Torino - Un profilo etnografico 9788883537769

Si può raccontare una città per frammenti? E se questa città è Torino, già capitale del Capitale, quale spazio esiste re

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Torino - Un profilo etnografico
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Biblioteca / Antropologia xxx

Direzione Andrea Staid (Naba, Milano) Comitato editoriale Andrea Staid (Naba, Milano); Massimiliano Guareschi (Naba, Milano); Maurizio Guerri (Accademia di Belle Arti di Brera, Milano) Comitato scientifico Marco Aime (Università degli Studi di Genova); Bruno Barba (Università degli Studi di Genova); Piero Zanini (École Nationale Supérieure d’Architecture de Paris la Villette); Franco La Cecla (Naba, Milano; Università degli Studi di Scienze Gastronomiche, Pollenzo); Vincenzo Matera (Università degli Studi di Milano-Bicocca); Giuseppe Scandurra (Università degli Studi di Ferrara) I volumi pubblicati sono sottoposti alla procedura di peer review

Torino Un profilo etnografico a cura di Carlo Capello e Giovanni Semi

MELTEMI

Meltemi editore www.meltemieditore.it [email protected] Collana: Biblioteca / Antropologia, n. Isbn: © 2018 – meltemi press srl Sede legale: via Ruggero Boscovich, 31 – 20124 Milano Sede operativa: via Risorgimento, 33 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Phone: +39 02 22471892 / 22472232

Indice

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Introduzione. Un’etnografia della (nostra) città di Carlo Capello e Giovanni Semi

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Torino liminale. Riflessioni antropologiche su post-fordismo e disoccupazione di Carlo Capello

xx I Murazzi del Po: dinamiche e trasformazioni del waterfront torinese negli ultimi quarant’anni di Silvia Crivello xx Iniziative dal basso nella città che cambia. Riflessioni a partire dal caso di San Salvario di Magda Bolzoni xx

È tutto etnico quel che conta? Conflitto per le risorse e narrazioni della diversità a Barriera di Milano di Pietro Cingolani

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I mercati rionali di Torino al tempo della sharing economy: marginalità sociale ed esperienze di welfare di comunità di Francesco Vietti

xxx Dentro, altro, contro. Culture giovanili e usi dialettici del territorio urbano di Raffaella Ferrero Camoletto e Carlo Genova xxx

“No sleep ’till Parco Dora”: Parkour e i paradossi di una città rigenerata, tra eterotopie e governo della differenza di Nicola De Martini Ugolotti

xxx L.G.B.T.Q. – una Lettura della Gentrification in un Brand di Torino: il Quadrilatero di Marco La Rocca xxx “A bassa soglia”. Persone senza dimora e servizi di accoglienza a Torino di Valentina Porcellana xxx Mondo operaio e disuguaglianze. Le eredità delle migrazioni interne di Anna Badino xxx Bibliografia xxx

Gli autori

Introduzione Un’etnografia della (nostra) città1 Carlo Capello e Giovanni Semi

Devo ammetterlo. Ho incominciato a perdermi nella mia città. O meglio, a non ritrovarmi. Non nel centro, certo, fissato dai recenti restauri [...] Ma già nella prima periferia sì [...] E poi nella seconda periferia, dove la grande trasformazione della vecchia metropoli di produzione ha “sciolto” il paesaggio mutandone anima e corpo. M. Revelli, 2016, Non ti riconosco

Fin da quando ci siamo incontrati per progettare questo libro e contattare un certo numero di studiosi che collaborassero alla costruzione del volume, mettendo in dialogo discipline contigue ma differenti come l’antropologia, la sociologia e la storia, avevamo in mente alcuni punti ben precisi: il libro avrebbe dovuto avere una natura chiaramente e profondamente etnografica; inoltre, avrebbe dovuto fornire un profilo, un’immagine completa di Torino nella sua interezza, oltre che offrire descrizioni e analisi dettagliate dei singoli 1 Per quanto l’introduzione sia frutto di una riflessione comune, il primo paragrafo è stato scritto congiuntamente, il secondo e il quarto paragrafo sono stati scritti da Carlo Capello, il terzo da Giovanni Semi.

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fenomeni indagati nei vari capitoli; infine, avrebbe dovuto sviluppare tematiche e analisi che pur rimanendo ancorate al contesto locale, potessero dar vita a riflessioni più ampie e generali sull’esperienza urbana contemporanea. In altre parole, questo libro vuole proporsi come un’etnografia della città in senso pieno. La sua ambizione è di produrre un profilo di Torino2 che ne colga lo spirito, l’ethos culturale, la tonalità sociale, pur senza mai allontanarsi da un approccio etnografico, fondato sull’incontro e sul dialogo con le persone, sull’osservazione e l’esperienza personale. Un progetto ambizioso e difficile, quello di riuscire a disegnare un panorama della città per mezzo della descrizione dei frammenti e dei diversi mondi che la compongono. Il risultato non sarà un’immagine nitida e univoca, ma una collazione di immagini anche differenti e discordanti, perché la città, tutte le città sono realtà complesse e dissonanti. Poiché ognuno dei coautori ha elaborato la propria immagine di Torino in base alla sua prospettiva teorica e di terreno, il risultato è un libro multiprospettico e polifonico. I saggi qui raccolti, dunque, sondano la multiforme materia di cui è composta la città, affrontando un certo numero di temi quali: la disoccupazione, indagata nel suo saggio da Carlo Capello; la riqualificazione e la gentrification dello spazio urbano, affrontata da diversi punti di vista nei saggi di Magda Bolzoni e Marco La Rocca; gli spazi e le realtà subculturali e giovanili in relazione alle trasformazioni cittadine, di cui si sono occupati sia Silvia Crivello sia Raffaella Ferrero Camoletto e Carlo Genova così come Nicola De Martini Ugolotti; le tensioni legate alla convivenza interetnica, sui si è soffermato Pietro Cingolani; i mercati urbani e i progetti di contrasto alla povertà indagati da Francesco Vietti; le esperienze dei senza dimora e le politiche locali a loro rivolte, analizzate nel suo saggio da Valentina Porcellana; i percorsi di mobilità sociale dei figli della migrazione di massa, affrontati, unendo 2 In questo senso, una delle nostre fonti di ispirazione, omaggiata fin dal titolo, è, nonostante l’approccio analitico così lontano da quello da noi utilizzato, il libro di Arnaldo Bagnasco (1986): Torino, un profilo sociologico.

Un’etnografia della (nostra) città 9

storia e analisi sociale, da Anna Badino. Temi molto differenti l’uno dall’altro, come si può vedere, tutti però studiati appoggiandosi sull’osservazione e la frequentazione di diversi gruppi e spazi torinesi, dalle periferie post-industriali ai quartieri del centro, dalle zone della vita notturna agli spazi dismessi dell’archeologia industriale, dalle piazze della movida a quelle del commercio, dagli ex-operai ai senza dimora, dalla popolazione LGTBQ alle seconde generazioni dell’immigrazione interna. Ciascun contributo intende offrire una rappresentazione e un’interpretazione vivida e articolata di questi spazi, processi e collettività, unendo dati e testimonianze. Allo stesso tempo, d’altra parte, da ogni contributo, e dal dialogo tra i diversi capitoli, affiora un’immagine della città stessa e una particolare lettura delle sue attuali dinamiche e del suo ethos collettivo. Tra le ragioni che spiegano la nostra decisione di costruire un tale profilo etnografico – accanto alle motivazioni di carattere più scientifico, legate alle caratteristiche che rendono Torino un campo di indagine eccezionale, sulle quali torneremo tra breve – va segnalato il fatto che diversi degli autori coinvolti vivono o hanno vissuto nella metropoli piemontese. Poiché questa circostanza è piuttosto frequente in sociologia, ma non altrettanto in antropologia, più abituata a indagare contesti lontani da quelli di residenza, merita qualche considerazione. Dal punto di vista dell’antropologia socio-culturale, ricerche condotte nel proprio luogo di residenza o in contesti molto simili sono spesso indicate come esempi di “etnografia nativa” o di “auto-etnografia”. Tuttavia, già Marylin Strathern (1987) ci ricordava che le cose non sono così semplici, essendo ogni società complessa attraversata da linee di faglia economiche, sociali, di classe, di genere, di età e di etnia. Linee che strutturano anche il lavoro degli etnografi che, nella maggior parte dei casi, non studiano il proprio in-group, ma attraversano vari confini sociali per cercare, anche nella propria città, quella differenza che attrae lo sguardo e alimenta l’immaginazione sociologica. Per limitarsi a un paio di esempi, nel suo saggio Carlo Capello indaga l’esperienza dei disoccupati

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delle periferie torinesi, che pur condividendo lo stesso spazio urbano, non condividono però il suo stesso spazio sociale e di classe. E se Cingolani, nella sua etnografia, prende in considerazione il quartiere in cui vive da alcuni anni, è pur vero che si concentra sull’esperienza e le testimonianze di abitanti locali la cui classe sociale, istruzione e origine sono piuttosto diversi dai suoi. D’altra parte, il fatto di vivere o aver vissuto a Torino rafforza quella condizione, propria di ogni etnografia, che deriva dall’essere implicati nel nostro oggetto di studio, rispetto alle cui dinamiche e contraddizioni non possiamo non esprimere la nostra opinione. Come ben afferma Michael Burawoy (2009), l’essere parte del proprio oggetto di studio rafforza la tendenza a prendere posizione, a esprimere la propria opinione politica ed etica, a costruire la propria immagine della città in quanto spazio morale oltre che geografico; implica, in altre parole, l’esigenza di un’etnografia pubblica e impegnata. In questo senso, il libro si propone allora come un’etnografia pubblica della città, un’etnografia impegnata (e impregnata) di Torino. Un’espressione, e un compito, che vanno però chiariti e sviluppati, cercando in queste poche pagine introduttive di rispondere alle seguenti domande: cosa intendiamo per etnografia, come intendiamo l’etnografia? Cosa significa, più precisamente, etnografia della città? E perché scrivere, e leggere, un’etnografia di Torino? Un’etnografia nella città o della città? Perché scegliere? La nostra proposta emerge da un presupposto consolidato nelle scienze sociali: per osservare da vicino la struttura sociale e dunque il mutamento che la riguarda, occorre guardare all’azione sociale, cioè all’interazione. Le classi sociali, i ruoli, le multiple ascrizioni che portiamo con noi, sono visibili, sono attive, sono in relazione tra loro. Come diceva Bourdieu, parafrasando Hegel, “il reale è relazionale”

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(Bourdieu e Wacquant, 1992). L’etnografia, se vogliamo, è uno dei mezzi intellettuali più potenti che abbiamo per risolvere l’enigma classico della dialettica tra struttura e azione. Per vedere l’una e l’altra, e le reciproche influenze, occorre prendere seriamente il comportamento interattivo tra persone, oggetti e spazi (Emirbayer, 1997; Desmond, 2014). Come ha scritto Matthew Desmond, l’etnografia relazionale “implica studiare i campi più che i luoghi, i confini più che i gruppi delimitati, i processi più che i loro esiti sulle persone e i conflitti culturali più che le culture di gruppo” (2014, p. 574). La proposta dell’etnografia relazionale, benché affondi le radici nel campo ormai “classico” dell’interazionismo, e dunque fatichi a dirsi completamente “nuova” o “innovatrice”, riporta però la processualità al centro dell’analisi, precisamente nel modo in cui abbiamo cercato di raccontare Torino e i suoi mutamenti. Dopo aver chiarito la nostra posizione rispetto all’etnografia, una posizione aperta agli approcci provenienti da diverse discipline, dobbiamo soffermarci sull’espressione “etnografia della città”, per chiarire cosa intendiamo con etnografia di Torino. È ormai usuale distinguere, all’interno delle ricerche urbane, tra una etnografia della città e un’etnografia nella città. Se quest’ultima fa riferimento a tutte le ricerche qualitative condotte in un contesto urbano, indipendentemente dall’oggetto di studio, il termine etnografia della città si riferisce alle ricerche che utilizzano l’esperienza di terreno per riflettere sulla città stessa, contribuendo al più ampio discorso teorico sull’esperienza urbana contemporanea. La distinzione etnografia nella/della città proviene direttamente dall’ormai classico lavoro di Ulf Hannerz (1980 [1992]) che, all’epoca, enfatizzava la necessità per l’antropologia di procedere con maggior decisione verso l’indagine degli aspetti propriamente urbani della vita sociale contemporanea. Pur condividendo in buona parte l’impostazione dello studioso svedese, è necessario chiarire alcuni punti che distinguono la nostra posizione da quella di Hannerz. In primo luogo, ovviamente, la sua si configura come una

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riflessione specificamente antropologica, mentre nel nostro caso l’approccio etnografico è inteso come il trait-d’union tra diverse discipline e prospettive. Inoltre, va notato che il discorso di Hannerz si inseriva all’interno di una lunga diatriba sulla possibilità stessa di un’antropologia urbana e delle società complesse (Sobrero, 1992), un dibattito fortunatamente superato in un’epoca in cui la maggior parte delle ricerche antropologiche sono condotte in realtà urbane e metropolitane (Pardo e Prato, 2012)3. Soprattutto, nonostante la distinzione nella/della città ci appaia utile per orientarci nel mare delle ricerche, quindi come principio classificatorio, riteniamo che non possa e non debba essere irrigidita e vada, invece, ripresa/superata dialetticamente. Del resto, la distinzione si articola più che altro intorno al carattere più o meno esplicito e rivendicato della riflessione riguardo alle dinamiche urbane, configurandosi quindi come una differenza di grado più che di sostanza. Tanto più che, come ben chiarisce Michel Agier (2015), la maggior parte dei fenomeni e dei temi affrontati nelle ricerche condotte in città sono comunque fenomeni specificamente, se non esclusivamente, urbani. Si pensi a due lavori come Cercando rispetto di Philippe Bourgois (2005) e Anima e corpo di Loïc Wacquant (2002), i quali sono senza dubbio esempi di etnografia in città e non della città, perché non mirano a descrivere New York o Chicago nella loro totalità né a contribuire alla teorizzazione dell’esperienza urbana, bensì a cogliere le tensioni politiche e culturali che sottostanno allo spaccio di droga, nel caso di Bourgois, e le dinamiche del modellamento dell’habitus pugilistico all’interno del ghetto nero di Chicago, nel caso del libro di Wacquant. Tuttavia, 3 Pardo e Prato, tuttavia, denunciano la persistenza di una certa ambivalenza nei confronti dell’antropologia urbana all’interno della disciplina, soprattutto in ambito britannico. I due studiosi, peraltro, propongono di superare il contenzioso tra antropologia della città/nella città a favore di quest’ultima, affermando chiaramente che: “urban anthropology should be intended simply as (more or less classical) anthropological research carried out in urban areas” (2012, p. 7-8).

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entrambi gli studi sono dedicati a fenomeni specificamente urbani, indissociabili dalle logiche di esclusione razziale e di classe, proprie delle metropoli americane; viceversa, né New York né Chicago sarebbero comprensibili senza una ricognizione di fenomeni di questo genere, cosicché il loro studio ci permette di farci un’idea più precisa di queste due metropoli, della vita dei loro abitanti e delle loro zone oscure. Il rinvio a queste due monografie, ritenute dei classici contemporanei, serve quindi a chiarire che la distinzione nella/della non corrisponde a una contrapposizione bensì a un continuum, riferendosi semplicemente a una questione di oggetti e di tematiche. In particolare, l’etnografia della città si configura come l’indagine dal basso, empiricamente fondata sull’osservazione partecipante e sul dialogo, dei processi che modellano la società, l’economia e la cultura cittadine, quindi come analisi di fenomeni specificamente urbani. In questo senso, l’etnografia della città si è spesso focalizzata sugli spazi urbani, su come questi vengano costruiti, modellati e vissuti dalle diverse persone che vivono e agiscono la città da un lato e dalle forze dell’economia e della politica dall’altro4. Diversi dei saggi presenti nel nostro libro si rifanno a questa linea di ricerca, concentrandosi sugli effetti della riqualificazione urbana e delle dinamiche di gentrification dei quartieri centrali, così come sulla dialettica tra la città pianificata dall’alto e gli usi reali e quotidiani degli spazi urbani. L’etnografia urbana come etnografia nella città, invece, si dedica a indagare i più diversi fenomeni che avvengono all’interno dei confini cittadini, assumendo lo spazio sociale e fisico urbano come un contesto più o meno pertinente rispetto al tema d’indagine. Anche questa linea di indagine è rappresentata nel nostro volume, per esempio dai saggi dedicati alla disoccupazione, ai mercati e alla sharing economy, alle vicende della migrazione interna, fenomeni che non sono, evidentemente, esclusivamente urbani. 4 Si vedano per esempio, in antropologia culturale, i lavori di Setha Low (1999, 2017).

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Per chiarire ulteriormente la questione, può essere utile fare riferimento a una serie di ricerche etnografiche condotte in Italia negli ultimi anni. Il lavoro di Andrea Muehlebach (2012) è un’opera importante, anche sul piano della riflessione politica, dedicata ad analizzare le conseguenze nel contesto milanese dell’affermarsi di un neoliberismo morale che ricorre alla retorica della compassione e della cittadinanza attiva per tradurre in senso positivo il progressivo indebolimento del welfare pubblico. Nella monografia di Muehlebach, Milano e Sesto San Giovanni, le cui storie di trasformazione socioeconomica e di deindustrializzazione sono peraltro costantemente evocate nel libro, non rappresentano tuttavia l’oggetto, il tema principale dell’etnografia. Un discorso analogo vale anche per il recente lavoro di inchiesta sociologica, svolto tra Milano e Bologna, da Roberta Sassatelli, Marco Santoro e Giovanni Semi (2015), nel quale i tre studiosi affrontano, attraverso varie tecniche di indagine qualitativa, le tattiche elaborate dai membri della classe media per affrontare la crisi economica globale. In base ai nostri criteri entrambi i lavori sono etnografie nella città e non della città, perché Milano e Bologna sono indagati indirettamente, trasversalmente. Ma, come nell’esempio precedente, è chiaro che la nostra comprensione della vita urbana nell’Italia contemporanea non può che passare anche attraverso l’indagine delle dinamiche legate al neoliberismo e alla crisi economica globale. Evicted from Eternity di Michael Herzfeld (2010) e Global Rome, curato da Isabella Clough-Marinaro e Bjorn Thomassen (2014) sono due buoni esempi, tra i molti possibili, di etnografie della città. Nella sua monografia, Herzfeld fa ampio uso di un concetto chiave dell’antropologia funzionalista, il concetto di segmentarietà, trasformandolo in uno strumento postmoderno per indagare le dinamiche dell’appartenenza e del radicamento tra gli abitanti di Monti, uno dei rioni storici di Roma. Nel corso degli ultimi anni, il rione si è confrontato con fenomeni complessi come l’immigrazione transnazionale e soprattutto il progressivo allontanamento di molti degli abitanti originari per via della riqualificazione del centro città.

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Concentrandosi su tali dinamiche, Herzfeld riesce a offrirci un’immagine a tutto tondo della Roma contemporanea e dei rapporti di potere che ne strutturano l’esperienza. Il libro curato da Isabella Clough-Marinaro e Thomassen, al quale ha contribuito lo stesso Herzfeld, è invece un’opera collettiva e composita, i cui diversi contributi sono però tenuti insieme da una domanda teorica di fondo: poiché Roma è sicuramente una città globalizzata, investita dai flussi e dalle trasformazioni proprie del capitalismo neoliberale, pur non corrispondendo al modello coniato da Saskia Sassen, non dovremmo forse, si chiedono gli autori, rielaborare e rendere più flessibile il concetto stesso di “città globale”? Questi interessanti lavori dedicati a diverse realtà italiane ci dicono, dunque, che la distinzione etnografia nella/della città è relativa, il che tuttavia non significa negare che esistano distinte linee di ricerca tra gli studiosi, come del resto mostrano anche i saggi qui riuniti. Con buona approssimazione, si può affermare che gli studiosi che più espressamente si definiscono come “urbani” (si pensi alla sociologia urbana, alla geografia urbana, alla storia della città ecc.) si orientano quasi naturalmente verso lo studio di fenomeni come la gentrification, le politiche urbanistiche, i conflitti per lo spazio e il territorio, verso i temi propri di un’etnografia della città. Viceversa, è evidente anche da un rapido sguardo alla letteratura che l’antropologia culturale continua a praticare maggiormente un’etnografia nella città. Tuttavia, la distinzione tra le due linee di indagine non equivale a una frattura o a una opposizione, anche perché i differenti temi e paradigmi tendono a unirsi e sovrapporsi nelle concrete ricerche di terreno. Utilizzando l’espressione “etnografia di Torino” vogliamo, peraltro, indicare qualcosa di diverso. Non intendiamo riferirci esclusivamente agli studi sui cambiamenti dello spazio cittadino o all’indagine delle culture urbane, per quanto buona parte dei lavori qui presentati si occupino di queste tematiche; bensì, alla costruzione di un’immagine della città, di Torino, nella sua interezza. L’etnografia della città denota

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la possibilità e l’ambizione di rappresentare la città nella sua totalità. L’etnografia della città è il tentativo di costruire un’immagine della città nel suo insieme, così come, in riferimento a Torino, con mezzi analitici molto diversi, aveva provato a fare Bagnasco disegnandone un “profilo sociologico”5. Se ogni tentativo in questa direzione non è mai semplice, lo è ancor meno quando per cogliere la totalità urbana si ricorre, come nel nostro caso, alla ricerca etnografica, la quale per definizione opera a livello micro, partendo da realtà sociali, luoghi e gruppi particolari. Il salto dalle nostre nicchie etnografiche alla rappresentazione d’insieme è rischioso, ma resta comunque il sogno inconfessato di ogni etnografo urbano. È forse un’impresa destinata allo scacco, ma rispetto alla quale si adatta bene il motto beckettiano: prova ancora, fallisci ancora, fallisci meglio! La questione della tensione dialettica tra la sua natura microsociologica e le sue ambizioni generalizzanti è un problema che l’etnografia si trova sempre a dover affrontare. A grandi linee, nell’etnografia urbana, è possibile identificare a questo riguardo due approcci, presenti fin dagli esordi della stessa etnografia urbana. Il primo, che trova un antecedente importante nelle esplorazioni e nelle riflessioni di pionieri come Siegfried Kracauer e Walter Benjamin, corrisponde alla valorizzazione del frammento. In base a questo approccio, l’indagine intensiva di un singolo aspetto, gruppo, via, quartiere, se svolta abbastanza in profondità, ci permetterebbe di cogliere la totalità stessa, o meglio i rapporti di forza e il significato che uniscono i frammenti in un insieme più vasto. Questa linea, che contribuisce a sfumare la distinzione euristica tra etnografia nella/della città, può essere definita come approccio metonimico, probabilmente il più diffuso negli studi urbani e in particolare in antropologia. Il secondo 5 L’articolo di Vanolo (2015a), dedicato alla resilienza di Torino di fronte ai numerosi e rapidi cambiamenti, è un buon esempio di cosa intendiamo per “profilo” o “immagine” della città.

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approccio, complementare al primo, è invece quello del mosaico, il quale lavora attraverso la giustapposizione di singole tessere etnografiche per disegnare il ritratto completo della città, secondo la lezione della Scuola di Chicago (Hannerz, 1980). Nella loro ricerca della totalità o di un significato più ampio, gli approcci si trovano ad affrontare la sfida della rappresentatività del frammento e il rischio dell’incompletezza del mosaico. Il problema si relativizza, se si è consapevoli che la città nel suo insieme, la totalità urbana, è in larga misura una proiezione immaginaria, un ologramma, per usare l’efficace espressione di Michel Agier (2015). Un ologramma di cui non possiamo, peraltro, fare a meno. Soprattutto se, implicati come siamo nel nostro stesso campo in quanto cittadini critici e pensanti, intendiamo dare un contributo al dibattito pubblico sulla nostra città, i suoi problemi, le sue speranze, le sue linee di fuga, il suo futuro. Anche se da buoni etnografi riteniamo che solo scavando in profondità, parlando con le persone e affiancandole nella loro quotidianità, e quindi con uno sguardo puntato sul livello micro, si possa giungere a cogliere l’esperienza vissuta dei cittadini, dobbiamo infatti riconoscere che è un profilo e un’immagine della città nel suo insieme quella che i vari partecipanti al dibattito si aspettano da noi. Perché Torino? È chiaro da quanto detto finora che nel volume abbiamo cercato di combinare entrambi gli approcci, pensando a ciascuno dei contributi come una metonimia della più ampia esperienza urbana e cercando di intesserli tra loro in un ampio arazzo del panorama torinese. Poiché ogni etnografia della città punta a delineare ciò che è comune alle diverse realtà urbane e allo stesso tempo a far emergere ciò che è proprio dello specifico terreno d’indagine (Low, 1999), la nostra narrazione polifonica di Torino mira a descrivere i processi sociali e culturali che la caratterizzano e hanno contribuito a farne ciò

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che è attualmente per evidenziare, attraverso la costruzione di una mappa etnografica della città, le affinità e le divergenze rispetto a contesti urbani analoghi. A questo punto però, bisogna rispondere a un’altra domanda: perché Torino? Nel giugno 2016 la città di Torino sembra cambiare di scenario politico. Dopo una lunga e nervosa campagna elettorale, la maggioranza di centro-sinistra che ha governato la città dal 1993, senza reale soluzione di continuità, cede a favore di un governo monocolore del Movimento 5 Stelle. Questo cambio di governo viene celebrato dai vincenti come la fine del cosiddetto “Sistema Torino” e dai perdenti come l’inizio della fine. Cosa finisce, esattamente? Questo libro cerca di rispondere per via etnografica a un quesito che è dunque anche di natura storiografica: cosa è successo alla città di Torino a partire dagli anni Novanta? Se infatti gli anni Ottanta del secolo scorso sono stati immortalati nelle scienze sociali torinesi dai lavori di Arnaldo Bagnasco che parlava di “Città dopo Ford” (1990) dopo aver prodotto il suo celebre “Profilo sociologico” (1986), il periodo successivo ha vissuto una serie di tentativi di immortalare il cambiamento in corso, a partire da prospettive plurali e diversificate che hanno garantito molta conoscenza su una città in cambiamento ma hanno faticato a offrire una sintesi. Il lavoro che qui proponiamo cerca dunque di compiere uno sforzo di unità a partire dall’incommensurabilità degli sguardi etnografici che i diversi autori hanno utilizzato negli anni sul capoluogo piemontese. Al tempo stesso, raccontare Torino assume sempre dei significati che vanno oltre la mera e specifica localizzazione spaziale e temporale. Sebbene siamo consapevoli del rischio di rendere in qualche misura “esotica” questa città, essa ha nondimeno delle caratteristiche peculiari che la rendono interessante anche al di fuori delle proprie mura. Torino non è mai solamente una città, ma ha sempre ambito, e spesso le è stato riconosciuto, ad essere un laboratorio di qualcos’altro. Nel corso dell’Ottocento è stata certamente laboratorio di lotta politica e aspirazioni democratiche, come nel Novecen-

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to quando ha ospitato tutti i principali segni delle contraddizioni del “secolo breve”, a partire dalle lotte operaie e sindacali, passando per il connubio tra grande fabbrica e “terza città meridionale più grande d’Italia”, per giungere infine al territorio che ha vissuto la crisi fordista forse nel modo più paradigmatico e doloroso possibile, schiacciata da disoccupazione di massa, lotta armata e problemi sociali. Insomma, Torino ha sempre giocato un ruolo unico sullo scacchiere nazionale ed europeo e i mutamenti che ha saputo interpretare sono sempre stati visti come possibili anticipazioni di ciò che sarebbe accaduto altrove (o sarebbe dovuto accadere). Non è detto che ciò sia necessariamente vero, tanto sul piano storiografico che su quello socio-antropologico, ma gli effetti di questa credenza collettiva rendono l’Augusta Taurinorum un’allegoria. Parla sempre di qualcos’altro. È anche in questa versione che intendiamo dunque raccontarla. A chi parla, dunque Torino, e cosa racconta? Il ciclo che, apparentemente, si sta chiudendo in questi mesi ha una sua continuità politica, come abbiamo detto fin dalle prime righe, ma si basa anche su una serie di altre continuità: urbane, sociali e culturali. Per continuità urbana intendiamo dire che tra 1993 e 2016 la città è mutata seguendo una serie di indirizzi programmatici, coerenti e probabilmente ancora in corso (Belligni e Ravazzi, 2012). Vi è stata infatti una revisione profonda del tessuto cittadino, passata attraverso un ridisegno della forma urbana grazie al nuovo piano regolatore generale (del 1995) e della sua interpretazione attraverso le multiple varianti fino a qui emerse. In sostanza, la città-fabbrica novecentesca è stata ribaltata attraverso una serie molto importante di interventi che hanno riportato il centro storico “al centro” dell’azione di governo. Trasformare Torino nel senso di una città terziaria e turistica, studentesca e cosmopolita, ha significato rovesciarne sostanzialmente i ritmi e gli usi che erano stati fatti sino agli anni Ottanta (Semi, 2015). Una seconda continuità dell’ultimo ventennio è di carattere sociale. Mutare la vocazione produttiva della città verso

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un futuro terziario e diversificato, ha implicato alterare i meccanismi di integrazione locale dei cittadini torinesi. Giovani, studenti, lavoratori creativi hanno creduto di riconoscere in Torino una nuova area di elezione, generando dunque numerosi attriti con le generazioni precedenti e il loro modo di essere “torinesi”, come mostrano, tra le altre cose, i saggi di Bolzoni e di Crivello in questo volume. Sul piano culturale, poi, una città che ha sposato il credo dell’innovazione, dell’apertura culturale e del cosmopolitismo ha digerito in maniera del tutto peculiare le ondate migratorie che negli anni Novanta hanno garantito alla città una dignitosa crescita demografica. Eppure, nonostante queste grandi trasformazioni, la Torino contemporanea sembra ancora in mezzo a un guado, insicura di cosa si è lasciata alle spalle e indecisa sulle strade da percorrere di qui in avanti. Il guado è la crisi, l’ultima, che ha squassato la città a partire dal 2008, come a simboleggiare che le celebrazioni per le Olimpiadi invernali del 2006 erano davvero finite, e stava iniziando il momento della presa in carico del “dopo”. A dieci anni dallo scoppio di quella crisi, Torino ha ancora dei tassi di disoccupazione giovanile da città meridionale (ma non è sempre stata, in fondo, la “terza città meridionale più grande d’Italia”?), sperimenta forme allarmanti di nuove povertà che si sommano a quelle ereditate dal passato (come mostrano bene Porcellana e Vietti in questo volume), accumula primati negativi, come essere la capitale italiana degli sfratti (e se guardiamo dentro la geografia di quegli sfratti e alle loro ragioni, vediamo le morosità incolpevoli spiegare quasi per intero come le periferie si riempiano di alloggi sgomberati e di famiglie senza casa). Gli anni Novanta e Duemila rappresentano dunque un progetto politico di transizione da un ordine a un altro, da quella Torino che è stata laboratorio del Capitale, alla Torino che cercava di collocare altrove o in altre forme quel Capitale, con alterni successi (i capitoli di Badino e di Capello illustrano bene questo passaggio, le cui conseguenze sono comunque al centro di tutti i saggi qui raccolti). Non stupisce dunque,

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che in questa fase di transizione i lavori etnografici su Torino, a molti dei quali abbiamo partecipato noi stessi, si siano concentrati su ciò che sembrava nuovo e innovativo, sull’alterità più che sulla continuità6. La grande tradizione sul lavoro operaio, ad esempio, è pressoché scomparsa, come se il passaggio verso il lavoro terziario andasse da sé, senza bisogno di comprensione e interpretazione, sostituita invece da una mole straordinaria di ricerche sull’immigrazione internazionale e sulle forme di vita multiculturali. È stato un abbaglio? Un errore di prospettiva? No di certo, in fondo questi mutamenti non sono solamente di fenomeni ma anche di studiosi, e molti di essi sono precisamente frutto dell’avvicendamento tra generazioni di esperti con sensibilità e sguardi diversi. Il risveglio post-crisi ci impone però anche di tornare al passato, recuperare quelle tradizioni di ricerca, interrogarci sui passaggi di consegne (mancati) e sulla necessità di un rinnovamento intellettuale della ricerca etnografica che abbia il coraggio di dire se è esistita una qualche scuola torinese di analisi sociale e se vi è bisogno che risorga. Questo libro è, in parte, una risposta positiva. Un’etnografia pubblica Torino è stata da sempre un ottimo terreno di indagine etnografica, pieno ancora oggi di spazi da esplorare e cartografare. Ma perché impegnarsi in questa esplorazione? Il primo motivo è che, forse, anche a molti di noi, come a Marco Revelli (2016), è capitato di “perdersi” nella nuova Torino, di non ritrovarcisi e di non riconoscerla più. Tracciarne una

6 In ordine di pubblicazione, alcune delle monografie che hanno segnato il profilo etnografico di Torino, concentrandosi sul fenomeno delle migrazioni internazionali, sono: Uguali e Diversi (IRES, 1991), Più di un Sud (Sacchi e Viazzo, 2003), Altri corpi (Taliani e Vacchiano, 2006), Le prigioni invisibili (Capello, 2008), Romeni d’Italia (Cingolani, 2009), Il paese delle badanti (Vietti 2010), Farsi una reputazione (Donatiello, 2013).

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mappa socio-antropologica aggiornata non è dunque l’ultima delle esigenze. Inoltre, sebbene a questo riguardo tra gli autori siano presenti diverse sensibilità e diversi orientamenti teorici, riteniamo che l’etnografia non possa limitarsi alla semplice descrizione, ma debba contribuire ad alimentare e modificare il discorso teorico mediante il confronto con il terreno. In questa sua dimensione teorica, la ricerca etnografica è anche sempre discussione, confronto tra paradigmi, ipotesi analitiche ed esempi etnografici. L’etnografo mette in dialogo teoria e dati di campo, per interpretarli alla luce della prima e confermare o modificare le ipotesi teoriche sulla base dell’esperienza vissuta sul campo (Cardano, 2011). Per questo motivo, per via della necessità di un orientamento metodologico ed epistemologico nel proprio percorso di indagine empirica, lo studioso tende a percorrere spesso terreni e sentieri già battuti, ad affrontare tematiche già esplorate. Tuttavia, l’etnografia, in quanto indagine empirica e dal basso, è dotata della qualità di rendere sempre nuovi e avvincenti i percorsi di analisi e i paradigmi in cui si inserisce, perché le esperienze del ricercatore e dei suoi interlocutori danno sempre nuova linfa al dibattito. È in questo senso che nel nostro libro affrontiamo argomenti e tematiche, come i processi di riqualificazione urbana, il tema degli homeless e dei conflitti tra autoctoni e nuovi arrivati che da tempo sono parte del dibattito antropologico e sociologico sulla città. Da questo punto di vista il nostro volume, per quanto ancorato all’esperienza locale, intende andare oltre lo specifico caso torinese, mettendo in dialogo il materiale da noi raccolto sul campo con i paradigmi teorici più avanzati, in modo da partecipare pienamente al dibattito sull’esperienza urbana contemporanea, come nel caso delle culture giovanili analizzate da Ferrero Camoletto e Genova. Ancor più, riteniamo, con Michael Burawoy7 (2009), che l’etnografia abbia anche una dimensione pubblica e critica, 7 Non stupisca l’attenzione prestata al pensiero di Burawoy: allievo, eretico, di entrambe le scuole pionieristiche dell’etnografia urbana, quella del

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configurandosi come messa in discussione del senso comune e delle ideologie dominanti. Che l’etnografia abbia una portata pubblica, d’altra parte, può essere inteso in molti modi. In primo luogo, si può pensare all’impostazione problemsolving di molta sociologia e, con aspetti differenti, dell’antropologia applicata, impostazione secondo la quale compito dell’etnografia è osservare empiricamente i mutamenti per contribuire a elaborare soluzioni efficaci e mirate da proporre o da sviluppare in collaborazione con i vari enti, pubblici, privati o del Terzo settore che dovrebbero occuparsi della loro gestione. Molti di noi operano fruttuosamente in questo senso, come dimostrano alcuni dei seguenti capitoli, in particolare quelli di Valentina Porcellana e di Francesco Vietti nati in seguito a progetti di antropologia applicata, tuttavia per etnografia pubblica ci riferiamo al bisogno e alla necessità di partecipare al dibattito pubblico, dando maggior risalto alle dimensioni politiche e morali delle proprie ricerche. Un’etnografia pubblica è un’etnografia impegnata, critica, riflessiva e autoriflessiva, anche rispetto ai propri linguaggi e modalità di espressione, che si rivolga potenzialmente a una platea più ampia dei semplici addetti ai lavori (Fassin, 2013). Se, in generale, il fine dell’etnografia è ampliare la riflessione teorica per mezzo del confronto con l’esperienza di terreno e il dialogo, compito dell’etnografia pubblica è di operare come critica sociale e culturale delle “teorie folk” (Burawoy, 2009), modificando il senso comune e sfidando le ideologie dominanti e le rappresentazioni semplificanti e irrigidite. Un’etnografia pubblica di Torino cercherà, quindi, di fornire immagini e analisi differenti da quelle diffuse nell’opinione pubblica e dalle rappresentazioni proprie dei vari gruppi di potere, evitando tanto la celebrazione enfatica quanto le raffigurazioni apocalittiche: i saggi di De Martini Ugolotti e La Rocca, ad esempio, faranno “vedere” delle città spesso invisibili eppure reali. Rhodes-Livingstone Institute e quella di Chicago, il suo lavoro testimonia al meglio delle potenzialità del dialogo tra antropologia e sociologia.

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Questo lavoro di riflessione critica si muove su due piani. In primo luogo, il nostro compito consiste nell’alimentare continuamente l’immaginazione sociologica (Wright Mills, 2014), opponendo alle predominanti letture individualiste e naturalizzanti dell’ordine sociale – che rafforzano e, allo stesso tempo, sono rafforzate dal primato del neoliberismo in politica e in economia – spiegazioni e interpretazioni che diano conto, all’interno del dibattito pubblico, dei fattori sociali, culturali e storici. Di fronte all’individualismo trionfante, anche la più semplice analisi sociologica è già una sfida: è per questo motivo che, come acutamente sostiene Giovanni Leghissa (2012) richiamandosi a Boltanski, le scienze sociali e umane hanno sempre un potenziale critico, indipendentemente dall’impegno politico degli studiosi, a volte anche loro malgrado. In etnografia, la riflessione teorica e critica assume una piega particolare che dà maggior spessore e forza all’analisi, perché il discorso etnografico si dispiega come un continuo rimando tra il livello biografico e il livello collettivo e strutturale; le storie, le biografie e le testimonianze, sempre uniche, dei nostri interlocutori rinviano al piano dei sistemi di significato, delle reti sociali, dei rapporti di potere e di produzione e viceversa, illuminandosi a vicenda. La dimensione biografica e testimoniale rimanda alla seconda modalità con cui l’etnografia opera come sfida al senso comune e come contributo alla rielaborazione del discorso teorico: all’etnografo spetta, anche, il dovere di raccontare le storie trascurate dai discorsi dominanti, descrivere i rapporti di potere e di diseguaglianza normalmente nascosti, raccontare le storie dimenticate. L’etnografia rivela ciò che l’opinione pubblica non può e non vuole vedere, andando oltre la mera denuncia grazie all’analisi e all’immaginazione sociologica. L’etnografia pubblica, afferma Didier Fassin (2013), si muove tra l’indagine dei “black holes” – delle realtà sociali trascurate nelle rappresentazioni egemoniche – e lo studio del quotidiano, con il fine di trasformare le nostre prospettive sulla realtà sociale.

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Così come il suo tessuto urbano è pieno di buchi urbanistici, soprattutto di vuoti industriali, allo stesso modo il paesaggio sociale di Torino è pieno di “buchi neri” – di gruppi, fenomeni, realtà che non attendono che di essere studiate etnograficamente. Analogamente, l’immaginazione sociologica ci impone di non considerare Torino come un mondo a sé, come una monade, inserendola al contrario all’interno di dinamiche sovralocali che comprendono i cambiamenti globali del modo di accumulazione capitalista, l’egemonia politica del neoliberismo, la crescita delle diseguaglianze sociali, la crescente mercificazione della esperienza e degli spazi urbani. È anche affrontando, trasversalmente, tali temi che con questo libro speriamo di poter contribuire al dibattito civico.

Torino liminale. Riflessioni antropologiche su post-fordismo e disoccupazione Carlo Capello

Quale contributo l’antropologia urbana può fornire alla nostra rappresentazione di Torino? E cosa distingue questo contributo da quello offerto dalle altre discipline che si occupano di indagare la vita urbana? Un’immagine, una rappresentazione antropologica deve essere, oltre che aderente ai fatti, evocativa, stimolando l’immaginazione insieme al pensiero. Una modalità efficace, per ottenere questo tipo di immagini, consiste nell’applicare concetti antropologici classici – coniati per le realtà non capitalistiche e non moderne – alle società postindustriali. Queste traslazioni di teorie classiche danno vita, come afferma Michał Buchowski (2001) a “metafore concettuali” allo stesso tempo problematiche e potenti. In questo saggio, vorrei mostrare come la metafora concettuale della liminalità possa essere utile per descrivere l’atmosfera culturale e la struttura di sentimento oggi predominante a Torino. La mia tesi è, in altre parole, che Torino sia attualmente in una condizione liminale e che molta parte della attuale esperienza urbana trovi senso in questa prospettiva. L’antropologia urbana ci insegna che il modo migliore per studiare la città consiste nel partire dal basso, dalla differenza, dai margini (Agier, 2015)1. Inizierò quindi riferendomi ad 1 Sulla centralità dei margini nell’indagine antropologica, si vedano anche le acute riflessioni di Malighetti (2012).

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alcune situazioni a prima vista marginali, legate alla disoccupazione a Torino, fenomeno su cui sto conducendo ricerche etnografiche da diverso tempo; in questo contesto, tuttavia, marginalità va intesa in senso ampio, ricordandosi che il termine può avere molti significati oltre a quelli connessi all’esclusione, perché il margine è anche sinonimo di passaggio e soglia. Nelle situazioni qui richiamate, in effetti, i due significati si sovrappongono. Inoltre, è necessario precisare che le persone da me incontrate sul campo sono marginali e allo stesso tempo assolutamente normali: cittadini adulti, di classe operaia e medio bassa delle periferie torinesi che, solo perché privi più o meno temporaneamente di un’occupazione e di reddito, si trovano in una condizione particolare di difficoltà ed esclusione. Tutti oltre i quarant’anni, per lo più sposati e spesso con figli, pur trovandosi in una situazione difficile, sono persone comuni rispetto alla loro posizione sociale originaria, spinte verso il margine del sistema dalla crisi e dalle trasformazioni economiche. È il loro essere insieme normali e marginali, espulsi e inclusi allo stesso tempo nel sistema economico in crisi a rendere queste persone un perfetto soggetto di indagine. Non facile da studiare, peraltro, perché i disoccupati non costituiscono un oggetto etnografico tradizionale, una comunità o un gruppo relativamente omogeneo in cui potersi inserire attraverso l’osservazione partecipante. L’indagine di terreno non può che essere, in casi come questo, frammentaria, multisituata, dispersa tra diversi luoghi della città2. Grazie a una serie di esplorazioni sul terreno, ho raccolto circa una trentina di storie vita e di testimonianze, principalmente da parte di persone senza lavoro non più giovani, per mezzo di interviste e dialoghi informali. Ho inoltre svolto diversi periodi di osservazione partecipante presso associazioni, enti pubblici e privati, luoghi di incontro di vario genere, fre2 Non è un caso che, nonostante la sua portata, il fenomeno abbia finora ricevuto poca attenzione da parte della ricerca etnografica in Italia. Una notevole eccezione è costituita dagli studi raccolti in Ambrosini et al. (2014).

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quentando assiduamente realtà come il Centro per l’Impiego di Torino e il CentroLavoro3. Scopo di queste mie esplorazioni è quindi, in primo luogo, contribuire alla conoscenza di una parte della città e della cittadinanza poco considerata, anche politicamente, nonostante la mancanza di lavoro riguardi una fetta considerevole della popolazione torinese, essendo il tasso di disoccupazione ufficiale da anni intorno al 12% (Osservatorio Regionale sul Mercato del lavoro, 2016). Allo stesso tempo, intendo contribuire allo sviluppo della prospettiva antropologica allo studio della disoccupazione (Kwon e Lane, 2016), riallacciandomi in particolare ai lavori di Leo Howe (1990) e Katherine Newman (1996). Drammi e margini Nel corso degli anni, ho spesso avuto a che fare per motivi di ricerca con situazioni difficili. Tuttavia, fare ricerca con i disoccupati e ascoltare le loro storie è stato particolarmente drammatico. Uno dei primi temi a emergere dalle testimonianze è, infatti, quello della sofferenza psicologica. Elisa, una donna di cinquantacinque anni che abita da sempre a Mirafiori Sud, non ha più trovato un lavoro stabile e sufficiente per vivere da quando la grande impresa metalmeccanica presso la quale aveva lavorato per più di vent’anni ha chiuso per fallimento più di tre anni fa. Nel corso del nostro secondo incontro, mi confessa di aver fatto più volte ricorso a farmaci per mantenere viva la forza di volontà necessaria per continuare a cercare; le pillole, tuttavia, non bastano per eliminare del tutto il senso di disagio che deriva dal non avere nulla da fare, dopo aver lavorato per tutta una vita.

3 Il CentroLavoro è uno spazio di incontro creato dal Comune di Torino, dotato di numerosi servizi e finalizzato a favorire la “ricerca attiva del lavoro” da parte dei non occupati, riguardo alla quale mi si permetta di rimandare a Capello (2017).

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La testimonianza di Franco è stata particolarmente drammatica. Dopo avermi raccontato la sua complessa storia lavorativa, fatta di continui cambi di impiego nel settore della tipografia e conclusasi tre anni fa dopo un incidente, ha aggiunto, tra le lacrime, di aver pensato più volte al suicidio, da cui lo hanno distolto solo la sua fede e il pensiero di suo figlio. Entrambi sono casi particolarmente difficili, perché alla perdita del lavoro si sommano una certa carenza sul piano familiare e relazionale che li distingue dalla maggior parte dei soggetti incontrati, i quali in genere trovano nelle reti familiari il sostegno per far fronte alle difficoltà materiali e alla perdita di riferimenti. La depressione di Elisa e Franco è l’espressione soggettiva di una sofferenza sociale che, in misura diversa, colpisce tutti i disoccupati. In opposizione al discorso dominante, che tende a individualizzare i problemi riconducendoli a fattori psicologici e a medicalizzarli4, è necessario ribadire che il disagio non è esclusivamente personale, perché la sofferenza dei disoccupati è il portato di una violenza strutturale, l’effetto di una diseguaglianza di opportunità socioeconomiche che si manifesta nei processi di espulsione della forza lavoro eccedente all’interno dell’economia postindustriale. Per quanto per molti versi problematico (Fassin, 2010), il concetto di sofferenza strutturale ci ricorda che le differenze di classe e di opportunità non si traducono solo in differenze di stili di vita e di consumo, bensì in privazioni concrete con effetti reali e dolorosi sui corpi e le vite delle persone. Anche se non tutte le persone da me incontrate sono di classe subalterna, le storie che ho raccolto testimoniano della persistenza delle differenze di classe rispetto ai percorsi formativi, alle scelte lavorative, alle opportunità di ricollocamento. Quando la subalternità sociale si unisce all’impoverimento relazionale, 4 Non a caso uno dei servizi offerti dal CentroLavoro Torino è lo sportello di ascolto psicologico, dove le persone senza lavoro possono consultare gratuitamente uno psicologo per essere eventualmente indirizzate a servizi più mirati e strutturati. È, peraltro, uno dei servizi più utilizzati e apprezzati da parte degli utenti.

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quando, come nei due casi riportati, il limitato capitale economico non è compensato da quello sociale, il disagio affiora semplicemente con più virulenza. La sofferenza strutturale propria della disoccupazione è riconducibile all’assenza o alla perdita tanto delle funzioni primarie, economiche, quanto delle funzioni latenti del lavoro (Jahoda, 1982), le quali vanno dal fornire una struttura temporale ordinata alla giornata, all’ampliamento delle esperienze e dei contatti con persone esterne alla famiglia, alla definizione dello status sociale e dell’identità personale5. In particolare, senza un’occupazione queste persone rischiano di esaurire il loro capitale simbolico, perdendo riconoscimento e status. I meccanismi sociali di espulsione conducono anche a una perdita di identità, accentuando ulteriormente il malessere. Katherine Newman raffigura efficacemente questa situazione, affermando che i disoccupati “non sembrano appartenere a nessun luogo. Gli antropologi riconoscono questo senso di sospensione tra mondi diversi come un esempio di esistenza liminale... la liminalità è l’esperienza dell’essere bloccati alla soglia di due stati o identità” (1996, p. 91). I disoccupati si manifestano, allora, come figure liminali, sospesi tra un lavoro e uno status che non c’è più e un futuro occupazionale e sociale incerto. Una condizione che riguarda tutti gli aspetti della loro vita, dal reddito ai ruoli familiari, e che si declina a livello personale in disagio, disorientamento, senso di inutilità. Storie liminali Il percorso verso l’inattività di Marco, che ha cinquantotto anni ed è disoccupato da più di tre, è piuttosto signi5 È soprattutto della perdita delle funzioni latenti che parleremo in questo saggio, perché è su queste ultime che si sono soffermati i miei interlocutori, quasi dando per scontati i disagi monetari.

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ficativo. Figlio di un operaio Fiat di origine meridionale, ha sempre vissuto nella periferia di Torino, non lontano dalla Fiat Mirafiori, il simbolo concreto dell’abbondanza occupazionale fordista. Lo stesso Marco ha lavorato per alcuni anni in Fiat, prendendo praticamente il posto del padre, ma si è licenziato in seguito a problemi con la direzione per tornare nella piccola officina meccanica, situata nella prima cintura torinese, dove aveva iniziato la sua carriera operaia. In questa ditta ha lavorato per vent’anni, con impegno e sviluppando buoni rapporti con i datori di lavoro, fino a quando l’impresa, che lavorava nell’indotto Fiat, ha chiuso a causa della diminuzione delle commesse. Marco si è ritrovato così senza impiego a cinquantacinque anni, con una moglie con problemi di salute e due figli a carico, e senza molte prospettive di trovare un nuovo posto, nonostante abbia seguito diversi corsi di aggiornamento organizzati dal Centro per l’impiego. Le mie prospettive quando ho perso il lavoro – spiega – all’inizio erano che veramente fosse finito il mondo, sia finito tutto, perché a cinquantacinque anni aver perso il lavoro con la crisi che c’è, è difficile trovare qualcuno che ti riprende... diventa sempre più triste giorno per giorno...

Per una persona come Marco, che ha lavorato in fabbrica da quando aveva quindici anni e per venti nella stessa azienda, la perdita del lavoro è veramente la fine del mondo, la fine del suo mondo. L’intera sua vita ruotava intorno all’impiego, non di alto livello né ben remunerato ma stabile e sicuro, perché da qui derivavano il suo reddito così come il suo ruolo sociale, anche all’interno della famiglia, in quanto breadwinner. Inoltre, anche solo rispetto all’organizzazione della vita quotidiana, Marco mi ricordava che la perdita dell’occupazione comporta dei problemi da non sottovalutare quali il riempire e dar senso alle giornate6. Un problema 6 La strutturazione temporale della giornata e l’orientamento esistenziale sono, come si è visto, tra le principali funzioni latenti dell’occupazione.

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messo in evidenza anche da Andrea, un quarantaduenne che aveva perso il lavoro da circa un anno: Mi sono sentito confuso... non riuscivo a fare grandi cose, perché mi svegliavo al mattino e mi dicevo: e adesso? Anziché andare a lavorare cosa devo fare? Sono vent’anni e rotti che lavoro, tutti i giorni, di colpo non avere più un obbligo di fare, questa cosa mi ha lasciato proprio così: cosa faccio adesso?

Mentre il percorso di Marco è ancora espressione della realtà, oggi in dismissione, del lavoro fordista fatto di continuità occupazionale, quello di Andrea è un percorso decisamente più flessibile, articolato e accidentato. Ha infatti cambiato numerosi lavori e settori di impiego da quando ha finito le scuole superiori, lavorando per esempio come tecnico CAD e come tecnico-luci in teatro, per poi inserirsi negli ultimi anni come elettrotecnico in un’officina meccanica. Non è quindi la prima volta che perde un impiego, ma il prolungarsi della ricerca e le difficoltà finora incontrate stanno mettendo in crisi la sua fiducia, fino a sentirsi: “inutile... perché comunque sei a casa, vedi la tua compagna che va a lavorare e tu... non riesci a portare a casa dei soldi che comunque servono; vuol dire vivere alle spalle di un’altra persona, anche se fai i lavori in casa....”. Parte delle difficoltà, in questo come in altri casi, derivano dal fatto che la mancanza di occupazione può mettere in crisi anche i ruoli familiari; il dramma è particolarmente evidente tra gli uomini che, a causa delle forti aspettative di genere, continuano a sentirsi in dovere di mantenere la famiglia in maniera preponderante rispetto alla partner. Anche Giovanni, privo di occupazione da ormai molto tempo, dopo aver lavorato come barista presso una cooperativa di catering per più di quindici anni, evidenziava questo aspetto: Il primo giorno [dopo il licenziamento] piangevo. Piangevo a tavola, davanti a mia moglie, perché mi vergognavo a dover mangiare un pasto senza averlo pagato [...] sì, mia moglie lavora. Però è diverso se è un uomo a lavorare e una moglie a non lavorare...

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Anche rispetto ai ruoli di genere comunemente accettati, la disoccupazione comporta una “corrosione del carattere”, per utilizzare l’espressione di Sennett (1999), perché i disoccupati uomini si vedono privati del proprio ruolo di procacciatori primari di reddito. Ma il senso di inutilità non è prerogativa maschile, come ci ricordano le parole di Elisa: “Dopo tre anni che ero proprio ferma, nessun lavoro, zero assoluto” mi racconta a proposito del periodo successivo alla chiusura della fabbrica in cui lavorava, durante il quale è riuscita a tirare avanti grazie ai soldi del TFR, ai suoi risparmi e all’aiuto economico dell’ex-marito, “e dentro di te sai che hai delle energie, ma mi sentivo inutile, a livello sociale, inutile. Anche per mio figlio, l’impatto peggiore è stato quello: per mio figlio, vedere la mamma a casa 24 ore su 24.” Mentre Andrea, Giovanni ed Elisa, anche in relazione alle loro situazioni familiari, hanno denunciato il senso di frustrazione e di inutilità, altri interlocutori hanno piuttosto posto l’accento sul loro disorientamento. Paolo, quarantadue anni, fidanzato, vive con l’anziana madre in un piccolo appartamento nella periferia nord della città. Anche lui ha cambiato diversi lavori da quando ha iniziato a sedici anni ad aiutare suo padre come elettricista. Nel corso degli anni ha fatto il manovale e il barista, sempre senza contratto, per trovare finalmente qualche anno fa un’occupazione migliore e in apparenza più stabile in una cooperativa. Come socio di quest’ultima ha lavorato per diverso tempo presso una grande industria a Settimo Torinese, prima della sua dismissione progressiva, e in seguito ai mercati generali ortofrutticoli, come addetto alle spedizioni. Quando la cooperativa lo ha lasciato a casa, ricorda Paolo: “mi sono sentito proprio con le spalle a terra, perché, abituato a lavorare nella mia vita, mi sono ritrovato un pesce fuor d’acqua; diciamo che non sapevo dove andare a finire... ero disorientato...”. Giuseppe, ex operaio che negli anni si è riconvertito prima in rappresentante di commercio e poi barista, prima di restare senza lavoro, preferisce invece parlare di crisi e di shock: “Sì, mi sono sentito in crisi, avevo questa speranza di

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trovare qualcosina qui, anche non uno stipendio elevatissimo [...] invece questa aspettativa è andata a farsi benedire. Subito uno shock c’è stato”. Lo shock, il disorientamento, il disagio non dipendono solo dalla perdita di reddito le cui conseguenze, tuttavia, non possono essere ovviamente minimizzate. Marco mi ha confessato di riuscire ad andare avanti solamente grazie alla pensione dell’anziana madre e di dover fare ricorso alla Caritas parrocchiale per alcuni beni di prima necessità. Elisa, grazie a un’occupazione in nero, riesce a guadagnare circa 800 euro al mese che, tuttavia, se ne vanno in larga parte per ripagare debiti contratti con una finanziaria. Onorato, un operaio che ha perso il lavoro quando la ditta di stampaggio plastica ha chiuso per fallimento qualche anno fa, mi spiegava di cavarsela grazie alla liquidazione e tramite un risparmio deciso: “tagliando tutte le spese... io non mi compro mai niente, faccio la spesa e basta... ti privi di tutto”. Gli esempi potrebbero continuare, ma va sottolineato che, forse per pudore, forse perché tendevano a dare per scontati i problemi economici, i miei interlocutori sono stati piuttosto reticenti su questo tema. Il più esplicito è stato Andrea, il quale ha una storia lavorativa diversa dalle precedenti, avendo operato come account di un certo livello presso una ditta commerciale, fallita anch’essa in seguito alla crisi economica iniziata nel 2008: Allora, i miei problemi... principali sono ovviamente il fatto di non avere un’entrata mensile, è proprio il problema principale, poi... per fortuna sono ancora abbastanza carico, non mi sono così abbattuto, perché non mi devo abbattere, non mi devo dare delle colpe [...] La disoccupazione, il fatto di non avere denaro, ti isola, perché tu non hai proprio quella forza economica per poter andare solamente a vedere un cinema, non hai i soldi per andare a fare una pizzata. Quindi, involontariamente, si viene isolati. Perché gli amici che hanno il lavoro continuano a fare la vita di prima, normale, io e gli altri disoccupati, che non abbiamo più un reddito, vieni proprio tagliato fuori. [...] Io appartenevo a un ceto medio e sono caduto nei disperati. Basso... infatti... penso che dopo di me ci siano gli

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extracomunitari che non hanno neanche la casa, un tetto dove stare.

Le parole di Andrea mostrano come la penuria di risorse incida anche sulla vita relazionale, a causa delle difficoltà ad accedere a quelle pratiche di consumo che sostanziano la socialità contemporanea. L’inevitabile riduzione dei consumi rischia quindi di condurre all’impoverimento sociale e all’isolamento. La testimonianza di Andrea, che tra i miei contatti è colui che ha maggiormente vissuto l’esperienza della caduta sociale (Newman, 1996) ci ricorda inoltre che “il lavoro influenza l’identità tanto quanto l’economia del lavoratore” (Wallman, 1989, p. 1), cosicché tra le conseguenze della mancanza di lavoro si ritrova anche la perdita dello status, della propria posizione sociale che, nella nostra società, è in larga misura definita dal ruolo lavorativo. Il che è particolarmente vero per i miei interlocutori, che non a caso nelle loro storie di vita hanno dedicato la maggior parte della narrazione alla descrizione della loro carriera lavorativa e delle loro occupazioni, alle quali attribuivano un valore indipendente dal livello salariale o di specializzazione. Privati del lavoro, si sono ritrovati privi di una precisa posizione sociale, perché come ben afferma Andrea Muehlebach (2011, p. 71): “il lavoro è il principale veicolo attraverso cui si otten[gono] l’identità sociale e l’integrazione comunitaria”. Il disoccupato si definisce, pertanto, primariamente in via negativa, essendo, ai propri occhi e a quelli della società, innanzitutto un non lavoratore. O meglio: quello di disoccupato è, in un contesto come quello torinese, lo status ambiguo di un lavoratore senza lavoro. Il disoccupato, privo di un lavoro e pertanto di un ruolo sociale riconosciuto, si trova quindi, come notava Katherine Newman, in uno spazio intermedio, liminale, betwixt and between (Turner 1986). Pur senza riprendere, qui, le note riflessioni di Van Gennep (1909 [2012]), è sufficiente, per mostrare quanto l’analogia sia calzante, ricordare che nel periodo liminale dei riti di passaggio i soggetti si trovano in una situazione ambigua, indefinita, la cui qualità è il non più e non

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ancora. E il non più e non ancora è esattamente la situazione in cui si trovano le persone che hanno perso il lavoro. Così come, nei riti di margine, i neofiti sono non-persone sociali, perché a cavallo tra il vecchio e il nuovo status, i disoccupati si trovano senza la possibilità di riconoscimento sociale. Anche per questo motivo, oltre alle motivazioni legate al reddito e al consumo, non è raro che tendano a isolarsi, a diminuire e a rompere i contatti sociali non necessari (Howe, 1990; Newman, 1996). Come si sa, la separazione, l’isolamento dal gruppo sociale è uno dei tratti distintivi della liminalità rituale. Le analogie tra la condizione di disoccupazione e la liminalità propria dei riti di iniziazione sono piuttosto chiare, in particolare rispetto allo status sociale, alla soggettività indefinita e all’isolamento. Va però chiarito, a questo punto, che l’analogia non si riferisce al passaggio, bensì alla fase di margine, liminale. Del resto, è chiaro che il problema dei disoccupati è che il passaggio, la riaggregazione non sono ancora avvenute, lasciandoli sperduti nella zona intermedia e indefinita dell’attesa di un lavoro e di uno status sociale riconosciuto. Così come è altrettanto chiaro che molti, per via dell’età e delle scarse opportunità sul mercato del lavoro, non troveranno più una vera occupazione. Per costoro, la liminalità è ormai una condizione a tempo indeterminato. Tuttavia, nonostante il chiarimento, può permanere qualche dubbio nell’utilizzare il concetto di liminalità al di fuori delle pratiche simboliche e performative rispetto a cui è stato elaborato. Victor Turner, d’altra parte, ha previsto e caldeggiato la possibilità di usare questo concetto anche in riferimento a dimensioni non rituali dell’esperienza sociale, purché l’uso sia consapevolmente “metaforico” (Turner, 1986), avendone egli stesso esteso l’uso a fenomeni come l’arte, il teatro, lo sport. Per andare oltre il semplice uso analogico, Turner ha coniato il termine di “liminoide”, che indica tutto ciò che “assomiglia al liminale senza essere identico ad esso” (Turner, 1986, p. 69). Accogliendo il suggerimento, possiamo dunque affermare che la perdita del lavoro conduce a uno stato liminoide.

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Insieme all’ambiguità dello status, sono l’attesa e l’invisibilità sociale i principali elementi che rendono la disoccupazione una condizione liminoide. I disoccupati sono bloccati in una situazione di attesa prolungata, intrappolati nel tra, nel between, nella loro condizione di invisibilità e incertezza categoriale. Rifacendosi alle riflessioni di Ghassan Hage (2009) sull’impatto della crisi neoliberista sulle soggettività contemporanee, si può affermare che i disoccupati soffrano di “stuckedness”, di “immobilità esistenziale” perché privati di quel senso di possibilità e di avanzamento così importanti per dar senso alla vita personale7. Al di là del loro personale ottimismo o pessimismo o dall’impegno profuso nel trovare un’occupazione, questi soggetti sono sospesi in un tempo vuoto, speso ad aspettare un’occupazione che li tiri fuori dalla loro situazione di mancanza di status e di invisibilità. L’invisibilità sociale, che deriva dalla privazione del ruolo sociale, ha in sé molte dimensioni, tra cui l’incomprensione. Molti interlocutori si sono lamentati di non essere compresi dalle altre persone, dai familiari come dagli amici, che non capiscono come sia possibile che non trovino un’occupazione e come riescano allora a sopravvivere: “C’è gente che non crede... che una persona di una certa età si trova disoccupato e chiede: ma tu come fai a vivere?”, mi spiegava Marco. È però Francesca, una cinquantenne che dopo aver lavorato per diversi anni come colf è in attesa di un nuovo lavoro da anni, a chiarire questo punto così decisivo, perché l’incomprensione incide profondamente sulla soggettività e l’autostima delle persone senza lavoro: Perché la disoccupazione se non la tocchi con mano non la capisci e non la credi... non ci credi, ci devi essere dentro per capirla. Quando una persona, tipo io, che sono tutti disoccupati da lungo... quando si trovano in questa situazione, se tu non sei dentro, non lo puoi capire [...] E no, perché se tu il posto di lavoro ce l’hai... siamo sempre al discorso di prima, se io il 7 Tra i diversi lavori che sviluppano questa stessa riflessione in riferimento alla disoccupazione, si veda, tra gli altri: O’ Neill (2014).

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posto di lavoro ce l’ho, non mi rendo conto della situazione in cui versa quella persona che non ha lavoro. No, secondo me non riescono a vedere al di là del loro naso, perché proprio ci sono persone talmente ottuse che ti guardano e ti dicono: ma possibile che tu non trovi lavoro?

Come spiega Leo Howe (1990), il prevalere nel senso comune di letture individualistiche della realtà sociale ed economica inibisce la comprensione delle cause strutturali della disoccupazione, riconducendo tutto a fattori soggettivi e personali. L’incomprensione può convertirsi facilmente in accuse che, attraverso il rinvio a posizioni ideologiche individualiste e meritocratiche, colpevolizzano le persone senza occupazione, accusandole di incapacità e di mancanza di iniziativa. Come ben notava Francesca: Quando ti vengono a chiedere come mai non trovi lavoro, pensa, la gente pensa che tu non ti dai da fare abbastanza. Che non riesci a muoverti adeguatamente o che magari aspetti il lavoro in ufficio, aspetti il lavoro comunale, il lavoro statale, non è così! Secondo me, perché loro classificano il disoccupato come persona che non ha voglia di fare nulla.

L’invisibilità dei disoccupati ha, inoltre, una connotazione generale, che riguarda l’intera categoria. Nonostante anche nell’opinione pubblica e nel discorso mediatico si parli molto di disoccupazione, in realtà delle persone senza lavoro si sa e si vuole sapere ben poco (Ambrosini et al., 2014). Ridotte a numeri e statistiche, le loro esperienze soggettive rimangono per lo più nascoste e invisibili. In effetti, il resto della società sembra voler rivolgere il proprio sguardo altrove, perché i disoccupati mettono in crisi le nostre certezze rispetto al buon funzionamento del sistema economico e sociopolitico e perché in quanto esseri liminali e indefiniti sfidano le nostre categorie sociali. Invisibili, privi di status oltre che di reddito, marginali, i disoccupati sono percepiti e si percepiscono, soffrendone, come anomali; la mancanza di lavoro è, agli occhi della so-

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cietà come ai loro stessi occhi, una sospensione della normalità, la cui logica sociale prevede per gli adulti un reddito e un’occupazione come condizioni per una piena partecipazione al consesso civile. Ma la disoccupazione non rappresenta realmente una sospensione della normale vita sociale, un’eccezione nel liscio corso dell’economia; né i disoccupati sono veramente marginali. Al contrario, la loro condizione è il sintomo più evidente di una situazione ben più generale; la loro situazione di esclusione dal mondo lavorativo è la diretta conseguenza dell’insicurezza diffusa propria di un’economia post-fordista e neoliberale che ha nell’espulsione della forza lavoro eccedente uno dei suoi meccanismi più potenti, e spietati (Sassen, 2014). Precarietà ed espulsione Se i disoccupati in quanto soggetti sono “marginali”, perché bloccati nello spazio liminoide dell’attesa, la disoccupazione non lo è affatto, perché non può essere considerata un fenomeno periferico o di poco conto. È un elemento strutturale del capitalismo contemporaneo, il quale allo stesso tempo precarizza e rende più flessibile l’occupazione (rendendo sempre più comune la perdita temporanea del lavoro) e insieme espelle la forza lavoro considerata eccedente, come i lavoratori dell’industria over-quaranta da me incontrati (Sennett, 1999; Gallino, 2013; Sassen, 2014). In particolare il passaggio da un’economia industriale a un regime basato sul terziario e la finanza non comporta semplicemente lo spostamento dei lavoratori dalla produzione ai servizi, come vorrebbe la vulgata ideologica; questo passaggio porta con sé anche l’esclusione dei lavoratori difficili da ricollocare. Non a caso Torino è la città del Nord Italia con il maggior tasso di disoccupazione, intorno al 12%, perché gli effetti della lunga crisi economica si sommano alle precedenti difficoltà legate alla deindustrializzazione e alla terziarizzazione (Osservatorio Regionale sul Mercato del lavoro, 2016).

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Marco, Elisa, Paolo sono le vittime di queste espulsioni, le scorie rigettate dalla macchina neoliberista. È così che si è sentita Elisa, quando la sua azienda ha chiuso e si è resa conto che trovare un altro posto era un’impresa più difficile del previsto: “È il sistema che ci esclude”, mi disse, in uno di quei momenti di lucidità critica che a volte appaiono nelle testimonianze, senza tuttavia coagularsi in un discorso oppositivo coerente, “perché siamo dei rifiuti, io ormai vengo a pensare che sono un rifiuto per la società, ma io ho una mia dignità, ma io non mi arrendo.” La crisi finanziaria e la lunga recessione che ne è seguita sono state un catalizzatore, da questo punto di vista. È infatti a causa della crisi economica prolungata che la maggior parte dei miei interlocutori ha perso l’ultimo posto di lavoro e non riesce a trovarne un altro, come rilevano loro stessi. Dopo avermi raccontato di essersi sentito sotto shock, Giuseppe continuava così il suo discorso: Io sono tornato a Torino e ho detto lascio un lavoro che mi piace però ne troverò uno, anche se non mi soddisfa, ne troverò uno e invece stavo facendo i conti senza l’oste, perché giunto qui a Torino, zero assoluto. Non penso che sia colpa mia, è proprio una situazione economica che non va. Ho visto proprio il crollo.

Anche Marco rilevava il ruolo svolto dalla depressione economica come causa del suo attuale stato: “... con la crisi che c’è è difficile trovare qualcuno che ti riprende, perché se fosse stato negli anni indietro qualcosa lo trovavi; ma vedendo che le ditte chiudono giorno per giorno, qualsiasi tipo di settore è in declino...”. Gli effetti della crisi sul mercato del lavoro torinese sono innegabili, e molti dei protagonisti dell’indagine ne hanno fatto direttamente le spese. Tuttavia, è più produttivo vedere l’attuale depressione economica come un catalizzatore, come un reagente che ha contribuito ad accelerare processi e dinamiche più profondi, piuttosto che come causa in sé e per sé; come hanno ampiamente dimostrato studiosi quali Alberto

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Burgio (2009) e Luciano Gallino (2011, 2013), la crisi è un epifenomeno di dinamiche più profonde, quali il consolidarsi dell’egemonia della finanza all’interno del panorama capitalistico e la perdita di importanza dell’industria nei processi di estrazione del surplus. In effetti, se la recessione ha colpito in maniera particolarmente dura Torino è perché il tessuto socioeconomico cittadino era già in parte lacerato da trasformazioni legate alla transizione da un’economia fordista e industriale a una post-fordista, basata sulla finanza e sui servizi. Una transizione lunga e dolorosa che mette in difficoltà i lavoratori che non riescono ad adattarvisi. I lavoratori non più giovani, con una lunga esperienza nella manifattura, e i non specializzati in particolare sono spiazzati dalle trasformazioni; per quanto cerchino di adattarsi al nuovo clima, il loro habitus professionale, la loro mentalità e le loro specializzazioni non sono facilmente spendibili o ricollocabili nell’attuale struttura delle opportunità, il che li rende “ridondanti [come] residui inutili di un’era passata [...] come macchine da scrivere nell’era digitale” (O’ Neill, 2014, p. 18). La grande transizione al post-fordismo trova la sua più chiara manifestazione nel destino della Fiat, che da grande centro produttivo si è trasfigurata in un’impresa ormai in larga misura finanziaria (Berta, 2011; Gallino, 2003; Revelli, 2010) e transnazionale; e trova una concreta manifestazione spaziale negli stabilimenti industriali che segnavano con la loro massiccia presenza di cemento e acciaio la Torino del passato (Revelli, 2010): i grandi stabilimenti della Fiat, della Lancia, della Pirelli, sono oggi rovine industriali, nei casi migliori destinati a progetti di riqualificazione urbanistica (Armano, Dondola e Ferlaino, 2016). La progressiva chiusura di Mirafiori, in particolare, è il simbolo della scomparsa dell’Italia e della Torino industriale. La fuga della Fiat segna veramente il passaggio al predominio dei servizi (Berta, 2011), e ha ripercussioni concrete su tutta l’economia locale che in larga misura ruotava intorno alla grande fabbrica. Pensando alle nostre storie, la ditta per cui lavorava Marco operava in subappalto per Fiat e la

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grande impresa in cui lavorava Elisa era parte dell’indotto; e fin da piccolo, il sogno di Paolo, che pure ha poco più di quarant’anni, era di essere assunto in Fiat, sinonimo per lui di stabilità e carriera. I disoccupati, come tutti i torinesi, sono consapevoli di questa situazione, come mostrano i commenti di Giuseppe: “Poi Torino, così com’è basata, è una città costruita intorno alla Fiat, cessando di lavorare la Fiat ha cessato anche l’indotto, quindi si è creata una grossa crisi. Ho provato a cercare come elettromeccanico, ma per farlo devi lavorare in un’impresa con dei macchinari e con un certo numero di operai...”. La deindustrializzazione ha impoverito l’economica locale, perché “ha sostituito i posti di lavoro nelle fabbriche con posti meno qualificati o instabili e un’ulteriore riduzione della base industriale rischia di compromettere stabilmente gli stessi livelli di vita” (Berta, 2011, p. 116), come ben sanno i miei testimoni, le cui storie sono la concretizzazione di questi timori. All’interno della ristrutturazione del capitale che sta investendo Torino, le opportunità di lavoro per la classe operaia sono sempre più rare e, in ogni caso, differenti rispetto al passato; non del tutto scomparse, ma certamente più labili ed effimere. Tanto più che alle trasformazioni del mondo del lavoro si sommano gli effetti delle politiche neoliberiste di gestione e implementazione del passaggio. Politiche che mirano alla riduzione dei diritti dei lavoratori, alla compressione dei salari e a un’accresciuta flessibilità. La disoccupazione più o meno prolungata è la conseguenza diretta della precarizzazione che i miei interlocutori hanno sperimentato già prima della crisi e della perdita del posto di lavoro. Marco, che come si è visto lavorava in una piccola ditta dell’indotto Fiat, arrotondava il magro salario solo grazie ai numerosi straordinari; Paolo, dopo i numerosi lavori in nero, è entrato in una cooperativa parte della catena del subappalto, dove le condizioni contrattuali tipiche delle cooperative permettevano una notevole compressione dei salari rispetto ai contratti standard. Anche Giovanni, il barista, era socio di una cooperativa, che non ha esitato a

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lasciarlo a casa non appena le commesse si sono esaurite; e Franco, nonostante la sua specializzazione, non ha trovato condizioni migliori nelle numerose tipografie in cui ha prestato la sua opera. Il neoliberismo è da intendersi non come la conseguenza necessaria di una logica meccanica di sviluppo, bensì come un insieme di decisioni politiche che mirano a gestire l’accumulazione capitalistica attraverso la compressione dei costi salariali e dei diritti in tutti i settori, dall’industria ai servizi (Harvey, 2006). Anche quando lavoravano, i miei interlocutori godevano di condizioni di lavoro ben poco ottimali, cosicché la perdita dell’occupazione non è che il culmine di situazioni segnate all’origine da precarietà e sfruttamento. Un nesso evidente lega disoccupazione e neoliberismo, come spiega bene Pierre Bourdieu nel suo tentativo di definire l’essenza di quest’ultimo: “Il fondamento ultimo di questo ordine economico [...] è in effetti la violenza strutturale della disoccupazione, dell’insicurezza dei posti di lavoro e della minaccia che questa implica” (1998, p. 108). La disoccupazione di massa è al contempo l’arma attraverso cui il capitale minaccia i lavoratori affinché accettino la riduzione dei diritti e la conseguenza della progressiva privazione di diritti che sembravano acquisiti. Marco lo afferma esplicitamente, con parole che fanno eco alle osservazioni di Bourdieu: Se non fanno più il lavoro indeterminato, devi accontentarti di quello determinato... ma l’abbiamo voluto noi, abbiamo perso tutti i diritti e i doveri di quello che c’era una volta e ritorniamo indietro e allora ci dobbiamo adeguare a questa cosa qui...

Se si può affermare che, all’interno dell’attuale epoca neoliberista, l’intera condizione lavorativa è segnata dall’incertezza che trova nella disoccupazione la sua espressione più drammatica, si può allora dire che nel tardo capitalismo buona parte dei lavoratori si trova in una condizione liminoide, perché privi di riconoscimento, di una vera identità e in

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attesa tra un lavoro insicuro e un altro altrettanto instabile. È questa la tesi di Manos Spyridakis (2013), che attraverso la sua etnografia della crisi economica greca, giunge a parlare di “liminal workers”: i lavoratori contemporanei, assoggettati al neoliberismo post-fordista sono liminali, perché: “sembrano non appartenere a nessun luogo, sospesi tra due stati identitari, sperimentando un’esperienza liminale, attraverso un rito di passaggio obbligato, dalla stabilità all’instabilità” (Spyridakis, 2013, p. 241). Torino liminale: un limbo politico? A uno sguardo più approfondito, dunque, i disoccupati si rivelano centrali nello scenario neoliberale fatto di precarietà e di minaccia costante di espulsione dal mondo del lavoro; quasi invisibili agli occhi dell’opinione pubblica, si rivelano il simbolo vivente del passaggio dal fordismo al post-fordismo. Il che significa che i disoccupati non sono poi così diversi dalla maggior parte dei lavoratori, tutti ormai imprigionati nella liminalità neoliberista. Tramite questo riposizionamento teorico, i disoccupati ci dicono allora qualcosa su Torino, sul suo attuale clima sociale e culturale; poiché la loro liminalità non dipende esclusivamente dalla mancanza di lavoro, ma dalla più vasta incertezza economico-politica post-fordista, si può affermare che Torino stessa si trova in una condizione liminale. Analogamente ai suoi lavoratori senza lavoro, la città appare bloccata in una fase di passaggio, di transizione, di attesa che coinvolge dimensioni economiche, politiche, identitarie. In primo luogo, la città attende con ansia di uscire dalla crisi economica, la quale, come si è già notato, si somma agli effetti della transizione dal fordismo industriale a un’economia post-industriale. Ma questo passaggio appare bloccato. Già alla fine degli anni Ottanta, i commentatori più lucidi (si veda, fra tutti: Bagnasco, 1986, 1990) discutevano del destino della “città dopo Ford”, ma passati quasi trent’anni il

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“dopo” non si è ancora realizzato del tutto né a livello economico né culturale. A livello economico il passaggio non è ancora riuscito e, come mostrano le storie qui accennate, quello che nel discorso egemonico doveva essere una dolce ascesa progressiva verso la nuova economia dei servizi, si sta rivelando soprattutto una deriva, un declino (Gallino, 2003). Di conseguenza, l’economia torinese è contrassegnata da un “clima di incertezza [...] che spinge a dubitare del futuro industriale di una città priva di un’identità economica definita, che non è più una delle capitali europee dell’auto senza essere ancora diventata qualcos’altro” (Berta, 2011, p. 114). Anche l’economia torinese è liminoide, priva di un’identità, non più industriale ma neppure terziaria. Il che trova correlazione nelle forme di vita e nelle strutture di sentimento quotidiane, ancora in larga misura improntate all’organizzazione fordista, così come nella rappresentazione collettiva di Torino che, nonostante tutti i cambiamenti, è ancora spesso percepita come la città della fabbrica, la cittàfabbrica. Del resto, l’organizzazione industriale ha così profondamente modellato la società settentrionale da non poter essere cancellata da un giorno all’altro. Il fordismo continua a essere presente, sotto forma di rovine industriali, di modi di vita, di aspettative e di relazioni sociali: ma è una “presenza spettrale” (Molé, 2010) la sua, perché la produzione industriale sta effettivamente svanendo e coloro che, come Marco, Paolo e Giuseppe, vi facevano affidamento rischiano di rimanere a mani vuote. Anche le analisi incentrate sulla sfera politica si soffermano sulla situazione di indeterminatezza. La storia politica degli ultimi vent’anni può essere letta, seguendo Belligni e Ravazzi (2012), come un tentativo di mettere in atto un’agenda di policy che permettesse di gestire e guidare l’epocale mutamento economico, di trasformare la perdita dell’industria in un’opportunità di rinnovamento. Il regime urbano non è però riuscito a far uscire Torino dal limbo in cui è ancora bloccata: “il bruco operoso della Torino novecentesca non è

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diventato una farfalla, ma è rimasto una crisalide” (Belligni e Ravazzi, 2012, p. 186). Inoltre, nonostante il successo di alcuni interventi, soprattutto sul piano dell’immagine, il bilancio dell’ultima stagione politica non può essere positivo, perché i progetti del Comune e delle elite cittadine non hanno rimediato alle lesioni del tessuto produttivo, soprattutto perché hanno completamente trascurato di intervenire sugli effetti della trasformazione sui lavoratori. Dopo aver almeno in parte creduto alle promesse di rinnovamento, gli abitanti di classe bassa delle periferie si sono sentiti abbandonati e traditi, come dimostra il risultato delle ultime elezioni cittadine, espressione di un desiderio di cambiamento e insieme di una volontà di punire i rappresentanti politici delle elite che hanno gestito la transizione negli ultimi vent’anni. I miei interlocutori, da questo punto di vista, sono piuttosto rappresentativi: tutti o quasi si sono dichiarati delusi dalla politica del PD cittadino e molti si sono detti simpatizzanti del Movimento 5 Stelle. A questo proposito, le ultime elezioni politiche possono essere viste, continuando con il nostro montaggio allegorico, come il tentativo, da parte degli elettori, soprattutto quelli delle periferie trascurati dalle amministrazioni precedenti, di organizzare un rito post-liminare di riaggregazione, per cercare di uscire dalla ormai prolungata situazione di indefinitezza e stallo politico, economico ed esistenziale. Del resto, già in precedenza due grandi cerimonie collettive sono state messe in scena per segnare il passaggio e dare alla città una nuova identità. Nel novembre del 2003, le esequie pubbliche di Gianni Agnelli, l’allora presidente della Fiat, sono state un vero un addio rituale all’industria e all’organizzazione sociale fordista (Muehlebach, 2012; Revelli, 2010). Un rito di separazione, secondo la terminologia di Van Gennep, cui è seguito tre anni dopo un imponente rituale post-liminale. Più che una concreta opportunità di sviluppo, è in questo senso che possono leggersi le Olimpiadi invernali del 2006: come lo sforzo illusorio di ridurre l’incertezza liminale per mezzo di una grande festa di riaggregazione. Illusorio, perché senza

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interventi economici e politici radicali i rituali non bastano, riducendosi a formule magiche, utili al più a esprimere desideri e speranze. Del resto, il punto è che la condizione liminoide di Torino, con il suo ethos di incertezza, non è propriamente espressione dell’attesa di un eventuale passaggio, è la condizione strutturale propria del neoliberismo post-fordista (Spyridakis, 2013). Perché, in realtà, un passaggio per quanto lentamente è avvenuto, Torino è diventata qualcos’altro. Non sul piano strettamente produttivo, perché la transizione post-industriale è ancora in corso, ma sul piano politico-economico, perché il neoliberismo è ormai predominante. Per questo motivo, la nuova condizione non è quella che molti cittadini si attendevano, essendo l’insicurezza economica il suo tratto diacritico, come dimostrano la crescita della precarietà e della disoccupazione. Da un punto di vista politico, possiamo chiederci: come sfuggire all’incertezza liminale? come intraprendere una nuova strada che sfugga all’ordalia neoliberista che ci è imposta? Riprendendo una suggestione di Massimiliano Mollona (2009), la cui ricerca nella Sheffield post-industriale ha molte sovrapposizioni con il nostro caso, da alcuni punti di vista la liminalità sociale può essere accostata al “limbo politico” evocato da Agamben (2001) come matrice della comunità che viene e come spazio del cambiamento radicale. Tuttavia, non si può dimenticare che la liminalità non sempre genera communitas, ma è sempre sinonimo di indeterminatezza e ambiguità. E molti segni conducono piuttosto a pensare che l’annotazione di Gramsci (1975, Q3, nota 34, p. 311), secondo cui: “quando il vecchio non muore e il nuovo non può nascere [...] si verificano i fenomeni morbosi più svariati”, valga anche per la Torino di oggi.

I Murazzi del Po: dinamiche e trasformazioni del waterfront torinese negli ultimi quarant’anni Silvia Crivello

Introduzione L’uso, la frequentazione e la trasformazione degli spazi e delle identità dei Murazzi del Po negli ultimi decenni sembrano ben riflettere alcune più ampie trasformazioni socioeconomiche avvenute nella città di Torino, ovvero il graduale passaggio da un regime specificatamante centrato sulla fabbrica ad uno maggiormente diversificato basato sul consumo e la conseguente trasformazione di parti della città in arene per l’effimero, il culturale, l’esperienziale (si vedano, fra gli altri, nella letteratura internazionale, i classici lavori di Harvey, 1997 e Hannigan, 1998). A questo proposito, lo spazio dei Murazzi sembra avere giocato un ruolo fondamentale, per tutti gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, nel dare struttura e visibilità a forme di consumo prima apparentemente inesistenti nella città operaia. È possibile addirittura ipotizzare l’apertura di locali notturni negli spazi a bordo del fiume Po come una reazione, nelle forme della regolazione della vita urbana, ai dettami del tradizionale stile di vita fordista che, fino ancora a tutti gli anni Settanta e una parte degli anni Ottanta, aveva caratterizzato la città. Secondo tale modello, i locali e la vita notturna dovevano rivestire un ruolo marginale o interstiziale nella vita di tutti i giorni, occupando spazi e tempi ridotti e ben circoscritti, in maniera che il divertimento della sera prima non interferisse con la

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produttività del giorno dopo. “Torino ricorda le antiche città di guarnigione, i doveri stanno prima dei diritti, il cattolicesimo conserva venature gianseniste, l’aria è fredda e la gente si sveglia presto e va a letto presto; l’antifascismo è una cosa seria, il lavoro anche ed anche il profitto…” (Citazione tratta dalla mostra “Torino 011. Biografia di una città”, 29 giugno-12 ottobre 2008, Officine Grandi Riparazioni, Torino): erano queste le parole con cui, nel 1982, l’avvocato Giovanni Agnelli soleva descrivere la città. In questo senso, nonostante l’evidente frammentazione politica, sociale e culturale dell’eterogeneo gruppo dei “giovani-che-si-divertono”, è forse possibile interpretare le loro pratiche ricreative come una forma di subcultura che si poneva in una posizione alternativa e volutamente “fuori luogo” rispetto allo stile di vita dominante che caratterizzava la città “che lavorava”. È proprio in questo senso che, in questo breve testo, si tratteggia l’idea dei Murazzi come spazio “alternativo” (uno dei molti che germogliavano sotto traccia nella città apparentemente annichilita dalle logiche di produzione), analizzando come sia mutato nel tempo l’uso e il significato culturale di questo spazio. Con il passare degli anni, infatti, si è assistito ad un progressivo processo di ‘normalizzazione’ dello spazio dei Murazzi. Com’è noto, verso la fine degli anni Novanta, Torino, sulla falsariga di numerosissime altre città europee, ha aderito a un paradigma di sviluppo e a un discorso sulla trasformazione urbana ampiamente basato su uno “spirito del capitalismo” incentrato intorno ad ambigue idee di cultura, creatività, spettacolarizzazione, consumo. I Murazzi si rivelano un frammento di città funzionale a queste logiche e, come in molte altri casi in Europa, il waterfront è stato rapidamente sussunto nelle logiche dello sviluppo urbano, incanalandosi in un processo di regolamentazione che ha spalancato i Murazzi alle pratiche di consumo di una più ampia classe media di giovani e meno giovani. La storia dei Murazzi è però caratterizzata da successive fratture: per alcune vicende legali, la fortuna commerciale

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dell’area si arrestò improvvisamente nel 2012 e, nonostante la progressiva risoluzione delle questioni giudiziarie, tali spazi non sono più stati capaci di riacquisire la popolarità di un tempo. Nel frattempo, la città contemporanea sembra avere trovato altri luoghi (primo fra tutti il quartiere di San Salvario; a tal proposito si veda il capitolo di Magda Bolzoni in questo volume) per celebrare il proprio divertimento e per incanalare il capitale mobilitato dalla vita notturna in trasformazioni urbane. Le arcate dei Murazzi rimangono, dunque, un luogo molto ambiguo, che riflette identità, geografie affettive, sensi del luogo in forte trasformazione: certamente mitizzato dai nostalgici, lo spazio dei Murazzi appare anche relativamente privo di usi funzionalmente specifici, rivelandosi soprattutto un luogo di semplice transito a piedi. Scopo di questo lavoro è tentare di assemblare le logiche alla base di queste trasformazioni dei Murazzi e del senso di questo luogo, cercando fili conduttori a cavallo delle memorie, delle storie, delle narrazioni e dei modi di vivere lo spazio che si sedimentano oggi intorno all’area. Dal punto di vista metodologico, il lavoro è basato sulla combinazione di varie fonti. Da un lato, vi è sicuramente una dimensione autobiografica legata alla posizionalità dell’autrice, torinese e quarantenne. In questo senso, è stato possibile avvicinarsi al lavoro sul campo potendo avere con sé un ampio bagaglio di informazioni, impressioni, conoscenze e socialità sedimentate, avendo frequentato la scena della vita notturna dei Murazzi all’incirca dai primi anni Novanta fino alla chiusura dei locali avvenuta nel 2012. In seconda battuta, è stata effettuata, nel periodo compreso tra ottobre 2016 e marzo 2017, una campagna di interviste a testimoni qualificati1 tesa a ricostruire memorie, percezioni e trasformazioni nelle pratiche e negli usi e dello spazio dei Murazzi. Infine, è stata condotta un’estensiva ricerca di articoli pub1 Nello specifico, sono state condotte interviste aperte e semistrutturate a venti soggetti, tutti torinesi, con un’età compresa tra i venti e i sessantacinque anni. I soggetti sono stati scelti sia tra conoscenti ed amici, sia chiedendo agli intervistati di suggerire altre persone da interrogare.

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blicati dal quotidiano locale La Stampa contenti riferimenti all’area a partire dal 1980. Il data-base online ha permesso di individuare numerosi articoli in cui il riferimento all’area era marginale o incidentale, ma in un numero più ristretto di casi la lettura degli articoli ha permesso di cogliere interessanti elementi nel processo di normalizzazione dell’area, un tempo rappresentata soprattutto come spazio marginale (degradato, pericoloso, alternativo, eroicamente “diverso”) e poi progressivamente tratteggiato come uno spazio “banale” della vita giovanile. L’articolo è strutturato in tre sezioni. Il prossimo paragrafo, di carattere teorico, introduce alcuni contributi in seno al vasto dibattito che ha per oggetto la diffusione di nuove forme di consumo e ricreazione negli spazi notturni delle città. La sezione successiva descrive l’area dei Murazzi, tratteggiandone le principali caratteristiche urbane, mentre il terzo paragrafo rappresenta il cuore dell’analisi e descrive le peculiarità fisiche, sociali e discorsive che hanno preso forma negli anni, delineando tre differenti modi di intendere tali spazi nel tempo. La sezione finale propone alcune riflessioni in merito alla relazione tra lo spazio dei Murazzi e la città. Il consumo notturno dalla città fordista alla città contemporanea: alcune note di ordine teorico Il dibattito relativo alla relazione tra spazi urbani e consumo notturno si è ampliato negli ultimi decenni focalizzando l’attenzione in particolare sul ruolo che i luoghi dell’intrattenimento e della vita notturna hanno assunto all’interno delle logiche spaziali e sociali delle città. La letteratura nel campo è oggi piuttosto ampia e spazia da riflessioni circa il ruolo della città nell’alimentare il consumo di esperienze urbane nel circuito capitalistico (si veda per esempio Hannigan, 1998), il ruolo di locali e spazi del divertimento nel negoziare alterità e socializzazione (per esempio si vedano i contributi raccolti in Skelton e Valentine, 1997; si veda anche Riley et al., 2010;

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Tan, 2013), incluse prospettive femministe e queer (Binnie e Skeggs, 2004; Boyd, 2010; Hutton, 2006; Pini, 2001), analisi dei regimi di regolamentazione della vita notturna nello spazio urbano, inclusi specifici problemi legati a sicurezza e uso di alcool (Chatterton e Hollands, 2002 e 2003), lavori tesi a esplicitare i collegamenti fra scena del divertimento e neoliberalismo urbano, per esempio nei termini di gentrification (Cybriwsky, 2011; Hae, 2011; Spracklen et al., 2013; Keatinge e Martin, 2016), e altri studi più vicini ai cultural studies, che evidenziano per esempio i processi di soggettivazione – incluse soggettivazioni politiche – prodotti attraverso le pratiche del divertimento e del clubbing (Malbon, 1999; Northcote, 2006; Shaw, 2014). All’interno di questa ampia letteratura, due prospettive appaiono di particolare importanza per questo lavoro: da un lato, il legame fra spazi ricreativi e politica dello sviluppo urbano, e dall’altro lato la relazione fra spazi del divertimento giovanile e soggettivazione politica dell’alterità/normalità. Per quanto riguarda il primo punto, limitando la riflessione al legame tra accumulazione capitalistica e spazio urbano, il punto di partenza della considerazione riguarda i già discussi cambiamenti sociali ed economici degli ultimi decenni, i quali hanno generato importanti ristrutturazioni nelle città occidentali: riassumendo in poche righe un dibattito durato molti anni, si è passati, in generale, da un’economia di stampo fordista ad una fase successiva caratterizzata da modalità di consumo più varie e segmentate e da forme di specializzazione e di accumulazione flessibile di capitale che si basano su una crescente quota di simboli e contenuti culturali (Harvey, 1997; Lash e Urry, 1994). Parallelamente, si è assistito alla crescente globalizzazione e al cambiamento di scala nella competizione economica, fenomeni che hanno aperto nuovi spazi di competitività per le città, accompagnando, tra l’altro, il ben noto passaggio da politiche urbane improntate sul governo ad altre basate su governance e imprenditorialità (Harvey, 1997). Queste generali dinamiche dello scenario economico ben si sovrappongono alla rinno-

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vata centralità del tema degli spazi del divertimento. I luoghi della ricreazione notturna si caratterizzano, infatti, per essere spazi essenzialmente post-moderni, in quanto legati alla ricreazione e al loisir, con un’elevata presenza di contenuti culturali e di simbolismi sociali (la frequentazione di un certo spazio del divertimento si lega inevitabilmente a questioni di status, come già teorizzato quasi un secolo fa da autori classici della sociologia, come Thorstein Veblen). Ancor più, gli spazi del divertimento sembrano oggi costituire una leva della competitività urbana, in quanto ormai da anni è ampiamente riconosciuto come i “flussi globali” che le città tentano di attrarre con operazioni di marketing territoriale (investimenti, classe creativa, turisti, ecc.) siano fortemente attenti al clima culturale e ricreativo della città (un assunto al cuore dei celebri lavori di Florida, 2002). La seconda prospettiva di rilievo riguarda il rapporto fra spazi ricreativi e soggettivazione politica dell’alterità/normalità. Il contributo della letteratura di stampo femminista è qui cruciale: i luoghi del divertimento non sono necessariamente inclusivi, ma anzi spesso esclusivi, in quanto aperti solamente a soggetti ben definiti in termini di classe, età, sessualizzazione, connotazione razziale. Lo spazio del divertimento di alcuni può rappresentare spazio di esclusione e violenza per soggetti “fuori luogo” (Cresswell, 1996; Boyd, 2010). Non a caso, e in parte come reazione, da molti anni autori delle scienze sociali hanno evidenziato come i giovani possano usare gli spazi e i modi del divertimento come elementi per la creazione di identità alternative e contro-culturali (Hebdige, 1979 [2017]; Riley et al., 2010; Spracklen, 2013). Da un punto di vista strettamente urbano, i luoghi “alternativi” alla base di questi processi di soggettivazione da un lato tendono a collocarsi in spazi marginali e interstiziali (l’interstizialità spaziale sembra rafforzare l’idea di alterità sociale e politica), e dall’altro lato la presenza di gruppi “alternativi” sembra rendere ulteriormente marginali determinati spazi, rinforzando una dialettica socio-spaziale di forze centrifughe e centripete, di assimilazione e alterità.

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I Murazzi, dinamiche storiche nel contesto della città Le considerazioni di ordine teorico formulate nel paragrafo precedente assumono una certa importanza se trasposte al caso di Torino. Gli spazi dei Murazzi ben si collocano nel quadro del cambiamento del legame fra vita notturna e trasformazioni materiali ed immateriali della città: da una Torino operaia semideserta la notte e operosa di giorno degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso si è passati alla Torino, preponderante nelle narrazioni degli anni Novanta e Duemila, che si diverte e che celebra se stessa e la propria movida, a partire dal momento massimo di spettacolarizzazione della città nel suo complesso legata ai Giochi Olimpici Invernali del 2006 (Vanolo, 2008). Questo cambiamento di centralità degli spazi del divertimento – e dei soggetti del divertimento, chiamati genericamente e spesso impropriamente “giovani” – nella celebrazione di Torino si è quindi accompagnato a una traslazione del suo posizionamento: i Murazzi hanno progressivamente perso l’aura di luogo “diverso”, fino a una progressiva normalizzazione culminata poi nella “morte” stessa del senso del luogo e nella sua ‘museificazione’ nei ricordi mitizzati di molti cittadini che hanno vissuto l’esperienza di quegli spazi del divertimento negli anni Ottanta e Novanta. I Murazzi del Po (i “Murazzi” per tutti, i “Muri” per molti torinesi) originariamente erano gli approdi e le rimesse delle barche collocati lungo la sponda ovest del Po, in prossimità del centro storico della città, nell’area, al livello del fiume, antistante la piazza Vittorio Veneto; partendo dal Ponte Umberto I ed arrivando fino al Ponte Regina Margherita, si snodano per circa un chilometro e mezzo. L’origine del nome è collegata agli argini (appunto, muri) costruiti nel corso del XIX secolo per preservare la città dalle piene del fiume. Fino agli anni Cinquanta del XX secolo, i locali ricavati all’interno degli argini furono usati per il rimessaggio delle barche da pesca; nel ventennio successivo tali spazi, man mano abbandonati dai pescatori, subirono un pro-

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gressivo degrado che durò fin verso la seconda metà degli anni Settanta, quando la città intraprese una politica di rilancio dell’area che puntava a riqualificare la zona e a renderla maggiormente “controllata” in termini di sicurezza pubblica. In particolare, di giorno venne creato un servizio di navigazione sul fiume, con imbarco proprio ai Murazzi; di notte, tali spazi vennero presidiati da una ronda fissa di polizia. Furono, inoltre, concesse licenze per l’apertura di locali serali – proprio nei magazzini un tempo usati per la messa a dimora delle imbarcazioni – con lo scopo di attirarvi gente nelle ore notturne. Il primo club privato (Il dottor Sax, dal nome di uno dei più celebri romanzi di Jack Kerouac) aprì i battenti nel 1979 nel cosiddetto “lato sinistro dei Murazzi” compreso tra il Ponte Vittorio Emanuele I e il Ponte Regina Margherita. Di lì a breve seguirono gli altri – per un totale di una dozzina di locali – che andarono a collocarsi anche nel “lato destro” tra il Ponte Vittorio Emanuele I e il Ponte Umberto I. Per tutti gli anni Novanta e per il primo decennio degli anni Duemila, le arcate lungo il fiume continuarono ad ospitare serate di musica dal vivo e dj nei vari locali consolidandosi quale scena musicale underground torinese, di fama nazionale e internazionale. Come accennato, dal 2012, per una molteplicità di cause esogene alle dinamiche spaziali dell’area, le arcate furono chiuse, come sarà più ampliamente discusso più avanti nel testo. Negli anni successivi, alcuni locali sono rimasti chiusi e sono, oggi, in attesa di una riqualificazione e rifunzionalizzazione, mentre altri hanno riaperto riproponendo, perlopiù nel weekend e d’estate, serate live e dj set. Nonostante la riapertura di alcuni spazi, i Murazzi hanno comunque certamente smesso di giocare un ruolo di primo piano nella vita notturna della città. I Murazzi, ieri e oggi, fra vuoti e nostalgie Allo scopo di ricostruire le dinamiche evolutive dell’area, sono state individuate tre frasi cronologiche distinte, relative alla fase di genesi della vita notturna, alla fase di diffusione

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e commercializzazione (o normalizzazione), e alla fase più recente, di rimozione. Dagli anni Ottanta ai primi anni Novanta: l’invenzione della vita notturna Davanti al lento scorrere del Po, con in fronte il Monte dei Cappuccini e, un po’ più a sinistra, le luci della chiesa della Gran Madre è raro, se non quasi impossibile, trovare un quarantenne torinese che non abbia, almeno una volta, fatto le ore piccole ai Murazzi. Per una buona fetta di persone che oggi hanno dai trenta ai sessant’anni quegli spazi hanno rappresentato la meta fissa delle notti torinesi. I Murazzi, per più circa trent’anni, infatti, sono stati una parte del cuore notturno della notte cittadina che si presentava, soprattutto nei primi anni di vita, come “atipico, alternativo, controcorrente” (intervista a Paolo, 48 anni). Dalle chiacchiere con gli intervistati più anziani emergono descrizioni di una città che la sera, agli inizi degli anni Ottanta, si presentava ancora buia e nebbiosa, con strade deserte dalle ventidue in poi. In generale, le poche persone che si incontravano in giro la sera tardi erano prostitute che aspettavano i clienti agli angoli delle strade, se pensavi ai bar di allora pensavi a quelli dei catanesi, loschi, cupi e pieni di fumo, non certo ai locali come oggi li intendiamo noi [...] Erano da poco passati gli anni di piombo, c’era ben poco da divertirsi (intervista a Antonio, 59 anni).

Erano appunto gli anni in cui Torino nell’immaginario collettivo veniva considerato un dormitorio grigio per i lavoratori Fiat, ma anche la scena privilegiata dei movimenti operai, delle violente lotte sociali, della produzione controculturale come nel caso delle musiche punk e hardcore, come quelle dei Negazione2. In quella fase, i Murazzi sono descritti e ricordati come bui e semideserti: 2

I Negazione furono un gruppo musicale hardcore punk attivo a Torino

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La prima lucina che spuntò fu il Dottor Sax; poi, verso metà anni Ottanta, dall’altra parte del ponte, arrivò Giancarlo, e poi via via tutti gli altri (intervista a Antonio, 59 anni).

I racconti degli intervistati riportano ad atmosfere nostalgicamente noir, tratteggiando i Murazzi come uno spazio ‘altro’, di nicchia, apparentemente inospitale, teatro di microcriminalità, ma al contempo vivo e creativo. Altroché se me lo ricordo il Dottor Sax all’inizio: entravi in ‘sta specie di tunnel stretto, buio […] fuori era deserto, solo freddo, buio, umidità e brutte facce che cercavano di venirti vicino e di barbarti3 il portafoglio. Essere lì, nel cuore della notte, ai Murazzi, era la cosa più trasgressiva e pericolosa che un torinese perbene a quei tempi potesse immaginare (intervista a Umberto, 60 anni). Perché ci andavo? Beh innanzitutto perché lì mi sembrava un po’ di essere nella swinging London e poi perché al Sax suonavano musica jazz: ai tempi lì ci faceva i concerti gente come Enrico Rava e Paolo Conte! (intervista a Antonio, 59 anni).

Dalla metà degli anni Ottanta fino alla metà dei Novanta, parallelamente all’apertura di numerosi altri locali negli ex magazzini del fiume, la città sembrava cominciare a cambiar pelle e i Murazzi iniziarono ad essere conosciuti come luoghi di divertimento notturno. Non si trattava dell’unico spazio di questo tipo in città, ma sono in molti a parlare della ‘magia’ dei Murazzi, a sottolinearne la peculiarità, come un unicum torinese dovuto “a un qualcosa, chissà cosa, che stava nell’aria” (intervista a Anna, 63 anni).

fra gli anni Ottanta e Novanta. La scelta del nome Negazione voleva esprime proprio “un’attitudine di ribellione, ma al tempo stesso una forza collettiva che ci portava a costruire qualcosa. Quindi una negazione di cose che ci possono opprimere unita alla costruzione di qualcosa di meglio” (dal sito www. negazione.com, consultato il 15 aprile 2017). 3 In dialetto piemontese “barbàre” significa rubare.

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Molte voci mettono in risalto come la forza di quei luoghi stesse, probabilmente, proprio nell’‘energia’ e nei contrasti, a volte anche nella ‘rabbia’, che solo tali spazi erano in grado di sprigionare: A Torino si potevano trovare delle energie creative e sociali uniche, secondo me impossibili da trovare da altre parti in Italia (intervista a Paolo, 48 anni). Mi ricorderò per sempre dei concerti alla Lega dei Furiosi… quelli sì che erano, manco a dirlo, concerti furiosi! (intervista a Umberto, 60 anni).

In quegli anni anche la politica si accorse che sulle ‘banchine’ stavano accadendo degli avvenimenti degni di interesse e fu del 1989 la decisione dell’assessore alla Gioventù della città di allora – anche forse sperando, invano, di ‘normalizzare’ movimenti controculturali – di destinare un paio d’arcate a un Centro sociale autogestito (CSA) ai Murazzi del Po. Si è trattato di un primo momento di spinta verso l’emersione della cultura underground, processo che ovviamente, a prescindere da qualsiasi considerazione di merito o valore, non può prendere forma senza lo snaturamento stesso dell’idea di underground. Quasi per contrasto a una città che per anni si era tenuta dentro la voglia di fare e di divertirsi, nei primi anni Novanta si diffuse l’idea di ‘far tardi’ all’aperto ai Murazzi, di chiacchierare davanti al locale in cui si era stati fino a poco prima o a bere su una panchina davanti al fiume. Lo spazio che, a detta degli intervistati, incarnava, più di tutti, questo “nuovo” modo di vivere o immaginare la notte era il “Circolo Amici del fiume” conosciuto da tutti come “da Giancarlo”4, un luogo divenuto simbolo della notte torinese. 4 “Da Giancarlo”, circolo Arci con chiusura alle 6.30 del mattino, si insediò nel lato destro in fondo alle arcate; il locale prendeva il nome dal gestore, Giancarlo Cara, conosciuto da tutti coloro che frequentavano i Murazzi. A Giancarlo fa riferimento la canzone Subacqueo degli Africa Unite (gruppo musicale rocksteady-dub nato in provincia di Torino agli inzi degli anni ’80,

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Giancarlo era come dire la Mole o la Juve [...], è lui che ha inventato la rivoluzione notturna a Torino! (intervista a Paolo, 48 anni). Giancarlo all’inizio lo trovavi che chiacchierava con Verdone, Troisi, Paolo Conte [...] non era solo uno dei tanti bar dei Muri: da lì c’è passata la storia della musica e della creatività di Torino, lì si sbronzava Vinicio Capossela, lì ci incontravi Gipo Farassino [...]; a notte tarda arrivavano i jazzisti, gli intellettuali della città, i pittori, gli scrittori [...], per tutti gli anni Novanta è stato luogo di ritrovo dei MauMau, degli Africa Unite, i Persiana Jones, i Linea 77, e poi i Subsonica, i Marlene Kuntz… (intervista a Francesca, 51 anni).

Giancarlo rappresenta uno spazio particolarmente interessante nella narrativa del luogo perché riproduce un vero e proprio spazio ibrido fra idee di “normalizzazione” e di “alternatività”. Formalmente un circolo Arci, e quindi teoricamente orientato a un’ideologia politica di sinistra, in realtà il circolo appariva trasversale a qualsiasi posizionalità politica e sociale. Nella esperienza e nelle memorie dell’autrice, il locale – dall’aspetto decisamente decadente – attirava all’inizio degli Novanta un pubblico di giovani e non giovani davvero eterogeneo. Si trattava di uno dei luoghi più frequentati negli orari più vicini al mattino che non alla sera tardi, e la folla sembrava auto-riprodursi con logiche proprie: le persone affollavano Giancarlo non perché fosse un luogo piacevole o attraente, non perché ci fosse una particolare musica da ballare (le proposte erano spesso generiche), ma perché sapevano di trovare lì altre persone, potenziali relazioni, possibili contatti con le piccole e grandi star della cultura giovanile locale, alcool e droghe a prezzo contenuto. Come aneddoto personale, ricordo che, a metà degli anni Novanta, in un viaggio a Barcellona, ebbi uno scambio con uno spacciatore spagnolo che, riconosciuta la mia provenienza torinese, considerato la prima band del panorama reggae italiano) quando nomina “l’uomo col cappello che ha un giradischi per cannone mentre si accendono i Murazzi in una danza senza fine”.

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esclamò una semplice associazione di idee del tipo “Torino! Murazzi! Giancarlo!”. Giancarlo era, in questo senso, una celebrazione di un immaginario di cosmopolitismo: l’idea di uno spazio notturno “d’eccezione”, in cui erano possibili socialità apparentemente impossibili durante il giorno (la prossimità fisica con un vip, con un pusher, con un soggetto posizionato in una stratificazione sociale completamente differente). Giancarlo è stato a lungo il luogo iconico dei Murazzi, e per molti torinesi i due termini sono stati a lungo sostanzialmente dei sinonimi. Dalla seconda metà degli anni Novanta a i primi anni Duemila: la fase di normalizzazione Sul finire degli anni Novanta la scena sul lungo fiume cominciò a cambiare. I Murazzi, in quegli anni, divennero enormemente di moda, e in questo senso diventarono, agli occhi delle frange più ricercate della cultura e controcultura locale, uno spazio “commerciale”: citati tanto nelle guide turistiche della città che nelle canzoni di cantanti e gruppi che ne descrivevano le loro “peculiarità”5, rappresentarono uno dei luoghi privilegiati della movida della città, “con tutto quello di bello, e di non bello, che questa parola poteva rappresentare” (intervista a Gianna, 42 anni). I Murazzi sembrano riflettere quello che è il cammino intrapreso dalla città che si attrezzava, proprio in quegli anni, a investire e a “brandizzare” discorsi sulla cultura, sull’intrattenimento, sul turismo. Immagini della vita notturna dei Murazzi cominciarono a fare capolino sulle brochure promozionali della città, in particolare negli anni legati all’euforia delle Olimpiadi invernali del 2006, un fenomeno apparentemente impensabile negli anni Ottanta e Novanta, quando i Murazzi erano dipinti nella narrativa mediatica come un 5 Per esempio i Subsonica nella canzone “Istrice” (in cui il sottofondo è stato registrato dal gruppo dalla riva dei Murazzi) o Vinicio Capossela nel celebre “Il tanco del murazzo” o nella già citata “Subacqueo” degli Africa Unite.

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luogo sporco e forse anche pericoloso a causa della diffusa presenza di attività microcriminali, come per esempio lo spaccio di droga. Negli anni Duemila le arcate si ripulirono e si riempirono, in breve tempo, di locali alla moda dal design studiato e minimale che fortemente si contraddistingueva dal look precedente, e in particolare da Giancarlo. Nelle notti d’estate, quando il caldo si faceva insopportabile, si poteva “scendere”, sulla sponda sinistra di Piazza Vittorio Veneto e sdraiarsi a sorseggiare un aperitivo sulle sdraio di un noto locale chiamato “The Beach”, con sottofondi di musica tecno-house ed elettronica. Dall’altro lato era possibile ballare musica commerciale in locali come il Pier o il Jammin, o ancora bere un chupito al Puddhu Bar o una sangria all’Olé Madrid. Il pubblico di questi locali era plausibilmente meno etorogeneo rispetto a un tempo, in quando essenzialmente assimilabile a una generica classe media. Sono questi gli anni in cui sulle sponde dei Murazzi si formarono i Subsonica e vi transitò buona parte della musica italiana ‘indie’ del periodo; tali spazi divennero tappa fissa del clubbing italiano più celebre e della musica house. Ovviamente, questa onda di popolarità dei Murazzi ha progressivamente allontanato i movimenti sub-culturali più desiderosi di un distanziamento rispetto al mainstream6. Nonostante la regolarizzazione dell’area dei Murazzi, secondo molti intervistati ‘Da Giancarlo’ rimase, anche in quegli anni, il locale per ‘eccellenza’ e un luogo di ‘resistenza’ ed ‘alterità’ rispetto alle spinte dell’omologazione: Il martedì era imperdibile, da Giancarlo c’era il mondo. Prima delle due non arrivava nessuno, dopo trovavi chiunque. Era un luogo democratico: selezione inesistente, tessera Arci controllata mai, ultras del Toro come sicurezza, cocktail a bassissimo prezzo. Era una specie di zona franca: potevi farci quello

6 Si pensi, per esempio, alla musica punk, all’hard core o al mondo delle posse, movimenti che, peraltro, stavano, già di per se stessi, sperimentando una progressiva diminuzione di popolarità in quegli anni.

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che volevi e ci trovavi il marcione7 di fianco al musicista affermato o al calciatore della Juve (intervista a Davide, 45 anni).

Secondo altri, invece, nessun locale riuscì realmente a mantenersi immune dalle trasformazioni indotte dal nuovo modo di consumare e anche i luoghi storici (sono in tanti a citare proprio “Da Giancarlo”) vennero invasi da nuove tipologie di clienti che poco – o niente – ne sapevano della filosofia originaria di quegli spazi, qualunque essa fosse. Giancarlo divenne il luogo in cui il martedì ci ritrovavamo tra universitari, tanti di noi eravamo finti alternativi o radical chic… in verità non ne sapevamo molto di quello che era lo spirito di un tempo di quel locale (intervista a Paola, 38 anni).

Nel complesso i Murazzi cominciarono a perdere quel carattere di unicità e di trasgressione che da sempre li aveva caratterizzati per diventare più comunemente uno dei luoghi (assieme al Quadrilatero Romano e ai Docks Dora principalmente) del playscape cittadino (Crivello, 2009). Ricordo un’esclamazione di Giancarlo Cara, il gestore dell’omonimo locale, una notte, all’incirca a metà degli anni Duemila, di fronte all’ennesima richiesta da parte di un avventore del circolo che gli chiedeva di poter scattare una foto assieme: “Spero di non fare la fine di Buffalo Bill!” E se poco, o nulla, rimaneva in quegli anni della “Libera Repubblica dei Murazzi”, così come definita dal suo – peraltro autoproclamato – presidente Peppo Parolini8, c’è anche chi sottolinea come: È vero, i Murazzi erano diventati straordinariamente di moda, e ahimè straordinariamente commerciali: lo spirito del punto di incontro, dove nascevano cose, musica, teatro c’era sempre meno. Si andava ai Muri solo per bere e divertirsi [...] 7 Termine gergale per definire un individuo solito ad ubriacarsi o fare uso di droghe. 8 Per approfondire la figura di Peppo Parolini si rimanda al testo di Marilena Moretti intitolato “Dal basso dei Cieli”.

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però forse meglio così, rispetto agli anni in cui la notte finiva sempre con le ambulanze della Croce Rossa al livello del fiume (intervista a Riccardo, 42 anni).

La fase più recente: il declino della vita notturna Già durante i primi anni del nuovo millennio la zona dei Murazzi divenne oggetto di molti dibattiti in Consiglio Comunale: da un lato i residenti le zone limitrofe diedero vita a un procedimento penale protestando contro il frastuono e il degrado della zona durante le ore notturne, evidenziando come il fenomeno dello sviluppo del waterfront torinese non sia andato affatto di pari passo con fenomeni di gentrification osservati altrove nella letteratura (Semi, 2015). Dall’altro lato, vennero contestati ai locali numerosi abusi edilizi (oltre un centinaio di violazioni, accertate nel 2012 ma risalenti spesso agli anni Novanta, relative a lavori interni ed esterni ai locali); a tali questioni si aggiunse, inoltre, un’inchiesta giudiziaria (conclusasi anni dopo con un “tutti assolti”) che coinvolse gestori dei locali, dirigenti e assessori del Comune in merito a questioni di concessioni date a fronte, però, di cospicui arretrati nel pagamento degli affitti alla Città. È plausibile immaginare che la crisi dei Murazzi si sovrapponga, non a caso, con il declino di una coalizione urbana (Belligni e Ravazzi, 2012). Il decennio della giunta Chiamparino, fra il 2001 e il 2011, era stato caratterizzato da un clima effervescente circa le possibilità di promuovere lo sviluppo urbano attraverso i settori del turismo, della cultura, del divertimento. Il progressivo affievolirsi degli entusiasmi, l’inevitabile rallentamento successivo al mega-evento e il termine del mandato del popolarissimo sindaco hanno probabilmente avuto un ruolo non secondario nel declino dell’area. I Murazzi sembrano progressivamente scomparire: i gestori sono sempre più scontenti e rassegnati, le notti perdono di identità fino ad arrivare, con il 2012, alla chiusura delle arcate. Simbolicamente, in una fredda giornata di fine novembre 2012, venne celebrato il “funerale dei Murazzi”, un vero

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e proprio corteo funebre di centinaia di persone con tanto di fanfara che accompagnava una bara vuota e che da Piazza Vittorio Veneto si muoveva in direzione del Municipio. Dal 2012 ad oggi sono stati numerosi i tentativi e le iniziative che hanno cercato di riportare in vita i locali del Lungo Po, ma hanno avuto tutte scarso successo; tante sono state anche le esortazioni da parte di personaggi famosi e gruppi musicali a far riaprire i locali o a rifunzionalizzarli per attività culturali varie. Fra tutti, sul sito dei Subsonica si leggeva “(I murazzi) Oggi versano in uno stato di spettrale abbandono. Vi chiediamo, se condividete di firmare, con pochi clic la petizione online perché vengano riaperti e assegnati con finalità culturali artistiche e sociali, perché non muoiano per sempre” (www. subsonica.it, cons. 15. Aprile 2017). Sono, infatti, in molti a pensare che: “Quei luoghi, quelle storie e soprattutto quelle modalità di socialità sono un patrimonio da preservare” (intervista a Giorgio, 40 anni). Tra gli intervistati c’è chi pensa, per esempio, che sarebbe una bella idea trasformare un’arcata – per lo più l’arcata di Giancarlo – nel “Museo dei Murazzi”, “un museo che nasca dalla volontà e dal contributo di chiunque senta di avere un debito nei confronti di quegli spazi” (intervista a Federica, 38 anni). Ad oggi la Città si è fatta carico dell’esecuzione di tutta una serie di interventi edili ed impiantistici volti alla riqualificazione dell’intera area mentre nel giugno 2016 è stata indetta una gara per la concessione ad usi commerciali della maggior parte delle Arcate. Mentre la ristrutturazione dei singoli locali è ancora in divenire, si conosce, all’incirca, l’identikit di quelli che saranno i gestori, per lo più trentenni, con qualche esperienza di gestione di attività commerciali e che insedieranno nei locali sushi bar e ristoranti, discoteche (insonorizzate) e negozi (tra cui una torrefazione, attività di sport, ecc.); al posto di Giancarlo sorgerà, probabilmente, uno spazio gestito da Eutourist che venderà piatti pre-confezionati. È invece del 2013 l’insediamento, dove un tempo c’era la Lega dei Furiosi, della

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cosiddetta “Murazzi Student zone”, una sala lettura-studio, dotata di accesso a wi-fi, postazioni multimediali, con una piccola emeroteca e una caffetteria per accogliere gli studenti durante il giorno e la prima serata, operazione che simbolicamente opera un ribaltamento dei ritmi diurni e notturni che caratterizzavano il luogo. Conclusioni Il lavoro presentato in queste pagine tratteggia alcune fasi evolutive dello spazio dei Murazzi, a partire dalla fondazione del primo locale nel 1979 fino alla chiusura di gran parte dei locali nel 2012. Idealmente, e nelle ricostruzioni derivate dalle interviste, il trentennio di storia comprende l’intero ciclo di vita di questo spazio del divertimento, dalla nascita alla morte, sancita addirittura con un carnevalesco funerale. Com’è facile intuire, la ricostruzione di uno spazio della vita notturna come quello qui descritto implica l’evocazione di un denso senso di nostalgia per un tempo ormai perduto. Senza dubbio, la nostalgia – un’emozione tipicamente legata alla nostra condizione di post-modernità, come sottolineato per esempio da Jameson (1991) – è l’emozione maggiormente palpabile nelle parole degli intervistati, riferendosi probabilmente a un tempo, quello della giovinezza e della prima età adulta, spesso molto significativo nelle memorie delle persone, inclusa quella dell’autrice di questo saggio. Con tutta probabilità, anche la nostalgia ha bisogno di incarnarsi in luoghi fisici, e i Murazzi possono essere considerati uno spazio di sedimentazione di memorie e affetti trasversali ai vari ‘giovani’ che li hanno attraversati lungo un arco di più di trent’anni. Allo stesso tempo, è interessante notare la progressiva “rinegoziazione” del senso di autenticità ed eccezionalità dei Murazzi: per i fruitori della prima generazione, negli anni Ottanta, la scena degli anni successivi era tendenzialmente falsa, commercializzata e culturalmente inferiore rispetto a

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quella “originale”. Tuttavia, discorsi analoghi sono riconducibili agli utenti degli anni Novanta rispetto a quelli successivi. Probabilmente, ogni generazione sente la necessità di auto-centrare la propria esperienza giovanile producendo una propria “cosmogonia” del divertimento: per una certa generazione, la musica degli anni Settanta è stata unica e irripetibile, ma lo stesso si dice degli anni Ottanta, Novanta e forse anche Duemila (Reynolds, 2010). La proposta di museificazione dei Murazzi appare a questo proposito sinistramente malinconica: quali Murazzi si intendono cristallizzare nella memoria? Probabilmente differenti generazioni di giovani hanno in mente differenti immaginari del luogo, forse ormai perduti o, comunque, distanti dalla realtà del luogo stesso. L’esperienza dei Murazzi può anche essere decodificata come una storia di progressiva normalizzazione e assimilazione. La scena della vita notturna torinese costituiva un elemento marginale nelle narrazioni della città negli anni Ottanta, ma con il tempo Torino si è progressivamente trasformata in un luogo di consumo e non di produzione – la metafora della città della cultura che supera quella della città-fabbrica appare paradigmatica – e i Murazzi sono stati ‘normati’ all’interno di questa logica, trasformandosi in una sorta di immagine-vetrina di quella che, alcuni anni più tardi, sarebbe stata etichettata come “classe creativa”. Tuttavia, questa trasformazione sembra aver danneggiato l’immaginario dei Murazzi come luogo “alternativo” solamente agli occhi di una fascia ristretta di utenti: la popolarità dei Murazzi è rimasta elevata nel tempo, fino allo shock della chiusura per cause apparentemente esterne e fuori controllo (guai fiscali, licenze). La “morte” del luogo ha ovviamente contribuito alla sua miticizzazione: l’immagine spettrale del waterfront privo di locali è probabilmente più potente dell’immagine di un luogo vivo ma inaccessibile, magari perché distante dalla propria età o comunque diverso rispetto a come lo si ricordava.

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L’improvvisa chiusura dei locali ha reso i Murazzi uno spazio di transito piuttosto ambiguo: è possibile osservare persone che passeggiano, di giorno e in parte anche la notte, ma non pare dominare una funzione specifica. In questo senso, la storia dell’area sembra anche testimoniare la potenza del consumo ricreativo nell’imprimere identità nei luoghi: la dimensione commerciale ha rapidamente marcato l’identità del luogo – i Murazzi come spazio del divertimento e della vita notturna – ma una volta che il capitale e la funzione ricreativa commerciale hanno abbandonato lo spazio, stenta ad emergere qualcosa di nuovo e di differente. Si tratta probabilmente di un monito da tener presente davanti al diffondersi di strategie di disneyficazione che tendono a trasformare intere parti della città in oggetti effimeri, gradevoli agli occhi ma estremamente fragili. I Murazzi non sono infatti l’unico esempio di spazio ricreativo esploso ed imploso nel giro di pochi anni (si pensi, per esempio, al caso dei Docks Dora, ben noto ai torinesi di una certa età: Crivello, 2009), e non mancano esempi di spazi torinesi che possono essere considerati, in qualche modo, i “nuovi Murazzi”.

Iniziative dal basso nella città che cambia. Riflessioni a partire dal caso di San Salvario Magda Bolzoni

San Salvario, nelle parole di chi lo abita e lo vive tutti i giorni, è un quadrilatero di pochi isolati, stretto tra la stazione centrale di Porta Nuova e il Parco del Valentino, un paese dentro la città, con ritmi, storia e atmosfera distinti. Un quartiere vivo, complesso, multiforme, a volte caotico, che tiene insieme molte luci e molte ombre e di cui spesso si sottolinea lo storico e ricco tessuto associativo. È attorno a questo spazio, alle sue trasformazioni recenti e ai suoi legami con il resto della città, che ruotano queste pagine. Nell’arco degli ultimi vent’anni, il quartiere ha vissuto numerosi cambiamenti, ciclicamente salendo agli onori di cronaca come simbolo di crisi, o, all’estremo opposto, di rinascita. Da zona considerata pericolosa e difficile è diventato esempio di integrazione multiculturale prima e luogo del tempo libero e dell’intrattenimento serale poi, quartiere di punta della creatività artistica e della movida torinese. Tra le vicende e i vari protagonisti della sua storia, ci concentreremo qui sul ruolo della società civile: più parti infatti sottolineano la relativa marginalità degli attori pubblici e l’assenza di un piano integrato per le trasformazioni del quartiere, e, al contempo, la rilevanza di associazioni e di iniziative dal basso. Parlare di San Salvario ci consente dunque di aggiungere un tassello all’esplorazione di Torino, da un lato, e, dall’altro, di condurre una riflessione sul ruolo che la società civile può avere in processi di trasformazione urbana e sulle possibili sfide insite in questo protagonismo.

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Ho indagato il quartiere di San Salvario principalmente tra il 2010 e il 2014, con un periodo di ricerca etnografica più intenso tra il 2011 e il 2012 in cui ho vissuto nel quartiere per circa un anno e ho preso parte alla sua vita sociale, associativa e culturale, frequentando incontri, riunioni ed eventi. L’osservazione partecipante, tipica dell’approccio etnografico, è stata corredata da analisi di materiale documentario, normativo e mediatico, e dalla raccolta di interviste qualitative con autorità locali, rappresentanti di associazioni, commercianti e residenti. Obiettivo era mettere a fuoco dinamiche, attori principali e implicazioni sociali e culturali di una trasformazione che sembrava aver preso forma senza interventi integrati e di ampio respiro da parte delle autorità cittadine. San Salvario tra trasformazioni e continuità. Il ruolo della società civile Le vicende di San Salvario contribuiscono a formare e allo stesso tempo acquisiscono significato all’interno della storia di Torino, che si trova, con la crisi del modello fordista, a reinventarsi ruolo, identità e struttura economica. Questo accade in un momento di crisi politica nazionale e complessa ridefinizione di ruoli e poteri, in cui le autorità cittadine si trovano a ricoprire un ruolo chiave (Bagnasco, 1990; Harvey, 1989, Le Galés, 2002). Negli anni Novanta, sotto la spinta del primo sindaco eletto e della nuova giunta, attori pubblici e privati lavorano congiuntamente per mettere a punto nuove strategie di sviluppo e allontanarsi dall’immagine di città industriale (Vanolo, 2008; 2015b). Viene redatto un Piano Strategico, una nuova governance cittadina prende forma, così come una nuova, largamente condivisa e concertata, immagine della città e dei suoi futuri sviluppi (Belligni e Ravazzi, 2012). Sottolineeremo più volte come il quartiere non sia stato interessato direttamente da politiche ad hoc di rigenerazione e sviluppo, e che, mentre gli attori pubblici hanno rivestito un ruolo relativamente marginale, la rete associativa e le

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iniziative dal basso sono emerse come protagonisti centrali. Eppure, il clima culturale e politico della città, gli interventi messi a punto in altre aree, così come il discorso su come Torino doveva essere e sarebbe diventata, hanno fortemente, seppur indirettamente, influenzato le sue trasformazioni. Il quartiere di San Salvario vede la luce a metà Ottocento, in concomitanza con la demolizione delle mura cittadine e a pochi anni dall’inaugurazione della stazione centrale di Porta Nuova. La stazione, a un estremo del quartiere, e il Castello del Valentino, che già allora ospitava parte dell’Università di Torino, all’altro, ne caratterizzano fin da allora lo spazio sociale. San Salvario è da sempre un quartiere socialmente misto, in termini di classe, religione e provenienza (Ires Piemonte, 1995) e si trovano nelle sue strade il primo tempio protestante della città, la sinagoga, alcune chiese cattoliche e, da tempi più recenti, sale di preghiera musulmane. È stato porto di arrivo di successive ondate migratorie, dalle campagne attorno alla città prima, dal Sud Italia negli anni del boom economico e da altri Paesi dagli anni Ottanta in poi. Il numero di stranieri residenti nella zona statistica di San Salvario aumenta in maniera costante fino al 2010, passando dal 5,5% del 1990 al 26,3% del 2010, per poi diminuire, raggiungendo il 20,7% a fine 2016. Altra caratteristica di rilievo è la compresenza di funzioni differenti: già il piano urbanistico iniziale prevedeva botteghe, laboratori e negozi al piano terra e appartamenti ai piani superiori, mescolando quindi destinazioni d’uso residenziali e commerciali. A metà degli anni Novanta, il quartiere diviene noto come esempio di “crisi urbana”: episodi di micro-criminalità e spaccio, la crisi della piccola distribuzione, la decadenza di alcuni edifici e l’insofferenza di una parte di cittadinanza nei confronti della presenza di un numero crescente di stranieri si combinano tra loro, creando un clima di tensione e sfiducia (Allasino et al., 2000; Belluati, 2004). San Salvario è in quegli anni considerato un’area pericolosa e in degrado: la chiusura di un numero elevato di piccoli esercizi di prossimità, particolarmente visibile in virtù di quella caratteristica

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architettonica descritta poco sopra, contribuisce ad acuire tale percezione, mentre a inframmezzare le saracinesche abbassate si moltiplicano i negozi etnici. La denuncia di questa situazione di malessere diffuso, apparsa in forma di intervista all’allora parroco del quartiere su La Stampa a settembre 1995, avvia una serie di riflessioni e interventi. D’altra parte, le fasi di crisi possono trasformarsi in un momento creativo e di rilancio, in cui gli attori si mettono in gioco e si attivano per trovare risposte nuove a problemi emergenti (Allasino et al., 2000). Questo malessere conclamato ha spinto così all’azione tanto le autorità cittadine quanto la società civile, che si sono mosse però su piani differenti. Si è trovato il modo di affrontare la crisi come un’occasione per fare delle cose innovative. C’è stata una rete associativa molto attiva, c’è stata una capacità da parte dei cittadini, molto forte. […] Ci sono state delle politiche pubbliche, ma politiche che hanno operato più nell’ambito dell’ordinario che dello straordinario, quindi al di fuori di un grande piano, in maniera un po’ carsica, certe volte un po’ anarchica, un po frammentata, però alla fine le cose si sono anche un po’ incrociate con l’attivazione di risorse volontaristiche, associative. Quindi con anche una spinta significativa dal basso.1

Gli interventi delle autorità cittadine si concentrano infatti principalmente su questioni di sicurezza pubblica e migliorie infrastrutturali. Alcuni edifici particolarmente decadenti vengono ristrutturati con l’attivazione di Piani di Recupero Obbligatorio, l’implementazione del Decreto Bersani fornisce sostegno ai piccoli commercianti e imprenditori di zona e le infrastrutture del mercato di Piazza Madama Cristina vengono interamente rifatte. Viene aperto un presidio della polizia urbana e i parcheggi in strada vengono resi a pagamento, assicurando un controllo continuo. Non viene sviluppato un piano di intervento integrato per la rigenerazione 1 Intervista a R., 29 settembre 2011, residente e rappresentante di associazione.

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del quartiere, ma vengono piuttosto messi a punto interventi minuti e mirati in risposta a problemi specifici. A San Salvario è stato avviato un processo di rigenerazione più immateriale che materiale […] si sono attivate le risorse immateriali di quel quartiere, e sono state anche fatte delle politiche di sostegno, abbiamo usato i fondi dell’ex legge Bersani sul commercio per la riqualificazione, eccetera. […]. È un processo che macina risorse interne del quartiere, sostenuto dalle politiche pubbliche della città, e... anzi, in questi anni se andiamo a vedere gli investimenti pubblici, insomma, fisici, di quel quartiere, oltre che strade, marciapiedi, no, quindi di rigenerazione... spicciola… […] rivendico però delle politiche pubbliche che hanno lavorato sulla multiculturalità, sull’associazionismo, sulla ripresa delle risorse di un quartiere.2

Associazioni, agenzie educative, comitati di cittadini e commercianti, e, più in generale, le iniziative della società civile, emergono come cruciali, in particolare da un punto di vista sociale e simbolico. Convergono sulla zona le azioni di realtà già esistenti e di enti religiosi che nel quartiere sono molti e diversi; inoltre, più di 50 associazioni e realtà diverse si costituiscono nel territorio in concomitanza e risposta alla situazione di crisi: alcune si concentrano su un tema o una popolazione specifica, altre adottano una visione di insieme, lavorando sul territorio. Tutte impiegano però una lente spaziale, sviluppando le proprie azioni all’interno del quartiere. Nella fase acuta della crisi, la città organizza incontri di confronto a cui prendono parte associazioni di zona, comitati di residenti e di commercianti, rappresentanti religiosi e cittadini interessati. Alcuni di questi si riuniscono attorno a un obiettivo comune: lo sviluppo sociale, culturale, ambientale ed economico del quartiere, fondando l’Agenzia per lo Sviluppo Locale di San Salvario. Associazione di secondo livello con un proprio staff e consiglio esecutivo, dal 1998 riunisce realtà eterogenee ed è oggi composta da 2

Intervista ad assessore rigenerazione urbana, 5 giugno 2012.

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27 enti no profit che operano nel quartiere. L’Agenzia viene avviata anche grazie al supporto delle autorità cittadine, che in quel periodo stavano considerando di includere San Salvario nel Progetto Speciale Periferie e avevano bisogno di un attore collettivo di riferimento. San Salvario non è poi mai effettivamente entrato a far parte del Progetto, ma l’Agenzia ha continuato a esistere, divenendo centrale nel percorso di trasformazione del quartiere. Invece di dedicare le proprie attenzioni ad una popolazione specifica, quali ad esempio i migranti, in quel periodo al centro delle tensioni, l’Agenzia adotta un approccio multidimensionale che guarda al quartiere nella sua interezza e complessità. L’Agenzia non si occupava di immigrati. Si occupava di abitanti di San Salvario. C’erano degli immigrati dentro? Bene, sono abitanti, quindi ce ne occupiamo. Ma non in quanto immigrati. Averlo detto, ripetuto, dimostrato poi nei fatti e non solo a parole alla fine ha consentito all’Agenzia di superare un immenso rischio di strumentalizzazione che poteva esserci all’inizio […] L’Agenzia lavora per… la conservazione dell’esistente, migliorato. Se questa può sembrare… poco estrema come posizione politica, ritengo tuttavia che sia la più concretamente perseguibile, e… ammesso che sia perseguibile, è già… straordinaria.3

L’Agenzia si afferma velocemente come canale di mediazione tra la municipalità e i residenti, organizzando priorità e veicolando richieste. Tanto nell’esperienza dei Piani di Recupero Obbligatori quanto in quella del sostegno economico per il commercio di zona lavora infatti come intermediario tra gli attori coinvolti. A fine anni Novanta e inizio anni Duemila, gli interventi dell’Agenzia ruotano principalmente attorno a questioni di sicurezza urbana, mediazione di situazioni conflittuali e facilitazione di conoscenza tra abitanti del

3 Intervista ad A., 2 febbraio 2011, fondatore e direttore dell’Agenzia dal 1998 al 2009.

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quartiere, mettendo in comunicazione realtà diverse e fornendo un luogo di interazione e collaborazione. L’Agenzia è riuscita ad aggregare anche negli anni più caldi soggetti che normalmente non si parlano tra loro, i protestatari, i comitati spontanei dei commercianti e così via con la parte più sociale culturale giovanile. Questo ha innescato un processo positivo… è riuscito in qualche modo a integrare la parte protestataria dentro meccanismi di, come dire, assunzione della complessità, no, cioè, ok, va bene, protesti, c’hai l’immigrato sotto casa che spaccia, così via, ok, va bene, metti i drappi neri e così, però seduto attorno a un tavolo stiamo a ragionare su cosa effettivamente si può fare. Questa dinamica è stata positiva, i soggetti che hanno protestato a un certo punto si sono anche un po’ seduti attorno a un tavolo a cercare di capire cosa si poteva concretamente fare. E hanno collaborato con noi, con la polizia municipale, con… l’Agenzia ha rappresentato un po’ un punto di vista complessivo, di relazioni tra i soci, cosa che adesso si nota meno.4

Successivamente, l’attenzione si allarga verso iniziative artistiche, culturali e di promozione territoriale. Nel 2005, l’Agenzia avvia un progetto per il recupero dei vecchi bagni municipali di zona, in disuso, al fine di trasformarli in un luogo di aggregazione sociale e culturale. Grazie al contributo del Comune e della Fondazione Vodafone, a settembre 2010 viene inaugurata la Casa del Quartiere di San Salvario. La Casa ospita un caffè-ristorante, un laboratorio informatico, sale per incontri, attività e spettacoli e un ampio cortile interno con un piccolo angolo verde e alcuni giochi. È aperta tutti i giorni, dal mattino fino a tarda sera, con accesso libero. La gestione è in carico all’Agenzia, che ha spostato qui i propri uffici; gli spazi possono essere affittati e utilizzati a tempo da associazioni, enti e privati, con una turnazione all’interno della medesima giornata tra attività diverse.

4 Intervista a R., 29 settembre 2011, residente nel quartiere e direttore dell’Agenzia dal 2009.

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Le iniziative sviluppate tra la metà degli anni Novanta e i primi anni Duemila nel quartiere contribuiscono al superamento del clima di crisi e tensione e portano alla creazione e rafforzamento di reti interne al tessuto associativo. Il cambiamento inizia a essere percepito all’esterno verso la metà degli anni Duemila, quando San Salvario, nuovamente alla ribalta mediatica come elemento di confronto con altri quartieri che negli anni Novanta avevano vissuto momenti di tensioni connessi alla convivenza interetnica5, viene considerato un quartiere multiculturale, esempio positivo di integrazione riuscita. In una fase storica in cui la presenza di una popolazione diversa e variegata è considerata ingrediente per un’esperienza urbana autentica, il carattere multiculturale del quartiere emerge come caratteristica positiva: la diversità da problema diventa risorsa su cui puntare per promuovere la zona (Aytar e Rath, 2012; Lloyd, 2006). Allo stesso tempo, alcune saracinesche a lungo abbassate si rialzano per ospitare piccoli studi di architettura e design, anche grazie alla prossimità con la Facoltà di Architettura. Un numero crescente di studenti universitari, giovani architetti, grafici e artisti inizia a frequentare il quartiere per lavoro e durante il tempo libero e in alcuni casi anche a risiedere in zona, attirati, oltre che da convenienza e centralità, dall’atmosfera multiculturale e vibrante del quartiere. Il centro storico è vicino e gli affitti sono relativamente più bassi, anche se il patrimonio immobiliare del quartiere non si è mai interamente deprezzato: situazioni di decadenza erano presenti a macchia di leopardo, inframmezzati a edifici storici e di pregio, mentre a esercizi di prossimità e negozi etnici si sono sempre affiancati negozi destinati a clienti con elevata capacità di spesa. A sostenere la nuova immagine del quartiere si inserisce l’esperienza di Paratissima, una manifestazione di arte contemporanea che tra il 2008 e il 2012, per alcuni giorni a inizio novembre, trasforma il quartiere in una gal5 Si veda ad esempio l’articolo di Gad Lerner sui fatti di via Padova, a Milano, apparso su Repubblica a febbraio 2010.

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leria d’arte diffusa e in un palcoscenico per eventi artistici e musicali, contribuendo a caratterizzare il quartiere come giovane, creativo e vivace (Rota e Salone, 2014). Paratissima nasce nel 2005, quando un piccolo gruppo di giovani artisti, architetti e amanti dell’arte lancia un evento che rivendica la libertà dell’espressione e fruizione dell’arte in contrapposizione alla natura elitaria della Fiera d’Arte Contemporanea di Torino, Artissima. Esposizione artistica aperta e senza intermediazione di gallerie, né biglietto d’ingresso, si svolge ogni anno negli stessi giorni di Artissima, ospitando un numero crescente di espositori. Nel 2008 approda San Salvario, anche con l’intenzione di dimostrare la capacità dell’arte di abbattere barriere e creare un territorio comune al di là delle differenze. La manifestazione artistica esce dalla logica di uno spazio espositivo unico per mescolarsi alla vita quotidiana, occupando negozi, cortili interni e spazi sfitti attraverso il coinvolgimento di commercianti e proprietari di spazi vuoti e grazie all’interazione con altre realtà associative. Qui noi abbiamo avuto la fortuna di arrivare e di entrare nella dinamica di San Salvario, una dinamica che era già... in moto, che era quella di affrancarsi dall’idea di quartiere difficile, valorizzando le caratteristiche del territorio […] Paratissima, è venuta qui in maniera molto tranquilla, nel senso io stavo pensando e provando a fare sul territorio una cosa che fino all’anno prima si era fatta in un locale chiuso. Abbiam detto “proviamoci”, perché già noi come progetto Stesso Piano, organizzavamo gli “aperitivi co-abitanti” e un commerciante ci ha detto “perché non ci portate qui degli artisti?”. […] I commercianti all’inizio erano sospettosi, poi è stato un successo, ma è stato un successo, è stato interpretato un successo da un quartiere che ha visto in quella cosa lì un altro pezzo di affrancamento. Noi siamo arrivati in quel momento qui e abbiamo dato un’accelerata a un processo in un momento proficuo, probabilmente siamo stati un enzima che ha accelerato e ha dato una direzione al quartiere che adesso va.6

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Intervista a D., 19 ottobre 2011, fondatore di Paratissima.

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Al di là dei numeri e del ritorno economico che la manifestazione ha avuto sul territorio, Paratissima è stata un tassello importante nel processo di trasformazione dell’immagine del quartiere. Permaneva ancora in quegli anni, infatti, l’immagine di San Salvario come di un quartiere pericoloso, problematico e difficile: Paratissima contribuisce a popolare l’immaginario con elementi che ruotano attorno alla creatività e all’arte, attirando una popolazione giovane, di piccoli imprenditori e creativi che scelgono di aprire le proprie attività in zona, nonché giovani interessati al quartiere come luogo alternativo di intrattenimento, attività culturali e tempo libero. Nelle interviste con alcuni di loro, Paratissima viene annoverata tra gli elementi che hanno portato a scegliere San Salvario per le proprie attività e, in alcuni casi, l’evento è stato occasione per conoscere la zona. Nel frattempo, il combinato di leggi nazionali e ordinanze locali che da un lato liberalizzano il commercio e la somministrazione a livello nazionale e dall’altro bloccano l’apertura di nuovi esercizi nelle zone centrali della città di Torino, favorisce la trasformazione commerciale del quartiere. Ristoranti e locali notturni si affiancano agli esercizi di prossimità, ai negozi etnici, agli studi di architettura e design e ai negozi di lungo corso, per poi rimpiazzarne un numero sempre maggiore, in quello che può essere inteso come parte di un processo di gentrificazione commerciale. Il nuovo tessuto commerciale attira studenti universitari e giovani rappresentanti della cosiddetta nuova classe media urbana (Butler e Robson, 2003) in orari serali e notturni e il carattere multiculturale e creativo del quartiere si stempera man mano che diventa il nuovo cuore della movida torinese. A questo contribuisce anche la chiusura dei Murazzi, di cui parla Crivello nel suo capitolo, che dirotta la vita notturna in altre aree della città, San Salvario in primis. Chi passeggia tra le strade del quartiere durante il giorno continua a notare molte saracinesche abbassate. Non si tratta però più di spazi sfitti, ma di locali notturni che aprono i battenti dal tardo pomeriggio a notte inoltrata. Cambiano i ritmi del quartiere

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e si affermano nuovi frequentatori, quantomeno nella fascia notturna, mentre si trasforma relativamente poco la popolazione residente: i casi di gentrificazione residenziale sono limitati e interstiziali (Todros, 2010) e interagiscono in modo non lineare con la crisi economica prima e con la trasformazione del quartiere in distretto dell’intrattenimento serale poi. Il rumore notturno, la specializzazione sempre più pervasiva degli spazi commerciali della zona, il gran numero di giovani presenti fino a tarda notte in strada e il conseguente uso intensivo degli spazi pubblici diventano nuove fonti di tensione. Non si tratta di un fenomeno limitato alla sola zona di San Salvario, come ci ricordano i contributi di Cingolani e Crivello, e anzi ben rappresenta il nuovo corso della città che punta su consumo, cultura e intrattenimento. Se alcune delle realtà associative già esistenti cercano di fare i conti con questo nuovo trend del quartiere, altre nascono specificamente per questo. È il caso di Rispettando San Salvario, formatosi nel 2010 per opera di un gruppo di residenti, che contesta la nuova direzione del quartiere denunciandone l’impatto in termini di inquinamento acustico e disturbo al sonno. Tra le attività dell’associazione, composta, soprattutto nelle fasi iniziali, da residenti di lungo periodo che vivono in angoli “caldi” del quartiere, vi sono esposti, lettere di denuncia, raccolta di informazioni sugli effetti della privazione di sonno, richieste alle autorità cittadine di rendere operative le regolamentazioni su disturbo della quiete pubblica, orari di apertura e somministrazione. L’associazione acquisisce maggiore visibilità nell’estate del 2012, quando espone drappi arancioni alle finestre, recanti scritte incentrate sul tema dell’inquinamento acustico. Queste bandiere, con scritte come “Dormire, sì grazie”, “Dormire è un bisogno”, “Dormire è salute”, vogliono denunciare l’impatto delle attività notturne sul benessere degli abitanti e allo stesso tempo rendere visibile la presenza di residenti (scontenti) ai piani alti degli edifici. Negli ultimi vent’anni, differenti espressioni dell’associazionismo locale, di movimenti artistici e della società civile

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hanno dunque assunto un ruolo centrale nel cambiamento del quartiere, ne sono stati motore e parte integrante, contribuendo e interagendo alle diverse fasi di trasformazione, favorendo alcuni percorsi e criticandone altri. Chi cambia la città? Azioni dal basso e trasformazioni urbane In decenni recenti, trasformazioni globali hanno ridisegnato la geografia dei rapporti di potere e le città si sono affermate come attori cruciali per lo sviluppo dei propri territori (Brenner, 2004). In un contesto di crescente competizione, in cui il paracadute dello stato si rivela sempre più debole, le autorità cittadine sperimentano un passaggio forzato dal ruolo di gestori di servizi a quello di imprenditori impegnati in prima linea per la crescita urbana (Harvey, 1989). Porzioni di spazio urbano vengono identificati come problematici, e diventano sede di interventi di rigenerazione urbana, o come luoghi che possono trainare la crescita, e vengono quindi ulteriormente promossi e sostenuti. In alcune situazioni i due estremi si incontrano, come ci ricordano alcuni casi di gentrification, zoning, promozione di mix sociale all’interno di quartieri popolari o di intrattenimento notturno in aree considerate marginali ma al contempo vibranti e autentiche: interventi di sviluppo e crescita economica si sommano a (anzi, secondo alcuni si travestono da) interventi volti ad affrontare situazioni di disagio e disuguaglianza sociale (Lees, 2008; Ocejo, 2014; Uitermark et al., 2007). È anche in queste trasformazioni globali che si possono ricercare le radici della rinnovata attenzione per la dimensione spaziale e locale (Bagnasco, 1994; Warf e Arias, 2009), che interessa anche iniziative della società civile che iniziano a focalizzare le proprie azioni su uno spazio piuttosto che solo su tema o un segmento di popolazione. Il territorio non è più semplicemente un contenitore, ma diventa allo stesso tempo risorsa, strumento e obiettivo (Bourdreau, 2003). Ne

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sono esempio i numerosi movimenti che, in diverse parti del mondo, si riconoscono nello slogan di “diritto alla città”, che presentano rivendicazioni e discorsi anche molto differenti e in alcuni casi difficilmente conciliabili (Mayer, 2009), così come le forme di resistenza e protesta a processi di trasformazione urbana, movimenti NIMBY, comitati di residenti e cittadini uniti dall’attenzione per un territorio specifico. Altra questione di rilievo è la riarticolazione dei rapporti tra stato, mercato e società civile, i cui equilibri sono mutevoli e i rispettivi pesi e ruoli strettamente interdipendenti (Bifulco et al., 2006; Swyngedouw, 2005). In un periodo di (reale o percepito) fallimento delle forme consolidate di stato e mercato, il coinvolgimento di un mix di attori privati e del terzo settore sembra poter garantire esiti vincenti, in cui crescita economica e inclusione sociale vanno di pari passo (Mayer, 2003; Swyngedouw, 2005). Anche in virtù della progressiva contrazione della spesa sociale pubblica e del nuovo ruolo di città e governi locali, il ruolo statale nelle politiche urbane si trasforma da provider a enabler (Briata et al., 2009) e i processi di rigenerazione urbana passano sempre più attraverso l’attivazione di risorse locali esistenti. Attori non pubblici sono invitati a partecipare attivamente (se non a farsi carico) ai processi di trasformazione, legittimati dalla promessa di una più ampia democrazia (Raco, 2000). Queste dinamiche possono creare un contesto favorevole a un maggior protagonismo di iniziative dal basso, mobilitazioni e azioni promosse da associazioni e società civile nei processi di trasformazione urbana. Tuttavia, nonostante la promessa di maggior coinvolgimento e inclusione che questo protagonismo sembra offrire, non bisogna scivolare in quella che Purcell definisce la “trappola del locale”, ovvero l’assunto che “tanto maggiore sarà l’autonomia che le popolazioni locali avranno nel prendere decisioni a proposito della propria area urbana, tanto più democratiche e giuste saranno tali decisioni” (2006, p. 1925). Sposare tale assunto significa attribuire un giudizio di valore a priori secondo cui la scala locale è intrinsecamente migliore, più giusta e democratica

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di altre. Le scale, tuttavia, non sono entità con caratteristiche ascritte: il coinvolgimento in processi di trasformazione urbana di iniziative dal basso, realtà associative e terzo settore non è condizione sufficiente per assicurare democrazia e giustizia sociale. Anzi, questa centralità comporta una serie di nodi critici, tanto in termini di dinamiche interne quanto nel rapporto con le autorità locali e gli altri attori del territorio. Se l’assenza di regole specifiche e codificate relative al processo partecipativo permette nuove e innovative forme di organizzazione e soluzioni creative, apre anche a questioni delicate in termini di partecipazione, rappresentanza, legittimità, e rapporti di potere tanto interni quanto con autorità statali (Vitale, 2007). Queste collaborazioni prendono forma in un contesto scarsamente regolamentato e tendono a creare, includere e supportare alcuni attori, escludendone altri (Swyngedouw, 2005). Movimenti, associazioni e mobilitazioni, per quanto ispirate ad alti principi valoriali, esprimono desideri particolari e particolaristici, veicolano richieste specifiche e visioni parziali di ciò che il quartiere, o la città, è e dovrebbe essere. Laddove le autorità locali interagiscono in via preferenziale e includono alcuni attori, scelgono e legittimano alcune visioni e richieste specifiche, escludendo al contempo le altre. Non bisogna poi dimenticare che tali realtà, il cui coinvolgimento in processi decisionali e di trasformazione viene spesso considerato una strategia per assicurare maggiore democrazia, inclusione e partecipazione, non necessariamente hanno al proprio interno strutture democratiche e rappresentative. La riarticolazione del rapporto tra stato, mercato e società civile e la pervasività dei meccanismi neoliberali possono inoltre influenzare le dinamiche interne delle realtà associative. Col tempo gli attori si possono trovare stretti tra le visioni, obiettivi e priorità iniziali e la necessità di attirare finanziamenti privati o pubblici per supportare concretamente le proprie azioni. Per fare questo, devono intercettare trend, interessi e parole chiave, e ri-modellare la propria immagine in un modo che possa adattarsi alle visioni strategiche e alle

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priorità individuate da città ed enti finanziatori. Seppur su un’altra scala, questo vale anche per le città, che si trovano a competere per attrarre investimenti e finanziamenti nazionali e internazionali, pubblici e privati. Città e reti associative si trovano in qualche modo a giocare un gioco simile, seppur su scale diverse e con responsabilità differenti. La centralità che la logica della competizione riveste può avere l’effetto di spingere nel retroscena le visioni e gli obiettivi iniziali per aderire invece a trend percepiti come di maggior successo (Edwards, 1997). Di fatto, la logica della competizione globale finisce con l’interessare anche queste realtà e supporta un approccio “che si focalizza maggiormente sulla crescita e lo sviluppo economico piuttosto che su questioni di consumo collettivo, servizi sociali e ridistribuzione delle risorse” (Bourdreau, 2003, p. 183). È tutto oro quello che luccica? Il ruolo cruciale e positivo che la società civile, le molte piccole iniziative nate da residenti e frequentatori di questo spazio urbano, le associazioni che nel tempo si sono strutturate, ha rivestito nel contesto sociale e culturale di San Salvario è emerso in modo chiaro durante la ricerca. Al contempo, però, man mano che il lavoro di campo avanzava, hanno iniziato a presentarsi, più o meno timidamente, anche voci contraddittorie e discordanti. Al netto degli apporti concreti e degli aspetti positivi di un tale coinvolgimento, è dunque utile provare ad approfondire i possibili nodi critici, le frizioni e anche le delusioni che possono ruotare attorno a queste esperienze. Di fronte a una tazza di caffè in un locale aperto da poco, Maria, che vive nel quartiere, lascia trasparire la preoccupazione che l’Agenzia abbia un po’ perso il polso di quanto accade in zona: non si spiegherebbe altrimenti l’assenza di interventi per mediare le tensioni derivanti dalla crescita dei locali notturni. Parla con tono deluso, come se avesse asse-

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gnato all’Agenzia il ruolo di paladina della propria visione di quello che il quartiere era e doveva essere, di un quartiere che probabilmente Maria avrebbe voluto cambiasse lungo traiettorie diverse da quelle imboccate. Giancarlo, chiacchierando nel suo ristorante, che avrebbe chiuso i battenti non molto tempo dopo, racconta di aver sostenuto Paratissima nelle sue prime fasi, di essersi sentito parte della spinta trasformativa che incarnava, ma di essersene poi allontanato, considerandola ormai una festa di paese più che una manifestazione artistica. Ancora, Lorenza si chiede con rabbia come mai le richieste di Rispettando San Salvario non vengano prese sul serio dall’amministrazione, cosa debbano fare le persone che abitano nelle vie piene di locali per ottenere attenzione e considerazione. Se i nomi sono stati cambiati, le persone, i dialoghi e le situazioni sono reali ed esemplificano alcuni dei nodi critici emersi, avviando la riflessione. Le esperienze descritte in queste pagine sono molto diverse tra loro, tutte sottolineano però la rilevanza che un protagonismo di associazioni e iniziative dal basso può rivestire. Se i vari interlocutori sottolineano l’importanza dell’Agenzia negli anni immediatamente successivi alla crisi, rilevandone le azioni sociali sul territorio, la capacità di lettura dei problemi del quartiere e il ruolo di mediazione tra anime diverse della società civile e tra queste e le istituzioni, alcuni ritengono di vedere una diminuita attenzione alle dinamiche del territorio. Lo spostamento della sede dell’Agenzia al di fuori del quadrilatero tradizionalmente identificato con San Salvario, la rilevanza del lavoro di gestione della Casa e di realizzazione di eventi culturali sarebbero secondo alcuni cause e sintomi di uno spostamento d’attenzione, non più principalmente incentrato sul miglioramento e lo sviluppo dell’intero quartiere. Queste osservazioni interrogano le dinamiche trasformative che attraversano un’associazione in diverse fasi della sua storia e il suo rapporto con più ampie trasformazioni urbane, tanto quanto la percezione esterna di questi cambiamenti (reali o percepiti). Altre riflessioni riguardano invece le caratteristiche della Casa del Quartiere. Nonostante l’intenzione

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dell’Agenzia di affermare la Casa come uno spazio pubblico per gli abitanti del quartiere, i suoi frequentatori iniziali non sembrano rispecchiare il mix sociale che caratterizza la zona: erano soprattutto giovani professionisti, intellettuali, giovani famiglie della nuova classe media urbana, e, più in generale, coloro che in qualche modo già gravitano attorno alle associazioni della zona, a fruire maggiormente dei suoi spazi. Riferendosi alle persone senza fissa dimora che, soprattutto nei periodi iniziali, passavano parte delle loro giornate nello spazio verde antistante alla Casa, alcuni intervistati hanno definito il contrasto tra le due realtà come stridente, due mondi divisi che non interagiscono tra loro. Questo aspetto sembra essere stato colto dall’Agenzia, che in anni successivi ha cercato di lavorare su una maggiore inclusività anche attraverso il coinvolgimento di associazioni che da tempo operavano con fasce di popolazioni marginali, facilitando una presenza e fruizione della Casa più variegata. D’altra parte, allargando lo sguardo a quello che è stato definito il modello di integrazione multiculturale di San Salvario, le voci sono discordanti e diversi osservatori, tanto italiani quanto stranieri, sostengono che la diminuzione della conflittualità non ha comportato una uguale maggiore inclusione sociale delle fasce marginali e straniere, quanto lo svilupparsi nel medesimo territorio di mondi e realtà parallele che non interagiscono tra loro e che solo grazie a questo non confliggono. Una sorta di spostamento di focus viene anche imputato a Paratissima che, come visto, era nata rivendicando la libertà dell’arte da costrizioni istituzionali ed economiche e per dare visibilità ad artisti giovani e poco conosciuti. Arrivando a San Salvario, l’iniziativa aveva aggiunto una presa di posizione sul valore sociale dell’arte: i suoi organizzatori hanno velocemente colto le potenziali ricadute positive sul territorio e hanno lavorato per facilitarle. Secondo alcuni, tuttavia, Paratissima in quegli anni si sarebbe man mano incentrata più sull’intrattenimento che sulla cultura: alcuni intervistati riscontrano in quegli anni un progressivo impoverimento in termini di importanza dell’arte all’interno della manifesta-

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zione, da un lato, e un crescente accento sul divertimento e sul consumo serale e notturno, dall’altro. In questo modo, Paratissima avrebbe supportato un’immagine di San Salvario non tanto legata alla cultura quanto all’intrattenimento che avrebbe facilitato l’affermarsi del quartiere come nuovo centro della movida torinese. Altri interlocutori hanno invece criticato l’uso di fondi pubblici, contestando il seppur marginale sostegno economico dato alla manifestazione. È interessante notare come la città abbia iniziato a considerare Paratissima un potenziale strumento di rigenerazione urbana, in grado di rivitalizzare e rilanciare un’area problematica a costo quasi zero per l’amministrazione pubblica. Su queste basi, l’amministrazione ha suggerito agli organizzatori di spostare l’evento negli spazi dell’ex-MOI, risistemati per le Olimpiadi Invernali ma poi lasciati vuoti. Nel 2012 Paratissima si è divisa tra le due location, mentre l’edizione 2013 ha avuto luogo quasi esclusivamente presso l’ex-MOI, con solo una piccola sezione a Porta Nuova. Nel 2013 Paratissima inizia ad ospitare anche gallerie, nel 2014 si sposta negli spazi di Torino Esposizioni, riadottando la modalità di una sola grande location, e dal 2015, sempre a Torino Esposizioni, viene per la prima volta introdotto un biglietto di ingresso, seppur al prezzo quasi simbolico di 3 euro. Dopo il periodo di San Salvario e quello, più breve, dell’ex-MOI (in cui la manifestazione non ha avuto l’effetto sperato in termini di rilancio della zona), l’evento sembra aver rinunciato a utilizzare l’arte come strumento di rigenerazione, tornando a focalizzare l’attenzione in maniera più esclusiva sull’ambito artistico. Da manifestazione “off” Paratissima è arrivata a collocarsi “nella top 4 delle fiere d’arte più visitate d’Italia”7 inserendosi tanto nel circuito d’arte ufficiale, quanto nella programmazione istituzionale degli eventi artistici della città, pur mantenendo un clima più giovane, alternativo e sociale. L’esperienza di Rispettando San Salvario solleva poi il tema della rappresentanza, sottolineando anche come solo 7

Presentazione edizione 2016 www.paratissima.it/evento-2016/

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alcune delle azioni della società civile vengano riconosciute dagli attori istituzionali come rilevanti. A fronte dell’iniziativa dei drappi arancioni, i giornali locali hanno parlato di una mobilitazione dei “residenti di San Salvario, che di notte non chiudono occhio mentre tutti si divertono nei locali del quartiere”8. A breve distanza di tempo, tuttavia, altri residenti, che probabilmente non si sono sentiti rappresentati da tale presa di posizione, hanno esposto dalle proprie finestre delle bandiere blu, con la scritta “Amo San Salvario, i suoi giovani, le sue voci, la sua vita”. L’hanno fatto, è poi emerso, su invito di un gruppo di esercenti, poi organizzatisi nell’associazione Amo San Salvario a marzo 2013. Questo esemplifica dunque la compresenza di visioni diverse, anche tra i residenti, di come si vorrebbe che il quartiere fosse e problematizza la rappresentatività di una, piuttosto che l’altra, mobilitazione. Inoltre, le proteste e le richieste dell’associazione sono state scarsamente prese in considerazione dalle autorità cittadine, che le hanno classificate come marginali e poco rilevanti, complice probabilmente il fatto che contestassero una crescita economica del quartiere (e quindi della città), incentrata sulla monetizzazione del tempo libero, del consumo e dell’intrattenimento serale e notturno, in sintonia con le linee di sviluppo promosse dall’agenda cittadina. Scarse, se non nulle, sono state le interazioni positive con esercenti e autorità o gli interventi volti a mitigare gli effetti del divertimento notturno sulla vita dei residenti, convincendo i membri dell’associazione dell’indifferenza dell’amministrazione e acuendo insofferenza e sfiducia. Alcune riflessioni conclusive Il protagonismo della società civile nel processo di trasformazione del quartiere e il coinvolgimento selettivo di alcune associazioni da parte delle autorità cittadine è un tratto 8

“Bandiere per dormire”, La Stampa, 2 giugno 2012.

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fondamentale delle trasformazioni di San Salvario. Osservarne le azioni in diverse fasi della storia del quartiere mostra tanto la loro rilevanza, quanto gli aspetti delicati che questo comporta: ben lunghi dallo sminuire la valenza positiva di tale ruolo, si vuole qui sottolineare la necessità di problematizzare queste dinamiche e non cadere nella già citata “trappola del locale”. Alcune associazioni e iniziative ricevono attenzione e sostegno, anche economico, da parte delle autorità locali, altre no; con alcune le istituzioni si sviluppano relazioni preferenziali, altre sono considerate non significative. Questo crea, inevitabilmente, delle disparità, non solo nel rapporto con le istituzioni, ma anche tra le diverse associazioni e realtà, legittimando alcune richieste e visioni della città ed escludendone altre. In molti casi, queste preferenze sono connesse alla costruzione dell’agenda politica, all’individuazione di nodi problematici e priorità, di come questi debbano essere inquadrati e, di conseguenza, affrontati (Cochrane, 2000). Le iniziative che adottano un linguaggio simile, utilizzano parole chiave condivise, inquadrano un problema con un approccio funzionale per le autorità locali, vengono più facilmente incluse. Il codice linguistico adottato, la definizione del problema e delle strategie per affrontarlo sono elementi cruciali, ma allo stesso tempo problematici dato che, chiaramente, riflettono una rappresentazione parziale della realtà (Swyngedouw, 2005): alcune definizioni del problema, strategie d’azione e priorità sono supportate, mentre altre rimangono nascoste e silenti, non solo nell’arena politica, ma anche in quella della società civile (Mele, 2000). Nel caso di San Salvario, uno dei silenzi forse più assordanti è quello degli stranieri: nell’arco di questi anni sono stati considerati come fonti di problemi o di sfide da affrontare, destinatari di progetti e interventi, risorse per la promozione di un quartiere multiculturale, e molto altro, ma raramente come attori sociali autonomi o attivi proponenti di iniziative e azioni. Anche nel caso di progetti destinati a supportare un percorso di integrazione, le regole del gioco sono stabilite altrove

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e spesso gli stranieri oggetti di intervento non hanno voce in capitolo sulla definizione dell’intervento stesso. Nonostante le eccezioni, sono ancora relativamente pochi gli esempi di protagonismo. In un quartiere in cui la popolazione straniera è arrivata a costituire oltre il 25% dei residenti questa appare una carenza significativa: le associazioni gestite o che includono stranieri sono relativamente poche e raramente hanno promosso iniziative o azioni al di fuori del ristretto circolo dei compatrioti o del tema migratorio. Appaiono considerati, e in qualche modo sono, marginali. Considerando che in Italia l’accesso all’arena politica e alle consultazioni politiche democratiche dei non-cittadini è molto basso e i tempi per l’ottenimento della cittadinanza continuano ad essere lunghi, spesso anche le iniziative e mobilitazioni dal basso sembrano faticare a supportarne il coinvolgimento e la partecipazione attiva. Gli stranieri sono tuttavia solo un esempio: c’è una fetta di popolazione, tendenzialmente la più marginale, che non prende parte alla vita associativa e le cui necessità e richieste rimangono inarticolate e dunque, spesso, non ascoltate. Se le associazioni e le iniziative dal basso sono portate e considerate a rappresentanza dell’intera popolazione urbana, c’è il rischio che alcune fasce, già tradizionalmente escluse, non riescano ancora una volta a partecipare al dibattito. Anche le dinamiche interne e le traiettorie di azione delle realtà analizzate presentano elementi di riflessione. L’influenza che le logiche di mercato possono avere nel trasformare queste forme di partecipazione e attivazione della società civile può essere molto forte. Nella ricerca è emerso come associazioni e iniziative si trovino a dover gestire una potenziale tensione tra la visione e gli obiettivi delle origini, da cui deriva la spinta per cui sono nate, e la necessità di trovare fondi, pubblici o privati che siano, per sviluppare concretamente i propri progetti e sostenere le proprie azioni nel medio e lungo periodo. Per sopravvivere, da un punto di vista economico, devono intercettare interessi e visioni di altri soggetti, che siano in grado di fornire dei finanziamenti. Il rischio di cooptazione e conformazione alla visione strategica

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della città di istituzioni o di altri soggetti privati è alto. In un certo senso, le trasformazioni e gli aggiustamenti di rotta che negli anni hanno attraversato le esperienze dell’Agenzia e di Paratissima potrebbero essere letti attraverso queste lenti. La pressione esercitata affinché il tessuto associativo si attivi e si faccia carico di processi di trasformazione e rigenerazione urbana può andare a discapito della carica critica e alternativa di queste esperienze, che si trovano in qualche modo a doversi sostituire a servizi e azioni pubbliche. L’esempio di San Salvario dunque mostra la capacità della società civile di organizzarsi e creare occasioni di trasformazione, in un contesto di scarso intervento dell’amministrazione pubblica, ma in cui questa è comunque favorevole e supporta tale protagonismo. Considerando la peculiarità del tessuto sociale del quartiere e la presenza di realtà associative ben prima della metà degli anni Novanta verrebbe da chiedersi quale risultato l’attivazione di risorse locali già esistenti potrebbe avere in contesti (città o quartieri) diversi, in cui tali risorse siano più scarse, o più difficilmente mobilitabili. A fronte degli aspetti positivi che un maggior ascolto, coinvolgimento e partecipazione della società civile nella gestione e nella trasformazione della città comportano, l’attenzione deve dunque rimanere alta, perché questa non si trasformi in un’occasione per lo sviluppo di nuove forme di esclusione.

È tutto etnico quel che conta? Conflitto per le risorse e narrazioni della diversità a Barriera di Milano Pietro Cingolani

Premessa. Quattro anni vissuti intensamente “Che ci faccio io qui?” È la domanda che molto frequentemente mi sono posto uscendo sfinito da una turbolenta riunione di condominio o trovandomi coinvolto nelle strade del mio quartiere in un acceso alterco nelle lingue e per i motivi più vari. Da oramai più di quattro anni vivo con mia moglie e due figlie in età prescolare in Barriera di Milano, nella zona nord di Torino. Abitiamo in un palazzo di inizio Novecento, costruito per le famiglie di lavoratori occupati nella zona, prevalentemente quadri intermedi e impiegati. Oggi nel condominio vi sono quindici nuclei famigliari: tre anziane donne sole, un gruppo di studenti universitari, sette famiglie con bambini piccoli e con figli adolescenti, una coppia di cugini quarantenni, due uomini soli di mezza età. Questi abitanti, per la maggior parte proprietari, sono arrivati nel palazzo in momenti differenti: vi è chi vi abita da più di trent’anni, come le anziane signore del pianterreno, e chi da pochi mesi, come i nostri dirimpettai, una coppia romena con figli piccoli. Le provenienze degli abitanti sono molto varie: gli italiani sono prevalentemente di origini meridionali, campani, pugliesi e siciliani. Vi sono poi tre famiglie nordafricane provenienti da regioni diverse del Marocco, due famiglie romene, una famiglia italo-romena.

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Fuori dalla porta di casa, nello spazio di un isolato, si ritrova la stessa varietà sociale e culturale del palazzo. Sul lato opposto della strada si affaccia un lussuoso ristorante, frequentato prevalentemente da immigrati cinesi benestanti, e affollatissimo in occasione di banchetti nuziali; tre chiese pentecostali nigeriane, ricavate nei seminterrati di una ex tipografia di fine Ottocento; un locale di spogliarelli, all’ultimo piano dello stesso stabile; un magazzino per la vendita di mobili e di vestiti usati. A un centinaio di metri si trova un ampio stabile destinato allo stoccaggio di materiale edilizio e una galleria d’arte che ospita esposizioni temporanee. Poco più avanti, sul viale principale, vi sono un locale di musica tecno, un centro fitness e decine di piccoli alloggi destinati a un progetto di housing sociale per famiglie rom indigenti. E ancora poco più in là si trovano tre grandi supermercati e le rovine degli stabilimenti della Fiat grandi motori, da anni chiusi e non ancora riconvertiti. Nel passato, quando ero studente universitario e vivevo in una piccola mansarda alla spalle di Piazza Vittorio, nel cuore del centro storico di Torino, non sapevo neppure localizzare sulla cartina geografica questa porzione di città. L’ho esplorata grazie a un percorso di ricerca etnografica iniziato nel 20111. In seguito, quando ho avuto necessità di una casa per la mia nuova famiglia, la scelta si è orientata verso un’area che ormai credevo di conoscere in tutte le sue sfumature. Da quando sono diventato residente la mia prospettiva è cambiata e sono certo che continuerà a trasformarsi, in un continuo gioco di sguardi dall’interno e allo stesso tempo dall’esterno. Il “che ci faccio io qui” è anche un “e ora dove andiamo?”. Ho scoperto che la ricerca di senso quotidiano non riguarda 1 Mi riferisco alla ricerca comparativa “Concordia Discors. Understanding Conflict and Integration Outcomes of Inter-Group Relations and Integration Policies”, promossa da FIERI e condotta nei quartieri di cinque città europee, Torino, Budapest, Norimberga, Londra e Barcellona. Nel caso di Torino sono stati studiati i quartieri di Barriera di Milano e di San Paolo. Per i risultati si rimanda a Pastore e Ponzo (2016).

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solo me, ma accomuna tutte le persone che, per le più svariate ragioni, sono approdate in Barriera di Milano. Il percorso che propongo in queste pagine è un’esplorazione etnografica e auto-etnografica tra le manifestazioni discorsive e le pratiche della diversità urbana in un quartiere post-industriale. Il dibattito sulla “diversity” e la realtà torinese. Perché studiarla e dove studiarla? Da più di un decennio negli studi migratori si è affermato il concetto di “superdiversità”, ideato da Steven Vertovec (2007) a partire da una riflessione sui cambiamenti delle realtà metropolitane contemporanee; questo autore analizza il caso emblematico di Londra e sottolinea come l’utilizzo delle classiche categorie etniche non renda più conto della complessità e delle stratificazioni socio-demografiche che caratterizzano le popolazioni urbane. Si sono moltiplicate le provenienze dei migranti, ma anche le diversità linguistiche, le tipologie di legami transnazionali, le identità di genere, le appartenenze generazionali. Alcuni studiosi hanno recentemente proposto di introdurre il concetto di “iperdiversità” (Barberis et al., 2017), per tenere in conto non solo la diversità in termini etnici, demografici e socioeconomici proposta da Vertovec, ma anche le differenze esistenti rispetto agli stili di vita, agli atteggiamenti e alle attività svolte all’interno della città. Le persone appartenenti allo stesso gruppo sociale possono infatti mostrare atteggiamenti piuttosto diversi rispetto alla scuola, al lavoro, alla genitorialità e possono avere routine quotidiane molto diverse. La diversità riguarda anche i modelli di mobilità quotidiana: vi sono abitanti che si muovono molto attraverso i confini urbani ed altri il cui orizzonte di mobilità è circoscritto all’interno del proprio quartiere residenziale (Syrett e Sepulveda, 2012). Il concetto di superdiversità viene spesso evocato in relazione ai temi della coesione sociale, della mobilità sociale

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e della competitività dei territori. Diversi studiosi si sono chiesti quanto le comunità miste possano attuare “pratiche di civiltà” per limitare i conflitti (Anderson, 2012) e a quali condizioni si possa trovare un equilibrio tra diversità e solidarietà (Amin, 2012). Sebbene la diversità sia spesso invocata come elemento decisivo per il rilancio economico di territori urbani in crisi (Bellini et al., 2008), le risposte non sono univoche e richiedono analisi che superino una meccanicistica e generica correlazione tra grado di diversità e possibilità di sviluppo. Un rischio ricorrente nel dibattito teorico e politico sulla diversità urbana è quello di sottostimare il peso delle relazioni di potere, che tuttavia sono strutturali e presenti in ogni forma di interazione. Le asimmetrie di potere sono sempre più rilevanti ed evidenti poiché nelle città si creano isole difficilmente interconnesse e gli spazi urbani sono sempre più percorsi da mura interne, materiali e simboliche (Mantovan e Ostanel, 2015). Torino, nella sua complessa transizione post-industriale, sta vivendo processi di frammentazione interna molto rilevanti, che spesso non sono stati colti dalle classi dirigenti. Le narrazioni pubbliche degli ultimi decenni, che hanno rispecchiato specifiche agende politiche e pratiche di governo, si sono organizzate su grandi modelli, quelli che Belligni e Ravazzi (2012) hanno definito la “Torino politecnica”, la “Torino policentrica” e la “Torino pirotecnica”. Uno sguardo profondo e attento alle dinamiche urbane ci può restituire un’immagine molto più frastagliata della realtà. Gli interventi di trasformazione fisica di Torino sono stati diseguali per intensità ed effetti e la popolazione è sempre più polarizzata per caratteristiche socio-demografiche tra zone urbane diverse (Comitato Rota, 2015)2. Se si ritiene che la diversità culturale, sociale ed economica costituisca un aspetto fondamentale per sostenere le capacità adattive del 2 Un esempio eloquente è costituito dai dati sulle condizioni di salute della popolazione. Vi sono quartieri della città in cui i livelli di salute sono migliori e le aspettative di vita sono molto più alte e altri in cui sono drammaticamente più basse (Costa et al., 2017).

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sistema urbano (Vanolo, 2014), è importante capirla in tutta la sua complessità, senza ridurla a un feticcio o a uno slogan politico. La proposta dalla quale ha preso le mosse il mio lavoro etnografico è stata quella di superare il “city-sm” metodologico (Pastore e Ponzo, 2016), che considera la città come unità d’analisi indifferenziata al suo interno, e concentrare invece l’attenzione su una porzione di territorio circoscritta da studiare nelle sue dimensioni sociali, istituzionali, fisiche e simboliche (Galster et al., 2008). Mi sono focalizzato sui processi di creazione dei confini sociali all’interno dei gruppi e tra i gruppi, ricercando gli elementi che strutturano le rappresentazioni e le interazioni reciproche. I gruppi di appartenenza non sono stati definiti a priori, ma sono stati considerati come entità in continua ridefinizione (Cornell e Hartmann, 1998; Wimmer, 2013). Barriera di Milano è uno dei territori della città con il più alto livello di diversità interna. È un quartiere nato alla fine dell’Ottocento, originariamente all’esterno della cinta daziaria, poi successivamente inglobato nel tessuto urbano con lo sviluppo industriale novecentesco, sviluppo accelleratosi ulteriormente negli anni del secondo dopoguerra (Beraudo et al., 2006). Da sempre è stata la destinazione di una massiccia immigrazione: a fine Ottocento dalle campagne piemontesi, nel primo dopoguerra da altre regioni del Nord Italia, negli anni del boom economico dalle regioni del Sud Italia e infine, dagli anni Ottanta in avanti, da altri paesi europei ed extraeuropei. La deindustrializzazione ha colpito pesantemente questo territorio, lasciando non solo vuoti urbani laddove erano presenti le grandi fabbriche, ma anche generando una progressiva e inarrestabile crisi occupazionale. Per questo Barriera è stato raccontato come quartiere “fragile”, sospeso tra la memoria di un passato produttivo e un futuro incerto, e come una “emiferia” in quanto geograficamente prossimo al centro città, ma allo stesso tempo marginale e molto lontano sul piano sociale e delle rappresentazioni pubbliche (Ciampolini, 2007). Barriera è il quartiere della città con il

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numero maggiore di nuovi nati, e allo stesso tempo con una delle popolazioni più anziane; è il quartiere dove si presenta la maggiore eterogeneità linguistica e culturale di Torino; è un quartiere con modelli di mobilità e tempi di residenza degli abitanti molto eterogenei (da residenti di lungo periodo, a neo-arrivati, ad abitanti di passaggio) (Cingolani, 2012). Dare un senso a tutta questa diversità è stata la sfida etnografica che ho cercato di affrontare come studioso e questa sfida è diventata anche la mia quotidianità in quanto abitante del quartiere. Io, tu, l’altro. Etichette e definizioni reciproche Gli abitanti del quartiere si confrontano ogni giorno con la diversità, all’interno dei loro palazzi, per le strade e nelle piazze, nei negozi e nei servizi pubblici. Nel raccontare e nel dare un senso alla loro esperienza definiscono i gruppi di appartenenza e vi attribuiscono specifiche caratteristiche. La principale divisione che viene costantemente evocata è quella tra un “noi italiani” e un “loro stranieri”. L’immagine dello straniero è associata a topos discorsivi ricorrenti: l’invasione, l’utilizzo illegittimo del welfare, la mancanza di codici di comportamento civile, la devianza. L’invasione viene descritta come un vero e proprio processo di appropriazione spaziale avvenuto negli anni con lo spostamento di popolazione straniera da altre parti della città. Spesso questa immagine dell’invasione “dall’esterno” è accompagnata da un’immagine di invasione “dall’interno” per un percepito crescente squilibrio demografico a favore dei cittadini stranieri, legato soprattutto al maggior numero di figli. Nelle parole di una barista cinquantenne: “Loro sono sempre di più qua, non solo perché arrivano da fuori, ma perché fanno più figli di noi italiani. Quando vedo queste mamme marocchine con tutti questi bambini mi preoccupo e penso che presto ci supereranno. Mio figlio ha trentacinque anni e non è ancora sposato!”

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Lo straniero è anche utilizzatore illegittimo di welfare: un “noi” italiani impoveriti e isolati, viene contrapposto a un “loro” immigrati molto solidali, uniti e ben organizzati, che condividono informazioni per abusare dell’assistenza pubblica ma anche dell’aiuto messo a disposizione dalle associazioni caritatevoli e di volontariato. Una madre di mezza età, nella sala d’attesa del consultorio pediatrico, sottolineava: “Un’altra cosa incredibile è che la gente pensa che loro siano degli sprovveduti, invece sono molto esperti di tutta la macchina comunale, molto più informati degli italiani che vivono in questa zona e che avrebbero un bisogno maggiore.” Un ulteriore topos sul quale si articola la contrapposizione italiani/stranieri riguarda il non rispetto delle regole nelle interazioni quotidiane: l’ordine e la pulizia, il rispetto del silenzio nelle ore notturne, il rispetto delle regole stradali. Infine non di rado, oltre agli atti di inciviltà, la presenza di immigrati viene collegata alla criminalità, in particolare i piccoli furti, i borseggi e al commercio di stupefacenti. Su questo aspetto, più che le esperienze dirette, pesano molto le notizie che affollano una certa stampa locale. Una mia vicina di casa, cinquantenne di origini napoletane, conserva con cura ritagli di un giornale di cronaca locale e li sottopone alla mia attenzione durante le nostre chiacchierate, per dimostrarmi “oggettivamente” i problemi creati dagli stranieri. Infine, molti discorsi rivelano un generale disagio derivante dalla novità della presenza di nuovi codici linguistici e comunicativi, abitudini alimentari, e stili di abbigliamento, che modificano il paesaggio culturale urbano. Questa diversità disturba lo sguardo, colpisce i sensi e crea disorientamento cognitivo tra i residenti italiani di più lunga data. Come ricorda un anziano signore: Mi chiedi perché non posso sopportare gli immigrati? Perché non riesco più a orientarmi per le strade. Non trovo più le insegne in italiano, ma solo scritte in arabo o cinese e merce mai vista nei negozi. L’odore del cibo, non lo sopporto, un tempo

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qua c’era il profumo della pasticceria, una grande pasticceria che faceva i panettoni. Oggi ha chiuso e c’è solo odore d’Africa!

In questa geografia mentale che riguarda lo straniero, gli aspetti culturali vengono evocati molto frequentemente. I marocchini sono spesso descritti come approfittatori e malfidati; i nigeriani come sporchi e rumorosi; i romeni violenti; i rom molesti e ladri; i cinesi più discreti ma coinvolti in attività illecite. Se la separazione discorsiva più forte è quella tra italiani e stranieri, tuttavia nei discorsi correnti emergono anche altre etichette che rendono conto, per esempio, della varietà di provenienze regionali tra gli italiani. Le appartenenze locali, anche a distanza di quarant’anni dall’arrivo nel quartiere, rimangono vive e strutturano il racconto della diversità. Un signore palermitano sottolineava: Qua ci sono i piemontesi e i meridionali. E poi ci sono meridionali da tutte le parti, che però non sono tutti uguali. Per esempio io il pugliese non lo capisco proprio, come mentalità. È molto diverso da noi siciliani, pensa sempre al suo vantaggio e non è affidabile. Alla fine io preferisco il piemontese, è di poche parole ma le mantiene.

Gli abitanti di origini meridionali si soffermano spesso sui pregiudizi subiti nella quotidianità negli anni lontani del loro arrivo in città. Ma allo stesso tempo sottolineano anche con orgoglio il contributo culturale da loro portato e osservabile nel cambiamento degli stili di vita, dall’alimentazione alla cura della casa3. I meridionali si considerano parte di un “noi”, gli abitanti del quartiere, che hanno raggiunto un equilibrio sociale. Tuttavia colpisce come, nelle voci di alcuni residenti, emergano ancora stereotipi che dividono i settentrionali dai meridionali: 3 Questi cambiamenti, tra l’altro, sono inscritti anche nella geografia fisica del quartiere, dai negozi di alimentari con prodotti tipici del Sud, alla toponomastica delle strade e delle piazze, come nel caso di Piazza Cerignola (Basile, 2003).

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Tra noi torinesi e i meridionali ci sono molte differenze. Posso dire che su cento meridionali solo venti si sono integrati. Gli altri hanno imposto le loro abitudini. Loro sono proprio un’altra razza, si aiutano solo tra di loro, tra compari… All’inizio sembravano pecore bastonate, erano umili, spaesati. Poi hanno avuto il posto fisso in fabbrica, si sono fatti l’alloggetto, sono diventati arroganti. E adesso sono anche i primi a odiare i mori.

Questa testimonianza raccolta tra alcuni pensionati in una vineria del quartiere dimostra come, nelle diverse fasi storiche, i nuovi arrivati abbiano attivato processi di sostituzione che hanno minacciato le posizioni e la sicurezza sociale conquistata dai precedenti abitanti. Così come il “noi italiani” si scompone in rappresentazioni discorsive diverse anche l’apparente omogeneità del “loro immigrati” si scompone, nelle parole degli stessi migranti, in divisione tra gruppi nazionali e all’interno degli stessi gruppi nazionali. Ne presento solo alcune, per poi tornare più approfonditamente sui processi di creazione di queste categorie. I nordafricani, in particolare i marocchini, sono la presenza extraeuropea più antica. Una fondamentale divisione che spesso sottolineano è quella tra cittadini di provenienza urbana e campagnoli (Capello, 2008). Così afferma un cinquantenne maghrebino, padrone di un negozio di alimentari: Molti italiani sono ignoranti, non conoscono la geografia del Marocco e ci mettono tutti insieme. Noi arriviamo da Casablanca, io ero contabile e mia moglie lavorava in un ufficio. Parliamo tre lingue e mandiamo i nostri figli all’Università. Altri marocchini vengono dalle campagne, parlano solo il dialetto, non hanno studiato. Ognuno si muove secondo i suoi contatti. Sono nostri connazionali, è vero, ma non abbiamo molto in comune.

I cittadini romeni, prima presenza nel quartiere in termini quantitativi, sottolineano spesso le differenze tra i primi arrivati, che si definiscono “ben integrati” e gli ultimi arrivati, che con i loro comportamenti devianti minacciano la reputazione collettiva. Una signora romena, residente da più di

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dieci anni a Torino, facendo riferimento ad alcune famiglie rom inserite negli alloggi di housing sociale di fronte al suo palazzo evidenziava: Gli zingari sono zingari e gli italiani continuano a dire che sono romeni. Sono modi di vivere e di pensare totalmente diversi, e continuano a fare di testa loro. Adesso me li trovo davanti e questo peggiora la mia vita e il modo con cui gli italiani mi guardano!

La visibilità di giovani africani nel quartiere è aumentata, anche per la presenza di numerosi alloggi che ospitano richiedenti asilo. Alcuni nigeriani frequentatori della locale chiesa pentecostale, discutendo sulle relazioni tra loro e questi ragazzi, hanno sottolineato: “Voi dite: tutti uguali. Noi siamo Yoruba, molti di questi giovani invece sono Edo, di Benin City. Molti sono giovanissimi, senza alcun progetto e arrivati qua per caso. Noi abbiamo famiglie qua e un’idea”. Tutte queste etichette sottendono rapporti di potere, diverse forme di posizionamento all’interno delle economie e dei micro-gruppi territoriali e vengono attivate in specifici contesti di interazione. Nei paragrafi seguenti, partendo da precise situazioni di interazione, metto in luce come i conflitti, seppur spesso descritti dagli stessi attori coinvolti in chiave etnica, siano riconducibili ad aspetti diversi, come le differenze generazionali, il tema del lavoro e dell’assenza di lavoro, e i modelli di mobilità. Questioni d’età Molti conflitti che si sviluppano nel quartiere vedono contrapporsi persone appartenenti a generazioni molto distanti. Le persone sono portatrici di bisogni, di stili di vita e di consumo molto diverse e difficilmente conciliabili. La questione si complica laddove, alla differenza generazionale, si somma anche una differenza in termini di provenienze, cioè quando

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giovani immigrati o figli di immigrati si confrontano con anziani italiani. La signora Cinzia è originaria di Foggia ed è arrivata a Torino insieme al coniuge nel 1960. Il marito ha lavorato prima come operaio alla Fiat, poi come portalettere per un’altra azienda locale. Cinzia ha un basso livello di scolarità, ha sempre lavorato come sarta nella propria casa e ha allevato le due figlie femmine che da anni vivono altrove. È sola da più di dieci anni, dopo la morte del marito. La signora Cinzia denuncia diversi motivi di disagio: è inferma, si sostiene solo grazie alla pensione di reversibilità del marito e ultimamente, a causa del peggiorarsi delle condizioni di salute, è aiutata da una domestica. Negli ultimi tempi sono emerse due situazioni per lei problematiche. In prossimità del suo alloggio, che si trova al pianterreno, si affacciano le uscite di servizio di due locali notturni. Uno è frequentato da adolescenti prevalentemente italiani, e ospita concerti di musica techno. L’altro è una discoteca frequentata esclusivamente da giovani nigeriani. La signora Cinzia, nelle sere d’estate, afferma di non riuscire a dormire per il rumore che proviene dai locali. Lamenta inoltre la sporcizia che viene creata dagli avventori e i bidoni stracolmi di bottiglie di superalcolici di fronte alle proprie finestre. Insieme ad altri inquilini ha presentato un esposto ai vigili urbani che però non ha sortito, ad oggi, alcun effetto. Nel commentare questa situazione sottolinea che: Il nostro modo di passare il tempo era diverso, sono cresciuta lavorando e crescendo i figli. Non ho mai avuto tempo per divertirmi. Questa era una strada tranquilla e comunque, per chi voleva divertirsi, c’erano le sale da ballo che erano eleganti, erano tutt’altra cosa rispetto a questi locali di stranieri.

Nel parlare dei locali non fa distinzione tra le provenienze dei giovani frequentatori; in questo caso sono le nuove forme di consumo nel tempo libero e di utilizzo dello spazio pubblico a spaventare e a creare senso di estraneità.

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La seconda situazione di disagio è rappresentata da un gruppo di abitanti interni al palazzo. Si tratta di un giovane studente universitario che, da qualche tempo, condivide l’appartamento con alcuni colleghi di corso. I ragazzi entrano ed escono ad orari inconsueti per la signora Cinzia, organizzano spesso cene in compagnia ed hanno occupato con le loro biciclette l’interno cortile, sottraendo spazio alla zona dove la signora era solita stendere i panni. Tutti questi comportamenti hanno disturbato le routine consolidate e sono diventati oggetto di accesa discussione anche nelle riunioni di condominio. Altro è il punto di vista dei giovani: Siamo arrivati da poco, ma certo non abbiamo percepito una grande accoglienza. Gli anziani ficcanaso sono i peggiori. L’altra settimana per esempio mangiavo la pizza con gli amici nell’atrio, e una signora si è lamentata perché ha detto che lasciamo sporco e lì è un posto di passaggio… Mi è successo, un’altra volta, di lasciare la bicicletta in cortile fuori dagli spazi consentiti. Apriti cielo. Siamo solo noi ad avere la bicicletta, ma è nostro diritto parcheggiarla in cortile. Forse avremmo dovuto chiedere e annunciare con più cortesia…

Ritornando sui temi del conflitto, questi ragazzi mi hanno spiegato come si percepiscano come dei pionieri all’interno del quartiere anche perché tutti i loro colleghi hanno affittato casa in zone “da studenti”, con più locali, servizi e aule studio, e più prossime all’Università. Questi giovani rappresentano una novità nel panorama sociale del quartiere, che comunque è ancora ben lontano da processi di “studentification” verificatisi in altre zone della città (Semi, 2015). Nel mio lavoro di ricerca ho raccolto decine di casi di questo genere, e in alcune situazioni l’escalation del conflitto ha portato all’espulsione dei giovani da alcuni spazi pubblici del quartiere da loro occupati, come è avvenuto per esempio con la chiusura di un negozio di dolciumi, che era diventato fondamentale centro d’aggregazione per ragazzi adolescenti di varie provenienze (Cingolani, 2012). In altri casi le popolazioni gio-

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vanili che praticano la città in modi impropri e “sconvenienti” vengono confinate all’interno di spazi urbani dalle nuove forme del governo urbano. È quanto avviene, per esempio, con i traceurs descritti da De Martini Ugolotti in questo volume. In un quartiere dove la presenza di anziani, spesso soli, è in crescente aumento, e dove l’offerta di servizi per i giovani è ancora molto frammentata (Martino et al., 2015), i conflitti e le incomprensioni sulle modalità d’uso degli spazi sono ricorrenti e di difficile mediazione. Il lavoro che scompare e il lavoro che disturba Se si osservano in profondità le dinamiche relazionali che si creano nel quartiere e si ascoltano le narrazioni degli abitanti un altro tema centrale che spesso emerge è quello del lavoro. Capello in questo stesso volume, analizzando le biografie di disoccupati torinesi e la diffusa condizione di sofferenza materiale e psicologica, propone il concetto di liminalità per spiegare una condizione strutturale che viene incorporata dalle persone. Nella mia ricerca ho trovato una varietà di risposte individuali che si vanno costruendo in forma frammentata e con un impatto anche sulle relazioni intergruppo. Il lavoro, e in particolare il lavoro operaio, è sempre evocato in relazione al passato del quartiere. Barriera è descritta come uno spazio dove tutto ruotava intorno alla fabbrica. Si lavorava nel quartiere, si trovava casa nel quartiere e si passava il tempo libero nel quartiere. Si trattava di un sistema urbano chiuso (Wallman, 2003), dove si era sviluppato un network di relazioni molto fitto, che si irradiava dalle fabbriche, e nel quale gli abitanti condividevano molte risorse simboliche e materiali. L’immagine più forte di questo passato è quella evocata dal racconto di un anziano immigrato calabrese: “Per me tutto era la fabbrica e la fabbrica scandiva anche i momenti della giornata con i suoi rumori. Alla Fiat si facevano i motori

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delle navi e quando si provavano i vetri di casa mia tremavano. Questo era il sottofondo della nostra vita, con la chiusura delle officine il silenzio era innaturale”. La totalità delle fabbriche oggi è chiusa, alcune hanno lasciato spazio a centri commerciali alcune rimangono ancora in piedi con i loro spettrali scheletri, in attesa di una riconversione, altre sono state riconvertite in grandi parchi urbani, come nel caso dell’immensa area di Parco Dora confinante con Barriera di Milano. Molti residenti, sia italiani che stranieri, hanno perso il lavoro. Le strategie reattive sono state varie: si attivano nuove solidarietà intergenerazionali all’interno delle famiglie perché i pensionati mantengono economicamente i figli e i nipoti; si ridefinisce la divisione dei ruoli di genere in quanto molte donne che fino ad ora erano rimaste a casa entrano nel mercato del lavoro, soprattutto del lavoro domestico e di cura; si attuano nuove forme di mobilità territoriale e transnazionale; emergono forme di lavoro informale un tempo assenti. Questi riadattamenti non sono stati semplici e sono accompagnati da discorsi e rappresentazioni divergenti. Nei discorsi delle persone più anziane, vissute in un quartiere operaio e operoso, emerge spesso un atteggiamento sospettoso sia verso forme di lavoro nuove, che verso attività più legate alla sfera intellettuale e percepite come non immediatamente produttive. Una delle critiche mosse verso gli studenti universitari, da alcuni inquilini anziani del palazzo, è quella di creare disturbo alla gente che “lavora davvero”. In un certo senso, anche la mia attività di ricercatore non è stata compresa fino in fondo. Un vicino, a seguito di una mia dettagliata spiegazione sugli obiettivi delle mie ricerche mi ha chiesto: “Ma che tipo di lavoro è questo? Sei un giornalista, vero?”. In una situazione generale di mancanza, avere un lavoro è considerato attributo distintivo e qualificante, in base al quale rivendicare i propri diritti. Il signor Ahmed, originario di Casablanca, lavora da più di quindici anni in un’autofficina della zona. Nonostante i numerosi licenziamenti è

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riuscito a mantenere il proprio posto di lavoro, anche se la riduzione dello stipendio ha messo a dura prova la sua capacità di sostenere tutte le spese condominiali. L’ostilità di altri condomini è aumentata e non gli vengono risparmiate critiche, spesso strumentali, sottolineando comportamenti poco civili dei figli adolescenti. Durante un duro confronto con il signor Vincenzo, pensionato ed ex operaio, Ahmed ha urlato: “Io ho diritto di essere trattato bene, perché lavoro, e perché con tutte le tasse che sto pagando, pago la pensione anche a te!”. In altri casi il tema del lavoro è al centro di conflitti tra gli stessi migranti. Vasile, un piccolo imprenditore edile romeno, è in lite con il vicino nordafricano, Mahmud, un tempo impiegato in una ditta di ponteggi e disoccupato da più di due anni. Alla base del conflitto vi sono alcune perdite d’acqua dall’alloggio di Mahmud che hanno danneggiato il bagno di Vasile, e che Mahmud non intende riparare. Mahmud, discutendo con Vasile, ha più di una volta ricondotto la sua attuale indigenza ai “romeni”, accusati di aver distrutto l’economia locale, abbassando la qualità del lavoro e prestandosi a fare il lavoro “sporco” per gli italiani. Le nuove forme di lavoro e di gestione del tempo lavorativo che sono emerse in seguito alla crisi hanno modificato la geografia del quartiere e i modi d’uso dello spazio pubblico. Tra i disoccupati una delle attività informali più diffuse è la raccolta di materiale usato dai cassonetti e il loro conferimento ai centri di raccolta differenziata o ai mercati dell’usato. Queste attività, che per molte famiglie costituiscono un’integrazione fondamentale al reddito famigliare, non sono regolamentate e spesso creano una sensazione di degrado tra gli altri residenti. Nelle strade del quartiere si è moltiplicato il numero di persone che, con ganci metallici e con carretti artigianali, frugano nei bidoni dell’immondizia o tra le masserizie abbandonate in strada. Alcune di queste persone sono rom, alcune marocchine, altre africane alloggiate nelle strutture di accoglienza per richiedenti asilo, altre italiane.

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Sebbene la loro attività sia condotta con metodo e spesso sia molto ordinata, le segnalazioni ai vigili urbani sono sempre più frequenti, perché oggetti rimangono al di fuori dei bidoni e la nettezza urbana non provvede più a rimuoverli. Inoltre il progetto comunale di collocare uno dei mercati all’aperto in cui questo materiale viene commercializzato in un ampio terreno abbandonato sulle rovine di una ex fabbrica ha sollevato l’opposizione di molti residenti al motto “basta degrado, no al suk, vero lavoro”. Come emerge da questi slogan tale attività non viene riconosciuta nella sua valenza economica e viene anche etnicizzata, anche se è trasversale a persone con provenienze diverse. Tra le strategie adattive che sono emerse, soprattutto tra i cittadini di origine straniera, vi è quella di riportare la famiglia nei paesi d’origine o di praticare una mobilità transnazionale di breve periodo. Il precariato lavorativo richiede un adattamento anche sul piano abitativo e tale adattamento può creare situazioni di crescente conflitto nei palazzi. Nel nostro condominio vi sono due situazioni di questo genere. La prima riguarda lavoratori uomini che convivono in uno stesso alloggio per ridurre le spese; le loro famiglie sono tornate nei paesi d’origine, dopo diversi anni passati in Italia, poiché i costi della vita non erano più sostenibili. La presenza di questi uomini soli crea disagio e sconforto tra molti inquilini. La seconda situazione è quella di una famiglia nordafricana, con cittadinanza italiana, che si è spostata in Francia a seguito di un nuovo lavoro del capofamiglia. Il padrone di casa ha affittato informalmente l’appartamento ad altri inquilini, utilizzando l’alloggio come punto d’appoggio durante i suoi periodici rientri in Italia. Questa presenza intermittente crea disorientamento negli altri inquilini perché non si conoscono i nuovi abitanti, la provvisorietà della presenza non permette di avere contatti significativi e di costruire relazioni, le riunioni di condominio vengono disattese e le spese pagate a intermittenza. Queste diverse realtà evidenziano come il passaggio dal lavoro fisso nella grande fabbrica al non-lavoro, al lavoro

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precario, intermittente o dislocato cambiano il rapporto con il territorio e incrinano la possibilità di radicamento. Un altro punto di vista dal quale osservare questo stesso fenomeno è quello dei bambini che frequentano le scuole. Un docente di un istituto secondario di zona mi ha raccontato come negli ultimi anni sia sempre più difficile costruire rapporti solidi con le famiglie e con i ragazzi perché spesso i nuclei sono costretti a spostarsi in altre parti d’Italia o all’estero e questo interrompe ogni relazione: Molti ragazzi non sanno niente del territorio in cui abitano, della sua storia, e per questo facciamo diverse iniziative di scoperta e cerchiamo di costruire un dialogo con i genitori. Ma poi questo lavoro è complicato anche perché i ragazzi vanno e vengono, devono seguire la famiglia e non ne sappiamo più niente.

Conflitti a bassa intensità e germi di cosmopolitismo I cittadini di un territorio iperdiverso possono trovarsi coinvolti in una molteplicità di relazioni. Queste possono spaziare dalla cooperazione, alla mancanza di contatti, alla competizione e queste diverse relazioni possono associarsi differenti rappresentazioni dell’altro: positive, indifferenti e negative (Pastore e Ponzo, 2012). Le relazioni intergruppo non sono mai date una volta per tutte ma sono in continuo divenire e sono definite in situazioni concrete, e sono influenzate da elementi a livelli differenti: dalla città, al vicinato, al singolo sito di interazione, alla situazione contingente. Uno degli aspetti più interessanti che emerge è lo spaesamento cognitivo di fronte alle tante novità con le quali gli abitanti si confrontano quotidianamente: novità sul piano socio-economico, novità culturali, novità nella struttura di classe, novità sui rapporti di genere e sui rapporti intergenerazionali. Questo spaesamento riguarda i comportamenti degli altri, che non si riescono a decodificare mai completamente, ma sovente riguarda anche se stessi. Tornano molto

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utili le riflessioni che alcuni antropologi hanno sviluppato nell’analisi dei paesi post-socialisti, e che ho utilizzato anche nel mio lavoro di ricerca sulla Romania contemporanea (Cingolani, 2009). In molte di queste etnografie emerge come i cittadini post-socialisti si siano improvvisamente ritrovati senza un orizzonte di significato condiviso; le identità di classe, che creavano appartenenze e identificazioni forti e che erano caratterizzate da un apparato rituale specifico, dopo il 1989 si sono frantumate. Si sono diffusi grandi timori su chi siano i vincitori e gli sconfitti del nuovo mercato aperto e l’insicurezza si è radicata a livello delle micropratiche quotidiane (Creed, 2002). In queste società si è di fronte a un mosaico di soggettività impegnate in una quotidiana costruzione identitaria, dove sono assenti grandi panorami di riferimento, solidarietà coesive, movimenti sociali e forze in grado di promuovere inclusione. Denis Roman parla di crisi discorsiva poiché i cittadini non dispongono di un “vocabolario finale”, non trovano le parole con le quali “giustificare le proprie azioni, le proprie credenze, e le parole con le quali raccontare, talvolta prospettivamente, talvolta retrospettivamente, la storia delle proprie vite” (Roman, 2003, p. 26). Nei racconti degli attuali sessantenni emerge spesso il riferimento a un passato chiaro e codificabile. Un passato che, in Barriera di Milano, era anche ricco di riti aggregativi urbani, come la frequentazione dei circoli di partito, delle piole, le processioni religiose. Nella descrizione del presente, come abbiamo visto, vengono utilizzate categorie discorsive binarie: la prima è quella italiani/stranieri, poi spacchettata in sottocategorie in base alle provenienze nazionali. Un simile processo discorsivo viene messo in atto anche dagli stranieri. Ma dietro queste categorie soggiacciono aspetti della diversità molto più complessi e che creano confusione. Se si passa dal livello delle rappresentazioni a quello delle pratiche, il conflitto si mantiene sempre a un livello di bassa intensità. Non si assiste quasi mai a una escalation e a una mobilitazione collettiva, che abbia travalicato i microcontesti nei quali i conflitti sono nati. Heckmann e Koler (2015) pro-

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pongono un modello in cinque fasi: si parte da un conflitto strutturale iniziale, seguono una fase di inquadramento del conflitto sotto forma di sua etnicizzazione, una fase di mobilitazione e di intensificazione, una fase di diffusione e una fase di risoluzione. I conflitti in Barriera si fermano spesso alla terza fase, non si intensificano e soprattutto non si diffondono. Questo perché, se è vero che non esistono più nel quartiere le istituzioni che un tempo aggregavano e producevano appartenenze forti in senso inclusivo, producendo anche coesione sociale, d’altra parte non vi sono neppure forze che aggregano in forma contrappositiva puntando all’espulsione o, addirittura, all’eliminazione del diverso. Tutto questo non significa che i conflitti non siano logoranti per chi ne è protagonista, ma vi sono aperture per il cambiamento e per l’ibridazione. La diversità infatti non produce solo logoranti conflitti a bassa intensità ma anche pratiche di attraversamento che possono costituire una debole traccia dalla quale partire per costruire una grammatica condivisa. Al riguardo è utile riprendere il concetto di “trasversalità quotidiana” proposto da Wise (2009) per descrivere come esistano individui che negli spazi quotidiani utilizzano forme particolari di socialità per ammorbidire le differenze. Le transazioni che l’autrice descrive sono basate su un desiderio di coinvolgimento e su una reciprocità non gerarchica che non comporta l’annullamento delle identità individuali, ma al contrario le valorizza. “Grazie a queste pratiche le identità non sono solo attraversate, ma riconfigurate, e le biografie intrecciate” (2009, p. 24). Non tutte le forme di trasversalità quotidiana sono caratterizzate dallo stesso livello di intenzionalità e di riflessività. Partendo dal concetto di “cosmopolitismo dal basso”, Amit e Barber (2015) sottolineano a questo proposito come sia importante distinguere tra un cosmopolitismo di pratiche e di competenze e un cosmopolitismo come forma di coscienza e di aspirazione morale. Due esempi, tra loro molto diversi, permettono di chiarire in cosa consista questa trasversalità quotidiana.

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La prima situazione riguarda una forma di cooperazione e di scambio che ho osservato tra alcuni abitanti del quartiere. Un’anziana signora ha grossi problemi di mobilità che la costringono a passare lungo tempo in casa. Nel suo stesso palazzo vive una famiglia marocchina che, in seguito alla crisi, ha dovuto riorganizzare la routine domestica. La madre ha iniziato a lavorare ogni mattina come domestica e per questo non può più accudire la figlia di due anni. Poiché non ha a disposizione nella propria rete famigliare figure in grado di sostituirla, ha deciso di affidare la bambina all’anziana signora. In cambio la giovane mamma si offre di fare la spesa per la vicina. Queste pratiche hanno prodotto una stretta interdipendenza e hanno portato anche a un riconoscimento dei bisogni dell’altro. Come sottolineava la signora anziana: “Era la soluzione più semplice, anche se non ci avevamo mai pensato. Così è stato naturale incontrarsi”. E poi, riferendosi al più ampio contesto cittadino ha aggiunto: “Probabilmente se vivevamo in Crocetta questo non sarebbe mai successo. In Crocetta io quando ero giovane ci ho lavorato come sarta e là le signore hanno tutte la baby sitter”. Questa interazione ha comportato un attraversamento di confini generazionali e, in seconda istanza, culturali, tuttavia non è stata indirizzata da un’aspirazione morale esplicita. La seconda situazione riguarda l’alimentazione. In questo stesso volume Vietti spiega come proprio il cibo sia oggetto di un progetto comunitario che mette al centro il principio della reciprocità e dello scambio per fornire prodotti alimentari freschi alle famiglie più bisognose di Barriera di Milano e di altri due quartieri cittadini. Il recupero e la circolazione di cibo rafforza il senso di coesione in una città a forte rischio di disgregazione sociale. La pratica di trasversalità quotidiana che qui presento e che mi vede coinvolto in prima persona è molto più circoscritta e non ha lo stesso livello di istituzionalizzazione. Nasce da un bisogno che persone diverse possono avere, per motivi diversi, ma ai quali sono arrivati a dare una risposta comune. Molte delle famiglie meridionali che vivono nel quartiere preparano la salsa di pomodoro in casa,

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una consuetudine nel Sud Italia rimasta viva con la migrazione al Nord. La salsa è preparata in grande quantità e viene consumata per tutto l’anno, permettendo un buon risparmio economico. Io e mia moglie nutriamo il desiderio di alimentarci in maniera sana, conoscendo l’origine dei prodotti che consumiamo e che diamo alle nostre figlie. Quando abbiamo saputo di questa usanza, totalmente estranea alle nostre abitudini, abbiamo deciso di adottarla dai nostri anziani vicini siciliani. La notizia è arrivata anche ad altri vicini romeni che hanno deciso di unirsi al gruppo. La preparazione di conserve di frutta e verdura del resto è centrale nell’economia rurale est-europea, anche se le modalità di conservazione sono differenti e non riguardano i pomodori. Ci siamo così incontrati, tutti quanti, per preparare insieme la salsa. I nostri vicini siciliani regalano spesso la salsa di pomodoro ai loro conoscenti e così abbiamo cominciato a fare anche noi con altri amici e vicini, allargando così le reti del dono. Il livello di riflessività da parte dei partecipanti a questa pratica è stato vario, poiché ognuno vi ha attribuito un significato o più significati (economico, affettivo, salutista), legati anche al proprio vissuto. Da parte mia, sicuramente vi è stata anche un’“aspirazione morale”, legata al lavoro che faccio e al livello di riflessività continua che esso comporta. Una bimba accudita da un’anziana signora e la salsa di pomodoro sicuramente non danno una risposta alla mancanza di lavoro, alle diseguaglianze e alle forme di sofferenza sociale e psicologica sempre più diffuse, ma dicono molto sul senso e sui modi di fare comunità in un contesto in drammatico cambiamento. Conclusioni Nell’ambizioso obiettivo di tracciare un profilo etnografico di Torino, in conclusione, uno sguardo dall’interno alle dinamiche in atto in un quartiere come Barriera di Milano può dare alcune utili indicazioni. La prima è che le persone,

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attraverso le loro biografie, presentano talvolta forme di resilienza inaspettate. Intendo resilienza come la capacità che hanno di riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi a difficoltà, talvolta molto grandi e apparentemente insuperabili. Tuttavia questa resilienza è in costante tensione con il rischio di soccombere, logorati da conflitti non risolti. La seconda indicazione è che questa resilienza individuale, per quanto implichi sempre una dimensione relazionale, non sempre e non automaticamente si trasforma in resilienza della comunità e del sistema urbano. Questo passaggio di scala richiede un forte grado di interdipendenza e di riconoscimento reciproco tra i partecipanti, un’unità di obiettivi nella diversità, e soprattutto un buon livello di coordinamento collettivo. I semi di una resilienza comunitaria si trovano diffusi tra le pieghe sociali del quartiere, ma si devono ancora sviluppare. Altri territori urbani molto più internamente omogenei, hanno prodotto e stanno producendo monoculture i cui danni sono evidenti. Per tornare alla domanda da dove sono partito, quel “e ora, dove andiamo”? L’iperdiversità ha molti lati oscuri che sfuggono alle rappresentazioni ingenuamente celebrative, agli approcci paternalistici o, ancora peggio, a forme di cosmopolitismo snob. La domanda riguardo agli sviluppi della diversità e al ruolo che come studiosi e come cittadini possiamo avere è particolarmente cogente anche perché le nostre scelte residenziali e di consumo possono, anche indirettamente, influire sulla diversità, spingendo più o meno verso un’omogeneizzazione sociale. Questo è il dilemma vissuto da una certa tipologia di “early gentrificators”, coloro che scelgono un quartiere per un motivo etico, secondo il desiderio di vivere e crescere i propri figli in “una fabbrica sociale di diversità etnica, razziale e di classe” (Schlichtman e Patch, 2014, p. 13), ma che finiscono per attivare processi macrosociali di cambiamento in direzione opposta a quella voluta. Si tratta di quei nuovi soggetti che, per esempio, sono diventati protagonisti da più

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di dieci anni dei cambiamenti avvenuti in altre zone della città, come per esempio nel quartiere di San Salvario descritto in questo volume da Bolzoni. Per ora, almeno su questo punto, ho le idee chiare: Barriera nel suo complesso non è e non diventerà, almeno per diversi anni, un quartiere pieno di locali per aperitivi, negozi macrobiotici e loft alla moda.

I mercati rionali di Torino al tempo della sharing economy: marginalità sociale ed esperienze di welfare di comunità Francesco Vietti

Introduzione A Torino la distribuzione dei mercati è storicamente molto diffusa e costituisce un elemento significativo dell’identità dei diversi quartieri e rioni (Coppo e Osello, 2006). In base all’assetto territoriale definito nel 2005, nel capoluogo piemontese sono attivi 42 mercati: un numero destinato però a diminuire alla luce della deliberazione del 18 gennaio 2016, con la quale il Consiglio comunale di Torino ha approvato un nuovo “Piano mercati”. Tale piano, se da un lato propone attività di rilancio e razionalizzazione del sistema (dal punto di vista della logistica, delle strategie di marketing, della turisticizzazione, della sostenibilità ambientale, ecc.), dall’altro individua una serie di “mercati in difficoltà” (11 in totale) che verranno di fatto soppressi. La ricognizione etnografica che qui si propone, condotta tra il 2015 e il 2016, coglie questo importante momento di passaggio nella secolare storia dei mercati rionali torinesi scegliendo come punto di osservazione alcuni specifici mercati (piazza Foroni, corso Chieti e corso Svizzera) e muovendosi all’interno della rete di relazioni e scambio legata al progetto Fa bene: un’iniziativa di recupero e distribuzione dei beni alimentari invenduti donati dai mercatali e dai loro clienti a favore di persone e famiglie in difficoltà economica residenti nei quartieri ove sono localizzati i mercati. Facendo riferimento anche alle

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altre numerose ricerche condotte nel corso del tempo sui mercati torinesi, si discuterà  dunque di questi luoghi in quanto “microcosmi di socialità”, resi vitali dalla capacità di incorporare lo scambio economico in un involucro di natura sociale, intriso di elementi relazionali e personali. Un contesto in cui si intrecciano però diverse visioni del mondo, interessi e poteri, e in cui non mancano forme di esclusione e di marginalità: ed è proprio sul riconoscimento della “centralità dei margini”, come ha scritto Roberto Malighetti (2012), che l’antropologia fonda il proprio studio dei panorami urbani della contemporaneità. Il mercato alla prova dell’economia civile I mercati sono snodi fondamentali del tessuto economico, sociale e culturale delle città. Anzi, la città stessa, come notava già Max Weber, è essenzialmente “luogo di mercato” (Weber, 1950). Che si trattasse dell’agorà greca, della çarshia ottomana o della piazza delle erbe dell’Italia medievale, gli spazi del mercato sono stati storicamente connotati da una forte centralità, non solo urbanistica ma anche simbolica. Al tempo stesso i mercati sono stati spesso una porta d’ingresso, un varco permeabile aperto nelle mura cittadine attraverso cui sono passati nuovi cibi, nuove idee e nuovi abitanti. I mercati urbani si presentano dunque come luoghi stanziati nella mobilità, attraversati da “culture in viaggio” che connettono la dimensione locale e globale (Clifford, 1999). L’antropologia si è interessata ai mercati mettendone innanzitutto in luce la stratificazione delle funzioni e dei significati. L’attenzione degli antropologi si è rivolta specificamente, come da vocazione disciplinare, agli ambiti geografici non europei e non occidentali, indagando ad esempio la varietà dei mercati africani (Bohannan e Dalton, 1962): attraverso un ampio repertorio etnografico, si è illustrato come nelle diverse società il mercato, attorno alla dimensione commerciale, si sviluppi come luogo di incontro, di comunicazione,

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di scambio tra gruppi e individui. Nei mercati dell’Africa occidentale, ci racconta l’antropologo torinese Marco Aime, si svolgono eventi sociali di grande importanza e si sperimentano relazioni interetniche di mediazione che ne fanno luoghi aperti, neutri, una “casa di nessuno” in cui non si va tanto per vendere e comprare, quanto per incontrare amici, parenti, la gente del villaggio vicino: al mercato, insomma, la merce che più passa di mano è la parola (Aime, 2002). Anche quando ha compiuto il suo viaggio di ritorno a casa occupandosi di contesti di prossimità, l’antropologia ha ritrovato nei mercati dei “luoghi che, a differenza della nozione teoretica di ‘Mercato’, funzionano come istituzioni sociali incorporate in determinati tempi, spazi e relazioni” (Sheperd 2008, p. 4). Descrivendo le dinamiche in atto nell’Eastern Market di Washington DC, Robert J. Sheperd, in un saggio significativamente intitolato When Culture Goes to Market, ha sottolineato come i mercati siano uno spazio urbano in cui si sviluppano processi economici e sociali più ampi che influenzano i percorsi di costruzione identitaria di una pluralità di soggetti: i venditori che vi lavorano; i clienti che li frequentano abitualmente; gli amministratori pubblici chiamati a presiederne l’organizzazione; gli abitanti dei territori dove i mercati si situano. Le etnografie realizzate negli ultimi anni nei mercati europei e italiani hanno in particolare evidenziato come essi giochino un ruolo cruciale nei percorsi di vita e di lavoro dei migranti (Mermier e Peraldi, 2011). I mercati rappresentano una delle più comuni vie d’accesso al mondo del commercio per gli immigrati, tanto in veste di lavoratori quanto di consumatori. Tra i banchi del mercato non solo si vendono e comprano i nostalgic goods e si incontrano i connazionali coltivando così i legami con i paesi d’origine, ma si costruiscono anche le interazioni con il contesto d’insediamento, con i suoi prodotti, con le persone che vivono nel medesimo quartiere, con i commercianti, con la lingua locale e le sue pratiche quotidiane. Torino, con la sua capillare distribuzione di mercati rionali e la sua lunga storia di migrazioni,

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è diventata nel corso del tempo un teatro privilegiato per ricerche interessate a indagare se e come i mercati possano essere oggi, come lo sono stati all’epoca delle migrazioni interne, dei “laboratori di integrazione”. Maurizio Ambrosini ed Eleonora Castagnone (Camera di commercio di Torino e FIERI, 2010), sulla base delle ricerche qualitative condotte nei mercati di Porta Palazzo, di Piazza Madama Cristina e di Corso Racconigi, hanno ad esempio notato come la clientela dei mercati, soprattutto nelle giornate feriali, sia costituita da persone spesso escluse dai rapporti sociali legati alla partecipazione al mercato del lavoro (pensionati, casalinghe, disoccupate/i) o incapsulate in particolari nicchie lavorative a forte rischio di marginalità e solitudine (si pensi ad esempio alle assistenti famigliari), per le quali “scendere al mercato a fare qualche acquisto significa avere l’opportunità di scambiare qualche parola con altre persone, per alcune forse le uniche della giornata” (p. 175). Uno scambio che Giovanni Semi, particolarmente attento alle dinamiche sociali tra italiani e migranti nell’area di Porta Palazzo, ci ricorda avvenire sempre “secondo determinate regole interattive, come certi rituali di deferenza, contegno, cortesia, ma anche di franchezza, brutalità e conflitto” (Semi, 2009, p. 638). Proprio il mercato di Porta Palazzo, con le sue costanti oscillazioni tra rapida gentrificazione e permanente stigmatizzazione mediatica legata alla concentrazione abitativa di cittadini immigrati, è stato oggetto della ricerca etnografica dell’antropologa americana Rachel Black, che ha notato come while thousands of kilos of fruits, vegetables and other foodstuffs are sold here each day, friendship are made, families are reunited, ethnic and cultural tensions are negotiated, and local identities are constructed through the daily workings of the market (Black, 2012, p. 2).

Tali cenni di letteratura antropologica sui mercati evidenziano come questi luoghi siano dunque teatro di una complessa stratificazione di scambi. Giungiamo così a concen-

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trarci su un tema da lungo tempo centrale per la riflessione degli antropologi e fondamentale anche nell’ambito dell’analisi critica che qui presento. Se per il mercato ho fatto riferimento alle radici africane delle principali ricerche etnografiche, per quanto riguarda lo scambio dobbiamo spostarci nell’area dell’Oceano Pacifico. È trascorso un secolo da quando Bronisław Malinowski fece le sue celeberrime osservazioni sullo scambio kula nelle Isole Trobriand della Melanesia, fornendo un contributo fondamentale per la riflessione teorica di Marcel Mauss che di lì a poco sarebbe confluita nel seminale Essai sur le don (Mauss, 1923-24 [2002]). Mauss vide nel dono un “fatto sociale totale” in cui si depositano molteplici significati culturali, economici, giuridici e religiosi regolati dal cosiddetto “principio di reciprocità”. Proprio tale concetto avrebbe poi avuto straordinaria fortuna antropologica, sebbene una certa lettura dicotomica delle monografie etnografiche classiche abbia rischiato di consolidare una visione di contrapposizione tra un “noi” (occidentali, moderni) membri di una società utilitaristica dove l’economica di mercato esclude la possibilità del dono autentico, e un “loro” più o meno immaginario, costituito da popolazioni in cui sarebbero sopravvissuti i valori tradizionali di solidarietà e coesione, e con essi la pratica del dono. Tuttavia, a uno sguardo più attento, appare evidente come anche nelle società occidentali contemporanee coesistano diversi principi di scambio, e la redistribuzione e la reciprocità affianchino nella quotidianità il principio di mercato. La “riscoperta” dell’attualità del dono a partire dagli anni ’80 del Novecento è legata in buona parte all’opera del MAUSS (Mouvement Anti-Utilitariste dans les Sciences Sociales), un gruppo di economisti, sociologi e antropologi il cui acronimo ben esplicita la comune fonte di ispirazione. Studiosi come Alain Caillé (1998) e Jacques T. Godbout (1993) hanno proposto di considerare beni e servizi non solo in termini di valore d’uso e di scambio, come nell’economia classica, ma anche e soprattutto in base al cosiddetto “valore di legame”: la capacità che hanno beni e servizi, quando ven-

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gono donati, di creare e riprodurre relazioni sociali. Donare, in questa prospettiva, diventa il processo attraverso cui le persone creano la società, e i legami appaiono più importanti dei beni stessi che vengono scambiati (Caillé, 1998). Anche in Italia un numero crescente di ricercatori, antropologi e non solo, si è interessato ai molteplici modi in cui il dono, in tutte le sue possibili declinazioni, dal volontariato ai servizi alla persona, sia una dimensione centrale della vita degli Stati moderni e dei sistemi di welfare. Tali riflessioni hanno portato anche a mettere in discussione e a decostruire il concetto di “dono”, interrogandosi sull’uso spesso ambiguo e confuso che si è fatto di questa fortunatissima categoria del pensiero antropologico (Aria e Dei, 2008). Si è in particolare sottolineato come “donare” non sia equivalente di “condividere”, e come occorra elaborare una vera e propria “antropologia della condivisione” per interpretare in modo più corretto il significato di quella molteplicità di fenomeni comunemente categorizzati come sharing (Aria e Favole, 2015). L’ampio interesse per il mondo dei “beni comuni” si è così intrecciato con l’analisi dei “beni informatici” condivisi sul web e sulle modalità innovative attraverso cui gli scambi in rete producono socialità e relazioni (Aime e Cossetta, 2010). Il lungo e complesso viaggio dell’antropologia tra i concetti di mercato, dono e reciprocità ha trovato nell’Italia contemporanea riflessi in anche al di fuori dei confini disciplinari. Basti ricordare l’influente prospettiva delineata dagli economisti Luigino Bruni e Stefano Zamagni di un’economia civile in cui l’homo reciprocans prenda il posto dell’homo oeconomicus sancendo la preminenza dell’intelligenza emotiva rispetto all’utilitarismo della pura razionalità economica. Un panorama in cui si producono “beni relazionali”, utili in quanto permettono alle persone di entrare in contatto con altri soggetti e di conoscerli per mezzo di particolari modalità di fruizione del bene stesso. Un processo che richiede tempo e intenzionalità, e il lavoro di specifiche “imprese civili” capaci di fare della relazionalità la loro ragion d’essere (Bruni e Zamagni, 2004).

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Il progetto Fa bene, tra politiche di coesione sociale e trasformazione urbana Fa bene, comunità. In questo modo si presenta il progetto sulla sua pagina Facebook. E in qualche modo il social network, con la sua lapidaria richiesta di sintesi comunicativa, ci aiuta a definire nel miglior modo possibile cosa sia davvero Fa bene1. Sul sito web fabene.org, i responsabili del progetto indicano che lo scopo ultimo dell’iniziativa è generare cambiamento culturale nelle pratiche di contrasto all’esclusione sociale promuovendo la cultura della reciprocità, della prossimità e della corresponsabilità, nonché sviluppando pratiche di welfare generativo di interesse pubblico volto a ridistribuire e generare risorse. Un obiettivo complesso da conseguire attraverso un’attività apparentemente semplice: raccogliere i prodotti alimentari invenduti di un grande mercato urbano e le donazioni spontanee dei suoi clienti per far giungere cibi freschi e sani sulle tavole di famiglie in difficoltà economica. Famiglie chiamate a ricambiare la donazione attraverso un “patto di reciprocità”, restituendo così alla comunità un impegno attivo nella partecipazione alla vita sociale, culturale ed economica della città. Il territorio scelto per attuare la prima fase del progetto, a partire dalla primavera-estate del 2013, è stato Barriera di Milano, storico quartiere operaio di Torino sorto nella seconda metà dell’800 in corrispondenza di quella che fu la cinta daziaria della prima capitale d’Italia. Il quartiere visse il suo sviluppo industriale tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, attorno ai grandi stabilimenti della Fiat Grandi Motori e dell’industria degli pneumatici CEAT, e si affermò poi come uno dei poli principali dell’immigrazione interna dal Meridione. Nei decenni del boom economico qui si in1 Il progetto Fa bene è stato ideato dell’associazione culturale PLUG e dalla Società Cooperativa Sociale Liberitutti, sviluppato insieme al Comitato S-NODI e realizzato in collaborazione con una pluralità di soggetti istituzionali e del terzo settore attivi nella città di Torino.

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sediarono in particolar modo i lavoratori e le famiglie pugliesi, la cui presenza divenne tanto numerosa da portare a una simbolica e significativa revisione della toponomastica: Piazza Foroni, dove allora come oggi si tiene il mercato rionale, divenne popolarmente conosciuta come Piazzetta Cerignola, dal nome della cittadina in provincia di Foggia da cui provenivano tanti “nuovi torinesi” (Basile, 2003). In tempi più recenti Barriera di Milano, come del resto l’intera città di Torino, è divenuta meta di nuovi flussi di immigrazione internazionale, che negli ultimi trent’anni hanno profondamente trasformato il territorio urbano. Oggi il quartiere si segnala come l’area con la più alta incidenza di residenti stranieri e la popolazione più giovane dell’intero capoluogo piemontese (Ufficio di Statistica della Città di Torino, 2016). Un mutamento demografico che rispecchia le trasformazioni economiche e sociali avvenute a partire dagli anni Ottanta del Novecento, quando la graduale crisi del modello industriale e manifatturiero torinese impose una riconversione delle attività del quartiere verso il settore del commercio e del terziario, lasciando sul territorio una difficile “frammentazione postindustriale” (Cingolani, 2012). La cronica assenza di servizi, di spazi verdi e di aggregazione e la ricorrente stigmatizzante quale “quartiere d’immigrazione” sono riemerse con forza nel frangente della crisi economica e finanziaria degli ultimi anni, che ha accentuato il rischio di marginalità sociale di strati sempre più ampi di popolazione e le conflittualità tra “vecchi” e “nuovi” residenti. Conflittualità che, è bene sottolinearlo, intercorrono tra gruppi che si definiscono dunque non tanto in base a presunte “identità etniche”, quanto in relazione ad altri “confini”, quali l’anzianità di residenza, l’appartenenza di genere e generazione, la condizione occupazionale, come ha mostrato Cingolani nel capitolo precedente. Un quadro sul quale influiscono in modo significativo le rappresentazioni veicolate dai media e dalle policy communities locali, intese come l’insieme di attori che concorrono alla costruzione delle politiche a livello di quartiere (Pastore e Ponzo, 2012).

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È dunque in questo contesto tipicamente post-fordista che il progetto Fa bene ha iniziato a costruire comunità, dialogando da un lato con la pre-esistente, multiforme e attiva rete di cittadini e associazioni presenti sul territorio, e dall’altro con il più ampio processo di rigenerazione urbana pianificato dall’amministrazione comunale attraverso il programma “Urban – Barriera di Milano”. Le connessioni da attivare “dal basso”, muovendosi nel variegato panorama del terzo settore, “dall’alto”, interloquendo con i diversi livelli istituzionali, e potremmo dire “di lato”, coinvolgendo i residenti e i commercianti e comunicando il progetto tramite strumenti online e offline, sono state molteplici. Relazioni non solo da attivare, ma da mantenere nel corso del tempo attraverso una costante presenza. La presenza degli operatori direttamente nell’area del mercato: persone escluse dal mondo del lavoro che attraverso la collaborazione con Fa bene hanno ritrovato un reddito e l’occasione di un’attività da svolgere giorno dopo giorno e la cui importanza è cruciale per il buon funzionamento del progetto. Gli operatori trascorrono infatti molte ore tra i banchi del mercato di Piazza Foroni nello stand deputato a luogo di raccolta delle donazioni e, oltre a una serie di mansioni logistiche (essenzialmente trasportare e suddividere i prodotti alimentari per la distribuzione alle famiglie beneficiarie), sono chiamati a coltivare quotidianamente rapporti di alleanza e amicizia con i mercatali e con i clienti che partecipano al progetto. Presenti devono essere anche gli educatori responsabili del coinvolgimento delle famiglie che ogni settimana ricevono il cibo donato al mercato. Affinché la circolarità dello scambio si attui in modo non coercitivo, i beneficiari delle donazioni devono essere partecipi di progetti il più possibile individuali, capaci di incorporare le attività di restituzione in un percorso di cittadinanza attiva di più ampio respiro, che passa necessariamente attraverso il riconoscimento non solo delle proprie fragilità, ma anche delle competenze e capacità che possono essere messe a disposizione della comunità: la fiducia reciproca per avviare tale processo è costruita attraverso la creazione di tempi e

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spazi di convivialità e di incontro che permettono ai soggetti di conoscersi e frequentarsi, come ad esempio pasti preparati e consumati in comune. Una presenza che i responsabili del progetto curano anche a livello mediatico e istituzionale, realizzando campagne di comunicazione, animando i social networks e facendo attività di advocacy presso stakeholders di livello locale e nazionale. L’obiettivo è trasformare l’esperienza pilota di Fa bene in Barriera di Milano in un modello replicabile in altri mercati e quartieri cittadini. Nei mesi in cui il mercato di Piazza Foroni affronta la complessa sfida della riqualificazione architettonica dell’area che lo ospita e pare non riuscire a cogliere pienamente le potenzialità del progetto, Fa bene inizia così la sua attività in due nuove aree: nella primavera del 2014 il mercato di Corso Chieti, nel quartiere Vanchiglia e poi, nell’autunno dello stesso anno, il mercato di Corso Svizzera, nel quartiere San Donato2. Aree che possono ricadere nella categoria di emiferie, zone a metà strada tra il centro e le periferie, un ambiente urbano segnato da discontinuità economiche e sociali. Già un decennio orsono, analizzando queste aree urbane a Torino e in altre città italiane da nord a sud della nostra penisola, uno studio di Caritas Italiana (Magatti, 2007) tratteggiava territori “sfilacciati”, attraversati da margini e confini, caratterizzati da alti tassi di immigrazione e disoccupazione, elevato grado di dipendenza dai Servizi sociali: luoghi dunque dove si pone la necessità di sviluppare modi innovativi di interpretare la partecipazione e la cittadinanza. Nei nuovi territori Fa bene si muove rapidamente, grazie all’esperienza maturata in Barriera di Milano, trasformandosi sempre più da progetto pilota in azione di sistema: i commercianti aderiscono all’iniziativa con l’obiettivo di costruire una nuova immagine per il mercato, rafforzando il rapporto con i 2 Negli anni seguenti il progetto si è ulteriormente allargato coinvolgendo i mercati torinesi di Crocetta, piazza Barcellona e via Porpora, oltre a tre mercati situati nella prima cintura del capoluogo piemontese, nei comuni di Collegno e Grugliasco.

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clienti attraverso la spesa solidale e contrastando il calo delle vendite patito nel corso degli anni a causa della concorrenza della grande distribuzione; vengono individuati operatori che, attraverso un contratto di lavoro, possono ottenere un sostegno al reddito garantendo la presenza quotidiana nel mercato; si collabora con le associazioni del territorio, teatro delle iniziative di promozione a sostegno del progetto e delle attività di restituzione delle famiglie beneficiarie che hanno ricadute positive sull’intera comunità. Particolare attenzione è riservata al tema della sostenibilità economica e ambientale: non solo trasformando il costo economico e ambientale dello smaltimento dell’invenduto dei mercati in beneficio sociale, ma anche trasportando e consegnando a domicilio i prodotti alimentari donati grazie all’utilizzo di speciali biciclette-cargo che diventano uno dei simboli più riconoscibili della presenza di Fa bene nei quartieri. Con tre mercati e tre territori coinvolti a pieno regime, l’impatto del progetto assume una scala e una visibilità cittadina, con numeri che lo impongono all’attenzione dell’intera Torino: nei primi cinque mesi del 2015 vengono raccolte oltre 12 tonnellate di prodotti (sfiorando così le 30 tonnellate dall’inizio del progetto), derivanti per circa l’80% dall’invenduto dei mercatali e per il 20% dalle donazioni dei clienti3. Negli stessi mesi il cibo raccolto viene distribuito attraverso circa 1.500 consegne di cui beneficiano 36 famiglie. Famiglie che entrano a far parte del progetto a causa di una particolare fragilità economica, ma che possono anche uscirvi nel momento in cui il sostegno 3 Un’analisi maggiormente dettagliata di tali percentuali evidenzia come la situazione nei tre mercati sia sensibilmente diversa: mentre in corso Chieti la percentuale delle donazioni dei clienti raggiunge il 35% del totale, in piazza Foroni scende al 12%. Si evidenzia inoltre un andamento della raccolta significativamente legato alla stagionalità, con una crescita nei mesi di aprilegiugno e una decrescita nel periodo dell’autunno avanzato-inverno, specchio della ciclicità annuale dei mercati rionali in termini di affluenza dei clienti e di abbondanza e varietà dei prodotti: complessivamente, la raccolta media dei tre mercati dall’inizio del progetto al momento dell’aggiornamento dei dati utilizzati nel presente contributo (31 maggio 2015) si attesta sui 38 chilogrammi giornalieri per ciascun quartiere.

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di Fa bene non sia più necessario: dal 2013 sono state 80 le famiglie intercettate dal progetto, per un totale di circa 260 componenti, 140 adulti e 120 minori. Persone che non hanno semplicemente ricevuto assistenza in un momento di difficoltà, ma che si sono impegnate in oltre 1.500 ore di restituzione alla comunità attraverso azioni di vicinato sociale, dalle piccole riparazioni e opere di manutenzione nelle case del quartiere all’accompagnamento in attività extrascolastiche per i bambini, dal volontariato in occasione delle feste di via alla gestione del bookcrossing tra i locali di zona, dalla preparazione di marmellate fino all’allestimento di una nuova ciclo-officina popolare. Una filiera (corta) di voci dal campo: commercianti, operatori, clienti e famiglie4 Il progetto Fa bene ricomincia ogni giorno alle tre del mattino, negli immensi spazi dei mercati generali, noti come CAAT (Centro Agro Alimentare di Torino). È qui che, nel cuore della notte, i commercianti che qualche ora più tardi apriranno i loro banchi nei mercati di Piazza Foroni, Corso Chieti e Corso Svizzera vengono a comprare i loro prodotti, scegliendoli tra le tonnellate di merci di decine di produttori all’ingrosso. Il viaggio della frutta e della verdura fresca che alla fine della giornata potrebbero finire sulla tavola di una delle famiglie beneficiare del progetto comincia da questo gigantesco snodo commerciale alle porte della città. Oppure appena qualche ora più tardi, attorno all’alba, quando i contadini della provincia finiscono di preparare le casse con i prodotti dei loro campi e salgono sui loro furgoni per recarsi a venderli al mercato. 4 A tutela della riservatezza degli intervistati, in questo paragrafo oltre all’utilizzo di pseudonimi tutti i dati che avrebbero potuto rendere riconoscibile l’identità degli interlocutori sono stati modificati (età, sesso, nazionalità, categorie merceologiche, mercati di riferimento), pur mantenendo criteri di rappresentatività e verosimiglianza.

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È il caso ad esempio di Adelina, 62 anni, coltivatrice diretta di Poirino, che incontro un sabato mattina al suo banco in corso Chieti, tra montagne di spinaci appena colti. Quando le chiedo quale sia la ragione per cui ha aderito al progetto Fa bene, Adelina non ha dubbi: Avevamo tanta roba invenduta e non mi andava di buttarla via, di sprecare tutta ‘sta roba buona solo perché non era più bella e la gente non la voleva più. Quindi questo progetto mi è sembrato molto utile per non sprecare la mia frutta e la mia verdura. Noi diamo tante cassette con le cose che non abbiamo venduto a fine giornata, e poi cerchiamo anche di raccogliere le cose dai clienti… questo non è sempre facile, se c’è tanta gente che aspetta non possiamo metterci lì a raccontare la rava e la fava sul progetto, quindi li mandiamo al banco dove ci sono gli operatori, però se non c’è tanta gente che aspetta, possiamo anche noi raccontare ai clienti del progetto.

Oltre alla volontà di non sprecare la merce invenduta, per molti commercianti risultano importanti altri due valori connessi al progetto: la possibilità di “fare del bene” aiutando delle persone in difficoltà, e al tempo stesso poter promuovere la propria attività e quella del mercato attraverso una “migliore immagine” trasmessa alla clientela. Ben riassume questa posizione la testimonianza di Rocco, 42 anni, che insieme al fratello e alla sorella gestisce un banco di frutta e verdura in piazza Foroni: Per il nostro lavoro è importante l’atmosfera famigliare che si respira al banco. Chi viene qui da noi lo fa perché ogni giorno sa che si rivolge a una famiglia che tratta i clienti come una famiglia. Noi siamo in Fa bene principalmente per aiutare chi ha bisogno, ma non trascuriamo nemmeno il fatto che questo progetto ha attirato la curiosità delle gente per il nostro banco, e come sanno tutti la curiosità di avvicinarsi al banco, di parlare con chi vende è il primo passo per avere un nuovo cliente.

Tra i mercatali vi è anche chi già donava parte del proprio invenduto a soggetti impegnati nel terzo settore o diretta-

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mente a famiglie in difficoltà, e che in Fa bene ha trovato una via complementare di raccogliere e distribuire le donazioni, come mi raccontano Nico e Ramona, coniugi romeni che vendono pane e prodotti da forno al mercato di corso Svizzera: Noi con il nostro banco diamo da diversi anni un aiuto alle persone povere, diciamo che facciamo della beneficenza. Già molto prima del progetto davamo il pane a fine giornata qui alla parrocchia che si occupa di persone in difficoltà, e anche adesso continuiamo, una parte la diamo sempre là e un parte a Fa bene. Ogni giorno diamo 5-6 chili di pane, e siamo molto

contenti che ora non è più solo una cosa nostra, ma è diventato un lavoro di gruppo.

Protagonisti di questo lavoro di gruppo sono senz’altro gli operatori che, per cinque giorni ogni settimana, presidiano i mercati per il progetto Fa bene. Emiliano, Benedetta e Augusto si muovono tra i banchi del mercato di competenza “come a casa loro”, conoscono pregi e difetti dei commercianti e per tutti hanno una parola, una battuta, un linguaggio in codice. Emiliano, con gli oltre due anni passati in piazza Foroni, dice di sé di essere ormai “diventato parte del paesaggio del mercato”: Qui mi conoscono tutti ormai, e io conosco tutti. All’inizio magari avevano dei dubbi, mi vedevano con il banchetto di Fa bene e mi facevano le battute sul fatto se pagavamo o no la piazzola… ma ora tutti mi vogliono vicino, mi dicono vieni qui, mettiti di fianco a noi! Io lavoro al progetto tutti i giorni, cerco di allestire in modo simpatico il gazebo, per attirare le persone, e poi qualche volta vengo anche al giovedì, il giorno in cui non dovrei lavorare, solo per passare a salutare le persone, vedere che vada tutto bene. La mia vita è cambiata tantissimo in questi mesi. Io anche prima giravo tutto il giorno per trovare le cose di cui avevo bisogno, ma spesso era un girare inconcludente, arrivavo a fine giornata che non ero mai soddisfatto. Invece da quando c’è il progetto sono più contento, anche se mi devo svegliare alle cinque, comunque la giornata ha un senso. E poi

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devo dire che ad esempio se mi fanno dei complimenti, se le persone dicono che ho fatto bene il mio lavoro è proprio una gratificazione, una cosa che mi piace.

Benedetta, la più giovane dei tre operatori, conosce fin da quand’era piccola il quartiere di San Donato e l’area del mercato di Corso Svizzera. La intervisto mentre se ne sta seduta sulla sua bici-cargo, in una pausa del suo lavoro quotidiano: La cosa più dura del nostro compito, secondo me, è aspettare. Fa veramente freddo d’inverno e stare qui tutto il giorno, di sabato, dalla mattina alla sera, non è semplice. Per questo vado sempre in giro, su e giù per il mercato, per farmi vedere, scaldarmi, e per tenere caldi anche i rapporti con i venditori! Vedi, per ognuno bisogna adottare la sua strategia: c’è quello a cui non devi chiedere nulla se no si innervosisce, ma a fine giornata ti chiama lui e ti dà un sacco di roba. C’è quello a cui invece devi chiedere continuamente se no si dimentica, quella da ringraziare in un certo modo, quello dove devi passare una prima volta e poi una seconda per prendere le donazioni che ti prepara nel frattempo… insomma, una precisa strategia, perché alla fine della giornata sai che devi raggiungere un certo livello di donazioni per soddisfare tutte le famiglie. Sai, mi ha colpito vedere come vivono alcune delle famiglie che prendono il cibo, soprattutto gli anziani, alcuni vivono solo in una stanza con un tavolo e una sedia e nient’altro, non credevo ci fossero persone così povere.

Il mercato di corso Chieti è invece il “regno” di Augusto. Chiacchiero con lui mentre lo aiuto nella preparazione dei pacchi da consegnare alle famiglie, dopo una lunga giornata di raccolta. Siamo circondati da frutta, verdura, pane, carne, uova e biscotta in due stanzine del “Centro di incontro per la terza età” di Corso Belgio messe a disposizione dalla Circoscrizione 7 della Città di Torino per lo stoccaggio della donazioni di Fa bene. Nel salone accanto almeno un centinaio di anziani giocano a carte seduti a crocchi attorno ai tavolini del Centro: Ecco qui! Ricapitoliamo: sono 14 kg di patate, insalata, carote, cavoli e carciofi, 12 kg di mele, pere, banane, uva e cachi,

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poi abbiamo 10 kg di pane, pizza e biscotti, 2 kg di carne, 6 kg di pasta e sughi, poi abbiamo quelle tre dozzina di uova, il formaggio… in tutto sono 46 kg, non c’è male, non c’è male! Piuttosto che raccontartelo, ci tenevo che tu vedessi con i tuoi occhi quello che faccio, così capisci meglio quanto lavoro c’è da fare ogni giorno! Sono qui da stamattina, e che ore sono ora? Le 18! Sono stanco, sai ormai ho più di sessant’anni, ma io sento molto mio Fa bene, è un’esperienza molto positiva, ho scoperto tante cose, avuto delle nuove idee. Anche economicamente per me il progetto è importante, in qualche modo devo arrivare alla pensione, e nel frattempo voglio mantenere la mia casa e la mia famiglia, pagare le bollette e tutto il resto.

Sebbene, come abbiamo visto dai dati presentati nel precedente paragrafo, le donazioni forniscano circa un terzo della raccolta a fronte dei due terzi costituito dall’invenduto dei commercianti, anche i clienti dei mercati rappresentato un importante anello della “filiera corta di prossimità” inventata da Fa bene. Contattate e informate quotidianamente dagli operatori e sensibilizzate con specifiche iniziative organizzate dai responsabili del progetto in occasione di particolari eventi (come ad esempio la Giornata nazionale di prevenzione dello spreco alimentare), chi sono le persone che donano una parte della propria spesa? Non è facile incontrarle, poiché molte di loro preferiscono lasciare in modo anonimo le loro donazioni direttamente presso i banchi dove acquistano, piuttosto che portarle di persona al punto di raccolta. Tuttavia alcune rispondono volentieri alle mie domande: Sono un cliente del mercato, faccio le donazioni e se posso convinco anche altri a fare la stessa cosa! Mi sembra un progetto dove sembra che ci sia molta positività, normalmente questi progetti che riguardano la carità sono tutti un po’ tristi, mentre qui la comunicazione è molto più ottimista mi vien da dire. Una cosa che mi ha sorpreso molto è che il progetto stia andando avanti, che si stia anche allargando ad altri mercati ho saputo. Generalmente queste cose appaiono e scompaiono, non durano molto, invece su piazza Foroni ormai è anni che il progetto

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va avanti, è bella questa continuità, ti dà l’idea che sia proprio una cosa seria. (Enrica, 46 anni, piazza Foroni). Io sono sensibile a queste tematiche, partecipavo già da tempo anche al Banco Alimentare. Faccio le donazioni al mercato ogni sabato, sia ai banchi dove già andavo prima, sia a banchi dove prima non andavo e che ora conosco proprio perché fanno parte del progetto. Mi piace anche che questo donare ha reso più “umani” i miei rapporti con i commercianti dei banchi dove faccio la spesa… ora abbiamo qualcosa di cui parlare, è bello questo. Ha dato un nuovo senso al momento in cui vado la spesa. (Claudio, 50 anni, corso Svizzera).

L’aspetto forse più apprezzato dai clienti che ho avuto modo di incontrare è l’approccio innovativo del progetto in termini di reciprocità, in cui lo “scambio” si presenta come una valida alternativa alle dinamiche assistenziali tipiche delle opere di beneficienza. Maria Teresa, 28 anni, cliente del mercato di corso Chieti, riassume in questi termini la questione: Non so se si possa dire che questo modo di donare sostituisca la classica beneficienza, diciamo che forse è complementare. Forse servono tutte e due, non so, però io ho sempre pensato che con la beneficienza in qualche modo si creino dei debiti, che invece in un progetto così non ci sono. Sì, tipo a me dare le monetine a chi chiede la carità non mi piace, non lo faccio mai, anzi mi da anche un po’ fastidio chi chiede l’elemosina, invece fare queste donazioni per Fa bene mi piace, mi fa sentire libera di farle o non farle, e così le faccio.

Infine le donazioni dei clienti e l’invenduto dei commercianti, passando per le mani deli operatori, giungono in quelle delle famiglie. “Famiglie” è il termine inclusivo che Fa bene ha scelto per designare i beneficiari del progetto, in tutta loro varietà: giovani e anziani, bambini e adulti, italiani e stranieri, persone accomunate da una condizione di marginalità e povertà che per essere combattuta necessità di un sostegno dal punto di vista economico e sociale. L’appuntamento fisso

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dei pranzi in comune e l’occasione delle attività di restituzione costituiscono i momenti ideali per un confronto sulla loro esperienza di vita e sulla partecipazione al progetto. Youssef, 45 anni, tunisino, è padre di una famiglia di sei persone. È stato coinvolto in Fa bene con l’avvio delle raccolte in corso Chieti: Io sono qui per un problema di salute. Io prima stavo bene, non avevo davvero problemi, poi è arrivato questa malattia alla schiena e tutto ha cominciato ad andare male. Non ho più potuto fare il mio lavoro, ho subìto quattro interventi e faccio difficoltà anche a camminare… Il progetto mi dà una mano concreta, sicuramente oggi spendiamo di meno per il cibo e questo ci aiuta economicamente, anche se ogni tanto soprattutto d’inverno la varietà nei pacchi non è molta.

Il cibo fresco che arriva sulla tavola è considerato da tutti il beneficio più concreto portato dal progetto, ma molti sottolineano come altrettanto importante sia la soddisfazione e il benessere collegato ai momenti di incontro e di scambio con le altre persone e in particolare con gli educatori. Cinzia, 36 anni, italiana, madre sola con due figli, è una delle famiglie di piazza Foroni: Mi trovo bene con tutte le persone che ho incontrato, venire qui a fare i pranzi del giovedì con le altre famiglie e con i ragazzi del progetto per me è molto importante perché io sono una persona un po’ chiusa, e qui mi sento tranquilla e sono più aperta, chiacchiero volentieri, chiedo anche consigli per i miei problemi con la casa. Anche quando vado a ritirare il pacco mi piace perché mi fermo sempre a parlare con il signore che c’è là alla distribuzione, per me questa è una cosa ancora più importante del cibo stesso.

Le attività di restituzione costituiscono una parte significativa della gratificazione che nasce dal poter contraccambiare in qualche modo il dono ricevuto, rendendosi utili alla comunità, interagendo con gli altri, guadagnando autostima per le proprie capacità e competenze. Tra i più attivi e con-

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sapevoli di queste dinamiche vi è certamente Gino, 69 anni, italiano, coinvolto sul territorio di corso Svizzera: Per Fa bene ho fatto di tutto, complessivamente è un’esperienza molto positiva. Ho fatto delle riparazioni, ho aiutato a dare il bianco, mi sono occupato del bookcrossing, come dicono, insomma dello scambio dei libri… e poi son proprio diventato amico degli operatori, di tutti e tre, in tutti e tre i mercati… quando Benedetta è stata male per un periodo, ché aveva un’operazione e non è potuta venire, l’ho sostituita io sul mercato per qualche giorno, per la raccolta. Mi piace anche proporre delle nuove idee, anche se non è facile, perché penso che le nostre attività non debbano togliere il lavoro ad altri… non so se mi spiego. Se io vado a fare una cosa per la quale un altro sarebbe pagato, insomma, è come se mi sostituissi a lui, e questo non va bene!

Spesso anche nelle restituzioni si utilizzano prodotti alimentari raccolti sui mercati, come nella realizzazione delle marmellate che molte famiglie ricordano come una delle attività più piacevoli tra quelle svolte. Marmellate che per le festività in parte vengono donate agli stessi commercianti che, qualche ora o giorno prima, ne avevano donato a Fa bene la materia prima. In questo modo il cerchio della reciprocità davvero si chiude, pronto a rinnovarsi ad ogni nuovo giorno di mercato. Mettere i margini al centro: i mercati di Torino come comunità patrimoniale L’antropologia ha ormai da lungo tempo intrapreso il percorso epistemologico e metodologico di “abitare lo scambio” (Malighetti, 2013). Abbandonato l’approccio positivista delle origini e articolata un’idea di cultura in quanto sistema complesso, ibrido, relazionale, in continua trasformazione, gli antropologi hanno eletto proprio gli spazi di scambio (economico, politico, sociale, linguistico) quale contesto

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privilegiato per osservare i meccanismi di produzione e riproduzione delle forme culturali. Spazi che rappresentano sempre anche delle arene politiche, in cui si intrecciano diverse visioni del mondo, interessi e poteri. Le città contemporanee nel mondo globale costituiscono gli snodi di un ampio sistema di scambi di scala locale, nazionale e transnazionale. Tuttavia, in modo particolare nell’attuale crisi del modello economico neo-liberale e del mercato del lavoro post-fordista, le città sono anche luoghi di crescente marginalità, di esclusione, di stigmatizzazione della povertà, di divisioni etniche e di classe (Wacquant, 2008). In questo panorama, assume dunque un valore etico e politico la scelta di assumere proprio il punto di vista, le necessità e l’esperienza di chi sta “su” e “oltre” i margini della società come punto di partenza per immaginare nuove forme di cittadinanza, di partecipazione, di contestazione dei meccanismi di produzione delle diseguaglianze economiche e sociali. In questo senso, come ha sostenuto Roberto Malighetti a partire dalle sue ricerche etnografiche in una favela di Rio de Janeiro (Malighetti, 2012), occorre riconoscere “la centralità dei margini” ed esercitare lo sguardo sulle modalità con cui le condizioni spesso diasporiche dei gruppi ai margini della storia, dei popoli colonizzati e degli schiavi, dei favelados e dei Meninos de rua, degli immigrati, dei rifugiati e dei profughi, degli indigeni e degli indigenti, possano essere considerate paradigmatiche per comprendere il soggetto contemporaneo, decentrato e delocalizzato dall’accelerazione dei meccanismi disgregatori e dislocanti della globalizzazione (Malighetti 2012, p. 35).

È proprio con tale sguardo che ho provato condurre questa breve esplorazione etnografica del progetto Fa bene. Un progetto che, concretamente, si propone di “mettere i margini al centro” attraverso iniziative pilota che diventano azioni di sistema e promuovono una visione della cittadinanza come spazio vissuto e processo dialogico.

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Produrre innovazione sociale e generare cambiamento duraturo sono dinamiche che implicano un alto grado di complessità. Per avviare la trasformazione occorre la capacità di immaginare possibili scenari futuri secondo paradigmi diversi da quelli dominanti, individuare tattiche e strumenti attraverso cui intervenire sulle interconnessioni tra persone, processi e ambiente, acquisire conoscenze in modo partecipato che ispirino politiche con un impatto sull’intera comunità. In altre parole, occorre pensare e agire in modo sistemico (Burns, 2007). La rapida emersione e la vasta diffusione di una variegata tipologia di sharing economy appare come una delle più evidenti rivoluzioni di sistema della nostra contemporaneità. Secondo Russell Belk (2010), tra i più attenti studiosi delle molteplici declinazioni dello sharing, la “condivisione” riguarda tutte quelle pratiche in cui prevale un senso del “noi” che, almeno in parte e temporaneamente, dissolve gli “io”, e insieme a essi, la circolazione degli oggetti e il possesso. In questa accezione il progetto Fa bene può certamente essere annoverato tra le dimensioni di un community welfare capace di prendersi “cura delle reti” dei diversi soggetti coinvolti, rafforzando il senso di coesione sociale in territori urbani fortemente soggetti al rischio di disgregazione (Folgheiraiter, 2006). Nel recente dibattito che gli antropologi italiani hanno avviato sul tema delle “comunità patrimoniali” (Padiglione e Broccolini, 2017), si è sottolineato come l’Italia contemporanea sia attraversata da numerose forme di partecipazione “dal basso” che individuano nel patrimonio culturale (materiale e immateriale) un riferimento attraverso cui individui e gruppi possono “immaginarsi come comunità”, per citare la nota formulazione di Benedict Anderson. Una comunità intesa come “una chimera (un miraggio) sociale da raggiungere, una entità simbolica da condividere, una forma immaginata per elaborare i processi disforici della globalizzazione e dal vertice dei mondi locali attivare inediti legami” (Ivi, p. 7). I mercati rionali sono certamente parte del patrimonio culturale di Torino. Un patrimonio materiale, fatto di edifici,

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padiglioni, tettoie, banchi che hanno storicamente connotato piazze e strade della città, e un patrimonio immateriale, costituito da saperi e pratiche, da tradizioni e da un linguaggio che si è sedimentato nei diversi quartieri cittadini e nei loro luoghi di mercato (Coppo e Osello, 2006). Oggi a questo patrimonio guarda non solo chi immagina i mercati come siti di fruizione ludico-turistica, ma anche chi li intende come contesti dove sperimentare nuove forme di welfare di comunità. Una comunità che, in una città che cerca faticosamente di guardare oltre la crisi economica e sociale che l’ha colpita e portare a termine una trasformazione mai veramente compiuta, pare voler ricordare alle vecchie e nuove amministrazioni che la governano che “sortirne tutti insieme è la politica, sortirne da soli è l’avarizia” (Milani, 1967). Come hanno ben scritto Matteo Aria e Adriano Favole: La condivisione è legata alla piccola comunità, ma la risorsa che abbiamo a disposizione è che si possono costruire continuamente nuove comunità e appartenenze [...]. Nella nostra vita costruiamo continuamente nuove comunità di condivisione. È un po’ come per la democrazia: le elezioni, le costituzioni, il diritto costruiscono la cornice, un bene comune all’interno del quale dare vita a forme di associazione e comunità che sono la vera essenza del vivere democratico [...]. Allo stesso modo, la condivisione è possibile e auspicabile solo se si fonda su una catena di comunità di condivisione [...]. Costruire e inventare senza sosta comunità di condivisione, questo sembrerebbe un buon compito in questi tempi di crisi (Aria e Favole 2015, p. 44).

Dentro, altro, contro. Culture giovanili e usi dialettici del territorio urbano Carlo Genova e Raffaella Ferrero Camoletto1

Giovani e spazio pubblico, tra visibilità e invisibilità I giovani giocano ormai da tempo, ed oggi più che mai, un ruolo centrale nel disegnare la strutturazione delle città, attraverso i loro usi e le loro rappresentazioni dello spazio urbano, così come attraverso l’impatto che questi hanno – formalmente e informalmente, direttamente e indirettamente – sulle scelte di pianificatori e amministratori (Carr, 2010; Mould, 2014; Fabian e Samson, 2016). Eppure il rapporto tra giovani e spazio urbano è stato, e continua tuttora in larga parte ad essere, relegato ai margini negli studi sulla condizione giovanile. Nel contesto italiano in particolare – sia nella ricerca scientifica che nel dibattito pubblico – l’analisi del rapporto dei giovani con lo spazio, e in particolare con lo spazio urbano, è stata nel complesso decisamente secondaria, nonché spesso schiacciata sui processi di marginalizzazione secondo l’asse centro-periferia. Anche per questo motivo, alla consistente diffusione di “letteratura grigia” prodotta da amministratori locali, osservatori e giornalisti sul tema “giovani e città”, solo in anni molto recenti è cominciato a corrispondere in cam1 Il capitolo è frutto di lavoro comune tuttavia il punto 2 è scritto da Carlo Genova, il punto 3 da Raffaella Ferrero Camoletto, mentre il punto 1 e il punto 4 sono stati stesi congiuntamente.

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po scientifico un parallelo sviluppo di ricerche e di modelli analitici che tematizzassero in modo sostanziale la questione (cfr. Mandich, 2010; Belloni, 2011; Leccardi, Rampazi, Gambardella, 2011; Mela, 2014). Eppure la centralità che oggi i giovani ricoprono quali attori non solo “nello” ma anche “dello” spazio urbano – tanto come suoi fruitori quanto come suoi produttori – è appunto innegabile, e il contesto torinese da questo punto di vista non fa eccezione. Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta in particolare, a Torino è cominciato un percorso di importanti trasformazioni che, affondando le radici nella cosiddetta crisi industriale, si è sviluppato però ben al di là del campo economico, ed è sfociato in un più complessivo mutamento sociale, culturale e urbanistico di questo contesto (su questo processo si veda Armano, Ferlaino e Dondona, 2016). Questa trasformazione di Torino – spesso descritta come transizione dalla città industriale alla città degli eventi, del turismo e del leisure – si è declinata in particolare con processi di ri-funzionalizzazione urbanistico-architettonica – così come di indotta corrispondente ri-allocazione di abitanti e city users – al centro dei quali spesso proprio il settore dei giovani ha rappresentato un attore fondamentale. Più in particolare, in questo senso, sono stati i due assi della creatività giovanile e delle culture giovanili a giocare un ruolo centrale, tanto che nel Primo Piano Strategico della città, del 2000, significativamente si legge: “Torino ha una vita culturale dinamica e diffusa e molte realtà imprenditoriali legate al settore culturale, ma sono possibili azioni che inneschino un vero e proprio settore di crescita e che affermino una nuova immagine di Torino”, tra le quali in particolare “un nuovo polo che favorisca lo sviluppo di produzioni artistiche e culturali dei giovani” (Torino Internazionale, 2000). In concomitanza con tali processi a partire dagli anni Novanta hanno cominciato ad emergere sul territorio forme di presenza pubblica giovanile maggiormente visibili e strutturate rispetto a quelle del decennio immediatamente precedente, ma anche radicalmente diverse rispetto a quelle

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dei decenni Sessanta-Settanta spesso sino a quel momento mediaticamente descritte come prototipi del protagonismo giovanile. Si è aperta così in città una stagione di sperimentazioni ed esperienze giovanili – quali i centri sociali occupati, i rave, gli street sport come lo skateboard, la cultura hip-hop, tra musica rap, breakdance e graffiti – che intersecavano piano sociale, piano politico e piano culturale e per le quali in molti casi proprio il rapporto con lo spazio urbano costituiva una dimensione fondamentale. Esperienze che hanno reso pubblicamente più visibili forme variegate di uso creativo dello spazio pubblico e che sono alla base di molte delle attuali forme di presenza pubblica di questo settore di popolazione. Tale effervescenza non è sfuggita peraltro all’attenzione dell’amministrazione pubblica cittadina, la quale significativamente nel 1995 promuoveva una rilettura ed un ripensamento del Progetto Giovani avviato a metà degli anni Ottanta per adeguarlo ai mutamenti in atto (Gallini in Tomasi, 2000). Ragionare sulle attuali forme di presenza pubblica giovanile a Torino, sulle loro relazioni con lo spazio urbano, così come sui loro complessi rapporti di interazione con i diversi “grandi attori” della città, pubblici e privati, significa quindi nel complesso confrontarsi con un quadro di esperienze e processi solo non molto variegato e articolato ma anche, come si è accennato, ormai dotato di una biografia significativamente lunga. Consapevoli dell’ampiezza del tema, nelle pagine che seguono ci si concentrerà quindi su due di queste forme in particolare, ovvero lo skateboard e i graffiti, scelte perché ritenute particolarmente significative per indagare da un lato le forme creative giovanili di rapporto con il territorio urbano e dall’altro lato le dinamiche di interazione tra processi di ri-significazione e ri-utilizzo “dal basso” e processi di ri-funzionalizzazione “dall’alto” dello spazio urbano (Genova, 2016; Ferrero Camoletto e Genova, 2017)2. In entrambi i 2 Significativamente se alla fine degli anni Novanta, decennio di crisi della città-fabbrica legata alla FIAT, il Comune inaugura il progetto Murarte (1999-

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casi, dopo aver contestualizzato il fenomeno nella sua evoluzione, si proverà dunque a riflettere sulle peculiarità che esso assume nel contesto torinese, e su come queste interagiscono con altri attori oggi coinvolti nella strutturazione spaziale e socio-culturale del territorio cittadino3. Disegnare la città: i graffiti tra espressione artistica e identità territoriale Il writing nasce come fenomeno urbano e in larghissima parte rimane ancora oggi tale. I muri cittadini in particolare diventano tele sulle quali stendere forme e colori. Ma si tratta di tele particolari, perché a differenza di quelle tipiche della pittura sono molto meno standardizzate, va2000) dedicato ai graffiti; nel 2011, nella fase di consolidamento delle trasformazioni derivanti dalle Olimpiadi, inaugurerà i primi lotti del neonato Parco Dora quale spazio multifunzionale dedicato alle street cultures giovanili e nel 2012 piazzale Valdo Fusi nella sua nuova veste di prima skate plaza metropolitana in Italia. Già in anni precedenti Torino era stata in realtà attraversata da opportunità ed eventi connessi a queste due pratiche, che avevano raccolto l’attenzione dell’amministrazione pubblica, sebbene non si fosse poi tradotta in interventi di promozione più diffusi ed espliciti: è significativo in tal senso osservare ad esempio che la città – dopo un decennio circa di eventi locali e nazionali – nel 1989 aveva ospitato i campionati europei di skateboard al parco del Valentino e nel 1990 la World Championship della stessa disciplina, mentre sempre nel 1990 aveva ufficialmente collaborato al progetto di documentazione fotografica dedicato ai graffiti cittadini di Dario Lanzardo (1990). 3 Quanto segue deriva da una ricerca (che ha coinvolto anche alcuni tesisti magistrali e tirocinanti di ricerca) su diverse street cultures (skateboard, longboard, roller, parkour, climbing, danze urbane, graffiti, street art) attraverso osservazione partecipante in alcuni luoghi della pratica ed eventi dedicati e interviste qualitative a praticanti. Ai fini di questo contributo, abbiamo lavorato su note di campo e materiale di intervista concentrando l’attenzione, come segnalato, su graffiti e skateboard. Per i graffiti sono state condotte 15 interviste con writers, mentre per lo skateboard sono state realizzate 19 interviste a praticanti e key informants (gestori di negozi, referenti di associazioni sportive, ecc.; sulla rilevanza di tali figure nella subcultura skate, cfr. Ferrero Camoletto e Marcelli, 2018). In entrambi i sottocampioni, si tratta di soggetti tra i 18 e i 35 anni, di sesso maschile (la presenza femminile in entrambe le pratiche, a Torino come in generale, è molto ridotta), in larga maggioranza con livello di istruzione medio-alto (diplomati o studenti universitari/laureati).

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riano molto più fortemente nelle loro caratteristiche strutturali, e non sono costantemente disponibili ma devono essere “cercate e scoperte” dai loro utilizzatori. L’opera dei writers è quindi sempre risultato nei suoi stessi elementi costitutivi dell’intersezione tra le caratteristiche dell’azione pittorica e quelle del suo supporto architettonico (Brighenti, 2010). Parlare di graffiti significa però parlare di pratiche e opere anche molto differenti tra loro. Emersi inizialmente con la pratica delle tag, consistente nel tracciare sui muri segni calligrafici stilizzati equiparabili a firme, orientati a marcare e rendere visibile la propria presenza, si assiste poi alla progressiva trasformazione della tag in lettering, ovvero in disegni al centro dei quali vi sono le lettere di una parola, in cui però l’aspetto più rilevante non è la riconoscibilità di quella parola bensì l’elaborazione creativa dello stile delle lettere. Il passaggio ulteriore sarà l’arricchimento dei “pezzi” di lettering con elementi iconografici, i quali faranno da ponte verso un graffito che diventa sempre più raffigurazione pittorica, più o meno astratta o figurativa (Mailer e Naar, 2009; Gastman e Neelon, 2010). Parallelamente e successivamente a tale processo si assiste all’ingresso progressivo di questa pratica nel novero delle forme artistiche istituzionalmente riconosciute, e quindi inserite nel mercato dell’arte e nel circuito di mostre, gallerie e musei (Waclawek, 2011). Trasversalmente alle sue diverse forme, il fenomeno dei graffiti rimane comunque essenzialmente fondato sull’utilizzo creativo di porzioni di architettura urbana – perlopiù non dedicate – quali supporti e componenti di un lavoro pittorico. In questo senso il writing come fenomeno sociale è stato interpretato nel tempo secondo tre diverse prospettive principali (MacDonald, 2001; Rahn, 2002; Valle e Weiss, 2010; Rowe e Hutton, 2012; Ross, 2016): come forma di devianza e di delinquenza, come forma di rivolta e resistenza, come forma di espressività stilistico-identitaria. Meno diffusa è stata invece una quarta prospettiva, emergente soprattutto nelle esperienze più istituzionalizzate di writing, secondo la quale

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esso potrebbe rappresentare una componente organica della cultura mainstream. Applicate al tema dello spazio queste quattro prospettive evocano quattro diversi modi secondo cui la pratica del writing entra in relazione con il territorio urbano. Se i graffiti si fondano su un utilizzo creativo di superfici architettoniche urbane, tale utilizzo potrà infatti svilupparsi a seconda dei casi come affermazione di un uso deviante, critico, distintivo o funzionale rispetto agli usi che per tali superfici la legislazione giuridica o le norme sociali identificano come legittimi. Quattro chiavi di lettura differenti che forse troppo spesso sono state interpretate come mutualmente esclusive anziché come possibili componenti di una interpretazione più complessa. La realizzazione di un graffito in una specifica porzione di architettura si configura tendenzialmente come operazione destinata a creare un prodotto che perdura nel tempo. Una volta realizzato un graffito, solo l’erosione dovuta ad agenti atmosferici, un intervento volto a rimuoverlo o la successiva sovrapposizione di un nuovo graffito cancelleranno il lavoro. Se l’elaborazione di mappe è spesso una delle modalità fondamentali attraverso le quali si sviluppa il rapporto delle culture giovanili con il territorio, nel caso dei graffiti la questione si rivela un po’ più articolata, e all’interno della scena dei graffiti a Torino si possono così osservare due modi diversi di intendere il processo di mappatura. Da un lato, soprattutto tra i writers che più collaborano con le istituzioni locali, sono state elaborate mappe cittadine dei graffiti intese come piante di un museo a cielo aperto attraverso le quali poter sviluppare percorsi di visita, di osservazione, dei graffiti esistenti. La città di Torino ha fatto negli anni diversi bandi attraverso i quali concedeva alcuni muri, di dimensioni e collocazione anche importanti, a chi presentava un progetto giudicato interessante. Il risultato sono oggi singole opere (come la donnola dipinta dal belga Roa in lungo Dora Agrigento o le pareti di Palazzo nuovo dello spagnolo Aryz) o blocchi di architettura urbana (come le facciate di

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Millo a Barriera di Milano, il Museo d’Arte Urbana a Campidoglio – con tanto di mappa di visita tradotta essa stessa in graffito murario – le passerelle di Stazione Stura, i muri di via Braccini, di corso Bramante, della Tesoriera o di Parco Dora, lo Street Art Museum all’ex-zoo di Parco Michelotti) che sono ormai diventati a tutti gli effetti luoghi di visita – verrebbe da dire in alcuni casi di “pellegrinaggio” – per i writers ma anche per turisti e cittadini curiosi. Al punto che ci sono associazioni che organizzano ormai abbastanza regolarmente “street art tour”, con percorsi di visita dei graffiti in bicicletta o a piedi (www.facebook.com/streetartourtorino), mentre parallelamente in rete ci sono ormai vere e proprie mappe navigabili dei graffiti cittadini (www.inkmap.it). Dall’altro lato possono invece venire elaborate mappe all’interno delle quali collocare le posizioni sia di luoghi “vergini” adatti ad essere dipinti sia di luoghi in cui sono già presenti graffiti che possono però essere coperti da nuovi lavori. Data la natura illegale di questa attività e data la rilevante attenzione anche mediatica che negli ultimi anni la questione ha raccolto, rispetto ad altre pratiche – come ad esempio le nuove pratiche sportive quali parkour e skateboard – non sembra però essersi diffusa la tendenza a condividere pubblicamente, in particolare attraverso la rete, questo tipo di informazioni. Nelle scena dei graffiti i più giovani, sotto i vent’anni, oltre ad essere la componente più numerosa, sono anche quella più attiva nel disegnare, nonché quella che condivide anche altre pratiche distintive. Rispetto al passato certo i writers oggi sono una popolazione molto meno omogenea in questo senso, molto meno legata agli immaginari della cultura hiphop, con i suoi vestiti larghi, con la sua passione per il rap e la break-dance. Ma per molti rimane ancora oggi comunque un quadro largamente condiviso – seppur meno definito – di riferimenti musicali, di vestiario, di immaginari, nonostante la generale maggiore valorizzazione della propria individualità tipica delle nuove generazioni. Resta quindi il riferimento alla crew, al gruppo ristretto di coetanei con cui si condivide

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non solo la passione per i graffiti e magari la realizzazione pratica, ma anche altre attività nel tempo libero, gusti, interessi, linguaggi; sebbene si riveli un riferimento altrettanto frequentemente bilanciato da spazi e tempi di pratica più solitaria, così come di reti amicali e sensibilità esterne alla scena. Interni alla scena sono invece parte dei luoghi in cui la socialità della crew si sviluppa, dai negozi di bombolette come Spot Art Supplie, agli eventi di writing come Mistura, ai festival come Street Alps, dalle mostre alle gallerie come Square23 e Galo, così come zone della città in cui magari si concentrano muri e superfici particolarmente ambiti e apprezzati, come nel caso di Parco Dora o di alcune sezioni dei muri lungofiume sul Po . Ma come si scelgono i posti dove disegnare e dipingere? Secondo quanto emerso nelle interviste, le logiche seguite sono molteplici. Se parliamo di tag, di marcatura del territorio con un proprio segno grafico, il punto di partenza sono le aree di prossimità, i muri di dove si vive, si studia, si lavora o si passa nella ripetitività della propria quotidianità o nell’eccezionalità dei propri spostamenti meno canonici. Se parliamo di graffiti veri e propri il discorso è più complesso. Per un writer alle prime armi la scelta spesso cade su luoghi periferici, poco visibili e poco controllati, un po’ perché non si è ancora sicuri delle proprie capacità, e quindi non si vuole esporre troppo i propri “tentativi”, un po’ perché non si hanno ancora la sicurezza in sé stessi e il capitale subculturale – ovvero conoscenza del territorio ed esperienza nella gestione del pericolo – per rischiare con luoghi più esposti. Diverso è invece il caso dei graffiti “legali”, per i quali un privato o un’istituzione pubblica mettono a disposizione dello spazio, e la cui collocazione quindi dipende da scelte altrui (come nei diversi casi citati nei paragrafi precedenti). Emblematico è in questo senso il racconto che Andrea fa del suo percorso di avvicinamento ai graffiti: Tutto è nato ovviamente iniziando a principalmente trovarsi un nome e iniziare a taggare, a firmare prima sui banchi di

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scuola, poi i bagni della scuola … quindi diciamo che ho iniziato in questa maniera, […] fai qualche tag, conosci qualcuno che o gli piace o che già fa questo e quindi inizi a avere una pseudo compagnia che comunque […] segue questa cultura. E da lì c’è stato un progress … il fatto che si iniziava poi successivamente a prendere le bombolette, a iniziare a fare le firme in giro ovviamente illegalmente … ho infognato un mio amico a questo, perché anche a lui gli piaceva l’hip hop quindi abbiamo iniziato a firmare assieme, abbiamo creato poi una crew, che ovviamente […] si faceva ben poco e niente, già le scritte cioè i pezzi … i graffiti non si facevano, si facevano solo le firme, si girava sui tram e si devastava tutto … come un po’ degli animali, per segnare il proprio territorio che alla fine di base è quello … il writing è affermare la propria esistenza e agli altri, far sapere “io ci sono” e anche un senso un po’ di rivolta. (Andrea, 35 anni, barman)

In generale si potrebbe quindi dire che per i più giovani conta più che altro il gusto del disegnare e l’affermazione della propria stessa “presenza” attraverso il “lasciare segni”. Per il writer più “esperto” invece le specificità del luogo contano maggiormente e visibilità, accessibilità e caratteristiche materiali delle superfici sono tre elementi in tal senso particolarmente rilevanti. Ma secondo prospettive differenziate. Il luogo ideale è pubblicamente molto visibile, perché questo permette di esporre il proprio lavoro ad un ampio numero di persone; al tempo stesso però anche un luogo più nascosto è affascinante, nell’idea che solo alcuni, i pochi che lo attraverseranno, vedranno l’opera (come nel caso dei graffiti sotto il ponte di corso Regina sul Po, o del sottopasso delle Vallere a fianco di corso Trieste). Inoltre un luogo molto visibile e di forte passaggio (si pensi ai diversi graffiti su cavalcavia e muri laterali lungo la tangenziale) può in realtà essere esposto ad uno sguardo più veloce e più distratto, e quindi per alcuni meno appetibile. Allo stesso modo un luogo facilmente accessibile rende più agevole il lavoro pittorico, ma un luogo difficilmente raggiungibile (come le facciate e le vetrate ai piani alti dell’ex-centro commerciale Gardenia Blu, all’intersezione tra corso Francia e la tangenziale a Rivoli, o i muri

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dalle complesse geometrie curvilinee sul tetto dell’ex-Union, a fianco del cavalcavia di corso Francia a Collegno) diventa una sfida, con se stessi e con gli altri, che se vinta fornisce status e riconoscimento sociale tra i writers. Infine per quanto riguarda le superfici e le architetture, la collocazione del “muro” all’interno delle relative strutture architettoniche, la sua forma, ma anche la sua composizione materiale, sono tutti fattori rilevanti: è molto diverso dipingere su un muro piatto o su una superficie con forme più complesse, su un muro visivamente più interconnesso con altre parti di edificio o più indipendente, e soprattutto è molto diverso dipingere su un muro intonacato o con mattoni o pietre a vista, in buono o in cattivo stato, umido o secco ecc. (come si può notare facilmente osservando i graffiti “su mattone” di corso Farini, ma si pensi anche ai pinguini dipinti da Pao sui paracarri, o al “Blue Cerebrale” dipinto da Corn97 sopra la casa del quartiere di San Salvario, in cui il profilo dell’edificio apparentemente “rompe” ma in realtà invece definisce il graffito stesso). E se i tratti “favorevoli” stimolano la scelta di una parete, i tratti “sfavorevoli” non necessariamente la disincentivano, perché sono invece spesso intesi come sfide su cui confrontarsi. Diciamo che si tende ad evitare i posti dove non si ha visibilità, dove la gente non si becca la scritta in faccia, diciamo [che] i posti più visibili sono i più devastati dai writer […] quei posti dove la gente ci passa sempre, dove ci sono sempre miliardi di persone, in pratica si scelgono quei posti lì. (Marco, 18 anni, studente di scuola superiore) Le pareti danno effetti diversi, una parete intonacata dà un effetto diverso da una parete mattonata e rispetto a una parete di cemento grezzo. […] Fondamentalmente qualsiasi superficie è bella … è bella da decorare, soprattutto se è grigia … faccio un po’ il romantico … è grigia? noooo triiiiste, diamogli un po’ di coloore! […] L’importante e che sia una buona superficie per potersi esprimere. (Andrea, 35 anni, barman)

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Su tutto ciò si innesta poi la questione dell’identità riconosciuta al luogo: se da parte di molti writer alcuni luoghi sono riconosciuti come “vietati” (chiese, cimiteri, edifici di rilevanza storico-artistica), più in generale quanto più tale identità è forte tanto più sollecita il writer a confrontarsi con essa nelle sue scelte grafiche. Certo, molto da questo punto di vista dipende dalle sensibilità personali. Per alcuni il graffito dovrebbe entrare in dialogo con il contesto circostante, adattarvisi, e la capacità del writer è quindi di leggere i luoghi e trarne ispirazione (come nel caso dei graffiti a tema “animale” all’ex-zoo di parco Michelotti, dei lavori ad effetto tridimensionale di Peeta sul Teatro Colosseo, in cui l’architettura su cui dipinge diventa parte integrante dell’opera, o dei tre cappelli dipinti coi colori dell’Irlanda da Dolo, Gatto e XTRM sulle ciminiere di parco Dora – in omaggio a Bobby Sands – o quelli nei giardini tra corso Regina Margherita e lungo Dora Siena, in cui un tubo di sfiato che buca il muro diventa l’occhio di un volto). Per altri invece il graffito deve riuscire ad andare al di là di quel contesto, metterlo da parte, e la capacità fondamentale del writer diventa quindi riuscire ad esprimere il più liberamente possibile il proprio lavoro superando i vincoli che il contesto pone. Due diverse prospettive che emergono anche nelle parole di Gianluca e Filippo: In teoria un buon lavoro di street art è un lavoro che si connette in maniera corretta con il luogo in cui è ospitato, a prescindere da come è il luogo, cioè sei tu che ti devi sforzare di... (Gianluca, 34 anni, tecnico di arte-terapia nei servizi sociali) Tendenzialmente ho sempre scelto […] muri brutti o decadenti, cioè io per me i graffiti sono costruzione non distruzione, per me sono migliorare qualcosa di brutto, portare un po’ di bellezza in luoghi decadenti. (Filippo, 35 anni, allestitore)

Discorso specifico sono infine i treni: fare graffiti su treni è chiaramente illegale, ma è soprattutto rischioso perché richiede di muoversi all’interno degli scali ferroviari al buio; al

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tempo stesso però un graffito su un treno “viaggia” e quindi viene “portato” agli occhi di un pubblico molto più ampio e soprattutto potenzialmente nuovo ogni giorno. Per questo, e per il suo ruolo negli immaginari dei writers, il graffito sulla carrozza ferroviaria mantiene ancora un forte fascino, come le pareti esterne dei treni in sosta soprattutto nelle stazioni di Lingotto e Dora – più periferiche e meno controllate – testimoniano bene. C’è chi preferisce magari dipingere sui treni […] perché il treno viaggia, viaggia nelle altre città, quindi hai più modo di farti conoscere alla fine quella di fare magari le scritte sui muri. (Giorgio, 31 anni, dj)

Rileggere e riscrivere la città: lo skateboarding come pratica urbana Se la pratica dei graffiti si sviluppa tra il muro e la creatività di chi lo dipinge, la pratica dello skateboarding si caratterizza per una peculiare interazione tra corpo, tavola e spazio urbano: l’arredo urbano fornisce al praticante di skate l’hardware, la materia prima per elaborare la modalità – il suo software – di rilettura e riscrittura del territorio attraverso una pratica di sottrazione, ri-significazione e riappropriazione, materiale e simbolica, di porzioni di città. In questo modo, partendo da ciò che il territorio urbano rende disponibile, e attribuendo ad esso un differente significato e valore d’uso, lo skater può produrre una nuova città dando vita a “concrete utopia(s)” (Borden, 2001, p. 57), in cui il termine inglese “concrete” rimanda al doppio significato di utopie che trovano una realizzazione pratica, concreta, in un particolare habitat materiale che è quello del cemento (concrete in inglese) delle città. La “mappa” dei luoghi per fare skate a Torino è certamente un elemento condiviso tra i praticanti, ma le nuove tecnologie e i social media hanno permesso, attraverso le

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possibilità di geo-localizzazione anche dal basso e di condivisione delle informazioni, di creare dei luoghi virtuali in cui sono presenti indicazioni aperte anche ad un pubblico esterno. Un esempio di tale strumento è il sito www.skatemap.it, che ospita, in relazione a Torino, una lista di spot, ovvero di luoghi le cui caratteristiche architettoniche vengono interpretate come risorse e opportunità per la pratica: alcuni spot storici e simbolo, in quanto posizionati in centro città, come il monumento a Emanuele Filiberto Duca d’Aosta in piazza Castello o la skateplaza di piazzale Valdo Fusi; skate parks outdoor, spesso periferici, come Parco Dora, piazza Arbarello, via Dina, via Artom, Parco Ruffini, corso Vercelli o corso Casale, o indoor e privati, come quello nel seminterrato del negozio di sport Amante Casella; e infine, spot definiti attraverso la pratica come il Vanchiglia Hubba da 7 gradini, il Big 3 del parco in corso Tazzoli o la scalinata in zona Porte Palatine. Questa segnalazione di differenti tipi di luoghi fa già da subito comprendere come nello skateboarding (anche se meno che in pratiche più nomadiche ed esplorative come il parkour) lo “spotting” rappresenti un lavoro di continua emersione di nuovi possibili luoghi per la pratica. La pratica dello skate si è spostata progressivamente dalle aree suburbane e periferiche al centro delle metropoli (Pintarelli, 2014): nel caso di Torino, a skatepark più periferici come quello in via Dina, in un quartiere simbolo della città fordista come Mirafiori, si sono affiancati skatepark più centrali, come quello in piazzale Valdo Fusi, accanto alla sede della Camera di Commercio e contornato da palazzi d’epoca. La ri-localizzazione – e legittimazione – dello skate nel cuore della città è espressione di un più ampio processo di reinterpretazione di tale pratica come parte delle street cultures giovanili, col loro potenziale di innovazione sociale e creatività culturale. In quest’ottica, da forma di resistenza e di critica nei confronti delle forme di governo del territorio urbano (cfr. Nemeth, 2006; Chiu, 2009), si è passati a guardare alle modalità con cui gli skaters hanno cercato e costruito una relazione non soltanto conflittuale, ma anche di mediazione e

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negoziazione, con gli attori istituzionali (Beal et al., 2016). Nel caso di piazzale Valdo Fusi, la collaborazione tra l’associazione Skateboarding Torino e vari assessorati della città di Torino ha permesso la realizzazione di una delle prime skateplaza4 italiane che ha ospitato numerosi contest di skateboard così come altri eventi legati più genericamente alle street cultures, dalla moda alla grafica ad altre forme di consumo. Nonostante gli elementi di ambivalenza e di tensione che permangono intorno a tale luogo5, appare evidente come, anche nel contesto torinese, la rappresentazione dello skateboard abbia perso i suoi tratti più trasgressivi e devianti per acquisire quelli più “civilizzati” e gentrificati della creatività e della cittadinanza responsabile e attiva (Howell, 2005, 2008). L’analisi delle interviste a skaters torinesi ci permette di ricostruire la peculiare relazione dialettica tra tale pratica e il territorio urbano e metropolitano, tra rivendicazione e riconquista di porzioni di città e allocazione “dall’alto” di spazi appositi e riconosciuti per la pratica. Attraverso lo skate, i giovani torinesi si riappropriano stabilmente di alcuni luoghi della città, ottenendone talvolta, come nel caso di piazzale Valdo Fusi, una definitiva ri-funzionalizzazione a loro vantaggio; al tempo stesso, essi rivelano l’importanza di mantenere uno spirito nomade, in base al quale esplorare incessantemente il territorio urbano per scoprire nuovi luoghi in cui poter praticare. La prima volta non sono andato in Piazza Castello a skateare, sono andato prima a conoscere i suoi amici visto che a scuola insieme non si andava allora sono andato e ho conosciuto [….] tutta quella gente. […] Da lì sono cominciato ad andare tutti i giorni in piazza. Ma veramente tutti tutti i giorni, mi sono 4 Con tale termine si fa riferimento ad un parco le cui strutture sono costruite al tempo stesso come attrezzature per la pratica dello skate ma anche con le sembianze di elementi dell’arredo urbano fruibili da altri comuni cittadini e integrati con il resto della città. Cfr. Vivoni (2009). 5 Le maggiori tensioni sono sorte a seguito della successiva destinazione d’uso della ex-Casa Canada, eredità delle Olimpiadi invernali del 2006, ad ospitare un birrificio con un’offerta di prodotti ricercata.

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appassionato. Fai che in ’sti giorni sono 14 anni che ho iniziato, me lo ricordo come se fosse ieri. (Piero, 27 anni, collaboratore di negozio di skate) Di solito qua a Torino il ritrovo di tutta di tutta la compagnia nostra è piazzale Valdo Fusi che è comodo per tutti ed è una zona centrale. Ci si trova lì a skateare e il più delle volte si sta lì che ci sono varie strutture, non t’annoi. Poi si cerca di girare il più possibile, di trovare posti nuovi, andare a filmare per strada, in spot, non solo skate park o cose. Si cerca di girare un po’. (Armando, 21 anni, studente universitario)

Lo spot collaudato o lo skatepark può costituire per alcuni una tentazione che conduce ad una maggiore stanzialità e abitudinarietà, riducendo così la dimensione dell’esplorazione spaziale a favore dell’allenamento da un lato e del gioco e del divertimento dall’altro. In questa dialettica tra luoghi attrezzati e luoghi riscoperti e reinterpretati si coglie la peculiarità dello skateboarding, il suo potere di risignificazione e ridestinazione d’uso della città: le caratteristiche di un luogo lo rendono spot solo perché interviene la capacità di immaginazione spaziale dello skater. Il caso di piazza Castello, spot storico della scena skate torinese, è emblematico della diversa logica che lo distingue da uno skatepark o da una skateplaza, progettata ad hoc, come piazzale Valdo Fusi. Il fascino di tali luoghi risiede infatti proprio nel riconquistare, dare un diverso significato e difendere, in modo mai definitivo e concluso, un luogo nei confronti di altre aspettative d’uso. In questa ricerca di visibilità della pratica nei confronti di un pubblico esterno e composito si può intravedere anche una volontà di trasformazione più ampia, quasi un tentativo di risocializzazione di altri city users, comprese le istituzioni, ad una possibilità di uso più flessibile e aperto dello spazio urbano. [Gli] street spot, cioè quelli non adibiti allo skateboard ma arredi urbani o quant’altro… piazze principalmente, piazza Castello, i Giardini Reali dove è anche legale. Devi farti cac-

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ciare, polizia, rottura di balle che è anche il fascino skate anche quello. È una cosa fighissima che usi le strutture, … vedi la città in un modo diverso. Per la vecchietta stai rovinando la piazza, tu ti stai divertendo e facendo sport. Dunque posti interpretati dallo skater per farci quello che gli piace. (Michele, 27 anni, gestore di negozio di skate)

Rispetto agli spot ormai consolidati e riconosciuti, la scoperta di nuovi spot può essere frutto di una intenzionale esplorazione, ma molto spesso è un effetto casuale, indicatore del fatto che l’occhio dello skater è sempre attivo nel guardare la città dalla particolare prospettiva della “praticabilità” di un determinato luogo. L’utilizzo non convenzionale di porzioni di territorio e di arredo urbano che non sono state pensate per tale funzione espone lo skater, come abbiamo già detto, alla convivenza e talvolta al conflitto con altri fruitori di quello stesso spazio. Il contesto sociale quindi – dagli abitanti di un quartiere non particolarmente ospitale, ai bambini che giocano, agli anziani e le famiglie che occupano panchine e scalinate – influenza e limita le possibilità di pratica. Ciò significa che lo skater e il suo sguardo sono continuamente, e inevitabilmente, interrogati da e in dialogo con lo sguardo degli altri city users e dalle aspettative sociali e normative implicitamente connesse ad un determinato luogo. Luoghi diversi – dai luoghi appositamente progettati per lo skate a spot periferici o a luoghi più centrali della città – offrono vincoli e opportunità diverse allo skater: diversi gradi di libertà, ma anche diversi livelli di sicurezza, diverse modalità di rendersi visibili o invisibili, diverse possibilità di interazione, dal rischio di fare a botte a quello di prendere una multa. Nello skate park sei tu che sei legittimato a stare lì quindi puoi passare tutto il tempo che vuoi, non devi fare il conto a nessuno di quello che stai facendo, skate e basta, pensi alle tue cose e basta. In una zona degradata in periferia sei abbastanza libero anche lì di fare quello che vuoi, perché generalmente sono zone meno controllate e tutto, ma magari hai a che fare

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con problemi diversi […], sei impegnato oltre a fare il trick o quello che vuoi fare [ma] devi pensare anche a guardarti un attimo intorno, fare occhio che stia tutto a posto che la gente non ti dia fastidio. […] Poi in una zona centrale sei meno libero in assoluto di fare quello che vuoi e dunque oltre le tue cose, persone che ti hanno fastidio o comunque deve evitare ecc. devi fare anche occhio all’aspetto illegale di quello che stai facendo e quindi magari alle autorità, poliziotti o altri, che ti possono venire a dire di andartene o direttamente farti la multa. (Armando, 21 anni, studente universitario)

Tuttavia, in alcuni casi, dalle interviste emerge anche un altro tratto distintivo: una immersione totalizzante nella pratica, e nell’esecuzione della manovra alla ricerca del trick, che sembra generare un isolamento sia spaziale che sociale. In questo modo sembra venir meno sia l’interesse ad interagire con altri city users, sia la capacità di ripensare lo spazio cittadino non solo come proprio personale playground, ma anche come esercizio di immaginazione urbana. La cosa che mi fa rendere uno spot desiderabile o appetibile sicuramente [è il] flat liscio, ci deve essere poca gente di merda […] le guardie o gli zarri che ti rompono le scatole o se ci sono le vecchie che ti tirano l’acqua. A te non te ne frega nulla l’importante è skateare. […] Sono talmente concentrato che non mi interessa niente di quello che mi succede intorno. Faccio solo attenzione alla gente che non mi fotta la roba. (Dario, 27 anni, gestore di un negozio di skate)

Questa divergenza di posizioni ci fa concludere in modo scettico rispetto alla diffusa interpretazione romantica dello skateboarding come una pratica “intrinsecamente” politica in quanto portatrice di una rilettura e riscrittura critica della città in grado di generare nuovi paesaggi urbani. Certamente, la prospettiva da cui si pone lo skater modifica la percezione sensoriale della città coinvolgendo tutti e cinque i sensi, udito e vista in primis, ma anche tatto, gusto e olfatto: la pratica genera uno spazio corporealizzato per cui non soltanto il corpo risponde alle sollecitazioni dello spazio,

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ma a sua volta plasma quest’ultimo, proiettandovi i propri significati. Al tempo stesso, però, non sempre tale pratica performativa raggiunge un livello di consapevolezza e di riflessività che ne fanno un progetto di intenzionale trasformazione della città in dialogo con gli altri suoi utenti: in alcuni casi, lo skate appare invece come una attività autoreferenziale, tutt’al più aperta alla ricerca di riconoscimento e approvazione da parte della cerchia degli altri praticanti, ma che in qualche modo rimuove l’esistenza di altri city users come elementi di disturbo da tenere fuori dalla propria cornice. Culture giovanili “dentro”, “altro”, “contro” la città I due casi studio illustrati ci mostrano due pratiche di reinterpretazione – tra rilettura e riscrittura – dello spazio urbano che, da semplice contenitore o contorno dell’attività, diviene strumento e materiale del proprio fare creativo, sotto la forma dei tricks dello skaters o delle scritte e dei disegni di un writer. Entrambe le pratiche si muovono in una dialettica tra accessibilità della porzione di territorio urbano in cui operare, visibilità della propria “opera”, ma anche protezione da possibili interferenze e opposizioni da parte di altri utilizzatori della città e delle istituzioni. Anche nel contesto torinese, la rappresentazione pubblica delle due pratiche appare però ancora differente. I graffiti rimangono ancorati ad un immaginario più “deviante” (come testimoniato dall’espressione “imbrattamuri” con cui talvolta vengono ancora etichettati), meno ampiamente legittimato a livello di opinione pubblica e di senso comune: la scritta e il disegno del writer ottiene riconoscimento quando viene “inquadrato” come forma artistica e rietichettato come street art. La figura dello skater, nonostante permangano chiusure e divieti, appare più tollerata perché considerata un soggetto più mobile, che attraversa il territorio urbano lasciando meno tracce del proprio passaggio: la discussione al massimo

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verte sull’usura dell’arredo urbano, sui rischi delle acrobazie sperimentate o sul quel residuo di immagine di giovane deviante che occupa gli spazi pubblici bevendo, fumando e schiamazzando. Le istituzioni a Torino hanno da tempo operato per incorporare entrambe le pratiche all’interno delle proprie politiche pubbliche, “addomesticandole” per ridurne il potenziale deviante. Tuttavia, esse hanno operato in modo differente. Nel caso dello skate, si è assistito alla costruzione di spazi centrali dedicati e di eventi che celebrano le street culture come elemento creativo delle culture giovanili: si vedano iniziative come l’annuale Torino Street Style o singoli eventi ospitati in luoghi simbolo della città dal punto di vista degli skaters, come Valdo Fusi, Parco Dora, Piazza Castello. Nel caso dei graffiti, iniziative come il Progetto Murarte, evolutosi in PicTurin e poi nei successivi progetti, possono essere interpretati come un tentativo di istituzionalizzazione attraverso la nobilitazione artistica della pratica, cui vengono dedicate gallerie a cielo aperto in zone predefinite della città, spesso però in luoghi periferici o al limite semicentrali (come le mura di cinta del Parco della Tesoriera, in zona Cenisia, o la stazione Stura). Quando vengono coinvolti luoghi più centrali, l’operazione assume la forma di “commissioni artistiche” a writers noti nel panorama artistico contemporaneo (come la facciata di Palazzo Nuovo, sede tradizionale delle facoltà umanistiche). Nel caso dello skate, quindi, tale operazione produce un panorama più ristretto di luoghi che, una volta predisposti, rimangono a disposizione dei praticanti. Al contrario, nel caso dei graffiti, si innesca un processo mai concluso di costante ricognizione del territorio alla ricerca di nuovi spazi utilizzabili come superfici riscrivibili. Il contenimento in spazi dedicati, quindi più regolamentati e controllati, si accompagna ad una reinterpretazione, da parte delle istituzioni pubbliche, di questi giovani praticanti come parte di una classe creativa in grado di ispirare le politiche di sviluppo urbano e economico della città. Emblemati-

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co è in questo senso il caso di piazzale Valdo Fusi. Da un lato la ri-funzionalizzazione post-Olimpiadi del luogo è avvenuta – a partire dalla mozione comunale del 2010 – trasformandolo, in parte, in skatepark attraverso una co-progettazione con gruppi e associazioni di skaters; dall’altro lato, nel settembre 2017, quello stesso luogo arriva ad ospitare, in collegamento con la vicina ex-borsa valori, l’evento Maze The Trade Festival, dedicato alla “streetculture” e allo “streetwear”, ovvero all’interazione tra “culture urbane” e imprenditoria. L’assegnazione di luoghi da parte delle istituzioni sembra però modificare radicalmente la natura di queste pratiche. Il loro potenziale trasformativo dello spazio urbano e quindi anche, più in generale, il loro ruolo di innovatori sociali si fonda infatti sulla libertà di reinterpretare il territorio in modo non convenzionale e talvolta trasgressivo. Nel momento in cui le pratiche sono incanalate entro luoghi e modalità espressive istituzionalmente più guidate e controllate, evidentemente rischiano di vedere indebolirsi proprio quella creatività e capacità di innovazione su cui la città vorrebbe far leva. Se rampe, rails e ostacoli degli skatepark vengono realizzati in modo standardizzato, anche i trick di cui si compone la pratica saranno sempre più omogenei, deprivandola progressivamente di parte della sua inventiva; se gli spazi legalmente dedicati ai graffiti sono molto spesso riquadri rettangolari di muri lisci – evidentemente simili a tele da pittura – questo avrà un innegabile influenza sullo stile sviluppato dai singoli writers, altrimenti abituati a lavorare con maggiore creatività su sfondi molto più variegati. In molti casi, inoltre, i luoghi dedicati a queste street cultures sono organizzati come luoghi ibridi e multifunzionali, pensati per ospitare e mettere in dialoghi differenti pratiche urbane. E sulla base di questa ipotizzata trasversalità e ecumenicità delle street cultures, spesso non si considerano gli elementi di differenza e di potenziale conflittualità tra i diversi significati e usi degli spazi condivisi: nelle interviste raccolte i praticanti di parkour lamentano così la perdita di

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“grip” (presa) sul cemento quando esso viene “lavorato” con la paraffina dagli skaters o ricoperto dalle vernici dei graffiti, come ad esempio avviene nel caso degli spazi di parco Dora. Più in generale, l’intreccio tra pratiche urbane “alternative”, city users e istituzioni cittadine (come nel caso di nuovo di piazzale Valdo Fusi, pensato congiuntamente per skaters, amanti del jazz e foodies) rappresenta quindi al tempo stesso un’opportunità da cogliere e una sfida da risolvere per una città come Torino che si sta ripensando anche a partire dagli stimoli provenienti dalle culture urbane emergenti.

“No sleep ’till Parco Dora”: parkour e i paradossi di una città rigenerata, tra eterotopie e governo della differenza Nicola De Martini Ugolotti

Questo capitolo si propone di guardare criticamente ad alcune delle trasformazioni che hanno (idealmente) cambiato negli ultimi vent’anni l’immagine di Torino da “cittàfabbrica” (Bagnasco, 1986) a capitale internazionale “della cultura, del turismo e dell’innovazione” (Urban Centre, 2016). L’analisi di queste pagine si sviluppa a partire da uno sguardo etnografico e situato, che privilegia il punto di vista e le esperienze di un gruppo di circa venti traceurs (praticanti di parkour) tra i 17 e i 21 anni di età, in diverse maniere collocati ai margini spaziali e sociali della città e molti dei quali post-migranti. Questo sguardo è informato da una prospettiva multi-disciplinare che considera corpi e luoghi come siti in cui relazioni di potere e diseguaglianze sono al tempo stesso incorporate, localizzate, riprodotte e negoziate (Foucault 1976, 2005; Silk e Andrews, 2008, 2011; Lefebvre, 1996; Soja, 1996). A partire da questa premessa e dall’osservazione che “lo spazio [urbano] origina dal corpo” (Lefebvre, 1991, p. 242), le pagine che seguono guardano agli usi del corpo e delle pratiche corporee negli spazi cittadini come strumento di lettura dei processi di trasformazione sociale su scala urbana, oltre che delle relazioni e delle negoziazioni di potere che li caratterizzano (De Martini Ugolotti e Moyer, 2016). Questo lavoro non intende quindi guardare ad un gruppo di traceurs in movimento nella città di Torino, in quanto

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semplice sfondo e contenitore di attività e relazioni sociali. Piuttosto, il capitolo si concentra sulla relazione dei giovani traceurs con la città di Torino, con l’obiettivo di esplorare come le loro attività corporee e usi degli spazi siano state rese parte del processo e repertorio di rigenerazione urbana, e abbiano allo stesso tempo negoziato e illuminato alcune delle sue conseguenze. Questa analisi verrà effettuata concentrandosi sull’ambivalente relazione che i traceurs nello studio hanno sviluppato con uno dei simboli di una Torino rigenerata: l’area di Parco Dora. L’osservazione partecipante delle pratiche di un gruppo di traceurs negli spazi cittadini e nel parco urbano di Parco Dora diventa quindi uno spunto da cui è possibile considerare e re-inscrivere spaccature, instabilità e tensioni in una narrazione dominante della città costruita su un’immagine di condivisa e partecipata trasformazione, rinascita economica e vitalità (multi)culturale. A partire dall’analisi di queste spaccature e tensioni, il capitolo si propone di discutere un emergente governo della differenza messo in atto negli spazi cittadini attraverso una “conduzione di condotte” (Rose, 2000), movimenti e pratiche urbane costruita su parole chiave come “comunità”, “partecipazione” e “coesione”. In aggiunta, nel considerare alcuni degli effetti delle trasformazioni sociali, spaziali e morali in atto nella “Detroit italiana” (Pizzolato, 2008), l’ambivalente rapporto tra i giovani tracciatori e l’area di Parco Dora servirà infine per suggerire come l’idea di eterotopia (Foucault, 2001) possa rappresentare un concetto utile nel rendere visibili i paradossi e le fratture di una città che allo stesso tempo celebra e si sente minacciata dalle differenze che animano le proprie strade. Un’etnografia del corpo e degli spazi Il lavoro etnografico alla base di questo contributo si è svolto a più riprese tra il 2013 e il 2015 per un periodo complessivo di circa 18 mesi, in cui ho seguito e partecipato alle

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attività di un gruppo di circa venti traceurs tra i 17 e i 21 anni di età negli spazi urbani torinesi. Il parkour in sé come pratica ha offerto un punto di vista unico e inedito per affrontare i temi trattati, a causa delle possibilità che la disciplina offre di collocare il corpo negli spazi urbani e cogliere la molteplicità degli stessi in termini di usi, significati e relazioni sociali e di potere (Mould, 2009; Guss, 2011; Genova, 2016; De Martini Ugolotti, 2017). Il parkour è anche una disciplina ancora prettamente maschile (Stapleton e Terrio, 2012; Kidder, 2013) e la forte connotazione di genere presente all’interno della disciplina è emersa anche durante la ricerca. Una discussione delle relazioni di genere nella disciplina e nella (ri) definizione degli spazi urbani è al di là dello scopo di queste pagine, ma in questo senso è importante sottolineare che il materiale etnografico di questo contributo si sviluppa a partire dalle pratiche, prospettive negoziazioni di un gruppo di giovani uomini negli spazi urbani di Torino. Molti dei partecipanti alla ricerca erano tracciatori1 con diversi livelli di esperienza ed erano marginalmente coinvolti, se si esclude l’occasionale partecipazione ad alcuni eventi pubblici e promozionali, nel processo di istituzionalizzazione che la disciplina ha intrapreso a livello nazionale ed internazionale (Ferrero Camoletto et al., 2015). Gran parte delle famiglie dei traceurs erano provenienti da diversi paesi dell’Est Europa, Africa Settentrionale, Africa Occidentale e America Latina2, un aspetto che mostra un’interessante attinenza con le motivazioni e posizione sociale dei primi “creatori” e rappresentanti della disciplina che erano giovani uomini di origine migrante e/o classi lavoratrici “subalterne” (Stapleton e Terrio, 2012).

1 Il termine “tracciatori” verrà usato dall’autore nel testo come sinonimo del termine traceurs. 2 Le famiglie dei partecipanti provenivano nello specifico da Romania, Brasile, Marocco, Senegal, Nigeria, Ucraina, Moldavia, Albania, Perù e Repubblica Dominicana. Due dei partecipanti erano di nazionalità e origine italiana.

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I partecipanti stessi al tempo dell’inizio dello studio erano residenti in Italia da un minimo di due a un massimo di 17 anni e godevano di diversi status legali (titolari di permesso di soggiorno o cittadinanza italiana). Approssimativamente metà dei partecipanti frequentavano corsi professionali e istituti tecnici al tempo della ricerca, mentre l’altra metà era in cerca di occupazione o impiegata in diverse attività economiche informali (per esempio lavori a chiamata e/o in nero come traslocatori, lavapiatti, muratori etc.). La posizione di marginalità ed esclusione sociale dei partecipanti negli spazi fisici e sociali di Torino era evidenziata dalla loro mancanza di legami e contatti sociali al di fuori della cerchia familiare (a parte i contatti stabiliti tramite il parkour) e dalla mancanza di alternative stabili a condizioni lavorative prive di sicurezza e continuità per coloro che erano già usciti dal circuito educativo. In relazione a questi elementi, molti dei traceurs nello studio descrivevano la loro partecipazione nel parkour come dovuta, almeno inizialmente, alla mancanza di diverse alternative di svago e da vissuti di noia ed isolamento sociale (De Martini Ugolotti, 2015, 2017). Nelle parole di Abdelrazak “Molti di noi incominciamo ad allenarci, qui, là, dove c’è altra gente che si allena in pratica, perché ci sentiamo isolati, cioè... a livello sociale, e anche nelle nostre famiglie a volte” (Note di campo, 14 Aprile 2015). L’accesso al gruppo ed al contesto di ricerca è stato facilitato dal mio coinvolgimento nel gruppo come traceur principiante e dalla conseguente condivisione semi-quotidiana di spazi, pratiche, lividi e sudore con i partecipanti. Questo approccio metodologico ha facilitato un’analisi allo stesso tempo teoreticamente informata e “viscerale” (Sweet e Escalante, 2015) che ha permesso di includere “sensazioni, stati fisici ed emozionali” (ibidem, p. 1827) nei dati etnografici della ricerca. Il coinvolgimento nella disciplina è stato accompagnato anche da un continuo lavoro di riflessività sulla mia posizione nel campo e sulla consapevolezza che, pur coinvolto nelle stesse pratiche del gruppo, il mio status sociale, origine, età associasse al parkour vissuti, aspettative ed implicazioni molto diverse dai partecipanti. Non consi-

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derando questo aspetto unicamente come un limite nella ricerca, ho invece usato questo elemento di coinvolgimento, parzialità e riflessività corporei per riconoscere e utilizzare la mia voce e posizione nel campo come uno strumento analitico, attraverso cui confrontare con i partecipanti esperienze, punti di vista e poste in gioco differenti in relazione al nostro comune lavoro sul corpo (Giardina e Newman, 2011). Il lavoro etnografico è stato accompagnato da 24 interviste semi-strutturate e tre focus groups, dalla costruzione di narrative testimoniali con tre dei partecipanti e dalla creazione di un documentario di 32 minuti con otto dei partecipanti3. La flessibilità e creatività implicate nell’uso di diversi metodi qualitativi ed etnografici hanno favorito l’adattamento della ricerca ai contesti fluidi e informali in cui si è svolta e hanno permesso ai partecipanti di scegliere tempi, luoghi e modalità con cui essere coinvolti nello studio. Insieme a questo coinvolgimento sul campo, l’analisi testuale di documenti pubblici, prodotti mediatici, siti web relativi al processo di rigenerazione torinese degli ultimi due decenni mi ha permesso di articolare una prospettiva “dal basso” con un’analisi dell’economia politica della trasformazione urbana torinese, per andare oltre la “letteralità dell’osservato” (Kincheloe, 2001, p. 686) nel contesto dello studio. I nomi dei partecipanti sono stati modificati per preservare la loro privacy, con l’eccezione dei contributi trascritti dal documentario sopracitato. Inclusione selettiva e “multiculturalismo dall’alto” a Torino: paradossi e fratture di una città rigenerata Torino si è trasformata moltissimo, è diventata una città molto più bella, molto più aperta, molto più accogliente, molto più ricettiva, una grande città d’arte e di cultura che offre 3 “Climbing Walls, Making Bridges: Capoeira, parkour and becoming oneself in Turin”, co-prodotto con il sostegno di University of Bath e Associazione Frantz Fanon.

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tantissime opportunità... (Piero Fassino, ex-sindaco di Torino, intervista, 10 marzo 2015). Torino mi sembra fatta per quelli a cui piace passare il loro tempo libero in centro, nei centri commerciali, nelle palestre, nelle discoteche o nei ristoranti... per quelli a cui per un motivo o per l’altro queste cose non le vogliono o possono fare, non c’è molto altro... (Karim, 21 anni).

Come suggerito da diversi autori (Semi, 2004, 2015; Vanolo, 2015a) il nucleo dell’economia di Torino è cambiato negli ultimi vent’anni dalla produzione industriale al consumo di prodotti culturali e immaginari cosmopoliti. Questo processo, legittimato e reso possibile dalla scelta di Torino come sede olimpica per i XX Giochi Olimpici Invernali del 2006 e dalla loro alquanto controversa eredità, ha accelerato non solo un drastico cambio di immagine della “Detroit italiana” (Pizzolato, 2008), ma sopratutto drammatiche trasformazioni spaziali e sociali il cui impatto sul lungo termine è ancora del tutto da stabilire. Una parte visibile e immediata di questo processo è stata sicuramente, a partire da metà degli anni Novanta del Novecento ad oggi, la progressiva “riqualificazione” di quartieri (dal Quadrilatero a San Salvario, passando per Vanchiglia) dove le classi creative cittadine potessero risiedere, consumare e rappresentarsi come parte di una emergente classe media cosmopolita, allo stesso tempo legata ad un luogo e globalmente connessa (Sigler e Wachsmuth, 2016). La “rinascita”, o gentrificazione, di aree più o meno centrali di Torino è stata spesso connotata immaginari multiculturali, fatti di negozi etno-chic, botteghe e bistrot tipici, e fiere internazionali che hanno tentato di conferire negli ultimi a Torino una gradevole e visibile immagine di multi-etnicità, descritta da Schmoll e Semi come una forma di “multiculturalismo dall’alto” (Schmoll e Semi, 2013). Gli autori hanno definito il “multiculturalismo dall’alto” come una promozione istituzionale della diversità che produce una visibilità “di un certo tipo” delle comunità migranti urbane e che fa spesso affidamento su uno degli elementi più acces-

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sibili e meno controversi dei contesti multiculturali: il cibo (ibidem, pp. 385-387). In questo senso, prestigiosi eventi internazionali e aree urbane multietniche e rigenerate rappresentano immagini promozionali tramite cui le élite politiche e culturali di Torino sostengono una immagine di diversità che fa l’occhiolino sia a sofisticati viaggiatori “aperti all’incontro con l’altro” (Ley, 2004, p. 196), che a classi urbane meno mobili, ma comunque affascinate da gusti, suoni (e corpi) esotici (vedi Semi, 2004, 2015; Schmoll e Semi, 2013; in altri contesti urbani Glick Schiller e Çağlar, 2011; RhysTaylor, 2013). Il tentativo, tuttora in corso, di trasformare di Torino da città-fabbrica a capitale internazionale della cultura, turismo e innovazione (Urban Center 2016) ha trovato quindi la sua espressione fisica attraverso territori urbani condivisi (festival multiculturali, quartieri gentrificati e multietnici, o l’area di Parco Dora, che verrà esplorata in dettaglio nella prossima sezione) dove l’incontro con la diversità viene allo stesso facilitato e limitato da ristoranti etnici, negozi di importazione e/o forme architettoniche (vedi anche Binnie et al., 2006, p. 15). Come sottolineato però da alcune letture critiche, la valorizzazione e reificazione di cibi, culture e corpi “altri” in contesti urbani geograficamente e temporalmente definiti, non ha facilitato l’inclusione, mobilità e appartenenza sociale di comunità e corpi (post)migranti nella vita pubblica di una città rigenerata e con ambizioni globali. Schmoll e Semi (2013) hanno messo in evidenza le contraddizioni di politiche e iniziative di multiculturalismo dall’alto nel contribuire alla reificazione di pratiche, identità e traiettorie sociali di individui e comunità (post)migranti, ed eclissamento di realtà di convivialità e multiculturalismo quotidiano in contesti urbani (vedi anche Gilroy, 2004; Semi et al., 2009). In aggiunta alle criticità appena evidenziate, va considerato anche che le rappresentazioni e iniziative che celebrano una città vibrante, multiculturale e inclusiva rischiano di operare una pericolosa divisione tra sanificate e commerciabili immagini di “piacevole ed esotica diversità” (Mitchell, 1995; Silk e An-

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drews, 2008) e ben più controverse ed escludenti visioni contemporanee su presunti “scontri di civiltà” e sulla questione migratoria. Di fatto, processi di valorizzazione di un’alterità reificata e sanitizzata hanno spesso accentuato la distinzione tra spazi, corpi e comunità caratterizzate dalla loro vitalità multiculturale e cosmopolita, da altri gruppi, aree urbane e fenotipi che mancano delle “giuste” caratteristiche di diversità, come povertà, “incompatibilità culturali”, religione, o una combinazione di questi fattori (Semi, 2004, 2015; vedi anche, riguardo altri contesti urbani, Glick Schiller, 2015). Seguendo questi elementi di riflessione, si può sostenere che, nonostante l’intenzione di promuovere congiuntamente diversità, inclusione e rivitalizzazione economica e culturale, iniziative di multiculturalismo dall’alto rischino di facilitare a Torino dinamiche in cui vengono definite nei paesaggi urbani barriere simboliche ma effettive tra differenza “accettabile” e non (Ley, 2004; Binnie et al., 2006): Il fatto è che la gente che mi applaude quando facciamo un’esibizione su un palco o ad un evento magari è la stessa che si stringe la borsa o il telefono quando mi incrociano per strada da qualsiasi altra parte (Bogdan, 21 anni) Ogni volta che ci alleniamo in giro, ad un certo punto qualcuno deve venire a dirci qualcosa, può essere un tipo alla finestra che ci dice di andare a lavorare, i vecchietti che chiamano i vigili o la polizia, e pure ragazzi della nostra età che vengono a dirci, “perché dovete venire a fare queste cose qui?!” (Ricardo, 18 anni)

Le considerazioni ed esperienze di Bogdan, Ricardo (e Karim all’inizio di questa sezione) mostrano come la loro appartenenza nella vita pubblica di Torino fosse contingente alla capacità delle loro pratiche e dei loro corpi di contribuire all’immagine di una città in grado di attirare turisti e residenti “del tipo giusto” nei propri eventi e spazi urbani (Harvey, 2001). Se da un lato le pratiche ed allenamenti informali dei partecipanti negli spazi pubblici cittadini erano

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incontrate da sospetto, sanzioni e sorveglianza diffuse e generalizzate, le loro performance erano applaudite e celebrate in contesti spazialmente e temporalmente definiti (palchi od eventi promozionali), dove i loro movimenti e corpi potevano rappresentare il simbolo di una città vibrante, giovanile e multi-etnica. Se, come accennato sopra, la Torino contemporanea riserva un’importante aspetto della sua rinascita nella creazione di spazi di gradevole diversità e modernità, gli effetti di questi processi di rebranding urbano, e delle sue trasformazioni spaziali e sociali, sembrano produrre però un addomesticamento e mercificazione della differenza (Binnie et al., 2006). Al posto di promuovere scambi arricchenti e incontri inter- e multi-culturali, questo processo di rigenerazione urbana sembra riprodurre relazioni di potere e diseguaglianze nella rappresentazione, sorveglianza e consumo di corpi “altri” negli spazi urbani (Carrington 2001). Abbiamo appena finito un allenamento in un’area di Torino Sud, mentre torniamo verso la fermata del tram Karim accenna ad un evento in centro in cui alcuni traceurs che conosce si esibiranno; vorrebbe andare a vedere un po’ la situazione. Gli chiedo come si sentirebbe ad essere chiamato ad esibirsi in un evento del genere, quando spesso viene mandato via dai luoghi in cui si allena da cittadini e negozianti “preoccupati” (come ci è successo oggi). Karim dice che alla fine questi eventi possono aiutare a cambiare un po’ il modo in cui viene visto chi pratica il parkour, e scherza dicendo che così magari la gente smette di vedermi come un marocchino che scippa le borse [ride]... poi, aggiunge, il compenso per un evento del genere di solito una volta diviso tra chi si esibisce è quanto un giorno di paga in qualsiasi lavoro a chiamata, quindi potrebbe far vedere a casa che quello che fa non è proprio inutile... dopo un attimo di silenzio aggiunge “Però mi sentirei come un cagnolino obbediente, che fa quello che gli viene detto quando glielo viene detto, e poi può essere mandato via senza motivo” (Note di campo, 28 Maggio, 2015)

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I resoconti dei partecipanti sembrano risuonare quindi con quanto osservato da Glick Schiller (2015) in altri contesti urbani; il paradosso dei tentativi di rigenerazione urbana di Torino sembra risiedere nel fatto che la diversità sociale, culturale, religiosa sia allo stesso tempo percepita come risorsa fondamentale e come minaccia per la rigenerazione e lo sviluppo di una città con aspirazioni globali. Le minacce a questa visione urbana sono solitamente identificate in comunità “che non vogliono integrarsi”, senza fissa dimora, migranti privi di documenti (e sempre di più richiedenti asilo/rifugiati) e gruppi dediti a usi “impropri” e “indecorosi” degli spazi urbani. Nel caso di Torino però, la gestione, controllo e inclusione selettiva di specifici corpi e pratiche nel rinnovato paesaggio cittadino non è messa in atto solamente attraverso la militarizzazione degli spazi pubblici, la creazione di spazi più attenti alle esigenze del mercato che del pubblico e una sorveglianza pro-attiva di specifici gruppi sociali “devianti” e ai margini (Coleman, 2004; Silk e Andrews, 2008). Piuttosto, processi contemporanei di inclusione ed esclusione sociale e la definizione di forme di diversità “accettabile” sembrano essere definite sempre di più attraverso un diffuso e condiviso ethos di promozione di iniziative e pratiche orientate al “bene comune”, fondate su logiche di partecipazione, coesione e sviluppo comunitari e messe in atto da varie realtà dell’emergente governance torinese responsabile della trasformazione, amministrazione e uso di spazi urbani rigenerati, o da rigenerare. L’analisi etnografica delle pratiche dei traceurs nello studio e la loro trasversalità rispetto a diverse rappresentazioni di “inclusione” e “devianza” negli spazi urbani, ha fornito quindi una prospettiva unica per considerare quali soggettività urbane e quali significati e usi degli spazi cittadini, e dei corpi che li frequentano, vengono prodotti e disciplinati nel processo di trasformazione sociale e spaziale che Torino sta attuando. Seguendo e ascoltando i traceurs con cui ho lavorato durante la ricerca, un sito in particolare è sembrato concentrare i paradossi, le instabilità e le tensioni

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di questi processi di trasformazione urbana: l’area post-industriale di Parco Dora. Attraverso i resoconti etnografici e le esperienze dei traceurs coinvolti nella ricerca, la prossima sezione affronterà più in dettaglio le relazioni e pratiche sociali che l’area del parco ha reso possibili e limitato all’interno e attorno ai propri spazi, come esempio delle razionalità e pratiche di “conduzione delle condotte” (Rose, 2000; Rosol, 2015) messe in atto nel paesaggio urbano di Torino. “No Sleep ’till Parco Dora”: nuove vocazioni urbane e condotta di condotte a Torino Emilio e gli altri mi danno appuntamento all’“area bimbi” di Parco Dora (un’area giochi per famiglie e bambini localizzata all’interno dell’Ex-Area Vitali) “perché è più facile trovarsi”, mi dice Bogdan. In effetti il gruppo che si allena e ritrova all’area giochi è già abbastanza nutrito quando arrivo, una ventina circa di ragazzi e alcune ragazze scherzano, fumano, giocano a carte e si allenano (non le ragazze, però) usando le strutture architettoniche dell’area (muri, castelli per bambini, altalena, una piattaforma di cemento, i “pilastri” che caratterizzano l’ex Area Vitali). Le altre parti usate dai traceurs nell’ex-Area Vitali, sono una serie di basse piattaforme di cemento (per provare salti), un paio di muri diroccati, e occasionalmente i prati circostanti (per provare altri salti, sopratutto quando vicino ai cassonetti si recuperano materassi su cui poter atterrare “in morbidezza”). Il gruppo si sparpaglia e ritrova più volte durante il pomeriggio in questi spazi, ma Dragan e Lucio sembrano impazienti di andare altrove... (Note di campo, Maggio 2014). Ho scoperto questo posto [Parco Dora] poco dopo che l’hanno aperto [nel 2011], un mio amico mi ha detto che c’era questo posto [...] un giorno abbiamo visto un gruppo di ragazzi che saltavano, e siccome io e il mio amico facevamo più o meno le stesse cose per contro nostro siamo andati e gli abbiamo detto “voglio provare a saltare anch’io” […] non abbiamo bisogno

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di mandarci messaggi per darci appuntamento, siamo sempre qui (Cosmin, 21 anni).

Parco Dora si colloca con la sua area (358.000 m²) al centro di una delle principali aree di riqualificazione urbana di Torino per dimensione e investimenti, la Spina 3, collegando aree residenziali e complessi commerciali facenti parte del processo di riqualificazione e rinnovamento sociale ed economico della zona (Cianfriglia e Giannini, 2016). La zona del parco sorge dove fino agli anni Novanta del Novecento erano ospitati gli stabilimenti delle Ferriere Fiat, della Michelin, della Savigliano e della Paracchi, e provvede alle aree urbane circostanti un gradito e necessario polmone verde, costituito da un parco post-industriale, aree verdi e uno spazio multifunzionale di 12.000 m², la cosiddetta Ex-Area Vitali. Inaugurato nel 2011 in occasione delle celebrazioni per il 150° anniversario dell’unità d’Italia, il parco è stata salutato come il simbolo delle trasformazioni di una città che “chiude le proprie fabbriche e scopre altre vocazioni” (Rossi, 2011), tra le quali si può individuare quella per una smart governance urbana (Vanolo, 2014; Pollio, 2016) costituita da partnerships pubblico-private, contenimento dei costi pubblici, e un ethos di partecipazione e sviluppo comunitario. Il soggetto pubblico-privato che ha operato nell’area del parco e sul territorio circostante tra il 2006 e il 2015, il Comitato Parco Dora, rappresenta un caso esemplare di questo approccio. Definito come “uno strumento di azione strategica […] che risponde al forte bisogno di cura e coesione sociale ed economica che la città esprime” (Comitato Parco Dora, 2015, corsivo dell’autore) questo ente ha gestito le attività all’interno dell’area nel parco con l’obiettivo di coordinare l’attuazione di diversi tipi di iniziative comunitarie (da orti urbani, a laboratori di street-art passando per attività di sport-per-tutti), promuovere la frequentazione e l’uso degli spazi da parte di diversi gruppi di residenti e favorire dinamiche di partecipazione e coesione sociale (Comitato Parco Dora, 2015). Periodicamente, l’area del parco ha assunto a

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livello cittadino anche il ruolo di simbolo del multiculturalismo torinese (ospitando l’annuale preghiera di fine Ramadan della comunità musulmana), nonché di polo emergente della trendy e cosmopolita cultura giovanile cittadina (come sede del “Festival dei Colori”, del Kappa music festival, e provvedendo spazi e strutture per praticanti di sport urbani come skateboarding e bike polo ed eventi di parkour). Come mostrato dalle note etnografiche all’inizio di questa sezione, Parco Dora, ed in particolare l’area Ex-Vitali, rappresentavano anche per i traceurs con cui ho lavorato un importante punto d’incontro e aggregazione. Durante la ricerca però, le esperienze ed i racconti dei tracciatori non hanno fatto solo eco alle immagini di spontaneità, inclusione e partecipazione che sembravano caratterizzare l’area, e idealmente il resto della città: E così loro [i carabinieri] ci hanno detto, sì, che il posto dedicato a noi è quello [indica i pilastri dell’Area Vitali] […] se andiamo da qualsiasi altra parte, per esempio dietro al “Mac”, vengono a mandarti via, minacciano di multarti e ti ripetono che il posto è sempre quello [Parco Dora], no? Beh, se alla fine ti cacciano di qua e ti cacciano di là, molti di noi, soprattutto i più giovani, è ovvio che finiscono a Parco Dora (Samba, 20 anni)

In un interessante contrasto con narrative di rigenerazione urbana condivisa e partecipata, resoconti come quello di Samba e altri tracciatori, sembravano confermare invece l’azione di confini invisibili, ma concreti, che influenzavano l’accesso, la presenza e le condotte dei traceurs con cui ho lavorato negli spazi pubblici cittadini. In questo senso, le esperienze e le voci dei partecipanti sembravano evocare considerazioni di autori come Huxley (2013) e Rosol (2015), che hanno mostrato i processi spaziali attraverso cui i residenti urbani sono condotti a governare sé stessi (ed altri) in nome di parole chiave come “comunità”, “partecipazione” e “coesione”:

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Quando ti senti dire così spesso “non puoi stare qua”, “non puoi andare là”, “il tuo posto è Parco Dora”, alla fine è come se stiano cercando di contenerci (Marcos, 20 anni) Questa cosa veramente mi fa sentire, non so [fa un verso di rabbia] quando la gente si sente sopra gli altri... ci viene detto ovunque di spostarci “che non possiamo saltare qui”, “questo non si può fare qua”, quando i posti in cui ci alleniamo sono tutti posti pubblici, cioè no, giardinetti, marciapiedi, passaggi pedonali... se in un posto pubblico chiunque si sente in diritto di dirci che cosa è giusto fare o meno anche se non sto facendo niente di male, questo veramente mi dà in testa (Marius, 19 anni)

La presenza contestata e “illegittima” dei traceurs negli spazi cittadini ha contribuito quindi ad illuminare le faglie di un modello di rigenerazione urbana la cui simultanea e combinata promozione di rivitalizzazione economica, rebranding urbano e partecipazione/coesione comunitaria di fatto contribuisce ad operare una negazione dei diversi (e potenzialmente conflittuali) bisogni e pratiche che vengono espressi quotidianamente da diversi gruppi all’interno del tessuto sociale urbano. I lavori di Rosol (2014, 2015) hanno evidenziato in questo senso alcune delle conseguenze della creazione di spazi urbani ordinatamente spontanei, condivisi, pacificati e orientati verso un’astratta ed in qualche modo ingannevole idea di “bene comune”: un “noi” presumibilmente coeso e omogeneo al cui interno interessi e necessità particolari perdono di valore. Come sostenuto da Fainstein (2000, pp. 457-461), in un contesto in cui un’azione o una pratica è legittima solo nel momento in cui ne beneficiano tutti, anche coloro che sono già in posizioni di potere e/o privilegio, gruppi socialmente marginalizzati vedono svanire uno dei loro principali strumenti di rappresentazione ed azione politica: l’uso conteso e conflittuale degli spazi urbani per soddisfare e raggiungere specifici bisogni e obiettivi (vedi anche Rosol, 2015). Attraverso una visione urbana presumibilmente condivisa e consensuale, determinate voci, corpi

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e pratiche (come quelle dei giovani uomini nella ricerca) venivano quindi “incluse” e celebrate all’interno del parco nello stesso tempo in cui erano marginalizzate da altri spazi pubblici cittadini: Se mi chiedi perché ci fanno tante storie quando ci alleniamo ti dico che non è solo per razzismo o perché siamo considerati stranieri. Di sicuro c’è pure il razzista che ti dice ‘tornatene da dove vieni’, ma il motivo vero è che roviniamo l’immagine che la gente dà a quel determinato posto in cui ci stiamo allenando. Tipo, se ci alleniamo vicino ad un palazzo poco fuori Parco Dora, la gente pensa che roviniamo l’immagine di quel palazzo semplicemente perché siamo lì. Nessuno ci direbbe niente se rimanessimo a Parco Dora, ma vai fuori di lì e a parte poche eccezioni chiunque viene a chiederci “perché dovete fare le vostre cose qua? Non potete andare a Parco Dora?!” (Karim, 21 anni)

Le implicazioni pratiche di queste visioni urbane sono state presentate chiaramente dai resoconti dei partecipanti. Nella loro prospettiva, Parco Dora, ed in particolare l’area Ex-Vitali, non veniva a rappresentare un’area urbana dove le loro sessioni di parkour, ed altre pratiche sociali, potevano avere luogo. Piuttosto, Parco Dora era diventata, o stava diventando, l’area elettiva in cui diverse pratiche spontanee e (in)formali (ma non solo) che potenzialmente potevano creare tensione e conflitto nel resto della città venivano contenute e accumulate. Parafrasando Marcos, il processo di contenimento dei traceurs nello studio non avveniva esclusivamente attraverso pratiche coercitive o sanzioni da parte delle autorità. Piuttosto, molto più efficacemente, un’idea di partecipazione e di “bene comune” nella gestione urbana faceva sì che una parte della cittadinanza urbana mettesse in discussione la legittimità della presenza e delle pratiche dei traceurs negli spazi pubblici per una varietà di motivi (dalla sicurezza, al decoro, ai rischi per i traceurs e passanti) e proprio a partire dell’esistenza di Parco Dora, in quanto spazio legittimo per l’espressione di pratiche urbane “esotiche” e

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“creative”. Di fatto i traceurs nello studio erano impegnati quotidianamente a negoziare queste dinamiche di potere localizzate e localizzanti tramite un coinvolgimento con l’intera città come “campo da gioco” per i loro percorsi (vedi anche De Martini Ugolotti, 2015, 2017): Possono darci o tenerci in tutti gli spazi che vogliono, ma noi continuiamo a cercarne altri (Alex, 19 anni, estratto da video documentario) Il punto del parkour è di andare da un punto A ad un punto B, no? Ti serve per attraversare la città, non a stare fermo in un posto solo […] (Bogdan, 18 anni)

Se da una parte i partecipanti usavano attivamente il parkour e altre discipline urbane per (ri)definire le forme e i contorni della loro città e il loro posizionamento all’interno di essa, le loro esperienze mostravano comunque allo stesso tempo gli effetti di spazi come Parco Dora, ed altri luoghi pseudo-pubblici, nell’influenzare concretamente i loro movimenti e condotte nel contesto cittadino (e verosimilmente anche quelle di altri membri più o meno marginali della popolazione urbana). Alla luce di queste prospettive, nell’ospitare e rendere visibili una vasta serie di pratiche urbane e culturali, il “disordine ordinato” (Coleman, 2005, p. 135) di Parco Dora contribuisce sia alla visione di una Torino cosmopolita, inclusiva e creativa che a delineare un emergente governo della differenza negli spazi della città. Questo diffuso e partecipato governo della differenza coinvolge molteplici attori della rigenerazione torinese (istituzioni, soggetti pubblico-privati, organizzazioni locali, imprenditori culturali) per operare su una serie di problemi urbani, come la ri-funzionalizzazione di imponenti aree post-industriali, la necessità di rendere coese e “produttive” comunità e aree urbane periferiche e/o ai margini, il controllo e l’ammortizzazione di tensioni sociali in aumento in un contesto di scarse risorse pubbliche. Nel contesto della ricerca, il materiale etnografico, le rappresentazioni promozionali e i documenti analizzati hanno mostra-

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to come questi problemi urbani siano governati a partire da razionalità e tecnologie di governo che si basano su discorsi di riqualificazione urbana, partecipazione e sviluppo comunitario, coesione sociale ed economica, nel creare le basi di una condivisa e consensuale visione urbana. Contribuendo quindi a regolare e condurre le condotte (Rose, 2000) sociali e spaziali dei residenti urbani all’interno ed attorno alla sua estensione e distribuendo geograficamente gruppi e pratiche con diversi e possibilmente conflittuali usi e immagini degli spazi urbani, si può sostenere che l’area di Parco Dora contribuisca a governare e pacificare una zona che rappresenta un investimento cardine nella trasformazione sociale e simbolica di Torino. D’altro canto, la creazione di uno spazio urbano in cui forme e pratiche di differenza sociale, culturale e religiosa vengono allo stesso tempo celebrate ed accumulate rinforza una visione urbana che non considera più la città come luogo di incontro e manifestazione di tensioni, relazioni e pratiche sociali e quindi come sito per definizione di processi plurali e democratici (Mitchell, 1995, 2003). Conclusioni. Parco Dora come eterotopia: una prospettiva sulle conseguenze e fratture del governo della differenza Nel proporre uno sguardo etnografico su alcune conseguenze della trasformazioni spaziali e sociali che Torino ha vissuto e sta vivendo, l’ambivalente relazione tra un gruppo di traceurs torinesi e la loro città ha mostrato l’area di Parco Dora come un paradosso di spontaneità, socialità e contenimento indicativo dei processi e cambiamenti urbani che stanno coinvolgendo la città always on the move. Alla luce della discussione di queste pagine, l’obiettivo di questa parziale e situata prospettiva etnografica non è quindi quello di definire che cosa Parco Dora sia, o significhi per chi lo frequenta e per il resto della città (area restituita alla cittadinanza, luogo di partecipazione comunitaria e/o simbolo di nuove vocazioni urbane), quanto piuttosto cosa questo luogo urbano faccia:

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quali discorsi, movimenti, e pratiche faciliti e limiti all’interno e attorno ad i suoi spazi, e cosa questo ci possa dire sul processo di rigenerazione urbana torinese. Guardare quindi a Parco Dora quindi come “spazio altro”, o eterotopia4 che riflette, inverte e contribuisce a creare la città che lo circonda, uno spazio le cui “aperture” nascondono “particolari esclusioni” (Foucault, 2001, p. 30), può essere utile sia per identificare alcune delle conseguenze dei discorsi e processi di trasformazione spaziale e sociale in atto a Torino, che per contribuire alla creazione di altri discorsi sulla città. In particolare, l’idea di eterotopia sembra utile per considerare la capacità di uno spazio di “creare differenza” (Johnson, 2013, p. 790) e di illuminare il nesso tra pratiche sociali, forme architettoniche e narrazioni dominanti attraverso cui nuove visioni e ordini urbani vengono simultaneamente immaginati, creati e negoziati. Le prospettive e ambivalente relazione dei traceurs con Parco Dora hanno mostrato come il “disordine ordinato” e accumulazione di tutto ciò che è urban nelle aree del parco (da skaters a senza fissa dimora, passando per traceurs, Djs e associazioni culturali e religiose), contribuiscano ad avanzare un partecipato e diffuso governo della differenza che include, esclude e distribuisce corpi e pratiche negli spazi urbani in relazione alla loro capacità di contribuire al capitale simbolico, economico e (multi)culturale di una città rigenerata. L’idea di eterotopia come spazio che connette nel momento stesso in cui distanzia (Agier, 2013), può essere utile quindi per concepire Parco Dora non solo luogo che esiste all’interno di un contesto urbano di rigenerazione, ma in quanto dispositivo che rende possibili e crea immaginari, discorsi e processi di rigenerazione, spontaneità pianificata e regolamento sociale (Hetherington, 1997, p. 46). Se da un lato la pianificazione e gestione “partecipativa” di spazi pseudo-pubblici e di diversità regolata viene ormai vista da decenni in contesti urbani di rigenerazione neo-liberale 4 Per un approfondimento sui molteplici usi e interpretazioni del concetto di eterotopia si rimanda al lavoro di Johnson (2013).

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come una pratica per rispondere ai bisogni sociali ed economici di città post-industriali, nel combinare rebranding urbano, rivitalizzazione economica e coesione sociale (vedi anche Mitchell, 1995; Binnie et al., 2006; Rosol, 2015), il materiale etnografico ha mostrato alcune delle conseguenze di questi scenari di rinascita nel contesto torinese. Alcune delle ripercussioni emerse dalle prospettive dei traceurs nello studio rimandano alla perdita di arene di rappresentazione che individui e gruppi ai margini (come i giovani uomini nello studio) possono usare per perseguire pratiche e socialità quotidiane, e le implicazioni che ne conseguono in termini di regolazione e inclusione selettiva di corpi e attività specifiche in contesti urbani. A questo si può aggiungere il cambiamento di rappresentazione di pratiche e usi degli spazi informali nei contesti urbani (da parkour e street-art, agli incontri informali di comunità migranti e non nei parchi e spazi pubblici cittadini), che passano da forme di presenza (e/o dissenso) nello spazio pubblico e possibilità di politiche culturali subalterne a forme depoliticizzate di creatività urbana da valorizzare in specifiche cornici spaziali e temporali e da perseguire come forme di inciviltà e asocialità al di fuori di queste. Il rischio implicito di queste visioni di partecipata rigenerazione basata su idee di “bene comune” è quindi una trasformazione degli spazi urbani da arene di relazioni, pratiche e conflitti sociali a scenari di impotente partecipazione e governance comunitaria (Swyngendouw, 2011, p. 371) che di fatto si associa ad un crescente uso di strumenti “eccezionali” di potere e sorveglianza (Rose, 2000) messi in atto con crescente frequenza per governare spazi urbani e flussi migratori (come dimostrato dalla recente approvazione del DL “Minniti-Orlando”). La diffusione e apparente “inevitabilità” di tali visioni (e politiche) urbane contribuisce di fatto alla normalizzazione negli spazi cittadini di nuove “gerarchie dell’appartenenza” (Back et al., 2012) alla luce delle quali la legittimità e il valore di pratiche sociali (e dei corpi che le attuano) vengono misurate secondo criteri che gettano ombre su qualsiasi attività considerata inadatta, o non mediata attra-

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verso il pubblico consumo, o non rappresentativa di un non ben precisato “bene comune”. La posta in gioco di queste emergenti e partecipate visioni urbane e sociali non riguarda, ovviamente, solo i traceurs incontrati per questa ricerca, in quanto le narrative dominanti di una rigenerazione urbana condivisa, creativa e pacificata permeano di fatto l’ordine dei discorsi con cui ci troviamo quotidianamente a (ri)definire che cosa siano spazi pubblici, comunità, diritti, sicurezza, e tramite cui vengono resi (in)visibili i corpi “desiderabili” ed “abietti” che vivono nella città. In questo scenario però, guardare a luoghi pseudo-pubblici come Parco Dora come eterotopie attraverso le ambivalenti e contraddittorie prospettive dei traceurs qui studiati, ha mostrato non solo come spazi pseudo-pubblici frammentino, trasformino, dividano e governino paesaggi contemporanei di rigenerazione cittadina, ma anche come tali spazi mostrino anche le tensioni e spaccature di tali narrative urbane. Sono queste spaccature e tensioni ad indicarci la presenza di altre pratiche, usi e visioni della città che si manifestano dentro, fuori e malgrado questi spazi. Nel voler cercare e proporre alternative a concezioni urbane rappresentati come inevitabili (e inesorabili) dai loro fautori, nonché da diversi studi “critici”, l’approfondimento di sguardi situati ed etnografici nella città ci può permettere di sviluppare un osservatorio imprescindibile sui molteplici bisogni, realtà e immaginari che attraversano le nostre strade e la cui distanza da visioni dominanti ci permette di “misurare la natura diseguale delle nostre città” (Semi, 2015, p. 188). Questo sguardo “micro”, articolato ad una consapevolezza dell’economia politica che influenza i profili urbani in cui viviamo, ci può permettere non solo di rendere visibili i cambiamenti che danno forma ad emergenti forme di inclusione selettiva e “cittadinanza contingente” in contesti urbani di rigenerazione , ma anche le pratiche, negoziazioni e conflitti quotidiani che possono contribuire a immaginare diversamente luoghi urbani, i modi in cui sono percepiti e vissuti e le maniere in cui possono (non) essere governati.

L.G.B.T.Q. – una Lettura della Gentrification in un Brand di Torino: il Quadrilatero1 Marco La Rocca

Introduzione … il resto delle case, lì, in Via Santa Chiara, lì dietro tra Via Santa Chiara, Via San Domenico […] Alcune, in Via Barbaroux, me ne ricordo diverse, sì sì sì, perché eh son, son cambiate molto, in meglio, eh? Per carità […] case che io conoscevo, tornando, che andavo a trombare negli anni Settanta. Che quando le vedo, dico: “Mamma mia!” (Terso) È una zona molto, molto friendly, ma perché è una zona moltooo ehm trendy, e il trendy chiama il friendly... magari non onestamente, ma non importa. (Maurizio)

Le due citazioni, diverse nel contenuto e nella forma, fanno tuttavia riferimento al medesimo quartiere: il Quadrilatero Romano, situato nel cuore di Torino, a ovest di Piazza Castello e a nord di Via Garibaldi. Le due citazioni, estratte da due interviste a uomini gay che vivono nel quartiere, lo ritraggono in modi assai differenti: Terso ricorda il Quadrilatero Romano di fine anni Settanta2, e narra di case in 1 Questo scritto è dedicato a Nonno Nino e Nonno Enzo, e a Frago, che per primo mi ha spronato ad andare oltre. 2 Pur essendosi diffuso intorno alla fine degli anni Novanta, il toponimo di Quadrilatero Romano sarà utilizzato per indicare l’area oggetto di studio durante tutto il periodo preso in considerazione, così da non creare confu-

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evidente stato di abbandono, tali da potere fungere da alcove per incontri fugaci ritenuti socialmente inammissibili; al contrario, il riferimento di Maurizio è a una situazione più contemporanea, ed in particolar modo alla vita notturna per cui il quartiere oggi è conosciuto. Nel capoluogo piemontese, il Quadrilatero Romano rappresenta il prototipo pionieristico della gentrification (Semi, 2004), quell’insieme di processi per cui alcune aree urbane subiscono un’escalation immobiliare e/o commerciale che le fa diventare esclusive, spesso a discapito dei meno abbienti abitanti originari (Semi, 2015). Le due citazioni iniziali rievocano, inoltre, un aspetto specifico che sembra caratterizzare il quartiere sia prima sia dopo l’avvio del processo di gentrification: la distintiva presenza della popolazione lesbica, gay, bisessuale, trans, queer (Lgbtq). Questo capitolo, pertanto, intende esplorare la relazione tra le trasformazioni socio-urbane del Quadrilatero Romano e la sua popolazione Lgbtq. Il punto di inizio del dibattito sulla gay gentrification (Lees, Slater, Wily, 2008) è generalmente riconosciuto nel lavoro di Manuel Castells (1983) su Castro Street a San Francisco: la gentrification di Castro è interpretata come effetto collaterale nello sviluppo del quartiere quale importante base elettorale gay, funzionale alle profonde trasformazioni socioeconomiche della metropoli californiana. Mickey Lauria e Larry Knopp (1985) hanno successivamente proposto alcune riflessioni sul profilo economico e socio-professionale degli uomini gay, quali coorte particolarmente idonea di potenziali gentrifiers; Knopp (1990) ha quindi applicato questo quadro teorico al suo studio di caso sul Marigny di New Orleans, dove la territorialità gay fu pressoché intenzionalmente indotta dalle aziende immobiliari come mezzo per un’aggressiva speculazione nel quartiere. Tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila la ricerca accademica si è concentrata sull’analisi dei village (Binnie, Skeggs, 2004; Sibalis, 2004) che sioni con le attuali geografie torinesi, in cui le zone del Quadrilatero e Porta Palazzo appaiono più nitidamente distinte.

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rappresentano la reificazione del consumo gay e interpretano la gay gentrification all’interno di quadri teorici sulla città imprenditoriale e gli imperativi creativi e cosmopoliti (Florida, 2002, 2005). Più recenti concettualizzazioni “post-gay” (Brown, 2006; Gorman-Murray, Waitt, 2009) teorizzano un declino del gaybourhood3: i progressi socio-legislativi in materia Lgbtq producono nuove spazialità d’ispirazione noneteronormativa, il cui target però non è necessariamente in prevalenza Lgbtq. Questo dibattito, seppur nutrito, sconta tuttavia alcune lacune, tra le quali il suo focus geografico ancora fortemente ristretto ai contesti anglosassoni e nordoccidentali, e alle loro specificità socio-culturali. Questo capitolo intende offrire un contributo nel superare questi limiti. In Italia, Torino si è presto imposta quale esempio per eccellenza sul tema dell’inclusione sociale della popolazione Lgbtq, giacché sia la pubblica amministrazione, sia la società civile e l’associazionismo hanno consolidato importanti strumenti e buone prassi (Corbisiero e Monaco, 2013; 2017). In quest’ambito Torino vanta già anche una letteratura abbastanza articolata, i cui contributi hanno analizzato, tra le altre cose, il funzionamento del Servizio LGBT permanente del Comune (Bertone, Gusmano, 2013); l’esperienza del Pride Nazionale del 2006, insieme ad altre riflessioni sulle geografie urbane (Ross, 2008; 2013); e la realtà del gay clubbing quale spazio emozionale e momento di costruzione identitaria (Cattan e Vanolo, 2014). Torino, inoltre, vanta la prima ricerca etnografica estensiva sulla popolazione Lgbtq di un’area metropolitana italiana: si tratta di Diversi da chi? (Saraceno et al., 2003), promossa e sostenuta da Palazzo di Città e dal mondo dell’attivismo. Il presente contributo fa tesoro e si inserisce in questo dialogo già ben articolato, con l’obiettivo di sviluppare una riflessione etnografica sulla popolazione Lgbtq connessa ai fenomeni urbani della gentrification e del branding, che 3 Gaybourhood è una crasi dei termini gay e neighbourhood (quartiere) e si riferisce agli spazi urbani storicamente appropriati, in modalità diverse, dalla comunità Lgbtq. Durante la fase di successo del modello village molti gaybourhood sono stati riconosciuti ufficialmente dalle autorità pubbliche.

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hanno interessato un’area – il Quadrilatero Romano – genuinamente rappresentativa delle traiettorie di sviluppo della Torino post-industriale. La prospettiva storica di questa etnografia intende proporre, pertanto, un racconto diverso della (e dalla) città della FIAT, che scaturisca da storie di vita Lgbtq, tradizionalmente marginali o assenti nell’immaginario torinese “classico”. Non a caso, la periodizzazione del capitolo, che è in prevalenza funzionale a sistematizzare quanto emerso dal lavoro di ricerca, individua tre momenti che non sempre combaciano con la narrazione generalmente diffusa della più recente storia torinese. Non si vuole, pertanto, far scaturire l’etnografia urbana sulla popolazione Lgbtq dalla tradizionale narrazione storico-sociale di Torino, quanto piuttosto far sì che la popolazione Lgbtq possa raccontare una storia diversa della propria città, o aggiungere ulteriori elementi al racconto più conosciuto. Mi sembra, questa, la possibilità migliore per rendere il lavoro etnografico una forma di empowerment per la popolazione di riferimento: renderne le narrazioni nuove centralità nella produzione di conoscenza e di sapere, in linea con lo spirito di questo volume. Il Quadrilatero Romano: presentazione e metodo La nozione di Quadrilatero Romano è assai recente e identifica nello specifico un’area nel cuore di Torino che negli scorsi decenni ha sperimentato il passaggio da una condizione di criticità sociali, strutturali e di servizi, a una totale messa a nuovo, seguita e sostenuta dall’istallazione di una brulicante vita notturna. Partendo dal lavoro di Giovanni Semi (2004), diversi autori hanno analizzato questo fenomeno durante il suo consolidamento (Colombo, Semi, 2007; Crivello, 2009; Curto et al., 2009); in questa sede farò riferimento esclusivamente a due importanti aspetti di questo articolato processo: in primo luogo, la separazione ideale e linguistica tra il Quadrilatero Romano e l’adiacente area

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mercatale di Porta Palazzo, “spinta” oltre Corso Regina Margherita insieme alla sua nomea tradizionalmente negativa (Crivello, 2009; Semi, 2004). In secondo luogo, la creazione del Quadrilatero Romano quale brand territoriale, tra i primissimi casi a Torino, attraverso la sinergia di tutti gli attori coinvolti nel processo di trasformazione dell’area, soprattutto i proprietari delle prime attività commerciali (Crivello, 2009). Il brand del quartiere si ispira all’immaginario del Quartiere Latino e rientra nella classificazione di locali mainstream proposta da Chatterton e Hollands (2002, cit. in Crivello, 2009), caratterizzati dall’affiliazione ad una dimensione trendy e cosmopolita. Il caso di studio sul Quadrilatero Romano è emerso alla luce di un excursus storico sulle geografie Lgbtq di Torino, dalla fine degli anni Settanta a oggi. La ricostruzione storica si è basata su un insieme di fonti, costituito prevalentemente da varie edizioni di Italia Gay4 e della tedesca Spartacus5, guide turistiche destinate al pubblico Lgbtq. Dalla ricostruzione storica è emerso come il Quadrilatero Romano abbia costantemente mantenuto un elevato numero di riferimenti Lgbtq nel corso del tempo; in particolare, dagli anni Settanta il quartiere ha ininterrottamente ospitato le sedi di alcuni gruppi di attivismo. Alla luce di questi risultati preliminari, un’intervista semi-strutturata è stata proposta a diciannove persone: tredici uomini e quattro donne cisgender, e due persone transessuali Male-to-Female (MtF6 dal prossimo riferimento); diciotto intervistati7 si definiscono Lgbtq, mentre 4 Italia Gay è stata pubblicata, dal 1983 al 1998, da Babilonia, rivista mensile gay italiana. Ho avuto modo di consultarne nove edizioni. La rivista Babilonia fu chiusa nel 2009. 5 Ho avuto modo di consultare trentacinque edizioni di Spartacus, dal 1977 al 2014/2015. 6 L’espressione Male-to-Female, spesso siglata in MtF, indica le forme di transizione da una struttura ormonale e genitale maschile, a una di tipo di femminile. 7 Nella trepidante attesa di nuove desinenze coniate per includere specificamente tutti i generi, questo scritto riconosce il sessismo linguistico italiano che lo costringe ad adottare il maschile generico.

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Maddalena8, donna cisgender eterosessuale, è la proprietaria del bar-ristorante Vodka Demon, che al momento del lavoro di campo era riconosciuto come il locale del Quadrilatero Romano dalla connotazione più friendly. Dei diciotto intervistati Lgbtq, tre sono attivamente coinvolti nei gruppi di attivismo (FUORI!, MIT, L’Altra Comunicazione, Fondazione FUORI!9, Circolo Maurice, Quore), le cui sedi si trovano o solevano trovarsi nella zona; nove intervistati hanno vissuto, o tuttora vivono nell’area; le restanti sei persone hanno esperienze sia di militanza sia di residenza nel quartiere. La predominanza di uomini cisgender gay tra gli intervistati non è intenzionale, riflette però le reti di conoscenze cui ho avuto modo di accedere. Al fine di evitare erronee generalizzazioni, questo capitolo si concentrerà principalmente su questa specifica popolazione, mentre riferimenti alle esperienze lesbiche e transessuali potranno essere puntualizzati quando ritenuti necessari o significativi nella trattazione dell’argomento. Il Quadrilatero Romano: un racconto altro 1974-1985: la Battu-Age10 L’inizio della ricerca è segnato simbolicamente al 1974, anno in cui il FUORI!11, primo movimento omosessuale ita8 Per tutelarne la privacy, i nomi degli intervistati sono fittizi, così come il nome di Vodka Demon. 9 Durante il lavoro di campo (2013-14) la Fondazione si chiamava Sandro Penna. Il nome è stato cambiato nel 2015. 10 Battu-Age è un gioco di parole basato sul termine battuage, un finto francesismo coniato ironicamente dal verbo battere. Mi rifaccio a Mario Mieli: “In questo libro io userò sempre il termine battere nel senso gay di andare a cercare (o darsi da fare per trovare, o mettersi “in mostra” aspettando) qualcuno con cui fare all’amore. Se nel linguaggio dei prostituti e delle prostitute battere significa cercare clienti, per noi omosessuali invece battere non vuol dire prostituirsi, bensì, semplicemente, cercare altre persone “che ci stiano” […] Nel senso gay, il battere italiano corrisponde al francese draguer, all’inglese to cruise…” (Mieli, 2017, p. 16). 11 FUORI! è l’acronimo di Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano.

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liano, si affiliò al nascente Partito Radicale, la cui sede torinese si trovava al numero 13 di Via Garibaldi, sul confine meridionale del Quadrilatero Romano. Questo primo periodo corrisponde approssimativamente alla fase di progettazione del progetto del Quadrilatero e produsse un effetto molto limitato sul territorio stesso, che rimaneva pressoché omogeneo alle generali condizioni di criticità dell’intera area di Porta Palazzo. Questo tessuto urbano permetteva il proliferare di un sottobosco di attività illegali o socialmente sanzionate; tutti gli intervistati concordano nell’identificare la prostituzione di strada, sia di donne sia di travestiti, come l’attività che specificamente caratterizzava quest’area della città. Come ricorda Demetrio, la prostituzione di strada era spesso accompagnata anche da importanti dinamiche omoerotiche. La struttura urbana del Quadrilatero Romano – un intricato labirinto di piazzette, vicoli e porticati – agevolava questo scenario: una caratteristica architettonica del quartiere era costituita dai cosiddetti passaggi, un sistema di cortili comunicanti tra diversi edifici che, come racconta Demetrio, era risignificato da un’intensa pratica omoerotica. Le geografie omoerotiche dell’area si componevano di molti altri siti: il Cinema Milano, nella via omonima, e i bagni pubblici di Piazza del Municipio sono tra le location più menzionate dagli intervistati, espressione di due topoi distintivi della tradizione omosessuale italiana. Demetrio ricorda inoltre che davanti al Municipio si trovava la fermata di un tram, probabilmente il numero 3, ribattezzato dai frequentatori dell’area “Un tram che si chiama desiderio” (citando Tennessee Williams) poiché il suo percorso attraversava molte aree di battuage assai conosciute, dalla stazione Stura-Lanzo al Parco del Valentino. Un altro luogo interessato dalla risignificazione omoerotica, soprattutto in estate, era il complesso monumentale delle Porte Palatine; è sicuramente sorprendente la testimonianza di Terso, che racconta di esservisi persino arrampicato in nome dell’ars amandi. Poco distante dal Quadrilatero, all’angolo tra Piazza Castello e Via Roma, si trovava il Bar Motta, poi divenuto Bar Blu: in questo punto

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il battuage di Porta Palazzo si mischiava con i giri più eleganti del centro; in particolare, Remedios ricorda come la zona antistante al bar fosse stata ribattezzata, dagli habitué, con l’evocativo nomignolo di “angolo di cottura”. Come già menzionato, al numero 13 di Via Garibaldi si trovava il Fuori!; il gruppo di attivismo, a sua volta, nel 1983 aprì il Noni’s Bar al piano terra dello stesso edificio, e sostenne l’apertura della prima sezione torinese del Movimento Italiano Transessuale (MIT) nei primi anni ottanta, in cui sia Remedios che Belén erano attivamente coinvolte. Lo sviluppo di questa concentrazione istituzionale può essere attribuito al Partito Radicale, nei cui locali i due gruppi di attivismo tenevano le loro riunioni. Proprio accanto a questa concentrazione politica, al numero 11 dello stesso isolato, la discoteca Penny Club aprì una serata gay nel 1979, che rimase uno degli eventi gay più importanti di Torino negli anni Ottanta e nei primi anni Novanta; come molte altre serate torinesi, il Penny ospitava gli spettacoli di Emilio, vera e propria stella del circuito omosessuale del capoluogo. Inoltre, nel 1984, Ettore e il suo compagno fondarono L’Altra Comunicazione, l’associazione che fino al 2016 organizzò il festival cinematografico a tematica Lgbtq di Torino. L’Altra Comunicazione si trovava nella casa della coppia al Quadrilatero Romano, in un edificio che divenne noto come la Casa delle Bambole. La Casa delle Bambole era un nomignolo ironico attribuito, nei giri omosessuali, a due edifici del quartiere, i quali ospitavano entrambi un numero elevato di inquilini gay: i palazzi si trovavano l’uno di fronte all’altro, presso l’incrocio che forma la pittoresca Piazza IV Marzo. Ho avuto modo di raccogliere le storie di tre residenti (Ettore, Samuele e Giordano) di uno dei due palazzi, sito in Via Torquato Tasso. Fino agli anni Novanta il palazzo rimase continuamente connotato da un’importante presenza omosessuale maschile: Samuele fu il primo a stabilirvisi e immediatamente iniziò a invogliare i suoi amici ad affittare gli appartamenti che rimanevano vacanti, innescando così un effetto a palla di neve che portò lo

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stabile a raggiungere sino a quattordici inquilini omosessuali nei primi anni Ottanta. La padrona di casa aveva smesso di affittare gli appartamenti a delle famiglie, accettando esclusivamente inquilini maschi; non affittava mai gli alloggi a donne perché, complice la copiosa prostituzione della zona, la signora temeva che potessero anche loro “fare la vita”, e non voleva che la sua proprietà acquisisse una cattiva reputazione. Con riferimento alla vita che gli inquilini conducevano, Giordano condivide questo interessante aneddoto: E poi tutta la vita, insomma, che si conduceva... […] nella casa; che ci si portava i telefoni, portatili non ce n’erano. […] Il telefono normale, con delle prolunghe immense che uscivano dalle finestre, passavano dai tetti, entravano dal balcone!
[…] Sì, perché magari andavamo a mangiare a casa dell’amico e così se ti squillava il telefono ce l’avevi
[…] Cioè gli anni, gli anni più belli, eravamo tutti giovani, insomma, quindi...

L’aneddoto di Giordano è sostenuto da quelli degli altri due inquilini e ritrae delle dinamiche residenziali caratterizzate da uno stile di vita spesso condiviso attraverso molti momenti trascorsi insieme. Anche gli altri intervistati che si stabilirono nel quartiere in questo periodo arrivarono attraverso conoscenze omosessuali, un dato che sembra indicare l’articolazione di una fitta rete di vicinato e conoscenze nell’area: in tutte le storie di vita raccolte, questo ha rafforzato la percezione che il quartiere fosse effettivamente abitato da molti uomini gay. A tal riguardo, anche Demetrio e Raffaele hanno fatto riferimento ad altre due esperienze residenziali omosessuali a Piazza della Repubblica, che presentavano delle dinamiche simili a quelle dei loro vicini di Via Torquato Tasso. In quel periodo era poi molto diffusa tra gli uomini omosessuali l’abitudine di affittare delle mansarde, anche con l’unico scopo di fungere da pied-à-terre per le serate in discoteca e per gli incontri amorosi: Terso e Demetrio affittarono con questa specifica funzione, rispettivamente, in Piazza Emanuele Filiberto e in Piazza della Repubblica. Un riscontro cinematografico di questa consuetudine si trova nel

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film La donna della domenica di Luigi Comencini (1975), in cui il personaggio di Lello Riviera, omosessuale, vive proprio in una mansarda del centro storico, che ha sistemato per bene nonostante si trovi in uno stabile malmesso. Dai racconti degli intervistati emerge come una delle pratiche più diffuse e distintive della loro vita nel quartiere fosse la frequentazione del Balon. Per tutti gli intervistati che lo hanno frequentato negli anni Settanta e Ottanta, è il diffuso gusto omosessuale per l’antiquariato ciò che stabilisce la connessione tra il mercato delle pulci e i circuiti men only. Nell’immaginario degli intervistati, la figura del bancarellista è prettamente omosessuale: Samuele, Terso e Leonardo hanno anche praticato il commercio al Balon, in maniera continuata o sporadica. Eloquentemente, Leonardo definisce il Balon come un “Gay Pride”, nonostante la sua risignificazione omosessuale non fosse esplicitamente visibile, né intenzionale: si trattava piuttosto di una sorta di appuntamento gay inconsapevolmente consapevole. Inoltre, Leonardo e Demetrio ricordano come, tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, la zona intorno a Via Garibaldi – soprattutto nella micro-area di Via Barbaroux - ospitasse numerose bettole, trattorie e luoghi di preparazione di cibo da strada. Il basso costo di queste piole12 faceva sì che la popolazione single della zona optasse spesso per mangiare fuori, moltiplicando le occasioni di incontro e interazione, consolidando pratiche di vita comuni nel quartiere, e “mappando” gli altri residenti omosessuali, magari già incontrati durante le serate di battuage o in discoteca. A questo proposito, tutti gli intervistati di questo primo periodo hanno menzionato la loro amicizia o conoscenza con Marco Silombria e/o Enrico Colombotto Rosso, due artisti omosessuali di fama nazionale, che risiedevano nel quartiere e fungevano da punti di riferimento per le reti amicali della zona. 12 Senza entrare nelle immancabili specificità del caso, la piola è la versione piemontese della trattoria o osteria a buon mercato, che generalmente offre piatti tipici di origine popolare.

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Al momento del loro primo insediamento, che fosse un pied-à-terre o la loro prima casa, tutti gli otto intervistati arrivati durante la Battu-Age erano molto giovani (non più di venticinque anni) e con dei profili socio-professionali ancora in consolidamento: Samuele e Giordano svolgevano professioni di tipo impiegatizio, mentre gli altri erano tutti occupati in lavori di tipo meno qualificato (Terso, ad esempio, era un cameriere); tutti gli intervistati vivevano in affitto. Alla luce di questa nutrita risignificazione omosessuale della zona, appare sorprendente come nessuno degli intervistati abbia menzionato alcuna di queste caratteristiche tra i fattori rilevanti nella loro decisione di vivere nell’area, non stabilendo pertanto un nesso forte tra i riferimenti omosessuali della zona e la concentrazione residenziale. Il profilo degli intervistati e le loro narrazioni riguardanti le caratteristiche gay del quartiere non sembrano pertanto mostrare lo sviluppo embrionale di forme di gay gentrification nel Quadrilatero Romano durante la Battu-Age. 1985-fine anni Novanta: la Métiss-Age Come espresso nel titolo, la seconda fase della periodizzazione rappresenta un momento di transizione tra due diversi paradigmi: corrisponde, infatti, all’effettivo sviluppo architettonico e strutturale dell’area, con un conseguente cambio nella popolazione, prima dell’esplosione della vita notturna e del branding del Quadrilatero Romano. Nella seconda metà degli anni Ottanta le geografie del battuage progressivamente scomparvero, principalmente a causa dello stabilirsi di circuiti dello spaccio che resero l’area particolarmente rischiosa prima che la gentrification esplodesse: Mattia, per esempio, inizia a frequentare assiduamente la zona nel 1994, entrando nel gruppo Informagay; eloquentemente, afferma che in quel periodo non c’erano luoghi di battuage nell’area, e secondo lui non ce n’erano mai stati. Un riferimento interessante in tal senso è il Cinema Regina di Piazza della Repubblica, che la guida Spartacus indica come molto frequentato da uomini d’origine mediorientale, rintracciando la profonda dimen-

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sione multietnica che all’inizio degli anni Novanta iniziava a caratterizzare questa zona del centro di Torino. Secondo Beatrice, Belén, Gabriele e Lorenzo, durante gli anni Ottanta il locale più emblematico dal punto di vista della diversità sessuale era L’Uovo, un ristorante-bar d’ispirazione femminista in Via San Domenico, che era aperto tutta la notte. Si trattava di un locale particolarmente buio e decadente, frequentato da ogni tipo di gente “da Porta Palazzo”: sembra persistere, pertanto, una visione della diversità sessuale le cui manifestazioni urbane restano associate a dimensioni e contesti prettamente liminali. Nelle storie degli intervistati, L’Uovo è menzionato sino alla fine degli anni Ottanta; il Fuori! aveva terminato la sua attività politica nei primi anni ottanta, mentre il Penny Club e il Noni’s Bar rimasero aperti sino alla prima metà degli anni novanta, cambiando però sia nomi che gestioni. Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, tuttavia, le due più importanti associazioni di attivismo Lgbtq si insediarono nel Quadrilatero Romano, precisamente intorno alla piccola Piazzetta della Basilica: alla Fondazione FUORI!, erede del FUORI!, fu assegnata una casa popolare in Via Santa Chiara nel 1989; il Circolo Maurice, che fu la sezione torinese di Arcigay fino a metà anni Novanta e ha una connotazione politica di sinistra più definita, ottenne dei locali municipali in Via della Basilica nel 1992. Gli edifici dove si trovavano le associazioni erano prevalentemente occupati da realtà associative di varia tipologia. Inoltre, entrambi i gruppi vantano un centro di documentazione, fornendo pertanto un servizio culturale sottoposto a tutela dell’amministrazione pubblica. L’assegnazione di questi locali alle due associazioni permise loro anche di accogliere altri gruppi di attivismo Lgbtq, formando pertanto una concentrazione particolarmente articolata: la Fondazione Fuori! ospitò Informagay, il Gruppo Solidarietà Aids, e anche un’agenzia di incontri gay chiamata Lo Specchio; il Circolo Maurice ospitò il Mit ricostituito e la sezione torinese di Agedo, l’associazione nazionale italia-

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na di familiari e parenti di persone Lgbtq. Possiamo inoltre includere l’esperienza di un Leather Motor Club a Piazza della Repubblica, che fu fondato nei primi anni novanta nella mansarda in cui vivevano i suoi animatori. In merito alla concentrazione residenziale, la relazione di Cicsene (1997) sull’area, che usava dati demografici della fine degli anni Ottanta e la prima metà degli anni Novanta, evidenzia un’interessantissima peculiarità: La popolazione femminile anziana è assai sovrarappresentata a Porta Palazzo-Borgo Dora (un’altra conseguenza della presenza del Cottolengo); mentre sono sottorappresentate le donne di mezza età (fasce tra i 40 e i 55 anni) e le giovani (specie tra i 20 e i 25 anni). Anche la percentuale di uomini in ciascuna delle fasce tra 50 e 70 anni è inferiore alla media, mentre sono piuttosto sovrarappresentate le fasce tra i 30 ed i 40. Le due metà della piramide sono abbastanza poco simmetriche, ciò che fa azzardare un’elevata presenza di single (indicata, almeno nell’area del centro storico, anche dal Censimento 1991) o comunque di nuclei familiari poco convenzionali. La popolazione maschile è prevalente in tutte le fasce d’età sino ai 55 anni (a livello cittadino, l’inversione si manifesta invece sulla soglia dei 40 anni). (Cicsene, 1997: 34; mio il corsivo).

Evidentemente non è possibile determinare l’orientamento sessuale dei residenti da questi dati; tuttavia, la composizione demografica del quartiere di certo non scoraggia l’ipotesi di residenzialità gay portata avanti in questa sede. I risultati dell’analisi demografica ci permettono al contempo di formulare delle riflessioni sulla tipologia degli alloggi: il Quadrilatero Romano possiede un patrimonio architettonico di rilievo, ospitando nelle sue vie molti antichi palazzi nobiliari (Cicsene, 1997). Le abitazioni ricavate da questi immobili presentavano, pertanto, soluzioni abitative spesso particolari, che non si adattavano alle necessità di una famiglia tradizionale, prestandosi meglio a usi alternativi. Questo mercato immobiliare sui generis, unito alla pericolosità percepita della zona e alla poca capillarità dei servizi, di fatto

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poteva scoraggiare una potenziale famiglia acquirente. Se, inoltre, leggiamo questi dati alla luce della rigida polarità residenziale della Torino fordista (Petsimeris, 1998), con una scarsa mobilità intra-urbana e le nette divisioni tra quartieri operai e quartieri borghesi, il centro storico appare ancor più nitidamente quale luogo altro. Gli intervistati che si sono stabiliti nel Quadrilatero Romano dal 1985 a oggi hanno lavori che richiedono alti livelli d’istruzione e competenze; inoltre, cinque di loro lavorano principalmente come liberi professionisti, mentre sei hanno occupazioni ad elevato contenuto creativo e culturale. Le persone che arrivarono durante la Métiss-Age (Lorenzo, Claudia e Gabriele) approdarono in un’area le cui problematicità erano ancora profonde; al contempo, Terso, Leonardo e Belén iniziarono una seconda esperienza abitativa nell’area in quegli stessi anni, tutti elevando il proprio status da inquilini a proprietari di casa. Sia Leonardo che Lorenzo provvidero a portare avanti degli importanti lavori di ristrutturazione nelle loro proprietà e furono capaci di aumentare il valore dei propri appartamenti. Nel gruppo di sei persone che stiamo adesso considerando, c’è una maggioranza di proprietari di casa. Il gruppo di persone di questa fase specifica sembra, quindi, avere una situazione economica più solida rispetto a quello della fase precedente. Considerando i vari fattori, questo gruppo sembra più in linea con il paradigma dei pionieri della gentrification. Tra i tre nuovi arrivati, solo Gabriele giunse nel quartiere attraverso network di amicizie omosessuali, come i suoi predecessori. Al contrario, una caratteristica distintiva sia della storia di Claudia che di quella di Lorenzo concerne la scelta dell’area. Questo è quanto entrambi affermano circa la loro decisione di vivere nel Quadrilatero Romano: ... era considerata una zona malfamatissima; questo livello di prostituzione diffuso, che (imitando le voci): “Ah, chissà che cosa può succedere!”; i turisti non arrivavano lì: si fermavano alla via prima. Quindi questa cosa (sorridendo) dava un po’ il

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sapore di essere... sì, in una terra di confine, dove chi di noi è andato ha scelto di starci perché ci si sentiva bene, non aveva timore di nessuno, e quindi si entrava in relazione con gli altri abitanti di questo territorio in modo molto… appunto: eravamo tutti lì, e quindi eravamo tutti uguali nelle nostre diversità; il fuori invece no. (Claudia) Ero… son rimasto molto affascinato, ecco, dall’ambiente di questa zona, nonostante fosse appunto sporca, maltenuta e così, perché comunque era molto vivace, era molto viva, insomma: sembrava non un pezzo di Torino, quasi un pezzo di Napoli, insomma: una città straniera in mezzo a Torino. E c’era questo meraviglioso mercato… (Lorenzo).

Claudia e Lorenzo sono attratti dal quartiere nonostante o precisamente per via della sua dimensione non “socialmente pacificata”. Lo scenario di Porta Palazzo (che di lì a poco sarebbe diventato il Quadrilatero Romano) emanava un carattere molto autentico, di cui entrambi volevano fare parte. La scelta di vivere nell’area, quindi, assume una forte connotazione identitaria, perché rappresenta la volontà degli intervistati di vivere in un quartiere che ne marchi una differenza, anche dal loro status socio-economico e professionale di origine o appartenenza. Fine anni Novanta-oggi: la Verniss-Age L’ultimo paragrafo si sofferma sulle dinamiche Lgbtq nel Quadrilatero Romano contemporaneo, ormai tramutato in zona trendy completamente rinnovata. La presenza di persone Lgbtq attivamente coinvolte nello sviluppo del progetto del Quadrilatero Romano è attestata da alcuni intervistati, per quanto non sembri che questi attori abbiano mai attivamente promosso la creazione di un “quartiere gay” nell’area interessata dalla gentrification. Oggigiorno il Quadrilatero Romano è riconosciuto per essere un’area particolarmente gay-friendly; questa caratteristica sembra confermata dalla mappa di Friendly Piemonte – Omofobia No Grazie, una

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campagna contro l’omofobia organizzata dall’associazione Lgbtq Quore (www.quore.org), che in origine si rivolgeva principalmente ad attività commerciali. La mappa mostra come il Quadrilatero Romano detenga la più alta densità urbana di partecipanti all’iniziativa (cinquantadue), un numero davvero considerevole soprattutto in proporzione alle piccole dimensioni del quartiere. Osservando la mappa, la connotazione gay dell’area si rivela fortemente legata alla sua scena commerciale. Pur essendo spesso descritto come un quartiere “dalla mentalità aperta”, nel Quadrilatero Romano non esiste alcun locale o evento il cui target specifico sia la comunità Lgbtq. I due tentativi di promuovere un bar gay fallirono entrambi sul nascere: Mattia e Maurizio promossero l’idea attraverso Quore, ma non incontrarono dei gestori di bar che volessero investire in un progetto a lungo termine. Secondo gli intervistati, la friendliness del quartiere ha origine predominantemente dal fatto che molte persone Lgbtq frequentano, lavorano o gestiscono i locali della zona. In tal senso, Remedios racconta che una politica comune tra molti bar e ristoranti è di avere sempre almeno un paio di camerieri o baristi Lgbtq nel loro personale, al fine di dare una specifica immagine del locale che attragga una clientela con un alto capitale culturale, la “bella gente”. In base alle narrazioni degli intervistati, le dinamiche Lgbtq della movida del Quadrilatero si basano principalmente sulle relazioni interpersonali e i network di conoscenze e amicizie, tanto che Maurizio le definisce “person-related”; attraverso le reti di conoscenze, la concentrazione Lgbtq in un determinato locale è spesso associata a processi di fidelizzazione, che in qualche misura reinterpretano la tipologia mainstream della scena del Quadrilatero (Crivello, 2009). In quest’ambiente, il ristorante-bar Vodka Demon è stato indicato da molti degli intervistati come il locale più friendly della zona. La proprietaria Maddalena e le sue collaboratrici hanno descritto l’atmosfera del locale attraverso la metafora del-

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l’“isola felice”13: uno spazio protetto dove ognuno può liberalmente esprimere se stesso, indipendentemente dal proprio orientamento sessuale e dalla propria identità di genere, e senza dover preoccuparsi del giudizio degli altri. L’isola felice che si crea a Vodka Demon si pone in contrasto con il mondo esterno, lo spazio pubblico generale che è percepito come profondamente sanzionatorio nei confronti della diversità sessuale, riproducendo in tal modo il paradigma eteronormativo. L’isola felice si crea attraverso meccanismi che selezionano la clientela e tengono lontane alcune categorie specifiche, come i giovanissimi (“tamarri”) e alcuni avventori stranieri: rilevandone il basso capitale culturale, si ritiene che la loro presenza possa inficiare l’atmosfera “aperta” del locale. Gli intervistati che si trasferiscono nel quartiere in questo periodo si installano in un’area che ha già subìto un vero e proprio processo di gentrification, e che in quel momento sta consolidando il suo brand legato alla movida. Come ricorda Guillaume: Dunque, abbiamo visitato a Crocetta dieci appartamenti, poi uno che era a Piazza della Consolata, e abbiamo subito visto lo charme pazzesco di questa piazza, di questa zona e tutto quanto... […] La zona aveva ancora questa fama di prostituzione, di drogati e di gente nascosta nel buio a farsi […] Noi non abbiamo visto niente di questo, era già, era solo una fama perché forse era così anni prima, non lo so, ma comunque nel 2003 non era più assolutamente così.

Anche se condividono dei tratti importanti con gli intervistati del periodo precedente (lavori altamente qualificati, status socio-economico più elevato, capitale culturale significativo), i nuovi arrivati generalmente hanno una posizione socio-economica più abbiente. Dei cinque intervistati che 13 Eloquentemente, la metafora dell’isola è lo strumento concettuale utilizzato da Alberto Vanolo nelle sue geografie emozionali del gay-clubbing torinese (Cattan e Vanolo, 2014): gli spazi di aggregazione Lgbtq sono delle isole, che formano un arcipelago in un mare eteronormativo, nel quale l’uomo gay si muove come un nomade emozionale.

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sono inclusi in questa coorte (Antonella, Guillaume, Mattia, Maurizio, Valerio), solo il francese Guillaume viveva in affitto, poiché la sua permanenza a Torino, seppur prolungata, era limitata; lui e il suo compagno, tuttavia, occupavano un intero piano di un antico palazzo nobiliare. Mentre lo status dei nuovi residenti si è elevato progressivamente con lo sviluppo della gentrification, alcuni dei vecchi abitanti del Quadrilatero Romano hanno abbandonato il quartiere con il tempo. Lorenzo e Leonardo hanno venduto i loro appartamenti traendo profitto dall’aumento del valore immobiliare, mentre al momento Belén affitta il proprio monolocale a un’amica. Gli intervistati in affitto sono stati tutti negativamente condizionati, in diversi modi, dai cambiamenti nel quartiere. Gli inquilini della Casa delle Bambole furono tutti sfrattati da Via Torquato Tasso nella seconda metà degli anni Novanta, dopo aver subìto diverse forme di pressione dalle nuove proprietarie dell’edificio; come ricorda Samuele: ... le due sorelle che han ereditato ci hanno messo addirittura a contratti a scadenza, perché gli altri eran già contratti brevi e li han sfrattati, li han fatti andare via; però, per ricavare due lire, ci han messo le puttane nere che facevano i riti vudù! Io sentivo le galline, sopra nel piano, con le galline, facevano i riti vudù! E alcune, cioè alcune volte ti ritrovavi il preservativo per le scale!

Le proprietarie della vecchia Casa delle Bambole volevano liberare l’edificio così da poterlo ristrutturare e poi vendere a una compagnia immobiliare, affare che effettivamente conclusero alla fine degli anni Novanta. Sia Claudia sia Remedios, invece, decisero di abbandonare il quartiere perché pesantemente disturbate dal caos della movida. Analogamente Gabriele, che vive ancora in affitto nella zona, rivela un interessante dettaglio sulla sua esperienza abitativa: … a volte, provocatoriamente, quando mi chiedono “Dove abiti?”, e sanno magari benissimo alcuni che abito lì, io dico “Porta Palazzo”; quando dico “Porta Palazzo” tutti mi guarda-

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no come per dire: “Maaa… Perché abiti lì?” cioè “Come fai a abitare a Porta Palazzo?”; io abito invece a pochi passi da Porta Palazzo, è solo che è lì, cioè non c’è niente di strano, è sempre centro storico, adesso è Quadrilatero, quindi c’è questa… no? Non è mai chiaro, adesso che la zona, insomma, è piuttosto, insomma, conosciuta, non so, cioè si parla di Quadrilatero come se fosse la zona appunto, più “in” dai, forse lo è, anche se io non seguo molto le mode, le tendenze, non me ne frega niente, e poi però, quando io invece dico, e cioè c’è proprio questa incongruenza, cioè quando dico: “Abito in Piazza Emanuele Filiberto” tanti dicono: “Ah, ma che bello!” “Sì ma”, io dico, “Sì, ma a Porta Palazzo” “Mamma, mamma, non dir così!”

Gabriele opera una separazione linguistica dal Quadrilatero Romano trendy e decide di non essere parte del nuovo ambiente formatosi nel quartiere. Tutti gli intervistati che hanno abbandonato il quartiere hanno deciso di spostarsi in zone limitrofe, notando come, oltre le barriere urbane di Corso Regina Margherita e Corso Principe Oddone, a distanza di pochissimi isolati, i costi delle case scendessero esponenzialmente. Nelle loro nuove situazioni abitative, Ettore, Samuele e Giordano possono addirittura comprare le rispettive case e diventare proprietari. Oltre a Gabriele, le uniche persone che al momento vivono ancora nell’area sono i proprietari di casa appartenenti al secondo gruppo di gentrifiers. Anche il Circolo Maurice fu sfrattato dai suoi locali nel 2010, dopo un lungo e articolato processo che iniziò nel 2003, quando il gruppo ricevette la prima lettera di notifica. Un volantino prodotto dal Maurice motteggiava lo slogan della Torino olimpica, Always on the move, declinandolo proprio alla luce dello sfratto. Dopo un lungo processo di negoziazione, nel 2010 il Circolo riuscì ad acquisire, tramite assegnazione comunale, i locali attuali, in una casa popolare della vicina Via degli Stampatori. La Fondazione FUORI! permane in Via Santa Chiara, ma ha un impatto e una visibilità assai ristretti: apre esclusivamente per appuntamento o in poche occasioni specifiche. Gli altri gruppi di attivismo

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che gravitavano intorno alla Fondazione, come Informagay e il Gruppo Solidarietà Aids che erano i più attivi, si erano già sciolti entro i primi anni Duemila. Di conseguenza, al momento la concentrazione militante Lgbtq nell’area appare estremamente indebolita. Riflessioni conclusive Questo capitolo ha provato a mostrare come l’area del Quadrilatero Romano abbia costantemente mantenuto, negli ultimi quarant’anni, un’importante dimensione Lgbtq, in termini di luoghi e realtà aggregative, ma anche di esperienze di vita. La periodizzazione del caso di studio ha individuato tre fasi differenti con lo scopo di evidenziare il progressivo passaggio da un paradigma urbano che associava la diversità sessuale alla liminalità urbana (e a un conseguente rilassamento del controllo sociale), a una nuova configurazione dove la diversità sessuale è inglobata in un brand trendy. Tuttavia, la dimensione Lgbtq del Quadrilatero Romano non fu selezionata quale fattore che catalizzasse e connotasse il recupero dell’area, e appare connessa alla gentrification da legami piuttosto deboli. Il capitolo puntualizza, piuttosto, come il Quadrilatero Romano, già tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, presentasse delle importanti caratteristiche e dinamiche che, di fatto, ci permettono di parlare di forme di territorialità gay, tenendo però sempre a mente la loro parziale visibilità e il mancato sviluppo di una percezione comunitaria. La debole tendenza a considerare la propria omosessualità un fattore primario di appartenenza comunitaria è un tratto sociale identificato tra gli uomini gay italiani, quantomeno fino agli anni Novanta (Bertone, 2009). In questo senso, le definizioni che indicano l’identità sessuale – gay, Lgbtq e simili – sono spesso state interpretate, dagli intervistati più anziani, come delle etichette: esse assumono una connotazione negativa e vengono perciò usate con parsimonia nella de-

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finizione di sé, poiché sono ritenute, appunto, ghettizzanti e riduttive rispetto al proprio percorso identitario. Molti hanno perciò giustificato la loro mancata partecipazione a forme di militanza Lgbtq interpretando i gruppi di attivismo quali momenti di “chiusura”, dei “ghetti” in cui ci si frequenta esclusivamente tra persone omosessuali. Un discorso molto simile emerge, tuttavia, anche nelle parole di Margherita, collaboratrice di Maddalena a Vodka Demon: “Spesso e volentieri tu dici: “Ah, sai, lavoro lì al Vodka Demon”, e “Ah, ma quale? Quello gay?”. Mah, eeeh... SÌ, se proprio vogliamo dire così, sì; però, siccome poi a me non piace l’etichetta che si può dare […] perché non dai neanche poi la possibilità ad aprirti ad altre realtà; già noi siamo in una via poco battuta, quindi insomma non c’è tutto questo passeggio eccetera; a maggior ragione se ci si etichetta così si toglie poi una grande fetta di persone che secondo me sarebbe invece utile che venisse qui, proprio per rendersi conto che non siamo delle etichette, non so come dire! No?

Margherita teme che la reputazione gay-friendly del suo luogo di lavoro possa rivelarsi lesiva a livello economico. Come abbiamo visto, la risignificazione Lgbtq della movida sembra esprimersi principalmente attraverso reti di relazioni interpersonali, mantenendo una visibilità non completa, e non essendo ufficializzata all’interno del brand del Quadrilatero Romano. Le pratiche di fruizione Lgbtq della movida appaiono riflettere uno scenario urbano che rimane predominantemente eteronormativo e dove, come racconta Margherita, una nomea schiettamente gay-friendly può ancora rivelarsi problematica. Sorprendentemente, neppure l’importante circuito di attivismo del quartiere elaborò mai la propria prossimità geografica quale elemento cruciale legato alla militanza politica; alcuni degli intervistati coinvolti nell’attivismo hanno affermato di non essere stati neppure a conoscenza della presenza di altre associazioni Lgbtq nell’area durante lunghi periodi di tempo. Tutte le narrazioni degli attivisti hanno evidenziato

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come le differenti traiettorie politiche dei gruppi dai quali provengono (Fuori! e Fondazione Fuori! sono vicini al Partito Radicale, mentre Circolo Maurice e i suoi affiliati hanno sempre mantenuto una linea di sinistra più definita) si sono spesso rivelate difficili da gestire al fine di costituire un senso di appartenenza comunitario con un’importante prospettiva territoriale, in un’epoca in cui – afferma Raffaele – la politica di quartiere e vicinato non aveva ancora acquisito la centralità attuale. L’esempio di CasArcobaleno, aperta nel 2015 in Via Bernardino Lanino (appena oltre Corso Regina Margherita), riflette un approccio molto diverso e assai più consapevole ai concetti di comunità Lgbtq, di politica di quartiere e territorialità, e al rapporto tra queste due realtà. Lo studio di caso sul Quadrilatero Romano problematizza, pertanto, la generale teorizzazione sul rapporto tra spazio urbano e popolazione Lgbtq, principalmente alla luce di un discorso comunitario tradizionalmente debole. Rileggendo la letteratura sulla Torino friendly attraverso il caso del Quadrilatero Romano, si può probabilmente affermare che, pur avendo una nomea friendly riconosciuta, Torino sembra non aver (ancora) completato la costruzione di un brand friendly. Non si vuole qui sostenere in maniera acritica la costruzione di tale brand, quanto piuttosto puntualizzare la necessità che si articoli presto un discorso, fatto di immaginari e pratiche, che riesca a plasmare lo spazio urbano torinese, problematizzandone l’eteronormatività in maniera effettiva. Date le validissime premesse, sarebbe un peccato non provare a sviluppare a Torino la spinta emancipatrice universalmente riconosciuta allo spazio urbano. Il caso del Quadrilatero Romano reitera con forza, inoltre, la necessità di continuare ad approfondire la riflessione sociale circa le identità, gli orientamenti e le espressioni noneteronormate in Italia, al fine di produrre strumenti cognitivi capaci di sostenere un percorso di emancipazione solido. Questa è una delle più importanti forme di empowerment che l’etnografia può offrire a tutte le soggettività di cui raccoglie le voci, alla popolazione Lgbtq, all’autore gay che scrive.

“A bassa soglia”. Persone senza dimora e servizi di accoglienza a Torino Valentina Porcellana

Sei mai stato in dormitorio? Sono entrata per la prima volta in un dormitorio pubblico della città di Torino nella primavera del 2009. Alcuni mesi prima avevo iniziato un percorso di ricerca sui servizi per adulti in difficoltà e senza dimora. Una cooperativa sociale, infatti, mi aveva proposto di osservare le dinamiche interne alla sua organizzazione e il rapporto con il Comune di Torino, il committente per conto del quale gestiva le case di accoglienza notturna. Se il mondo delle cooperative sociali mi era subito sembrato un interessante “luogo interstiziale” che congiungeva le istituzioni ai cittadini, un “settore di mezzo” che mi avrebbe garantito un particolare punto di vista sulle politiche sociali della città, l’ingresso ai dormitori mi aveva dato l’opportunità di conoscere una Torino inedita, “a bassa soglia”1, che non corrispondeva all’immagine che la città aveva voluto darsi a partire dagli anni Novanta attraverso i progetti di rigenerazione urbana e i grandi eventi (Belligni e Ravazzi, 2012). Come scrivevano nei loro report annuali gli educatori della cooperativa, all’interno dei servizi di accoglienza notturna transitava “il mondo intero”: 1 Per “bassa soglia” si è a lungo inteso un servizio di accoglienza con requisiti minimi di accesso. Oggi nei servizi pubblici si preferisce parlare di prima accoglienza (“Perché la soglia si è alzata sempre di più” sottolineano gli operatori sociali).

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Tra le righe del nostro data base c’è l’universo che migra, che si sposta, si affaccia, chiede, si assesta, si adagia, non si rassegna, va in caduta libera, si rialza, perde cittadinanza, si mette in lista per averla; sul nostro data base ci sono delle identità che non stanno, o non stanno più, sugli elenchi telefonici o nelle anagrafi civili e, quando le contiamo, a fine anno sentiamo il bisogno di provare a dare un volto e un senso a quei dati. Essere in grado di raccogliere dati precisi ha innanzitutto il valore di provare a “disegnare” il fenomeno, essi ci rivelano qualcosa che la sola percezione dell’emergenza non è in grado di fornire o, talvolta, rischia di fornire in maniera errata. Ci permettono di guardare con occhi altri accadimenti sociali, politici ed economici.2

Fin dai nostri primi colloqui, gli operatori mi avevano parlato dell’homelessness come di un fenomeno complesso e diversificato. Erano ricorsi spesso al termine “multiproblematicità” per definire la condizione che caratterizzava le persone che incontravano per strada e che accoglievano nei dormitori, nell’ambulatorio vicino alla stazione, nelle mense e nei centri diurni. Nei documenti comunali, i “senza dimora” erano descritti come persone che vivevano In situazioni altamente emarginanti, che hanno subìto processi di cronicizzazione e danni determinati dall’insorgere e il sedimentarsi di problematiche relazionali, in alcuni casi persone con esperienze di carcere e/o con vari fallimenti di percorsi comunitari alle spalle, soggetti che stentano a riconoscere la propria dipendenza e la conseguente problematicità e/o persone con problemi di evidente disagio mentale.3

Se già negli anni Ottanta l’immagine stereotipata del “barbone” – uomo anziano, solo, alcolizzato – era in gran parte superata, di anno in anno i servizi si trovavano a confrontarsi con nuovi “utenti” che esprimevano bisogni inediti e richieCall Center, Report di gestione anno 2007. Capitolato del bando di gara del Comune di Torino per l’affidamento di servizi per adulti in difficoltà per il triennio dal 1 giugno 2005 al 31 maggio 2008. 2 3

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devano continui ripensamenti delle modalità di accoglienza. All’inizio del nuovo secolo, il fenomeno coinvolgeva persone sole, italiane e straniere, interi nuclei famigliari, richiedenti asilo e rifugiati, donne vittime di violenza, giovani. Oltre alla riduzione delle risorse per far fronte alla crescente e diversificata domanda, gli operatori lamentavano l’irrigidimento e la standardizzazione imposta dal sistema burocratico che limitava l’accesso ai servizi e dunque anche il loro lavoro. Mi ero resa pienamente conto della situazione di crisi di cui mi parlavano gli operatori solo dopo aver visitato, nel maggio 2009, la casa di ospitalità notturna di Strada Castello di Mirafiori. Si trattava di un prefabbricato collocato all’estrema periferia sud della città, in un’area incolta lungo il torrente Sangone. La struttura, predisposta inizialmente per l’accoglienza nel solo periodo dell’“emergenza freddo”, era stata poi adibita a dormitorio pubblico aperto tutto l’anno. Le condizioni del dormitorio erano desolanti: la struttura cadente non era adatta ad accogliere dignitosamente, dalle 8 di sera alle 8 del mattino successivo, le oltre venti persone previste, così come non era un luogo di lavoro salubre né tanto meno adeguato per un intervento educativo basato sulla relazione. Dai focus group che avevo organizzato con gli operatori per provare a riprogettare insieme il servizio a partire dagli spazi (Porcellana, 2011) era emerso come gli operatori stessi si sentissero esclusi da un progetto di piena cittadinanza e ritenessero che il loro lavoro, così come le vite delle persone accolte, fossero considerati marginali, di nessun valore, tanto da essere sistemati lontano dagli sguardi, in una situazione di “strutturale precarietà”. Da parte loro, gli ospiti avevano introiettato l’immagine svilita di sé, tanto da non rivendicare niente di più di quanto veniva offerto, descrivendosi come un “imbarazzante spettacolo umano” da allontanare dal centro cittadino. La struttura di accoglienza, nella sua grigia presenza, con le inferriate alle finestre e circondata da un cancello aperto solo per poche ore, per consentire l’ingresso serale e

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l’uscita al mattino successivo, non faceva che rafforzare l’immagine di esclusione e di sospetto che già circondava i “senza dimora”. Il dormitorio poteva essere descritto, nei termini di Michel Foucault, come una “eterotopia tra deviazione e crisi”, un luogo in cui collocare “quegli individui il cui comportamento appare deviante in rapporto alla media e alle norme imposte”, che presuppone “un sistema di aperture e di chiusure che, al contempo, le isola e le rende penetrabili” (Foucault, 2001, pp. 25-26; 30). Anche le strutture che sembrano facili da penetrare, come i dormitori pubblici a “bassa soglia”, “in genere celano delle particolari esclusioni; tutti possono entrare in questi spazi eterotopici, ma a dire il vero, non si tratta che di un’illusione; si crede di entrare e si è, per il fatto stesso di entrare, esclusi” (ivi, p. 30). Anche gli altri dormitori della città rispecchiavano la stessa immagine di esclusione e precarietà. Eppure, dai discorsi degli educatori con più lunga esperienza emergeva come già tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta Torino fosse considerata un laboratorio sociale riconosciuto a livello nazionale, anche sul tema del contrasto dell’homelessness. Fin dal 1981, infatti, il Comune di Torino, tra i primi in Italia, aveva istituito l’Ufficio di Assistenza alle persone senza fissa dimora e all’inizio degli anni Novanta era stato tra i soci fondatori della fio.PSD, la Federazione Italiana degli Organismi per Persone Senza Dimora. Il “modello torinese” era ritenuto una buona pratica a livello nazionale per la sinergia tra il pubblico e il privato sociale, sperimentata ben prima del diffondersi del welfare mix. Per un ventennio, l’Ufficio comunale, in collaborazione con i volontari e con le prime cooperative sociali, aveva via via strutturato il cosiddetto “modello a gradini”, che prevedeva il passaggio da un servizio di livello inferiore a uno superiore in base a una logica progressiva. Dalla “bassa soglia”, che spesso fungeva da primo “aggancio” tra la persona e i servizi sociali, si poteva passare in strutture di primo e secondo livello di accoglienza, come convivenze guidate e alloggi in autonomia fino all’approdo alla casa popolare. Erano inoltre previste forme di sostegno al reddito, con ti-

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rocini e borse lavoro, nell’ottica del recupero della auspicata “autonomia”. Se per lungo tempo il passaggio da “un gradino all’altro” aveva garantito alle persone in difficoltà e senza dimora di essere prese in carico pienamente dai servizi, con un adeguato accompagnamento da parte di figure educative, a partire dagli anni Duemila i cambiamenti del contesto sociale ed economico e dell’utenza avevano fatto emergere l’inadeguatezza delle risposte del sistema pubblico che di fatto impediva a un ampio numero di persone di passare dalla strada alla casa, o ad altre soluzioni abitative, in tempi rapidi. Non trovando risposte alternative al dormitorio e al circuito dell’assistenza, decine di persone rimanevano in condizioni di estrema povertà per anni. Il sistema stesso contribuiva, con le sue regole e le sue procedure, alla cronicizzazione di situazioni di marginalità, con rischi altissimi di degrado psicofisico delle persone, come sostenevano gli operatori stessi: Per alcuni fare le file davanti al dormitorio, in mensa, alla distribuzione dei vestiti è diventato un mestiere, magari rivendendo qualcosa, oltre che un modo per passare la giornata. Ma è anche un meccanismo che impedisce di pensarsi al di fuori di quella routine. Il problema è che anche alcuni assistenti sociali vedono il dormitorio come una risposta da dare alle persone senza casa; è diventato il loro modo di dare una prestazione. Non si trovano soluzioni diverse da queste; è un impoverimento nella capacità non solo economica di accogliere, ma anche progettuale e immaginativa. Una volta il dormitorio era il punto di partenza della richiesta di aiuto, mentre oggi è diventato l’approdo. I servizi sono un meccanismo circolare che può intrappolare, all’interno del quale ci si può ritrovare al punto di partenza quando sembrava di essere finalmente arrivati al punto di arrivo. (N.)4

Dalle parole dell’educatrice, che da anni lavorava nei centri di accoglienza, emergeva come i servizi sociali rischiassero di tradire se stessi e la loro vocazione non soltanto a 4 Gli interlocutori incontrati sul campo sono indicati con la sola lettera iniziale puntata.

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causa della scarsità di mezzi, ma anche e soprattutto a causa della scarsità di “immaginazione istituzionale” e di capacità del sistema di welfare di stare al passo con il cambiamento (Porcellana, 2016). Visitare i dormitori della città e ascoltare le voci e le storie di coloro che li frequentavano, intrappolati in un circuito che sembrava senza via di uscita, aveva acceso in me quello che Miguel Benasayag chiama desiderio e descrive come un sentimento che coglie di sorpresa, un turbamento di fronte all’ingiustizia, per cui “qualcosa è diventato inammissibile” (Benasayag, 2005, p. 58). Da allora, grazie alla collaborazione con un gruppo di designer del Politecnico di Torino, abbiamo cercato di trasformare ciò che ci era parso “inammissibile”: non soltanto le dotazioni fisiche di quegli spazi, ma l’immagine che veicolavano5. Volevamo scardinare quella convinzione culturale, profondamente radicata negli amministratori pubblici e in molti cittadini – ma anche in alcuni operatori del terzo settore – che la bellezza fosse un lusso, un elemento superfluo nella vita delle persone in condizione di disagio e di povertà. Anzi, spesso ci era stato detto esplicitamente che offrire sistemazioni troppo confortevoli avrebbe “abituato male” le persone, che non si sarebbero più attivate6 per trovare soluzioni alternative. La nostra idea che “il bello potesse curare” (Campagnaro e Porcellana, 2013), contribuendo a ripensare la propria vita in termini di possibilità, sembrava scontrarsi con uno dei principali presupposti del sistema di presa in carico7. Rivolgersi ai servizi sociali 5 Dal 2009 la ricerca-azione “Abitare il dormitorio” è condotta da Cristian Campagnaro, architetto e designer del Dipartimento di Architettura e Design del Politecnico di Torino e da Valentina Porcellana, antropologa del Dipartimento di Filosofia e Scienze dell’Educazione dell’Università degli Studi di Torino, in collaborazione con la Federazione Italiana Organismi per le Persone Senza Dimora (fio.PSD), amministrazioni pubbliche ed enti del terzo settore. 6 Le logiche dell’attivazione, diffuse in Europa a partire dagli anni Novanta e introdotte anche nel sistema di welfare italiano, si basano sull’idea che sia meritevole di sostegno soltanto un individuo che si dimostri “autonomo, capace di iniziativa e responsabile” (Saraceno, 2004, p. 18). 7 Per una lettura antropologica della “presa in carico” nei servizi alla persona si veda Minelli e Redini (2015).

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e accettare di diventare “assisiti” dal sistema significava – e significa tuttora – spogliarsi di tutto e accettare lo status di “senza dimora”. Per essere “presi in carico” dal servizio pubblico, infatti, è necessario dimostrare di non possedere nulla; chi ha qualche bene intestato deve disfarsene per accedere alle prestazioni e ai sussidi. Dunque, il sistema chiede alle persone di “scendere di livello” e di diventare ufficialmente “nullatenenti”, “una tabula rasa pronta per essere più facilmente ri-educata, ri-socializzata, ri-acculturata e, finalmente, ri-inserita nella società” (Di Prima, 2017). Con i termini di Giorgio Agamben (2005) si potrebbe parlare di nuda vita, a cui resta soltanto di sopravvivere. Chi accetta di sottostare a queste regole inizia l’iter lungo la scala a gradini; altrimenti non gli resta che rivolgersi alle associazioni caritatevoli della città (ognuna con le sue ideologie e le sue regole)8. Sia per l’intricato labirinto burocratico, sia per i vissuti complessi delle persone, gli esiti di questo percorso sono incerti oltre che di durata variabile9. Durante l’attesa, in base alla valutazione degli operatori, si può essere inseriti in un progetto che prevede un’osservazione educativa in dormitorio o in una struttura di altro livello. Questa decisione, così come quella di un inserimento formativo o lavorativo, dipende dalla discrezionalità dell’educatore o dell’assistente sociale “titolare del caso”, dalle informazioni che ha raccolto dagli altri operatori, dal rapporto che ha creato con l’utente e dalla fiducia che ripone nel “successo” del percorso. Alla persona resta ben poco margine di contrattazione, tra la scarsità di alternative possibili (o pensabili) e la sua posizione subalterna. Ciò che ci si aspetta dal “buon utente” è un’accettazione incondizionata di ciò che gli viene proposto. Quando questo non avviene si considera fallito il percorso, e la persona si ritrova a dover ricominciare tutto da 8 Per una panoramica delle associazioni di volontariato a contrasto dell’homelessness attive a Torino si veda Porcellana (2011). 9 Per esempio, la scoperta di avere intestato un bene a proprio nome, per quanto di scarso valore e utilità, può bloccare per mesi le pratiche per la richiesta di casa popolare e la riscossione del già esiguo sussidio mensile.

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capo, a partire dalla strada. Il giudizio, esplicito o implicito, riguardo ai “fallimenti” individuali sembra modellare tanto i servizi, quanto gli spazi delle strutture di accoglienza e i tempi dell’intervento, partendo dall’assunto che le persone in condizioni di povertà estrema siano incapaci di reagire, di decidere e di gestire la propria vita, casa compresa (Cortese e Iazzolino, 2014). Così come emerso anche da altre ricerche etnografiche sulle persone senza dimora in Italia (Tosi Cambini, 2004; Scandurra 2005, 2014), l’accento è sempre posto sulle mancanze, sugli elementi negativi che caratterizzano le biografie di chi chiede aiuto. In particolare gli adulti, soprattutto se uomini, sono ritenuti meno vulnerabili rispetto a bambini, donne e anziani, e dunque sono meno tutelati. Un adulto che si rivolge ai servizi sociali è particolarmente stigmatizzato. Come sottolinea Martha Nussbaum, rispetto all’attenzione per la dignità, alla tutela e al sostegno dell’agency prevalgono spesso “scelte che infantilizzano le persone e le trattano come destinatari passivi di assistenza” (Nussbaum, 2012, p. 37). A Torino, per quanto si stiano recentemente sperimentando nuove forme di social housing, le case di ospitalità notturna restano la principale voce di spesa dell’amministrazione pubblica per quanto riguarda l’accoglienza degli adulti senza dimora. I dormitori di prima accoglienza, seppure in parte ristrutturati e inseriti in progetti di “umanizzazione”, restano luoghi di transito – trenta notti per i residenti in città, sette notti per i non residenti – allestiti per lo più con materiali di recupero, aperti soltanto in orario notturno, in cui convivono persone con vissuti e disagi molto diversi. Nonostante la presenza di operatori sociali ed educatori, ogni sera la tensione tra gli ospiti è alta; la stanchezza accumulata durante la giornata in strada, l’abuso di alcol o di sostanze alimentano liti talvolta violente. I furti ricorrenti, i pettegolezzi e le maldicenze, specie nei dormitori femminili, i pregiudizi e il razzismo contribuiscono a creare un clima di sospetto reciproco. La violenza e l’intimidazione, spesso apprese in carcere, diventano le modalità ritenute necessarie per farsi rispettare.

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“Il dormitorio fa uscire il peggio di noi” ha commentato un giorno un frequentatore delle case di accoglienza torinesi. Condividere spazi intimi, come la camera da letto e i servizi igienici, con persone sconosciute10, con abitudini culturali diverse, spesso malate o con disturbi psichici genera preoccupazione più che contribuire al benessere. Riposare male, dover provvedere ogni giorno al cibo, portare sempre con sé i pochi averi, non avere una meta, aspettare la sera per avere un riparo diventano parte di un ciclo di vita logorante11. Durante le ore serali, gli operatori non hanno il tempo, né gli utenti la forza e la lucidità per ragionare insieme sulle alternative possibili; anzi, la tensione che si crea può portare a formulare reciproci giudizi negativi che impediscono, anziché favorire, il percorso di accoglienza e di successivo accompagnamento. Da parte loro, gli assistenti sociali titolari dei casi non sempre riescono a instaurare, negli incontri formali che avvengono nei loro uffici, un rapporto di fiducia con i loro assistiti, i quali, a loro volta, attivano forme di resistenza, più o meno consapevoli, che li portano a rifiutare le possibilità che vengono loro prospettate. Gli interventi che negli anni abbiamo condotto negli spazi di accoglienza hanno avuto l’intento di migliorare le relazioni tra coloro che frequentano questi luoghi per necessità e per lavoro, valorizzandone le competenze. È stato importante entrare nei dormitori anche in momenti diversi da quelli di apertura serale e invitare coloro che li vivono a raccontarli. Lavorando a stretto contatto con i servizi pubblici e i loro funzionari, con gli operatori delle cooperative sociali e con gli ospiti senza dimora abbiamo cercato di trasformare i bisogni di ciascuno in soluzioni che rispondessero in modo più adeguato alle esigenze quotidiane, al benessere e al reciproco prendersi cura. Questa lunga esperienza di ricerca-azione ci ha consentito di verificare il funzionamento del sistema di ac10 Sono definiti “compagni indesiderabili” nelle testimonianze che Giuseppe Scandurra (2014, p. 310) ha raccolto nel dormitorio Carracci di Bologna. 11 Su questi temi si veda Meo (2000).

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coglienza, le regole non scritte che lo governano, le relazioni interne, nonché le aspirazioni e le capacità delle persone. Un luogo, in particolare, si è rivelato significativo per osservare il fenomeno variegato dell’homelessness a Torino e per sperimentare un nuovo modo di ascoltare le persone e valorizzarne le competenze in un’ottica di empowerment. Si tratta di un laboratorio che abbiamo inaugurato nell’estate 2014 al piano terra di un ampio edificio che ospita un dormitorio pubblico. Qui, due giorni alla settimana, un gruppo di adulti senza dimora, in carico ai servizi sociali, lavora insieme a ricercatori e studenti universitari, artigiani, artisti e designer attraverso i linguaggi della creatività (Porcellana, 2017). Via Ghedini 6 Un portone di legno scrostato, circondato da mozziconi di sigarette; sul muro una targa dell’Azienda Sanitaria Locale che indica che al secondo piano si trova il Dipartimento di Patologia delle Dipendenze. Nessuna indicazione, invece, del fatto che all’interno del palazzo, un edificio di inizio Novecento al centro di un isolato composto da condomini di edilizia popolare, si trovi anche un dormitorio pubblico. Nessun nome è stato scelto per quel luogo, che viene da tutti identificato soltanto con il nome della via in cui si trova, nella zona nord di Torino, in uno dei quartieri in cui si concentra la più alta richiesta di assistenza sociale12.

12 Il quartiere di Barriera di Milano, 54.000 abitanti circa, si trova a pochi chilometri dal centro cittadino ma sta subendo un processo di periferizzazione ed è percepito come isolato e problematico (Ciampolini, 2007; Magatti, 2007; Cossi, 2009). Le ricerche condotte negli ultimi anni concordano nel sostenere che il quartiere rappresenti un laboratorio sociale complesso che, seppure con evidenti criticità dettate dalle dinamiche socio-demografiche e da fenomeni di marginalità, ha importanti risorse su cui investire in un’ottica di rafforzamento della coesione economica e sociale (Bergamaschi e Ponzo, 2012). Sullo stesso quartiere, si vedano in questo volume i saggi di Pietro Cingolani e Francesco Vietti.

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Già gestito dall’Ente Comunale di Assistenza come dormitorio negli anni Sessanta, alla fine degli anni Settanta, con un passaggio di competenze, l’Assessorato all’Assistenza Sociale aveva dovuto farsi carico “di quella varia umanità che per diversi motivi viveva nella città senza un preciso riferimento abitativo: i cosiddetti ‘senza fissa dimora’”13. Allora, la struttura era aperta 24 ore su 24 e ospitava fino a 35 persone, uomini e donne con un’età piuttosto avanzata, oltre a disporre di alcuni posti di emergenza. Si trattava soprattutto di persone “con una situazione di salute gravemente compromessa da anni di vita in strada, affetti da malattie varie (T.B.C., cirrosi) e in attesa di apposita dichiarazione di invalidità”14. Nonostante già negli anni Ottanta fosse stato predisposto un progetto di ristrutturazione per migliorare la qualità dell’ospitalità, le camerate erano rimaste da dodici letti, con i bagni comuni e un solo boiler per tutti. Pur essendo concepita come una struttura di residenza temporanea, con progetti individuali di autonomia, alcune persone vi erano ospitate da oltre dieci anni, senza che la loro condizione fosse mutata. Per molti anni il dormitorio era stato gestito più come una comunità per anziani, con dieci operatori che si davano il turno sulle ventiquattro ore. Colazione, pranzo e cena, il riposo pomeridiano e qualche attività di svago strutturavano la giornata delle persone che non avrebbero avuto altro riparo. Fino alle 23.30 gli ospiti potevano rientrare in struttura; durante la notte gli operatori facevano due volte il giro nelle stanze per accertarsi che tutti stessero bene e che non ci fossero problemi. Quando l’avevamo visitato per la prima volta nella primavera del 2010, il dormitorio era ancora in fase di parziale ristrutturazione e gestito da dipendenti comunali anziché dato in appalto. Restava l’unico in città che consentiva la residenzialità diurna oltre che notturna, garantendo agli ospiti 13 Città di Torino, Assessorato all’Assistenza Sociale e fio.PSD – Federazione Italiana degli Orgnismi per le Persone Senza Dimora, I senza fissa dimora a Torino. Servizi e risorse, Torino, s.e., 1991, p. 7. 14 Ivi, p. 9.

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anche i pasti con un servizio di mensa. La casa di via Ghedini era quella in cui “mandare a svernare” – come dicevano scherzando gli operatori – le persone più fragili, ammalate, anziane, senza dimora “croniche” con problemi di alcolismo. Per questo, diversamente dagli altri dormitori, le persone erano ospitate per lunghi periodi, anche per due o tre anni, in modo da facilitare un successivo passaggio alla casa popolare o a una struttura per anziani. La vicinanza con la casa di riposo del quartiere aveva facilitato il trasferimento di molti ospiti arrivati ai sessantacinque anni, per non sradicarli dalla zona e dalle loro conoscenze. Dopo un periodo di chiusura – deciso in modo inaspettato dall’amministrazione comunale e giustificato dai costi di gestione ritenuti ormai insostenibili – nel 2014 la struttura aveva riaperto, perdendo la caratteristica di residenzialità e divenendo un servizio di accoglienza notturna dato in appalto a una cooperativa sociale. Il nuovo assetto aveva convinto il Servizio Adulti in Difficoltà del Comune ad attivare anche in via Ghedini un percorso di ristrutturazione partecipata degli spazi interni, così come avevamo già sperimentato in altre strutture15. Il progetto prevedeva di coinvolgere operatori, ospiti e studenti universitari in una serie di laboratori attraverso cui prendersi cura, insieme, degli spazi di accoglienza. Per gli adulti in carico ai servizi sociali, inseriti attraverso tirocini retribuiti, si sarebbe trattato sia di una forma di sostegno al reddito, sia di un’occasione per potersi giocare, per alcune ore alla settimana, un ruolo diverso e per esprimere le proprie attitudini. Per gli operatori il laboratorio poteva essere un luogo inedito di osservazione e accompagnamento educativo, mentre per noi ricercatori e per i nostri studenti era un’ulteriore occasione per tradurre in pratica ipotesi teoriche, in un percorso di ricerca-azione in continua evoluzione. 15 Attraverso workshop e laboratori partecipativi, il progetto “Abitare il dormitorio” ha contribuito al ripensamento di diverse strutture di ospitalità diurna e notturna per persone senza dimora a Torino, Milano, Verona e Agrigento.

“A bassa soglia” 213

Un laboratorio di cittadinanza Il 19 giugno 2014 prende avvio il laboratorio “Costruire Bellezza”. L’appuntamento con il primo gruppo di tirocinanti – adulti senza dimora e studenti universitari – è alle 8.30 davanti al portone di via Ghedini 6. Ci si saluta e ci si presenta; alcuni si conoscono tra loro perché frequentano da tempo i dormitori, altri perché hanno già partecipato ai nostri laboratori. Alcune delle tirocinanti donne hanno dovuto soltanto scendere dal dormitorio femminile del primo piano, altri si sono alzati presto per attraversare la città con i mezzi pubblici. Da quel momento il marciapiedi di fronte al portone diventa la soglia che separa la stanchezza della notte dalla tregua garantita dal laboratorio. Superare quella soglia significa dimenticare per una mattina le preoccupazioni, il proprio status, la solitudine e tornare ad essere attivi, propositivi, capaci. A facilitare il passaggio c’è la colazione, che diventa un momento rituale che dà inizio al lavoro. Poi ci si divide in gruppi in base ai propri interessi, attitudini e competenze. Ci sono diverse attività tra cui scegliere, compreso il laboratorio di cucina che prevede la spesa al mercato del quartiere e la preparazione del pranzo che chiude la mattinata insieme. Il primo giorno B., una donna italiana giunta in dormitorio dopo una lunga malattia e l’abbandono da parte del marito, nasconde alcuni panini nella borsa prima di iniziare a pranzare. Qualche giorno dopo lei stessa, che ha cucinato una sua ricetta, si premura che tutti siano serviti, provvedendo a garantire una porzione abbondante per ciascuno. Il lavoro comune nei laboratori, la preparazione e la condivisione dei pasti creano nel giro di pochi giorni, e poi rafforzano nelle settimane successive, un clima di complicità e di fiducia che si mantiene nel tempo, anche se i partecipanti si avvicendano16. “Qui siamo tra noi”, ha detto un giorno R., per 16 La durata dei tirocini socializzanti retribuiti attraverso cui è formalizzata dal Servizio Adulti in Difficoltà del Comune di Torino la presenza delle per-

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Valentina Porcellana

sottolineare come ci si potesse rilassare senza temere di essere derubati, infastiditi o aggrediti, come succede in strada e in dormitorio. Fin da ragazzo R., che ormai è un uomo di mezza età, ha avuto problemi con la giustizia; prima a causa della droga, poi per altri reati di cui sta ancora aspettando di scontare la condanna definitiva. Ogni giorno attende che vengano a prenderlo, anche se io mi trovo spesso a pensare che stia già scontando la sua pena vivendo in strada con la prospettiva di tornare in carcere. Non ha molti rapporti con la sua famiglia né ha amici su cui contare, come capita a molte persone nella sua condizione. Seppure con modi bruschi e un po’ scostanti, soprattutto con gli altri uomini, ha costruito dei buoni rapporti in via Ghedini, lasciando emergere il suo lato emotivo e sensibile, tanto da lasciare stupiti gli operatori che lo avevano incontrato in dormitorio. Soltanto il suo assistente sociale ne aveva intuito il potenziale, proponendogli di frequentare il tirocinio. Nel contesto del laboratorio, gli oggetti e le azioni condivise diventano un pretesto, per lui come per tutti i partecipanti, per costruire legami e mettere alla prova la propria capacità di relazione. Come scrive Richard Sennett, “le discussioni informali possono diventare rituali che creano legami emotivi”. Discussioni apparentemente banali, su come costruire una sedia o preparare una ricetta, diventano occasioni di “collaborazione dialogica”, e “se il luogo è strutturato in modo che tali scambi avvengano regolarmente, le persone coinvolte sanno di essere prese sul serio” (Sennett, 2012, p. 146). R. parla di una nuova forma di rispetto che ha sperimentato nel laboratorio. Non si tratta di quella forma di prevaricazione che si ottiene con la violenza, ma di un riconoscimento come persona che si costruisce nel tempo e sulla fiducia. All’ingresso in laboratorio non si chiede a nessuno di raccontare la propria storia, né i motivi che l’hanno portato a quella condizione. Le brevi schede stilate dagli assistensone al laboratorio è di tre mesi rinnovabili per due volte. In base al progetto individuale, però, il percorso può essere prolungato o ridotto.

“A bassa soglia” 215

ti sociali riportano informazioni piuttosto scarne, poco più che i dati anagrafici e qualche breve annotazione che serve per giustificare l’inserimento in tirocinio. È durante il lavoro comune, con il passare delle settimane, che emergono gli elementi salienti della vita, le narrazioni più dure, i dolori e le paure, ma anche le speranze, i sogni e le aspirazioni. Nel fare insieme, inoltre, emergono le capacità manuali, le abilità e le attitudini che potrebbero diventare possibilità per il futuro, elementi da condividere con gli educatori e gli assistenti sociali che seguono il percorso. La natura stessa del laboratorio creativo garantisce la possibilità di esprimersi e di esplorare i sé possibili. “Qui non devi fingere né nasconderti” dice M., un quarantenne colto e riservato che non accetta di sentirsi un “senza dimora” né vuole che al di fuori del circuito di assistenza si sappia della sua situazione. Il periodo di tirocinio gli ha consentito di sentirsi valorizzato, di ritrovare una parte di sé e dei suoi passati studi di design, il desiderio di rimettere in valore le sue conoscenze, al di là del momento di difficoltà contingente. L’assistente sociale che segue il suo percorso ha deciso di inserirlo nel laboratorio proprio per sostenerlo e dargli nuovi stimoli per progettare il suo avvenire, data la fragilità emotiva di M. che lo ha tenuto a lungo ostaggio di sostanze stupefacenti. Nulla in lui richiama l’immagine del “senza dimora”: è sempre curato, ben vestito, ha proprietà di linguaggio e garbo. Non si ferma quasi mai a pranzo, anche perché ha un lavoro part-time, ma soprattutto perché non si sente a suo agio tra persone che non riconosce come simili. Passando i mesi e sentendosi riconosciuto, non senza momenti di difficoltà e incertezza, trova un suo ruolo e oggi, dopo mesi dalla conclusione del suo percorso, passa a trovarci raccontando della sua casa e del suo un nuovo lavoro. A. ha quasi l’età per essere inserita nei percorsi per anziani. Eppure, per una manciata di anni, è ancora ritenuta “adulta in difficoltà”. È una donna vivace, dal fisico asciutto e scattante: “Cammino per molti chilometri al giorno, sempre a piedi” dice arrivando, sempre puntuale, da uno dei dormitori dall’altra parte della città. È madre di quattro figli

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Valentina Porcellana

ormai adulti e ha trascorso la sua vita matrimoniale chiusa in casa perché il marito voleva così: “Per questo so fare così bene le faccende domestiche”. Finché lui l’ha cacciata per convivere con un’altra donna e lei ha trovato accoglienza in dormitorio. Molte storie di donne senza dimora sono legate alle violenze subìte tra le mura di casa, prima nella famiglia di origine, poi, riproducendo un modello che sembra l’unico possibile, con un compagno abusante.17 Pur di non rinunciare alla propria casa e alla tutela dei figli la maggior parte delle donne subisce per anni abusi e ricatti finché paradossalmente, come nel caso di A., è proprio il marito a lasciarle senza denaro e costrette a rivolgersi all’assistenza sociale. Per orgoglio A. non chiede aiuto ai figli, che cerca di andare a trovare con una certa regolarità, quando i soldi del sussidio che mette da parte le consentono di acquistare il biglietto del treno. Il suo percorso nei servizi sembra destinato ad essere rapido perché, come riconoscono gli operatori, è una donna volitiva e a mancarle è soltanto una casa propria. Frequentare i laboratori le ha suggerito molte idee, compresa quella di mettersi a studiare, lei che è analfabeta. “Non è mai troppo tardi”, dice sorridendo. Il laboratorio contrappone alla “strategia dell’emergenza”, che sembra caratterizzare i servizi sociali e il lavoro dei suoi operatori, la “strategia della pazienza” mutuata da Appadurai (2011). Ci vuole tempo, pazienza e perseveranza perché ciascuna persona, con i suoi tempi, maturi consapevolezza, riscopra capacità, torni a desiderare e aspirare. Come scrive Ota de Leonardis, “per ricominciare ad aspirare a una vita migliore bisogna potersi fidare (di se stessi anzitutto), e che la fiducia s’instauri con il tempo dell’esperienza e della verifica” (2011, p. XXVI). Per questo motivo il laboratorio è permanente, in modo che, al di là del tempo previsto per 17 Per un bilancio degli studi europei sul fenomeno si veda Baptista (2010). Sul tema si veda anche il numero monografico della rivista edita da Feantsa “Homeless in Europe” dedicata a Gender Perspectives on Homelessness (2010). Sulla condizione delle donne senza dimora a Torino si veda Gallo (2007).

“A bassa soglia” 217

ciascun progetto individuale, chi torna in via Ghedini sappia di trovare un luogo accogliente, un posto a sedere nella lunga tavolata del pranzo, qualcuno che lo riconosce. R. si è commosso il giorno del suo compleanno quando, a sorpresa, gli abbiamo cantato gli auguri, mentre dalla cucina arrivava la torta: “Nessuno se n’era più ricordato da molto tempo”. Con noi, in quell’occasione, c’era anche il “titolare” del suo caso: al di fuori dell’ufficio, al di là della scrivania che separa operatore e utente, nello spazio stra-ordinario del laboratorio può avvenire un incontro diverso, che può fare emergere elementi che la burocrazia non lascia tempo e modo di scoprire. Il patto di collaborazione che viene rinnovato tra utenti e operatori in uno spazio “altro”, può imprimere un nuovo corso anche all’intervento educativo. La perdita di fiducia in sé e negli altri, comprese le istituzioni, è alla base di molti di quelli che vengono definiti i “fallimenti” dei percorsi di assistenza. Soltanto grazie al sostegno di figure educative di cui ha iniziato a fidarsi (“Perché le rispetto”), R. ha accettato la proposta di tornare ad abitare in un alloggio18. Il laboratorio si inserisce dunque in un processo di ripensamento dei servizi basato sull’approccio alle capacità proposto da Martha Nussbaum e Amartya Sen. Una capacità considerata particolarmente importante è rappresentata proprio dal senso di appartenenza, che significa “avere legami con altre persone […] che ti considerano con rispetto e come uguale e che sono decise a prendersi cura di te e a portare avanti progetti insieme a te” (Nussbaum, 2012, pp. 97-98). In questo senso il laboratorio è, per tutti i partecipanti, una palestra per rafforzare la fiducia in se stessi e per mettersi alla prova nella relazione con gli altri. Condividere un’esperienza emotivamente forte con persone con vissuti tanto diversi, comprese le differenze generazionali e di genere, costruisce 18 Per molte persone “senza dimora”, abitare in casa non è una scelta semplice, dato che implica un ennesimo cambiamento della quotidianità, nuove responsabilità e una nuova percezione di sé. Alla proposta di un alloggio, alcune persone abbandonano il percorso, temendo un nuovo fallimento e la solitudine.

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un senso di cittadinanza che va al di là delle etichette e degli stereotipi. Torino a bassa soglia “Stare dentro” un servizio a contrasto dell’homelessness, come il laboratorio di via Ghedini, ci ha permesso di cogliere la complessa organizzazione dei servizi di accoglienza, di seguire i rapporti tra operatori di enti diversi che agiscono nel sociale e di comprendere quali siano le ricadute di queste complessità sui percorsi di chi si rivolge all’assistenza pubblica19. L’esperienza di ricerca-azione, protratta nel tempo, ci ha garantito un osservatorio sulle diverse forme che la grave emarginazione adulta assume a Torino, o per lo meno su quella che si affaccia ai servizi di accoglienza. Abbiamo sperimentato direttamente che cosa significa progettare un intervento educativo per “adulti in difficoltà” in un contesto di welfare che premia l’efficienza, l’autonomia e il consumo. Ci siamo scontrati con le resistenze al cambiamento da parte dei sistemi e delle persone, ma abbiamo verificato anche il desiderio di molti operatori di percorrere strade inedite che dessero senso al loro lavoro e risposte efficaci ai cittadini più fragili. Abbiamo soprattutto vissuto anni di grande intensità emotiva durante i quali abbiamo messo alla prova le nostre convinzioni personali e professionali, essendoci confrontati con fenomeni di povertà e violenza strutturale così vicini a noi, da sentircene schiacciati. Come il giorno in cui R. non è arrivato in laboratorio. E nemmeno in quello successivo. Nessuno sapeva dove fosse; neanche il suo assistente sociale era stato avvertito del suo arresto. La giustizia, dopo anni di attesa, faceva il suo corso e lui sembrava sparito nel nulla. Poi, dalla casa circondariale della città arriva una sua lettera, indirizzata a tutti noi. Ci scrive che cercherà di restare la per19 Per una lettura antropologica dello “stare dentro” i servizi e le politiche sociali si veda Tarabusi (2010).

“A bassa soglia” 219

sona che ha scoperto di poter essere, anche se non sarà facile coltivare in prigione quel lato di sé, e ci chiede di aspettarlo per riprendere a lavorare insieme. Quando R. uscirà, sarà di nuovo senza dimora e dovrà ricominciare tutto da capo. La sua paura più grande – quella di tutti – è di doverlo fare da solo. R., così come B., M. e A., sono tra le oltre 1700 persone censite nei servizi di accoglienza torinesi tra il 2012 e il 2014. Per la prima volta, all’interno di un’indagine nazionale promossa dal Ministero della Solidarietà Sociale in collaborazione con ISTAT, Caritas Italiana e fio.PSD, sono stati rilevati i dati sulla grave emarginazione. A Torino, i dati raccontano di uomini, donne e persone in transizione di genere, di italiani provenienti da molte regioni e di stranieri di diverse nazioni e continenti, che frequentano abitualmente dormitori, mense e centri diurni. Una larga maggioranza (84,5%) è rappresentata da uomini soli con un’età media piuttosto bassa, intorno ai 45 anni, da circa due anni in strada. La condizione di disagio è legata alla concatenazione di eventi, tra cui ricorrono separazioni familiari (74%) e perdita del lavoro stabile (70%)20. Non è facile stimare, invece, quante persone rimangano “invisibili”, dormendo in luoghi appartati della città, sui vagoni dei treni, in automobile o in edifici abbandonati. Le unità di strada torinesi ne hanno raggiunto un centinaio. Circa la metà di loro è costituita da cittadini italiani che non hanno legami familiari né lavoro, con problemi di dipendenza, soprattutto da alcool, e problemi psichici (Cortese, 2016). Sembravano spariti dal centro cittadino in occasione dei grandi eventi che hanno rimodellato l’immagine della città, a partire dalle Olimpiadi invernali di Torino 2006. La “politica del decoro” (Pitch, 2013) li aveva allontanati dalla vista dei torinesi e dei turisti a forza di controlli e sgomberi da parte delle forze dell’ordine. Oggi, la retorica del decoro torna a riempire le prime pagine dei giornali locali: negozianti e cittadini denunciano la presenza notturna di decine 20

http://www.fiopsd.org/la-ricerca-psd/.

220

Valentina Porcellana

di “clochard” che cercano rifugio negli atrii dei palazzi delle vie centrali21. Molti di coloro che frequentano il laboratorio di via Ghedini, soprattutto uomini, si sono trovati nella condizione di non avere un riparo, soprattutto al termine del periodo di ospitalità in uno dei dormitori, quando ci si deve mettere in lista e l’unica speranza di avere un posto in struttura, per una notte, risiede nell’eventualità che qualcun altro non si presenti. Alcuni di loro oggi sono ospitati in strutture di “secondo livello”, altri in alloggi in cui possono riacquistare una certa autonomia, in attesa dell’assegnazione della casa popolare. Altri ancora stanno sperimentando l’avvio del programma di housing first che prevede l’inserimento in alloggio senza dover affrontare il lungo percorso a gradini. Ma la lista di attesa nei dormitori è lunga mesi, e anche le donne iniziano a non trovare un posto letto in bassa soglia, rischiando di restare in strada. Per gli operatori, chiudere la porta del dormitorio, lasciando decine di persone fuori, diventa sempre più difficile. Eppure Torino “si muove”22. In quanto città metropolitana, è stata coinvolta nella redazione delle “Linee di indirizzo per il contrasto alla grave emarginazione adulta in Italia”, formalizzate nel 2015 dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali in collaborazione con la fio.PSD23; è tra le città italiane aderenti al Network Housing First Italia e sta sperimentando nuovi interventi basati sul capability approach e aperti alla partecipazione. Inoltre, proprio a Torino, nella primavera del 2017, è nata la prima Associazione Italiana Persone Senza Dimora che si sta impegnando, insieme alla fio.PSD, nella stesura della “Carta dei diritti delle persone 21 Minucci E., “Cancelli e vetrate in centro per tenere lontani i clochard”, La Stampa. Torino, 6 maggio 2017; Poletto L., “Dormiamo nell’atrio, qui siamo al sicuro”, La Stampa. Torino, 6 maggio 2017. 22 “Torino always on the move” è stato uno degli slogan del rinnovamento della città negli anni Duemila, soprattutto in vista delle Olimpiadi invernali ospitate nel 2006. 23 Il documento è scaricabile all’indirizzo: http://www.lavoro.gov.it/temie-priorita/poverta-ed-esclusione-sociale/Documents/Linee-di-indirizzo-peril-contrasto-alla-grave-emarginazione-adulta.pdf.

“A bassa soglia” 221

senza dimora”: un segnale importante del fatto che i progetti e le iniziative sperimentate in città abbiano stimolato l’agency delle persone senza dimora. Da parte nostra, come ricercatori, oltre che come cittadini, stiamo accompagnando alcuni di questi processi a contrasto dell’homelessness, essendo convinti che la ricerca universitaria debba contribuire alla trasformazione dei sistemi, oltre a dover svolgere un’analisi critica delle politiche e delle pratiche in cui queste si traducono.

Mondo operaio e disuguaglianze. Le eredità delle migrazioni interne Anna Badino

Le tracce della grande migrazione interna Negli anni del miracolo economico la classe operaia urbana del Triangolo industriale era differenziata al suo interno in base alla provenienza geografica: da un lato operai di origine locale e dall’altro quelli arrivati da altre regioni, soprattutto meridionali, per i quali la grande fabbrica rappresentava spesso una novità e una rottura rispetto alle esperienze lavorative pregresse (Piselli, 1976). Gli studi sociali condotti tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta hanno cercato di indagare tali differenze (Negri, 1982), mentre a partire dagli anni Duemila si è iniziato a spostare l’attenzione sui figli di quella generazione di operai. Il nuovo sguardo ha rilevato che, proprio come nel caso delle seconde generazioni delle migrazioni internazionali, anche le grandi migrazioni interne hanno lasciato profonde tracce sulla stratificazione sociale dei luoghi di approdo: i percorsi sociali dei figli di immigrati meridionali appaiono, infatti, condizionati dalla mobilità geografica familiare (Ceravolo, Eve e Meraviglia, 2001). Tra le tre città protagoniste del boom, Torino è stata quella in cui si è sviluppata maggiore attenzione per i destini dei figli degli immigrati dal Sud. Una base di dati di estrema ricchezza ha permesso ai ricercatori di entrare nel profondo di una popolazione urbana altrimenti indifferenziata agli occhi delle statistiche ufficiali: lo Studio longitudinale torinese (SLT). Le

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Anna Badino

analisi compiute su questa fonte1 hanno fornito un quadro preciso della composizione della popolazione residente secondo l’origine geografica familiare degli individui, tenendo conto anche delle seconde generazioni di immigrati intra ed extra regionali. L’eredità lasciata dalla grande migrazione degli anni del boom è visibile soprattutto nelle coorti nate tra anni Cinquanta e Sessanta, cioè gli anni in cui i figli degli immigrati meridionali sono nati. Nel 1981 – quando ormai il ciclo migratorio di massa si era esaurito – il 48% dei residenti tra i 20 e i 30 anni aveva un padre nato nel Sud o nelle isole. L’analisi delle posizioni occupazionali di questa parte della popolazione ha messo in luce una limitata mobilità socioprofessionale ascendente rispetto ai genitori operai, mentre ha mostrato che in proporzione i figli della classe operaia locale hanno più facilmente abbandonato il lavoro manuale per impieghi più qualificati. Che cosa ha impedito a molti figli di operai immigrati dal Sud di uscire dalla condizione operaia? All’origine dei diversi traguardi occupazionali ci sono innanzitutto diversi percorsi scolatici: i figli dei meridionali hanno lasciato la scuola prima rispetto ai loro coetanei di origine locale o si sono orientati verso traguardi più modesti. Al censimento del 1981 lo svantaggio scolastico dei figli degli immigrati meridionali della coorte 1956-1961 rispetto ai coetanei di diversa provenienza è molto netto: fra i giovani di famiglie del Sud e delle isole un individuo su cinque dichiara un titolo di studio che non va oltre la licenza elementare (e in qualche caso non ha neppure avuto quella), mentre i coetanei di altra origine che hanno soltanto il titolo della licenza elementare o meno sono in numero irrisorio. Se si guarda alle superiori (comprese le scuole oltre la media inferiore che danno una qualifica professionale) il divario tra i figli degli immigrati meridionali e gli altri gruppi è straordinariamente marcato: tra chi ha continuaIl riferimento è al progetto SecondGen, che ha coinvolto l’università del Piemonte Orientale e l’università di Torino con il coordinamento di Michael Eve ed è stato finanziato dalla Regione Piemonte per il triennio 2011-2014.

Mondo operaio e disuguaglianze 225

to e terminato gli studi oltre la licenza media un abisso separa i giovani di famiglie del Mezzogiorno e i figli di padre nato in città e di padre arrivato a Torino dalla regione. Ma la distanza è grande anche con i giovani delle altre origini (tab. 1). Tabella 1. Grado di istruzione al 1981 dei 20-25enni residenti a Torino per origine geografica e per sesso Titolo di studio

Licenza elementare o meno

Licenza media Inferiore

Diploma o qualifica professionale Laurea

Totale

Origine geografica* Torino e Piemonte

Sud e isole

altre provenienze**

F

n. %

217 2,1

3166 20,3

282 4,6

M

n. %

273 2,4

3416 19,1

373 5,4

F

n. %

2127 20,4

6431 41,3

1828 29,9

M

n. %

2818 24,5

9122 51,0

2431 35,2

F

n. %

7882 75,5

5930 38,0

3920 64,0

M

n. %

8225 71,5

5292 29,6

4026 58,2

F

n. %

214 2,0

64 0,4

88 1,5

M

n. %

192 1,6

48 0,3

82 1,2

F

n. %

10440 100

15591 100

6118 100

M

n. %

11508 100

17878 100

6912 100

Fonte: elaborazioni del gruppo di ricerca SecondGen su dati SLT. * In questa tabella e in quella successiva per “origine geografica” s’intende l’area di nascita del padre. **Per “altre provenienze” si intendono le altre regioni italiane e i Paesi esteri.

226

Anna Badino

Lo svantaggio perdura nella coorte successiva, quella dei nati tra il 1966 e il 1971 che hanno da 20 a 25 anni al censimento del 1991 (tab. 2). In un contesto di tendenziale aumento del grado di istruzione generale a Torino (e in Italia) si registra un innalzamento del livello di scolarità dei giovani meridionali, ma le ragazze e i ragazzi di questa origine che non vanno oltre la licenza media sono ancora ben più della metà tra i maschi e la metà tra le femmine (mentre quelli con la sola licenza elementare si sono nel frattempo ridotti). Se dunque il raggiungimento della licenza media è diventato a Torino un obiettivo largamente acquisito dalle famiglie immigrate dal Mezzogiorno e dai loro figli, il loro svantaggio scolastico rispetto ai coetanei delle altre origini perdura: sia al 1981 sia al 1991 la continuazione degli studi oltre la licenza della scuola dell’obbligo arriva a interessare fino ai tre quarti (tra le ragazze) dei figli di torinesi e piemontesi, mentre per la seconda generazione di immigraTabella 2. Grado di istruzione al 1991 dei 20-25enni residenti a Torino per origine geografica e per sesso Titolo di studio

Origine geografica Torino e Piemonte n. %

Sud e isole n. %

altre provenienze n. %

Licenza elementare o meno

F

109

0,9

635

3,4

86

1,4

M

151

1,2

1149

5,6

155

2,4

Licenza media

F

2480

19,7

9480

50,3

1816

30,3

M

3601

27,3

12272

60,1

2600

39,8

Diploma o qualifica professionale

F

9506

75,8

8510

45,2

3952

65,8

M

9177

69,5

6889

33,8

3679

56,4

Laurea

F

452

3,6

209

1,1

150

2,5

M

270

2,0

100

0,5

93

1,4

F

12547

100

18834

100

6004

100

M

13199

100

20420

100

6527

100

Totale

Fonte: idem.

Mondo operaio e disuguaglianze 227

ti dal Mezzogiorno il proseguimento degli studi alle superiori fino al loro completamento riguarda ancora una minoranza. La limitata mobilità sociale dei figli di operai meridionali a Torino è la punta dell’iceberg di un complesso di fattori che negli anni ha contribuito a divaricare i loro percorsi da quelli dei figli di operai piemontesi a partire dall’infanzia. Occorre allora capire che cosa sia successo nelle scuole torinesi e nelle famiglie di questa classe sociale per illuminare l’esperienza di bambini e adolescenti durante gli anni del boom. Andare cioè alle origini delle disuguaglianze. La divaricazione dei percorsi si comprende meglio con un’osservazione ravvicinata della vicenda migratoria e del processo d’inserimento in città di individui e famiglie del mondo operaio durante gli anni dello sviluppo industriale torinese (Eve, 2009). Metteremo dunque a confronto gli itinerari dei meridionali con quelli di chi, negli stessi anni si è trasferito a Torino da comuni piemontesi. L’accostamento farà emergere meccanismi che gettano luce su scelte e strategie di genitori immigrati e figli2. Itinerari a confronto nell’inserimento urbano La vicenda dei piemontesi che arrivano in città dalle provincie minori della regione tra anni Cinquanta e Sessanta è stata fino a ora meno studiata rispetto a quella dei meridionali che ha occupato la scena in campo scientifico e mediatico. Al censimento del 1981 i figli di genitori piemontesi rappresentano il secondo gruppo per origine territoriale dopo i figli dei meridionali: sono il 18% dei residenti di età compresa tra 20 e 30 anni, mentre i figli di torinesi rappresentano il 14% di questa fascia d’età.

2 Il confronto che qui si propone è basato sull’analisi delle storie di vita di figlie e figli di operai provenienti dal Sud Italia e dal Piemonte (i comuni della provincia di Torino e di altre provincie piemontesi).

228

Anna Badino

Com’è noto, l’immigrazione dalle province piemontesi verso il capoluogo regionale ha origini secolari e ha rappresentato la base della popolazione operaia cittadina fino alla fine degli anni Cinquanta del Novecento, quando è stata superata in numero dagli afflussi di manodopera provenienti dal Sud Italia (Gribaudi, 1987; Olagnero, 1985). Quando cominciano ad arrivare i meridionali a Torino, questi piemontesi hanno già alle spalle decenni di tradizione migratoria verso il capoluogo regionale e un ben diverso livello di radicamento nel tessuto sociale urbano rispetto ai nuovi arrivati: eredità diverse che, come vedremo, contribuiscono a creare differenze ricche di conseguenze sul lungo periodo. L’arrivo in città: quale quartiere e quale casa Molto è stato scritto intorno al problema dell’alloggio nell’esperienza degli immigrati meridionali, mentre sono stati meno indagati i caratteri dell’insediamento dei piemontesi a Torino nel secondo dopoguerra. La distanza tra le esperienze degli uni e degli altri è profonda. Sappiamo che per chi arrivava dal Sud trovare un appartamento a Torino non era facile: nei primi anni Sessanta il patrimonio immobiliare della città era ancora ampiamente insufficiente ad accogliere la massa di manodopera richiamata dal boom industriale e a ciò si aggiungevano le resistenze di alcuni proprietari ad affittare case alle famiglie meridionali, fatto tra i più radicati nella memoria collettiva di quegli anni. Ciò che intimoriva i padroni degli alloggi era sostanzialmente il rischio di sovraffollamento che intravedevano, perché le famiglie che arrivavano dal Sud erano più numerose e nella fase iniziale della migrazione si adattavano a vivere in molti in poco spazio: piccoli appartamenti potevano accogliere la famiglia nucleare più una serie di altri familiari o conoscenti cui si offriva ospitalità per periodi variabili mentre cercavano un lavoro a Torino. In questa strategia di ospitalità tra compaesani, tutti gli ambienti erano sfruttati al massimo, poiché la parola d’ordine era risparmiare

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sull’affitto. Un testimone nato nel 1951 nella provincia di Bari, oggi operatore ecologico, ricorda il suo arrivo in città nel 1960, l’ospitalità ricevuta da una famiglia di parenti e la difficoltà dei suoi genitori nel trovare una sistemazione autonoma per la famiglia, composta da padre, madre e quattro figli: Una volta arrivati qua, sono venuti a prenderci e siamo andati a casa di mia cugina; qui praticamente sono arrivate quattro persone nuove, più due che ne avevano già [il padre e una sorella di 14 anni arrivati un anno prima ]: non facevamo altro che dare fastidio anche se sono parenti. La casa si riempie, poi le esigenze che hai, loro devono rinunciare a trecentomila cose, all’intimità… […] mi immagino il casino: uno non può andare in bagno, è dura viver tutti insieme. È durata un anno-anno e mezzo. Mio padre dava i numeri, mia madre non ne poteva più. Ha venduto giù per venire su a prezzi stracciati. [Qui non abbiamo trovato prima la casa] perché c’era scritto che non volevano i meridionali e mio padre è arrivato al punto di negare di avere i figli perché non volevano casino.

Sulla dimensione dei nuclei familiari lo scarto tra meridionali e il resto della popolazione cittadina era marcato poiché da tempo i torinesi avevano ridotto drasticamente il numero di figli per coppia, e così le giovani famiglie che arrivavano dal resto del Piemonte (Olagnero, 1985). La quantità di bambini che dal Sud arrivavano a popolare alloggi e caseggiati, con la loro vivacità e la tendenza a trovare sfogo negli spazi comuni come ballatoi e cortili, non mancava di mettere sulla difensiva i condòmini di più vecchio stanziamento (soprattutto perché spesso si trattava di persone più anziane, con pochi figli o con figli già cresciuti) e poteva rappresentare motivo di tensioni tra inquilini (Cingolani, 2012). Le differenze di età tra autoctoni e nuovi arrivati costituiscono un aspetto strutturale delle migrazioni e va tenuto presente per interpretare gli attriti che si creano quando si tratta di condividere degli spazi (Eve et al., 2014). Le difficoltà nell’accedere a un alloggio, soprattutto per i familiari che si ricongiungevano a chi era immigrato per pri-

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mo, portarono molti ad adattarsi a condizioni assai precarie (Fofi, 1976). La Stampa all’epoca dà ampio risalto alle situazioni più misere, come quelle di chi alloggia nelle casermette di Borgo San Paolo e nel casermone di via Verdi, entrambi gestiti dall’ECA (Ente Assistenza per la Casa del Comune di Torino). Nel 1966, quando il Comune annuncia lo sgombero delle due caserme, il quotidiano censisce 133 famiglie in via Verdi (“per un totale di 575 persone, di cui 190 [...] bambini di età inferiore ai 12 anni” e 280 famiglie in Borgo San Paolo “per un totale di oltre 1.500 persone, di cui la metà [...] bambini inferiori ai dieci anni”3. Alcuni articoli arrivano a colpevolizzare le scelte di chi “non ha alcuna ambizione per la casa, e preferisce spendere i denari nel divertimento piuttosto che fare sacrifici per pagarsi una sistemazione decorosa”4. Al di là dei casi limite, l’intero centro storico accoglie immigrati, soprattutto nei sottotetti degli stabili più vecchi, mentre molti nuclei familiari vanno a occupare piccoli appartamenti nei palazzi di ringhiera della vecchia periferia operaia progressivamente lasciati liberi da una popolazione locale che aspira a condizioni abitative migliori. È un processo che emerge dalla memoria dei figli di operai piemontesi intervistati. Uno di loro, Luigi, oggi impiegato contabile, nato nel 1953, descrive con chiarezza il meccanismo di sostituzione tra gli abitanti degli stabili più degradati: L’immigrazione arriva alla fine degli anni Cinquanta, arriva in massa ed è immediatamente conflittuale. Io me la ricordo negli anni Sessanta in un contesto proletario come era la Barriera di Nizza, dove nascono i quartieri… abitati soprattutto da meridionali. Cioè li vediamo arrivare, arrivano. Noi nel frattempo avevamo preso una casa un po’ più bella e le case più brutte le lasciavamo a loro.

È in una di queste vecchie case, situata nel quartiere Regio Parco, che si sistema la famiglia di Carmela alla fine degli 3 “Presto sarà sgomberato il ‘casermone’ di via Verdi”, La Stampa, 4 marzo 1966  in Archivio Istoreto, fondo Enrico Miletto. 4 Ibidem.

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anni Sessanta arrivando da Melfi (madre, padre e tre figlie che raggiungono un figlio operaio immigrato qualche anno prima). All’epoca la testimone ha sei anni e rimane molto colpita dal peggioramento nelle condizioni abitative rispetto a quelle da cui proveniva: fino a quel momento, aveva vissuto in una casa ampia e confortevole, mentre a Torino si ritrova in un alloggio angusto cui fatica ad adattarsi. Non bisogna, infatti, dare per scontato che chi lasciava il Meridione partisse da condizioni residenziali misere. Un effetto ricorrente nelle migrazioni è infatti un peggioramento in questo senso poiché nel periodo iniziale occorre adattarsi a un mercato immobiliare più caro, alla scarsità di appartamenti, alla diffidenza dei proprietari di alloggi verso chi arriva da fuori regione e alla povertà di relazioni su cui è possibile contare per il passaparola e per la mediazione informale. Quando sono venuta qua, mi ricordo... queste case piccoline […] e ‘sti balconi stretti e lunghi [i ballatoi]. Mamma mia che sofferenza! […] Giù (nella casa di Melfi) c’erano le stanze grandi, il cucinone grandissimo avevamo! Qui invece avevamo questa cucina piccola … è stato veramente terribile. Mi ricordo un particolare: per vivere fuori, per non stare in casa, stavamo sempre sul balcone, io e mia sorella.

A cominciare dal problema dell’alloggio, per i meridionali tutto il processo di primo insediamento in città è segnato da difficoltà di vario genere e dalla necessità di trovare strategie di adattamento. La vita delle famiglie era caratterizzata da frequenti traslochi (Ramella, 2011) alla ricerca di progressivi miglioramenti nelle condizioni abitative o di affitto. Ovviamente ciò era legato a un’incertezza nella sfera occupazionale, poiché l’approdo al lavoro operaio stabile, quando si realizzava, era soltanto una tappa avanzata del processo migratorio (Ramella, 2003). La precarietà che caratterizzava le famiglie immigrate aveva ricadute sull’esperienza dei bambini: i frequenti cambi di casa significavano ripetuti sradicamenti e interferivano con il loro adattamento alla nuova realtà.

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L’inserimento a scuola era forse il punto più critico per i piccoli immigrati. L’estrema mobilità di questi nuovi alunni, che arrivavano o abbandonavano la classe nel corso dell’anno in un via vai che interferiva con l’attività didattica, è impressa nelle cronache redatte da maestri e maestre elementari sui registri scolastici durante gli anni degli arrivi in massa5. Si tratta di un punto cruciale per comprendere la differenza nell’esperienza di meridionali o piemontesi figli di immigrati: un simile peregrinaggio attraverso il territorio urbano o metropolitano non sembra avere caratterizzato l’inserimento di chi arrivava dalle più vicine provincie piemontesi. Nei racconti di questi immigrati di corto raggio si fa riferimento a una o al massimo due abitazioni occupate dopo la migrazione e, per lo più, è descritta un’infanzia tranquilla. Se alcuni piemontesi, al loro arrivo, si devono adattare a trascorrere qualche tempo in case vetuste prima di accedere ad alloggi migliori, non mancano famiglie che all’arrivo in città si stabiliscono direttamente in appartamenti di nuova costruzione nei complessi immobiliari che a partire dagli anni Cinquanta sorgono ai margini del centro urbano. Sono innanzitutto le reti di conoscenze di cui i piemontesi possono disporre a Torino a rendere possibile un approdo soft alla grande città. Per loro è meno difficile avere accesso a una casa in affitto, poiché raramente sono privi di referenze sul posto e dunque possono essere raccomandati da qualcuno presso i proprietari di alloggi. Viene da sé che, in virtù di tali reti, gli immigrati di corto raggio dispongono anche di maggiori informazioni sulle soluzioni abitative disponibili e sulla qualità dei vari quartieri. L’itinerario di una famiglia astigiana verso la fine degli anni Cinquanta, descrive chiaramente questo meccanismo e illumina alcuni punti su cui merita riflettere. Osserviamone dunque le tappe salienti.

4 I registri di classe conosultati sono di un complesso scolastico situato in Barriera di Milano.

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Rinaldo, nato negli anni Venti da una famiglia contadina di un piccolo comune astigiano, nell’immediato dopoguerra riesce a farsi assumere come operaio specializzato alle Officine Grandi Riparazioni di Torino (Ferrovie dello Stato) assieme a un fratello. Nel 1947 sposa una compaesana che lavora come sarta in casa e con lei si stabilisce in un appartamento in affitto nella vicina Villanova d’Asti, dove è presente una stazione ferroviaria. Questa soluzione, adottata da molti operai piemontesi originari delle campagne, consente a Rinaldo di fare il pendolare e dunque di evitare la migrazione famigliare in città. Nel 1949 nasce la prima figlia della coppia e nel 1951 la seconda e ultima, Maddalena, di cui abbiamo raccolto la testimonianza. Per alcuni anni la famiglia continua a evitare la migrazione nel capoluogo regionale, fino a quando, nel 1953, si presenta l’occasione di acquistare un alloggio in costruzione in un quartiere nell’area Sud di Torino dove diversi compaesani stavano comprando casa. La scelta di questa famiglia operaia è significativa: si accetta di emigrare in città, ma evitando di passare per il suo vecchio patrimonio immobiliare, che ancora nel 1951 contava quasi la metà di abitazioni prive di latrine interne e appena il 23% dotate di bagno o doccia (Levi e Musso 2004). Per realizzare questo importante passo la coppia investe i risparmi accumulati e accende un mutuo bancario. Per pagarlo si decide di mettere l’alloggio in affitto rimanendo ancora qualche anno in provincia. È nel 1957 che avviene finalmente il trasferimento in città, momento in cui la nostra testimone comincia le scuole elementari. Per questa bambina l’inserimento nel contesto urbano non sembra presentare difficoltà o traumi: nella sua classe sono molte le alunne arrivate dalle varie provincie del Piemonte e dunque non ha motivo di sentirsi in difetto rispetto alle compagne. In virtù del suo buon rendimento, e probabilmente di una condotta impeccabile, in poco tempo conquista la simpatia e la stima della maestra che abita nello stesso quartiere e con cui negli anni manterrà un rapporto di amicizia.

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Se accostiamo questi primi elementi con quelli che emergono dalle vicende dei figli dell’immigrazione meridionale, le differenze appaiono marcate, a cominciare dall’esperienza scolastica. Nei ricordi dei testimoni meridionali l’arrivo nelle scuole di Torino è segnato da un inserimento burrascoso e soprattutto dalla difficoltà di essere accettati dagli insegnanti. Sergio è coetaneo di Maddalena e arriva dalla provincia di Enna a 6 anni. In poche frasi condensa il suo traumatico e brevissimo percorso scolastico a Torino: [Quando arrivavi qui] eri un persona diversa, dai professori, dalle mamme, le torinesi. Per loro, eravamo persone diverse, ignoranti… io ci ho litigato. Ho litigato con gli alunni, il maestro, le mamme. Non mi tenevo le cose, quando uno mi diceva ‘Questo siciliano di merda’, dicevo ancora in siciliano: ‘Di merda sarai tu, tua mamma…’. Reagivo magari malamente, da violento, però era così. Non ti venivano incontro, nel senso ‘aspettiamo, diamo il tempo…’. Niente! Dicevano: ‘Questi ragazzi qui sono tutti maleducati’. Sono andato in seconda, poi ho fatto la terza e l’ho ripetuta due anni, perché poi non andava. La quarta l’ho ripetuta e poi ho lasciato stare.

L’istituzione scolastica reagisce con rigidità di fronte alle difficoltà di adattamento dei bambini immigrati. Chi è irrequieto, o stenta a mettersi al passo con il resto della classe, spesso è retrocesso in classi inferiori, bocciato o inviato alle classi differenziali. Il risultato di simili provvedimenti di massa è di allontanare progressivamente i figli di immigrati meridionali dalla scuola (Aymone, 1972; Quadrio, 1967). Relazioni sociali e aspirazioni Nelle aree urbane in cui alcune famiglie piemontesi riescono a stabilirsi, più periferiche rispetto al vecchio e degradato centro cittadino dove approdano i meridionali, la composizione di classe appare più mista e accanto alla com-

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ponente operaia non manca la presenza del ceto medio. Nei ricordi d’infanzia di alcuni testimoni gli immigrati dal Sud non sono presenti. Piera, nata nel 1951 da madre cuneese e padre astigiano, è un’impiegata in pensione che ha trascorso l’infanzia a San Salvario e riferisce di non aver avuto contatti con meridionali fino agli anni delle scuole superiori. È sua convinzione che fino alla fine degli anni Sessanta non ci fossero molti meridionali in città. Eppure, a qualche isolato di distanza dalla sua abitazione, i vecchi caseggiati intorno a Porta Nuova ne alloggiavano molti e la stazione stessa era uno dei principali luoghi di ritrovo e scambio d’informazioni per gli immigrati recenti. La testimone è cosciente che nella parte del quartiere in cui abitava fosse prevalente una popolazione di condizioni più agiate che ci teneva a mantenere le distanze con i nuovi arrivati: Non ricordo bambini meridionali nella mia infanzia. Ricordo che nel mio palazzo c’era il cartello: “non si affitta ai meridionali” quello lo ricordo! […] la parte brutta di San Salvario, brutta o comunque più degradata, quindi con fenomeni di questo tipo, era quella verso Porta Nuova. Noi abitavamo vicino a corso Dante quindi Valentino vecchio, Torino Esposizioni, che era già la parte un po’ più nobile di San Salvario.

Il padre di Piera è operaio specializzato alla Fiat Grandi Motori e la madre aveva lasciato il lavoro da operaia tessile dopo la nascita delle tre figlie. La casa in cui la famiglia risiede in affitto è in uno stabile degli anni Venti, ha una superficie di 60 metri quadri e i servizi interni; tutti gli altri condòmini sono persone anziane e il regolamento condominiale vieta il gioco dei bambini nel cortile. La scelta di famiglie operaie piemontesi come questa di vivere in un’area della città anziché in un’altra è indicativa della percezione che esse hanno della propria posizione sociale: il mondo operaio di cui si sente di fare parte è distante da quello che all’epoca stanno costituendo i nuovi arrivati dal Sud e ciò si deduce anche da una serie di altre scelte.

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Ad esempio, le strategie riproduttive delle coppie piemontesi, orientate a ridurre il numero di figli, suggeriscono un progetto di mobilità sociale specifico: si “investe” in una famiglia di piccole dimensioni con l’idea di accedere a stili di vita propri della classe media, e forse di preparare il passaggio di classe attraverso i percorsi dei figli. La casa nuova e di proprietà, per la quale si è disposti a contrarre un debito di lunga durata, è un elemento che differenzia le strategie di queste famiglie da quelle meridionali, molto più restie a rivolgersi alle banche e molto più caute (per i primi anni a Torino) nel fare progetti economici di lungo periodo. Anche il fatto di trascorrere le vacanze in località di villeggiatura non legate ai luoghi di origine rientra, negli anni Sessanta, in un modello di spesa e consumo più borghese che operaio (i meridionali durante le ferie tendono a recarsi nei comuni di provenienza presso i parenti). Ma il punto centrale di queste strategie familiari sembra essere proprio l’ambizione nei confronti dei figli: seppur con diverse sfumature, la tendenza generale è di proiettarli verso un lavoro salariato non manuale6 e in tale progetto la scuola occupa un ruolo centrale. Gli studi che hanno indagato il crescente peso della scuola negli strati popolari francesi tra gli anni Trenta e gli anni Sessanta del Novecento individuano un passaggio da una vita vissuta “giorno per giorno” a un’esistenza programmata sul lungo periodo, reso possibile dal miglioramento delle condizioni di vita, dalla stabilità economica e dall’allungamento delle speranze di vita (Terrail, 1984). Si acquisisce cioè una maggiore capacità di controllo sulle proprie esistenze che si accompagna a un’attitudine pianificatrice nella sfera familiare, residenziale, e a volte scolastica (Périer, 2005). È forse questo uno dei punti che differenziano le famiglie arrivate dal Piemonte da quelle provenienti dal Sud Italia: la mancanza di certezze e di stabilità di queste ultime, che si protrae per anni dopo l’arrivo a Torino, impedisce di fare progetti 5 Per la classe operaia francese questa tendenza è rilevata da Beaud e Pialoux (1999).

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tanto organici e ambiziosi. Si procede piuttosto per gradi, cercando di affrontare una alla volta le priorità familiari. Al di là della constatazione di una più rapida acquisizione di una stabilità economica da parte delle famiglie piemontesi, altri elementi contribuiscono a spiegare la formazione di simili aspirazioni di mobilità sociale, a cominciare dalle reti sociali. Le frequentazioni di madri e padri piemontesi sono soprattutto legate ai compaesani immigrati in città, o a quelli rimasti al paese. La distanza ridotta consente, infatti, viaggi frequenti nei luoghi di origine e il mantenimento di molti legami che si avevano prima di emigrare. Per questi immigrati di corto raggio si tratta di rapporti che, in virtù della lunga tradizione migratoria verso Torino, possono servire da ponte per l’accesso a informazioni e risorse in città. Ad esempio, alcuni familiari potevano aver abitato e lavorato nel capoluogo nel periodo tra le due guerre, per poi rientrare dopo qualche anno al paese. È forse proprio tale circolazione tra la campagna e la città e viceversa a rappresentare uno degli aspetti più specifici della migrazione di breve distanza – dalla regione al capoluogo. Con questi precedenti Torino non rappresentava un luogo totalmente nuovo e sconosciuto, ma probabilmente si avevano informazioni sufficienti per sapere come muoversi, a cosa aspirare e cosa evitare. Se pensiamo agli itinerari tipici dei meridionali che approdano a Torino, la differenza è netta: il primo periodo dopo l’arrivo in città è tutta un’esplorazione di un mondo su cui si hanno informazioni molto parziali (Ramella, 2003). Ci si muove per tentativi ed errori, si fanno esperienze occupazionali molteplici e a volte si cambia alloggio o lavoro dalla sera alla mattina, seguendo le indicazioni che arrivano da nuove conoscenze. Come si è già ricordato, quasi sempre, per i meridionali, l’ingresso nel mercato del lavoro torinese avviene attraverso le occupazioni manuali più periferiche e precarie e l’approdo alla grande fabbrica, quando c’è, è il punto di arrivo di una serie di passaggi da un lavoro all’altro alla costante ricerca di un miglioramento. L’orizzonte cui

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questi immigrati guardano al loro arrivo in città è quello del lavoro stabile, che rappresenta già un netto miglioramento sociale rispetto al lavoro intermittente che molti avevano nelle campagne del Mezzogiorno. Con il tempo probabilmente aumenta la cognizione della struttura occupazionale urbana, ma dalle testimonianze raccolte non sembra che tra i genitori immigrati dal Sud si diffonda con la stessa intensità la fiducia che i figli possano abbandonare il lavoro manuale: cosa ci sia al di là della condizione operaia, e come ci si possa arrivare, rimane per lo più qualcosa di indefinito e che forse si percepisce come troppo distante per sperare di accedervi7. Molte famiglie conservano a lungo l’angoscia di rimanere improvvisamente senza reddito, o di rivivere la precarietà economica vissuta dopo l’arrivo a Torino, e quindi non si avventurano per strade che non sanno dove portino (Périer, 2005). Forse per questo alcuni si convincono “dell’inutilità di far studiare i figli: meglio puntare sul lavoro, sul reddito subito, senza pericolosi e prolungati intervalli scolastici” (Lerner, 2010, p. 60). Non possiamo tuttavia affermare che i meridionali non sognassero di vedere i loro figli diplomati o laureati. Diversi testimoni, soprattutto maschi, hanno cominciato le scuole superiori con il sostegno delle proprie famiglie. Ciò che accade, però, è che spesso si ritrovino impreparati a causa dei percorsi scolastici accidentati che hanno alle spalle. Di fronte alle prime difficoltà questi ragazzi non trovano nelle famiglie la stessa determinazione di quelle piemontesi a far sì che portino a termine il percorso intrapreso. Una bocciatura nel primo anno è sufficiente a convincere i genitori che il figlio “non sia fatto per continuare gli studi” (Périer, 2005).

6 Un discorso a parte va fatto per il lavoro in proprio, che per gli immigrati meridionali ha rappresentato la via più percorribile di mobilità sociale. Si esce però dal recinto del lavoro sicuro e della stabilità e infatti molti tentativi hanno esiti fallimentari e costringono a ritornare al lavoro dipendente. Ciò che più conta però, ai fini della nostra riflessione, è il fatto che questo tipo di strada per la mobilità sociale non preveda necessariamente percorsi di studio più lunghi per i figli.

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Diverso appare l’inserimento dei genitori piemontesi nel mondo operaio torinese. Grazie ai contatti su cui molti possono contare, per molti di loro non c’è la necessità di cominciare la carriera operaia dal basso in città, ma si entra direttamente in un posto di lavoro stabile, che permette in pochi anni di pensare all’acquisto di un appartamento nuovo attraverso la contrazione di un mutuo. Le interviste ai figli di piemontesi mostrano come fossero più frequenti i contatti dei genitori con persone di classe media e la frequentazione di questi mondi sociali, dove è normale che i figli raggiungano traguardi di studio elevati, ha probabilmente un peso nella formazione degli orizzonti familiari (Maher, 2007) e sulle aspirazioni nei confronti dei figli. Padri e madri piemontesi dei nostri testimoni, infatti, pur non essendo andati oltre la licenza elementare, non avevano dubbi sul fatto che i figli dovessero continuare gli studi almeno fino al diploma. Un orizzonte lontanissimo da quello dei genitori di molti testimoni meridionali, che sembrano presi da altre preoccupazioni per i loro figli. Alcune testimoni raccontano di avere manifestato il desiderio di iscriversi alle superiori dopo la fine della scuola media, ma di essersi imbattute in un rifiuto da parte delle famiglie. L’indicazione di queste è per molte quella di cercare un lavoro. Ciò accade soprattutto quando le relazioni di padri e madri sono circoscritte al ristretto mondo di immigrati. Per le donne meridionali non bisogna sottovalutare la difficoltà di entrare a fondo nella società locale quando emigrano da adulte senza molte relazioni che facciano da ponte tra il luogo di origine e il nuovo contesto sociale. Chi si immette nel mercato del lavoro industriale ha molte probabilità di vedere le proprie relazioni confinate al mondo operaio e immigrato. Oltre alla socialità legata alla sfera lavorativa, un peso centrale nella formazione delle aspirazioni dei genitori nei confronti dei figli può essere esercitato dalle relazioni legate alla parentela. È sufficiente avere in famiglia l’esempio di uno zio o di un cugino “che è uscito dalla condizione operaia” per credere nella realizzabilità di un simile progetto (Gribaudi,

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1987; Terrail, 1984). Gli esempi di questo tipo erano probabilmente più frequenti nel mondo degli operai piemontesi che appare più diversificato al suo interno. Guardando alle relazioni in cui sono immersi i figli di piemontesi, abbiamo modo di notare come anche i rapporti tra bambini e adolescenti possano giocare un peso nell’orientare i percorsi futuri. Chi, attraverso la scuola, entra in contatto con le classi alte cittadine più facilmente elabora progetti di proseguimento degli studi. Per una serie di meccanismi che in parte abbiamo tentato di mettere in luce, non sembra azzardato ipotizzare che ci fosse una permeabilità maggiore tra la classe operaia piemontese (o una parte di essa) e le classi sociali superiori di quanto non accadesse per il mondo operaio dei meridionali. Le poche conoscenze su cui potevano contare questi ultimi al loro arrivo erano per lo più confinate a un mondo sociale e occupazionale omogeneo dal quale era difficile uscire. La scelta dei quartieri di abitazione ha un peso nel creare maggiori o minori possibilità di mescolanza sociale. Rispetto alle famiglie di operai meridionali, le analisi sui dati del SLT hanno mostrato per gli operai piemontesi una distribuzione molto più uniforme sul territorio cittadino, senza la forte concentrazione in zone popolari abitate in gran parte da famiglie immigrate: “Sembra probabile insomma che il figlio di un piemontese, anche se operaio, tendesse a crescere in un quartiere dove non mancavano persone che potevano rappresentare un modello di altre possibilità rispetto alla vita di fabbrica” (Eve et al., 2014, p. 18). Mantenimento delle distanze e strategie educative Anche quando piemontesi e meridionali condividono gli stessi quartieri e gli stessi ambienti di lavoro una certa distanza tra queste due componenti della classe operaia sembra mantenersi al di là della prossimità spaziale (Elias e Scotson, 1994). I dati sui matrimoni delle seconde generazioni con-

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tribuiscono a confermare questa tendenza mostrando come siano minoritarie le coppie “miste” formate da meridionali e piemontesi (Badino, 2012). Come si mantiene tale distanza? Ancora una volta appaiono cruciali le strategie dei genitori rispetto all’educazione dei figli. Le strategie di distinzione messe in atto da una parte delle famiglie piemontesi nei confronti degli ultimi arrivati non si riducono alla scelta del quartiere di abitazione. Diverse aree della città infatti rimangono piuttosto miste dal punto di vista dell’origine geografica, come nel caso dell’enorme quartiere di Barriera di Milano, di Regio Parco o di molte aree del centro storico. Qui è frequente che piemontesi e meridionali condividano gli stessi stabili, ma ciò non significa che i due mondi sociali si fondessero con facilità. Le relazioni di vicinato potevano essere molto limitate e dunque non condurre a un vero scambio tra meridionali e piemontesi. Inoltre, i luoghi della socialità, soprattutto maschile, tendevano probabilmente a rafforzare una certa segregazione in base all’origine territoriale (Cingolani, 2012). Possiamo effettivamente immaginare che bar, bocciofile, o circoli politici frequentati da piemontesi fossero poco misti e d’altra parte i figli di questi che abbiamo intervistato non ricordano tra le amicizie strette dei padri o delle madri persone di origine meridionale. Difficilmente un collega meridionale varcava la soglia di casa. Tale separazione si traduce anche nella scelta dei modelli educativi adottati nei confronti dei figli. Le uscite sono centellinate e concesse solo sotto la supervisione di un adulto: si va al parco accompagnati dai genitori o dai nonni, oppure all’oratorio, ambiente considerato sicuro. “Eravamo abbastanza blindati in casa”, ci riferisce un testimone nato nel 1955 e cresciuto in uno stabile di via Mazzini, figlio di un operaio specializzato e di una casalinga. Oppure si invitano i compagni di scuola a casa. La tendenza delle famiglie piemontesi è di scegliere per i figli luoghi di gioco protetti, per evitare la strada e i suoi potenziali pericoli. Il gioco nel cortile di casa è più raro spesso per via dei regolamenti condominiali dei caseggiati meno popolari.

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Racconta una testimone del suo condominio nella parte borghese di San Salvario: “rispetto alle case di ringhiera era già una casa più su: aveva i servizi… Il cortile c’era ma non si poteva assolutamente andare, non si poteva fare schiamazzi, bisognava essere molto silenziosi.” Non siamo in grado di ricostruire un quadro preciso dei luoghi in cui bambini piemontesi e meridionali trascorressero il loro tempo extrascolastico. A seconda delle disponibilità di oratori o parchi pubblici vicino casa probabilmente i genitori adottavano strategie diverse. Disponiamo però di alcuni indizi che ci permettono di formulare delle ipotesi. Nei registri di classe che abbiamo consultato, le maestre accusano i genitori meridionali - e solo raramente quelli piemontesi - di non vegliare a sufficienza sui propri figli e di lasciarli troppo liberi di scorrazzare per le strade, invece di tenerli in casa a fare i compiti. Applicando al nostro caso modelli già osservati in altre realtà, come i quartieri popolari francesi degli anni Novanta, possiamo ipotizzare che i modelli educativi adottati dai piemontesi a Torino tendessero a differenziarsi da quelli degli immigrati arrivati dal Sud per reazione, soprattutto nel controllo dei figli piccoli (Périer, 2005). È raro che a questi bambini fosse lasciata la libertà di giocare fuori dal controllo degli adulti. Il problema si pone soprattutto nel caso di figli maschi perché sono principalmente loro a dover essere preservati “dalle amicizie di strada”, cioè il tipo di socialità che caratterizza la crescita dei figli di meridionali a Torino e che contribuisce ad allontanarli dalla scuola. Le relazioni tra ragazzini di età diverse e i valori che predominano in questo tipo di contesto giocano a favore di un ingresso precoce nel mondo del lavoro e nell’età adulta, mentre fanno sembrare poco allettante un percorso scolastico lungo che procrastina il momento dell’indipendenza dai genitori. Le famiglie piemontesi sembrano avere piena coscienza di tale meccanismo e per questo tengono i figli sotto più stretta osservazione. Non si vuole con ciò affermare che le famiglie meridionali agissero nell’inconsapevolezza. Il discorso è più complesso e riguarda, ancora una volta, gli

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orizzonti dei genitori. Il fatto di vedere i propri figli spinti verso il lavoro precoce per alcuni poteva rappresentare un fatto positivo, poiché al lavoro era attribuito un fondamentale valore educativo, capace di far transitare i giovani verso l’età adulta maturando un senso di responsabilità e allontanandosi dal rischio di comportamenti devianti (Basile, 2014). Per le famiglie piemontesi era invece prioritario che i figli portassero a termine il percorso di istruzione che avevano previsto per loro, che, nella maggior parte dei casi comprendeva il raggiungimento del diploma. Come si è detto, questa differenza nei modelli educativi riguarda soprattutto i figli maschi. Per le femmine occorre tenere conto di altri fattori. Se tradizionalmente a tutte le figlie di famiglie popolari era richiesto di aiutare le madri nelle faccende domestiche, nelle famiglie provenienti dal Sud questa consuetudine assumeva un peso particolare. Si tratta infatti di famiglie con un alto numero di figli, rispetto a quelle piemontesi, ma nelle quali sono quasi sempre assenti le figure dei nonni. In tale situazione, le madri dovevano delegare molte delle loro funzioni di assistenza e cura alle figlie più grandi. Il tempo libero di queste bambine da spendere all’esterno della sfera domestica era dunque molto limitato, se non inesistente. Un altro terreno su cui agire per “mantenere le distanze” con la componente più povera della classe operaia cittadina è la scelta della scuola per i figli (Van Zanten, 2009). Molte famiglie operaie si rivolgono allora alla scuola privata, che garantisce la frequentazione di un mondo sociale selezionato. Ezio, nato nel 1954, figlio unico di una ex operaia tessile che lavora come domestica a ore e di un rappresentante di vini e liquori, dopo i primi tre anni di scuola elementare pubblica nel quartiere di Borgo San Paolo, si vede trasferito dai genitori alle scuole salesiane, assieme a un gruppo di compagni. La scuola è molto più lontana e austera rispetto a quella precedente, ma garantisce probabilmente un ambiente più tranquillo e un doposcuola tutti i pomeriggi. In questo modo anche Ezio, come altri figli di piemontesi, trascorre gli

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anni dell’infanzia e dell’adolescenza senza entrare in contatto con l’immigrazione meridionale. L’idea dei genitori era che la scuola privata insegnasse meglio e di più rispetto a quella pubblica e ciò indica un interesse specifico della coppia alla qualità dell’insegnamento, nell’ambito di un progetto scolastico che fin dall’inizio non prevede la conclusione degli studi con il solo assolvimento dell’obbligo. Una simile attenzione, e apprensione, per la scuola dei figli, è meno diffusa nelle famiglie meridionali. Epilogo Gli sforzi compiuti dai genitori piemontesi per garantire un futuro non operaio ai propri figli sembrano aver avuto il risultato di proiettarli in posizioni del mercato del lavoro che negli anni si sono mantenute più al riparo dai processi di deindustrializzazione. Quando le fabbriche grandi e piccole cominciano a espellere la manodopera, sono soprattutto i figli dei meridionali a ritrovarsi di fronte alla perdita del lavoro e alla difficoltà di doversi ricollocare in età avanzata. Una ricerca condotta a metà degli anni Duemila sulle persone in mobilità o in cassa integrazione a Torino (Avonto et al., 2007) ha messo in luce la fragilità di questi lavoratori manuali che non avevano titoli di studio da spendere nel nuovo mercato del lavoro. Il passaggio dalla sicurezza del vecchio posto in fabbrica (tutelato da contratti nazionali collettivi) al nuovo sistema di contratti “atipici” brevi o brevissimi, spesso nel mondo delle ditte in subappalto, è per molti traumatizzante. Chi è vicino alla pensione può decidere di ritirarsi dal lavoro, ma i più giovani sono obbligati a rimettersi in gioco, accettando condizioni di lavoro molto al di sotto degli standard cui erano abituati. È quasi un ritorno a quel peregrinaggio nel mercato del lavoro di Torino vissuto dai genitori al momento dell’arrivo in città, ma con una differenza profonda: i tempi sono cambiati e le speranze di approdare nuovamente a un’occupazione stabile non sono quelle degli anni Sessanta.

Mondo operaio e disuguaglianze 245

L’analisi che abbiamo proposto vuole essere un contributo alla comprensione dei meccanismi che, nei decenni, hanno contribuito a plasmare la società torinese e ad attribuirle la fisionomia attuale. Se oggi ampi strati della popolazione urbana soffrono gli effetti dei profondi cambiamenti strutturali che hanno travolto Torino e faticano a vedere vie d’uscita è in parte dovuto alla storia migratoria della città negli anni del Boom, alla quale dopo gli anni Ottanta si è prestata progressivamente minore attenzione forse perché le migrazioni interne e le loro conseguenze di lungo periodo sono state oscurate dal nuovo fenomeno degli arrivi dall’estero.

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Gli autori

Anna Badino è assegnista di ricerca all’Università di Firenze, dove insegna storia della famiglia e di genere. Tra 2004 e 2013 ha svolto attività di ricerca nelle università di Torino e del Piemonte Orientale e successivamente presso l’Université d’Aix-Marseille. I suoi studi vertono sulle trasformazioni sociali del secondo dopoguerra in rapporto ai movimenti migratori degli anni Cinquanta e Sessanta. È autrice di Tutte a casa? Donne tra migrazione e lavoro nella Torino degli anni Sessanta (Viella, 2008) e di Strade in salita. Figlie e figli dell’immigrazione meridionale al Nord (Carocci, 2012). Magda Bolzoni è dottore di ricerca in Sociologia e si occupa di migrazioni, inclusione/esclusione sociale e trasformazioni urbane, spesso in combinazione tra loro e principalmente con un approccio qualitativo ed etnografico. Ha svolto periodi di ricerca e studio in Olanda, Sud Africa e Giappone e collabora con il Dipartimento di Culture, Politica e Società dell’Università di Torino. Tra le sue pubblicazioni, Il reddito di base (Ediesse 2016, con E. Granaglia) e “Spaces of distinction, spaces of segregation. Nightlife and consumption in a central neighbourhood of Turin” (Méditerranée, 2016). Carlo Capello è ricercatore di Antropologia Culturale presso il Dipartimento di Filosofia e Scienze dell’Educazione

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dell’Università di Torino. Si è occupato di migrazioni transnazionali e di antropologia della persona e da alcuni anni si dedica a una lettura antropologica della disoccupazione e del neoliberismo. Tra le sue ultime pubblicazioni: Antropologia della persona. Un’esplorazione (FrancoAngeli, 2016) e “Rituali neoliberali. Uno sguardo antropologico sui servizi per la ricerca attiva del lavoro” (Etnografia e Ricerca Qualitativa, 2, 2017). Pietro Cingolani è dottore di ricerca in Antropologia e assegnista presso l’Università degli Studi di Torino. Ha collaborato con LDF, Laboratorio dei diritti Fondamentali, e dal 2003 è ricercatore presso FIERI, Forum Internazionale ed Europeo di Ricerche sull’Immigrazione. I suoi interessi di ricerca spaziano dall’antropologia delle migrazioni, all’etnografia urbana, al transnazionalismo, allo studio della mobilità delle popolazioni Rom. Tra le sue pubblicazioni si ricordano Romeni d’Italia (Il Mulino, 2009), Etnografia delle migrazioni (Carocci, 2014, con Capello e Vietti), e La salute come diritto fondamentale: esperienze di migranti a Torino (Il Mulino, 2015, con Castagnone, Ferrero, Olmo e Vargas). Silvia Crivello, dottore di ricerca in Pianificazione Territoriale e Sviluppo Locale, è ricercatrice in Sociologia del Territorio presso il Dipartimento Interateneo di Scienze, Progetto e Politiche del Territorio del Politecnico di Torino. Docente di Sociologia Urbana e Sociologia dell’Ambiente, si occupa prevalentemente di spazio urbano, politiche di sviluppo culturale e sostenibilità ambientale.  Fra i suoi lavori più recenti, “Political ecologies of a waste incinerator in Turin” (Cities, 2015), “Urban policy mobilities: the case of Turin as a smart city” (European Planning Studies, 2015), “Il senso del luogo fra trasformazione e autenticità: il caso di via del Campo a Genova” (Sociologia Urbana e Rurale, 2017). Nicola De Martini Ugolotti, psicologo clinico, antropologo medico, è docente in Sport e Studi Culturali del Corpo all’Università di Bournemouth, ed è membro dell’Associazio-

Gli autori 267

ne Frantz Fanon di Torino. La sua ricerca interdisciplinare guarda agli usi del corpo e delle pratiche corporee negli spazi cittadini come strumento di lettura dei processi di inclusione/ esclusione e trasformazione sociale su scala urbana. I suoi lavori sono stati pubblicati su Leisure Studies, Patterns of Prejudice ed altre riviste accademiche in lingua inglese. Raffaella Ferrero Camoletto è Professoressa Associata in Sociologia dei processi culturali e vice-presidente del Corso di Laurea magistrale in Sociologia presso l’Università di Torino. I suoi principali campi di interesse riguardano genere e corpo, con due ambiti di ricerca: la costruzione sociale di genere e sessualità, con una particolare attenzione a maschilità e sessualità; e l’uso del corpo e dello spazio nelle pratiche sportive della tarda modernità. Tra le sue pubblicazioni più recenti: con C. Genova, “Riscrivere la città. Pratiche sportive alternative e territorio urbano” (Geotema, 54, 2017) e, con D. Sterchele, A. Bognogni, S. Di Gennaro, “Undisciplined spaces: lifestyle sports and sport-for-all policies in Italy”, in D. Turner, S. Carnicelli-Filho (eds), Lifestyle Sports And Public Policy, (Routledge, 2015). Carlo Genova è ricercatore in Sociologia dei processi culturali presso l’Università di Torino. I suoi principali campi di interesse riguardano le culture giovanili, l’analisi sociale dello spazio, la sociologia interpretativa. Le sue ricerche più recenti si sono in particolare concentrate su fenomeni quali graffiti, skateboard, parkour. Tra le sue ultime pubblicazioni inerenti a tali temi: “Negli occhi e nelle gambe. Usi e rappresentazioni dello spazio nelle nuove culture sportive urbane”, (Rivista geografica italiana, n. 124, 2016), e con Ferrero Camoletto R., Sterchele D, “Managing alternative sports. Governing bodies and the diffusion of Italian parkour”, (Modern Italy,  n. 3, 2015). Marco La Rocca è laureato in International Relations and Spanish presso la University of Sussex di Brighton (Re-

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TORINO

gno Unito); ha poi conseguito la Laurea Magistrale in Scienze del Governo e dell’Amministrazione presso l’Università di Torino. I suoi interessi di ricerca si concentrano principalmente sui processi di gentrification e sul rapporto tra lo spazio urbano e le questioni relative ai generi, alle sessualità e alla popolazione Lgbtq, con particolare attenzione alle specificità dei casi italiani. Al momento sta completando il suo Dottorato in Urban Studies presso il Gran Sasso Science Institute (Gssi) di L’Aquila, con una tesi sulle spazialità Lgbtq a Roma. Giovanni Semi è Professore Associato di Sociologia Generale presso il Dipartimento di Culture, Politica e Società dell’Università di Torino. Si è occupato di migrazioni internazionali, analisi delle classi sociali, metodologia della ricerca e trasformazioni urbane, usando principalmente un approccio etnografico. Tra i suoi lavori, Osservazione partecipante. Una guida pratica (Il Mulino 2010), Gentrification. Tutte le città come Disneyland? (2015). Francesco Vietti è assegnista di ricerca presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Si occupa di turismo, migrazioni, patrimonio culturale e trasformazione urbana. Ha svolto ricerche sul campo nei paesi dell’ex Unione Sovietica, nei Balcani e a Torino. Tra le sue pubblicazioni: Il paese delle badanti (Meltemi, 2010), Hotel Albania (Carocci, 2012), Etnografia delle migrazioni (Carocci, 2014, con Carlo Capello e Pietro Cingolani).

Biblioteca / Antropologia 1 2 3 4 5

Marco Aime, Fuori dal tunnel. Viaggio antropologico nella val di Susa Tim Ingold, Ecologia della cultura David Le Breton, La pelle e la traccia. Le ferite del sé David Le Breton, Antropologia del dolore Massimo Canevacci, La linea di polvere. La cultura bororo tra tradizione, mutamento e auto-rappresentazione 6 Marc Augé, Perché viviamo? 7 Ferdinando Fava, In campo aperto. L’antropologo nei legami del mondo 8 Bruno Latour, Il culto moderno dei fatticci 9 Franco La Cecla, Jet-lag. Antropologia e altri disturbi da viaggio 10 Francesca Nicola, Supermamme e superpapà. Il mestiere di genitore fra gli Usa e noi 11 Jean-Loup Amselle, Il museo in scena. L’alterità culturale e la sua rappresentazione negli spazi espositivi 12 Valentin Y. Mudimbe, L’invenzione dell’Africa 13 Ng ˜ug ı˜ wa Thiong’o, Spostare il centro del mondo. La lotta per le libertà culturali 14 Michael Taussig, La bellezza e la bestia. Il fascino perverso della chirurgia estetica 15 Jean-Loup Amselle – Elikia M’Bokolo, L’invenzione dell’etnia 16 Paolo S. H. Favero, Dentro e oltre l’immagine. Saggi sulla cultura visiva e politica nell’Italia contemporanea 17 Stefano De Matteis, Le false libertà. Verso la postglobalizzazione 18 Zaira Tiziana Lofranco – Antonio Maria Pusceddu (a cura di), Oltre Adriatico e ritorno. Percorsi antropologici tra Italia e Sudest Europa 19 Marjorie Shostak, Nisa. La vita e le parole di una donna !kung 20 Luisa Accati, Apologia del padre. Per una riabilitazione del personaggio reale 21 Harold Barclay, Senza governo. Un’antropologia dell’anarchismo 22 Jonathan Friedman, Politicamente corretto. Il conformismo morale come regime

Finito di stampare nel mese di xxx 2018 da Digital Team – Fano (PU)