Tommaso d’Aquino 9788877185785

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Tommaso d’Aquino
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MAESTRI DEL PASSATO GESÙ di Humphrey Carpenter MARX di Peter Singer PASCAL di Alban Krailsheimer DANTE di George Holmes TOMMASO n'AQUINO di Anthony Kenny HuME di A.J. Ayer

In preparazione GALILEO di Stillman Drake OMERO di Jasper Griffin BACONE di Anthony Quinton

TOMMASO D'AQUINO di

ANTHONY KENNY Traduzione dall'inglese di Anna Colombo

MILANO

DALL'OGLIO, EDITORE

Titolo dell'opera nell'edizione originale AQUINAS OXFORD UNIVERSITY PRESS

·© Anthony Kenny 1980 © dall'Oglio editore 1980 CL 01-0191-5

Prefazione

Questo è un libro su Tommaso d'Aquino visto come filosofo: è scritto per lettori che possono non condividere i suoi interessi teologici e la sua fede. Oltre i commenti ad Aristotele, Tommaso poco scrisse di carattere esplicitamente filosofico; ma le sue opere teologiche, e specialmente il suo capolavoro, la Summa Theo/ogiae, esprimono concezioni filosofiche, per cui merita d'essere considerato uno dei grandi filosofi dell'umanità. Il libro è diviso in tre capitoli: il primo tratta della vita e delle opere dell'Aquinate, valutandone il significato per la filosofia contemporanea; il secondo è uno schizzo dei concetti piu importanti del suo sistema metafisico; esso include una discussione di quella dottrina dell'Essere, che è uno degli elementi pili famosi, ma anche dei pili sopravvalutati, della sua filosofia. Il terzo capitolo è dedicato alla filosofia della mente (psicologia filosofica) dell'Aquinate, che è meno nota, ma assai piu meritevole di studio. Una nota bibliografica conclude il libro. Molto devo al professor A. C. Lloyd e al dottor H. Hardy, per i loro commenti a un abbozzo di questo libro, e alla signora M. Bugge per aver battuto a macchina il manoscritto.

Bai/io! 31gennaio1979

Abbreviazioni

Per le opere di Tommaso d'Aquino, ho usato le seguenti abbreviazioni: C De virtutibus in communi (Sulle virtu in generale), Roma, 1953. E De Ente et essentia (Sull'Essere e sull'essenza), a cura di 1. Baur, Munster, 1933. G Summa contra Gentzfes (Manuale contro gl'infedeli), tradotta in inglese col titolo: Sulla verità della fede cattolica (19 5 5), da A. C. Pegis e da al. tri. È qui citata coll'indicazione del libro e del capitolo. H In !ibros Peri Hermenéias (Sui libri [d'Aristotele] sull'interpretazione), a cura di R. M. Spiazzi, Torino, 1955. M In XII libros Metaphysicorum (Sui 12 libri [d'Aristotele] sulla metafisica), a cura di R. M. Spiazzi, Torino, 1950. P Quaestiones disputatae de Potentia Dei (Questioni discusse sulla Potenza di Dio), a cura di R. M. Spiazzi, Torino, 1949. Q Quaestiones quodlibetales (Questioni estemporanee), a cura di R. M. Spiazzi, Roma, 1949. S Summa Theologiae (Sommario di teologia), tradotta in inglese, col testo latino a fronte e commento, in sessanta volumi, dal 1963 al 1975. Alcune parti sono tradotte magistralmente. È qui citata, solitamente, coll'indicazione di: parte, questione, articolo e, nel caso, obbiezione o replica. Cosi «I-II 3 2 ad 2 » significa: replica alla seconda 6

obbiezione nel secondo articolo della terza questione della prima parte della Seconda Parte (v. oltre, a pag. 34). V Quaestiones disputatae de Ventate (Questioni discusse sulla Verità), a cura di R. M. Spiazzi, Torino, 1949. Le traduzioni date nel testo sono in genere mie, sebbene riconosca d'aver consultato con profitto le traduzioni altrui. N. d. T. Vari termini sono da intendere nel senso filosofico, aristotelico o medievale: cosi, Scolastico, Scolastica (per cui uso a bella posta la maiuscola), gli universali (sost.), forma e informare, potenza e atto, attualità, attualizzazione, accidente. Data l' esistenza, nella presente collana, d'un volume su Dante filosofo, mi sorio astenuta dai continui rimandi a Dante, che sarebbero di rigore.

1. Vita

Verso l'inizio del 1225 nacque nel castello di Roccasecca vicino a Napoli Tommaso d'Aquino, settimo figlio del conte Landolfo, del grande casato feudale d'Aquino. Appena dieci anni prima il re Giovanni d'Inghilterra aveva firmato la Magna Charta a Runnymede, e lo spagnuolo Domenico di Guzman era andato a Roma a fondarvi il suo Ordine di frati predicatori. In grande misura l'Europa, incluse le nazioni che ora formano la Gran Bretagna, la Francia, la Germania e l'Italia, faceva parte d'una sola cultura latina, nella quale le istituzioni piu potenti erano il Sacro Romano Impero e la Chiesa cattolica. Quest'Europa latina, limitata in Spagna dalla cultura islamica di Granata, e nei Balcani dall'impero greco di Bisanzio, manteneva in Asia una colonia molto precaria, nel regno crociato di Gerusalemme. L'imperatore Federico II governava dalla Germania alla Sicilia, e sbalordiva i contemporanei colla vastità cosmopolitica dei suoi interessi: le sue ambizioni cozzavano con quelle d'una sequela di papi, e facevano dell'Italia dell'inizio del Duecento il teatro d'un conflitto pervicace. All'età di cinque anni, Tommaso fu mandato dal padre alla grande abbazia benedettina di Montecassino: monastero che era anche un fortilizio, sulla frontiera tra il regno di Napoli di Federico II e lo Stato pontificio. Vi fu accolto come oblato [offerto a Dio]: cioè, non come un monaco ancora bambino, ma con maggiore prospettiva che avrebbe pronunciato i voti monastici, di quella che ha ora un alunno di 8

un seminario benedettino. Dopo nove anni di studi elementari, li dovette interrompere per l'occupazione militare dell'abbazia, nel corso d'una contesa tra Papa e Imperatore; e dopo un breve soggiorno a casa, fu mandato all'università di Napoli, fondata circa quattordici anni prima da Federico, per contrapporla all'università papale di Bologna. Li, egli studiò le sette arti liberali di grammatica, logica, retorica, aritmetica, geometria, musica e astronomia; tra le quali logica e astronomia l'iniziarono alla filosofia, colla lettura dei trattati di logica d'Aristotele insieme coi commenti di studiosi pili recenti, e coll' insegnamento d'un certo Pietro d'Irlanda, riguardo alle opere scientifiche e cosmologiche del medesimo Aristotele. Nel 1244, Tommaso diventò frate domenicano, con grande ira dei parenti, che l'avevano già previsto monaco - e abate - benedettino. Un laico del 20° secolo può non vedere grande differenza tra monaci e frati, tutti astretti a obbedienza, celibato e pratiche religiose; ma un nobile del 13° distingueva nettamente i monaci, la cui vocazione tradizionale, d'antica rispettabilità, li portava a capo di patrimoni cospicui, dai frati, recentissimi evangelizzatori itineranti, mischiantisi colla plebe urbana e viventi d' elemosina. Il padre di Tommaso ormai era morto, ma il resto della famiglia manifestò cosi apertamente la sua contrarietà, che i domenicani decisero di mandarlo al sicuro, a Parigi. Durante il viaggio, però, mentre coi suoi compagni sostava di primavera in Toscana, Tommaso fu rapito dai fratelli maggiori e trascinato a un castello di famiglia, a Monte San Giovanni. Né i pianti della madre né la violenza dei fratelli valsero a strappargli la tunica bianca sotto il mantello nero, dei domenicani; tuttavia soltanto dopo pili d'un anno egli ottenne di lasciare Roccasecca, in cui era stato rinchiuso, per raggiungere i confratelli. 9

Mentre era imprigionato, Tommaso aveva composto due trattatelli di logica formale: un manuale, dedicato a «nobili studenti di Lettere», sui sofismi che si potevano incontrare nei modelli correnti di ragionamento; e un frammento sulle proposizioni modali (nella terminologia del tempo, proposizioni su necessità e pqssibilità), composto probabilmente per un compagno d'università. Pili delle sue prime prove nel campo della filosofia, è nota la storia della tentazione a cui fu esposto nel suo proposito di restare casto. O per pietà o per astuzia, una notte i fratelli gl' inviarono in cella a offrirglisi una seducente sgualdrina. Tommaso balzò su, afferrò un tizzone dal camino e la cacciò di camera; poi s'addormentò e sognò che angeli gli cingevano i lombi, in pegno di castità perpetua. «D'allora in poi - dice il suo primo biografo (1) - fu suo costume di rifuggire sempre dalla vista e dalla compagnia delle donne fuorché in caso di necessità o d'utilità - come si rifugge da serpi». Qualche tempo dopo esser stato rilasciato da Roccasecca, Tommaso andò al centro di studi domenicano di Colonia, dove dal 1248 al 1252 fu alla scuola d'Alberto Magno. Questi, di venticinque anni pili anziano di lui e uno dei primi domenicani tedeschi, era uomo d'acuta curiosità scientifica e di prodigiosa erudizione versatile. Sotto di lui, Tommaso imparò ad apprezzare il genio enciclopedico d'Aristotele, le cui opere tutte erano da poco a disposizione in traduzione latina. Egli era uno studente taciturno, riflessivo, che dedicava molto tempo a prendere appunti delle lezioni del maestro, cosi che ci sono giunti autografi quelli sull'Etica (2) d'Aristotele. Già allora (1) Guglielmo di Tocco (N.d. T.). (2) Nicomachea (appunti del figlio Nicomaco), diversa 10

aveva corporatura massiccia, movimenti lenti e calma imperturbabile; i compagni lo dicevano per scherzo «il bue muto», ma si passavano i suoi appunti con ammirazione. Soltanto quando v'era costretto dalle regole della discussione Scolastica, egli esibiva la stupefacente superiorità del suo talento per la dialettica. «Questo bue muto - disse Alberto in una simile occasione - riempirà la terra col suo muggito». Verso il 1252 Alberto s'era ormai convinto che l'allievo non aveva piu nulla da imparare da lui in materia di filosofia e teologia, e che era giunta l'ora, per Tommaso, di cominciare studi superiori. Fin allora s'era occupato, come studioso e come pedagogo, soprattutto di filosofia, sebbene avesse forse cooperato con Alberto in corsi elementari di Bibbia. Adesso aveva 27 anni, e da due era prete; ma secondo le norme del tempo era ancora troppo giovane per darsi a preparare la docenza in teologia. Alberto però convinse il Generale dell'Ordine delle doti del tutto eccezionali di Tommaso, sicché questi fu inviato a Parigi a tenervi, come baccelliere (1), i corsi di teologia, obbligatori per chi desiderava d'esser dichiarato, alla fine, docente di teologia. Il corso a lui affidato verteva sulle famose Sentenze di Pietro Lombardo, un'antologia commentata d' autorevoli testi patristici ed ecclesiastici. Le lezioni parigine di Tommaso su tale argomento, durante i quattro anni di studio per la docenza, costituiscono la prima delle opere importanti che di lui ci rimangono. Anche in questo commento a un manuale di scuola, egli si mostra geniale. Quando Tommaso andò a quella di Parigi, le università erano ancora, relativamente, una novità. Nel dall'Etica eudemia, che si deve al discepolo Eudemo (N.d.T.). (1) Primo diploma universitario (N.d. T.). 11

secolo precedente, dalla scuola arcivescovile di Notre Dame s'era sviluppata una rigogliosa istituzione accademica, con un ampio corso di studi e un corpo studentesco internazionale; gli statuti che la rendevano un'università autonoma erano stati approvati in nome del Papa nel 1215. Anche in Italia e in Spagna cominciavano appena ad aprirsi università, e verso quel tempo Oxford e Cambridge ebbero i loro primi rettori. I piu antichi istituti dei due centri non erano però ancora costituiti: appunto quando Tommaso cessava a Parigi di commentare le Sentenze, il barone Giovanni di Balliol veniva condannato a fondare, in espiazione dei suoi peccati, un convitto per studiosi a Oxford. L'università di Bologna si specializzava in legge, e quella di Montpellier in medicina; ma il centro internazionale di studio della filosofia e della teologia era senza discussione Parigi. I domenicani v'avevano stabilito un convitto nel 1217, e nonostante la loro impopolarità fra il clero piu tradizionale, verso il 1230 avevano ottenuto per sé due tra le dodici cattedre di teologia dell'università. Quando Tommaso arrivò, ebbe l'incarico d'agire come assistente d'un certo Elia Brunet, dal 1248 successore d'Alberto Magno nella cattedra piu recente, delle due tenute dai domenicani. Questa cattedra era oggetto di grande contesa: nel 1252 l'università aveva tentato di sopprimerla, e nel corso della controversia susseguitane, la maggior parte dei professori s'era messa in sciopero per quasi tutto l'anno accademico. Pare che Tommaso abbia cominciato a insegnare come crumiro; certo, una delle sue mansioni, come baccelliere, fu di scrivere una confutazione di libelli contro i domenicani. Nòcciolo dell'istruzione, a Parigi, era il corso di lezioni. Quasi ogni giorno il professore ne teneva una, dalle 6 della mattina a dopo le 8; poi il baccelliere 12

commentava le Sentenze dalle 9 fin quasi alle 12. In dati giorni, il professore presiedeva invece a formali discussioni su temi da lui indicati; si sollevava un problema, su cui si manifestavano opinioni contrastanti: il baccelliere doveva replicare agli argomenti addotti dall'uditorio, e alla fine la conclusione era tratta dal docente. Durante la Quaresima e l' Avvento, invece di queste Quaestiones disputatae su temi prestabiliti, c'erano discussioni estemporanee su una vasta gamma di questioni, le Quaestiones quodlibetales, nelle quali ogni ascoltatore poteva porre un quesito su qualsiasi punto. Oltre a insegnare e a prender parte alle discussioni, da baccelliere Tommaso scrisse due brevi monografie, su richiesta dei suoi colleghi domenicani: una Sui Princfpi della natura, l'altra Su Essere ed essenza. Esse spiegavano la terminologia, rispettivamente, della fisica e della metafisica aristoteliche e postaristoteliche; entrambe, e specialmente la seconda, diventarono popolari come maneggevoli avviamenti allo studio. Nell'anno accademico 1255-6 si dispose che Tommaso, elevato a docente, salisse in cattedra di teologia. Aveva soltanto trent'anni, e dubitava della propria competenza; aveva motivi seri per esitare ad assumersi una tale responsabilità in un periodo in cui l'opinione pubblica a Parigi era cosi contraria ai domenicani, che il loro priorato doveva essere custodito giorno e notte da soldati del Re. Ma un sogno l'incoraggiò, anzi gli suggeri il testo da commentare nella prolusione; ed egli fu insediato nella primavera del 1256, con tutto il complicato cerimoniale accademico prescritto, sotto la protezione d'un esplicito divieto papale d'ogni dimostrazione [ostile]. Per i tre anni seguenti, principale compito accademico di Tommaso furono le lezioni sul testo della 13

Bibbia. Tra i commenti biblici a noi giunti, probabilmente sono di questo periodo quelli sul profeta Isaia e sul Vangelo di san Matteo. Li abbiamo in due versioni: di reportatio - le dispense, o appunti degli studenti - e di ordinatio - il testo scritto, o dettato, dall'insegnante stesso. I manoscritti di san Tommaso sono un benedetto grattacapo per gli eruditi: per secoli la sua scrittura è stata sinonimo d'illeggibilità, e i suoi autografi sembrano un che di mezzo tra stenografia e cifrario. Oggigiorno i commenti biblici dell'Aquinate sono relativamente poco letti, perfino dai teologi; ma del suo primo insegnamento a Parigi ci resta, ben piu interessante, il testo delle discussioni da lui presiedute, e note tradizionalmente, dal tema della prima tra esse, come Questioni discusse sulla Verità. Esse concernono molti settori differenti della filosofia e della teologia: la verità, e la cognizione della verità in Dio, negli angeli e negli uomini; la provvidenza e la predestinazione, la grazia e la giustificazione (1); la ragione, la coscienza e il libero arbitrio; l'emozione, l'estasi, la profezia, l'educazione, e una dozzina d'altri argomenti. Sono in tutto ventinove « questioni», ciascuna dedicata a un singolo tema, eppure composta già di per sé di molte discussioni diverse (gli« articoli»). Cosi, la prima questione, sulla verità, consiste di non meno di dodici discussioni, dal primo articolo «Che cos'è la verità?» all'ultimo« Può esserci falsità nell'intelligenza?». In complesso, ci sono duecentocinquantatré articoli in questa raccolta parigina, che comprende piu di cinquecentomila parole: cosicché le Questioni discusse sulla Verità, opera relativamente minore del Nostro, da sole hanno la mole (') Delle anime per la salvazione. V. a pag. (N.d.T.).

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di piii della metà di tutta la produzione d'Aristotele a noi giunta. Il loro testo si poteva acquistare- presso i librai locali; nel 1304 poteva esser preso in prestito, in 46 fascicoli, per essere copiato, per 4 scellini (1). La forma e il metodo di tali discussioni possono essere illustrati dall'articolo iniziale, sul tema «Che cos'è la verità?». Prima s'espongono sette argomenti, per sostenere che esser vero è, semplicemente, essere, partendo dal detto d'Agostino che la verità è ciò che è, e giungendo a discutere un famoso passo d'Aristotele, nella Metafisica, sulla definizione della Verità. Seguono cinque argomenti contro la tesi che essere sia esser vero; e finalmente Tommaso chiude la discussione, col distinguere tre significati di « vero » e di« verità». A rigor di termini, la verità è un rapporto fra la mente e la realtà, la conformità d'un pensiero al suo oggetto; ma lo stato di cose che rende vero un pensiero, può esso stesso esser detto « la verità»: in questo senso, la verità è ciò che è. Inoltre, nientre un mio pensiero ozioso può, che io lo sappia o no, accordarsi colla realtà, è quando io giudico che un pensiero s'accorda colla realtà, che la nozione di verità ha una sua particolare applicazione. Ecco perché noi possiamo considerare la verità come propria, in sensi diversi, della realtà, del pensiero e del giudizio. Fatta questa triplice distinzione, lAquinate torna agli argomenti iniziali pro e contro lidentificazione di essere ed essere vero; esaminandoli ad uno ad uno, spiega che cosa in essi gli appaia corretto, e che cosa scorretto. La lettura a voce alta del testo dell'articolo occupa circa una mezz'ora; se le nostre edizioni sono una specie di verbale parola per parola del (1) Non è chiaro il valore di quest'indicazione in moneta inglese, che non si specifica a quale secolo si riferisca (N.d.T.).

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corso della seduta originaria, l'intera discussione sulla verità può esser durata cinque ore circa. I filosofi attuali stanno ancora tormentandosi intorno alla definizione della verità, e ancora partono, nel discutere, dal detto d'Aristotele nella Metafisica. In corrispondenza della tesi che esser vero è, semplicemente, essere, c'è adesso la teoria della« ridondanza» della verità, secondo la quale in tutte le frasi del tipo « p (1) è vero», il predicato «è vero» è logicamente superfluo, in quanto dire: «È vero: la neve è bianca», non dice altro che: «La neve è bianca». Altri filosofi del 20° secolo hanno creduto, come Tommaso, che la verità consista nella corrispondenza colla realtà, sebbene abbiano in genere considerato quali portatori primari della verità - nel senso che attuano la corrispondenza - non pensieri o giudizi, ma frasi o proposizioni. Moltissimi aspetti delle controversie contemporanee trovano un corrispettivo in quelle dispute medievali; per esempio, i filosofi ora discutono se una proposizione possa cambiare il suo «valore di verità», cioè passare da verità a falsità, o viceversa; ebbene, il medesimo problema è sollevato nel 6° articolo della prima questione: «se la verità, una volta creata, sia immutabile». In aggiunta a queste discussioni preordinate intorno alla verità e ad argomenti connessi, dal primo periodo parigino dell'Aquinate ci sono giunte anche discussioni estemporanee, senza una linea fissa. Alcune concernono problemi di polemica del momento, come quello se i frati siano astretti al lavoro manuale; altre esprimono senza dubbio curiosità di singoli uditori, come la domanda se ci fossero veri vermi, nell'inferno (No - decise Tommaso - ; soltanto il rodfo del rimorso). (1) p 16

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una data proposizione (N. d. T.).

Durante quegli anni a Parigi, trovò il tempo di cominciare un commento, che non fini mai, al trattato sulla Trinità del filosofo del 6° secolo, Boezio. Imprevedibilmente, troviamo in esso la sua trattazione piu estesa del rapporto fra scienze naturali, matematica e metafisica, in una lunga discussione dell' asserto, che queste tre discipline rappresentino una gerarchia di crescente astrazione dalla materia. Nella primavera del 1259, poco dopo aver lasciato la cattedra di teologia al domenicano inglese Guglielmo d' Alton, Tommaso tornò in Italia, dove rimase per sei anni. A quel tempo, la Curia papale non era ancora fissata nel Vaticano: Alessandro IV, il Papa del momento, visse ad Anagni, e il suo successore Urbano IV, incoronato a Viterbo, un anno dopo si trasferi a Orvieto. Cosi, in quegli anni intorno al 1260, troviamo il Nostro a insegnare a Orvieto, a Roma e a Viterbo, e a frequentare la corte papale fra dotti, diplomatici e missionari. Il frutto piu notevole dei primi anni in Italia fu il completamento d'un'opera incominciata a Parigi, la Summa contra Genti/es (Sommario - o manuale - contro gl' infedeli), manuale teologico enciclopedico a uso dei missionari inviati fra ebrei e mussulmani. L'idea di questo lavoro sembra sia venuta dal domenicano spagnuolo Raimondo di Pefi.afort, che stava evangelizzando non-cristiani in Spagna e nell' Africa settentrionale. Quello che dà al libro il suo carattere particolare e la sua importanza nella storia della filosofia, è il fatto che tra mussulmani ed ebrei, per convertire i quali, fu scritto, c'erano dotti, versatissimi nel sapere aristotelico: perciò esso parte, per ragionare, da premesse filosofiche senza presupposti settari, e tratta gli argomenti con una sottigliezza raffinata, ben diversa dallo stile tipico dell' apologetica dei missionari. 17

La Summa contra Gentzles è un trattato, non un resoconto di discussioni. È in quattro libri d'un centinaio di capitoli ciascuno, ammontante in tutto a circa trecentomila parole. Il primo libro tratta della natura di Dio, nella misura in cui si ritiene che possa essere conosciuta dalla ragione senza l'ausilio della Rivelazione; il secondo concerne il mondo, creato da Dio; il terzo espone in qual modo le creature razionali possano trovare la loro felicità in Dio, e cosi spazia ampiamente su motivi etici; il quarto è dedicato a dottrine specificamente cristiane, quali la Trinità, l'Incarnazione, i Sacramenti e la finale risurrezione dei beati per potestà di Cristo. Dappertutto, I' Aquinate distingue scrupolosamente tra le verità, su Dio e la creazione, che egli crede possano essere determinate Clalla ragione, indipendentemente da qualsiasi rivelazione addotta, e quelle che si possono affermare soltanto appellandosi a una divina autorità, comunicata per via della Bibbia o dell'insegnamento della Chiesa cristiana. Nei primi tre libri, testi biblici ed ecclesiastici vengono usati soltanto per illustrare e confermare le conclusioni già raggiunte [col ragionamento], non mai come premesse da cui procedere a ragionare. Questo metodo, il Nostro lo spiega nel secondo capitolo del primo libro: Maomettani e pagani non accettano come noi l'autorità di qualsiasi Scrittura che noi potessimo usare per confutarli, cosi come possiamo replicare, agli ebrei appellandoci al Vecchio Testamento, e agli eretici appellandoci al Nuovo. Quelli là invece non accettano né l'uno né l'altro; dobbiamo perciò ricorrere alla ragione naturale, a cui tutti gli uomini sono costretti a inchinarsi.

La ragione naturale, secondo Tommaso, era in grado di giungere solo a un numero limitato di verità intorno a Dio; dogmi quali la Trinità e l'Incarnazio18

ne erano noti solo per Rivelazione, né potevano essere dimostrati dalla ragione senz' aiuto [divino]. Anche quelle verità a cui in teoria la ragione può arrivare, come l'esistenza di Dio e l'immortalità dell' anima, in pratica devono essere accettate da molti sulla base dell'autorità; perché accertarle con argomenti filosofici richiede piu intelligenza, agio ed energia che non ci si possano aspettare dalla maggioranza dell'umanità. Tracciata dunque la frontiera tra ragione e fede, l'Aquinate considera che cosa abbia da dire la prima, sull'esistenza di Dio. Alcuni dicono che questa non ha bisogno di prove: «Dio esiste», è una verità evidente di per sé, dal momento che chiunque comprenda che cosa significhi la parola Dio, deve ben vedere che c'è un Dio. Tentativi di provare l'esistenza di Dio mediante la definizione del termine sono infatti stati fatti da filosofi - da sant' Anselmo nel secolo precedente quello del Nostro, giu giu fino al presente; mal' Aquinate, per conto suo, respinge tali tentativi: la credenza che l'esistenza di Dio sia evidente di per sé - dice-, risulta soprattutto dall'abitudine di tanta gente, d'udir parlare di Dio sin dalla prima infanzia. Bisogna invece dimostrare l' esistenza di Dio; e Tommaso offre qui due prove lunghe e difficili, tratte dalla Fisica d'Aristotele. S' accinge poi a provare varie verità intorno alla natura di Dio: che Dio è eterno, immutabile, immateriale e immune da ogni composizione. Queste verità - insiste - sono tutte essenzialmente negative: ci dicono quel che Dio non è, ma non ci danno alcuna genuina idea della sua natura. Tuttavia, qualcosa di positivo noi possiamo dire su Dio, perché comprendiamo chiaramente che cosa stiamo facendo quando formiamo proposizioni che hanno Dio per soggetto. Le parole con cui descrivia19

mo Dio e le creature non sono usate nel medesimo senso, nei due casi. (Similmente, per adottare uno degli esempi di Tommaso, noi non diamo il medesimo, preciso significato al termine «splendente», quando l'usiamo per il sole o per un tratto di vernice). D'altra parte, se diciamo sapienti sia Dio sia Socrate, noi con ciò non giochiamo soltanto colle parole: nella terminologia tecnica del Nostro, quando parliamo della bontà di Dio, o della sua sapienza o del suo amore, noi stiamo usando parole non in un solo senso, o equivocamente, ma analogicamente. In tale modo, possiamo dire tante cose, di Dio: possiamo parlare della sua universale cognizione d'ogni verità, d'ogni individuo ed evento passati, presenti o futuri; della sua volontà libera e sovrana, del suo amore di sé e delle sue creature. La maggior parte del primo libro della Summa contra Genti/es è dedicato a stabilire tali verità analogiche intorno all'intelletto e alla volontà di Dio. Il secondo libro tratta d'un altro fra gli attributi di Dio: della sua onnipotenza. Vi si discute in che senso si possa dire di Dio che è in grado di fare qualsiasi cosa, sebbene non possa morire o cambiare o stancarsi o annullare il passato o creare un altro Dio. Il libro s'interessa soprattutto, non degli attributi di Dio in se stesso, ma del rapporto fra Dio e il mondo, e sviluppa la tesi che Dio abbia creato il mondo dal nulla: dottrina che non si trova certo in Aristotele, ma che derivava, storicamente, dalla riflessione ebraico-cristiana sul libro della Genesi. Secondo l' Aquinate, la ragione poteva mostrare che il mondo era stato creato, ma non che avesse avuto un inizio nel tempo. Per quel che poteva mostrare la ragione da sola, il mondo poteva essere sempre esistito: sarebbe stato egualmente una creatura di Dio, nel senso che da Lui dipendeva permanentemente per la propria 20

esistenza, e che non era fatto d'alcuna materia, la cui esistenza fosse indipendente dal Suo beneplacito. Aristotele aveva creduto di poter dimostrare che il cosmo era sempre esistito; ma poiché la Chiesa cattolica insegnava che il mondo aveva avuto inizio nel tempo, ci doveva essere qualche errore - ritiene san Tommaso - nelle ragioni addotte per provarne l' eternità; ed egli dedica sette densi capitoli (31-7) a confutarle. D'altra parte è uno sbaglio - pensa tentar di provare con argomentazioni che il mondo ebbe invece un inizio nel tempo; e dedica un capitolo a confutare le argomentazioni a ciò addotte. Poi si volge dalla creazione del mondo (cioè dal quesito: «Perché mai ci sono delle cose? ») a quella che egli chiama la «distinzione» del mondo (è il quesito: « Perché ci sono i generi particolari di cose che ci sono?»): criticate varie teorie pili o meno evoluzionistiche dell'origine delle specie, sostiene che le distinzioni manifeste nel mondo sono dovute a un'intenzione deliberata di Dio di fare l'universo creato, per quanto era possibile, perfetto gerarchicamente. Molto del secondo libro è dedicato al tema delle «sostanze intellettuali»: angeli e anime umane. L' Aquinate identifica le intelligenze ultraterrene nelle quali i filosofi greci avevano visto la causa di fenomeni astronomici, cogli angeli o messaggeri di Dio, menzionati di quando in quando nella Bibbia. Creature viventi e libere, essi sono immateriali, incorruttibili, non uniti ad alcun corpo. Anche le anime umane sono spirituali e immortali, ma sono individualmente unite a corpi individuali. L'anima non è semplicemente rivestita d'un corpo, né in esso incarcerata: essa è la «forma» del corpo, vale a dire, è ciò che fa di questo un corpo vivente del suo tipo particolare, pili o meno come la forma d'una chiave è ciò che 21

ne fa la chiave d'una porta particolare, o come l'altezza d'una nota è ciò che ne fa quella data nota. Anche gli animali, per l'Aquinate, hanno l'anima, e cosi pure le piante; ma, diversamente dalle anime umane, questi principi di vita non sono immortali, né separabili dai loro corpi. Sebbene gli esseri umani crescano come le piante e si nutrano e si riproducano come gli animali, essi non hanno un'anima vegetativa e una sensitiva, oltre alla loro immortale: in un essere umano c'è una sola forma, che è la sua anima intellettiva. A questo punto il Nostro dedica molta energia a controbattere quelle interpretazioni arabiche d'Aristotele, secondo le quali c'è soltanto un unico intelletto per l'intera umanità: un intelletto indipendente e distinto dalle anime dei singoli esseri umani. Per san Tommaso è importante tener fermo che le piu alte facoltà intellettuali umane sono parte della dotazione dell'anima individuale, perché egli fa appello ad esse quando, nella sezione finale del libro, giunge a formulare prove dell'immortalità dell'anima individuale. Sebbene immortale, questa non esisteva prima che s'originasse il corpo a cui appartiene, né è retaggio dai genitori, come le sembianze corporee (1); non è trasmessa col seme, ma è una novella creazione da parte di Dio, nel caso d'ogni essere umano. Il terzo libro comincia col prendere in considerazione il bene e il male. Dio è il bene supremo, e la causa d'ogni altro genere di bontà; ma non c'è male supremo: i mali sono in certo modo senza causa, perché non sono realtà in sé, cosi come le cose buone; le creature i cui difetti costituiscono il male, sono an(1) È l'eresia del traducianismo, nota dal tempo di Tertulliano (N.d.T.). 22

eh' esse create da Dio, poiché tutte le cose esistono per grazia di Dio, e questi è il loro fine o meta. Creature intelligenti e non-intelligenti rispecchiano parimenti - in quanto si sviluppano in accordo colle proprie nature - la bontà divina; in pili, le intelligenti trovano il loro appagamento nella comprensione e contemplazione di Dio. La felicità, un uomo non la troverà mai nei piaceri sensuali, nell'onore, gloria, ricchezza o possanza mondana, né nell' esercizio d'abilità o di virtii morale, ma nella conoscenza di Dio, la quale si può avere, non in questa vita a forza di congetture umane, o di tradizione o d'argomentazione, ma nella visione dell'essenza divina che Tommaso credeva di poter mostrare possibile in un'altra vita, per opera d'una divina illuminazione soprannaturale. I capitoli 56-63 trattano di questa visione beatifica, alla quale s'avvicina soprattutto, nella vita corporea, la contemplazione filosofica in cui Aristotele faceva consistere la felicità. Una minuta trattazione della divina provvidenza e dei suoi effetti lungo tutta la gerarchia degli esseri creati conduce a una particolareggiata discussione del rapporto fra il corso dei corpi celesti e gli eventi della vita umana. L'Aquinate non nega che gli astri possano influire sulla condotta umana - dopo tutto, un sole caldo può decidermi a togliermi il cappotto - , ma insiste che ciò non avviene in modo da determinare le scelte umane e da rendere possibile una scienza dell'astrologia. La magia però è possibile, ma i maghi operano, non in base al potere degli astri, ma coll'aiuto dei demoni, che sono angeli peccatori. Tommaso introduce ora, con sorprendente brevità, la nozione d'una legge divina che ci astringe ad amare Dio e il prossimo, ad accettare la vera fede e aprestarle culto. Dedica cinque capitoli all'etica sessuale, cioè alla peccaminosità della fornicazione e della 23

contraccezione, all'indissolubilità del matrimonio e alla necessità della monogamia, e all'intollerabilità dell'incesto. Poi presenta una stringente discussione della povertà volontaria - chiara eco delle controversie parigine. Il libro termina colla trattazione del premio e della punizione, divini e umani, e della necessità della grazia - divina assistenza soprannaturale - a che un uomo riesca a liberarsi del peccato e a perseverare nella virtu. Quelli che ci riescono, e toccano cosi il loro traguardo finale, sono stati predestinati da Dio fin dall'eternità; e quelli che, peccando, mancano d'ottenere la felicità, sono stati riprovati eternamente. Questa necessità di grazia e predestinazione, perché un uomo possa raggiungere la suprema felicità, è considerata come dimostrabile dalla ragione naturale, purché s'abbiano ingegno, tempo e buona volontà sufficienti. Soltanto nel quarto libro l'Aquinate s'occupa delle dottrine che egli crede impenetrabili all'intelletto umano, e che sono articoli di fede. Questo quarto libro è diviso in tre parti, in corrispondenza dei primi tre libri. Come il primo libro trattava di ciò che la ragione può dire intorno alla natura propria di Dio cosi la prima parte del quarto libro tratta di ciò che la fede rivela intorno alla vita di Dio, colla dottrina della Trinità. Il secondo libro trattava dell'attività di Dio nel creato, e la seconda parte del quarto libro tratta del dogma dell'Incarnazione, affermante che Dio entrò nel mondo incarnandosi in Gesti Cristo. Il terzo libro trattava del fine della vita umana e della via per raggiungerlo in obbedienza alla legge naturale; l'ultima parte del quarto libro concerne la risurrezione del corpo in gloria, e i sacramenti della Chiesa, intesi ad aiutare i peccatori nel loro cammino verso il cielo. Nella Summa contra Genti/es l'Aquinate dimostra 24

una vasuss1ma conoscenza d'Aristotele. Nel corso dell'opera, egli aveva avvertito quanto insoddisfacenti fossero quasi tutte le versioni in latino allora a disposizione, dei lavori dello Stagirita; ma nel 1261, alla corte d'Urbano IV a Orvieto, gli capitò tra le mani la nuova eccellente traduzione dei trattati d'Aristotele sugli animali, dovuta al domenicano fiammingo Guglielmo di Moerbecke (1). S'affrettò a servirsene per la Summa; e da lui incitato il Moerbecke nel decennio seguente migliorò assai la traduzione della maggior parte delle opere d'Aristotele, fornendo un testo valido ai posteriori commenti del Nostro. Questi, di greco non sapeva nulla, ma dagl' interessi ecumenici d'Urbano IV era costretto a familiarizzarsi cogli scritti dei teologi greci e cogli atti dei Concili ecclesiastici greci. Tali indagini han lasciato tracce nella parte finale della prima Summa, e hanno sostanziato una monografia Contro gli errori dei Greci [ortodossi], scritta su richiesta d'Urbano. Altre citazioni da padri greci della Chiesa, insieme a quelle dai latini, formarono l'ordito d'un commento passo a passo dei Vangeli, che Tommaso cominciò allora per Urbano, e continuò per parecchi anni dopo la morte di questo. Noto come la Catena aurea, è stato definito una quasi perfetta rassegna d' interpretazione patristica. A quanto vuole la tradizione, Tommaso ebbe presso Urbano la funzione ufficiale di scrittore di preghiere e d' inni. Nel 1264 il Papa istitui la nuova festa del Corpus Domini in onore del sacramento dell'eucarestia in cui, secondo la dottrina cattolica, pane (1) Nella prima metà del Duecento, l'Impero latino di Costantinopoli permise a dotti come il Moerbecke d'apprendere il greco e di tradurre direttamente dai testi antichi (N.d.T.).

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e vino si mutano nel corpo e sangue di Cristo. I tre inni che Tommaso scrisse per l'ufficio della festa furono subito popolari tra i cattolici, e tali rimasero da allora. La poesia dell'Aquinate è una notevole combinazione di tecnicismi teologici della pili pura Scolastica, e di dotte allusioni bibliche, pervasa però da una commozione religiosa espressa tersamente e vividamente. La sequenza Lauda Sion della messa del Corpus Domini ha un vigore scattante del tutto inaspettato, dopo la spassionata lucidità della sua prosa teologica; e un altro dei suoi inni eucaristici ha una strofa cosi stilata:

Vista, tatto, gusto sono in te delusi, E fidato l'udito vuol essere creduto. Quanto mi disse ti Figlio, devo creder vero: O non mente chi è ti Vero, o nulla c'è di vero. Nessun ammiratore dell'Aquinate lo vanterebbe grande poeta; ma la sua poesia contrasta cosi nettamente colla prosa, che dovrebbe esser letta da chiunque desiderasse avere un'idea complessiva del suo carattere (1). Nel 1265, dopo la morte di papa Urbano, il Nostro fu mandato a Roma, ad aprirvi un centro di studi per domenicani. Vi passò due anni a insegnare teologia a Santa Sabina, una delle pili belle chiese della città, per di pili situata in uno dei luoghi pili suggestivi. Il frutto pili sostanzioso di quel soggiorno (1) Sembra Tommaso il creatore, forse inavvertitamente, d'una nuova forma poetica inglese, il limerick [poesia scherzosa di 5 versi. N.d.T.]. Una sua preghiera di ringraziamento contiene infatti la strofa seguente: Sit vitiorum meorum evacuatio - Concupiscentiae et /ibidinis exterminatio - Caritatis et patientiae - Humi/itatis et obedientiae - Omniumque virtutum augmentatio.

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è la serie di dieci «questioni discusse» intitolate, come la prima di esse, Sulla Potenza di Dio. Le prime sei riguardano, con maggiore profondità e completezza, i problemi dell'onnipotenza di Dio e della creazione già affrontati nel secondo libro della Summa contra Gentzles; le ultime quattro concernono punti della dottrina della Trinità, su cui si scontravano teologi greci e latini. La discussione pili lunga e interessante è la terza, di diciannove articoli, sulla creazione. Sebbene queste questioni Sulla Potenza di Dio rappresentino uno stadio di pensiero pili maturo di quello che si manifestava nelle questioni Sulla verità, esse sono meno vivaci e meno interessanti: riflesso, senza dubbio, della differenza tra gli uditori, nella principale università del mondo e in un umile centro di studi provinciale. Al medesimo periodo può appartenere un'altra serie di questioni discusse, Sul Male. Sia queste, sia quelle Sulla Potenza di Dio, in qualche misura anticipano il pensiero espresso nel capolavoro finale di san Tommaso, la Summa Theologiae (Sommario di teologia): le questioni Sulla Potenza di Dio corrispondono alla prima parte della Summa, e quelle sui sette peccati mortali, a sezioni della seconda. La Summa stessa sembra che sia stata cominciata in seguito all'esperienza didattica dell'autore a Roma, perché voleva essere un manuale per principianti in teologia, in sostituzione delle Sentenze di Pietro Lombardo. Come testo introduttivo, essa in realtà intimorisce il lettore moderno, non solo colla sua mole - sebbene incompleta, s'espande per pili di due milioni di parole - , ma anche per la sua forma elaborata e la sua terminologia tecnica, tali che essa risulta un che di mezzo fra un trattato e una collana di questioni discusse. Come queste, è divisa in questioni e 27

articoli, non in capitoli; ma i molteplici argomenti pro e contro una particolare tesi che si trovano in una reale discussione, qui sono sostituiti da una triade introduttiva d' obbiezioni alla posizione che l'Aquinate intende prendere nel corso dell'articolo, e da un solo argomento a loro contrario, e di forma quasi cerimoniale, perché comincia colle parole «Ma d'altra parte ... », e consiste di solito nella citazione d'un testo autorevole. È dopo questo, nel corpo stesso dell'articolo, che l'Aquinate manifesta la propria opinione, insieme colle ragioni che la sostengono, prima di concludere ogni articolo colla soluzione delle tre difficoltà esposte all'inizio. La Summa è, nel suo genere, un capolavoro distile filosofico. L'uso di cominciare l'esame d'ogni punto coi tre argomenti pili forti che gli venissero in mente contro la posizione da difendersi, dev'essere servito all'autore come una disciplina meravigliosa. Una volta che uno s'è avvezzato alla sintassi del latino medievale e ai tecnicismi del gergo Scolastico - i quali erano, s'intende, non invenzione di Tommaso, ma l'uso corrente ai suoi tempi - trova lo stile scorrevole, lucido, urbano e giudizioso. Nello scrivere d'astruse questioni metafisiche, talvolta l'Aquinate si mostra impacciato e confuso; ma quasi mai si lascia andare alla retorica. Delle tre parti gigantesche in cui è divisa la Summa, soltanto la prima fu scritta in Italia; molto probabilmente fu finita a Viterbo, poco dopo l'arrivo dell'autore alla corte papale nel 1267. La maggioranza dei 119 articoli della prima parte s'occupa della medesima materia dei due primi libri della Summa contra Genti/es; ma poiché i lettori a cui ora egli pensa sono cattolici, studenti di teologia, non potenziali convertiti dall'islamismo o dal mosaismo, san Tommaso può esporvi la dottrina della Trinità nel 28

trattato sulla natura divina piuttosto che segregandola in un libro a parte sui misteri della fede. Però egli continua a distinguere con cura le verità della teologia naturale, accessibili alla ragione, dai misteri comunicati solo dalla Rivelazione e credibili solo per fede infusa miracolosamente. La prima parte della Summa è piu concentrata, e insieme piu limpida e piu ricca delle parti corrispondenti della Summa contra Gentzles. Cosi, per esempio, le due prove aristoteliche dell'esistenza di Dio sono ora sostituite dalle piu chiare, vivide e famose Cinque Vie che, almeno in un primo sguardo, dipendono meno strettamente dalla speculazione astronomica dei Greci. Cosi pure, il trattato sulla natura umana che occupa le questioni 75-102 della seconda Summa è molto piu completo e sistematico della sezione corrispondente nel secondo libro del lavoro anteriore, ed è proporzionalmente meno gravato di critica dell'esegesi arabica della psicologia aristotelica. Non che l'Aquinate avesse perso interesse per Aristotele: al contrario, egli attingeva costantemente dalle sue idee, e faceva pronto uso dei trattati e commenti via via allora tradotti da Guglielmo di Moerbecke a Viterbo. Mentre scriveva la prima parte della Summa, san Tommaso cominciò un trattato politico, intitolato Sulla Regalità e dedicato a un misterioso, e forse inesistente, Enrico re di Cipro. Scritto nello Stato pontificio mentre i Papi stavano mettendosi sotto la protezione della famiglia reale francese per rintuzzare la minaccia della dinastia imperiale degli Hohenstaufen e dei loro congiunti, esso stabilisce i prindpi del governo temporale in modo tale, che non lascia dubbi: i re sono soggetti ai sacerdoti, e il Papa gode di supremazia civile, oltre che ecclesiastica. Alla mor-

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te di san Tommaso, l'opera non era terminata; la completò in seguito lo storico Tolomeo da Lucca. Durante questo periodo a Viterbo, l'Aquinate rifiutò la nomina offertagli ad arcivescovo di Napoli. Nel 1268 fu rimandato alla sua antica cattedra a Parigi, dove, mentre un nuovo attacco era sferrato contro i frati tanto impopolari, un movimento fanaticamente aristotelico stava mettendo in discredito il tipo di sintesi, tra Aristotele e il cristianesimo, che veniva tentato in opere quali le due Summe. A Parigi, i doveri dell'Aquinate quale professore comprendevano, come prima, il far lezione sulla Bibbia e il dirigere discussioni Scolastiche. Sembra che in quel periodo egli abbia annotato il Vangelo di san Giovanni e le epistole di san Paolo; il commento alla lettera paolina ai Romani, da lui stesso approntato per la pubblicazione, è ancora adesso letto assai piu della maggioranza dei suoi scritti sulla Bibbia. Poco dopo il suo arrivo, presiedette discussioni, édite col titolo di Questioni discusse sull'Anima; altre, in questo secondo periodo parigino, si svolsero ulteriormente sulle « virtu teologali» della speranza e della carità, e sulle « virtu cardinali» della prudenza, temperanza, fortezza e giustizia: su argomenti, cioè, affrontati nella seconda parte della Summa. Ogni Avvento e ogni Quaresima, come la prima volta, l' Aquinate diresse discussioni estemporanee su ·varie questioni d'attualità; sono generalmente credute di quel tempo le « quodlibetali » 1-6 e 12. Il primo gruppo, della Quaresima del 1269, include questioni quali: se i monaci siano astretti ad essere vegetariani; se la confessione sacramentale dei peccati possa esser fatta per iscritto; e se un angelo possa passare da un punto all'altro senza toccare alcun punto intermedio. Durante quel medesimo periodo l'Aquinate scrisse due opuscoli di difesa polemica contro i critici degli 30

ordini religiosi del tipo dei domenicani. In particolare, egli difende l'ammissione alla vita monastica di ragazzi ancora impuberi - pratica sottoposta allora a duri attacchi. Sono tuttavia di maggiore interesse per lettori attratti dalla filosofia, gli altri lavori polemici di questo periodo, scritti in difesa dell'aristotelismo cnst1ano. La logica d'Aristotele era stata studiata nelle università latine fin dal loro inizio; ma i suoi scritti sulla fisica e sulla metafisica rimasero a lungo in sospetto, tra le .autorità accademiche - cioè ecclesiastiche. Gli statuti di Parigi del 1215 avevano di fatto proibito assolutamente ai professori della Facoltà di Lettere (detta allora delle Arti) di far lezione su essi; e la condanna era stata rafforzata da bolle papali, nel 1231 e nel 1263, sebbene, a quanto pare, fosse diventata lettera morta già dalla metà del secolo; certo, nel 125 5 la medesima Facoltà rese obbligatorio per tutti i suoi studenti lo studio di tutte le opere note d'Aristotele. Durante il suo primo incarico universitario a Parigi, l'uso della metafisica d'Aristotele era dunque stato prerogativa di teologi come lui; ma ora, al tempo del suo ritorno, i piu spiccati esponenti dell' aristotelismo erano i filosofi professionali della Facoltà di Lettere. E questi non erano cauti, com'erano stati i teologi, e attenti a smorzare o a rifiutare le tesi aristoteliche cozzanti contro la dottrina cristiana. Due punti, che verso il 1270 stavano suscitando il piii vivace conflitto, erano l'individuazione dell'intelletto . e l'eternità del mondo. Nella psicologia aristotelica, come è esposta nel De Anima d'Aristotele e nei commenti ad essa dedicati da dotti greci e arabi, a quello che noi chiamiamo «la mente», per differenti aspetti corrispondono tre termini differenti. La mente, quale oggetto d' intro31

spezione, era nota col nome d'immaginazione o fantasia; quale deposito d'idee e luogo d'abiti intellettuali acquisiti era l'intelletto possibile [o passivo]; e quale potere d'astrarre informazione intellettuale dall'esperienza sensoriale, era l'intelletto attivo [o agente]. Il rapporto fra queste tre entità non è chiarito da Aristotele; e l'Aquinate, come abbiamo visto, nella Summa contra Genti/es aveva interpretato la teoria nel senso che, non soltanto l'immaginazione, ma anche l'intelletto passivo e l'attivo sono poteri o facoltà d' esseri 1,1mani individuali. Il filosofo arabo Ibn Sina (Avicenna - 980-103 7) aveva sostenuto che c'era un solo intelletto attivo per tutta la specie umana, e alcuni cristiani erano ben lieti di dargli ragione, identificando l'intelletto attivo con quella divina illuminazione della mente umana, cosi eloquentemente descritta da sant' Agostino. Però il filosofo Ibn Rushd (Averroé - 1126-98) aveva insegnato che non solo l'intelletto attivo, ma anche il passivo era patrimonio comune della razza umana quale un tutto, non possesso di ciascun individuo. Quando quest'interpretazione della psicologia aristotelica fu insegnata nella Facoltà di Lettere a Parigi, essa portò i suoi proponenti in conflitto colle autorità ecclesiastiche, a cui appariva minare la credenza nell'immortalità personale. La teoria che ci sia un solo intelletto comune, non è affatto sicuro che sia d'Aristotele; invece non c'è dubbio che sia autenticamente sua la seconda dottrina controversa, sull'immortalità del mondo. Nella Summa contra Genti/es, come abbiamo visto, l' Aquinate s'era dato gran cura di dissociarsi da tale dottrina; ma gli aristotelici della Facoltà di Lettere, adesso, dopo il 1260, erano vogliosi di difenderla contro l'attacco sferrato da un giovane teologo francescano, Giovanni Peckham, futuro arcivescovo di Canterbu32

ry, secondo il quale la ragione era in grado di mostrare che c'era stato un tempo in cui Dio, si, esisteva, ma il mondo no. San Tommaso doveva quindi difendere il suo aristotelismo moderato contro attacchi da fronti opposte. Contro gli aristotelici fanatici scrisse un trattatello Sull'unità dell'intelletto, in cui, con un'esegesi minuziosa del testo d'Aristotele e delle glosse dei commentatori, e con un subisso d'argomenti filosofici, demoliva la teoria d'un intelletto passivo separato. In difesa d'Aristotele, tuttavia, e contro il Peckham scrisse Sull'eternità del mondo, per sostenere che non c'è contraddizione nella teoria che il mondo non ebbe principio: che la creazione ebbe luogo in un particolare momento nel tempo, è cosa da accettarsi per fede, non dimostrabile razionalmente. Questi due trattati furono scritti nel 1269 o 1270. Il 10 dicembre 127 O, l'arcivescovo di Parigi condannò una lista di tredici dottrine, a cominciare dalla proposizione: «L'intelletto di tutti gli uomini è uno, e numericamente lo stesso», e incluse le due: «Il mondo è eterno», e: «Non ci fu mai un primo uomo». Nessuna delle dottrine condannate era mai stata insegnata dal Nostro; ed eccettuate quelle proposizioni, la dottrina d'Aristotele non era pili proibita. Il massimo servizio reso da Tommaso all' aristotelismo durante quegli anni, fu la notevole serie di commenti alle opere del Greco, che sembra siano stati scritti fra il 1269 e il 1273. Fra i primi, c'erano quelli al De Anima e alla Fisica, i due lavori d'Aristotele veramente importanti agli effetti delle controversie intorno all'anima e all'eternità del mondo; controversie che convinsero, pare, Tommaso che il miglior antidoto all'aristotelismo eterodosso era una conoscenza approfondita dell'intero sistema aristotelico. Cosi, egli scrisse commenti interlineari a due dei 33

lavori d'Aristotele sulla logica (il De lnterpretatione e lAnalitica posteriore), ali' intera Etica nicomachea e ai 12 libri sulla Metafisica. Morendo, lasciò a mezzo commenti a un'altra mezza dozzina di scritti aristotelici, tra cui al De Coelo e alla Politica. Se anche dell'Aquinate ci fossero giunti soltanto questi commenti ad Aristotele, essi basterebbero arivelare in lui un filosofo d'intelligenza e d'ingegnosità straordinarie. Siccome sono fondati su traduzioni imperfette da manoscritti difettosi, essi sono stati in grande misura soppiantati da altri, scritti da quando, nel secolo scorso, gli studi filologici progredirono tanto; ma nelle opere d'Aristotele ci sono molti passi oscuri, sui quali ancor oggi getta luce il consultare lAquinate. I suoi commenti sono dappertutto lucidi, intelligenti e comprensivi, e il mezzo milione di parole del commento alla Metafisica costituisce a buon diritto un classico della filosofia. Il valore di questi commenti per la penna d'un teologo fu ben presto apprezzato dai filosofi della Facoltà di Lettere di Parigi; sicché, sebbene Tommaso si fosse battuto per i diritti della teologia contro gli aristotelici eterodossi, fu la Facoltà di Lettere, non quella di Teologia, che intervenne presso le autorità domenicane perché, egli fosse richiamato, dopo la sua ultima partenza da Parigi nel 1272. Di tutti gli scritti di san Tommaso durante il suo secondo incarico universitario a Parigi, il piu noto è, non uno di quelli finora menzionati, ma la seconda parte della Summa Theo/ogiae. Dato che è molto piu lunga delle altre due parti, gli editori la suddividono sempre in: Prima Secundae (=prima parte della seconda parte; citata sempre, come qui: 1-11) e Secunda Secundae (=seconda parte della seconda parte: 1111). In complesso, essa corrisponde, come argomento, al terzo libro della prima Summa; su questo segna 34

però un ben maggiore progresso, che non vediamo confrontando la prima parte coi due primi libri del1' opera precedente. È definita esattamente come un trattato cristiano di etica, ed è strutturata sul modello dell'Etica nicomachea, il cui commento l'Aquinate stava allora scrivendo. L'Etica nicomachea si propone di dipingere la vita migliore per l'uomo: una vita di felicità (eudaimonfa). Secondo Aristotele, felicità è l'attività dell'anima in accordo colla virtu; e come l'anima si divide in intellettuale e affettiva, cosi ci sono due tipi di virtu, l'intellettuale e la morale. In ogni caso, però, la virtu è sempre una disposizione psichica la quale trova la sua espressione in azione volontaria, e in particolare in azioni scelte deliberatamente come parti d'un programma di vita ponderato. La virtu morale è espressa nella scelta e nel perseguimento d'una via di mezzo tra emotività eccessiva e deficiente, e quindi tra azione esagerata e manchevole; questa è la famosa dottrina dell'aurea mediocrità, secondo la quale ogni virtu è situata fra vizi opposti. Cosi, il coraggio (o fortezza) è un che di mezzo tra codardia e temerarietà; la temperanza è fra licenziosità e insensibilità, e anche la giustizia, la piu importante fra le virtu morali, è in relazione con un che di mezzo, nel senso che il suo scopo è che ognuno riceva né piu né meno del dovuto; ma essa non è, come le altre virtu, fiancheggiata da vizi opposti, dato che qualsiasi deviazione dal giusto mezzo, in un senso o nell'altro, implica semplicemente ingiustizia. La virtu morale impedisce che lemozione disordinata conduca ad azione fuori luogo. Quella che decide, in ogni dato caso, quale sia lazione appropriata, nonché la corretta misura di sentimento, è la virtu intellettuale della prudenza o saggezza (phr6nesis): essa è la virtu della ragione pratica, che s'interessa dell'azione, mentre la virtu 35

della ragione speculativa è la cultura filosofica o sapienza (sophfa), la quale trova la sua piu sublime manifestazione nella contemplazione (theorfa), piu o meno solitaria. La felicità suprema, secondo l' Etica, consiste in una vita di contemplazione filosofica; la quale però, sebbene sia la vita migliore per l'uomo, è pure, in certo senso, una vita sovrumana. Un genere secondario di felicità può esser trovato in una vita d'attività politica e di beneficenza (o: magnificenza (1) pubblica), che s'attenga alle virtu morali. L'Aquinate trovò nell'Etica nicomachea molto di congeniale al pensiero morale del cristianesimo contemporaneo - pensiero che in realtà derivava, per varie vie indirette, dalle teorie etiche di Platone, d'Aristotele e d'altri pensatori greci. Alcuni degli aspetti pagani piu repellenti dell'opera egli modificò o - come si sarebbe espresso lui - «interpretò benignamente»; altri tratti aristotelici incorporò cosi magistralmente nella propria sintesi, che alcuni dei suoi posteriori ammiratori cattolici li presero per sviluppi spontanei del cristianesimo. La Prima Secundae comincia, come l'Etica nicomachea, col considerare il fine o traguardo ultimo della vita umana; e come Aristotele, cosi l'Aquinate identifica il fine colla felicità, che, non equiparabile con piacere, ricchezza, onore o qualsiasi altro bene materiale, deve invece consistere in attività in accordo colla virtu, specialmente con quella intellettuale. L'attività intellettuale, con tutti i requisiti che anche secondo Aristotele danno la felicità, si può trovare perfetta soltanto nella contemplazione dell'essenza di Dio; nelle condizioni ordinarie della vita sulla terra, non può darsi felicità che non sia imperfetta; (') Come in Dante (Par. c. 33° v. 20), qui magnificenza è «magnanimità nel beneficare» (N. d. T.). 36

quindi vera felicità, anche in termini aristotelici, ha da trovarsi soltanto nelle anime dei beati in cielo; e questi riceveranno a tempo debito un sovrappili di felicità inimmaginabile da Aristotele, colla risurrezione del corpo in gloria. Aristotele, nella ricerca d'una definizione della virtu, era stato tratto a discutere della natura dell'azione umana volontaria; l'Aquinate, pili sistematico, premette alla propria discussione della virtli due interi trattati, uno sull'azione e uno sull'affettività. Le questioni 6-17 concernono la natura dell'azione: analizzano concetti quali volontarietà, intenzione, scelta, deliberazione, azione e desiderio, in modo cosi esauriente, da rappresentare un grande progresso su Aristotele. Esse costituiscono una trattazione filosofica della natura della volontà umana, comparabile a qualsiasi esame posteriore. Alla questione 18 ci si volge dalla psicologia filosofica alla filosofia morale: l'Aquinate si domanda che cosa renda buona o cattiva un'azione umana. Le questioni 18-21 sono il nocciolo della sua etica: insieme alla trattazione della virtli nelle questioni 49-50, esse tracciano la cornice, in cui sono inserite le discussioni di particolari punti di morale. La virtli, secondo Aristotele, concerne anche i sentimenti, non solo l'azione; ecco perché le questioni 22-48 sono dedicate a un esame delle emozioni, o passioni dell'anima. Questa sezione della Summa non è pili molto letta, attualmente; eppure è pili particolareggiata, e in molti punti rivela intuizione pili profonda dei ben pili noti trattati sulle passioni, del Cartesio e dello Hume. Dato che secondo Aristotele la virtli è una disposizione psichica, l'Aquinate premette alla sua teoria della virtli una lunga disquisizione sulla natura delle disposizioni (habitus), nelle questioni 49-54. È un'indagine filosofica originale, di grande impor37

tanza, che intreccia in un sistema articolato osservazioni incidentali d'Aristotele e dei suoi commentatori; ma di tale importanza si perse coscienza col declino della Scolastica all'avvento del Rinascimento, fino alla sua riscoperta, soltanto al nostro tempo, per opera di filosofi linguisti quali il Wittgenstein e il Ryle. La trattazione della natura della virtu stessa, della distinzione tra virtu morali e intellettuali, e della relazione tra virtu e affettività, s' attiene piu strettamente a quella aristotelica; poi però l'Aquinate v'introduce una topica tipicamente cristiana: lo studio delle virtu teologali - fede, speranza e carità elencate come una triade da san Paolo, e incaricate d'una funzione preminente nella tradizione patristica. Le virtu aristoteliche vengono allora comparate e opposte alle suddette scritturali (questioni 62-7), ai doni dello Spirito Santo menzionati in un notissimo passo d'Isaia (68) (1), e alle virtu specifiCate da Cristo per raccomandarle, nelle beatitudini del Discorso della Montagna (69). Dopo aver collegato le virtu aristoteliche alle doti di carattere apprezzate nella tradizione cristiana, il Nostro procede ora a connettere i vizi aristotelici e i peccati, di cui trova i concetti nella Bibbia, e a cui dedica diciannove questioni: sezione assai piu teologica e meno filosofica delle precedenti. Le due sezioni finali della Prima Secundae sono dedicate ai concetti di legge e di grazia. Le questioni 90-108 costituiscono un trattato teologico-filosofico su: giurisprudenza, natura della legge, distinzione fra legge naturale e positiva, fonte ed estensione dei poteri dei legislatori umani, contrasto fra le leggi divine del Vecchio e del Nuovo Testamento. Dalla (1) Xl 2-3. In Isaia, in realtà sono sei, diventati sette nella Volgata, coll'aggiunta del «timor di Dio» (N. d. T.).

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questione 109 fino all'ultima (114), si tratta della natura della grazia divina e della sua necessità per la salvazione. La Prima Secundae si chiude con un trattatello sulla giustificazione dei peccatori, l' argomento su cui alla Riforma i luterani si divisero dai cattolici.

Se la Prima Secundae è la parte generale dell'etica tomistica, la Secunda Secundae contiene insegnamenti particolareggiati su specifici punti di morale. L'Aquinate v'esamina ogni virtu singolarmente per analizzarne la natura ed elencare poi i vizi in conflitto con esse. Parte dalle virtu teologali e dai peccati corrispondenti: dalla fede cioè, e dai peccati d' incredulità, eresia e apostasia; dalla speranza, e dai peccati di disperazione e presunzione; dalla carità, e dai peccati di odio, invidia, discordia e sedizione. È nella sezione sui peccati contro la fede che l'Aquinate manifesta le proprie opinioni sulla persecuzione degli eretici; ed è in quella sui peccati contro la carità che espone a quali condizioni sia lecito far guerra (questioni 10-11 e 40, rispettivamente). Colla trattazione della prudenza (47-56) e della giustizia (5 7-80) torniamo ail' impalcatura aristotelica. Il secondo trattato è di gran lunga piu completo e piu ricco d'ogni suo corrispettivo in· Aristotele; s' occupa di quasi .tutti gli argomenti che ora sarebbero discussi in un manuale di legislazione penale: omicidio, furto, arricchimento ingiusto, lesioni personali, frode, diffamazione, usura, disonestà di giudici e d'avvocati. La discussione è sempre acuta, vivace, concreta e magistrale. Nella tradizione aristotelica, la religiosità è spesso considerata affine alla giustizia, o parte di questa virtu, in quanto è dare a Dio quanto gli spetta. Cosi, nella Secunda Secundae al trattato sulla giustizia segue quello sulla devozione o religione: sono una ven39

tina di questioni, che spaziano su molti argomenti, dalla preghiera e dal pagamento delle decime, alla simonia e alla negromanzia. Dalla questione 106 alla 121 si tratta di virtii minori, secondo l'Etica aristotelica: candore, gratitudine, affabilità, liberalità; le quali tutte, a quanto sembra, l'Aquinate considera parti della virtii cardinale della gimtizia. Segue poi la terza virtii cardinale, del coraggio o fortezza; e provvede l'occasione di discutere del martirio e della magnanimità nell'agire e nel beneficare. In relazione colla quarta virtii cardinale, la temperanza, sono discusse questioni morali che sorgono a proposito di cibo, bevande e sesso. La virtii cristiana dell'umiltà è introdotta in questo contesto in piuttosto strana compagnia colle già citate virtii aristoteliche della magnanimità nell'agire e nel beneficare, schierate qui sotto lo stendardo della fortezza. La trattazione del vizio contrario, della superbia, offre presto l'opportunità d'accennare al peccato dei progenitori del genere umano, Adamo ed Eva. Le questioni seguenti, sulla profezia, si potrebbero credere interessanti soltanto per teologi anzi, per teologi fondamentalisti (1); invece esse contengono alcune delle pili notevoli osservazioni filosofiche dell'Aquinate sulla relazione fra immagini mentali, pensiero enunciato e giudizio. La Secunda Secundae si conclude, come l'Etica nicomachea, col paragone fra la vita attiva e la contemplativa, in favore della seconda: tutto, naturalmente, v'è trasposto in chiave cristiana, cosicché porta a una sezione finale sulla dignità dei vescovi e sulla vita negli Ordini religiosi. La seconda parte della Summa è il capolavoro del(1) Credenti nella verità letterale dei fatti narrati nella Bibbia (N.d.T.).

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l'Aquinate. Fondamenti e struttura sono aristotelici, e molte sezioni particolari sono in vasta misura attinte a precedenti pensatori cristiani; ma nell'insieme essa, anche da un punto di vista puramente filosofico, segna un grande progresso su Aristotele. Nessuno scrittore cristiano l'ha in seguito superata - e possono ancora trovarla assai interessante e valida quanti vivono in un'età laica, post-cristiana. , Il secondo periodo d'insegnamento universitario a Parigi fu per Tommaso di stupefacente produttività. La Secunda Pars ha piii d'un milione di parole: scriverla in tre anni, deve aver richiesto un ritmo, in media, di mille parole al giorno. Nel nostro secolo uno scrittore professionale, senz'alcun' altra occupazione, si pavoneggerebbe per una tale regolare produzione di prosa tanto concettosa, zeppa di citazioni, ben levigata. Ma l'Aquinate, mentre scriveva la Summa, aveva i compiti d'un professore a parte intera, oltre ai doveri d'un frate sinceramente pio; e scrisse commenti a gran parte del gigantesco corpus aristotelico. Chi consideri anche solo il volume materiale della sua produzione tra il 1269 e il 1273, può dar fede alla testimonianza del suo segretario preferito, che egli aveva costume, come un gran maestro a un torneo di scacchi, di dettare simultaneamente a tre o quattro scrivani, su diversi argomenti; può quasi credere quanto troviamo aggiunto, che era in grado di dettare scritti sensati, mentre dormiva. Nella primavera del 1272 Tommaso lasciò Parigi per partecipare a un'assemblea generale dei domenicani a Firenze; e li gli affidarono il compito di creare un nuovo centro di studi teologici per i domenicani, in Italia. Egli scelse d'annetterlo al priorato di san Domenico in Napoli; per cui in questa città svolse la sua ultima attività didattica. Le sue lezioni erano sovvenzionate dal re di Napoli, Carlo d'Angiò, il cui 41

fratello, san Luigi IX di Francia, aveva imparato ad apprezzare il suo genio a Parigi. Oltre che all' insegnamento, egli si dedicava principalmente a completare il commento alla Metafisica, e la terza parte della Summa. Questa Tertia Pars s'occupa d'argomenti strettamente teologici: 26 questioni sono sulla dottrina dell'Incarnazione, 4 sulla Vergine Maria, 29 sulla vita di Cristo, 30 sui Sacramenti del battesimo, della: cresima, dell'eucarestia e della penitenza. Uno studioso della filosofia dell'Aquinate avrebbe tuttavia gran torto di trascurare questa parte: la discussione dell'Incarnazione si presta a far riflettere sui problemi filosofici dell'identità personale e dell'individuazione, e contiene osservazioni sul predicato, ancor oggi interessanti per chi s'occupi di logica. La presentazione poi, da parte di san Tommaso, della dottrina della transubstanziazione, nel trattato sull'eucarestia, oltre ad aver avuto grande importanza nella storia della teologia, contiene il frutto del suo pensiero piu maturo sulla na:i;ura della sostanza materiale e del cambiamento sostanziale. La Summa Theo/ogiae rimase incompiuta. Invecchiando, lAquinate soffriva sempre piu d'accessi di ·distrazione, attestati da vari aneddoti. A un banchetto in cui era seduto accanto al re Luigi IX, egli si dimenticò totalmente degli altri commensali, immerso com'era in riflessioni teologiche; finché diede un pugno sulla tavola, esclamando d'aver trovato un argomento contro l'eresia manichea (Il re, nella sua cortesia, fece chiamare il segretario di Tommaso, per prender subito nota dell'argomento, prima che fosse dimenticato). Similmente, a Napoli non apri bocca con un Cardinale Legato giunto da molto lontano per vederlo, finché un prelato presente non gli tirò la tonaca per richiamarlo alla realtà. Finalmente, il 6 42

dicembre 1273, mentre diceva messa, subi una misteriosa esperienza, - da alcuni interpretata come una visione, da altri come un tracollo mentale - , che pose termine a tutta la sua attività dottrinale. Egli non scrisse pili. né dettò alcunché; e quando il segretario l'esortava a continuare a lavorare alla Summa, ribatteva: «Non posso, perché tutto quanto ho scritto, adesso mi sembra un nonnulla». Al principio dell'anno seguente, il papa Gregorio X indisse un concilio generale della Chiesa, da tenersi a Lione. L'argomento principale nell'agenda era la riconciliazione delle Chiese greca e latina, e Tommaso vi fu convocato, come esperto di teologia grecoortodossa. Per quanto infermo, si mise in viaggio verso settentrione; ma un accidentale colpo alla testa lo forzò ad arrestarsi nel castello d'una nipote, presso Fossanova. Qualche settimana dopo, si fece trasportare nel vicino monastero cistercense, dove mori il 7 marzo 1274. Oltre alla Terza Parte, l'Aquinate lasciò a mezzo varie altre opere a cui aveva lavorato a Napoli: un commento al Salterio, che s'interrompe dopo il 54° Salmo, e un compendio di teologia, dedicato al suo segretario, e che è quasi un'edizione tascabile della Summa. A questa, le edizioni moderne aggiungono un supplemento - sui sacramenti restanti (penitenza, estrema unzione, matrimonio e ordinazione) e sui «Quattro Novissimi » (ultime cose: morte, giudizio, inferno e paradiso) - compilato dai segretari dell'Aquinate riunendo passi dei suoi scritti precedenti, specialmente del commento a Pietro Lombardo. Non erano passati tre anni dalla sua morte, quando un certo numero delle sue opinioni fu condannato pubblicamente dalle autorità nelle università di Parigi e d'Oxford; e un frate inglese recatosi a Roma 43

per appellarsi contro la sentenza d'Oxford fu condannato a perpetuo silenzio dal nuovo papa, il francescano Niccolò IV, e ne mor:i di dolore a Bologna. Ci vollero circa cinquant'anni perché gli scritti del1' Aquinate giungessero a essere in genere considerati ben fondati teologicamente. La condanna parigina non fu revocata fino al 1325 - due anni dopo che Tommaso era stato canonizzato; quella d'Oxford, per quanto so, non fu mai revocata. Fu nel 1316 che il papa Giovanni XXII apr:i il processo di canonizzazione di Tommaso. Ben pochi mi-. racoli gli venivano ascritti, da testimoni presenti, ma uno era attestato da parecchi testimoni oculari: mentre giaceva moribondo presso Fossanova - essi dissero - Tommaso non era stato in grado di mangiare per vari giorni, quando d'un tratto espresse desiderio d'aringhe. I parenti gli fecero presente che queste, forse facili a rintracciare a Parigi, non si trovavano nei mari d'Italia. Però, con sorpresa di tutti, la prossima partita di sardine inviata dal pescivendolo locale, conteneva una certa quantità d'aringhe. Sembra che i giudici del processo abbiano avuto forti dubbi che quei testimoni, inesperti di viaggi, fossero in grado di riconoscere un'aringa, al vederla; ma la scarsità di miracoli non impedi la canonizzazione. «Ci sono tanti miracoli, quanti articoli nella Summa», si crede che abbia detto il Papa; e dichiarò santo Tommaso, il 21 luglio 1323. Nemmeno dopo la canonizzazione l'Aquinate godette fra i teologi cattolici del prestigio particolare che l'ha invece circondato durante quasi tutto il nostro secolo. Fra i dotti domenicani, i suoi lavori sono sempre stati oggetto di speciale studio e di venerazione; ma soltanto l'enciclica Aeterni Patris del papa Leone XIII d'un secolo fa fece di lui, per dir cosi, il teologo ufficiale dell'intera Chiesa cattolica roma-

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na (1). Nel 1914 il papa Pio X diede alla filosofia e alla teologia tomistiche un posto d'onore senza pari, negl' istituti d'educazione ecclesiastica: ben ventiquattro tesi dell'Aquinate furono elencate, da insegnarsi, quali sicure e certe, nelle scuole cattoliche. L'Aquinate è adesso poco letto dai filosofi in titolo: nelle loro Facoltà - che siano di tradizione continentale o anglo-americana - gli si dà assai minore attenzione che a pensatori inferiori, quali il ·Berkeley o lo Hegel. S'intende che è stato ampiamente studiato negl'istituti teologici e nei corsi di filosofia d'istituzioni ecclesiastiche; ma l'approvazione chiesastica ha di per sé danneggiato la fama dell'Aquinate presso i filosofi laici, che in grazia d'essa propendono a ridurlo a semplice propagandista del cattolicesimo. Per di piu, il rispetto ufficialmente accordatogli dalla Chiesa ha fatto si che le sue opinioni e argomentazioni sono state spesso presentate in modo rozzo da ammiratori incapaci d'apprezzare la finezza della sua coltissima mente. Tuttavia sembra che dal Secondo Concilio Vaticano l'Aquinate, quale filosofo, abbia perso qualcosa del particolarissimo favore di cui godeva nei circoli ecclesiastici, per essere soppiantato, nell'elenco di letture degli ordinandi, da autori di moda, ritenuti piu importanti nella società contemporanea. Questo cambiamento in atto fra gli ecclesiastici può non danneggiare la sua riputazione fra i laici. I filosofi in cattedra avevano, è vero, anche motivi piu rispettabili, di carattere filosofico, per trascurare l'Aquinate; e negli ultimi anni c'è stato pure un mutamento nelle loro tendenze generali. Dal Cartesio in poi, l'attenzione dei filosofi era tutta concentrata (1) Era però già stato dichiarato Dottore della Chiesa, da Pio V, nel 1567 (N.d.T.).

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sull'epistemologia, cioè sul modo di fare un progresso graduale e ordinato da una posizione iniziale scettica, quando tutto è soggetto a dubbio, a una struttura di pensiero scientifico; in altri termini, sul modo di costruire un mondo d' oggetti esterni e d' altre menti, partendo da un iniziale presupposto o «dato» d'esperienza individuale, interiore. Ma l'Aquinate aveva poco interesse per l'epistemologia, anche se molta ne possa tralucere nei manuali filosofici « tomistici»; e questo contribui a farlo spesso spregiare. I presupposti della filosofia post-cartesiana sono stati sovente criticati, per esempio dal Marx e dal Freud; ma soltanto nel nostro secolo, per opera del filosofo Wittgenstein, e cioè dal di dentro della filosofia stessa, essi sono stati definitivamente scalzati. Il Wittgenstein mostrò che le descrizioni d' esperienze individuali che l'epistemologo cartesiano sussume come un dato, sono molto piu problematiche delle discipline e istituzioni pubbliche, comuni, che egli tenta di giustificare e di collocare su fondamenta sicure. Se avesse in tutto ragione il Wittgenstein, la filosofia sarebbe stata su una via sbagliata dal Cartesio in poi, e dovrebbe ora riportarsi in una carreggiata, che la renderebbe assai piu comprensiva per quanto appassionava il Medioevo. Non è un caso che parecchi dei filosofi di tradizione anglo-americana che han scritto dell'Aquinate con maggiore simpatia in anni recenti, siano stati discepoli del Wittgenstein. Come questo, il filosofo d'Oxford Gilberto Ryle molto cooperò ad abbattere le barriere che avevano impedito ai filosofi moderni di giungere ad apprezzare adeguatamente i loro predecessori medievali. Questo fece, non tanto coi suoi attacchi alla separazione cartesiana dello spirito dalla materia - al posto della quale egli propose talvolta una grezza e poco entusiasmante identificazione di spirito e com-

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portamento - , quanto col suo ritorno alle nozioni aristoteliche d'atto e potenza. Questi concetti filosofici e le loro ramificate elaborazioni medievali erano stati ridicolizzati a piacere da filosofi e orecchianti di filosofia, fin dal tempo del Cartesio e del Molière; ma il Ryle riscopri o riinventò le distinzioni aristoteliche tra vari strati di potenza, e li presentò ai filosofi contemporanei in un linguaggio arguto e vivido; cosicché un suo lettore trova oggi l'Aquinate assai meno misterioso che non apparisse a filosofi di generazioni passate. Ancor piu recentemente, un cambiamento sopravvenuto nella moda filosofica ha rimosso un ostacolo all'apprezzamento degli scritti dell'Aquinate sulla filosofia morale. Nella generazione precedente, i filosofi insistevano su una netta distinzione fra morale ed etica: la prima riguarderebbe questioni fondamentali di giusto e ingiusto, che influenzano decisioni su ciò che si debba o non si debba fare: è l'adulterio sempre condannabile? Dovrei essere, io, un obbiettore di coscienza? L'etica era una disciplina di second'ordine, concernente la logica del ragionamento morale: ci sono relazioni logiche - e quali - tra affermazioni di fatto e affermazioni di valore e d'obbligazione? Quali sono le caratteristiche logiche, specifiche dei giudizi morali? Quando legittimo campo d'azione del filosofo morale è considerata la sola etica, è probabile che uno scrittore come l' Aquinate, che non fa netta distinzione fra etica e morale, sia processato per direttissima. Ma negli ultimi anni i filosofi si sono interessati di questioni morali sostanziali quasi quanto i loro predecessori medievali, e perfino alcuni dei preminenti nel promuovere l' originaria distinzione fra etica e morale, vengono ora scoperti a scrivere su argomenti fondamentali, quali la moralità dell'aborto e la giustificazione della men-

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zogna, col medesimo entusiasmo con cui l'Aquinate scriveva della perversità dell'usura e delle condizioni perché una guerra fosse giusta. A dispetto di questi recenti cambiamenti, soltanto una sparuta minoranza di filosofi in titolo s'interessa assai dell'Aquinate. Le proposte del Wittgenstein sono state trascurate in modo sorprendente dai piii tra i filosofi, tra i quali i formalismi logici, che obliterano le distinzioni fra potenza e atto («mondi possibili») sono in generale piii in voga, d'un serio studio filosofico della potenza. C'è stato, si, un risveglio d'interesse per la filosofia medievale, tra gli storici della filosofia; ma s'è concentrato su logica, linguistica e metodologia scientifica (tutte materie di cui lAquinate s'era poco occupato) piii che su metafisica, etica e filosofia della mente - materie in cui egli aveva dato i suoi piii proficui contributi. Probabilmente, il motivo principale per cui non viene letto l'Aquinate, è il semplice e ovvio fatto che le sue opere sono scritte in latino medievale. Perfino quanti hanno acquistato a scuola una buona conoscenza del latino, trovano difficile lapproccio al latino Scolastico; e lo stile del Nostro è cosi tecnico e concettoso, che è malagevole darne una chiara traduzione senza cadere in una parafrasi tendenziosa. Tuttavia, una volta familiarizzatosi colle convenzioni Scolastiche, il lettore trova la prosa dell'Aquinate piana e scorrevole, e di gran lunga piii lucida di quella d'altri filosofi medievali, quali Duns Scoto e l'Occam. Il latino della Scolastica, persino quand'è piii fastidioso, non è piii difficile a tradursi della maggior parte del greco d'Aristotele: e se l'Etica di questo continua a essere studiata cori inesausto entusiasmo in un ambiente filosofico ormai quasi del tutto ignorante di greco, non c'è ragione perché la Seconda Parte, che è uno dei commenti piii affasci48

nanti che siano mai stati scritti su quell'opera, non debba essere studiata insieme ad essa con eguale attenzione. In questo capitolo ho tentato di presentare gli episodi principali della vita dell'Aquinate e gli argomenti principali dei suoi scritti, aggiungendo qualche nozione sulla sua influenza sui pensatori ulteriori e sulla sua importanza per la filosofia attuale; di necessità, il mio non è stato altro che uno schizzo, e per di piii impressionistico. Nei capitoli seguenti, adotterò un metodo diverso: da una panoramica generale passerò a un approfondimento selettivo, limitato cioè a due aspetti della filosofia dell'Aquinate - la metafisica e la filosofia della mente (o psicologia filosofica). Questi io tratterò particolareggiatamente, quanto basta per poter citare e discutere singoli passi dai suoi scritti. Nel prossimo capitolo discuterò i concetti metafisici - materia, forma, sostanza, accidente, essenza, esistenza - che costituiscono la trama di tutti gli scritti del Nostro, cercando di dimostrare che, mentre il suo sistema incorpora valide intuizioni e distinzioni importanti, quella parte che spesso ha suscitato maggiore ammirazione la teoria dell'Essere - è inficiata da confusioni filosofiche, alle quali nessuna benevola interpretazione può mettere riparo. Nel capitolo finale mi volgerò alla sua psicologia, cioè alla sua trattazione dell'intelletto umano, della volontà e delle facoltà conoscitiva e affettiva. Qui, al contrario, sosterrò che, nonostante confusioni in punti particolari e lacune, a noi additate da filosofi posteriori, noi possiamo trovare una struttura filosofica fondamentalmente tanto piii valida delle sue rivali a noi piii familiari, che su essa i filosofi futuri faran bene a edificare.

2. L'Essere

Un lettore qualsiasi, al primo sguardo su un'opera dell'Aquinate, si trova davanti a una congerie di termini tecnici che esprimono un gran numero d'idee difficili ad afferrarsi, e assolutamente fondamentali. Queste idee, secondo gli ammiratori del loro creatore, formano tutte insieme un sistema universale, fornente un inquadramento, adatto piii d'alcun altro a permettere lesame di problemi filosofici, nonché di scientifici d'ogni genere. Un tale inquadramento di concetti, trascendente gl' interessi di particolari discipline scientifiche, e offrente una comprensione dell'universo a un livello generalissimo e del tutto astratto, è quanto i filosofi designano col nome di sistema metafisico; ed è come metafisico, forse, che lAquinate è piii ammirato dappertutto. In questo capitolo cercherò d'esporre succintamente i concetti principali della metafisica del Nostro: concetti che per lo piii furono, non creati da lui, ma ereditati da una tradizione che risaliva ad Aristotele, sicché insieme a lui li ricevettero anche altri maestri nelle scuole e università del Medioevo; ed essi formano, si può dire, il patrimonio comune della Scolastica, come vien èhiamata la filosofia di quegl' insegnanti. Questi concetti sistematici generali devono essere esaminati da chiunque voglia capire qualcosa dell' Aquinate, dato che si troveranno in opera in ogni sua pagina. E tuttavia, a mio parere, la loro importanza non sta nel fatto che essi costituiscono, in complesso, un sistema filosofico coerente: al contrario, io penso 50

che il loro uso da parte dell'Aquinate spesso ingeneri ambiguità e confusione. Non metto in questione la sua fama di grande metafisico, ma penso che alle sue idee metafisiche egli sia giunto spesso nonostante, pili che a causa dell'apparato di concetti Scolastici da lui usato. Tenterò qui di spiegare tali concetti in modo da render chiari, sia il compito sistematico generale attribuito loro, sia i tipi particolari di confusione e oscurità a cui possono portare. Illustrerò la mia esposizione col discutere alcuni dei passi piu importanti, sull'argomento, degli scritti tomistici. Tali passi non sono facili a comprendersi, né il lettore deve aspettarsi di capirli alla prima lettura. Mi sforzerò di spiegare i tanti punti in essi sottintesi e impliciti, in un linguaggio piu intelligibile a gente non familiare col gergo Scolastico; di modo che il lettore possa poi tornare ai testi con migliore comprensione. Questo procedimento, sebbene faticoso, lo convincerà, spero, che non ci può essere traduzione semplice e pacifica delle idee dell'Aquinate in termini e concetti immediatamente intelligibili al lettore attuale. Le lingue moderne occidentali contengono moltissime parole comuni, d'uso quotidiano, che all'inizio erano termini tecnici della Scolastica aristotelica: parole come «accidente», «intenzione», «materia», «sostanza», «forma», «qualità», «categoria», «proprietà». Di solito, il significato pili comune di queste parole è un po' differente dall'originario aristotelico; e una spiegazione del secondo può servire da introduzione alla metafisica degli scritti dell' Aquinate. Le nozioni di sostanza e accidente meglio si chiariscono esaminando, come fece Aristotele nelle sue Categorie, i differenti tipi di predicato. La teoria delle categorie può essere considerata un tentativo di 51

classificare i predicati. Il predicato d'una proposizione può dirvi che genere di cosa sia il soggetto, o quanto sia grande, o come sia, o dove sia, o che cosa stia facendo, ecc. Per esempio, noi possiamo dire di Tommaso d'Aquino che era un uomo, che era enormemente grasso, che era intelligente, che era piu giovane d'Alberto Magno, che visse a Parigi, che visse al tempo di san Luigi re di Francia, che soleva star seduto nel far lezione, che si radeva la testa, che scrisse molti libri, e che fu rapito dai familiari. I predicati che usiamo per dire queste cose appartengono - direbbe Aristotele - a categorie differenti: rispettivamente, a quelle di sostanza, quantità, qualità, relazione, luogo, tempo, posizione, costume, azione e passione. Un predicato della categoria della sostanza vi dice, a proposito di ciò di cui tratta la frase, che razza di cosa sia: un essere umano, un cane, un castagno o un grumo d'oro. Questo è uno dei significati della parola «sostanza», in quanto può essere usata per designare un tipo di predicato, in opposizione agli altri nove tipi o categorie, che possono essere detti predicati d' accidenti. Pili importante è l'uso che si può fare della parola « sostanza » per riferirsi alla cosa di cui si parla in proposizioni quali le suddette: l'oggetto indicato dal termine che è soggetto delle proposizioni. Cosi, Tommaso d'Aquino era in sé una sostanza, a cui si potevano attribuire predicati sostanziali e accidentali. La differenza importante fra i due tipi di predicati è che, quando un predicato sostanziale cessa d'esser vero d'una sostanza, questa cessa d'esistere; quando cessa d'esser vero un predicato accidentale, la sostanza, semplicemente, cambia. Cosi, l'Aquinate poteva cessare di vivere a Parigi senza cessare d'esistere. Sebbene il rapporto fra sostanza e accidenti sia spiegato meglio a proposito di proposizioni composte 52

di soggetto e predicato, né le sostanze né gli accidenti sono entità linguistiche, parti cioè di linguaggio. L'enunciato « Socrate è sapiente» contiene la parola «Socrate», ma tratta dell'uomo Socrate; e sostanza è quest'uomo, non la parola. (Sgscita però confusione il fatto che sia l'uomo sia la parola possono essere detti, nella nostra lingua come nella terminologia dell'Aquinate, «il soggetto» della frase). Similmente gli accidenti devono essere distinti dai predicati accidentali: quando «Socrate è sapiente» è vero, quello che rende vero il predicato in relazione al soggetto, è che tra i particolari che ci sono al mondo, c'è la sapienza di Socrate; l'accidente è questo particolare extra-linguistico, non il predicato della proposizione (MV 1 9 885 segg.). S'intende che la sapienza di Socrate non è un'entità sostanziale come Socrate in persona; né la è il suo colore, né la sua statura, né il suo atteggiamento; ma credenza nella realtà degli accidenti non implica che si concepiscano questi come entità concrete quali le sostanze, anche del genere piu impalpabile. L'importanza della distinzione tra sostanza e accidente sta proprio nell'illuminare quale sia la diversità fra la sapienza di Socrate e Socrate. Moltissimi invece di quelli che credono negli accidenti - tra cui l' Aquinate - suscitano essi stessi confusione quando parlano d'accidenti come di parti o componenti della sostanza alla quale appartengono. Il colore d'un albero non è una parte dell'albero allo stesso modo della corteccia, dei rami e delle foglie; e forse a nessuno verrebbe mai in mente che dire: Socrate è « piu alto di Simia » faccia di questo predicato una parte di Socrate. È quindi fonte di confusione il parlare di sostanza e accidenti come se entrassero in una specie di composizione tra loro (come per es.· in S I 3 7). Ma contro la confusione a cui ciò può condurre - di 53

pensare agli accidenti come a una sorta di pelle esterna o di vernice, e alla sostanza come a un nocciolo o midollo interno - l'Aquinate stesso ci mette in guardia di tanto in tanto. Chi credesse di poter tracciare il. contrasto fra sostanze e accidenti dicendo le prime concrete e gli altri astratti, imboccherebbe una via sbagliata. Se per «concreto» s'intende «tangibile», allora ci sono sostanze, come laria, che non sono tangibili in alcun senso ordinario. Inoltre, se l'Aquinate ha ragione, ci sono sostanze, quali Dio e gli angeli, che non sono tangibili in alcun senso. D'altra parte, ci sono accidenti, come la scabrosità d'un pezzo di carta vetrata, che sono tangibili nel senso addirittura triviale d' essere palesabili coll'uso del tatto. Altri accidenti sono percettibili con altri sensi: il colore colla vista, il sapore dolce col gusto, e cos:i via. Alcuni sono percettibili con piii d'un senso: la forma, per esempio, è scopribile all'apparenza o al tocco. Le sostanze in sé e per sé, anzi, sono di fatto percettibili soltanto attraverso i loro accidenti: è perché posso vederne colore, dimensione e forma, e udirne il miagolio e tastarne la pelliccia, che posso percepire il gatto. Il che significa, non che le sostanze siano entità impercettibili, misteriose, invisibili e intangibili dietro i consueti accidenti visibili e tangibili, ma che la tangibilità non è la caratteristica distintiva della sostanza. Che qualcosa è una sostanza d'un certo tipo, secondo l'Aquinate lo può scoprire soltanto l'intelletto, non la percezione sensoriale; invece la presenza d' accidenti può essere palesata coll'uso puro e semplice d'uno dei cinque sensi. Questo pare che sia esatto: io non vedo di che specie sia una cosa soltanto guardandola, piii che io non veda che sapore abbia, usando semplicemente i miei occhi. Eppure le sostanze possono venir percepite. Cogli occhi, io pos54

so vedere, poniamo, dell'acido solforico, anche se non è soltanto guardandolo, ma usando con intelligenza ipotesi, esperimento e informazione, che io identifico la materia da me vista coll'acido solforico. Che sia dunque, la concretezza della sostanza e l'astrattezza degli accidenti, da ricercarsi in questo, che le sostanze sono entità con una storia, che entrano in relazione causale l'una coll'altra, mentre gli accidenti sono per cosi dire senza tempo, e isolati dal trambusto universale? No: «la Sapienza» colla S maiuscola, può ben essere sognata esistente in qualche reame etereo fuori dello spazio e del tempo, ma la sapienza di Socrate s' accrebbe col tempo, influenzò la sua vita e quella d'altri, e fu rimpianta assai quando scomparve dal mondo assieme a Socrate in persona. L'Aquinate stesso, per indicare la differenza tra sostanza e accidenti, usa due detti d'ispirazione aristotelica, entrambi per niente facili a tradursi. Uno è: accidentis esse est inesse (=essere, per un accidente è essere in qualcosa); l'altro: accidentis non est ens sed entis (=un accidente è, non un'entità, ma d'un' entità). Ambedue questi detti arcani finiscono per dire la medesima cosa: qualsiasi accidente, che sia una figura, un sorriso o un peso, dev'essere un accidente di qualcosa: la figura di qualcosa, il sorriso di qualcuno, il peso d'un oggetto. Non ci può essere una figura che non sia di qualcosa, un sorriso che non sia d'alcuno, un peso che non sia d'un oggetto. Inoltre, quando parliamo dell'esistenza o della storia d'accidenti, in realtà stiamo parlando di modificazioni e cambiamenti di sostanze; come, quando diciamo che il raffreddore di Socrate è peggiorato, vogliamo dire che Socrate starnutisce piu spesso, respira con maggiore difficoltà, ecc. L'Aquinate insiste che Dio, quando creò il mon-

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do, creò sostanze, non accidenti (S I 45 4C), e ci mette in guardia contro gli errori di chi pensa agli accidenti come a sostanze evanescenti (C 11). La sua dottrina si potrebbe compendiare come segue: L' esistenza dell'F-ità degli A non è altro che gli A che sono F; e l'apparizione dell'F-ità degli A non è altro che gli A diventanti F. Sebbene l'Aquinate insista fortemente su questo punto, troviamo con sorpresa tanti altri passi, nei suoi scritti, dov' egli appare prontissimo ad ammettere che possano esistere accidenti non inerenti ad alcuna sostanza. Di fatto, egli credeva che questo succedesse realmente nel sacramento dell'eucarestia: una volta consacrati il pane e il vino, gli accidenti del pane e del vino, secondo lui, rimanevano in esistenza dopo che il pane e il vino erano diventati il corpo e il sangue di Cristo. Naturalmente, egli credeva ciò un risultato del miracoloso esercizio dell'onnipotenza divina; ma credeva anche, e spesso ribadiva, che nemmeno un Dio onnipotente poteva dar luogo a uno stato di cose che fosse in sé contraddittorio. Alcuni possono vedere, nella teoria dell'Aquinate sulla transubstanziazione, semplicemente una caduta dal livello di rigore filosofico a cui si manteneva quando non era sotto la pressione d'un dogma. Prima d'accettare questa spiegazione possiamo tuttavia ponderare se sia davvero in sé contraddittorio, parlare d'accidenti che non siano accidenti d'alcuna sostan. za. L'idea del gatto del Cheshire (1) e del suo risolino senza il gatto sembra la vera quintessenza dell'assurdo; d'altra parte, non c'è nulla di misterioso, nonché (1) Il Cheshire è una regione nord-occidentale dell'Inghilterra, sul mare d'Irlanda. Il gatto del Cheshire appare nel cap. VI delle« Avventure d'Alice nel paese delle meraviglie», di Lewis Carroll (N.d.T.).

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di miracoloso, nell'odore o sapore di cipolla che permane intorno, dopo che le cipolle sono state mangiate. Cosi, l'orma del mio stivale può restare impressa nella neve dopo che lo stivale stesso, collocato imprudentemente troppo vicino al fuoco perché s' asciugasse, è andato in fiamme. In questi casi si tratta d'accidenti di singole sostanze ora scomparse; ma i colori dell'arcobaleno, e l'azzurro del cielo, sono colori non attribuibili ad alcuna sostanza presente o passata. Si possono addurre, questi casi, contro le tesi aristoteliche enunciate qui sopra? La verità sembra essere che negli scritti dell' Aquinate si fa uso di due nozioni d' «accidente» del tutto diverse. Da un lato c'è la nozione generalissima, astratta, derivata dall'aspetto grammaticale delle categorie aristoteliche: dovunque ci sia una proposizione predicativa della forma «A è F », c'è un accidente descrivibile con una frase nominale costruita sul predicato (una «nominalizzazione» del predicato): l'Fità di A, o l'essenza F di A (v. sopra, a pag. 56). D'altro lato, c'è una seconda nozione tratta dalla riflessione sull'uso. ordinario di parole come «forma», «colore», «sapore», «odore», «posizione», ecc. Queste parole possono venir usate per classificare le nominalizzazioni che derivano dallo schema aristotelico: dato che la terra è rotonda, c'è una rotondità della terra - un caso, quindi, di forma. Basta però un attimo di riflessione per convincersi che l'uso ordinario di parole di tal genere è assai pili lato di quello aristotelico: il «di» che troviamo in espressioni quali « la forma di ... », « l'odore di ... » s'estende a molti altri rapporti, accanto a quello dell'inerenza d'un accidente a una sostanza, ora insieme esistente; per esempio, p.uò essere come il «di» nelle frasi: « l' effetto dell'esplosione», o« la storia del re Artu ». Quando l'Aquinate scrisse d' accidenti a proposito 57

della transubstanziazione, è chiaro che aveva in mente la nozione popolare di essi. Cosi, domandandosi come possano nutrire e inebbriare accidenti senza sostanza, egli esamina, si, la supposizione che sia l' odore del vino a inebbriare, come quello d'una cantina ben fornita può stordire chi non ha ancora aperto alcuna botte; ma la respinge, non per il motivo che un accidente è un che di totalmente diverso da un odore, ma perché ci si può inebbriare assai piu col vino consacrato, che andando ad annusare in una cantina (S III 77 6) . Se ci fondiamo sulla nozione aristotelica d' accidente, in quella d'un accidente non inerente ad alcuna sostanza c'è un'incoerenza palmare: non ci può essere qualcosa come l'essenza F di A, se non c'è un A. Ma la nozione popolare, poiché permette che il «di» dell'espressione « l'F-ità di A» indichi relazioni assai varie, può far ammettere che l'F-ità esista dopo la scomparsa di A. L'Aquinate avrebbe reso un buon servizio ai suoi lettori sia teologi sia filosofi se, nello scrivere della transubstanziazione, si fosse curato di distinguere tra i due concetti d'accidente, e non avesse parlato come se stesse continuando a usare quello aristotelico (come per es. in S III 77 1 ad 3). In accordo colla nozione aristotelica, quindi, un accidente è sempre accidente d'una sostanza, e ogni asserzione intorno a un accidente dev'essere sostituibile con una, che abbia per soggetto una sostanza, Perché dunque, possiamo domandare, non si può sostenere lo stesso a proposito delle sostanze? Se qualsiasi asserzione intorno alla bianchezza di Socrate è riducibile a un'asserzione intorno a Socrate che è bianco, perché non possiamo dire con eguale sicurezza che ogni enunciato intorno a Socrate dev'essere riducibile a uno intorno a qualche entità sottostante - materia o energia che sia - , che si trova ora in 58

forma socratificata? Per rispondere a questo quesito, dobbiamo volgerci dalla distinzione tra sostanza e forma accidentale, a quella tra materia e forma sostanziale: quella che, per lAquinate, è la forma per eccellenza (1). Questi concetti di « materia» e « forma» hanno soprattutto una funzione primaria nell'analisi, a cui procede l'Aquinate, dei cambiamenti subiti dalle sostanze individuali. Se ho un grumo di pasta e lo plasmo tra le dita si da dargli l'apparenza, prima d'una barca e poi d'una donna, vien naturale di dire che qui il medesimo pezzetto di materia sta prendendo, una dopo l'altra, forme_ diverse. Come in italiano, cosi in latino - e ancor piu in greco, per le parole di cui le latine sono la traduzione - le parole «materia» e·« forma» possono avere il senso corrente usato qui sopra; ma il plàsmare un pezzo di pasta, sebbene sia il genere d' esempi che lAquinate, seguendo Aristotele, usa spesso per introdurre e chiarire le nozioni di materia e forma, non è, a rigor di termini, il caso d'un solo corpo materiale assumente due diverse forme sostanziali, perché il cambiamento che ho fatto subire a quel grumo è accidentale, non sostanziale; non c'è qui nessun cambiamento da un genere di cose a un altro, nessuna variazione di predicati nella categoria della sostanza. Inoltre, un grumo di pasta, per l'Aquinate non è affatto, in senso stretto, una sostanza, ma piuttosto un conglomerato artificiale di varie sostanze naturali. Perché ci sia un genuino cambiamento sostanziale, è necessario, per quanto non sufficiente, •che al principio del cambiamento ci sia una sostanza d'un dato genere, e alla fine, una sostanza d'altro genere. Esempio di cambiamento sostanziale è, per I' A( 1)

In francese, nel testo ( N. d. T.) . 59

quinate, la morte e decomposizione del corpo d'un cane. Qui, come in tanti altri casi, noi non abbiamo semplicemente una singola sostanza d'un dato genere che si muta in una singola sostanza d'altro genere, ma una singola sostanza che si muta in tante sostanze indipendenti: i vari elementi naturali in cui si decompone il corpo. Questo è un cambiamento sostanziale da uno a molti; quando invece io mangio e digerisco un pasto variato, abbiamo il caso inverso, d'un cambiamento sostanziale da molti a uno. Perché ci sia un genuino cambiamento sostanziale, non è sufficiente che ci sia un episodio che comincia colla sostanza A e termina colla sostanza B. Perché un simile episodio sia un cambiamento in contrasto, poniamo, con una miracolosa sostituzione d'una sostanza all'altra, è necessario che ci sia qualcosa di comune tra la sostanza presente all'inizio del cambiamento e quella presente alla fine. Un modo di spiegare il concetto di «materia», è dire che questa è ciò che è comune ai due termini d'un cambiamento sostanziale. Quando la sostanza A di genere F si trasforma nella sostanza B di genere G, c'è allora un certo che, passato attraverso il cambiamento, che prima di questo era F-ale e alla fine è. G-ale. Questa, almeno, è la spiegazione suggerita da parecchi passi del Nostro. Per esempio: In ogni cambiamento ci dev'essere un soggetto d'esso che è prima in potenza e poi in atto ... La forma di ciò, in cui una cosa è trasformata, comincia a esistere primamente

nella materia di ciò, che in esso viene trasformato; cosi, quando l'aria è trasformata in fuoco che prima non esiste, la forma del fuoco comincia a esistere primamente nella materia dell'aria; e similmente, se un ,cibo è trasformato in un essere umano prima non esistente, allora la forma d'un essere umano comincia a esistere nella materia del cibo (S III 74 4 12, e ad 1 2).

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Il primo esempio d'un cambiamento sostanziale dato qui dall'Aquinate, mostra che nella sua mente l'analisi dei concetti di materia e forma era collegata con una teoria scientifica primitiva, secondo la quale gli elementi dei corpi del nostro mondo erano terra, aria, fuoco e acqua. I corpi composti sono fatti di questi quattro elementi, e in essi possono venir decomposti; ma un cambiamento da uno di essi in un altro non è una scomposizione in un che di pili semplice, perché di piu semplice non c'è niente. Noi potremmo del tutto naturalmente considerare gli elementi stessi come la materia di cui son fatti i corpi composti: se io strappo una manciata di sedani da un orticello e me la mangio, potremmo dire che a tutti i pezzetti di terra e a quel poco d'acqua a cui s'era un tempo imposta la forma d'un vegetale, s'è ora imposta la mia forma umana; ed essi potrebbero certo esistere separatamente, appunto come pezzetti di terra e un po' d'acqua; ma terra, acqua, fuoco e aria non sono fatti a loro volta di qualcosa che possa esistere separatamente. Eppure, secondo la teoria del1' Aquinate, essi si possono mutare l'uno nell'altro; cosicché ci dev'essere un che di comune a tutti e quattro, un che, di cui essi son fatti, e che egli chiama materia prima (primordiale); per cui la materia preesistente in cui i corpi composti possono essere scomposti sono i quattro elementi; ma non ci può essere alcuna scomposizione nella materia Prima, che risulterebbe nell'esistenza di questa senz'alcuna forma: perché la materia non può esistere senza forma (S III 75 3).

Fino a che punto i concetti di materia e di forma sostanziale possono venir staccati dalla fisica arcaica con cui sono associati? I quattro elementi medievali sembrano gli antenati delle nostre nozioni di solido, liquido e gassoso, i quali poi sembrano essere, pili 61

che componenti di sostanze, stati della materia. (Fino allo sviluppo della fisica del plasma, non era immaginabile che il fuoco tornasse alla pari cogli altri tre elementi). Nella misura in cui i chimici riconoscono cambiamenti sostanziali, - cioè da un elemento chimico a un altro - , un cambiamento da acqua a vapore non conta quale cambiamento sostanziale. Tuttavia, sebbene l'analisi d'un cambiamento chimico sia immensamente piu complicata di ciò di cui tiene conto l'Aquinate, questa disparità di per sé non toglie validità alla nozione di materia primordiale, poiché si supponeva che essa potesse essere applicata precisamente al punto, qualunque esso fosse, dove cessava l'analisi chimica. Non è in casi in cui possiamo dire, per esempio: «Questo H 2 0 prima era ghiaccio, e adesso è acqua», o: «Quest'idrogeno, combinato prima coll'ossigeno, ora lo è collo zolfo», che ricorriamo al concetto di materia primordiale; è in casi in cui non possiamo dire alcunché come « H 2 0 » o «idrogeno» riguardo a ciò che esiste da prima a dopo il cambiamento, che l'Aquinate parlerebbe di ciò, che è comune ai termini del cambiamento, come di materia prima. Sembra dubbio che ci siano casi del genere; a ogni livello pare che si possano dare descrizioni appropriate, finché si giunge al punto, in cui diventa un problema persino l'identificazione della materia, come nella fisica sub-atomica. Come ha ben detto uno scrittore recente, P. Geach: Dire che nella scienza moderna non e' è posto per la concezione della medesima materia, sarebbe certo errato; uno scienziato potrebbe assai bene indagare se, e quanto rapidamente, un corpo, in apparenza immutato, subisse in realtà uno scambio di materia coll'ambiente; o invece potrebbe domandarsi quali parti del corpo d'un uomo fossero nutrite d'una data sostanza, e forse usare isotopi radioattivi per apprendere dove sia essa andata a finire. Ma

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l'applicazione d'un tale discorso alla fisica fondamentale sembra fuori discussione: l'identificazione di particelle di materia sembra qui perdere ogni senso, e cosi pure, in verità, l'idea d'un recipiente perfettamente stagno.

Quasi sempre, è a proposito del ciclo della vita d' esseri terreni che l'Aquinate e i suoi seguaci fanno uso delle nozioni di materia primordiale e di forma sostanziale. Egli credeva che in una creatura vivente ci fosse soltanto una singola forma sostanziale, in un dato tempo. Anche se un animale può fare tante delle cose medesime che fa un vegetale (per esempio, nutrirsi e propagarsi da solo), ciò non significa che abbia due forme: una in comune coi vegetali, che lo rende una cosa vivente, e un'altra in piu, che lo rende un animale; ha una sola, specifica forma, che lo mette in grado di compiere tutte le sue funzioni vitali caratteristiche, a ogni livello. Ne segue che, quando io colgo e mangio il sedano, non è esatto dire, come avevamo insinuato qui sopra, che un po' d'acqua era prima parte del sedano e ora fa parte di me; perché non vi sono particelle di materia che prima avevano la forma di sedano e poi quella d'uomo, e sempre avevano la forma dell'acqua. Questa forma d'acqua è soltanto «virtualmente contenuta» nella forma di sedano, nel senso che quanto una particella di materia potrebbe fare in virtu del suo essere acqua, essa può farlo anche in virtu del suo essere parte d'un tutto organico colla forma appropriata di sedano. Non è facile capire con quali argomenti, o perfino colla pratica di quale scienza si potrebbe trovare risposta adeguata a chi domandasse quante forme sostanziali ci siano, poniamo, in un cane vivo; quindi è difficile sapere se siamo d'accordo o no coll' Aquinate, che c'è una sola forma sostanziale in ogni sostan63

za; ma è corretto dire che, se una sostanza può avere soltanto una forma sostanziale per volta, allora la materia di cui la sostanza è composta dev'essere materia prima, nel senso che in quel momento non ha altra forma. Tale materia primordiale è talvolta presentata come un'entità misteriosa, incomprensibile e sterile, o forse è meglio dire: come una non-entità; è definita come qualcosa che non può avere realmente un predicato, poiché questo implicherebbe l'attribuzione di forma a ciò che per natura è essenzialmente senza forma. C'è però una confusione e un'ambiguità, in questo descrivere la materia come senza forma: perché intendiamo materia non unita ad alcuna forma, o materia non avente forma? Nel primo senso, l'Aquinate è deciso: non c'è cosa come materia senza forma; essa non può esistere, neppure per volontà di Dio. Discutendo la dottrina d' alcuni Padri della Chiesa, che la materia sarebbe stata primamente creata informe, egli dice: Se materia informe significa materia priva d'una forma purchessia, allora è impossibile dire che un periodo di mancanza di forma avrebbe preceduto la formazione e differenziazione della materia. Quest' è ovvio nel caso di formazione, perché, se la materia informe fosse stata precedente nel tempo, essa già sarebbe esistita in atto ... ma forma e atto sono assolutamente la stessa cosa; dire quindi che la materia preesistette senza forma, è dire che qualcosa esistette in atto senz'essere in atto - il che implica contraddizione (S I 66 1).

In altro senso, tuttavia, la materia può esser detta informe, perché, a rigor di termini, essa non ha forme: il suo rapporto colla forma non consiste nell' averla; è la sostanza, il composto di materia e forma, che ha la forma. La materia è una specie di potenzialità; l'aria, quando è cambiata in fiamma, prova 64

[con ciò] che ha la potenzialità di cambiarsi in fiamma; e la materia comune all'aria e alla fiamma è precisamente la loro facoltà di cambiarsi l'una nell' altra. Ma la potenzialità d'esser fiamma non è ciò che ha la forma di fuoco: è l'aria, che ha la forma del1' aria, e insieme la potenzialità [di diventar fuoco]. Da un lato, dunque, non può esserci materia se non in unione con una forma o con laltra; dall' altro, la materia può restare la stessa (materia), pur separandosi da qualsiasi data forma che si possa menzionare. È per questo che il cambiamento sostanziale differisce dall'accidentale, e che le forme sostanziali son distinte dalle accidentali: quando una sostanza perde una forma accidentale e ne acquista un'altra - come quando un camaleonte perde colore-, c'è sempre una forma, la sostanziale (del camaleontismo), che resta fissa durante tutta la trasformazione; invece, quando un frammento di materia è, prima un essere umano, e poi un cadavere, non c'è forma a cui la materia resti unita durante il cambiamento. Cosi lAquinate dice della materia: La materia riceve una forma; e col riceverla acquista esi- · stenza, quale caso particolare d'un dato genere di cose, aria o fuoco o checché possa essere (S I 50 2 ad 2). La materia esiste in atto soltanto grazie alla forma. Qualunque cosa fatta di materia e forma cessa d'esistere in atto, per opera della separazione della forma dalla materia (S I 50 5).

Non si potrebbe dire similmente che una sostanza esiste in atto, soltanto perché ha accidenti. S'intende che sostanze quali gli esseri umani devono avere molteplici accidenti, in quanto devono avere una figura o un'altra, una dimensione o un'altra, un colore o un altro, ecc.; ma non è in virtu di questi accidenti che lo sostanze esistono e sono quel che sono. Una 65

sostanza potrebbe perdere un qualsiasi accidente particolare, senza cessare d'essere quella che è; ma se perdesse la propria forma sostanziale, certamente cesserebbe d'esistere. Quando consideriamo la teoria tomistica degli accidenti, noi ne troviamo fianco a fianco, negli scritti dell'Aquinate, una nozione filosofica astratta e una popolare piu concreta. Lo stesso si dica della teoria della materia. Talvolta questa è vista semplicemente come la potenza (potenzialità) di cambiamento sostanziale: dire che una cosa è materiale, è, semplicemente, dire che è capace di cambiarsi in una sostanza d'altro genere. Talvolta invece la materia è considerata come quella cosa che ha la capacità di cambiare; sia che essa sia la sostanza stessa (come si potrebbe dire d'un essere umano che era, tra l'altro, un bel pezzo di materia), o una parte della sostanza (come quando veniamo avvertiti che, dicendo: «l'aria ha la potenzialità d'essere fiamma», noi a rigore stiamo parlando soltanto di quella parte dell'aria che, quando c'è ormai la fiamma, si può dire che è la fiamma) (S III 75 8). Della materia in senso popolare, molto può dirsi che sarebbe assurdo dire d'essa in senso filosofico. Non si potrebbe dire della potenzialità che ha una cosa di cambiarsi, che è stata divisa in due, o che ha una certa dimensione; è soltanto la materia, come quella che ha la potenzialità, che si può dire abbia dimensioni. Questo è importante, perché è la materia in quanto è caratterizzata da dimensioni, che secondo l'Aquinate è ciò che i filosofi chiamano «principio d'individuazione» nelle cose materiali. Egli vuol dire con ciò che, per esempio, due piselli, per quanto simili, per quante forme accidentali possano avere in comune oltre la loro forma sostanziale, sono due piselli e non un pisello, perché sono due

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differenti frammenti di materia. A quanto pare, se vogliamo evitare confusioni nel pensare alla materia sarebbe meglio considerarla, non quale potenzialità, non quale parte d'una sostanza, ma quale sostanza, di per sé in grado di cambiare. Se cosi intendiamo la materia, possiamo spiegare la forma sostanziale, corrispondentemente, come ciò che fa si che un pezzo di materia sia una sostanza d'un genere particolare (Il genere può essere naturale o artificiale: l'Aquinate è preparato ad ammettere che un manufatto come il pane è una sostanza - v. S III 75 6 ad 1). Quando noi diciamo che la forma fa una sostanza della materia, la parola «fa» non dev'essere male interpretata: la usiamo qui nel senso, in cui potremmo dire che è la forma, che fa della Grande Piramide una piramide; non stiamo cioè parlando d'una cosa che agisce causalmente su un'altra, dall'esterno, come quando diciamo che la pioggia fa crescere l'erba. L'espressione favorita dell'Aquinate, per una forma, è id quo a/iquid est (ciò per cui una cosa è ciò che è). Una forma sostanziale è ciò, in virtii di cui una cosa è il tipo di cosa che è; ciò, di fatto, in virtii di cui essa, in fondo, esiste; mentre una forma accidentale è ciò, in virtii di cui qualcosa è « F » - e qui « F » è un qualche predicato delle categorie degli accidenti. Le forme sostanziali d' oggetti materiali sono le forme individuali. Pietro, Paolo e Giovanni possono avere in comune la medesima forma sostanziale, nel senso che ciascuno di loro ha la forma sostanziale dell'umanità; ma se vogliamo contare le forme, l'umanità di Pietro, quella di Paolo e quella di Giovanni ammontano a tre forme, non a una. Quello che fa di Pietro, di Paolo e di Giovanni tre uomini e non un uomo solo, è la loro materia, non la loro forma; però la materia, individuando le sostanze, individua

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pure le loro forme sostanziali. L'Aquinate avrebbe considerato inaccettabile la nozione platonica che Pietro, Paolo e Giovanni sono tutti e tre uomini, perché partecipano d'una sola, comune forma d'umanità (S I 50 2). L'Aquinate e i suoi seguaci parlano talvolta come se in frasi del tipo «Pietro è un uomo», o «Socrate è sapiente» noi potessimo spiegare il significato dei predicati dicendo che ciascuno si riferisce a una forma - sostanziale nel primo esempio, accidentale nel secondo. Questo non può essere esatto: in primo luogo, è chiaro che «Pietro ha la forma sostanziale dell'umanità» ci è comprensibile soltanto perché ci vien detto che equivale a «Pietro è -un uomo»: la nozione di forma è spiegata in termini di significato dei predicati, e non viceversa. In secondo luogo, la teoria non rende conto del significato di frasi menzognere. Sembra chiaro che tutte le parole d'una frase debbano avere il medesimo significato, sia la frase veritiera, o no. Se una domanda richiede la risposta «Si» o «No», il valore di tutte le parole in questione dev' essere eguale, senza riguardo alla risposta. Se però la proposizione «Socrate è sapiente» è menzognera, ciò vuol dire che la sapienza di Socrate, intorno a cui dovrebbe rotare la proposizione., non esiste. Quando lAquinate dice che i corpi materiali sono composti di materia e forma, e che queste sono parti dei corpi, egli non vuol dire che materia e forma siano elementi di cui son costruiti i corpi, o pezzi in cui i corpi possano essere scomposti. La materia, come abbiamo visto, non è in grado d'esistere senza forma; e le forme, a differenza dei corpi, non sono fatte d'alcunché. Moltissimo, di ciò che il Nostro dice delle forme, sembra implicare che esse non possano esistere senza materia, appunto come questa non può esistere senza forma. Se le. forme non esistono 68

da sole, ma sono soltanto ciò, in virtu di cui esistono le sostanze, sembra chiaro che non ci possa essere una forma sostanziale che non sia forma d'una data sostanza. E questa, di fatto, sembra l'opinione dell' Aquinate. Tuttavia, con nostro stupore, egli pensava che, oltre alle sostanze materiali, composte di materia e forma, ci fossero anche sostanze immateriali, consistenti di pura forma. Cosi egli concepiva gli angeli della tradizione giudeo-cristiana, che identificava colle intelligenze cosmiche postulate dall'astronomia greca ed arabica. Ora, non c'è nulla d'inconcepibile nella nozione d'una sostanza non materiale - nel senso che non è generata di, o decomponibile in, sostanze materiali d'altre specie. Una tale sostanza potrebbe perfino essere intelligente: un cerchio cristallino imperituro, capace di movimento ma non di cambiamento sostanziale, sarebbe in tal senso un' intelligenza immateriale (1). L'idea pare fantasiosa, ma non inconcepibile. L'Aquinate credeva che i corpi astrali visibili fossero immateriali in questo senso ristretto: che fossero fatti d'un quinto elemento (la « quintessenza») che, senza potenza d'assumere alcun'altra forma sostanziale, era soltanto in grado di cambiare di luogo. Gli angeli, invece, teneva per fermo che fossero immateriali nel senso pili lato - d'essere cioè pura forma. Fedele alla sua dottrina che, se due cose hanno forme sostanziali simili, ciò che le individua è la loro materia, egli sosteneva che non ci poteva essere piu d'un solo angelo immateriale d'ogni dato genere. Pietro e Paolo appartenevano alla medesima specie, (1) Il cielo cristallino, in realtà, era concepito come una sfera, mossa dagli angeli, dei quali è propria l'intelligenza (N.d.T.).

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essendo differenti frammenti di materia, di simile forma umana; gli arcangeli Michele e Gabriele erano ciascuno il rappresentante unico d'una specie particolare, e l'uno era tanto differente dall'altro, quanto un essere umano da un pesce (S I 50 4). Le speculazioni dell'Aquinate sugli angeli sono spesso affascinanti per la luce che gettano, indirettamente, sulle sue teorie filosofiche su entità piu terrene; ma la sua dottrina delle forme pure sembra una ricaduta nel platonismo contro il quale egli ci teneva tanto a restare in guardia, nel render conto di sostanze materiali. Non intendo pronunciarmi sulla concepibilità d'intelligenze immateriali; intendo dire soltanto che, se l'idea d'una sostanza immateriale può esser resa coerente, è meglio presentarla come un caso, non di pura forma, ma d'un tipo di sostanza al quale non s'applica la dottrina di materia e forma. Però anche rispetto alle sostanze materiali l'Aquinate è disposto ad ammettere un'eccezione alla sua tesi generale che le forme sostanziali d' oggetti materiali esistono soltanto, in quanto esistono le sostanze di cui sono le forme: l'eccezione è in favore delle anime degli esseri umani. L'Aquinate considerava le anime degli esseri umani, e, di fatto, di tutti i viventi, quali casi particolari di forme sostanziali. Da aristotelico qual era, giudicava animali e vegetali forniti d'anima non meno degli esseri umani: un'anima era semplicemente il principio vitale, negli esseri viventi organici - e ci sono moltissimi organismi non-umani. Lo speciale privilegio degli esseri umani è il possesso, non d'un' anima, ma d'un'anima razionale o intellettiva. Ora, gli esseri umani crescono e si nutrono, proprio come i vegetali; vedono, e assaporano i gusti, e corrono e dormono, proprio come gli animali. Significa, que70

sto, che essi hanno un'anima vegetativa e una sensitiva, cosi come ne hanno una umana? A tale quesito molti contemporanei dell'Aquinate rispondevano affermativamente, sostenendo che nell'essere umano c'erano, non una forma sola - l'anima intellettiva - , ma anche un'anima sensitiva e una vegetativa; e generosamente alcuni aggiungevano una forma in piu - quella che faceva dell'essere umano un essere corporeo: una «forma di corporeità» che gli esseri umani avevano in comune colle cose inanimate, proprio come ne avevano una sensitiva in comune cogli animali e una vegetativa in comune coi vegetali. L'Aquinate respinse questa proliferazione di forme sostanziali. Sostenne che in un essere umano c' era una sola forma sostanziale: l'anima razionale, che dirigeva le funzioni animali e vegetative di quel corpo umano, di cui essa sola faceva quel dato genere di corpo: non c'era alcuna forma sostanziale di corporeità che rendesse corporeo un corpo umano. Se ci fosse stata una pluralità di forme, argomentava, non si sarebbe potuto dire che fosse un solo e medesimo essere umano quello che pensava, amava, sentiva, udiva, mangiava, beveva, dormiva e aveva un certo peso, una certa dimensione. Quando un essere umano moriva, avveniva un cambiamento sostanziale; e come in ogni cambiamento sostanziale, non c'era nulla di comune fra i due termini d'esso, fuorché la materia prima. Queste opinioni dell'Aquinate suscitarono opposizione tra i suoi colleghi teologi; e tra le proposizioni condannate a Oxford nel 1277 c'erano le due seguenti: Le anime vegetativa, sensitiva e intellettiva sono una sola forma non-composta. 71

Un corpo morto e un corpo vivo non sono corpi nel medesimo senso.

L'opposizione teologica al Nostro era fondata su premesse dottrinali. Per esempio, s'argomentava, se non ci fosse stato null'altro di comune che la materia prima, fra il corpo di Cristo quand'era vivo, e il suo corpo quando fu seppellito, allora il corpo nella tomba non era quello stesso di Cristo vivo; e quindi non era un oggetto appropriato di culto, come invece aveva sostenuto la tradizione cristiana. Col tempo, i teologi abbandonarono le loro obbiezioni, e il rifiuto tomistico della pluralità delle forme divenne l'opinione comune t!a loro. Però l'identificare l'anima colla forma comporta serie difficoltà filosofiche; o, per esprimerci altrimenti, non è chiaro che la nozione aristotelica di «forma», seppure coerente in se stessa, possa servire a rendere intelligibile la nozione di «anima», cosi com'è intesa dal1' Aquinate e da altri filosofi cristiani. Il primo problema è questo: se identifichiamo l'anima umana colla forma sostanziale aristotelica, vien naturale d'identificare il corpo umano colla materia prima aristotelica. Ma corpo e anima, materia e forma non sono affatto la medesima coppia d'oggetti. Questo è un punto su cui insiste l'Aquinate stesso: l'anima umana è congiunta al corpo, non come la forma alla materia, ma come la forma al soggetto (S I-II 50 1). Un essere umano non è qualcosa che ha un corpo: è un corpo, un corpo vivente d'un genere particolare. Il corpo morto d'un essere umano non è piii un corpo umano - né di fatto un corpo di qualsiasi altro genere - ; ma piuttosto, nel decomporsi, un amalgama di parecchi corpi. I corpi umani, come ogni altro oggetto materiale, sono composti di materia e forma; ed è la forma del corpo umano, non la 72

forma della materia del corpo umano, che è l'anima umana. Il secondo problema - e piu serio - è che, proprio come abbiamo trovato l'una accanto all'altra nell'Aquinate una nozione filosofica e una popolare d'accidente e di materia, cosi pare che nei suoi scritti la nozione di forma faccia doppio servizio: la forma d'umanità viene presentata, come verità palmare, quale quella cosa per cui un uomo è un uomo, o che fa d'un uomo, un uomo; e qui, come s'è spiegato, il «fa» è il «fa» della causalità formale, che usiamo quando diciamo che una certa forma fa una chiave d'un pezzo di metallo, o che una certa struttura fa d'una molecola una molecola di DNA. Mal' Aquinate parla pure spesso dell'anima come responsabile causalmente - attraverso le sue facoltà: l'intelletto e la volontà - delle varie attività che compongono una vita umana; e qui si tratta di causalità efficiente, la sola alla quale oggigiorno è riservato comunemente il termine di «causa», come quando ci viene detto che il lievito causa la fermentazione della pasta, o che le molecole di DNA causano la sintesi delle proteine. È questo genere di rapporto che è supposto, quando ci si dice che l'anima è il principio della vita. Ora, le due nozioni di forma sembrano diverse, e impossibile appare il combinarle, senza confusione, in una sola. In terzo luogo, l'Aquinate credeva che l'anima umana fosse immortale e potesse sopravvivere alla morte del corpo, per essergli riunita in una risurrezione finale. Quindi, dal momento che identificava l'anima colla forma sostanziale umana, era impegnato a credere che la forma d'un oggetto materiale potesse continuare a esistere quando l'oggetto non esisteva piii. In accordo colla sua convinzione che un essere umano fosse un corpo d'un genere particolare, 73

egli negò che un'anima separata dal corpo fosse un essere umano; ma insistette eh' essa rimaneva un' individualità identificabile, e questo a sua volta lo fece cadere di controsenso in controsenso. Dovette sostenere che un'anima umana era individuata, per quanto non ci fosse materia che l'individuasse - e benché, secondo la sua propria teoria, fosse la materia che individuava la forma; e insistere che anime individuali prive di corpo continuavano a pensare e a volere dopo il decesso degli esseri umani di cui erano le anime, nonostante il suo frequente asserto che, quando ci sono pensiero e volizione umani, non è l'intelletto o la volontà, ma l'essere umano, che pensa e vuole (per es. G II 7 3) . Se la forma sostanziale di Pietro è ciò che fa di Pietro un essere umano, come può essa continuare a esistere quando l'essere umano Pietro è morto e sepolto? L'essenza umana d'un essere umano è certo qualcosa che cessa col cessare dell'essere umano. La dottrina della sopravvivenza della forma sostanziale cozza contro la tesi piu importante dell' Aquinate intorno alla forma: quella che congiunge forma ed esse (esistenza), talché essere è, semplicemente, continuare ad avere una certa forma: omnù res habet esse per formam. Dobbiamo ora quindi volgerci alla dottrina tomistica dell'esse. «Esse», il verbo latino, ha la maggior parte degli usi del nostro verbo essere, piu alcuni altri. Può essere usato come copula, per connettere cioè il soggetto al predicato in proposizioni quali le nostre «Socrate è sapiente», «Sei (tu) uno sciocco»; può indicare esistenza, come nelle nostre frasi: «C'è in Brasile una pianta che divora insetti», o «Cesare non è piu »; può, come predicato grammaticale, indicare l'esistenza di ciò che è espresso dal termine che fa da

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soggetto, come in «Dio è», che ora esprimiamo piu correntemente dicendo: «C'è un Dio». L'esistenza in sé, come provano tali esempi, può essere attribuita [a un soggetto] in vari modi. Quando usiamo «esiste» in luogo di« c'è un ... », intendiamo dire che c'è qualcosa nella realtà, che corrisponde a una certa descrizione, o che esemplifica un. certo concetto; cosi, quando diciamo: «il re Artu non è mai esistito», o «Dio esiste», vogliamo dire che nessuno mai nella realtà rispose alle descrizioni che gli scrittori ci han lasciato del re Artu; o che c'è nella realtà, e non soltanto nella leggenda o nell'immaginazione o nell'illusione, un'entità cogli attributi della divinità. Potremmo dirla «esistenza specifica»: l'esistenza di qualcosa corrispondente a una data specificazione, o esemplificante una specie - quale, nel caso, la pianta insettivora. Ma quando diciamo: «Giulio Cesare non è piu », noi stiamo parlando, non d'una specie, ma d'un individuo storico, e affermando che non è piu vivo, non è pili tra le cose che vivono, si muovono, e hanno il loro essere nel mondo. Potremmo dire, questa, «esistenza individuale». Il verbo latino esse può indicare entrambi i generi d'esistenza; cosi, Deus non est (Dio non è), potrebbe significare, o che non c'è un Dio (Dio è e sempre è stato una mera favola), o che Dio non è piu - che Dio è morto, nel senso del tutto letterale che il creatore del mondo è deceduto (ipotesi presa talvolta in considerazione da filosofi, per spiegare perché il mondo vada cosi male). L'Aquinate traccia spesso distinzioni tra differenti sensi di «esse»; per esempio, tra l' «esse» copula e l' «esse» dell'esistenza individuale. Citiamo due passi tipici, tra molti: 75

Esse è usato in due sensi ... In uno, significa essere in atto (actus essendz); nell'altro, significa quella connessione mentale d'un predicato a un soggetto, che costituisce una proposizione (S I 3 4 ad 2). Esse è usato in due sensi ... In uno, è una copula verbale, significante la connessione di frasi qualsivoglia che la mente costruisca. Questo esse è alcunché, non in natura, ma soltanto nella mente, quando forma proposizioni affermative o negative. In questo senso esse è attribuito a tutto ciò, intorno a cui può essere formata una proposizione, sia esso un essere o soltanto una mancanza d'essere; perché noi diciamo che c'è cecità. In un altro senso è l' attualità (1) d'un essere in quanto è un essere (actus entis in quantum est ens) (Q 9 3).

Il verbo «essere» come copula si trova in frasi qua. le «Socrate è sapiente». In una simile frase si può dire che «significhi» - nel senso di «esprimere» o di «effettuare» - la connessione del soggetto « Socrate» col predicato «sapiente» nel concetto della frase. (Che esso «significhi» in questo senso, non vuol dire che significhi qualcosa, come « Socrate» fa pensare o denota [un essere umano particolare]). Non tutte le proposizioni di forma soggetto-predicato contengono il verbo «essere» in questo senso; pensiamo per esempio a «Churchill fuma». Però lAquinate, seguendo Aristotele, sostiene che ogni proposizione simile contiene implicita una copula che può essere resa esplicita, come in «Churchill è un fumatore» (M V 8 889). I logici moderni, piu che assimilare le propos1z10ni con soggetto e verbo a quelle con soggetto-copula-predicato, procedono logicamente in senso opposto, e trattano, non« sapiente», ma« è sapiente» come predicato di «Socrate è sapiente». Piu (1) Nel senso Scolastico di: essere in atto (=in realtà) (N.d.T.).

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precisamente, essi trattano il predicato come se fosse «è sapiente»: quanto cioè rimane della proposizione, se ne togliamo il nome-soggetto. . Suscita perplessità l'Aquinate, quando, nel secondo passo succitato, dà «e' è cecità» come esempio d'un'attribuzione di esse nel senso di copula, dato che la proposizione non sembra affatto una del tipo soggetto e predicato. È probabile eh' egli esponga qui il principio generale che, dovunque si possa costruire una proposizione di forma « S è P », si possa asserire «La P-ità è» o «C'è P-ità». Ma intende, l'Aquinate, che una proposizione di forma «La P-ità è» equivale a «Possono essere formate proposizioni con "P" come predicato», o che essa equivale alla proposizione «Una certa cosa è P »? Da altri passi è chiaro che egli ha in mente la seconda interpretazione. Cosi, troviamo: Esse talvolta significa la verità d'una proposizione, anche nel caso di cose che non hanno esse; come quando diciamo che e' è cecità; perché è vero che (un) uomo è cieco (P 7 2).

Chiaramente, qui si tratta della verità di proposizioni di forma « S è P », non della mera possibilità di formarle. «C'è cecità» non sarebbe pili vero se l'Organizzazione mondiale della sanità riuscisse a far si che non ci fossero pili ciechi; per quanto fosse, naturalmente, ancora possibile formare proposizioni della forma «X è cieco» - proposizioni menzognere, in quel fortunato stato di cose. Perciò, dovunque abbiamo una proposizione veritiera di forma « S è P », noi possiamo dire «C'è P-ità ». Ma non ogni cosa che è in questo senso, è nel senso contrapposto che «significa essere in atto». La cecità non è qualcosa di positivo, una capacità come la veggenza: è la mancanza d'una capacità. Per l' A77

quinate, soltanto le realtà positive, non le negative, hanno esistenza, o esse nel senso di non-copula. «L'essere in atto», come abbiamo già spiegato, significa esistenza individuale. Ora, esistenza individuale possono avere non solo sostanze, ma anche accidenti: non è perché la cecità non è una sostanza, che essa non è in atto, ma perché è un attributo negativo. Troviamo infatti scritto: L'essere in questo senso è attribuito soltanto a cose che si possono sistemare nelle dieci categorie; perciò l'Essere che ha nome da questa sorta d'esistenza è diviso in dieci generi. Però questa sorta d'essere è attribuita a cose in due sensi diversi. In un senso, è attribuita a quanto ha esse, o è, veramente e precisamente; in questo senso è attribuita soltanto a sostanze che sussistono di per sé ... . Ma tutte quelle cose che non sussistono di per sé, ma esistono in e con qualcos'altro, siano esse accidenti o forme sostanziali o parti d'ogni genere, non hanno essere in modo da essere realmente se stesse, ma l'essere è attribuito loro in un senso diverso; il che vuol dire che sono cose per le quali altre cose sono; appunto come si dice che la bianchezza è, non perché sussista di per sé, ma perché per essa qualcos'altro è bianco (habet esse album) (Q 9 3). In passi come questi il traduttore si trova forzato a usare l'arcaico è nel senso di esiste, cioè quale un predicato assoluto, come nelle parole in corsivo. Per di piu la parola «essere» deve adesso servire, in contesti differenti, per tre termini latini: per l'infinito « esse » (« essere » o « l'essere », cioè il nome verbale, come all'inizio del passo or ora citato); per il gerundio medievale essendum (di senso simile, ma usato come un costrutto piu perspicuo in espressioni quale actus essendi «l'atto d'essere» o «l'essere in atto»), e per il participio « ens », altra innovazione medieva78

le (1), che significa «l'ente», «ciò che è o esiste», come« i viventi» significano« coloro che vivono». Filosofi e logici che hanno studiato in questo secolo l'esistenza, si sono concentrati sull'esistenza specifica [nel senso detto sopra, a pag. 75. N.d.T.], e per amore di chiarezza logica hanno preferito, in dichiarazioni d'esistenza specifica, usare la forma: «C'è un ... ». Cosi, ogni proposizione della forma« Degli F esistono» viene riscritta per scopi logici: «C'è almeno un x tale, che x è F »; o piii semplicemente: «Qualcosa è -F ». Un motivo per cui i logici preferiscono questa forma, è che facilita il dare un· senso a proposizioni esistenziali negative quale: «Intelligenze extra-terrestri non esistono». Se noi prendiamo questa per una vera proposizione a soggetto e predicato, sembra che andiamo a cacciarci in un ginepraio; perché, se è cosi, non sembra che ci sia alcunché nelruniverso a cui si possa riferire il soggetto « intelligenze extra-terrestri», ed è oscur~ di che cosa noi stiamo affermando l'esistenza (Non possiamo dire che stiamo affermando l'inesistenza delle idee nelle menti di gente fantasiosa; perché le fantasie ci sono davvero, che ci siano o no le intelligenze extra-terrestri). Se invece diciamo: «Non c'è x tale, che x sia un' intelligenza extra-terrestre», o: «Nulla nell'universo è un'intelligenza extra-terrestre», il problema scompare. Filosofi contemporanei citano sovente il detto «L'esistenza non è un predicato». Esso significa che dichiarazioni d'esistenza specifica non devono essere considerate come predicati a proposito d'alcun individuo. Dichiarazioni d'esistenza individuale, d'altra (1) In senso filosofico; perché come participio sembra sia stato introdotto da Giulio Cesare, in analogia con pot-ens (N.d.T.).

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parte, quale «La tomba di san Pietro esiste ancora», si danno davvero a proposito di ciò che è indicato dal loro termine-soggetto. Adesso siamo in grado d'affrontare la pili famosa dottrina dell'Aquinate sull'esse: la tesi che in tutte le cose create essenza ed esistenza sono distinte, mentre in Dio devono essere riconosciute identiche. Questa dottrina può essere intesa in vari modi differenti, dato che c'è pili d'un modo di capire «essenza», e che « esistenza» può significare esistenza specifica o individuale. Nel suo giovanile De Ente et essentia l'Aquinate spiegò la distinzione nel modo seguente. Ogni essenza può essere pensata senza che si sappia affatto se esista realmente; perché io posso capire che cosa sia un uomo, o che cosa una fenice, senza sapere se queste cose esistano in realtà (esse habeant in rerum natura); quel che una cosa è, è differente dall' esistenza o no della cosa; cioè la sua quidditas differisce dal suo esse. Qui è chiaro che si tratta dell'esistenza specifica: in termini moderni diremmo che si può comprendere il concetto di fenice senza sapere se tale concetto abbia esempi nella realtà. E quel che s' intende per la quiddità d'una fenice è, chiaramente, soltanto il significato della parola «fenice»; siccome non ci sono fenici, non si può nemmeno pensare a un'indagine scientifica sulla natura delle fenici. Cosi intesa, la dottrina della distinzione tra essenza ed esistenza sembra perfettamente corretta; ma intesa cosi, la dottrina che l'essenza di Dio è identica colla sua esistenza è un manifesto nonsenso. Vorrebbe dire che sapere che Dio esiste è lo stesso che sapere ciò che significa la parola «Dio»; e che in risposta alla domanda: «Che cosa significa "Dio?"» si potrebbe dire assennatamente: «Ce n'è uno». In altre opere, l'Aquinate chiarisce che, quando 80

parla dell'esistenza, egli intende l'esistenza individuale d'una data creatura, e che per essenza d'una data creatura egli intende qualcosa di cosi individuale come la sua forma individualizzata. Per esempio, l'esistenza d'un particolare cane Fido è qualcosa che comiocia quando Fido viene al mondo e finisce colla morte di Fido; l'essenza di Fido è qualcosa che è in tutto e per tutto tanto individuale, quanto l'anima di Fido. Cosi, nell'argomentare nella Summa Theo/ogiae che in Dio essenza ed esistenza non sono distinte, l'Aquinate dice che ogni esistenza distinta dall' essenza corrispondente dev'essere causata da qualcosa d' esterno alla cosa, della cui esistenza stiamo parlando; e poiché non possiamo dire che Dio abbia una causa esterna, dobbiamo dire che in lui essenza ed esistenza non sono distinte (S I 3 4). In passi come questo, è chiaro che l'essenza, per esempio, d'un cane non è semplicemente il significato della parola «cane»: sarebbe assurdo dire, del significato d'una parola « F », che esercita un'influenza, sull'esistenza d'altri F, paragonabile all'efficacia causale con cui i genitori d'un cane gli danno l'esistenza. Tuttavia non è parimenti assurdo pensare a un'anima come a qualcosa, dentro un animale, che ha un'efficacia causale nel promuovere la sua esistenza continuata. Noi possiamo riuscire a capire un po' quest'idea; ma se anche non c1 riusciamo, è evidente che l'anima d'un cane è un che del tutto diverso dal significato della parola «cane». Se prendiamo in tale senso essenza ed esistenza, non c'è pili nulla di chiaramente assurdo nella dottrina che in Dio, essenza ed esistenza non sono distinte. Ma che dobbiamo fare, allora, della distinzione tra esistenza ed essenza nelle creature? Possiamo dire che son distinte, l'essenza di Fido e la sua esistenza? 81

È chiaro che non possiamo, se con ciò intendiamo che Fido potrebbe avere l'una senza l'altra. Per un cane, esistere è, semplicemente, continuare a essere un cane; e per un essere umano, continuare a esistere è seguitare a possedere la propria natura o essenza umana. Il continuare a esistere, di Pietro, è lo stesso che il continuare, da parte di Pietro, a possedere la propria essenza; se egli cessa d'esistere, cessa d'essere un essere umano; e viceversa. Alcuni filosofi han creduto che ci fossero essenze individualizzate d' esseri inesistenti; che assai prima della creazione d'Adamo e d'Eva, già ci fossero l' essenza d'Adamo e l'essenza d'Eva; e che la loro creazione da parte di Dio sia consistita precisamente nel dare esistenza a queste essenze, nel portare all'atto queste potenze. A chi pensa cosi, il rapporto fra esistenza ed essenza apparirà esattamente parallelo a quello tra forma e materia o tra accidente e sostanza: tutti e tre saranno, parimenti, casi di passaggio dalla potenza all'atto. L'Aquinate però, sebbene il suo linguaggio faccia nascere talvolta una simile impressione, di solito non lascia dubbi che la creazione non implica il passare all'atto d'una potenza preesistente. Egli credeva - certo giustamente - che proprio come non ci può essere alcun passaggio all'atto senza individuazione (tutto ciò che esiste nel mondo è individuale, non universale), cosi non ci può essere individuazione senza passaggio all'atto (soltanto ciò che esiste in atto può essere identificato, individuato, contato). Non è dunque inintelligibile, o per lo meno oziosa, la reale distinzione tra essenza ed esistenza? Un modo per tentare di dare un senso alla dottrina, è ricordarsi che l'Aquinate pensava concepibile, anche se falso, che il mondo potesse essere sempre esistito; anche in tal caso esso sarebbe pur stato crea82

to, e da tutta l'eternità avrebbe dovuto la propria esistenza a Dio. Similmente, sebbene non ci sia mai un tempo in cui l'essenza di Pietro sia esistente mentre Pietro non esiste, resta vero, durante tuti:a l'esistenza di Pietro, eh' egli potrebbe non essere mai esistito, se Dio cosi avesse voluto. Dire che la sua essenza è distinta dalla sua esistenza significherebbe allora che nulla di ciò che si può dire intorno a ciò eh' egli è porterebbe a concludere che doveva esistere. Non c'è necessità della sua esistenza: questa è, come dicono i filosofi, un fatto contingente: non può essere pro.vato con alcun «argomento ontologico» fondato semplicemente sul significato delle parole. Si potrebbe d'altra parte propugnare una distinzione tra essenza ed esistenza nelle creature, colla seguente argomentazione. Sebbene sia vero che l' esistenza d'ogni creatura persiste esattamente quanto la sua essenza, e' è però questa differenza, che la sua esistenza in un dato momento non ha conseguenze per la sua esistenza in un momento ulteriore, nello stesso modo in cui la sua essenza in un dato momento può aver conseguenze per la sua esistenza in un momento ulteriore. Un essere umano tende a continuare a vivere per un certo tempo; un elemento dioattivo tende a cessare d'esistere con una determinata velocità. Si può dire ragionevolmente che queste tendenze fanno parte dell'essenza di tali creature: esse sono tendenze a continuare o a cessare d'esistere, in conseguenza del genere di cose che sono le creature stesse. Si può dire quindi, in modo inesatto ma intelligibile, che le loro essenze le fanno continuare o cessare d'esistere, secondo il caso. Perciò l'essenza sarebbe distinta dall'esistenza come la causa è distinta dall'effetto. Questo, penso, è il massimo che si può fare per rendere intelligibile la dottrina. Si ha un beli' inter-

ra-

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pretarla caritatevolmente: la distinzione tra essenza ed esistenza sembra un modo infelice di presentare una differenza radicale tra Dio e le creature; perché, se non crediamo in potenzialità preesistenti delle creature, la loro essenza ed esistenza sono egualmente contingenti. Inoltre, non si potrebbe sapere alcunché dell'essenza d'una creatura particolare, senza sapere, con ciò, che essa esiste. E poi, secondo l' Aquinate, perfino nel caso di Dio, in cui essenza ed esistenza s'identificano, nessun argomento ontologico è valido. E se le essenze delle creature possono essere considerate cause dell'esistenza transitoria delle medesime creature, perché l'essenza divina non può essere vista come la causa della sempiterna esistenza di Dio? Dio fu e sarà per sempre, in conseguenza del genere di cosa che egli è. La dottrina dell'identità d'essenza e d'esistenza in Dio, è in sé ambigua. Talvolta l'Aquinate presenta questa tesi come se significasse, semplicemente, che la distinzione fra essenza ed esistenza, che noi tracciamo nel caso delle creature, è inapplicabile a Dio, dato eh' egli è un essere privo di qualsiasi genere di complessità o composizione, compreso il congiungimento d'essenza e d'esistenza. In conformità con questa presentazione della dottrina, spesso l' Aquinate dice che noi non sappiamo né possiamo sapere l'essenza di Dio - sebbene, naturalmente, sappiamo che cosa significhi la parola «Dio»; se no, non potremmo affatto parlare di Dio (per es. S I 2 2 ad 3 -ev. oltre, apag. 97). Tuttavia, in altri passi, lo stesso Aquinate presenta la dottrina che l'essenza di Dio è la sua esistenza, come se significasse che noi sappiamo, s:i, la risposta alla domanda «Che cos'è l'essenza di Dio?»; risposta che è: esse. Cosi, nel De Potentia, egli dimostra nel modo seguente che in Dio esse e natura o essenza so84

no la stessa cosa: dovunque cause, i cui effetti speciali sono diversi, producono anche un effetto comune, questo dev'essere prodotto in virtu di qualche causa superiore, di cui è l'effetto speciale. Per esempio, pepe e zenzero, oltre a produrre i loro propri effetti pertinenti, hanno questo in comune, che producono calore; il che fanno in virtu della causalità del fuoco, il cui effetto pertinente è il calore. Tutte le cose create, tuttavia, pur avendo effetti caratteristici distinti, hanno un effetto comune, che è esse. Il calore fa essere calde le cose; un costruttore fa esserci una casa: essi hanno dunque questo in comune che causano lessere [di qualcosa]; e differiscono in quanto il fuoco causa il calore, mentre il costruttore causa una casa. Ci dev'essere quindi una causa suprema in virtu della quale essi tutti causano lessere di cose e, di questa causa, sarà esse l'effetto caratteristico. Tuttavia quest'effetto caratteristico d'un agente ne deriva come una copia conforme della sua natura; ne segue perciò che I' esse stesso è la sostanza o natura di Dio (P 7 2c).

Due cose son chiare, da questo passo: una è, che l'Aquinate non sta dicendo semplicemente che là distinzione tra esistenza ed essenza non è applicabile, nel caso di Dio, perché i termini in sé sono inadatti o incongrui: egli sta dicendo che l'essenza di Dio è essere, nello stesso modo in cui l'essenza del fuoco è esser caldo. In secondo luogo, questo «essere» è un attributo comunissimo - o forse dovremmo dire: è un'attività comunissima. È un attributo posseduto, o un'attività effettuata, da qualsiasi cosa che è una cosa, che possiede cioè una forma accidentale o sostanziale; da qualsiasi cosa a cui si può connettere un predicato veritiero. «Esse» cos1 inteso, sembra che sia, o un predicato variabile (in questo senso, dire che x è, è dire che per qualche F, x è F; cioè che c'è qualche predicato veritiero di x), oppure una di85

sgiunzione di predicati (in questo senso, dire che x è, è dire che x è o F o Go H ... e cosi avanti, per tutto l'elenco dei predicati). Potremmo dire che un simile predicato sembra essere il sommo (eppure minimo) fattore comune - totalmente privo d'informazione - di tutti i predicati; ma, cosi inteso, essere sarebbe un attributo troppo tenue e universale, per essere l'essenza di checchessia. Sembra inoltre che, se cosi è inteso essere, ci sia una particolare difficoltà nella nozione di puro essere; difficoltà messa bene in evidenza da un'obbiezione che l'Aquinate stesso muove alla tesi dell' identità d'essenza e d'esistenza in Dio (S I 3 4 obbiezione 1):

Se questo è il caso, allora l'esse di Dio non ha alcuna aggiunta; ma senz'alcuna aggiunta, esso è il comune esse che si può dare come predicato a tutto; ne segue dunque che Dio è «essere» nel senso in cui «essere» si può dare come predicato a qualunque cosa. Ma ciò è falso, secondo il libro della Sapienza (1), 14, dove si lamenta che «essi diedero il nome incomunicabile a cose inanimate». Cosi, l'esse di Dio non è la sua essenza.

L'esse comune sembra essere, come nel passo del De Potentia, quell'esse che realmente è anche di fuoco e case, e perciò, presumibilmente, anche di tutte le altre cose inanimate. Qui, nella Summa, l' Aquinate dice che non questo esse è l'essenza di Dio: «Esse senz'aggiunta», dice, può significare «esse che non specifica nulla di piu » o « esse che non per(') Opera d'un ebreo di cultura anche ellenistica, forse del I sec. a.C., che credeva nella potenza miracolosa del Nome di Dio, da non pronunciarsi «invano». È attribuito a Salomone dai mss. greci, e incluso dal Concilio di Trento nel canone biblico, da cui l'escludono i protestanti (N.d.T.).

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mette alcun' altra specificazione». L'esse comune è esse che non specifica nulla di pili: se non mi si dice soltanto che Flora è, non mi si dice con ciò se sia una ragazza, una dea o un ciclone, sebbene possa essere una di queste tre cose. Ma l'esse di Dio è esse che non permette alcun' altra specificazione: le altre cose · sono uomini o cani o nuvole, ma Dio non è una cosa o l'altra: egli, semplicemente, è (SI 3 4 ad 1). Ma se l' «esse» che denota l'essenza di Dio è come l' «esse» che può darsi come predicato a qualunque cosa, salvo che non permette l'aggiunta d'altri predicati, allora è un predicato totalmente incomprensibile, perché è come dire un predicato variabile non sostituibile con alcun altro predicato, o una disgiunzione di predicati che è vera d'un oggetto, sebbene nessuno dei predicati disgiunti sia vero del medesimo oggetto. Se questo è ciò che s'intende, col dire che Dio è puro essere, allora la dottrina è un guazzabuglio insolubile. Qualcuno potrebbe protestare che non è corretto intendere il rapporto fra «essere» ed «essere una casa», come quello fra una variabile e una sostituzione, o fra una disgiunzione e uno dei termini disgiunti. Forse san Tommaso intendeva che una casa durante la sua esistenza, fa due cose: (a) è una casa; (b) è, semplicemente. Qui, «essere» avrebbe il valore non, per cosi dire, d'una descrizione non specifica di ciò che [una casa] sta facendo coll'essere una casa, ma invece di descrizione di qualcos'altro che sta facendo in pili. Però il solo senso che a noi sembra di poter dare a questo «essere», è quello d'essere tra le cose che ci sono, d'essere presente nell'universo d' esistenti. Ma dire che Dio è puro essere in tale senso, sarebbe, come abbiamo già visto, dire che l'essenza di Dio consiste nell'esserci una tale cosa quale Dio il che è un altro nonsenso (v. sopra, a pag. 81). 87

La traccia pili promettente che offre l'Aquinate per metterci in grado di dare un senso alla sua dottrina dell'essenza e dell'esistenza, è il suo uso frequente del detto aristotelico «vita viventibus est esse» (=per i viventi, essere è vivere). Cerchiamo dunque di dare un senso a esse confrontandolo con vivere. La mia vita consiste di molte attività: cammino, mangio, dormo, penso. Mentre faccio queste cose sono vivo; ma vivere non è un'altra attività che sto compiendo mentre faccio queste cose, com'è il respirare; esse in sé sono parti della mia vita, è facendole che io vivo. «Vivere» non è una disgiunzione di queste attività, come« ... è un animale» potrebbe essere considerato un predicato disgiuntivo equivalente a « ... è un uomo, o: un gatto, o ... ». Questo diventa evidente se riflettiamo che essere addormentato, per esempio, fa parte del vivere, mentre essere un uomo non fa parte dell'essere un animale; è piuttosto il contrario. Una ragione simile dà precisamente l'Aquinate per spiegare perché il predicato « ens » ( = essente) non denoti un genere, le cui specie sarebbero particolari tipi d'essere (S I 3 6). Appunto come la mia vita non è un'aggiunta, o una componente, o il sommo fattore comune di tutte le varie cose che faccio mentre vivo, ma piuttosto è la totalità di esse, cosi l'esse di qualsiasi cosa non è un che di sottostante, o di costituente, o di specificante la sua caratteristica, le sue modificazioni; è piuttosto la totalità di tutti gli episodi e gli stati della sua storia. Sembra che in questo senso l'Aquinate parli dell' «esse» come del1' «attualizzazione di tutti gli atti, e perfezione di . tutte le perfezioni» (P 7 2 ad 9). Se prendiamo esse in questo senso, ben vediamo come il Nostro possa negare che esse sia il predicato pili indeterminato e vacuo, e perché insista che è di fatto il predicato pili ricco e pili esauriente, e quindi 88

il piu adatto ad abbracciare la perfezione divina (S I 4 1). Ma il nostro problema antecedente qui rispunta in nuova forma. Quando lAquinate dice che Dio è Puro essere, o essere sussistente [di per sé], egli vuol dire che dell'essenza di Dio nulla di piu può esser detto, se non che Dio è; e questo a causa, non della nostra ignoranza, ma della forma pura e incorrotta in cui l'essere è presente in Dio. Ma se prendiamo «esse» nel senso di «vita» o «storia», allora la nozione di puro essere è tanto vacua quanto quella di pura vita o di pura storia. Non ci potrebbe essere una vita che di nulla consistesse fuorché di vivere - senz'altro - ; o una storia incontaminata da alcunché che accada in realtà. Se quest'interpretazione di «esse» attraeva, era perché ci permetteva di concepirlo come una ricca totalità, anziché come un fattore comune impoverito; ma essa rende il puro «esse» una totalità senza parti; la cui «ricchezza» è la sua intera mancanza d'alcuna proprietà. La teoria della reale distinzione d'essenza e d' esistenza, e la tesi che Dio è essere sussistente di per sé, sono spesso presentate come i piu profondi e originali contributi dell'Aquinate alla filosofia. Se l'argomentazione di queste ultime poche pagine è corretta, nemmeno lesposizione piu benevola di tali dottrine può riuscire pienamente a proscioglierle dall'imputazione di sofisma e illusione.

3. La mente

Uno dei motivi che d'età in età hanno indotto gli uomini allo studio della filosofia, è stato il desiderio di capire la loro propria natura, e in particolare, di capire meglio la natura delle loro menti. Fin da tempi remoti i filosofi tentarono di giungere a tale comprensione riflettendo sui propri processi mentali, sulle proprie facoltà, e prendendo in considerazione il linguaggio che usiamo per esprimere e descrivere i nostri stati mentali. Negli ultimi secoli, poi, si sono sviluppate molte discipline scientifiche per lo studio della mente: i rami della psicologia sperimentale, sociale e clinica. L'informazione da esse acquisita ci è d'ausilio preziosissimo nel comprendere la natura umana; ma esse non competono con, né possono soppiantare lo studio filosofico della mente. E questo perché il rapporto tra i fenomeni studiati dallo scienziato e gli eventi o stati mentali che si manifestano in quei fenomeni è in sé un problema filosofico: è anzi il problema centrale della psicologia filosofica, oggigiorno nota [tra gli anglosassoni] col nome di «filosofia della mente». A causa della natura permanente dell'impalcatura filosofica per lo studio della mente, gli scritti ad esso -dedicati da filosofi classici, medievali e dei secoli 17° e 18° non sono stati resi antiquati dal progresso della scienza, come quelli su altri settori. Cercherò qui di dimostrare che in particolare restano importanti gli scritti dell' Aquinate sugli argomenti oggi trattati da filosofi della mente. Secondo l'Aquinate, gli esseri umani, diversamen-

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te dagli animali, hanno una facoltà che egli chiama intellectus (=l'intelletto). Il termine latino è connesso col verbo intel/igere, tradotto di solito «capire», mentre nell'Aquinate ha un significato molto generale, piu o meno corrispondente al nostro «pensare». La parola «pensare», noi l'usiamo in due sensi del tutto diversi, secondo che parliamo di pensare a qualcosa, o di pensare qualcosa. Cos1, nel primo senso possiamo dire che uno, all'estero, pensava alla sua casa, o alla sua famiglia; nel secondo, che uno pensava che un ladro fosse entrato in casa, o che fosse verosimile un aumento nel tasso d'inflazione. In questo secondo senso - non nell'altro - il verbo introduce un' oratio obliqua, cioè un costrutto di discorso indiretto (1) . Volendo, potremmo dire generi differenti di pensiero, quelli espressi nei due modi suddetti; ma ciò sarebbe un po' fuorviante, perché pensare che implica pensare a (non si può pensare che aumenti l'inflazione senza pensare all' inflazione), e perché pensare a X è di solito pensare che X ecc. (cos1, pensare alla famiglia può prendere la forma di pensare che la famiglia stia ora appunto sedendosi a far colazione). Perciò è probabilmente preferibile fare una distinzione linguistica tra due usi di· «pensare», piuttosto che una [conc~ttuale] fra due tipi di pensiero. Tuttavia l'Aquinate dà alla corrispondente distinzione in latino, il valore d'una distinzione tra due differenti atti dell'intelletto; e parla, da un lato, d' intel/igentia indivisibzlium (letteralmente: «comprensione di cose indivisibili», cioè semplici), e dal1' altro, di compositio et divi.rio (letteralmente: (1) Perché, invece di dire: «Io penso: "C'è un ladro!"», dico: «Penso che ci sia un ladro» (N.d. T.).

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«composizione e scomposizione»). Ecco un passo tipico: Come Aristotele dice nel De Anima, ci sono due generi d'attività del nostro intelletto: uno consiste nel formare semplici essenze di cose come [quando si pensa] che cos'è un uomo, o che cos'è un animale; in quest'attività, considerata in sé e per sé, non si possono trovare né verità né menzogna, piii che in enunciati non complessi. L'altro consiste nel comporre e scomporre, coll'affermare e negare: in questo son da trovarsi verità e menzogna., appunto come nell'enunciato complesso che è la sua espressione (V 14 1).

.

In che modo il «comporre» è in contrasto còn ciò che è« non-complesso»? È, semplicemente, che dopo il verbo inte/ligere, quando significa «pensare a», viene una parola sola; mentre quando significa «pensare che», lo segue una frase di pili parole? No: come ben spiega l'Aquinate, la cosa è pili complicata. L'esempio pili chiaro di ciò che egli chiama compositio et divi.rio è la formazione di giudizi affermativi e negativi. Ora, se io giudico che il gatto è sulla stuoia, o che il gatto non è sulla stuoia, le parole «gatto» e «stuoia» sono congiunte nelle proposizioni esprimenti il mio giudizio; ma in quello affermativo io, per cosi dire, col pensiero congiungo gatto e stuoia, e nel negativo, col pensiero li divido; - il che, naturalmente, non significa che io divida il pensare al gatto dal pensare alla stuoia. Cosi spiega l'Aquinate: Se consideriamo lo stato di cose nell'intelletto, in sé e per sé, c'è sempre una composizione dovunque ci siano verità e menzogna; queste non son mai da trovarsi nell'intelletto, a meno che esso metta un pensiero non-complesso dopo l'altro. Ma se i pensieri sono considerati nel loro rapporto colla realtà, essi talvolta son chiamati compositio e talvolta divisio: compositio, quando la mente mette un'i-

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dea dopo l'altra, come un modo d'afferrare la composizione o identità delle cose di cui i pensieri sono idee; divisio, quando la mente mette un'idea dopo l'altra, come un modo di comprendere che le cose sono diverse. Cosi avviene che una proposizione affermativa è detta compositio (indicante una congiunzione, nella realtà) e una negativa, divisio (indicante una separazione, nella realtà) (H 1 3 26).

Cosicché abbiamo il seguente schema: {

Comprensione di non-complessi (in parole singole) Comprensione complessa:

. . (espressa in frasi { composztzo affermative) divisio (espressa in frasi negative)

Piu che quella tra giudizi positivi e negativi, in questo schema è importante la prima distinzione; e questa distinzione tra due tipi d'atto intellettuale, tra due tipi di pensiero, è senza dubbio connessa colla differenza tra l'uso di parole singole e la costruzione di proposizioni. Qualsiasi atto di pensiero, spiega l'Aquinate, può essere considerato come la produzione d'una parola o d'un enunciato interiore. La «parola» del nostro intelletto ... è ciò che è il termine della nostra operazione intellettuale; è il pensiero stesso, che è detto una concezione intellettuale; la quale può essere, o una concezione esprimibile con un enunciato non-complesso, come quando l'intelletto forma le essenze delle cose, o una concezione esprimibile con un enunciato complesso, come quando l'intelletto fa giudizi affermativi o negativi (componit et dividit) (V 4 2c).

Quando ho il pensiero che p [cioè, ripeto, una proposizione intera. N.d.T.], il contenuto del pensiero ha la stessa complessità della frase che gli darebbe espressione, se esprimessi il pensiero. (Non si creda questo un parallelismo notevole, scopribile dalla psicologia in cattedra: è, semplicemente, che non 93

abbiamo altro criterio della semplicità o complessità dei pensieri, che quello della semplicità o complessità delle parole e delle frasi che danno loro espressione). Non a tutti i pensieri, naturalmente, si dà espressione esteriore in parole: io posso dire tra me, arrotando i denti: «Che terribile scocciatore è costui!» mentre la buona educazione m'impedisce di far capire che la penso cosi. Certi pensieri non sono messi in parole nemmeno nell'intimo dell'animo: il pensiero della famiglia a colazione, al viaggiatore può presentarsi anche soltanto come un'immagine dei seduti in cucina, non coll'enunciazione mentale d'una proposizione. Ma ogniqualvolta io giudico che ne è il caso, c'è sempre una parola o una frase che esprimerebbe il contenuto del mio giudizio; e questo è garantito dal costrutto del discorso indiretto, perché la frase introdotta dal che, opportunamente modificata, fornirà la necessaria forma di parole. Un pensiero può avere la complessità esprimibile con una frase completa, senz'essere un giudizio nel senso (d'affermare) che qualcosa è cosi o cosi: invece di pensare positivamente che il gatto è sulla stuoia, io posso meramente dubitare se il gatto sia sulla stuoia, o semplicemente nutrire l'idea del gatto sulla stuoia, come parte d'un racconto o d'una fantasticheria. Ogni pensiero complesso quanto una frase può essere un pensiero veritiero - cioè conforme ai fatti - senz' essere giudicato veritiero. In molti casi, il pensiero che p [v. sopra] è tanto pensabile quanto il pensiero che non-p, come osserva l'Aquinate (V 14 a2c), e quel che fa optare per l'uno o per l'altro termine d'una contraddizione - se si opta - , differirà in casi differenti. Il giudizio può essere sospeso per mancanza di prove convincenti per ambedue le parti in causa, o per l'evidente pareggio delle ragioni

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pro e contro; può fondarsi sulla verità palmare d'una proposizione, o essere il risultato d'un corso di pensieri piii o meno prolungato; può essere dubbioso ed esitante, o fermo e risoluto. L'Aquinate classifica le manifestazioni delle facoltà intellettuali sulla base di queste diverse possibilità: la sospensione del giudizio è dubbio (dubitatio), l'assenso incerto, che non esclude la possibilità d'uno sbaglio, è opinione (opinio); il pronto assenso a una verità sulla base dell'evidenza palmare, è intelligenza (intel/ectus); dare a una verità un assenso pronto in base a ragioni, è conoscenza (scientia); assenso pronto dove non ci sono ragioni stringenti è credenza o fede (credere, fides). Formarsi una credenza, accettare un'opinione, nutrire un dubbio, arrivare a una conclusione, e riconoscere una verità palmare, sono tutti casi del secondo tipo d'attività intellettuale: compositio et divisio. Che dire per contro dell'altra attività intellettuale: inte//igentia indivisibilium? All'inizio, io ho comparato la distinzione dell'Aquinate alla nostra distinzione tra pensare a e pensare che; distinzione, da noi scandagliata per precisarla maggiormente, che davvero corrisponde a quella che il Nostro sta tracciando fra oggetti di pensiero semplici e complessi. Sembra però che egli abbia in mente, nel medesimo tempo, un'altra distinzione, quale noi possiamo fare tra sapere una cosa e sapere che; e il passo prima citato dal De Veritate prova che il primo tipo d'attività è esemplificato non tanto dal pensare a uno sparviero, quanto dal sapere che cosa sia uno sparviero. Ma pensare a uno sparviero e sapere che cosa sia non sono due attività parallele in contrasto; pensare a uno sparviero, è- esercizio della capacità implicita nel sapere che cosa sia uno sparviero; perché sapere che cosa sia uno sparviero è precisamente ciò che ci mette in grado di parlare di sparvieri, di pensare a sparvieri, 95

di sceverarli da seghe, e cosi via. La distinzione tra i due è, in termini Scolastici, non tanto fra due attività, quanto fra due gradi d'attualità. È come la distinzione tra l'avere la capacità di riconoscere una particolare lettera greca e l'usare di fatto tale capacità per leggere una parola: l'una è, dicevano gli Scolastici, un'attualità prima, e l'altra, un'attualità seconda. La medesima distinzione tra gradi d'attualità può essere tracciata a proposito della seconda attivìtà dell'intelletto: sapere che la battaglia di Waterloo ebbe luogo nel 1815 è un'attualità - non è lo stesso come la mera potenzialità, la mera capacità d'imparare il fatto, che ha uno scolaro all'inizio del corso di storia - , ma è soltanto un'attualità prima, un'attualità che è potenzialità in confronto al richiamarsi di fatto alla mente tale conoscenza, per farne uso consciamente. Cosi, invece della dicotomia suggerita da san Tommaso, c'è realmente una quadrupla divisione:

Attualità prima Attualità seconda

Intel/igentia indivisibilium

Compositio et divisio

Sapere che cosa sia X Pensare a X

Sapere (credere ecc.) che p Pensare (richiamare alla mente ecc.) che p

Le attualità prime sono disposizioni, piu che fatti; sono, come avrebbe detto l'Aquinate, habitus, casi di conoscenze acquisite, piu che messe in opera; sono stati in cui è un essere umano, piu che attività in cui questi è impegnato. Le attualità seconde, che sono l'esercizio d'attualità prime, sono, per contro, eventi databili nella storia d'una persona, attività piu o meno cronometra bili, in grado d'essere interrotte o ripetute, e cosi via. Sapere che cosa sia X è qualcosa, che di per sé può prendere due forme: c'è la conoscenza ordinaria di ciò che è uno sparviero, comune a chiunque sappia che cosa significhi la parola «sparviero»; e talvolta 96

lAquinate propende a chiamare questa conoscenza del significato d'una par.ola, conoscenza di ciò che una cosa è, o conoscenza della .sua « quiddità » dalla parola latina «quid» ( = che cosa?) - (V. per es. E 5); ma di solito egli distingue tra la conoscenza di ciò che significa la parola «X » e la conoscenza della quiddità o essenza di X. Cosi, per esempio, egli dice spesso che noi sappiamo che cosa significhi la parola «Dio», ma non possiamo conoscere lessenza di Dio (S I 3 4 ad 2, e 48 2 ad 2). Conoscenza del1' essenza, sembra essere una specie di conoscenza scientifica della natura d'una cosa; ma non è chiaro, negli scritti dell'Aquinate, se la conoscenza dell' essenza d'uno sparviero sarebbe qualcosa, come ciò che si potrebbe trovare oggigiorno negli scritti d'ornitologi, o se è la specie di conoscenza, di là dai sogni piii ottimistici di questi, che darebbe il potere di sintetizzare o di creare un surrogato artificiale dell'uccello. Certo, lAquinate dice di tanto in tanto che le essenze delle cose sono a noi sconosciute; ma non è chiaro se intenda questo come un asserto sulla condizione umana, o come un lamento sùllo stato della scienza dei suoi tempi. Come ho detto all'inizio di questo capitolo, I' Aquinate considera l'intelligenza una facoltà propria, tra gli animali, dei s6li esseri umani. Come può essere cos:i, se l'intelligenza è la facoltà di pensare? Sicuramente un cane, quando vede il padrone staccare il guinzaglio dal gancio sulla parete, pensa che sta per essere condotto a passeggio, ed esprime questo pensiero in modo chiarissimo, col balzare e saltare intorno, e col dare zampate alla porta. Senza dubbio ci sono pensieri - sulla storia, sulla poesia e sulla matematica, per esempio - che sono di l~ dalla capacità d'animali senza favella; ma davvero non si può

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pretender~ che la facoltà di pensare sia, in sé, peculiare degli esseri umani. Di fatto, l'Aquinate ammette per gli animali la facoltà di pensare certi generi di pensiero. Ovviamente, molti animali hanno in comune cogli esseri umani la facoltà di percezione sensoriale; ma siccome essi ricercano anche cose, che sono in quel momento fuori della portata della loro percezione, essi hanno anche nozione di ciò che è assente. Possono distinguere proprietà sensoriali, e trarne piacere o pena; ma a questo non s'arresta la loro capacità di discernimento.

Se le sole cose che eccitassero un animale fossero cose piacevoli e ripugnanti ai sensi, non ci sarebbe bisogno di supporgli alcuna facoltà, oltre la percezione di forme sensoriali, suscitanti in esso piacere o dispiacere. Ma un animale ha da cercare e da schivare cose, non soltanto perché esse convengono o non convengono ai suoi sensi, ma anche perché sono per altre vie adatte e utili, o dannose. Cosi un agnello, vedendo appressarsi un lupo, fugge, non perché non gli piaccia il colore o la forma, ma perché quello è il suo naturale nemico. E similmente un uccello raccoglie pagliuzze, non perché piacciano ai suoi sensi, ma perché ne abbisogna per fare il nido. Cosi l'animale ha da percepire cose, che nessun senso esterno percepisce (S I 78 4). Il potere d'afferrare idee che non sono semplicemente idee di senso è detto «facoltà di stima» (vis aestimativa); poiché l'Aquinate pensava che tali idee fossero tutte innate negli animali, e invece acquisite dagli esseri umani per via d'associazioni, la vis aestimativa può non ingiustamente esser detta da noi «istinto». In aggiunta a una cognizione istintiva di ciò che è utile e pericoloso, l'Aquinate attribuisce agli animali memoria di tali proprietà, e anche un concetto di « passato » in sé e per sé, che molti filosofi troverebbero difficile attribuire a chi è privo di

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favella. Però egli vede la memoria umana diversa da quella dell'animale, in quanto, sebbene e uomini e animali ricordino cose, soltanto gli uomini possono tentare di ricordarsi, o sforzarsi di richiamarsi alla mente qualcosa: nella sua terminologia, gli animali hanno memoria, ma non reminiscentia. La piu ovvia e piu profonda differenza tra esseri umani e - poniamo - pecore, pesci e uccelli, è il possesso della favella. Se a nostro avviso « intelligenza» ha da designare una facoltà caratteristicamente umana allora sembra piu utile definirla la facoltà di pensare quei pensieri, che può avere soltanto chi è fornito di favella. (Tali sono i pensieri, per i quali non può essere concepita alcuna espressione non linguistica; per esempio, il pensiero che «verità è bellezza» (1), o che ci sono stelle lontane moltissimi anni-luce). Ma sarebbe d'accordo, l'Aquinate, con questa caratterizzazione dell'intelligenza? È difficile asserirlo. Da un lato, l'Aquinate attribuisce intelligenza a Dio e agli angeli, che a parer suo non usano la favella come gli esseri umani, anche se occasionalmente si servono di linguaggio umano per comunicare con noi. Dall'altro, egli descrive spesso implicitamente - e talvolta esplicitamente il funzionamento dell'intelletto come un'operazione linguistica. Cosi, per esempio, nel confrontare l' intelligenza coi sensi egli ha questo da dire: Si danno due tipi d'attività nella parte sensoriale dell' anima: uno è semplicemente una modificazione (immutatio), in quanto un'operazione della facoltà di senso è portata a buon fine dalla modificazione effettuata dall' oggetto percettibile; l'altro è un'attività creativa, per cui l'immaginazione si forma un'immagine (idolum) di qualcosa d'assente, o di qualcosa forse non mai visto. (1) Famosa conclusione dell' «Ode a un'urna greca» del Keats (N.d.T.).

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Nell'intelletto questi due tipi d'attività sono combinati: prima vi si può osservare la modificazione dell'intelletto passivo quando lo informa [ = gli dà forma] un'idea intellettuale: cosi informato, esso procede a formare una definizione, o una proposizione affermativa o negativa, espressa da un enunciato. Un concetto esprimibile con un sostantivo è una definizione; una frase è ciò che esprime la compositio e divisio dell'intelligenza (S I 85 ad 3).

Qui l'attività intellettuale è messa in contrasto col libero giuoco delle immagini mentali, precisamente quale creazione delle controparti mentali delle parole e delle frasi del linguaggio esteriorizzato. Dice l'Aquinate, che l'intelletto umano capisce, o pensa a cose, astraendo da phantasmata ( = fantasmi), che, per il momento, possiamo interpretare quali esperienze sensoriali, incluse le immagini di cose assenti o non mai viste, di cui si parlava nel passo succitato. L'attività intellettuale è cosi vista in certo modo dipendente dall'esperienza sensoriale; in un certo senso, l'Aquinate può esser detto un empirista. Moltissimi filosofi empiristi hanno sostenuto che tutte le nostre idee derivano da esperienza sensoriale, e sono ottenute per via d'astrazione, o disattenzione selettiva, da aspetti di tale esperienza. L'Aquinate però differiva dagli empiristi pili familiari ai lettori attuali, in quanto assegnava all'intelletto una parte assai pili attiva e complicata, nell'attività d'astrazione. Per l'Aquinate, infatti, l'intelletto era, non una sola facoltà, ma due; o meglio, era una singola facoltà con due poteri: l'intelletto agente (intellectus agens) e l'intelletto passivo (intellectus possibtlis). Il primo era la capacità umana d'astrarre idee universali da particolari esperienze sensoriali; il secondo era il serbatoio di tali idee, una volta astratte. L'Aquinate postulava un intelletto agente perché 100

pensava che gli oggetti materiali del mondo in cui viviamo non fossero, in sé e per sé, adatti a essere compresi intellettualmente. Un'idea platonica, universale, intangibile, immutabile, unica, esistente in un cielo noetico ( = puramente intellettuale), potrebbe ben essere un oggetto adatto a venir compreso intellettualmente; ma secondo la teoria ufficiale del Nostro, non ci sono idee platoniche. Secondo lui, in un dato senso l'intelletto può capire soltanto cose da esso stesso create. Platone pensava che le forme delle cose naturali esistessero a parte, senza materia, e perciò fossero pensabili; perché quello che fa realmente pensabile una cosa, è il suo essere non-materiale. Quelle egli chiamò specie o idee. La materia corporea, egli pensava, prende le forme che prende, col partecipare di quelle, cosicché gl' individui, pet tale partecipazione, appartengono ai loro generi e tipi naturali; ed è partecipando di esse che il nostro intelletto prende le forme che prende, di conoscenza dei vari generi e tipi. Ma Aristotele non pensò che le forme delle cose naturali esistessero indipendentemente dalla materia; e forme esistenti nella materia non sono pensabili in sé e per sé. Nulla passa dalla potenza all'atto se non per opera di qualcosa già in atto, come la percezione sensoriale è attuata da qualcosa che è percettibile in sé. Cosi, era necessario postulare un potere dell'intelletto di rendere pensabili in atto oggetti, coll'astrarre idee (species) dalle loro condizioni materiali. Perciò noi dobbiamo postulare un intelletto agente (S I 79 3).

La parola species, riprodotta in questo passo, ha una funzione importantissima nella teoria del pensiero tomistico: appare prima come un sinonimo del termine platonico «idea», ma è usata anche per gli oggetti realmente pensabili che figurano nella teoria aristotelica. La nostra parola «idea» è certo la migliore, per non lasciarsi sfuggire le molteplici sfaccetta101

ture di senso del termine latino species; quindi l'userò d'ora innanzi, invece di questa. La parte pili intelligibile del difficile passo or ora citato, è il confronto tra senso e intelletto, che l' Aquinate continua a sviluppare, nel medesimo articolo, in risposta a obbiezioni. I colori sono percettibili al senso della vista, ma nel buio sono percettibili solo in potenza, non in atto. Il senso della vista è in atto - una persona vede i colori - soltanto quando c'è luce per renderli percettibili in atto. Similmente, sta dicendo qui l'Aquinate, le cose nel mondo fisico sono, in sé, pensabili o intelligibili soltanto potenzialmente. Un animale coi nostri medesimi sensi percepisce proprio come noi e ha a che fare cogli stessi oggetti materiali; ma su questi non può formare pensieri intellettuali - non può, per esempio, avere una comprensione scientifica della loro natura - perché gli manca la luce diffusa dall'intelletto agente. Noi, siccome possiamo astrarre idee dalle condizioni materiali del mondo naturale, siamo in grado, non soltanto di percepire, ma di pensare intorno al mondo e di comprenderlo. Significa, questo, che l'Aquinate è un idealista? Crede, lui, che noi non conosciamo mai, realmente, o comprendiamo il mondo in sé, ma soltanto idee immateriali e astratte? La risposta a questa domanda è complicata. Nel sistema dell'Aquinate sembra che ci siano descrizioni di due tipi d'idee del tutto diversi: idee che sono capacità mentali, e idee che sono oggetti mentali. Talvolta leggiamo d'idee che sono disposizioni o modificazioni dell'intelletto. Idee di cose, in questo senso, paiono essere quelli che adesso sarebbero detti «concetti»; per esempio, hai un concetto di X, se sai usare una parola per X in una lingua purchessia. Le idee possono essere idee che, invece che idee di; 102

un'idea che appunto questo è il caso, sarebbe un esempio d'idea corrispondente al secondo tipo d' atti dell'intelletto, secondo l'Aquinate; proprio come un'idea di qualcosa corrisponde al primo tipo d'atti. Un'idea che, considerata come una disposizione, sarebbe una credenza od opinione, o qualcosa del genere, piu che un semplice concetto. In questo senso, dunque, le idee sono disposizioni corrispondenti ai due tipi di pensiero che sono le attività per mezzo delle quali vien definito l'intelletto. Se un filosofo pensa in questo modo alle idee, non sembrerebbe poter avere la tentazione di pensare alle idee come a oggetti della nostra mente, come cioè a quello che noi conosciamo, quando abbiamo una conoscenza. Se io sto pensando al Polo Nord, senza dubbio sto usando - o adoperando, o esercitando - il mio concetto del Polo Nord; ma il mio concetto non è ciò a cui io sto pensando. Se penso che il Polo Nord è un luogo assai freddo, o che fu scoperto dal Peary, io non sto pensando che il mio concetto è freddo o che fu scoperto dal Peary, ma che il Polo in sé è. . . fu. . . Naturalmente, io posso pensare al mio concetto del Polo Nord; riflettendo, per esempio, che è piuttosto vacuo, vago e fanciullesco; ma pensando ciò, non sto invece pensando che il Polo Nord è vacuo, vago e fanciullesco, e sto esercitando non soltanto il mio concetto del Polo Nord, ma anche il mio concetto di concetto. Quando prendiamo le idee in questo senso, può dunque essere esatto dire che ogni pensiero usa idee, ma è ovviamente falso dire che ogni pensiero è intorno a idee. L'Aquinate spiega questo punto con molta chiarezza: Alcuni pensatori hanno sostenuto che i nostri poteri conoscitivi sono coscienti soltanto delle proprie modificazioni ... cosicché l'intelletto non penserebbe ad altro che alla

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propria modificazione, cioè alle idee che esso accoglie. Secondo questo punto di vista, le idee di questo genere sono il vero oggetto del pensiero. Ma quest'opinione è ovviamente falsa... Se i soli oggetti del pensiero fossero idee nella nostra anima, ne seguirebbe che tutte le scienze non sarebbero intorno a cose esterne all'anima, ma soltanto intorno a idee nell'anima ... (S I 85 2).

La verità è che le idee non sono cio a cm s1 pensa (zd quod inte/ligitttr), ma ciò per cui mezzo si pensa (zd quo intelligitur) Ma siccome l'intelletto riflette su se stesso, col medesimo atto di riflessione esso pensa al suo proprio pensare e all' idea per mezzo della quale esso pensa. E cosi l'idea è un oggetto secondario di pensiero, mentre il primario è la cosa, della quale l'idea è una copia (S I 85 2).

Dunque l'Aquinate respinge esplicitamente la dottrina idealistica, che la mente non può pensare ad altro che alle proprie idee. Tuttavia vari tratti della sua opera inducono il lettore a pensare che egli considerasse le idee, non semplicemente quali capacità o disposizioni a pensare in certi modi, ma quali oggetti primari di pensiero. Nel passo ora citato, come in molti casi, l'Aquinate parla dell'idea come della copia della cosa, di cui è idea; il che fa pensare che le idee siano ritratti o immagini, da cui noi deduciamo i tratti dei loro originali. Se cosi fosse, le cose esterne sarebbero gli oggetti primari di pensiero soltanto nel senso nel quale, guardandomi allo specchio, io «vedo» me stesso piuttosto che lo specchio, a meno di fare uno sforzo speciale per badare allo specchio. Questo però sarebbe un modo errato d'interpretare l'Aquinate: altrove, egli distingue espressamente tra le immagini mentali nell'immaginazione (idola o phantasmata), e le idee dell'intelletto; e per spiegare che cosa intenda, col dire che un'idea è una copia del 104

suo oggetto, la comparazione di cui si serve è quella, non del ritratto coll'originale, ma della somiglianza tra causa ed effetto, nei processi naturali. Ci sono due tipi d'azioni, dice il Nostro: ci sono quelle che portano a cambiamenti in chi, o in che cosa subisce l'opera dell'agente, e quelle che influenzano soltanto l'agente. Talvolta egli chiama azioni del primo tipo «transeunti», e azioni del secondo «immanenti». Quando il fuoco riscalda una cuccuma, abbiamo un'azione del secondo tipo; perché riscaldando la cuccuma si causa in questa un cambiamento, mentre pensando soltanto alla cuccuma non si produce alcunché se non in chi pensa. Quel che riscalda la cuccuma è il calore del fuoco: la causa del riscaldamento assomiglia dunque all'oggetto dopo il cambiamento. E san Tommaso prosegue: Similmente, la forma operativa in un'azione immanente è una copia conforme dell'oggetto. Cosi, la copia d'una cosa visibile è operativa, fin dove arriva la vista, e la copia d'un oggetto di pensiero, cioè un'idea, è operativa nel pensare dell'intelletto (S I 8 5 2).

Il parallelo sembra tracciato maldestramente: se il termine d'un'azione immanente (un pensiero particolare) assomiglia alla forma operativa (un'idea o concetto), è perché ambedue sono del medesimo oggetto; è la somiglianza dell'uno all'altro, non all'oggetto di cui essi sono, che è comparabile al riscaldamento della cuccuma. C'è allora un senso, in cui [si può dire che] un' idea o pensiero è simile al proprio oggetto? Di certo, nulla potrebbe essere piu differente del sale - poniamo - dalla mia capacità di riconoscere il sale; in realtà, «differente» sembra parola ridicolmente inadeguata a descrivere l'abisso tra i due termini. Ma un'idea è simile al suo oggetto in quanto, per identi105

ficare un'idea, si deve descriverne il contenuto; e la descrizione del contenuto dell'idea non è altro che la descrizione dell'oggetto dell'idea. Per esempio, l' idea che il Mondo finirà presto, può esser detta l'idea d'un dato stato di cose: per specificare sia di quale idea si tratti, sia di quale stato di cose si tratti, usiamo esattamente la medesima espressione: «che il mondo finirà presto». Sebbene l'Aquinate non accettasse la tesi che l' intelletto non può conoscere altro che le proprie idee, egli respingeva pure la tesi contraria, che è possibile rendersi conto d' oggetti materiali attraverso un pensiero puramente intellettuale. Quando penso a un essere umano particolare, potrò descrivere, se lo conosco bene, molti suoi tratti per identificarlo; ma a meno che io introduca riferimenti a tempi e luoghi particolari, non ci può essere descrizione che non possa, in teoria, attagliarsi a un altro essere umano che non sia quello che io intendo: non posso individuarlo semplicemente col descrivere la sua apparenza, le sue qualità. Forse soltanto col segnarlo a dito, o conducendo a vederlo, o richiamando alla mente un'occasione in cui c'incontrammo, posso chiarire che persona io intenda; e il segnare a dito, e il vedere, e questa sorta di memoria sono questioni di senso, non di puro pensiero intellettuale. Il nostro intelletto non può avere diretta e primaria conoscenza d' oggetti materiali individuali. La ragione ne è che il principio d'individuazione degli oggetti materiali è materia individuale; e il nostro intelletto capisce, coll'astrarre idee da tale materia; ma poiché ciò che è astratto da materia individuale è universale, ne consegue che il nostro intelletto non è in grado di conoscere direttamente alcunché di non universale (S I 86 1).

Soltanto collegando idee intellettuali con esperienza sensoriale noi possiamo conoscere individui, e far106

mare proposizioni su singoli, quale «Socrate è un uomo». Mi spiego: per l'Aquinate il reale oggetto di tutta la conoscenza umana è la forma: questo è vero sia della cognizione superficiale, sensoriale, sia della comprensione intellettuale. I sensi percepiscono le forme accidentali d' oggetti che sono appropriati a ciascuna .modalità: cogli occhi vediamo colori e figure d' oggetti, col naso annusiamo i loro odori - e colori, figure e odori sono forme accidentali. Esse sono individuali: è il colore di questa rosa che vedo, e nemmeno l'odorato piii fino può distinguere l'odore dello zolfo universale. La forma sostanziale, d'altra parte, è qualcosa che può essere compreso soltanto dal pensiero intellettuale (v. sopra, a pag. 54): l'oggetto pertinente dell'intelletto umano è la natura delle cose materiali. Queste sono composte di materia e forma; l'individualità d'un frammento di materia non è qualcosa che possa essere afferrato dall'intelletto, poiché questo può comprendere che cosa renda Socrate un uomo, ma non che cosa lo renda Socrate: Essenza o natura include soltanto quanto definisce la specie d'una cosa: cosi, la natura umana include soltanto quanto definisce un uomo, o quanto fa un uomo, uomo; perché per «natura umana» intendiamo quello che fa un uomo, uomo. Ora, la specie d'una cosa non è definita dalla materia e dalle proprietà peculiari ad essa come individuo; cosi, noi non definiamo l'uomo come quello che ha questa carne e queste ossa, o è bianco o nero, o qualcosa di simile. Questa carne e queste ossa e le proprietà loro peculiari fanno certo parte di quest'uomo, ma non della sua natura. Dunque un individuo umano possiede qualcosa che non è della sua natura umana; cosicché un uomo e la sua natura non sono affatto la stessa cosa (S I 3 3).

Se Platone sbagliava, come credeva l'Aquinate, allora non c'è, fuori della mente, una cosa quale lana107

tura umana in sé: c'è soltanto la natura umana d'esseri umani individuali, quali Maso, Dino e Righetto. Ma siccome l'umanità degl'individui è forma impressa nella materia, non è qualcosa che possa, come tale, essere l'oggetto di puro pensiero intellettuale. Per concepire l'umanità di Maso, Dino e Righetto ci occorre l'ausilio dell'immaginazione, cioè, nella terminologia dell'Aquinate: l'umanità d'un individuo è «intelligibile» (essendo una forma), ma non intelligibile in atto (in quanto esiste nella materia - v. sopra, alle pagg. 101-102). Il che vuol dire che essa è, come forma, un oggetto adeguato dell'intelletto; ma deve subire una trasformazione per poter essere compreso, in atto, dalla mente. È l'intelletto agente che, sulla base della nostra esperienza d'individui umani, crea l'oggetto intellettuale: l'umanità in sé e per sé. Questo, dunque, è quanto c'è di vero nell'asserzione che lAquinate era idealista: le idee non sono entità intermedie che rappresentano il mondo; sono modificazioni dell'intelletto, consistenti nella facoltà acquisita di pensare certi pensieri. Ma gli universali di cui le idee sono idee, sono di per sé cose che non hanno esistenza fuori della mente. L'Aquinate è consapevole di poter essere accusato di sostenere che lintelletto distorce la realtà, appunto mentre cerca di comprenderla; e da solo si pone l'obbiezione seguente: Un pensiero che pensa una cosa com' essa non è, è un pensiero falso. Ma le forme delle cose materiali non sono astratte dai particolari rappresentati nell'esperienza; quindi, se pensiamo a cose materiali astraendo idee dall' esperienza, ci sarà falsità nel nostro pensiero (S I 85 1).

La sua replica si fonda sulla distinzione di due sensi nell'affermazione ambigua: «Un pensiero che pensa una cosa com' essa non è, è un pensiero falso». 108

Pensare che una cosa è come non è, è certo pensare il falso; ma se tutto ciò che s'intende per «pensare una cosa come non è» è, che nel pensare noi possiamo tenere un modo diverso da quello, in cui si presenta la cosa cui stiamo pensando, allora può non trovarvisi coinvolta alcuna falsità. Pensare che Giulio Cesare non avesse peso, sarebbe pensare un pensiero falso; ma non implica falsità il pensare a Giulio Cesare senza pensare al suo peso. Un pensiero su Giulio Cesare può esistere benissimo senza un pensiero sul suo peso, sebbene Giulio Cesare per sé non potesse certo esistere senza il suo peso. Similmente, argomentava l'Aquinate, ci può essere, senz'alcuna distorsione o falsità, un pensiero sull~ natura umana che non contenga pensiero d'alcuna materia individuale, sebbene non ci sia mai stato un caso di natura umana senz'alcuna materia individuale (S I 85 1 ad 1). La descrizione che fa l'Aquinate, dell'operazione mediante la quale l'intelletto agente astrae idee dal1' esperienza sensibile, è oscura in vari particolari e probabilmente confusa; ma egli ha certo ragione d'insistere ad attribuire agli esseri umani uno speciale potere d'astrazione, non condiviso da altri animali. Per possedere il tipo di concetti fl. cui usiamo riferirci per descrivere gli oggetti della nostra esperienza, non basta affatto avere soltanto esperienza sensoriale. I bambini vedono, odono e fiutano cani prima d'acquisire il concetto di cane e d'imparare che il termine «cane» può essere applicato a bracchi, barboncini e bassotti, ma non a gatti e a pecore; essi sentono pruriti, fitte e crampi assai prima d'acquisire il concetto di sofferenza. Se in casa c'è un cane o un gatto, esso vive pili o meno nello stesso ambiente sensoriale in cui vive il nostro bimbetto; ma questi, non l'animale, impara da quanto si vede e s'ode, a servirsi di simboli per descrivere e per cambiare quel109

l'ambiente. A grandi linee, si può vedere nella teoria dell'intelletto agente non altro che il riconoscimento che la formazione di concetti non è da considerarsi semplicemente il residuo dell'esperienza sensoriale. La teoria dell'intelletto agente colloca lAquinate a mezzo, tra i filosofi empiristi, secondo i quali le idee derivano dall'osservazione di tratti ricorrenti d'esperienza, e i razionalisti, asserenti che le idee individuali sono innate in ogni membro della specie. L'Aquinate pensava che non ci fossero idee o credenze del tutto innate: pedino la credenza in proposizioni d'evidenza palmare, egli l'ammetteva innata soltanto con grandi riserve. Un essere umano - sosteneva - sa che cosa sia un intero e che cosa una parte, sa che ogni intero è maggiore di ciascuna delle sue parti; ma - continuava - un uomo non può sapere che cosa sia un intero o che cosa una parte, se non attraverso il possesso di concetti (idee) derivati dall'esperienza (S I-II 51 1). Fino a questo punto egli concorda cogli empiristi, contro i razionalisti, che la mente senz' esperienza è una tabula rasa ( = una pagina bianca); ma concorda coi razionalisti, contro gli empiristi, che la mera esperienza, del genere che uomini e animali hanno in comune, è impotente a scrivere alcunché sulla pagina bianca. Tra gli scrittori contemporanei, assai vicino alla posizione dell'Aquinate su quest'argomento è il linguista Noam Chomsky. Questi ha sostenuto che è impossibile spiegare la rapidità con cui i bambini acquisiscono la grammatica d'una lingua dagli enunciati limitati e frammentari dei genitori, a meno di postulare una capacità linguistica innata, specifica della specie umana. Il Chomsky stesso paragona la sua teoria a quella di razionalisti come il Cartesio; ma lanatura generalissima della facoltà da lui postulata che dev'essere estremamente generale, se ha da spie110

gare l'apprendimento di tutte le molteplici, diversissime lingue naturali - non assomiglia davvero molto alle idee tanto specifiche postulate dai razionalisti, che corrispondevano spesso a precise parole della lingua; è molto piu vicina a quella facoltà generalizzata, specifica della specie, d'acquisire concetti intellettuali da esperienza sensoriale non strutturata, che l'Aquinate chiamava l'intelletto agente. L'intelletto agente è dunque la capacità d' acquisire concetti e credenze intellettuali, mentre l' intelletto ricettivo o passivo (intellectus possibilis) è l' idoneità a ritenere e adoperare i concetti e le credenze cosi acquisite. Una sola e stessa anima ... ha due poteri: uno detto intelletto agente, che è potere di rendere immateriali in atto altre cose, astraendole dalle condizioni della materia individuale; e un potere di recepire idee di tal genere, che è detto intelletto ricettivo, in quanto è in grado di recepire tali idee (S I 79 4 ad 4).

L'intelletto ricettivo è il serbatoio delle idee (S I 79 6): è la pagina inizialmente bianca, su cui scrive l'intelletto agente. In ogni dato momento nella storia d'un essere umano ci sarà un repertorio d'abilità intellettuali da lui acquisite, e una scorta d' opinioni, credenze e conoscenze da lui possedute; repertorio e scorta che formano il contenuto dell'intelletto passivo (ricettivo). Talvolta il linguaggio dell'Aquinate c'invita a pensare a tale intelletto come a una specie di materia spirituale che assume nuove forme, via via che un pensante acquisisce nuove idee (per es. S I 79 6); ma egli ci avverte di non prendere ciò sul serio, e di guardarci bene dall'applicare le nozioni di materia e forma al rapporto fra l'intelletto e le sue idee (per es. S I 84 3 ad 2). Ancor oggi, a causa della compara111

zio ne aristotelica noi diciamo (1) d'esser informati su una questione, e chiamiamo acquisto d' informazione un incremento di conoscenza. L'intelletto agente e il passivo sono due facoltà che corrispondono a usi comuni dei nostri termini ragione e mente [resi in inglese, ambedue, con mind. N.d. T.]. Quando diciamo che gli esseri umani, ma non gli animali privi di favella, hanno la ragione, intendiamo solitamente che soltanto i primi hanno la capacità d'ottenere informazione astratta dall' esperienza sensoriale; quando invece diciamo di qualcuno che ha una mente ben fornita, stiamo parlando del contenuto del suo intelletto passivo. Però noi usiamo il sostantivo «mente» e l'aggettivo «mentale» anche in altri sensi, di cui uno qui c'interessa. Quando pensiamo a un calcolo non scritto, lo diciamo fatto «a mente, mentalmente». Ora, è chiaro che intelletto agente e intelletto passivo sono egualmente coinvolti in un calcolo complicato, sia tacito sia espresso a voce alta: dobbiamo quindi intendere qualcosa d'altro, con «mente», quando consideriamo un'operazione silenziosa piii « mentale » della manipolazione palese di simboli. La mente, come luogo d'immagini mentali e di tacito monologo, è detta dall'Aquinate immaginazione o fantasia (phantasia), ed è da lui considerata come un senso interno, piuttosto che come un settore dell'intelletto. La percezione sensoriale, secondo il Nostro, era, come l'acquisto d'informazione intellettuale, una specie di ricezione di forme in maniera immateriale. Una forma sensoriale esiste in maniera diversa nella cosa che è fuori dell'anima, e nel senso in sé, che riceve la for(1) In latino, troviamo questi termini, m tutti questi sensi, già in Cicerone (N.d.T.). 112

ma d' oggetti sensibili senza la loro materia dell'oro, per esempio, senza l'oro (SI 84 1).

il colore

Le forme cosi ricevute dal senso vengono, secondo l'Aquinate, immagazzinate nella fantasia. Esse possono essere rimpastate a volontà per produrre i fantasmi di qualsiasi cosa a cui vogliamo pensare; possiamo, per esempio, combinare la forma che rappresenta Gerusalemme colla forma che rappresenta fuoco, per fare il fantasma di Gerusalemme in fiamme. La trattazione tomistica del rapporto fra senso e immaginazione è, per vari rispetti, ingenua e insoddisfacente: dice l'immaginazione un senso interno, e le attribuisce un modo d'operare troppo pedissequamente modellato su quello dei sensi. L'Aquinate sembra aver pensato che un senso interno differisca da uno esterno principalmente per il fatto d'avere un organo e un oggetto dentro il corpo, invece che fuori. Egli osserva, si, che oltre a chi percepisce, anche altri possono verificare quanto il primo asserisce di provare coi sensi esterni, mentre nel caso dei« sensi interni» non c'è possibilità alcuna di raddrizzare le idee d'un uomo sul contenuto d'una sua immagine mentale; ma - come non sembra accorgersi l' Aquinate - questo rende improprio il parlare dell'immaginazione come d'un senso, perché non è affatto facoltà sensoriale, quella che non può sbagliare. Tuttavia, diversamente da altri che han considerato l'immaginazione un senso interno, l'Aquinate intuisce chiaramente il rapporto fra intelletto e immaginazione quando si pensa con immagini mentali o con parole senza voce: in tali casi, non le immagini danno contenuto al pensiero intellettuale, ma l'intelletto dà significato alle immagini - siano esse parole immaginate o quadri mentali - , usandole in un certo modo e in un certo contesto. Quando penso a 113

Troia, posso evocarne un'immagine; ma non è la somiglianza di quest'immagine a Troia che ne fa un'immagine di Troia: sono i pensieri che collego ad essa, e le parole con cui li esprimerei. Nel libro dei nostri pensieri, l'intelletto provvede il testo, e le immagini mentali sono soltanto illustrazioni. D'altra parte, spesso l'Aquinate asserisce che occorrono fantasmi non solo per l'acquisizione di concetti, ma anche per il loro uso. In questa vita almeno, ci è impossibile pensare un pensiero, fuorché prestando attenzione a fantasmi. Questo si può constatare - egli dice - riflettendo che una lesione al cervello può impedirci di pensare, e ricordandoci che noi tutti evochiamo immagini, quando stiamo facendo di tutto per capire qualcosa. Per quanto dubbi possano essere questi argomenti, sembra vero che soltanto grazie a qualche intervento di senso o d' immaginazione, a qualche applicazione a un contesto sensoriale, noi siamo in grado di collegare le conoscenze o credenze abituali di qualcuno, al loro esercizio in un'occasione particolare. Dunque, secondo il Nostro, per ogni pensiero, perfino del genere piii astratto e universale, occorre prestar attenzione ai fantasmi; se poi il pensiero concerne individui piuttosto che concetti universali, è necessario uno speciale tipo d'attenzione detto « riflessione» (ref/exio supra phantasmata). Come abbiamo già spiegato, l'Aquinate giudicava che soltanto le immancabili immagini mentali appropriate, o contesto sensoriale, avrebbero differenziato un pensiero su Socrate da uno su Platone o su qualsiasi altro essere umano. Percezione sensoriale e pensiero intellettuale, come abbiamo detto, sono ambedue, per l'Aquinate, questioni di ricezione di forme nella mente, in modo piii o meno immateriale; e in ambedue, una forma 114

esiste, com' egli dice, « intenzionamente » ( = mentalmente). Quando vedo il rosseggiare del sole al tramonto, il color rosso esiste nella mia visione mentale; quando penso alla rotondità della terra, nel mio intelletto esiste la rotondità. In entrambi i casi la forma esiste senza la materia a cui è congiunta nella realtà: nel mio occhio non entra il sole stesso, né la terra, con tutta la sua massa, entra nel mio intelletto. L'esistenza mentale non è però, in sé, e per sé, immateriale. Secondo l'Aquinate, il rosso esiste mentalmente non solo nei miei occhi, ma nel mezzo limpido attraverso il quale lo vedo (S I 56 a2); e perfino nell'occhio, la forma sensibile è una forma della materia rintracciabile nell'organo del senso. Nell'intelletto però non c'è materia che le forme possano «informare», poiché l'intelletto passivo non ha altra natura che la sua idoneità ad essere «informato» da forme esistenti mentalmente; se no, sarebbe incapace di comprendere tutto quello che condividesse la sua natura, come occhiali colorati c'impediscono di distinguere la luce bianca da quella del loro stesso colore (SI 75 2, e 87 1). Il presentarsi di concetti e pensieri nell'intelletto non è un caso di modificazione di materia: non si plasma, in quel caso, nessun misterioso materiale mentale. Ogni cosa è conosciuta secondo i modi in cui la sua forma esiste nel conoscitore; ma l'anima intellettiva conosce la natura d'una cosa proprio com'è, e in assoluto. La forma della pietra, per esempio, proprio com'è e in assoluto, nel suo preciso significato formale, è nell'anima intellettiva. Di conseguenza, questa è una forma proprio cosi com'è e in assoluto, e non qualcosa composto di materia e di forma. Perché, se fosse composta di materia e di forma, le forme delle cose sarebbero recepite in essa in tutta la loro concreta individualità, cosicché essa conoscerebbe soltanto 115

questa, come fanno i sensi, che recepiscono forme di cose in un organo fisico; perché la materialità è il principio che individua la forma (S I 75 5).

La dottrina dell'esistenza mentale delle forme, propria dell'Aquinate, resta uno dei contributi piu interessanti che sian mai stati dati al problema filosofico della natura del pensiero. Supponiamo che io pensi a una fenice. Sembra che due cose facciano, del mio pensiero, il pensiero che è: prima di tutto, che è pensiero d'una fenice, non d'una mucca o d'una città o d'un asintoto (1); e poi, che è il mio pensiero, non il tuo né quello di Giulio Cesare. Altre cose possono essere vere, di pensieri - per esempio, che sono interessanti, spiacevoli, particolareggiati, ecc. - ; ma queste due paiono essenziali a ogni pensiero, che esso deve essere il pensiero di qualcuno, e pensiero di qualcosa. Ora, tutt'e due queste proprietà dei pensieri suscitano profondi problemi filosofici.

Il quesito : «Che cosa rende i miei pensieri, pensieri miei?» può non colpire il lettore, come per nulla problematico; eppure molti si sono scervellati sul problema della relazione d'un pensiero, a ciò di cui esso è pensiero. Un pensiero diventa forse pensiero di X per somiglianza con X? O la relazione è d'altro genere? Ma nessun genere di relazione serve all'uopo, poiché noi possiamo aver pensieri di ciò che non esiste - come nel caso in cui io pensi alla fenice - , e in tal caso nulla c'è, a cui il mio pensiero possa riferirsi. Inoltre, anche se ci accordiamo sulla natura della relazione - poniamo, di somiglianza - e ci concentriamo sui casi in cui ci sono cose alle quali riferirsi - per esempio, cavalli-, c'è ancora un pro(1) Retta a cui una curva s'avvicina indefinitamente, senza mai raggiungerla (N. d. T.). 116

blema: che cos'è, che ha la relazione? La statua d'un cavallo è un pezzo di pietra o di bronzo che assomiglia, con maggiore o minore potere d'illusione, a un cavallo reale; ma nella mente non c'è nulla di corrispondente alla pietra o al bronzo, per produrre la somiglianza. La risposta dell'Aquinate al quesito: «Che cosa rende il mio pensiero d'un cavallo, pensiero d'un cavallo?» è, che è proprio la stessa cosa che fa, d'un cavallo reale, un cavallo: cioè, la forma di cavallo. La forma esiste, individualizzata e materializzata, nel cavallo reale; esiste, universale e immateriale, nella mia mente; nel primo caso, ha esse naturale - esistenza nella realtà; nel secondo, esse intentionale esistenza nella mente. L'essere d'una forma, l'F-ità - abbiamo detto precedentemente - , è, per una o per un'altra cosa, essere F; ora però dobbiamo modificare questa definizione, e dire che l'essere d'una forma, l'F-ità, è, o per qualcosa essere F, o per qualcuno star pensando a un'F. Questa dottrina non dev'essere presa in alcun senso mistico. Un ammiratore moderno dell'Aquinate, H. McCabe, ha detto bene: La dottrina sarà totalmente fraintesa se non si riconoscerà che intende essere ovvia. Non è descrizione d'un processo per cui noi arriviamo a capire - se c'è un tale processo; è una banalità, perché dice: «Quello che ho in mente quando conosco la natura d'una mucca, è la natura d'una mucca, e nient'altro». Ora, se qualcuno obbietta: «Ma se la natura che avete in mente è quella d'una mucca, certo la vostra mente dev'essere una mucca - perché avere la natura d'un X significa semplicemente essere un X», san Tommaso si limita a replicargli che, capire la natura d'una mucca è precisamente avere questa natura senz 'essere una mucca; e questo è ciò che viene chiarito col dire che uno ne ha in mente la natura. E ciò egli dice «avere la natura 117

mentalmente». La mente, per san Tommaso, è proprio il luogo dell'essere mentale.

Se la dottrina dell'esistenza mentale rende facile rispondere al quesito: «Che cosa rende un pensiero, pensiero dell'oggetto X? », essa dà maggior rilievo al1' altro quesito: «Che cosa fa, d'un pensiero, il pensiero del soggetto A?». Nulla c'è, nel contenuto d'un pensiero, che lo renda pensiero d'un soggetto pili che d'un altro. Innumerevoli persone, oltre a me, credono che due pili due faccia quattro; quando io lo credo, che cosa fa della credenza la mia credenza? Contro gli averroisti, l'Aquinate insistette che un tale pensiero è il mio, non è il pensiero d'un'anima del mondo o intelletto agente sopra-individuale. Però, alla domanda che cosa faccia d'un pensiero il mio pensiero, la sua sola risposta è d'indicare la connessione tra il contenuto intellettuale del pensiero e le immagini mentali in cui è incorporato: è perché queste ultime sono prodotte dal mio corpo, che il pensiero intellettuale è il mio pensiero. Per molte ragioni, che non è qui il luogo d'esporre, questa risposta pare insoddisfacente, ma, come osservò una volta il Wittgenstein, non le risposte dell'Aquinate, ma le domande ch'egli pone, sono la misura delle sue· doti filosofiche.

Nota bibliografica (1)

In inglese, i lettori desiderosi di conoscere meglio la vita di san Tommaso dovrebbero leggere Friar Thomas d'Aquino (Fra T. d' A.) di J. Weisheipl O.P. (1974), la biografia pili dotta, a cui molto deve il mio primo capitolo. Il St. Thomas Aquinas di G. K. Chesterton (1933) è vivace e alla portata d'un vasto pubblico come pochi, ma di rado si rifà direttamente agli scritti dell'Aquinate; d'indirizzo pili sobrio e filosofico, ma non difficile a leggersi, è Aquinas, di padre Copleston (Penguin, 1955). Stimolante filosoficamente, ma troppo personale, è l' esposizione della metafisica dell'Aquinate nell'articolo di P. Geach in Three Phtlosophers (Tre filosofi) di Anscombe e Geach ( 1961). La migliore trattazione in inglese della filosofia tomistica della mente è Verbum: Word and Idea in Aquinas (Il Verbo: parola e idea nell'Aquinate), libro di B. Lonergan, pesante, ma zeppo d'idee, che val la pena di leggere. Io ho pubblicato un'antologia d'articoli di filosofi contemporanei su Tommaso d'Aquino, col titolo: Aquinas: a collection of criticai essays (L'Aquinate: una collezione di saggi critici, 1969).

(1) Perché i lettori italiani si rendano conto dell'importanza degli studi attuali sull'Aquinate, riproduciamo questa 'Nota, aggiungendovi l'indicazione di: Vanni-Rovighi, Introduzione a Tommaso d'Aquino (Laterza, 1973) (N.d.T.).

Indice analitico

Averroé, 32, 118 accidente e sostanza, 51-59 Avicenna, 32 Alberto Magno, 10-12, 52 analogia, 20 angeli, 21, 69-70 Balliol, 12 anima, 21-22, 70-74 Boezio, 17 animali, 22, 70, 97-99, Brunet, E., 12 102, 109 AQUINATE, opere: Catena Aurea, 25; Commenti ad cambiamenti sostanziali, 59 segg. Aristotele, 33-34; Commenti biblici, 14, 30, cambiamento chimico, 6163 43; Commento alle Sentenze, 11; Contro gli er- canonizzazione, 44 rori dei Greci, 25; Poe- carità, v. virtu teologali sie, 26; sui Principi della Carlo d'Angiò, 41 natura, 13; sulla Regali- castità, 10 categorie, 51-52 tà, 29; sull'Essere e sulChomsky, N., 110 l'essenza, 13, 80; Sumcompositio et divi.rio, 91 ma contra Genti/es, segg. 17-25, 27-29, 32; Sum- concetti, 102-104 ma Theologiae, 27-29, concreto e astratto, 54-55 34-43; e v. Questioni di- conoscenza, 95-97 Questioni coraggio, 40 scusse, e estemporanee contingenza, 83 Aristotele, 9-10, 15-16, corpo e anima, 72-74 19-22, 25, 30-34, 5i; Corpus Domini, 25-26 Etica nicomachea, 10, creazione, 20-21, 55 34, 35-37, 40 cristianesimo, 18 articoli, 14-15 astratto, v. concreto astrazione, 108-109 D'Alton, G., 17 astrologia, 23 Dio, 19-20, 29 120

discussioni Scolastiche, 13 Disputatae, v. Questioni discusse domenicani, 8-13, 31, 41 ebrei, 17-18 elementi, 61 empirismo, 100, 109-110 epistemologia, 46 eresia, 39 esistenza, 73-88; « speèifica » e «individuale», 75 esse, 74 segg. essenza, 80-89, 97 essere, 78 segg. eternità, 20-21, 32-33 etica, 35-38, 47 eucarestia, 25-26, 56 fantasmi, 99-100, 104, 113-114 fede, 19, 29, 38 felicità, 23, 35~36 forma, 21-22, 59-74; accidentale e sostanziale, 59, 63, 66-68, 107; universale e individuale, 67 Geath, P., 62 giudizio, 15, 92-94 grazia, 24, 38-39 guerra, 39 Guglielmo di Moerbecke, 25, 29 idealismo, 102-104, 108 idee, 101-111

immaginazione, 32, 99, 104, 112 immagini mentali, 113, 118 immanente e transeunte, 105 immortalità, 22 Incarnazione, 18, 42 individuazione, 67, 74, 106, 116 Inferno, 16 innate, idee, 110 intelletto e intelligenza, 32, 54, 91 segg.; agente e passivo, 32, 100 segg., 108, 110-112

intel/igentia indivisibilium, 91 intenzionale, v. mentale latino, 48 legge, divina, 23, 38 Leone XIII, 44 linguaggio, 99 logica, 10 Luigi IX, 42 magia, 23 male, 22-23 materia, 59 segg., 74; materia prima, 61, 64 McCabe, H., 117 memoria, 99 mentale (intenzionale), 115-116 mente, 31-32, 90 segg. metafisica, 50 mondi possibili, 48 121

mussulmani, 17-18 Napoli, università di, 9 onnipotenza, 20, 56 Oxford, condanna, 43, 71 papato, 8, 17, 29, 43 Parigi, università di, 11-12, 41, 43 parole, 93-94 Peckham, G., 32-33 pensiero, 90-95 Pietro d'Irlanda, 9 Pietro Lombardo, 11 Pio X, 45 platonismo, 68, 70, lOi, 107 povertà, 24 predestinazione, 24 predièati, 51-53, 68, 76-77 prima, materia, v. materia profezia, 40 provvidenza, 23

razionalismo, 110-111 religione, 39-40 risurrezione, 18, 7 3 Roma, 26 Ryle, G., 38, 46 sacramenti, 24, 42 Scolastica, 50 sensi, 54, 100, 112-113 Sentenze di Pietro Lombardo, 11 scrittura, 14 sostanza e accidente, 51-59 speranza, v. virtii teologali superbia, 40 temperanza, 40 Tolomeo da Lucca, 30 transeunte, v. immanente transubstanziazione, 42, 56, 58 Trinità, 18, 28 umiltà, 40 Università, 11-12

questioni, 14; Questioni discusse (Disputatae) 13; sul Male, 27; sulla Potenza di Dio, 27, 84; sul1' Anima, 30; sulla Verità, 14-16; Questioni estemporanee ( Quodlibetales), 13, 16, 30 quiddità, 80, 97

vegetali, 22, 70 verità, 14 virtii, 30, 37-38; cardinali, 30; intellettuali, 35; morali, 35; teologali, 30, 38-39 visione beatifica, 23 vita, 88

ragione e fede, 19, 29 Raimondo di Pefiafort, 17

Wittgenstein, L., 38, 46, 118

122

Indice del testo

pag.

5

»

6

1. Vita

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8

2. L'Essere

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50

3. La mente

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90

Nota bibliografica .

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119

Indice analitico

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120

Prefazione Abbreviazioni.