da cinquant’anni, e più esattamente dal 1937, lei ha scelto di vivere a Parigi. Le due cose non sono in contraddizione? È vero, la mia idea è che bisogna essere senza patria, se si vuole essere liberi intellettualmente. Avere una patria significa inevitabilmente darsi dei confini, dei limiti. Ma, detto questo, lei deve pensare che, per un romeno come me, Parigi equivaleva all’universo. È impossibile capire cosa fosse la Francia per la Romania prima della guerra, era una specie di ossessione collettiva. L’influenza francese era colossale a Bucarest: tutti i librai avevano le ultime novità parigine e c’era persino un quotidiano scritto interamente in francese. In fondo, il sogno di ogni romeno era di venire a Parigi per sprecare la propria vita. Ed è quanto, in effetti, è successo a quasi tutti. Anche io sono venuto qui spinto da questa aspirazione inconscia dei miei compatrioti, che ha continuato ad 1 E. M. Cioran, Esercizi di ammirazione. Saggi e ritratti, tr. it. di M. A. Rigoni e L. Zilli, Adelphi, Milano, 1988, p. 172.

325

Ultimatum all’esistenza

esercitare un grande fascino su di me: Parigi come il luogo ideale per il proprio fallimento. E oggi non rimpiange di non essere riuscito a fare di sé un fallito? Sarebbe stato molto meglio e, forse, più facile, ma di falliti se ne vedono talmente tanti che, francamente, passa la voglia. Ma, lei non crede che la patria di uno scrittore sia la lingua in cui ha scelto di scrivere? Certo. Infatti a Parigi ho continuato a scrivere nella mia madrelingua per anni e anni. Continuavo a leggere il più possibile libri in romeno, quantunque fosse difficilissimo trovarne. E ogni giorno, prima di mettermi a scrivere, leggevo una pagina della Bibbia in romeno, a scopo propiziatorio. Perché il romeno, con la sua curiosa mescolanza di latino e di slavo, non può dirsi una bella lingua ma, a differenza del francese, è una lingua straordinariamente poetica. E poi cosa è successo, com’è passato al francese? Di punto in bianco, alla fine della guerra, mi sono reso conto che accanirsi così, con la lingua di un Paese con cui avevo tagliato i ponti, era una stupidaggine. Allora ho perpetrato un tradimento totale nei confronti della mia madrelingua e mi sono messo a scrivere, pensare e sognare in francese. È così che è cominciato un combattimento strenuo con una lingua difficilissima; perché il francese non è, come si dice, la lingua delle idee chiare e distinte, è, in grado supremo, la lingua delle sfumature. A ripensarci bene è stata una fatica mostruosa, ma in fondo la vita è sopportabile solo se ci si misura con imprese smisurate. Negli Esercizi di ammirazione leggiamo che «Scrivere è un vizio di cui ci si può stancare»2. Qual è il vizio che la induce a scrivere? 2

326

Ivi, p. 215.

Intervista con Benedetta Craveri

C’è chi scrive per sostenere una tesi, c’è chi scrive per vanità, io ho sempre e solo scritto per sfuggire a un’angoscia profonda, per combattere una sorta di annientamento interiore. Quando sono in mezzo alla gente sono socievole, allegro, ma di temperamento sono un depresso. Ora non scrivo quasi più, ma per me scrivere è sempre stato un tonico, una terapia. Dopo avere scritto una pagina, mi sorprendevo a fischiettare. Sono certo che se non avessi scritto sarei già morto da moltissimo tempo. Ricevo spesso delle lettere di giovani disperati e a tutti do lo stesso consiglio: quali che siano i risultati artistici, scrivete. Scrivere può salvarvi. Eppure, lei ha affermato anche che scrivere ha un senso solo in quanto provocazione3. Per me provocare significa svegliare, riscuotere chi legge dal torpore. Perché, in fondo, la gente dorme. E questo lo si può fare solo a condizione di provocare, di scatenare una reazione nel lettore. Non vale la pena di comunicare una verità. Si scrive per creare un po’ di disagio nella coscienza della gente, per costringerla a riflettere sulla natura degli uomini, sulla religione, sulla storia. Per indurla a interrogarsi sul senso di tutto questo. Se si è ossessionati, come lo sono stato io, dalla morte, dal nulla, dal vuoto, è inevitabile pensare che ciò che esula da questo sia secondario. Nel saggio su de Maistre è lei a reagire alle provocazioni dell’autore de Le serate di San Pietroburgo; ma si ha l’impressione che, tutto sommato, pur eccellendo nel gioco del paradosso, lei non ami essere eccessivamente complice di quello altrui. Lei ha ragione, e ritengo che il saggio su de Maistre sia il mio testamento politico. De Maistre è un pretesto di cui mi sono servito, perché 3

Cfr. ivi, p. 214.

327

Ultimatum all’esistenza

è uno scrittore estremo in tutto, grandissimo, ma anche assolutamente demente. La mia è un’analisi che tende a una riflessione molto pessimista della storia, dove non ci sono né ipotesi né conclusioni. Un testo inutilizzabile, vuoi da sinistra che da destra. Quel che mi interessava soprattutto in de Maistre erano le sue idee sulla rivoluzione. Però, in quel saggio, che è del 1957, quando scriveva che «[…] fra il paradiso primordiale delle religioni e quello finale delle utopie c’è tutto l’intervallo che separa un rimpianto da una speranza un rimorso da un’illusione»4, lei lasciava supporre che la sua simpatia andasse piuttosto in direzione dell’utopia, della rivoluzione. A quell’epoca ero molto di più dalla parte della rivoluzione di quanto lo sono oggi. Poi ho fatto molte letture che mi hanno indotto a guardare la rivoluzione sotto un altro aspetto. Per esempio, per capire cos’è stata la Rivoluzione francese, non bisogna leggere i libri di storia, bisogna leggere i memorialisti del tempo, come l’abbé Morellet. È lì, nella cronaca quotidiana, che si misura tutta l’atrocità di quel che è successo. Si aspetta qualcosa di interessante dal Bicentenario della Rivoluzione? No, assolutamente niente. Lei ha scritto che prendere posizione è una disgrazia a cui nessuno sfugge . Recentemente la pubblicazione del secondo volume delle memorie postume di Mircea Eliade (Gallimard) da cui emergono i legami di Eliade con la Guardia di Ferro, il movimento di estrema destra che si affermò in Romania, nel 1938 ha scatenato un notevole scalpore (vedi Edgar Reich­ mann, «Le Monde des Livres» del 15 luglio). Lei che è stato amico di Eliade, che giudizio dà su questa sua presa di posizione politica? 5

4 5

328

Ivi, p. 38. Cfr. ivi, p. 21.

Intervista con Benedetta Craveri

Senta, trovo tutte queste polemiche piuttosto ridicole e assurde. Prima di tutto durante la guerra, quando la destra era al potere, Eliade non viveva più in Romania. Poi, se esisteva al mondo una persona apolitica, che non si interessava, non capiva niente di politica, che non leggeva nemmeno i giornali, questi era Eliade. Eliade era un intellettuale allo stato puro, viveva unicamente nei libri e per i libri. Per lui produrre era quello che contava. Lavorava come un pazzo, senza contatti con la vita: non è un caso che sia finito in America. Chiacchierando poco fa, mi accennava, però, a una incomprensione tra lei e Eliade. Voglio spiegarle in cosa è consistito il conflitto tra me e Eliade. Ho sostenuto, in un saggio, che Eliade era un uomo che non aveva un sentimento profondo della religione, perché non si può parlare di senso religioso se non c’è un dibattito, un dramma intimo tra l’uomo e Dio. Secondo me, Eliade è rimasto esterno a questo dibattito. È stato pervertito dalla molteplicità delle religioni che ha dovuto affrontare, e ha confuso la sua curiosità religiosa con l’esperienza religiosa. È questa l’obiezione che gli ho sempre mosso, fin dai tempi della Romania: che senso ha passare la propria vita a redigere il censimento degli dèi, se non si ha un rapporto diretto con l’assoluto? Questa mia tesi gli dava un immenso fastidio, ma non mi ha mai veramente risposto, se non, indirettamente, in un’intervista rilasciata poco prima di morire. Davanti alla consapevolezza della fine imminente, davanti al vero problema, ha contestato le mie affermazioni. Lei scrive, a proposito di Borges, che la consacrazione è la condanna di uno scrittore6. Anche lei, in questi ultimi anni, sta subendo clamorosamente questa condanna.

6

Cfr. ivi, p. 171.

329

Ultimatum all’esistenza

Sì, e non ci posso fare niente. Ma non bisogna cercare delle spiegazioni straordinarie, la spiegazione è semplice: è il livre de poche, l’edizione tascabile, che ha sollevato l’attenzione dei giovani. Prima ero inesistente; ho scritto per venticinque anni passando del tutto inosservato. Allora, come mai è stato pubblicato in edizione tascabile? Ma chiunque viene pubblicato in edizione tascabile! E poi, mi stia a sentire: nel 1952 ho pubblicato da Gallimard un libretto, Syllogismes de l’amertume. È stato un fallimento assoluto. Mi sono sentito dire, anche da persone che mi vogliono bene, da ottime persone: «Ma che ti è venuto in mente di scrivere un libro talmente insignificante?». E altre cose analoghe, al limite della tollerabilità. Un filosofo mi ha persino detto: «È un libro compromettente». La sola persona che mi ha capito è stato un biologo, Jean Rostand, il quale mi ha scritto: «I contemporanei non hanno delle buone mascelle per masticare cose di questo genere». È stato così per decenni. Sono stati gli studenti di liceo, nemmeno quelli dell’università, a scoprirmi. Cosa amano in lei gli studenti? Bisogna stare attenti a non prendere abbagli. Non è tanto l’aspetto filosofico dei miei libri che piace ai giovani, quanto piuttosto il mio cinismo. E c’è un mio lato cinico, soprattutto in quel libro lì. Un libro disperato, ma cinico dalla prima riga all’ultima. Tutto questo, però, è interessante perché fa vedere come le cose possono cambiare. In Francia c’è stata un’epoca di euforia, l’epoca di Sartre, in cui dominava una visione della storia che è culminata nella rivoluzione studentesca. Il ’68 è stato una vera utopia in atto. Una cosa molto simpatica, che funzionava sul momento, ma che non poteva realizzarsi. È come se si facessero progetti per l’eternità dimenticando la morte. E naturalmente questo ha comportato una grande delusione, soprattutto nei giovani. Di qui l’interesse che essi hanno oggi per i miei libri.

330

Intervista con Benedetta Craveri

Dunque anche a lei, come scrive a proposito di Valéry, è toccata la sventura di essere capito? Pensavo quasi di avercela fatta, ma da questo punto di vista la mia vita è stata davvero un fallimento. Avrei dovuto passare inosservato, ma questo diventa quasi impossibile dal momento in cui si accetta di pubblicare dei libri. Viviamo in un’epoca in cui il disinganno è generale. In questo, i miei libri erano in anticipo di vent’anni. Ora tutti dicono quello che dico io, senza nemmeno bisogno di citarmi, perché si tratta di cose oramai palesi. La gente ha perso l’illusione nella storia e l’utopia è diventata una cosa ridicola. E l’utopia è alla base della storia. Quand’è che la gente si agita? Quando crede nell’avvenire: è questa l’utopia. Ma quando si dubita dell’avvenire, quando la gente non trova risposta ai propri interrogativi, allora l’utopia è praticamente impossibile. E in un certo senso, in tutto quello che ho io scritto, non c’è risposta, non c’è soluzione.

331

INTERVISTA CON DIETER BACHMANN*

Anni fa scrisse che Parigi, la sua patria adottiva, era la città più triste che avesse mai visto. Eppure, ha un rifiuto radicale verso ogni novità. Nato in Romania e trasferitosi nella sua non-patria Parigi nel 1937 – «Un uomo che si rispetti non ha patria. Una patria è una colla»1 –, Cioran è pur sempre un parigino nella misura in cui questa città è sempre stata un asilo per gli stranieri, offrendo terreno fertile per il pensiero e per la vita. Il più scettico tra i pessimisti, in quanto Privatnachdenker, è il più indipendente di tutti i commentatori. Inamovibile nella sua diagnosi della nostra epoca come epoca di decadenza: «La decadenza è da intendersi come il culmine: il culmine del declino». Oggi saliamo finalmente le cinque rampe di scale che conducono alla sua mansarda, per scoprire come Cioran viva ciò che sta cambiando intorno a lui. Signor Cioran, cosa ha significato Parigi per la sua vita e la sua opera? Vivo da cinquant’anni nello stesso quartiere: il Quartiere Latino. All’inizio, e per molto tempo, ho vissuto solo in hotel; ora da questa, ora da quella parte del boulevard Saint-Germain. Da trent’anni, invece, * Traduzione italiana di Claudia Tatasciore. 1 E. M. Cioran, Squartamento, tr. it. di M. A. Rigoni, Adelphi, Milano, 1981, p. 104.

333

Ultimatum all’esistenza

abito in quest’appartamento nei pressi del Jardin du Luxembourg. A proposito, da qui si può vedere uno degli alberghi in cui ero di casa. A quel tempo, avevo una strana abitudine: ritornavo in hotel solo quando ero certo di essere l’ultimo; se alla teca era appesa ancora la chiave di un’altra stanza, non andavo a dormire. Per di più, ho sempre sofferto di insonnia, solo con l’età si è attenuata un po’; all’epoca quindi vagavo in lungo e in largo per la città facendo anche importanti conoscenze. Una sera mi avvicinai a una donna e mi offrii di accompagnarla a casa. Attraversammo mezza città a piedi, e intanto lei mi raccontò della sua vita, della sua solitudine. La sveglia, mi disse, era la sua unica compagnia. Fu un incontro importante, durato il tempo di una passeggiata. Cose del genere oggi non sarebbero più possibili. Qualche anno fa sono tornato a passeggiare di notte per le strade deserte – prima era così che Parigi mi apparteneva, che era la mia città! – quando mi fermò un poliziotto, chiedendomi cosa stessi facendo per strada a quell’ora. E mi consigliò vivamente di tornarmene subito a casa perché era troppo pericoloso girare da soli in strada a quell’ora. Ha conservato l’abitudine di andare regolarmente a passeggiare nelle campagne nei pressi di Parigi? No, no, vi ho rinunciato. Non è abbastanza sicuro, non più, e poi anche lì sono cambiate molte cose. Troppe notizie di aggressioni, non si può più girare da soli nel bosco. Non è forse troppo spaventato, o addirittura fuorviato, dalla sua convinzione che debba sempre accadere il peggio? Non credo. Queste non sono voci ma fatti, che spesso mi sono stati raccontati di persona. E poi, quando si va in giro da soli, bastano questi pensieri, basta non sentirsi al sicuro per spaventarsi e preferire di restare a casa. Il solo fatto di sentirsi minacciati vuol dire che c’è stato un cambiamento decisivo. Inoltre, le dicevo, questi sono fatti. Recente-

334

Intervista con Dieter Bachmann

mente mi ha chiamato una vecchia conoscenza, una signora russa che vive nella banlieue e mi ha detto che le sarebbe piaciuto molto rivedere rue du Bac. Le ho chiesto: «Perché proprio rue du Bac? Non ha nulla di particolare!». E lei: «Vorrei tanto rivedere un francese!». Cosa pensa della trasformazione di Parigi a causa dell’impennata dell’architettura moderna che ha così fortemente modellato la città negli ultimi dieci o quindici anni? La trovo troppo artificiosa. Non ho visto le ultime cose, ma mi basta il Beaubourg: assolutamente impossibile! E dire che Pompidou era un uomo colto, ma quello che hanno combinato è orribile! Un edificio del genere, così vicino a Notre-Dame, è una provocazione. Tra l’altro, hanno brutalmente distrutto il tessuto della città, piazzandoci qualcosa che sarebbe sicuramente un gioiello nella banlieue. Lo stesso vale per la Tour Montparnasse. Per decenni sono andato a passeggiare nel Jardin du Luxenbourg, era il mio parco, il mio giardino personale. Ora è dominato dalla Tour Montparnasse, questo “mostro”, hanno distrutto la mia Parigi! Mi sembra inevitabile che una città cresca, cambi… Non in questa zona, in centro! Ciò che sta accadendo qui, io lo chiamo “miglioramento catastrofico”. Legga cosa ha scritto Richard Cobb, un eminente storico, sulla «New York Review of Books», con il titolo perfetto di Paris assassinated! A questo punto bisogna parlare del concetto di progresso. Di recente ho condensato la mia posizione in una formula: «Le progrès n’est rien d’autre qu’un élan vers le pire»2. Naturalmente, nella storia delle idee francese la parola “progresso” ha avuto tutt’altro significato. Nella sua accezione positiva, illuminista, deriva da Condorcet, che ha vissuto durante la Rivoluzione francese e vi 2

Id., L’Élan vers le pire, Gallimard, Paris, 1988, p. 18.

335

Ultimatum all’esistenza

ha partecipato attivamente. Ma lo “slancio verso il meglio”, che s’intendeva e si poteva intendere all’epoca, si è trasformato nel suo opposto. Sono convinto che tutto ciò che nella storia e nella storia del pensiero viene postulato come positivo ci ricade addosso come suo opposto negativo. Lo stesso vale per il concetto di progresso: ormai ne conosciamo solo l’accezione negativa, è un concetto che ha fatto il suo tempo. La Francia è l’unico Paese in Europa a vantare una storia completa. Ha conosciuto un inizio, uno sviluppo, una rivoluzione e una post-rivoluzione. La Germania, ad esempio, non ha mai avuto una storia così completa. Bene, di questa traiettoria fa parte anche il declino. E io sono convinto che viviamo in un’epoca di declino, o quasi. La gente del posto è stanca, il futuro appartiene ai nuovi arrivati. Credo che anche l’Impero romano abbia conosciuto un fenomeno analogo: quando un’ideologia tutta nuova, quella del cristianesimo, si è infiltrata nell’Impero minandolo dall’interno. La filosofia greca non ha nulla a che vedere con il cristianesimo… Ma anche allora furono gli stranieri, gli schiavi, ad accogliere le idee del cristianesimo e, come una forza dal basso, a far crollare l’Impero romano. Riesce a immaginare, signor Cioran, di vivere in una città diversa da Parigi? No.

336

INTERVISTA CON JEAN-LOUIS ÉZINE*

Ho vissuto questi avvenimenti come qualcosa di inaudito, di imprevedibile. Assistiamo alla tragica risurrezione di un popolo che credevo da molto tempo liquidato e che forse vedrà nascere la propria salvezza da una sanguinosa catastrofe. Devo confessarle: nel momento in cui è iniziata l’insurrezione, mi apprestavo a scrivere un articolo contro i romeni, che si sarebbe intitolato “Il Nulla valacco” – in riferimento al principato danubiano che formava con la Moldavia l’antico Regno di Romania. E in riferimento, soprattutto, alla storia di una nazione infelice e fallita, di un popolo suicida. Gli eventi mi hanno fatto cambiare idea e rinunciare a questo proposito. Ne sono felice. Sarebbe uno strano paradosso, mi dirà, se la Romania, che ho lasciato più di cinquanta anni fa, venisse a capo della mia filosofia scettica, che passa per essere radicale e senza concessioni. In realtà, il mio pessimismo non è mai stato legato alle circostanze, ma ho sofferto molto, è vero, di essere romeno. Avevo persino un grande disprezzo per i miei connazionali. Come quasi tutti i romeni, del resto, ho sviluppato un lancinante complesso di inferiorità, che affonda le radici nella storia più antica, ben oltre la dittatura di Ceaușescu. Nell’Impero austro-ungarico, eravamo inesistenti: in Transilvania, i romeni non erano schiavi * Traduzione italiana di Vincenzo Fiore.

337

Ultimatum all’esistenza

ma soggetti primitivi, gente di terz’ordine, dopo gli ungheresi e dopo i tedeschi. Uno dei componimenti più spesso citati in Romania dice: «Risvegliati, romeno, dal tuo sonno di morte!». Non è un caso che l’insurrezione sia scoppiata a Timișoara, ad ovest del Paese: il 30% della popolazione di questa città è di origine ungherese e io credo che i romeni autoctoni, nel resto del Paese, abbiano ricevuto questo segnale come uno schiaffo. E i romeni si sono svegliati dal loro sonno di morte. Ebbene, dobbiamo credere che il suicidio non sia una specialità romena. È piuttosto un’invenzione ungherese, il che mi sembra – detto da me – un bel complimento. Per molto tempo, mi sono chiesto perché i romeni non si fossero suicidati in massa. Non possiamo immaginare quanto abbiano potuto soffrire, è impensabile visto da qui. Come si può vivere nella paura morbosa dei propri vicini, dei propri figli, persino della propria ombra? Con una politica abile e interamente fondata sul calcolo (la non rottura con Israele, le distanze riguardo a Mosca, ecc.), Ceaușescu era persino riuscito ad abusare degli intellettuali. Ricorderò sempre una passeggiata che ho fatto sul Pont Neuf, alle due del mattino, in compagnia dell’amico Noica – forse il più grande filosofo romeno. Egli mi diceva: «Che cos’hai contro Ceaușescu? Non capisco». Riesce a crederci? Noica aveva appena trascorso sei anni nelle prigioni romene. Un sentimento di frustrazione è emerso dopo il processo a porte chiuse e la rapida esecuzione di Nicolae Ceaușescu e di sua moglie Elena. Attraverso un processo sommario, la democrazia romena non si è privata di un simbolo, di una tribuna e di un trampolino? Io rispondo che la paura è una sensazione che non si strappa facilmente dal cuore degli uomini. Lasciando il tiranno in vita, i nuovi responsabili avrebbero avuto l’impressione di dargli una possibilità. E soprattutto, avrebbero dato una speranza ai suoi sbirri armati, con i quali egli intratteneva gli stessi rapporti isterici di Hitler con le SS, fenomeno che ha ritardato la resa tedesca alla fine della guerra. L’idea di un processo è soprattutto occidentale. Al contrario, c’era a quel punto un serio rischio di turbare

338

Intervista con Jean-Louis Ézine

ulteriormente la situazione in un momento in cui i membri della Securitate, non dimentichiamolo, si abbandonavano senza ritegno alla loro follia omicida. In questo contesto, l’esecuzione di Ceaușescu è stata anche un simbolo: significava che la pagina più buia della storia romena era stata voltata, indipendentemente da cosa avesse fatto quella gentaglia senza via di scampo e sicura di aver perso tutto. D’altra parte, mi fido di Ion Iliescu che presiede il Fronte di Salvezza Nazionale. Sapevo da molto tempo che era lui la speranza della Romania. Ora, dovremo guardare al gioco dei russi. Tutto è là. In mezzo secolo, non sono mai tornato in Romania. Oggi, ne ho voglia? Sì e no. La sola cosa che mi richiama è il paesaggio dei Carpazi, intorno al villaggio della mia infanzia: Rășinari. C’era un giardino e un cimitero, amavo il giardino. E ho amato il cimitero, dove un becchino molto saggio, molto vecchio e molto filosofo mi procurava dei teschi. Vivevamo, lui ed io, una sorta di idillio funebre. Mi è capitato di pensare che avrei dovuto rimanere in quel villaggio, tra i contadini analfabeti. Deploro la scomparsa degli analfabeti, quest’immagine di un’umanità primitiva, anteriore alla civilizzazione. Da questo punto di vista, la società illetterata sognata da Ceaușescu avrebbe dovuto soddisfare i miei desideri. Ma non per le stesse ragioni. Doveva avere degli schiavi. Quando un popolo muore di fame, santifica la cultura, non la possiede: essa continua, quindi, ad asservirlo con processi illusori. Ci si condanna a non capire nulla della tragedia romena, se non si vede che il problema principale è quello della denutrizione. Essa è responsabile di un tasso di impotenza sessuale aggravato tra i giovani: a cosa valgono i libri rispetto a questo?

339

INTERVISTA CON FERNANDO SAVATER

Tra poco compirà ottant’anni e continua vivace e all’erta come sempre. Nessuno meno sbiadito di lui, nessuno meno lugubre o fastidiosamente solenne. Il miglior elogio suo che mi viene in mente è che non riesco a immaginarmelo “professore”: è nato senza cattedra così come altri la portano in faccia fin da piccoli, o attaccata alla schiena come la tartaruga il suo carapace. «Candido e diabolico» lo ha chiamato lo scrittore italiano Pietro Citati dopo avergli fatto una visita, ampliando poi così il suo ritratto paradossale: «Elegante epicureo, imita i furori biblici; nutrito di aspirazioni mistiche, è il più scettico degli individui. Mondano ed eremita, pungente e cortese, riposato e collerico, profeta e tollerante, diviso fra l’avidità della vita e il senso dell’irrealtà delle cose». Un perfetto dilettante trascendentale, come lo sono stati Montaigne, Pascal o lo stesso Nietzsche. L’ultimo dandy nel senso meno discutibile del termine, il che corrisponde a bohémiens insostituibili come Baudelaire o Villiers, capace di concedersi il lusso di rifiutare l’invito di Bernard Pivot ad Apostrophe arguendo: «Non voglio che la gente si ricordi della mia faccia e che mi guasti il piacere maggiore della mia vita, le passeggiate per il giardino del Lussemburgo...». Vive nel cuore del Quartiere Latino di Parigi, a pochi passi dal tea* Traduzione italiana di Claudio M. Valentinetti.

341

Ultimatum all’esistenza

tro Odéon. Il suo appartamentino è minuscolo, poco più di una chambre de bonne, con il cesso in comune sul pianerottolo. Il genio soffia dove vuole e lì c’è uno degli alti luoghi di peregrinazione intellettuale d’Europa. Presto saranno vent’anni che lo frequento e quando varco il portone ho la prima sorpresa: hanno messo l’ascensore. Ma preferisco compiere il rituale e mi arrampico per i ripidi cinque piani con l’ansimante entusiasmo di sempre. Troverò altre novità? Quando gli ho telefonato per fissare questa intervista mi sono sentito nell’obbligo di avvisarlo, un po’ per scherzo: «Cioran, mi dicono che devo cercare di mostrare un lato nuovo e insolito della sua personalità». «E allora gli dica che adesso credo nel progresso!», mi ha risposto ridendo. «È che è apparso un suo articolo nel mio giornale», gli ho ricordato timidamente, «per via della caduta di Ceaușescu... un articolo politico e perfino ottimista». «Cose che uno fa, lo sa, la propensione al ridicolo. In realtà, abbiamo cambiato di catastrofe». E l’ho sentito ridere di nuovo, ma adesso quasi seriamente. Cioran, lei prima non aveva mai parlato pubblicamente della situazione in Romania. Ma adesso ha fatto diverse dichiarazioni sugli ultimi avvenimenti del suo Paese natale. Perché? Prima non potevo farlo, lo capisca. Ho famiglia lì, mio fratello stesso. Invece io stavo qui, a Parigi, al sicuro... Ma qualche mese fa mi trovavo a un pranzo e si parlava degli avvenimenti in Ungheria, in Polonia, in Cecoslovacchia, in tutti quei Paesi. Un tipo molto insolente mi chiese: «E la Romania?». Gli risposi: «Non voglio dire niente». Il tipo diventò furioso e io in fondo lo capii, perché anch’io sentii rabbia. Allora decisi di scrivere un articolo contro i romeni. L’avrei intitolato: “Il Nulla valacco”. Quando stavo sul punto di farlo, si sono verificati i fatti di Romania. Confesso di aver provato un certo entusiasmo: era la prima volta che i romeni si svegliavano negli ultimi cinquant’anni! E che cosa pensa della situazione attuale?

342

Intervista con Fernando Savater

Siccome non ci sono andato, non ho un contatto diretto con la realtà presente. Poco tempo fa sono venuti a trovarmi alcuni giovani, sui vent’anni, e mi hanno fatto un’ottima impressione per il loro livello intellettuale. Da quanto ne so, i giovani sono l’unica realtà della Romania. Quanto agli altri, i vecchi, la situazione politica… non ne ho una buona opinione. Non c’è stato, a quanto pare, un vero cambiamento dopo la caduta di Ceaușescu. Le cose continuano a essere abbastanza simili, salvo su un punto importante: adesso c’è libertà di espressione, si può criticare il governo ecc. Questa è l’unica novità realmente positiva. Per il resto, gli intellettuali sono abbastanza delusi. E vedo che tutti quelli che da lì vengono a Parigi vogliono rimanere in Francia, cosa che, come lei capirà, non è possibile. Si immaginano che in Occidente tutti i problemi siano risolti… Parliamo un po’ della nuova Europa che si sta formando. Per esempio, la riunificazione della Germania. Si tratta di una speranza o di una minaccia? Chiaramente, non è una minaccia. Già so che tanta gente vede questa riunificazione con timore, soprattutto in Francia, ma la mia opinione è che si sbagliano. Non c’è pericolo in Germania perché i tedeschi finalmente hanno capito. C’è voluto un mostro come Hitler perché imparassero la lezione ma ormai è un dato di fatto e non credo che ci possa essere un ritorno al passato. Oggi preoccupa anche la crescita del razzismo e della xenofobia. Vede, la realtà è che la Francia, per esempio, si sente invasa. Qualche tempo fa ho osato fare una profezia: ho detto che entro cinquant’anni la cattedrale di Notre-Dame sarebbe stata una moschea. Poco fa un uomo politico importante mi ha detto che ero un ottimista, che si sarebbe trasformata in moschea molto prima… Come lei sa, sono apolide, una condizione che si adatta molto alle mie idee. Tutti gli anni devo andare a rinnovare i miei documenti in un ufficio situato in un quar-

343

Ultimatum all’esistenza

tiere periferico di Parigi ed è una pratica rapida e semplice. Quest’anno invece ho trovato code immense di arabi, neri e di gente di ogni parte del mondo. C’era molta polizia, liti ecc. Sono cose che creano un malessere molto vero. Naturalmente, di questo malessere approfitta subito l’estrema destra, ma, al di là della destra o della sinistra, il problema sussiste. Si nota una sensazione di impotenza e nessuno è capace di vedere una via d’uscita. In realtà, in Francia, come nel resto dell’Europa occidentale, nessuno vuole più dedicarsi a lavori manuali e per questo hanno dovuto ricorrere a gente di fuori. Ma quando una civiltà rinuncia al lavoro manuale è perduta. Nella mia gioventù ho letto molto Spengler, che adesso nessuno cita più. Certo, le sue opinioni politiche erano abbastanza sospette, ma credo che la sua diagnosi fosse fondamentalmente esatta, anche se era parecchio condizionato dalla decadenza della Germania nella sua epoca. La nostra civiltà è stanca… Da parte mia, seguo questo fatto con autentico fascino. In fin dei conti, non a tutti viene dato di assistere a una decadenza! Ha citato Spengler, una vecchia lettura. Mi chiedo che cosa legge adesso. Opere nuove o si dedica, invece, alla rilettura? Adesso leggo con maggior libertà di prima, perché ho rinunciato a scrivere. Non ho più nessun progetto, così posso leggere quello di cui ho voglia, cose che mi si erano accumulate durante anni nella biblioteca. Per esempio, un saggio in quattro volumi su Pascal e il suo secolo. Cose così. Pensiero filosofico ma soprattutto filosofia della storia. E anche tante biografie. Un altro segno di stanchezza, vede?, la passione per le biografie. Mi permetta una domanda che forse le sembrerà un po’ sciocca. Se lei potesse firmare un’opera tra quelle che ammira, se potesse farla propria, quale sceglierebbe? Quella di uno di questi tipi che hanno vissuto speranzosi una rivoluzione e poi ne sono stati delusi.

344

Intervista con Fernando Savater

Chamfort, per esempio? È un esempio perfetto! Amo questi personaggi che hanno vissuto l’illusione e la delusione rivoluzionaria, qualunque fosse il loro orientamento politico. La Rivoluzione francese ne ha prodotti molti, ovviamente. È gente che ha avuto occasione di capire, finalmente. Attualmente si dice che gli intellettuali siano troppo dipendenti dai mezzi di comunicazione, la televisione ecc. Lei si è mostrato restio a queste seduzioni, ma non può negare di essere molto conosciuto, adesso. Io ho avuto il privilegio di incontrarla quando ancora in pochissimi sapevano della sua esistenza… Allora non esistevo! E mi creda, era perfetto. Penso che non sia un bene per uno scrittore sapersi conosciuto. Nel mio caso, la spiegazione è molto semplice, lo si deve al libro tascabile. Naturalmente, non sono contro i libri tascabili perché sono quelli che leggono i giovani. Da quando sono apparso in tascabile ricevo molte lettere di giovani, molte più di quelle alle quali riesco a rispondere. Ma il periodo più interessante della mia vita, almeno per me, è stato quando nessuno mi conosceva. Andavo alle cene, ai cocktail e la gente chiedeva: «Chi sarà quel tipo?». Sapevano che ero amico di Beckett, di Ionesco ecc., ma in fondo di me non sapevano niente. Adesso, vede... Stanca questa cosa di essere conosciuto. Ma, infine, ci sono disgrazie maggiori. In Spagna e in America Latina attualmente c’è una grossa polemica sulla celebrazione del quinto centenario della scoperta dell’America. Alcuni dicono che è stato un grande momento di civilizzazione e altri parlano delle stragi e via dicendo. Lei crede che si possa celebrare la Storia? No, per favore, la storia è un massacro! È la stessa cosa che è successa qui l’anno scorso con la Rivoluzione francese. Se si leggono i grandi studi astratti, le teorie, i proclami dell’epoca, molto bene; ma quando

345

Ultimatum all’esistenza

si leggono le memorie di chi ha vissuto quegli avvenimenti, ci si rende conto che sono stati spaventosi. Quello che è bene per la storia è male per gli individui: bisogna leggere delle memorie per capirlo. Nella Rivoluzione francese è iniziata l’abitudine della delazione, che i francesi hanno conservato poi, come si è visto durante la seconda guerra mondiale. Parlando di Francia, pare che ci sia un sensibile declino nell’influenza della lingua francese rispetto all’auge dell’inglese e dello spagnolo. Sì, è la grande perdente. Si tratta di una vera catastrofe. Pensi, quando i francesi sono arrivati in Romania dopo la caduta di Ceaușescu per prestare il loro aiuto economico, hanno trovato che tutti sapevano parlare francese. Sa perché? Perché la dittatura comunista li ha mantenuti separati dal resto del mondo. In Romania c’è sempre stata passione per la cultura francese, tutti volevano leggere in francese e andare in Francia. Una cosa quasi morbosa! Dopo Francia e Belgio, è stato il terzo Paese nella diffusione di libri in francese. La dittatura ha conservato questo entusiasmo separando la gente dal resto del mondo. Ma adesso i più giovani incominciano già a imparare l’inglese. Vede? Questo è la storia: il divenire dell’irreparabile… Mi ha sempre incuriosito il fatto che, nonostante il suo tono pessimista, i suoi libri abbiano sempre qualcosa di simile all’allegria, all’umorismo, una specie di alacrità nella demolizione... Sa perché? Perché scrivere per me è una terapia, proprio questo. Ho scritto per curarmi. Il primo libro della mia vita (recentemente apparso in francese e in via di traduzione in altre lingue), l’ho scritto – in romeno, naturalmente – per non suicidarmi. Sono figlio di un sacerdote ortodosso e a ventuno o ventidue anni, quando ho finito i miei studi a Sibiu, sono passato per una crisi terribile. Non riuscivo a dormire. Credo che l’insonnia sistematica sia qualcosa di simile a un aperitivo dell’inferno… Passavo tutta la notte a passeggiare per le strade di

346

Intervista con Fernando Savater

questa bellissima città della Transilvania, fra le puttane, mie compagne notturne. I miei genitori erano disperati perché non sapevano come sarebbe andata a finire e io non pensavo ad altro che al suicidio. Allora ho scritto il mio primo libro e così mi sono tranquillizzato un po’. Ma credo che a salvarmi del tutto sia stato il venirmene in Francia. Se avessi continuato a stare in Romania, non credo che ci sarei riuscito. La mia ossessione era Parigi. Vivere a Parigi e non fare niente! Ho ottenuto una borsa di studio per tre anni che mi ha permesso di realizzare questo sogno. Me ne sono venuto qui senza professione, senza lavoro, senza niente, e così ho vissuto. L’unica cosa che ho fatto è stata girarmi la Francia in bicicletta… Infatti, ora mi ricordo che lei è stato un grande ciclista. Anni fa, in un programma radiofonico sul ciclismo in Francia, l’hanno intervistata. È arrivato a gareggiare, qualche volta? No, gareggiare no, ma le dico che ho girato tutta la Francia in bicicletta. Per mesi, la Costa Azzurra, la Provenza, tutto… Era la vigilia della guerra mondiale. Siccome non avevo soldi per andare in albergo, mi fermavo negli ostelli della gioventù, che erano fondamentalmente in mano ai cattolici e ai comunisti. Così sono arrivato a conoscere molto bene le opinioni e l’atteggiamento politico dei francesi. Senta quello che è successo, è divertente. Allora nominarono il mio amico Mircea Eliade addetto culturale a Londra; passando per Parigi, mi chiese come vedevo l’ambiente in Francia di fronte alla guerra che si preparava. Gli dissi chiaramente che i francesi non avrebbero lottato. Eliade lo disse all’ambasciatore romeno a Londra e questo lo disse agli inglesi. Non gli credettero, perché avevano mandato un osservatore, un lord o qualcosa di simile, che si era incontrato con diversi intellettuali a Parigi ed era tornato convinto dell’atteggiamento bellico regnante. Certo, non tutti hanno la fortuna di dormire in ostelli della gioventù, che è il modo migliore per informarsi delle cose! Alla fine della guerra, ricevetti un invito a pranzo dall’ambasciatore romeno, che non conoscevo. Mi disse

347

Ultimatum all’esistenza

che gli inglesi erano rimasti molto impressionati dalla sua chiaroveggenza quando la guerra era iniziata e poterono verificare che i francesi effettivamente non lottavano. «Ma come lo sapeva?», gli domandavano. E lui rispondeva con aria misteriosa: «Me l’hanno detto i miei informatori...». II pover’uomo, un funzionario abbastanza mediocre, mi era molto riconoscente perché mi doveva il suo momento di gloria a Londra. Cioran, per chi pensa davvero esistono soltanto due temi essenziali di riflessione, i più topici, gli unici imprescindibili: l’amore e la morte. In un modo o nell’altro, lei si è riferito parecchie volte ad ambedue. A questo punto della sua vita, in cui afferma di non voler più scrivere, mi dica una parola su queste questioni. La verità è che ho amato molto il rapporto con le puttane. Quelle di prima, nella mia gioventù almeno, avevano una specie di saggezza, un’esperienza della vita che non ho trovato in nessun’altra parte. Le frequentavo molto, là in Romania, e ho imparato molto, perché mi piaceva parlare con loro. Be’, non solo parlare, chiaro! Nella mia breve stagione di insegnante scolastico dicevo ai miei alunni che non volevo vederli al bordello dopo le nove di sera: a quell’ora iniziava il turno dei professori… Una notte una di loro mi disse che suo marito era appena morto. Era giovane, bella. Mi disse che quando faceva l’amore con qualcuno vedeva il suo cadavere sul letto, vicino a lei. Bisogna andare nei bordelli per sentire cose così profonde. Per dubbio che sia questo romanticismo, si impara sempre. In diverse occasioni, lei ha rimproverato alla filosofia occidentale di occultare la presenza della morte, di far sparire il cadavere… È curioso, ma c’è chi non sente l’ossessione della morte, il suo permanente agguato. Io l’ho sentita sempre, soprattutto nei momenti di felicità. Soprattutto nella felicità. È qualcosa che non impedisce di vive-

348

Intervista con Fernando Savater

re, ma che dà un tono distinto alla vita. Curiosamente, con la vecchiaia questa ossessione diminuisce. Ha segnato soprattutto la mia gioventù. Per chi non la conosce, lei può risultare un personaggio solitario, egocentrico, staccato dagli altri. Ma in realtà lei è molto compassionevole, sempre disposto ad aiutare gli altri, anche se non lo trasforma in una dottrina edificante. Non c’è un fondo di buddhismo in questo atteggiamento? Per molto tempo mi sono considerato buddhista. Adesso, con la vecchiaia, sono diventato più superficiale, ma il buddhismo è stato per me la religione. Quelle storie del cristianesimo mi sembrano delle scemate, ma non il buddhismo… Non ho bisogno di una religione, ma se dovessi averla sarebbe quella buddhista. Sì, non posso negare di aver aiutato abbastanza gente. Ho impedito a molti di suicidarsi, guardi un po’. Ho difeso l’idea del suicidio, ma ho detto loro che non c’è nessuna fretta… Ricordo un’occasione in cui per tre ore ho passeggiato nel Lussemburgo con un ingegnere che voleva suicidarsi. Alla fine l’ho convinto a non farlo. Gli ho detto che l’importante era aver concepito l’idea, sapersi libero. Credo che l’idea del suicidio sia l’unica cosa che rende sopportabile la vita, ma bisogna saperla sfruttare, non affrettarsi a tirare le conseguenze. È un’idea molto utile: dovrebbero farci delle lezioni nelle scuole! Pensa di tornare in Romania? No, mai. Adesso hanno cercato di portarmici, ma mi rifiuto. Che senso ha tornare al mio Paese dopo cinquant’anni di assenza? Tutti quelli che conoscevo sono morti, sarebbe come andare in un cimitero. Mi piacerebbe, questo sì, rivedere il mio paesino natale, Răşinari. Ma ci sono stato troppo felice durante la mia infanzia e non sopporterei di vederlo un’altra volta. Mi piacerebbe parlare con i contadini, con la gente della campagna… Il popolo romeno è il più scettico che esista: è allegro e disperato al tempo stesso. Per ragioni storiche coltiva la reli-

349

Ultimatum all’esistenza

gione del fallimento. Ricordo della mia infanzia un tizio, un contadino al quale toccò una grande eredità. Passava la giornata di taverna in taverna, sempre ubriaco, accompagnato da un violinista che suonava per lui. Mentre gli altri andavano in campagna a lavorare, lui passeggiava di taverna in taverna, l’unico uomo felice al mondo. Quando sentivo il suono del violino correvo a vederlo passare, perché mi affascinava. Si spese tutto in due anni e poi morì. No, non tornerò in Romania. È sicuro che non scriverà mai più? Guardi che me l’ha detto prima tante volte… Adesso davvero. Sicuramente esprimersi dà sollievo ma io ho già scritto tanto. Cinque libri in romeno e dieci in francese, è troppo! Tutti scrivono troppo e io non voglio cadere nello stesso vizio. Perché moltiplicare i libri? Abdico perché nessuno vuole abdicare. L’ho detto più di una volta pubblicamente: ho già calunniato abbastanza l’universo. Insiste per accompagnarmi fino a place de l’Odéon, come sempre, perché «Parigi di notte è pericolosa». Inauguriamo insieme il nuovo ascensore della sua casa. Quando ci abbracciamo per salutarci gli dico che è una nostra ricorrenza, che ci conosciamo già da vent’anni. «Non è male, eh?», commenta sorridendo. Poi si allontana, e come sempre resto senza dirgli la cosa più importante, la fierezza e l’esempio che la sua amicizia mi ha dato, l’allegria senza fallo né enfasi della sua compagnia. Ma sono cose che forse non si devono dire. Almeno, non a Cioran.

350

INTERVISTA CON GEORGES WALTER*

France Culture stava per organizzare una giornata franco-romena con un viaggio a Bucarest del suo direttore, il mio amico Jean-Marie Borzeix. Nulla avrebbe arricchito tale evento, quanto la diffusione nelle due capitali di una voce illustre: quella di Emil Cioran, il filosofo romeno divenuto il più raffinato dei prosatori francesi. Cioran, esiliatosi definitivamente in Francia, aveva sempre rifiutato di sottoporsi al microfono o alla macchina fotografica, non c’era un solo campione della sua voce alla radio o alla televisione francese. Sapendo che lo conoscevo, contando sulla nostra complicità mitteleuropea (mio padre era nato vicino al suo villaggio in Transilvania), Jean-Marie Borzeix era convinto che avrei potuto ottenere dal filosofo un’intervista che sarebbe stata ascoltata sia in Romania che in Francia. Dei nuovi membri della classe dirigente romena, Cioran parlava solo con sovrano disprezzo. Nulla invece li avrebbe soddisfatti quanto il ritorno del filosofo nel suo Paese d’origine, ipotesi del tutto improbabile. Con immensa delusione del direttore di France Culture, mi rifiutai di forzare la mano con Cioran che stava per compiere ottant’anni e informai Jean-Charles L., un vecchio amico di Cioran a Nizza, che lo chiamava quotidianamente. Tre giorni dopo, Jean-Charles mi chiamò * Traduzione italiana di Vincenzo Fiore.

351

Ultimatum all’esistenza

di buonora a casa per annunciarmi che Cioran mi aspettava alle undici da lui, al 21 di rue de l’Odéon, e che avrei potuto portare un operatore per registrarci. «Astieniti semplicemente – mi disse – di menzionare il contesto della giornata franco-romena, e tutto andrà bene, è molto felice di rivederti». Lo ringrazio, convinto che Cioran voglia ricevermi perché non avrei voluto disturbarlo. Inutile dire che a France Culture si esulta. Alle undici meno cinque incontro il mio operatore in rue de l’Odéon. Cioran abita all’ultimo piano senza ascensore. Ci riceve con grande gentilezza, apre una bottiglia di vino bianco e riempie il mio bicchiere. Il tecnico ha già installato discretamente un microfono su un cavalletto tra noi due. Ignoro di cosa voglia parlare Cioran, ma non importa. L’Europa centrale, fin dal primo bicchiere, è l’argomento della nostra conversazione. Quando gli dico che nelle locande ungheresi non si vedono quasi più i grandi contadini baffuti che singhiozzano mentre ascoltano la musica zigana, egli cita sorridendo il detto: «È mentre piange che l’Ungherese gioisce». So già che questa sarà la prima frase della trasmissione. Un’ora dopo, annuncio alla redazione radio che abbiamo tre quarti d’ora di registrazione. Appena tornato a casa, sono tramortito da un colpo di telefono di Cioran: non vuole più che la nostra intervista sia trasmessa. Lo interrompo, gli dico che ritorno da lui e salgo su un taxi. Sul marciapiede di rue de l’Odéon, la fortuna mi bacia: una donna alta e bella si avvicina sorridendomi, è Simone Boué, la compagna del filosofo. Mi rassicura e mi spiega le ragioni della retromarcia di Cioran. Si rammarica di molte delle sue parole, specialmente sul re di Romania e soprattutto su François Mitterrand. Sarà sufficiente che lo biasimi, che gli proponga di tagliare quei passaggi e lui si calmerà. La ringrazio calorosamente prima di salire all’ultimo piano. Con perfetta ipocrisia mi rivolgo al filosofo: «Come ha potuto trattare Mitterrand come un imbecille che non comprende nulla della situazione in Romania?». «Ha cento volte ragione – mi dice – Mitterrand non è un imbecille.

352

Intervista con Georges Walter

Inoltre, mi ha invitato all’Eliseo…». Tutto è sistemato come aveva previsto Simone. Il giorno dopo, un’altra telefonata. Cioran ha una voce lamentosa che mi inquieta. Come se avesse fiutato qualche tipo di pericolo, mi chiede se posso fare il possibile per far sì che il programma non venga ascoltato in Romania. Questa volta mi assumo il rischio di essere fermo: «Signor Cioran, lei sa che eseguo tutto ciò che a lei fa piacere, che ho modificato il montaggio, che ho scrupolosamente tagliato tutto ciò che la seccava. C’è solo una cosa che non posso fare: deviare le onde radio dal territorio romeno! Questo è impossibile!». Si rassegna. Siamo finalmente tranquilli. Parigi-Bucarest, marzo-aprile 1991. France Culture: Georges Walter, Emil Cioran – cosa unica – le ha concesso un’intervista che ascolteremo entro qualche minuto. Sappiamo che Cioran ha sempre rifiutato i nostri microfoni e le nostre macchine fotografiche. Quest’intervista eccezionale l’ha realizzata lo scorso 29 marzo. Georges Walter: Esatto, mancavano pochi giorni al compleanno di Cioran, che ha compiuto ottant’anni l’otto aprile. È nato nel 1911. Se non sbaglio, ha all’incirca la stessa età di Ottone d’Asburgo, il che è una coincidenza interessante, almeno per lui. France Culture: Quali sono stati i motivi per cui le ha concesso quest’intervista? Siete amici? Georges Walter: Mi ha fatto l’onore, nel 1967, di inviarmi una parola gentile su uno dei miei romanzi. Credo che l’abbia aperto solo perché si intitolava Les Enfants d’Attila: un titolo che non poteva che affascinarlo. Io però l’ho conosciuto personalmente solo quattro anni

353

Ultimatum all’esistenza

fa. Non credo siano state le mie modeste opere ad assicurarmi la sua benevolenza; certamente era interessato al fatto che io fossi nato a Budapest; considerando l’assurdo antagonismo secolare tra ungheresi e romeni. Cioran, sempre originale, è un romeno “ungarofilo”, e io stesso sono “romenofilo” o, più precisamente, “cioranofilo”. Credo, in realtà, che mi abbia concesso quest’intervista essenzialmente per mio padre, nato – come lui – in Transilvania. La prima volta che gliene ho parlato, ricordo che i suoi occhi hanno iniziato a brillare. France Culture: La Transilvania, per inquadrarla, è dunque la regione da cui è partita la rivolta che ha portato alla caduta del regime di Ceaușescu. Georges Walter: Sì, esatto. Per Cioran, però, la Transilvania è molto di più. In primo luogo, il Paese della sua infanzia, il luogo dei paesaggi che questo esule – questo “apolide”, come si definisce onorandosi – non ha mai più rivisto. Ed è soprattutto un luogo quasi mitologico nei suoi scritti, come una sorta di fonte del suo pensiero sulla filosofia della storia. È un luogo dove, almeno, quattro popoli hanno convissuto a lungo: i magiari, i siculi, i sassoni e i romeni; mescolandosi, scontrandosi nel corso dei secoli. Prima c’erano i turchi lì, ecc. È una specie di calderone della storia. Cioran è nato nel 1911, quando la Transilvania era ungherese, e l’Ungheria apparteneva all’Austria nell’Impero asburgico, che è crollato o, meglio, che è stato smembrato dagli Alleati alla fine della prima guerra mondiale. Sa, in Francia, in generale, non conosciamo molto bene questi temi; non ci rendiamo conto dell’importanza della questione della Transilvania, non più di quanto un ungherese o un romeno possano realmente essere interessati ai nostri temi, dei corsi o dei baschi. Quando Cioran era un bambino, ha vissuto fisicamente la situazione del romeno ancora più disprezzato che oppresso dall’ungherese; solo che, in lui, il risentimento si è trasformato, “cioranianamente”, in ammirazione, se non in fascinazione. Più tardi, parlando del gendarme ungherese, scriverà: «[…] era lo straniero, il nemico; odiare, signi-

354

Intervista con Georges Walter

ficava odiarlo. Per causa sua, aborrivo tutti gli ungheresi, con una passione veramente magiara. È per dirti quanto mi interessavano»1. Queste righe appaiono in Lettera a un amico lontano, il testo che introdurrà la seconda parte dell’intervista, – su cui tornerò. Eppure è anche qui, in questo testo, che Cioran ha scritto magnifiche pagine sugli ungheresi; dice geloso sulla ferocia della loro lingua: «[…] soccombo al suo fascino e al suo orrore, a tutte quelle parole di nettare e di cianuro, così consone alle esigenze di un’agonia. Si dovrebbe spirare in ungherese – o rinunciare a morire»2. Un po’ folle, vero? Tuttavia è con ragione che Cioran ritiene necessario oggi – come ascolterà – risolvere un conflitto di vicinato ungaro-romeno che egli considera stupido e insopportabile, tra ungheresi e romeni di Transilvania. Questo conflitto, egli lo aveva già visto sotto l’Impero austro-ungarico, allora però era, secondo lui, un tempio di civiltà, era la sede della vera cultura dell’Europa centrale. France Culture: L’intervista si è svolta a casa sua. Lei pensa che la Transilvania abbia contribuito a creare un dialogo, fin dall’inizio? Georges Walter: Sì; penso che bisogna sottolineare che è stata realizzata a casa sua, non in uno studio e, per spiegarle la sua prima frase, devo dire che, per interessalo, beh, ancora una volta, gli ho raccontato di mio padre che, nel 1916 – soldato dell’esercito ungherese – assistette all’incoronazione del successore di Francesco Giuseppe, dopo la morte di quest’ultimo, che divenne quindi imperatore d’Austria e re d’Ungheria. Ci fu una cerimonia a Vienna e poi un’altra a Budapest. E poiché l’Austria-Ungheria, allora alleata della Germania, avvertiva già il vento della sconfitta, abbiamo trovato particolarmente commovente l’apparizione del piccolo principe – figlio del re Carlo IV – che fu incoronato. Ebbene, quel piccolo principe era Ottone d’Asburgo, in uniforme da ussaro; aveva cinque o sei anni. Ho detto a Cioran, all’inizio della con1 2

E. M. Cioran, Storia e utopia, a cura di M. A. Rigoni, Adelphi, Milano, 1982, p. 18. Ivi, p. 19.

355

Ultimatum all’esistenza

versazione, che quando questo bambino è apparso tutti gli ungheresi iniziarono a piangere. È questo il trucco, sa: «È mentre piange che l’Ungherese gioisce»… [ride]. Ecco! I miei genitori conoscevano perfettamente l’ungherese, alla perfezione. Lo conoscevano benissimo? Sì, sì. Erano della Transilvania, è nei pressi di Sibiu, ora. Se questo le dice qualcosa, è Nagyszeben. Sì, assolutamente. Mio padre era un pope e aveva fatto tutti i suoi studi in ungherese. Era nell’Impero austro-ungarico, non è vero? Era prima della guerra del 1914. Entrambi i miei genitori conoscevano perfettamente l’ungherese. E lei no? No, perché sono nato… Sa, avevo quattro anni quando la Romania… Beh, tutta la storia, ecc. Ma conosco molto bene questi problemi, soprattutto attraverso mio padre. All’inizio era un pope in un villaggio vicino a Nagyszeben; in seguito divenne pope proprio a Nagyszeben città. Io sono stato colpito da ciò che mi raccontava mio padre: cos’era la Transilvania, il modo di vivere di queste due comunità, qualcosa di piuttosto stravagante. Mi disse che, nel suo villaggio, il gioco preferito dei ragazzi, se c’era un vicino romeno che passava, era quello di spogliarlo e lasciarlo in mutande. È una curiosa convivenza, dopotutto. Sì, sì.

356

Intervista con Georges Walter

E poi, quando si pensa che da questo luogo, è da qui che sono nati i recenti eventi in Romania. È ancora strano… Sì! Oh, la Romania, è una miscela terribile, non trova? È molto difficile trovare una formula per normalizzarla. Conosco abbastanza bene questo problema della Transilvania, perché provengo da lì, esso è quasi insolubile. Queste due comunità che si detestano: è una cosa davvero sciocca, idiota! Avrebbero dovuto trovare una formula… Devo dire che gli ungheresi disprezzavano profondamente i romeni [ride]. È una verità assoluta. E questo ha mantenuto i problemi. Ed è probabilmente a causa di questo disprezzo che, sotto Ceaușescu, per esempio, erano così duri con gli ungheresi in Transilvania… È qualcosa senza fine! Sì, ma Ceaușescu era un uomo spregevole, comunque non è per lui. I romeni, in fondo, lo disprezzavano, ecc. Ma c’è il passato, no? I romeni erano considerati un popolo di terz’ordine. Allo stesso tempo, i romeni apprezzavano gli ungheresi, da non credere! Perché sono più onesti di noi, cose del genere! [Ride]. È molto complicato. Lei stesso scrive: «Odiare era odiare l’ungherese» e, allo stesso tempo, mostra una particolare ammirazione. Certo! Si tratta di un problema straordinariamente complesso. Non sono gli americani che possono risolverlo. C’è bisogno di qualcuno che lo conosca veramente e trovi una formula. I romeni sono molto infelici, in fondo. Hanno bisogno di un politico straordinario che possa trovare una sorta di formula. Devono assolutamente uscire da questo vicolo cieco. Lei ha l’impressione che le persone che hanno preso il potere dopo Ceaușescu considerino questo problema come uno dei primi da risolvere, come una cosa importante da risolvere?

357

Ultimatum all’esistenza

Penso che vorrebbero risolverlo, ma questi individui sono impopolari, ma non per questo. È solo che… Non è giusto il modo in cui hanno preso il potere. C’è qualcosa che non va, questo è sicuro. Quelli al potere, però, non sono anti-ungheresi. Sono impopolari per altre ragioni, perché quello che hanno fatto è stato assolutamente incredibile… Si sono impossessati del potere. Non pensa che abbiano le capacità, comunque, di risolvere un problema simile… No, no, sono detestati in Romania. C’è bisogno di persone ragionevoli, che siano apprezzate. Occorrono due o tre politici notevoli, che i romeni possano accettare. Dovrebbero essere leader popolari, in grado di spiegare che è necessario un completo cambiamento della politica, ecc. Si possono trovare. In quei casi lì, quando ci sono tali sconvolgimenti in un Paese, assistiamo a volte al fenomeno del ritorno degli emigranti, come se questi potessero fare qualcosa che gli altri non possono fare. In realtà, hanno le capacità necessarie, dopo essere emigrati, per risolvere i problemi nel loro Paese? Questo è tutto. Ho lasciato la Romania cinquant’anni fa, non sono più tornato. E anche adesso, non ho voglia di ritornare. Tutti sentono che c’è un profondo malessere e che bisogna trovare soluzioni. Non vediamo chi possa farlo. Tutto dipende dal fatto che ci sia un politico… È possibile, no? Perché attualmente vi è un disagio profondo e persino una disperazione… Qualcuno deve sorgere. Ho detto a tutti i romeni che ho visto: «Bisogna risolvere questo problema; abbiamo bisogno di un’intesa con gli ungheresi, non è possibile fare altrimenti». È una delle cose, uno dei problemi più importanti in questo momento in Romania.

358

Intervista con Georges Walter

Assolutamente! E non si risolve con frasi, come quelle nazionaliste! Assurdo! Bisogna guardare le cose in faccia. È evidente: perché imporre la lingua romena agli ungheresi? Non ha alcun senso. Perché? Non c’è alcun beneficio. Ci deve essere una sorta di quasi indipendenza. Intende dire una sorta di quasi indipendenza per la Transilvania, per…? Come fare? C’è il modello svizzero… Sì, ma allora, questo, è il sogno dell’Europa oggi, visto che le cose si stanno sconvolgendo ovunque. Guardi cosa sta succedendo in Jugoslavia… È una cosa molto seria, sì. Era una specie di federazione, è una specie di federazione… E poi… Sì, occorre un grande uomo politico, che non possa essere accusato di tradimento o cose del genere. Ci vorrebbe qualcuno molto capace, una persona della Transilvania, non di Bucarest. Altrimenti, il tanto disagio – molto grave – andrebbe ancora ad accrescersi e questo sarebbe davvero pericoloso. Il termine “Europa centrale” è quasi scomparso dal vocabolario, il che è una sventura: ci si spinge tutti sull’Est. Spesso si dice: «Gli ungheresi, l’Europa dell’Est». No, è al centro! Tuttavia, quest’Europa centrale, questa varietà, è una cosa altrettanto bella e interessante, poiché corrisponde a mille personalità, a letterature, a culture e, allo stesso tempo, è oggi la fonte di tutti i conflitti più volgari, per così dire… storie di vicinato. Sì, si ritorna ai vecchi problemi, che pensavamo di aver superato. Ciò nonostante, si ha l’impressione che nulla sia stato risolto. Quindi, vi è una sorta di nulla, è molto, molto grave, no? Le persone sono molto

359

Ultimatum all’esistenza

infelici… Sa, non incontro così tanti romeni, ma li vedo così. Tutti più o meno vogliono andarsene; non lo sanno, sono perduti. È davvero impressionante. Una delle cose più terribili – non ci crederà – per i romeni, per molti dei popoli dell’Europa centrale, è di accorgersi che la libertà non basta. Voglio dire che, all’improvviso, non essere più satelliti dell’Unione Sovietica non basta. In apparenza, è cambiato tutto e niente. Dopo il primo entusiasmo, vi è la delusione e l’impossibilità di trovare delle formule. E ci si chiede: quale educazione dare loro? Come è possibile raggiungere un accordo? È tutto lì. Bisogna trovare la formula. Qual è la formula? Far capire a questi popoli che è necessario superare il nazionalismo del passato. Questo è molto importante. Finché ciascuno si comporta come se la storia non fosse cambiata… È proprio così: occorre capire che è necessario superare il nazionalismo. È assolutamente indispensabile. Se si deve fare l’Europa, questa è la condizione basilare. Perché, in fondo, se ci fosse un contatto diretto tra romeni e ungheresi, ci sarebbe già un problema essenziale risolto. Invece di tornare alle vecchie forme di nazionalismo, che sono intollerabili in un’epoca come questa… Evidentemente la Francia non conosce questi problemi. La Germania non si sa che ruolo avrà. La Germania era molto più capace di comprendere questi problemi, ma era la Germania di prima. Non si sa se i tedeschi vogliano giocare un ruolo importante in Europa o se si tratti solo di una storia economica, e cose del genere… La Germania, per tradizione, conosceva questi problemi; le faccio un esempio: in Transilvania c’era una minoranza tedesca importante. È stata molto positiva per la Romania perché essa, in linea col sistema precedente, conviveva benissimo con gli ungheresi. Era già molto importante. Ora, questi tedeschi hanno lasciato la Transilvania. Praticamente hanno tagliato la corda. Quando ho visto questa partenza – è stato un abbandono – ho detto: «È gravissimo». Perché questi avrebbero potuto giocare un ruolo importante.

360

Intervista con Georges Walter

Erano obiettivi, avevano ottimi rapporti con gli ungheresi. Avrebbero potuto davvero… Avrebbero potuto essere il “terzo ladrone propizio”… È così. E servire da intermediario. Dato che vengo da Hermannstadt, conosco molto, molto bene questo problema. E quando ho visto che stavano lasciando la Romania, ho detto: «È una catastrofe!». Erano abbastanza felici, avevano questi meravigliosi villaggi, le città, tutto questo; e loro avrebbero potuto giocare questo ruolo. E ho aggiunto: «Avrà conseguenze funeste». Poiché provenivano dal Vecchio Impero, non avevano affatto la prospettiva dei romeni, ecc.; ma i romeni riconoscevano comunque loro una sorta di obiettività: avrebbero potuto sistemare tutto ciò, a condizione di giocare un ruolo molto importante, non come minoranza. E quindi, è Ceaușescu che è stato l’uomo funesto, è questo tizio che fondamentalmente ha distrutto la Romania. Moralmente e sotto tutti i punti di vista. A causa sua i tedeschi sono partiti. Ripeto, essendo io di Hermannstadt, conosco molto bene questo problema. Ero, d’altronde, anche il solo che andava alla biblioteca di Hermannstadt, il solo romeno che andava lì per libri, ecc. La biblioteca tedesca… Sì, ci andavo sempre. Era davvero la mia biblioteca. È lì che ha studiato i filosofi tedeschi? Sì, sì, conosco quindi anche il punto di vista tedesco. Loro se ne sono andati, è stato assolutamente insensato! Credo ne siano rimasti, in totale, circa ventimila. Dice – lei è forse severo – che nell’Europa occidentale non si sa nulla di questi problemi. È probabile del resto, è probabile che abbia ragione. Ma

361

Ultimatum all’esistenza

si ha, comunque, la sensazione – all’Ovest – di ritrovare un’Europa che era perduta. Si è avuta questa sensazione, a partire dalla caduta del muro di Berlino. Si è detto: «Tutta l’Europa tornerà, proprio così, in una specie di grembo sentimentale e culturale». Ma, ora, siamo di fronte a un’Europa che si trova in uno stato ugualmente non molto brillante. Non va affatto bene! È anche molto grave. Ha preso una brutta piega… Questo non rischia di impedire all’Europa ricca di fornire l’aiuto necessario all’Europa più povera (per semplificare un po’ le cose)? L’Occidente, propriamente detto, non conosce questi problemi. Sul piano teorico è così ma… guardi Mitterrand: non è sufficiente avere idee generose. In ogni caso, egli può, eventualmente, agire da intermediario. I francesi non conoscono affatto quel mondo. Non sanno cosa sia stato l’Impero austro-ungarico. Se qualcuno ignora questo, non capisce nulla: era un mondo, una civiltà! Anche in Romania questo problema era molto delicato, perché c’erano dei transilvani – dei romeni della Transilvania – che conoscevano molto bene questi problemi, ma gli altri no. Gli altri di Bucarest, ecc., conoscevano solo Parigi. Nel 1957, a Parigi, Cioran pubblicò Lettera a un amico lontano. Questo “amico lontano” era Constantin Noica, un filosofo romeno di origine greca, che era rimasto in Romania e che aveva scritto a Cioran: «Tutto considerato, l’esilio è meglio qui»3. Era la lettera, affettuosa e critica, di un uomo che sperava ancora di essere utile al suo Paese, e anche la lettera di un uomo che credeva con fervore nelle virtù dell’Europa e di quest’Occidente, di cui Cioran – da parte sua – si chiedeva allora: «Da quale maledizione è stato colpito per non produrre, al termine della sua crescita, altro che questi 3 E. M. Cioran - C. Noica, L’amico lontano, tr. it. di R. Ferrara, Bologna, Il Mulino, 1993, p. 64.

362

Intervista con Georges Walter

uomini d’affari, questi bottegai, questi intrallazzatori dagli sguardi vacui e dai sorrisi atrofizzati, che si incontrano dappertutto, in Italia come in Francia, in Inghilterra come in Germania? Doveva proprio terminare con questa gentaglia una civiltà così delicata, così complessa?»4. Cioran diceva anche, rispondendo al rimprovero di non aver scritto più in romeno, quali torture aveva subìto per entrare nella lingua francese: «Quanto consumo di caffè, di sigarette e di dizionari per scrivere una frase un po’ corretta in questa lingua inavvicinabile, troppo nobile e troppo distinta per il mio gusto!»5. La risposta di Noica non giunse mai a Cioran, ma valse al suo autore sei anni di prigione in Romania. Noica, che pubblicò nel suo Paese la traduzione delle Opere complete di Platone in particolare (e di molte opere importanti), riu­ scì, nella Romania di Ceaușescu, a imporre la sua influenza accademica. È morto nel 1987; la storia della sua amicizia con Cioran risale agli anni della giovinezza. La sua grande data è l’arrivo a Parigi dei due studenti romeni… Siamo venuti a Parigi come borsisti dell’Istituto francese di Romania. Avevo una sola idea: andare a Parigi. Era nel? Era prima della guerra. 1937-1938? Sì… Noica, come me, dipendeva dall’Istituto francese di Bucarest. Ero abbastanza legato al direttore, e anche Noica. Ma Noica era un tipo strano. Volevo lasciare la Romania. Bisognava vivere a Parigi, ecc. Ero diventato una specie di apolide; ho lo statuto di apolide. Sono venuto qui a Parigi un anno prima di lui; poi egli è venuto a Parigi e pensavo che avesse seguito la mia stessa politica [ride]. E sa cosa ha fatto? 4 5

E. M. Cioran, Storia e utopia, cit., p. 27. Ivi, p. 12.

363

Ultimatum all’esistenza

È stupefacente: dopo un anno è rientrato in Romania; non è tornato più, quando aveva la borsa di studio, proprio come me! Ero incredulo! Credo che la spiegazione di tutto questo sia che voleva essere utile in Romania, svolgere un ruolo di maître à penser, cose del genere… È l’unica spiegazione possibile. Quando mi ha scritto che sarebbe rimasto lì, ho detto: «È una follia, è un suicidio!». Non ha capito che sarebbe potuto ritornare in Romania… No, no! Ho detto: «Ma è inaudito!»… Tuttavia, ha realizzato ciò che voleva, perché voleva agire in Romania. Alla fine si è fatto sei anni di prigione… e che prigione! Ma il senso era proprio questo: voleva diventare una grande personalità. Ha anche pubblicato le Opere complete di Platone, in lingua romena… Sì, ma il suo scopo era quello di influenzare, essere il maître à penser e agire sui giovani. Così l’ha realizzato; era il suo ideale. Gli ho detto: «Ma come, andare lì, con questi regimi politici!»; ma l’ha cercato. Soltanto, evidentemente, credo che non potesse immaginare che sarebbe stato così rischioso; questo è sicuro. Egli voleva segnare il momento e recitare un ruolo. Questo è assolutamente sicuro. Noica scrive, ma solo nel 1957, e suppongo che in seguito abbia cambiato idea: «Noi però, da parte nostra (fa riferimento a quelli che sono rimasti all’interno, pur essendo oppositori), siamo arrivati ​​a pensare che si può anche collaborare col marxismo, ma in modo marxista: come contraddittori»6… [Ride]. 6

364

E. M. Cioran - C. Noica, L’amico lontano, cit., p. 63.

Intervista con Georges Walter

Le fa ridere? Sì, è il suo lato ingenuo! Non ho mai apprezzato molto i suoi giudizi politici. Ha sempre avuto… C’era un elemento di ingenuità in quest’uomo molto intelligente! Molto spesso, quando parlavo con lui, scoppiavo a ridere… Aveva una specie di ingenuità, compatibile con l’intelligenza. In fondo, anche Ceaușescu la possedeva, non è vero? Lei ha detto, in un breve testo su di lui, che ogni volta che lo incontrava, le faceva delle critiche e dei rimproveri… Sempre! Ma ciò che è importante in lui, è che voleva influenzare. Era quasi una malattia per lui. Ecco perché ha coltivato i giovani: tutto questo per essere presente ed essere un maître à penser. Questo è certo… Ed è questo che lo ha smarrito. A un certo punto la rimprovera, il che è comunque interessante… Ricordo che nel 1968, dopo gli eventi di maggio a Parigi, alcuni di noi erano a Praga; e c’erano degli studenti che ci dicevano: «Noi non comprendiamo: cos’hanno questi studenti francesi che non vogliono la società dei consumi? Noi vorremmo per l’appunto consumare!». Allo stesso modo, se vuole, Noica la critica per aver cercato di definire il vuoto della libertà che si può avere in Occidente e il fatto che lei stia parlando con persone che non sanno cosa sia… Lei parla di pane a persone che non ne conoscono il gusto. È per questo che la rimprovera a un certo punto, nella sua lettera. Ricorda? «Non ne abbiamo neanche un briciolo. Quindi come possiamo criticare la libertà?»7. Bene, ora ce l’hanno!… Sì, sì, ma non sta andando molto bene! [Ride]. Non sta andando affatto bene!

7

Cfr. ivi, p. 58.

365

Ultimatum all’esistenza

Quindi, purtroppo, aveva un po’ ragione lei… Ascolti, questa era la tattica di Noica a Parigi. È molto interessante. Io ero venuto qui per fare una tesi, ma era una bugia, non volevo fare una tesi, non mi interessava affatto l’università. Noica, quando venne a Parigi, sa cosa ha fatto? È andato a far visita a tutti i docenti importanti. All’inizio mi disse: «Vieni con me». Faceva un’impressione straordinaria. Io sembravo un analfabeta! Questo è quello che faceva: aveva la lista dei professori della Sorbona, ecc. Chiedeva udienza; ma prima di andarci, passava alla Biblioteca Nazionale, prendeva tutti i libri del professore che avrebbe visto e, in due o tre ore, aveva scoperto tutto. Allora, sono andato con lui due volte, e ha iniziato a parlare dei libri del professore – che era ammirato! Ci sono persone che a distanza di vent’anni mi dicono: «E il suo amico Noica?». Professori della Sorbona… Conosceva il valore della vanità… Sì, è molto, molto forte… Dopo due sessioni, mi sono reso conto che non era possibile: sembravo un analfabeta! [Ride]. Ho capito… La sua manovra era molto abile e intelligente. Penso che fosse una tattica da uomo politico, è molto abile, molto abile. Una tattica elettorale… Sì, e io ho detto: «No, basta, è finita, non verrò più con te». Facevo la figura dell’ignorante! Egli avrebbe dovuto fare l’ambasciatore o qualcosa del genere. Normalmente avrebbe dovuto anche fare una grande carriera; infine, non è stato il caso… Ma è il lato greco… E dunque, le assicuro, vent’anni dopo… Delle persone che… dicevo loro: «È in prigione!». [Ride]. Non l’hanno dimenticato.

366

Intervista con Georges Walter

No, perché uno studente straniero che viene qui… D’altronde, era un tipo molto acuto, che voleva fare anche la conquista intellettuale della Romania. E ci è riuscito, fino a un certo punto, questo è sicuro. Voleva essere un maître à penser. Dunque, ecco ciò che ha fatto in Romania: è diventato, a un certo punto, la personalità più importante. Tale ruolo era noto alle autorità? Sì! E così era sorvegliato, probabilmente… Naturalmente! Ma, sa, era molto sottile; era un fantastico manovratore. Fin dove avrebbe potuto spingersi? Questo è il punto… Ha avuto una specie di regime speciale. A mio avviso, c’era una sorta di patto. Forse, anche Ceaușescu aveva paura di toccare troppo un uomo come lui… C’è stato una specie di accomodamento. Proprio così. Ha detto: «Fate quello che volete, non mi intrometto nelle vostre storie, ma lasciate fare anche a me». È sicuro. Questa politica si è rivelata formidabile, perché quando è uscito di prigione, invece di attaccare Ceaușescu, ha detto: «Ha fatto molto bene»… [ride]. L’hanno lasciato fare, ma unicamente sul piano intellettuale. In gioventù, avevamo da quelle parti una specie di casa (conosco molto, molto bene la zona); è stato mio fratello a rivelare a Noica questo posto… divenuto poi un luogo di pellegrinaggio. La polizia di Ceaușescu sorvegliava da vicino. Noica lo sapeva, ma era molto prudente. Non attaccava il regime, ecc. Possede-

367

Ultimatum all’esistenza

va libertà sul piano strettamente filosofico: di questo a Ceaușescu non interessava… [ride]. Ceaușescu, alla fine, forse non lo trovava molto pericoloso, vero?… No, dal momento che si è prestato al gioco. Sul piano propriamente intellettuale, era abbastanza libero… È un gioco molto sottile, greco, no? È una storia abbastanza singolare in Romania. Sì, era diventato un luogo di pellegrinaggio. Allora, si sapeva che c’era un tipo, ingegnoso, che spiava, che stilava i rapporti, ecc. Lo sapevano tutti. Noica era sicuramente spiato. Egli è stato al gioco, altrimenti lo avrebbero arrestato. Lo hanno lasciato fare, ma a condizione di non spingersi troppo lontano… Ha fatto un doppio gioco, ma, molto intelligente, ha potuto lavorare e ha potuto scrivere. Era molto sottile… Perché tutti si chiedevano: «Ma com’è possibile che ci sia un pellegrinaggio a…?». D’altronde, non era critico nei confronti del regime. È uno straordinario gioco greco! Ceaușescu e lui hanno fatto un ottimo calcolo! [Ride]. Questa è la verità. Quando è stata l’ultima volta che l’ha visto? Non so dirle esattamente. L’ha visto in Francia? Sì. Lì ho capito il suo gioco… «Cosa hai contro Ceaușe­scu?», mi ha chiesto. Utilizzando un’espressione romena, gli ho risposto: «Să mă pupe…» [Vada a quel paese, ndt] [ride]. Conosce questo modo di dire?… Ovviamente ho compreso il suo gioco. Ho capito. Aveva davvero una sorta di statuto speciale. Solo un individuo del genere poteva

368

Intervista con Georges Walter

manovrare; e ha reso un grande servizio, sa perché, grazie a lui, sono state pubblicate un’infinità di cose. È stato molto positivo, in fondo. Ha favorito delle pubblicazioni… Sì. Io ho indovinato il suo gioco perché non era difficile. Ma c’è chi lo ha accusato di tradimento! Non era vero… Non ha criticato Ceaușescu, ma non l’ha nemmeno lodato. No, c’era una specie di accordo. Era una politica molto intelligente. È una storia di sopravvivenza nella Romania di Ceaușescu, che è interessante. È sotto Ceaușescu che Noica è diventato una grande personalità. È straordinario… Alcuni lo accusavano di non so cosa… Ma non era vero! Ma per dirle che era una personalità molto complessa. Le ha mai suggerito di tornare, per caso? No, sapeva che era fuori questione. Ma è venuto qui e mi ha fatto una cattiva impressione. Forse voleva che non battessimo troppo sulla Romania… Sì, è così. Ho pensato che fosse grottesco. Ci sono persone che si sono ribellate, ma senza alcuna efficacia. Era inutile. Ha finito per rendersene conto. Ha fatto delle concessioni per lui, sul piano intellettuale, è stata una cosa favorevole per la Romania. È stato positivo. Questo

369

Ultimatum all’esistenza

è molto importante. Non vorrei lei avesse l’impressione che io voglia sminuirlo. No, per niente. Perché, davvero, era qualcuno. Era una grandissima personalità. Un tipo divertente, si potrebbe dire, allo stesso tempo. Tutto questo è molto complesso. Ha comunque svolto un ruolo molto importante. Perché tutti i romeni ora fanno filosofia? È grazie a lui, questa è la verità! La filosofia era alquanto disprezzata. E lei crede che sia per questo che la leggono così tanto, i romeni? Che leggono le sue opere? Tutto ciò che ha scritto è tradotto in romeno, suppongo… No, è in traduzione. Ma c’erano già alcune cose – credo – tradotte in romeno, che sono entrate in Romania. Non era un autore proibito in Romania? No, no, i miei libri circolavano, ma mi sono tenuto lontano. Perché hanno provato con tutti i mezzi a… Già sotto Ceaușescu hanno cercato di attirarla personalmente? Sì, ci hanno provato, ma ho rifiutato. Neanche per sogno! Era veramente… Quest’individuo è stato una catastrofe per la Romania, l’ha corrotta moralmente… un popolo che è stato corrotto!… [ride]. Molto di frequente ci sono persone così, che fanno sciocchezze, cose stupide… Io dico: «Questa è la scuola di Ceaușescu!». Oggi la Romania vorrebbe che un certo numero di persone tornassero, ma queste potrebbero non voler tornare, a cominciare da lei. Posso dirle che un mese fa sono stato invitato dall’ambasciatore

370

Intervista con Georges Walter

francese a Bucarest. Mi ha invitato ad andare all’ambasciata. Gli ho detto che non potevo. Quindi, lei sarebbe stato sempre sul territorio francese, anche se era laggiù? [Ride]. Sì, sì, è così. Gli ho detto: «Senta, ho lasciato la Romania cinquantadue anni fa, non ci sono più tornato, non posso». Non ha nemmeno voglia di andare in pellegrinaggio nei paesaggi di cui lei parla? Esatto, il problema si pone. Tra un po’ compirò non so quanti anni. È… la nascita, la mia nascita… Il suo compleanno. Sì, sono completamente contrario a queste cose, le odio… Ma i romeni fanno teatro… Mi hanno invitato, ma non ci andrò. C’è una cosa molto curiosa nella mia famiglia: non abbiamo mai festeggiato i… I compleanni. I compleanni. Mai! Ma le hanno preparato la festa per gli 80 anni. Io ho detto loro: «Per me non esiste. Non voglio alla mia età… Sono contrario a queste cose. Ad ogni modo, fate quello che volete, non posso impedirvelo, ma, in teoria, sono contrario». Non c’è niente da fare. E anche il mio editore tedesco… I tedeschi sono pazzi per queste storie, sa… Sì, le amano molto! [Ride].

371

Ultimatum all’esistenza

Mi scrive l’editore: «Chi vuole che invitiamo?». Ho detto: «Nessuno! Sono contrario!». In famiglia, non abbiamo mai festeggiato i nostri compleanni. E quindi non voglio. I tedeschi… è una religione per loro. Allora egli ha detto: «Sì, ma verremo a Parigi». Ed io: «Fate ciò che volete, ma…». Così ora stanno facendo tutto un tam tam in Romania, hanno creato una lista degli ospiti, cose del genere… «Fate ciò che volete, non posso fermarvi, vero?». Le hanno spedito la lista degli invitati, suppongo, per mostrarle quanto siano brillanti… Sì, ma è vero che nella mia famiglia non abbiamo mai festeggiato i compleanni; mai, ed è stato molto, molto buono! Alla mia età, questa commedia; sono contrario! E, al momento, non sembra molto ottimista, ma non vuole nemmeno scoraggiarli. Spera che qualche cosa… Personalmente trovo che se ci fosse un governo democratico, sarebbe davvero un enorme passo avanti. È tutto lì. Perché ho l’impressione che questi ragazzi che sono lì, sono sicuramente molto bravi con i russi… Lo dicono tutti, ed è sicuramente la verità. C’è un’illusione di libertà in Romania. Puoi scrivere praticamente tutto quello che vuoi, è vero… Ma, comunque, il fenomeno più importante in Romania sono i giovani. I giovani sono contrari. Abbiamo visto quanti ragazzi sono scomparsi dalla Romania… È molto importante. Non credo che questo possa andare avanti all’infinito. Anche questo è preoccupante… Non ha l’impressione che questa Europa che si è liberata, diciamo, da diversi satelliti dell’Unione Sovietica, stia diventando sempre più un’Europa di potenziali immigrati? Le persone tendono a fuggire dal loro Paese.

372

Intervista con Georges Walter

Assolutamente. Allora, che fare? L’unico problema è che nessuno li vuole più… Sì, allora dove fuggono? È drammatico! Ai romeni, ad esempio, tutto è negato. I francesi dicono: «No, no, no»; ma essi andranno ovunque. Credo che l’unica possibile soluzione sia, ad esempio, l’intervento di un Mitterrand. Questo è ciò che dovrebbe essere fatto, ma egli non lo farà, perché è amico dei leader attuali. Fino a che punto può agire su un Paese che non è suo? Cosa può fare per la Romania? Può pesare, lei pensa. [Seguono passaggi tagliati per volontà di Cioran, ora andati perduti]. Sì, davvero straordinario. Quindi, c’è una sorta di passo in avanti. C’è il nulla politico. Non c’è una sola personalità importante. E c’è anche un mistero: come spiegare che questo popolo non abbia donato una sola personalità politica importante? Non c’è nessuno. È inspiegabile, è molto, molto grave. Questo è il grande problema. Come mai non c’è nessun uomo politico? È il nulla politico. Nessuno sa darmi una spiegazione. Perché ci sono persone che non sono state perseguitate, che non sono state moralmente compromesse. Come mai non ci sono persone che credono nella loro missione? C’è qualcosa che non va. Le elezioni, questa maggioranza folle: è una provocazione! È possibile, dopo dieci anni di dittatura?… Comunque, avevano la maggioranza… [Secondo passaggio tagliato dall’intervista]. Anche se non lo avessero simulato. È già un brutto segno, no? In Ungheria, non è così. Sa – e per fortuna non l’ho fatto! – dieci giorni prima dell’esecuzione di Ceau­șescu, ero sul punto di scrivere un articolo: “Il Nulla valacco”, un

373

Ultimatum all’esistenza

articolo terribile contro la Romania. E questo dopo un pranzo qui, ero stato invitato da una signora che conosco; non c’erano molte persone, ma c’era un tipo molto insolente; non lo conoscevo. Sapeva che fossi romeno. Ha parlato di tutti i popoli dell’Est e sulla Romania ha detto: «Non ne voglio parlare!». E ha voltato le spalle! Innanzitutto è stato scortese… È stato scortese, ma, purtroppo… [ride]. A causa di ciò volevo scrivere quest’articolo: “Il Nulla valacco”. È una fortuna che non l’abbia scritto, perché sarebbe stato terribile! Era improbabile. Era ancora quando le cose si muovevano un po’ in Romania, non è vero? Sì, ma in modo inefficace! Tutti questi Paesi intorno, tutti si erano già mossi. La Romania era una velleità… Che è venuto un po’ dalla Transilvania, ancora una volta… Ancora una volta, ma era insopportabile, soprattutto perché tutti si muovevano: l’Ungheria, tutti. E ovunque andassi, mi dicevano: «E il suo Paese?». È stata dura per lei… È stata dura. «È un Paese infelice, un fallimento assoluto», ho dato tutte le spiegazioni possibili, ma è stato molto doloroso per me. Poi, va detto che questa è l’unica cosa positiva dei romeni: pensano il peggio di sé stessi. È l’unica cosa! [Ride]. Forse ora bisogna dimostrare che sarà utile a qualcosa!

374

Intervista con Georges Walter

Ovunque. Tutti. È quasi una specie di autodistruzione. È molto curioso, ci sono delle persone, molti stranieri, nordici, che mi chiedono: «Chi sono queste persone? Che cosa rappresentano?». Sono un popolo infelice, cosa volete! E poi hanno una sorta di fatalità. I romeni, secondo la mia esperienza, sono il solo popolo a credere ciecamente nel destino: «Non è l’uomo, è soartă», il destino. È profondo, le persone ci credono. È quasi religioso. È religioso… soartă! A proposito, questa è l’unica cosa positiva! [Ride]. No, ma è profondo! È un sentimento, davvero, una visione della vita… Quante volte ho sentito, in Romania, quando si parla di qualcuno, di un ubriacone, ecc.: «Perché ha fatto questo?»… «L-au dus vremurile». «Il tempo l’ha guidato!» [ride]. «Lui non è responsabile, è il momento: vremurile»… È una sorta di metafisica, di filosofia. È l’Oriente, si vede. È assolutamente profondo. Quante volte l’ho sentito?… Soprattutto dai contadini, il che ne spiega anche l’inefficacia. È quello che le avrei chiesto: se è efficace, forse, per gli individui, è efficace per un popolo, in tali circostanze? No, è pericoloso! Tutti sono assolti – da una porcheria, da una rapina, non importa da cosa – ma a un grado inimmaginabile! Mi ha già colpito nella mia infanzia; e continua ancora adesso; penso che sia anche peggio di prima… Che ne dice di bere qualcosa? Molto volentieri!… Può servirmi, per favore? Lei è più vicino. Cosa vuole che beviamo?

375

Ultimatum all’esistenza

Lei, piuttosto cosa vuole? Qualcosa di dolce [Douces]. Losco [Louches]? No, dolce, dolce! Non losco! [Ride]. Ah! Ascolti, andiamo a vedere…

376

INTERVISTA CON VASILE ANDRU*

Settembre 1991, mi trovo a casa dello scrittore a Parigi, in rue de l’Odéon. Gli dico che in Romania è “l’anno di Cioran”, l’anno della rivalutazione della sua opera e della sua figura. Non è troppo entusiasta da generare entusiasmo. Gli dico che mercoledì ho incontrato il signor Virgil Ierunca e che abbiamo parlato dell’inesistenza in Occidente della letteratura romena. Noi non esistiamo in Europa, nel mondo. Ma un tempo confidavamo e speravamo che le piccole nazioni potessero avere un ruolo culturale. Non avendo quello economico o politico, avrebbero potuto avere quello spirituale. Come se fosse stato semplice! Poco tempo fa ho partecipato qui in Francia a un incontro di orientalistica. Ho conosciuto molti dei partecipanti, uomini provenienti da una decina di Paesi; ho chiesto ad alcuni di essi se avessero letto qualche scrittore romeno, indicando loro in primo luogo quelli esiliati; non li avevano letti, non ne sapevano nulla. Tristi e realistiche costatazioni. Petru Dumitriu – c’est fini. Vintilă Horia, dimenticato. Paul Goma ha pubblicato undici libri in Francia. Un francese mi ha detto: «È fantastico che abbia trovato un editore, è difficile in Francia! Ma Goma non è conosciuto dai francesi». Risposi: «Da qualcuno, sì». Non sanno nulla della prosa di Dumitru Țepeneag. Nicolae Breban ha pubblicato un libro in Francia, * Traduzione italiana di Marisa Salzillo.

377

Ultimatum all’esistenza

senza eco. Chiesi al signor Virgil Ierunca: «Perché si verifica ciò? Non abbiamo forse libri da presentare al mondo o non sappiamo promuoverli?». Virgil Ierunca rispose: «L’unico scrittore romeno di oggi conosciuto al mondo è Emil Cioran. È popolare, è un classico, viene citato anche nelle riviste di moda, insomma ha raggiunto un certo livello di ricezione pubblica; è il solo scrittore romeno a esserci riuscito». Ci sono riuscito? [Silenzio, sorride]. Ho scritto poco. Non mi sono immischiato in politica. Né tantomeno nella politica letteraria. La politica è una questione di temperamento. Io ho voluto restarne fuori. Non mi sono immischiato in niente, nei gruppi, in niente. Questa distanza è una questione di carattere, di disciplina. La riuscita in campo letterario, invece, è un dono che viene dall’Alto. Un dono? Come straniero, ho preso la lingua sul serio. Non ho cercato il successo. Volevo essere indipendente. Ci sono riuscito? L’unica condotta possibile è restare fuori. Il mio ideale: starmene fuori. Non fare parte di nulla. È una convinzione, non un paradosso. Non sono membro di nessuna società; in Romania, in gioventù, ero troppo sfrontato, presuntuoso, capisce… il mio temperamento di allora… sono cambiato completamente a Parigi, assolutamente. Non mi sono immischiato nelle questioni romene, visto le brutte esperienze fatte in Romania. [Usciamo in terrazza. Il balcone dell’abitazione di Emil Cioran è come un giardino sospeso. Molti fiori, foglie abbondanti. È una bella giornata. Dal balcone si vedono anche i Giardini del Lussemburgo. Mi racconta contento come ha avuto la fortuna di avere quest’appartamento in buona posizione e ad un modico affitto. Rientriamo. Nell’abitazione c’è un ordine perfetto che riflette, forse, l’ordine interiore del filosofo, il suo bisogno di chiarezza].

378

Intervista con Vasile Andru

Fondamentalmente, ho vissuto una vita armoniosa. Le manca il suo Paese? Ho amato molto Sibiu. La mia gioventù è Sibiu. Mi piaceva enormemente. Per me la Romania era Sibiu, Răşinari e i Carpazi, che circondano Sibiu. Durante questi 53 anni, questo è stato per me la Romania. Ha pensato ad un ritorno? Non voglio rivederla, perché non l’ho dimenticata. Non vado perché ho un ricordo perfetto di Răşinari, dei monti. Non potrei che essere deluso dai cambiamenti. Le mie immagini sono talmente vive, che temo di restare deluso. Lei è molto letto da noi. In Romania lo è sempre stato, anche prima del dicembre 1989. Sempre. Ad un certo punto sono stato attaccato. Questa era la politica. Per me l’opinione ufficiale non conta. Le riviste letterarie, gli almanacchi la pubblicavano sempre, in modo frammentario. Gli aforismi possono essere apprezzati in maniera frammentaria. I periodici la pubblicavano sempre più spesso tra gli anni ’80-’90. Non lo so. Le traduzioni “pirata” vanno bene, assicurano la circolazione di uno scrittore. Sono il segno della sua popolarità.

379

Ultimatum all’esistenza

Ho capito che era successo qualcosa. Ma non me l’hanno detto. A causa del suo isolamento, e soprattutto a causa del nostro isolamento in Romania. Sì. Che destino, la Romania! Farsi guidare da un capo del genere. Tutti mi hanno chiesto, per anni: «Perché i romeni non reagiscono?». Un popolo rassegnato… Non un popolo passionale! «Ceaușescu fa davvero quello che vuole?», mi chiedevano. Un popolo ecrasé par l’his­ toire non reagisce più. Per istinto di conservazione, credo, non per mancanza di energia. Ne ha di energie… Un popolo che ha una tale storia negativa e una visione della vita inattiva. Tutti dicono: «Cosa accade a questo popolo?»… Un popolo intelligente, ma a cui manca qualcosa… la passione. Eppure, nella storia resiste. Resiste nel lungo termine. È una testimonianza di vitalità, di un istinto certo di sopravvivenza. Tuttavia, passa da un fallimento all’altro. La costante della sua storia mi sembra il fallimento. Dovrebbe fortificare la propria psicologia di affermazione. Non è possibile. È un popolo passivo. Ecco un aspetto: recentemente a Bucarest si sta formando un movimento spirituale che ha un buon riscontro di pubblico. Questa è una strada: l’esperienza spirituale. Voglio parlarle anche di gruppi di pratica spirituale affettiva, a Bucarest e in provincia, che hanno come risultato il miglioramento delle attitudini psichiche. In questo momento, un centinaio di persone lavo-

380

Intervista con Vasile Andru

rano in maniera sistematica per influenzare positivamente sempre più gente. Mi riferisco ad una psicologia di affermazione, nel senso “spirituale” del termine, non in quello “bellico”. Cioè, un pensiero positivo, di efficienza nelle azioni e di equilibrio interiore. È possibile, soprattutto perché esiste una base mioritica, una filosofia della serenità. Questo è importante per influenzare la psicologia della riuscita, per ridurre il comportamento fallimentare e attuare sempre più un comportamento positivo. Vediamo... Se la Romania continua come ha fatto fino ad ora, cioè in modo insicuro e incerto, l’aspetta il Nulla. Ecco perché parlavo dell’esperienza spirituale. Vale la pena. Perché no! Quando c’è un’idea di futuro, si va avanti. Quello che poi sarà, vittoria o fallimento, non ci è dato di sapere. Si procede per tentativi, si avanza come l’eco. L’eco è più importante della mia opinione. «Il faut foncer avant! Foncer!», – come dicono i francesi. Sì. Foncer! Uno dei difetti del popolo romeno è che non porta a termine ciò che ha iniziato, rinuncia facilmente. Non credo che il popolo romeno si arrenda in fretta, ma che piuttosto i governanti romeni non siano perseveranti. Il popolo, le masse sono dappertutto così: né dilettanti, né perseveranti, la guida, il leader dà una nota di intensità e di positività. I difetti del popolo romeno sono... gravi. Cerchiamo di risolverli… Se la Romania non fa un grande passo adesso, è perduta!

381

Ultimatum all’esistenza

O è rimandata, sempre rimandata. È una nuova sofferenza… Quando ho visto che i capi sono gli stessi… si commettono gravi errori! Sono rimasti gli stessi capi. Grave errore! Dalla guida del Paese mancano i giovani! I giovani sono o troppo inibiti o troppo intellettuali. I romeni hanno il complesso del fallimento. Uno scatto nel loro intimo è necessario. Quando ho visto che i capi sono rimasti gli stessi… dopo gli avvenimenti, è qualcosa di inconcepibile! È segno di errore, di fallimento. Quelli che sono all’opposizione non hanno alcuna influenza. Sono uomini per bene, ma in politica questo non basta. Piazza Università era impressionante, ma non ha portato a niente. È triste. Di delusione in delusione: questo è il processo. È inspiegabile. Qualcosa si deciderà in autunno, o nell’immediato futuro. Quello che succederà in questi anni sarà fondamentale. Tutto dipende da cosa succederà in questi due-tre anni. È capitale. [Sul tavolo dello scrittore c’è una fotocopia del libro Il crepuscolo dei pensieri. La conversazione scorre in lingua romena, ovviamente. Solo quando si presenta la signora Simone, compagna dello scrittore, parliamo in francese. Emil Cioran ha i capelli bianchi, gli occhi vivi, ma sul volto i colori di una vita piena]. In ogni caso, noi romeni siamo un’etnia con risorse biologiche importanti, comprovate. Sì, ci sono le risorse biologiche, in due-tre anni vedremo cosa accadrà. Se i romeni avranno la possibilità di trovare uomini politici importanti... Eppure, non si è trovato nessuno in Romania. Mi aspettavo

382

Intervista con Vasile Andru

un’esplosione di giovani! Biologicamente, esiste il vigore. C’è bisogno di una dimensione interiore! Deprimente… Le nazioni longeve sono state religiose. La perdita della religione da noi ha significato una specie di condanna. La strada spirituale, forse, se bene indirizzata, potrebbe far recuperare questa dimensione? Esistono delle possibilità. Tutti attendono un’esplosione, ma questa non arriva. I romeni hanno l’intelligenza; però sono necessarie sia l’intelligenza che la passione. È necessario che lì accada qualcosa. Altrimenti, è il nulla! Tuttavia, il destino, ha riservato alla Romania un’altra possibilità. Sì, è vero. Ecco una costante dei romeni: l’idea di destino. Non un destino che li difende, ma che li guida. È una specie di fondamento. «Fallisco, ma questo è il destino!». Il fallimento ha un senso perché fa parte del destino. C’è qualcosa di positivo in quest’idea, in fondo passiva. È un’idea reale in Romania. Non è uno scherzo. È qualcosa di profondo. Fa parte della definizione del romeno. «Non è colpa mia, è il destino!»… È un’idea profonda. «I fallimenti sono sopportabili nella misura in cui non sono io responsabile, ma il destino». È la sola grande idea dei romeni. Non è uno scherzo. È reale e la si trova sia tra gli uomini incolti che tra le persone colte. Sì, nei romeni l’idea di destino è più profondamente radicata nello spirito e più estesa di quanto lo sia l’idea del karma per gli asiatici. [Informo Cioran che nel mese di aprile c’è stata una conferenza a lui dedicata, presso Sâmbăta de Sus al Monastero Brâncoveanu. Colui che ha ospitato gli invitati è stato il metropolita Antonie Plămădeală. Anche questo è un segno che il non-conformismo religioso di Cioran viene recuperato dalla religione ufficiale. Da questo punto di vista, la conoscenza filosofica dell’uomo conduce alla sua base religiosa].

383

Ultimatum all’esistenza

Prima di tutto, sono contrario a queste manifestazioni. Non le approvo. È stato terribile? Non credo. Quando si parla dei suoi saggi, persino il mondo accademico diventa umano... Sono contrario... Ho cercato di andare avanti senza una professione. Non ho avuto la coscienza di avere una professione. Scrivere?... No, personalmente, non ho una professione, una patria, niente. Una specie di libertà che mi va bene. Però, il modo tormentato in cui parla dei romeni, del fallimento che li guida, dimostra che le sue origini sono romene. Spiritualmente, lei possiede una patria; intellettualmente un’altra. Lei è interessato ai romeni in maniera ossessiva. Sì, è un’idea antichissima: l’originalità dei romeni di passare da un fallimento all’altro. Tutti mi chiedono: «Che cosa accade a questo Paese?». Tutti sono colpiti dal fallimento dei romeni. È una specie di fallimento permanente: è comunque un’originalità. Ecco un’adesione: attraverso l’ossessione, attraverso lo stupore, attraverso la rivolta. Sì… Il fatto di aver lasciato il mio Paese è il segno della mia adesione negativa al suo destino. L’abbandono è stato causato dalla storia, dagli avvenimenti, dalla politica; non è stato giustificato filosoficamente. Mi sono reso conto che dovevo abbandonare il Paese. Ero amico di colui che rappresentava la Francia in Romania. Mi mandò qui con una borsa di studio. Certamente, sono rimasto qui non per un’adesione ne-

384

Intervista con Vasile Andru

gativa; ciò è avvenuto più tardi. È complicato. Quando ho visto quello che succedeva lì, mi sono detto: «Resto!». Noica, ad esempio, no. Lui aveva ottenuto la stessa borsa di studio. Dopo un anno Noica lascia Parigi e ritorna a Bucarest. Sei anni di carcere! Ha avuto la borsa di studio per sei anni, lì. È ritornato in Romania ed è stato condannato! Noica voleva avere un’influenza in Romania. Voleva influenzare la gioventù. Era il suo temperamento. La sua aspirazione. Dovrebbe ritornare in Romania. Lei è una “presenza”, ha dei lettori entusiasti. Nella vita tutto è possibile, anche avere ammiratori. Ma dopo cinquantatré anni di assenza… sarebbe troppo! [Gli dico che mi trovo in Francia, invitato ad un seminario internazionale Zen, alla Gendronnière, vicino Blois. Si rianima, dice: «Una volta ero affascinato dal buddhismo. Allora dicevo – ma sono passati circa quindici anni – che solo il buddhismo mi aveva impedito di suicidarmi»]. Il buddhismo è un cristianesimo senza icone. Come è considerato Mircea Eliade in Romania? Ha molto successo. Si pubblica la sua prosa, i saggi, è apparso il romanzo La foresta proibita, è stato ripubblicato il Trattato di storia delle religioni. Sono contento, ma ci sono anche contestazioni. Eliade contestato… è inammissibile! Anche in America è stato attaccato. Del resto, è il segno della sua gloria. [Poi Emil Cioran evoca Mircea Vulcănescu].

385

Ultimatum all’esistenza

Quando ho saputo cosa è accaduto a Vulcănescu, ho detto: «Ho rotto con la Romania!». Dicevo a Vulcănescu: «Non tornare in Romania!». Lui era venuto qui in una missione. Tutti lo ammiravano, era un uomo estremamente eccezionale. Un temperamento delicato… qui lo ammiravano tutti. È ritornato e l’hanno ucciso. Poi hanno detto che non volevano uccidere lui, che avevano commesso un errore di persona. Una vergogna. Picchiato, torturato. Un uomo della sua statura! Mio fratello è stato nel suo stesso carcere. Mi ha raccontato la fine che ha fatto. Anche suo fratello è stato incarcerato! Sì, è stato in prigione per 12 anni. Rassegnato anche lui… Mi fa male che mio fratello abbia sofferto, mi sento responsabile della sua sofferenza. Voleva diventare monaco, ma l’ho scoraggiato e lui si è convinto. Poi la politica... Gli ho distrutto la vita, verso la fine gliel’ho un po’ migliorata. Sento un immenso piacere nel sapere di averlo fatto, anche se solo alla fine. [Scrivo una dedica sul mio romanzo Muntele Calvarului. Gli dico che l’azione del libro parte da Orăștie. Si rianima ascoltando questo nome]. È una città con un “respiro” romeno potente! [Ritorno col discorso sui suoi libri. Ho in mano il suo volume Revelaţiile durerii, apparso da poco. Non è per niente contento della pubblicazione di questo libro, che riunisce i suoi articoli giovanili]. Credo che il lettore non colga tanto la negazione nei suoi libri, ma l’energia dello stile, della sintassi. L’energia dell’espressione: questo avviene nel lettore. Lo stile è la vita di un testo. De l’interieur! La vita di un’idea è lo stile.

386

Intervista con Vasile Andru

[Si è fatta sera, saluto lo scrittore e la signora Simone. Scendo le scale, sono in rue de l’Odéon. È un settembre caldo].

387

INTERVISTA CON IGNACIO VIDAL-FOLCH*

A ottant’anni, Cioran realizza ciò che aveva preannunciato: non scrivere più una riga. Anche se il grande scrittore francese di origine romena non “produca più libri”, nuovi tasselli della sua prosa, da molti definita la migliore dell’attuale letteratura francese, giungono incessantemente nelle librerie. In Spagna, è appena apparsa una traduzione (Tusquets edizioni) di Esercizi di ammirazione, opera composta di articoli e brevi saggi su alcuni tra i suoi scrittori e amici preferiti: Beckett, Celan o Valéry. Nella sua mansarda al centro di Parigi, il grande miscredente, colui che mediante la precisa ed elegante lingua francese ha sputato contro l’universo e sognato di eliminare l’umanità, si dichiara stanco. Riattacca il telefono e non riesce a nascondere il fastidio provato durante la conversazione appena avuta con uno dei suoi traduttori: «Quest’uomo mi fa la testa come un pallone. Dice che l’edizione del Sommario di decomposizione nel suo Paese è piena di errori. Beh, che m’importa?». Ma signor Cioran, ciò dimostra che è un buon allievo. Perché? Lei ha scritto che sarebbe stato capace di uccidere per una virgola. * Traduzione italiana di Marisa Salzillo.

389

Ultimatum all’esistenza

Come potevo dire una sciocchezza simile! [Ride]. In ogni caso, se uno non scrive, non ha nulla di cui pentirsi. Lei si pente? Mah, francamente, non è una delle mie passioni più vive. Sono felice di parlare con lei. Grazie. Perché? Lei non è spagnolo? Sì. È per questo che sono contento. I francesi non mi interessano realmente. A lei la Spagna è sempre piaciuta. Sì. In realtà, quando ho lasciato la Romania, la mia intenzione era quella di studiare in Spagna, ma era troppo complicato. Così mi sono “sistemato” [ride] a Parigi. Una delle imprese più belle della mia vita è stata quella di percorrere la Spagna in bicicletta. La Spagna e la bicicletta: due cose che sono state molto serie per me. Lei ha scritto dei mistici spagnoli, di Ortega… Ho frequentato i mistici spagnoli – in realtà tutti i mistici – per buona parte della mia vita, ma ormai ho smesso, sono diventato una persona normale… Ma tra gli scrittori spagnoli, quello che preferisco è Unamuno. È formidabile. Tuttavia, era la sua controfigura: egli reclamava un’eternità personale, mentre a lei irrita la stessa parola “Io”.

390

Intervista con Ignacio Vidal-Folch

Certo, ma che temperamento! Un temperamento quasi malato. Ciò che amo è la componente eccessiva degli spagnoli. Ora siamo persone normali, moderate. Anch’io. Ecco perché non sono tornato in Spagna… Ricordo di quando arrivai in Andalusia, alloggiavo in un hotel economico. È stato negli anni ’50. Un ragazzo mi sussurrò: «Devo parlarle, ho sentito che lei è francese, mi dica la verità: Hitler non è morto!». Io: «Dicono di sì, che sia morto». Lui: «Il fatto è che qui non dicono la verità». Io: «Beh, in verità, non ho le prove che Hitler... sia davvero morto». Divenne triste. Era un’epoca primitiva, erano tutti un po’ pazzi, un po’ come quello che vediamo oggi nell’Est. Lei parla come scrive… Non scrivo più. Perché? …sentenzioso, attraverso aforismi… Per me è una specie di fatalità. L’aforisma è qualcosa di istintivo per me. Lo ha appreso da Nietzsche o da Chamfort e dai moralisti francesi? Dopo aver letto i tizi di cui parla. I francesi sono bravi, ma l’aforisma tedesco è più profondo. Ma non ho imparato da loro: l’aforisma è una mania innata. In quelli di Confessioni e anatemi sembra intravedersi un processo verso l’autoironia. È così? L’ironia è capitale e l’autoironia lo è di più. Gli scrittori tendono a ridere di tutti, tranne che di sé stessi. È necessario ridere di sé o si arriva

391

Ultimatum all’esistenza

all’insolenza. Per quanto mi riguarda, è impossibile per me sapere se io mi prenda sul serio. Ora saranno pubblicati i suoi cinque libri romeni. Come le sembrano, dopo tutti questi anni? Non li rileggo, se non per dare un’occhiata alle traduzioni. Perché dovrei farlo? Quando decisi di passare alla lingua francese, capii che non potevo continuare a pensare in romeno, che dovevo rompere con la mia lingua. Ho rotto. Eliade non lo capì e il suo francese è stato sempre carente. Quindi, non leggo quei libri, ma nemmeno li disprezzo, perché in essi c’è tutta la mia giovinezza. E anche il dramma della mia vita: l’insonnia. Ho cominciato a soffrirne quando avevo 20-22 anni ed è durata per tanti altri anni ancora. Mia madre era disperata, temeva che mi sarei suicidato, perché passavo le notti a camminare, disperato. Ma quella malattia è stata tanto un disastro quanto una benedizione: sono una creatura dell’insonnia. Cosa avrebbe fatto senza l’insonnia? Temo che mi sarei dedicato alla filosofia, come tutti gli altri. Forse, se avesse bevuto qualche bicchiere… il sonno le sarebbe venuto! Cosa crede: mi ubriacavo con consapevolezza, passavo le notti a chiacchierare nei bordelli… ma è stato inutile. Chi non conosce l’insonnia non può comprendere quale tipo di dramma sia. È stata la vita a curarla: ora dormo beato, ma non scrivo una riga! In realtà, sono in pensione, sono stanco. Non ha mai sognato un paradiso umano? Mai. Ho sempre creduto che l’uomo sia condannato.

392

INTERVISTA CON ANN VAN SEVENANT

Nelle librerie come nelle biblioteche, i suoi libri sono collocati nel reparto di filosofia. Immagino che questo fatto, da un lato, le provochi una grande soddisfazione, visto che è stato misconosciuto per tanti anni, dall’altro le crei qualche imbarazzo, perché la filosofia, soprattutto nella sua forma accademica, è stata respinta da lei in età giovanile. Si potrebbe dunque parlare di una relazione di amore e di odio nei confronti della filosofia. Le racconto come le cose sono cominciate. Ho iniziato a scrivere quando ero studente di filosofia in Romania. Ero influenzato dai grandi filosofi. Sono loro che mi hanno convinto che avevo scelto la strada giusta. Rifiutavo tutto quello che non era filosofia. In Confessioni e anatemi lei dichiara che ha voglia di scrivere solo in uno stato di esplosività, in una condizione febbrile; che non ha mai scritto una riga ad una temperatura normale. Questo modo di scrivere fa pensare immediatamente al poeta o al letterato, non al filosofo, che ha in genere un atteggiamento di distacco razionale. Sì, però il mio era un linguaggio filosofico. All’inizio la gente non capiva. Io volevo che la scrittura risultasse difficile, per far sì che agli altri non fosse facile capire. Era il mio orgoglio di quell’epoca.

393

Ultimatum all’esistenza

Per definire la sua attività di scrittore lei parla di sollievo, come di una voglia di sfogarsi, di vuotarsi. Espressione e ispirazione sono due caratteristiche classiche del suo stile, che però si riferiscono di nuovo al dominio delle arti piuttosto che a quello della filosofia. Le spiego come in età molto giovanile ho vissuto la catastrofe più terribile che mai possa accadere a qualcuno. Da giovane ero molto vitale e allegro, finché un giorno, all’improvviso, fui colto dall’insonnia. La notte non riuscivo più a dormire e camminavo sempre per strada. Mia madre era preoccupata. Ero disperato. Maturò in me il sospetto che tutto fosse falso. Ero assolutamente sicuro che un giorno mi sarei suicidato. In quel periodo ho scritto il mio primo libro, Pe culmile dispera˘rii, che è stato tradotto recentemente in francese. Nell’ipotesi che un giorno dovesse incontrare una persona convinta che la sua opera fosse pura finzione, il risultato di un malato immaginario amareggiato, quale sarebbe la sua reazione? Di fastidio? Ma certi critici hanno scritto esattamente questo. Dicevano: «È un gioco intellettuale, vuole fare l’interessante». Non dimentichi che a quell’epoca avevo solo ventuno anni e che nessuno accettava questo da un giovane studente. Purtroppo, tutto quello che ho scritto è vero. Dopo avere scritto il libro, ho capito che mi aveva salvato. Ed è stato grazie all’insonnia che avevo incominciato a scrivere. Ha mai scritto poesia? Sì, però obbligato dalle circostanze. Era una specie di prosa poetica. Non sono poeta. Se non è poeta, né filosofo, come possiamo definire il suo modo di scrivere?

394

Intervista con Ann Van Sevenant

È un urlare, come uno che corra per le strade e gridi. Ha ragione lei dicendo che ho rotto con la filosofia. È perfino una cosa essenziale. I miei amici non capivano nulla. Non sono stati i filosofi a influenzarmi, ma i poeti. Anche Nietzsche senza dubbio, e i grandi malati. Lei è forse l’unico pensatore a rilevare una connessione positiva tra filosofia e malattia. Dichiara che soffrire è la sensazione numero uno e che l’uomo vive in uno stato di illusione finché non ha sofferto. Dice anche che la salute è uno stato di non-sensazione. Sì. La malattia è una prova. È la malattia che costringe a riflettere. Non c’è poeta o filosofo che non abbia sofferto fisicamente. Lei riesce a vedere chi ha sofferto e chi no? Sì, si può vedere chi è stato messo alla prova. Se la sua scrittura è un esprimersi indispensabile, un bisogno, la forma per lei assume un rilievo particolarmente importante. Trovare la parola esatta, la frase giusta ha un’importanza uguale a quella di esprimersi. Mi chiedo se il fatto stesso dello scrivere potrebbe già essere sufficiente, indipendentemente dal contenuto. L’espressione “noircir du papier” rappresenta bene quello che intendo dire. È il piacere plastico che il disegnatore prova quando riempie un foglio. In questo modo lo scrivere diventa un avvenimento o, per usare un termine heideggeriano, un “evento”. Che il fatto di scrivere aiuti, è una cosa sicura, anche se è vero che ci contraddiciamo. Riusciamo a penetrare nelle cose. Ho sempre avuto l’impressione che ero l’unico a vedere dentro certe cose. In tutti i modi, l’esprimersi è molto terapeutico, e inoltre lo scrivere ha un’altra profondità che il parlare. Parlare è piuttosto come fare il teatro. Quando ci mettiamo a scrivere invece, c’è una specie di vittoria. Avviene poi senza testimoni. Ci sono delle cose che a dirle non si riesce; a scriverle invece

395

Ultimatum all’esistenza

sì. Solo dopo si capisce che è successo qualcosa all’interno. Questo è un evento. Lo scrivere non è sempre intenzionale, certe volte viene da sé. Scrivere è avere un dialogo con il più profondo di sé stessi. Basta ciò per essere sconvolti. Per me scrivere è come una concatenazione di momenti di felicità. E la felicità è un evento immenso. Proprio così. Lei non è mai riuscito a convincermi del suo nichilismo. Mi ricordo il suo riso e il consiglio al momento del nostro ultimo congedo. Lei esclamava: «Non disperare mai, c’è sempre la possibilità del suicidio». Quelle parole e quel riso mi rimarranno sempre in mente. Nonostante tutti i suoi tentativi, non l’ho mai considerata come un pensatore negativo o come uno scettico. Uno scettico, in primo luogo, non può parlare dell’irrealtà delle cose o dell’artificiale, perché non ha un criterio per decidere se una cosa è vera o no. Non può nemmeno intraprendere una missione e far sì che gli altri ne prendano coscienza, come appunto lei descrive la sua attività. In terzo luogo, non è uno scettico perché la disperazione non porta alla rassegnazione, ma all’azione. Ritengo che i suoi libri siano scritti in uno stato di felicità. È vero che voleva dare espressione alla sua disperazione vissuta? Però il suo scrivere avveniva in uno stato di felicità. Infatti, potrebbe essere che lei abbia ragione. In tutto quello che ho scritto, ho provato una felicità. È stata una liberazione. Uno diventa maestro di tutto e di sé stesso. In effetti, non si è tristi dopo una confessione di tristezza. [Ride]. È l’ambiguità delle cose. Ne La tentazione di esistere scrive: «Il Nulla era senz’altro più confortevole. Com’è difficile dissolversi nell’Essere!»1. E nel Sommario di decomposizione: «[…] l’essere stesso non è che una pretesa del Nulla»2. Queste e altre proposte inducono alcuni a considerarla come uno scettico E. M. Cioran, La tentazione di esistere, tr. it. di L. Colasanti e C. Laurenti, Adelphi, Milano, 1984, p. 215. 2 Id., Sommario di decomposizione, tr. it. di M. A. Rigoni e T. Turolla, Adelphi, Milano, 1996, p. 69. 1

396

Intervista con Ann Van Sevenant

o un nichilista. A mio avviso, al contrario, lei dà un’importanza estrema all’essere. Ritrovo in lei il profilo di una persona che vive con l’angoscia insopportabile, che la vita è tutta illusione, che non c’è niente, e quindi fa di tutto per convincere sé stesso che in realtà qualcosa c’è. Vale a dire, porta la negatività fino a un punto estremo, essendo cosciente dell’impossibilità di annullarsi. Ecco la ragione del fascino che il suicidio esercita su di lei. Ma lei è diventata psicologa. Per un filosofo non è male. Per mostrare che è perfettamente possibile vivere senza progetti, lei rimanda al pensiero orientale. Lei rappresenta il fatto di non realizzare un progetto come una forma di piacere estatico. Mi viene in mente anche questa proposta: «Vivere assolutamente senza scopo!»3. L’ho scritto io questo? Ma è impossibile vivere senza scopo. È stato forse il risultato del mio senso di superiorità in quell’epoca. In tutti i modi, non è umano. In quei tempi volevo essere uno scettico, ma non lo ero. Mi ero creato quest’idea di me stesso: sono uno scettico o voglio esserlo. Ma non sta facendo confessioni pericolose? Non sono uno scettico perfetto. Tutta la mia vita sono stato in conflitto con me stesso. Ho pensato per molto tempo d’essere un grande scettico. Ma no. Era pura velleità. Avevo semplicemente un carattere instabile. Non ho il carattere per fare qualcosa. Non è riuscito a essere scettico. Lo sente come un fallimento? No, sebbene mi piace la nozione.

3

Id., Il funesto demiurgo, tr. it. di D. Grange Fiori, Adelphi, Milano, 1986, p. 85.

397

Ultimatum all’esistenza

È vero che da un anno e mezzo non scrive più? Da molto tempo sentivo di non volermi più manifestare. Il pensiero di non dover più scrivere, di dover lasciare tutto dietro di me era sempre più forte. Perché continuare a scrivere? Oggi tutti hanno bisogno di moltiplicare i libri. È veramente grottesco. Tutti scrivono. Allora, perché dovrei continuare a scrivere? Ha trovato una certa serenità? No, semplicemente non voglio più manifestarmi. Non faccio quasi più niente. D’altra parte leggo. Non dovrei leggere. Per essere totalmente conseguente dovrei lasciar perdere anche questo. Non dovrei leggere. Ma leggere non invita a scrivere? La continua lotta con gli altri di una volta non esiste più? Lei sa, gli altri sono tutta un’altra storia. Sopportare l’altro è una prova. Sono anche uno scettico, cioè metto tutto in dubbio. Tuttavia è importante che facciamo questa discussione. È diventato come Socrate… Non scrive più, ma pensa. Nei Sillogismi dell’amarezza lei invita ai tempi in cui si chiedeva ai filosofi innanzi tutto di filosofare. L’enorme produzione attuale di libri viene da lei criticata, perché il pensatore di oggi sarebbe costretto a pubblicare per evitare di essere un fallito. Per quel che riguarda questa imposizione, lei è riuscito a liberarsene. Ognuno di noi ha il proprio modo di fallire nella vita. «Chacun a sa façon de rater sa vie». [Ride]. Io ho trovato il mio. Non considero la mia vita come fallita. Appunto, mi piace perché è la mia. Ha compiuto ottant’anni?

398

Intervista con Ann Van Sevenant

Sì. Chi avrebbe mai potuto immaginare che proprio io, che ho passato una vita a interrogarmi sul suicidio, sarei vissuto fino a un età così avanzata. In tutti i modi, non sono più saggio di quello che ero a trent’anni. Con questa differenza che in quel momento non sarebbe riuscito a smettere di scrivere. Che cosa è cambiato? C’è un elemento nuovo: la stanchezza fisica. Forse non è meno autentica dell’insonnia. È quasi una storia per un romanzo. Poter guardare indietro e contemplare la propria vita, per poi decidere di finirla e… continuare a vivere. Avrebbe anche potuto morire alla scrivania, a metà frase. Che cosa vede quando guarda indietro? Non c’è male. Il grande successo della mia vita è che ho potuto vivere senza un mestiere. In fondo, ho vissuto la mia vita abbastanza bene. Ho fatto finta che fosse un fallimento. Però non lo era. Vorrei fare una domanda che forse altre persone prima di me le hanno fatto. Per parlare del corpo lei usa i termini “organi” e “organico”. Parla dei “capricci del corpo, un sotto-prodotto”. O, invece di dire “fare l’amore”, dice “acrobazia in due”. Dopo avere demistificato tutto, dopo aver reso tutto trasparente, permane in qualche modo una realtà intatta, non toccata dalla sua “lucidità cronica”, una realtà non riflettuta per così dire, una realtà in sé? È una illusione pensarlo. Infine, i peggiori non sono gli intellettuali, ma coloro che credono di aver trasceso tutto. Però la “lucidità cronica” che rende tutto trasparente, contiene egualmente una pretesa assoluta.

399

Ultimatum all’esistenza

Purtroppo, non si può vedere dentro a tutto. Quello che abbiamo vissuto può già bastare. Allora è vero che permane qualcosa di impenetrabile? Si deve accettare la finitudine delle cose, se no bisogna suicidarsi. [Ride]. Ha scritto: «[…] questi simulacri fanno vivere, sono la vita»4. Certe volte si ha bisogno dell’artificiale, del non vero. È perfino indispensabile. Si dovrebbe liberarsene, però risulta impossibile. Chi ci riesce è un santo o un imbroglione. L’uomo non ha il potere interiore di staccarsi dall’artificiale. In tutto quello che fa, rimane una parvenza di artificio. La purezza interiore ci manca. Non si possono trascendere certe cose. Tuttavia ha descritto lo stadio del superamento dell’artificiale. In primo luogo, c’è l’artificiale che uno accetta spontaneamente, e questo viene rifiutato da lei. In secondo luogo, si può smascherarlo e creare un vitalismo per sopportare la delusione che ne risulta. Quanto meno è la sua interpretazione di Nietzsche. Lei stesso invece pretende di fare un passo in più, liberandosi dalle cose. Questa liberazione, questo staccarsi da tutto è un ideale di ispirazione buddhista, no? D’altra parte si potrebbe accettare parzialmente l’artificiale, appunto comprendendolo in un doppio movimento di illusione e di rimedio all’illusione. Esistono diversi gradi di liberazione, dove uno sente che si emancipa da certe cose. Allora, una parte è illusione, l’altra non lo è. Nessuno può dire che ha superato totalmente i limiti inerenti alla vita. La presa di coscienza della finitudine è risentita come una tragedia, però in 4

400

Id., Sommario di decomposizione, cit., p. 201.

Intervista con Ann Van Sevenant

fondo è una buona cosa. Colui che ha vinto tutti gli ostacoli, non è umano. Vorrei terminare con questa domanda un po’ giornalistica: aspetta ancora qualcosa dalla vita? No, niente. Non ho di che lamentarmi. Non sono certo disgustato della vita. Ho conosciuto molte sfortune, ho dovuto sopportare la parte negativa della vita, ma non mi metto a lamentarmi, arrivato a questo punto. Non serve assolutamente a niente. La lascio in uno stato di grande gioia. Scriverò che ho incontrato una persona molto serena. Sì, sì, lo scriva. La gente rimarrà meravigliata.

401

INTERVISTA CON ION DEACONESCU*

Ho incontrato più volte, negli anni 1987-1992, nel suo appartamento divenuto celebre in rue de l’Odéon, Emil Cioran, colui che ha radicalizzato la voluttà del sarcasmo e ha fatto dell’angoscia una costruzione tanto speciale. Pur avendo sperimentato fino a una comprensione estremamente originale e raffinata il dramma della solitudine e del tedio, della sofferenza e della disperazione così variegate, Emil Cioran era un affascinante interlocutore, che emanava calore e generosità, come se avesse partecipato a un’importante cospirazione contro Dio e il Nulla, mostrando particolare interesse per ciò che avviene nel tempo. Parlava un romeno impeccabile, frammezzato a volte da parole francesi; aveva esplosioni di rabbia quando si rammentava lo stato precario del popolo che aveva lasciato, ma alla fine, come un’acqua di montagna che si calma in prossimità della foce, diventava di una gravità sublimata e decadeva in un delicato silenzio meditativo. Nonostante si dicesse di lui che vivesse voluttuosamente i suoi momenti di solitudine, con stile e metodo, rifiutando talvolta di incontrare amici, conoscenti o persone interessate alla sua opera, Emil Cioran coltivava dentro di sé la passione di avere compagni di conversazione e di passeggio; sono propenso a credere che risentisse della mancanza * Traduzione italiana di Marisa Salzillo.

403

Ultimatum all’esistenza

di discussioni, e anche di chiacchierate. Conosceva assolutamente tutto ciò che accadeva nel mondo e intorno a lui; essendo al corrente di indiscrezioni riferite all’attualità, si lanciava in provocanti interpretazioni del fenomeno politico e amava i pettegolezzi degli amici, della gente incontrata per strada e dei venditori delle piccole librerie parigine. Cioran si era costruito, nel corso degli anni, una maschera che gli altri non avevano avuto la pazienza di staccargli dal viso, privandosi di un interlocutore squisito e di straordinaria vivacità. Trovava sempre soluzioni, alcune davvero efficaci e sorprendenti, all’emancipazione della cultura romena, in più, gli sarebbe piaciuto enormemente considerarsi un complice anonimo negli sforzi del nostro Paese di rientrare nella normalità. Nel 1988, poi nella primavera del 1989, ci fu un tentativo inaspettato di ritornare in patria, ma fallì, poiché non aveva un passaporto e non sapeva come viaggiare in un Paese comunista, senza un documento d’identità. Quando l’ho rivisto nel 1992, insieme a Raoul Şorban, grande uomo di cultura, la delusione di Cioran, a seguito di quanto stesse accadendo in Romania, aveva assunto proporzioni sorprendenti. Percepiva quasi fisicamente l’autoesclusione del nostro Paese dal tempo e non capiva perché macchiavamo il nostro onore, dimostrandoci incapaci di attuare grandi opere per la rinascita nazionale. Allora capii che i grandi scrittori vivono ad alte temperature interiori, essendo in grado di sacrificare tutto per la loro opera, persino la propria tranquillità e felicità. Per questo, le confessioni di Cioran, raccolte [nella seguente intervista], si presentano come frammenti della disperazione così originale di un grande creatore, che non ha mai dimenticato il suo Paese e il suo popolo. Signor Cioran, col suo permesso, vorrei chiederle di ripercorrere insieme una strada a lei ben nota, quella da Răşinari a Parigi, fatta di tappe e di incroci esistenziali, più o meno favorevoli, ponendole di volta in volta domande, al fine di evitare la monotonia delle confessioni.

404

Intervista con Ion Deaconescu

Chi potrebbe essere interessato alla mia vita, così banale e priva di significato? Non è degna di essere considerata un esempio positivo. È stupido e indecente forzare la memoria, obbligarla a compiere atti di infedeltà rispetto al passato. Ciò nonostante… iniziamo con i suoi genitori, la sua famiglia! Mi costringe a ritornare indietro nel tempo, sinonimo di tradimento. Mio padre, Emilian Cioran, era prete a Răşinari, poi accettò l’incarico di arciprete di Sibiu, su insistenza del metropolita Bălan, colui che aveva protestato in maniera violenta contro la cessione della Transilvania. Mio nonno paterno, Şerban Cioran, era stato esattore del Comune, una specie di cassiere. A un certo punto, gli rubarono i soldi e dovette richiedere un prestito oneroso alla Banca “Albina” di Sibiu, per rifarsi del danno. A seguito di quest’avvenimento, mio padre terminò il liceo Gheoghe Lazăr di Sibiu con grandi difficoltà, in ungherese, durante il periodo di magiarizzazione forzata dei romeni. Mia madre, Elvira, nata Comaniciu, era originaria di Veneţia de Jos, di Ţara Oltului, nella zona di Făgăraş. Il nonno era notaio e aveva una situazione economica molto buona. Quelli della famiglia Comaniciu erano chiamati “baroni”, “i baroni Comaniciu”, essendo la madre baronessa. Quindi, la scuola elementare l’ha fatta a Răşinari. Grazie a suo fratello so che fino alla quinta classe ha suonato il violino, poi, col pretesto del sudore alle mani, ha rinunciato a questo strumento a favore di letture che hanno segnato la sua vita, avendo avuto sin dall’infanzia grande attitudine verso lo studio. Ero terribilmente stanco del violino. Non avevo talento per la musica. Mi piaceva, invece, il latino. Leggevo molto, soprattutto a Sibiu. Ero gloriosamente esausto in questa città, la città del mio futuro fallimento. A Sibiu, ho vissuto le più profonde delusioni. Dopo notti d’insonnia ho avuto la rivelazione dell’inutilità, in una città quasi decadente, poetica e arida.

405

Ultimatum all’esistenza

Come suo padre ha frequentato il liceo Gheorghe Lăzar, una scuola di tradizione, riconosciuta per la qualità dell’istruzione. Ho avuto comunque fortuna: invece di otto classi, ne ho fatte sette, favorito dalla riforma dell’insegnamento. Una cosa è certa: a Sibiu ho studiato con coerenza la filosofia tedesca e mi sono interessato molto alla teologia, ho letto Dostoevskij, Nietzsche e Schopenhauer. Suo fratello mi ha detto che, come studente del liceo, ha debuttato in un giornale locale con un articolo su Greta Garbo. Le piaceva non solo leggere, ma anche scrivere. Difatti, ha ricopiato su interi quaderni estratti dalle opere di Dostoevskij, Balzac, Eminescu, Hegel, Kant, sviluppando, in tedesco, argomenti relativi alla complessità delle culture e alla loro uniformità, alla logica organica dell’esistenza, alla relazione del destino con la vita e alla causalità con la morte, al sistema del divenire e al problema della simultaneità. Sa troppo di me. È davvero immorale. Non vale la pena perdere tempo con dettagli inutili. Signor Cioran, potrei commettere un grosso errore ponendole la seguente domanda. Sono consapevole della sua gravità, tuttavia corro il rischio: non è stata forse l’insonnia, quella dei diciassette anni, a segnare tutta la sua esistenza, a debilitarla tanto da affermare: «Che io dorma o muoia, che io recuperi il sonno o perisca»? A dire il vero, è stata un’avventura interessante, irripetibile. A quei tempi ho odiato moltissimo. Odiavo coloro che dormivano; io ero solo, in un’estasi negativa. Allora mi sono immerso con voluttà nell’oscurità dei miei propri istinti. Ho assaporato la delusione della vita e il fascino della morte, sopportando tutte le degradazioni dell’esistenza. L’insonnia non è uno stato transitorio, ma una forma speciale di lucidità.

406

Intervista con Ion Deaconescu

«Dimmi quanto sei lucido e ti dirò quanto hai sofferto!». Esatto. Poi ho avuto la rivelazione del nulla e dell’inutilità. Il sonno è un semplice simulacro della vita. Un’aberrazione. Tornando alla sua domanda, non è impossibile che l’insonnia abbia lasciato tracce profonde nel mio comportamento, così contraddittorio. Forse, sono stato una vittima di questo meccanismo. Alla fine, mi ha deluso. Non è stato così sottile. Mi ha solo agonizzato. La mia vita – che incubo – condita naturalmente con nausea, noia e tristezza! Sono un depresso che si è messo in evidenza attraverso le proprie infelicità. Ecco perché sono stanco anche del sonno, che gioisce della mia permanente infelicità. Per mia sfortuna, ho superato questa malattia. Pensi a cosa sarebbe successo se fossi rimasto sveglio, senza perdere tanto tempo a letto. Il letto è la torre d’avorio delle persone normali, di quelli che non hanno problemi. Quanta deconcentrazione e pigrizia offre! Non riuscirò mai a capire perché la notte si dorma e si sogni. È come la fine della lucidità. Eppure, è stato terribile, soprattutto per i miei genitori. Non sapevano cosa credere, in particolare mia madre. Per me, la fine dell’insonnia ha significato la fine della gioventù. Allora ho perso l’innocenza. Ero diventato quasi complice dello stato di veglia, in maniera egoistica, di un egoismo inattuale, imbarazzante e di cattivo gusto. Quali tracce ha lasciato quest’insonnia? Sul piano della creazione, ovviamente. Al culmine della disperazione rappresenta l’esito di questi tormenti, della disperazione sublimata, della lucidità rivista, della nevrosi suscitata dall’esaurimento e dal fascino della rivolta. Con arroganza, mi sono tuffato in un futuro di delusioni e fallimenti. Il disastro mi ha rafforzato nella persecuzione e nell’estasi della gratuità. Com’era Sibiu durante la sua giovinezza?

407

Ultimatum all’esistenza

Sibiu era un borgo affascinante, cosmopolita ed equilibrato. Con parchi ombrosi, edifici misteriosi; così mi sembrava allora. Sibiu aveva un’atmosfera speciale da piccola Heidelberg caduta in disuso, con persone intelligenti, erudite, alcune addirittura raffinate, laboriose ed importanti per la maturità storica di questa parte della Romania, in cerca di identità e futuro. Sibiu è stata la sfortuna della mia vita. Qui ho perso la mia infanzia, sempre qui l’insonnia mi ha segnato l’esistenza, a Sibiu mi sono per sempre innamorato della filosofia. Come vede, Sibiu è stata fatale per me. Impressionante ciò che dice. Avrebbe preferito restare a Răşinari? Certo. Lontano dal mondo, contadino, in una capanna sui monti, vicino al Nulla. Forse solo così avrei percepito Dio e non mi sarebbe divenuto ostile. E io non sarei diventato un ribelle, perseguitato per tutta la vita dal dolore e dal disgusto. Una vita in frantumi. Lei è sarcastico e troppo esigente con sé stesso. Avverto tuttavia un poeta nelle infelicità che ha fondato. Un poeta della sofferenza perfetta. So, dalla corrispondenza con suo fratello, del desiderio di tornare a Răşinari, di rivedere il Parco Sub Arini, Coasta Boacii, il cimitero del villaggio, di ascoltare le lamentazioni funebri, di partecipare alla festa di Pentecoste e di Pasqua. È così? Lei continua a provocarmi. Mette sale su una ferita aperta. Sicuramente ho nostalgia dell’infanzia. Non mi crederà, ma a Parigi ho iniziato a suonare il flauto. Me lo ha inviato Relu, mio fratello. Sarebbe stato meglio diventare pastore! Oppure fabbro, becchino, gendarme, contadino, oste, in nessun caso prete o insegnante. Va bene, ma lei ha insegnato per un anno a Braşov. Che tragedia! Non avevo la vocazione per l’insegnamento. Mi sentivo ridicolo di fronte agli studenti. Un impostore.

408

Intervista con Ion Deaconescu

Chiariamo la situazione. Lei ha fatto domanda per un posto da professore presso il Liceo Normale. Significa che non disprezzava la professione di insegnante. Ho appreso quest’informazione da una lettera a Ovidiu Cotruş, spedita da Parigi nel 1938. Dovevo vivere. Avevo bisogno di una situazione economica stabile. Non è stato facile. Ma, insisto, insegnare era per me un doppio sabotaggio, per ciò che desideravo fare, oltre che per la vita. Perdevo molto tempo, inutilmente. Sprecavo le mie energie. Essere professore è deplorevole. Perché pensa di non aver avuto la vocazione all’insegnamento? Il professore è sequestrato in classe, molte ore al giorno. Non ha libertà. Un Don Chisciotte votato all’obbedienza. Il professore è un tipo obbediente. Può guardare fuori dalla finestra durante le ore di lavoro? O pensare alle donne fino allo sfinimento? Assolutamente no, non ha spirito d’iniziativa. Guai a lui! Io non avevo talento come insegnante. Ero troppo nervoso. Avrei preferito essere un guardaboschi. Perché un guardaboschi? Per la frivolezza del mestiere. Le piacciono i boschi, gli animali, la natura? Preferisco perdermi nell’infedeltà dell’anonimato. Il bosco, in fondo, è un agglomerato di alberi che non si assomigliano ma che accolgono come una foresta. Lei ha giocato con la frivolezza, signor Cioran? Spesso. Il segreto della vita consiste nella passione per le gioie irrisorie, abiette e perverse. Esiste una perversione che cerchiamo nei nostri

409

Ultimatum all’esistenza

momenti di repressione gratuita. Ognuno di noi vuole essere diverso, ci piace perder tempo con gesti che non implicano grande reputazione e orgoglio. Uno slittamento verso la frivolezza e la futilità. Nemmeno io mi sono sottratto ai piaceri paradossali della frivolezza. Al contrario, mi sono consolato molte volte nei miei momenti di angoscia con la noia e la desolazione. Signor Cioran, la pregherei, anche se mi rendo conto di averla stancata con le mie domande banali, di ricordare il periodo bucarestino, quando lei era, da quanto ho appreso, uno studente brillante. Bucarest ha rappresentato molto per me. Mi ha spinto a diventare un personaggio noto ed insolente. Ho scioccato tutti con un delirio stravagante. Eliade era molto apprezzato per la sua cultura, Noica sapeva così tanto, Mircea Vulcănescu, che altro dire! Straordinari erano Comarnescu, Polihroniade, giovani intellettuali impegnati con tutte le loro forze nell’emancipazione della Romania! Io ero un intruso. Non esageri… Nient’affatto. Essi si sono realizzati: Eliade, Sebastian, Noica, Comarnescu. Ma anche lei. Con la loro scomparsa, Mircea Vulcănescu, Nae Ionescu, Nichifor Crainic hanno fatto la storia. Signor Cioran, col suo permesso, vorrei affrontare un argomento delicato. È stato detto, in Romania e in Francia, ma anche in altre parti del mondo, che lei è stato membro del Movimento Legionario. Mi creda, le faccio questa domanda con molto imbarazzo e timore, essendo un punto polemico della sua esistenza.

410

Intervista con Ion Deaconescu

La Guardia di Ferro è stata un periodo delirante, scioccante, folle della storia della Romania. Con toni nazionalisti e cristiani, all’inizio. Il movimento è degenerato alla fine in atti riprovevoli. Uno stato di euforia delirante che ci ha coinvolti tutti. Un eccesso che ci ha contagiato per fare la storia e comprometterci nel suo presente. Uno stato passionale, privo di misura. Un’ossessione allora necessaria. Fallimentare, poi. Eravamo giovani intelligenti, espansivi, che aderivano al fanatismo del momento e a un sogno. In ogni caso la storia stessa, che desideravamo costruire in maniera diversa, ci ha sputato in faccia. Ci ha schiaffeggiato e oppresso con la sua indifferenza. È troppo tardi per i rimpianti. Propongo di affrontare un altro tema, sempre riferito agli anni trascorsi a Bucarest: il gruppo “Criterion”. Eliade una volta disse che il gruppo “Criterion” ha rappresentato un esistenzialismo “avant la lettre”. Quindi, è possibile collocare a Bucarest l’inizio dell’esistenzialismo europeo? Tale fenomeno non è privo di importanza. A quel tempo apparvero i giovani più dotati della Romania: Mircea Eliade, Cioran, Constantin Noica, Mircea Vulcănescu, Ionel Jianu, Petru Comarnescu, Paul Sterian, Mihail Polihroniade, Dan Botta e altri. Sì, a dire il vero credo che abbia significato qualcosa. Credo che questo movimento aggregante di giovani sia stato molto importante a quei tempi. Per la prima e ultima volta, la sinistra e la destra erano insieme. Molti ebrei tenevano conferenze: Sebastian, ad esempio, Polihroniade, che era un demagogo greco. Si discuteva di tutto. Non si trattava di razzismo, fascismo, antisemitismo, comunismo. Dopotutto, sognavano una nuova spiritualità, alcuni si occupavano di scienza, si metteva in discussione il liberalismo, l’ortodossia. Tutti, molto colti, portavano a Bucarest le teorie di Heisenberg, di [Louis de] Broglie o Schrödinger. Si rende conto che eravamo al passo con tutta la cultura e la scienza europea? In secondo luogo, ci piaceva essere al centro dell’attenzione,

411

Ultimatum all’esistenza

essere riconosciuti dal mondo, occupare posizioni in società, ottenere borse di studio all’estero, entrare nel mondo diplomatico. Essere diplomatico rappresentava un enorme risultato. I giovani di “Criterion”, ma anche gli altri, sono stati influenzati da Nae Ionescu, il mentore di questa generazione? Che ruolo ha giocato il “Grande rieducatore” nell’esistenza degli anni ’30? “Rieducatore”? Non sapevo lo chiamassero così. Noica l’ha soprannominato in questo modo. Tra lui e Noica non c’era un buon rapporto. Non si capivano? No. Ricordo che una volta disse a Noica di smettere di frequentare le lezioni. A proposito di Nae Ionescu. La caduta nel tempo è una risposta alla sua Caduta nel cosmo o non c’e alcun legame? È pura coincidenza? Nessun legame. Ho scritto un articolo impertinente su Nae Ionescu. Ma vorrei dimenticare questa stupidaggine. Dove l’ho pubblicato? È apparso nel ’37. Un articolo insolente, mi sembra su «Vremea». Nel 1937, di sicuro. Quest’articolo su Nae Ionescu credo sia apparso sul settimanale… «Vremea»… o forse su «Calende». Su «Vremea» ho scritto diversi articoli. Ma anche su «Gând Românesc». Sarebbe bello se tutti questi articoli di gioventù fossero raccolti in un volume.

412

Intervista con Ion Deaconescu

Forse. Però vorrei che gli articoli politici non fossero pubblicati. Ne ho scritto uno contro Maniu, che vorrei eliminare. L’ho deriso. Un articolo inammissibile. Dissi che avrebbe dovuto essere un professore di archeologia in Svezia. Recentemente, è stato detto che, nei suoi lavori, lei ha praticato un nichilismo estremamente originale, talvolta di derivazione emineschiana. Partendo dai mistici tedeschi, ha attraversato il buddhismo Zen. I libri di Suzuki rappresentano importanti punti di riferimento nella sua ricca lettura. Quindi, chi sono stati i suoi maestri spirituali? Soprattutto Nietzsche, Aśvaghoṣa, Kierkegaard, Dostoevskij, Eminescu, Paul Tillich, Šestov, Nāgārjuna, Candrakīrti… Vorrei affrontare ora alcuni aspetti legati alla sua intenzione, o meglio, al suo desiderio di preparare un dottorato a Parigi. È noto che lei sia venuto qui per perfezionarsi in filosofia. Cosa è successo? Perché è fallito questo progetto? Ho fallito in tutto ciò che desideravo realizzare. Io stesso sono un fallimento dell’esistenza, sono un aborto dell’esistenza. Mi ero proposto, a dire il vero, di approfondire il concetto di tempo, conosciuto e interpretato dall’intenzione e non da esercizi specifici dell’intelletto e dell’istinto. Parigi però mi ha catturato nelle reti del fallimento, gettandomi negli abissi della mia inferiorità, conducendomi a uno stato di precarietà che si è rivelato fallimentare; tuttavia, come una rivincita, ha provocato in me un grande desiderio di definire me stesso, attraverso la disillusione e la noia. Qui, ho imparato che Parigi rende la sofferenza più raffinata, mentre Monaco o Dresda o qualsiasi altra città tedesca, costringono a pensare politicamente. Diventando uno scettico patetico, nella più controversa metropoli del mondo, non mi sono lasciato guidare da nessuno, nemmeno da Dio, che ho sabotato, ogni qualvolta ne ho avuto l’occasione. E non creda che non sia stato invidiato per la mia

413

Ultimatum all’esistenza

posizione di parigino clandestino. Sono diventato probabilmente l’impresario della sofferenza corrosiva ed esplosiva, sublime e incurabile. Signor Cioran, se fosse rimasto in Romania, sicuramente sarebbe stato imprigionato come gli altri intellettuali di spicco, i suoi scritti sarebbero stati censurati, poi modificati, avrebbe rinnegato le esperienze della sua gioventù, avrebbe osannato il nuovo regime. È d’accordo sul fatto che Parigi abbia costituito per lei la sua salvezza e la sua gloria? Se solo penso a Noica, lei ha assolutamente ragione. Con i nervi distrutti, da quando avevo 17 anni, non avrei resistito. Sicuramente mi sarei suicidato. Avrei ceduto alla prima disperazione di questo genere, poiché non sono fatto per la lotta, per accanirmi contro l’esistenza. Privo del vigore degli antichi, debilitato attraverso le generazioni, ansioso fin dall’infanzia, avrei posto fine ai miei giorni. Mi ha turbato con questa domanda, lo riconosco. Non volevo, le assicuro. E perché non è diventato un uomo di scienza, come Eliade, ad esempio? Non sono mai stato un tipo organizzato nell’ambito delle speculazioni intellettuali, non sono mai stato abituato all’esercizio dell’interpretazione e della meditazione che consumano la brama della dispersione e del mistero. Non sarei mai arrivato all’essenza e in più non avevo pazienza, motivo per cui mi sono dedicato alla frammentarietà. E ora, a quest’età, mi manca il fiato e il ritmo della coerenza. Ero e rimango un mediocre della vasta costruzione, mi perdo in drammi interiori insignificanti, che non interessano nessuno. Eliade si propose all’epoca di creare un’opera; l’ha sognata, ha lavorato duramente per realizzarla. Io, in cambio, mi sono lamentato tutto il tempo, ho radiografato le lacrime e ho imbalsamato le disperazioni, entrando in contraddizioni irrisolvibili con l’esistenza in generale e con la mia propria vita. Mi considero realizzato nei simulacri delle infelicità. Sul piano intellettuale,

414

Intervista con Ion Deaconescu

non ho avuto competenze per riuscire in un certo campo, ad esempio in filosofia. È vero che sono stato tentato dalla filosofia, già a Sibiu dove ho divorato molti libri, ma non è stato sufficiente. La filosofia ti prepara solo alla morte, ti conforta, tutto qui. Guardi la fine di Socrate. Che felicità essere ingenui! No, mi sarei perso anche in filosofia. Allora, in cosa ha eccelso? Nella teoria della negazione e dell’infelicità. Ho una certa esperienza. Non mi baserei su argomenti, su considerazioni libresche, ma sulla mia propria esistenza, resa orribile da così tanti fallimenti e cose irrealizzate. L’infelicità ha avuto la propria fonte nel mio corpo, nei pensieri e nei sentimenti travagliati per molto tempo. Da quello che so, all’inizio non era convinto di stabilirsi a Parigi. Perché poi ha scelto questa soluzione? Se avessi trovato un lavoro nel mio Paese, un qualsiasi impiego, sarei ritornato. Si sono però create delle circostanze avverse, in primo luogo la guerra. Quindi, la disperazione dei miei conoscenti e amici. In virtù di queste circostanze, ho deciso di non lasciare la Francia. È stato terribile. A volte ho oscillato innocentemente. Tra un presente vissuto in modo disinvolto – fatto di eccessi e prospettive di impotenza e di disgusto –, tra le passeggiate in bicicletta in provincia e la biblioteca della Sorbona, ho scelto la prima ipotesi. È più facile fino ai trent’anni emanciparsi attraverso l’euforia. Com’era Parigi negli anni Trenta e Quaranta? Nel 1935 vivevo presso un amico, Bucur Ţincu, che veniva dalla Germania, in rue Lhomond 2 e Parigi mi appariva straordinaria. Con un fascino speciale, donne belle ed eleganti, bistrot, una vita notturna eccitante e perversa. Dopo il ’37, iniziarono a manifestarsi le difficoltà.

415

Ultimatum all’esistenza

Pagavo 360 franchi al mese per una camera d’albergo, riscaldata però, ma la corrispondenza era censurata e i romeni qui non facevano nulla per te, solo i soliti pettegolezzi. Ogni qual volta ne avevo l’occasione, partivo per la provincia, la Bretagna o l’Alsazia, al fine di dissolvere i miei dubbi e la mia noia. Per quanto riguarda il cibo, ad esempio, nel 1940, se ben ricordo, in una mensa studentesca si pagava intorno ai 25 franchi. Ho saputo che, a partire dal 1940, ha preso lezioni di inglese da una vecchia e folle donna inglese, come lei stesso ha detto una volta. Perché l’inglese? Volevo leggere Shakespeare in originale. In più, invidiavo a Bucarest alcuni amici per il modo in cui parlavano l’inglese. L’inglese era la lingua di un Impero, come lo spagnolo o il portoghese e poi in inglese la poesia ha una sonorità eccezionale. Per esempio la poesia di Emily Dickinson. Evidentemente, Parigi, insieme a Sibiu e a Dresda, fa parte della splendida geografia della sua anima. Insisto nel chiederle: perché l’ha affascinata così tanto questa metropoli? Perché mi ha trasformato, forse in maniera definitiva, in un fallito; è una città in cui il prestigio riveste un ruolo capitale. Amo Parigi, provocandola. Ti affascina fino alla decadenza, con la sua frivolezza e il cosmopolitismo banale, distrugge il tuo essere e il tuo spirito. A 35 anni, scrisse ai suoi genitori che era stato preso dalla disperazione, poiché si invecchia irrimediabilmente, sia a Parigi sia a Sibiu, lamentando che, in caso di ritorno in patria, sarebbe diventato insegnante, un lavoro noioso e stupido, come lo ha sempre definito. In altre parole, nel 1946, pensava di ritornare in Romania. Perché poi non lo ha fatto?

416

Intervista con Ion Deaconescu

Nel maggio 1946, ottenni una borsa di studio di sei mesi, quasi 3000 franchi e pensai di ritornare a casa. Mio zio e mia zia erano morti e dalle lettere che ricevevo dalla mia famiglia avvertivo che avevano bisogno di me. Un amico, un medico romeno, mi fece però riflettere sul fatto che la situazione in Romania si sarebbe complicata presto e che sicuramente avrei avuto problemi con le autorità. Un giorno incontrai la principessa Cantacuzino che mi disse la stessa cosa. Così ci ripensai e capii, inoltre, che avevo fatto bene a non andare. Perché non aderì alle azioni e alle manifestazioni dei romeni a Parigi? Lo spettacolo della comunità romena è stato sempre deprimente, non ha fatto nulla per il Paese, a differenza dei russi, dei polacchi, degli ebrei. Sono stati e sono tuttora portatori di cattive notizie. Con alcune eccezioni: Ionescu, più recentemente Astaloş, alcuni medici e pittori, per il resto… A proposito, ha conosciuto Brâncuși? No, ho evitato di incontrarlo. Un tempo, ero geloso di lui. Ora, ripeto, credo che ci saremmo capiti. Era ricco, famoso, corteggiato da tutti, amato dalle donne più belle. Era un genio. Ionel Jianu mi ha raccontato molto di lui. La persona che ha goduto dell’attenzione dello scultore è stata una pittrice romena, Natalia Dumitrescu, moglie di Istrati, anche lui una specie di pittore. Mi dica, sinceramente, visto che la signora Simone non ci ascolta, si è innamorato a Parigi? [Ride]. Solo delle donne di strada, quelle che lavoravano dopo la mezzanotte, e di quelle disperate, sull’orlo del suicidio. Mi piacevano però le giovani di provincia, incontrate durante i miei viaggi in bicicletta. Non ricordo altro.

417

Ultimatum all’esistenza

Le chiedo ora del suo debutto parigino. Come ha accolto i primi echi riguardo al Sommario di decomposizione? Allora, mi interessavano due cose: guadagnare e farmi un nome. Ora mi pento profondamente di quella frivolezza letteraria. Mi sconcerta l’insolenza con cui mi preoccupavo di quanto avessi venduto e di ciò che i giornali scrivevano su di me. Lei ha ottenuto il premio Rivarol, quindi il suo valore è stato riconosciuto. Ricordiamo che hanno detto “sì” a questo premio nomi come André Maurois, André Gide, Jules Supervielle, Jules Romains, Jean Paulhan. Hanno commesso tutti un errore. Li ho fuorviati, dicendo loro verità già note. L’arroganza e il cinismo dell’autore del libro li hanno impressionati, poiché erano abituati alla scrittura accademica, accurata e dogmatica, priva di provocazioni scioccanti. Sospetto che lei sia troppo modesto. Niente affatto. Non dimentichi che all’epoca erano in voga Camus, Gide, Sartre, Colette. Come un intruso, con una frivolezza smisurata, ho denunciato una realtà truccata e incompetente nella sua essenza, artificiosa e perversa. Credo di averli sconvolti e che mi abbiano dato una medaglia per tapparmi la bocca. Tutto qui. Ha confessato che, già in gioventù, quando era a Sibiu, aveva un solo pensiero: lasciare la Romania. Ed è arrivato qui, a Parigi, la sola città, secondo quanto lei ha sempre detto, in cui vale la pena di fallire nella vita. Rimpiange, ora, questa scelta? È fallita la sua esistenza? Di Parigi mi piaceva il modo in cui le persone passeggiavano, l’aria che si respirava negli alberghi, lo spettacolo offerto dalle prostitute, la rivelazione della speranza di diventare importante, i pensieri degli

418

Intervista con Ion Deaconescu

aspiranti suicidi, l’ampio orizzonte di desideri e fallimenti. Parigi è un peccato e un frutto del Creatore. La mia vita è stata qui, ironia del destino, quasi un errore indecente. So che non si può vivere scrivendo. Mi riferisco a quello che resta dopo la morte, sopravvivi solo con gesti fatali. Se mi fossi gettato nella Senna, come hanno fatto Celan e molti altri, il mondo avrebbe ricordato subito il mio nome. Anche nella catastrofe è necessario il rigore e lo stile. La mia vita è stata triste, perché mi sono sfinito nella perenne ricerca del compromesso. Noica le fece notare che c’era il rischio di effeminarsi in una Parigi che vi avrebbe addomesticato attraverso l’espressione e la letteratura, mentre lui, in Romania, in piena deroga all’Essere, aveva la possibilità di “trattare” una corrente così estranea a quella parigina. Non aveva affatto ragione. Vivere e scrivere a Parigi è sempre stato un calvario che ho vissuto spesso come una possibilità per salvarmi da solo, senza l’aiuto di nessuno, essendo un partigiano dell’infelicità, di cui ho abusato e che mi ha annientato. Riconosco però che Parigi mi ha sedotto, ha scatenato in me l’orgoglio e l’arroganza del non divenire qualcuno. Si saprà forse un giorno quante volte ho desiderato fuggire da Parigi, ritirarmi in una caverna o in un deserto, abbandonare tutto e compromettermi definitivamente? La rinuncia, come il suicidio, rappresenta il segno di un decadimento raffinato e soddisfacente. La sazietà ti converte, non è fatta per le parole, ma solo per i gesti capitali. Per terminare l’argomento “Parigi”, le chiedo: ha trovato il suo Dio nella capitale francese? Sin dalla gioventù la parola Dio mi ha spinto in un delirio reazionario. Mi sono distaccato da Lui, in tutti questi anni, volgarizzandolo, per poi alla fine umanizzarlo. Alcuni dicono che sono diventato un denigratore del cielo attraverso le gravi lacerazioni derivanti dal non credere in Lui. Ambizioso nelle mie sofferenze e nei miei fallimenti, forse con la

419

Ultimatum all’esistenza

mia indifferenza l’ho umiliato. Riconosco di essere un cinico scatenato, proprio quando sento il bisogno di disonorarlo. Forse è una nevrosi che si affronta con una divinità spesse volte equivoca e fallimentare. Quindi, non crede affatto in Dio? Vorrei si comprendesse che sono giunto a una vera e propria convinzione per quanto riguarda la dissoluzione della fede e dell’eccessiva religiosità: quella tenebrosa, patologica, ossessiva e deprimente. Signor Cioran, esistono in questa disputa con Dio, da parte sua, tradimenti e concessioni, ma anche una dose di ipocrisia. La prego di non arrabbiarsi se le paleso queste costatazioni personali. No, Dio non ha mai provocato il mio spirito. Non è diventato interessante in nessun momento della mia vita. Ho solo percepito la sua eccentricità. Mi creda, non è mai stato presente nei tormenti e nelle meditazioni delle quali ho sofferto, anche a Sibiu. In una lettera inviata ai suoi genitori lei ha scritto: «Non dovreste abbattervi. Avete fede in Dio, ovvero, l’unica vera consolazione esistente sotto il sole, ritengo siate abbastanza corazzati per sopportare qualsiasi disgrazia. Il gran dramma della vita è la mancanza di fede… Fino ad un certo punto è il dramma della mia vita, sebbene, in fondo, non sia così incredulo come sembro». È scioccante, vero? Ho scritto una cosa del genere? Non ricordo, forse è successo quando hanno arrestato Relu. È stata una tragedia per i miei genitori. Mia madre ha sofferto molto. Quindi sarei dovuto passare dalla parte di Dio. La paura di perdere mio fratello mi ha spinto ad atti scismatici, all’incoscienza e al tradimento. Il bisogno di allontanarmi da Dio, però, non mi ha abbandonato neanche quando, per validi motivi, ho accettato la sua deludente vicinanza.

420

Intervista con Ion Deaconescu

Deduco che lei sia rimasto eretico per tutta la vita, che ha reso infelice Dio attraverso una coerente e straordinariamente articolata aritmetica del disgusto e di una orgogliosa lucidità. Ho detto, anche in altre occasioni, che Dio è contagioso, ma non riposa in nessuno. Crea solo l’illusione dell’eternità in chi è accecato dalla fede. In me, Dio ha sicuramente fallito, essendo solo mistero e fascino a buon mercato. Perché ha nascosto la sua esistenza con tanta perseveranza e non ha risposto ai desideri di gloria? Essere straniero a Parigi è un’avventura drammatica, un’ulteriore vanità. Qui la tua vita non interessa a nessuno, si limita a fallimenti e suicidi. Diventi famoso solo attraverso gesti radicali. Un salto nella Senna, una corda legata al collo, una pallottola in testa, possono, a volte, renderti celebre. Ho capito abbastanza presto che bisogna considerarsi, al di là delle circostanze, inadatti alla perfezione. Per questo motivo, la mia vita mi ha ridotto in frantumi, senza ragione, e sarebbe stato indecente se gli altri lo avessero compreso. Probabilmente è stato boicottato, talvolta anche da alcuni colleghi? Penso a quello che è successo a Vintilă Horia quando gli è stato conferito il premio Goncourt per il romanzo Dio è nato in esilio. Sono stato sempre disgustato dal mondo letterario. Detesto le bande di scrittori, i premi che si danno l’un l’altro. Mi sono allontanato, consapevolmente, dalla maggior parte degli scrittori. Con qualche eccezione, ovviamente. Perché non ha ricevuto la cittadinanza francese? Per quanto ne sappia, lei è apolide.

421

Ultimatum all’esistenza

A cosa mi sarebbe servita la cittadinanza francese? Sarei comunque rimasto un esiliato nel labirinto della mia solitudine. Perché non ritorna in Romania, magari per un breve periodo? Per due ragioni: per paura e perché non ho un passaporto. Paura? L’incontro con i miei luoghi d’infanzia potrebbe essermi fatale. Non è possibile fallire così, sono invecchiato e non ho più la forza di affrontare i miei ricordi. Per quanto riguarda il documento d’identità non ne ho nessuno e non vedo come poter ottenere qualcosa del genere dalla Romania. Credo sarebbe illegale. Non le manca suo fratello Aurel? Certo, ma temo che il fatto di rivederlo potrebbe trasformarsi in una tristezza essenziale. Saremmo due impostori in un bellissimo e comune ricordo. Lei è un “caso” speciale. Ha rinunciato alla lingua romena, lingua in cui ha scritto alcuni libri importanti, in favore del francese, rimanendo estremamente coerente in questa importante decisione. Quali sono state le ragioni di questo percorso? Riconosce che è un’impresa imporsi in un’altra cultura? È davvero un’impresa, per me era una scommessa. In Romania c’era l’aristocrazia greca e tutti sapevano parlare perfettamente il francese. Quindi il francese non era una lingua straniera, ma lo era per me. Io conoscevo meglio il tedesco. Soprattutto perché in Romania avevo letto molto in questa lingua. In francese, anche oggi, alla mia età, si tratta di un’iniziazione continua. Evito il romeno perché è un pericolo per me, il pericolo del ritorno. Quando si cambia lingua, bisogna modificare radi-

422

Intervista con Ion Deaconescu

calmente mentalità e spirito. È come una specie di rottura. Per quanto mi riguarda, è molto difficile, poiché il romeno è una lingua ricca ed espressiva, una lingua molto più poetica del francese. Ecco perché scrivo in francese, dimenticando il romeno. In generale, scrivo in francese in un modo particolare, esso è fondamentalmente un romeno in francese. Penso inoltre che sia molto importante in quale momento della vita si decida di cambiare lingua. A vent’anni è perfetto. A ventiquattro, quando l’ho fatto io, era già tardi… soprattutto dopo aver scritto cinque libri in romeno. Ho fatto uno sforzo terribile. Durante la guerra, qui in Francia, ho imparato due cose: l’inglese e il romeno. In quel periodo ho letto tutto quello che potevo trovare in romeno, specialmente la Bibbia, per perfezionarmi in questa lingua. Che poi ho abbandonato in favore del francese. Quando ho iniziato a scrivere in questa lingua ho dovuto rinunciare anche al mio passato. Solo attraverso sforzi seri e continui è arrivato a una padronanza del francese carica di sfumature e virtù stilistiche. Sì. Ciascuno dei miei libri è stato riscritto almeno tre volte. La prima volta, realizzo una specie di bozza. Il Sommario di decomposizione, ad esempio, l’ho riscritto quattro volte. Tutti i miei libri in francese sono stati scritti almeno tre volte. In maniera unanime, la sua scrittura è considerata precisa, sintetica e iscritta in un discorso perfetto. Questo è possibile solo perché riscrivo sempre il testo. Poiché non mi fido del mio francese. Ho bisogno di rifare, riscrivere. Ho imparato continuamente, è qualcosa che appartiene alla mia struttura transilvana. E allo stesso tempo per il complesso che i miei genitori non conoscevano il francese. Forse sapevano dire solo “Bonjour”.

423

Ultimatum all’esistenza

Credo che anche l’istruzione ricevuta in Romania, gli anni della scuola, abbiano contribuito alle sue “performance” parigine. Al liceo ero triste. Avevo un vecchio professore di francese che dormiva tutto il tempo. All’esame di maturità presi sei. Quando ho iniziato a scrivere in francese, sono partito dallo studio approfondito della grammatica. Ovviamente, leggevo in francese, ma era una lingua che non conoscevo bene. Questa sensazione mi ha segnato, soprattutto perché pensavo ancora in romeno quando ho scritto quei cinque libri. Quindi, sono partito dall’inizio. Non si può scrivere in una lingua se non si pensa in quella lingua. Questo è il problema e non si può pensare in quella lingua se non rinunci alla tua. È quello che ho fatto. Adesso è finita. Ho fatto questa scelta, ne pago le conseguenze. Ecco perché, finché scriverò in francese, non posso parlare in romeno. Non ci sono altri motivi. È il pericolo della lingua materna. Ci sono parole che non ho più pronunciato in romeno da molti anni. Il cervello ha bisogno di ritornare alle origini. È un processo complesso di ritorno verso il punto di partenza, poiché ci sono parole che ho pronunciato l’ultima volta a Răşinari. Per questi motivi, trovo estremamente difficile, quasi impossibile, ritornare a com’ero 50 anni fa. Ora, dopo tanti anni di isolamento parigino, come le sembra la lingua romena? Eminescu, uno dei più grandi poeti al mondo, rappresenta l’esempio più tipico del dramma della nostra poesia, poiché la lingua romena, essendo una delle più grandi lingue della poesia, è tuttavia intraducibile. Per questo motivo la poesia romena non è stata tradotta e non è riconosciuto il suo vero valore. È una lingua estremamente ricca ed espressiva, una lingua poetica che ha permesso alla poesia romena di ottenere un grande valore in tutte le epoche. Si può parlare di una tragedia di Eminescu. Come tradurre in francese, ad esempio, Lucea­fărul o Ce te legeni? La lingua di Eminescu, con le sue influenze popolari,

424

Intervista con Ion Deaconescu

non può essere tradotta ed è un grande peccato, una grave perdita per la letteratura romena. Credo che la più grande sfortuna della Romania sia quella di avere una lingua estremamente poetica. È assurdo tradurre “Luceafărul”, non è possibile, si correrebbe il rischio di modificare il testo, e non sarebbe più Eminescu. Come tradurre Barbu, Bacovia e soprattutto Arghezi, la cui poesia è pervasa da sentimenti profondi, espressi in una lingua particolarmente ricca ed espressiva? I prosatori hanno maggiori possibilità. Un prosatore può essere tradotto in francese, il poeta invece è condannato. Noi non abbiamo avuto grandi romanzieri all’altezza dei poeti, se avessimo avuto scrittori in prosa del loro valore, allora la letteratura romena avrebbe raggiunto tutt’altra dimensione. La lingua romena è enormemente poetica, ma difficilmente traducibile proprio per la sua ricchezza ed espressività, mentre la lingua francese è una lingua giuridica, più che altro per i contratti, utile nei saggi e nelle conversazioni, poiché possiede un’esattezza e una chiarezza consapevole. È impossibile andare in chiesa e ascoltare il Vangelo in francese; suona grottesco. Una volta io stesso ho scritto che non si può immaginare Gesù che parla in francese. La Bibbia in romeno, tutto l’ufficio religioso, in particolare il servizio funebre, quando ci si riferisce alla vita terrena del defunto, è qualcosa di straordinario. So che lei è stato chiamato con insistenza dagli organi militari romeni per ritornare in patria nell’esercito, essendo la Romania in guerra, al fianco dei tedeschi. È stato un grande problema per me. Il nostro ambasciatore a Parigi, il colonnello Gorgoveanu, abitava nello stesso hotel in cui si trovava il comandante tedesco e, per tutto il tempo, mi ha minacciato di farmi giudicare dal tribunale militare se non fossi tornato in Romania, nell’esercito. Infastidito dalla sua insistenza, un giorno gli dissi che, se non mi avesse lasciato in pace, o mi sarei suicidato o avrei scritto sui giornali che mi sarei tolto la vita a causa sua. Credo di averlo impressionato visto che mi ha lasciato in pace.

425

Ultimatum all’esistenza

Perché non è ritornato in Romania dopo la guerra? Inizialmente, non avevo intenzione di stabilirmi in modo definitivo in Francia. La guerra è stata la causa della decisione di restare a Parigi. Mi resi conto che la Romania avrebbe impiegato oltre vent’anni per riprendersi dal disastro causato dalla guerra. Se Pătrăşcanu non fosse stato ucciso, io e Eliade saremmo ritornati in patria. Pătrăşcanu era un intellettuale molto fine. Mi colpì la sua uccisione da parte dei comunisti. Ebbi come la visione della perdita della guerra da parte della Romania, ma non credevo che la cosa si sarebbe complicata in modo così disastroso. Consegno a Emil Cioran una copia di «Secolul 20» e il libro di Paul Valéry, Poezii. Dialoguri. Poetica şi estetica [Poesie. Dialoghi, poetica e stile, ndt], edizione a cura e prefazione di Ştefan Augustin Doinaş. Gli piace molto questa pubblicazione e mi dice che Michaux sarebbe stato entusiasta di essere pubblicato su questa rivista, considerata la migliore d’Europa. Mi chiede di porgere a Doinaş tutta la sua stima per questo eccellente lavoro. Mi propone di inviare la pubblicazione a tutti i giornali e le riviste in Francia e alle ambasciate francesi nel mondo. A suo avviso, bisognerebbe organizzare un’esposizione di libri francesi apparsi in Romania presso il Centro Pompidou. Egli stesso potrebbe parlare con la direttrice di questo Istituto, poiché secondo lui è necessario far sapere che i romeni conoscono tantissimo della cultura francese. Perché crede di essere l’interprete più importante e sottile della lingua francese, cioè uno stilista colmo di gloria? L’essere considerato così dai francesi è un’ingiustizia che mi è stata fatta. È inammissibile essere presi alla leggera a casa loro. Sono solo un commediante della scrittura, talvolta serio, quando le parole mi danno un ultimatum. Siamo realistici! Il mio peccato è stato quello di aver scritto in questa lingua, esasperatamente solenne, equilibrata e straordinariamente prodigiosa. Io sono solo un suo scrivano.

426

Intervista con Ion Deaconescu

Perché ha rifiutato i premi letterari? Anche lei ha detto che, se si cerca di essere liberi, si muore di fame. Il premio, l’onore, la gloria, rappresentano solo un artificio? Una sola volta ho accettato un premio. Anzi no, due volte. La prima con Al culmine della disperazione, concesso dal “Comitato per la premiazione dei giovani scrittori inediti”. Poi, ho accettato, addirittura con innocenza e spudoratezza, il premio Rivarol per il Sommario di decomposizione. È una vergogna ricevere premi. Proprio in questi giorni, le è stato proposto il premio Paul Morand dall’Accademia di Francia. Lo ha rifiutato, naturalmente. Non crede che, a volte, la coerenza possa condurre al fallimento? In fondo, non sono nemmeno francese e il premio dovrebbe essere assegnato a un giovane. I premi qui hanno una specie di mondanità, di gerarchie letterarie, ma soprattutto un certo tipo di spettacolo. A Eliade piacevano le distinzioni e le ricompense, era felicissimo quando fu eletto membro di non so quale accademia o associazione. A me ripugna. È umiliante per lo spirito essere ingannato da glorie banali. Non cresci quando si riceve un premio, ma si diviene sospetti, tanto agli occhi degli amici che dei nemici. Ho sentito che, alla fine, la tentazione di essere ingannato con il premio Nobel per la letteratura, era solo un esempio delle più grandi sterilità sui sogni degli scrittori. È vero che ha rifiutato il Nobel, nel suo stile ormai inconfondibile? Sono solo un teatrante della testardaggine. Forse fa parte della mia natura transilvana. È una volgarità che ti riconoscano così tante persone. Sono un pigro della mia stessa condizione. Non voglio uscirne. Questa situazione mi si addice. Sarebbe stato un tradimento del mio stesso essere.

427

Ultimatum all’esistenza

Ora, alla sua età, bestemmia ancora Dio? È stanco di prenderlo in giro e costringerlo ad ascoltarla? Io ho stancato Dio, non Lui me. Non ho mai voluto essere al suo servizio. Se l’avessi fatto, avrei perso l’iniziativa e la libertà. È ingiusto credere che Dio sia al di sopra degli uomini. Senza di loro sarebbe solo impotente. Non avrebbe alcun destino. Nel rapporto con Lui, l’uomo dovrebbe essere più orgoglioso, in quanto è l’essere che determina la bilancia della sorte. Troppo pigro ed egoista, Dio non mi ha mai impressionato, sempre annoiato, aspetta troppo a lungo la nostra preghiera. Secondo me è al tramonto. Se non si corrompe, non avrà alcuna possibilità. Come può corrompersi? Divenendo più umano. Si riabiliterebbe agli occhi dei bisognosi, saturi di mistero e di illusioni tradite. Perché, monopolizzando tutte le nostre paure e le nostre viltà, diventa uno stigma per la salvezza di ciascuno di noi. Se fosse disoccupato, forse Dio imparerebbe qualcosa delle diserzioni e dei sogni infranti dell’uomo. Lei in cosa crede di più? Nella disperazione di ogni giorno. Se non disperassi, non vivrei. Mi perfeziono continuamente nell’infelicità. È il mio unico scopo. Non esagera, in un certo senso, con le sofferenze e la solitudine per sopportarle più facilmente? Si può forse parlare di una sintomatologia personale, addirittura prospera, di adattamento alla disperazione, di gloriosa caduta nella sofferenza? Sono stato e sono rimasto, nonostante alcuni sforzi terribili, un dilettante della rivolta e della disobbedienza verso Dio. Avrei voluto organizzare il caos provocato dall’amore eccessivo per Lui per fare in

428

Intervista con Ion Deaconescu

modo che gli altri, superficiali e ridicoli nella loro fede, lo bestemmiassero con stile, per sabotarne l’orizzonte e l’eternità. Riconosco di non essere stato sufficientemente vigile nel mio conflitto con la Divinità; al di fuori della musica, nemmeno Dio ha più importanza per me. Anche io sarei arrivato a Lui, se non fossi stato obbligato a prostituirmi attraverso la fede. L’eccesso di religiosità porta sempre a grandi delusioni. Eppure, una volta ha affermato di aver iniziato con Dio. Esatto. Per noia e viltà. Forse anche per rispetto di mio padre, come sa, uomo di chiesa e servitore di Dio. All’epoca ero un impostore, benché solo mentalmente mi sono offerto a Lui, in realtà, ne ho minato in modo permanente l’autorità. Ho dovuto soffrire enormemente per estinguere dalla mia imbecillità ogni sua impronta. Mi sono lasciato ingannare per vendicarmi in seguito, combattendolo per tutta la vita. Ero un suo seguace, l’ho servito, ma Lui ha cercato di asservirmi attraverso l’impostura e promesse irrealizzabili. Per fortuna, mi sono destato in tempo. Sa, Dio non ha pazienza, non si ripaga con sacrificio e prontezza. Non è sincero nelle sue affermazioni e non ha carattere. Dio è quel Creatore unico, l’Infinito, l’Assoluto, la Materia, Energia e Spirito? Sia Dio che noi manchiamo di coerenza. È un gioco d’amore. Dio è creatore di dubbi, della “tentazione di esistere”. Solo per esistere. Siamo grati di essere vivi. Dio non è assoluto, il soggetto assoluto è solo l’uomo. Una volta ho scritto di queste cose. Le opere più importanti di Dio sono la paura, la lode, l’implorazione, la vanità. Attraverso ciò, Dio si è perso nell’uomo. È come il vino nei nostri momenti di disastro. Una tossina dell’Essere. Tutto qui. In alcune lettere, quando lei era in patria, Noica le rimproverava che la sua sofferenza non era perfetta, che era caduto in un “luogo comune”, ma

429

Ultimatum all’esistenza

riconosceva che lei avesse tante risorse nella vita per trasfigurare qualsiasi esperienza. A cosa si riferiva Noica? Molte volte Noica mi ha detto che avrei dovuto avere metodo e misura nelle mie sofferenze e nelle mie sventure. Mi rimproverava anche il fatto che dibattevo su cose troppo vere e che rischiavo, a un certo punto, di non avere altro da scrivere. Inoltre, Noica era un uomo raffinato, bohémien, non dava fastidio a nessuno. Era sempre piacevole e interessante. Non accettava la mia ostinazione, la tensione che mi avvolgeva nella scrittura. Noica mi ha impressionato con il suo stile sottile, colto, col suo bisogno di avere amici. È stato un pensatore affascinante e corrosivo allo stesso tempo. Sono propenso a credere che il suo amico avvertisse quell’impellente bisogno di prolungare la sua infelicità nella scrittura, forse per non aver avuto amici fedeli. Probabilmente ha ragione. Le sofferenze si moltiplicano a volte con consapevolezza, con premeditazione, per impressionare ed essere compatiti. Più si soffre, più si parla di sé; più si è conosciuti, mai si è contestati. Mi piaceva essere contestato, aizzare gli animi, al rovescio. Un ricordo delirante che, in qualche modo, mi ha colpito. Leggendo i suoi libri sono arrivato alla conclusione che lei nutra una grande fiducia nella musica e nella poesia. Sono convinto che se avesse scritto poesie, sarebbe stato un grande poeta. Ho già affrontato quest’argomento in precedenza e, per dimostrare la mia affermazione, un giorno trasporrò in forma di poesia alcuni dei suoi testi. Rischierei però persino una scoperta: le parole l’hanno ferita, le hanno fatto molto male, ha sofferto dentro di loro e per questo, attraverso di loro si è costantemente ribellato. Sia contro Dio, sia contro tutto ciò che non fosse musica o poesia. Credo di aver amato le parole fino a esserne diventato schiavo, es-

430

Intervista con Ion Deaconescu

sendo pronto a morire anche per una virgola. E tutto ciò perché non conosco ancora molto bene il francese. Per quanto riguarda la poesia, esiste sicuramente una poesia della sofferenza, dell’infelicità, del fallimento. Amo tale poesia. La musica mi ha sempre appassionato. Offre l’illusione della speranza, del disprezzo, del nulla. Quando riuscirà a sentirsi riscattato? Quanto prima. Dopo così tante provocazioni, arriverà il tempo di pagare il conto. È l’unica sensazione che attesta l’esistenza. Dopo una cura di blasfemia, vivrò senza passato. Il futuro è semplicemente demoniaco. Di cosa ha ancora paura? Credo che la paura le abbia dato comunque le vertigini, almeno una volta. Ho paura di quelli che riusciranno a dimostrare di aver ragione. Le argomentazioni condannano al terrore. Le piacevano le donne? Solo quelle molto intelligenti, pronte in qualsiasi momento a rifiutare l’amore in favore della meditazione. Dopotutto, un altro tipo d’impostura. Infedeltà per la lucidità. Nell’arte, così come in amore, i tormenti trasformano il creatore in vittima. Spogliarsi di fronte agli altri significa nobilitare l’esistenza. Voglio dire, essere superiore a Dio. Cosa le dice il nome Lise Roboau? Un’amica della mia gioventù parigina. Un’apparente soluzione alle mie inquietudini epilettiche. [Ride]. Sono curioso di ascoltare che stupidaggini mi scriveva.

431

Ultimatum all’esistenza

«J’ai soif de vos yeux, de votre bouche, de votre corps. Vous êtes mon seul, mon unique ami» [Ho sete dei tuoi occhi, della tua bocca, del tuo corpo. Tu sei il mio solo, il mio unico amico, ndt]. Grottesco. La gioventù è uno stato deplorevole, funesto, come l’amore stesso. Rovina la vitalità. Ho altre lettere e sono convinto che lei non sia stato un santo. Al contrario, si è consumato in tanti turbamenti dell’anima, provocati da esseri che hanno idealizzato gli anni della sua gioventù. Penso, soprattutto, a Sorana Ţopa. Le sue lettere sono uniche. Quasi grida nate dalla febbre della meditazione interrogativa. È una sciocchezza. Quest’abbaglio è sparito per sempre. Non ho intenzione di fare un pellegrinaggio in quegli anni. Tutto è fallimento e stupidità. Un’esperienza che si è dimostrata sterile e fallimentare. Cosa rimprovera a sé stesso? Esiste qualcosa nella sua vita di cui si vergogna? Rimprovero a me stesso molte pagine della Trasfigurazione della Romania. Rimprovero a me stesso il fatto che alcuni amici della mia gioventù hanno sofferto più di me. Sono stati in carcere, alcuni sono addirittura morti, mentre io ho vissuto così tanto, uno spreco delle nostre aspirazioni. Un’anomalia. Noica, ad esempio, quasi un santo. Io invece, uomo orgoglioso, in esilio per principio. Non è normale. È una contraddizione che non mi fa bene. La vita non mi tenta più, non ho guadagnato nulla dall’essere vivo, dal vivere all’ombra della Torre Eiffel. Quasi una tragedia. Non può capire questa contraddizione. L’ambizione, a volte, non cede di fronte alla modestia. Sono disgustato. Le confesso onestamente che alcune sue affermazioni rispetto alla Romania e al suo futuro mi hanno turbato. Qualche esempio: «…il passato della

432

Intervista con Ion Deaconescu

Romania è tempo senza storia»1, «La Romania è al livello di Maglavit»2, «La Romania è la terra degli uomini attenuati, degli uomini che, invece di finire nella follia, finiscono nell’impotenza»3, «Chi non vede in modo apocalittico il futuro della Romania è un timoroso, o uno sciocco. Senza grandi colpi di scena, il passato mi sembra sinistro, il presente disgustoso e il futuro orribile»4. Anche ora pensa lo stesso della Romania? I romeni sono privi di volontà, che fanno del non lavoro un emblema speciale, uno stile esistenziale. Siamo i più ospitali, i più coraggiosi, i più intelligenti, ci accontentiamo del destino e del non far niente. Non siamo cambiati affatto. Soprattutto, oggi, abbiamo bisogno di gesti radicali, di follia, di lotta contro l’autocompiacimento, dello scontro feroce con noi stessi. Come disse una volta, è assolutamente necessario che evapori l’acqua dal sangue romeno. Esatto. Eppure, cosa dovremmo fare affinché la Romania non cada fuori dal tempo, al crocevia ora di un millennio? Smettere di essere parassiti di glorie desuete. Non parlare più di ideali, ma edificare la storia della nostra stessa identità. Sarebbe opportuno sacrificare noi stessi in nome di un futuro che non è necessariamente legato al tragico e a una semplice aritmetica delle disillusioni. E ancora una cosa importante: chiarire la questione degli ebrei durante E. Cioran, Schimbarea la față a României, Editura Humanitas, Bucureşti, 1990, p. 49. Id., Maglavitul şi cealaltă Românie, in Opere, vol. 2, Ediţie îngrijită de Marin Diaconu, Introducere de E. Simion, Academia Română, Fundaţia Naţională pentru Ştiinţă şi Artă, Bucureşti, 2012, p. 590. 3 Id., Ţara oamenilor atenuaţi, in ivi, p. 435. 4 Id., România subterană, in ivi, p. 632. 1 2

433

Ultimatum all’esistenza

la seconda guerra mondiale. È tempo di dire, senza mezzi termini, che non siamo stati barbari; che abbiamo aiutato gli ebrei a non essere sterminati. Dovremmo scrivere libri, contattare coloro che ci diffamano su tale argomento. Gli ebrei devono conoscere tutta la verità, non chiediamo altro, soltanto che venga riconosciuta la verità. È necessario comprendere l’esatta posizione della Romania negli anni Trenta-Quaranta, al fine di riscattarci. In caso contrario, saremo sempre colpevolizzati, con effetti devastanti. È una questione di competenza, giusto? Certo. Non dobbiamo diventare anemici con cose insignificanti, poco interessanti e a volte comode. Dobbiamo trasfigurare ciò che dobbiamo ancora compiere. Senza concessioni e tradimenti, poiché non si può costruire nulla senza negazione. Ci sarebbe anche un’altra cosa. Dobbiamo fare tutto il possibile per diminuire l’orgoglio smisurato degli ungheresi di popolo civilizzato, rispetto a noi. Non è bene essere nemici degli ungheresi o dei serbi. Gli ungheresi sono maestri nella propaganda. La loro emigrazione è potente, unita e ricca. Specialmente quella verso l’America. Sanno anche sfruttare la bellezza delle ungheresi. [Ride]. Hanno organizzato una manifestazione qui a Parigi. Con film, libri e conferenze. Si è bevuto tokaji gratuitamente, migliaia di litri, serviti da ungheresi con gonne corte un palmo e stivaletti rossi. Sanno cosa vogliono. Ha scritto in modo terribile sugli ungheresi. I suoi sentimenti possono essere altrimenti decodificati, ora? Li stimo per la loro tenacia e la loro coerenza. Non mi piace però la presunzione baronale e i trucchetti da amministratori dei tribunali austriaci. Ha detto, qualche anno fa, che il futuro apparterrà alla periferia del globo. La Romania, che è in qualche modo periferica da un punto di vista

434

Intervista con Ion Deaconescu

geografico e, perché no, anche politico, beneficerà mai un giorno di un futuro diverso? Davanti a noi si apre già un vuoto che, se non sapremo colmare con le sofferenze di Giobbe, si trasformerà in un buco nero catastrofico. Il popolo romeno ha il virus della pazienza e l’orgoglio della gloria di altri tempi. Affascina con il suo eccesso di ogni tipo. So già cosa accadrà, ma temo il pregiudizio del divenire. «Questa folla di antenati che si lamentano nel mio sangue...»5, afferma in Sillogismi dell’amarezza. È ancora attuale tale constatazione? Assolutamente. Soprattutto ora che sogno sempre più spesso i luoghi della mia infanzia. Quindi, è ossessionato dalla terra e dalla lingua romena, nonostante tutti questi anni di separazione? In effetti, scrivendo in francese, sento di aver tradito la lingua romena in maniera quasi criminale, una lingua generosa nelle sfumature, nell’intimità e nei dettagli. Mi vergogno di aver avuto, più volte nella vita, la voluttà del tradimento. Sarebbe stato molto più interessante aver sofferto ed essermi annoiato nella mia lingua. Sono stato un disertore del mio destino. Senza diventare profetico, cosa succederà alla nostra Europa, sapendo che l’America, il Giappone, i Paesi asiatici sono diventanti concorrenti, essendo molto ricchi? È un problema. Il francese ha perso la competizione con l’inglese. I francesi si sono stancati di essere il centro culturale del mondo. Hanno 5

Id., Sillogismi dell’amarezza, tr. it. di C. Rognoni, Adelphi, Milano, 1993, p. 120.

435

Ultimatum all’esistenza

perso la fama e la gloria del popolo più tollerante. Il mondo può respirare ora senza la Francia, cosa che una volta non era possibile. Tuttavia… l’America ha l’intelligenza del profitto, del denaro. La Cina non è mai stata una finzione e sarà un vero pericolo nel senso dell’eccesso di pazienza e di lavoro. Il Giappone non dimenticherà mai Hiroshima. Possiede l’istinto della vendetta. Se la Germania rinuncerà all’orgoglio e al brivido del potere, visto che il marco tedesco provoca profondi tremori e si alleerà con la Francia, allora l’Europa non sarà la più grande provincia del mondo. Non ha detto nulla sulla Russia. La Russia ha sempre dato l’impressione di un insieme di Gubernija [province, ndt], con ubriaconi e villani, e la forza dei Paesi illuminati e aggressivi. Espressione grandiosa di Dostoevskij e di Tolstoj. Non bisogna dimenticare i russi, soprattutto perché sono i nostri vicini. Inevitabilmente senti il loro respiro che odora di vodka e tabacco, polvere da sparo e sudore di cazacioc [tipico ballo russo, ndt]. Sono i beneficiari di un drammatico antagonismo. Sono stati a lungo un’ossessione per molti. Compreso gli americani. Ma mi piace credere che Stalin e Lenin, questo dualismo schematico e disastroso, diventeranno nomi superati, nella loro stessa irrazionalità parossistica e tragica. Quando ritornerà a Răşinari, Sibiu, Braşov, Bucarest? Non lo so. Il comunismo ci ha allontanato tanto dagli altri. Anche da me stesso: inutile e provocatore, ha prosciugato interiormente. Potrei dirle di aver lasciato la Romania una sola volta, che è stata soltanto un’assenza passeggera, momentanea e insignificante. Il mio luogo è tra l’essere e l’essere (sic!), tra due finzioni inesplicabili, in tensione e spesso insopportabili. Un’ultima domanda. È felice?

436

Intervista con Ion Deaconescu

Con certezza, no. Sono stato e sono un semplice testimone della nostra caduta. Un suo glossatore. Si potrebbe uscire bene dalla vita, approfittando dei suoi disastri profondi e, in questo caso, sarei felice. Le malattie sono un esempio negativo della vita. Vorrei essere sano quando avrò il privilegio, l’ultimo, di incontrare Dio per perseguitarlo un’ultima volta. La ringrazio e le auguro sinceramente che quest’incontro avvenga molto tardi. Ma la storia di Dio non mi entusiasma affatto, mi creda. Anche lei ha scritto che smettere di essere non significa nulla. Un simulacro di mistero. Tuttavia, dobbiamo essere ottimisti! Ha ragione. Una passeggiata attraverso il cimitero di Montparnasse o di Père-Lachaise sarebbe confortante per tutti noi.

437

LETTERE DI EMIL CIORAN A ION DEACONESCU*

1. Parigi, 1° settembre 1987 Caro Signor Deaconescu, la ringrazio per aver mandato il caffè a mio fratello. Avendo smarrito incautamente il suo indirizzo, mi sono rivolto a Petru Cârdu, che mi ha fornito solo quello dell’Università. La prima citazione sulla poesia deve essere preceduta da quella sul mare, altrimenti non si comprende a cosa si riferisca la parola “ondulazione”. Cordialmente Emil Cioran 2. Parigi, 5 febbraio 1988 Caro Signor Deaconescu, L’eco, soltanto l’eco. Grazie per questa poesia così immanente. Essa celebra proprio l’u* Traduzione italiana di Ionuț Marius Chelariu.

439

Ultimatum all’esistenza

nicità: non quella del momento che passa, sorta senza un domani, ma quella dove si dispiega l’eccezione eterna di qualsiasi cosa. Cioran 3. Parigi, 16 agosto 1988 Caro Signor Deaconescu, in riferimento all’intervista, la prego vivamente di non pubblicarla in Romania. Il motivo è molto semplice: i visitatori provenienti da laggiù potrebbero chiedermi un giorno anch’essi un’intervista. Sono stanco di parlare di me stesso. Cordialmente Emil Cioran 4. Parigi, 22 settembre 1988 Caro Signor Deaconescu, ho saputo che saranno pubblicati i miei testi tradotti da Modest Morariu; ci terrei tanto che fossero pubblicati soltanto quelli da lui tradotti. In una lettera, di cui non ricordo esattamente la data, avevo indicato di non pubblicare il libro con una prefazione, ma solo con le informazioni sui volumi da cui sono tratti i testi. Pertanto, la prego di comunicare alla casa editrice Cartea Românească queste mie richieste. Se fosse possibile, desidererei apportare io stesso le correzioni sulle bozze che verranno prodotte. Con affetto E. Cioran

440

Lettere di Emil Cioran a Ion Deaconescu

5. Parigi, 9 dicembre 1988 [Accordo] Io sottoscritto Emil Cioran, domiciliato a Parigi in rue de l’Odéon 21, desidero che i soldi per i diritti d’autore che mi spettano, a seguito della pubblicazione del mio libro Eseuri (Manual de descompunere și alte eseuri), siano devoluti a mio fratello Aurel Cioran, domiciliato a Sibiu, in Strada Dealului, 40. Esprimo lo stesso desiderio anche per le future edizioni di questo libro. E. Cioran

441

INTERVISTA CON HEINZ-NORBERT JOCKS*

Cosa ha significato per lei il periodo vissuto in Romania? La Romania è stata per me un paradiso terrestre, la perfezione di tutto, anche se piena di schiavi. Come viveva da ragazzo? Tornavo a casa solo per mangiare, per il resto trascorrevo il tempo sempre fuori, all’aperto, vivevo in maniera molto semplice. Metà del villaggio viveva in montagna, sui Carpazi. Io ero amico dei pastori, che mi piacevano molto. Rappresentavano per me un altro mondo, al di là della civiltà. Forse perché vivevano in un paese di nessuno, sempre di buon umore, come se ogni giorno fosse un giorno di festa. A guardar loro, gli albori dell’umanità non devono essere stati così male. Come e quando finì questo? Nel 1920, quando a dieci anni dovetti andare al liceo a Sibiu e pertanto dovetti lasciare il mio villaggio. Non dimenticherò mai tale cata* Traduzione italiana di Alessandra Granito.

443

Ultimatum all’esistenza

strofe, tale tragedia: la disperazione vissuta quel giorno. Sembrava la fine. Non c’erano ancora automobili e perciò un contadino condusse me e mio padre lì, col suo cavallo. L’esperienza primitiva vissuta laggiù mi sembrava l’unica possibile. Quel che conta è la preistoria, il momento antecedente la presa di coscienza e l’inizio della storia, la vita incosciente. L’umanità doveva rimanere ciò che era, perché la storia non è nient’altro che un errore. La coscienza è il peccato originale, e l’uomo un’avventura senza uguali. È una considerazione religiosa? Io non sono ateo, non credo in Dio né prego. Eppure, esiste in me una dimensione religiosa indefinibile, al di là della fede. Il credente si identifica con Dio, cosa che posso comprendere, ma io mi sento fuori da tutto ciò. Mi muovo al confine. Condivido la grande idea del peccato originale, ma non nel modo in cui è ufficialmente considerata. Sia la storia che l’uomo, piaccia o no, sono il prodotto di una catastrofe. L’idea di una deviazione dell’uomo è essenziale per comprendere lo sviluppo della storia. In tal senso, l’uomo è colpevole, anche se non in termini morali, perché si è fatto coinvolgere in quest’avventura. Quando lasciai il mio villaggio, cessai di essere un primitivo. Prima di allora appartenevo al creato, come gli animali, con cui ero in diretta relazione; ora mi trovavo al di fuori, a distanza. Lei si è confrontato con i santi, con la “creazione fallita”, e ha avuto dei guai. Sì, mia madre era presidente delle donne di religione ortodossa di Sibiu e mio padre un prete molto bravo, soprattutto un uomo integro, ma non profondamente religioso; in realtà voleva diventare avvocato. Fu molto dispiaciuto quando nel 1937 lesse il testo di Lacrime e santi, ultimato poco prima del mio trasferimento a Parigi. Quando inviai il manoscritto al mio editore romeno, questi mi chiamò un mese dopo

444

Intervista con Heinz-Norbert Jocks

per dirmi che non poteva stamparlo. Non lo aveva nemmeno letto, ma lo aveva fatto il suo tipografo e disse che doveva la sua fortuna all’aiuto di Dio e che pertanto non avrebbe mai potuto pubblicare un libro del genere, per nulla al mondo. In procinto di partire per Parigi, disperato, mi chiesi cosa avrei potuto fare. È stato allora che incontrai un tale, un romeno, che aveva partecipato alla Rivoluzione in Russia e che aveva conosciuto Lenin. Egli mi chiese cosa mi fosse accaduto. Gli raccontai la mia storia e venne fuori che possedeva una tipografia. Così il libro uscì senza casa editrice, poco dopo il mio trasferimento a Parigi. Qualche mese più tardi ricevetti una lettera da mia madre che mi comunicava quanto il libro l’avesse resa infelice. Sebbene non fosse religiosa, mi pregò di ritirare il libro, a causa delle pressioni che stava subendo. Le risposi che era l’unico scritto religioso mai apparso nei Balcani, perché rappresentava un confronto balcanico con Dio. Quasi tutti i miei amici reagirono male, soprattutto Mircea Eliade, il quale scrisse una critica straordinaria, mentre una giovane ragazza, che conoscevo, mi disse che era il libro più triste che fosse mai stato scritto. Il libro poi sparì e in edizione tedesca ne sono stati pubblicati soltanto stralci. Come può vedere, è stata ovviamente un’esperienza religiosa fallita. Mi ero così immerso nelle vite dei santi, che sarei addirittura dovuto cadere in preghiera. Ma per questo mi mancava il talento, anche se mi sentivo attratto dai grandi mistici. La fede, tuttavia, non è mai il risultato di un pensiero, ma qualcosa di più complesso. Il religioso può essere stupido, ma si radica in profondità. Era inevitabile che dopo questo periodo di veglia continua mi occupassi di religione. Questo libro era una specie di prova benefica del fatto che non avrei avuto un destino religioso, un tentativo fallito. Dalla sua opera emerge un elogio della vita primitiva. Deve sapere che, nel villaggio romeno in cui vivevo, avevamo un orto accanto al cimitero. Fu così che da bambino divenni amico di un becchino che aveva circa cinquant’anni. Quando scavava le tombe,

445

Ultimatum all’esistenza

dava libero sfogo alla sua natura gioiosa, giocando a calcio coi teschi. Mi sono sempre chiesto come potesse essere ogni giorno così soddisfatto di vivere. Quanto a me, non ero come Amleto, non sufficientemente tragico. In seguito la nostra amicizia, molto intima, conobbe una svolta, era diventata un problema. Mi chiedevo perché nella vita dovessimo esperire tutto questo. Solo per finire cadaveri? Ad ogni modo, sono stato fortemente influenzato da queste riflessioni. Quest’uomo – che ogni giorno si confrontava con la morte – si comportava come se non avesse mai visto un morto. Gli volevo veramente molto bene. Dio mio, rideva sempre. La morte è un argomento a cui lei è rimasto fedele. Certo, mi sento al di là della vita. Una posizione che genera un altro livello di intensità. Anche se molto giovane, ho convissuto con la morte. Anche se ora ho molte più ragioni per pensarci, la morte non è più un’idea fissa. In gioventù, l’idea della morte era un’ossessione che mi prendeva giorno e notte. In quanto nocciolo duro della realtà, possedeva una presenza formidabile, staccata da ogni influenza letteraria. Tutto ruotava intorno ad essa, al di là del senso di nausea o di paura, seppur in modo patologico. Naturalmente questo derivava anche dal fatto che per più di sette anni della mia gioventù non ho dormito, ero spossato dall’insonnia. In questo periodo, scrissi Al culmine della disperazione. L’insonnia cambiò la mia prospettiva, il mio atteggiamento verso il mondo. Ben peggiore è stata la mia condizione a Sibiu, quando vivevo con i miei genitori. Di notte vagavo senza meta per la città. Mia madre piangeva disperata e io, che avevo appena compiuto ventuno anni, ero sul punto di suicidarmi. Perché non lo abbia fatto, rimane per me ancora oggi un mistero. È probabile che con la scrittura abbia allontanato da me la voglia del suicidio. Non avevo alcuna idea di cosa fosse la mia vita. È cambiata la sua opinione sulla morte?

446

Intervista con Heinz-Norbert Jocks

Non si può cambiare la propria opinione sulla morte. Essa è, di per sé, un problema: il problema dell’esistenza. Tutto il resto, a confronto, risulta irrilevante. Stranamente, ci sono molti che non conoscono il sentimento della morte, perché non vogliono o non possono pensare alla morte. Quelli che comprendono cosa voglia dire la morte sono una minoranza. Agli altri manca il coraggio, perfino i filosofi eludono il problema. Certamente la morte è un argomento nella storia della filosofia, ma non in quanto esperienza. Per Baudelaire, la morte esiste, per Sartre no. I filosofi hanno fuggito la morte facendone un problema, invece di esperirla come qualcosa di esistente. Per loro non vale come un assoluto; diversamente dai poeti. Essi sono penetrati più a fondo nel fenomeno, l’hanno sentito. A mio avviso, un poeta senza il sentimento della morte non è un grande poeta. Suona un po’ esagerato, ma è così. La vecchiaia… È la mia sconfitta. Con l’età le contraddizioni si indeboliscono sempre di più. Esse non sono superate, ma non si dispone più della forza vitale per usarle a proprio vantaggio, e questa è più o meno la fine. Si è ridotti, semplificati. Io lo sopporto. Non possiamo farci nulla. Da qualche tempo ho preso anche la decisione di non scrivere più e ho smesso di imprecare contro l’universo. L’imprecazione, in un certo senso, aveva una funzione vitale perché… …essa liberava energia vitale. Il fatto che io non abbia più voglia di imprecare contro l’universo o di ingiuriarlo non ha nulla di misterioso o di enigmatico, ma ciò è solamente dovuto all’età. Succede solo che perdiamo il desiderio di combattere più a lungo con alcuni problemi. Stranamente, continuo a leggere. Ho sempre letto molto, ma non tocco più opere filosofiche, piuttosto diari, lettere e biografie. È una sorta di passività. È molto interessante vedere come si svolge un destino e vedere come qualcuno finisce. Tutta la vita è eccitante, anche le vite

447

Ultimatum all’esistenza

spezzate. Nella mia giovinezza ho sempre avuto, più di adesso, amici un po’ disturbati, che volevo aiutare, spinto da una passione per le esistenze fallite. Ho avuto amici di grande talento e molto colti, che nella loro vita non hanno fatto nulla. Volevano scrivere, ma non hanno fatto assolutamente nulla, una specialità romena. Anche a Parigi conosco persone di questo tipo, di grande originalità, che sono rimaste sconosciute. Penso sempre a due miei amici. Uno, molto intelligente e talentuoso, era un ubriacone che aveva sempre intenzione di scrivere la mattina successiva, ma il giorno dopo era ancora più ubriaco. Mi ricordo un’estate a Sibiu, quando avevo casa libera e lui venne da me. Verso le 4 del mattino, felicemente ubriaco, improvvisamente aprì la finestra dicendo: «Dio mio, perdonami di essere romeno». Era una sorta di genio inerte. Con l’altro, anche lui di un’intelligenza fuori dal comune, si poteva discutere per ore. Su di lui volevo scrivere un libro. Quando l’ho conosciuto, era comunista, poi è diventato anticomunista. Se fosse rimasto comunista, sarebbe divenuto ministro, invece è finito in prigione per più di dieci anni. Lì gli consigliarono di attaccarmi, ma egli rispose che non poteva, perché avevo promesso di scrivere su di lui. Immagini: un uomo di grande talento che non poteva scrivere. È stata questa la sua tragedia. Sfortunatamente, non c’era nessuno ad annotare quello che diceva. Avrebbe voluto vivere come lui? No, non volevo fallire così. Da parte mia non c’era nessuna invidia. Cosa l’ha attratta dell’aforisma? L’aforisma è l’unico mezzo in cui è possibile abbandonarsi all’umore. Se lei scrive un testo, un trattato ad esempio, è costretto a sviluppare una linea di pensiero, non può fare diversamente. Qualsiasi deviazione termina in maniera catastrofica, perché lei non ha alcun diritto di contraddirsi. L’aforisma, invece, è la forma ideale per chi non è padrone di

448

Intervista con Heinz-Norbert Jocks

sé e dipende dai propri stati d’animo. Quando scrive un libro, deve padroneggiare tutto, come un signore. A me, che sono di temperamento lunatico, l’aforisma offre la possibilità di essere sincero con me stesso e di dare espressione al mio umore senza chiedermi se quel che scrivo si accordi con ciò che ho affermato una settimana o un anno prima. Non si pretende che ci sia qualcosa di assoluto. Non c’è continuità, ma solo situazioni e contorni contraddittori. Io mi chiedo anche perché dovrei costruire un sistema di pensiero. Uno è sempre, assolutamente, ciò che scrive. Domani forse potrei pensare il contrario di quello che penso oggi. Ciò che è assoluto è lo stato d’animo. Le contraddizioni che entrano in un libro sono il riflesso di me stesso, non un’invenzione. Fondamentalmente, tutto ciò che ha a che fare con le emozioni è vero. A questo non si adatta alcun sistema. Il contesto non è importante, anche quello professorale. In merito ai suoi amici, apprendiamo alcuni elementi biografici dai saggi contenuti in Esercizi di ammirazione. Per ciò che riguarda i ritratti, le confesso la verità. Me li hanno richiesti, non ho potuto rifiutare. Tuttavia ho scritto su Beckett con piacere, non su Gabriel Marcel, quello è stato piuttosto un obbligo. Mio Dio, non potevo fare altro. In Beckett, cosa c’era di diverso? È un uomo interessante, che ha qualcosa di religioso. Sono trascorsi più di vent’anni da quando l’ho incontrato la prima volta, probabilmente presso un conoscente. Avevamo un amico in comune. A volte ci incontravamo in un ristorante, oppure mi invitava lui. Mi piaceva che, sebbene avesse trascorso una vita intera qui, sembrava fosse appena arrivato in Francia. Non aveva assolutamente nulla di quella certa spigolosità, tipica dei parigini. Amavo in lui questo lato non francese. Inoltre, sospettavo che trovasse gli inglesi volgari.

449

Ultimatum all’esistenza

C’era una vicinanza di pensiero? Questo non si può dire, perché per temperamento siamo molto diversi. A me interessava l’opera nel suo insieme. Egli è una sorta di contemporaneo, che non agisce come tale. Era sempre sé stesso, non è mai stato un essere nella storia. Ciò non ha nulla a che fare con l’egoismo. Era molto gentile e disponibile come persona, aveva amici, ma non era necessario per lui e in fondo non gli importava. In realtà, non aveva bisogno di nessuno. Che cosa le è piaciuto della sua opera? Che non necessitava di eroi, che metteva in scena un tipo insolito e così presentava un’altra umanità. La sua opera – compresi i romanzi, il cui futuro non è prevedibile – non è pertanto legata al tempo. È l’opera straordinaria di un tipo straordinario. Il fenomeno della noia la affascinava. L’esperienza della noia, non la noia volgare per mancanza di compagnia, ma la noia assoluta, è molto importante. Quando ci si sente abbandonati dai propri amici, quello è niente. La vera noia esiste senza motivo, senza cause esterne. Ad essa è connessa la sensazione del tempo vuoto, qualcosa di simile alla vacuità, una cosa che conosco da sempre. Ricordo bene la prima volta, a cinque anni. Allora non ero a Sibiu, ma nell’antica Romania [Moldavia e Valacchia] con tutta la mia famiglia. Lì, per la prima volta, feci esperienza della noia. Erano circa le tre del pomeriggio, quando provai un senso di vuoto, di mancanza assoluta di sostanza. Fu come se, all’improvviso, tutto fosse svanito. Quello fu il modello di tutti gli attacchi di noia, l’ingresso nel nulla e l’inizio della mia riflessione filosofica. Tale stato intenso di solitudine mi colpì in modo così profondo che mi chiesi cosa ciò volesse realmente significare. L’incapacità di opporvi resistenza, di liberarmi da esso attraverso la

450

Intervista con Heinz-Norbert Jocks

riflessione, e il presentimento che sarebbe tornato altre volte, una volta sperimentato, tutto ciò mi ha dato insicurezza, e ho finito per accettarlo come punto di riferimento. Al culmine della noia si sperimenta il senso del Nulla e pertanto non si tratta di una condizione deprimente, dal momento che, per una persona non credente, rappresenta la possibilità di vivere l’assoluto, qualcosa come l’istante ultimo. Quanto era vicino all’esistenzialismo, a un Sartre con la sua teoria della noia? Sartre non mi colpiva particolarmente; più importanti sono stati i russi come Tolstoj o Dostoevskij. Frequentava i circoli esistenzialisti? No, ma li vedevo spesso. In inverno – a Parigi non c’era il riscaldamento – ogni mattina alle otto andavo al Café Flore e molto spesso, quasi ogni giorno, Sartre era seduto accanto a me. Per me era come essere in ufficio, dove leggevo senza il desiderio di parlare con il mio vicino, anche perché a me non interessava la sua opera. Inoltre, ero del tutto sconosciuto, non ero nessuno, mentre Sartre era già una celebrità. Ho visto Camus solo una volta. Egli commise un grave errore. Lavorava come lettore presso Gallimard e aveva letto il mio primo libro scritto in francese, Sommario di decomposizione, approvandone anche la pubblicazione. Sa cosa mi disse quando una volta andai a cercarlo alla casa editrice? «Bene, ciò che ha scritto è molto bello, ma adesso deve entrare nel campo delle idee». Sono cose che si dicono a un esordiente che ha appena iniziato a scrivere, non a uno come me, che in gioventù aveva letto un’intera biblioteca. Da quell’istante con lui avevo chiuso. Era troppo ingenuo. Lo salutai quasi senza dire una parola. Avrebbe dovuto notare che non era il mio primo libro, dato che avevo già pubblicato parecchi libri in romeno. Non ero arrabbiato con lui; ho quasi riso. Probabilmente non lo sapeva. Posso capirlo. Inoltre ero uno straniero.

451

Ultimatum all’esistenza

Che cosa ha sperimentato nell’insonnia? Che non c’è alcuna differenza tra le otto del mattino e le otto di sera. Sentivo che il sonno è qualcosa di straordinario, dato che con ogni giorno inizia una nuova vita. La tragedia dell’insonnia consiste nell’impossibilità di dimenticare il tempo. Tutto è cosciente. La coscienza si rivela come una fatalità, come un inferno. Solo l’interruzione attraverso il sonno consente la vita. L’unica cosa che costringe i grandi criminali a confessare i loro delitti è la privazione del sonno. Questo spezza la loro volontà. Anche l’amore è impossibile senza dormire, perché è un’illusione inconscia. Per chi non dorme è tutto diverso: egli prova, come un esiliato dalla vita quotidiana, la sensazione di non appartenere all’umanità. Non ho superato completamente l’insonnia, se non come malattia, e ciò è avvenuto a Parigi. Lì, nel 1938, incontrai sul boulevard Saint-Germain un conoscente romeno il quale, poiché voleva lasciare la Francia, mi vendette la sua bicicletta. Nei mesi successivi ho attraversato varie volte il Paese in bicicletta. Prima per un mese intero, un’altra volta per due mesi, circa 100 km al giorno. Questo mi ha salvato. Nessuna medicina al mondo mi ha aiutato, se non il girovagare. Per anni ho vagato di notte fino a quando un poliziotto mi consigliò di stare attento e di smettere di passeggiare perché era pericoloso. Questa fu una sfortuna per me. Anche se ora dormo un po’ meglio, mi manca stare in giro di notte. La sensazione che tutti dormano innesca l’idea di essere l’unico sopravvissuto dell’umanità. Crea un certo grado di soddisfazione il fatto che tutti siano in uno stato di incoscienza, eccetto sé stessi. Sono stati anni di ossessioni. L’hotel chiudeva verso mezzanotte. Dalle chiavi, che erano ancora appese alla bacheca della reception, si vedeva chi non era ancora rientrato. Era un’idea ossessiva essere l’ultimo a tornare, e così lasciavo di nuovo l’albergo quando constatavo che non tutte le chiavi erano state ritirate. C’erano situazioni grottesche. Ad esempio, di notte, qualche volta incontravo una prostituta, un’ex-attrice, con cui intrattenevo piccole conversazioni, su ogni cosa. Ridevamo molto. Ma un giorno scomparve, il che mi sorprese. Una volta l’ho citata in uno dei

452

Intervista con Heinz-Norbert Jocks

miei libri. Quando la incontravo alle tre del mattino, lungo il desolato boulevard Saint-Germain, lei imprecava contro i presenti, gridava che erano delle nullità, degli idioti addormentati, e intanto indicava verso il cielo – una persona incredibile. Durante quelle notti, l’unica cosa viva era la sveglia, talmente la solitudine pervadeva tutto. Come sono le sue giornate oggi? La mia vita è diventata un po’ una cosa stupida. È la tragedia di chi è diventato un po’ conosciuto. Ogni giorno ricevo cinque lettere. Mi inviano manoscritti, ma raramente vado oltre le prime frasi. I miei occhi sono troppo stanchi per leggere romanzi. Questo è il lato negativo della vecchiaia, dell’essere più calmi.

453

INTERVISTA CON FRED BACKUS (II)*

L’anno scorso, Emil Cioran ha pubblicato Sillogismi dell’amarezza, tradotto [in Olanda, ndt] da Huug Kaleis, edito da De Arbeiderspers. Presso la stessa casa editrice, la prossima primavera apparirà Squartamento, nella traduzione di Rokus Hofstede. La rivista francese «Magazine Littéraire» di dicembre contiene un “dossier” di oltre venti pagine su di lui. Emil Cioran, il pensatore più pessimista di questo secolo, trascorre i suoi ultimi giorni in una casa di cura parigina. Prima di finire lì, si sfoga ancora una volta su musulmani, ebrei e cristiani, e sull’inutilità della vita. Nella zona in ombra di un giardino di una casa di cura nel centro di Parigi, un vecchietto stanco morto attende sotto un cappello, fissando il nulla. Sembra che non gli sia rimasto neanche più un briciolo di forza; parlare è impossibile, costa troppa aria. Solo i suoi occhi reagiscono alla vista del suo visitatore, alternando stupore euforico e ironica autocommiserazione. Se avesse la forza di parlare – anche solo per pochi secondi – esclamerebbe con un misto di aggressività, orgoglio e autocritica: «Ecco, è questa l’ironia!». Ora, esausto, intrappolato nella spietata etica dell’assistenza medica, circondato da un affettuoso dolore, è in grado di sussurrarmi solo: «Vous me devez supprimer…». Come una * Traduzione italiana di Riccardo Basile.

455

Ultimatum all’esistenza

supplica senza risposta alla sua compagna d’una vita Simone: «Fammi fuori!». Circa quattro anni fa, abbiamo parlato per l’ultima volta, quasi un’intera giornata. Molti dei suoi amici, conoscenti e spiriti affini erano appena morti: Michaux, Beckett… Qualche anno prima a volte passeggiava con loro nel Jardin du Luxembourg. Lui stesso, impensabile superstite che all’epoca aveva quasi ottant’anni, a ventidue si definiva «[…] l’essere più terribile che sia mai esistito nella storia, una bestia apocalittica traboccante di fiamme e di tenebre, di slanci e di disperazione»1. Chiunque approfondisca il suo lavoro si confronta con questa distruttività e disperazione in un modo che riesce a spaventare e inorridire i lettori, spesso spingendoli a voler gettare la sua opera nelle fiamme: «Tutto questo è vero, ma non voglio saperne nulla!». Chi è quest’uomo? È forse il più grande, il più aggressivo pessimista della storia? È forse un fanatico isterico senza alcun credo? Un mistico? Non si sa. Questo spirito ibrido, questo brillante stilista che nel suo radicale scetticismo salta da un estremo all’altro, è soprattutto un profeta dei “senza speranza”, un “voyeur del nulla” (Edward Said), un misantropo trasformato in fuoco energetico, che testimonia una sconcertante erudizione, che frantuma tutto come un cecchino assassino da cui nessun pensiero è al sicuro. La sua voce aveva già perso forza, a tratti sembrava affaticata. A volte la memoria lo abbandonava per un istante. «Com’è il suo hotel?», chiese. Io risposi: «Si trova tra le vetrine di negozi piene di Freud e Heidegger». «È incredibile tutto quest’interesse per Heidegger!», ribatté subito. «Sa, Heidegger non avrebbe mai potuto essere francese. Perché? Per via della lingua. Rivarol sottolineò che la probità, l’integrità della lingua, è un elemento tipico dello stile francese. È una sorta di sicurezza incorporata, che il tedesco non conosce. Il genio di Heidegger stava soprattutto 1 E. M. Cioran, Al culmine della disperazione, tr. it. di F. Del Fabbro e C. Fantechi, Adelphi, Milano, 1998, p. 68.

456

Intervista con Fred Backus (II)

nella sua potente creatività linguistica. La sua profondità era premeditata. Il suo pensiero era un preparato In-Tiefe-Machen, e questo porta a forzare il linguaggio, a evitare a tutti i costi le espressioni comuni». Non crede in Heidegger? No, assolutamente no! Heidegger è riuscito a voltare le spalle a tutto e a celare qualsiasi impasse usando le frasi più insolite, spesso irritanti, e Worterfinderei [inventando continuamente parole, ndt]. Una cosa del genere è impensabile in francese. Vaugelas, uno dei linguisti più importanti del XVII secolo, non avrebbe permesso nemmeno al re in persona di coniare nuovi termini. Non possiamo nemmeno immaginare come si sarebbe infuriato se fosse venuto a sapere della popolarità di Heidegger in Francia. Un filosofo straniero che crea innumerevoli parole nuove… È davvero assurdo! Lei scrive ancora? No, non più. Molte persone non vogliono crederci, ma… avrei potuto essere morto già da tempo, e non ha senso pensare ai libri che si sarebbe potuto scrivere. La maggior parte degli scrittori scrive troppo, e spesso poi devono correggersi. Non ha senso. Scrive ancora per sé stesso? Sì e no… Occasionalmente, ma senza convinzione. Sono cambiato interiormente e scrivere è comunque una sensazione. Non sono più io. Il mio lavoro è opera della negazione. Sono stanco di criticare la vita, di insultare il resto dell’universo. Non si sa mai, ovviamente, ma non credo che tornerò alla letteratura. Non ho mai scritto molto. Ciò ha a che fare non solo con le mie opinioni sulla professione di scrittore, ma anche con il problema della lingua. Avevo 37 anni quando ho iniziato a scrivere in francese. In realtà è troppo tardi. In Romania il francese era

457

Ultimatum all’esistenza

abbastanza comune, ma questo non è sufficiente per uno scrittore. Ho combattuto una terribile battaglia contro il francese. È stata un’avventura, un conflitto tra me e la lingua. Mi dissi: «Sottometterò questa lingua!». Pensai che avrei scritto uno o due libri, ma si sono rivelati dieci. Si aspettava di essere descritto come il miglior stilista francese? No, per niente. Non credo nemmeno che sia vero. Deve sapere che tutto quello che ho scritto l’ho riscritto almeno tre volte, e la differenza tra la prima, la seconda e la terza versione è sempre stata molto grande. La prima volta si è… soddisfatti. Solo più tardi le carenze diventano visibili. Ho sempre chiesto a Simone di leggere i miei testi, di sentirne il suono. Soprattutto all’inizio questo era molto importante. Si sente se qualcosa va bene o meno. La questione dello stile è molto problematica. È il problema della Klarheit. In gioventù leggevo molto il tedesco, ma volevo che il mio stile non avesse niente di tedesco, niente di pesante, niente di gründlich. Ho letto in «Libération» che lei era molto entusiasta degli sconvolgimenti in Romania. È stato terribile. Mi sono lasciato trasportare dalle opinioni di persone di cui mi fidavo e che mi hanno assicurato riguardo le buone intenzioni di Iliescu e dei suoi collaboratori. È l’ironia della sorte. Per tutta la vita ho rifiutato di concedere anche solo un’intervista a un giornale francese. Non ho mai voluto averci niente a che fare! Dopo la caduta di Ceaușescu, un giornalista mi chiamò e mi lasciai trascinare in un terribile errore, mi sono schierato dalla parte della rivoluzione. Che idiota! Forse perché si trattava della sua patria d’origine? No. La Romania non significa più nulla per me, sono stato via per oltre mezzo secolo. Inoltre, la mia infanzia in Romania è stata una tra-

458

Intervista con Fred Backus (II)

gedia senza fine. Mia madre piangeva sempre per me. Se non avessi lasciato la Romania, mi sarei suicidato. Parigi mi ha salvato. Avevo promesso di scrivere una tesi di dottorato qui. Non l’ho fatta, ma non mi sono mai sentito in colpa. I romeni, generalmente, non credono in nulla; è questo il loro unico merito, l’unica cosa positiva che hanno. Per scrivere una tesi di dottorato bisogna credere nel linguaggio filosofico, ed è un privilegio troppo grande per la vita. La vita non merita una profondità filosofica. Tradotto in un linguaggio comune, un testo filosofico si svuota molto rapidamente. Lei ha sempre diffidato dell’Europa dell’Est, soprattutto della Russia. Quest’impero che si sta sgretolando è ancora un pericolo? Credo sia stato l’ambasciatore dei Paesi Bassi a chiedere a Ivan il Terribile, attraverso un interprete, perché avesse perseguitato così tante persone facendole uccidere. Ivan rispose: «Dite a quest’idiota che se non sei tu a uccidere i russi, saranno loro a uccidere te». Questa è la tradizione della Russia, ed esiste ancora. Non crede che il processo di democratizzazione in Russia possa continuare? No, forse per un po’, con l’aiuto di capitali stranieri. I russi non hanno talento per la democrazia, per la libertà. Per loro la libertà deve avere un limite, e quindi non può che fallire. Il problema risiede nel sapere dove si trova quel limite. Ma non andrà bene, finirà di nuovo in dittatura. In Russia, come lei aveva previsto, la Chiesa ortodossa ha di nuovo un grande significato. Sì, questo potrebbe avere conseguenze sulle manie di grandezza della Russia. A tale proposito, siamo fortunati che anche loro debbano affrontare il problema dei musulmani. I russi sono un popolo molto

459

Ultimatum all’esistenza

religioso. È stato molto stupido cercare di distruggerla: la religione è un fattore positivo. Qualcuno che riesce a credere in Dio non è ancora finito, non è ancora esausto. Credo che neanche Gorbačëv l’abbia capito. Era, come dire, molto cinico, ma soprattutto non religioso. A mio avviso, questo spiega la sua impopolarità. Nei suoi libri, nella sua visione del mondo, il continente americano non ha alcun ruolo, come se fosse una superpotenza trascurabile. L’America non ha il problema dell’Europa. Il Paese non ha niente di grande. Francia e Inghilterra, in passato, sono state impressionanti. L’America no, non ha nulla di misterioso. È un Paese senza grandi sconfitte. Forse verranno, ma non mi affascinano, non come la Russia. Si considerano l’ultima potenza mondiale: senza gli americani non ci sarebbe stata la guerra del Golfo. Quella è stata una guerra anomala, sotto ogni aspetto. In realtà, non è stata una guerra ma una commedia. Solo l’America poteva farla in modo così stupido e compromettersi, senza alcuna consapevolezza della storia. Agli occhi degli arabi, gli americani sono solo degli stupidi ricchi. E hanno ragione. Le uniche persone intelligenti in America sono gli ebrei che controllano l’opinione pubblica, ma essi vengono costretti anche a fare politica. Se l’America non avesse vinto subito quella guerra, sarebbe stata una catastrofe. Temo che, in caso di ingenti perdite, il popolo americano sarebbe diventato molto antisemita e si sarebbe chiesto: «Perché abbiamo dovuto fare questo per Israele?». Perché non permettere a qualche avventuriero di sbarazzarsi di Saddam per un milione di dollari? Nessuno avrebbe dato la colpa all’America. Adesso hanno realizzato una vittoria militare, ma psicologicamente l’America ha perso. Che cosa intende dire?

460

Intervista con Fred Backus (II)

Il problema arabo esiste ancora, è una delle maggiori minacce per il futuro. Soprattutto per l’Europa. Gli arabi stanno già conquistando la Francia. Odiano i francesi. Si moltiplicano incredibilmente, è inevitabile da un punto di vista storico. Molti di loro già dicono: «Questo Paese è nostro!». Con affermazioni di questo tipo, lei rischia di essere definito un estremista di destra, un simpatizzante di Le Pen. Circa quindici anni fa ero amico della sorella del ministro degli Esteri. Le raccontai scioccato delle mie esperienze con tutti quegli stranieri nei dintorni di Parigi. «Sei un razzista!», mi disse, e non si fece più sentire. Fino a qualche anno fa, quando lo ha percepito anche lei. Ora lo notano tutti, questo [fenomeno] grottesco, ma ormai è troppo tardi. Circa un anno fa, si sarebbe potuto fare qualcosa al riguardo con misure rigorose. No, questo non ha nulla a che fare con il razzismo, è tutto molto più complicato. Fa tutto parte del suicidio dell’Europa innescato dal senso di colpa. Il tramonto dell’Occidente di Spengler è probabilmente un libro molto profetico. All’epoca era disprezzato, nessuno voleva crederci. Il mondo diventerà insopportabile, molto più velocemente di quanto si pensi, ne sono assolutamente convinto. Gli arabi rimarranno una minaccia anche per Israele? Senza dubbio. Ne La tentazione di esistere, del 1956, lei accenna al fatto che comunque non crede nel futuro di Israele. Lei definisce Israele solo una patria “provvisoria”. Sì, il destino degli ebrei è eccezionale e per di più inflessibile, con l’aiuto di compromessi. Gli ebrei sono l’unico popolo nella storia a non aver conosciuto la decadenza. Uno dei motivi è l’assenza di una patria.

461

Ultimatum all’esistenza

La patria è una specie di soporifero. Gli ebrei dovevano essere sempre vigili, ovunque si trovassero. Questo vale ancora. Il loro peregrinare per il mondo ha qualcosa di ultraterreno. Sono legati a questo mondo, ma in qualche modo non ne fanno parte. È incredibile quante civiltà abbiano attraversato, su quante abbiano lasciato il segno. Eppure, non ne fanno parte. La loro inclinazione per l’utopia è un ricordo proiettato nel futuro. Non credo sia possibile far tornare indietro la storia di duemila anni. Credo che il loro destino sia quello di tenere la testa contro il muro del pianto – mentre anelano al paradiso. Lei afferma che furono i primi a “colonizzare il cielo”, ma che allo stesso tempo la loro religione li riempie di orgoglio e di vergogna. Mettendo il loro Dio in cielo, hanno offuscato tutti gli altri dèi, tutti gli altri miti. Ma credo che gli ebrei siano stanchi del loro Dio. Nelle sue previsioni, lei va molto lontano. Lei prevede che un giorno essi si convertiranno al cristianesimo. Sa, questa è l’unica profezia di cui sono davvero orgoglioso. Cristo era un ebreo. Lo hanno tradito. Quando tutti avranno lasciato il cristianesimo, gli ebrei confesseranno, si approprieranno di Cristo e saranno di nuovo odiati e perseguitati, per questo motivo. Credo proprio che andrà così. Fin dalla sua giovinezza, lei ha attaccato il cristianesimo. In che modo le sue critiche differiscono da quelle di Nietzsche? La critica di Nietzsche era solo di carattere storico, quasi borghese. Io sono entrato in un confronto personale con il cristianesimo. Non sono mai stato un vero cristiano, anche se mio padre era un prete, ma volevo comunque liberarmi dal cristianesimo. Finché le forze me lo hanno permesso, ho continuato su questa strada. Per quattro volte ho

462

Intervista con Fred Backus (II)

provato un’estasi simile a quella dei grandi mistici. Ho cercato di capire i santi dall’interno. Ecco perché si può dire che sono andato oltre Nietzsche. La mia negazione è su un livello diverso dal suo. La sua filosofia è qualcosa di simile a una lettera erotica da parte di un fratello debole. Egli voleva avere influenza. Non io, assolutamente no. Ho solo descritto ciò che ho vissuto. Per il resto, non ho alcuna pretesa. Ha “provato” il buddhismo. Il buddhismo mi ha sempre affascinato, ma non fa per me. Sono troppo teso, troppo nervoso. Inoltre, non posso negarmi tutto. È un’illusione. In passato, quando tornavo a casa ubriaco, leggevo i sermoni del Buddha tutta la notte, ma non riuscivo a controllarmi come voleva lui. Non posso vivere senza sesso, senza sensualità. Una volta sono andato in un monastero… tre giorni, non ce la facevo più. Non ho il controllo della mia natura. Sono un buddhista che fa costantemente concessioni. Al giorno d’oggi, un buddhista con la televisione, vedo... Lei segue in TV le notizie dal mondo? A volte la guardo, il più delle volte no. L’ho ricevuta in regalo da un mio amico, io non comprerei mai una televisione. Bisogna essere aggiornati sui fatti ma, spiritualmente, non ritengo sia una bella cosa seguire i notiziari. È umiliante, deprimente, nel senso peggiore del termine. Per me non ha neanche quasi più senso, non sono più tra la gente. Finché ci sei, devi sapere un po’ cosa succede. Ma tutto questo bisogno di ultime notizie… È proprio come nel programma Apostrophe, ne ha parlato tutta la Francia. L’ultima novità letteraria è stata la notizia del giorno. Per un popolo con una tradizione letteraria, questo non va bene! Pivot, il presentatore del programma, mi ha invitato più volte, ma io ho sempre rifiutato. Non voglio dire in modo stupido se la televisione sia buona o meno. Ma ha qualcosa di poco raffinato, non mi piace.

463

Ultimatum all’esistenza

Sarebbe meglio se le persone non volessero essere sempre al corrente di tutto. Ma è inevitabile. Che depravazione! Crede in qualche cambiamento, in qualche progresso? Il progresso era una religione, ora non lo è più. Les progressistes… non ci credono più. Ci sarà un’altra fede, qualcosa cambierà. La storia avrà un ritmo diverso. L’essere umano è un’avventura che non può certo finire bene. Se non sarà così, allora sono l’ultimo degli idioti! Ai miei occhi, l’uomo è un animale depravato. L’uomo era un animale, ora non più. Non è più un animale, ma non è nemmeno “umano”. Non so cosa sia, almeno non una creatura tragica, il che sarebbe “troppo bello”. Un genio? Un criminale? Una bestia corrotta? Non lo so. Ma so che non ha futuro. Glielo metterò nero su bianco, se necessario. Le persone periranno. Vede ogni svolta negativa? …Tutto è depravazione. La moltiplicazione di quest’animale avrebbe ancora un senso se esso fosse una specie rara. Ma esso continua a riprodursi senza sosta, è incredibile, gente ovunque! E la vita perde il suo fascino. Ci si può ancora innamorare. Sì, ma ci si innamora all’inferno – e anche questo non durerà a lungo. Quest’animale negativo distrugge tutto. Non è la cultura, o non so cosa. È l’uomo stesso, e naturalmente… la scienza. Essa è responsabile nell’impedire che la gente muoia. Vada in un ospedale, è una catastrofe! Solo vecchi che non dovrebbero più vivere. Si prolunga una vita che non ha più senso. Il risultato è che i giovani non riescono più a trovare casa. Questo è il crimine dei medici. I risultati della scienza sono straordinari, ma hanno tutti un lato negativo: questa è la storia, questa è

464

Intervista con Fred Backus (II)

l’ironia universale. In linea di principio, tutto sembra positivo, ma se si guarda più in profondità… Diffidare di tutto è l’unico modo per non rendersi ridicoli. Non è sempre stato così? Certo. Ma la scienza ha peggiorato le cose. Quando si legge la Bibbia, si vede che tutto era corrotto fin dall’inizio, che quest’avventura impossibile era prevista, che non c’era altra via d’uscita. Il paradiso era impossibile, troppo poco interessante. Eppure ci sono persone che vivono ancora ragionevolmente felici e contenti. Sì, singoli individui. Il destino dell’umanità è indescrivibile. La gente lo sente. Ma sì, ci saranno sempre degli eccentrici. Ci sono persone che visitano un cimitero e tornano a casa fischiettando. Cosa fare in una situazione del genere, dove tutto è chiaro? Non scrive mai di vivere insieme a una donna. No, ha senso solo se è assolutamente negativo, altrimenti non funzionerà. È impossibile scrivere: «Sono così felice con mia moglie». È anti-letteratura. Va abbastanza male, spesso, al giorno d’oggi. Non funziona più. Il matrimonio era inevitabile finché la donna era dipendente. Era la sua salvezza. Oggi le donne lavorano in ufficio, questo è un male per un matrimonio. Per me, personalmente, la regola è stata: tutto tranne che sposarsi! Il matrimonio sarebbe stato un disastro per me. Dover guadagnare soldi, dover lavorare tutto il giorno per qualcun altro, per niente al mondo! Anche se vi fosse stata una grande

465

Ultimatum all’esistenza

passione. Non ci ho mai pensato. Il matrimonio è un’impresa pericolosa. Ne ho visti tanti finire in disastro. Eppure avete vissuto insieme per trentacinque anni. Ho capitolato. Devo ammettere che non posso vivere senza una donna. Ho vissuto come marito per trentacinque anni, ma senza essere sposato. Ho sempre pensato: «Se la vita può essere giustificata, allora lo è solo attraverso la libertà». Fortunatamente, anche Simone la pensa così. Stamattina ero sulla tomba di Beckett. Com’era durante i suoi ultimi mesi? Oh, non sono più andato a trovarlo. Era in pessime condizioni, malato da oltre due anni. Era... come dire? Nell’ultimo periodo, non era il Beckett che conoscevo. Si può dire: la sua non è stata certamente una vita fallita. Ciò che rispettavo moltissimo in lui era la sua “inqualificabilità”. Incredibile! Le persone avevano sempre l’impressione che fosse appena arrivato in città, anche se viveva qui da oltre mezzo secolo. Era davvero uno straniero. Non gli piacevano gli inglesi, ma lui stesso si comportava come tale. Era molto caloroso, per nulla influenzato da Parigi, mi piaceva molto. Non era un uomo socievole, ma sapeva essere molto gentile, aveva molto fascino. Cosa avrebbe pensato di tutta quest’attenzione postuma? L’avrebbe liquidata come qualcosa di grottesco. Non era l’uomo adatto. Era un grande scrittore. Tuttavia, temo che la gente dirà che era sopravvalutato. Ci ho pensato a lungo, e non posso dire esattamente perché, ma la gente penserà che era sopravvalutato, straordinariamente sopravvalutato. Lo dico con rammarico, siamo stati ottimi amici. Mi sosteneva finanziariamente, sua moglie ancora di più.

466

Intervista con Fred Backus (II)

Era gentile? Assolutamente no. Era insopportabile! Disprezzava tutti, non aveva amici. Erano tutti o poco interessanti o degli idioti. Ho sempre ammirato Beckett per il fatto che stesse con questa donna. Era un rapporto molto curioso. Si comportavano sempre come se non si conoscessero, insieme non andavano mai da nessuna parte. È difficile immaginare che due persone così incompatibili abbiano vissuto per così tanto tempo insieme. In seguito si separarono e vissero in due apparamenti distinti. Rue Casimir-Delavigne, rue Monsieur-le-Prince, camminiamo fino al Jardin du Luxembourg, la conversazione non si ferma. Cioran mi porta su un sentiero sulla destra. «Questo viale l’abbiamo ribattezzato “Allée Beckett” con alcuni amici, qui camminava sempre, qui non è mai stato disturbato». Poi ci salutiamo, come se niente fosse. Solo pochi anni dopo ci rivediamo, in un altro giardino, quello di una casa di cura. Un incontro senza parole; mani che si stringono, che non si lasciano andare. Simone legge da una pila di posta: «Questa lettera – dice – proviene da un lettore che vuole corrispondere sul francese in Joseph de Maistre in relazione a…», e così via. Cioran si acciglia e non fa capire a nessuno se abbia o meno sentito quel che è stato detto. Poi, in un sussurro, agitando la mano dice: «Pff, pas urgent!», e ridacchia, contagiosamente... «Pff, pas urgent!».

467

NOTA AI TESTI

L’intervista di Cioran con Jean Lessay (Petites réflexions pour personnes fatiguées) è stata trasmessa il 10 dicembre 1949 (5 min. 58 s.) dalla RDF (Radiodiffusion Française), nell’ambito del programma «Messages de France». L’intervista con Jean Amrouche (Des idées et des hommes) è stata trasmessa il 28 dicembre 1950 (21min. 21s.) dall’emittente radiofonica Programme National, diventata poi France Culture. L’intervista con Christian Bussy è stata realizzata a Parigi il 19 febbraio 1973 per l’emittente televisiva belga RTBF e trasmessa il 4 aprile 1973 (30 min.). Essa è apparsa (in estratto) con il titolo Le friand du pire, in «Le Nouvel Observateur», n. 1324 (22-28 marzo 1990), Paris, pp. 122-123. La nostra traduzione è stata fatta sulla trascrizione integrale dell’intervista, fornita in forma dattiloscritta da Christian Bussy al curatore. In edizione italiana è già apparsa con il titolo Vivere contro l’evidenza, a cura di A. Di Gennaro, tr. it. di M. Carloni, La scuola di Pitagora, Napoli, 2014. L’intervista con Leonhard Reinisch (Gespräch über Gestern und Morgen) è stata rilasciata a Parigi nella primavera del 1974 e trasmessa il

469

Ultimatum all’esistenza

10 agosto dello stesso anno dall’emittente pubblica radiofonica BR (Bayerischer Rundfunk, München). Una trascrizione di quella conversazione è stata in seguito pubblicata con il titolo Die Paradoxien des E. M. Cioran in «Merkur», n. 338, Heft 7, 30. Jahrgang (Juli 1976), Ernst Klett Verlag, Stuttgart, pp. 654-664, testo seguito per la presente traduzione. Essa è già apparsa in E. M. Cioran, I miei paradossi, a cura di A. Di Gennaro, tr. it. di A. Capasso e M. L. Pozzi, La scuola di Pitagora, Napoli, 2017. Gli originali delle lettere manoscritte di Cioran inviate a Leonhard Reinisch (17 giugno 1982 e 16 gennaio 1989) sono conservati presso l’Archivio storico della BR (Collezione NL/33). La lettera del 3 febbraio 1988 è apparsa invece nel libretto accluso al CD audio Cafard. Originaltonaufnahmen 1974-1990 (a cura di Thomas Knöfel e Klaus Sander, con una postfazione di Peter Sloterdijk), Supposé Verlag, Köln, 1998, pp. 89-90. L’intervista con Ben Amí Fihman è stata rilasciata a Parigi nel dicembre 1978 e pubblicata in estratto in «ECO. Revista de la Cultura de Occidente», n. 211 (05/1979), Bogotá, pp. 80-87 e successivamente in V. Piednoir, Histoire d’une transfiguration, Éditions Gaussen, Marseille, 2013, pp. 191-216. La nostra traduzione è stata fatta sulla trascrizione integrale dell’intervista, fornita da Ben Amí Fihman al curatore, tenendo conto di alcune correzioni riportate da Vincent Piednoir. La lettera di Cioran del 3 maggio 1980 è custodita nell’archivio personale di Ben Amí Fihman. L’intervista con Jean-François Duval (Tout n’est pas perdu, restent les barbares) è stata pubblicata in «L’Imbécile», n. 8 (gennaio 2005), Paris, pp. 24-26. Essa costituisce un frammento inedito dell’intervista rilasciata a Parigi nel giugno 1979 e contenuta in E. M. Cioran, Entretiens, Gallimard, Paris, 1995, pp. 29-59; traduzione italiana di Tea Turolla in E. Cioran, Un apolide metafisico. Conversazioni, Adelphi, Milano, 2004, pp. 46-69.

470

Nota ai testi

L’intervista con Rossend Arqués (Los suicidas prefiguran los destinos lejanos de la humanidad) è stata realizzata nel 1979 ed è apparsa in «El Viejo Topo», n. 38 (novembre 1979), Barcelona, pp. 27-31; traduzione italiana di Carla Cau in «In forma di parole» (libro terzo, tomo due, luglio 1981, pp. 304-328), successivamente ripubblicata in M. A. Rigoni, In compagnia di Cioran, a cura di F. Marabini, il notes magico, Padova, 2004, pp. 77-91. L’intervista con Fred Backus (Alles wat onbehagen is, is mensbevorderend) è stata pubblicata in «De Tijd» (6 giugno 1980); (Zodra men de duivel castreet, is de literatuur verloren) è apparsa in «NRC-Handelsblad» (29 gennaio 1982) e (Ik ben te normaal geworden) è uscita in «NRC-Handelsblad» (14 agosto 1987). Tali contributi sono presentati come unica conversazione nel volume F. Backus, Zodra men de duivel castreert... (Interviews uit NRC Handelsblad), Uitgever Thomas Rap, Amsterdam/ Brussel, 1987, pp. 35-60, cui qui si è fatto riferimento per la traduzione. L’intervista con Irene Bignardi (Cioran Cavaliere del malumore) è stata originariamente pubblicata in «la Repubblica» (13 ottobre 1982) p. 29 e successivamente in I. Bignardi, Brevi incontri, Marsilio, Venezia, 2013, pp. 57-62. L’intervista con Verena von der Heyden-Rynsch, rilasciata a Parigi nel gennaio 1983 è apparsa in Vienne, 1880-1938. L’apocalypse joyeuse, Éditions du Centre Georges Pompidou, Paris, 1986; traduzione italiana di M. Gregorio in Elisabetta d’Austria nei fogli di diario di Constantin Christomanos, a cura di Verena von der Heyden-Rynsch, Adelphi, Milano, 1989, pp. 192-210. L’intervista con Josef Osterwalder (Vom Nachteil, geboren zu sein. Ein Gespräch mit dem französischen Schriftsteller E. M. Cioran) è stata pubblicata in «St. Galler Tagblatt» (28 marzo 1983).

471

Ultimatum all’esistenza

L’intervista con Hans-Jürgen Heinrichs è stata realizzata a Parigi nella primavera del 1983 ed è apparsa integralmente nel libretto accluso al CD audio Cafard. Originaltonaufnahmen 1974-1990 (a cura di Thomas Knöfel e Klaus Sander, con una postfazione di Peter Sloterdijk), Supposé Verlag, Köln, 1998, pp. 17-57. Tale intervista è stata successivamente pubblicata in Hans-Jürgen Heinrichs, Schreiben ist das bessere Leben: Gespräche mit Schriftstellern, Kunstmann, München, 2006, pp. 198-250. Una traduzione parziale, in francese, Je ne suis pas un nihiliste: le rien est encore un programme, è stata curata da Fabrice Zimmer e pubblicata in «Magazine Littéraire», n. 373 (febbraio 1999), Paris, pp. 99-103. L’intervista con Rosa Maria Pereda (Cioran l’étranger) è stata rilasciata a Madrid nel 1984 e pubblicata in «Magazine Littéraire», n. 204 (febbraio 1984), Paris, pp. 80-84. L’intervista con Philippe D. Dracodaïdis è stata rilasciata nell’autunno del 1985 presso l’Istituto francese di Atene. Essa è apparsa con il titolo Entretien avec Philippe D. Dracodaïdis in AA.VV., Cahiers Emil Cioran. Approches critiques, vol. I, Editura Universităţii «Lucian Blaga», Les Sept Dormants, Sibiu-Leuven, 1998, pp. 155-179. Un estratto dell’intervista fu pubblicato in lingua italiana con il titolo Parola di Emile Cioran, in «l’Unità», martedì 28 gennaio 1986 (traduzione di Aurelio Andreoli). Il testo qui riprodotto riprende, con piccole variazioni e aggiornamenti, quanto già pubblicato nel volume E. M. Cioran, Tradire la propria lingua, a cura di A. Di Gennaro, tr. it. di M. Carloni, La scuola di Pitagora, Napoli, 2015. Le interviste con Alina Diaconú sono state rilasciate a Parigi nell’inverno del 1985 e nell’autunno 1990 e sono state pubblicate in A. Diaconú, Preguntas con respuestas: entrevistas a Borges, Cioran, Girri, Ionesco, Sarduy, Editorial Vinciguerra, Buenos Aires, 1998, pp. 31-50. Gli originali delle lettere manoscritte di Cioran inviate ad Alina Diaconú sono

472

Nota ai testi

conservati presso la Bibliothèque nationale de France (Richelieu) di Parigi (Rif. NAF 28940). L’intervista con Anca Visdei (L’avenir appartient à l’impur) è uscita in «Gazette de Lausanne» (supplemento Le Samedi Littéraire, 1° febbraio 1986), p. 21. Una versione più estesa (Cioran parle) è apparsa invece in «Les Nouvelles Littéraires», n. 3 (febbraio 1986), Paris, pp. 8-10. In questa sede, viene presentata tale seconda variante. L’intervista con Ben Salem Himmich è stata pubblicata nel volume in lingua araba Entretiens philosophiques (Kalima, Beyrouth, 1986). Una versione in lingua inglese a cura di Rosemary Lloyd è apparsa in «Black Herald Press», n. 5 (2015), Paris-London, pp. 35-49. La presente traduzione è stata condotta sulla trascrizione integrale dell’originale francese dell’intervista, fornita dal giornalista al curatore. L’intervista con Alfred Koch (Ein vom Humor verwüsteter Engel. Ein Gespräch mit E. M. Cioran) è stata pubblicata in «Falter», n. 9 (1986), Wien, pp. 17-19. L’intervista con Laurence Tacou (Je suis un auteur à fragments) è stata rilasciata il 1° agosto 1987 e pubblicata in Cahier Cioran, Editions de l’Herne, Paris, 2009, pp. 407-416. L’intervista con Josefina Casado (Vivir con la idea del suicidio es estimulante) è apparsa in «El País» (28 novembre 1987). L’intervista con Benedetta Craveri (Cioran o la morte dell’utopia) è stata pubblicata in «la Repubblica» (18 ottobre 1988), p. 32. L’intervista con Dieter Bachmann (Das Schmachten nach dem Schlimm­sten) è apparsa in «DU. Die Zeitschrift für Kultur» (fascicolo dicembre 1988), Zürich, pp. 96-97.

473

Ultimatum all’esistenza

L’intervista con Jean-Louis Ézine (Je souffrais tant d’être roumain) è apparsa in «Le Nouvel Observateur», n. 1312 (28 dicembre 1989 - 3 gennaio 1990), Paris, p. 49. L’intervista con Fernando Savater (Cioran: el último dandy), realizzata a Parigi nell’ottobre 1990, è apparsa in «El País» (25 ottobre 1990) e successivamente nel volume F. Savater, Ensayo sobre Cioran, Espasa-Calpe, Madrid, 1992; traduzione italiana di C. M. Valentinetti in F. Savater, Cioran. Un angelo sterminatore, Frassinelli, Piacenza, 1998, pp. 153-164. L’intervista con Georges Walter (Le néant valaque), registrata il 29 marzo 1991, è stata trasmessa da France Culture il 13 aprile 1991 nell’ambito del programma “Grand angle”. La trascrizione della conversazione, a cura di Vincent Piednoir, è stata pubblicata in G. Walter, Souvenirs curieux d’une espece de hongrois, Editions Tallandier, Paris, 2008 e successivamente in Cahier Cioran, Editions de l’Herne, Paris, 2009, pp. 417-427. L’intervista con Vasile Andru (Iată o constantă la Români: ideea de soartă), rilasciata nel settembre 1991, è apparsa in «Cotidianul», Anno I, n. 117 e 122 (21 e 28 ottobre 1991). L’intervista con Ignacio Vidal-Folch (De no haber padecido insomnio, me hubiera dedicado a la filosofía, como todo el mundo) è stata pubblicata in «La Vanguardia» (16 febbraio 1992). L’intervista con Ann Van Sevenant (La gaia scienza di Cioran) è stata pubblicata in «Tempo presente», n. 144 (dicembre 1992), Roma, pp. 67-71. Il traduttore non è indicato. Si presume che la traduzione sia della stessa Van Sevenant. L’intervista con Ion Deaconescu è stata pubblicata in I. Deacone-

474

Nota ai testi

scu, Dacă m-aş fi aruncat în Sena, Editura Europa, Craiova, 2000. Il testo riporta, in forma di conversazione, le confessioni avute da Cioran durante le visite intercorse a Parigi tra il 1987 e il 1992. Gli originali delle lettere manoscritte di Cioran appartengono all’archivio personale di Ion Deaconescu. L’intervista con Heinz-Norbert Jocks (Mir ist die Lust vergangen, auf das Universum zu schimpfen) è stata pubblicata in «Frankfurter Rundschau» (24 dicembre 1994), n. 299, p. ZB 3. La versione francese (Un primitif chez les sceptiques) è apparsa in «Courrier International», n. 244 (6 luglio 1995), Paris, pp. 36-37. L’intervista con Fred Backus (Verder dan Nietzsche) è stata pubblicata in «De Groene Amsterdammer», vol. 118, n. 50 (14 dicembre 1994). * Si ringraziano gli Editori, gli Autori e i Direttori di quotidiani e riviste per aver consentito la realizzazione di questo progetto.

475

Emil Cioran (© Archivio Jesse Fernandez)

Già pubblicati in questa collana

Paul Deussen, Ricordi di Friedrich Nietzsche, a cura di Giuseppe Invernizzi Bruno Nacci, La quarta vigilia. Gli ultimi anni di Blaise Pascal Friedgard Thoma, Per nulla al mondo. Un amore di Cioran, a cura di Massimo Carloni Giuseppe Ripamonti, La Signora di Monza e altre storie patrie, a cura di Ermanno Paccagnini

Finito di stampare nel mese di settembre 2020 presso Universal Book s.r.l., Rende (CS)