Teologie e politica. Genealogie e attualità
 8822902424, 9788822902429, 9788822910066

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Materiali IT

Teologie e politica Genealogie e attualità A cura di Elettra Stimilli

Quodlibet

© 2019 Quodlibet s.r.l. Macerata, via Giuseppe e Bartolomeo Mozzi, 23 www.quodlibet.it isbn 978-88-229-0242-9 | e-ISBN 978-88-229-1006-6

Materiali IT Collana diretta da Dario Gentili e Elettra Stimilli. Comitato scientifco: Paolo Bartoloni, Greg Bird, Vittoria Borsò, Sieglinde Borvitz, Daniela Calabrò, Timothy Campbell, Edgardo Castro, Felice Cimatti, Donatella Di Cesare, Gianfranco Ferraro, Simona Forti, Federica Giardini, Céline Jouin, Vanessa Lemm, Enrica Lisciani Petrini, Davide Luglio, Federico Luisetti, Pietro Maltese, Danilo Mariscalco, Claudio Minca, Mena Mitrano, Marcello Mustè, Elena Pulcini, Caterina Resta, Constanza Serratore, Suzanne Stewart-Sternberg, Giusi Strummiello, Davide Tarizzo, Miguel Vatter.

Volume pubblicato con il contributo del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, e della Scuola Normale Superiore.

Indice

9 Dalla teologia politica alla fede nei mercati di Elettra Stimilli Teologia

politica e pensiero italiano

29 Teologia politica: struttura e critica Carlo Galli 53

Religione civile o metapolitica? Note sulla teologia politica in Germania e in Italia Céline Jouin 73 Suum cuique. Capitalismo, cibernetica, teologia Emanuele Alloa 91 Scrivere la legge Vincenzo Vitiello 105

Ius Puniendi. La questione della pena in Foucault, Agamben ed Esposito Arthur Bradley Il

dibattito tedesco

127 Hegel. Dentro e fuori la teologia politica Stefania Achella

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indice

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Profezia e usurpazione. Un caso teologico-politico in Max Weber Massimo Palma 161

Lo spazio diventa tempo. Scetticismo, anarchia e messianismo in Gustav Landauer Libera Pisano 177

A proposito degli angeli delle nazioni. Il problema teologico-politico del nazionalismo secondo Peterson Michel Senellart 197

Cattolicesimo politico tedesco e critica della teologia politica tra Alois Dempf e Erik Peterson Gabriele Guerra 211

I simboli della democrazia. Sul confronto tra Taubes e Carl Schmitt Martin Treml 235

Comunità e apocalisse. Un concetto teologico-politico di Jacob Taubes nel suo contesto Herbert Kopp-Oberstebrink Per

una critica della teologia politica

257 La teocrazia anarchica di Israele Donatella Di Cesare 277

Teologia politica e Islamismo. Tra universalismo e caduta apocalittica nel pensiero di Sayyid Qutb Andrea Mura 299

Genealogie del governo. La questione del potere pastorale in Michel Foucault Laura Cremonesi 317

La nozione di “spiritualità politica” nell’opera di Michel Foucault Philippe Chevallier 6

indice

335 Simone Weil: la politica e il suo oltre Rita Fulco 351

“Pensare il teologico-politico a partire dalla pena di morte”: il sovrano, l’Illuminismo e la decostruzione Jean-Claude Monod 369 Teo-legalità: il diritto come operatore politico Mariano Croce

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I contributi pubblicati in questo volume sono in parte il frutto del Convegno Internazionale «Teologia e Politica», che si è svolto presso la Scuola Normale Superiore di Pisa il 12 e 13 dicembre 2016, fnanziato nell’ambito del progetto «La questione della teologia politica nell’età contemporanea: un’indagine genealogica tra flosofa, politica e sociologia» (bandi interni della Scuola Normale Superiore di Pisa), di cui ero responsabile. In parte provengono, invece, dallo scambio e dalla collaborazione con studiosi e studiose di rilievo internazionale sul tema della teologia politica. Ringrazio tutti e tutte per avere partecipato con generosità e dedizione a questa pubblicazione; un ringraziamento particolare va a Laura Cremonesi, Rita Fulco, Gabriele Guerra e Massimo Palma per aver tradotto i testi dal francese e dal tedesco. e.s.

Dalla teologia politica alla fede nei mercati Elettra Stimilli

Al cuore dei testi raccolti in questo volume c’è l’interesse per una relazione complessa, in gran parte confuita nell’elaborazione della «teologia politica» come categoria chiave per defnire l’origine teologica della politica moderna occidentale. Provare a esibire i limiti di questo approccio è uno degli scopi principali dei lavori qui contenuti, proprio a partire dalla fecondità dell’orientamento teologico-politico sul piano della rifessione flosofca e politica. Se, fno a non molto tempo fa, la politica moderna occidentale sembrava esaurita nella completa laicizzazione delle sue categorie, oggi, nelle mutate condizioni della politica internazionale, il legame tra religione e politica è venuto ancora una volta in primo piano chiamando in causa i problemi al cuore della teologia politica; ma portando alla luce anche profondi mutamenti in corso. Mettere a fuoco il nesso tra religione e politica signifca allora, da un lato, ridefnire ancora una volta e in maniera differente una relazione tornata prepotentemente alla ribalta nelle discussioni pubbliche soprattutto in rapporto alle nuove forme di fondamentalismo religioso. Molto utile risulta in questo senso un confronto diretto con le fonti teoriche dell’islamismo radicale. D’altro lato, alla luce della recente crisi economica globale, signifca anche prendere atto delle trasformazioni subite dalla politica nel suo legame con l’economia. 1. Carl Schmitt, il dibattito tedesco e la sua ricezione italiana Non c’è dubbio. Per un lungo periodo, in larga misura coincidente con la modernità, il mondo occidentale ha vissuto nella convinzione che la questione del rapporto tra religione e politica fosse 9

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risolta nella distinzione tra la sfera pubblica dello Stato e la sfera privata della fede. Negli ultimi decenni, però, le dinamiche della globalizzazione hanno fatto esplodere le diffcoltà insite in questa convinzione; un convincimento che è apparso poco elaborato dall’occidente moderno o che comunque è risultato costruito sulla base di lacune e occultamenti. Fare chiarezza su questo punto apparentemente acquisito è forse uno dei compiti che spetta alle attuali società occidentali, in vista di un rinnovamento che faccia anche tesoro delle conquiste e degli errori del passato. Non si può non tornare allora al dibattito flosofco, teologico e politico, che si è svolto in Germania negli anni Venti e Trenta del Novecento, in cui il tema della teologia politica è stato oggetto di una intensa discussione, che ha portato a defnizioni differenti, spesso anche contrapposte, ma molto fertili per la discussione in corso. Inteso da alcuni come legittimazione religiosa del potere1 e da altri interpretato come presupposto politico della religione2, il nesso tra teologia e politica è stato ricondotto in maniera chiara alla analogia strutturale tra le categorie politiche e i dogmi teologici dal giurista tedesco Carl Schmitt, teorico del nazionalsocialismo e protagonista di questo dibattito3. Tale interpretazione è stata aspramente contrastata, tra gli altri, da Erik Peterson, il noto oppositore di Schmitt4. Un’altra nota critica è quella dell’eccentrico rabbino Jacob Taubes, che ha portato alle estreme conseguenze, seppure in tutt’altra direzione, le conclusioni di Peterson5. 1 Cfr. H. Kelsen, Gott und Staat, «Logos, Internationale Zeitschrift für Philosophie und Kultur», Bd. 11, Tübingen 1923; tr. it. di A. Carrino, Dio e Stato. La giurisprudenza come scienza dello spirito, Esi, Pisa 1988; e H. Blumenberg, Die Legitimität der Neuzeit, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1966; tr. it. di C. Marelli, La legittimità dell’età moderna, Marietti, Bologna 1992. 2 Cfr. E. Voegelin, Die Politischen Religionen, Bermann-Fischer Verlag, Wien 1938. 3 Cfr. C. Schmitt, Politische Theologie. Vier Kapitel zur Lehre von der Souveränität, Duncker & Humblot, München-Leipzig 1922; tr. it. di G. Miglio e P. Schiera, Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità, in Id., Le categorie del «politico», a cura di G. Miglio e P. Schiera, il Mulino, Bologna 1972, pp. 27-86. 4 Cfr. E. Peterson, Der Monotheismus als politisches Problem; ein Beitrag zur Geschichte der politischen Theologie im Imperium Romanum (1935), in Id., Theologische Traktate, Kösel-Verlag, München 1951, pp. 45-147; tr. it. di H. Ulianich, Il monoteismo come problema politico, Queriniana, Brescia 1983, pp. 34-42. 5 Cfr. J. Taubes, Die politische Theologie des Paulus, a cura di A. e J. Assmann, H. Folkers, W.-D. Hartwich e C. Schulte, Fink, München 1993; tr. it. di P. Del Santo, La teologia politica di San Paolo, a cura di A. e J. Assmann, H. Folkers, W.-D. Hartwich e C.

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Al cuore della teologia politica elaborata da Schmitt c’è la questione della sovranità, su cui si fonda lo Stato nazionale moderno come reale soggetto politico. Nella defnizione schmittiana di «sovranità» sono presenti due piani della connessione tra teologia e politica: quello storico e quello strutturale. Lo sviluppo storico della secolarizzazione dalla sovranità divina alla sovranità statale, nell’analisi schmittiana, non esaurisce la portata del nesso tra il teologico e il politico in gioco in essa. La corrispondenza tra la conformazione giuridica della realtà politica moderna e i concetti teologici, da cui prende le mosse il saggio del 1922, evidenzia un legame tra teologia e politica più profondo, che Schmitt stesso defnisce, appunto, «strutturale». Non è un caso, allora, che una nuova rifessione sulla teologia politica a partire dall’indagine di Schmitt sia iniziata proprio nello stesso momento in cui nuove istanze religiose si sono affermate sulla scena pubblica della politica, evidenziando la necessità di problematizzare l’idea della modernità come epoca compiutamente secolarizzata nel senso di Hegel6. E non è neppure un caso che, alla luce della crisi dello Stato nazionale moderno, sia emersa l’esigenza di una rinnovata indagine dei meccanismi che hanno condizionato la sua implosione interna, portando alla luce la necessità di una nuova idea del diritto e di un suo nuovo rapporto con la politica, che metta a frutto le potenzialità di un terreno giuridico sperimentale, in grado di articolare alternative e di impedire il costituirsi di confni limitati in spazi territoriali e categoriali chiusi. Si tratta allora di interrogare e sfruttare i possibili risvolti critici che sono emersi da angolazioni e posizioni differenti rispetto al classico dibattito sulla Schulte, Adelphi, Milano 1997; J. Taubes, Ad Carl Schmitt. Gegenstrebige Fugung, Merve, Berlin 1987; tr. it. di G. Scotto e E. Stimilli, In divergente accordo. Scritti su Carl Schmitt, a cura di E. Stimilli, Quodlibet, Macerata 1996. Su Peterson v. in particolare la lettera di Taubes a Schmitt del 18/09/1978 in Jacob Taubes - Carl Schmitt, Briefwechsel mit Materialien, a cura di H. Kopp-Oberstebrink, T. Palzhoff e M. Treml, W. Fink, München 2012, pp. 58-61; tr. it. Ai lati opposti delle barricate. Corrispondenza e scritti 1948-1987, ed. it. a cura di G. Gurisatti, Adelphi, Milano 2018, pp. 66-69. Cfr. anche J. Taubes, Il prezzo del messianesimo. Una revisione critica delle tesi di Gershom Scholem e altri scritti, a cura di E. Stimilli, Quodlibet, Macerata 2017. Per un’analisi generale del pensiero di Taubes rimando al volume: E. Stimilli, Jacob Taubes. Sovranità e tempo messianico, Morcelliana, Brescia 2004. 6 Si veda, ad esempio, in ambito anglosassone il volume di S. Newmann, Political Theology. A Critical Introduction, Polity Press, Cambridge 2019; o, in Italia, il numero della rivista «Pólemos» dedicato a questo tema: cfr. Che cos’è la teologia politica?, a cura di G. Carbone e F. Gianfrancesco, 2/2016.

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teologia politica, come quelle anarchiche (nel senso, ad esempio, della teocrazia ebraica o di Gustav Landauer) o quelle antinomiche (nel senso di Simone Weil). In questo quadro vale la pena rifettere sul fatto che in Italia sia stata avviata, a sinistra, una ricezione di Carl Schmitt in anticipo rispetto ad altri contesti culturali7. Un passaggio che è avvenuto anche grazie ad un altro fenomeno da rilevare: un’interpretazione politica del pensiero di Walter Benjamin che, fn dagli anni Settanta, è stata privilegiata in lingua italiana8. La lettura politica di Benjamin attraverso e contro Schmitt è stata rafforzata anche dalla ricezione italiana di Jacob Taubes9, che ha aperto ad una nuova lettura del «messianesimo» come categoria teologico-politica «rivoluzionaria» e antitetica rispetto al controrivoluzionario «katechon», a cui fa appello Schmitt, pure ripreso e differentemente riproposto da diversi autori italiani10. Se, da un lato, la ricezione a sinistra di Schmitt in Italia è opera di un’avanguardia, d’altro lato, è anche sintomo di conservazione, di un legame con le categorie «moderne», che vengono inizialmente utilizzate per interpretare in forma reattiva il passaggio dagli anni Settanta agli anni Ottanta, particolarmente delicato, non solo per la sinistra 7 A questo riguardo cfr. C. Galli, Carl Schmitt nella cultura italiana (1924-1978). Storia, bilancio, prospettive di una presenza problematica, pubblicato per la prima volta, nel 1979, nel primo numero della rivista «Materiali per una Storia della Cultura Giuridica», poi riedito in «Storicamente», 6 (2010) e ora reperibile in rete: storicamente.org/Galli_Carl_Schmitt. Più in generale su Schmitt cfr. Id., Genealogia della politica. Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico moderno, il Mulino, Bologna 1996 (nuova edizione 2010). 8 Tra molti dei testi di Benjamin tradotti in italiano, l’esempio più recente che va in questa direzione è il breve frammento Capitalismo come religione: cfr. D. Gentili, M. Ponzi, E. Stimilli, Il culto del capitale. Walter Benjamin: capitalismo e religione, Quodlibet, Macerata 2014. 9 Per questo rimando all’ultima parte del saggio E. Stimilli, Jacob Taubes: genealogia di un percorso antinomico, «Aut Aut», 376, dicembre 2017, pp. 149-172. 10 Sul «messianesimo» come categoria rivoluzionaria, cfr. G. Agamben, Il tempo che resta. Un commento alla “Lettera ai Romani”, Bollati Boringhieri, Torino 2000 e D. Di Cesare, Grammatica dei tempi messianici, Giuntina, Firenze 2011; più in generale, sul «messianesimo» nella flosofa del Novecento, cfr. G. Cunico, Messianismo, religione e ateismo nella flosofa del ’900, Milella, Lecce 2001; e P. Amato, R. Fulco, S. Gorgone, C. Resta, V. Surace, Schegge messianiche. Filosofa Religione Politica, a cura di C. Resta, Mimesis, Milano-Udine 2017. Sul tema del «katechon», cfr. almeno M. Tronti, Sull’autonomia del politico, Milano, Feltrinelli 1977; M. Cacciari, M. Tronti, Teologia e politica al crocevia della storia, a cura di M. Gasparri, presentazione di F. Capelli, Albo Versorio, Milano 2007; e, più di recente, M. Cacciari, Il potere che frena. Saggio di teologia politica, Adelphi, Milano 2013.

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italiana. È in questa fase che matura quella che si potrebbe chiamare la prima stagione della teologia politica italiana. Pur partendo da una lettura pionieristica di Benjamin tramite Schmitt e viceversa, gli autori legati a questa stagione fniscono per assumere i caratteri della «restaurazione». A questa segue, sempre in questo ambito, un’altra fase di studi, che coincide con quella in cui la teologia politica, come categoria interpretativa del presente, viene messa in relazione con la «biopolitica»11, l’altra categoria chiave utilizzata per circoscrivere i contorni di ciò che, in termini foucaultiani, si defnisce «ontologia dell’attualità»12. I saggi contenuti in questo volume non danno ragione di tutti questi passaggi. Anzi, molto è rimasto ancora non discusso in questo senso (in particolare manca una rifessione esplicita su Benjamin, che meriterebbe un intero capitolo a parte). Molto dunque sarà ancora da approfondire. Per ora, l’intento di questo lavoro è fondamentalmente quello di muovere un primo passo, di aprire almeno un varco in questa direzione. Che oggi sia maturata una nuova «ora della leggibilità» della «teologia politica», può essere vero solo a patto che questa non vada esclusivamente intesa come un «concetto scientifco», che faccia riferimento ad uno specifco oggetto di studio; ma che venga piuttosto intesa come un «indicatore epistemologico», per usare ancora un’espressione di Foucault13, connessa a determinati tipi di discorso sulla religione, la teologia, il diritto, la politica, l’economia e la storia, defnendo così la sua radicale attualità.

11 Cfr. almeno G. Agamben, Homo Sacer. Potere sovrano e nuda vita, Einaudi, Torino 1995; e R. Esposito, Due. La macchina della teologia politica e il posto del pensiero, Einaudi, Torino 2013. Più in generale sulla teologia politica nel pensiero italiano contemporaneo, cfr. Id., Da fuori. Una flosofa per l’Europa, Einaudi, Torino 2016, pp. 184-195. 12 Su questi temi cfr. D. Gentili, Il dispositivo della crisi. Antagonismo e governamentalità, in D. Gentili e E. Stimilli, Differenze italiane. Politica e flosofa: mappe e sconfnamenti, DeriveApprodi, Roma 2015, pp. 140-149; e D. Gentili, Crisi come arte di governo, Quodlibet, Macerata 2018 13 Cfr. M. Foucault, De la nature humaine: justice contre pouvoir, discussion avec N. Chomsky, in M. Foucault, Dits et écrits, I (1954-1975), D. Denfert, F. Ewald, J. Lagrange (éd.), Gallimard, Paris 2001, p. 1342 (N. Chomsky e M. Foucault, Della natura umana. Invariante biologico e potere politico, tr. it. di I. Bussoni e M. Mazzeo, con saggi di D. Marconi, S. Catucci e P. Virno, DeriveApprodi, Roma 2005).

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2. Attualità dello «stato di eccezione» Dopo che la discussione era parsa sostanzialmente esaurita nella sua genesi e nei suoi esiti dal processo della secolarizzazione, che aveva investito particolarmente il mondo cristiano, la teologia politica è ritornata all’ordine del giorno a livello internazionale all’inizio del nuovo secolo, soprattutto dopo l’attentato a New York del settembre 2001. A partire dal 2001, infatti, si è cercato non solo di rimettere in discussione il modo in cui le società secolarizzate occidentali si erano poste e continuavano a porsi nei confronti della religione cristiana, ma si è anche tentato di riproblematizzare la relazione tra teologia, politica e diritto. Dopo l’11 settembre la categoria teologico-politica dello «stato di eccezione», elaborata da Schmitt e ripresa da Agamben14, ha acquisito una nuova centralità internazionale. In essa è in gioco la condizione straordinaria di sospensione del diritto che il potere costituito ha la facoltà di dichiarare, se necessario, come è accaduto anche di recente, ad esempio, in Francia. Nell’analisi schmittiana lo «stato di eccezione» è a fondamento della teologia politica e della sovranità statale proprio in quanto «concetto limite» del diritto aperto alla dimensione «teologica» extra-giuridica. Negli ultimi anni questa categoria è sempre più divenuta una chiave di lettura imprescindibile della contemporaneità proprio in quanto epoca in cui «l’emergenza è diventata regola», per usare un’ormai famosa espressione benjaminiana. Uno dei fenomeni più rappresentativi a questo riguardo è stato individuato nel Patriot Act – emanato dal Senato americano il 26 ottobre 2001, successivamente all’attacco delle Torri Gemelle –, in virtù del quale i talebani catturati in Afghanistan, in una guerra che aveva assunto i toni della crociata, non potevano essere considerati né prigionieri di guerra, né accusati secondo la normativa giuridica vigente, ma erano soltanto «detainees», detenuti15. Il rapporto dello «stato di eccezione» con l’ordinamento giuridico è il problema qui in questione, che emerge anche con estrema 14 Il testo di riferimento per la discussione successiva all’attacco delle Torri Gemelle del 2001 è quello di G. Agamben, Homo sacer, cit. 15 Cfr. J. Butler, Precarious Life: The Powers of Mourning and Violence, Verso, London-New York 2004; tr. it. a cura di O. Guaraldo, Vite precarie. Contro l’uso della violenza come risposta al lutto collettivo, Meltemi, Milano 2004.

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forza nell’impostazione schmittiana. Nel concetto schmittiano di sovranità, il diritto manifesta la sua apertura alla trascendenza, il suo celato presupposto extra-giuridico, che è quello di decidere sulla sua stessa sospensione, palesando l’epicentro della sua debolezza e della crisi dello Stato moderno che su quella si fonda. Ciò che eccede la norma è allo stesso tempo dentro e fuori di essa come ultima forma di autolegittimazione del potere, in defnitiva, come possibilità di legittimare la violenza che obbliga alla sottomissione alla sua decisione arbitraria. Nella decisione sovrana la violenza del potere viene inscritta in un contesto giuridico e così legittimata. In questa direzione Schmitt opera una distinzione tra «legalità» e «legittimità». Egli critica, cioè, la deriva «legalistica» dello Stato burocratico e amministrativo moderno, che ha la pretesa di regolare per legge anche ciò che, pur essendo «legittimo», per defnizione non può essere normato. Una distinzione, questa, che Schmitt opera facendo esplicito riferimento a Max Weber16. Si tratta di un riferimento molto prezioso, che colloca la produzione weberiana nuovamente al centro del dibattito su questi temi. In un testo del 1950 intitolato Il problema della legalità Schmitt afferma: «Se il concetto di legge viene spogliato di ogni riferimento contenutistico alla ragione e alla giustizia e contemporaneamente viene mantenuto lo Stato legislativo con il suo concetto specifco di legalità che concentra nella legge tutta l’altezza e la dignità dello Stato, ogni disposizione di qualsiasi tipo, ogni comando ed ogni provvedimento possono essere diventati legali»17. Ciò vuol dire che «alla trasformazione del diritto in legalità fa immediatamente seguito la trasformazione della legalità in un’arma della guerra civile»18. Il confne che separa la «legalità» dello «Stato legislativo» dalla «legittimità» del potere «concreto» del diritto – che è ciò che Schmitt intende difendere – manifesta la debolezza del diritto nella sua violenza intrinseca. Che questa violenza abbia sempre più as16 Cfr. C. Schmitt, Legalität und Legitimität, Duncker & Humblot, München-Leipzig 1932; tr. it. di P. Schiera e G. Miglio, Legalità e legittimità, in C. Schmitt, Le categorie del «politico», cit., pp. 211-244; e Id., Das Problem der Legalität, «Die neue Ordnung» IV, 3, 1950, pp. 270-275; tr. it. di P. Schiera e G. Miglio, Il problema della legalità, in Schmitt, Le categorie del «politico», cit., pp. 279-292. 17 C. Schmitt, Das Problem der Legalität, cit., p. 275; tr. it. cit., p. 292. 18 Ivi, p. 270; tr. it. cit., pp. 287-288.

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sunto, ai nostri giorni, la forma di una «guerra civile mondiale» è proprio ciò che ha permesso al concetto schmittiano di «stato di eccezione» di assurgere a categoria privilegiata per leggere la contemporaneità. 3. Religione e egemonia del mercato Oggi, nell’epoca della compiuta «unità del mondo», come direbbe Schmitt, nell’epoca della globalizzazione, come potremmo dire noi diversamente, quando il potere giuridico degli Stati risulta assorbito e comunque trasformato dal potere economico e quando una crisi economica planetaria continua a alimentare una vera e propria «guerra civile mondiale», nonostante tutti i tentativi di ripresa dell’economia, nuovi meccanismi emergono a fondamento della «macchina» planetaria del potere. Anche qui sembra in gioco una relazione tra politica e religione; diversa però rispetto a quella «teologico-politica», seppure ad essa connessa. Su questo punto credo che valga la pena provare ancora a rifettere. È opportuno, ad esempio, soffermarsi sui modi attraverso cui elementi considerati solitamente estrinseci alla vita strettamente economica siano emersi progressivamente in primo piano. In particolare, ci si dovrebbe forse chiedere se la trasformazione del nesso incertezza/fducia nel dispositivo alla base del potere economico globale – trasformazione che ha fatto del mercato l’istituzione predominante e il punto di riferimento della stessa normazione politica – non sia stata in realtà resa possibile da una dinamica affne alla fede in gioco nell’esperienza religiosa, all’interno della quale sono forse riconducibili anche i meccanismi d’incertezza non stimabile che determinano l’andamento dei mercati fnanziari. Si tratta di un fenomeno complesso, che si è progressivamente esasperato nella forma oggi conosciuta. Ciò che è interessante notare, a questo punto, è il fatto che questo processo si è sviluppato contemporaneamente e parallelamente alla crescita, in questi ultimi decenni, delle affliazioni alle comunità religiose, divenute uno dei principali fattori di aggregazione e di identifcazione politica e culturale: una situazione che ha direttamente coinvolto gli assetti politici internazionali e ha rimesso seriamente in discussione il distacco dalla reli-

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gione, che aveva caratterizzato la modernità e su cui era convenuto il dibattito novecentesco. Credo ad esempio che valga la pena rifettere sul fatto che, dopo la dissoluzione del blocco dei paesi socialisti e il conseguente mutamento dell’asse di polarizzazione politica sul piano globale, sono state proprio la fede religiosa o l’affliazione a comunità religiose i principali elementi aggreganti su cui si è costruita l’identità politica e culturale. Forse, prendere semplicemente atto della crisi degli Stati nazionali, giuridicamente garanti, in epoca moderna, del processo di laicizzazione della politica caratteristico delle società occidentali, non è suffciente per affrontare il problema della nuova affermazione della religione sul piano pubblico della politica. Piuttosto, per comprendere quanto sta accadendo, può essere utile un confronto con il concomitante e planetario dissolversi della politica nell’economia, dal mio punto di vista, all’origine delle colossali trasformazioni in atto. La mia ipotesi, dunque, è che l’enorme cambiamento subito dalla politica nel suo connubio con l’economia risulti determinante nel diffcile tentativo di trovare una spiegazione al rinnovato dominio della religione sulla scena pubblica mondiale. Ad esempio, si può ipotizzare che i vari fondamentalismi recentemente emersi e nuovamente sviluppati – come quello dei jihadisti dell’ISIS (Islamic State of Iraq and Syria) – in realtà siano profondamente connessi all’egemonia del potere economico mondiale, proprio perché anch’esso deriva la sua effcacia dal fatto di essere un dispositivo fondamentalmente religioso. Un fenomeno che è emerso con particolare forza con l’affermazione delle politiche neoliberiste nei paesi più avanzati dell’Occidente. Più che di uno «scontro di civiltà»19 sembra allora che si tratti di un contrasto per la conquista dell’egemonia all’interno del mercato mondiale. In questo senso la religione, forse, non è semplicemente una «copertura retorica», come sostiene Badiou20; o comunque il suo ruolo non sembra semplicemente interpretabile nei termini classici dell’«ideologia». A partire dagli anni Ottanta del secolo scorso il neoliberismo si è imposto come nuova politica globale, dando inizio ad un nuovo cor-

Cfr. S. P. Huntington, Lo scontro di civiltà e il nuovo ordine mondiale. Il futuro geopolitico del pianeta (1996), tr. it. di S. Minucci, Garzanti, Milano 2000. 20 Cfr. A. Badiou, Notre mal vient de plus loin: Penser les tueries du 13 novembre, Fayard, Paris 2016; tr. it. Il nostro male viene da più lontano, Einaudi, Torino 2016. 19

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so, una vera e propria svolta economica, politica e sociale21. L’economia capitalistica ha sempre istituito un intimo legame con le vite individuali, in precedenza fondamentalmente basato sullo sfruttamento di specifche capacità nella forma del lavoro. Ciò che è cambiato oggi, con le politiche neoliberiste, è sostanzialmente il fatto che nei processi economici non sono tanto o soltanto in gioco prestazioni specifche realizzate, come in passato, nella forma del lavoro; né, in seguito agli enormi mutamenti avvenuti nell’economia postindustriale grazie allo sviluppo delle biotecnologie, è esclusivamente in gioco la trasformazione della mera vita biologica in plusvalore22. La crisi economica ha portato all’evidenza anche un altro fenomeno: il fatto, cioè, che il processo di valorizzazione della vita al cuore dei meccanismi economici mondiali non si limita al solo dominio biologico, ma si estende alla stessa capacità umana di dar forma e valore alla vita. Un passaggio particolarmente rilevante anche per comprendere i meccanismi religiosi che operano nelle politiche economiche globali. Il «neoliberismo» si è imposto negli ultimi quarant’anni su scala mondiale come nuova politica economica. Molti hanno interpretato questo passaggio come una semplice restaurazione del liberalismo classico: un ritorno al mercato come realtà naturale in grado di raggiungere autonomamente equilibrio, stabilità, crescita senza quegli interventi statali che avrebbero impropriamente infuenzato il suo corso spontaneo. In realtà, credo che si sia trattato di un fenomeno più complesso, di cui solo oggi si cominciano a comprendere i risultati. Sintetizzando molto, si può dire che si è trattato di una strategia politica tesa a orientare il fenomeno emergente della globalizzazione, in modo tale da ridefnire i ruoli e le funzioni della politica e dell’economia. La classica subordinazione dell’economia alla politica, che aveva caratterizzato il mondo moderno, è stata neutralizzata o persino invertita. Gli snodi essenziali di questa svolta sono fondamentalmente due. Cfr. M. De Carolis, Il rovescio della libertà. Tramonto del neoliberismo e disagio della civiltà, Quodlibet, Macerata 2017. 22 Cfr. M. Cooper, Life as Surplus: Biotechnology and Capitalism in the Neoliberal Era, Washington University Press, Seattle, Wa 2009; tr. it. a cura di A. Balzano, La vita come plusvalore. Biotecnologie e capitale al tempo del neoliberismo, Ombre Corte, Milano 2013. 21

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Il primo riguarda il mutamento profondo subito negli ultimi quarant’anni dai modi capitalistici di produzione e l’estensione della razionalità amministrativa e imprenditoriale a tutti gli ambiti lavorativi, al dominio sociale, politico, fno a coinvolgere le singole esistenze in modalità del tutto inedite. La forma-impresa si è imposta e l’«imprenditore di sé» è divenuto il prototipo a cui si sono adeguate tutte le fgure portanti dell’economia classica: il «lavoratore», il «produttore» e il «consumatore». Il secondo snodo problematico al cuore della svolta neoliberista è la progressiva trasformazione degli Stati nazionali in «Stati manageriali». Il nuovo paradigma governativo neoliberista, infatti, oltre ad implicare una profonda trasformazione dei modi classici di produzione, ha anche favorito l’istituzione di Stati più fessibili, reattivi, fondati sul mercato e orientati verso il consumatore. Il management, concepito come una modalità di gestione «universale», valida per qualsiasi campo, è stato interamente trasposto anche nel settore pubblico. Questa trasformazione ha comportato un cambiamento radicale della politica e delle istituzioni. Anche i governi democratici, sottoposti al fenomeno della globalizzazione, hanno contribuito in maniera diretta a realizzare i mutamenti con cui, pure, si sono trovati a confrontarsi. La progressiva mutazione della politica in economia, di cui molto si è discusso negli ultimi anni, non è stata solo il frutto dell’invasione e della conquista, per così dire dall’esterno, degli Stati da parte del mercato divenuto globale. Sono stati piuttosto gli stessi Stati, soprattutto quelli più forti, ad essere i protagonisti di questo mutamento, assumendo e coniugando direttamente al mercato la logica dell’impresa. Un cambiamento che ha investito nel profondo lo statuto stesso della politica, del diritto e il processo di istituzione delle norme. Più che di crisi degli Stati nazionali credo allora che sia necessario parlare in questo senso di una loro profonda trasformazione. Va forse tenuto conto in questo senso del fatto che non sembra si sia esclusivamente trattato di uno sviluppo riconducibile a una «ideologia» elaborata in maniera strategica e intenzionale solo da singoli gruppi di potere ai vertici degli organismi internazionali. Questa trasformazione è stata piuttosto il risultato di un complesso di pratiche, che insieme a Michel Foucault – che per primo ha individuato la forza e il pericolo

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di questo fenomeno – potremmo defnire «pratiche governamentali»23. Si è trattato di un processo allo stesso tempo interno alle politiche istituzionali, alle politiche economiche e alle vite individuali. A partire da questi presupposti, si può allora provare a comprendere quali siano i meccanismi religiosi all’opera in esso, focalizzando l’attenzione sul fenomeno dell’indebitamento, che ha investito, in una forma mai conosciuta in precedenza, tanto i singoli individui quanto gli Stati nazionali e che costituisce, ai miei occhi, un esempio particolarmente calzante in questo senso. 4. La religione del debito L’affermazione su scala globale di una forma istituzionale economico-amministrativa e l’estensione della razionalità imprenditoriale a tutti gli ambiti pubblici e privati, al dominio politico, sociale, oltre che al campo strettamente economico, hanno implicato un cambiamento profondo. Questa trasformazione non ha coinvolto solo l’economia e gli assetti istituzionali, ma ha investito anche le vite dei singoli. Un inedito rapporto tra le modalità di esistenza dei singoli e la gestione economica globale è emerso in maniera preponderante. È in questo contesto che elementi normalmente ritenuti non appartenenti alla vita economica sono emersi progressivamente in primo piano. Una dinamica fondamentalmente religiosa, come la fducia nei mercati, è sempre più risultata il dispositivo che ha permesso al potere economico di affermarsi in maniera globale proprio quando, d’altra parte, in seguito alla disgregazione del blocco dei paesi socialisti e al conseguente mutamento degli equilibri politici internazionali, la fede religiosa o l’affliazione a comunità religiose sono apparse come i principali fattori di aggregazione e di identifcazione politica e culturale. Anche alla luce dei tragici fatti che negli ultimi anni hanno colpito il cuore dell’Europa e molti altri paesi in tutto il mondo, si è molto discusso sui motivi della nuova affermazione della religione sul piano pubblico della politica. La fenomenologia politica dell’Occidente globalizzato e neoliberista, da un lato, si è presentata nella sua veste 23 Cfr. M. Foucault, Naissance de la biopolitique. Cours au Collège de France 19781979, Gallimard-Seuil, Paris 2004; tr. it. di M. Bertani e V. Zini, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), Feltrinelli, Milano 2005.

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«ultrasecolarizzata». D’altro canto, però, le dinamiche religiose interne al potere economico sono sempre più emerse in primo piano e lo stesso processo di secolarizzazione che aveva caratterizzato il mondo occidentale moderno è stato rimesso in discussione. Il punto sta allora nel comprendere che cosa sia in gioco in quella peculiare forma di fede che è ormai il centro del dominio economico mondiale. Non solo chi «crede» in sé e nella forza del mercato acquista una rilevanza inedita, nel momento in cui l’«imprenditore di sé» è diventato la fgura centrale del potere economico. Ma anche il meccanismo di valorizzazione alla base della comunità fnanziaria, l’autoreferenzialità implicita delle credenziali che muovono il mercato azionario, appaiono più che mai dipendenti da un singolare tipo di fede: in gioco è la «fducia» dei suoi stessi partecipanti, più che il reale valore economico dei titoli scambiati. I ripetuti tentativi di presentare i problemi economici come problemi esclusivamente tecnici, risolvibili da economisti o da governi adeguatamente composti da esperti con competenze tecniche, si scontrano allora con il dato di fatto che, in questo processo, è in questione qualcosa di più complesso, che sfugge ad un approccio specialistico dell’economia. Questo fenomeno si è reso particolarmente evidente in seguito al processo di fnanziarizzazione dei mercati all’origine della crisi economica in atto. Negli ultimi trent’anni non solo la fnanza è entrata in relazione con la produzione di beni e servizi e quindi con il mondo del lavoro in senso classico, stravolgendone per molti versi la sua struttura interna; ma soprattutto, attraverso il massiccio dirottamento del risparmio delle economie domestiche sui titoli azionari, si è operato un totale coinvolgimento delle vite individuali nel mondo fnanziario. Questo è ciò che ha reso possibile il fatto che nuove forme di indebitamento siano diventate il motore dell’economia mondiale. Un fenomeno che ha avuto inizio negli Stati Uniti, ma che si è presto propagato, innescando la crisi economica mondiale degli ultimi anni. Alla base di questo processo vi è l’idea che la realizzazione dei proftti fondamentalmente dipenda da modalità di consumo derivanti da redditi fnanziari a loro volta provenienti da forme di indebitamento sempre più complesse. La creazione di una domanda aggiuntiva sviluppata da nuove forme di debito privato e alimentata dalla stessa fducia nel mercato fnanziario è il presupposto di uno

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sviluppo che, nonostante i suoi evidenti effetti devastanti, continua il suo corso, parallelamente alle politiche di austerity introdotte e alla cosiddetta ripresa dell’economia globale. In questo orizzonte, i ripetuti tentativi di rilanciare l’economia, più che un rimedio, appaiono il sintomo di un processo perverso, il cui scopo ultimo non sembra altro che la produzione di una ricchezza virtuale fne a sé stessa, volta a favorire il consumo pure in assenza di liquidità reale. Nell’immissione della vita alla fnanza il debito ha continuamente trovato nuove forme di investimento, che ne mettono a nudo l’implicita inestinguibilità e la necessità che venga continuamente riprodotto. Le nuove modalità di accumulazione del valore scoprono nel debito, che non può e non deve essere estinto, il meccanismo privilegiato della sua stessa alimentazione. Un indebitamento planetario si è rivelato alla base degli ingranaggi dell’economia mondiale e di una nuova forma di potere24. Un’analisi della trasformazione «culturale», prima ancora che «economica», che è al cuore di questo processo risulta essenziale per comprendere il fenomeno della «fede nei mercati» come principale dispositivo delle politiche globali e per svelare, così, i meccanismi religiosi che governano l’epoca neoliberale in maniera differente rispetto ai presupposti teologico-politici alla base dell’istituzione moderna dello Stato nazionale. Il capitalismo è defnitivamente diventato, oggi, la religione dell’autovalorizzazione del capitale che, come attestato già da Karl Marx, è alla base dell’accumulazione originaria proprio nella forma del debito. Dal mio punto di vista, è centrale per l’analisi di questo processo la logica del «proftto per il proftto», che risulta ai miei occhi uno degli aspetti più interessanti della tesi di Max Weber sull’origine del capitalismo. Secondo Weber, ciò che caratterizza questo meccanismo non è tanto una razionalità teleologica, fnalizzata al raggiungimento di scopi defniti, come si sarebbe portati a credere sulla base delle interpretazioni classiche della logica economica; ma un movimento autotelico, che ha il suo fne in sé. Particolarmente rilevante qui è il Cfr. D. Graeber, Debt: The First 5,000 Years, Melville House, New York 2011; tr. it. di L. Larcher e A. Prunetti, Debito. I primi 5000 anni, Il Saggiatore, Milano 2012; M. Lazzarato, La fabrique de l’homme endetté. Essai sur la condition néoliberale, Éditions Amsterdam, Paris 2011; tr. it. di A. Cotulelli e E. Turano Campello, La fabbrica dell’uomo indebitato. Saggio sulla condizione neoliberista, DeriveApprodi, Roma 2012; E. Stimilli, Debito e colpa, Ediesse, Roma 2015. 24

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fatto che, a ben guardare, si tratta precisamente dello stesso movimento che caratterizza l’azione umana, il modo in cui gli esseri umani danno forma e valore alla loro vita e che è oggi al centro dei processi economici molto più del lavoro in senso classico. Se, come rilevato almeno a partire da Aristotele, l’azione umana non si realizza in un’opera determinata, in uno scopo specifco, ma è autotelica, ha cioè il suo fne in sé, allo stesso modo, potremmo dire, la logica autoriproduttiva del proftto non è fnalizzata al raggiungimento di un fne determinato ad esso esterno, ma piuttosto al mantenimento di un’«impresa» globale che, come il concetto di prassi in Aristotele, ha il suo fne in sé. Sulle orme del passaggio dalla «biopolitica» alla «governamentalità» compiuto da Foucault nei suoi ultimi corsi al Collège de France, si può allora sostenere che ciò che alimenta, oggi, il meccanismo alla base del dispositivo capitalistico non è una razionalità orientata alla scopo, ma la stessa autofnalità che caratterizza l’azione umana. Qualcosa di simile è in gioco nell’esperienza religiosa. Questo è il punto particolarmente interessante per il nostro discorso. Tra le esperienze umane, infatti, quella religiosa è essenzialmente caratterizzata dal fatto di non avere un fne determinato, come attestato dai più importanti studi di storia delle religioni25. L’esperienza religiosa, nelle sue varie forme, è tale quando in essa l’autofnalità implicita nell’azione umana si manifesta come un potere con un fne in sé in grado di creare obblighi e di governare le singole condotte. Dopo la pubblicazione di Il regno e la gloria di Giorgio Agamben26 si è aperto in questa direzione un cantiere di ricerca particolarmente fertile sulla «teologia economica», un ambito connesso al governo economico che, nelle più famose discussioni novecentesche sul tema, era rimasto celato a favore del paradigma teologico-politico, in quanto questo è più chiaramente connesso al dispositivo della sovranità statale moderna che in vari modi si voleva preservare. L’oikonomia è risultata in questo contesto un «concetto teologico», che si riferisce tanto all’economia della salvezza, e cioè al disegno di25 Cfr. E. Durkheim, The Elementary Forms of the Religious Life, translated by J. W. Swain, George Allen & Unwin, London 1976; tr. it. a cura di M. Rosati, Le forme elementari della vita religiosa, Meltemi, Milano 2005. 26 Cfr. G. Agamben, Il regno e la gloria. Per una genealogia teologica dell’economia e del governo, Neri Pozza, Milano 2007.

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vino di salvezza del mondo, quanto all’economia intradivina, vale a dire al modo in cui Dio si manifesta nella Trinità. Nelle sue due sfaccettature l’oikonomia risulta l’operatore strategico attraverso cui la perfezione dell’autorità divina, a cui fa riferimento l’autorità politica nel senso della teologia politica, si rapporta all’azione di Dio e al suo operato nel mondo. Sebbene connessa in maniera essenziale all’economia, nel senso del governo, l’«azione» viene in questo modo analizzata nei termini teologico-metafsici del dispositivo trinitario, forma trascendentale del rapporto di Dio con sé stesso prima ancora che col mondo. Nonostante il loro estremo interesse, queste ricerche rischiano di separare l’azione umana dalle pratiche immanenti alle stesse esperienze religiose, sempre relazionate, in maniera di volta in volta differente e storicamente determinata, all’agire mondano, rendendo così anche più diffcile individuare forme di resistenza al potere economico globale. Non è un caso, ad esempio, che per Weber sia centrale la pratica dell’«ascesi» per articolare in maniera effcace la sua tesi sull’origine del capitalismo27, e che questa stessa pratica sia stata ripresa da Foucault, seppure in termini differenti, nell’analisi delle diverse forme di «governo». L’«ascesi» è fondamentale per comprendere lo «spirito» del capitalismo – o, come direbbe Foucault, per individuare la forma «governamentale» del potere economico –, non solo perché, in termini weberiani, tale condotta sarebbe in defnitiva caratterizzata dalla rinuncia o dalla capacità di risparmiare denaro; ma perché con essa è essenzialmente in gioco la stessa pratica di vita che si trova «elettivamente» integrata nei modi capitalistici di produzione e nelle forme di valorizzazione del capitale. Oggi questa dinamica assume la forma di un «tecnica di sé» che converte la facoltà propriamente umana dell’azione senza uno scopo predeterminato in una mancanza, un vuoto, una colpa che è impossibile colmare: un debito del vivente28. Forse l’esempio più chiaro a questo proposito sono gli studenti, in particolare quelli delle ricche università americane, che, molto prima di cominciare a lavorare, si ritrovano indebitati con le banche, che Cfr. M. Weber, Gesammelte Aufsätze zur Religionssoziologie, Mohr, Tübingen 1920-1921; tr. it. Sociologia della religione; vol. I: Protestantesimo e spirito del capitalismo; vol. II: L’etica economica delle religioni universali, a cura di P. Rossi, Edizioni Comunità, Torino 2002. 28 Su questo rimando ad un lavoro più ampio: E. Stimilli, Il debito del vivente. Ascesi e capitalismo, Quodlibet, Macerata 2011. 27

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hanno anticipato il pagamento delle loro tasse universitarie, e sanno già che per diversi anni dovranno destinare parte degli eventuali guadagni a riscattare il proprio debito, adeguandosi così alla pratiche di (s)valutazione del sapere oggi all’ordine del giorno. Con le politiche neoliberiste, dare valore alla vita corrisponde alla stessa valorizzazione del capitale, e alla possibilità, per ciascuno, di diventare un «capitale umano». Le capacità individuali, di per sé potenzialmente aperte, vengono in tal modo trasformate nella frustrazione di un’insuffciente valorizzazione. Una costante autocritica è all’origine di un debito infnito che immediatamente si traduce nella possibilità di investire su ciò che risulta una mancanza. Se, nella sua forma attuale, il capitalismo è diventato «la religione del debito» – una religione «senza teologia», come profeticamente affermato da Walter Benjamin nel suo frammento del 192129 – questo allora può essere il punto per cominciare a trovare una risposta alla domanda sul perché, oggi, la religione sia tornata al centro dei confitti politici e sociali. Se è vero che i nuovi fondamentalismi sono profondamente legati all’egemonia del potere economico globale, proprio perché anche questo deriva la sua effcacia dal fatto di essere un dispositivo religioso, si può anche dire, allora, come sostenuto dall’orientalista francese Oliver Roy30 e come affermato in maniera più radicale da Donatella Di Cesare31, che i nuovi fondamentalismi non sono affatto l’espressione degli oppositori della globalizzazione e degli avversari dei modi di vita delle democrazie occidentali, ma sono piuttosto il prodotto e lo strumento della stessa globalizzazione. Ridiscutere la presunta radice occidentale delle dinamiche economiche globali, muovendo dall’esigenza di «rispazializzare» il legame tra politica e religione oltre la centralità dell’Europa e oltre la centralità dell’Occidente, come si è cercato di fare, seppure parzialmente, in questo volume, risulta allora un’urgenza imprescindibile, perché solo grazie a questa apertura anche il mondo occidentale potrà riacquistare nuovo alimento per un reale e profondo rinnovamento. Cfr. W. Benjamin, Capitalismo come religione, in D. Gentili, M. Ponzi, E. Stimilli, Il culto del capitale, cit., pp. 9-12. 30 Cfr. O. Roy, La peur de l’islam, Éditions de l’Aube, La Tour-d’Aigues 2015; tr. it. di L. De Tomasi La paura dell’islam. Conversazioni con Nicolas Truong, prefazione di S. Montefori, RCS, Milano 2016. 31 Cfr. D. Di Cesare, Terrore e modernità, Einaudi, Torino 2016. 29

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Se esiste una resistenza interna al fenomeno del mercato globale, si tratta di un’opposizione ancora tutta da costruire, che potrebbe trovare nuove possibilità di crescita, nonostante le diffcoltà sino ad oggi evidenti. C’è almeno una parte delle giovani generazioni, sia in Occidente che altrove, che sta cercando modi effcaci per opporsi alla violenza della fede nel mercato, senza cedere a forme di nazionalismo apparentemente consolatorie. Populismi xenofobi, da una parte, o islamizzazione del radicalismo, dall’altra, sembrano attualmente predominanti. Due forme che invece di aprire nuove possibilità continuano a seguire percorsi già visti. Il centro della resistenza al potere globale sembra risiedere invece proprio nella possibilità di riattivare, in modi sempre differenti, la stessa fnalità senza scopo che inerisce all’azione umana e che, quando non è incorporata in un meccanismo vuoto fne a sé stesso, come quello che è attivo oggi a livello globale, può coincidere con la capacità innovativa e di cambiamento inerente a un nuovo uso dei mezzi che sono naturalmente a disposizione nelle differenti forme dell’agire umano, oggi in defnitiva espropriate. Questa opportunità è ancora data a uomini e donne, ed è legata al diffcile compito di mettere radicalmente in discussione e criticare politicamente la forma autodistruttiva che ha assunto l’attuale impresa del mercato globale.

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Teologia politica – termine che nel lessico politico contemporaneo deve la propria fortuna, più che a Spinoza, a Carl Schmitt, il quale a sua volta lo trae da Bakunin che nel 1871 lo coniò per la sua lotta contro Mazzini, contro l’autorità, contro l’universale – e biopolitica sono due infuenti modalità della critica post-dialettica. La critica dialettica porta alla luce le contraddizioni interne al paradigma moderno – soprattutto in merito al nesso fra particolare e universale, che non può trovare composizione nella mediazione semplice del contratto, il quale anzi cela e mistifca la materialità del dominio quale si presenta nel rapporto di produzione economica (e da questo punto di vista nell’economia c’è l’origine) –, dando di esse un’interpretazione alternativa ed evolutiva (o rivoluzionaria). La biopolitica e la teologia politica vedono nel paradigma moderno altre e diverse contraddizioni, delle quali non si dà superamento, e che restano come aporie a inquietare l’intera costruzione moderna. La biopolitica nella sua essenza sostiene che nella politica ne va dell’uomo e non solo del cittadino; questa grande separazione fra pubblico e privato, nata per garantire pubblicamente i diritti dei singoli e lo sviluppo della società, è essa stessa dominio: e non tanto perché implica alienazione, cioè interna differenziazione del soggetto, ma perché, nonostante questo altissimo prezzo difensivo e costruttivo, in realtà il potere non afferra il cittadino ma l’uomo intero nella sua vita concreta – vita che è, per il potere, solo biologia, allevamento con fnalità di potenza –; e proprio la pretesa moderna che il corpo vivente sia la prima proprietà del singolo individuo, la Questo testo riprende, con profonde modifche, il saggio Secolarizzazione, teologia politica, agire politico, pubblicato in «Jura gentium», XII, 2015. 1

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prima valenza di potere, rafforza la presa del paradigma biopolitico che fn dall’origine è condiviso da chi ne è soggetto. Ma ciò signifca che l’origine è, propriamente, il potere, e che il tema della vita predomina su quello dell’utile: il potere non è costruito per l’utile dei singoli e dei molti, come afferma il discorso della modernità, ma letteralmente costruisce l’uomo e ne governa la vita attraverso innumerevoli dispositivi scientifci e pratici. La compatta identità originaria del soggetto autonomo non esiste, e non esiste nemmeno la sua alienazione; le istituzioni (lo Stato, la sovranità) non sono il fulcro teorico e pratico della modernità, che è piuttosto il potere multiforme sulla vita, costruttivo e potenzialmente distruttivo. Una radicale rilettura critica del progetto moderno, quindi. Analogamente radicale, ma su differenti presupposti, è la critica che di quel progetto avanza la teologia politica sostenendo che la teologia (la religione non come esperienza vissuta ma come immagine e rifessione sull’ordine) è l’originario – quindi non la ragione né l’economia né il potere –, che c’è sempre relazione fra religione e politica (o economia, nel caso della «teologia economica»), e che questa relazione è centrale e costitutiva, e che l’elemento teologico non può mai essere del tutto neutralizzato o superato nella ragione, e permane come resto opaco di disordine e al contempo come coazione all’ordine. Quindi con teologia politica non si intende solo il semplice fatto che la ragione moderna istituisce rispetto al teologico una connessione superante, una secolarizzazione produttiva; teologia politica signifca anche che esiste un punto di vista – il pensiero negativo – a partire dal quale quella connessione è sì interpretabile come pienamente operante ma al contempo appare come una sconnessione originaria, non recuperabile dalla ragione. In altri termini, il teologico non è solo l’inizio, ma è l’origine, ovvero resta in primo piano, rocciosamente insuperabile e privo di giustifcazione razionale: anzi è il teologico che spiega il non razionale che spiega il razionale. Teologia politica non è quindi solo ripercorrere trionfalmente la secolarizzazione ma anche negarne il compimento e affermare la potenza di questa incompiutezza; in quest’ultima accezione, in particolare, implica un primato del teologico che non è una dipendenza del politico dal teologico, ma che signifca che attraverso il teologico, come resto e come eccesso, si mostra l’origine non razionale del-

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la ragione politica, il suo punto cieco. Il teologico è l’origine della politica moderna: è un orizzonte intrascendibile ed è anche un resto precedente, eccedente e ulteriore, più o meno consistente, che continua a operare tanto come presenza quanto nel modo dell’assenza. La teologia politica è «struttura» nel senso che colpisce la strutturale distinzione moderna fra pubblico e privato, ma senza sacrifcare la dimensione istituzionale, e anzi facendo di quella istituzione che è la sovranità la protagonista del Moderno – col fne di mostrarne l’origine non costruttivo-razionalistica. Quindi, in quanto è pensiero della secolarizzazione che la vede necessariamente incompiuta, che non si concilia con essa, teologia politica è anche “critica”, poiché è in grado di attingere le strutture del Moderno interpretandole in modo difforme dalla loro autonarrazione ed autogiustifcazione, affermando cioè non tanto il primato dell’economico, o del potere sulla vita, ma l’eccedere del teologico, tanto come presenza quanto come assenza, rispetto alla sua istituzionalizzazione neutralizzante. La stessa autonomia del “politico” è autonomia dalla asserita origine razionale della politica, ma non dalla non neutralizzabile origine teologica prerazionale della politica, e dalle sue conseguenze mobilitanti. E a essere internamente mobilitato è appunto il rassicurante dualismo interno/ esterno, credente/cittadino, religione/politica: all’origine di queste dualità sta il grumo di senso prerazionale che ha in sé dinamismi autonomi, che la ragione moderna non può riuscire, nonostante le proprie asserzioni e pretese, a neutralizzare del tutto. Quel grumo originario non è una compatta unità, ma è piuttosto un Due: il dualismo fra cielo e terra, fra immanenza e trascendenza, fra contingenza ed eternità. Per la critica teologico-politica la trascendenza – o la sua assenza – è ineliminabile dalla storia dell’Occidente, che ne è il problema permanente, l’eccedenza, o l’assenza, costitutiva. Eppure, nel suo far emergere il rapporto fra religione e politica utilizzandolo come un fattore di critica, vedendovi la mancata chiusura della ragione su sé stessa, la teologia politica non è frontalmente antimoderna: decostruisce l’auto-interpretazione della modernità, ma non implica che si debba deferenza alla religione, o obbedienza ad autorità premoderne; signifca semmai che c’è qualcosa che precede logicamente lo Stato, e che, molto trasformato, ha agito dentro lo Stato e oltre lo Stato.

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*** Dai primi secoli della nostra era la religione non ha mai lasciato la politica, e viceversa, in un rapporto di divaricazione, di collisione, di reciproca ricerca di egemonia o di transitorie alleanze; il tutto secondo modalità ignote al mondo antico, in cui le due dimensioni di fatto coincidevano. Il divino e l’umano, la religione e la politica, si sono rivelate due fonti energetiche fondamentali della nostra civiltà, sostanzialmente inseparabili: come non è possibile studiare la storia della Chiesa e del cristianesimo senza cogliervi le radici antiche che la innervano, insieme alla fonte del tutto originale della Rivelazione, così lo studio delle strutture politiche occidentali, intellettuali e istituzionali, non può non rilevare nella religione la fonte (in positivo o in negativo, in opposizione) di forme argomentative, di pretese di salvezza, di assetti istituzionali, di energie antagonistiche, riferibili alla dimensione politica. Infniti prestiti lessicali, iconografci, simbolici, emotivi, logici, strutturali, argomentativi, archetipici, motivazionali lo dimostrano: in generale, la «teologia politica» consiste appunto nel rilevare nella politica un’origine da cui questa non può sottrarsi; un’origine intesa come mancanza o come sovrabbondanza, come fondamento o come abisso, come pace o come confitto, come metro di paragone positivo o negativo. Alla luce di questo rapporto fra politica e religione può essere profcuamente letta una ingens sylva di temi e di concetti fondamentali della storia del pensiero politico e delle istituzioni politiche: la metafsica e la mediazione, l’auctoritas e la rappresentazione, l’ordine e l’unità, la questione dell’origine, del fne e della fne della storia, la paura, la libertà e la giustizia, sono tutti nodi politici primari che la storia politica ha dipanato in modalità differentissime, avendo come modello, consapevolmente o non, polemicamente o non, i concetti o le intuizioni elaborati in ambito religioso. Molti sono gli autori e i movimenti che si possono leggere attraverso la lente del rapporto fra religione e politica: Machiavelli (il più esterno ad essa, che va poco oltre l’utilizzazione strumentale della religione da parte della politica), i padri della Riforma (Lutero e Calvino e i loro seguaci, che ridisegnano i rapporti fra politica e religione), Spinoza (che conia il termine «teologia politica», ma lo declina secondo una via di perfetta immanenza politico-flosofca), i controrivoluzionari cattolici (che ne danno una versione

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fondazionista), Max Weber (che individua piuttosto l’agire economico razionale dei singoli all’interno del disincanto protestante), Benjamin (che accede alla teologia politica tanto come struttura mitica del dominio, della storia e delle istituzioni, quanto come liberazione messianica dall’oppressione), Karl Löwith e Eric Voegelin (impegnati nella denuncia della trasposizione politica dell’eschaton e della gnosi realizzata dalle ideologie totalitarie del Novecento come verità dell’intera struttura del Moderno), Leo Strauss (che in dialogo con Schmitt si pone la questione del rapporto fra rivelazione, flosofa e politica), Hans Blumenberg (che anch’egli in iniziale polemica contro Schmitt vi vede una categoria dell’ingiustizia storica contro la pretesa di autonomia della modernità), per tacere dell’utilizzazione del termine in ambito religioso come teologia della liberazione2. Il rapporto della teologia con la politica ha poi molteplici effetti sulla valutazione dello Stato: c’è chi lo afferma in odio allo Stato moderno (i controrivoluzionari cattolici) e c’è chi in odio allo Stato lo rifuta (Marx, ma anche Bakunin); chi l’assume come forma dello Stato (Hobbes) e chi come genealogia dello Stato (Hegel); chi lo immette nello Stato per dargli forza (la versione istituzionale di Schmitt) e chi per abbatterlo (la declinazione apocalittica di Benjamin). C’è chi vede nella teologia il fondamento religioso della politica, e chi lo sfondamento della compattezza della politica; chi ipotizza la strumentalizzazione politica della religione, e chi paventa la sacralizzazione della politica; chi auspica la convergenza mondana di religione e politica (la religione civile e il patriottismo repubblicano) e chi pratica l’altrettanto mondana divergenza polemica (l’illuminismo) o la reciproca indifferenza e non interferenza (il liberalismo). Per dare un po’ di ordine a questa congerie vastissima di temi e problemi si dà qui un saggio di teologia politica come critica che vuole ridecifrare le vie moderne della secolarizzazione, facendo emergere la forza e la persistenza del teologico – la teologia politica «strutturale», appunto – in merito alla “sovranità” e all’idea di storia che ne è veicolata. Il nesso fra teologia e politica razionale è infatti presente, diversamente atteggiato, nelle tradizioni del pensiero moderno che qui si trattano – pensiero razionalistico, dialettico Per un’analisi più dettagliata cfr. C. Galli, Genealogia della politica. Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico moderno, il Mulino, Bologna 20102, pp. 333-459. 2

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e negativo –; inoltre, all’interno di ciascuna tradizione, il rapporto fra teologia e politica viene colto come centrale e costitutivo, ma anche negato come inessenziale o alienante da chi si vuole sottrarre all’incombere della politica e delle sue coazioni. Ciò è quanto emerge dagli autori che, fra i molti possibili, si prendono qui in considerazione: Hobbes, Hegel, Marx, Nietzsche, Schmitt, Kelsen. Sono autori che si collocano pienamente nella modernità, nelle sue principali linee evolutive: il razionalismo (Hobbes e Kelsen), il pensiero dialettico (Hegel e Marx), il pensiero negativo (Nietzsche e Schmitt). Tutte le tradizioni si pongono il problema del rapporto fra teologia e politica razionale: ma nelle prime due quel rapporto è risolto come superamento del teologico nel politico (da Hobbes e da Hegel), o all’opposto è rifutato come segno di superstizione e di alienazione (da Kelsen e da Marx); mentre nel pensiero negativo il teologico è visto come non neutralizzabile e come origine insuperabile della stessa forma razionale, tanto nell’assenza di quello, da accettare (Schmitt), quanto nella sua epocale presenza, da rifutare (Nietzsche). *** La struttura teologico-politica dei concetti politici è chiarissima nel padre del razionalismo moderno, Hobbes, e nel suo Leviatano (soprattutto la terza parte, ma anche il cap. XII, sui «semi della religione», sulla «politica umana», la strumentalizzazione della religione da parte del potere politico, e sulla «politica divina», la teologia politica cristiana che è la seconda nascita del Leviatano, dopo la prima, contrattualistica)3. Secondo il razionalismo, la religione deve essere interiorizzata e resa politicamente inoffensiva, ma per Hobbes la religione cristiana è anche il serbatoio di concetti e schemi logici su cui si costruisce la politica. È questa l’analogia formale, non sostanziale, né fondativa, fra teologia e politica, fra sovrano e Dio: per Hobbes la teologia cristiana non è il fondamento della politica (concetto che esige la nozione di “mediazione pontifcale” fra trascendenza e immanenza), ma, se bene interpretata da una lettura non pregiudicata della Bibbia, è lo schema trascendentale dell’ordine politico, del quale solo il cristianesimo fornisce la chiave. 3

Cfr. Th. Hobbes, Leviatano, BUR, Milano 2012.

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Sviluppando il nominalismo verso un’intuizione del tutto trascendente di Dio, che non può essere conosciuto e può solo essere onorato con l’obbedienza ai suoi comandi, la strategia di Hobbes è quella di svuotare completamente il mondo di ogni traccia sostanziale di sacralità, e di mostrare che questo svuotamento è il contenuto autentico del messaggio di Cristo. Bandita del tutto la mediazione pontifcale cattolica fra cielo e terra, con il suo principio di autorità, bandito quasi del tutto (tranne che non vengano compiuti autentici miracoli) l’entusiasmo protestante dei «profeti» che si credono portatori del soffo divino e quindi liberi dal potere politico, il cristianesimo viene inscritto nel tempo dell’assenza del diretto comando divino nel mondo, un tempo che si apre dopo la fne della politica profetica di Dio, re del popolo di Israele, terminata col regno di Saul. In questo tempo, privo di sostanza sacra e di spirito, Cristo porta a compimento lo svuotamento del mondo (contro il paganesimo, che è ancora immerso nell’idolatria, e contro l’ebraismo ancora troppo instabile ed esposto esso stesso all’idolatria): la formula «Gesù è il Cristo», indispensabile alla salvezza e unico contenuto del cristianesimo, signifca che la promessa divina ad Adamo ed Eva è stata mantenuta con la venuta di Cristo, e che non si deve quindi attendere alcuna altra presenza del divino nel mondo, tranne la sua seconda venuta, il regno millenario di Cristo in questo mondo (non in un «altro mondo», spirituale, che non esiste). In questo tempo dell’attesa Dio è assente come sostanza fondativa dell’ordine, ma non cessa di comandare agli uomini la pace, attraverso le leggi di natura che sono sì leggi di ragione, ma anche comandi di Dio, che la sua «spada» non fa direttamente eseguire. E l’unico modo per obbedire a Dio è per Hobbes il cristianesimo com’egli lo intende, cioè una religione svuotata di sostanza, che libera la scena del mondo dagli idoli, cioè dal pluralismo delle fedi e anche dalle configgenti interpretazioni della fede cristiana; un cristianesimo che è quindi ragione, disincanto, costruzione calcolante di un sovrano rappresentativo dal potere irresistibile; è l’obbedienza al sovrano e alle sue leggi positive a realizzare la pace voluta da Dio e dalle sue leggi di natura, e il sovrano è quindi luogotenente di Dio nel mondo: l’obbedienza alla sua volontà razionale comporta la salvezza fsica (la fne del bellum omnium contra omnes) e la salvezza spirituale (poiché si è adempiuta la volontà di Dio, cioè che gli uomini vivano in pace).

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La politica, grazie al cristianesimo, è «politica divina», perfettamente aderente alla volontà di Dio. La ragione politica perfetta è la realizzazione della volontà di Dio e trascrive il dualismo cielo/ terra in un altro dualismo: ordine/disordine, ovvero natura/cittadinanza. Ovvero, ne fa una coazione alla forma politica, all’ordine razionale, rigorosamente autonoma proprio in quanto è compresa nella narrazione teologica cristiana che de-divinizza il saeculum e fa della politica razionale un’epoca, un interim, di una vicenda teologica: la metafsica dell’assenza di Dio e della persistente «spinta propulsiva». Ma non solo il cristianesimo è esplicitamente il presupposto della ragione e della politica, coincidendo con quelle; non solo lo Stato nella sua forma compiuta non può che essere composto da re cristiani e da cittadini cristiani, cioè adeguatamente disincantati e quindi preparati a obbedire; per di più, il Dio cristiano funge anche implicitamente da garante a priori dalla stessa praticabilità del suo comando agli uomini di vivere in pace: infatti, se viene da Dio, quel comando di Dio, può essere eseguito, poiché Dio non inganna gli uomini. Questa garanzia innominata è la teologia politica come eccesso. Il cristianesimo è insomma il trascendentale della politica: esprime l’assenza di ordine nel mondo (Dio se ne è allontanato – lo stato di natura), esprime la coazione all’ordine (la legge di Dio continua a echeggiare nel mondo, almeno come disposizione umana all’ordine attraverso l’obbedienza – pax est quaerenda) propria della politica nel tempo dell’attesa (in quel «vuoto di sostanza» che è la storia, prima che Cristo torni a regnare in questo mondo), esprime la garanzia che questa coazione possa trovare adempimento attraverso un corretto esercizio della ragione (il contratto), unico strumento di cui l’uomo si possa servire per costruire l’artifcio statale, che gli salva la vita e l’anima, ed esprime infne l’assolutezza della politica, che non deve essere disturbata da alcun potere indiretto, da alcuna pretesa – istituzionale (la Chiesa cattolica) o individuale (le profezie protestanti) – che esistano vie alternative per mettere l’uomo in contatto con Dio. Per realizzare il cristianesimo è necessaria e suffciente la cittadinanza moderna: un cristianesimo, quindi, che azzera religiosamente ogni confitto religioso. In Hobbes, così, la politica moderna dichiara la propria potenza, e insieme il proprio nichilismo, mentre si presenta come l’applica-

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zione corretta della religione. La teologia politica è in Hobbes nichilistico-ordinativa, ovvero è tanto strutturale (analogica e formale) quanto critica, nel senso che svela che la ragione politica esiste nel disincantato svuotamento della religione (che la religione stessa richiede) e che è garantita dal Dio della religione come resto o eccesso metarazionale. La religione così intesa non può essere né superata né dimenticata: è presente come trascendentale, nel modo dell’assenza del fondamento e della persistenza latente dell’eccesso garante. E si noti che la stessa privatizzazione della religione, ben chiara in Hobbes (il Leviatano non legge nei cuori e si accontenta dell’uniformità esteriore del culto) dipende dalla funzione pubblica della religione stessa, dal suo essere, svuotata, la garanzia della forma politica ordinativa. Benché la neutralizzazione della capacità polemogena della religione sia in Hobbes essa stessa una teologia politica, è evidente che questa neutralizzazione ha in sé il rischio che l’autoaffermazione della ragione moderna passi proprio attraverso l’oblio del ruolo trascendentale e strutturale della religione, accantonata come caput mortuum intellettuale e politico e privatizzata come sentimento. E di questo processo, ravvisabile nel trasformarsi del razionalismo in illuminismo, è espressione l’incomprensione manifestata da Kelsen – erede ed epigono del razionalismo – che ripetutamente, nella sua lunga carriera si confronta col riaffacciarsi del tema teologico-politico. In un testo giovanile come Dio e Stato, infatti, egli sostiene che esiste un’analogia, uno «sbalorditivo parallelismo», fra concetti teologici e politici, fra Dio e Stato (fra l’auto-obbligazione dello Stato e la volontaria Passione di Cristo; fra il miracolo e la rottura dell’ordinamento giuridico a opera dello Stato, ossia l’eccezione), ma questa analogia è per lui solo una fase premoderna del sapere giuridico, ancora avvolto in un’erronea ricerca di cause oscure dei fenomeni – e in ciò gioca in Kelsen il medesimo impulso scientifco dell’Hobbes del cap. XII del Leviatano, rivolto contro la cattiva religione –; ma anche la «vera» religione, il cristianesimo, per Kelsen non è che un raddoppiamento prescientifco e mitico della realtà, che la scienza deve far cadere come inutile. Lo Stato è solo la personifcazione dell’ordinamento giuridico, così come Dio è soltanto un raddoppiamento metafsico del mondo che il progresso scientifco (il passaggio dalla sostanza alla funzione) può e deve togliere via. Come si può essere anarchici rispetto allo Stato e credere nell’ordinamento giuridico, come si può essere atei e credere

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nell’ordine etico del mondo, così si può avere una teoria del diritto senza Stato, passando così dalla teologia alla scienza4. Kelsen, insomma, reputa inutile e assurdo spiegare causalmente, o genealogicamente, l’ordinamento: la realtà si spiega da sé, ovvero in essa non c’è nulla da spiegare. Oggi la secolarizzazione è compiuta, nel senso che la religione è stata smascherata come superstizione. Oggi trionfa la scienza certa di sé e doverosamente ignara di Altro. Per liquidare la teologia politica, Kelsen pensa l’ordinamento come infondato, e non bisognoso di alcun fondamento; l’infondatezza – ciò che in Hobbes era l’attesa, il vuoto epocale – è ora tutta interna alla scienza, e non ha alcun bisogno di essere messa in prospettiva: la storia scompare, mentre, come succedersi di epoche, valeva in Hobbes proprio per comprendere l’epoca della scienza politica. Quello di Kelsen è un cristallo in sé concluso, privo di aperture: la scienza fa epoca, si sospende, vuota, in un vuoto che non le fa problema ma che è anzi la condizione della sua potenza conoscitiva. Ma non è solo il «parallelismo» fra religione e politica a essere rifutato da Kelsen. In Religione secolare (terminato nel 1964, ma pubblicato postumo nel 2012)5 egli polemizza contro l’interpretazione teologico-politica della modernità come secolarizzazione dell’eschaton (Voegelin e Löwith), reputandola una forzatura che non rispetta né la volontà dei flosof né il reale svolgimento della cultura flosofca. Contro l’uso generico del concetto di «gnosi» e contro la pretesa di trovare la religione ovunque, anche a scapito dell’esplicita volontà degli autori (Hobbes per lui è un ateo e un razionalista che vuole sottomettere politicamente la religione), Kelsen vuole difendere quella che Blumenberg defnisce la legittimità della modernità (e infatti Defense of modern Times o Religion without God? era il primo titolo dell’omonimo libro): il Moderno non è dipendente dalla religione, e in particolare non è la ricerca della salvezza attraverso la politica. E anche la teologia politica schmittiana – sia quando la vede centrata sull’analogia, di matrice controrivoluzionaria, fra struttura dei concetti teologici e struttura dei concetti politici, sia quando la interpreta come un privilegiare il miracolo, ossia l’eccezione, come occasione in cui si esprime la verità della norma – gli appare ingiustifcata e pretestuosa (pp. 224 5

H. Kelsen, Dio e Stato, ESI, Napoli 1988, pp. 139-164. Id., Religione secolare, Cortina, Milano 2014.

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23), ben lontana dal parallelismo psicologico e gnoseologico di cui ha parlato quarant’anni prima, e che in ogni caso ha criticato come scientifcamente inutile. Per Kelsen la posta in gioco è la linearità, l’unità e l’autosuffcienza della ragione, che non deve ricorrere a fondamenti o a fnalità sostanziali, o a origini eccezionali e non razionali. Ciò che in Hobbes è ancora Due, ovvero la trascendenza che permane in forma logico-storica come Stato e come cittadinanza, in Kelsen svanisce e si fa Uno: un Uno escludente ogni dualità. Ma, nonostante questa differenza, la prospettiva di Hobbes e di Kelsen è la medesima da almeno due punti di vista. Il primo è che in loro il Bene è coincidente con l’Ordine e la sicurezza, ovvero la certezza del diritto: entrambi condividono la pretesa che il Male, ovvero il disordine, possa essere separato nettamente dal recinto del Bene. Hobbes, in verità, è più sfumato, e sa che lo Stato, il grande Leviatano, macchina razionale per sedare il disordine interno e scaricarlo all’esterno (nel mondo degli Stati), è fattualmente esposto alla morte arrecatagli dal potenziale di ribellione che inerisce alla natura umana; ma, certo, in linea di principio anch’egli pensa alla pace interna, fondata sull’obbedienza al sovrano rappresentativo, e al confnamento esterno della possibilità della guerra. Per Kelsen, poi, il disordine è logicamente escluso dall’ordine, in quanto evenienza in sé antigiuridica; ma per lui una delle più frequenti sorgenti di disordine è, a differenza che per Hobbes, proprio lo Stato con la sua politica sovrana che non può non essere una politica di violazione del diritto. Una prospettiva statica, quindi, quella di entrambi; e sta proprio in questa staticità, in questa dominante ricerca di sicurezza nell’unità, la causa della perdita della consapevolezza teologico-politica che da Hobbes a Kelsen si consuma. Il Due della teologia politica serve proprio, in questa prospettiva, a produrre e a garantire l’Uno, l’Ordine: Kelsen è uno dei compimenti possibili di Hobbes. E infatti – è questo il secondo punto di vista – in entrambi, a causa della prospettiva neutralizzante che li accomuna, manca il soggetto come snodo strategico dell’ordine mondano: in Hobbes il soggetto è attivo solo nel momento originario del patto-contratto, ed è un’attività rivolta alla cessione della volontà di ciascuno al sovrano; in Kelsen è una mera funzione e fnzione giuridica, punto d’imputazione interno all’ordinamento.

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*** Il soggetto è invece il cuore del pensiero dialettico, di Hegel e di Marx (in cui appare come classe); ovvero, è lo snodo centrale di un rapporto fra religione e politica diversamente atteggiato rispetto a quello razionalistico. Nel pensiero dialettico, infatti, la religione non è soggetta a trascendentalizzazione e a neutralizzazione, come in Hobbes, o all’oblio come in Kelsen, ma ad Aufhebung: la modernità non secolarizza la forma ma la sostanza di un Assoluto che permane, appreso in forma nuova, e il soggetto non è solo sottomesso alla necessità dell’ordine (come in Hobbes), o perfettamente giuridifcato (come in Kelsen), ma con quella necessità si concilia nella libertà (che consiste nel «trovare la rosa nella croce del presente»); ovvero, secondo Marx, da quella necessità il soggetto è pienamente governato, nel senso che lo Stato è tanto più ancora cristiano (cioè fondato sull’alienazione del soggetto fra cielo e terra) quanto più è laico, moderno e universale. Ciò che conta per Hegel6 è il contenuto della religione, non la sua forma: la religione non è solo lo schema dell’ordine, ma è la sostanza dell’Assoluto, la negazione del fnito e la mediazione della fnitezza del soggetto con l’Infnito. Certo, la religione si presenta in modo non ancora risolto, ovvero come intuizione e sentimento; ciò spiega perché essa possa avere sviluppi erronei, contrapponendo Dio e credente (il che avviene nel cattolicesimo), dai quali deriva una secolarizzazione erronea, che contrappone lo Stato e il cittadino (il che avviene nel liberalismo). Nello Stato cristiano-germanico (moderno ma non liberale) la religione trova invece la propria realizzazione mondana grazie al protestantesimo, che è una mediazione risolta, attraverso la natura libera dello Spirito, nella libertà sostanziale del soggetto; la religione ha come contenuto la verità assoluta nella forma dell’intuizione e del sentimento e il sentimento esce dal soggetto («l’immane trapasso dall’interno all’esterno») e diviene reale eticità – cioè un soggetto capace di una disposizione d’animo rivolta all’universale concreto, che si attua nella realtà del costume, dell’ethos7. La mediazione proG. W. F. Hegel, Enciclopedia delle scienze flosofche, Laterza, Bari 1971, § 552, pp. 493-502; Id., Lineamenti di flosofa del diritto, Laterza, Roma-Bari 1999, § 270, pp. 205-216. 7 Id., Enciclopedia, cit., § 513. 6

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testante si fa storia concreta, soggettività etica aperta all’universale; e lo Stato, che si fonda sull’eticità, è a sua volta la volontà divina che si esplicita in fgura reale, in organizzazione del mondo. Questa realizzazione della religione nello Stato, attraverso il soggetto, in quanto è mondana è anche contraddittoria, parziale; ma la contraddizione è pensabile dalla flosofa che comprende il nesso fra assoluto e contingenza, fra tutto e parte; la flosofa riconosce nello Stato la realizzazione mondana della libertà, insieme alle sue inevitabili contraddizioni (il perdersi dello Stato nella Weltgeschichte). Per Hegel, insomma, religione e Stato si tengono reciprocamente (contro il laicismo anticristiano, e contro l’antistatalismo religioso), in una successione che fa dello Stato la verità storica della religione, attraverso l’ethos; e ciò signifca che la libertà dei moderni, la rivoluzione che instaura lo Stato-del-soggetto esige dapprima la Riforma religiosa: la «pazzia» di operare una rivoluzione senza avere dapprima portato a termine una Riforma è il motivo per il quale, come si è mostrato nella Fenomenologia dello Spirito8, la rivoluzione francese ha fallito, e ha generato il Terrore; la rivoluzione francese, in quanto individualistica e utilitaristica, è ancora strutturalmente incapace di conciliazione reale con l’Assoluto, proprio come lo è il suo rovescio cattolico. Ma la flosofa dialettica può riconoscere che Chiesa (protestante) e Stato hanno entrambi a che fare con la vita razionale della libertà autocosciente, e pertanto non sono opposti l’un l’altro nel contenuto ma solo differenti nella forma: lo Stato è l’entità che sa (das Wissende) mentre la Chiesa si fonda sul sentimento. Lo Stato pone sulla religione i principi etici e il proprio ordinamento, ma assume la forma della razionalità oggettiva, e ha il diritto di farla valere contro la fgura ancora soggettiva della verità (la religione). Insomma, l’unità dello Stato e della Chiesa è nella verità dei principi e della disposizione d’animo del soggetto, ma la loro forma diversa esige che oggi siano separate istituzionalmente, e che in ultima istanza sia lo Stato a prevalere. Una teologia politica, quella hegeliana, più complessa di quella di Hobbes, quindi: in entrambi i casi la religione è un primum rispetto alla politica, ma per Hobbes quel primato consiste nel fatto che la religione fornisce lo schema trascendentale dell’ordine, che va costruito dal soggetto attraverso la ragione calcolante, il contratto che azzera 8

Id., Fenomenologia dello Spirito, Einaudi, Torino 2008, pp. 388-396.

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ogni sostanza storica; mentre per Hegel il primato della religione consiste nel fatto che in essa c’è un serbatoio – non neutralizzabile ma reinterpretabile – di intuizioni e di relazioni (con l’Assoluto e con i soggetti) che è una sostanza storica, e il passaggio dalla religione allo Stato non avviene attraverso lo svuotamento della prima e la costruzione dell’artifcio ma attraverso la mediazione religiosa protestante che si svolge nel soggetto e che da quello si riverbera sulla oggettività della eticità, preparando lo Stato moderno, che da parte sua non è ateo ma illumina con la ragione la sostanza storica su cui si fonda, e che si presenta in guise diverse (religione, eticità, Stato, flosofa). È evidente che ciò che qui viene difeso non è la staticità e la sicurezza, e che il Bene è il dinamismo processuale per cui si transita consapevolmente dal semplice al complesso, dall’interiorità all’oggettività, in modo tale che il risultato – lo Stato fondato sull’etica e sul soggetto che ne è portatore – è più ricco di ciò che lo precede (la religione sentimentale). Se il Male è l’inconsapevolezza, la contraddizione non saputa e vissuta come dato insuperabile (l’estraneità fra Dio e credente, fra soggetto e Stato), allora questo Male non è confnabile all’esterno, ma è anzi interno al Bene, ne è una componente che viene superata e risolta. Insomma, in questo caso la teologia politica è un Due che si fa Uno non per esclusione ma per inclusione; il trascendente non è trascendentalizzato, ma è ricompreso e consaputo nell’immanenza oggettiva, grazie all’opera del soggetto e dello Stato. E non è neppure la garanzia ultima, inespressa, dell’intero processo razionale: anche quella garanzia è portata nell’immanenza di un processo che si autogarantisce. Naturalmente, come per Hobbes anche per Hegel si può dire che questo elemento religioso, destinato (in guise diverse) a inverarsi nella politica è, per l’appunto, solo «teologico», ovvero privo di ogni valenza di senso che non sia la coazione all’ordine razionale. Ma ciò non toglie che, ai nostri fni, rilevi mostrare che il dispositivo della ragione politica moderna esige, in un modo o nell’altro, di essere «innescato» da un elemento che lo precede, ma che questa origine viene «tolta» e superata nella superiore qualità conoscitiva e ordinativa della ragione. Anche per Marx, come per Hegel, lo Stato moderno è il compimento della religione, ma della religione conserva la contraddizione,

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senza superarla9. Anzi, lo Stato laico e democratico che si riconosce come Stato, che attua la propria emancipazione politica dalla religione, realizza la perfezione del cristianesimo poiché ne lascia sussistere, come propria essenza, il nucleo centrale, ovvero la scissione fra cielo e terra, fra individuo e universale, ovvero fra borghese (la terra, la concretezza, l’individuo particolare) e cittadino (capace di volere l’universale, il cielo, ossia lo Stato). Con lo Stato moderno (e con la riforma protestante) la religione esce dal diritto pubblico (come già aveva visto Hegel) nel senso che lo Stato si emancipa da essa (dalla religione di Stato) assumendo su di sé la funzione universale: ma così, in realtà, la religione resta come forma generale dell’astrazione, ovvero della cittadinanza; infatti, lo Stato non realizza per Marx, a differenza che per Hegel, una sostanza etica, ma solo un assoluto formale e legale, vuoto (la sovranità), che è il segno dell’alienazione fra borghese (l’esistenza sociale dell’uomo) e cittadino (la sua esistenza politico-legale). Lo Stato non toglie ma sottolinea il dualismo fra cielo e terra, e lo presenta come dualismo fra società e Stato, a sua volta riconducibile in ultima istanza all’alienazione generata dalla base produttiva capitalistica. Al contempo, per Marx, la religione entra nel diritto privato: è infatti lo spirito della società civile, del bellum omnium contra omnes, l’individualismo competitivo di Hobbes, lo spirito protestante come spirito del capitalismo e del suo attivismo particolaristico: a questo livello vige naturalmente la più grande differenza sociale. Quella differenza fra i soggetti della società civile che la legge universale e astratta dello Stato lascia sussistere come naturale, limitandosi a defnire un livello, la politica, in cui vige, grazie appunto alla legge, l’uguaglianza dei cittadini dello Stato. Ma in realtà questa uguaglianza fttizia fra cittadini serve appunto a legittimare le differenze reali fra i soggetti che agiscono nella società, così che nello Stato di oggi il vecchio dominio della religione si trasforma nella nuova religione del dominio. Secondo Marx, per liberarsi dalla religione non basta emanciparsene politicamente ma bisogna emancipare l’uomo dalla scissione di cui lo Stato è emblema e garante (ma non la causa): l’aliena9 K. Marx, La questione ebraica, Manifestolibri, Roma 2004; Id., Per la critica della flosofa del diritto di Hegel. Introduzione, in Id., Opere, III, Editori Riuniti, Roma 1976, pp. 190-204.

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zione capitalistica. La critica non può limitarsi a strappare dalla catena i fori immaginari (a criticare la religione accettando però il concreto e mondano dominio politico ed economico), ma deve spezzare la catena stessa; la critica del cielo deve diventare critica della terra. L’uscita dalla politica teologica è lo Stato democratico, e l’uscita dalla teologia politica ancora implicita nello Stato democratico è il comunismo (ovvero una critica del tutto radicale, che non pretende di sostituire con le armi della critica la critica delle armi). E il soggetto che la realizza non è quello alienato che si concilia con lo Stato, ma quello che si oppone allo Stato e all’alienazione che lo alimenta: il proletariato. Marx vede insomma le due vie della secolarizzazione: quella hegeliana, centrata sullo Stato; e quella che sarà in seguito weberiana, centrata sul soggetto particolare, concorrenziale e produttivo; la teologia politica e la teologia economica. Entrambe non si emancipano dalla religione, ma la realizzano mondanamente; la teologia politica è quindi la realtà strutturale e la forma trascendentale del Moderno, tanto politico quanto sociale, nel senso che il Moderno non può pensare oltre la teologia politica. Il Moderno, tuttavia, è quasi sempre inconsapevole della propria struttura concettuale teologico-politica, come dimostra il democratico e assimilazionista Bruno Bauer, contro il quale, appunto, Marx scrive. È importante ribadire che la teologia politica non è in Marx la forma della critica, e che la tesi secondo cui la teologia politica è una struttura non visibile ai liberali e ai democratici non è l’ultima parola di Marx: la differenza fra la posizione di Hobbes e di Hegel, da una parte, e dall’altra quella di Marx è che nei primi la secolarizzazione produce l’unità politica; nel secondo invece genera il dualismo alienato fra borghese e cittadino. La chiave interpretativa teologico-politica è pur sempre un occultamento, una mediazione che non riesce a dare ragione di sé stessa, a criticarsi, e quindi è un’immediatezza. Il che colloca Marx in un punto di vista materialistico che si vuole a sua volta superiore a quello teologico-politico, in grado di spiegarlo, come il punto di vista teologico-politico si vuole superiore a quello del liberalismo, della democrazia, del razionalismo. Ma il punto di vista di Marx è ancora una mediazione, non un’immediatezza: la sua lotta contro la teologia politica è una lotta contro la base materiale di questa, il capitalismo, che è appunto una

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assai complessa mediazione. L’immediatezza del comunismo è solo il remoto obiettivo – che, certo, orienta l’intero argomentare – del lungo viaggio attraverso la mediazione e l’alienazione. L’unità che supera veramente il Due è sullo sfondo: è il comunismo; il presente è lotta duale, non però teologico-politica, bensì scientifca (interpretativa dell’economia politica) e socio-politica (la praxis rovesciante). Analogamente a quanto si è visto per Kelsen rispetto a Hobbes, anche nel pensiero dialettico si mostra che chi si oppone alla teologia politica si oppone in realtà alla politica stessa, come fonte di turbamento di quel Bene che la teologia politica intende produrre e custodire: nella tradizione razionalistica si trattava dell’ordine e della sicurezza, che la politica costruisce per Hobbes e distrugge per Kelsen; nella tradizione dialettica il Bene da produrre e custodire è la consapevolezza della mediazione, ovvero che la teologia si fa politica nello Stato (e nel soggetto che sia all’altezza dello Stato), e che invece per Marx è una forma di inconsapevolezza, di accecamento rispetto alla mediazione strutturale reale della società. Per Marx, dunque, il Male (l’alienazione, ovvero il rapporto stesso fra soggetto e Stato, implicante quello fra borghese e cittadino) non può essere trattenuto, confnato, ma deve essere attraversato, riconosciuto e superato dall’interno, come per Hegel. Ma, a differenza di quanto sosteneva Hegel, si deve prevedere anche il superamento di quel superamento: non basta riconoscere la teologia politica nello schema strutturale dello Stato moderno; si deve uscire attivamente da questa pur potente interpretazione del Male e – lasciandoselo alle spalle ridotto in rovina dalle sue interne contraddizioni e dall’agire rivoluzionario di un soggetto (il proletariato) che, a differenza di quello hegeliano, non ha la propria essenza e la propria destinazione nello Stato – realizzare il Bene, la disalienazione, la riappropriazione universale dell’umanità. Il Male, così, non è “fuori” (Hobbes), né “dentro” (Hegel), ma “prima”: un “prima” (il capitale) che prepara il “dopo” che lo supera (il comunismo). È la storia come sviluppo delle logiche del capitale la vera critica della teologia politica – che ciò ironicamente implichi un’idea del comunismo come salvezza, cioè come rinnovata e potentissima teologia politica sostanziale, è appunto la tesi del marxismo critico del Novecento, di Benjamin e dei Francofortesi, e anche della critica di Löwith e di Voegelin.

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*** Infne, alla luce del «pensiero negativo» – la terza linea del pensiero moderno – il nesso fra teologia e politica diventa signifcativo per mettere in discussione l’autonomia della ragione politica moderna, ovvero per mostrare che l’origine non razionale della politica non può venire razionalizzata. Il “pensiero negativo”, che ha la sua voce principale in Nietzsche, è dominato dalla negazione strutturale, a-dialettica, originaria, della mediazione, cioè del nesso fra teologia e politica che si risolve pacifcamente o dialetticamente nel trionfo della ragione. Quel trionfo è in sé segno di contraddizione; quel razionale è, nella sua origine, non-razionale: l’elemento teologico resiste a ogni superamento e opera anche nel mondo più laicizzato e più inconsapevole. Si tratta di riconoscerlo per spezzarlo una volta per tutte (Nietzsche, per il quale il teologico è presente come l’atto originario di mediazione che istituisce la sconnessione fra Civiltà e Vita) o per ri-attivarne l’energia politica che nella sua assenza, nel caso d’eccezione, è contenuta (Schmitt, che nell’assenza del teologico vede la potenza di una coazione alla costruzione dell’ordine, e al tempo stesso l’infondatezza nichilistica di questo). È da notare che benché sia centrato su nozioni come slancio, volontà, decisione, azione, a forte connotazione soggettiva, il soggetto in quanto tale non ha in quest’ambito alcuna determinazione specifca né alcuna collocazione storico-sociale: non è persona, né classe, né individuo. È piuttosto la funzione indispensabile, il centro d’imputazione, di un’azione de-cisa, senza storia e senza fnalità e senza alcun legame signifcativo, ma solo occasionale, con lo stesso soggetto. Per Nietzsche10 né il pensiero razionalistico, né la dialettica hegeliana, né il materialismo antiteologico di Marx, si sottraggono al cristianesimo; per lui, la vera opposizione non è fra laicità moderna e tradizione, ma solo fra cristianesimo (in forma tradizionale o secolarizzata) e Vita. Cioè l’opposizione fra mediazione e immediatezza, fra pace e guerra, fra cattiva volontà di potenza, che si presenta nella forma della morale, e la libertà dell’oltreuomo. Come la religione inventa un altro mondo per potere poi istituire la mediazione autoritativa fra Cielo e Terra, così anche la morale, la flosofa e la politica – che sono forme diverse della duplicazione – raddoppiano 10

F. Nietzsche, L’Anticristo. Maledizione del cristianesimo, Adelphi, Milano 1977.

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il mondo attraverso i dispositivi apparenza/essenza, società/Stato, borghese/cittadino. Nietzsche vede ovunque teologia, ovvero l’azione di preti e flosof (con la mediazione del protestantesimo: Kant e l’idealismo tedesco sono l’ovvio bersaglio). Il Dio cristiano è per lui la divinizzazione del Nulla, è la trasfgurazione della morte in sacrifcio, è insomma lo spirito di prestazione, di produzione, di elaborazione dell’immediato, che si sostituisce alla coraggiosa accettazione della Vita: è una patetica antropomorfzzazione del Destino. Il potere – ogni potere – nasce da questo raddoppiamento, da questa interpretazione originaria, che svaluta l’apparenza in nome dell’essenza. Per Nietzsche la teologia (flosofca, morale e politica) è quindi una malattia, una frattura, che costituisce, col suo dualismo, tutto l’Occidente e la sua metafsica. Nietzsche non crede che la contraddizione fra cielo e terra, fra aldiqua e aldilà, fra società e Stato, possa essere risolta a favore dell’uno o dell’altro termine; crede anzi che non sia mediabile né superabile: quella contraddizione, per lui, è erronea in sé, è falsa e perversa. È una negazione che deve a sua volta essere negata, non portata a unità, né per oblio scientifco né per superamento dialettico; semmai, deve essere distrutta col martello della flosofa, e trasvalutata: la verità, la Vita senza valori, la vita in sé, innocente, contingente ed eterna, viene prima della verità dei flosof, dell’ordine della ragione, del bene e del male. L’Ordine è un dire No alla vita, per dire sì a un’altra vita, al fantasma del potere (ben reale nei suoi risultati, certo; ma anche del tutto privo di sostanza); e invece si deve dire Sì alla vita qual essa è, al suo non-senso. Se la teologia politica è nichilistica in senso passivo, il pensiero di Nietzsche vuol essere nichilistico in senso potentemente affermativo: un pensiero che nega immediatamente la mediazione (della negazione), cioè un pensiero dell’antiteologia (politica), del nichilismo attivo. Il mondo di fnzioni, il mondo raddoppiato, la sovrapposizione del dover essere (della morale) all’essere, sono un attentato alla verità della Vita: tra logos (falso) e vita (vera), fra il Due dei vari dispositivi ordinativi e l’Uno, pur in sé molteplice, della Vita, può esserci solo guerra. E l’azione pratica non può che essere puntuale e disincantata, priva di telos e di pretese salvifche. Per Nietzsche, quindi, la ragione moderna è in continuità con la tradizione cristiana, e la secolarizzazione è anch’essa una mediazione, un velo che vorrebbe coprire quel Nulla-di-senso, quella contingenza,

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che è la Vita nel suo essere sempre identica a sé (ovvero non coincidente per nulla con l’uomo e con la sua pretesa di senso). Il Moderno è nichilismo inconsapevole e passivo (perché fondato su una volontà di potenza mortifera), a cui si oppone un nichilismo consapevole e attivo, fondato sul disvelamento e sull’accettazione della Vita. La posizione di Schmitt è per alcuni versi opposta a quella di Nietzsche11. Per Schmitt, Nietzsche è un pensatore informe, nichilistico, politicamente amorfo: il suo anarchismo non ha la satanica grandezza di quello di Bakunin ma esibisce l’informità dei romantici; mentre Schmitt vuol essere un pensatore della forma (giuridica e politica), e certamente non nichilistico (ma senza successo, su questo punto). Certo, entrambi condividono l’idea della non-mediabilità, della sconnessione di principio, fra Idea e Vita. Ma mentre per Nietzsche non si deve perseguire il tentativo (teologico) di metterli in relazione, perché è appunto la relazione (la mediazione) a essere mortale, nichilistica in senso passivo, per Schmitt invece la mediazione, la produzione di forma, è una coazione insuperabile della modernità; tuttavia, per lui, la mediazione avviene al di fuori della ragione, del contratto, dello sviluppo storico dialettico, ossia attraverso la decisione, che è un taglio, una separazione, non una congiunzione. La mediazione (ovvero la norma) ha l’immediatezza (ovvero l’eccezione) come propria origine e come proprio destino. Agisce in Schmitt il doppio volto del Moderno, la coazione all’ordine e l’impossibilità dell’ordine, ovvero il suo essere deciso, fondato sul nulla – entrambi i volti pre-razionali –; e questo doppio lato del Moderno è appunto la teologia politica, tanto strutturale quanto critica. Ovvero, essa è il quadro epocale che tiene insieme secolarizzazione (i concetti politici sono concetti teologici secolarizzati) e nichilismo (la sovranità si dà solo come decisione sul caso d’eccezione): la sovranità, quindi, non consiste nel rapportarsi alla norma ma nell’accettare l’assenza di norma, l’eccezione, come dato strutturale del Moderno e, appunto, come coazione all’ordine. Quindi, non è certo Nietzsche il principale referente di Schmitt, il quale si muove semmai sull’impulso di una più tradizionale linea teologico-politica che si snoda fra i controrivoluzionari cattolici

Cfr. C. Galli, Nichilismi a confronto: Nietzsche e Schmitt, «Filosofa politica», 1, 2014, pp. 99-119. 11

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da una parte e Thomas Hobbes dall’altra12. Schmitt, nemico della Grande Separazione liberale moderna fra religione e politica, assume che la modernità sia la secolarizzazione della tradizione teologica, ma in un senso specifco: la chiave interpretativa della posizione di Schmitt non è tanto l’analogia fra sovranità e onnipotenza di Dio (e in generale l’analogia, di origine controrivoluzionaria, fra modi della metafsica e forme politiche), quanto quella fra decisione e miracolo. La teologia politica comprende la struttura essenziale della secolarizzazione non come processo di laicizzazione ma come un re-impiego politico dei concetti teologici in un contesto (la modernità) contrassegnato originariamente dal Nulla-di-Ordine, dall’assenza della trascendenza e di ogni ordine ben fondato; decisione e miracolo, infatti, sono entrambi lo sfondamento della norma. La sovranità moderna, però, è solo in parte analoga al miracolo: infatti, la sua azione, la decisione, si dà in uno spazio (la modernità) in cui l’ordine è normalmente assente, e non ha alcuna base ontologica (a differenza dell’ordine tradizionale, lacerato solo momentaneamente dal miracolo). Inoltre, la decisione non solo sospende e sovverte un ordine in sé infondato, ma – poiché Schmitt condivide la moderna volontà di forma – si fa anche carico di fondarne un altro, esso stesso, in quanto de-ciso, sospeso sul Nulla e quindi infondato. È solo facendo riferimento alla trascendenza assente che Schmitt comprende l’immanenza, la sua struttura, le sue coazioni: teologia politica è scoprire il punto cieco del Moderno, l’insuperabilità del problema della trascendenza assente, l’incompletezza del Moderno, e l’energia politica che in questa assenza si produce. Insomma, il Due agisce ancora, benché il polo della trascendenza sia assente, sia Nulla. Il che signifca che l’ordine per Schmitt non nasce da un contratto razionale interno a uno schema trascendentale, ma nasce come coazione epocale originata da una diversa conformazione del Due: il rapporto amico/nemico, il disordine che sta al cuore di un ordine che è necessario perché assente e che può essere solo deciso ed escludente. Il grumo di sostanza che precede l’ordine è qui l’abisso del Nulla-di-Ordine. Che, quindi, non è momentaneo, ma originario; e agisce dentro il Moderno, e nella sua coazione alla forma, come un principio di indeterminazione, rendendolo contingente, e C. Schmitt, Teologia politica, in Id., Le categorie del “politico”, il Mulino, Bologna 1972, pp. 27-86; Id., Sul Leviatano, il Mulino, Bologna 2011. 12

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fa sì che l’unica azione politica adeguata alla politica moderna sia la decisione (e quindi il Nulla, attraverso la decisione che lo assume in sé, è anche principio di puntuale determinazione). Ordine politico e azione politica si tengono, attraverso la mediazione immediata del Nulla, nella decisione: nel Moderno non c’è altro ordine che l’agire infondato – e lo Stato non è che questo. La decisione sovrana trattiene l’ordine sul bordo del Nulla, e al tempo stesso accelera il dilagare di questo. La potenza dell’assenza della trascendenza sta nella coazione a distruggere e nel contempo a costruire. Schmitt è interno alla mediazione moderna; ma vede che essa è possibile solo grazie all’immediatezza della decisione. Il “concreto” che egli persegue per tutta la vita non è immediatezza, ma è la modernità vista a partire dal suo nichilismo; sono gli ordini politici puntuali e decisi (e quindi sciolti dalla prospettiva di progresso storico) che, soli, essa consente. Teologia politica, per lui, è a un tempo forma e disincanto. A differenza di Nietzsche, che lo rifuta radicalmente, Schmitt rende operativo e produttivo di forma il nichilismo della modernità. Per Schmitt, quindi, non è possibile pensare il Moderno, come fa Hegel, come l’evolvere progressivo della medesima sostanza che si apprende in forme più adeguate, dalla religione alla flosofa. Su questo punto c’è uno iato insuperabile fra il giurista cattolico e il flosofo luterano; il Moderno non è conciliazione ma permanente confitto. Ma alla dialettica protestante Schmitt non oppone né la neutralizzante auto-interpretazione razionalistica della modernità come laicizzazione progrediente, né il fondamentalismo cattolico. La sua posizione è quella di una continuità formale e di una discontinuità sostanziale fra religione e politica (opposta a quella di Hegel, quindi; come del resto Schmitt è lontanissimo da Marx, la cui mediazione materialistica ha come obiettivo un’immediatezza conciliata, cioè il comunismo); e, a differenza anche di Hobbes, per Schmitt lo svuotamento della religione, il suo persistere come schema trascendentale dell’ordine politico, non dà vita a un ordine chiuso e razionale (per lui, il Leviatano è semmai prevalentemente un mito o una macchina). Anzi, la secolarizzazione iscrive la modernità politica nell’orizzonte del tragico: l’agire politico è possibile solo come decisione, come attivazione del disordine, non come calcolo razionale, né come garanzia implicita di Dio – è proprio questa che

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manca. Lo Stato, per Schmitt, è tutt’altro che statico e stabile, percorso com’è non tanto dalla dialettica sociale quanto dal “politico” e dalla decisione che di questo non è superamento ma attivazione. È evidente che qui anche il soggetto dell’agire politico è indeterminato e occasionale, che è solo la funzione che attiva l’indeterminazione strutturale dell’ordine («sovrano è chi decide sul caso d’eccezione»); ed è altrettanto evidente che qui il Male è l’inconsapevolezza di questa struttura teologico-politica dell’ordine moderno, e l’inerzia e l’ineffcacia (il razionalismo liberale) che ne conseguono e che permettono al Nulla-di-Ordine, all’entropia moderna, di deformare il cristallo dell’ordine (che a sua volta è reso possibile proprio dalla frattura originaria che lo attraversa). Insomma, Male è l’inconsapevolezza dei limiti del logos, è la debolezza politica della potenza tecnica, è il disordine che agisce inavvertito e automatico; Bene è il disordine che spezza e crea l’ordine, ovvero la decisione (che, nel suo spasmo nichilistico, è però anche parte del problema), e soprattutto il Nomos, che è taglio e presa di possesso ma anche ordinamento concreto (non neutrale ma orientato). Nel corso della sua lunga produttività scientifca Schmitt tenterà anche (peraltro non del tutto persuasivamente) una declinazione non solo decisionistica della teologia politica, interpretandola anche come possibile freno alle dinamiche parossistiche che le pertengono (il katechon); e per altre vie non mancheranno torsioni della teologia politica che ne cercheranno la valenza (non, ovviamente, fondativa) appunto in direzione katechontica13 (Cacciari, Il potere che frena). Ma non vi è dubbio che quelle di Schmitt, insieme a quelle di Benjamin e di Agamben, siano state le prestazioni intellettuali che hanno fatto della teologia politica la chiave per interpretare e destrutturare più radicalmente l’autocomprensione del Moderno: per associare il Nulla e l’Ordine, e quindi per individuare in controluce tanto la trama dell’ordine neoliberista, in cui il confitto è sempre all’opera come esclusione di istanze alternative, quanto la possibilità di opporvi un gesto di ribellione sovrana.

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M. Cacciari, Il potere che frena, Adelphi, Milano 2013.

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Religione civile o metapolitica? Note sulla teologia politica in Germania e in Italia Céline Jouin

In questo contributo tenteremo di presentare le problematiche che l’espressione «teologia politica» comporta oggi in Germania e in Italia. A tal fne metteremo a confronto la ricezione, a partire dagli anni Settanta, della teologia politica schmittiana da parte degli esponenti della Scuola di Joachim Ritter1 – che Habermas defnisce i «neoconservatori tedeschi» – con quella di alcuni flosof italiani2. Potrebbe destare meraviglia il fatto che la «teologia politica» non abbia lo stesso senso a nord e a sud delle Alpi, ma va tenuto conto che, a partire dagli anni Settanta, sono alcuni flosof italiani di sinistra ad ispirarsi al pensiero conservatore tedesco. In realtà non è solamente a Schmitt che si sono ispirati – il che è noto – ma anche ai «giovani schmittiani» tedeschi come Joachim Ritter o Reinhart Koselleck3, vale a dire ad autori che si consideravano un po’ come 1 Ne fanno parte tra gli altri Robert Spaemann, Hermann Lübbe, Odo Marquard, Ernst-Wolfgang Böckenförde e Günter Rohrmoser; ma non è possibile indicare quali siano gli eredi di Schmitt in Germania dagli anni Sessanta senza parlare di Reinhart Koselleck. 2 Si veda in particolare G. Marramao, Potere e secolarizzazione. Le categorie del tempo (1983), Bollati Boringhieri, Torino 2005; Id., Cielo e terra. Genealogia della secolarizzazione, Laterza, Roma-Bari 1994; M. Cacciari, Il potere che frena. Saggio di teologia politica, Adelphi, Milano 2013; R. Esposito, Due. La macchina della teologia politica e il posto del pensiero, Einaudi, Torino 2013. 3 In Potere e secolarizzazione, Giacomo Marramao dedica il suo lavoro all’esplorazione di due concetti squisitamente «metapolitici» come quelli di «liberazione» e «rivoluzione» facendo costantemente riferimento a Reinhart Koselleck. Si basa invece sul testo di Lübbe sulla secolarizzazione (cfr. Säkularisierung. Geschichte eines ideenpolitischen Begriffs, Karl Alber, Freiburg-München 1965; tr. it. di P. Pioppi, La secolarizzazione, storia e analisi di un concetto, il Mulino, Bologna 1970) il suo lavoro Cielo e terra, di cui è il corrispettivo italiano. D’altra parte, è Marramao ad aver redatto il lemma «Säkularisierung» nel dizionario flosofco diretto da Ritter (cfr. J. Ritter, K. Gründer, Historisches

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i giovani hegeliani di destra del XX secolo rispetto alla Scuola di Francoforte4. Precisiamo subito che questo contributo non si propone di essere esaustivo, ma intende mettere in luce la «traduzione» di taluni flosofemi tedeschi operata da alcuni flosof italiani di sinistra e mira a fssare qualche punto di riferimento nell’attuale discussione europea sulla teologia politica. La questione ha una doppia dimensione, politica e teorica. Dal punto di vista politico, Mario Tronti riconosce che il debito flosofco verso gli avversari politici pone un «piccolo problema»5. Mentre, per i flosof conservatori della Ritter-Schule, la tesi enunciata da Schmitt nel 1922 – secondo cui «tutti i concetti pregnanti della teoria moderna dello Stato sono concetti teologici secolarizzati»6 – è quasi un’eredità scontata, per i postmarxisti italiani, al contrario, l’incontro con il pensiero antimoderno rappresenta una specie di eresia rispetto alla loro stesso collazione. In Germania, la scuola di Ritter si è opposta, nella stessa misura, al «socialismo reale» della DDR, al «marxismo romantico» della Scuola di Francoforte, al terWörterbuch der Philosophie, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1992, 8, pp. 1133-1162). Nell’ambito della sua rifessione sulla metapolitica, lo stesso Esposito fa riferimento in primo luogo a Joachim Ritter (cfr. J. Ritter, Metaphysik und Politik. Studien zu Aristoteles und Hegel, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1969; tr. it. di G. Cunico e R. Garaventa, Metafsica e politica. Studi su Aristotele e Hegel, Marietti, Genova 2000) e a Manfred Riedel (cfr. M. Riedel, Metaphysik und Metapolitik. Studien zu Aristoteles und zur politischen Sprache der neuzeitlichen Philosophie, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1975; tr. it. di F. Longato, Metafsica e metapolitica. Studi su Aristotele e sul linguaggio politico della flosofa moderna, il Mulino, Bologna 1990). 4 In risposta all’antologia sugli hegeliani di sinistra pubblicata da Löwith (cfr. Die Hegelsche Linke 1960, a cura di K. Löwith, Frommann, Stuttgart, 1988; ed. it. a cura di C. Cesa, La sinistra hegeliana, Laterza, Roma-Bari 1982), Lübbe pubblica un’antologia sugli hegeliani di destra (cfr. Die Hegelsche Rechte, a cura di H. Lübbe, Frommann, Stuttgart 1962; tr. it. di G. Oldrini, Gli hegeliani liberali, Laterza, Roma-Bari 1974). Habermas, ne Il discorso flosofco della modernità, prende le mosse dall’opposizione tra giovani hegeliani di destra e di sinistra e dalla critica della Ritter-Schule (cfr. J. Habermas, Der philosophische Diskurs der Moderne. Zwölf Vorlesungen, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1985; tr. it. di A. e E. Agazzi, Il discorso flosofco della modernità. Dodici lezioni, Laterza, Roma-Bari 20033). Ciò mostra l’importanza che questa divisione continuava a rivestire in Germania dopo gli anni Sessanta. I flosof della Scuola di Ritter e della Scuola di Francoforte interpretavano il proprio confronto alla luce dei giovani hegeliani. 5 M. Tronti, Noi operaisti, DeriveApprodi, Roma 2009, p. 65. 6 C. Schmitt, Politische Theologie. Vier Kapitel zur Lehre von der Souveränität (1922), Duncker & Humblot, Berlin 1988, p. 46.

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rorismo della RAF. In Italia, invece, è andata in maniera diversa con Tronti, Cacciari o Marramao. Sganciati dal contesto tedesco, questi flosof, senza troppe esitazioni, hanno preso in prestito da Schmitt e dagli schmittiani tedeschi alcuni motivi flosofci, come quello della «teologia politica» appunto – o quello della «metapolitica» – trasformandoli profondamente. Dal punto di vista teorico la Scuola di Ritter ha provato a separare «la religione» dalla teologia politica. La religione civile di Lübbe, il diritto naturale di Spaemann sono l’esito di questa operazione. Quest’interpretazione della teologia politica è sfociata nella distinzione – introdotta da Böckenförde e ripresa attualmente da Assmann in Germania – tra una «teologia politica descrittiva» (la ricerca erudita sulla formazione dei concetti politici) e una «teologia politica normativa»7 (il rifuto del processo di secolarizzazione). Da un lato, ha allora avuto inizio quel monumentale cantiere «metapolitico» rappresentato dai due più importanti dizionari dei concetti del dopoguerra nella Germania federale: l’Historisches Wörterbuch der Philosophie (1971-2007), diretto da Joachim Ritter, e i Geschichtliche Grundbegriffe (1972-1997), diretti da Koselleck, Brunner e Conze. In particolare, questi dizionari hanno come obiettivo quello di analizzare in maniera rifessa il modo in cui il discorso teologico sovradetermina quello politico-giuridico. D’altro lato, però, i rappresentanti della Ritter-Schule hanno accettato la modernità politica. Essi volevano sì descriverla nel quadro di una metapolitica erudita, ma si sono rifutati di «fare» teologia politica. In Italia le cose sono andate diversamente, anche se di fatto Marramao ed Esposito hanno ripreso da Koselleck o da Ritter il programma di un’indagine genealogica dei concetti politici («metapolitica»). Mostreremo come, per questi autori, la flosofa politica sia troppo Riprendiamo questa distinzione da Jan Assmann. Nella sua «ridefnizione» della teologia politica, questi distingue due attitudini fondamentali: si può fare teologia politica (betreiben) o la si può descrivere (beschreiben) (cfr. J. Assmann, Herrschaft und Heil. Politische Theologie in Altägypten, Israel und Europa, Fischer, Frankfurt am Main 2000; tr. it. di U. Gandini, Potere e salvezza. Teologia politica nell’antico Egitto, in Israele e in Europa, Einaudi, Torino 2002, p. 16). Ernst-Wolfgang Böckenförde poneva già questa distinzione, defnendo «teologia politica appellativa» la teologia politica normativa, in Politische Theorie und politische Theologie. Bemerkungen zu ihrem gegenseitigen Verhältnis (in J. Taubes, a cura di, Der Fürst dieser Welt. Carl Schmitt und die Folgen, W. Fink/F. Schöningh, München-Padeborn-Wien-Zürich 1983). 7

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connessa alla teologia, perché possa avere un senso una distinzione tra teologia politica «descrittiva» e teologia politica «normativa». 1. Metapolitica vs teologia politica. La ricezione liberale di Carl Schmitt o la neutralizzazione della teologia politica da parte dei neoconservatori tedeschi Nonostante il debito nei confronti di Schmitt, il trattamento che Hermann Lübbe e Robert Spaemann hanno riservato alla teologia politica schmittiana fa pensare piuttosto al fatto che in questo campo essi abbiano «neutralizzato» il pensiero del giurista di Plettenberg. In due testi apparsi a sei anni di distanza, Spaemann e Lübbe formulano una critica della teologia politica che mette in guardia contro la ripoliticizzazione della religione e che fa al contempo attenzione al marxismo in tutte le sue forme e alla teologia della liberazione di Metz e Moltmann8. Questo gesto è rappresentativo di una tendenza marcata in Germania, che consiste nel trattare la teologia politica come un ambito «specifco» della flosofa e della teoria della religione. Il modo in cui oggi Jan Assmann afferma di limitarsi alla «teologia politica descrittiva» è indicativo di questo fenomeno. Spaemann e Lübbe concordano nel dire che una teologia intesa in senso cristiano non ha bisogno di una teologia politica, la cui versione moderna è stata proposta da Bonald, secondo cui la società politica si può giudicare dal punto di vista della religione. È questo ai loro occhi il difetto del marxismo: identifcare l’emancipazione con un «generico processo umano di “liberazione” senza fne» più che con una netta opposizione rispetto a una specifca forma di discriminazione giuridica; in tal senso il marxismo rappresenta per loro una «teologia secolarizzata»9. Al cuore della decostruzione della teologia politica «normativa» messa in atto da questi flosof si ritrovano in realtà le idee di Erik Peterson, non quelle di Schmitt, la cui teologia politica è interpreCfr. R. Spaemann, Zur Kritik der politischen Utopie. Zehn Kapitel politischer Philosophie, Klett-Cotta, Stuttgart 1977; tr. it. e saggio introduttivo di S. Belardinelli, Per la critica dell’utopia politica, Franco Angeli, Milano 1994, pp. 71-86; H. Lübbe, Politische Theologie als Theologie repolitisierter Religion, in Taubes (a cura di), Der Fürst dieser Welt, cit. 9 R. Spaemann, Per la critica dell’utopia politica, cit., pp. 15, 20. 8

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tata come mero «programma di ricerca accademica»10. A dispetto di quanto afferma Habermas, per quel che concerne la flosofa della religione, i flosof della Ritter-Schule non sono rappresentanti dell’«hobbesianesimo tedesco»11, ma di un rousseauismo peraltro dichiarato. La teologia politica per loro non può che essere lo studio della formazione dei concetti politici nel passato. Al presente essa può fondare solo indirettamente una pratica politica, dal punto di vista «morale» (Spaemann) o della religione civile (Lübbe). Quello che Spaemann e Lübbe conservano in primo luogo di Carl Schmitt è il suo elogio della deteologizzazione della guerra, vista come una delle grandi conquiste civilizzatrici della storia europea. Concordi nel ritenere che alcuni centrali concetti politici sono concetti teologici secolarizzati (dimenticando che Schmitt sosteneva che lo sono tutti), disposti a prendere alla lettera Schmitt quando presenta la sua prima Teologia politica come una «sociologia dei concetti» e a presentare la sua tesi sull’origine teologica dei concetti come una ipotesi, essi prendono ad ogni modo parte all’indagine genealogica, seppure in modi diversi. Tuttavia, non si servono della teoria schmittiana del katechon12, né della Teologia politica II – nella quale Schmitt risponde a Peterson – e occultano la dimensione simbolica della teologia politica, che lascia intravedere una sostanza teologica come principio nascosto della storia. Il rifuto da parte di Lübbe della «teologia politica III» di Jacob Taubes, al termine del suo intervento nel seminario sulla teologia politica da questi organizzato nel 198013, sembra conseguente a tutto questo: si tratta del rifuto di un’escatologia rivoluzionaria vista come fonte di miti politici, rifuto che si trova già in Peterson. Della teologia politica schmittiana non resta che una versione intellettualistica e civilizzata, che Lübbe H. Lübbe, Politische Theologie als Theologie repolitisierter Religion, cit., p. 47. Cfr. J. Habermas, Recht und Gewalt – ein deutsches Trauma, «Merkur», 423 (Januar 1984), pp. 15-28. 12 Schmitt fa riferimento alla Seconda Lettera ai Tessalonicesi di Paolo per dimostrare che una teologia politica cristiana è all’origine della politica mondana e che la politica, in certe sue forme, ritarda la venuta dell’Anticristo. 13 Nel dossier sulla teologia politica, possiamo considerare il pensiero di Jacob Taubes come un punto di rotazione tra la flosofa tedesca e quella italiana, come d’altra parte quello di Walter Benjamin. Stando al quadro dei dibattiti tedeschi e italiani che tratteggiamo qui, Taubes è per così dire «l’italiano» della flosofa tedesca. Si vedano i riferimenti di Mario Tronti alla sua amicizia con Taubes (cfr. M. Tronti, Noi operaisti, cit., p. 96). 10 11

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defnisce «politica delle idee» [Ideenpolitik]14 – secondo cui non c’è storia delle idee politiche che sia priva di polemica. La neutralizzazione della teologia politica schmittiana conduce così alla «politica delle idee» come attività accademica, quella cui Schmitt giustamente negava un carattere propriamente politico. Un attento esame delle teorie di Koselleck e Ritter sulla modernità – che per così dire costituiscono le «assiomatiche» dei dizionari dei concetti da loro curati15 – mostra che entrambi concordano con Voegelin nel caratterizzare la modernità dalla nascita dell’ideologia e nel contrapporre la religione all’ideologia in quanto fgura alterata di quella16. È questo gesto che permette loro di riportare marxismo e nazismo sotto la categoria generale di «religione politica». Così facendo, essi rovesciano la problematica marxiana dell’ideologia, che presuppone che la storia dipenda sempre dagli uomini. Per Marx la differenza circa il soggetto della storia in cui credere (l’uomo o Dio) non può essere essenziale: in nessun caso questa differenza può permettere di delineare una rottura tra l’età premoderna (religiosa) e l’età moderna (ideologica), perché l’ideologia non è specifcamente moderna. Koselleck si rifà a Ritter nella sua celebre tesi, secondo cui l’orizzonte di aspettativa dell’uomo moderno non corrisponde più al suo campo d’esperienza. È su questa base che egli spiega il moltiplicarsi degli «-ismi» a partire dal XIX secolo nel vocabolario politico (socialismo, liberalismo, comunismo ecc.) e quindi la genesi dell’ideologia. Il fatto che i concetti della flosofa politica moderna abbiano «un contenuto descrittivo debole», che siano più programmatici che descrittivi, per lo storico di Bielefeld è da mettere in rapporto con l’importanza assunta dalla flosofa della storia in epoca moderna, con Per la prima volta in H. Lübbe, Säkularisierung, cit. Si vedano: la Einleitung di Reinhart Koselleck in Otto Brunner, Werner Conze, Reinhart Koselleck (hrsg.), Geschichtliche Grundbegriffe. Historisches Lexikon zur politisch-sozialen Sprache in Deutschland, 8 Bde., Klett-Cotta, Stuttgart 1972, pp. XIII-XXVII; J. Ritter, Metaphysik und Politik, cit. Si vedano inoltre i lemmi «Fortschritt» e «Ästhetik» di cui Ritter è autore nel Historisches Wörterbuch der Philosophie, che costituiscono una chiave di lettura della sua concezione della modernità. 16 Cfr. H. Lübbe, Die Religion und die Legitimität der Neuzeit. Modernisierungsphilosophie bei Eric Voegelin, bei Hans Blumenberg und in der Ritter-Schule, in Id., Modernisierungsgewinner. Religion, Geschichtssinn, Direkte Demokratie und Moral, W. Fink, München 2004, pp. 58-79; testo apparso per la prima volta col titolo Zustimmungsfähige Modernität. Gründe einer marginal verbliebenen Rezeption Eric Voegelins, «Occasional Papers», XXXIV, München 2003. 14

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la tendenza a fssare «leggi necessarie» e pianifcazioni prometeiche. Cosicché per Koselleck l’Illuminismo ha comportato un’ideologizzazione (Ideologisierbarkeit) dei concetti politici moderni17. Questi concetti non descrivono tanto realtà esistenti, bensì costruiscono performativamente mondi politici pianifcati (considerati «ideologici»). L’Illuminismo inaugura «l’età delle ideologie», un’età che delinea un «prima» e un «dopo». Un enorme peso grava dunque sulla defnizione dell’ideologia e sulla questione del rapporto tra ideologia e religione. Riportando il marxismo e il nazismo sotto la categoria generale di «religione (politica)», gli schmittiani tedeschi rovesciano la problematica marxiana dell’ideologia, non solo perché la religione per Marx è la prima ideologia, l’ideologia per eccellenza (in quanto tradisce una promessa d’emancipazione), ma anche perché in questa prospettiva l’ideologia cessa di essere un rifesso apparente che maschera una realtà sociale, per divenire invece la sua sostanza, ciò che dice la verità di una società degenerata. Parlare di «regime nazista», «regime fascista» o «regime comunista», signifca presupporre che in questi regimi il diritto, l’arte, la scienza, l’economia ecc. dipendano da un’ideologia che fornisce la chiave di tutte le attività pratiche. Il problema delle determinazioni sociali delle rappresentazioni tende così a essere accantonato. Mentre in Marx è al livello delle defnizioni stesse che la nozione di religione si indebolisce, per i neoconservatori tedeschi la dissoluzione della religione è nell’ordine di un fatto sociale oggettivo. La problematizzazione marxiana dell’ideologia porta alla dissoluzione del concetto di religione. Per Marx l’illusione è credere che vi sia un’essenza della religione, che la distinguerebbe dalle nostre credenze estetiche, politiche, etiche ecc. Un elenco completo delle nostre credenze è impossibile, così come l’individuazione di una «religione pura». Stando a Marx, la religione non è solamente la credenza in Dio, ma anche la credenza in un’unità coincidente con «la» religione. Per quanto riguarda gli schmittiani tedeschi, essi riconoscono che la religione, nel XX secolo, è divenuta polimorfa, che una religiosità diffusa di massa circonda l’arte, lo sport ecc. Ma essi vi vedono una decomposizione patologica (Voegelin) o margiCfr. O. Brunner, W. Conze, R. Koselleck (hrsg.), Geschichtliche Grundbegriffe, cit., p. XVII. 17

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nale (Lübbe) del fatto religioso, che non impedisce in alcun modo di presupporre un’essenza pura della religione18. Alla ricerca di un modello per una dottrina non teologica dell’azione politica, che lasci un posto alla religione, i neoconservatori tedeschi si rivolgono ad una religione civile che prescrive di «tollerare tutte le religioni che tollerano le altre»19. È al sociologo Niklas Luhmann che si ispira Lübbe, quando si pronuncia a favore del modello della religione civile20. Il sociologo tedesco aveva introdotto in Germania il termine Zivilreligion nel 1978, quando era ancora un neologismo al di là del Reno, volendo fare della «religione civile degli Stati Uniti» un modello per la Repubblica Federale Tedesca21. Secondo Luhmann, la religione civile è lo «sfondo secolare» sul quale si stagliano le religioni storiche (ma anche l’ateismo), e ciò a partire da cui queste possono comunicare tra loro. Fornisce i valori minimi fondamentali che permettono a una società «di essere una società». Per il sociologo tedesco solo la religione civile, in una società complessa come la nostra, può costituire l’unità «della» azione, «della» comunicazione, ecc. Né religione autentica, né patriottismo pseudo-religioso, solo la religione civile può essere la funzione organizzatrice dell’insieme delle condizioni che rendono possibile alle differenti religioni di essere al contempo circostritte nello spazio privato e rappresentate nello spazio pubblico. Il problema è che la questione della «religione vera», rimossa, riemerge. La defnizione della religione civile mediante la sua semplice funzione – la funzione di rappresentare le religioni sulla scena Voegelin rimanda al libro di William James, The Varieties of Religious Experience (1902), che egli presenta come una «miniera per quanto concerne la religiosità di massa dal XIX secolo» (cfr. E. Voegelin, Die politischen Religionen, Bermann-Fischer, Wien 1938; tr. it. di S. Chignola, La politica: dai simboli alle esperienze, Giuffrè, Milano 1993, pp. 64-65). Lübbe rimanda a numerose opere di sociologia della religione. 19 J.-J. Rousseau, Du contrat social (1762), in Id., Œuvres complètes, 3 voll., «Bibliothèque de la pléiade», Gallimard, Paris 1964, p. 469. 20 H. Lübbe, Zivilreligion. Deutsche Vorbehalte und Missverständnisse, in Id., Modernisierungsgewinner, cit.; Id., Staat und Zivilreligion. Ein Aspekt politischer Legitimität (1986), in H. Kleger e A. Müller (a cura di), Religion des Bürgers. Zivilreligion in Amerika und Europa, Lit, Münster 2004; J. Moltmann, Das Gespenst einer neuen “Zivilreligion”, in Id., Politische Theologie. Politische Ethik, Kaiser, München 1984, pp. 70-78. 21 N. Luhmann, Grundwerte als Zivilreligion: zur wissenschaftlichen Karriere eines Thema (1978), in Id., Soziologische Aufklärung III, Wesdeutscher, Opladen 1991, pp. 293-308. 18

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pubblica – può indurre a pensare che si possa fare a meno di defnire cos’è una «vera religione» o una «religione vera». La funzione di inclusione, vitale per la pace, sembra prevalere sull’esame di ciò che bisogna includere. I flosof della Ritter-Schule presuppongono continuamente questo aspetto: la religione civile ha il compito di rendere compatibili solo religioni autentiche, non ideologie. In altre parole, la questione della verità della religione, declassata per effetto dello stile sociologico dell’indagine, non cessa di riemergere (come ha giustamente notato Habermas). Per questi flosof è fuori discussione che le religioni politiche violente o prossime al «fascismo» possano essere rappresentate nello spazio pubblico. La religione è ciò che difende l’individuo dalla politica e la politica da sé stessa (dalle derive totalitarie, teocratiche o fondamentaliste)22. La loro idea di religione è di fatto una norma. La Ritter-Schule si ritrova così nella diffcile posizione di chi, non volendo fare il salto nell’«arcaismo» teologico, è costretto a celebrare la religione, mostrandone i vantaggi per l’esistenza del singolo e per lo Stato di diritto già pacifcato. Sospettati di musealizzare i contenuti della cultura, gli schmittiani tedeschi sono accusati di rappresentare una posizione «difensiva» della flosofa e delle scienze sociali di fronte alla modernità. 2. La ricezione italiana della teologia politica: Mario Tronti Volgiamoci ora all’Italia. Mentre in Germania la teologia politica è stata liquidata e neutralizzata (da Blumenberg, da Habermas, ma anche dagli stessi «schmittiani», come si è appena mostrato) e resta tendenzialmente una questione specifca nell’ambito della flosofa, in Italia ha un respiro più ampio. Qui la problematica teologico-politica è non solo più attuale, ma riguarda la flosofa in quanto flosofa. In La politica al tramonto (1998) e in Noi operaisti (2009), Mario Tronti descrive la svolta dall’operaismo alla teologia politica23. H. Lübbe, Religion nach der Aufklärung, in Id., Philosophie nach der Aufklärung, Fink, München 2004, pp. 59-85; tr. it. di A. Aguti, La religione dopo l’Illuminismo, Morcelliana, Brescia 2010. 23 Cfr. M. Tronti, Noi operaisti, cit., pp. 63, 76-77. 22

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L’operaismo secondo lui è passato «da una critica dell’ideologia puramente pratico-distruttiva, alla ri-costituzione di categorie politiche, in quanto concetti teologici secolarizzati»24, prendendo coscienza del fatto che il linguaggio della teologia politica è «il più pregnante nel dire la verità sul secolo passato»25. Tronti racconta che l’incontro con la tradizione del pensiero conservatore tedesco, avvenuto nelle pagine della rivista «Classe operaia», è stato decisivo. Questo «passionale innamoramento»26 è «un tratto» così «fondamentale», che «non cogliere, o equivocare, questo tratto impedisce la comprensione di quell’esperienza»27. È il pensiero conservatore tedesco che ha dunque dato vita a «un modo di pensare altrimenti le stesse cose»28. Nel racconto dell’esperienza operaista fornito da Tronti, la svolta verso Schmitt, Heidegger o Jünger appare come il mezzo di cui si sono serviti gli autori della rivista «Classe operaia» per mettere in luce, nel marxismo, una teologia politica non nell’accezione cattolica del termine (secondo cui il potere rappresenta il bene), ma nell’accezione secolarizzata (quella che fa del potere la rappresentazione di interessi unitari)29. «Siamo stati costretti a riprendere tutta intera la storia del realismo politico del lato conservatore», scrive, «perché essa era stata abbandonata dal lato del movimento operaio, soprattutto occidentale»30. Per Tronti, l’idea di una «classe generale», che emancipi l’umanità intera, «era un vero e proprio apparato ideologico»31, un’esagerazione sociologicamente infondata, ma egli ritiene che sia nondimeno simbolicamente adeguata ad un progetto politico, che approva nel suo complesso. È a Schmitt più che a Löwith che egli si rivolge nel decostruire l’operaismo quasi religioso e «l’idea novecentesca di operaio»32, viIvi, p. 42. Ivi, p. 63. 26 Ivi, p. 41. 27 Ivi, p. 66. 28 Cfr. Id., La politica al tramonto, Einaudi, Torino 1998. 29 Secondo Roberto Esposito, Tronti è quello che rompe con il modello teologico-politico sintentico, nel quale Gramsci aveva chiuso la dialettica tra lavoro e capitale (Cfr. R. Esposito, Pensiero vivente. Origine e attualità della flosofa italiana, Einaudi, Torino 2010, pp. 208, 212). 30 M. Tronti, Noi operaisti, cit., p. 66. 31 Ivi, p. 61. 32 Ivi, p. 60. 24 25

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sta come l’esito dell’occidentalizzazione del mondo del lavoro. Se è pronto a denunciare l’ideologia della missione salvifca – quell’«aura ottocentesca […] che pure sopravvisse […] presso il pensiero e il linguaggio delle organizzazioni dei lavoratori»33 –, nondimeno egli giudica «sbagliata […], deviante ed inutilmente polemica»34 l’interpretazione che, attraverso la secolarizzazione hegeliana, vede nel pensiero di Marx la ripresa del modello della storia della salvezza, con il Soggetto operaio al posto dello Spirito hegeliano. Ciò a cui pensa Tronti è una politica di emancipazione che si adatti alle condizioni concrete che la flosofa marxista della storia e l’essenzialismo sociologico escludevano. La pratica politica di cui egli cerca di pensare la possibilità non dipende né da una sovranità, foss’anche popolare, né da una rappresentazione delle forze sociali, in quanto essa istituisce il sociale anziché rifetterne passivamente le divisioni. Ciò che gli interessa è utilizzare quell’«invenzione semantica»35 che è l’operaio massa in una politica divenuta strategia. A partire da queste premesse, ci accontenteremo, qui, di indicare due punti: 1) mostrare in che senso, dal nostro punto di vista, Tronti abbia aperto lo spazio in seguito occupato dalla metapolitica di Marramao o di Esposito; 2) sottolineare una prima differenza tra gli schmittiani italiani e quelli tedeschi rispetto al modo in cui è stata concepita la teologia politica a partire dagli anni Settanta. 1) Sembra che l’effetto dell’operaismo non sia stato solo quello di ridare valore al politico e di dichiarare la propria insoddisfazione rispetto a una critica dell’ideologia che ribadisse semplicemente il fatto che le idee rifettono le determinazioni socio-economiche. Orientati a sottolineare il carattere ideale della politica – senza il quale essa non sarebbe nulla nella pratica – i flosof operaisti hanno anche profondamente trasformato il modo di concepire il rapporto tra teoria e prassi rispetto a quello in uso nel marxismo ortodosso e, da due secoli, nell’hegelismo di sinistra. La metapolitica di Marramao ed Esposito si è in qualche modo dimostrata erede dell’operaismo trontiano almeno in un senso: come Tronti, Marramao ed Esposito presuppongono il rovesciamento di certe premesse teoriche del marxismo, quali il primato della prassi sulla teoria o la Ivi, p. 61. Ivi, p. 42. 35 Ivi, p. 61. 33 34

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dipendenza della politica dal sociale, ponendo invece un certo primato – che Esposito defnisce impolitico – del pensiero sulla prassi. Potremmo pensare che ad aver infuenzato questo flone della flosofa italiana sia stata, nello specifco, la concezione del rapporto tra teoria e prassi che, a partire dal XIX secolo, avevano elaborato gli hegeliani di sinistra; concezione che si è successivamente sviluppata nella flosofa della praxis. Se si tiene conto che la concezione dei giovani hegeliani ha preso le mosse dalla discussione su “la religione di Hegel” e dalla critica della religione come critica della politica; se si tiene inoltre conto che uno dei momenti fondamentali di questa discussione – che si è protratta fn nel XX secolo – è stato, in Germania, il contrasto tra Habermas (Theorie und Praxis, 1963) e Ritter (Metaphysik und Politik, 1969)36 rispetto al modo di intendere la flosofa hegeliana; e se infne si aggiunge che Esposito si richiama a Ritter, e non a Habermas, nell’elaborazione della sua rifessione sulla metapolitica, si comprende forse come la flosofa italiana tocchi corde profonde della flosofa europea. 2) Le posizioni politiche degli schmittiani tedeschi e degli schmittiani italiani e le loro interpretazioni della storia del XX secolo sono talmente contrastanti, che si potrebbe vedere in questo un capitolo tardivo della «guerra civile europea». Mentre i rappresentanti della Ritter-Schule difendono lo Stato di diritto e condannano la violenza della RAF o delle Brigate Rosse, gli italiani vedono nel capovolgimento della politica in violenza una delle sue possibilità originarie. Per Tronti, ad esempio, «la lotta di classe operaia è stata civilizzazione della guerra», e non guerra totale37. La prospettiva operaia «non ha prodotto troppa ideologia», ma «troppa poca fede»38. La rivoluzione operaia in Russia non si riduce al socialismo sovietico39. Lungi dal segnare la fne delle ideologie, il 1989 apre un’epoca di «rivoluzione conservatrice» e di «restaurazione». I flosof della Ritter-Schule pensano esattamente il contrario. Eppure, gli italiani hanno imparato almeno una lezione dai conservatori tedeschi. Ne hanno tratto che la fne della flosofa pro36 Su questo punto si rimanda a M. Theunissen, Hegels Lehre vom absoluten Geist als theologische-politischer Traktat, W. de Gruyter, Berlin 1970, pp. 9 sgg. 37 Cfr. M. Tronti, Noi operaisti, cit., pp. 17 e 79. 38 Ivi, p. 86. 39 M. Tronti, La politica al tramonto, cit., p. 39; Id., Noi operaisti, cit., pp. 107-109.

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clamata da Marx è stata una «uscita mancata» dalla metafsica. Appresa la lezione, una differenza si è tuttavia ripresentata. Se, da un lato, la Ritter-Schule sottolinea come l’esigenza di realizzazione della libertà nella vita politica abbia un’origine religiosa – come, del resto, la critica della teologia ed il recupero della religione rappresentano il compito della flosofa «post-illuministica» – è, d’altro lato, sorprendente constatare come gli schmittiani italiani non nominino praticamente mai «la religione», quando parlano di teologia politica. Per loro la critica della religione non è un modello, nemmeno un presupposto. È come se, dal loro punto di vista, la dissoluzione del concetto di «religione» prodotta dalla teoria marxiana dell’ideologia sia una conquista defnitivamente acquisita. 3. Cambiare il passato È la flosofa che i flosof italiani di sinistra intendono secolarizzare, nel momento in cui prendono in esame il rapporto tra politica e teologia. Il progetto di una «secolarizzazione della flosofa»40 e di una «secolarizzazione della secolarizzazione» – indissociabile da ciò che in Italia va sotto il nome di «pensiero negativo» – ha avuto inizio con il quadro della crisi del sapere europeo degli anni Venti, delineato da Massimo Cacciari alla fne degli anni Settanta. In Krisis. Saggio sulla crisi del pensiero negativo da Nietzsche a Wittgenstein (1976) e in Pensiero negativo e razionalizzazione (1977), Cacciari descrive la carica desacralizzante del discorso wittgensteiniano nelle ultime proposizioni del Tractatus e nelle Ricerche flosofche. La flosofa per Wittgenstein non fa che mostrare le regole di un gioco linguistico, senza poterle cambiare né enunciarne di nuove, essa non produce nuove esperienze, non spiega niente. Secondo Cacciari «l’elemento mistico» messo in luce da Wittgenstein alla fne del Tractatus impedisce alla flosofa di fungere da luogo di traduzione reciproca e senza resto di linguaggi differenti – quello scientifco, flosofco, teologico, ecc. – com’era avvenuto esemplarmente nella flosofa di Hegel. La prassi e la teoria non possono più tradursi l’una nell’altra. Se non c’è una razionalità ultima, un fonCfr. G. Vattimo (a cura di), Filosofa ’86, Laterza, Roma-Bari 1987; G. Marramao, Cielo e terra. Genealogia della secolarizzazione, Laterza, Roma-Bari 1994. 40

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damento dell’essere, ma soltanto una proliferazione di razionalità e di giochi linguistici valutati in base alla loro effcacia, il marxismo stesso appare come una possibile fgura della volontà di potenza. La lettura di Cacciari ha lasciato tracce durature in Tronti, Marramao o Esposito, che ne riconoscono il carattere decisivo, soprattutto rispetto al loro progetto di elaborazione di una metapolitica41. Sulla scia di Cacciari questi flosof hanno separato la rifessione sulla storicità dalla dialettica della coscienza di sé e della prassi. La rifessione metapolitica, per loro, assume infatti la forma di una determinazione reciproca tra rifessione e pratica politica più che quella di una derivazione del politico a partire da fondamenti antropologici o etici. Esposito, ad esempio, considera la comunità non come qualcosa da fare (un’opera) – come per Lukács o Sartre – ma come qualcosa che è indipendente dall’azione, nel solco di Jean-Luc Nancy (La comunità inoperosa, 1983) e Maurice Blanchot (La comunità introvabile, 1983). Marramao e Tronti si rivolgono a Koselleck, per il quale la storia sociale deve dotarsi di una storia dei concetti, in quanto un concetto non è soltanto l’indice, ma anche un fattore, del cambiamento. Esposito fa riferimento a Ritter, che ha messo in luce la correlazione tra linguaggio metafsico e linguaggio politico a proposito di Aristotele e Hegel, lasciando da parte l’idea del fondamento antropologico ed etico della politica. In generale è in gioco il tema della «forma del cambiamento» e quindi della storicità42, ma di una storicità svincolata dalla flosofa della prassi – come continuava invece ad imporsi, in diverse forme, «a sinistra»; questo è quanto hanno ripreso dai neoconservatori tedeschi, proponendo una genealogia dell’ingovernabilità dell’Europa, di cui rintracciano le radici in profondità, nell’orizzonte delle aspettative delle sinistre europee, non al livello di una mera crisi goveramentale o di un difetto della riforma. La loro tesi comune è che non vi sia modo di comprendere perché la possibilità di dare senCfr. M. Tronti, Noi operaisti, cit., p. 41; R. Esposito, Pensiero vivente, cit., pp. 213 sg. In merito al progetto di una nuova grammatica del politico in questi autori, si vedano: G. Marramao, Potere e secolarizzazione, cit.; Id., Metapolitica, «Laboratorio politico», 1, 1983, pp. 95-12; M. Tronti, Con le spalle al futuro. Per un altro dizionario politico, Editori Riuniti, Roma 1992; R. Esposito, Dieci pensieri sulla politica (1993), il Mulino, Bologna 2011; Id., Termini della politica. Comunità, Immunità, Biopolitica, con una introduzione di T. Campbell, Mimesis, Milano-Udine 2008. 42 Cfr. G. Marramao, Potere e secolarizzazione, cit. 41

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so ai cambiamenti sociali o di tradurli simbolicamente sia esaurita, se non ci si pone al livello profondo delle categorie metapolitiche, come quelle di «storia», «rivoluzione», «progresso», «emancipazione», ma anche «secolarizzazione». Così facendo, non temono di confrontarsi direttamente con l’abolizione del mito della rivoluzione e con la dissoluzione del mito della crescita, nella consapevolezza che il tempo del progresso tende a farsi un tempo dell’entropia, un’accelerazione che consuma il presente senza contropartita. Da quanto detto fnora, è già possibile trarre almeno una conseguenza: per i flosof italiani qui presi in esame, in ogni atteggiamento spirituale è latente l’elemento politico. La teologia è già sempre politica. La teologia politica, quindi, non può essere una sorta di teologia che eccede il suo ambito per sconfnare nella sfera politica. Ne deriva che non c’è più posto per una teologia politica descrittiva (la «sociologia dei concetti» o metapolitica, così come la intendeva la Ritter-Schule) distinta dalla teologia politica nomativa (il rifuto della secolarizzazione). Per i flosof italiani non si può né accettare né rifutare il fatto che la teologia sconfni nella politica. Dopo aver impiegato il vocabolario teologico-politico per duemila anni, non si può più parlare di un primato della teologia o di uno della politica, ma si può solo affermare l’implicazione reciproca delle due in forme che, al contempo, politicizzano la teologia e teologizzano il politico. Come sottolinea Esposito, il paradigma teologico-politico non è un concetto, ma «una piega», impenetrabile non perché troppo lontana, ma perché troppo vicina43. È dunque ormai chiaro che sotto il nome di metapolitica Marramao o Esposito propongono una genealogia dell’idea di progresso che, lungi dal mettere in contrapposizione flosofa politica e teologia politica, le presenta come due sorelle44. Riassumendo, si possono dunque isolare tre aspetti della rifessione sulla teologia politica in Italia: in primo luogo, si presenta come una secolarizzazione della flosofa; in secondo luogo, non lascia più spazio alla distinzione tra teologia politica descrittiva e teologia politica normativa; infne, si rapporta a una concezione aperta e non lineare del tempo storico, non si conclude con un appello alla rivoluzione. 43 44

R. Esposito, Due, cit., p. 25. Cfr. G. Marramao, Potere e secolarizzazione, cit.; R. Esposito, Due, cit.

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4. La metapolitica come teologia politica. L’equazione di Esposito La metapolitica di Esposito si sviluppa sulle rovine della metafsica classica e della flosofa trascendentale. Presuppone il fatto che l’ordine politico sia privo di fondamento, o che, se è fondato su qualcosa, lo sia sulla possibilità permanente della propria decomposizione e sul confitto che esso stesso alimenta rimuovendolo. Come per Cacciari, anche per Esposito, Nietzsche costituisce un punto di svolta. Con la volontà di potenza Nietzsche ha esteso l’azione politica a tutti i rapporti umani, nel momento stesso in cui l’ha privata di un fondamento ontologico e di una fnalità trascendente. Dopo di lui la politica è ridotta a capacità tecnica di mera gestione dell’esistente, condannata a oscillare «tra mito e nichilismo»45. L’interpretazione etica della politica, che presenta il potere come incarnazione dei valori (la «teologia politica cattolica») è decostruita, come anche la flosofa politica classica («teologia politica secolarizzata») con la sua nozione ipostatizzata e pacifcata di «volontà generale». Esposito scioglie il legame che univa l’analitica dei concetti della politica al corpo politico in quanto tale. L’una non rifette l’altro. Il presupposto è che l’unifcazione della moltitudine ad opera dell’istituzione, la reductio ad unum, non può realizzarsi senza violenza, in quanto la moltitudine è irrappresentabile. Rimane dunque tra pensiero e realtà, tra flosofa e politica, uno iato che solo il mito sa ridurre. La metapolitica consiste per lui nel sottomettere i concetti politici a una elaborazione categoriale. Ciò si defnisce come un sistema senza principio unitario a priori di concetti politici che sovradeterminano le questioni giuridiche e istituzionali attualmente all’opera. Esposito fa riferimento a Joachim Ritter e a Manfred Riedel per precisare i suoi intenti46. Mentre per Riedel il legame tra metafsica e politica è stato rotto nella modernità da Hobbes e poi da Kant – visto che Hegel non ha fatto altro che approfondire il segno lasciato da Kant –, per Ritter, invece, Hegel è colui che ristabilisce il nesso tra politica e metafsica nella forma della teologia politica. Riprendendo la metafsica ontoteologica dei Greci (Aristotele), Hegel le avrebbe conferito un senso rivoluzionario. L’aspetto teologico-politico del pensiero hegeliano, secondo Ritter, sta nel fatto che il suo 45 46

R. Esposito, Categorie dell’impolitico (1988), il Mulino, Bologna 1999, p. 12. J. Ritter, Metaphysik und Politik, cit.; M. Riedel, Metaphysik und Metapolitik, cit.

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pensiero presuppone che il tema dell’universale e le analisi politiche particolari formino una unità. Questo è appunto ciò che avviene quando identifca la presenza dell’essere divino dei Greci con il passato del proprio tempo, tramite la sua ricezione del cristianesimo. Esposito concorda con Ritter nell’affermare che la flosofa hegeliana non è una flosofa dell’origine nel senso tradizionale, a cui bisognerebbe contrapporre una flosofa dell’emancipazione – idea che avrebbe l’inconveniente di presupporre un’opposizione non dialettica e poco hegeliana tra libertà umana e trascendenza divina. Una conseguenza di questa prospettiva è che viene a cadere l’alternativa emersa all’epoca della scissione tra hegeliani di destra e di sinistra sin dalla morte di Hegel. Si capisce, anzi, come in questo nuovo quadro si possa facilmente prendere qualcosa in prestito anche dagli avversari politici. Quel che Tronti ha defnito «un piccolo problema» è un problema solo nel quadro di una flosofa che continui a mantenere quell’opposizione che è sorta nel XIX secolo – come avviene nel caso della Ritter-Schule e della Scuola di Francoforte che si è sviluppata attorno a Habermas. Non lo è più, invece, nel quadro risolutamente postmoderno adottato dai flosof italiani qui esaminati, quello dell’alleanza tra il neo-conservatorismo e la flosofa di Nietzsche (o di Foucault), alleanza che Habermas paventava s’imponesse nella Germania degli anni Ottanta47. Quando Esposito vede nella flosofa di Hegel una «teologia della secolarizzazione»48, quando traccia una linea continua tra la flosofa della storia di Hegel e la democrazia liberale, che secondo lui abita una stessa «macchina teologico-politica»49, egli va in tutt’altra direzione rispetto a Ritter e ai suoi sodali. Defnendo «mito» ciò che Ritter chiama «tradizione», e soprattutto rinvenendo questo mito nel cuore stesso dello Stato, Esposito opera una forma di decostruzione su quel terreno che la scuola di Ritter aveva messo al riparo e traccia i contorni di una teologia politica liberale. Ritter e Koselleck, ma anche Spaemann, Lübbe o Böckenförde, sono hegeliani per il fatto che per loro l’idea di libertà coincide con quella di diritto. Il loro rifuto della teologia politica li porta a rivolgersi a un diritto costituzionale, la cui origine religiosa è al tempo stesso Cfr. J. Habermas, Der philosophische Diskurs der Moderne, cit. R. Esposito, Dieci pensieri sulla politica, cit., p. 44. 49 Id., Due, cit., p. 5. 47 48

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sottolineata e messa a distanza. E va senza dubbio riconosciuto che la ricerca metapolitica intrapresa da Ritter e Koselleck nei dizionari dei concetti – nonostante il lavoro di decostruzione della flosofa politica classica qui messo in atto – conserva la flosofa hegeliana dello Stato, seppure semplicemente svincolata dalla flosofa della storia, anzi, proprio per questo, all’interno di un istituzionalismo rafforzato. La storicizzazione della forma-Stato qui non è in alcun modo una relativizzazione del nucleo etico dello Stato, né del nucleo normativo della modernità. L’antidemocraticismo latente in Esposito emerge sin dai Dieci pensieri sulla politica. Qui il flosofo comincia con un elogio della «secca demistifcazione»50 operata da Kelsen nei confronti dello Stato. Lottando contro il rousseauismo e il socialismo, Kelsen fa della democrazia un insieme di procedure funzionali, demolendo così l’illusione che il soggetto della politica sia il corpo sociale e la sua volontà generale. Ma è a Schmitt che Esposito dà l’ultima parola, contro Kelsen, cui infne rimprovera di difendere una concezione lineare della secolarizzazione. Mentre Kelsen vede nell’idea che la sovranità possa incarnarsi in un «soggetto» trascendente o immanente il mito di cui bisogna disfarsi, Schmitt ritiene che il mito più grande sia quello di una tale demistifcazione51. Per Esposito, è dall’interno che la democrazia viene attaccata dal mito (mito di una rappresentazione adeguata del popolo, mito della fne delle ideologie, mito della razionalità della cosa pubblica ecc.) – contro questo tipo di mito la regolarità dello Stato di diritto non può essere immunizzata. Basti ricordare che Esposito ingloba non solo Kelsen, ma anche Niklas Luhmann nella sua critica52, per mostrare come il lascito dei liberal-conservatori tedeschi, e quel che resta, dal loro punto di vista, della religione «dopo l’Illuminismo», risultino completamente trasformati sotto la penna del flosofo italiano. Alla luce della metapolitica di Esposito, la religione civile appare come un ideale di integrazione che nega il proprio rovescio escludente. Sono la flosofa Id., Dieci pensieri sulla politica, cit., p. 67. Ivi, p. 107. 52 Esposito individua il «mito» del diritto inteso come tecnica neutra, autonoma rispetto al potere, simile al «mito della demistifcazione integrale» al cuore del pensiero di Luhmann (cfr. ivi, p. 70). 50 51

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politica in quanto tale e il suo nucleo (il rousseauismo) ad apparire un mito, quello della conversione integrale della violenza primitiva dell’uomo in cultura e progresso. «Mito o nichilismo»: è l’alternativa messa in campo da questo flosofo che, in ciò fedele a Nietzsche, non concede aperture ad una prospettiva di emancipazione. Diviene chiaro allora il motivo per cui, nella sua rifessione, metapolitica e teologia politica siano sinonimi e in che senso la teologia politica degli italiani sia una teologia senza religione. Il punto è che, in questo orizzonte, non è più possibile oltrepassare l’orizzonte stesso della teologia politica.

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1. Suum cuique. Dare a ciascuno il suo In epoca moderna, il principium individuationis ha assunto forme considerabilmente diverse. In tutte queste forme torna, però, in maniera assillante l’idea che il singolo dev’essere preso in considerazione nella sua individuale specifcità. Questo riguarda non solo la tradizione liberista, e la sua dottrina fondamentale secondo la quale l’interesse collettivo viene promosso solo e quando si promuove prima l’interesse individuale, con la metafora del mercato regolato da una mano invisibile (Adam Smith), ma anche le tradizioni del pensiero sociale. Da Louis Blanc a Karl Marx e Lenin, ricompare come un ritornello la proposta di un ordine politico nel quale ognuno agisce e lavora secondo le sue capacità e secondo i suoi bisogni (de chacun selon sa capacité, à chacun selon ses besoins). L’idea del suum cuique, ossia del bisogno di conferire a ciascuno il suo, ha origine nel pensiero giuridico romano. Il suum cuique tribuere, dice Ulpiano – “dare a ognuno il suo” –, defnisce il principio della giustizia individuale, ma si scontra presto col bisogno di stabilire un ordine giuridico sovrastante per accostare e ponderare le richieste dei singoli. I moderni, da Hobbes a Kant, hanno indicato i problemi di una politica esclusivamente basata sul suum cuique, completando una giustizia esclusivamente distributiva con una giustizia commutativa e opponendo all’individualismo della richiesta individuale un necessario principium comparationis. La dialettica moderna si stabilisce allora in questa tensione tra individuazione e omologazione, tra differenza e fungibilità. I problemi incontrati dal pensiero politico moderno vengono replicati anche nella sfera economica. Sui mer73

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cati della tarda modernità, la crescente personalizzazione va di pari passo con la creazione di un sistema di equivalenze generalizzate, che permette di comparare effcacemente l’incomparabile. Mentre da un lato, assistiamo all’emergenza del total personal marketing, che prende di mira il consumatore nei suoi orientamenti i più individuali (secondo il motto che sostiene che “ogni cliente è un mercato”), dall’altro, si tratta di riconnettere tutti questi micro-mercati e di levare gli intralci che impediscono la loro interconnessione, in modo da permettere la circolazione continua di beni e valori. In ciò che segue, vorremmo suggerire che, nel modellarsi di un tardocapitalismo della singolarizzazione e nei nuovi circuiti economici iperconnessi, ritroviamo motivi profondamente teologici, di cui dobbiamo ritracciare la genealogia. Il circuito cristiano della distribuzione della grazia – il piano dell’economia divina – è stato per secoli una potente matrice discorsiva, per pensare come articolare sia i bisogni dei singoli che la necessaria integrità dell’oikos nel suo insieme. Il pensiero cristiano si caratterizza per una eccezionale rifessione intorno all’effcacia della distribuzione, che possa adattare il messaggio a bisogni e capacità dei singoli, senza snaturare la sua integrità. Pensare insomma un’evangelizzazione che possa raggiungere i molti, senza mettere in questione il katholikòn. Col passaggio al regno della grazia si esce dalla formalità vuota della Legge e delle tavole marmoree che la conservano, in direzione di un messaggio (angelìa) allo stato gassoso, sottile e quasi impercettibile, che – alla pari di una «fragranza» (euodìa)1 – si annida negli angoli più reconditi delle menti e si adatta alle confgurazioni sempre specifche. Quando Agostino afferma che la grazia divina non è un’effusione indistinta, ma permette di «dare a ciascuno il suo»,2 segnala fno a che punto la teologia cristiana abbia anticipato gli sviluppi del diversity management odierno. Quando Lutero sostiene che la giustizia divina si manifesta nella sua capacità di restituire a ciascuno il suo3, insiste anche sul fatto che questa specifcazione non mette mai in pericolo l’unità della fede: l’atto della creazione divina consta di preciso nella possibilità di far esistere ogni essere nella sua particolarità. 2 Cor 2, 15-17. Agostino, De civitate Dei, IV, 4; Id., De libero arbitrio I, XIII, 27 3 Lutero, Kritische Gesamtausgabe, WA [= Weimarer Ausgabe] vol. 40/I, p. 361. 1 2

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suum cuique. capitalismo, cibernetica, teologia

2. L’equilibrio omeostatico Quando la differenza smette di essere oggetto di repressione, ma diventa al contrario un’occasione di valorizzazione, non sembra più pertinente continuare ad avvalersi degli strumenti sviluppati per analizzare le società autoritarie. Già Gilles Deleuze aveva espresso alcune riserve sul valore euristico delle categorie ricavate da un’analisi come quella di Michel Foucault su forme di società disciplinari che dominarono grosso modo il periodo tra il XVIII e il XX secolo. La disciplina produce corpi sottomessi ed ammaestrati, corpi docili e normalizzati; ciò che non può rientrare in questo processo di normalizzazione verrà escluso dall’ordine che delimita così continuamente i suoi propri confni. Nel suo breve Poscritto alla società di controllo, Deleuze osserva la crisi generalizzata di tutte le istituzioni di reclusione (prigioni, ospedali, fabbriche, scuole, famiglia) e ne conclude che «le società disciplinari sono già qualcosa del nostro passato, qualcosa che stiamo smettendo di essere»4. Nella società di controllo, che si sostituisce alla società disciplinare, congettura Deleuze, la fabbrica ha ceduto il posto all’impresa e alla repressione top-down viene preferita la forma (assai più effcace) dell’autocontrollo al livello del singolo. Addio alla società che defnisce la sua identità tramite la posizione di un’esteriorità negativa; la nuova esistenza gestionale internalizza e fa fruire le differenze. Dalla società della limitazione si è passati alla società dell’ottimizzazione. Non si tratta tanto di uno sregolamento generalizzato, quanto di sostituire alla logica della regolamentazione una logica della regolazione. Ogni singolarità è concepita come già da sempre porosa, aperta, potenziale; attraversata da fussi. Sono questi fussi e le loro intensità che devono essere gestiti, per potenziarli al massimo. Kevin Kelly, l’autore di una delle bibbie dell’intelligenza connessa, un libro intitolato Out of Control, ritiene che queste nuove forme di organizzazione permettano un controllo considerevolmente più effcace. Un tipo di controllo che si avvicinerebbe a quello già descritto nel Tao Te King di Lao Tse. Il controllo intelligente appare come non controllo o libertà! E per questa ragione è un controllo genuinamente intelligente Il controllo non intelligente appare come una dominazione esterna G. Deleuze, Poscritto sulle società di controllo (1990), in Id., Pourparlers. 1972-1990, Quodlibet, Macerata 2000, pp. 234-241, citazione p. 234 (traduzione modifcata). 4

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E per questa ragione è davvero controllo non intelligente Il controllo intelligente esercita infuenza senza averne l’apparenza Il controllo non intelligente cerca di infuenzare facendo spettacolo di forza5.

Non a caso, il famoso principio del laissez-faire, secondo cui tanto meno il potere interviene apertamente, tanto meglio andranno le cose – tradizionalmente attribuito al mercante Legendre, che formulò l’espressione in una risposta a Colbert a fne del secolo XVII –, avrebbe le sue origini nella prima ricezione europea del pensiero cinese e in particolare del principio taoista del wu-wei, del “non agire”. Ad ogni modo, l’elogio del potere soft, post-coercitivo, basato sulla motivazione interna e sul progressivo trasferimento da un controllo esterno a un controllo interno, in Kevin Kelly, come in vari altri proponenti della swarm intelligence (che si potrebbe forse tradurre con “intelligenza a sciame”), si congiunge con un recupero delle teorie cibernetiche. Concepite e introdotte a partire dagli anni ’40 da Norbert Wiener e John von Neumann, le teorie cibernetiche attualizzano il programma di un controllo interno di qualsiasi entità, che può essere sia organica che inorganica, tecnologica o sociale. Etimologicamente discendente dal greco kybernao (governo) e kybernetikè techne (l’arte del pilotare o del governare) – un termine che dal vocabolario dei marinai viene trasferito, per esempio da Platone, al mondo politico6 e che in latino corrisponde al lemma gubernator e gubernatio –, la cibernetica si presenta, dunque, secondo la defnizione data da Wiener, come una «teoria generale della regolazione». Così come elimina le differenze tra sistemi vitali e sistemi macchinali, allo stesso modo si propone di abolire le differenze tra l’umanizzazione e l’automatizzazione: non a caso il suo manifesto del 1950 s’intitola The Human Use of Human Beings, l’uso umano degli esseri umani, e per l’appunto promuove l’automatizzazione dei processi, molto distante, però, dall’automatizzazione fantasticata da Frederick Taylor7. A differenza dell’automa meccanico, l’automa 5 Lao Tse, Tao Te King, citato in K. Kelly, Out of Control. La nuova biologia delle macchine, dei sistemi sociali e dell’economia globale, Urra, Milano 1996, p. 133. 6 Platone, Alcibiade I, 119d, 134a. Nel dialogo platonico Clitofonte emerge la questione dell’anthrôpôn kybernêtikê, ossia dell’«arte di dirigere l’uomo» (Cl. 408b). 7 Cfr. N. Wiener, The Human Use of Human Beings. Cybernetics and Society, Houghton Miffin, Boston 1950; tr. it. Introduzione alla cibernetica. L’uso umano degli esseri umani, Einaudi, Torino 1953.

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cibernetico è sensibile e reattivo, giacché dotato di sensori che fungono da ripetitori di “retroazione” (feedback). Il biologo dei sistemi Ludwig von Bertalanffy ha perfettamente riassunto in che misura divergono i due approcci: Mentre il prototipo dei processi fsici non diretti è la causalità lineare (dove alla causa A segue l’effetto B), il modello cibernetico, per via del circuito di retroazione, introduce una causalità circolare, promuovendo così l’autoregolazione, la direzione verso una meta, l’omeostasi ecc. del sistema8.

L’approccio cibernetico dei processi regolativi è, dunque, come evidenzia lo studio di von Bertalanffy, direttamente ispirato alla biologia moderna. Contro i biologi deterministi, che nel XIX secolo attribuivano la responsabilità degli atteggiamenti e dei mutamenti organici all’ambiente esterno (milieu extérieur), Claude Bernard evidenziò l’importanza dell’«ambiente interno» (milieu intérieur). Nel 1860, aveva potuto dimostrare che i mammiferi regolano la loro temperatura in funzione di ricettori nervosi, tramite una modifcata circolazione del sangue. «È la fssità dell’ambiente interno (milieu intérieur) che condiziona la vita libera». (Canguilhem defnisce questa nuova concezione della vita come «autoconservazione tramite l’autoregolazione» una vera e propria rivoluzione copernicana, perché non ammette più una divisione categorica tra norma e deviazione, ma concepisce solo gradi relativi di deviazione. La patologia, in questo senso, non è altro allora che un’autoregolazione fallita). A partire da Claude Bernard diventa centrale l’idea dell’autoregolazione dell’organismo. Quest’idea viene ripresa, in particolare, dal fsiologo Walter Cannon che, dal 1926, l’ha resa popolare con l’espressione omeostasi (dal greco hòmoios, “simile” e stasis, “mantenimento”)9. Un’espressione che la cibernetica integra immediatamente nel suo vocabolario, tracciando un’analogia formale tra il mantenimento della temperatura del corpo, o dei livelli di zuccheri nel sangue, con l’autoregolazione del macchinario centrifugo della macchina a vapore di Watt. Ecco perché, come rileva Georges 8 L. von Bertalanffy, Robots, Men and Minds. Psychology in the modern world, Braziller, New York 1967; tr. it. Il sistema uomo, ISEDI, Milano 1971, pp. 87-88. 9 W. B. Cannon, Physiological regulation of normal states: some tentative postulates concerning biological homeostatics, in A. Petit (a cura di), À Charles Richet: ses amis, ses collègues, ses élèves, Les Éditions Médicales, Paris 1926, pp. 91-93.

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Canguilhem, quello di «regolazione» è stato solo per un limitato periodo un concetto prettamente «biologico». Dopo essere stato sviluppato in seno alla scienza meccanica, la cibernetica l’ha preso in prestito alla biologia e, «grazie alla mediazione del concetto di omeostasi»10, lo ha applicato all’insieme dei sistemi. Ma non lo si ripeterà mai a suffcienza: l’omeostasi è il contrario della stasi e la regolazione il contrario della regolarità. L’innegabile superiorità strategica di questa «gestione interna» dei sistemi non è sfuggita alla nascente disciplina dei management studies. Uno dei pionieri dell’applicazione dei principi cibernetici alla gestione, Stafford Beer, lo ha annunciato presto: «La cibernetica è la scienza per la professione del manager». Capire e ottimizzare i processi di auto-organizzazione (self-organization) e di auto-direzione (self-steering) diventa l’oggetto principale degli studi aziendali, in particolare dei lavori che tentano di avvicinare i processi umani alle soluzioni reperibili in Natura. Viene riletto Alfred Marshall, che afferma che l’economia non è altro che un ramo della biologia: «L’economia, al pari della biologia, tratta di una materia la cui natura e costituzione interna, al pari della forma esteriore, va costantemente mutando»11. Ma se c’è un vasto consenso sul bisogno di una naturalizzazione dell’economia, la concezione della Natura di Marshall, all’interno della nuova bioeconomica, viene considerata ancora troppo statica. Ispirandosi alle analisi delle strutture dissipative della cibernetica, la nuova bioeconomica riattualizza piuttosto l’idea schumpeteriana del fondamentale meta-equilibrio dei processi di auto-regolazione. È necessaria la regolazione solo dove i sistemi sono aperti e le entità permeabili; questa è la quintessenza dell’«auto-organizzazione economica»12. Nel suo best-seller Images of Organization, il guru del new management Gareth Morgan evoca, a proposito delle nuove pratiche organizzative, un vero e proprio «ritorno alla natura». Laddove le politiche sociali scandinave o tedesche degli anni ’70 e ’80 promuovevano, sulla scia dello human relations movement, un’“umanizzazione” dei 10 G. Canguilhem, Ideologia e razionalità nella storia delle scienze e della vita (1977), La Nuova Italia, Firenze 1992, p. 98. 11 A. Marshall, Principles of Economics, Macmillan, London 1890; tr. it. Principi di economia, a cura di A. Campolongo, UTET, Torino 1972, p. 741. 12 J. Foster, The Analytic Foundations of Evolutionary Economics. From Biological Analogy to Economic Self-Organization, «Structural Change and Economic Dynamics», 8 (1997), pp. 427-451.

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processi, gli studi gestionali si orientano sempre più sul modello di una rinnovata “naturalizzazione”: il mercato deve tornare alle basi più sane di un’autoregolazione anonima. Sempre più presente è la dottrina del laissez faire, che secondo i suoi difensori sarebbe il modo più effcace, perché naturale, di equilibrare l’insieme dei processi mercantili. Nell’economia evoluzionista, che si richiama a una combinazione tra liberalismo e biologia darwiniana, viene messa in primo piano l’idea che la libera concorrenza permette le medesime opportunità per tutti gli attori sul mercato e al contempo permette di garantire il successo del miglior prodotto commerciale. Di pari passo, l’interventismo di stampo keynesiano, per decenni mantra degli economisti, si va sempre più associando ad un assistenzialismo contro-produttivo. Nel 1987, Margaret Thatcher riassume lo spirito dell’epoca: «la qualità della nostra vita dipende da quanta responsabilità ognuno di noi è disposto ad assumersi su noi stessi […] nessun governo può fare nulla se non attraverso le persone, e le persone devono pensare, prima di tutto, a loro stesse»13. Ma quest’invito all’autonomia e all’autogestione non può celare il fatto che questa forma di controllo delegato resti pur sempre una forma di controllo. In un’altra, celebre intervista, la Thatcher fa questa dichiarazione stupendamente trasparente: «L’economia è il metodo, lo scopo è modifcare il cuore e l’anima» (Economics are the method; the object is to change the heart and soul)14. Ora se le politiche neoliberiste si concepiscono in primo luogo come terapie psicopolitiche, resta da capirne il meccanismo. Se, dagli anni ’80, si è entrati, come affermava Ronald Reagan, nell’entrepreneurial age, c’è da capire in che modo questa nuova fase si distingua da fasi precedenti o se ci sono invece delle continuità che un lavoro genealogico può mettere in luce. L’oikonomia: l’arte del gestire il disuguale Sulla soglia del XXI secolo sembra ormai dato per scontato che l’economia non sia più un sotto-settore della politica, ma che funzioni rispetto a essa in maniera autonoma. Tentativi per una mag13

Margaret Thatcher intervistata da Douglas Keay, «Woman’s Own», 31 ottobre

1987. 14

Margaret Thatcher intervistata da Ronald Butt, «Sunday Times», 7 maggio 1981.

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giore “regolazione politica” dell’economia sono sempre all’ordine del giorno, specialmente dopo le ripetute crisi fnanziarie, ma queste richieste non sono in defnitiva convincenti. La ragione economica non è riducibile alla ragione politica, questo fatto diventa sempre più palese, ma non certo per motivi di mera congiuntura. Ciò che le crisi recenti hanno messo in luce è la necessità di riconcettualizzare cosa si intende per politica e cosa si intende per economia, e perché l’idea di un’“economia politica” è un non-senso. Quando (molto prima di Marx) si è sviluppata, nel XVII e poi soprattutto nel XVIII secolo, la nuova disciplina dell’«economia politica», i suoi padri fondatori – da Antoine de Montchrétien col suo Traicté d’œconomie politique (1615) a Jean-Jacques Rousseau con la sua Économie politique (1755) – affermavano che stavano dando nuovo respiro all’antica sapienza dell’oikonomia politikè. Se però si risale all’epoca antica, non vi è traccia di questa presunta disciplina chiamata oikonomia politikè. E ciò non è certo sorprendente, perché, nello spirito attico, una tale congiunzione è un non-senso. Per essere precisi, la si trova nello scritto (erroneamente) attribuito ad Aristotele, l’Oikonomika, dove a un certo punto si evoca effettivamente una oikonomia politikè, una «economia politica»15. In realtà, questo passo dello scritto (pseudo-)aristotelico serve piuttosto a delimitare ciò che è specifcamente greco rispetto al resto del mondo noto. Difatti la formula oikonomia politikè serve qui a descrivere – come peraltro anche in analoghi passi in Strabone o Polibio – la struttura politica dell’Egitto, che il mondo greco considera generalmente sotto la forma di un grande «casale» (oikos)16. Un’eccezione, dunque, che conferma semmai la regola secondo la quale oikonomia e politikè sono da concepirsi come diametralmente opposti. In cosa consistono, allora, rispettivamente l’oikonomia e la politikè in ambito greco? La prima cosa che bisogna probabilmente rilevare è che il retaggio semantico accumulato nei termini “economia” e “politica”, che usiamo oggi come se il loro signifcato fosse nitido, (Pseudo)-Aristotele, Oikonomika I, 1345b6. C. Natali, Oikonomia in Hellenistic political thought, in A. Laks, M. Schofeld (a cura di), Justice and Generosity. Studies in Hellenistic Social and Political Philosophy – Proceedings of the Sixth Symposium Hellenisticum, Cambridge University Press, Cambridge 2009, pp. 95-128, in particolare p. 98. 15 16

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punta invece in tutt’altra direzione. Una lunga e potente tradizione di pensiero che si è concentrata sul concetto del politico ci ha abituati a pensare che la sfera del politico corrisponda alla sfera del dominio, e cioè alla sfera della verticalità. In seno a essa, vanno risolte le questioni della giusta rappresentanza e dell’adeguata redistribuzione. Al contrario, il pensiero economico moderno ha posto al centro l’idea che la sfera economica è la sfera del libero scambio. Sulla scena di un mercato che dev’essere pensato come orizzontale, che dà pari opportunità a tutti gli attori, vanno negoziate le transazioni, che sono caratterizzate da una fondamentale bidirezionalità. È stata Hannah Arendt a mettere in luce la frattura tra questa concezione moderna dell’economia e della politica e quella dell’epoca classica. Oikonomia e politikè – sottolinea Arendt – appartengono non solo a ordini profondamente irriducibili, ma corrispondono a regimi inversi rispetto alla modernità. Mentre sono essenzialmente orizzontali i rapporti della polis, l’oikos delimita la sfera dei rapporti verticali: La polis si distingueva dalla sfera domestica in quanto si basava sull’eguaglianza di tutti i cittadini, mentre la vita familiare era il centro della più rigida disuguaglianza […] nella sfera domestica, dunque, non esisteva la libertà; infatti, il capofamiglia era considerato libero solo in quanto aveva il potere di lasciare la casa e accedere all’ambito politico, dove tutti erano eguali17.

La concezione moderna della politica, sottintende Hannah Arendt, è ancora troppo legata alla nozione di oikos, cioè del pater familias che domina uno stato – non a caso, la nostra nozione di dominio nasce da domus, la casa –, mentre dovrebbe essere ricordato il primo senso della politikè, che è quello della libertà per ogni singolo di esprimersi (secondo la celebre riforma di Clistene dell’anno 508 a.C. che stabilì fra altre cose anche il principio dell’isêgoria, cioè dell’uguale libertà di parola). Pertanto, è paradossale che quando la Arendt suggerisce un ritorno all’agora, suggerisca non solo un ritorno allo spazio delle discussioni pubbliche, ma innanzitutto un ritorno allo spazio mercantile ove vengono scambiate le merci, prima ancora delle idee. Più importante è però un altro aspetto, cioè che nella sua insistenza sull’uguaglianza che deve regnare sulla scena aperta 17 H. Arendt, The Human Condition, University of Chicago Press, Chicago 1958; tr. it. Vita activa. La condizione umana, introduzione di A. Dal Lago, Bompiani, Milano 1997, p. 24.

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dell’agora politica, Arendt non abbia colto le implicazioni profonde della “disuguaglianza” che caratterizza la sfera dell’oikos. Che cosa vuol dire allora che, in seno all’oikos, non tutti sono uguali? Secondo quanto spiega Arendt, la sfera domestica sarebbe lo spazio della «più rigida disuguaglianza». Ebbene, una lettura delle fonti antiche suggerisce che la disuguaglianza fu tutt’altro che rigida e che al contrario, il capostipite aveva invece un rapporto differenziato con ognuno dei membri della casa. Laddove la restrizione della sfera pubblica deliberativa a cittadini maschi, adulti e autoctoni delimita un ambito dove sarà necessario trattare tutti in maniera indifferenziata – nel 355, Isocrate si lamenta del fatto che gli Ateniesi prestano ascolto ai peggiori oratori e non accordano più importanza agli autentici retori – la sfera dell’oikos richiede invece – come mette in risalto Aristotele – atteggiamenti adatti alle peculiarità dei singoli. Il fglio non va trattato né come la moglie né come lo schiavo. Bisognerà aver nei confronti della moglie un rapporto “matrimoniale” (gamikè), rispetto ai fgli un rapporto “paterno” (patrikè) e nei confronti dello schiavo un rapporto “padronale” (despotikè)18. Nella Politica, come nello scritto sull’Economica a lui attribuito, l’oikonomia viene descritta da Aristotele come una techne e come una disposizione (hexis), mentre nei due trattati di Etica, l’oikonomia viene ulteriormente defnita un atteggiamento di prudenza (phrònesis) da adottare all’interno dell’oikos19. L’arte dell’oikos non corrisponde tanto a una ragione generale (non è mai esistita in epoca antica un’oiko-logia), ma piuttosto all’arte del distribuire, del prendere e del dare (la radice *nem nell’oiko-nomia rimanda appunto al dividere e distribuire). L’oikos non è dunque affatto un luogo della disuguaglianza rigida, ma di una differenziazione interna che garantisce il buon funzionamento autarchico dell’oikos e consente al padre di partecipare – fuori dalla casa, in quanto cittadino libero – alla vita pubblica20. È proprio questa logica oiko-nomica quella alla quale si riallacciano i primi trattati moderni sull’economia in epoca rinascimentale. Il sovrano deve gestire le risorse dello Stato da buon pater familias, e i manuali redatti all’indirizzo dei principi europei evocano Aristotele, Politica, 1253b10, 1259a38. Aristotele, Etica Nicomachea, 1141b32 e Etica Eudemia, 1281b. 20 Aristotele, Politica, 1253a. 18 19

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tutti l’idea di un bilancio «domestico» e l’arte del buon gestire i beni della «casa», arte defnita negli scritti francesi come arte del «mesnager», da cui sorgerà più tardi il management moderno. L’ambito materiale resta indissolubilmente legato all’ambito morale. Anche mentre si va delineando una nuova articolazione tra economia e politica, sono i principi prevalenti nella sfera dell’oikonomia – la prudenza, e l’attenzione ai bisogni individuali – che devono estendersi alla sfera pubblica, e non il contrario. Montchrétien, l’autore del primissimo trattato di Economia politica (1615), critica apertamente l’opposizione greca tra politica ed economia, ma mantiene allo stesso tempo il fatto che lo Stato moderno deve integrare al suo interno le lezioni della gestione domestica. «Tutto ciò vale a dire che nello Stato (tanto quanto nella famiglia) è una fortuna unita a un grandissimo proftto gestire [ménager] bene gli uomini secondo la loro inclinazione propria e particolare»21. Il buon gestore, invece di regnare e di imporre con la forza, governa e orienta le forze che sono già in gioco. 4. L’economia teologica: una distinzione senza divisione Nel Dictionnaire universel del 1690, Antoine Furetière scrive alla voce Economia che questa consiste nella «gestione prudente che si fa del proprio bene o di un bene altrui. L’economia è la seconda parte della Morale, che insegna a ben governare una famiglia, una comunità»22. Nelle lezioni al Collège de France del febbraio 1978, Michel Foucault si appoggia su queste e simili fonti per mettere in rilievo la concezione domestica dell’economia, all’interno della sua complessiva ricostruzione della storia del concetto di governamentalità23. In questo contesto, Foucault procede anche ad una lettura 21 A. de Montchrestien, Traicté de l’économie politique, a cura di F. Billacois, Droz, Genève 1999, p. 67. 22 A. Furetière, Dictionnaire universel [1690], vol. 2, Slatkine Reprints, Genève 1970, voce «Œconomie»: «Mesnagement prudent qu’on fait de son bien, ou de celuy d’autruy. L’œconomie est la seconde partie de la Morale, qui enseigne à bien gouverner une famille, une Communauté». 23 Cfr. M. Foucault, Sécurité, territoire, population. Cours au Collège de France (1977-1978), a cura di F. Ewald, A. Fontana e M. Senellart, Gallimard/Seuil, Paris 2004, in particolare pp. 96-97.

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della manualistica rinascimentale sull’arte detta del mesnagement, legata dunque al mesnage o all’ambito domestico e al suo governo. Se la fecondità di queste ricostruzioni è incontestabile, bisogna però anche sottolineare che la lettura foucaultiana resta molto parziale, proprio perché orientata da interessi genealogici sull’origine del pensiero moderno della soggettività. Quando Foucault legge i manuali dedicati all’educazione dei principi, attinenti appunto all’arte del mesnagement, li identifca con i tasselli di una lunga e complessa genealogia della soggettività moderna, che riporta la problematica del governo alla questione del governo di sé. L’immagine che emerge però con sempre maggiore nitidezza, grazie a più recenti lavori intorno all’economia teologica, messa in rilievo in particolare da Marie-José Mondzain e poi da Giorgio Agamben, è che il management non è subordinabile alla questione della soggettività24. Il gestore non dev’essere sovrano per poter agire o, come abbiamo cercato di suggerire in altra sede, la ratio managerialis è tanto una logica del dominio quanto dell’effcacia25. Ad ogni modo, è signifcativo che, enfatizzando la dimensione soggettiva, Foucault trascuri la dimensione teologica, e che la sua analisi del potere pastorale conceda così poco spazio ai secoli di trattatistica patristica. Dopotutto, come ignorare il fondamentale retaggio del cristianesimo nell’elaborazione del lessico moderno della gestione? Ma soprattutto, come tacere la straordinaria ricchezza speculativa dispiegata intorno alla nozione di oikonomia, tra la sua concettualizzazione in epoca greca classica fno alla nascita del mercantilismo moderno? In questi ultimi anni, una serie di indagini ha stabilito le mutazioni del concetto di oikonomia dal contesto attico fno all’epoca moderna26. Questi studi sfociano nella costatazione che è necessario Cfr. M.-J. Mondzain, Icône, image, économie. Les sources byzantines de l’imaginaire contemporain, Seuil, Paris 1996; G. Agamben, Il Regno e la Gloria. Per una genealogia teologica dell’economia e del governo. Homo Sacer II.2 (2007), Bollati Boringhieri, Torino 2009. 25 Cfr. E. Alloa, L’economia delle anime. Per una genealogia teologica dell’era manageriale, in D. Gentili e E. Stimilli (a cura di), Differenze italiane. Politica e flosofa: mappe e sconfnamenti, DeriveApprodi, Roma 2015, pp. 286-302. 26 Cfr. M.-J. Mondzain, Icône, image, économie, cit.; G. Richter, Oikonomia. Der Gebrauch des Wortes Oikonomia im Neuen Testament bei den Kirchenvätern und in der theologischen Literatur bis ins 20. Jahrhundert, De Gruyter, Berlin-New York 2005; G. Agamben, Il Regno e la Gloria, cit.; G. Maifreda, L’economia e la scienza. Il rinnovamento della cultura economica fra Cinque e Seicento, Edizioni di Storia e Letteratura, 24

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distinguere nella lettura classica di tipo teologico-politico – che si concentra sul problema della rappresentanza e della sovranità – una logica parallela, che è quella dell’economia teologica. Non è possibile in questo contesto ritracciare le tappe della ripresa teologica del concetto greco di oikonomia teorizzato da Aristotele e Senofonte, riproporre le trasformazioni che esso subisce in autori dell’epoca prenicena – come in Ireneo di Lione, Taziano e Tertulliano, o in Clemente di Alessandria (su cui si è concentrato molto Agamben) – e delineare l’intera discussione tra Nicea e Calcedonia, in particolare sulle implicazioni trinitarie messe a fuoco da Dotam Leshem, sino alla sua ripresa avvenuta a Bisanzio nel contesto dell’iconoclasmo – in particolare in Niceforo, oltre che in Fozio27. Lasciando da parte la discussione intorno all’interpretazione da dare al momento quasi insurrezionale-anarchico che si può trovare in alcuni autori che precedono il concilio di Calcedonia28, ci concentreremo piuttosto su un aspetto che è centrale per il nostro discorso. Cercheremo, cioè, di comprendere in che maniera il concetto di oikonomia sia servito per pensare un equilibrio omeostatico all’interno del quale ogni individuo venga considerato debitamente secondo la sua specifcità. Ancor prima delle elaborate soluzioni dell’ortodossia, il quarto secolo è già teatro di contorti arzigogoli per evitare il sospetto di politeismo. Dio è indissolubilmente sia monade che triade, dice Massimo il Confessore, e Vladimir Lossky ha riassunto perfettamente lo spirito dell’epoca: «Il grande problema del quarto secolo era come esprimere simultaneamente l’unità e la diversità, la coincidenza di Dio nella monade e nella triade»29. Roma 2010; D. Leshem, The origins of neoliberalism: modeling the economy from Jesus to Foucault, Columbia University Press, New York 2016. 27 Sull’uso delle immagini come modo di distribuire con maggiore effcacia il messaggio divino, nel contesto dei dibattiti teologici del IX e X secolo, rimando al mio articolo: E. Alloa, Oikonomia. Der Ausnahmezustand des Bildes und seine byzantinische Begründung, in E. Alloa e F. Falk (a cura di), BildÖkonomie. Haushalten mit Sichtbarkeiten, W. Fink, München 2013, pp. 275-325. 28 Dotam Leshem ritiene che l’analisi agambeniana pecchi di un eccesso di “arianesimo” e che si soffermi troppo su autori eretici; volendo comprendere l’eredità teologica del neoliberismo, bisogna invece concentrarsi, secondo lui, sulle posizioni ortodosse dei secoli successivi (cfr. D. Leshem, The Origins of Neoliberalism, cit., cap. 5). 29 V. Lossky, Théologie dogmatique, ed. Olivier Clément e Michel Stavrou, Cerf, Paris 2012.

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Sarà allora proprio il concetto di oikonomia a servire da connettore per articolare insieme questo bisogno di diversità e di comunità in seno alla Trinità. Nella sua capacità di far spazio alla diversità delle persone, il ménage à trois divino prefgura l’oikos più vasto, ovvero una creazione ordinata tramite la provvidenza. Un passo in Tertulliano riassume perfettamente questa tensione. Le persone semplici, per non dire gli ignoranti e gli stolti, che sono sempre la maggior parte dei credenti, dal momento che la stessa regola della fede ci ha condotti dai molteplici dèi del mondo all’unico e vero Dio, non comprendono che si deve credere sì a un unico Dio, ma con la sua economia [oeconomia] e si spaventano perché presumono che l’economia signifchi pluralità e la disposizione [dispositio] della trinità una divisione dell’unità, mentre invece l’unità, traendo da sé stessa la trinità, non è distrutta da questa, ma amministrata [non destruatur ab illa sed administretur]30.

L’unità, suggerisce Tertulliano in questo passo, non è dunque un semplice dato di fatto, ma dev’essere oggetto di amministrazione. A questo punto, diventa necessario introdurre delle distinzioni concettuali più sottili, per far funzionare quest’amministrazione omeostatica della molteplicità. La Trinità non è da concepire come una triade statica, ma invece come un circuito dinamico, che si apre per far spazio alla diversità e si richiude su di sé, riaffermando l’indistinzione delle nature. Scrive Tertulliano: Altro è il Figlio dal Padre non sulla base della diversità [diversitas], bensì di una distribuzione [distributio], altro non sulla base di una divisione [divisio], ma di una distinzione [distinctio]31.

Troviamo qui una differenziazione concettuale decisiva, che resta in vigore anche in epoche successive, cioè l’idea che prendere in considerazione la differenza tra le persone non debba essere un elemento di sedizione, dato che si tratta non di una divisio bensì di una distinctio. La differenza delle persone si palesa non malgrado l’unità, ma nel suo fulcro.

30 Tertulliano, Adv. Prax., PL 1, III, 158; tr. it. Contro Prassea, a cura di G. Scarpat, SEI, Torino 1985. 31 Ivi, PL 1, IX, 164.

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5. La mano invisibile o della naturalizzazione dell’economia Nel suo Wealth of Nations del 1776, Adam Smith propone una soluzione economica al problema del suum cuique. Il miglior modo di soddisfare l’interesse dei singoli sta nella realizzazione di un grande mercato unifcato, dove circolano merci, persone e idee, regolati solo dal meccanismo dei bisogni e dell’offerta. Viceversa, è puntando sul singolo che può essere ottenuto un equilibrio che permette di ottimizzare l’interesse generale. «Perseguendo il suo interesse, [l’individuo] spesso persegue l’interesse della società in modo molto più effcace». La ragione sta in un dispositivo che Smith descrive con la seguente metafora, diventata celebre: mentre l’individuo «mira solo al proprio guadagno» è in realtà «condotto da una mano invisibile», che gli fa «perseguire un fne che non rientra nelle sue intenzioni»32. Alla fne dell’Ottocento, la manus gubernatoris della Scolastica è mutata, per coincidere fnalmente con la natura medesima. Ma anche questa fgura teologica naturalizzata mantiene dei legami forti con la matrice dalla quale scaturisce. Prima di impiegarla nell’ambito della sua teoria delle ricchezze, Adam Smith ne fa uso in un contesto sorprendente, ossia in un saggio sulla storia dell’astronomia, redatto probabilmente nel 1758. Discutendo della possibile origine della credenza politeista, Smith la riconduce all’incomprensione dei fenomeni naturali: in assenza di una penetrazione profonda delle leggi della natura, gli spiriti primitivi attribuivano questi accadimenti irregolari all’intervento della «mano invisibile di Giove» (invisibile hand of Jupiter)33. L’argomento di Adam Smith è chiaro: vedere nel regolarsi delle cose un qualsiasi intervento esterno – o attribuirlo all’arbitrio di una divinità – signifca non capire che si tratta di una legge naturale, che controlla non solo la caduta dei corpi celesti, ma anche la gravitazione dei prezzi (tranne che, a differenza dei primi, nel secondo caso si tratta di un movimento ascendente, per cui il valore nominale della merce «graviti per così dire continuamente verso il prezzo naturale»34). Non è affatto certo però che si possa parlare di secolarizzaA. Smith, La ricchezza delle nazioni, a cura di Anna e Tullio Biagiotti, UTET, Torino 1975, p. 584. 33 Id., The Principles Which Lead and Direct Philosophical Enquiries: Illustrated by the History of Astronomy, in The Early Writings of Adam Smith, a cura di J. R. Lindgren, Kelley, London 1967, p. 49. 34 Id., La ricchezza delle nazioni, cit., pp. 146-147. 32

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zione di un’idea teologica. Come ha dimostrato Giorgio Agamben, il “diventare-immanente” è il tratto caratteristico della macchina teologico-economica, che proprio in ciò si distingue della macchina teologico-politica. Vorremmo suggerire di riformulare questa differenza nei termini seguenti: mentre la teologia politica si concentra sul problema della secolarizzazione (e dunque sulla questione del rapporto con l’aldilà), la teologia economica verte intorno alla questione della naturalizzazione (e dunque intorno al problema del “diventare-immanente”). Ma se così è, la naturalizzazione non va confusa con la natura: in ambito teologico non c’è dubbio sul fatto che la natura sia sempre il risultato di una creazione. Ed è proprio quest’aspetto che rende quei passi di Adam Smith così profondamente teologici. Con la sua consueta lucidità, ne La grande transformazione, Karl Polanyi ha riassunto in una singola frase il proposito della sua grande meditazione sul carattere del mercato liberista: «Non vi era nulla di naturale nel laissez-faire»35. La natura risulta una deliberata operazione di naturalizzazione, che rende naturale ciò che non lo era. Non a caso, nella Theory of Moral Sentiments, si fa menzione di un “piano divino” (divine Plan), implementato, fra altre cose, tramite il meccanismo della concorrenza. (A metà Ottocento, nelle Harmonies économiques, Frédéric de Bastiat allude a qualcosa di simile quando scrive che la concorrenza è la «dimostrazione palese della provvidenza divina nei confronti di tutte le sue creazioni»). In un certo senso, la mano invisibile di Smith inaugura il diventare cibernetico della razionalità economica, dato che il dispositivo, pur essendo creato, deve oramai essere in grado di autogestirsi e di autoregolarsi. «Il mondo va da sé», questa famosa frase attribuita all’abate Galiani è nel liberismo più un obiettivo da raggiungere che un dato di fatto. Prendendo inspirazione dalla oeconomia naturae studiata dai naturalisti come Linneo o Buffon, si tratta di fare del mercato uno spazio regolato dalle stesse leggi della natura. D’altro canto, Smith non fa che cristallizzare idee già presenti, come quelle che si possono leggere in un trattato che precede di cento anni lo scritto di Smith: «La natura agisce con una mano invisibile in tutte le cose»36. In questo diventare cibernetico dell’equilibrio divino si K. Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino, 1974, p. 178. J. Glanvill, The Vanity of Dogmatizing: or Confdence in Opinions. Manifested in a Discourse of the Shortness and Uncertainty of our Knowledge, and its Causes; With some 35 36

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suum cuique. capitalismo, cibernetica, teologia

passa dal regno al governo, dalla trascendenza all’immanenza, ed è probabilmente tale aspetto che ha reso così seducente questo tipo di razionalità agli occhi dei teorici del neoliberismo. Come è noto, il pensiero cibernetico (in particolare la cibernetica detta di “primo ordine”) ha infuenzato l’elaborazione del liberismo di F. A. Hayek e della Chicago School in generale. Contro qualsiasi forma di pensiero pianifcante Hayek propone di ripristinare un liberismo di un tipo nuovo: un liberismo che non abbia più nulla di artifciale (e dunque ancora troppo “costruttivista” e “interventista”), ma che si ispiri invece ai processi naturali. Per farla breve, si tratta di contemplare la naturalizazzione di tutti i processi, in primo luogo dei processi economici. Quando viene meno il potere coercitivo, col suo insieme di camicie di forza e di corsaletti di vario tipo, dice Hayek, si apre la possibilità di un adattamento più fessibile alle circostanze, basato su un ciclo ricorsivo di risposte: «nel linguaggio della cibernetica moderna, il meccanismo di feedback assicura il mantenimento di un ordine autogenerato»37. È signifcativo il paragone aggiunto da Hayek: «È ciò che vide Adam Smith e che descrisse come l’operazione della “mano invisibile”»38. Nella teoria di Hayek, il mercato è l’unico dispositivo in grado di assicurare la giustizia sociale: c’è da scommettere che sia tale proprio perché in questa idea sopravvive una certa concezione dell’oikonomia, nel senso di un erogatore che calibra, compensa e dispensa, stabilisce omogeneità dove c’è disuguaglianza e distingue al contrario laddove c’è il pericolo dell’uniformità. Nella sua promessa di andare incontro a ogni individuo nella sua specifcità, la teologia ha inventato il Diversity Management. Il tardo capitalismo eredita l’idea di Adam Smith secondo la quale, basandosi esclusivamente sul suum cuique, si può costruire una società unita: provvedere ai bisogni dei singoli è il miglior modo di creare un sistema omogeneo. Dalla moltitudine emerge l’unità. In altri termini, è possibile sostenere che il suum cuique non sia contrapposto all’altro grande principio del pensiero politico, il principio dell’e pluribus unum: “dai molti, l’uno”. Refections on Peripateticism; and an Apology for Philosophy, Eversden, London 1661, p. 180; citato secondo S. Andriopoulos, The Invisible Hand: Supernatural Agency in Political Economy and the Gothic Novel, «English Literary History», 66.3 (1999), p. 741. 37 F. A. Hayek, The Atavism of Social Justice, in Id., New Studies in Philosophy, Politics, Economics and the History of Ideas, Routledge&Kegan, London 1978, p. 63. 38 Ibid.

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Scrivere la legge Vincenzo Vitiello

Noi non pensiamo ancora in modo abbastanza deciso l’essenza dell’agire1.

1. Vi sono leggi non scritte? Così posta, la domanda non ha senso. E non bisogna invocare la testimonianza di Antigone, che alle leggi scritte di Creonte anteponeva gli ágrapta kasphalè theòn nòmima2, basta la comune esperienza di mondo per saper distinguere le leggi dei codici dalle norme derivanti da consuetudini. Né vale opporre che queste ultime son leggi solo perché riconosciute dal codice e nei limiti in questo stabiliti, perché il riconoscimento del loro statuto di legge da parte dell’ordinamento giuridico codifcato segue, non precede, la loro effcacia in quanto leggi. Non a caso il riferimento alle consuetudini e al costume del popolo è nei codici sempre generico e formale (né potrebbe essere altrimenti). Su cosa verte, allora, la domanda se «vi sono leggi non scritte»? Sul rapporto tra la legge e la sua scrittura. Sul senso dello scrivere la legge, fermo restando che le leggi, se non sono scritte nei codici, sono scritte nel costume e nelle consuetudini dei popoli – o per dirla in modo più adeguato e vero: to ergon tou nomou graptòn en tais kardìais3, l’operare della legge è scritto nei cuori. È scritto o si scrive? È, la scrittura della legge, opera della stessa legge o, alle spalle di questa, v’è un potere che la scrive? Un potere, s’è detto, e non un «chi», un «soggetto» che abbia questo potere. Le due questioni – quella sul “potere” presupposto alla legge, e quella del “soggetto” 1 «Wir bedenken das Wesen des Handelns noch lange nicht entschieden genug»: M. Heidegger, Brief über den Humanismus, in Wegmarken, Klostermann, Frankfurt am M. 1976; tr. it. di F. Volpi, Lettera sull’«Umanismo», Adelphi, Milano 1987, p. 267. 2 «Non scritte ma inconcusse leggi degli dèi»: Sofocle, Antigone, vv. 454-455. 3 Rm, 2.15.

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di questo potere – sono diverse: e solo se si risponde positivamente alla prima è possibile poi interrogarsi sulla seconda. Evitiamo, nel rispondere, di mettere da parte ciò intorno a cui ci si interroga – la legge – per richiamarci ai «fatti» che sono innanzi agli occhi di tutti, e cioè che le leggi sono sempre opera di un «potere», sia quello degli dèi o degli uomini, del popolo o di un’assemblea, di un’oligarchia o di un singolo. Facciamo l’esatto contrario: esaminiamo direttamente la legge, ciò che le è più proprio, partendo dal suo linguaggio – sia esso scritto su pietra, come la legge mosaica, o nei cuori, come, secondo Paolo, nei Gentili, o ancora sulla carta, come nelle antiche Pandectae e Costitutiones e nei moderni codici. Prima osservazione: la scrittura della legge, il suo linguaggio, non è constatativo, ma imperativo. La legge non enuncia, comanda. Chiaro che, per comandare, deve averne il potere. Un comando senza potere è un ferro ligneo, un circolo quadrato. Pertanto non alle spalle della legge è il potere, ma nella legge. Il potere del Dio che dètta il Decalogo si es-pone, si attua nelle dieci parole. Il Decalogo è il potere di Dio, come la circolarità del cerchio è il cerchio. Ma con «circolarità del cerchio» – non è male precisarlo – s’ha da intendere non la defnizione “nominale” del cerchio, il semplice enunciato di una sua proprietà, bensì l’operazione che disegna il cerchio: il suo “farsi”, la sua defnizione reale4. Il vichiano «verare-facere»5, che, tornando alla legge, non è il comando, ma il comandare. Ché la legge non enuncia, opera. Se la sua “parola” è potere, è potere agente. Fermiamoci su questo “potere” della legge. 2. La legge è un sinallagma: alla prestazione del comando corrisponde la controprestazione dell’osservanza. Senza l’una non v’è l’altra, e viceversa. Questa affermazione è solo un truismo, se non ci si chiede ove gravi il peso maggiore di questo rapporto sinallagmatico: se sul comando o sull’obbedienza. La prima risposta è: sul comando. Ché non è comando quello che non ha il potere di farsi rispettare. Il Decalogo, in cui si es-pone il potere del Dio di Mosè, «Perfecta» – la defnisce Spinoza: cfr. De intellectus emendatione, §§ 92-96, in Id., Tutte le opere, testi originali a fronte, a cura di A. Sangiacomo, Bompiani, Milano 2010, pp. 162-165. 5 G. Vico, De antiquissima italorum sapientia ex originibus linguae latinae eruenda, Conclusio, in Opere flosofche, a cura di P. Cristofolini, Sansoni, Firenze 1971, pp. 130-131. 4

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contiene insieme con i “comandamenti” l’indicazione delle punizioni che colpiranno i trasgressori6. Le Dieci Parole son leggi e non “enunciati” perché all’imperativo, che separa giusto da ingiusto, bene da male, segue di necessità la minaccia della punizione per chi commette ingiustizia. La legge è imperativa, perché ha il potere di punire. Ed è la certezza della punizione che dà potere al comando. E tuttavia… il destinatario del comando può rifutarsi di obbedire. Nella Fenomenologia dello spirito Hegel osserva che solo il riconoscimento da parte dei nobili dava fondamento “oggettivo” alla sovranità del monarca di Francia. «Il potere statale – concludeva – è passato (übergegangen) alla coscienza nobile. Soltanto in questa il potere dello Stato diviene davvero attivo (wahrhaft bestätigt)»7. Ed è signifcativo che la conferma di questo “primato” dei destinatari della legge sulla legge venga affermato anche dal maggior sostenitore non del potere sovrano, ma del potere del sovrano: da Carl Schmitt, che, con Hobbes, spiega il fondamento della legge col breve enunciato: «protego, ergo obligo»8. Anche superfuo dire che sono i destinatari della legge che “decidono” della certezza della “protezione”, e prim’ancora della sua credibilità. In ogni caso son sempre loro ad accogliere o respingere la protezione sovrana. L’asse del potere sembra essersi spostato tutto dalla parte dei destinatari della legge. Ma chi sono i destinatari della legge? Torniamo di nuovo sul “carattere” della legge, su ciò che determina la sua natura di comando. Per trattare adeguatamente il problema è necessario tener distinte legge giuridica da legge morale. Se ne darà ragione più avanti. Cominciamo dalla prima. 3. In generale si dice performativo l’atto del parlare non in quanto enuncia, descrive, constata, ma in quanto fa, opera, esegue qualCfr. Es 20, 1-19; Dt 5, 1-33. G. W. F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, hrsg. J. Hoffmeiter, Meiner, Hamburg 19526, p. 366 (ma v. da p. 364); tr. it. in 2 voll. di E. de Negri, Fenomenologia dello spirito, La Nuova Italia, Firenze 19632, p. 65 (ma v. da p. 63). 8 Cfr. C. Schmitt, Il concetto di “politico”, in Id., Le categorie del “politico”, ed. it. a cura di G. Miglio e P. Schiera, il Mulino, Bologna 1972, pp. 136-137. Sul tema rinvio a V. Vitiello, Ripensare il Cristianesimo. De Europa, Ananke, Torino 2008, P. III, cap. I, «Grundnorm. Kelsen e l’infondata fondazione del diritto», spec. pp. 215-217. 6 7

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cosa9. In questa ampia defnizione rientrano tutte le forme del dire: anche la più tautologica enunciazione – come «A = A» – è performativa, perché fa qualcosa: parla. In un senso più ristretto si defnisce performativo quel dire che opera con ciò che dice, come l’ordine di sparare che dà il comandante al battaglione di esecuzione. In questo senso è performativa la parola della legge. È necessario, però, aggiungere che la performatività della legge giuridica non produce soltanto “effetti” sul suo destinatario, fa ben di più: produce il suo stesso destinatario. Faccio un esempio: prima della legge che riconosce al suo destinatario il diritto al voto, non c’è elettore: elettore – dico – e non genericamente l’uomo, che, in quanto ente “naturale”, non ha fgura giuridica. E il performato elettore resta tale, «elettore», anche se e quando non vota. Ma, se il diritto produce il suo destinatario, non si appiattisce la legge giuridica sulla legge di natura? No, perché la legge naturale per-forma “oggetti”, laddove l’ordinamento giuridico “produce” soggetti responsabili, chiamati, cioè, a rispondere. È implicita in questa defnizione il riconoscimento della “possibilità” di non rispondere – ciò che si usa chiamare «libertà». Il «dover-fare» della legge giuridica si distingue dall’«essere» della legge naturale appunto per questa “possibilità”: che la risposta del destinatario non cor-risponda alla richiesta della legge. In ciò – si dice – la differenza tra legge naturale e legge giuridica, tra oggetti fsici e soggetti giuridici. Si tratta invero di una differenza molto labile, in certi ambiti addirittura insussistente. Come nell’ampio territorio del diritto tributario, ove la legge si sostituisce ai suoi destinatari, detraendo direttamente dai loro beni il tributo dovuto. In alcuni ordinamenti – come in quello italiano – la legge anticipa il futuro, col detrarre il tributo da redditi non ancora percepiti, e nient’affatto certi. Vero è che la legge si sostituisce ai suoi destinatari tutte le volte che questi, per non aver corrisposto al dover-essere della norma, vengono costretti, anche con la violenza fsica, ad eseguire il comando, o, se ciò è impossibile, a subire la prevista punizione: dalla soppressione della libertà alla condanna a morte. In questi casi viene meno il carattere performativo della legge, ché qui non c’è più dover-essere – per il condannato –, c’è soltanto l’essere dell’esecuzione del comando. 9 Il testo canonico di riferimento rimane quello di J. L. Austin, How to Do Things with Words, Oxford University Press, Oxford-New York 1962; tr. it di C. Villata, Come fare cose con le parole, Marietti, Genova 1987.

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Con l’esecuzione forzata la legge toglie, uno actu, l’offesa subita e il dover-essere. Toglie quindi sé stessa? Invero l’ordinamento giuridico ha natura anfbia, partecipando insieme all’essere e al dover-essere. È norma, «dovere», ed insieme istituzione, fatto, «essere». Di qui la distinzione tra «validità» ed «effettività» della norma giuridica, fonte di ampie discussioni e polemiche tra giuristi e flosof del diritto, divisi in un variegato panorama di scuole e sottoscuole: dei giusnaturalisti e dei positivisti, storicisti e non, dei normativisti, degli istituzionalisti, dei realisti, dei sistemici… 4. Approfondiamo il tema di questa “distinzione” che genera opposizioni varie. Che la norma giuridica resti “valida” anche quando non viene applicata, è cosa ovvia. Se l’inadempienza avesse l’effetto di abrogare la legge, nessun ordinamento giuridico durerebbe un sol giorno. Sarebbe invero del tutto inutile emanare leggi. E vale anche l’opposto: se bastasse che un comando venisse eseguito per essere eretto a norma giuridica, ogni rapinatore di strada sarebbe elevato a legislatore. Ma, come s’è fatto all’inizio, torniamo ad interrogare ciò che dice la legge. Il mancato rispetto è in essa previsto: la punizione dell’inadempiente è la ri-affermazione della validità della legge, ovvero: è l’affermazione della legge attraverso il suo autotoglimento come dovere. L’effcacia della legge sta proprio nella punizione che colpisce il reo di inadempienza. Poco sopra ci si è chiesti se l’esecuzione forzata della legge, sottraendole il «dover-essere», non tolga insieme la legge. Ora possiamo rispondere: toglie il dover-essere della legge, non la legge. La legge è, non deve essere, in quanto punizione, ovvero esecuzione forzata. Qui la forza della legge: nel potere di punire. All’ordinamento giuridico non interessa affatto l’intenzione che sorregge l’adempimento della norma; il suo unico scopo è la sua realizzazione. E la minaccia della punizione è il vero sostegno della legge. A parte i vari casi di sostituzione della legge ai suoi destinatari, la “verità” della legge è nel suo autotoglimento come “dovere”. La norma giuridica comanda perché quel che ancora non è – sia. Essa si protende nel futuro per attualizzarlo. Il presente è l’orizzonte temporale della legge giuridica, come della legge naturale. Il prossimo perielio della cometa di Halley, previsto per l’anno 2061,

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è, infatti, per l’astronomo un “fatto già presente”, come per il fsico la futura fusione di un pezzo di piombo, che non potrà avvenire che alla temperatura di 328 gradi Celsius. Nel linguaggio del diritto, come in quello delle scienze naturali, domina il presente: il tempo della verità dell’essere. Qui la ragione della diffcoltà del sapere giuridico di rendersi completamente autonomo dalla logica delle scienze naturali. 5. Una inadempienza – s’è detto – non abroga la legge; né dieci, né cento inadempienze; la legge può essere valida anche se non viene applicata per anni; né un atto di sopraffazione diviene legge, anche se reiterato più e più volte nel tempo. Quando allora perde di validità la legge, e quando un atto “violento” l’acquista? Non credo necessario ricordare che la “violenza”, nonché essere estranea al diritto, gli è costitutiva, non potendo l’ordinamento giuridico disciplinare la violenza altrimenti che con la violenza10. Ma la violenza della legge – il riferimento è all’esecuzione forzata – è “giuridica”, se ed in quanto «pre-vista» dall’ordinamento, e cioè non diviene “legge” post factum, lo è a priori. Certo un singolo atto variamente ripetuto può essere elevato a norma di legge (questo accade tutte le volte che il diritto riconosce validità giuridica ad una consuetudine), ma qui non ci stiamo interrogando sul fondamento di validità di questa o quella legge, che certamente riposa sull’ordinamento generale del diritto; ci stiamo interrogando sulla validità dell’ordinamento in generale. Non potendo l’ordinamento basarsi su una precedente legge, la sua validità poggia sulla sua «effettività». Che è come dire che l’ordinamento giuridico è valido se e fno a quando è rispettato, e rispettato in quanto “legge” – ossia è valido sino a quando è… valido. Nessuna norma può fondare la normatività, perché per fondarla dev’essere già “normativa”. Questa è la “verità” della Grundnorm, norma non normativa, non “voluta” ma «pensata», non oggetto 10 «[…] la violenza – rileva Walter Benjamin in Zur Kritik der Gewalt –, quando non è in possesso del diritto di volta in volta esistente, rappresent[a] per esso una minaccia, non a causa dei fni che essa persegue, ma della sua semplice esistenza al di fuori del diritto»: Id., Gesammelte Werke, hrsgg. R. Tiedemann u. H. Schweppenhäuser, Suhrkamp, Frankfurt am M. 1972 sgg., II-1, p. 183; tr. it. di R. Solmi, in W. Benjamin, Il concetto di Critica nel Romanticismo tedesco. Scritti 1919-1922, in Id., Opere, a cura di G. Agamben, Einaudi, Torino 1982, p. 137.

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né soggetto di volere, ma di conoscenza, suo fne essendo quello di enunciare la normatività delle norme: un “fatto”, das Faktum der reinen Rechtsvernunft, per dirla con Kant, ovvero, con le parole del suo Autore, il «presupposto logico-trascendentale» delle norme11. È così fssato il “limite” della scienza giuridica, che si arresta all’«effettività» della legge, ovvero: al fatto dell’accettazione da parte della maggior parte, se non della totalità, degli individui che in un certo tempo abitano lo stesso luogo, delle stesse norme che regolano la loro vita in comune – indipendentemente dai loro singoli valori e scopi. Tutto il resto è sociologia e/o politica. Tutto il resto, e cioè: quello che rende diritto il diritto. Sì, proprio «quello che rende diritto il diritto». La delimitazione di metodo della scienza giuridica ha un valore epistemico che sorpassa l’esigenza metodologica. La scienza giuridica non s’interroga sulla “genesi” del diritto, si ferma al «fatto». Al fatto del sinallagma della legge. Ed è bene sia così. 6. La genealogia o si ferma ad un punto, arbitrariamente fssato, così rinnegando sé stessa: perché lì e non oltre? – o delira, sorpassa il limite, ogni limite, pretendendo l’impossibile. Torna utile confrontare di nuovo la scienza del diritto con le scienze naturali. Comincio da queste. Che non si dà scienza, se non all’interno di un orizzonte epistemico prestabilito, è un dato acquisito da tempo dal pensiero moderno12, anche se sono diverse le “interpretazioni” che di questo dato vengono avanzate. Ciò che non è affatto «dato» è la fondazione dell’orizzonte, senza peraltro poterne respingere la richiesta in modo assoluto. Ed a ciò si deve, in ultima analisi, la critica di «soggettivismo» diretta contro il trascendentalismo kantiano, ignorando 11 «[…] se si fosse supposto che la norma, secondo cui bisogna obbedire agli ordini di Dio, fosse stata statuita da Dio stesso, essa non potrebbe essere il fondamento della validità delle norme poste da Dio, dal momento che essa stessa sarebbe una norma posta da Dio. […] La norma secondo cui si deve obbedire agli ordini di Dio, in quanto norma fondamentale, non può quindi essere il senso soggettivo dell’atto di volontà di una qualche persona. Se però la norma fondamentale non può essere il senso soggettivo di un atto di volontà, può essere soltanto il contenuto di un atto intellettuale […], può essere soltanto una norma pensata»: H. Kelsen, Reine Rechtslehre, Deuticke, Wien 1960; tr. it. di M. G. Losano, La dottrina pura del diritto, Einaudi, Torino 1962, p. 228; cfr. anche, p. 226, il titolo del § d). 12 Almeno dalle Regulae ad directionem ingenii di Descartes.

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che fu Kant, più di un secolo prima di Nietzsche, ad affermare che l’«Io penso» è tanto «Io» quanto «Egli» o «Esso», rappresentabile con una «X»: la stessa «X» che defnisce l’«oggetto trascendentale», l’orizzonte di possibilità d’ogni oggetto13. Prese insieme, come vanno prese, le due «X» – dell’«Ich denke» e dell’«Oggetto trascendentale» – defniscono l’«io», o «ragione», non come sostanza né come soggetto, bensì in quanto «funzione». Ragione-funzione che è tutta immanente al suo operare, che è tutta le sue opere-azioni, gli «oggetti» o «cose» del mondo che sono in quanto «si» fanno, e così gli uomini, opere-azioni della ragione come le altre “realtà” del mondo. Trascendentale è questo: la mathesis universalis in feri, il verare-facere di Vico, che non altrove è che nei facta quatenus funt. C’è però una diffcoltà: questo fare, o farsi, questo operare tutto immanente ai facta, totalmente presente nelle opere-azioni, trascende sé stesso, è «altro» da sé. Ed è la sua auto-identità – l’esser-sé a sé stesso – che lo trascende. L’orizzonte trascendentale, infatti, dice (nel senso del dire che opera, che fa quel che dice) ciò che è l’oggetto nel farsi: che è una determinata quantità o qualità, una determinata relazione e modalità; dice quello che esso è in relazione ad altri, non però quello «che esso è a sé stesso» nell’essere in relazione ad altri. L’orizzonte di apparizione dell’ente, di ogni ente, immanente agli enti, è «altro» da questi. Irriducibile alle sue forme (o categorie), non si conosce: non produce il suo produrre. La defnizione dell’orizzonte trascendentale – l’Io, das: Ich denke14, o ragione, = X – dice appunto questo: l’inconoscibilità del Sé. Non si conosce la ragione (l’orizzonte trascendentale, la «funzione»); essa si «sente», o, come direbbe Vico, si «avverte»: è cosciente di sé. Ma questo avvertirsi, questo sentir-sé, questa coscienza di sé, non entra nel contenuto del discorso, nell’enunciato: il pensiero del matematico, nel mentre svolge un’equazione, è certamente tutto nell’equazione che pensa, anzi è l’equazione stessa, 13 Cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Id., Werke, Akademie-Textausgabe, A (Bd. IV) 346, B (Bd. III) 404, e A 104-105. Quanto a Nietzsche, cfr. il suo Jenseits von Gut und Böse, in Id., Sämtliche Werke, Kritische Studienausgabe, Bd. 5, §§ 16-17, pp. 29-31; tr. it di F. Masini, Al di là del bene e del male, in Opere di F. N., VI/II, Adelphi, Milano 19763, pp. 20-22. Invero, prima di Nietzsche, anche Heinrich Heine aveva osservato, riferendosi a Fichte, che non si dovrebbe dire «Io penso», ma «Pensa», come si dice «Piove, fulmina»: «Per la storia della religione e della flosofa in Germania» (1834), in H. Heine, La Germania, a cura di P. Chiarini, Laterza, Bari 1972, p. 284. 14 I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, cit., B 131.

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ma nella scrittura dell’equazione, nel linguaggio dell’argomentazione matematica, non è compresa la coscienza di sé, il suo “sentirsi”, il suo “avvertirsi”; e tanto meno lo è la rifessione su questo avvertirsi, sulla coscienza di sé. La rifessione del fare, dell’opera-azione su di sé, sulla sua “identità”, è posteriore. Certo anch’essa viene detta, scritta, enunciata (non stiamo forse facendo questo?), ma in uno scritto, in un discorso, in un pensiero ulteriore, che, come ogni fare, ogni opera-azione, ha un suo «sentimento di sé», una sua autocoscienza, diversa dall’autocoscienza del “primo” fare, dal «sentimento di sé» della precedente opera-azione. Quel che enunciamo è sempre il sentire già avvertito, non quello che avvertiamo parlando. Tra il cogito e il sum vi è un iato che l’ergo copre, non colma. 7. Quest’ultima affermazione non è universalizzabile. Se lo fosse, la tesi sarebbe contraddetta nell’atto stesso di pronunciarla, dacché per sostenere la sua universalità dovremmo portare a conoscenza anche la coscienza attuale. L’esperienza conoscitiva e cosciente del passato attesta quindi un limite del conoscere, che, non potendo essere assolutizzato, va rispettato come limitato esso stesso. Epperò superabile. È “pensabile”, infatti, una conoscenza assoluta che contenga in sé, nel suo dire, nel suo enunciare, la coscienza di sé, il sentimento di sé, come rifessione su di sé, perfetta autocoscienza compiutamente conosciuta, compiuta conoscenza perfettamente autocosciente: qual lumen luminis, luce che illumina luce. Lumen luminis o non piuttosto tenebra tenebrarum? Invero nell’assoluto dell’autocoscienza perfetta, nella luce della compiuta conoscenza, nulla si vede, perché nulla c’è da vedere: non la molteplicità degli enti, oscuri anzitutto a sé stessi nella e per la loro limitatezza, non l’orizzonte che nella e per la sua perfezione resta vuoto. L’assoluto ricorda l’Uno della I ipotesi del Parmenide platonico, impedito a passare dalla sua Quiete al Movimento dell’Uno-molti della II ipotesi, perché tra i due non vi può essere passaggio, ma solo compresenza, per la quale tutto e nulla si può dire in ogni modo ed assolutamente, e insieme tutto e nulla assolutamente e in ogni modo non si può dire15. 15

Platone, Parmenide, 157a-b e 166c.

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L’orizzonte trascendentale è un “fatto” che può essere soltanto presupposto, e mai visto nella sua totalità. Nell’orizzonte trascendentale si sta, e perciò può esser visto solo “in prospettiva”: quella che di volta in volta si “occupa”. La visione dell’orizzonte trascendentale – in cui si inquadrano i “fenomeni” – non è l’orizzonte trascendentale. 8. Rispettare la differenza tra l’orizzonte trascendentale e la visione dell’orizzonte trascendentale – differenza che il solo “fatto” della visione im-pone – è fondamentale per la comprensione dell’effettività del diritto. Il “dato” – l’ordinamento giuridico di fatto sussistente, il “fatto” della legge, la sua forza obbligatoria, la sua vigenza, o come altrimenti si voglia indicare l’«effettività» del diritto – è sempre e solo una “visione” dell’orizzonte, una “prospettiva”: quella che di volta in volta si dà all’interno dell’orizzonte. Oltre non è dato andare: l’orizzonte trascendentale in quanto «fondamento della norma», la kelseniana Grundnorm, è solo una «norma pensata», vale a dire: l’enunciazione della «normatività delle norme». Una tautologia: perché quel comando è valido? Perché è valido. Perché quell’ordine è ritenuto «norma di legge»? Perché tale, «norma di legge», è ritenuto. Chiaramente ogni singolo ordinamento giuridico darà la sua risposta particolare alla domanda – arricchirà la defnizione della Grundnorm con le sue motivazioni, spiegazioni, dimostrazioni, illusioni, ideologie… –, ma queste “risposte” sono tutte visioni particolari della normatività della norma, «visioni» che sono il diritto vigente. Andare oltre – ripeto – non è dato, perché cercare il fondamento o la causa, o il “soggetto”, dell’orizzonte trascendentale del diritto, signifca cadere nel circolo vizioso di spiegare l’orizzonte con le sue categorie16. Il Diritto è, la Legge è, la Norma è. «È»: questa la prima e l’ultima parola della Legge. E se qualcosa può sospettarsi “dietro” la visione dell’orizzonte nel quale siamo compresi – noi come tutti gli “essenti” performati dalla legge – è solo die lichtescheue Macht17, «la potenza che ha in orrore la luce» – ma che, invero, è già troppo defnire «potenza». 16 Quali conseguenze questo «errore logico» possa avere sul piano politico, lo dimostra la scelta – la decisione – per il nazionalsocialismo del cattolico Carl Schmitt. 17 Cfr. G. W. F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, cit., pp. 135-136; tr. it., II, p. 28.

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9. Nella «È» del Diritto, che regge il dover-essere della norma, non è com-preso il “sentimento” della legge: il “sentirsi”, il sensodi-sé dell’azione che attua o respinge l’imperativo. Non è presente in quanto non è necessario che lo sia. Tanto non necessario, che la Legge giuridica l’ignora, come nei due esempi sopra esposti, in cui la Legge si sostituisce al destinatario, eseguendo essa l’opera-azione che comanda. L’«È» dell’Ordinamento giuridico nega il «dover-essere» della norma – nell’atto stesso di im-porlo. 10. Se è nello sguardo altrui, nel sentirmi guardato nel mentre guardo, che faccio esperienza della prospetticità del mio sguardo e quindi della differenza dell’orizzonte normativo dalla visione di esso, è nell’ascolto che “avverto” «con animo perturbato e commosso» la trascendenza della Grundnorm: la trascendenza del fondamento normativo della norma18. Adonai dice dieci parole; la Grundnorm – la «norma pensata» – una sola: Handle, opera, agisci. E dice anche il “contenuto” dell’agire, il «che cosa» fare19, ma lo dice avendo di mira il «modo», la forma, l’intenzione che motiva l’agire e non la “materia”, il «che cosa». E questo modo porta a parola: Handle so, daß…, «Opera in modo tale che…» come il vero ed unico contenuto del comando. La voce che comanda, la voce che dice: Handle, è la voce della ragione. Della ragione pratica: la ragione dell’agire morale. A chi comanda questa ragione? Non all’uomo, ma alla ragione dell’uomo. Alla ragione pratica, agente, operante. L’uomo non è solo ragione, è anche appetito, desiderio, natura, senso. Ed il comandamento comanda anzitutto di liberarsi dalla natura sensibile, dalle inclinazioni dei sensi, da desideri e appetiti determinati e singolari; 18 Secondo quanto narra Vico furono il fulmine e il tuono a destare nei «fgliuoli della Terra» il sentimento del divino, della trascendenza: «[…] il Cielo fnalmente folgorò, tuonò con folgori, e tuoni spaventosissimi […]. Quivi pochi Giganti […] dispersi per gli boschi posti sull’alture de’ monti […] spaventati, ed attoniti dal grand’effetto, di che non sapevano la cagione, alzarono gli occhi, ed avvertirono il Cielo»: G. Vico, La Scienza nuova. Le tre edizioni del 1725, 1730 e 1744, a cura di M. Sanna e V. Vitiello, Bompiani, Milano 2012, ed. 1744, p. 918. Cfr. inoltre la Degnità LIII, ivi, pp. 873-874. 19 «Opera in modo tale, che (so, daß) la massima della tua volontà possa sempre valere in ogni tempo come principio di una legislazione universale»: I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, cit., Bd. V, pp. 1-163, § 7, p. 30; tr. it. La critica della ragion pura, di F. Capra, riv. da E. Garin, Laterza, Bari 1962, p. 38.

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comanda di agire in modo tale che la massima dell’agire sia valida “incondizionatamente”. Comanda, la ragione, rivolgendosi a sé stessa in seconda persona, dicendo: «tu». E comanda a questo «tu», che è sé stessa, di fare quel che ha già fatto, e cioè: di liberarsi dalle inclinazioni sensibili: perché, se non se ne fosse già liberata, neppure avrebbe potuto ascoltar-si; neppure avrebbe potuto ascoltare quella voce ch’è sua, ma che avverte come altra da sé. Il comando le è dato. L’ascolto implica l’eteronomia della norma. La voce che parla a sé stessa come a un «tu», riconosce l’alterità dell’ascolto, come l’ascolto riconosce l’alterità della voce. L’identità della norma è divisa e pur una: è inter-rotta. La voce si scrive nell’ascolto. Che non è mero udire. L’ascolto della legge è gesto. Handle: agisci. Ma il gesto in cui si scrive la legge, l’azione della legge, la legge scritta, non è la legge. Scritta la legge non è più legge, non è più «dover-essere», «è». La legge è sempre ancora da scrivere. Qui il senso del comando che comanda di fare il già fatto. Ché, vinte, ma non mai dome, le inclinazioni sensibili insorgono continuamente. Naturam expellas furca, tamenusque recurret.20 La lotta tra natura e norma, sensibilità e ragion pratica non ha pausa. Il tempo della morale, il tempo della lotta della ragion pratica con la natura sensibile è un tempo senza soste, continuo. E come non si può lodare la ragione per la vittoria sulla natura, così non le si può far carico delle sconftte che subisce. Non è nel potere di nessuno dei due contendenti – la ragione e la natura – la distribuzione delle forze in campo. La responsabilità della vittoria come della sconftta non “è”, ma è sentita, avvertita. Ci sentiamo responsabili anche di azioni che non sono in nostro potere, come del nostro passato, o addirittura del passato da noi non vissuto – ci “sentiamo” responsabili anche di ciò di cui non “siamo” responsabili. Il “rimorso” testimonia questa responsabità che non «è», ma è sentita, avvertita. Di più: che «deve» essere sentita, avvertita. Il tempo della morale, il tempo del Sollen, è tutt’altro che il tempo del Sein, del conoscere che constata, rap-presenta, enuncia; dal tempo della “scienza”, dell’episteme, di ciò che sta.

20

Orazio, Epist., I, 10, 24.

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11. Il tempo della ragione morale non è, può essere. Non nella lotta contro le inclinazioni sensibili, ma nella vittoria della ragione su di esse s’annida la possibile sconftta. Perché non c’è mai vittoria. La vittoria può essere, nell’atto stesso che è. Il dovere non è mai compiuto, neppure quando si è fatto ciò che è comandato; di più: nell’atto stesso di compierlo non lo si compie. Il dovere ha sempre da essere. Il futuro è il tempo del dover-essere, il tempo della Legge morale. Il “passato” della voce che comanda è solo per e nel futuro dell’ascolto. E questo “futuro” penetra nelle fbre più intime del comando, lo costituisce. Forma il suo “presente”. Il “passato” della voce che comanda è appeso al “futuro” sempre futuro dell’ascolto. È appeso alla croce del possibile: alla possibilità che domani il sole non sorga. E questo “possibile” domani – qui il vero senso del tempo “morale” – non annulla solo sé stesso, annulla l’intero tempo, il presente e il passato non meno del futuro. Come vivere questa possibilità estrema, la possibilità della sparizione del tempo, nel presente, nel nostro “oggi”, senza chiedere consolazione? Rispondo con parole non mie, antiche. Parole capaci di portare nel contenuto del dire che è proprio del verare-facere il “sentire”, l’«avvertire» di esso dire: non del dire passato, del dire su cui si rifette, bensì del dire che si compie dicendo, del dire della rifessione nell’atto stesso che rifette: d’ora innanzi quelli che hanno moglie siano come non l’avessero; quelli che piangono come non piangessero, chi si rallegra, come non si rallegrasse; quelli che comprano, come non possedessero; quelli che usano il mondo come non l’usassero.

Queste parole – di Paolo – sono incastonate tra due proposizioni che ne esplicano il senso: ho kairòs sunestalmenos estì («il tempo s’è contratto»), e: paragei gar to schema tou kosmou toutou («passa la fgura di questo mondo»)21. Siamo ancora capaci di leggerle? Di leggerle alla chiara ombra del grido dell’ora nona? Nell’abisso dell’abbandono?

21

1 Cor 7, 29-31.

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Ecco il fondamento del diritto di punire esercitato in ogni Stato. Non furono dunque i sudditi a dare quel diritto al sovrano; essi si limitarono a rinunciare ai propri diritti e con ciò rafforzarono il sovrano nell’esercitare i suoi nel modo che egli ritenesse più adatto ad assicurare la conservazione di tutti. Cosicché [il diritto di punire] fu non già dato, ma lasciato a lui e a lui soltanto, e così interamente (ad eccezione dei limiti impostigli dalla legge di natura) come era nella condizione di pura natura e di guerra di ognuno contro il suo simile1.

Nel capitolo 28 del Leviatano, “Punizioni” e “ricompense”, Thomas Hobbes espone la sua teoria dello ius puniendi: il diritto sovrano di punire. La teoria della pena introdotta da Hobbes viene oggi comunemente considerata non solo il punto di partenza della moderna legge criminale, ma anche dello stesso Stato secolare, razionale moderno2. Come ha osservato Dieter Hüning, Hobbes può essere defnito il “fondatore flosofco” del Rechtsstaat moderno, in quanto la sua teoria 1 T. Hobbes, Leviathan or The Matter, Forme and Power of a Common Wealth Ecclesiasticall and Civil, a cura di R. Tuck, Cambridge University Press, Cambridge 1996, p. 214; tr. it. Leviatano o la materia, la forma e il potere di uno Stato ecclesiastico e civile, a cura di A. Pacchi con la collaborazione di A. Lupoli, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 254255. I riferimenti successivi appaiono nel testo abbreviati con L. 2 Per ulteriori studi su Hobbes e la sua teoria della pena, cfr. A. Norrie, Hobbes and the Philosophy of Punishment, «Law and Philosophy», 3-2, 1984, pp. 299-320; Th. S. Schrock, The Rights to Punish and Resist Punishment in Hobbes’s Leviathan, «The Western Political Quarterly», 44-4, December 1991, pp. 853-890; D. Hüning, Hobbes on the Right to Punish, in P. Springborg (a cura di), The Cambridge Companion to Hobbes’s Leviathan, Cambridge University Press, Cambridge 2007, pp. 217-240.

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traccia una chiara distinzione tra giustizia divina e giustizia terrena, crimine (crimen) e peccato (peccatum), atti pubblici e credenze private3. Quello che invece viene più raramente osservato, in riferimento alla teoria di Hobbes sul diritto di punire, è che quest’ultima occupa una posizione altrettanto prominente all’interno di un altro contesto, quello di una genealogia dell’età moderna del tutto differente, in cui il “momento hobbesiano” non viene semplicemente visto come precursore flosofco dello stato secolare razionale, quanto piuttosto come passaggio epocale all’età biopolitica. Giusto per inquadrare l’ipotesi di fondo del mio saggio, nelle pagine che seguono cercherò di dimostrare che le genealogie della biopolitica proposte da Michel Foucault, Giorgio Agamben e Roberto Esposito descrivono, da prospettive differenti eppure complementari, i diversi “destini” della teoria hobbesiana della punizione sovrana, revocando in questione lo statuto flosofco di tale teoria come momento fondativo del Rechtsstaat. Nella prima parte del saggio sostengo che Foucault posiziona la nascita del biopotere – trattata nei suoi corsi al Collège de France, soprattutto in quello intitolato Il Faut Défendre la Société – non alla fne del XVIII secolo, come viene comunemente creduto, ma nel XVII, e proprio in relazione alla teoria hobbesiana del contratto sociale, che conferisce un’indubbia enfasi alla vita biologica come fonte del diritto sovrano. Nella seconda parte, sviluppo la tesi secondo la quale il progetto di Agamben, Homo Sacer (1995-2015), interpreta la teoria hobbesiana del diritto di punire come paradigma della cattura politica della nuda vita attraverso la nozione di bando sovrano. Infne, propongo una rilettura della trilogia biopolitica di Esposito secondo cui il flosofo italiano pensa la teoria hobbesiana del diritto di punire come luogo teoretico privilegiato, dal quale emerge la sfera politica moderna e il paradigma di immunità. Sebbene Foucault, Agamben ed Esposito presentino interpretazioni sostanzialmente differenti della teoria hobbesiana, tanto da risultare quasi in contrasto (teoretico) l’uno con l’altro, ciò che in generale emerge dai loro lavori è la messa in questione dell’interpretazione classica ed ortodossa del diritto di punire come fondamento flosofco del moderno Stato legale e, specifcatamente, in quanto inizio di una nuova genealogia teologico-politica dello Stato. Nella 3

D. Hüning, Hobbes on the Right to Punish, cit., p. 217.

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parte conclusiva del saggio intendo quindi presentare l’argomento secondo cui ciò che possiamo defnire lo “Hobbes italiano” ci permette di comprendere come la teoria della punizione sovrana non sia altro che una forma secolarizzata di una particolare teologia politica del sacrifcio. Cosa è dunque in gioco nella teoria hobbesiana del diritto di punire? In che modo Foucault, Agamben e Esposito la rivisitano e reinterpretano? E come può il diritto di punire celare quello che invece è il diritto di sacrifcare?

1. Hobbes e il problema della pena Nel capitolo 21 del Leviatano, La libertà dei sudditi, Thomas Hobbes inizia a esporre la sua teoria del diritto sovrano di punire. L’argomento centrale del capitolo è che il potere del sovrano sulla vita e la morte si esprime nel diritto di punire i suoi sudditi, se necessario anche con la morte. È comunque importante sottolineare che l’argomento di Hobbes non implica semplicemente il fatto ovvio che il sovrano possiede il diritto di infiggere la punizione capitale, brandendo la spada pubblica contro il suddito che infrange la legge civile. Come vedremo in seguito, Hobbes afferma qualcosa di molto più radicale riguardo al potere sovrano assoluto di vita e di morte, mettendo in discussione il quid pro quo di protezione e obbedienza sul quale è fondato, come noto, il contratto sociale. Secondo la visione hobbesiana, il sovrano detiene il diritto di punire o uccidere chiunque – colpevole o innocente – al fne di preservare la pace nel Commonwealth: «Può accadere, dunque, e accade spesso negli Stati, che un suddito venga messo a morte per comando del potere sovrano; ciononostante nessuna delle due parti fa torto all’altra» (L, p. 148; tr. it. cit., p. 178). Se Hobbes invero sostiene che il suddito possiede diritti e libertà – quali il diritto a un processo pubblico in una corte di giustizia, il diritto a una punizione proporzionata alla gravità del reato commesso e, soprattutto, il diritto di resistere fsicamente ad ogni violenza infitta da altri sulla propria persona – ciò non infcia in alcun modo, né limita, il diritto assoluto del sovrano di infiggere, impunemente, punizione o morte: un sovrano che punisce o uccide sudditi innocenti non fa loro alcun torto. Ma perché il sovrano ha il diritto di punire o 107

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uccidere qualunque suddito indipendentemente dal fatto che questi sia innocente o colpevole? È indubbio che la teoria sull’origine della punizione sovrana proposta da Hobbes sia uno degli aspetti più oscuri e criptici della sua flosofa politica e che il flosofo stesso, nel Leviathan, ne offra delle interpretazioni spesso contraddittorie. Ciò che appare evidente nel capitolo 28, “Punizioni” e “ricompense”, è la mancata inclusione del diritto di punire in quel patto sociale tra suddito e sovrano che costituisce il passaggio dallo stato di natura alla società civile. Come sostiene il flosofo, i sudditi non possono “offrire in dono” al proprio sovrano il diritto di punirli, in quanto la legge naturale presuppone che nessun uomo potrà mai accettare supinamente un’azione che implicherà per lui un danno fsico o la morte: per esempio, anche quando un cittadino viene ritenuto colpevole di un crimine capitale questi mantiene il diritto di resistere fsicamente alla propria esecuzione. Per Hobbes, il diritto di punire si fonda in modo naturale sul primigenio diritto dell’uomo all’autoconservazione: ciò che defniamo “punizione” trae la sua origine dal diritto dell’uomo di fare tutto ciò che egli ritiene necessario per sopravvivere nello stato di natura, compreso infiggere offese fsiche a coloro che potrebbero minacciare la sua sopravvivenza. Nell’interpretazione hobbesiana del contratto sociale, l’uomo, una volta diventato parte della società, più che concedere semplicemente al sovrano il diritto di punirlo, rinuncia al suo naturale diritto di punire gli altri, contribuendo così a rafforzare il diritto proprio del sovrano: questi è l’unica persona nel Commonwealth che conserva, nella forma del diritto di punire, il diritto naturale di esercitare violenza per tutelare la propria vita e la vita di tutta la comunità (L, p. 214; tr. it. cit., pp. 254-255). Nella teoria di Hobbes della punizione sovrana, il teorico politico inglese cerca di articolare quel diritto fondamentale che si trova alla base di tutti i diritti sovrani: il potere di vita e di morte. È legittimo però sospettare che la sua difesa naturalistica della punizione – difesa che, in maniera poco plausibile, riporta l’intero ordine civile di sovrani e sudditi e di legge e crimine allo stato di natura – fnisca con il cadere vittima della nota accusa di Rousseau secondo cui tutti i flosof «che hanno esaminato i fondamenti della società, han sentito tutti la necessità di rimontare fno allo stato di natura, ma 108

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nessuno di loro vi è arrivato»4. Circa ottant’anni prima di Rousseau fu però Samuel von Pufendorf, per primo, a sostenere che ciò che Hobbes qui chiama stato di natura altro non sia che una proiezione retroattiva della stessa società civile, che confonde diritti naturali e diritti civili. Il diritto di esigere la punizione «differisce da quello di autoconservazione», osserva Pufendorf: «visto che il primo è esercitato su sudditi, è impossibile comprendere come esista già nello stato di natura, in cui nessun uomo è soggetto ad un altro»5. Nel più vasto contesto della teoria politica hobbesiana, la considerazione prettamente naturalistica che Hobbes fa della punizione sovrana pare contraddire la più generale teoria dell’autorizzazione esposta nel Leviathan; teoria che sistematicamente afferma che il suddito stesso è l’“autore” di tutti gli atti sovrani6. È signifcativo notare che se Hobbes, nel capitolo 28, insiste nel considerare il diritto naturale di punire come esplicitamente «non autorizzato» dal suddito, in altri passaggi dell’opera sembra però pronto a sostenere quasi l’opposto: la decisione del suddito, che è all’origine della società civile, di autorizzare il sovrano ad agire per suo conto pare quindi includere anche l’autorizzazione a punire e addirittura ad uccidere il suddito stesso. Come Hobbes mette ulteriormente in chiaro nel capitolo 21, La libertà dei sudditi, è lo stesso suddito-soggetto ad essere l’autore originario del diritto sovrano di punire ogni altro suddito: «ogni suddito è autore di tutti gli atti del sovrano, cosicché questi non manca mai del diritto di fare qualsiasi cosa» (L, p. 148; tr. it. cit., p. 178). L’argomentazione portata avanti da Hobbes secondo cui il diritto sovrano di punire ritrova le proprie origini nell’autorizzazione del suddito appare qui, in diversi modi, non meno circolare dell’altra sua posizione sulla fondazione di tale diritto nello stato di natura. Come vedremo di seguito, proprio questo argomento, che J.-J. Rousseau, Oeuvres complètes, voll. 1-5, a cura di B. Gagnebin e M. Raymond, Éditions Gallimard, Bibliothèque de la Pleiade, Paris 1959-1995, vol. III, p. 132; tr. it. Discorsi. Sulle scienze e sulle arti. Sull’origine della disuguaglianza negli uomini, introduzione e note di L. Luporini, traduzione di R. Mondolfo, BUR, Milano, p. 94. 5 S. von Pufendorf, De jure naturae et gentium, a cura di F. Böhling, Gesammelte Werke, Bd. 4, Akademie-Verlag, Berlin 1998, viii, 3, § 1. 6 Cfr. D. Hüning, Hobbes on the Right to Punish, cit. Nella lettura di Hüning è possibile individuare una “tension” (p. 231) tra la teoria dell’autorizzazione di Hobbes, per la quale il suddito concede al sovrano il diritto di agire per suo conto, e la sua teoria del diritto di punire, che vede l’esplicita assenza della concessione del “dono” da parte del suddito. 4

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riconduce il diritto sovrano di punire all’autorizzazione concessa dal suddito, rivela la complessa natura della domanda a cui il flosofo inglese fatica a rispondere: perché mai il suddito hobbesiano, che è amante della vita e che teme la morte, dovrebbe autorizzare un potenziale danno personale, o addirittura la propria morte? 2. Foucault e la nascita della punizione Nella lezione del 17 marzo 1976 tenuta al Collège de France, Michel Foucault espone pubblicamente per la prima volta la sua famosa teoria sulla nascita della biopolitica. Proprio in questa occasione, la teoria hobbesiana della punizione sovrana gioca un ruolo minore, ma estremamente signifcativo7. Appare indubbio che Foucault presenti in modo assiomatico la propria teoria politica in opposizione a quella del flosofo inglese, tanto da insistere, come noto, sulla necessità di «sbarazzarsi del modello del Leviatano» (IFDS, p. 26; tr. it. cit., p. 37). Ciò nonostante, il pensiero di Hobbes sul potere sovrano (di vita e morte) occupa una posizione cruciale nella narrativa foucaultiana, specialmente per quanto riguarda il passaggio dalla sovranità classica alla nascita della biopolitica. Sebbene Foucault generalmente dati il momento storico della nascita della biopolitica agli inizi del XIX secolo, è signifcativo notare come, nella lezione del 17 marzo, egli affermi apertamente che questa trasformazione (dalla sovranità alla biopolitica) era già in atto più di centocinquant’anni prima, all’interno del classico dibattito sull’affermazione della teoria del contratto sociale tra il XVII e il XVIII secolo (IFDS, p. 215; tr. it. cit., p. 208). Secondo Foucault, la concezione hobbesiana del diritto sovrano sulla vita e sulla morte rivela una paradossale somiglianza con l’origine del progetto biopolitico, che è infatti teso a preservare e massimizzare la “vita” biologica, e cioè, essenzialmente, a compromettere il diritto sovrano di punire. Ma perché, dunque, Foucault sostiene che teoria di Hobbes della punizione fnisce per distruggere sé stessa? Cfr. M. Foucault, “Il faut défendre la société”: Cours au Collège de France, 1976, Seuil/Gallimard, Paris 1997; tr. it. Bisogna difendere la società. Corsi al Collegio di Francia 1976, a cura di M. Bertani e A. Fontana, Feltrinelli, Milano 2009. I riferimenti successivi appaiono nel testo abbreviati con IFDS. 7

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In breve, Foucault ipotizza che la teoria del contratto sociale di Hobbes segni la nascita della vita biologica come fondamento del potere sovrano (anche se, va ricordato, il nome del flosofo inglese non compare nel testo, ma può essere desunto dalla discussione). È la preservazione dell’esistenza fsica dell’uomo che, ovviamente, costituisce la raison d’être di ciò che Hobbes, come noto, defnisce «la mutua relazione tra protezione o obbedienza» (L, p. 491; tr. it. cit., p. 578). Secondo il flosofo francese, il fatto che Hobbes riconosca nella preservazione della vita l’origine del contratto sociale rappresenta una piccola crepa che alla fne provocherà la distruzione defnitiva della teoria hobbesiana della sovranità. La “vita” – osserva Foucault – intesa come condizione indispensabile per il contratto sociale non può infatti essere inclusa in tale contratto: [Q]uando singoli individui si riuniscono per costituire un sovrano, per delegare a un sovrano un potere assoluto su di loro e stipulano un contratto sociale, per quale ragione lo fanno? Sicuramente perché sono spinti dal pericolo o dal bisogno. Di conseguenza lo fanno per proteggere la propria vita. È dunque per poter vivere che costituiscono un sovrano. Ma a queste condizioni, la vita può effettivamente entrare a far parte dei diritti del sovrano? Non è forse la vita a fondare il diritto del sovrano oppure il sovrano può effettivamente esigere dai suoi sudditi il diritto di esercitare su di loro il potere di vita e di morte, vale a dire, molto semplicemente, il potere di ucciderli? La vita, nella misura in cui è stata la ragione prima, originaria e fondamentale del contratto, non dovrebbe forse essere esclusa dal contratto? (IFDS, p. 215; tr. it. cit., p. 208).

Se la teoria del contratto sociale di Hobbes sembra conferire al sovrano un potere assoluto di vita e di morte sul suddito, tale assunto implica – secondo Foucault – che il diritto naturale del suddito alla vita necessariamente preceda e al contempo delimiti il potere sovrano di uccidere: ciò che viene defnito “diritto di punire” appare quindi contraddetto da quella stessa autorità – la vita – che presumibilmente ne costituisce il fondamento. Nella genealogia di Foucault la difesa hobbesiana del classico potere sovrano di far morire (faire mourir) e di lasciar vivere (laisser vivre) appare quindi come una sorta di ironica anticipazione del potere biopolitico, uguale ma rovesciato, di far vivere (faire vivre) e di lasciar morire (laisser mourir). Nella sua critica del diritto sovrano di punire, Foucault infatti sostiene che il diritto naturale del suddito alla vita costituisce una 111

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forma di resistenza vitalistica al potere del sovrano di uccidere. È indubbio che Foucault abbia assolutamente ragione nell’identifcare, all’interno del corpus hobbesiano, la presenza e lo sviluppo di ciò che potremmo defnire una difesa “proto-liberale” dei diritti dell’individuo contro il potere sovrano. Come già osservato, è ben nota l’insistenza di Hobbes nell’asserire che ogni suddito, al momento dell’ingresso nel Commonwealth, mantenga un diritto precontrattuale ed inalienabile all’autopreservazione fsica; un diritto che addirittura gli permette di disobbedire al sovrano nei casi in cui sia il sovrano stesso a metterlo in pericolo di vita, per esempio in caso di guerra, oppure di condanna alla pena capitale. Eppure, paradossalmente, ciò che la critica naturalista mossa da Foucault alla concezione hobbesiana e contrattualista omette è il fatto che per Hobbes il diritto di punire non ha origine nel contesto sociale, ma proprio nello stato di natura. Per ricordare sommariamente la posizione di Hobbes sulla questione, la punizione sovrana ha il suo naturale “fondamento” nel diritto precontrattuale dell’uomo all’autopreservazione; per questo motivo, l’autopreservazione in sé non può, come sostenuto da Foucault, essere considerata una difesa legittima contro la punizione sovrana (L, p. 214; tr. it. cit., pp. 254-255). Se Foucault ha ragione nell’asserire che la “vita” rimanga essenzialmente al di fuori del contratto sociale hobbesiano, il flosofo francese sbaglia, però, nell’insistere che tale vita non potrà mai diventare parte dei diritti del sovrano stesso. Al contrario, per Hobbes, la sovranità sulla vita e sulla morte è una diretta conseguenza del diritto originario e pre-politico dell’uomo alla vita: il flosofo inglese non sostiene semplicemente che il sovrano sia il depositario del diritto a lui concesso dal suddito nell’attualizzazione del contratto sociale, quanto piuttosto che preservi il proprio diritto naturale di punire chiunque in qualunque modo. In questo senso, la critica (naturalistica) del potere sovrano sulla vita e sulla morte che Foucault espone – secondo la quale la vita biologica è radicalmente esterna al contratto sociale – non riesce a spezzare completamente la circolarità del ragionamento hobbesiano sull’origine naturalista del diritto di punire. Entrambi i flosof si trovano in accordo nel posizionare il diritto naturale essenzialmente al di fuori del contratto, anche se i loro pensieri differiscono sul signifcato specifco di tale diritto.

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3. Agamben e il punire In Homo Sacer: Il potere sovrano e la nuda vita (1995), opera nella quale Giorgio Agamben presenta la sua mappatura della genealogia della biopolitica, alternativa rispetto a quella foucaultiana, la teoria hobbesiana della punizione sovrana non occupa, come nel caso di Foucault, una posizione signifcativamente marginale8. È vero che l’interpretazione di Agamben della teoria politica di Hobbes si sviluppa in maniera estesa attraverso l’intero progetto dell’Homo Sacer, dalla discussione sullo stato di natura nel primo volume (Homo Sacer), fno alla rilettura della guerra civile in Stasis (2015). È però l’analisi sul diritto di punire ad occupare una posizione centrale all’interno della sua peculiare teoria del potere sovrano. Se Foucault sostiene che attraverso (la “traccia” lasciata da) Hobbes possiamo identifcare una sorta di soglia storica tra sovranità e biopolitica, Agamben afferma che la teoria politica hobbesiana costituisce il paradigma del potere sovrano, in quanto già di fatto potere biopolitico (cfr. HS, p. 9). Secondo Agamben, la teoria hobbesiana del diritto sovrano di punire descrive non tanto la radicale esteriorità della vita biologica rispetto al potere politico, quanto invece l’esatto opposto: l’appropriazione politica della vita biologica da parte dello Stato attraverso l’istituzione dello stato di eccezione. Ma perché, allora, per Agamben – in opposizione a quanto sostenuto da Foucault – la punizione sovrana descritta da Hobbes non rappresenta tanto l’inizio della resistenza vitalistica, o naturale, al potere quanto piuttosto il momento in cui avviene la politicizzazione sovrana dello stato di natura (HS, p. 42)? Tornando alla lettura classica proposta da Agamben, possiamo vedere come la posizione naturalistica assunta da Hobbes nel defnire il diritto sovrano di punire – ovvero che il sovrano, primus super pares all’interno del Commonwealth, possieda il diritto naturale di agire con qualsiasi mezzo contro chiunque al fne di auto-preservare la propria posizione – giustifchi pienamente l’ipotesi centrale del progetto agambeniano, ossia che il potere sovrano consiste precisamente nella realizzazione di uno stato di eccezione tra natura e cultura. Cfr. G. Agamben, Homo Sacer: Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995. I riferimenti successivi appaiono nel testo abbreviati con HS. 8

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È importante notare, infatti, che in Hobbes lo stato di natura sopravvive alla persona del sovrano, che è l’unico a conservare il suo naturale ius contra omnes. La sovranità si presenta, cioè, come un inglobamento dello stato di natura nella società, o, se si vuole, come una soglia di indifferenza fra natura e cultura, fra violenza e legge – e proprio questa indistinzione costituisce la specifca violenza sovrana (HS, pp. 41-42). Se comunemente si ritiene che la teoria politica di Hobbes descriva il passaggio storico, giuridico e civile dallo stato di natura a quello civile – così come il passaggio dai diritti naturali a quelli civili attraverso la stipulazione ed accettazione del contratto sociale – Agamben correttamente osserva che, al contrario, il diritto hobbesiano di punire dipende dal fatto che lo stato di natura viene incorporato nel concetto di società: «il fondamento del potere sovrano non va cercato nella libera cessione, da parte dei sudditi, del loro diritto naturale, quanto piuttosto nella conservazione, da parte del sovrano, del suo diritto naturale di fare qualunque cosa rispetto a chiunque, che si presenta ora come diritto di punire» (HS, p. 118). Per Agamben, il diritto di punire teorizzato da Hobbes è quindi sintomatico del potere sovrano di istituire uno stato di eccezione tra natura e cultura nel quale la nuda vita diventa l’unico autentico soggetto politico (HS, p. 118). Nella lettura di Agamben, il Leviatano non è quindi tanto il primo “Artifcial Man”, quanto piuttosto l’ultimo, e più potente, homo lupus: «nella persona del sovrano, il lupo mannaro, l’uomo lupo dell’uomo, abita stabilmente nella città» (HS, p. 119). Nell’analisi curiosamente fedele all’originale, che offre della punizione sovrana, il flosofo italiano rafforza l’originale asserzione di Hobbes secondo cui il sovrano possiede un diritto naturale di vita e di morte, rovesciando così la critica foucaultiana: ciò che Foucault presenta come elemento di resistenza al potere sovrano – ovvero la vita – diventa qui l’oggetto che, di fatto, defnisce la sovranità. È precisamente accettando il ragionamento hobbesiano, secondo cui la punizione sovrana comincia nello stato di natura, che Agamben riesce a formulare la propria teoria della sovranità intesa come stato di eccezione tra natura e cultura. Agamben sembrerebbe quindi aver sviluppato la sua teoria in maniera opposta rispetto a Foucault: la vita non è essenzialmente al di fuori del potere politico, ma vi è invece ripiegata dentro, attraverso la forma del bando sovrano.

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Eppure, una domanda qui sorge spontanea: se la «lettura contrattualista» (contractual reading) di Foucault del pensiero hobbesiano è, per così dire, colpevole di trarre conclusioni troppo sbrigative sull’irriducibilità della vita rispetto al potere sovrano, è possibile supporre che Agamben commetta lo stesso errore, sebbene in forma opposta, “naturalizzando” interamente la punizione sovrana? È opportuno ricordare qui ancora una volta l’argomento principale di Hobbes, ovvero che la punizione sovrana si fonda sulla legge naturale di autoconservazione. Ciò che il flosofo inglese non sembra però riuscire a spiegare è il motivo per cui il diritto del sovrano di punire i propri sudditi possa essere visto come già esistente nello stato di natura – uno stato in cui, come Pufendorf ha notato, «nessun uomo è soggetto ad un altro». È dunque evidente che Agamben interpreta lo stato di natura hobbesiano non come una sorta di condizione, o momento genetico, né come uno stadio cronologico che precede l’avvento della società civile, ma piuttosto come un principio originario ed inerente alla società civile stessa, proiettato retroattivamente nel passato. Nonostante tale evidenza, è comunque possibile asserire che perfno tale concetto di “natura”, visto attraverso la lente dalla biopolitica, ricada all’interno dello stesso ragionamento circolare identifcato da Pufendorf: ciò che il sovrano nella società civile presumibilmente possiede – ossia il diritto all’autoconservazione – non è altro che il prodotto della sovranità stessa. È utile qui ricordare che Agamben vede il sovrano come l’ultimo lupo che resta a dimorare «stabilmente» nella città (HS, p. 119); questo però ci porta a considerare un’altra questione: è possibile che l’autentico, originario uomo-lupo possa dimorare «stabilmente» in ogni luogo, che possa vivere ma non morire, che possa amare la vita senza temerne la fne violenta e repentina, proprio come un lupo? In questo senso, la reinterpretazione in chiave biopolitica che Agamben fa della teoria naturalista hobbesiana del punire rischia di ripetere ancora una volta la fallace circolarità inerente alla teoria di Hobbes. Entrambi i flosof cercano di “ritornare” allo stato di natura, di riproporlo nella sua dimensione genetica, temporale o strutturale, ma nessuno dei due riesce davvero ad accedervi.

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4. Esposito e il punire Anche Roberto Esposito, nel suo libro Communitas (1998) – volume nel quale il flosofo espone la sua genealogia della biopolitica, divenuta ormai un punto di riferimento per gli studi in questo ambito – prende in considerazione le tesi di Hobbes, sviluppando una particolare posizione in merito allo jus puniendi9. La critica hobbesiana di Esposito continua e si sviluppa nei volumi successivi della sua trilogia politica, Immunità (2002) e Bios (2004), nei quali il concetto di punizione sovrana gioca un ruolo sostanziale nell’analisi del paradigma di immunizzazione. Come abbiamo già visto, Foucault ritiene che nell’opera di Hobbes si possa individuare una sorta di “punto di fuga” storico attraverso cui la sovranità trapassa in biopolitica, mentre Agamben intrepreta il pensiero del flosofo inglese come la spia rivelatrice di una più originaria dimensione biopolitica, latente nel concetto stesso di sovranità. Esposito, invece, vede in Hobbes un precursore della concezione moderna della sovranità, la quale «non sta né prima né dopo la biopolitica, ma ne taglia l’intero orizzonte fornendo la più potente riposta ordinativa al problema moderno dell’autoconservazione della vita»10. Nell’interpretazione di Esposito, la teoria della punizione sovrana di Hobbes non rappresenta né la semplice uscita dal pre-politico stato di natura (Foucault), né la politicizzazione dello stesso stato di natura (Agamben), quanto piuttosto un processo dialettico attraverso cui la vita si protegge dai propri eccessi e instabilità per mezzo della parziale negazione di sé stessa: «La conservazione passa per la sospensione, o l’estraneazione, di ciò che deve conservare» (B, p. 56). Perché, dunque, Esposito sostiene – contra Foucault e Agamben – che la punizione sovrana teorizzata da Hobbes non consiste né nella negazione del potere politico sulla vita né nell’inclusione della vita nella polis, quanto piuttosto in ciò che egli defnisce «auto-immunizzazione della vita»? Riportando qui in sintesi la complessa lettura che Esposito fa di Hobbes, è possibile sostenere che il diritto di punire rappresenti, per il flosofo italiano, il paradigma di “immunizzazione” politiCfr. R. Esposito, Communitas: Origine e destino della comunità, nuova edizione ampliata, Einaudi, Torino 2006. I riferimenti successivi appaiono nel testo abbreviati con C. 10 Id., Bios: Biopolitica e flosofa, Einaudi, Torino 2004, pp. 54-55. I riferimenti successivi appaiono nel testo abbreviati con B. 9

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ca dell’uomo nei confronti della guerra di tutti contro tutti (bellum omnium contra omnes); tale paradigma è visto da Esposito come la forma originaria della “comunità” (communitas) umana teorizzata da Hobbes. Il contratto sociale verrebbe stipulato, quindi, proprio per proteggere l’umanità da quella capacità universale di uccidere ed essere uccisi – capacità che Hobbes vede come l’unico aspetto che ci accomuna nello stato di natura. Di conseguenza, l’istituzione di una comunità non deve essere letta semplicemente come l’aggregazione di diverse genti in un unico popolo, quanto piuttosto come «la dissociazione di ogni legame comunitario […] l’abolizione di qualsiasi relazione sociale estranea allo scambio verticale protezione-obbedienza» (C, p. xxii). L’intuizione di Esposito, che qui appare più signifcativa per la nostra analisi, consiste però nell’aver riconosciuto nel contratto sociale una sorta di “culto del sacrifcio”, e non semplicemente la transizione pacifca dai diritti naturali a quelli civili: «[c]iò che è sacrifcato è precisamente il cum che è la relazione tra gli uomini – e perciò, in qualche modo, gli uomini stessi. Essi sono paradossalmente sacrifcati alla loro sopravvivenza» (C, p. xxiii). Per Esposito questa «piramide del sacrifcio» si trova al centro pulsante del contratto sociale, un contratto in cui uccisione e preservazione coincidono senza resti nella teorizzazione hobbesiana del diritto di punire: Può accadere, dunque, e spesso accade negli Stati, che un suddito venga messo a morte per comando del potere sovrano; ciononostante nessuna delle due parti fa torto all’altra. Così, nel caso di Iefte che fece sacrifcare la propria fglia, e in casi analoghi, colui che muore aveva la libertà di compiere l’azione per la quale viene nondimeno messo a morte senza [che gli si faccia] torto. La stessa cosa vale anche per un principe sovrano che mette a morte un suddito innocente (L, p. 148; tr. it. cit., p. 178, citato in C, p. 19).

Se è vero che sia Foucault che Agamben offrono una lettura naturalistica della punizione sovrana elaborata da Hobbes, ciò che è importante osservare nell’approccio di Esposito è il modo in cui egli prende in considerazione in chiave biopolitica un aspetto meno noto, “notturno”, della teoria hobbesiana della punizione sovrana, che lo stesso flosofo inglese discute nel capitolo La libertà dei sudditi. Secondo Hobbes ciò che defniamo diritto di punire non deriva esclusivamente dal mantenimento del naturale diritto di autopreservazione quanto piuttosto dalla decisione dei sudditi, all’interno del Commonwealth, di autorizzare il sovrano ad agire per loro conto, 117

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anche se ciò implica l’autorizzazione a punirli o a condannarli a morte. In quanto il suddito, attraverso questo scambio, diventa autore di un possibile futuro danno alla propria persona, o addirittura artefce della propria morte, è lecito reinterpretare la punizione sovrana come una forma di autopunizione esercitata dal suddito attraverso la persona del sovrano. In questo senso, ciò che emerge dalla discussione precedente è una sorta di triangolazione interpretativa del diritto di punire, alla quale Esposito aggiunge, alle tesi sviluppate da Foucault e Agamben, una terza immagine o lettura: egli cioè riconcettualizza la punizione non come una semplice negazione dei diritti naturali con l’imposizione di diritti civili (Foucault), né come la conservazione dei diritti naturali nella forma di diritti civili (Agamben), ma piuttosto come una procedura immunologica nella quale il diritto naturale all’autoconservazione è protetto attraverso la negazione dello stesso nella forma del diritto civile al sacrifcio (cfr. C, p. xxiii e B, p. 56). È quindi la teoria di Hobbes della punizione-autorizzazione, non tanto la sua teoria naturalistica, a giustifcare la critica di Esposito: ciò che il flosofo italiano riconosce nella prima è infatti la presenza di un dispositivo in cui, abbastanza esplicitamente, la vita si tutela e si protegge dai suoi innati eccessi attraverso l’auto-introiezione della propria privazione. Ciò che però appare più rilevante per lo scopo del presente studio è la risposta provocatoria che Esposito offre alla domanda centrale posta dalla teoria hobbesiana dello ius puniendi: perché mai il soggetto/suddito, che si dice governato dal naturale amore per la vita e timore della morte, dovrebbe autorizzare una situazione potenzialmente pericolosa, se non addirittura fatale, per la propria vita? Ritornando all’argomento specifco, ripreso da Esposito in Communitas, un sovrano che punisce un suddito innocente è da considerarsi sullo stesso piano di Iefte di Galaad, che, come si legge nel Libro dei Giudici, sacrifcò la propria fglia: Può accadere, dunque, e spesso accade negli Stati, che un suddito venga messo a morte per comando del potere sovrano; ciononostante nessuna delle due parti fa torto all’altra. Così, nel caso di Iefte che fece sacrifcare la propria fglia (L, p. 148; tr. it. cit., p. 178)11. Per una lettura dell’interpretazione hobbesiana della storia di Iefte e della fglia, v. A. Bradley, Let the Lord the Judge be Judge: Hobbes and Locke on Jephthah, Martyrdom 11

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In questo senso, il fondamento del diritto sovrano di punire non risiederebbe nello stato di natura, quanto piuttosto nel “sacrifcio civile” (civil self-sacrifce) compiuto (dai sudditi) per permettere alla comunità di sopravvivere: come è noto, infatti, è la stessa fglia di Iefte che autorizza il padre a ucciderla per consentirgli di non infrangere il voto da lui fatto a Dio e per proteggere il popolo di Israele dagli invasori Ammoniti. Per Hobbes, il fatto che la fglia di Iefte decida di sacrifcare il proprio diritto individuale alla vita per tutelare la vita della comunità rappresenta il paradigma che riconosce nel suddito l’autore di ogni atto sovrano – atto che include anche la punizione, o la condanna a morte, del suddito stesso, se questa è necessaria per la sopravvivenza dello Stato. Nell’analisi hobbesiana, la nascita della comunità politica, ovvero del Commonwealth, non è quindi segnata dalla stipulazione di un contratto sociale, né dal mutuo scambio di protezione e obbedienza, ma da un qualcosa che è più vicino al concetto di culto, o rituale sacrifcale. Ciò che stabilisce un ordine politico nella società non è il freudiano «crimine primordiale» – l’assassinio del padre –, bensì la teologica uccisione della fglia, un’uccisione che però avviene, virtualmente, per mano della stessa fglia, attraverso un autosacrifcio compiuto dalla persona del padre. 5. Teologia politica della pena Nella lettura che Esposito propone della teoria della punizione sovrana, in cui, come abbiamo visto, l’elemento sacrifcale è centrale, possiamo intravedere una nuova genealogia teologico-politica dello ius puniendi. È opportuno ricordare che, ancora oggi, la teoria hobbesiana della pena è comunemente considerata come l’incipit non solo del moderno codice penale, ma anche del moderno Stato secolare. È una teoria di rottura con il passato che si distanzierebbe dalle precedenti teorie teologiche sulla pena proposte, ad esempio, and Liberalism, «Law, Culture and the Humanities», maggio 2017, pp. 1-20. Questo in breve il racconto biblico: Iefte di Galaad promette a Dio che, se vincerà la battaglia contro gli Ammoniti, offrirà in sacrifcio la prima cosa che si presenterà alla sua porta dopo la vittoria. Questa promessa porta però a tragiche conseguenze, perché quando Iefte ritorna a casa dopo la battaglia ad accoglierlo alla porta è la sua stessa fglia. Nello scioccante concludersi della vicenda, vediamo la fglia di Iefte offrire al padre la soluzione nella diffcile scelta tra l’uccidere la propria fglia e l’infrangere la promessa fatta a Dio: la giovane si offre in sacrifcio così che il padre possa ucciderla onorando in questo modo la sua promessa.

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da Tommaso d’Aquino o Francisco de Vitoria, attraverso la netta distinzione che Hobbes traccia tra giustizia terrena e giustizia divina, crimine e peccato, atti pubblici e credenze private12. Secondo Hobbes, il diritto sovrano di punire può essere esercitato solo in relazione agli atti pubblici – parole, segni e azioni palesi – che sono espressamente proibiti da una legge statale precedentemente promulgata; gli atti privati, quali intenzioni, opinioni o credenze che non si manifestano in segnali visibili e intellegibili, sono invece esenti da ogni punizione13. Se il sovrano che punisce un suddito innocente non fa alcun torto (cfr. L, p. 148; tr. it. cit., p. 178), come sostenuto più volte dal flosofo in La libertà dei soggetti, è perché egli ha, in questo caso, semplicemente commesso un peccato privato, personale, contro la legge naturale, e non tanto un reato, un crimine pubblico contro la legge dello Stato: «Chiunque al comando del suo sovrano uccida un innocente, non commette un crimine, proprio perché non ha l’autorità per giudicare da sé tra un’azione giusta e un’azione ingiusta, una questione che solo il sovrano ha il potere di decidere»14. L’analisi di Esposito della teoria hobbesiana della punizione giuridica riconduce tale teoria ad un paradigma teologico e sacrifcale di ascendenza biblica. In questo senso, l’interpretazione del flosofo italiano deve essere letta come un tentativo di problematizzare, in maniera radicale, la divisione tra peccato e crimine, religione e politica e, soprattutto, tra sfera privata e sfera pubblica. A questo punto è lecito domandarsi: in che modo questa lettura in chiave sacrifcale del diritto di punire ridefnisce la fgura di Hobbes come architetto concettuale dello stato moderno? Il fatto che il flosofo inglese utilizzi il riferimento alla fglia di Iefte per legittimare la propria teoria della punizione sovrana è estremamente signifcativo, in quanto tale episodio biblico pare mettere in discussione le fondamenta concettuali della sua visione politica. È alquanto disorientante, infatti, cercare di comprendere perché un teorico politico che ha stabilito la propria flosofa Cfr. F. Gunert, Theologien der Strafe. Zur Straftheorie von Thomas von Aquin und ihrer Rezeption in der spanischen Spatscholastik: das Beispiel Francisco de Vitoria, in H. Schlosser e D. Willoweit (a cura di), Neue Wege strafrechtlicher Forschung, Böhlau Verlag, Koln/Weimar/Wien 1999, pp. 313-332. 13 Cfr. D. Hüning, Hobbes on the Right to Punish, cit., pp. 217-218. 14 Ivi, p. 221. 12

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sulla legge naturale dell’autoconservazione, che si è ripetutamente cimentato nel tentativo di separare il religioso dal politico, e che ha addirittura rinnegato la possibilità di abnegazione religiosa e la legittimità del martirio, fondi la propria teoria dell’obbligazione politica su una fgura biblica e martirologica, che sacrifca sé stessa per il suo credo15. Come ha osservato John L. Thompson, infatti, la fgura di Iefte è stata interpretata, da Origene di Alessandria in poi, come una martire proto-cristiana, la cui sofferenza e morte anticipano la passione di Cristo16. Questa lettura presuppone un’ulteriore complicazione della teoria hobbesiana della presunta “secolarizzazione” della pena, nella quale peccato e crimine vengono, per la prima volta, assegnati rispettivamente alla sfera privata e a quella pubblica. È opportuno ricordare che l’atto di pubblica abnegazione religiosa compiuto dalla fglia di Iefte, il sacrifcio offerto per l’espiazione dei peccati del padre, è per Hobbes il prototipo teologico della sua teoria dell’autorizzazione, che include logicamente il diritto di punire. Se il sacrifcio della fglia di Iefte è dunque all’origine della teoria hobbesiana, che vede il suddito come colui che autorizza ogni atto del sovrano, e questa, a sua volta, è all’origine della punizione sovrana, allora la genealogia hobbesiana del diritto di punire necessita di una sostanziale revisione e di un radicale capovolgimento. In totale contraddizione con il pensiero hobbesiano, il sacrifcio appare costituire l’origine stessa della pena, il peccato originale anticipa il crimine, e il diritto di punire esiste prima dell’entrata in vigore retroattiva della legge dello Stato. La teoria della punizione sovrana di Hobbes è di solito considerata il primo passo verso una nuova genealogia teologico-politica che non riguarda semplicemente la problematica del reato e della pena, quanto piuttosto la fondazione stessa dello Stato moderno, Nel Leviathan, Hobbes sostiene che un “martire”, dal greco μάρτυς, è colui o colei che, etimologicamente e storicamente, “testimonia”, e non tanto la vittima di persecuzione religiosa. A rigore di termini, un martire cristiano può solo essere qualcuno che ha fsicamente testimoniato la resurrezione di Cristo. In questo modo, Hobbes esclude la possibilità che un cristiano dopo il primo secolo venga defnito martire/testimone di Cristo. Per un approfondimento dell’interpretazione del martirio, v. A. Bradley, Let the Lord the Judge be Judge, cit. 16 Cfr. J. L. Thompson, Righting the Wrongs: Women in the Old Testament among Biblical Commentators from Philo through the Reformation, Oxford University Press, Oxford 2001. 15

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razionale e secolare – il Rechtsstaat. Il presente saggio ha sviluppato un’ipotesi alternativa: l’interpretazione offerta da Esposito del diritto di punire per mezzo dell’autorizzazione del suddito rende più esplicita quella che potremmo chiamare una logica sacrifcale, o martirologica, che è alla base della stessa sovranità moderna: la fglia di Iefte, che spontaneamente e liberamente offre la propria vita per il bene della comunità, rappresenta l’oscuro paradigma teologico del cittadino moderno. Non è quindi semplicemente l’amore per la vita e la paura della morte, come sostenuto da Hobbes, a dare forma e sostanza alla società, quanto piuttosto ciò che potremmo defnire amore per la morte. La classica visione di Hobbes, Locke, e altri teorici del contratto sociale, secondo la quale tale contratto si fonda sul mutuo scambio di protezione e obbedienza tra suddito e sovrano, appare qui rovesciata in un’economia o dialettica del sacrifcio, che è la vera essenza della cittadinanza, e in cui il suddito accetta volontariamente la possibilità di una morte violenta per mano del sovrano17. Il pensiero hobbesiano sembra quindi gettare le basi per una economia del sacrifcio. Sarà però poi Rousseau, ne Il Contratto Sociale, e in particolare nel capitolo Sul diritto di vita e di morte, in cui il flosofo ginevrino sviluppa la sua teoria sulla punizione sovrana, a rendere il paradigma sacrifcale ben più esplicito. Secondo Rousseau, seguendo quella logica ormai (a noi) familiare, il cittadino autorizza il sovrano ad infiggere la pena e a condannare a morte, se ciò risulta necessario per la preservazione dello Stato: Il trattato sociale ha come fne la conservazione dei contraenti. Chi vuole il fne vuole anche i mezzi, e questi mezzi sono inscindibili da qualche rischio, e anche da qualche perdita. Chi vuole conservare la propria vita a spese degli altri deve anche darla per loro, quando occorra. Ora, il cittadino non può giudicare il pericolo a cui la legge vuole che si esponga, e quando il principe gli ha detto: «Lo Stato ha bisogno che tu muoia» deve morire; poiché solo a questa condizione ha vissuto sicuro fno allora, e la sua vita non è più soltanto un benefcio della natura, ma un dono condizionato dello Stato18.

Cfr. A. Bradley, Let the Lord the Judge be Judge, cit., pp. 1-20. J.-J. Rousseau, Du contrat sociale, ou principes du droit politique, P. Bergelin (a cura di), Garnier/Flammarion, Paris 1992, p. 60; tr. it. Contratto sociale, a cura di A. Illuminati, La Nuova Italia, Firenze 1980, p. 25. 17 18

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Sebbene anche la teoria del contratto sociale di Rousseau stabilisca una divisione netta tra il religioso e il politico – associando l’uno alla sfera pubblica e l’altro a quella privata, e persino proibendo il sacrifcio religioso perché politicamente inaccettabile19 – è quantomeno sorprendente osservare che, proprio come nel caso di Hobbes, questa logica sacrifcale non sia affatto superata quanto piuttosto assimilata all’interno della stessa teoria della pena sovrana concessa per autorizzazione. In altre parole, la cittadinanza è concepita come una sorta di “peccato originale” dello stato civile che necessita una espiazione futura, ovvero un sacrifcio che assume la forma di una pena potenziale o della condanna a morte. Per ricondurre questo processo storico di “martirizzazione del cittadino” alla sua evoluzione contemporanea, vorrei concludere il presente contributo con un breve riferimento al lavoro dello studioso americano Paul Kahn. Questi infatti ha messo in rilievo un fenomeno allarmante che si è affermato nel discorso politico della cosiddetta Guerra al Terrore: il “sacrifcio del cittadino”. Ogni cittadino, anche un civile completamente innocente che si trova malauguratamente sul treno o aereo sbagliato nel momento sbagliato, è oggi chiamato ad offrire la propria vita come “sacrifcio supremo” per il bene dello Stato20. Siamo forse diventati tutti fgli di Iefte? (Traduzione dall’inglese di Benedetta Liorsi)

19 Cfr. Id., Oeuvres complètes, cit., vol. IV, pp. 970-971; tr. it. Lettere morali, a cura di R. Vitiello, Editori Riuniti, Roma 1978, p. 69. Scrive Rousseau: «Non ho mai detto né pensato che non esiste nessuna religione buona sulla terra, ma sostengo – ed è fn troppo vero – che non ce n’è alcuna tra quelle che sono o che sono state dominanti che non abbia prodotto piaghe crudeli all’umanità. Tutti i partiti hanno tormentato i propri fratelli, tutti hanno offerto a Dio sacrifci di sangue umano. Quale che sia la fonte di queste contraddizioni, esse esistono: è un delitto il volerle eliminare?». 20 Cfr. P. W. Kahn, Political Theology: Four New Chapters on the Concept of Sovereignty, Columbia University Press, New York 2011, p. 156.

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Il dibattito tedesco

Hegel. Dentro e fuori la teologia politica Stefania Achella

1. Hegel dentro la teologia politica Nel concludere la presentazione al lettore della Politische Theologie II Carl Schmitt scrive: «La prosecuzione tematico-oggettiva del mio scritto Teologia Politica del 1922 corre in una direzione generale, che inizia con lo jus reformandi del XVI secolo, trova in Hegel il suo culmine e oggi è dappertutto riconoscibile: dalla teologia politica alla cristologia politica [von der Politischen Theologie zur Politischen Christologie]»1. La flosofa hegeliana, secondo Schmitt, rappresenterebbe la punta più alta del movimento di autonomizzazione del mondo dal sacro, di demitizzazione e immanentizzazione della divinità, espressione di quel razionalismo dialettico che, nello spirito della riforma, aveva fatto discendere all’interno della comunità la sovranità del potere. Attribuendo centralità alla fgura di Cristo in quanto uomo, Hegel aveva svuotato la trascendenza della sua sacralità, rifettendola nella comunità politica terrena. Se si rilegge il celebre paragrafo 552 dell’Enciclopedia, dedicato proprio alla relazione dello Stato con la religione, il flosofo si mostra consapevole di questo passaggio: Con l’introdursi dello spirito divino nella realtà, e con la liberazione della realtà nello spirito divino, ciò che nel mondo dev’essere santità viene sosti1 C. Schmitt, Politische Theologie II: Die Legende von der Erledigung jeder Politischen Theologie, Duncker & Humblot, Berlin 2008, p. 11; tr. it. a cura di A. Caracciolo, Teologia politica II: la leggenda della liquidazione di ogni teologia politica, Giuffrè, Milano 1992, p. 5. Per un confronto puntuale tra Hegel e Schmitt sul tema del teologico-politico si veda il volume di Davide Pirozzo, La questione della teologia politica. Linee per un confronto tra Hegel e Schmitt, Stamen, Roma 2013, al quale ci siamo riferiti in più passaggi nella costruzione di questa prima parte del saggio.

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tuito dalla eticità. In luogo del voto di castità, solo il matrimonio vale come etico, e quindi la famiglia come ciò che vi ha di più alto per questo aspetto dell’uomo […] in luogo del voto dell’ubbidienza, vale l’ubbidienza verso la legge e le istituzioni legali dello Stato, che è la vera libertà, per cui lo Stato è la vera e propria ragione che si realizza2.

Sembra di assistere a una fenomenologia della trasvalutazione dei valori, alla fne della quale Hegel chiarisce: «lo spirito divino deve compenetrare in modo immanente la vita mondana: così la saggezza diventa concreta in questa vita e fa che porti in sé stessa la sua giustifcazione»3. L’immanentizzazione del principio del legame sociale e l’orizzontalità della giustifcazione razionale assegna quindi alle istituzioni statali il potere del Dio in terra, traduzione giuridica di principi precedentemente proiettati in una dimensione teologica. Così, il legame tra religione e politica è chiarito in modo inconfutabile. Non è più il Dio delle lontananze a determinare la forma della comunità, ma il Dio fattosi uomo; non più il modello della teologia ebraica, ma quello della agape cristiana. Mentre l’impianto teologico veterotestamentario è sinonimo per Hegel di un assoggettamento della spiritualità a strutture gerarchiche e dottrinali che lasciano sprofondare nella schiavitù l’aspirazione della coscienza alla libertà, la forma della comunità cristiana ispira una dimensione politica in cui il potere è tradotto all’interno della comunità stessa. Le parole di Schmitt sembrano dunque rappresentare in modo chiaro il passaggio che si compie con la flosofa hegeliana. È nei numerosi scritti hegeliani pre-sistematici che si assiste a questa trasformazione che approda all’idea dell’autonomia della fondazione della politica dalla ragione teologica. Eppure proprio il modello della religione cristiana resta costantemente presente, soprattutto in questi frammenti giovanili, composti tra gli anni di Tubinga e quelli di Francoforte, in cui si pongono le basi per la costruzione, per dirla con Schmitt, della cristologia politica hegeliana4. Per comprendere a pieno que2 G. W. F. Hegel, Enciclopedia delle scienze flosofche in compendio, tr. it. a cura di B. Croce, Laterza, Roma-Bari 1994, § 552, pp. 530-531. 3 Ivi, p. 531. 4 Se in Hegel prevalga un modello di teologia politica à la Schmitt, o una teologia politica verticale, come sostenuto da Taubes, resta diffcile da giudicare. Come cercheremo di mostrare, permane soprattutto nei frammenti giovanili di Hegel sia il riferimento a un potenziale teologico dei concetti giuridici che a un potenziale giuridico dei concetti teo-

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hegel. dentro e fuori la teologia politica

sto aspetto l’analisi dei frammenti giovanili di Hegel è un passaggio obbligato. Infatti, solo dopo aver maturato la consapevolezza che la religione, anche nelle sue forme più innovative, non poteva bastare a superare la scissione che si era verifcata tra vita pubblica e vita privata, tra individuo e comunità, Hegel avrebbe posto mano alla strutturazione del suo sistema scientifco. Nei frammenti giovanili invece egli è ancora incerto su quale soluzione trovare alla diffcoltà politica del moderno ed è per questo che le più interessanti rifessioni sul rapporto tra teologia, religione e politica si trovano proprio in queste pagine. Fin da subito Hegel riconosce che se la religione può contribuire alla costituzione di una buona comunità politica, il ruolo che la teologia tende ad assumere rispetto alla vita pubblica deve invece essere criticato5. Su questo aspetto è interessante lo scambio epistolare tra Hegel e Schelling, da poco usciti dallo Stift tubinghese. Hegel, che aveva rifutato di seguire la carriera ecclesiastica, è costretto a malincuore ad accettare il ruolo di precettore in una famiglia bernese. In questi anni, quindi, il dialogo con Schelling rappresenta un modo, seppur indiretto, per il giovane precettore di tenersi al centro della scena flosofca. Oggetto dello scambio epistolare che si tiene all’inizio del 1795 è il connubio tra teologia e kantismo che si è affermato nello Stift di Tubinga. Rispondendo a una lettera schellinghiana in cui il giovane amico si lamentava del nuovo indirizzo dominante nello Stift6, Hegel scrive: logici. Anche se il tentativo hegeliano è quello di autonomizzare la ragione nella fondazione dei principi giuridici da ogni fonte teologica, il ruolo della religione resterà sempre importante. Sulla differenza tra la concezione della teologia politica di Schmitt e quella di Taubes, cfr. E. Stimilli, Origine e sviluppi del concetto di “teologia politica” in Jacob Taubes. Un confronto con Carl Schmitt, in Il Dio mortale. Teologie politiche tra l’antico e il moderno, a cura di G. Filoramo e P. Bettiolo, Morcelliana, Brescia 2002, pp. 425-443. 5 La religione per Hegel ispira i modelli di strutturazione del politico e al tempo stesso permea, attraverso la sua dimensione rappresentativa, il senso della comunità. I rapporti al centro della sua analisi sono quelli tra i modelli ebraico, greco e romano. La struttura più o meno democratica di queste religioni determina una analoga strutturazione della comunità politica: il terrore e tremore dello stato ebraico, la distanza tipica della religione romana, la partecipazione alla base della religiosità/mitologia greca. Questo aspetto viene nuovamente accentuato nell’Enciclopedia, dove Hegel chiarisce che è impossibile pensare di raggiungere una istituzione statuale libera se alla base resta una religione della schiavitù (che egli individua di fatto nel cattolicesimo, rispetto al quale pone l’esigenza di una riforma della religione). Cfr. ibid. 6 Nella lettera della sera dell’Epifania del 1795 Schelling scrive, a proposito dei teologi dello Stift: «[…] a dire il vero essi hanno estratto alcuni ingredienti del sistema kantiano

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Non c’è da meravigliarsi per quanto mi dici dell’indirizzo teologico-kantiano (si diis placet) della flosofa a Tübingen. Non si può scuotere l’ortodossia, fnché la sua professione, così legata ai vantaggi mondani, resterà intrecciata nell’intero di uno Stato […]. Finché dura, l’ortodossia avrà al suo servizio tutta la truppa sempre più numerosa dei servili ripetitori […]. Ma credo che sarebbe non privo d’interesse recare disturbo quanto più è possibile a questi teologi che se ne stanno intenti con il loro zelo di formiche a procurarsi un’impalcatura critica per il consolidamento del loro tempio gotico.7

L’intreccio tra teologia e potere temporale, ammantando l’ortodossia di sapere critico, infastidisce dunque il flosofo, che fn dai suoi scritti giovanili pensa a una religione della libertà, dove al Dio della teologia veterotestamentaria si sostituisca Gesù come mediatore nel rapporto comunitario. L’ordine del rapporto tra religione e politica non è però univoco: se infatti la religione sembra offrire gli strumenti metafsici alla politica, non è assente una visione politica del teologico8. Muovendo dalla necessità di restituire all’uomo una comunità integra, in molti passaggi Hegel non si rifà allo schema del primato metafsico-religioso su quello politico, quanto piuttosto all’inverso. Del resto, nonostante la ricchezza di questi frammenti, l’elemento della critica alla trascendenza resta costante. In essi si va dalla celebrazione della vitalità della religione greca, segnata dalla presenzialità e dalla vita, alla critica della rappresentazione e della morte proprie del cristianesimo, dalla critica alla positività, all’equiparazione tra Gesù e Socrate come compagni destinali, contrassegnati da un sapere pratico, fno a omettere, volutamente, nella narrazione della vita di Gesù, il riferimento a qualsiasi miracolo. Religione privata, religione pubblica, religione del popolo sono tutte categorie che si affancano e si succedono, segnate dalle intuizioni laiche di Reimarus, dalle interpretazioni antisoprannaturaliste di Flatt, dalla critica al pietismo e al tempo stesso dall’opposizione all’antipieti(della superfcie, s’intende), da cui ora tamque ex machina vengono apprestati intorno a quemcumque locum theologicum, decotti flosofci tanto vigorosi che la teologia che già cominciava a intisichire, presto si leverà più sana e più forte che mai. Tutti i possibili dogmi sono ora già qualifcati come postulati della ragione pratica, e dove le dimostrazioni storico-teoretiche non si rivelano più bastevoli, lì la ragione pratica (tubinghese) recide il nodo», in G. W. F. Hegel, Epistolario I, tr. it. a cura di P. Manganaro, Guida, Napoli 1983, pp. 106-107. 7 Lettera del gennaio 1795 di Hegel a Schelling, ivi, pp. 109-110. 8 Invertendo la posizione di Schmitt, Jan Assmann sostiene infatti che «tutti i concetti pregnanti della teologia sono concetti politici teologizzati»: cfr. J. Assmann, Non avrai altro Dio. Il monoteismo e il linguaggio della violenza, il Mulino, Bologna 2007, pp. 32 sgg.

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smo, fno ad aderire a un orizzonte normativo, di segno kantiano, in cui antistoricamente i comandamenti diventano la riproposizione in chiave religiosa dell’imperativo categorico9. Eppure, un elemento resta comune, la ricerca di categorie e concetti che esprimano la natura immanente dei valori, dei principi, delle regole delle istituzioni. Se il principio di razionalità operante nella religione cristiana, che Hegel avrebbe poi tradotto nel suo sistema flosofco, si origina da queste rifessioni sulla religione, esso è riconducibile proprio a questo interesse originariamente politico. Per essere più chiari: se è vero che fn dagli anni giovanili la religione cristiana si presenta come il sostrato metafsico di una rifessione politica, non è d’altro canto fuorviante pensare a una fondazione politica delle istanze metafsiche: è infatti la ricerca di un principio politico unitario a trovare nella religione una delle sue forme di incarnazione. In realtà, queste due vie si incrociano negli scritti del giovane Hegel. Se la religione rappresenta un modello per il pensiero politico, allo stesso tempo il flosofo non smette di cercare una ragione che sia una formulazione autonoma e creativa, per dare una risposta alle questioni lasciate aperte dalla modernità, in direzione di una autolegittimazione della ragione, che rivendichi una radicale indipendenza da ipoteche religiose. Se la rifessione sulla religione appare profondamente legata al politico e offre alla politica, come alla flosofa, alcune categorie fondanti, su un altro versante, nella defnizione della genealogia del religioso, Hegel sottolinea in più occasioni la sua derivazione da istanze politiche, la sua funzione originariamente mitopoietica, al fne del mantenimento dell’ordine nelle e tra le comunità. Starebbe qui la sfda, presente nel breve frammento, situato a cavallo tra il 1796 e il 1797, che Rosenzweig, pubblicandolo nel 1917, intitolò Das älteste Systemprogramm des deutschen Idealismus10. In questo Per una ricostruzione dettagliata delle diverse infuenze e dei differenti orientamenti presenti negli scritti del giovane Hegel, cfr. S. Achella, Tra storia e politica. La religione nel giovane Hegel, Editoriale Scientifca, Napoli 2008. 10 Mythologie der Vernunft. Hegels ältestes Systemprogramm des deutschen Idealismus, hrsg. von Ch. Jamme u. H. Schneider, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1984. In questo volume è pubblicata l’edizione critica del testo, ma sono stati anche ripubblicati alcuni tra i principali contributi su questo tema, tra cui saggi di Rosenzweig, Pöggeler e Henrich. Questo frammento si mostra oscuro per molti aspetti. Non è certa la datazione e non è certa l’attribuzione, se cioè si tratti di Hegel, di Hölderlin o di Schelling. Pare che il manoscritto sia stato redatto di pugno da Hegel, ma non si sa se sotto dettatura. 9

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frammento la religione viene affancata all’arte, alla mitologia. Essa appare come lo sforzo di salvaguardare un racconto nazionale, un racconto che, come la Bibbia, si mostri capace di parlare a chiunque, una nuova religione al servizio della politica11. Ma a partire dalla fne del soggiorno francofortese questa subordinazione del teologico al politico – questo movimento di politicizzazione del teologico – scompare: e la religione politica si mostra nel suo carattere di teologia politica. Rispetto all’orizzonte ancora ambiguo degli anni giovanili, ora il mutamento si collega a un riposizionamento rispetto al cristianesimo riformato che assume per Hegel tutt’altro peso teorico: la cristianità ha cambiato completamente lo schema interpretativo della storia, introducendo la soggettività, l’individuo, la persona. I valori della cristianità primitiva si innestano sulla struttura luterana, affancando alla progressiva denaturalizzazione del sacro una spiritualizzazione del mondo: il teologico perde la sua esteriorità e autorità trascendente, incarnandosi nel Figlio esso «perde la sua natura misteriosa, per rivelarsi come spirito consapevole di sé e legame immanente tra gli uomini – lo spirito inteso come ragione collettiva conoscente e agente»12. Siamo ora del tutto all’interno dello schema della teologia politica cristiana – come sottolinea Jean-François Kervégan13 – e del riconoscimento del ruolo del cristianesimo come realizzazione compiuta del religioso. L’esito lo conosciamo, è il famoso verdetto di Fede e sapere: Dio è morto. Gott ist tot! Morto qui è quel Dio delle distanze e delle lontananze. Al Dio kantiano, ancora inteso come «un Dio che si fa Il duplice processo presente in Hegel è, stando all’interpretazione che Vitiello dà della teologia politica, una duplicità iscritta all’interno stesso dello statuto di teologia politica che consisterebbe «nella differenza tra la versione platonica, che muove, per così dire, dal basso, dall’utile intersoggettivo (sympheron) per giungere alla sua condizione di possibilità (all’idéa tou agathoù), e quella paolina, che segue il cammino opposto, procedendo direttamente dalla Verità di Dio»: Vincenzo Vitiello, Nascita e tramonto della teologia politica, «Il pensiero», 2, 2011, pp. 79-98, qui p. 84. 12 D. Pirozzo, La questione della teologia politica, cit., p. 88. 13 Cfr. J.-F. Kervégan, La «teologia politica» di Hegel, «Il pensiero», 2, 2011, pp. 6378. Nella ricostruzione del passaggio dagli scritti giovanili a quelli della maturità, Kervégan mostra il controverso rapporto che nello Hegel sistematico si stabilisce tra Stato e religione. Anche se Hegel, a differenza di Rousseau, non ritiene possibile una fede pura civile nel contesto del mondo moderno, la sua rifessione sul rapporto tra Chiese e Stato mostra come nella sua rifessione resti centrale la dimensione politica della fede religiosa. 11

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solo marginalmente oggetto di rifessione, un postulato della ragion pratica non ulteriormente defnibile»14, Hegel contrappone un Dio della storia, presente, rivolto al mondo, un Dio vivente, e morente. L’atto kenotico di autosvuotamento del logos divino nel mondo storico segna perciò la nascita della comunità politica. L’annullamento di ogni principio, di ogni fondamento inconcusso rinvia, infatti, a una collettività che opera e si appropria della realtà, dandole forma e struttura razionale attraverso il linguaggio, la memoria, la conoscenza15. Con la morte di Dio, per Hegel muore la teologia stessa, che trapassa, identica nel suo contenuto demitizzato, spogliato della sua trascendente alterità, nella flosofa. E questa fne della trascendenza implica anche il rifuto di ogni dimensione escatologica: gli èschata vengono ricondotti al piano della comunità storica, come mostra la dinamica della sua dialettica, il motore del cui processo non è mai il fne, ma piuttosto l’appropriazione del tempo storico16. Se il cristianesimo viene dunque accusato, negli scritti giovanili, di aver distrutto l’unità etica propria dell’antichità greca (Hegel arriva a considerare la distinzione agostiniana tra città di Dio e città dell’uomo come una perdita di valore delle virtù civili), negli anni di Jena, il principio del Nord, la religione luterana viene considerata come quella religione che ha storicamente dato inizio alla desacralizzazione del cosmo e del creato e ha liberato l’uomo dalla paura di un potere trascendente terribile e vendicativo. Con la Menschwerdung Gottes, il cristianesimo ha reso la fnitezza, e con essa la comunità umana, la sede dell’infnito e del divino, affdando così il destino dell’intero cosmo agli uomini. Nella declinazione luterana del cristianesimo, inteso dunque come morte della trascendenza assoluta e della separazione tra Dio e mondo, Hegel vede avviarsi quel processo di liberazione dell’umanità da ogni autorità trascendente. «Il cristianesimo può affermarsi come religione della libertà perché è l’unica religione in cui il Dio garante del senso del mondo naturale e umano muore, facendo sì che l’umanità si scopra 14 H. Küng, Incarnazione di Dio. Introduzione al pensiero teologico di Hegel, prolegomeni ad una futura cristologia, Queriniana, Brescia 1972, p. 115. 15 Cfr. D. Pirozzo, La questione della teologia politica, cit., pp. 94 sgg. 16 Per Hegel la teologia non può pertanto valere neanche, come penserà Metz, come riserva escatologica che avrebbe non già un rapporto negatore, bensì critico e dialettico nei confronti del presente storico. Cfr. J. B. Metz, Sulla teologia del mondo, Morcelliana, Brescia 1969, pp. 113-114.

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divina nella sua radicale libertà, senza alcuna garanzia o autorità trascendente cui sottomettersi»17. Questa via è quella che Schmitt defnisce della cristologia politica, come ultima forma del teologico-politico, una prometeica auto-divinizzazione dell’umanità moderna, che si pone adesso al centro del progetto di emancipazione di tutta l’umanità. Tale cristologia politica si costruisce, come abbiamo visto, sul radicale rifuto dell’escatologia, sulla peculiare antropologizzazione della cristologia, su un’ermeneutica biblica basata sul processo di demitizzazione. 2. Hegel fuori dalla teologia politica La complessità che segna il rapporto tra religione/teologia e politica negli scritti giovanili di Hegel porta a un meccanismo a cui è diffcile sottrarsi. Il processo di secolarizzazione del potere, il passaggio da una sede del potere esterna e trascendente a una immanente, rende complessa la critica al modello hegeliano che perciò all’indomani della sua morte verrà considerato come inemendabile. Come un labirinto, una volta entrati nel processo dialettico se ne resterebbe prigionieri. L’insidia hegeliana, come avrebbe scritto Foucault nel suo omaggio al maestro Hyppolite18, è sempre in guardia, alle nostre spalle, per quel gioco di astuzia che Hegel ascrive alla sua ragione e che ben descrive il processo del suo sistema. Si può dire che la dialettica hegeliana, penetrando «in tutte le sue antinomie il meccanismo teologico-politico», a un certo punto ne divenga parte integrante, «celando la stessa dinamica che discopre»19. Vale a dire che il gioco di disincantamento messo in scena da Hegel possiede un doppio fondo, nel quale si cela a sua volta un ulteriore mascheramento, più diffcile da disvelare perché permea l’impianto critico con cui opera. La trappola hegeliana consisterebbe, dunque, nel suo D. Pirozzo, La questione della teologia politica, cit., p. 94. A Hyppolite in questa lezione Foucault riconosce il merito di aver «instancabilmente percorso per noi e prima di noi il cammino lungo il quale ci si allontana da Hegel, si prende distanza da lui, e attraverso il quale però ci si trova ricondotti a lui, ma in un altro modo per poi essere costretti di nuovo ad allontanarsi»: M. Foucault, L’ordine del discorso, tr. it. a cura di A. Fontana, Einaudi, Torino 1972, p. 55. 19 R. Esposito, Due. La macchina della teologia politica e il posto del pensiero, Einaudi, Torino 2013, p. 31. 17 18

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fondarsi sulla contraddizione, che è anche continua inversione, rendendo quasi impossibile uscire dal suo schema, una volta dentro20. Di qui la ragione dell’appello allo Hegel non ancora del tutto interno al meccanismo dialettico e alla «pacifcata» accettazione della funzione fondante della religione rispetto alle categorie politiche21. Questa forza che può diventare violenza ha reso la dialettica hegeliana un meccanismo morto. Ma è possibile invece individuare all’interno della stessa flosofa hegeliana un altro modo di intendere il movimento alla base della dialettica, senza ricondurla a una macchina di inclusione escludente? A questo fne sarà utile ritornare a quei frammenti giovanili non privi di ambiguità, e che mostrano una complessità e in alcuni punti anche una distanza dalla forma compiuta e chiusa del sistema della maturità, che consente di cogliere alcuni aspetti aporetici, delle 20 Un’attenta rilettura della logica, e segnatamente della logica dell’essenza, dove Hegel si cimenta in modo serrato con il problema dell’alterità, può intanto aiutarci a dimostrare come l’alterità sia parte integrante e costitutiva, anzi premessa della stessa identità, riproducendo all’interno dell’unità quel confitto che in parte sembra richiamare il Dio contro Dio di cui parla Schmitt nella sua Politische Theologie II. 21 Interessante è il signifcato che assume l’eucarestia in questi anni. «Io non vi chiamo più discepoli o allievi: questi seguono la volontà del loro maestro spesso senza sapere il motivo per cui devono agire così, voi siete cresciuti nell’autonomia dell’uomo alla libertà della nostra propria volontà […]. Quando vi si perseguiterà e vi si maltratterà, ricordatevi del mio esempio, ricordatevi che a me e a mille altri non è toccata sorte migliore»: G. W. F. Hegel, Scritti giovanili, tr. it. di E. Mirri, Orthotes, Salerno-Napoli 2015 (d’ora in avanti SG), frammento 31, p. 290. Nella ri-narrazione dell’ultima cena nella Vita di Gesù, quando la dimensione trascendente dello spirito diventa elemento immanente, esperienza condivisa di una comunità storica, prevale, e diventerà nei frammenti successivi ancora più forte, quella concezione per cui la comunità si fonda sulla imitatio Christi, ossia «l’etica dell’amore incondizionato e del perdono e l’abbandono della logica particolarista ed etnicista dell’elezione e della violenza identitaria e autoimmune tra le comunità umane»: D. Pirozzo, La questione della teologia politica, cit., pp. 62-63. Qui si risente una decisa presa di posizione critica rispetto a Kant: anche il fondatore del criticismo riprodurrebbe in fn dei conti la stessa trascendenza che ispirava l’antica religione ebraica. Che sia la legge superiore del Dio di Abramo o quella che interiorizziamo, in ogni caso, per Hegel, essa rifette uno sdoppiamento tra un essere e un dover essere, riavviando quel meccanismo di separazione, e quindi di trascendenza, rispetto al quale si richiede all’uomo solo obbedienza. Se infatti Dio viene concepito «come una potenza che sta al di là della coscienza questo comporta anche una disposizione subordinata del soggetto pensante nei confronti di quell’oggetto assoluto. Ne deriva «un rapporto dell’individuo verso questo oggetto come “un’obbligazione fondata su autorità”, un’eteronomia», cfr. L. Cortella, È necessario un fondamento religioso della politica? Rifessioni a partire dalla «teologia politica» di Hegel, «Filosofa e Teologia», XXV, 2011, pp. 517-532.

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sporgenze, che portano la lettura della dialettica in un’altra direzione. Partendo dai concetti centrali in quei frammenti giovanili, come l’amore, la vita, il destino, si può perciò cercare di cogliere una incrinatura del modello relazionale consacrato invece dalla dialettica successiva. È in particolare attraverso l’amore che Hegel sembra mettere in scena, per riprendere una suggestione agambeniana, una «decisione disattivante», la capacità di uscire dallo schema ingabbiante della negazione pacifcata. La questione dell’amore è, accanto a quella della legge, il punto cruciale in cui si gioca il rapporto tra vecchio e nuovo Testamento, tra ebraismo e cristianesimo. Questo tema mostra bene il passaggio hegeliano dalla teologia alla cristologia: la potenza eteronoma della legge perde il suo potenziale di legge esterna, in quanto passa per l’amore e viene fatta propria. Questo meccanismo che è presente nell’idea dell’amore come plèroma della legge, nell’idea dell’agape come superamento della comunità frammentata, è quello che poi convergerà, sebbene modifcato, nell’idea della logica dialettica. Ma a ben guardare, nel rapido susseguirsi di frammenti degli anni francofortesi, Hegel introduce due diverse idee di amore. La prima, interna alla teologia cristiana, è l’amore dei Vangeli, la seconda è un’idea d’amore che trova il suo riferimento in Giulietta e Romeo, e poi in Antigone, un amore, insomma, che si confronta con i corpi, la proprietà, la morte. È questa seconda idea di amore che, nel suo potenziale di rottura, può consentire un orientamento diverso all’interno di quel pensiero dialettico che proprio in questi anni Hegel va strutturando. Quello che interessa qui è che il tentativo di utilizzare l’amore come schema di relazione comunitaria viene considerato da Hegel come fallimentare. Questo amore non ha la forza – ma in un certo qual modo neanche i limiti – della logica che guiderà il pensiero dialettico. E proprio per questa ragione forse Hegel lo considererà come una via da abbandonare. Legge e amore, dunque. Qui ritorna la questione di recente ripresa nella rilettura della Lettera ai Romani di Paolo22, e cioè: l’amore paolino è interno alla legge oppure si tratta di un amore che va oltre la legge? L’amore è il rovescio della legge, oppure non ne è né cancellazione né negazione ma il compimento, nel senso appunto del Cfr. G. Agamben, Il tempo che resta. Un commento alla Lettera ai romani, Bollati Boringhieri, Torino 2000. 22

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superamento hegeliano? Spingendosi ancora oltre, si può pensare all’amore come sospensione della legge, come momento subordinato al raggiungimento di una unità più alta (à la Schmitt come stato d’eccezione, e quindi come suo stesso atto fondativo)?23 Quando lo contrappone alla legge Hegel sembra appunto pensare all’amore come plèroma della legge e quindi come suo erede e prosecuzione, in grado però di superare la rigidità interno/esterno, singolo/comunità che si produce attraverso la violenza di quella. Accanto a tale forma, però, in questi scritti hegeliani, l’amore compare anche in un’altra accezione. Per coglierla occorre rileggere il frammento n. 49, cui il Nohl nel pubblicarlo diede appunto il titolo di Amore. L’orizzonte di fondo è il Vecchio Testamento, e Hegel vi analizza la Zerrissenheit, la condizione di lacerazione nella quale si trova a vivere Abramo, combattuto tra sé stesso e il suo popolo. Qui Hegel lo spiega chiaramente: attaccarsi alla propria particolarità, alle proprie cose, determina la schiavitù. Più l’individuo si libera dalle cose, più perde il valore che quel «dispositivo» dominante esercitava su di lui affdandogli un posto. L’amore è ciò che libera da questa sottomissione. Esso prevede un rapporto «fra viventi che sono uguali in potenza, e che quindi sono viventi l’uno per l’altro»24. Qui la funzione riconosciuta all’amore ha una forza speculativa diversa dai frammenti successivi25. Nell’amore, come evidenzia Judith Butler, si sente «ciò che nell’altro è vivente»26 o, come scrive Hegel, amore è quando il «vivente sente il vivente»27. In questo passaggio Hegel prefgura una 23 Su una posizione diversa Žižek, che cita l’interpretazione lacaniana: «Lacan’s extensive discussion of love in Encore is thus to be read in the Pauline sense, as opposed to the dialectic of the Law and its transgression: this second dialectic is clearly «masculine»/ phallic, it involves the tension between the All (the universal Law) and its constitutive exception, while love is “feminine”, it involves the paradoxes of the non-All»: S. Žižek, The Puppet and the Dwarf: The Perverse Core of Christianity, The MIT Press, Cambridge, Massachusetts/London 2003, p. 116. 24 SG, frammento 49, p. 472. 25 Ibid. Scrive Mirri nell’introduzione alla traduzione italiana di questi frammenti, «L’amore non è intelletto, le cui relazioni lasciano sussistere la molteplicità, non è ragione, il cui determinare soggettivo è sempre l’opposto del determinato oggettivo, non è un sentimento del singolo, che è sempre vita parziale e non vita intera: l’amore è insomma vita ricostruita nella sua totalità e nella sua integrità» (SG, p. 427). 26 J. Butler, To Sense What Is Living in the Other: Hegel’s Early Love, Hatje Cantz, Kassel 2012; tr. it. a cura di M. Anzalone, Sentire ciò che nell’altro è vivente. L’amore nel giovane Hegel, Orthotes, Salerno-Napoli 2014, p. 90. 27 SG, frammento 49, p. 472.

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forma di relazione che nel riconoscimento della differenza tra gli individui, rappresentata dai loro corpi, dalla materia che in quanto tale non consente di essere oltrepassata, non fa appello a qualità materiali o intellettuali nella costituzione del legame, ma all’esser vivi. Hegel non sta pensando alla realizzazione dell’amore nella forma di fusione spirituale, ma una forma del rapporto con il corpo proprio e con il corpo dell’altro che, senza negarlo, non sia un rapporto proprietario28. In questo tipo di amore viene annullata la differenza come opposizione, ma in questo annullamento non c’è immunizzazione, esclusione. L’amore acquista questa ricchezza di vita nello scambiare tutti i pensieri, tutte le molteplicità dell’anima, poiché cerca infnite differenze e trova infnite unifcazioni, s’indirizza all’intera molteplicità della natura per bere amore da ognuna delle sue vite. Quel che c’è di più proprio si unifca nel contatto e nelle carezze degli amanti, fno a perdere la coscienza, fno al toglimento di ogni differenza: quel che è mortale ha deposto il carattere della separabilità, ed è spuntato un germe dell’immortalità, un germe di ciò che da sé eternamente si sviluppa e procrea, un vivente29.

Nell’amore dei corpi la differenza viene tolta attraverso il perdersi della coscienza che è il principio della distinzione. L’amore ha dunque un potere disattivante del meccanismo di assoggettamento perché produce un «dislocamento» (displacement) del punto di vista soggettivo30. L’amore, come passione amorosa, è il solo modo che abbiamo per uscire da noi stessi, dal nostro io, e per stabilire con l’altro una relazione non assoggettante. Questo non avviene nell’etica, né nella religione, sembra volerci dire Hegel in queste pagine. Producendo «una sorta di espropriazione del Sé (some dispos-

28 Scrive Agamben: «Poiché l’amore non si dirige mai verso questa o quella proprietà dell’amato (l’esser-biondo, piccolo, tenero, zoppo), ma nemmeno ne prescinde in nome dell’insipida genericità (l’amore universale): esso vuole la cosa con tutti i suoi predicati, il suo essere tale qual è. Esso desidera il quale solo in quanto è tale – questo è il suo particolare feticismo. Cosi la singolarità qualunque (l’Amabile) non è mai intelligenza di qualcosa, di questa o quella qualità o essenza, ma solo intelligenza di una intellegibilità. Il movimento, che Platone descrive come l’anamnesi erotica, è quello che trasporta l’oggetto non verso un’altra cosa o un altro luogo, ma verso il suo stesso aver luogo – verso l’idea» (G. Agamben, La comunità che viene, Einaudi, Torino 1990, p. 4). 29 SG, frammento 49, pp. 473-474. 30 J. Butler, Sentire ciò che nell’altro è vivente, cit., p. 88.

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session of the Self)»31, l’amore disattiva quella che nella Fenomenologia viene defnita potenza del negativo, quella forza che devasta e frammenta l’unità32. Se è vero che la realizzazione, la conciliazione della coppia è il fglio, è anche vero che nel rapporto all’interno della coppia non c’è conciliazione ma un continuo capovolgimento di forze, il cui esito è incerto. L’amore urta, riconoscendola, la potenza dei corpi, l’alterità irriducibile del corpo altrui. Esiste cioè una logica dell’amore che si oppone a quella logica della ragione che non raggiunge mai una forma defnitiva, ma si offre come illimitata apertura, nella consapevolezza di esporsi a un continuo scacco. Come dimostrerà la straordinaria fgura dell’Antigone nella Fenomenologia, l’amore risponde a una richiesta che l’inconscio rivolge alla legge, marcando così i limiti della generalità o generalizzazione della legge. Il comportamento di Antigone è anti-nomotetico, è antinormativo, esprime la forza della vita, riconosce un profondo legame di unione, in cui è proprio quello che è fuori dalla legge, che si è opposto alle leggi stabilite, a essere accolto, amato, rispettato nella sua alterità, senza desiderio di normalizzarlo. Questo schema di relazione apre una distanza rispetto al meccanismo dialettico che, se letto invece nella sua veste conciliata, non sembra lasciare diritto alla singolarità, alla differenza in quanto tale33. In questo frammento, diversamente, l’amore precede/eccede le soggettività, espropriandole della loro ostinazione, della loro chiusura originaria, ma anche sottraendole alla sottomissione alla comunità indistinta. E proprio la capacità dell’amore di avvertire la costante presenza di un processo di mortifcazione legato all’istituzione di una relazione proprietaria, dispone alla rinuncia alla proprietà, a partire da quella sul proprio corpo, conservando la quale si elide la possibilità autentica di un amore radicale. Se l’amore è aspirazione al possesso dell’altro è al tempo stesso riconoscimento, nel rispetto della potenza dell’altro, dell’impossibilità di questo possesso. Di qui lo scacco, ma anche il continuo sforzo a perpetrare questo movimento, la continua tensione irrisolta tra le parti. Ivi, p. 89. Hegel, Fenomenologia dello spirito, tr. it. a cura di E. De Negri, La Nuova Italia, Firenze 1995, vol. I, pp. 26-27. 33 In direzione diversa vanno le interpretazioni che negli ultimi tempi hanno invece cercato di recuperare la dimensione vitale della dialettica. Si veda anche, per una ricostruzione della discussione: A. Sell, Der lebendige Begriff. Leben und Logik bei G.W.F. Hegel, Alber, Freiburg 2013. 31 32

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Se allora il rapporto di proprietà è mortifero e l’amore combatte instancabilmente e consapevolmente contro questa tragica incapacità, può rappresentare, l’amore hegeliano, una forma per creare una relazione in cui questa relazione proprietaria venga sospesa? In Hegel per un breve momento sembra presentarsi la possibilità di un amore in grado di sospendere la proprietà. Questo tentativo di tenere in vita l’amore come relazione «né pensante né spettatoriale»34 rimanda a un luogo in cui non c’è mortifcazione, né staticità. In questo frammento Hegel ha chiaro che la verità resta fuori dalla ragione, perché la flosofa, cristallizzando la vita, vi introduce qualcosa di morto. È forse qui che matura la sua idea della flosofa come nottola, di una flosofa che può e deve limitarsi a parlare di ciò che è morto, perché parlare di ciò che è vivo equivarrebbe a normarlo, a renderlo prescrittivo, a mortifcarlo35. All’opposto, in questa idea di amore Hegel si confronta con la nozione di corpo vivente, singolare, irriducibile alle dicotomie classiche della metafsica e della politica e alle scissioni del dispositivo della persona. Uno Hegel che si oppone al consolidarsi delle ortodossie, delle concettualizzazioni, uno Hegel che non cerca di prescrivere la vita. Si apre forse qui una fessura dalla quale guardare diversamente alla flosofa hegeliana, per usarla anche come depotenziamento della forza di un meccanismo all’apparenza inespugnabile.

J. Butler, Sentire ciò che nell’altro è vivente, cit., p. 102. Molte delle diffcoltà che si incontrano a immaginare alternative politiche a quella esistente risiedono probabilmente nel tentativo di pensare la politica senza cadere in una posizione normativa, che determina semplicemente la successione da una forma di teologia politica all’altra, giustifcando così nuove forme di esclusione. Qui Hegel dimostra di voler pensare al di fuori dello schema teologico-politico, nel negare alla flosofa un potere normativo, cercando piuttosto un pensiero che non ci dica come dobbiamo agire, o qual sia il soggetto politico legittimo delle trasformazioni sociali, ma che si tenga sempre un passo dietro gli eventi politici. 34 35

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Profezia e usurpazione. Un caso teologico-politico in Max Weber Massimo Palma

Crede di esser lei a proteggere il popolo. A sentir lei è il suo canto a salvarci da una condizione politica o economica diffcile. Kafka, Josefne la cantante e il popolo dei topi

Premessa. «Sociologia del concetto di sovranità» Il 21 agosto 1976, in una lettera a Heinz Friedrich, Carl Schmitt lasciò un’epitome enigmatica del suo rapporto con Max Weber, colui che Habermas nel 1964 aveva provocatoriamente chiamato il suo «padre naturale»1. Mi intriga il tema “Max Weber” a motivo del carisma e della “legittimità carismatica”. Weber è lo storico che porta avanti la teologia politica. Nessuno mi potrà mai imputare di aver designato Hitler come portatore di una “legittimità carismatica”. […] L’unico contemporaneo citato da Max Weber come caso tipico del suo concetto di carisma è Kurt Eisner2.

Non rileva qui l’annoso tema del titolo di «carismatico» da affbbiare o meno a Hitler, o il meno urticante ma altrettanto incisiCfr. in O. Stammer (a cura di), Max Weber und die Soziologie heute, Mohr Siebeck, Tübingen 1965, p. 81 nota: «considero più pertinente un’altra formulazione, se la si lascia nella sua ambivalenza: Carl Schmitt era un “fglio naturale” di Max Weber». 2 Per la citazione cfr. P. Tomissen, Bausteine zu einer wissenschaftlichen Biographie (Periode: 1888-1933), in H. Quaritsch (a cura di), Complexio Oppositorum. Über Carl Schmitt, Duncker & Humblot, Berlin 1988, pp. 71-100: 78, cit. in F. Ghia, Ascesi e gabbia d’acciaio. La teologia politica di Max Weber, Rubettino, Soveria Mannelli 2010, p. 127. Si veda l’ampio confronto ivi, pp. 127-156. Sulla conferenza monacense cui allude Schmitt, cfr. W. Schluchter, Die Entzauberung der Welt, Mohr Siebeck, Tübingen 2009, pp. 88-110. 1

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vo problema di attribuzione del carisma a quel Kurt Eisner ucciso appena dopo la conferenza sulla Politik als Beruf. Occorre invece sondare, sulla scorta di questa formulazione, all’interno dell’opera sociologico-religiosa di Weber, il campo possibile di una teologia politica in chiave storica, che intersechi una sociologia del concetto di sovranità. Se è ben noto l’incipit del terzo capitolo di Teologia Politica di Schmitt («tutti i concetti pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati»), meno noto è che questi, quando si trovò a pubblicare un saggio in memoria di Weber, trovò appropriato estrarre ben tre capitoli da quel libretto in quattro parti e intitolarlo Soziologie des Souveränitätsbegriff und politische Theologie3. Ora, l’affato «sociologico» schmittiano si esaurisce nell’analogia argomentativa tra diritto e teologia, in quell’equiparazione tra vita del diritto e discorso sul divino, ove si rinvengono le origini epocali – secolarizzate – dei concetti moderni che raffgurano la società. Eppure, se deve darsi, pensando a Weber, una qualche «sociologia del concetto di sovranità» in connessione con la teologia politica – pare suggerire Schmitt in quella lettera vergata quasi nonagenario –, occorre chiamare in causa sin da subito il concetto di «carisma». Se «la sovranità è la funzione politicamente indispensabile per affermare un ordine»4 e va letta per Schmitt alla luce dell’eccezione, che è la normale cifra della politica, la sociologia storica di un simile concetto autonomo e aporetico (che non sia solo nella particolare lezione schmittiana di indagine dei modi di concettualizzare la società) deve individuare i portatori sociali di questa duplice e contraddittoria idea di un ordine che poggia su un’aporia. Proprio su questo punto, in tutte le sue stesure, nei suoi ripensamenti, insiste la sociologia delle religioni di Weber.

3 Cfr. Hauptprobleme der Soziologie. Erinnerungsgabe für Max Weber, 2 voll., a cura di Melchior Palyi, Duncker & Humblot, München-Leipzig 1923, vol. II, pp. 3-35. Cfr. Carl Schmitt, Politische Theologie. Vier Kapitel zur Lehre von der Souveränität, Duncker & Humblot, Berlin 20099 (1922), p. 43; tr. it. Teologia politica, in Id., Le categorie del “politico”, a cura di G. Miglio e P. Schiera, il Mulino, Bologna 1972, pp. 27-86: 61. 4 C. Galli, Genealogia della politica. Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico moderno, il Mulino, Bologna 20102 (1996), p. 337.

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1. Obbligo di riconoscere Nella densa Zwischenbetrachtung dei Gesammelte Aufsätze zur Religionssoziologie, la raccolta tematica weberiana del 1920, viene sviluppata una peculiare gradualità evolutiva tra la fgura del mago e quella del profeta, accomunati da una legittimità fondata sul disporre di un «carisma». Il mago è stato il precursore del profeta […] e del salvatore. Il profeta e il salvatore erano generalmente legittimati dal possesso di un carisma magico. Solamente che per loro il carisma era semplicemente un mezzo per ottenere il riconoscimento e il rispetto dell’esemplarità della loro missione o della qualità di salvatore propria della loro personalità5.

Il carisma magico rivela quindi la sua funzione strumentale al riconoscimento, ma in sé, come si premura di defnire Comunità religiose – l’incompiuto trattato interno al progetto prebellico chiamato Economia e società –, è «un talento attinente tout court all’oggetto o alla persona che in via eccezionale lo possiede per natura»6. Possesso assegnato per natura a cose o individui straordinari, il carisma procura effetti di dominio. È un altro testo incompiuto eppure organico, databile al 1917, a individuare il carisma come causa di una «dedizione affettiva» sul piano psicologico, e di una «comunione». Dominio carismatico, in virtù di una dedizione affettiva alla persona del signore e ai suoi doni di grazia (carisma), in particolare: capacità magiche, rivelazioni o eroismo, potere dello spirito e del discorso. L’eternamente nuovo, l’extra-feriale, il mai-stato e il coinvolgimento emozionale che ne deriva sono qui fonti di dedizione personale. I tipi più puri sono il dominio del profeta, dell’eroe di guerra, del grande demagogo. L’associazione in base al dominio 5 M. Weber, Zwischenbetrachtung. Theorie der Stufen und Richtungen religiöser Weltablehnung, in Max Weber-Gesamtausgabe, Mohr (Siebeck), Tübingen 1984-…, (d’ora in poi MWG), vol. I/19 (1989), pp. 479-522: 484; tr. it. di A. Ferrara, Considerazioni intermedie. Il destino dell’Occidente, Armando, Roma 1995, p. 49. 6 Id., Religiöse Gemeinschaften, a cura di H. Kippenberg con P. Schilm, in Wirtschaft und Gesellschaft. Die Wirtschaft und die gesellschaftliche Ordnungen und Mächte, MWG I/22-2 (2001), p. 122; tr. it. Comunità religiose, in Economia e società. L’economia, gli ordinamenti e i poteri sociali. Lascito, a cura di M. Palma, Donzelli, Roma 2016-2018, vol. II (2017), p. 4. Cfr. E. Hanke, Rivoluzione e carisma. Concetti del cambiamento in Max Weber, «Politica & Società», Filosofa e politica in Max Weber, II, gennaio-aprile 2013, 1, pp. 11-32.

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è la comunione nella congregazione o nel seguito. Il tipo di chi comanda è il capo (Führer). Il tipo di chi obbedisce è il “discepolo”7.

Credenza nel carisma e riconoscimento del carisma creano autorità, sono un obbligo da pretendere da parte di chi ne è “naturalmente” dotato. Ma non vi è un riconoscimento dell’autorità per consenso – il riconoscimento è un effetto coatto, un frutto obbligato dell’autorità medesima. La fede e il riconoscimento valgono come obbligo, il cui adempimento viene preteso da colui che è legittimato dal carisma, e la cui infrazione egli punisce. L’autorità carismatica è addirittura una delle grandi forze rivoluzionarie della storia, ma nella sua forma pura essa è di carattere senz’altro autoritario, dominativo8.

Il carisma, talento naturale in dotazione a oggetti e persone, si caratterizza innanzitutto come elemento strutturante la Herrschaft attraverso un semplice meccanismo di «comprova» (Bewährung) da parte di chi si sente obbligato al riconoscimento dell’evidenza carismatica. Fiducia nel capo vuol dire riconoscimento della sua signoria in uno stato psicologico che l’ultimo testo dedicato da Weber al tema, I tipi del dominio (1920) – nella versione di Economia e società destinata alle stampe – non manca di defnire attraverso il motivo della «meraviglia». Della validità del carisma decide il libero riconoscimento da parte dei dominati, garantito dalla comprova – in origine sempre dalla meraviglia –, scaturito dalla dedizione alla rivelazione, all’adorazione degli eroi, dalla fducia nel capo. Ma questo riconoscimento (nel caso del carisma genuino) non è il fondamento della legittimità, ma è l’obbligo di coloro che in virtù di questo appello e comprova sono chiamati al riconoscimento di questa qualità. Questo «riconoscimento» è sotto il proflo psicologico una dedizione del tutto personale sorta dall’entusiasmo o dalla necessità o dalla speranza.

Libero eppure obbligato, nel suo sorgere come effetto necessario di una comune dedizione, il riconoscimento vincola il carismatico stesso. In corpo minore, nello stesso passo, Weber nota come «nessun profeta M. Weber, Die drei reinen Typen der legitimen Herrschaft, in MWG I/22-4 (2005), p. 734; tr. it. I tre tipi puri di dominio legittimo, in Economia e società, cit., vol. IV, Dominio (2018), p. 555. 8 MWG I/22, 4, p. 737; tr. it. I tre tipi puri di dominio legittimo, cit., p. 557. 7

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ha considerato la sua qualità come indipendente dall’opinione della massa»9. I titolari del carisma – sovrani del rapporto carismatico – vedono confermato il loro dominio nell’opinione della massa, non ne prescindono. Il rapporto tra la massa e il profeta, tra il Führer religioso e il suo seguito, è quindi attestato dalla credenza della massa. Dalla sua Meinung. Senza l’opinione della massa obbediente – libera di opinare, non libera di obbedire –, il carisma non esiste: in ogni società in cui si dia una «massa» i meccanismi di dominio esercitati da un singolo vivono di un’obbligata ricettività tutta iscritta nelle fbre emotive (entusiasmo, speranza, «necessità») della massa stessa. 2. Carisma stereotipante Dominio dell’eroe, dunque, «meraviglia» della comprova, libera autorità del capo in libero opinare dei dominati – eppure ciò che ne nasce è un meccanismo iterativo obbligato. Sin dall’analisi degli effetti religiosi del carisma, dalle prime battute delle Comunità religiose, emerge nitida la contraddizione apparente tra l’extra-ordinarietà del carisma e il suo esito di potere. Il carisma infatti, pur straordinario per defnizione, produce effetti di normalizzazione non appena nell’affresco weberiano viene inquadrato il macrotema dell’effetto della religione sulla condotta di vita: «non bisogna separare l’agire o il pensiero religioso o “magico” dalla sfera dell’agire fnalizzato quotidiano, tanto più che anche i suoi stessi scopi sono prevalentemente economici»10. Anche magia e religione fanno parte dello Zweckhandeln, quell’agire «fnalizzato» che sostanzia l’immane repertorio di tecniche d’azione teleologicamente intenzionate al quotidiano. Su questo sfondo azioni rituali come la danza di guerra si confgurano come anticipazioni mimetiche che preordinano il contesto bellico a un determinato esito, «la vittoria, dovendo con ciò garantirla magicamente»11. Nell’istanza di anticipazione si riscontra un passaggio dal naturalismo al simbolismo, che avviene tramite coazione e obbligo delle potenze divine, un obbligo quasi M. Weber, Wirtschaft und Gesellschaft. Soziologie, MWG I/23 (2013), p. 492 (anche per la citazione precedente). 10 MWG I/22-2, p. 122; tr. it. Comunità religiose, cit., p. 3. 11 Ivi, p. 132; tr. it. cit., p. 10. 9

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giuridicamente inteso, suggello di prestazione al carattere teleologico rinvenibile tanto nell’agire economico quanto nell’agire religioso. Il primo e fondamentale intervento della cerchia di rappresentazioni “religiose” sulla condotta di vita e sull’economia agisce cioè in generale in senso stereotipante12.

La stereotipia si dà nella conseguenza potestativa dell’espressione d’autorità. Il mago, lo stregone o il titolare di sapere religioso si caratterizzano come detentori d’un talento da gestire, uno strumento che crea potere nel momento stesso in cui crea credenze. Soprattutto, come «conoscenza professionale di un simbolismo magico-religioso» questa gestione ha fnalità inseparabili dall’ambito dell’economico. Si dà un potere di signifcazione in capo ai professionisti del simbolismo magico: la stessa amministrazione del signifcato del simbolismo si rivela, per vie economiche, fonte di dominio, a seconda «dell’enfasi che i conoscitori professionali di questo simbolismo possono dare alla credenza», «della posizione di potere che essi conquistano all’interno della comunità, a seconda dell’importanza della magia come tale per le particolari caratteristiche dell’economia […]. Attraverso un agire signifcativo si cerca di ottenere effetti reali»13. In questo tentativo iterato di signifcazione, la magia come strumento di coazione del divino, la tecnica di azione magica che insegna a padroneggiare l’irrazionale e il fortuito, struttura a «impresa» e «dottrina» l’accadimento magico e lo squilibrio estatico, ne fa sistema «economico»: ne nasce la squalifca dell’ebbrezza occasionale e la «più antica di tutte le professioni». I carismi “magici” posseduti dagli uomini sono appannaggio solo di alcuni particolarmente qualifcati, e con ciò divengono la base della più antica di tutte le professioni, quella dello stregone professionale. Lo stregone è l’uomo stabilmente qualifcato dal carisma in opposizione all’uomo ordinario, al “profano” nel senso magico del concetto. In particolare, egli è in possesso in modo permanente dello stato che rappresenta o media specifcamente il carisma: l’estasi, quale oggetto di un’“impresa” presa in carico14.

Ivi, p. 131; tr. it. cit., p. 9. Ivi, pp. 128-129; tr. it. cit., p. 8. 14 Ivi, p. 124; tr. it. cit., p. 5. 12 13

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L’estasi dell’ebbrezza, dove il profano è occasionalmente esposto al divino, viene incardinata nella responsabilità d’impresa, convertita a mezzo teologico-politico. A tal fne, più dello stregone, c’è la necessità di un’altra, più teatrale maschera che vada a «impersonare» l’ordine inesistente nella realtà, eppure vincolato, religato nella fnzione religiosa15. Si necessita una maschera che riassorba il negativo attraverso l’istituzionalizzazione del carisma. E questa maschera è il profeta. 3. Anti-economia come professione Al pari del mago e dello stregone, nelle Comunità religiose la defnizione del profeta appare da subito vincolata al carisma e alla vocazione “personale”. Intenderemo qui con “profeta” un detentore di carisma puramente personale, che in virtù della sua missione annuncia una dottrina religiosa o un comando divino […]. È decisiva per noi la vocazione “personale”. È questa a distinguerlo dal sacerdote. In primo luogo e soprattutto perché questi è al servizio di una tradizione sacra, mentre il profeta esige autorità in virtù di una rivelazione personale o della legge […]. Il sacerdote rimane legittimato dalla sua carica di membro di un’impresa salvifca riunita in sociazione16.

Se è chiara la partizione tra carisma personale («profetico, estatico, mistico, che possa violare la dignità dell’“impresa”»17) e carisma d’uffcio che distingue il profeta dal sacerdote – ove va almeno menzionato il responsabile della «scoperta» weberiana del carisma, Rudolph Sohm, idolo polemico dello Schmitt privato e non18 –, è 15 Cfr., a proposito di un detto del diritto sacro romano discusso anche da Weber (simulacra pro veris accipiuntur), Y. Thomas, Fictio legis. L’empire de la fction romaine et ses limites médiévales, «Droits. Revue française de théorie juridique», 21, 1995, pp. 17-73; tr. it. Fictio legis, a cura di M. Spanò, Quodlibet, Macerata 2016, p. 49: «Questo “tenere per” non è qui un effetto della credenza, ma dell’istituzione». 16 MWG I/22-2, p. 177; tr. it. Comunità religiose, cit., p. 43. Sull’impatto dell’elemento personale dell’«avvento» del profeta insiste M. Alagna, Atlanti. Immagini del mondo e forme della politica in Max Weber, Donzelli, Roma 2017, p. 136, che rimarca come «nel momento del turbamento profetico» la stessa «ontologia sociale», con le sue fratture e differenze, sarebbe «inservibile». 17 MWG I/22-4, p. 593; tr. it. I tre tipi puri di dominio legittimo, cit., p. 430. 18 A sottolineare la genealogia del carismatico, da reperirsi in Sohm e Holl, cfr. J.M. Ouedragogo, La Réception de la sociologie du charisme de Max Weber, «Archives

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opportuna una distinzione del profeta dallo stregone: «Dallo stregone egli si differenzia per il fatto di annunciare rivelazioni pregne di contenuto, il contenuto della sua missione non consistendo nella magia, ma nella dottrina e nel comandamento»19. La discriminante consiste nell’elemento di annuncio precettivo aderente alla persona, che va a costituire la «caratteristica decisiva dei profeti» – sono profeti Maometto e Montano, Mani e Manu, George Fox e Isaia20. Nella performance di veridizione, «il profeta […] crea, esige nuovi comandamenti – nel senso originario del carisma: in virtù di rivelazione, oracoli, ispirazione»21. In questa pratica discorsiva la sua missione può assumere i tratti diversi del mistagogo che «pratica i sacramenti, ossia le azioni magiche che garantiscono i beni di salvezza», «offre salvezza magica» ma senza «dottrina etica»; del profeta etico – Zarathustra, Maometto – che parla «per incarico di un dio» ed è «lo strumento annunciatore di questi e della sua volontà» – comando concreto o norma astratta –, che «esige obbedienza come dovere etico»; del profeta esemplare – Lao-tse, Buddha – «che mostra agli altri sulla base del proprio esempio la via per la salvezza religiosa» – che asserisce «seguimi su questa via»22. Se il contenuto dell’attività profetica è innovativo nella prestazione teologico-morale, forma e funzione restano magiche: «solo in particolari circostanze un profeta ha guadagnato autorità senza una qualche autenticazione carismatica, che normalmente vuol dire magica». Anche Gesù si sentì mago, spiega Weber, e solo in forza di questa convinzione interpretò la sua missione come profetica. Il mago che si fa profeta, inoltre, agisce gratuitamente, «propaga l’“idea” per amor dell’idea»23, mostrando un’alterità iniziale all’economia, un’alterità che affascina, ed è testimoniata anche in sede defnitoria nei Tipi di dominio: «Il carisma puro è specifcamente estraneo all’economia. Dove appare costituisce una “professione” nel senso enfatico del termine: come “missione” o come “compide sciences sociales des religions», 1993, 83, pp. 141-157: 142-143. Per gli strali contro Sohm si veda ad es. C. Schmitt, Glossarium. Aufzeichnungen der Jahre 1947-1951, Duncker & Humblot, Berlin 1991, pp. 23, 45, 133. 19 MWG I/22-2, p. 178; tr. it. Comunità religiose, cit., p. 44. 20 Ivi, p. 188; tr. it. cit., p. 50. 21 MWG I/23, p. 494. 22 MWG I/22-2, p. 189; tr. it. Comunità religiose, cit. p. 51. 23 Ivi, p. 170; tr. it. cit., p. 44.

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to” interiore. […] Non che il carisma rinunci sempre al possesso e al proftto»24. È proprio la purezza del carisma, insinua Weber, a costituirsi come «mito» strumentale nella sociologia del concetto di sovranità. Nella forma del mitologema della purezza, si dà il contenuto organizzativamente decisivo che oltre al tratto etico-esemplare, oltre l’anti-economicità, determina l’etica sociale presa in carico dalla profezia: l’elemento della sistematizzazione, la postulazione narrativa del mondo come un cosmo. La rivelazione profetica signifca sempre […] un tentativo di sistematizzazione di tutte le espressioni di vita, ossia di sintesi dell’atteggiamento pratico in una condotta di vita […]. Inoltre racchiude sempre l’importante concezione religiosa del “mondo” come un “cosmo”, di cui si pretende che possa costituire un tutto in qualche modo “sensato”25.

4. Usurpazione Ma ai margini della narrazione e lamentazione profetica preme, seguendo l’ardua proposta schmittiana rievocata all’inizio, la sociologia storica del concetto di sovranità, che va a interrogare l’abito più squisitamente politico che tale fgura religiosa riveste. È spesso fuido il passaggio dal “profeta” al “legislatore”, se si intende con questo una personalità cui nel singolo caso viene affdato il compito di ordinare sistematicamente un diritto oppure di costituirlo nuovamente […]. Non si dà alcun caso in cui un simile legislatore o la sua opera non abbiano ottenuto almeno la posteriore approvazione divina26.

Il parallelo con l’usurpazione nella città – dove il diritto arriva a confermare l’avvenuta usurpazione e la legittima ex post27 – è funzionale alla defnizione del campo teologico-politico come campo di tensioni. Se i legislatori «di norma venivano chiamati al loro uffcio MWG I/23, p. 495. MWG I/22-2, pp. 193-194; tr. it. Comunità religiose, cit., pp. 53-54. Cfr. anche Considerazioni intermedie, MWG I/19, p. 484; tr. it. cit., p. 49: «Il contenuto della profezia o del comando del salvatore [implicavano] almeno una relativa sistematizzazione razionale della condotta di vita». 26 MWG I/22-2, p. 182; tr. it. Comunità religiose, cit., p. 46. 27 Il riferimento è a Die Stadt, MWG I/22-5 (1999), pp. 124-125; tr. it. La città, in Economia e società, cit., vol. V (2016), p. 41. 24 25

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quando sussistevano tensioni sociali»28, se l’esimneta deve «realizzare l’armonia tra i ceti e creare un nuovo diritto “sacro”, valido per sempre, e farlo accreditare dal dio» (l’esempio è quello dei Mosè, dei Solone, dei Caronda della «politica sociale pianifcata»), Weber è fermo nel ribadire, a proposito della profezia israelitica, che l’interesse sociale è secondario: «queste argomentazioni politico-sociali, che d’altra parte neppure è possibile disconoscere, sono soltanto un mezzo per il fne». Il profeta è legislatore, è analogon del tiranno, ma usurpando mira ad altro. È un dato specifco dei profeti che essi non intraprendano la loro missione su incarico umano, ma la usurpino. Lo fanno di certo anche i “tiranni” della polis greca, che quanto alle funzioni sono assai prossimi agli esimneti legali […]. Ma i profeti usurpano il loro potere in forza della rivelazione divina, e sostanzialmente a fni religiosi29.

L’usurpazione profetica è lotta di potere religioso: nelle pagine di Antikes Judentum si legge come «già la mera esistenza di questo tipo di libera profezia costituisce, per l’epoca della sua comparsa, un chiaro sintomo di debolezza del ceto sacerdotale»30, laddove «mai» i profeti «prendono posizione in favore del culto sacerdotale corretto»31. Investito dalla missione rispetto a cui gode d’un necessario supplemento di fducia obbligante nell’opinione della massa, il profeta (che, è il caso di Isaia, annuncia «un usurpatore inviato da Dio») resta fgura sospesa tra accento extraquotidiano e inevitabile deriva organizzativa. Se l’impatto del profetismo in generale viene valutato confittuale verso gli ordinamenti del mondo32, la tensione acuta di questa forma religiosa col «mondo» si reinserisce facilmente, soprattutto nel caso israelitico, nell’alveo tradizionale, e lo fa in forma demagogica.

MWG I/22-2, p. 182; tr. it. Comunità religiose, cit., p. 46. Ivi, p. 185; tr. it. cit., p. 47. 30 Id., Die Wirtschaftsethik der Weltreligionen. Das antike Judentum. Schriften und Reden 1917-1920, a cura di E. Otto, 2 voll. (2005), in MWG I/21, pp. 626-627; tr. it. Il giudaismo antico, in Sociologia della religione, 4 voll., a cura di P. Rossi, Edizioni di Comunità, Torino 2002, vol. IV, p. 270. 31 Ivi, p. 628; tr. it. cit., p. 271. 32 Zwischenbetrachtung, MWG I/19, p. 484; tr. it. cit., p. 50: «il profeta o il salvatore stesso di norma si era opposto ai poteri ierocratici». 28 29

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5. Profetismo post-estatico Il profeta si atteggia dunque in modo simile al tiranno, ma se ne distanzia per l’ostilità che coltiva rispetto al culto dell’ebbrezza. Come se l’ebbrezza e lo stato estatico dovessero essere appannaggio suo esclusivo (i profeti veterotestamentari «si scagliavano contro l’orgiastica dei culti agricoli»33), per garantirgli, nella sua posizione di «maestro morale», una «potestà sovrana»34, da cui ricava un autentico rapporto d’obbedienza. Nella sociologia del «tiranno religioso» è il destino dell’elemento estatico a confgurarsi come davvero centrale per la defnizione della forma e dello stile della profezia. La grande maggioranza dei profeti del periodo anteriore all’esilio – […] Osea, Isaia, Geremia, Ezechiele – erano indubbiamente degli estatici […]. Stati patologici e azioni patologiche di vario genere accompagnano la loro estasi o la precedono. Non c’è dubbio che proprio questi stati siano stati considerati in origine come l’attestazione più importante del carisma profetico35.

La «libera demagogia di estatici» di cui Weber tratteggia il proflo nel Giudaismo antico non è fondata sul Rausch (sull’ebbrezza), ma sull’interpretazione del senso della missione, dato che «per la maggior parte [i profeti] parlano delle loro esperienze vissute durante l’estasi»36. Se è chiaro che la forma argomentativa scelta è tutta emozionale, nel riferirne non c’è solo la registrazione dello stato di “impossessamento”-“possessione” del talento carismatico, ma soprattutto la sua lettura secondo un’ermeneutica direzionale che si attaglia al profetismo fno a produrne gli effetti etici e politici. È sul senso di indirizzo – del profeta e della comunità che lo ascolta – che verte la vita postuma dell’estasi: «l’enorme pathos con cui parla è, in parecchi casi, un’eccitazione per così dire post-estatica dal carattere ancora a metà estatico»37, che va a concentrarsi sul contenuto etico implicato. MWG I/21, p. 624; tr. it. Il giudaismo antico, cit., p. 268. MWG I/22-2, p. 186; tr. it. Comunità religiose, cit., p. 48. 35 MWG I/21, pp. 631-632; tr. it. Il giudaismo antico, cit., p. 274. 36 Ivi, p. 636; tr. it. cit., p. 277. 37 Ivi, p. 638; tr. it. cit., p. 278. Sul tratto usurpatorio, cfr. R. Dericquebourg, Max Weber et les charismes spécifques, «Archives de sciences sociales des religions», CXXXVII, aprile 2007, pp. 21-41: 35. 33 34

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Ed è in questo quadro che la profezia di sventura viene riferita come conseguenza dello stato di abbandono dell’ordinamento etico già comandato dal dio38. È quindi una giustifcazione morale del male che viene a proporsi: «I profeti israelitici annunciavano sventura, cioè una sventura nell’aldiquà a causa dei peccati contro la legge del loro dio, universalmente valida»39 – ma questa esplicazione è fatta strumento teologico-politico, delinea una narrazione teologica dell’ordine del mondo. Ne risulta quindi un conservatorismo, una mancanza di radicalità trasformativa. Mediante la profezia viene confermato il «senso» complessivo del mondo – quasi che la demagogia formale di cui si pasce la parola profetica servisse a sottolineare nel male il carattere «retributivo» di colpe passate e presenti. «Mai e in nessun luogo fu anche sollevata dai profeti o dal loro pubblico la questione del “senso” del mondo e in particolare della vita, di un fondamento giustifcante la sua fragile transitorietà, piena di sofferenza e di colpa»40. Il senso viene assunto come dato, solo travisato per colpe umane pregresse: ragion per cui «le conseguenze anomistiche del possesso estatico di Dio furono nettamente respinte»41. Non fu proprio dei profeti quel carattere «mistico» di possesso da parte di Dio che matura frutti escatologici («il mistico diventa allora salvatore e profeta. Ma i comandi che proferisce non hanno carattere razionale. Come prodotti del suo carisma sono rivelazioni di carattere concreto, e il suo rifuto radicale del mondo facilmente si trasforma in anomismo radicale»), né c’è nel profeta una proposta intrinsecamente giusnaturalistica – propria dell’ascetismo intramondano42. Nessun profeta fu mai portatore di ideali “democratici”. Ai loro occhi il popolo aveva bisogno di una guida, e tutto dipende perciò dalle qualità dei capi […]. Inoltre nessun profeta annuncia un qualsiasi “diritto naturale” di carattere religioso, e meno ancora un diritto alla rivoluzione o all’auto-difesa delle masse […]. L’esistenza di una forte opposizione politico-sociale contro la monarchia […] offriva un terreno di risonanza al loro annuncio43.

MWG I/21, p. 656; tr. it. Il giudaismo antico, cit., p. 291. Ivi, p. 644; tr. it. cit., p. 283. 40 Ivi, p. 666; tr. it. cit., p. 298. 41 Ivi, p. 668; tr. it. cit., p. 300. 42 MWG I/19, pp. 498-499; tr. it. Considerazione intermedia, cit., p. 71. 43 MWG I/21, p. 622; tr. it. Il giudaismo antico, cit., pp. 266-267. 38 39

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La politica profetica è utopistica, ma indifferente al mondo, sì da consentirne un’accettazione senza residui se non emotivi. Una libera, selvaggia, demagogia di post-estatici punta ad assegnare una guida a un mondo la cui democrazia di fondo – il contesto caotico della «situazione politica» – può offrire eco suffciente per aver effetto. È questo gioco di risonanze che Weber indaga, per giungere poi a defnire il dominio carismatico come costante ultra-epocale: «con i profeti e i principi guerrieri di tutti i tempi, il dominio carismatico sugli uomini attraversa i secoli. Il politico carismatico – “demagogo” – è il prodotto della città-Stato occidentale. Nella città-Stato di Gerusalemme apparve solo in veste religiosa, come profeta; invece la costituzione di Atene […] fu interamente plasmata sulla sua esistenza»44. Se il profetismo ebraico è tutto defnibile come «demagogia politica», ogni profeta «si occupa del destino dello Stato e del popolo; e sempre nella forma di invettive emozionali contro i detentori del potere»45. L’esempio veterotestamentario è tanto svilente quanto signifcativo: «quando [Amos] annuncia l’ira di Dio su Gerusalemme perché si cerca di reprimere il profetismo, ciò doveva essere analogo a quando un demagogo moderno reclama la libertà di stampa. […] Tutto è calcolato per ottenere un’effcacia demagogica attuale»46. E se talora è guerra tra bande («profezia e contro-profezia stavano l’una di fronte all’altra per le strade, maledicendosi»47), non ne va lì di istanze gemeinschaftsstiftend, ma di sistematizzazione conservatrice, per invettiva, del caos: «nessun profeta apparteneva a una “sociazione” esoterica, come più tardi gli apocalittici. E nessun profeta ha pensato di fondare una “congregazione”»48. Oltre all’individuazione d’una tensione stabilizzante della narrazione profetica e dell’usurpazione post-estatica, oltre alla sociologia dei titolari del talento profetico, resta da comprendere se Weber abbia mai pensato anche a una sociologia del titolare passivo della parola profetica: se nella sociologia del concetto di sovranità il suo dispositivo teorico abbia accolto adeguatamente anche una sociologia della sudditanza. MWG I/22-4, p 736; tr. it. I tre tipi puri di dominio legittimo, cit., p. 556. MWG I/21, p. 611; tr. it. Il giudaismo antico, cit., p. 259. 46 Ivi, p. 613; tr. it. cit., p. 261. 47 Ivi, p. 641; tr. it. cit., p. 280. 48 Ivi, p. 648; tr. it. cit., p. 285 [tr. mod.]. 44 45

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Excursus. Fascinazione, dominazione, protezione in Sud e magia Nel reintrodurre Sud e magia, di quarant’anni posteriore alle indagini weberiane, si è sottolineato come nella visione di Ernesto de Martino «di fronte a una presenza labile, che può perdere in ogni momento i suoi confni con il mondo e la capacità di agire come centro di scelta indipendente, il rito magico opera una protezione o un “riscatto” sul piano culturale»49. Nella divaricazione tra protezione e smarrimento, merita di esser assunta nella sua ambiguità semantica la determinazione concettuale della «fascinazione». Con questo termine si indica una condizione psichica di impedimento e di inibizione, e al tempo stesso un senso di dominazione, un essere agito da una forza altrettanto potente quanto occulta, che lascia senza margine l’autonomia della persona, la sua capacità di decisione e di scelta. […]. L’esperienza di dominazione può spingersi sino al punto che una personalità aberrante, e in contrasto con le norme accettate dalla comunità, invade più o meno completamente il comportamento50.

Un’estrapolazione è operazione scorretta, tanto più in questo caso, ove i contesti produttivi e di riferimento paiono così lontani. Eppure nel testo di De Martino sembra fnalmente posta una coppia di domande pertinenti a quegli aspetti genericamente defnibili come «teologico-religiosi» in riferimento al dominio. Se «l’irrazionale, il fortuito, il non padroneggiato dall’uomo ha per interi ceti sociali un rilievo imponente»51, l’azione di dominio – la dominazione – è leggibile come un’ebbrezza vincolante, fascinante, che opera una «protezione»? E la «protezione» può esser qualifcata come un problema narrativo? È stata Clara Gallini, allieva di De Martino, e per una felice coincidenza co-traduttrice del testo weberiano dell’Antikes Judentum, a sottolineare come «gran parte della forza della magia risiede nel suo F. Dei - A. Fanelli, Magia, ragione e storia: lo scandalo etnografco di Ernesto de Martino, in E. de Martino, Sud e magia (1959), a cura di F. Dei e A. Fanelli, Donzelli, Roma 2015, pp. IX-XLV: XIV. 50 E. de Martino, Sud e magia, cit., p. 9. Sul tema, alla ricerca di una «tradizione» estranea a quella «confgurazione dell’asservimento suggestivo» chiamata «Stato», cfr. A. Cavalletti, Suggestione. Potenza e limiti del fascino politico, Bollati Boringhieri, Torino 2011. 51 E. de Martino, Sud e magia, cit., p. 278. 49

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ergersi a sistema di credenze generalizzate: cioè nel suo racconto». E se, nel caso della profezia, la narrazione, il racconto, altro non fosse che il discorso teologico che, proprio nel farsi politica sistematizzando la crisi, protegge?52 Si confronti la defnizione fornita nell’Epilogo di Sud e magia, che pare quasi correggere la defnizione del dominio fornita nella Herrschaftssoziologie – «con “dominio” deve qui intendersi cioè il fatto per cui una volontà manifesta (“comando”) del o dei “dominanti” vuole infuenzare l’agire (del o dei “dominati”) e di fatto lo infuenza in maniera tale per cui questo agire, in un grado socialmente rilevante, si svolge come se i dominati avessero fatto del contenuto del comando, di per sé, la massima del loro agire (“obbedienza”)»53. De Martino delinea l’esperienza passiva del momento magico della religione, la fascinazione, come una dominazione in tempi di precarietà sociale. L’essere-agito-da che sta alla base della magia e del momento magico della religione costituisce infatti la contropartita individuale e psicologica dei limiti dell’agire civile e laico in una data società e in una data epoca […]. Il ricorso a più o meno anguste tecniche mitico-rituali, cioè – in ultima istanza – al momento magico, serba la sua funzione riparatrice e reintegratrice54.

Quando De Martino menziona la funzione «riparatrice» della religione allude a quella funzione non consolatoria, ma «reintegratrice», che sembra proporsi come sostitutiva a quanto egli, con una «continua oscillazione tra lessico ontologico e psicologico»55 chiama «crisi della presenza». È nella chiusa di un breve scritto, intitolato appunto Crisi della presenza e reintegrazione religiosa56, che egli 52 Cfr. pure C. Gallini, Ripensando l’autonomia relativa del simbolico, in R. Di Donato (a cura di), Contraddizione felice? Ernesto de Martino e gli altri, ETS, Pisa 20162 (1989), pp. 129-142: 132: «Il linguaggio simbolico della crisi non va dunque decontestualizzato rispetto a quello della relativa terapia: il sistema di riferimenti è unitario e si adatta […] alla diversità dei ruoli (ad esempio di paziente e di terapeuta) che si assumono nel gioco sociale delle parti». 53 MWG I/22-4, p. 135; tr. it. I tre tipi puri di dominio legittimo, cit., p. 17. 54 E. de Martino, Sud e magia, cit., p. 125. 55 S. Barbera, “Presenza” e “Mondo”. Modelli flosofci nell’opera di Ernesto de Martino, in R. Di Donato (a cura di), Contraddizione felice?, cit., pp. 103-127: 122. 56 E. De Martino, Crisi della presenza e reintegrazione religiosa, «aut aut», XXXI, 1956, pp. 17-38, ora in Id., Sud e magia, cit., pp. 260-275. Della genealogia anche cassireriana del tema della «crisi della presenza» scrivono Gennaro Sasso, Ernesto de Martino

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afferma come la soluzione ieropoietica intervenga nel momento di inabilità storica degli individui. Il rischio di perdere la storia umana ha luogo nella storia umana, e non può aver nessun signifcato ieropoietico senza questo riferimento al concreto. […] In questa atmosfera diffusa di precarietà esistenziale il divenire si punteggia di momenti critici, nei quali la storicità “sporge” e la presenza rischia di non esserci57.

La magia nasce da una crisi concreta, ed è risposta concreta perché tecnica, agire quotidiano che indica il da farsi, dove «il processo ieropoietico va interpretato come scelta di momenti critici esemplari e come tecnica – o sistema di tecniche – per affrontare il rischio di alienazione e per ridischiudere le potenze formali che la crisi minaccia di paralizzare»58. La paralisi ha soluzione tecnica. Le tecniche magiche, religiose e (aggiungiamo) profetico-demagogiche, hanno il pregio di restituire movimento, solo che questo moto è una risposta narrativa alla dominazione che non ne esce – è psicagogia collettiva. 6. Profezia e ierocrazia E qui torna in gioco il proflo weberiano della tematizzazione, che si incentra sul monopolio dell’uffcio di gestione magica della crisi, sul tratto ierocratico generato dal processo ieropoietico. E sul rapido rientro della sporgenza profetica nella categoria ierocratica, attraverso una capillare coazione del dio. Un potere pensato secondo una qualche analogia con l’uomo animato può, come la “forza” naturalistica di uno spirito, esser costretto al servizio dell’uomo: chi ha il carisma di impiegare i mezzi corretti è anche più forte di un dio e può costringerlo secondo la sua volontà. L’agire religioso non è allora “servizio divino”, ma “coazione di dio”59.

Inizialmente i sacerdoti sono dunque maghi, guardiani del «dominio assicurato e organizzato delle norme sacre nella comunità sotra religione e flosofa, Bibliopolis, Napoli 2001, pp. 187-203, e Girolamo Imbruglia, Tra Croce e Cassirer, in R. Di Donato (a cura di), Contraddizione felice?, cit., pp. 83-102. 57 E. de Martino, Sud e magia, cit., p. 269. 58 Ivi, p. 270. 59 MWG I/22-2, p. 154; tr. it. Comunità religiose, cit., p. 23.

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ciale»60. L’indistinzione germinale tra magia e religione è mostrata anche dal dato funzionale per cui «l’etica religiosa condivide con l’etica magica […] d’essere un complesso di comandi e divieti spesso estremamente eterogenei […], la cui violazione costituisce il “peccato”»61. Preghiere e sacrifci sono innanzitutto azioni magiche, prima di divenire appalto di un ordine sacerdotale che si occupa di portare avanti lo sviluppo extraeconomico pertinente agli affari religiosi. Ed è «dove un ordine di stregoni ha saputo impossessarsi degli oracoli e dei giudizi divini e della loro formulazione che la sua posizione di potere è spesso schiacciante e destinata a durare a lungo»62. Le strade di clero e stregoneria cominciano a dipartirsi quando la tecnica magica diviene ragione sociale di un’impresa teologico-politica: la narrazione continuativa delle azioni di infuenza sugli dèi si fa oggetto specifco di un’agenzia ierocratica. Si possono designare come “sacerdoti” quei funzionari professionali che infuenzano gli “dèi” per mezzo della venerazione, in contrapposizione agli stregoni, che costringono i “demoni” attraverso mezzi magici. […]. Oppure si chiamano “sacerdoti” i funzionari di un’impresa continuativa, regolarmente organizzata, d’infuenza sugli dèi, rispetto al ricorso individuale agli stregoni di caso in caso63.

I sacerdoti predispongono una dottrina rigidamente stabilita, etica e sistematica, e una qualifcazione professionale, distinguendosi «da chi opera in virtù di talenti personali (carisma), dimostrandoli attraverso i prodigi e la rivelazione personale, ossia da una parte dagli stregoni, dall’altra dai “profeti”»64. Il valore rituale del dio è funzionale a proporsi come discriminante per la qualifca etica del sacerdote, la cui azione si riduce alla ripetizione precettiva delle tecniche necessarie a provocare la benevolenza del dio. Eppure l’ordine sacerdotale stesso, per dotarsi autenticamente di concezioni metafsiche ed etiche, sembra, secondo la costruzione weberiana, doversi rifare comunque all’azione profetica. Dinanzi al profeta, l’agenzia teologico-politica vede aprirsi al proprio interno una faglia carismatica che va trasformata – sottoIvi, p. 150; tr. it. cit., p. 21. Ivi, p. 175; tr. it. cit., p. 41. 62 Ivi, p. 164; tr. it. cit., p. 33. 63 Ivi, p. 158; tr. it. cit., p. 27. 64 Ibid.; tr. it. cit., p. 28. 60 61

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posta, qualsiasi ne sia la forma (magia, danza, tabuizzazione), a tecnicizzazione. Nelle azioni di comprova il potere carismatico si manifesta come dominio, rito. E clero e profezia fniscono per convergere nell’essere «entrambi portatori di una sistematizzazione e razionalizzazione dell’etica religiosa». Ciò non toglie la tensione: ma, nella storia degli effetti del carisma che Weber scrive – da «storico che porta avanti la teologia politica» –, è singolare che nell’equilibrio contingente dei poteri che si combattono da ambo le parti si usi l’arma demagogica. Tutti sfruttavano il prestigio che il carisma profetico come tale suscitava presso i laici rispetto ai tecnici del culto quotidiano: la sacralità di una nuova rivelazione si oppone alla sacralità della tradizione e, a seconda dell’effetto della demagogia da entrambe le parti, l’ordine sacerdotale scende a compromessi con la nuova profezia, recepisce o supera la sua dottrina, la accantona o viene esso stesso accantonato65.

È la coazione economica a restituire il carisma e l’apparato di discepolato, seguito, partito, che ha creato, «alle condizioni della vita quotidiana e ai poteri che la dominano». Ove «l’annuncio carismatico, anche quando l’apostolo ammonisce di “non spegnere lo spirito”, diviene inevitabilmente, a seconda dei casi, dogma, dottrina, teoria oppure regolamento, statuto giuridico o contenuto di una tradizione che si cristallizza»66, è in gioco la quotidianizzazione del carisma, il suo diventare istituzione: «inevitabilmente, si comincia a deragliare sul binario della statuizione e della tradizione»67. Ciò che era carismatico slitta sul versante della traditionale o legale Herrschaft. Il discorso teologico plasma la gestione economica del quotidiano: «la ierocrazia è il potere stereotipante più forte che ci sia»68. La costruzione di regolamenti e narrazioni teologiche-politiche è la maggiore delle normalizzazioni, rispetto a cui il vulnus del carisma si staglia come fgura di sovranità e sudditanza di massa, fascinazione motivata dalla ricerca di protezione e dalla sua risposta inizialmente profetica, poi demagogica, poi dominativa.

Ivi, pp. 202-203; tr. it. cit., p. 60. MWG I/22-4, p. 490; tr. it. I tre tipi puri di dominio legittimo, cit., p. 341. 67 Ivi, p. 492; tr. it. cit., p. 343. 68 Ivi, pp. 633-634; tr. it. cit., pp. 453-454. 65 66

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Epilogo. Florens Christian Rang e la maschera Nel suo scritto sulla Psicologia storica del carnevale, Florens Christian Rang volle stigmatizzare «la tentazione cristiana, sempre ricorrente, di tradurre il Geist in “organizzazione dell’umanità”: un voler rimettere stabilmente a posto le cose del mondo, che eternizza il mondo»69. E volle rivelare lo scherno carnascialesco come presa in giro del Redentore «poiché non libera dal cosmo in modo abbastanza effcace»70. Il problema del Carnevale, ciò che provoca una nauseabonda ebbrezza, è la sua «direzione», il suo senso: «la legale assenza di legge, normale assenza di norma»71. Nella riduzione del Carnevale al suo fallimento istituzionalizzato, Rang trovava la forza di vagliare la fgura dell’interrex mediante un parallelo ironico con l’ingegneria costituzionale del presente. Nel regno della disciplina della ragione ci si dominava; si affrontavano con contromisure soprattutto gli atavismi dell’angoscia: la sapienza che con il calendario in mano aveva legalizzato l’assenza di legge imponeva anche a questo un sovrano, per il lasso di tempo in cui impallidiva ogni autorità religiosa eleggeva un interrex. […] Il Principe del Carnevale è il più antico di tutti i presidenti a tempo72.

Di fronte alla deriva ierocratica, Rang individuava però uno spazio di insignifcanza rispetto al «teatro» autoritario che divide le maschere del dio dai «fascinati». Quando il sacerdote dà un oracolo, diviene persona: per-sonat – deve parlare attraverso la maschera del Dio. […] Ogni autorità è maschera; l’umanità si divide in persone, cioè in maschere e in semplici uomini che non signifcano niente73.

L’uscita dalla semantica propria degli invasati comuni risuonava anche nell’unico passaggio in cui Rang faceva menzione della profezia, delineandovi però, contra Weber, uno spazio scevro di teologia politica. 69 F. Desideri, L’ultimo carnevale, in F. Ch. Rang, Psicologia storica del carnevale (1909), a cura di F. Desideri, commento di M. Cacciari, Bollati Boringhieri, Torino 20082 (Arsenale, Venezia 1983), pp. 7-43: 17. 70 F. Ch. Rang, Psicologia storica del carnevale, cit., p. 84. 71 Massimo Cacciari, Memoria del Carnevale, ivi, pp. 99-120: 111, 101. 72 F. Ch. Rang, Psicologia storica del carnevale, cit., pp. 59-60. 73 Ivi, p. 87.

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Attraverso la parola di scherno del misero, dell’oltraggiato, dell’ubriaco, risuona, toccante, al suo ultimo entusiasmo una parola nuova, inaudita, una preghiera che esaudisce sé stessa: l’evocazione di un soccorritore contro il Destino […]. La tragedia vive la profezia: la profezia dell’epifania del nuovo Dio che salva perfettamente l’entusiasmo74.

Appena delineato il proflo dell’insignifcante, del non visto, dell’impersonale che osteggia il destino nella parola profetica entusiasta, tuttavia, si parava di fronte a Rang di nuovo il proflo severo della diagnostica weberiana, che da poco echeggiava in Germania, tra “critiche” e “anticritiche”. Nel Medioevo, scriveva, «l’umanità si impadronì di un’ebbrezza ancor più sottile – non più un’ebbrezza della creazione, ma della rinuncia: l’ebbrezza dell’ascesi. […] L’uomo moderno […] si è già inventato una nuova ascesi che ancora deve togliersi di dosso: il dovere del lavoro»75. Anche l’ascesi ebbra di lavoro divenne narrazione teologico-politica – ma Weber non la portò avanti. Semplicemente, la vide all’opera.

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Ivi, p. 90. Ivi, p. 94.

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Come lo spazio chiuso, riempito di forme, è la sfera della verità greca, così quella di Israele è il tempo aperto, informemente fuente […] là il cerchio del cosmo che ritorna in sé stesso, qui la linea, che procede all’infnito, della creazione; là il mondo del vedere, del guardare, qui quello dell’udire, del percepire, là immagine e metafora, qui decisione e atto1.

L’ermeneutica del tempo è una delle questioni decisive all’interno della tradizione ebraica, ma nei primi anni del Novecento acquista una rilevanza maggiore nel cosiddetto rinascimento culturale ebraico2. Il popolo della diaspora ha nel tempo e non nello spazio il suo elemento, nella storia e non nella geografa3. Come ha scritto magistralmente Margarete Susman, l’abisso che separa lo spazio dal tempo è anche la differenza tra vista e udito, tra la verità greca e la tradizione ebraica, tra metafora e atto. Rispetto alla perfezione spaziale, un pensiero che fa i conti con un’articolazione politica del tempo è un faccia-a-faccia con il pericolo e la speranza4. 1 M. Susman, Il libro di Giobbe e il destino del popolo ebraico, a cura di G. Bonola, Giuntina, Firenze 1999, p. 10. 2 Cfr. M. Brenner, The Renaissance of Jewish Culture in Weimar, Yale University Press, New Haven & London 1996. Il termine «rinascimento ebraico» si trova per la prima volta in un saggio di Buber del 1900, in cui viene defnito come la «resurrezione del popolo ebraico da una vita parziale a una vita piena». Cfr. M. Buber, Jüdische Renaissance, «Ost und West» I (1901), pp. 7-10. 3 Cfr. M. Susman, Il libro di Giobbe e il destino del popolo ebraico, cit., p. 8: «Il fatto che questo popolo, diversamente da ogni altro, non sia scaturito da una terra, bensì da una chiamata nel deserto nella quale gli è stata proposta la scelta tra la morte e la vita, come quella tra il bene e il male, è per tutti i tempi l’espressione del suo rapporto con l’essere». 4 Cfr. ivi, p. 10: «Il tempo che, in quanto corrente protesa in avanti, che tutto strappa via con sé, è massima minaccia per qualsiasi senso, diviene così esso stesso il ricettacolo

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All’interno di questo quadro si colloca la proposta flosofca e politica di Gustav Landauer. Il tempo è la cruna attraverso cui passa il flo rosso del suo messianismo anarchico e la chiave ermeneutica per comprendere il suo pensiero. In questo saggio intendo ripercorrere le differenti articolazioni di questa trasformazione temporale nell’opera di Landauer, per metterne in luce le implicazioni flosofche e politiche. In particolare, verranno presi in esame Skepsis und Mystik, pubblicato nel 1903, in cui il superamento dello spazio nel tempo è la premessa teorica e flosofca per una nuova comunità, e i saggi Die Revolution e l’Aufruf zum Sozialismus, dove l’articolazione ebraica del tempo diventa il modello per pensare la storia, la rivoluzione e il messianismo politico. Anche se il suo rapporto con l’ebraismo è una questione controversa e molto dibattuta5, non si può non leggere la proposta flosofca di Landauer senza tenere conto della sua appartenenza alla tradizione ebraica. Senza dubbio, questo elemento acquista un ruolo strategico solamente grazie all’incontro decisivo con Martin Buber, che si fa carico – dopo la morte dell’amico «profeta e martire della comunità» – della pubblicazione delle sue opere, nel tentativo di trasformarlo nel «leader segreto» del sionismo6. È proprio grazie all’opera di mediazione di Buber, infatti, che avviene il passaggio dl senso: del senso raccolto nel suo centro, della salvezza. Contro il traguardo spaziale del compimento sta la meta della redenzione, da raggiungere nel tempo». 5 Se Linse e Link-Salinger sono più cauti, Weisberger, Wolf, Lunn, Mendes-Flohr, Delf sono d’accordo nel dire che l’ebraismo giochi un ruolo chiave. Cfr. U. Linse, Gustav Landauer und die Revolutionszeit 1918/1919, Kramer, Berlin 1974; R. Link-Salinger, Gustav Landauer. Philosopher of Utopia, Hackett Publishing Co., Indianapolis 1977, pp. 74-76; E. Lunn, Prophet of Community. The Romantic Socialism of Gustav Landauer, University of California Press, Berkeley 1973; H. Delf, “Prediger in der Wüste sein”. Gustav Landauer im Weltkrieg, in G. Landauer, Werksausgabe. Gustav Landauer. Dichter, Ketzer, Außenseiter, Bd. 3, hrsg. von H. Delf, Akademie Verlag, Berlin 1997, pp. XXIII-LI; S. Wolf, Einleitung, in G. Landauer, Ausgewählte Schriften, Philosophie und Judentum, Bd. 5, hrsg. von S. Wolf, AV, Lich/Hessen 2012, pp. 9-85; P. Mendes-Flohr e A. Mali, in collaborazione con H. Delf von Wolzogen, Gustav Landauer: Anarchist and Jew, De Gruyter, Berlin/Boston 2015; A. M. Weisberger, The Jewish Ethic and the Spirit of Socialism, Peter Lang, New York/Frankfurt am Main 1997, pp. 158-172; 6 Dopo la sua morte, Buber lo trasforma nel «leader segreto» del sionismo, non solo per la rilevanza che la flosofa di Landauer ha avuto tra gli Ostjuden, ma anche per l’uso che viene fatto della sua proposta politica nei primi kibbutz, nell’organizzazione Hapoel Hatzair e nel movimento giovanile Hashomer Hatzair. M. Buber, Landauer und die Revolution, «Masken: Halbmonatsschrift des Düsseldorfer Schauspielhauses», 14, 18-19 [1919], p. 291; cfr. Bar Kochba (hrsg.), Vom Judentum, Kurt Wolff, Leipzig 1913.

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verso est e si compie il riscatto ebraico di Landauer, dando una seconda chance in Palestina – nei primi kibbutz – ai suoi progetti rivoluzionari, falliti tragicamente in Germania7. 1. Gustav Landauer, un pensatore anarchico della comunità Nato nel 1870 a Karlsruhe, Gustav Landauer è stata una delle fgure decisive – anche se per lungo tempo dimenticata dopo la sua morte – nel dibattito culturale della Germania del tempo. Fu scrittore, critico letterario, traduttore, saggista, redattore della rivista Der Sozialist, fece attivamente parte della tormentata Repubblica dei Consigli di Monaco, dove rimase barbaramente ucciso dall’irruzione dei Freikorps il 2 maggio 1919. Il suo martirio è la ferita che Landauer lascia in eredità al Novecento. Nella sua biografa e nel suo pensiero la rivoluzione si intreccia alla flosofa e l’anarchia al messianismo. Egli inaugura tragicamente il destino di una generazione di pensatori ebreo-tedeschi dell’inizio del secolo scorso, accomunati da quell’affnità elettiva di cui parla Löwy in Redenzione e Utopia: una certa corrispondenza dinamica tra messianismo, neoromanticismo e utopia libertaria che unisce Buber, Landauer, Benjamin, Bloch, Rosenzweig, Scholem e Kafka8. La sua opera frammentata si compone di articoli, appunti, traduzioni, ma i contributi decisivi sono Skepsis und Mystik (1903), Die Revolution (1907) e l’Aufruf zum Sozialismus (1911). La costellazione di autori in cui si muove va da Shakespeare a Nietzsche, da Spinoza a Schiller, da Tolstoj a Kropotkin. Due sono stati gli incontri determinanti nella sua vita: quello con Fritz Mauthner nel 1888 e quello con Martin Buber nel 1899, avvenuto nel circolo neoromantico della Neue Gemeinschaft di Berlino. È grazie allo scambio intellettuale e all’amicizia con questi due pensatori che Landauer arriva ad elaborare la sua originale proposta flosofca, 7 Cfr. J. Horrox, A Living Revolution: Anarchism in the Kibbutz Movement, AK Press, Oakland 2009. 8 M. Löwy, Redenzione e utopia. Figure della cultura ebraica mitteleuropea, tr. it. di D. Bidussa, Bollati Boringhieri, Torino 1992; cfr. anche E. Dubbels, Figuren des Messianischen in Schriften deutsch-jüdischer Intellektueller 1900-1933, De Gruyter, Berlin 2012; D. Di Cesare, Utopia del comprendere, il melangolo, Genova 2003, pp. 257-262; Id., Israele. Terra, ritorno, anarchia, Bollati Boringhieri, Torino 2014.

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partendo da uno scetticismo linguistico per approdare ad un pensiero anarchico e mistico della comunità. Sono numerose le diffcoltà che si incontrano nello studio di Landauer, a partire dall’intreccio complicato di elementi contrastanti, passando per le molteplici tensioni teoriche che attraversano il suo pensiero, per fnire alla peculiare risemantizzazione di concetti chiave, quali l’anarchia, la comunità e il socialismo. L’idea di anarchia, per esempio, viene interpretata non come un impeto distruttivo contro il potere costituito, ma come una forma concreta di organizzazione basata su una profonda comunanza. L’anarchismo non è «un sistema di pensiero pronto, ma è la vita degli uomini»9. Il socialismo è il mezzo per realizzare la comunità anarchica e la ricostruzione di un mondo in cui domina la cooperazione autentica e vitale, in diretta opposizione al meccanicismo e al determinismo marxista. Contro ogni forma di centralismo autoritario, il suo progetto politico mira ad una rigenerazione della coscienza individuale spinta a recuperare i legami con forme di autogestione, mutuo soccorso e federazione: «La società è una società di società di società [Gesellschaft ist eine Gesellschaft von Gesellschaften von Gesellschaften]10». La Gemeinschaft medievale, di cui prova profonda nostalgia, è l’espressione di una vita sociale autentica da contrapporre allo Stato moderno. Si può dire che il socialismo anarchico di Landauer sia tanto il passaggio dall’isolamento alla comunità, quanto una forma di liberazione regressiva11. La regressione è un ritorno alle forme di cooperazione medievali come prototipo di una comunità autentica, ma al contempo – come vedremo – è un movimento di ritrazione che passa dall’esperienza individuale, in cui il singolo si riscopre come una scintilla del tutto in un percorso mistico di redenzione12.

G. Landauer, Pensieri anarchici sull’anarchismo, in Id., La comunità anarchica, a cura di G. Ragona, Elèuthera, Milano 2012, pp. 90-99: p. 94. 10 G. Landauer, Aufruf zum Sozialismus [1911], hrsg. von Karl-Maria Guth, Hofenberg, Berlin 2017, p. 139. 11 Per questa idea di socialismo regressivo, devo molto alle conversazioni flosofche con l’amico Cedric Cohen Skalli. 12 Cfr. A. Weisberger, The Jewish Ethic and the Spirit of Socialism, cit., p. 162: «The socialism of Landauer represents the innerworldly mystical path to redemption». 9

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2. Scetticismo, linguaggio e anarchia Skepsis und Mystik non è un’opera di facile lettura, ma è il libro più flosofco e rivoluzionario di Landauer. Il volume si articola in tre parti ed è un tentativo originale di dare una base linguistico-flosofca all’anarchia. La rifessione di Landauer, in cui parola e azione politica sono strettamente connessi, può essere considerata come un’applicazione pratica della Sprachkritik di Mauthner13. Nell’ambizioso tentativo di superare la tirannia del linguaggio, la flosofa di Mauthner propone un pensiero radicale che Landauer traduce in una prassi politica per sviluppare una critica anti-autoritaria e un pensiero mistico della comunità14. La Sprachkritik, infatti, non può essere separata da ciò che egli chiama anarchismo e socialismo15. Dal momento che il potere è linguaggio [Macht ist die Sprache16], lo scetticismo linguistico diventa uno strumento per delegittimare e smascherare le presunte forme di autorità. Si può, senz’altro, ammettere che il binomio che dà il titolo a questo libro sia la cifra fondamentale del pensiero di Landauer. Da una parte c’è un sentiero teorico che conduce dallo scetticismo alla mistica, dalla separazione all’unità, dall’altra entrambi sono due modalità di superare la cristallizzazione teoretica e pratica dell’autorità per volgersi verso uno spirito autentico. Coniugando teoria e prassi, lo scetticismo linguistico di Landauer è un dispositivo politico verso la vita comunitaria. Attraverso il dubbio, elevato a strumento sovversivo, si scioglie l’irrigidimento flosofco e politico in cui il singolo è imprigionato per portare alla luce, con una critica linguistica permanente, la comunità, télos del suo progetto politico. 13 Su Mauthner mi permetto di rimandare al mio saggio: cfr. L. Pisano, Misunderstanding Metaphors: Linguistic Scepticism in Mauthner’s Philosophy, in Giuseppe Veltri e Bill Rebiger (a cura di), Yearbook of the Maimonides Centre for Advanced Studies 2016, De Gruyter, Berlin/Boston 2016, pp. 95-122. 14 Sul misticismo di Landauer come essere-nel-mondo, cfr. Th. Hinz, Mystik und Anarchie: Meister Eckhart und seine Bedeutung im Denken Gustav Landauer, Karin Kramer Verlag, Berlin 2000. 15 Nella lettera a Mauthner del 17.5.1911 Landauer scrive: «Di certo la Sprachkritik è inseparabile da ciò che io chiamo anarchismo e socialismo, e non potrebbe essere altrimenti». Cfr. G. Landauer-F. Mauthner, Briefwechsel 1890-1919, hrsg. von H. Delf und J. H. Schoeps, Beck, München 1994, p. 232. 16 Cfr. G. Landauer, Zur Entwicklungsgeschichte des Individuums, in Id., Ausgewählte Schriften, Anarchismus, Bd. 2, hrsg. von S. Wolf, AV, Lich/Hessen 2009, pp. 45-68: 63.

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L’anarchia di Landauer prende, dunque, le mosse dallo scetticismo rivolto tanto al mondo dei fenomeni, quanto alla capacità del linguaggio di restituire un’immagine adeguata della realtà. Gli individui, così come le parole, sono Erscheinungsformen e manifestazioni isolate di un tutto che li precede. Nella Bildung futura dell’uomo e della società, Landauer afferma con chiarezza che la nuova comunità dovrebbe poggiarsi sullo scetticismo, che viene investito di un ruolo politico17. Dunque, affnché si dia un pensiero della comunità, è necessario mettere in questione ogni forma di irrigidimento, di isolamento e di limite spaziale. Per questa ragione la Skepsis segna il passaggio verso una vita comunitaria, dal momento che è il presupposto per la Verbindung des Getrenntes, l’unione di ciò che è separato. Tale legame poggia su un passaggio dallo spazio al tempo, dall’irrigidimento spaziale alla fuidità temporale. Lo spazio è, infatti, una mera forma dell’intuizione, estranea all’individuo, mentre il tempo è la forma del nostro Ichgefühle18. Nel suo unico lavoro flosofco, dunque, Landauer, attraverso una ridefnizione del tempo, defnisce il passaggio dall’individuo alla comunità, che è il cuore del suo anarchismo politico. Landauer sostiene non solo che lo spazio debba essere trasformato in tempo [der Raum muss in Zeit verwandelt werden]19, ma che uno dei compiti più diffcili dell’umanità a venire sarà quella di esprimere questa transizione [alles Raeumliche zeitlich auszudrucken, ist vielleicht eine der wichtigsten Aufgaben kommender Menschen]20. Il tempo è connesso anche alla ricerca di un nuovo linguaggio e la musica è la forma estetica di questo superamento, l’origine di nuove metafore. La transizione verso la temporalità è, dunque, un passaggio politico ed estetico dall’estraneo al proprio, dalle costrizioni esterne ad una interiorità consapevole, dall’isolamento alla comunità.

17 Cfr. Id., Zukunft-Menschen, in Id., Ausgewählte Schriften, Judentum und Philosophie, Bd. 5, hrsg. von S. Wolf, AV, Lich/Hessen 2009, pp. 219-225: 224: «Denn nur auf dem Grunde der Skepsis kann der Versuch vielleicht gelingen, neue Formen des Gemeinschaftslebens zu bilden; nur das freudige und tapfere Gedenken an den Tod alles Lebendigen kann uns zur Wiedergeburt des Lebendigen verhelfen». 18 Cfr. G. Landauer, Skepsis und Mystik, in Id., Ausgewählte Schriften, Bd. 2, hrsg. von S. Wolf, AV, Lich/Hessen 2009, p. 93. 19 Ivi, p. 87. 20 Ivi, p. 55.

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3. Misticismo politico: lo spirito dell’anarchia Questo ripensamento radicale della temporalità è legato ad una forma di misticismo politico, che rende l’anarchia di Landauer un unicum nella storia del Novecento. L’affnità che sussiste tra l’esperienza mistica e la rivoluzione è inconfondibile, poiché quest’ultima è intesa come uno Zwischenzeit in cui si dà lo spirito21. Per mettere in luce fno a che punto Landauer operi la traduzione politica del misticismo, è utile analizzare ciò che egli intende per spirito. Il riferimento al Geist è una costante che ritorna più volte nella sua opera frammentata, anche se non c’è in nessun luogo una spiegazione esaustiva a riguardo. Lo spirito non è una sovrastruttura, il prodotto e il rifesso delle materiali condizioni di produzione, né tanto meno è riducibile alla scienza che, come il dogmatismo, il positivismo e lo statalismo, non è altro che una forma di irrigidimento della vita. Il Geist della rivoluzione non è un a priori, ma un risultato dell’azione degli uomini e una trascendenza, che si costituisce a partire da ciò che è immanente. Esso ha a che fare con una regeneratio in cui «il divenuto è il divenire, il microcosmo il macrocosmo, l’individuo il popolo, lo spirito la comunità, l’idea il legame»22. Lo spirito è, dunque, un gesellschaftlicher Begriff, una qualità di relazione che costituisce la comunità, ma è al contempo anche vita, Leben, eccentrica resistenza agli schemi irrigiditi dello Stato. È un flo tanto teorico quanto pratico, che connette non solo gli individui, ma anche le loro attività23. Si delinea un’antitesi tra spirito e Stato, che è sia un rapporto astratto in cui non c’è aggregazione tra gli individui, sia un legame artifciale opposto a quello libero e autentico24. Per Landauer, dunque, le istituzioni non sono una forza esterna che opera sull’uomo, ma un nome astratto che permette 21 Cfr. N. Altenhofer, Tradition als Revolution: Gustav Landauer “geworden-werdendes” Judentum, in D. Bronsen (a cura di), Jews and Germans from 1860 to 1933. The problematic Symbiosis, Carl Winter Universitätsverlag, Heidelberg 1979, pp. 173-208, p. 183. 22 G. Landauer, Trenta tesi socialiste, in Id., La comunità anarchica, cit., pp. 100115: 105. 23 Cfr. ibid.: «un tempo il flare, il tessere, il forgiare e l’edifcare erano compenetrati di un unico spirito, mentre oggi fabbriche, commercio, agricoltura non hanno nulla a che fare con lo spirito». 24 La detrascendentalizzazione dello Stato in una qualità di relazione anticipa di gran lunga la rifessione sul potere disseminato della seconda metà del Novecento.

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questo soggiogamento. La sua anarchia è profondamente rivoluzionaria perché non si basa sulla violenta distruzione dello Stato, ma al contrario è una pòiesis anarchica che riguarda l’instaurazione di nuovi rapporti. Dal momento che – come è stato più volte sottolineato – l’atteggiamento mistico è profondamente elitario e raramente si coniuga con un pensiero della comunità, la proposta di Landauer appare una contradictio in adjecto. Infatti, una delle diffcoltà maggiori dei suoi scritti deriva dalla concezione politica del misticismo, che non concerne la separazione dal mondo, ma piuttosto una forma di connessione profonda dell’individuo con la comunità e la storia. La contraddizione di attivismo e misticismo è solo una delle tensioni teoriche nel pensiero di Landauer. Si è parlato, a tal proposito, di una soziale Mystik25 o di un «misticismo attivo»26 in cui la rigenerazione dell’umanità sarebbe una corrispondenza armonica tra il tutto e le parti, una coincidenza perfetta tra passato, presente e futuro. Tuttavia, la spiritualizzazione delle relazioni sociali è la chiave per comprendere il suo misticismo politico: la redenzione della comunità passa attraverso un’esperienza mistica individuale, risultato di uno scetticismo radicale nei confronti delle superstizioni, delle illusioni e delle costrizioni. L’originalità del pensiero di Landauer si colloca proprio qui: la rigenerazione è prima di tutto un atto di Selbstbefreiung (auto-liberazione)27. Per rifondare l’umanità è necessario un «mistico decesso che conduce alla rinascita»28. Non c’è un rinnovamento armonico e lineare, ma la regeneratio e la liberazione passano attraverso un atto di auto-liberazione, che è una catabasi in cui il negativo deve essere sperimentato singolarmente. L’idea che la comunità sia il risultato di una Selbstbefreiung è al centro della sua mistica secolarizzata29. Cfr. R. Kauffeldt, Anarchie und Romantik, in Hanna Delf-Gert Mattenklott (hrsg.), Gustav Landauer im Gespräch. Symposium zum 125. Geburtstag, Max Niemeyer, Tübingen 1997, pp. 43-54, p. 45. 26 Cfr. A.M. Weisberger, The Jewish Ethic and the Spirit of Socialism, cit., p. 163. 27 Cfr. R. Kauffeldt, Anarchie und Romantik, cit., p. 45. 28 G. Landauer, Pensieri anarchici sull’anarchismo, in Id., La comunità anarchica, cit., pp. 90-99: 95. 29 Sulla mistica di Landauer, cfr. A. Wolkowicz, Mystiker der Revolution. Der utopische Diskurs um die Jahrhundertwende, Wydawnictwo Uniwersytetu Warszawskiego, Warsaw 2007. 25

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Questa forma di anarchia mistica può essere interpretata sulla base di un fenomeno peculiare – la Neue Mystik – che consiste in una reinterpretazione del misticismo comunitario, diffuso tra intellettuali e scrittori tedeschi e austriaci all’inizio del Novecento. Il rinnovato misticismo di quegli anni è evidente nei continui richiami all’India, a Buddha e a forme orientali di ascesi30. Non mancano tentativi concreti di dar vita ad alcune comunità che si basano su una determinata concezione spirituale, regolata da ideali estetici, politici e letterari, come la Neue Gemeinschaft, il Forte-Kreis e il Patmos-Bund31. La speranza utopica che lega questi esperimenti sociali è la ricerca di un nuovo modello culturale e politico, che fosse alternativo alla “trappola” dello Stato. In questo solco ermeneutico deve essere spiegata la centralità dell’anarchia nei primi anni del Novecento. L’idea di misticismo che ne risulta non ha a che fare con la tradizionale idea di un’unione tra Dio e l’anima, ma con un sentimento consapevole di unità tra l’individuo e la comunità, il presente e il passato. Si tratta di un misticismo secolarizzato che mette insieme alcuni elementi estetico-linguistici – non è un caso, infatti, che molti di questi autori fossero poeti e scrittori – con una idea politica e sociale di rigenerazione dell’umanità. In questa luce deve collocarsi anche la traduzione di Meister Eckhart che Landauer portò a termine durante i giorni della sua prigionia nel 1889. A mio avviso, per il pensiero di Gustav Landauer si può parlare di una forma di socialismo ascetico legato ad una forma di vita comunitaria. Non solo la sua fgura, i tratti del suo viso, la lunga barba, il mantello e il cappello neri, ma anche il suo stile e le sue parole facevano di lui «un predicatore nel deserto, un profeta, un rivoltoso tra i popoli». L’esercizio spirituale della scrittura si lega ad un’esigenza mistica di rigenerazione e la sua attività politica non può essere separata da una forma di vita. Landauer guarda con estrema attenzione alle forme di vita ascetiche, non solo al misticismo medievale o a quello ebraico, ma è profondamente affascinato dalla fgura di Gesù e dalla comunità degli Esseni. Non è un caso che, nel 1908, Landauer doni una copia de La Rivoluzione ad un monastero in Bavaria. Inoltre, in una lettera del 10.03.1899 a Hedwig Lachmann, Landauer defnisce la prigione, dove si trova, il convento contemporaneo; entrambi i luoghi sono metafore dell’ascesi. Cfr. C. Seeligmann, Gustav Landauer and his Judaism, in P. Mendes-Flohr e A. Mali, in collaborazione con H. D. von Wolzogen, Gustav Landauer: Anarchist and Jew, cit., pp. 205-212: 206; G. Mattenklott, Gustav Landauer. Ein Portrait, in G. Landauer, Werksausgabe. Gustav Landauer. Dichter, Ketzer, Außenseiter, Bd. 3, cit., pp. VI-XXII, pp. IX-X. 31 Cfr. W. Hoffmann, Neue Mystik, in F. M. Schiele-L. Scharnack (a cura di), Die Religion in Geschichte und Gegenwart, vol. 4, Mohr, Tübingen 1913, pp. 608-611; U. Spörl, Gottlose Mystik in der deutschen Literatur um die Jahrhundertwende, Schöningh, Paderborn 1997; M. Wagner - Egelhaaf, Mystik der Moderne. Die visionäre Ästhetik der deutschen Literatur im 20. Jahrhundert, Metzler, Stuttgart 1989. 30

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Meister Eckhart gioca, infatti, un ruolo chiave per comprendere l’anarchia mistica di Landauer. La rifessione di Eckhart non è solo una contemplatio mundi, ma è anche radicata in una prassi intesa come trasformazione essenziale della relazione tra mondo e società. Landauer trova nel suo misticismo la strada per pensare una forma di comunità, che vada ben oltre l’atomizzazione degli individui32. I Sermoni gli offrono tanto una nuova defnizione del tempo, come un momento eterno in cui ci sarebbe un’unione spirituale del singolo e del tutto, quanto una trasfgurazione improvvisa delle relazioni tra uomo, mondo e dio. L’unione dell’io con la comunità, che si trova negli scritti di Eckhart, è secondo Landauer segno di un misticismo terrestre, che egli ritrova anche nella mistica ebraica. Grazie alla mediazione di Buber, infatti, Landauer scopre nel chassidismo un intreccio di praxis e Geist. Nella tradizione ebraica trova un rinnovato movimento rivoluzionario, che tiene insieme una speranza verso la redenzione e un rimando alla comunità, in una sintesi tra mistica terrena e anarchismo comunitario. 4. Il tempo anarchico della rivoluzione La politicizzazione della temporalità è il flo rosso dell’anarchia di Landauer. Nel famoso saggio dal titolo Die Revolution, redatto nel 1907, la storia e il tempo devono essere rivoluzionati per ripensare in modo fondamentale la comunità a-venire. Prendendo le distanze da una concezione evolutiva e illuminista, la storia è fatta di curve, tornanti, rotture, interruzioni e il suo ritmo è una successione di topia e utopia, cristallizzazione e scioglimento. Non c’è una direzione precisa, né una fne determinata, ma il processo storico si lascia descrivere come un pendolo tra autorità e libertà. Si tratta di una conversione, ovvero il passaggio dall’istituzione alla de-stituzione, dal determinato all’indeterminato. L’irrigidimento e la cristallizzazione sono sinonimi di topia, mentre l’utopia è una treibende Kraft che fuidifca ciò che è defnito. Nella sua concezione della storia c’è un intreccio tra passato, presente e futuro. Le topie e le utopie contengono il momento dell’enCfr. T. Hinz, Mystik und Anarchie: Meister Eckhart und seine Bedeutung im Denken Gustav Landauer, cit. 32

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tusiastico ricordo di quelle precedenti. La centralità dell’Erinnerung coniuga elementi conservativi e utopici, in cui la memoria come processo interiore si lega strettamente al futuro, la nostalgia si lega alla promessa. In questo incrocio tra trascendenza ed immanenza sta la grandezza della sua concezione della storia. Ogni uomo è, infatti, esito di una storia che l’ha preceduto e promessa di una storia che gli sopravvive. Il passato non è mai un dato defnito, ma è piuttosto divenire che si modifca e si rende leggibile solo alla luce del futuro33. La concezione landaueriana di rivoluzione non si lascia incasellare in uno studio scientifco della storia, ed è proprio per questo motivo che il suo approccio è stato defnito anti-storico34. Da un lato lega il futuro al passato attraverso il ricordo, dall’altro apre la storia all’imprevisto. Il ricordo acquista un valore politico e lascia emergere un elemento mistico e impensato, che sfugge anche ad un’interpretazione puramente marxista35. Dare al tempo una connotazione politica e legare il ricordo alla rivoluzione sono due gesti che ricollocano Landauer all’interno della tradizione ebraica, dove l’ingiunzione del ricordo (Zachor!) svolge un ruolo decisivo36. In questa ermeneutica infnita del tempo, la rivoluzione non è il fne della storia, ma una soglia metastorica tra topia e utopia, che porta con sé il ricordo di tutte le rivoluzioni già avvenute. La rivoluzione, dunque, è per Landauer una pausa dal tempo ordinario, un momento della crisi, una Zeitspanne (periodo di tempo) anarchica, in cui la vecchia topia non è più e la nuova non è ancora. Essa è al contempo anche il salto, il Durchbruch, l’interruzione e l’irruzione del nuovo in un istante improvviso, in uno Jetzt, che si fa carico dell’indice segreto della storia per riscattare l’umanità. È in questo tempestivo risplendere dell’attimo che avviene la congiunzione tra Landauer distingue due tipi di passato: uno «è la nostra realtà, la nostra natura, la nostra persona, il nostro agire, qualsiasi cosa noi facciamo la compiono attraverso noi le forze viventi del passato», l’altro riguarda «gli elementi del passato [che] abbiamo in noi, gli escrementi del passato [che] scorgiamo dietro di noi. [Questo] passato che è vivente in noi precipita ogni momento nel futuro, è movimento, è vita». Cfr. G. Landauer, La rivoluzione, a cura di A.M. Pozzan, Carucci, Assisi 1970, pp. 37-38. 34 Cfr. N. Altenhofer, Tradition als Revolution: “Gustav Landauers geworden-werdendes” Judentum, cit., p. 180. 35 Cfr. H. Delft, Gustav Landauer im Weltkrieg, cit., p. XXXI. 36 Cfr. ivi, p. XXXII; sul ricordo nella tradizione ebraica, cfr. Y. H. Yerushalmi, Zachor: Erinnere Dich! Jüdische Geschichte und Jüdisches Gedächtnis, Wagenbach, Berlin 1988, pp. 17-40. 33

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messianismo e utopia. Per Landauer il passato non è compiuto, ma si può riparare e il nuovo è un divenuto che deve tenere conto del legame con l’antico. Questa istanza di rinnovamento catartico del genere umano, che è la traccia della rifessione di Landauer, non attende un tempo storico al di là da venire, ma può essere attivato qui e ora. È per questo motivo che c’è nei suoi scritti una veemente esortazione e un impegno pratico al cominciamento, all’inizio e all’attuazione del nuovo che può irrompere all’improvviso. Nel pensiero di Landauer avviene una trasposizione dell’asse della speranza all’azione umana, Tat37. Il radikal Bruch non è posticipato in un futuro lontano, ma si dà nel presente38. Landauer ha ripreso dalla tradizione ebraica questa idea della rivoluzione come cesura qualitativa spirituale e, dunque, politica. Banon defnisce in modo splendido il messianismo come la durata stessa del tempo in cui l’attesa non è un’assenza, ma «la relazione con ciò che non può entrare nel presente, troppo piccolo per contenerlo»39. Il rapporto con il presente è attesa e attività nell’imminenza di uno sconvolgimento radicale. Dunque, è un’attesa attraversata da una tensione tra l’irreversibilità del tempo e la sua fecondità, tra un tempo lontano e uno a-venire, senza puntare ad un epilogo né ad una fne. 5. Messianismo anarchico: rivoluzione, riparazione e diaspora Come è noto, c’è un prezioso nesso tra anarchia e messianismo ebraico, che conterrebbe l’idea di una rivoluzione come rottura del corso storico e sancirebbe la fne delle violenze politiche e delle alienazioni40. Si può dire che Landauer traduca, infatti, la catastrofe del

37 Cfr. P. Mendes-Flohr, Introduction, in Gustav Landauer: Anarchist and Jew, cit., pp. 1-13: 3. 38 L’esortazione a un nuovo inizio non deve essere scambiata con una banale istanza palingenetica. A tal proposito, l’eccessiva fducia marxista per Landauer avrebbe agito come freno per un cambiamento attivo perché, quasi come una superstizione, avrebbe inibito il cominciamento. 39 D. Banon, Il messanismo, tr. it di Vanna Lucattini, Giuntina, Firenze 2000, p. 11. 40 Cfr. Isaia 13 e 14: l’era messianica abbatterà l’arroganza dei tiranni (gaavat aritsim) e spezzerà lo scettro dei dominatori (shevet moshlim). Cfr. M. Buber, Königtum Gottes, Schneider, Heildeberg 1956; A. Bertolo (a cura di), L’anarchico e l’ebreo. Storia di un incontro, Elèuthera, Milano 2001.

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messianismo in una forza vitale41. L’essere ebreo non rappresenta, dunque, solo un fattore autobiografco, ma egli ripensa l’appartenenza alla dimensione ebraica, attraverso la mediazione di Buber, come forma storica dell’idea rivoluzionaria. In Judentum und Sozialismus (1912) e in Sind das Ketzergedanken? (1913), Landauer rivendica il proprio ebraismo come un’appartenenza comunitaria e la sua identità in modo plurale, in quanto ebreo, tedesco e tedesco del sud. Nella sua opera la redenzione dell’umanità è un riparare messianico del mondo frammentato42, in cui risuona la dottrina di Luria, della shevirat ha-kelim, la rottura dei vasi a partire dalla quale, il compito dell’uomo non è altro che una riparazione, tikkun, di ciò che è stato danneggiato43. Per la cabala luriana la redenzione non è solo un evento temporale, ma una trasformazione stessa dell’evento della creazione, in cui i mondi divini ritrovano la loro perfezione originale. Il legame comunitario a cui rimanda Landauer può essere interpretato come il recupero e la ricomposizione delle scintille della luce, dal momento che la disgregatezza del mondo deve essere superata attraverso la creazione di legami tra gli uomini. L’isolamento e la frammentazione sono epifenomeni dell’assenza di spirito e l’anarchia dovrebbe essere il riempimento di ciò che è separato, mentre la comunità è in qualche modo tikkun, riparazione. Lo spirito unisce i frammenti del mondo diviso, il messia diventa comunità e la comunità a venire ha, a sua volta, un fondamento teologico politico. L’anarchia di Landauer si basa, infatti, su un Bundesgedanke44, un pensiero dell’alleanza in cui risuonano echi biblici. L’ebraismo è 41 Per Scholem sono tre gli elementi che caratterizzano il messianismo ebraico: l’idea di una redenzione collettiva dell’umanità, il carattere storico dell’evento messianico che dovrebbe seguire il momento apocalittico; la tensione tra restaurazione e utopia. In Zum Verständnis der messianischen Idee im Judentum, Scholem scrive: «il messianesimo ebraico è nella sua origine e nella sua natura […] una teoria della catastrofe. Questa teoria insiste sull’elemento rivoluzionario, cataclismatico nella transizione dal presente storico al futuro messianico». Cfr. G. Scholem, Per la comprensione dell’idea messianica nell’ebraismo, in Id., Concetti fondamentali dell’ebraismo, a cura di M. Bertaggia, Marietti, Genova 1986, p. 114. 42 Su Landauer e il messianismo mistico ebraico, cfr. A. M. Weisberger, The Jewish Ethic and the Spirit of Socialism, cit., p. 166. 43 Cfr. D. Banon, Il messianismo, cit., pp. 66-71. 44 S. Wolf, Einleitung, in G. Landauer, Philosophie und Judentum, cit., p. 36; cfr. G. Landauer, Aufruf zum Sozialismus, cit., p. 119: «Gesellschaft ist […] ein Bund von Bünden von Bünden».

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un legame che supera i confni spaziali dello Stato45. Il passaggio dallo Stato al tempo, come Aufhebung dell’estraneo nel proprio, dello stato nella comunità, è al centro del suo progetto politico e flosofco e guarda necessariamente, come modello, all’ebraismo. Galuth è per Landauer un sentimento e l’esilio è una innere Stimmung der Vereinsamung und der Sehnsucht46. La diaspora è, dunque, un dispositivo di decostruzione dello Stato che rende gli Ebrei una nazione anarchica. Questa sarebbe per Landauer la chance per trasformare l’ebraismo in un modello per l’umanità, dal momento che si tratta di una comunità al riparo dall’illusione statalista. La costituzione di uno Stato ebraico non è solo una forma ulteriore di nazionalismo, ma anche un inciampo verso l’universalizzazione della condizione ebraica, che esclude una sorta di statolatria; gli Ebrei in diaspora sono una nazione fondata sulla comune eredità storica. La nazione è, infatti, per Landauer l’opposto dello Stato, poiché la prima ha a che fare con un legame, un sentimento comunitario, il secondo è una trappola e un’astrazione. La nazione ebraica nella diaspora è il superamento della spazialità statale in una comunità del tempo. Il pensiero dell’alleanza è al centro anche dell’Aufruf zum Sozialismus47, che appare nel 1911. Nella legge mosaica viene individuato il modello per ripensare la rivoluzione come interruzione permanente dell’ordine. Alla fne dell’Aufruf, c’è una lunga citazione dal Levitico48, secondo cui la rivoluzione entrerebbe nella costituzione come sovvertimento della proprietà. Landauer cita l’istituzione della seisàchtheia e l’anno giubilare: la prima vuol dire letteralmente «scuotimento dei pesi» e «alleggerimento dei debiti», in riferimento alla riforma di Solone del 594 che abolì la schiavitù per debiti; mentre l’anno giubilare, Yovèl, è l’istituzione ebraica che ristabilisce l’uguaglianza sociale attraverso la redistribuzione dei beni, prevede la liberazione degli schiavi, la remissione dei debiti e il riscatto della 45 Cfr. G. Landauer, Sind das Ketzergedanken?, in Id., Philosophie und Judentum, cit., pp. 362-368: 368: «Unsere Nation hat die Nachbarn in der eigenen Brust; und diese Nachbargenossenschaft ist Friede und Einheit in jedem, der ein Ganzer ist und sich zu sich bekennt. Sollte das nicht ein Zeichen sein des Berufs, den das Judentum an der Menschheit, in der Menschheit zu erfüllen hat?». 46 Cfr. ivi, Judentum und Sozialismus, pp. 347-350. 47 Cfr. H. Delft, “Prediger in der Wüste sein”. Gustav Landauer im Weltkrieg, cit., pp. XXVII-XLI. 48 Cfr. Levitico 25, 8-24.

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terra ogni 49 anni – 7 volte 7 dopo il compimento dell’anno sabbatico. La voce dello spirito [«die Stimme des Geistes»]49 è quella dello shofar che risuonerà in ogni dove fno a quando non ci sarà redenzione per l’umanità. Per Landauer l’ordinamento sociale mosaico diventa il modello dell’inversione: «la rivoluzione deve diventare una componente del nostro ordine sociale, il fondamento della nostra costituzione»50. L’interruzione del tempo diventa un «rovesciamento dello spirito che non fssi le cose e le leggi in modo defnitivo, ma dichiari sé stesso come permanente»51. La rivolta come costituzione è il tentativo estremo di ripensare radicalmente l’an-archía dentro l’archè, l’interruzione nella continuità, il vuoto nel tempo. Proprio in un profondo ripensamento politico di questa tensione temporale sta il più grande lascito della complessa proposta flosofca di Landauer, un’eredità diffcile, talvolta impensata, che continua a interrogare la contemporaneità.

G. Landauer, Aufruf zum Sozialismus, cit., p. 124. Ibid. 51 Ibid. 49 50

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A proposito degli angeli delle nazioni. Il problema teologicopolitico del nazionalismo secondo Peterson Michel Senellart

Contro il luogo comune secondo cui Peterson sarebbe l’avversario di ogni teologia politica, collocandosi, in tal senso, «agli antipodi di Schmitt»1, Barbara Nichtweiß ricorda che «i suoi lavori sulla teologia politica non si limitano affatto al trattato sul monoteismo. La questione teologico-politica, al contrario, costituisce una prospettiva presente nella quasi totalità delle sue pubblicazioni, in particolare nei suoi principali scritti riuniti, nel 1951, nel volume Theologische Traktate»2. È interessante, a tal proposito, rileggere l’articolo consacrato da Peterson, nel 1951, al «problema del nazionalismo» nei primi secoli del cristianesimo. Testo poco conosciuto, e raramente commentato3, che testimonierebbe, secondo alcuni interpreti4, la persistenza della questione teologico-politica in Peterson, ben oltre i grandi testi degli anni Trenta – Il libro degli angeli (1935)5, Cristo come impe1 B. Nichtweiß, Erik Peterson (1890-1960) und die politische Theologie. Skizze zur Einführung in ein komplexes Thema, «Annali di studi religiosi», 4, 2003, p. 371. 2 Ibid. 3 Cfr. J. Ratzinger, L’unità delle nazioni. Una visione dei Padri della Chiesa, tr. it. di G. Colombi, a cura di G. Vian, Morcelliana, Brescia 2009, pp. 50-53, 107 e 110; G. Caronello, L’angelo tra nazione e popolo. Su una fgura teologico-politica in Eric [sic] Peterson, «Politica e religioni. Annuario di teologia politica»: Angeli delle nazioni. Origine e sviluppi di una fgura teologico-politica, 1, 2007, pp. 313-352. 4 Cfr. W. Löser, Une contribution déroutante à la théologie politique, «Revue de l’Institut Catholique de Paris»: Dossier Erik Peterson, 33, 1992, p. 29; N. Tenaillon, Trois approfondissement de la théologie politique, «Laval théologico et philosophique»: Peterson et le recours à la théologie politique, 2, 2007, p. 246. 5 E. Peterson, Das Buch von den Engeln, in Id., Theologische Traktate (1951), Ausgewählte Schriften (da ora in poi AS), Bd. 1, hrsg. von B. Nichtweiß, Echter, Würzburg 1994; tr. it. di R. Giachino, Il libro degli angeli, Edizioni liturgiche, Roma 1946.

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ratore (1936)6, La regalità sacerdotale di Cristo (1937)7 – citati da Barbara Nichtweiß. Se, in ragione del titolo, lo scritto sembra collegarsi a questa serie, l’articolo, in realtà, mantiene uno strano silenzio sull’aspetto propriamente politico del nazionalismo, come se il tema, in effetti, non servisse che a porne un altro, più essenziale: quello del rapporto tra lingue nazionali e lingua escatologica. È opportuno, dunque, per comprenderne l’orientamento, non metterlo frettolosamente in diretta continuità con gli scritti d’anteguerra – per quanto esso riprenda, pressoché alla lettera, alcune analisi del saggio sul monoteismo –, ma ritracciare, piuttosto, passo dopo passo, il percorso di pensiero che propone. Si potrà, così, vedere come, facendo eco ad alcune analisi precedenti, le questioni vengano in esso riorientate verso un orizzonte più mistico che politico. Dell’articolo esistono quattro versioni successive. Apparso nel 1951 nella «Theologische Zeitschrift»8, fu ripreso, alcuni mesi dopo, in una nuova edizione, leggermente abbreviata e rimaneggiata, nella rivista «Hochland»9. Una terza versione, molto più breve, è stata pubblicata nel 1952, con un titolo leggermente differente, nel Wörterbuch der Politik10. Arricchito, infne, da un poderoso apparato di note, è stato integrato da Peterson nell’ultimo volume pubblicato in vita, Frühkirche, Judentum und Gnosis11. Claire E. Peterson, Christus als Imperator, in Id., Theologische Traktate, AS, Bd. 1, cit.; tr. it. di K. Canevaro, Cristo “Imperator”, in I testimoni della verità, Vita e pensiero, Milano 1955, pp. 83-100; tr. fr. in E. Peterson, Le monothéisme: un problème politique et autres traités, Bayard, Paris 2007, pp. 185-195. 7 E. Peterson, Das priesterliche Königtum Christi, in Id., Zeuge der Wahrheit, di cui costituisce il terzo capitolo (Die Märtyrer und das priestlicher Königtum Christi); tr. it. di K. Canevaro, Il martire e la regalità sacerdotale di Gesù Cristo, in I testimoni della verità, cit., pp. 61-82 (cfr. E. Peterson, Theologische Traktate, AS, Bd. 1, cit.). 8 E. Peterson, Das Problem des Nationalismus im alten Christentum, «Theologische Zeitschrift», 2, 1951, pp. 81-91. 9 E. Peterson, Das Problem des Nationalismus im alten Christentum, «Hochland», 44, 1951-1952, pp. 216-223. 10 E. Peterson, Der Nationalismus als theologisches Problem im Judentum und Frühchristentum, in O. von Nell-Breuning - H. Sacher (ed.), Wörterbuch der Politik, vol. I, Gesellschaftliche Ordnungssysteme, Herder, Freiburg-im-Breisgau 1952, coll. 284-286; riedito in E. Peterson, Offenbarung des Johannes und politisch-theologische Texte, in AS, Bd. 4, hrsg. von B. Nichtweiß und W. Löser, Echter, Würzburg 2004, pp. 261-263. 11 E. Peterson, Das Problem des Nationalismus im alten Christentum, in E. Peterson, Frühkirche, Judentum und Gnosis, Herder, Freiburg-im-Breisgau 1959, pp. 51-63 (da 6

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Champollion ne ha curato la traduzione francese nella rivista «Dieu Vivant»12, allegandovi la Nota congiunta di Jean Daniélou13; queste ultime riedite, a loro volta, nel 1953, nell’Appendice del libro di Daniélou, Gli angeli e la loro missione14, con il titolo Disputa sugli angeli delle nazioni. *** Perché i concetti di nazione e di nazionalismo hanno costituito un problema per il cristianesimo dei primi secoli? Si tratta, in defnitiva, di rendere conto di tale Problematisierung15 cristiana, poiché la questione, in buona sostanza, è quella di comprendere per quale motivo tale fenomeno, che agli occhi dei moderni appariva come «un dato di fatto dell’ordine naturale» 16, costituiva, invece, un problema per i primi cristiani. La prospettiva cristiana si oppone, così, fn dall’inizio, all’illusione naturalista secondo la quale il politico, come ogni istituzione temporale, rientrerebbe in un orizzonte strettamente immanente. Ma le nazioni, scrive Peterson nella versione «Hochland», «sono molto meno «meramente naturali» (bloß natürlich) che la natura stessa»17. Si tratta, allora, risalendo alle fonti della concezione cristiana degli angeli delle nazioni, di svelare – e anche su tale questione la versione «Hochland» è più esplicita di ora in poi: PNAC). Il testo, ad esclusione delle note, inserite nel corpo del testo o a piè di pagina, è identico a quello della prima versione. 12 E. Peterson, Le problème du nationalisme dans le christianisme des prmiers siècles, «Dieu vivant. Perspectives religieuses et philosophiques», 22, 1952, pp. 87-97. Su questa serie di «Dieu vivant», cfr. E. Fouilloux, Christianisme et eschatologie: Dieu Vivant (1945-1955), CLD Éditions, Paris 2015. 13 J. Daniélou, Note conjointe, «Dieu vivant. Perspectives religieuses et philosophiques», 22, 1952, pp. 101-106. 14 J. Daniélou, Les anges et leur mission, Éditions de Chevetogne, Chevetogne 19532, pp. 155-169 (Peterson) e 170-178 (Daniélou); tr. it. di S. Fumagalli, Gli angeli e la loro missione, Edizioni Paoline, Pescara 1957: Appendice, Disputa sugli angeli delle nazioni: 1) E. Peterson, Il problema del nazionalismo nel cristianesimo dei primi secoli, pp. 143158; 2) J. Daniélou, Nota congiunta, pp. 159-167. È a questa edizione che fanno capo i miei riferimenti all’articolo di Peterson (da ora in poi PNCPS). Una recensione alla prima edizione (1952) era apparsa in «Dieu vivant», 22, 1952, pp. 156-157. 15 PNAC, p. 51. 16 PNCPS, p. 155; tr. it. cit., p. 143. La versione «Hochland» precisa a p. 216: «un dato evidente (selbstverständliche)». 17 Versione «Hochland», ibid.

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quella della «Theologische Zeitschrift» – «lo sfondo religioso, divenuto invisibile (verborgenen), del nazionalismo scaturito dal moderno processo di secolarizzazione»18. Il tema dell’articolo è, così, indissociabilmente, storico, genealogico e teologico: storico, poiché chiarire la questione «nazione e nazionalismo» implica il risalire alle «premesse ebraiche del pensiero cristiano»19; genealogico, nella misura in cui l’idea degli angeli delle nazioni «anticipa», secondo Peterson, il concetto moderno – herderiano e poi romantico – di Volksgeist20, che ne costituisce la forma secolarizzata; teologico, perché attraverso tale ricerca Peterson invita a riscoprire il senso di una storia guidata dall’«amore alla Parola»21. Come si sviluppa la sua argomentazione? Piuttosto che riassumerla, a rischio di cristallizzare, in una successione di tesi, le tappe di una ricerca la quale non ha che «sforato certe questioni importanti»22, vorrei evidenziare i problemi successivi attorno ai quali essa si articola. 1. Il primo problema (§ 1)23 è, ovviamente, quello costituito dalle «premesse giudaiche del pensiero cristiano»24, cioè dalla concezione ebraica dei rapporti tra il popolo di Dio e le altre nazioni, così come esposta nel passo, spesso citato dai Padri25, di Deuteronomio

18 Ibid.: «lo sfondo religioso nascosto del nazionalismo emerso dal moderno processo di secolarizzazione» (unica occorrenza, nelle differenti versioni dell’articolo, del termine «secolarizzazione»). 19 PNCPS, p. 155; tr. it. cit., p. 143. 20 E. Peterson, Der Nationalismus als theologisches Problem im Judentum und Frühchristentum, in AS, Bd. 4, p. 263: «Questa dottrina giudeo-cristiana anticipava la dottrina del Volkgeist di Johann Gottfried Herder e del Romanticismo». Il riferimento a Herder resta implicito nelle versioni precedenti del testo. 21 PNCPS, p. 169; tr. it. cit., p. 158. 22 Ibid. 23 Indichiamo qui i paragraf dell’edizione tedesca. 24 PNCPS, p. 155; tr. it. cit., p. 143. 25 Peterson menziona, a p. 155 (tr. it., pp. 143-144), soltanto la Prima Lettera di Clemente (cfr. Prima lettera di Clemente ai Corinzi, in A. Quacquarelli (ed.), Didachè Prima lettera di Clemente ai Corinzi - A Diogneto, tr. it. di A. Quacquarelli, Città Nuova, Roma 2008). Per altri riferimenti, cfr. J. Daniélou, Les anges et leur mission, cit., pp. 26-27; tr. it. cit., pp. 23-24.

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32,8-9, nella versione26 dei Settanta27. Quando l’umanità si suddivise in popoli, Dio affdò le nazioni ai suoi angeli – «i settanta pastori»28 –, ad eccezione di Israele, che rimase sotto la sua tutela. In che modo una tale suddivisione spiega il fenomeno del «nazionalismo»? Innanzitutto, (a) con una defnizione dell’essenza, quindi (b) con la descrizione di un insieme di caratteristiche. a) Riprendendo (senza citarlo) la celebre formula di Renan29, Peterson afferma che una nazione, lungi dall’essere una semplice «addizione di caratteristiche», si defnisce attraverso un «principio spirituale» (ein geistiges Prinzip)30. Dal momento che questo principio, per gli Ebrei, era «o un angelo […] o Dio», è proprio l’idea di angeli dei popoli (Völkerengel), che corrisponde al nostro moderno concetto di nazionalismo. (Qui si pone il problema – concernente l’intera questione della secolarizzazione, che lascio provvisoriamente aperta – di sapere se «nazionalismo» non sia che la traduzione, nel nostro linguaggio, dell’idea di angelo del popolo, o se il passaggio da quest’ultima al primo debba essere inteso in termini di transfert storico. Sembra che Peterson giochi sui due registri, parlando del problema del «nazionalismo» per gli Ebrei e i cristiani dei primi secoli, ma scrivendo, d’altra parte, che «il principio spirituale che un tempo fondò le nazioni occidentali […], separato da Dio, si trovò assolutizzato, in epoca moderna, sotto forma di nazionalismo»31). Il nazionalismo non indica, dunque, l’esistenza dell’insieme dei popoli, ma quella dei popoli guidati dagli angeli. b) Questi angeli, in effetti, agiscono in modi differenti contro Israele. Così il nazionalismo appare al popolo di Dio come una poIl testo tedesco precisa (passo omesso nell’edizione francese) «che la traduzione dei Settanta è già un’interpretazione dell’originale ebraico» [passo presente, invece, nella traduzione italiana di PNCPS, a p. 150: «sono, l’abbiamo detto, i Settanta che l’hanno introdotta», N.d.T.]. Cfr. J. Daniélou, Origène, La Table Ronde, Paris 1948, p. 224; tr. it. di S. Palamidessi, Origene: il genio del cristianesimo, Edizioni Archeosofca, Roma 1991, p. 271. 27 PNCPS, p. 156; tr. it. cit., p. 143. Peterson precisa, più avanti, che questa teoria «appare per la prima volta nel Libro di Daniele» (ivi, p. 161; tr. it. cit., p. 150). Cfr. Dn 10, 13-21. 28 Ivi, p. 157; tr. it. cit., p. 145. Su questo numero cfr. anche ivi, p. 165; tr. it. cit., p. 155. 29 Cfr. E. Renan, Qu’est-ce qu’une nation? (1882), in Id., Qu’est-ce qu’une nation? et autres essais politiques, Presses Pocket, Paris 1992, p. 54; tr. it. di S. Lanaro, Che cos’è una nazione? (1882), in Che cos’è una nazione? e altri saggi, Donzelli, Roma 1993, p. 19. 30 PNAC, p. 52; tr. fr. cit., p. 156. 31 Versione «Hochland», p. 217. 26

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tenza ostile, che tende a opprimerlo, ad «allontanare da Dio le nazioni [e] a divinizzarle attraverso l’imperialismo politico» (si può notare come la tendenza all’assolutizzazione del principio spirituale non sia un carattere dell’epoca moderna, ma operi fn dall’origine dell’esistenza nazionale). 2. Tuttavia, da questa prima impostazione del problema del nazionalismo ne deriva uno ulteriore (§ 2). Come possono gli angeli di Dio agire contro di Lui? E, più generalmente, visto che le nazioni sono in perpetuo confitto le une contro le altre, come possono gli angeli, preposti alle nazioni da Dio stesso, e che dovrebbero, a questo titolo, «essere un principio d’ordine», divenire, al contrario, «la causa di ogni forma di disordine nel mondo»32? Questione più volte discussa già a partire da Origene33: occorre, forse, attribuire la guida delle nazioni ad angeli decaduti? O supporre l’azione congiunta di angeli buoni e angeli cattivi? Peterson, da parte sua, si fonda sul Pastore d’Erma34 per affermare «l’ambivalenza dell’essere angelico»35. Questo punto è centrale per lo sviluppo della sua analisi. Gli permette, innanzitutto, di affnare – in modo alquanto sibillino nella prima versione del testo – l’analogia con il linguaggio del nazionalismo: «Ora in fn dei conti, ciò signifca che l’angelo di un popolo può essere considerato sotto un duplice aspetto: quello dello spirito del popolo (Volksgeistes) e quello dell’anima del popolo (VolksseePNCPS, p. 159; tr. it. cit., pp. 147-148. Cfr. J. Daniélou, Note conjointe, in Id., Les anges et leur mission, cit., pp.172-173; tr. it., Nota congiunta, in Gli angeli e la loro missione, cit., pp. 162-163. 33 Cfr. J. Daniélou, Origène, cit., p. 227; tr. it. cit., pp. 275-276. 34 Origene non avrebbe fatto altro che trasporre agli angeli dei popoli «la dottrina giudaica dei due angeli di ciascun uomo, ben conosciuta dal Pastore di Erma» (PNCPS, p. 160; tr. it. cit., pp. 148-149). Cfr. Il pastore di Erma. Versione Palatina. Con testo a fronte, tr. it. e cura di A. Vezzoni, Le Lettere, Firenze 1994, Precetto VI, 2, 1-10; cfr. J. Daniélou, Les anges et leur mission, cit., pp. 107-108; tr. it. cit., pp. 88-90. Per una discussione critica dell’interpretazione di Peterson, cfr. J. Ratzinger, L’unità delle nazioni, cit., p. 53, nota 16. 35 L’analisi di Peterson, attraverso questo concetto, lascia da parte la questione del fondamento propriamente teologico della dualità degli angeli. Cfr., su questo punto, J. Daniélou, Origène, cit., pp. 227-228; tr. it. cit., pp. 275-276 (gli angeli che hanno ricevuto la loro missione da Dio e gli angeli cattivi); Id., Essai sur le mystère de l’histoire, Seuil, Paris 1953, p. 50; tr. it. di E. Cassa Salvi, Saggio sul mistero della storia, Morcelliana, Brescia 1957, p. 56: «Questa dottrina [degli angeli delle nazioni] è da distinguersi da quella della caduta degli angeli cattivi, che giocheranno anch’essi una parte presso le nazioni»; cfr. anche ivi, p. 52; tr. it. cit., p. 59. 32

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le)»36. La versione «Hochland», fortunatamente, ci aiuta a comprendere il senso di questa distinzione di origina herderiana («Geist des Volks», «Seele des Volkes»)37: La natura (Wesen) degli angeli dei popoli appare, dunque, contraddittoria: da un lato gli angeli si preoccupano gelosamente del loro potere (Macht), praticano l’inimicizia (Feindschaft) e conducono guerre; dall’altro, ricoprendo il ruolo di istitutori celesti (himmlische Lehrer), educano i popoli. In altri termini: essi hanno una natura ambivalente, dato che possono essere concepiti tanto come spirito del popolo (Volksgeist) che come anima del popolo (Volksseele)38.

La Volksseele esprime, dunque, l’azione degli angeli quando, attraverso l’insegnamento di una «teologia naturale»39 (flosofa, scienze occulte, religione astrale), conducono i popoli pagani verso Dio; essa rappresenta il volto universalista del principio spirituale dei popoli. Il Volksgeist, invece, esprime l’azione degli angeli quando ciascuno di loro, singolarmente, «aspira al potere» (jeder nach der Macht strebe40); esso rappresenta il volto più propriamente nazionalista di questo stesso principio e rifette, sulla terra, l’idea che «la discordia regni in seno al mondo celeste»41. Il nazionalismo, così, è indissociabile dalla στάσις42, dal desiderio di potere e dall’istinto bellicoso (Streitsucht)43. Ma come spiegare, a sua volta, questa ambivalenza angelica? È qui che l’argomentazione di Peterson si ricongiunge con la problematica del trattato Il monoteismo, mettendo in rapporto la dottrina ebraica con un’infuenza ellenistica44. L’idea degli angeli delle PNCPS, p. 160; tr. it. cit., p. 149. Cfr. A. Grossmann, «Volkgeist, Volkseele», Historisches Wörterbuch der Philosophie, hrsg. von J. Ritter - K. Gründer - G. Gabriel, Band 11, Schwabe, Basel 2001, col. 1102. 38 Versione «Hochland», p. 218. 39 PNCPS, p. 159; tr. it. cit., p. 148 (in riferimento a Clemente Alessandrino e Origene). Su tale ministero spirituale degli angeli, cfr. J. Daniélou, Les anges et leur mission, cit., pp. 28-33; tr. it. cit., pp. 26-34. 40 PNAC, p. 55. 41 PNCPS, p. 159; tr. it. cit., p. 147. 42 Cfr. PNAC, p. 54, n. 6. 43 Ibid. 44 Cfr. E. Peterson, Der Monotheismus als politisches Problem (1935), in AS, Bd. 1; tr. it. di H. Ulianich, Il monoteismo come problema politico, Queriniana, Brescia 1983, pp. 34-42. J. Daniélou è il primo, mi sembra, a mettere in relazione, nel suo Origène (cit., 36 37

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nazioni, in effetti, non può non ricordare l’immagine del governo cosmico teorizzata nel Περὶ κόσμου/De mundo pseudo-aristotelico: da un lato la similitudine di Dio con il Gran Re «che non si occupa lui stesso di tutte le faccende del governo»45, e dall’altra quella degli dèi subordinati con i loro amministratori o satrapi46. Essa, tuttavia, non ne costituisce la mera riproduzione, poiché, all’idea greca di una gerarchia divina («la supremazia [Überordnung] amministrativa di un Dio supremo su altri dèi»47), si sostituisce, nell’ebraismo, quella di un’opposizione tra il Dio unico e le «potenze» (principes, ἄρχοντες) inferiori48. Giungiamo, così, al cuore della questione di Peterson, al punto critico, si direbbe, nel quale si svela la differenza essenziale tra l’impostazione ellenistica, quella ebraica e quella cristiana del problema del nazionalismo. La teoria ellenistica (politeista), a suo avviso, lungi dall’essere una pura costruzione speculativa, svolgeva una funzione «ideologica»49: accordando, in seno all’Impero50, un medesimo valore a tutte le religioni, puntava ad «appianare le opposizioni tra le nazioni» e costituiva, in tal modo, «un tentativo di neutralizzazione del problema nazione e nazionalismo»51. Una tale soluzione, che giungeva a «degradare il Dio (unico) […] al rango di angelo di una nazione», era inaccettabile per gli Ebrei come per i cristiani. Il rifutarla, di conseguenza, signifcava «che non si può neutralizzare il problema nazione e nazionalismo»52. Mentre, però, per gli Ebrei questo problema non trovava soluzione che alla fne dei tempi, «(con) il Giudizio fnale»53, per i cristiani si poneva in termini molto diversi. Con pp. 224-225; tr. it. cit., pp. 272-273), la dottrina degli angeli delle nazioni con la teoria ellenistica, per l’esposizione della quale lui stesso rinvia a E. Peterson, Der Monotheismus als politisches Problem, Hegner, Leipzig 1935, pp. 50-81 (cfr. ivi, p. 224, n. 1; tr. it. cit., p. 273, n. 10). 45 A.-J. Festugière, La révelation d’Hermès Trismégiste, II: Le Dieu cosmique, Librairie Lecoffre, Paris 1949, p. 507 (riferimento fornito da E. Peterson, PNAC, p. 56, n. 20). 46 Ivi, p. 479. 47 PNCPS, p. 161; tr. it. cit., p. 150. 48 Cfr. ibid. 49 Cfr. ivi, p. 162; tr. it. cit., p. 150. 50 L’impero di Alessandro; ma la medesima tesi è sostenuta da Celso, nel II sec. a.C., «al fne di salvaguardare l’unità dell’Impero romano» (ibid.; tr. it. cit., p. 151). 51 Ivi, p. 162; tr. it. cit., p. 150. 52 Ibid.; tr. it. cit., p. 151. 53 Ivi, pp. 157 e 163; tr. it. cit., pp. 146 e 152.

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la resurrezione e l’ascensione, Cristo aveva assoggettato le potenze celesti54; la sua venuta segnava, dunque, «la fne del regno degli angeli delle nazioni»: è, dunque, nel tempo storico che il problema del nazionalismo doveva essere risolto. 3. Di che natura poteva essere questa soluzione? Questo è l’ultimo problema al quale Peterson consacra la sua analisi. Affronta, quindi, la questione del signifcato dell’escatologia cristiana. (Fine del § 2) Da questo punto di vista, la soluzione adottata dalla maggior parte dei Padri, seguendo Eusebio di Cesarea – identifcazione dell’Impero con la realizzazione del regno messianico, della Pax Augusti con la pace escatologica – costituiva un errore. Peterson riassume qui l’argomentazione, sviluppata nel trattato Il monoteismo, contro la teologia imperiale di Eusebio55. Affermare che l’Impero, a partire da Augusto, aveva messo fne al pluralismo nazionale – e, dunque, alle guerre suscitate dagli angeli delle nazioni56 –, riconduceva a disconoscere la «dialettica particolare all’escatologia cristiana, secondo la quale il regno messianico è già arrivato, ma non raggiungerà la pienezza che con la seconda venuta del Cristo»57. Risposta ideologica58, e non teologica, che pretendeva di risolvere il problema del nazionalismo «sotto la forma di un progresso storico dallo Stato nazionale all’Impero supernazionale»59. L’Impero, così, non rappresenta la soluzione del problema. Ciò non signifca, però, come vedremo più avanti60, che l’idea imperiale venga completamente squalifcata. (§ 3 e 4) È in relazione al «linguaggio umano»61 che è opportuno, secondo Peterson, porre teologicamente il problema del nazio54 Cfr. 1 Pt 3, 22; 1 Ef 1, 20 e sgg.; Ebr 1, 3-4 (riferimenti forniti da Peterson, PNCPS, p. 163; tr. it. cit., p. 152). 55 Cfr. E. Peterson, Il monoteismo come problema politico, cit., pp. 57-63. 56 Dietro il principio della «poliarchia», generatore di «guerre interminabili» secondo Eusebio (ivi, p. 59), si possono riconoscere, precisa Peterson, proprio «gli angeli delle nazioni» (PNCPS, p. 164; tr. it. cit., p. 153). 57 PNCPS, p. 164; tr. it. cit., p. 153. 58 Ivi, p. 163; tr. it. cit., p. 152: la teoria di Eusebio era «l’ideologia dell’impero costantiniano». 59 Ivi, p. 164; tr. it. cit., p. 153. B. Nichtweiß (Erik Peterson. Neue Sicht auf Leben und Werk, Herder, Freiburg/Basel/Wien 1992, p. 770) cita questo passo nel quadro della sua analisi dei rapporti di Peterson con la Reichstheologie degli anni Trenta, ma è chiaro che qui il contesto di argomentazione è molto diverso. 60 Cfr. infra, p. 193. 61 PNCPS, p. 165; tr. it. cit., p. 154.

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nalismo nell’epoca aperta dalla venuta di Cristo. Gli angeli delle nazioni, in effetti, «malgrado la vittoria del Signore»62 – il Cristo rivestito del titolo di Kyrios dopo la sua ascensione – restano attivi nel mondo; la loro sconftta «non sarà consumata che alla fne dei tempi»63; perciò il cristiano è continuamente esposto al rischio di ricadere «in loro potere»64. Peterson rinvia qui a un testo di Origene, tratto dalla trentacinquesima Omelia su San Luca, sul quale è importante soffermarsi un attimo. Questo passo, diffusamente citato da Daniélou nel suo Origene, si conclude con queste righe: […] Gesù è venuto e ti ha strappato alla potenza perversa e ti ha offerto al Dio Padre. Ma ciascuno di noi ha il suo avversario che cerca di riportarlo al suo principe. Ciascuno di noi, infatti, non ha un proprio principe, ma se qualcuno è un egiziano, ha per principe quello dell’Egitto. Per tale motivo vigila per liberarti dal tuo avversario o dal principe al quale egli cerca di ricondurti65.

Due questioni si pongono a questo punto: innanzitutto quella, che lascerò da parte, del rapporto tra gli angeli (o i demoni) personali66 e gli angeli (o i demoni) preposti alle nazioni; in secondo Ibid. J. Daniélou, Origène, cit., p. 231; tr. it. cit., p. 280, che aggiunge: «Fino a quel momento, le potenze di divisione sono sempre all’opera nell’umanità ed è contro di esse che i cristiani devono combattere» (ibid.). Questa idea che la «destituzione degli angeli nei confronti delle sfere nazionali e culturali» (J. Daniélou, Essai sur le mystère de l’histoire, cit., p. 57; tr. it. cit., p. 64.) non comporti la perdita del loro potere prima della Parusia, non è espressa altrettanto chiaramente da Peterson, di cui Daniélou, riassumendone il testo (ivi, pp. 57-58; tr. it. cit., p. 65), esplicita sinteticamente l’argomento implicito. 64 PNCPS, p. 165; tr. it. cit., p. 154. 65 Citato da J. Daniélou, Origène, cit., p. 232; tr. it. cit., p. 281(cfr. Homilia in Lucam XXXV, in Die Griechischen Christlichen Schriftsteller (GCS), Origenes Werke, Bd. 9, Die Homilien zu Lukas in der Übersetzung des Hieronymus und die griechischen Reste der Homilien und des Lukas-Kommentars, hrsg. von M. Rauer, Hinrichs, Leipzig 1930, pp. 205-215 [Preziosissimo lavoro con i testi originali disponibili on-line: http://www. roger-pearse.com/weblog/die-griechischen-christlichen-schriftsteller-gcs-volumes-available-online/ N.d.T.]) Testo citato anche da J. Ratzinger, L’unità delle nazioni, cit., p. 54: «Ciascuno di noi ha il suo cattivo angelo (l’avversario) accanto a sé, che si aggrappa a lui, e il cui compito è di portarci all’arconte […]». 66 Su questa dottrina propriamente cristiana dell’angelo (o del demonio) custode, cfr. J. Daniélou, «L’ange gardien», in Les anges et leur mission, cit., cap. 7, pp. 92-96; tr. it., «L’angelo custode», in Gli angeli e la loro missione, cit., cap. 7, pp. 86-103. La citazione di Origene sembra contraddire la tesi che gli attribuisce Peterson (cfr. PNCPS, 62 63

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luogo, quella della natura della tentazione attraverso la quale l’«avversario» cerca di condurre i credenti al loro «principe». Secondo Daniélou, questa tentazione si spiegherebbe, storicamente, con la stretta interconnessione, nella società antica, tra l’ordine politico e quello religioso: rompere con gli dèi della città signifcava escludersi dalla «vita sociale del suo paese»67. A partire da ciò, «la grande tentazione era l’idolatria, cioè i culti nazionali»68. Tuttavia, non è più così ai giorni nostri, quando «dissociamo il problema politico dal problema religioso»69. È in modo un po’ differente che Peterson, da parte sua, comprende questa tentazione. Essa consisterebbe, per il cristiano, nella possibilità che egli «soccomba allo spirito del suo popolo (dem Geist seines Volkes)»; spirito strettamente legato alla lingua, tanto che la differenza delle religioni «risulta dalla diversità dello spirito delle lingue (des Sprachgeistes)»70. Sembra, dunque, che Peterson, anche su questo punto, prosegua un dialogo con Daniélou, il quale, nel suo Origene71, ma ancor più nell’articolo Les sources juives de la doctrine des anges des nations chez Origène, aveva sottolineato l’importanza del tema della divisione delle lingue nelle tradizioni ebraiche relative agli angeli delle nazioni, di cui Origene era l’erede72. L’originalità di Peterson, rispetto a Daniélou, mi sembra risiedere nel modo in cui lega lo spirito del popolo a quello della lingua, il Volksgeist al Geist der Sprache. Peterson, per illustrare lo «stretto legame che esiste fra il problema della lingua, della nazione e dell’esperienza (Erlebens) religiosa»73, fa l’esempio dell’opposizione manifestata, in Egitto, da parte p. 165; tr. it. cit., p. 154), che la presenta, in realtà, come una «anticipazione escatologica» secondo la quale «gli angeli delle nazioni sono stati rimpiazzati, ormai, dagli angeli custodi personali dei fedeli». 67 J. Daniélou, Origène, cit., p. 231; tr. it. cit., p. 280. 68 Ivi, p. 232; tr. it. cit., p. 281. 69 Ivi, p. 231; tr. it. cit., p. 281. «Ma questa – precisa Daniélou – è una conquista del cristianesimo» (ibid.). 70 PNCPS, p. 166; tr. it. cit., pp. 154-155. 71 J. Daniélou, Origène, cit., pp. 226-227; tr. it. cit., pp. 274-275. 72 Cfr. in particolare il testo del Testamento di Neftali, diffusamente citato nell’articolo di J. Daniélou, Les sources juives de la doctrine des anges des nations chez Origène, «Recherches de science religieuse», 1, 1951, pp. 133-134, e che parafrasa Peterson, PNCPS, pp. 165-166; tr. it. cit., pp. 155-156. 73 PNCPS, p. 167; tr. it. cit., p. 156.

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di certi ambienti colti, rispetto all’uso generalizzato della lingua greca, che giudicavano «assolutamente impropria ad esprimere una pietà più profonda, gnostica»74. A questo attaccamento allo spirito della lingua, corrispondente a una forma di credo e a un tipo di coscienza nazionali, si oppone l’apertura cristiana all’universalità, che trascende la diversità delle lingue e delle nazioni. Tale è il senso profetico del racconto della Pentecoste75: la capacità di «parlare nelle varie lingue» annuncia la lingua unica con la quale, alla fne dei tempi, tutti confesseranno «che Gesù Cristo è il Kyrios» (Fil 2, 10)76. È attraverso questa «lingua escatologica» che si opererà il «superamento» (Überwindung) fnale degli «angeli delle nazioni». Che cosa possiamo dire su una tale lingua? È la lingua degli angeli? Esistono, afferma Peterson, «ancora molte altre teorie»77. Chiude, però, la sua rifessione con questa frase enigmatica, tratta dal Libro di Tobia, citato da Origene: «veramente è bene tenere nascosto il segreto del re» (Tob 12, 7)78. *** L’articolo di Peterson, l’ho già ricordato, ha attirato solo l’attenzione di un ristretto circolo di commentatori. Ciò è dovuto, senza dubbio, al tema sui generis, così «inattuale», in apparenza, rispetto al linguaggio politico contemporaneo. Ma anche, probabilmente, ai suoi rimandi al Monotheismus-Trakat, del quale sembra riprendere, in essenza, il quadro d’analisi79. Tuttavia, quali che siano le Ivi, p. 166; tr. it. cit., p. 156. Cfr. il trattato XVI, 2 del Corpus Hermeticum. Racconto al quale Peterson, nell’articolo, non fa esplicito riferimento, ma è noto come, a suo avviso, esso segni «l’avvenimento più importante della storia del cristianesimo primitivo» (L’Église, in Le monothéisme: une problème politique et autres traités, cit., p. 176). Sul senso profetico del racconto del «miracolo delle lingue», cfr. ivi, pp. 176-177. La Pentecoste acquista pienezza di senso soltanto in opposizione a Babele, cfr. J. Daniélou, Note conjointe, cit., p. 174; tr. it. cit., p. 164; Id., Essai sur le mystère de l’histoire, cit., p. 59; tr. it. cit., pp. 64-65. 76 PNCPS, p. 167; tr. it. cit., p. 156. 77 Ivi, p. 168; tr. it. cit., p. 157. 78 Ivi, pp. 168-169; tr. it. cit., p. 158; cfr. Origene, Contro Celso, a cura di A. Colonna, UTET, Torino 1971, V, 29, p. 442. 79 Cfr. N. Tenaillon, Trois approfondissement de la théologie politique, «Laval théologique et philosophique»: Peterson et le recours à la théologie politique, 2, 2007, p. 250: «Ciò che colpisce leggendo questo articolo è la ripresa integrale del quadro di analisi del saggio del 1935» (anche se, precisa, «il tema [l’evoluzione dell’idea di nazionalismo a partire dai concetti di angelo, popolo e lingua] è nuovo». 74 75

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somiglianze con il saggio del 1935, è importante non leggerlo soltanto alla luce di quest’ultimo. Mi sembra interessante, in questa prospettiva, considerarlo da altri due punti di vista, l’uno contestuale, l’altro più specifcamente dottrinale: il dibattito angelologico-politico – se posso osare questa espressione –, le cui premesse risalgono all’inizio del XX secolo; e la rifessione sul nazionalismo, sviluppata da Peterson a metà degli anni Trenta, al di fuori di qualsiasi problematica angelologica, ma in termini che offrono un’ottica nuova sulla sua analisi del legame tra lingua e nazione. Il primo dibattito80 deriva dall’esegesi del versetto paolino: «Ciascuno sia sottomesso alle autorità (ἐξουσίαις) costituite. Infatti non c’è autorità (ἐξουσία) se non da Dio: quelle che esistono sono stabilite da Dio» (Rm 13, 1)81. Mentre, già da secoli, si dava per certo che la parola ἐξουσίαι designasse le potenze temporali, nel 190982 Martin Dibelius e molti autori sulla sua scorta sostennero che tale termine designasse le potenze invisibili o angeliche: sono gli angeli, non i principi, ad essere i veri «Herrscher dieser Welt»83. Questa interpretazione del testo paolino era confermata dalla credenza, comune al basso giudaismo e ai primi cristiani, negli angeli delle nazioni84. Lo Stato, di conseguenza, lungi dall’essere una potenza autonoma – secondo lo schema della distinzione dei «due regni» –, non poteva che essere considerato come «strumento esecutore delle potenze angeliche»85: potenze «sottomesse»86 dalla vittoria del Cristo, e poste, dunque, al suo servizio; capaci, tuttavia, nel periodo intermedio che Su questo dibattito cfr. il fondamentale articolo di A. Aguti, Il volto angelico del potere. Le potenze celesti e lo Stato in Karl Barth e O. Cullmann, «Politica e religione», 1, 2007, pp. 353-368. 81 Traduction Œcuménique de la Bible (TOB), Cerf et Société Biblique Française, Paris 1988, p. 461; tr. it. della Comunità Episcopale Italiana, La Bibbia TOB, Elledici, Torino 2009, p. 2604. 82 M. Dibelius, Die Geisterwelt im Glauben des Paulus, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen1909. Cfr. A. Aguti, Il volto angelico del potere, cit., p. 354; O. Cullmann, Cristo e il tempo: la concezione del tempo e della storia nel cristianesimo primitivo, tr. it. di B. Ulianich, il Mulino, Bologna 1965, pp. 229 e 237. 83 M. Dibelius, Die Geisterwelt im Glauben des Paulus, cit., p. 189. Per questo, scrive Cullmann, «dovremmo abituarci a tradurre: «Che ciascuno sia soggetto alle potenze» (Cristo e il tempo, cit., p. 229, n. 3). 84 O. Cullmann, Cristo e il tempo, cit., pp. 228-229. 85 Ivi, p. 230. 86 Ivi, p. 233. 80

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precede il suo ritorno, di «manifestare, ancora una volta, la loro natura primigenia, demoniaca»87. Questa lettura di Romani 13 giocò un ruolo da non sottovalutare nell’opposizione protestante al nazismo, come testimonia l’articolo di Günter Dehn88, Engel und Obrigkeit (1936)89 e, ancor più, quello di Karl Barth, Rechtfertigung und Recht (1938)90, tradotto in francese l’anno successivo91, da cui estrapolo queste righe: È molto probabile, sulla base del loro stesso vocabolario, che le comunità neo-testamentarie, nel pensare allo Stato […], avessero in mente l’immagine di una potenza angelica, rappresentata da quello Stato e in esso attiva […]. È così dimostrato che lo Stato, istituito, secondo Romani 13, da Dio come protettore del diritto, possa diventare lo Stato dominato dal Drago […]. Una potenza angelica può […] essere snaturata, pervertita fno a diventare una potenza demoniaca92.

Il mio intento non è, qui, quello di analizzare le implicazioni teologico-politiche di questo dibattito, ma di situare l’approccio di Peterson in relazione all’asse che egli rappresenta in seno alla questione «angelologica». Molteplici differenze, a questo proposito, si delineano con nettezza, pur sullo sfondo di una medesima prospettiva escatologica: – L’assenza, in primo luogo, dell’exousia-Problem93 in Peterson94. Nessun riferimento, nell’articolo del 1951, a Romani 13 e al Ibid. Pastore e teologo protestante, G. Dehn (1882-1970) fu membro della SPD durante la Repubblica di Weimar, poi della Chiesa confessante di Berlino durante il nazionalsocialismo, ruolo che gli costò l’imprigionamento tra il 1941 e il 1942. 89 G. Dehn, Engel und Obrigkeit, in E. Wolf (ed.), Theologische Aufsätze. Karl Barth zum 50. Geburstag, Chr. Kaiser, München 1936, pp. 90-109 (sugli angeli dei popoli, Völkerengel, cfr. in particolare, pp. 103 e sgg.); cfr. A. Aguti, Il volto angelico del potere, cit., pp. 354-355. 90 K. Barth, Rechtfertigung und Recht, «Theologische Zeitschrift», 1, 1938; riedito in K. Barth, Rechtfertigung und Recht. Christengemeinde und Bürgergemeinde. Evangelium und Gesetz, Theologischer Verlag, Zürich 1998; cfr. A. Aguti, Il volto angelico del potere, cit., pp. 355-361. 91 K. Barth, Justifcation divine et justice humaine, «Les Cahiers bibliques de Foi et Vie», 5, 1939, pp. 2-48. 92 Ivi, p. 15. 93 Prendo in prestito questa espressione da H. Thielicke, Theologische Ethik, II, Mohr, Tübingen 1987, p. 328. 94 Non se ne trova traccia nel suo corso del 1925-1928 sulla Lettera ai Romani, E. Peterson, Der Brief an die Römer, in AS, Bd. 6, hrsg. von B. Nicthweiß, Hechter, Würzburg 1997. 87 88

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problema ermeneutico che solleva. Non è lo Stato, ma la nazione, o meglio, il fenomeno dell’individualizzazione nazionale, ad essere in questione nell’azione delle «potenze invisibili». – Dunque, la tensione centrale che struttura la sua analisi, attraverso l’ambivalente fgura dell’angelo, non è più quella tra illegittimità e legittimità, ma quella tra pluralismo (la diversità delle nazioni) e universalità (l’unità del mondo restaurato da Cristo)95, – Di conseguenza, la posta in gioco non è più quella del diritto e dei limiti della resistenza all’abuso di potere, ma quello del superamento (Überwindung) del pluralismo. – Infne, mentre lo Stato, sotto la morsa degli «angeli cattivi», rischia sempre di «demonizzarsi»96, mi sembra degno di nota il fatto che Peterson non utilizzi una terminologia simile a proposito della nazione97. Questo, tuttavia, non vuol dire che il nazionalismo, ai suoi occhi, non sia legato al dämonisch. Ma il senso di questo aggettivo richiede, allora, di essere precisato. Cosa possibile grazie a un pregevole testo, redatto a metà del 1930 e rimasto inedito, Lo Stato nazional-liberale del XIX secolo98. Come si evince dal titolo, questo testo non tratta direttamente del nazionalismo (il termine non vi compare), ma del liberalismo politico. Tuttavia, il confronto con altri scritti dello stesso periodo, come l’introduzione, non pubblicata, al saggio Che cos’è l’uomo?99, mostra bene che attraverso lo Stato Su questa tensione cfr. J. Daniélou, Essai sur le mystère de l’histoire, cit., pp. 58-59; tr. it. cit., pp. 63-66. 96 Cfr. G. Dehn, Engel und Obrigkeit, cit., p. 108: «L’autorità terrestre, dietro la quale stanno le potenze angeliche, può diventare demoniaca». 97 L’unica occorrenza, nell’articolo, del termine dämonisch a proposito degli angeli dei popoli (Völkerengel), si accompagna, di fatto, con una negazione: questi angeli, «per la loro origine, non sono affatto esseri demoniaci (alles andere als dämonische Wesen sind)» (PNCPS, p. 160; nella versione originale, p. 56; tr. it. cit., p. 148). 98 E. Peterson, Politik und Theologie: der liberale Nationalstaat des 19. Jahrhunderts und die Theologie, in AS, Bd. 4, cit., pp. 238-246 (questo testo riunisce, in realtà, due manoscritti distinti, Politik und Theologie e Der liberale Nationalstaat des 19. Jahrunderts und die Theologie, il secondo dei quali costituisce una versione rielaborata del primo). 99 La genesi di questo testo, pubblicato nel 1948 e ripreso nel 1951 nei Theologische Traktate (cfr. tr. fr. in E. Peterson, Le monothéisme: une problème politique et autres traités, cit., pp. 197-205), risale agli anni 1925-1926, ma Peterson lo aveva incluso nel programma di un ciclo di conferenze nel 1936. L’introduzione inedita, Die Frage nach dem Menschen I (in AS, Bd. 4, cit.), risale a questa data. Essa «rifetteva sul luogo spirituale dal quale veniva posta la questione dell’uomo nell’Europa attuale» (B. 95

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liberale si tratta, in realtà, del «nazionalismo europeo moderno»100. Nella misura in cui il concetto di angeli dei popoli, secondo Peterson, «adombra il fenomeno che attualmente chiamiamo nazionalismo»101, è, dunque, legittimo domandarsi in che modo la problematica cristiana e quella moderna si ricongiungano nella fgura storica dello Stato liberale. Il liberalismo, dal punto di vista teologico-politico, si defnisce con «la tesi secondo cui politica e teologia non hanno nulla a che vedere l’una con l’altra»102. Da questa concezione deriva la separazione della Chiesa dallo Stato103 – non lo Stato in generale, ma lo Stato liberale, cioè lo Stato nazionale, che trae la sua esistenza dall’opposizione all’Impero104. Questa è la prima radice dello Stato nazionale, mentre le altre due sono la coscienza dell’unità linguistica (die Einheit der Sprache) e le idee della Rivoluzione francese. La questione, allora, è di sapere dove risieda, per ciascuna, il problema teologico. Al contrario di ciò che ci si attenderebbe a partire dalla sua critica della teologia politica imperiale (nella quale si è visto, giustamente, un attacco contro la Reichstheologie cattolica favorevole al nazismo105), Peterson sottolinea qui la funzione positiva dell’Impero o, più esattamente, dell’idea di Impero legata all’escatologia cristiana. Tale idea non aveva semplicemente la funzione di sostenere la visione cristiana della storia, ma anche di contenere (niederhalten) la tendenza dei popoli pagani a individualizzarsi (Individuation) in quanto nazioni106. L’Impero, in questo senso, era «lo strumento nella mano del Creatore per superare (überwinden) la propensione al plurali-

Nichtweiß, Postface, in E. Peterson, Le monothéisme: une problème politique et autres traités, cit., p. 214). 100 E. Peterson, Die Frage nach dem Menschen I, cit., p. 250. 101 PNCPS, p. 156; tr. it. cit., p. 144. 102 E. Peterson, Politik und Theologie, cit., p. 238. 103 Ivi, p. 239. 104 Ivi, p. 240. Peterson cita, come esempi, la «soluzione piccolo-tedesca» (kleindeutsche Lösung) della questione tedesca, la battaglia italiana contro l’Austria e gli Stati pontifci, e la disgregazione della monarchia austriaca. 105 Cfr. B. Nichtweiß, Erik Peterson, cit., pp. 766 e 810. 106 E. Peterson, Politik und Theologie, cit., pp. 241-242.

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smo metafsico (zum metaphysischen Pluralismus)107»108, correlativa a una tale individualizzazione. Come sottolinea Barbara Nichtweiß, tuttavia, questo richiamo al senso teologico dell’«antica idea di Impero», non implicava alcuna speranza di «restaurazione» da parte di Peterson, e giustifcava, quindi, la sua distanza dai Reichstheologen109. L’idea escatologica dell’Impero ricusava, per principio, ogni tentativo di fondare un nuovo Impero sulla base dello Stato nazionale110. Essa era, perciò, radicalmente anti-imperialista. La seconda radice dello Stato nazionale è la lingua del popolo (Volkssprache). Peterson oppone l’avvenimento della Pentecoste al pluralismo linguistico. Senza dubbio non possiamo pensare al di fuori della lingua madre, e, dunque, senza essere legati all’individualità di un popolo. Ma, mentre «lo Spirito Santo trascende tutte le lingue»111, e il credente, per mezzo della preghiera, deve sforzarsi di parlare una lingua che sia, in qualche modo, al di là della propria lingua, «il pericolo teologico di cui è portatrice la lingua popolare [è] che noi non comprendiamo più che la lingua materna e non quella dello Spirito Santo; che noi ci isoliamo nell’ambito angusto della lingua individuale e nell’immagine del mondo che essa ci trasmette […]»112. Ritroviamo qui l’opposizione tra i due principi spirituali, il Volksgeist e la Volksseele113: il primo defnisce il linguaggio di un popolo – insieme «lingua» ed «immagine del mondo» – quando si chiude in sé stesso; la seconda, quel linguaggio nel momento in cui si apre a una parola nella quale scompare la differenza delle lingue. Ma la lingua del popolo, dal momento in cui si pone come principio fondatore Questo concetto di metaphysische Pluralismus è impiegato anche in E. Peterson, Kaiser Augustus im Urteil des antiken Christentums (1933), in relazione al «pluralismo degli Stati nazionali» nell’antichità: «Agli occhi di Eusebio, il pluralismo degli Stati nazionali e il pluralismo metafsico del politeismo pagano sono strettamente imparentati» (E. Peterson, Kaiser Augustus im Urteil des antiken Christentum, in J. Taubes (ed.), Religionstheorie und politische Theologie, Bd. 1, Der Fürst dieser Welt. Carl Schmitt und die Folgen, Fink, München 1985, p. 177. 108 E. Peterson, Politik und Theologie, cit., p. 242. 109 B. Nichtweiß, Erik Peterson, cit., p. 773. 110 E. Peterson, Politik und Theologie, cit., p. 241. 111 Ivi, p. 242. 112 Ivi, p. 243. Su questo pericolo, cfr. B. Nichtweiß, Erik Peterson, cit., p. 366: «Proprio perché non c’è un pensiero separato dal linguaggio e il linguaggio è sempre anche un principio di identifcazione popolare, secondo Peterson la lingua di un popolo corre sempre il rischio che il trascendimento del nazionale prefgurato a Pentecoste venga di nuovo oscurato». 113 Cfr. supra, p. 183. 107

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della nazione, porta in sé «la tentazione del profetismo nazionale»114 e, di conseguenza, dell’eresia, come testimoniano gli esempi di Lutero e Maometto. La Spracheinheit115 è, dunque, l’antitesi della Einheitssprache116, la «lingua unica escatologica». Infne, la terza radice dello Stato nazionale è costituita dalle idee della Rivoluzione francese. Queste «si caratterizzano, innanzitutto, attraverso la concezione dell’Uomo, espressa nel modo più chiaro nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo»117. Peterson vede in questa dottrina la matrice degli imperialismi moderni, cioè di quella forma di nazionalismo – di cui la Francia napoleonica offre il primo esempio118 – nella quale una determinata nazione, agendo in nome dell’Uomo, «identifca il proprio interesse con quello dell’umanità»119. È a questo punto che Peterson introduce, in due occasioni, la nozione di dämonisch. La prima occorrenza si lega a quello che si potrebbe defnire lo schema implicito, o soggiacente, della secolarizzazione nella sua analisi. Ho già indicato prima120 quali problemi sollevi, in lui, l’uso della categoria schmittiana (la secolarizzazione come transfert, Übertragung121). Nella prospettiva teologica a lui propria, la Übertragung è interpretata come imitazione o contraffazione (Nachäffung, Nachahmung): «l’Uomo» prende il posto del Figlio dell’Uomo. Solo quest’ultimo poteva assumere l’umanità, e invece è un popolo che, ormai, pretende di rappresentarla. Così ogni nuovo Stato nazionale, imitandolo, si sente autorizzato a «condurre guerre in nome dell’«Uomo»»122. È tale usurpazione che Peterson qualifca come dämonisch123. Così si spiega – seconda occorrenza della parola – il carattere dämonisch delle due altre radici dello Stato nazionale: il rifuto dell’idea E. Peterson, Politik und Theologie, cit., p. 243. Ibid. 116 PNAC, p. 62; tr. fr. cit., p. 167. 117 E. Peterson, Politik und Theologie, cit., p. 243. 118 Ivi, p. 244. 119 E. Peterson, Die Frage nach dem Menschen I, cit., p. 250. 120 Cfr. supra, p. 180. 121 Cfr. C. Schmitt, Politische Theologie (1922-1934); tr. it. di P. Schiera, Teologia politica, in Le categorie del politico, a cura di G. Miglio e P. Schiera, il Mulino, Bologna 1972, p. 62. 122 E. Peterson, Politik und Theologie, cit., p. 244; cfr. anche ivi, p. 246: «Qui si dà la possibilità che ogni Stato nazionale si identifchi con l’Uomo per rivestire la fgura del Figlio dell’Uomo nell’umanità che viene assunta in lui». 123 Ibid. 114 115

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di Impero e l’assolutizzazione della lingua del popolo, che deriva dal «loro coniugarsi con le idee della Rivoluzione francese»124. *** Rispetto a questi testi, Il problema del nazionalismo, lungi dall’attestare la permanenza della problematica teologico-politica in Peterson, presenta, dunque, un carattere stranamente apolitico. Se «la venuta di Cristo ha segnato la fne del regno degli angeli delle nazioni»125, Peterson non trae da questa «vittoria» conseguenze propriamente politiche, poiché la sconftta degli angeli delle nazioni lo conduce a riorientare la sua analisi verso la questione escatologica della Überwindung delle lingue nazionali. Senza dubbio quest’ultima rinvia alla sua critica radicale dello Stato liberale moderno, formulata negli anni Trenta, e si potrebbe essere tentati di «spiegare» la prima alla luce della seconda, malgrado la differenza dei contesti. È importante, tuttavia, prestare attenzione al silenzio con il quale si chiude l’articolo, di fronte al μυστήριον βασιλέως. «veramente è bene tenere nascosto il segreto del re» (Tob 12, 7): «questa parola “mistero” – scrive Origene – si suole in verità adoperare per le dottrine più profonde e più mistiche (μυστικός)»126. Il versetto di Tobia – che Origene cita qui per intero127 – aggiungeva: «ma è cosa gloriosa rivelare e manifestare le opere di Dio» (Tob 12, 7)128. È strano che di questa parola dell’angelo (è Raffaele che parla qui, nel momento di svelarsi), Peterson non serbi che l’interpretazione mistica, come se quest’ultima, ormai, avesse preso il sopravvento sull’esigenza, propriamente teologico-politica, di «confessione». Ma, forse, giungiamo a questo punto a toccare il μυστήριον petersoniano – il segreto di un uomo che sognava, anticipando la sua morte, di vivere tra gli angeli129. (Traduzione dal francese di Rita Fulco) Ibid. PNCPS, p. 165; tr. it. cit., p. 154. 126 Origene, Contro Celso, cit., V, 19, p. 430. 127 Ibid. 128 Bible de Jérusalem, p. 547; tr. it. Bibbia di Gerusalemme, EDB, Bologna 2002, p. 884. 129 Cfr. E. Peterson, Als ich gestorben war. Privatdruck als Festgabe für die Freunde des Kösel-Verlag (1957), in Marginalien zur Theologie und andere Schriften, AS, Bd. 2, hrsg. von B. Nichtweiß, Hechter, Würzburg 1995; tr. fr. di J.-L. Schlegel, Quand je fus mort, in En marge de la théologie, Cerf, Paris 2015, pp. 213-214. 124 125

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Cattolicesimo politico tedesco e critica della teologia politica tra Alois Dempf e Erik Peterson Gabriele Guerra

Per riconsiderare il dossier Peterson-Schmitt, ovvero la polemica a distanza tra il teologo protestante convertito al cattolicesimo e il giurista di Plettenberg, pare giunto il momento di analizzarlo secondo prospettive nuove, che sgombrino il campo sostanzialmente da un lato dalla sua costitutiva vis antischmittiana, che appiattiva la fgura di Peterson esclusivamente ad «angelo vendicatore» della teologia politica di Schmitt1 (anche grazie alla fascinosa stilizzazione dello stesso Schmitt sulla «freccia del Parto» scagliata dall’ex-amico Peterson proprio in chiusura del suo saggio2); dall’altro, e di conseguenza, dal rubricare frettolosamente la critica petersoniana a una nota a margine al dibattito teologico-politico, stante la posizione confessionale del suo autore. Quella di Peterson “liquidatore” della teologia politica schmittiana pare insomma una leggenda dettata più dalla separazione degli ambiti concettuali in cui essa si posiziona (tra teologia e scienza politica), che una vera e propria realtà fattuale: per cui occorre riaffrontare la posizione di Peterson (e, più in generale, del cattolicesimo politico tedesco tra le due guerre, esemplifcato qui da Alois Dempf), per situarla in un ambito più vasto3. Cfr. M. Nicoletti, Erik Peterson e Carl Schmitt. Ripensare un dibattito, in G. Caronello (a cura di), Erik Peterson. La presenza teologica di un outsider, Libreria Editrice Vaticana, Roma 2012, pp. 517-537. Il volume raccoglie gli atti di un convegno tenutosi a Roma nel 2010 sotto gli auspici delle più alte gerarchie vaticane (introdotto da un breve saluto di Papa Benedetto XVI, al secolo Joseph Ratzinger, teologo di formazione e legato a Peterson), che contiene diversi saggi molto stimolanti, non necessariamente volti alla rivalutazione «uffciale» della prestazione scientifca petersoniana. 2 C. Schmitt, Teologia politica II. La leggenda della liquidazione di ogni teologia politica, a cura di A. Caracciolo, Giuffrè, Milano 1992, p. 4. 3 Carlo Galli, nella sua fondamentale monografa su Carl Schmitt, affronta la questione in maniera completa e sistematica, sia sotto il proflo politologico che teologico. Cfr. C. Galli, Genealogia della politica. Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico moderno, il 1

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1. Il primo problema che va rilevato è che la polemica petersoniana verso la teologia politica di Schmitt non è limitata al solo trattato sul monoteismo (il quale, peraltro, fn dalla dedica Sancto Augustino, tradisce un’intenzione politica di fondo che legittima pienamente la lettura che ne fa il perno centrale del dispositivo anti-teologico-politico, o meglio anti-schmittiano del suo autore). Carl Schmitt la defnisce, come è noto, «una liquidazione teologica di ogni teologia politica»4, con ciò accreditando appunto due linee interpretative in merito alla presa di posizione petersoniana: 1) che essa sia esclusivamente teologica, e 2) che essa liquidi ogni teologia politica. Quello che qui invece si intende sostenere è esattamente il contrario, e cioè che l’affermazione petersoniana vada compresa in senso pienamente politico, e – soprattutto – che essa stessa intenda affermare la possibilità di un’altra teologia politica. «Lei certo resterà in questo eone una singolare fgura marginale»: così lo stesso Schmitt in una lettera a Peterson del 22 agosto 1932 defnisce la posizione dell’amico teologo5; il tono è certo ironico, ma sottolinea molto bene il carattere di outsider di Peterson all’interno della teologia del tempo – sia cattolica che protestante; con ciò cogliendo il carattere fondamentale della sua posizione dentro quel campo intellettuale. Peterson si pone senza dubbio ai Mulino, Bologna 1996 (20102), pp. 414 sgg. Nella letteratura ormai imponente, anche in lingua italiana, incentrata sul dossier Peterson/Schmitt, vanno segnalati qui, per acutezza di analisi e di critica da cui anche il presente saggio ha tratto spunto, almeno due lavori: lo studio di Marco Rizzi, Erik Peterson e la “teologia politica”: Attualità e verità di una “leggenda”, «Rivista di storia e letteratura religiosa», XXXII, 1996, 1, pp. 95-117; e quello di Emiliano Rubens Urciuoli, Un’ordinaria eccezione. Erik Peterson interprete di Carl Schmitt (1924-1933), «Rivista di storia del cristianesimo» XIII, 1, 2016, pp. 107-130. 4 C. Schmitt, Teologia politica II, cit., p. 8. 5 Cit. in M. Pancheri, Pensare “ai margini”. Escatologia, ecclesiologia e politica nell’itinerario di Erik Peterson, Università degli Studi di Trento – Dipartimento di Lettere e Filosofa, Trento 2013, p. 24 [tr. mia]. Più in generale, sul rapporto tra Schmitt e Peterson, occorre ricordare come, nella lunga serie di interviste concesse a Klaus Figge e Dieter Groh, Carl Schmitt parli molto anche del suo legame, scientifco e personale, con Peterson, con il quale era stato per esempio a Roma in occasione della Pasqua del 1932 (cfr. Cfr. C. Schmitt, Imperium. Conversazioni con Klaus Figge e Dieter Groh (1971), Quodlibet, Macerata 2015, p. 137); precedentemente, nel 1926, Peterson era stato addirittura testimone delle seconde nozze di Schmitt (cfr. B. Nichtweiß, Erik Peterson. Neue Sicht auf Leben und Werk, Herder, Freiburg im Breisgau 1994, pp. 727 sgg.). Indici questi di una frequentazione intensa ed intima, costellata da frequenti incontri, discussioni, serate conviviali; una relazione amicale che però si interrompe con l’ascesa al potere del regime nazionalsocialista, il ben noto ralliement schmittiano e la decisa opposizione di Peterson.

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margini della teologia del suo tempo, sia per motivi di ordine confessionale che per considerazioni di carattere più generale; la sua fgura rappresenta cioè esemplarmente, in theologicis, una tipica disposizione intellettuale tedesca tra le due guerre, in cui cioè le fgure di confne diventano maggiormente paradigmatiche dello spirito del tempo di quelle più istituzionali6. Christoph Markschies, nella sua introduzione al convegno petersoniano vaticano prima citato, ricorda gli «umori marcionitici» che impregnavano il dibattito teologico dopo la Prima Guerra mondiale7; umori che promanavano dal richiamo fantasmatico a una fgura come quella del vescovo di Sinope, primo autore nel II sec. d.C. di un canone testamentario postgiudaico che intendeva espungere dal corpus dottrinario cristiano ogni retaggio ebraico; una presenza richiamata dallo studio di Adolf von Harnack del 1921, Marcion: Das Evangelium vom fremden Gott. Eine Monographie zur Geschichte der Grundlegung der katholischen Kirche8. Tale “evocazione” marcionita intendeva d’altronde richiamare l’attenzione – non a caso nella temperie postbellica – sul senso della relazione tra cultura e teologia, per sottolineare l’insuffcienza delle risposte della teologia ai dilemmi del tempo, alle trincee affollate di morti, alla società da rifondare integralmente. Marcione dunque diventa l’etichetta di quella sorta di «espressionismo teologico» che proclamava la teologia della crisi (ad un tempo cioè teologia come espressione e come tentativo di risposta alla crisi spirituale dell’epoca). Le intenzioni petersoniane vanno quindi collocate in quella temperie che dà luogo alla teologia Basterebbe citare qui i nomi di Walter Benjamin o di Ernst Bloch per stabilire le coordinate politico-spirituali dell’età weimariana incardinate proprio intorno alla fgura dell’outsider: cfr. il testo ormai storico di Peter Gay, La cultura di Weimar, Dedalo, Bari 1978. The outsider as insider è infatti il sottotitolo dell’edizione originale americana, del 1968. 7 Cfr. C. Markschies, Prefazione, in Erik Peterson. La presenza teologica di un outsider, cit., p. 9 sg. 8 Tr. it. A. von Harnack, Marcione. Il Vangelo del Dio straniero, a cura di Federico Dal Bo, Marietti, Genova-Milano 2007. Per Harnack si tratta di segnalare una pericolosa intenzione in opera nel dispositivo marcionita: «Rigettare l’Antico Testamento nel II secolo era un errore che la Grande Chiesa giustamente ha evitato. Conservarlo nel XVI secolo fu una fatalità a cui il Riformatore non è stato capace di sottrarsi. Ma continuare a conservarlo ancora nel XIX secolo come documento canonico nel Protestantesimo è la conseguenza di una paralisi religiosa ed ecclesiastica» (ivi, p. 315). Eppure il saggio harnackiano mostra una singolare Wirkungsgeschichte, nella misura in cui le intenzioni dell’autore si ribaltano poi in quelle mutate di segno dei suoi interpreti. 6

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dialettica di Barth e di Gogarten. Teologia come grido esistenziale, insomma: tentativo di dare un senso all’insensatezza del mondo squassato dalla confagrazione bellica, sorto nel segno dell’assunzione consapevole dello statuto di crisi in cui la teologia, la politica, la stessa esistenza umana sono precipitate9. Il temperamento teologico di Peterson sembra posizionarlo ad un tempo tutto dentro questo dibattito (in cui, va ricordato, la prestazione harnackiana va compresa come l’estremo tentativo di organizzare un’offensiva liberale contro la teologia dialettica, mentre quest’ultima è da intendersi proprio come un grandioso ripensamento critico delle aporie nelle quali era precipitata la teologia liberale). Peterson intrattiene rapporti piuttosto complessi sia con Harnack10 che con Barth. Con Harnack e le sue ricostruzioni sulle origini della Chiesa, Peterson condivide non solo l’interesse scientifco, ma persino l’amore per quelle prime comunità11; a Barth – con cui Peterson, a differenza di Harnack, ebbe una robusta e ravvicinata consuetudine12 – lo legava anzitutto la simpatia pneumatica – per dir così – per una teologia dello spirito che compenetrasse la storia. Più in generale, il giovane Peterson sembra pienamente condividere quelle tendenze antistoricistiche che nutrono la rivolta «dialettica» che si condensa intorno alle fgure di Barth e Gogarten, pur mitigandola con un affato ecumenico ed escatologico. Per esprimersi con una formula paradossale: Peterson è cattolico – nel senso etimologicamente più pieno del termine – anche 9 È lo storico della chiesa Friedrich Wilhelm Graf che ha affrontato in chiave più sistematica questo importante nodo della teologia protestante, tra «Kulturprotestantismus» e antistoricismo dialettico. Se il primo rivendica l’autonomia di una «cultura protestante» nata dal concetto protestante di libertà (fondando in tal modo un concetto di storia omogeneo ed armonico), il secondo riconosce, al contrario, lo statuto di crisi che nel paesaggio postbellico degli anni Venti si insedia al posto di tale armonico concetto di storia (intendendo con ciò richiamare la centralità assoluta e metastorica della parola di Dio). Cfr. F. W. Graf, Kulturprotestantismus. Zur Begriffsgeschichte einer theologiepolitischen Chiffre, «Archiv für Begriffsgeschichte» XXVIII, 1984, pp. 214-268; F. W. Graf, Geschichte durch Übergeschichte überwinden. Antihistoristisches Geschichtsdenken in der protestantischen Theologie der 1920er Jahre, in W. Küttler u.a. (hrsg.), Geschichtsdiskurs, Bd. 4: Krisenbewußtsein, Katastrophenerfahrungen und Innovationen 18801945, Fischer, Frankfurt am Main 2007, pp. 217-244. 10 Sui rapporti di Peterson con Harnack e la Kirchengeschichte, cfr. B. Nichtweiß, Erik Peterson, cit., pp. 37 sgg. 11 Cfr. ivi, p. 40. 12 Cfr. ivi, pp. 505 sgg.

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quando è protestante, e resta protestante – nel senso, pure etimologico, di una riforma luteranamente intesa come semper reformanda – anche una volta attuata la conversione al cattolicesimo e il trasferimento a Roma. Una piena e tesa fgura di Grenzgänger nel e tra il proprio tempo, dunque. Per scendere più nel merito: Peterson, nella rivendicazione della centralità della Zwischenzeit come condizione escatologicamente dirimente del nostro tempo, ovvero quello aperto dall’Avvento del Cristo e che resta in attesa della sua seconda venuta, esprime un potenziale storico e politico, che si pone così in relazione dialettica tra un «salto» nella trascendenza di sapore kierkegaardiano13 e il confronto serrato e ineludibile con il mondano e lo storico: «Nel complesso disegno escatologico petersoniano convivono, seppur con innegabili diffcoltà e in un rapporto in defnitiva sbilanciato verso il primo termine, due momenti: il momento del divario, dello stacco, del salto, della disparità tra vecchia e nuova realtà e quello del confronto, del contatto (Berührung), della relazione tra mondano e celeste, a partire dalla loro coabitazione coatta nell’eccezionalità del tempo escatologico»14. Da qui emerge la nozione di riserva escatologica15, una fgura concettuale dogmatica, sacramentale e pneumatologica, non priva però di un’attitudine esistenziale all’insegna di una «vigilanza escatologica»16, che in Peterson è strettamente legata a quella di Zwischenzeit, del «tempo di mezzo», e più in generale al ruolo escatologico della Chiesa. Centrale in lui è cioè la Zwischenzeit in quanto eschaton, che defnisce il ruolo della Chiesa in quanto istituto politico-giuridico-escatologico. La Zwischenzeit escatologica spezza in ultima analisi il continuum ebraico tra storia naturale e futuro messianico, e la Heilsgeschichte cristiana non è più inquadrabile in uno sviluppo storico-naturale e politico, visto che è proiettata sul Non si può sottovalutare la presenza di Kierkegaard nella teologia dialettica e nello stesso Carl Schmitt. Il flosofo danese fonda in entrambi i casi una teologia politica dell’istante eccezionale e della scelta personale. 14 M. Pancheri, Pensare “ai margini”, cit., p. 77. 15 Cfr. sul tema K. Anglet, Der eschatologische Vorbehalt. Eine Denkfgur Erik Petersons, Ferdinand Schöningh, Paderborn 2001; Anglet è anche autore di uno stimolante studio – pur se non convincente sino in fondo nella sua vis comparativa – che istituisce un parallelo sistematico tra le concezioni della storia di Peterson e di Benjamin: Messianität und Geschichte. Walter Benjamins Konstruktion der historischen Dialektik und deren Aufhebung ins Eschatologische durch Erik Peterson, Akademie Verl., Berlin 1994. 16 K. Anglet, Das Ende der Zeit – die Zeit des Endes. Eschatologie und Apokalypse, Echter, Würzburg 2005, p. 14. 13

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gradiente escatologico e poggia sulla Endgeschichte – croce e resurrezione insieme. Questa è la prestazione intellettuale fondamentale, anzi la vera e propria Stimmung escatologica che colora la teologia petersoniana, da cui deriva quell’atteggiamento che defnisce in ultima analisi la sua teologia politica: in questo mondo, ma non di questo mondo. Tale posizione, del resto, rientra pienamente nel cattolicesimo politico tedesco prima e dopo il 193317, in particolare per quel che riguarda la cosiddetta Reichstheologie, ovvero quella fgura storico-concettuale che vale ad un tempo da teologema «mistico» di rielaborazione del nesso tra saeculum e trascendenza, ed etichetta politologica di sacralizzazione del mondano18 – ma che pare utile anche per spiegare parte delle prese di posizione teologico-politiche di Peterson19. Se cioè da un lato è di tutta evidenza come Peterson rifuti in toto, anzi combatta strenuamente, qualsiasi ipotesi di lettura “consonante” ed attualizzante della sfera teologica e di quella politica sotto il segno del Reich, è però dall’altro inevitabile ricordare come il teologo Peterson non possa non condividere tutta una “retorica”, per così dire una gestualità concettuale incardinata sull’evocazione – implicita o esplicita – del Reich, così tipica dell’“ordine del discorso” teologico del suo tempo. «Es war die Absicht meines Buches [cioè del saggio sul Monotheismus], der “Reichstheologie” einen Stoß zu geben», scrive infatti nel progetto di una lettera non datata da inviare all’amico Friedrich Dessauer, ma da situare appunto intorno alla genesi di quel saggio20. Il «colpo» da dare alla Reichstheologie è da intendersi come 17 Sull’argomento cfr. essenzialmente: E. Fattorini, I cattolici tedeschi. Dall’intransigenza alla modernità (1870-1953), Morcelliana, Brescia 1997; K.-E. Lönne, Politischer Katholizismus im 19. und 20. Jahrhundert, Suhrkamp, Frankfurt/M. 1986. 18 Classico al riguardo lo studio di Klaus Breuning, Die Vision des Reiches. Deutscher Katholizismus zwischen Demokratie und Diktatur (1929-1934), Hueber, München 1969. 19 Non si può cioè qui consentire con la vera e propria liquidazione critica del ruolo della Reichstheologie in Peterson che compie Jean-Claude Monod nel suo saggio Le débat Peterson-Schmitt: une «polémique bien ajustée», in J.-L. Blaquart (a cura di), Théologie et politique – une relation ambivalente: origine et actualisation d’un problème, L’Harmattan, Paris 2009, pp. 139-157; se è certamente vero uno scetticismo di fondo verso di essa da parte del teologo cattolico, ciò non comporta però semplicemente «l’impossibilité théologique d’une théologie politique chrétienne» (p. 140). Una lettura più accurata del volume di B. Nichtweiß avrebbe però impedito a Monod – che cita un altro saggio della studiosa, ma solo una volta l’imponente volume dedicato a Peterson – di formulare tale giudizio in maniera tanto drastica rispetto alla Reichstheologie (cfr. B. Nichtweiß, Erik Peterson, cit., pp. 746 sgg.). 20 Cit. in B. Nichtweiß, Erik Peterson, cit., p. 766.

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colpo politico, non solo teologico, o storico-religioso; un colpo che incrini le certezze granitiche di quei teologi che vedono nell’avvento al potere del Führer l’inveramento teologico della “forma” mondana di un Reich sovrastorico21. Certamente, come scrive Breuning nel suo studio, «il sogno del Reich costituiva in questi anni un topos del pensiero antidemocratico e al contempo il tipo del motivo della fuga, per una secessione dalla realtà politica»22; e altrettanto certamente, nell’usare questa etichetta – per così dire sentimentale prima ancora che concettuale – i teologi del Reich cercano di applicare delle categorie estetiche alla politica (e alla teologia)23. Nella cultura e nella politica tedesca c’è del resto – non va mai dimenticato – una costante e sistematica fascinazione per l’idea di Reich, fn nella stessa celebrata Costituzione weimariana del 1919, essa stessa una «Reichsverfassung»; da cui deriva la diffusissima riserva mentale verso le istituzioni democratico-parlamentari, che in questo caso presenta inequivocabili colorature antidemocratiche e mistico-nazionaliste24. Ma – in parallelo a questi fenomeni – si assiste a tendenze in parte opposte: «Denn wir alle leben noch im Imperium romanum, das nicht tot ist» – come aveva scritto nel 1931 il poeta Theodor Haecker nel suo testo su Virgilio Vater des Abendlandes25 – un incunabolo del pensiero cattolico tedesco in cui l’idea di Imperium dà forma politica alla trascendenza. L’Imperium fnisce così per contrapporsi al Reich, pur condividendo con quest’ultimo gli esiti storici immediati: una contrapposizione di natura prepolitica, visto che l’Imperium diventa il modello ecclesiologico e politico per mezzo del quale si intende superare la dimensione Che quello di Hitler fosse tutt’altro da interpretare in senso divino, ma come Reich demoniaco, lo rivela un piccolo ma signifcativo episodio, raccontato da Yves Congar (successivamente uno dei padri conciliari di maggior rilievo): in una conferenza tenuta a Berlino nel 1934, Peterson, partendo da Ap 2, 13, sostenne che il culto praticato nella Chiesa di Pergamo fosse di carattere satanico – e aggiungendo poi che adesso l’altare di Pergamo era a Berlino; al che l’uditorio applaudì, mostrando di aver capito l’allusione. Cfr. Th. Söding, Der Thron Satans in Berlin. Erik Petersons politische Kritik und theologische Erneuerung, «Christ in der Gegenwart» 57, 2005, 25, pp. 205-206. 22 K. Breuning, Die Vision des Reiches, cit., p. 131 [tr. mia]. 23 Cfr. ivi, p. 58. 24 Esemplare in tal senso la «teologia del nazionalismo» scandita da Wilhelm Stapel nel suo Der christliche Staatsmann. Eine Theologie des Nationalismus, Hanseatische Verlagsanstalt, Hamburg 1932, in cui il Depositum fdei della teologia si converte senza residui in un patrimonio politico a disposizione del moderno “principe” nazionalista e völkisch, che deve essere «Herrscher, Krieger und Priester zugleich» (p. 190). 25 Th. Haecker, Vergil. Vater des Abendlandes, Hegner, München 1931, p. 99. 21

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più immediata del Reich (che può anche prendere le fattezze del nazismo). L’escatologia politica si ribalta cioè in una politica escatologica: questo è, semmai, il contenuto dell’“attuale” teologia politica, non tanto la «cristologia politica» che Schmitt evoca in apertura al suo Teologia politica II26. Il concetto di Reich resta dunque una fgura problematica, perché esprime un bisogno di trascendenza dentro l’immanenza, conferisce dignità politica all’escatologia, a volte sottolineandone l’inveramento immediato (per la Reichstheologie più militante), a volte sfumandone la collocazione storica (nel caso di Dempf, come vedremo), a volte – come in Peterson – rivendicandone un proflo tutto spirituale. Come scrive signifcativamente in un’altra bozza di lettera all’amico Dessauer: «L’imperium, e non lo Stato nazionale, è interessante per il pensiero cristiano, nella misura in cui nell’idea di imperium si possono ritrovare delle analogie mondane con il Regno escatologico di Cristo»27. È chiaro dunque che per Peterson è possibile parlare di Reich nella storia, solo però nella misura della sua dimensione ecclesiologica: il Reich è Imperium, dunque è Chiesa. L’ekklesia è in effetti in Peterson prima di tutto una fgura teologico-giuridica, che richiama il signifcato originario greco, dal verbo ἐκκαλέω, «chiamo fuori», a indicare l’azione di convocare l’assemblea popolare, che si interpola con il signifcato neotestamentario del termine. Ekklesia è dunque letteralmente un’e-vocatio, un “chiamar-fuori” dal mondo – che però si struttura in termini rigorosamente mondano-giuridici – che ha la sua legittimità nel cielo: l’ekklesia è insomma una polis celeste. «Lo spazio ecclesiale è pubblico perché escatologico, e non viceversa»28; escatologico, continua Peterson, perché si fonda sul sangue dei martiri: martiri in senso escatologico, che con il loro sacrifcio riempiono il vuoto istituzionale pagano-imperiale di una potestas senza auctoritas, ovvero il problema aperto da una compagine statuale che non riconosce that Jesus is the Christ (per dirla con Hobbes). La vera Chiesa (nel senso teogiuridico qui esposto) è Cfr. C. Schmitt, Teologia politica II, cit., p. 5. Cit. in B. Nichtweiß, Erik Peterson, cit., p. 773 [tr. mia]. 28 G. Caronello, Nazionalismo e identità cristiana nella teologia politica di Erik Peterson nel secondo dopoguerra (1946-1951), «Annali di studi religiosi» 4, 2003, pp. 379440, qui p. 429, n. 133. Utili rifessioni sull’ecclesiologia in Peterson si trovano in Stefan Dückers, Pathos der Distanz. Zur theologischen Physiognomie und geistesgeschichtlichen Stellung Erik Petersons, LIT, Münster 1999, in part. pp. 218 sgg. 26 27

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dunque apostolica, martirologica, pneumatologica, escatologica29. “Vera Chiesa” anche in senso storico, dal momento che – aggiunge signifcativamente Peterson in uno scritto minore ma politicamente cruciale – «siamo tutti nell’attesa dell’Ecclesia triumphans. Nessuna decisione defnitiva è dunque ancora acquisita per la distinzione della Sinagoga e dell’Ecclesia»30. Nessuna decisione è possibile, né in termini ecclesiologici o heilsgeschichtlich, né tanto meno in una prospettiva storico-politica, per separare l’ebreo dal cristiano. In questi anni terribili, insomma, Peterson si dedica intensamente a una revisione accurata ed appassionata di tutte quelle categorie – dell’ecclesiologia, della storia della Chiesa, dell’esegesi in genere, della martirologia, della cristologia, dell’angelologia, della liturgia, della storia delle religioni – che permettano ad un tempo di negare ogni legittimità teologica a ciò che sta avvenendo, e di riaffermare la legittimità politica di esse – sicuramente in una chiave intrateologica, ma non per questo meno interessata agli effetti che non può non avere sul saeculum. Per cui – per tornare al dossier Peterson-Schmitt – non è tanto tra la Teologia politica (I e II) e il trattato sul monoteismo che occorre puntare l’attenzione, quanto piuttosto sugli scritti petersoniani di quello stesso periodo (Die Kirche aus Juden und Heiden, Das Buch von den Engeln, Christus als Imperator, Die Zeuge der Wahrheit tra gli altri), da mettere a confronto con il Leviathan schmittiano: è qui cioè, nella contrapposizione tra tiranno e martire (con, sullo sfondo, l’immagine del Cristo rex e sacerdos, che abbassa il primo e innalza il secondo31), che si gioca tutta la posta «L’assunto pneumatologico e il principio d’apostolicità si condizionano reciprocamente», scrive sempre Caronello in un altro suo saggio («Perché un concetto così ambiguo?». La critica del monoteismo nel primo Peterson, in P. Bettiolo / G. Filoramo (a cura di), Il dio mortale. Teologie politiche tra antico e contemporaneo, Morcelliana, Brescia 2002, pp. 349-396: 357). 30 E. Peterson, Il mistero degli ebrei e dei gentili nella chiesa, Mimesis, Milano-Udine 2013, p. 35. Ripubblicando una vecchia edizione, l’editore italiano riprende una tr. francese del 1935, che si componeva di due scritti che riprendevano i due originali tedeschi, molto più diretti e meno “parrocchiali” nella loro formulazione (Die Kirche aus Juden und Heiden. Drei Vorlesungen, Pustet, Salzburg 1933; Die Kirche aus Juden und Heiden, «Schweizer Rundschau», 1935/36, pp. 875-886). 31 «Da quando Cristo è sacerdote e re, il potere terreno è stato spogliato del suo carattere demoniaco e non può più avanzare la pretesa, come vorrebbe il paganesimo, d’essere portatore di funzioni sacrali». Erik Peterson, Zeuge der Wahrheit, Hegner, Leipzig 1937; tr. it. I testimoni della verità, tr. di K. Canevaro, Vita e pensiero, Milano 1955, p. 80. 29

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teologico-politica del tempo32. Come è noto, già Benjamin aveva sottolineato la tesa identità che lega, nel “politico” dell’età barocca (ma il parallelo si mantiene con tutta evidenza anche nel periodo dei totalitarismi), il tiranno e il martire, in quanto «elaborazioni barocche, necessariamente estreme, dell’essenza regale»33. Tiranno e martire sono dunque poli estremi del medesimo concetto del “politico”, in cui ne va della sua dimensione più intrinsecamente teo-logica: ogni discorso sul potere è anche un discorso su Dio, storicamente inteso. Tiranno e martire valgono anche, in conclusione, da fgurazioni antropologiche dell’essenza diadica dell’uomo di fronte al potere: o ridotto all’hybris di chi si considera “assolutamente” sovrano, o innalzato nella passio di chi, in nome di un altro potere, è pronto al sacrifcio di sé. 2. Questi lineamenti teologico-politici di individuazione del Reich in Peterson sono perfettamente rintracciabili anche in un altro pensatore cattolico, legato a Peterson da vincoli di amicizia e di consonanza intellettuale: Alois Dempf (1891-1982). Questo teologo e flosofo bavarese, cresciuto sotto l’infuenza del movimento giovanile cattolico Quickborn di Romano Guardini, è stato dopo il 1933 un deciso oppositore del nazionalsocialismo. La sua opera più nota è il testo Sacrum Imperium, del 1929, tradotto in italiano pochi anni dopo per iniziativa di Carlo Antoni – però in un testo privo dell’importante primo capitolo metodologico (su cui ci si soffermerà) e della dedica a Sturzo34. L’imponente studio in effetti si comprende pienamente nel suo senso implicitamente po32 «È tra l’angelologia e la teologia del martirio che si colloca sin dal 1935 il confronto petersoniano con la teologia politica» (G. Caronello, Nazionalismo e identità cristiana, cit., p. 436). 33 W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, tr. di E. Filippini, Einaudi, Torino 1971, p. 53. 34 A. Dempf, Sacrum Imperium. Geschichts- und Staatsphilosophie des Mittelalters und der politischen Renaissance, Oldenbourg, München 1929; tr. it. Sacrum Imperium – La flosofa della storia e dello stato nel medioevo e nella rinascenza politica, Principato, Messina-Milano 1933. Su Dempf cfr. G. Franchi, Il contributo di «Sacrum Imperium» di Alois Dempf al dibattito novecentesco sulla «teologia politica», «Rivista della Scuola Superiore dell’economia e delle fnanze» 6/7, 2005, pp. 335-345; M. Borghesi, Critica della teologia politica. Da Agostino a Peterson: la fne dell’era costantiniana, Marietti, Genova-Milano 2013, pp. 103-114.

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litico proprio considerando tale dedica (politicamente accettabile nella Germania del 1929, molto più problematica invece nell’Italia fascista) e più ancora il capitolo introduttivo, che espone metodologicamente la dimensione più propriamente flosofca dello studio, ovvero una «flosofa sociale radicata in un’antropologia flosofca aperta all’ordine divino»35. L’idea dempfana di Reich si origina dalla confuenza di Geist e Geschichte in una comunità umana aperta alla Rivelazione nella storia. In tal senso, le fgure di Reich e di Imperium tendono a sovrapporsi metastoricamente e convergere verso il regno di Dio36. Tale posizione, peraltro, viene concepita da Dempf in una chiave tendenzialmente antiagostiniana, nella misura in cui la Civitas Dei va intesa «come il contraccolpo di un “Sacrum Imperium” realizzato a metà»37. Due anni dopo Dempf pubblica su «Hochland» (la rivista cattolica di maggior rilievo all’epoca) un articolo in due parti signifcativamente intitolato Das Dritte Reich38, che è in sostanza un riassunto concentrato del suo libro – ma anche un confronto politico immediato con l’idea di Terzo Regno diffusa all’interno della Rivoluzione Conservatrice del tempo. Dempf cita infatti Moeller van den Bruck – il suo maggior teorico – affermando signifcativamente: «siamo già dentro in questo terzo Reich; e non si tratta più di profezie, ma di forme [Gestalten]. […] L’unico eroismo, oggi, è la santa sobrietà del lavoro oggettivo e formante»39. Anche quello di Dempf, in defnitiva, si confgura – in maniera ancora più esplicita che in Peterson – come il tentativo di stabilire una genealogia teologico-politica basata sull’idea di Reich, inteso come supremo ordine simbolico del “politico” tedesco. Quando, nel 1961, all’indomani della morte di Peterson, Dempf ricorda l’amico, sempre su «Hochland», ne sottolinea prima di tutto la dimensione teologica di opposizione al Kulturprotestantismus; e poi però ne esalta la Geistesgeschichte – che è concetto eminentemente dempfano –, concepita come sintesi tra “ordine” e “sim-

G. Franchi, Il contributo di «Sacrum Imperium», cit., p. 335. Cfr. A. Dempf, Sacrum Imperium. Geschichts- und Staatsphilosophie des Mittelalters und der politischen Renaissance, Oldenbourg, München 19734, pp. 14-15. 37 M. Borghesi, Critica della teologia politica, cit., p. 109. 38 A. Dempf, Das Dritte Reich. Schicksale einer Idee, «Hochland», XXIX, 1931/1932, I, pp. 36-48, e II, pp.158-171. 39 Ivi, p. 170 [tr. mia]. 35 36

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bolo”40. L’appassionato ricordo di Dempf chiude dunque in qualche modo il cerchio, tra un Peterson “escatologico” e un Peterson “politico”, egualmente come avviene tra un Dempf “storico-spirituale” e un Dempf “politico”. Entrambi insomma esponenti di una coerente e sistematica teologia politica cattolica che tenta di pensare il nesso teologico-politico contro la sua realizzazione fattuale nel Reich hitleriano, additando l’idea di Reich attiva nella storia. 3. Per tirare delle conclusioni che vadano anche al di là del dato flologico e concettuale di questo momento preciso del cattolicesimo politico tedesco tra le due guerre, occorre riprendere la questione teologico-politica da un altro punto di vista: se davvero il cristianesimo è quel «caso inquietante e pericoloso» di cui parla Schmitt nei suoi dialoghi postbellici41, che ne è del “politico” post Christum? È stato sostenuto che quello di Schmitt sia in realtà «un teomanicheismo, una teopolitica gnostica», visto che è fondato sulla dialettica amico-nemico, «non necessaria nella teologia politica “cristiana”»42; si potrebbe discutere, naturalmente, se davvero tale dialettica non sia consustanziale a una teologia politica «cristiana»; certamente però tale critica coglie un punto essenziale non solo di Schmitt, ma anche di ogni teologia politica, che in nuce non consiste tanto in una diversa ridefnizione del nesso tra teologia e politica, quanto in una perfetta sovrapposizione dell’una sull’altra, che rende il dispositivo politicamente attivo proprio nel richiamo alla trascendenza. Per questo pare qui molto più utile – euristicamente 40 A. Dempf, Erik Petersons Rolle in der Geisteswissenschaft, «Hochland», LIV, 1961/1962, pp. 24-31. 41 «Col cristianesimo, che è un caso inquietante e pericoloso, si presenta un problema con Costantino. Pensate per un istante ai trecento anni di persecuzioni subite dai cristiani. D’un tratto si verifca nella storia mondiale un evento imprevisto: l’imperatore diventa cristiano [ride]. E cosa succede poi? Poiché l’imperatore è magnanimo, i cristiani diventano vescovi… Quelli che si nascondevano nelle catacombe, adesso diventano tutti alti funzionari statali con uno stipendio colossale. Addirittura i rabbini diventano… Beh, avete già sentito parlare di queste cose…». Al che gli intervistatori obiettano: «Si, ma non si riesce davvero a vedere il parallelo» (con Hitler). E Schmitt risponde: «No? Ci si deve solo meravigliare che quello stupido Adolf non si sia comportato allo stesso modo… Se fosse stato altrettanto magnanimo! Perché, se ne aveva il potere, non fece altrettanto? Cosa glielo impedì? Oddio, era troppo misero per farlo anche lui, però era un tipo come Costantino» (C. Schmitt, Imperium, cit., p. 66). 42 M. Borghesi, Critica della teologia politica, cit., p. 14.

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cattolicesimo politico tedesco e critica della teologia politica

e concettualmente – riferirsi a una teopolitica. La quale è prima di tutto uno stile di pensiero: per fare un esempio calzante, la «freccia del Parto» che Peterson scaglia contro Schmitt e la sua teologia politica in chiusura del suo saggio, non va intesa come un mero artifcio retorico di sottrazione al confronto (o peggio, come sembra fare Schmitt trent’anni dopo, come una sorta di inaspettato tradimento scientifco e personale), bensì come una vera e propria fgura argomentativa volta all’affermazione di un’altra strategia militare (per restare nella metafora). Se il teologo-politico Schmitt pensa cioè a partire da una compagine statuale e da un principio neognostico di individuazione/esclusione, l’escatologico-politico Peterson pensa a partire da una costellazione celeste, in cui la dimensione politica non è affatto dimenticata, ma diventa teopolitica, nell’immediatezza di una «gratuità» escatologica43, che postula una «eccedenza della grazia» e mira a salvaguardare il nesso “incompiuto” ma necessario tra Civitas e Dio. «Teopolitica» è tutta la temperie “espressionista” che domina gli anni Venti e Trenta del XX secolo in Germania, da Barth a Benjamin, da Max Weber a Martin Buber – che è poi il coniatore del termine: «Per teopolitica in Israele io intendo [...] l’agire pubblicamente sulla base della tendenza alla realizzazione della sovranità di Dio»: così scrive il flosofo ebreo-tedesco nel 1955, nella Prefazione alla terza edizione della sua opera esegetica dedicata al Königtum Gottes concepita nel 193244. All’interno della teologia pattizia che informa il rapporto dell’antico Israele con il suo Dio, Buber rintraccia i lineamenti di una esclusività assoluta della sfera politica caratteristica del pensiero ebraico: «Non esiste sfera politica all’infuori di quella teopolitica, e tutti i fgli di Israele stanno in rapporto diretto (sono kohanim nel senso originario del termine) con JHWH, che elegge e ripudia, che nomina e destituisce»45. Tale «rapporto diretto» però non informa solo storicamente la relazio43 «[…] dal teologico-politico all’escatologico-gratuito, che soltanto il riferimento fulmineo, indebito, l’irruzione stilisticamente gratuita ed anarchica possono esprimere» (G. Lettieri, Rifessioni sulla teologia politica in Agostino, in P. Bettiolo-G. Filoramo (a cura di), Il dio mortale, cit., pp. 215-265: 243, n. 58. Il riferimento è a una lettera che Taubes scrive negli anni Settanta a Schmitt, parlando non a caso di «freccia del cristiano» – cfr. Jacob Taubes, In divergente accordo. Scritti su Carl Schmitt, a cura di E. Stimilli, Quodlibet, Macerata 1996, p. 51). 44 Martin Buber, La regalità di Dio, Marietti, Genova 1989, pp. 47-48. 45 Ivi, p. 169.

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ne pattizia tra JHWH e il suo popolo, ma ne struttura anche la dimensione letteraria e performativa più intima, sino a concepire tale relazione messianicamente, come adempimento di una promessa che si attua nel momento stesso in cui si enuncia. In altri termini, la teopolitica è una “pro-fetica” politica, colta nel suo nucleo etimologicamente “drammatico” ed istantaneo46, ovvero come “azione” esistenziale contro il potere ingiusto e infondato: vale a dire un «atto teopolitico del dono di sé» che disattiva potere e violenza e porta alla «glorifcazione liturgica della vita»47. Quello che Schmidt chiama «atto teopolitico» è un atto antropologico ed estetico (cioè stilistico) prima ancora che teologico-politico: «Il potere del vero katechon è il potere estetico che l’escatologo avoca per sé stesso»48. Non si potrebbe dir meglio: l’escatologia politica di Peterson sfocia dunque, del tutto coerentemente col suo assunto teopolitico di partenza (quale potere per chi revoca il potere mondano?), in un inno alla vita che proclama performativamente – per mezzo cioè del richiamo alla stessa esistenza del “martire” – la comunità escatologica dinanzi alla morte.

«Bubers Theopolitik, konzipiert aus den biblischen Ursprüngen der Weltgeschichte, erfüllt sich messianisch, und das heißt, sie erfüllt sich potentiell in dem Augenblick, in dem der einzelne in jeder Gegenwart die Möglichkeit zur Herstellung des Gottesreichs ergreift» (Ch. Schmidt, Die theopolitische Stunde. Zwölf Perspektiven auf das Eschatologische Problem der Moderne, Fink, München 2009, p. 225). 47 C. Schmidt, Il ritorno del katechon: Giorgio Agamben contro Erik Peterson, in Erik Peterson, cit., pp. 562-582: 578. 48 Ivi, p. 582. 46

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I simboli della democrazia. Sul confronto tra Jacob Taubes e Carl Schmitt Martin Treml

1. Les extrêmes se touchent Jacob Taubes (1923-1987) e Carl Schmitt (1888-1985) sono tra le fgure più controverse ma al contempo problematicamente affascinanti della Repubblica Federale Tedesca. Taubes era un pensatore ebraico e un flosofo della religione, un noto esperto delle correnti apocalittiche dell’Ebraismo, del Cristianesimo, della Gnosi, e delle loro implicazioni, che all’interno dell’antichità ma anche dell’era moderna hanno trovato una ricca vita postuma1. Schmitt era un autore e giuspubblicista cattolico, noto come portavoce di un dominio autoritario, «consigliere giuridico (Kronjurist) del nazionalsocialismo», teologo politico, provocatore, ma anche ispiratore di molti nell’Europa post-bellica2. Nonostante taluni accomodamenti, Schmitt e Taubes argomentavano con toni esacerbati, sottolineando sempre i confitti. Eppure da entrambi si poteva imparare come scovare la frase più importante all’interno di un testo3. Il suo allievo 1 Cfr. E. Stimilli, Jacob Taubes. Sovranità e tempo messianico, Morcelliana, Brescia 2004; M. Treml, Reinventing the Canonical: The Radical Thinking of Jacob Taubes, in Eckard Goebel - Sigrid Weigel (a cura di), “Escape to Life”. German Intellectuals in New York: A Compendium on Exile after 1933, de Gruyter, Berlin/Boston 2012, pp. 457478; H. Kopp-Oberstebrink, Jacob Taubes, in Neue Deutsche Biographie, vol. 25, edito dalla Historische Kommission der Bayerischen Akademie der Wissenschaften, Duncker & Humblot, Berlin 2013, pp. 803-804. Per la ricezione del pensiero di Taubes in Italia cfr. G. Agamben, Il tempo che resta. Un commento alla “Lettera ai Romani”, Bollati Boringhieri, Torino 2000; R. Esposito, Due. La macchina teologico-politica e il posto del pensiero, Einaudi, Torino 2013; M. Cacciari, Il potere che frena, Adelphi, Milano 2013. 2 Cfr. R. Mehring, Carl Schmitt. Aufstieg und Fall. Eine Biographie, Beck, München 2009; J.-W. Müller, A Dangerous Mind: Carl Schmitt in Post-War European Thought, Yale UP, New Haven 2003. 3 Per Schmitt, cfr. la comunicazione orale di Reinhart Koselleck a Christoph Schmidt (Gerusalemme) – che ringrazio. Di Taubes ho appreso di persona.

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Nicolaus Sombart, funzionario del Consiglio d’Europa e scrittore, attestò in Schmitt una «penetrante rilevanza per il presente», poiché «tutto ciò che dice mi interessa immediatamente»4. Fino a oggi, il confronto con l’opera di Schmitt nella Repubblica Federale Tedesca è stato seriamente gravato dalla catastrofe del nazionalsocialismo, come è accaduto anche ad altri che vi furono profondamente invischiati. Lo stesso Schmitt coltivava rapporti aspri e tesi con la Germania post-catastrofe e la sua nuova immagine di sé – e ciò non accadeva per un ostinato rifuto di prendere pubblicamente le distanze dai propri errori. Egli disdegnava di fare ciò che con espressione brusca aveva defnito in questi termini: «chi vuole confessarsi, esca e vada dal parroco»5. Una simile pretesa gli sembrava, come la nuova immagine di sé tedesca, una «tirannia dei valori», così suonava il titolo di uno dei suoi ultimi testi scientifci, apparso per la prima volta nel 1967 nella collettanea per un allievo, il costituzionalista Ernst Forsthoff6. In quella sede Schmitt spiegava come l’aumento d’importanza dei valori nella flosofa a partire da Nietzsche, il loro rapido affermarsi nel neokantismo e infne la loro ripresa nella sfera pubblica democratica avessero portato alla presenza dei «sol[i] annientatore e annientato»7. A differenza della battaglia delle idee nei più antichi sistemi che avevano sempre bisogno della mediazione, per ciò «che oggi si chiama valore» si intende la verità stessa8. Nella prospettiva della dottrina giuridica quella mediazione assolutamente necessaria spettava alle leggi. «All’interno di una comunità la cui costituzione prevede un legislatore e delle leggi, è compito del legislatore e delle leggi da lui decretate stabilire la mediazione attraverso regole misurabili e applicabili e impedire il terrore dell’attuazione immediata e automa-

4 N. Sombart, Jugend in Berlin. 1933-1943. Ein Bericht, Fischer TB, Frankfurt a. M. 1986, p. 250. 5 C. Schmitt, Ex Captivitate Salus. Erfahrungen der Zeit 1945/47, Greven, Köln 1950, p. 77; tr. it. di C. Mainoldi, Id., Ex Captivitate Salus. Esperienze degli anni 194547, con un saggio di F. Mercadante, Adelphi, Milano 1987, p. 79. 6 Cfr. C. Schmitt, Die Tyrannei der Werte, in Säkularisation und Utopie. Ebracher Studien. Ernst Forsthoff zum 65. Geburtstag, Kohlhammer, Stuttgart 1967, pp. 32-67 (cito dalla terza edizione rivista, Duncker & Humblot, Berlin 2011); tr. it. a cura di G. Gurisatti, Id., La tirannia dei valori, con un saggio di F. Volpi, Adelphi, Milano 2009. 7 Ivi, p. 52; tr. it. cit., p. 65. 8 Ivi, p. 53; tr. it. cit., p. 67.

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tica del valore»9. A leggere Schmitt, si giunge alla conclusione che il valore sia un concetto di copertura del risentimento, sul quale a suo avviso si sono sostanzialmente costruite le democrazie occidentali. Necessariamente la giurisdizione si comporta con attitudine critica rispetto ai valori – e con ciò anche rispetto a quelli cui Schmitt e altri erano andati dietro durante l’epoca del nazionalsocialismo. Infatti lui e i suoi simili discussero non solo idee, ma, nel segno dei nuovi valori, si atteggiarono a lacchè della legislazione antisemita. Nei primi anni Schmitt giustifcò decisioni e azioni di Hitler in modo veemente (fno a smentire sé stesso)10. Se si guarda al suo impegno per i nazisti più da vicino, si nota che il suo fervore viene presto frenato da individui più radicali di lui, e che nel 1936 egli sperimenta «un sovvertimento nella gerarchia uffciale»11. Ora viene considerato un «opportunista cattolico», viene spinto nelle retrovie12. Nondimeno, si faceva notare per via delle sue «brillanti ambiguità»13. Dopo la guerra, si schermì rispetto a tutti coloro che da lui si attendevano un’ammissione della colpa o degli errori. Ma Schmitt non va valutato solo per le sue pesanti asserzioni, quale che sia stato il suo atteggiamento prima del 1945. Le sue prese di posizione, soprattutto sui problemi della repubblica di Weimar, fno a oggi sono rimaste attuali anche sotto un proflo teorico14. Taubes concedeva a Schmitt che egli, in quanto giurista, dovesse «legittimare il mondo così com’è»15. Poi spiegava: «è un atteggiamento radicato in tutta l’educazione, in tutta la rappresentazione dell’uffcio del giurista. È un clerc, e intende che il suo compito non sta nel porre il diritto, ma nell’interpretarlo. L’interesse di Schmitt era solo uno: che il partito, che il caos non arrivi in alto, che rimanga Ivi, p. 54; tr. it. cit., p. 67. Cfr. R. Mehring, Schmitt, cit., pp. 333-335 (Congresso dei giuristi tedeschi), pp. 352-353 (putsch di Röhm), p. 367 (leggi di Norimberga). 11 Ivi, pp. 378-380 (titolo del capitolo). 12 Ivi, p. 369. 13 Lettera di Werner Krauss a Fritz Schalk del 19 giugno 1940 (copia nel lascito di Werner Krauss, Berlin-Brandenburgische Akademie der Wissenschaften). 14 Cfr. E. Kennedy, Constitutional Failure: Carl Schmitt in Weimar, Duke UP, Durham 2004. 15 J. Taubes, Die Geschichte Jacob Taubes - Carl Schmitt, in J. Taubes - C. Schmitt, Briefwechsel mit Materialien, cit., pp. 255-264: 261; tr. it. cit., pp. 224-234: 231 (cfr. anche J. Taubes, Apokalypse und Politik. Aufsätze, Kritiken und kleinere Schriften, a cura di H. Kopp-Oberstebrink e M. Treml, Fink, München 2017, pp. 299-307: 304). 9

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lo Stato. A qualunque prezzo»16. Nel XVII secolo i clercs erano i «giovani scribi dei tribunali e degli organi amministrativi», solo più tardi divennero intellettuali17. Nel 1927 Julien Benda aveva denunciato il loro tradimento per il nazionalismo e la passione politica incontrollata – e anche Taubes vi allude18. La sua apologia di Schmitt è al contempo una critica all’arroganza di molti (non solo) in quegli anni, a tutti i nati tardi che non furono mai indotti in tentazione e che pure si atteggiarono a fermi e inesorabili oppositori di coloro che avevano commesso errori (o, in senso cristiano, che avevano peccato). Il torto commesso è torto, dev’esser condannato ed espiato secondo la sentenza emessa. Ma non per nulla in una delle preghiere del Padrenostro si dice «e non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male». La preghiera è quanto mai realistica: meglio non esser messi alla prova, ma salvati. Schmitt si era risolto per la tentazione. Anche Taubes era del tutto estraneo alla Repubblica Federale Tedesca, ma per via di un’esperienza diametralmente opposta: quella di chi è vittima del nazionalsocialismo. Egli sopravvisse alla Shoah, esteriormente illeso, in Svizzera, perché il padre nel luglio 1936 era stato chiamato come rabbino a Zurigo e con la famiglia si era trasferito lì da Vienna19. Ma molti tra i suoi parenti vennero uccisi nei lager. Per quanto egli fosse sfuggito al destino e fosse sopravvissuto, era sradicato e al contempo condannato a vivere in molti luoghi su tutta la terra – con l’eccezione della Germania. Fino ai primi anni Sessanta, quello che una volta era l’Altreich per lui era un non-luogo, dove non aveva mai voglia di andare. Qualcosa cambiò solo quando gli fu prospettata la prima cattedra di Studi ebraici/Scienza dell’Ebraismo alla Freie Universität di Berlino. Nel 1965, tre anni dopo, decise infne di accettare la chiamata e di non fare il pendolare tra Berlino e New York, dove a partire dal 1957 aveva insegnato alla Columbia University, da ultimo come Associate Professor. Poco dopo il trasferimento di Taubes alla FU cominciarono le proteste studentesche, che egli sostenne energicamente, accompagnaIbid. Cfr. E. Auerbach, Das französische Publikum des 17. Jahrhunderts, Hueber, München 1933, soprattutto pp. 12-24: 16. 18 Cfr. J. Benda, Der Verrat der Intellektuellen, Hanser, München-Wien 1978. Ringrazio Thomas Macho (Vienna), per aver richiamato la mia attenzione sul testo di Benda. 19 Debbo un ringraziamento a Evelyn Adunka (Vienna) per avermi informato sulla data esatta. 16 17

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to dalla seconda moglie, la flosofa Margherita von Brentano (19221995). «La Freie Universität è la Berkeley d’Europa», le proteste sono una «rivoluzione culturale dal basso», spiegava Taubes alla flosofa americana Lynne Belaief20. Tra le università tedesche la FU ebbe sin dall’inizio un ruolo speciale. Fondata nel 1947, non era sorta solo in opposizione all’università «non-libera» – perché stalinista – di Berlino, a Mitte (l’odierna Humboldt Universität), ma anche su decisa iniziativa studentesca e con il sostegno della forza d’occupazione americana. Aveva sede a Dahlem, nel settore americano21. Era US in Germany – ovvero prevalentemente ci andavano giovani tedeschi, nella capitale distrutta, legati ai valori americani. Molti professori tedeschi evitarono a lungo la FU, senza rispondere alle chiamate ricevute. Vi insegnavano molti rimpatriati, ma non tutti erano così di sinistra come Taubes. 2. Il discorso religioso e la storia delle religioni C’è un volume che, attraverso il carteggio e le corrispondenze di terzi coinvolti, documenta come Taubes e Schmitt gradualmente giunsero a rappresentare un riferimento l’uno per l’altro, fno a inviarsi delle lettere, e come Taubes andò addirittura tre volte a trovare Schmitt a Plettenberg (luogo di nascita e di esilio post-bellico), e come ciò venne recepito dagli intimi di entrambi22. A lungo i due si scrutano con cautela estrema. Solo il fatto di presentarsi l’un l’altro come biblisti fece rompere il ghiaccio tra i due. Fu allora possibile superare gli abissi, come entrambi non mancarono di chiarire – Taubes nella formula di saluto («PorgendoLe la mano al di sopra di un abisso»23), cui Schmitt replica con una citazione biblica dal salmo 42, 8, secondo il latino della Vulgata, il testo sacro della Chiesa Cattolica: abyssus vocat abyssum, «abisso chiama abisso»24. Nell’abisso cresce anche 20 Lettera di Taubes a Lynne Belaief del 21 giugno 1971 (Nachlass Jacob Taubes, ZfL Berlin, traduzione mia). 21 Cfr. K. Heinrich, Erinnerungen an das Problem einer freien Universität, in Id., Der Gesellschaft ein Bewusstsein ihrer selbst zu geben, Stroemfeld, Frankfurt a. M.-Basel 1998, pp. 9-29. 22 Cfr. J. Taubes - C. Schmitt, Briefwechsel mit Materialien, cit.; tr. it. cit. 23 Ivi, p. 35; tr. it. cit., p. 52 (lettera di Taubes a Schmitt del 17 novembre 1977). 24 Ivi, p. 38; tr. it. cit., p. 54 (lettera di Schmitt a Taubes del 29 novembre 1977) e p. 40; tr. it. cit., p. 55 (bozza di una lettera di Schmitt a Taubes).

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la saggezza, recita il libro deuterocanonico di Gesù Siracide in epoca ellenistica, che ci resta nella sua unica versione in greco, tradotta dal nipote dell’autore nella lingua degli eruditi d’Oriente. Lì, al capitolo 24, si parla degli avventurosi viaggi della saggezza personifcata: «Io sono uscita dalla bocca dell’Altissimo e ho ricoperto come nube la terra. Ho posto la mia dimora lassù, il mio trono era su una colonna di nubi. Il giro del cielo da sola ho percorso, ho passeggiato nelle profondità degli abissi. Sulle onde del mare e su tutta la terra, su ogni popolo e nazione ho preso dominio. Fra tutti questi cercai un luogo di riposo, in quale possedimento stabilirmi» (Sir 24, 3-7)25. L’abisso è entrambe le cose: la fonte della saggezza cosmopolita e il luogo della catastrofe vissuta, quella del nazionalsocialismo e della Shoah, la catastrofe, come spiega Taubes a Schmitt, che è «la nostra e la Sua»26. Schmitt e Taubes erano un cattolico e un ebreo che conoscevano i tormenti dell’animo e il loro sollievo nella preghiera. Schmitt scrive: «L’ultimo rifugio per un uomo tormentato da altri uomini è sempre una preghiera, una giaculatoria al Dio crocefsso. Nel tormento del dolore, noi lo riconosciamo, ed egli ci riconosce. Il nostro Dio non fu lapidato come ebreo da ebrei, né decapitato come romano da romani. Egli non poteva essere decapitato. Un capo nel senso giuridico egli non l’aveva più, perché non aveva più diritti. Morì la morte degli schiavi, la crocefssione, che un conquistatore straniero gli aveva irrogato»27. Schmitt amalgama qui immagini da ambiti ben diversi, ponendole in grande tensione reciproca. Con “tormento”, si intende quello della pecora, di cui nella Bibbia, già a proposito del cosiddetto servo di Dio, il giusto sofferente, si legge: «Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca, era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca» (Is 53, 7). Luoghi biblici come questo sono stati recitati da ebrei devoti prima di entrare nelle camere a gas. Schmitt certo non poteva, né voleva saperlo. Rimase sul testo sacro – profetico, invero. Poi riconobbe che il Crocifsso non apparteneva a uno dei due popoli, come Stefano lapidato o Paolo decapitato – cui si allude qui –, Ebrei o Ro25 Seguo qui la traduzione di G. Sauer, Jesus Sirach/Ben Sira, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2000, p. 177. 26 J. Taubes - C. Schmitt, Briefwechsel mit Materialien, cit., p. 59; tr. it. cit., p. 66 (lettera di Taubes a Schmitt del 18 settembre 1978). 27 C. Schmitt, Ex Captivitate, cit., p. 61; tr. it. cit., p. 63.

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mani, ma era hors la lois, e pertanto come martire è sovrano. Cristo come uomo è la creatura più inferiore, lo schiavo, ma come fglio di Dio è al contempo infnitamente elevato. Taubes aveva letto questo passo, come confessò a Schmitt: «Nel frattempo per consolarmi leggo di tanto in tanto Ex captivitate salus»28. Lo scriveva nell’inverno 1977/78, durante un semestre invernale che trascorreva a Chantilly, nelle vicinanze di Parigi, dove viveva dai Gesuiti, che disponevano lì di un centro congressi dotato di una ricca biblioteca. Questo e ripetuti soggiorni in quella sede fecero sorgere la diceria che fosse diventato gesuita lui stesso. Tuttavia lo si poteva ben vedere nella sinagoga di Rue Notre-Dame-de-Nazareth, nel 3° Arrondissement, a Rosh haShana e Yom Kippur, le grandi festività del giorno del giudizio divino, gettarsi a terra, urlare, piangere, gemere29. Così come è attestato che anche nei suoi anni berlinesi ogni venerdì lasciava la tavolata che frequentava con altri al Paris Bar di Charlottenburg poco dopo le cinque del pomeriggio, per recarsi alla sinagoga a Pestalozzistrasse, dove partecipava al servizio divino30. A prescindere dalle usanze di devozione che talora praticavano (e non solo nelle crisi), Taubes e Schmitt si riferivano alla Bibbia, alla religione e alla loro storia in vari modi – una varietà che per altri era diffcilmente comprensibile. Ma fu così che riuscì loro un’attualizzazione della rivelazione e della sua tradizione che rivela la parola divina come effcace, direttamente e individualmente, anche quando l’aspirazione di entrambi era diretta alla produzione di una collettività migliore, di una comunità più giusta. Ho tentato di mostrare questo punto mediante la fgura dell’abisso e della prassi della preghiera e voglio ora, in chiusura, tornare su due idee: quella del katechon e dell’Anticristo, così come quella dell’«antitesi di tradizione e rivoluzione», che comprende anche l’antitesi «tra le confessioni cristiane» e – occorre aggiungere – anche tra le religioni occidentali (Ebraismo, Cristianesimo, Islam)31. Il katechon è quella forza che riesce costantemente a rimandare l’evento della fne dei tempi, il rivelarsi del «segreto della malvagi28 C. Taubes - C. Schmitt, Briefwechsel mit Materialien, cit., p. 48 (lettera di Taubes a Schmitt del 21 febbraio 1978). 29 Ringrazio per questa informazione Eva-Maria Thimme (Berlino), assistente di Taubes all’epoca. 30 Ringrazio per questa comunicazione Fritz Kramer (Berlino), collega di Taubes all’epoca, etnologo alla Freie Universität e assiduo della summenzionata tavolata. 31 Cfr. C. Schmitt, Ex Captivitate, cit., p. 73; tr. it. cit., p. 76.

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tà» e del giudizio divino. Se ne parla nella seconda lettera ai Tessalonicesi 2, 6-7 – uno scritto pseudo-paolino del Nuovo Testamento. Non rappresenta soltanto un mero tropo del messaggio teologico, ma possiede un’effcacia esistenziale – a incarnare tale forza può essere l’Impero Romano, ma anche una persona. Lo stesso vale per la rappresentazione dell’Anticristo, ben attestata a partire dal medioevo: si tratta dell’apparizione demoniaca di quel munifco e presunto benefattore dell’umanità che tutto getterà in confusione, che apparirà nell’eschaton (negli «ultimi giorni dell’umanità»), per condurre i popoli nell’errore e nell’annientamento – tanto le infervorate fantasie di una Cristianità oppressa quanto il discorso religioso lo hanno sempre inteso e usato anche in senso auto-terapeutico. Figure simili possono individuarsi nell’Ebraismo e nell’Islam: entrambi dispensano elementi catastrofco-apocalittici, sia sul piano concettuale sia sul piano storico, che si palesano alla venuta dell’auspicato redentore escatologico32. Torniamo qui alla storia e alla teologia del Cristianesimo. Se Giovanni, l’autore dell’Apocalisse che da lui prende il nome, l’ultimo libro della Bibbia cristiana, che attorno al 90 d. C. era fuggito dalla Giudea sull’isola di Patmos, dove aveva avuto le visioni, era anche un emarginato e un oppositore dell’integrazione nel mondo micrasiatico-romano, la sua «retorica furiosa» è stata sempre in grado di riunire i delusi e i calpestati nella lotta contro le forze del male33. Hieronymus Bosch, Albrecht Dürer e altri artisti ne hanno preso in prestito il piano iconografco, per trattare in altra maniera i confitti che defagravano nella loro epoca. Un simile modo di procedere, seguito anche da Taubes, si orienta in base a ciò che ha osservato Walter Benjamin nel saggio del 1931 intitolato Literaturgeschichte und Literaturwissenschaft. È qui che egli spiega come debba avvenire la ripresa del passato: «Poiché non si tratta di presentare le opere della letteratura nel contesto del loro tempo, ma di presentare, nel tempo in cui sorsero, il tempo che le conosce, e cioè il nostro»34. 32 Cfr. G. Scholem, Zum Verständnis der messianischen Idee im Judentum, in Id., Judaica I, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1963, pp. 7-74, soprattutto pp. 14-38; H. Halm, Das Reich des Mahdi. Der Aufstieg der Fatimiden, Beck, München 1991. 33 Cfr. E. Pagels, Apokalypse. Das letzte Buch der Bibel wird entschlüsselt, dtv, München 2013. 34 W. Benjamin, Literaturgeschichte und Literaturwissenschaft, in Id., Gesammelte Schriften, vol. III, Kritiken und Rezensionen, a cura di H. Tiedemann-Bartels, Suhrkamp,

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Quel che qui Benjamin formula in modo paradossale può essere inteso non tanto come un tentativo di rintracciare la genesi di un’opera sul piano storico-critico, quanto piuttosto di investigarne il contenuto alla ricerca di un nesso forte col presente: in questa maniera, a partire dal presente, anche il passato, per quanto possa restare estraneo, viene inquadrato meglio. Così ad esempio Hegel può riconoscere nella tragedia antica (che è tanto una componente del culto di Dioniso quanto un’opera d’arte), e in particolare nell’Antigone di Sofocle, non solo i confitti tra famiglia e Stato nella società civile, ma può anche evidenziare il modo in cui Antigone si attiene alla propria consanguineità, che ella stessa distruggerà assieme alla polis35. Qui come altrove nell’era moderna la storia della religione fornisce la migliore comprensione del moderno stesso. Taubes ha ripetutamente provato a fornire, «nella prospettiva della storia delle religioni» (che egli contrapponeva sempre a quella «storico-flosofca»), un contributo alla conoscenza dei confitti del presente36. Fu un pensatore a metà tra l’Ebraismo e la flosofa occidentale, che si estendeva per lui da Parmenide a Marx e Kierkegaard, fno a Heidegger e Benjamin, «dalla Ionia a Jena», come usava dire. Pensava in chiave esistenziale, perché si sapeva in un’epoca successiva alla catastrofe, un’epoca che egli considerava parallela alla tarda antichità. Oggi come allora dominava la contesa tra Cristo e i Cesari. A Schmitt il parallelo andava a genio. Entrambi usavano la storia delle religioni, spaziando tra i secoli, come arsenale di fgure e costellazioni che sembravano appropriate a modifcare il presente. Schmitt voleva il Leviatano, lo Stato forte, senza discussione, Taubes voleva tutti gli uomini uniti su tutta la terra come fratelli e sorelle. Dall’annuncio dei profeti ebraici e dalla teologia di Paolo si Frankfurt a. M. 1972, pp. 283-290: 290; tr. it. di A. Marietti Solmi, Id., Storia della letteratura e scienza della letteratura, in Id., Opere complete, vol. IV, Scritti 1930-1931, Einaudi, Torino 2002, pp. 396-401: 401. 35 Cfr. G. W. F. Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Religion, in Id., Werke, a cura di E. Moldenhauer - K. M. Michel, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1969, vol. 17, pp. 132-133. Hegel tiene conto di questo raddoppiamento della tragedia antica quando tratta l’Antigone anche nella sua Estetica. Cfr. Id., Vorlesungen über die Ästhetik, ivi, vol. 14, in particolare pp. 60-69 e 184-190. 36 Cfr. la replica di Taubes alla critica di Blumenberg in Dritte Sitzung: Surrealismus und Gnosis, in Poetik und Hermeneutik, vol. 2, Immanente Ästhetik – Ästhetische Refexion. Lyrik als Paradigma der Moderne, a cura di W. Iser, Fink, München 1966, pp. 429-442: 439.

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stendeva per lui un sentiero diretto a una comunità mondiale universale e pertanto veramente “cattolica”, dall’aspetto più cristiano o marxista. All’inizio degli anni Cinquanta egli scrisse al suo maestro gerosolimitano Hugo Bergmann: «Il marxismo è una risposta totale, ha una pretesa verso chiunque e ovunque, ossia è effettivamente (almeno in senso estensivo) cattolico. Un’altra pretesa totale è l’annuncio di salvezza del Cristianesimo (Chiesa cattolica), che non pone confni tra Greci ed Ebrei, tra schiavi e liberi – nella Chiesa cattolica non sono concesse chiese territoriali e regionali o altri regimi privati: credo in unam sanctam catholicam ecclesiam. (Al suo fanco operano veramente en passant “democracy-ideology” e simili, che non reggono il confronto con la totalità della pretesa del marxismo e della Chiesa cattolica, di Mosca o di Roma»)37. Ma Mosca era solo la terza Roma, tanto che Taubes con la sua idea della comunità non voleva in ultima analisi richiamarvisi. Si richiamava a Gesù, non a Costantino o Stalin. Per lui Gesù era ebreo, non era Cristo (e così erano ebrei anche Paolo e Giovanni l’apocalittico) – si tratta di un paradosso sostenuto da tesi storico-religiose che colpisce in pieno la teologia cristiana mainstream e che nella lettura dei testi di Taubes si incontra sin dalla dissertazione Escatologia occidentale38. In questo libro egli si collocava sulla scia della scuola storico-religiosa del tardo XIX e primo XX secolo, soprattutto della radicalizzazione a opera di Albert Schweitzer, che nella Geschichte der Leben-Jesu-Forschung riconosceva una conseguente escatologia come punto di svolta della dottrina di Gesù. Non che il suo apparire marcasse la differenza tra Ebraismo e Cristianesimo, al contrario: Gesù esigeva «dal popolo, non solo dall’individuo, un atto decisivo per il regno di Dio»39. Non annunciò la redenzione del singolo, ma quella della comunità. Il regno di Dio sarebbe dunque immediatamente realizzato sulla terra – il che è molto ebraico. Tuttavia la comunità davvero nuova che era attesa dopo l’«apocalisse della nostra generazione», post 1945, non arrivò. Taubes Lettera non datata di Taubes a Bergmann (Lascito di Hugo Bergmann, sezione Manoscritti della Biblioteca Nazionale Israelitica di Gerusalemme). 38 Cfr. J. Taubes, Abendländische Eschatologie, postfazione di M. Treml, Matthes & Seitz, Berlin 2007, pp. 66-90; tr. it. Id., Escatologia occidentale, a cura di E. Stimilli, con una prefazione di M. Ranchetti, Garzanti, Milano 1997, pp. 69-94. 39 Ivi, p. 76; tr. it. cit., p. 82. 37

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dovette scoprire «che il chiliasmo della nostra epoca ci ha consegnati al giogo mortale di una burocrazia totalitaria»40. Ma per lui era altrettanto vero che «i sogni dell’apocalisse in epoche rivoluzionarie possono diventare una forza sociale di prim’ordine, che motiva le azioni di paracleti chiliastici e masse entusiaste»41. L’Apocalisse è una sorta di fattore creativo nella storia: «Naturalmente i periodi estatici dell’ispirazione sono rari, ma possono sortire grandi risultati nel corso reale della storia. Possono divenire esemplari, nel momento in cui dividono le ere della storia del mondo in un prima e in un dopo. Premesso che l’estasi signifca vivere in un assoluto qui e ora, molto dipende dunque dal fatto che l’ispirazione estatica si consumi da sé o crei istituzioni sociali, ossia che persista, restando nella vita quotidiana. L’escatologia non opera nel regno della storia, ma crea nuova storia»42. Taubes riprende qui una prospettiva biblica, quando contrappone al potere in sé scherit Jisrael, il «resto d’Israele» (Is 4,3 e passim). «La categoria fondamentale della storia del mondo è il potere. Il potere marcia attraverso la serie delle epoche della storia e mostra numerosi volti. I sovrani di oggi sono gli eredi di tutti i conquistatori di un tempo. […] La storia del resto è il racconto dello straniero e del suo soggiorno nel mondo. L’avanzata del pellegrino e il progresso del mondo non vanno di pari passo. Hanno un ordine diverso. Il resto può prescindere dall’ancoraggio alla terra ferma e dalla fducia nel sangue. Non ha né padre né madre né prole nel mondo. Quando vengono ricusati terra e sangue, allora la solidarietà vivente del resto può poggiare solo sulla discendenza spirituale»43. Per Taubes non doveva sussistere appartenenza a famiglia, tribù, suolo, né un confne tra ebreo e greco, schiavo e signore – ecco la sua teologia politica, che con gesto sincretistico e ampi archi univa il meglio dell’Ebraismo, del Cristianesimo e dell’antichità.

40 J. Taubes, Gemeinschaft nach der Apokalypse, in Id., Apokalypse und Politik, cit., pp. 127-138: 127. 41 Ivi, p. 128. 42 Ivi, p. 138. 43 Ivi, p. 136.

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3. Taubes sulla democrazia Idee come queste erano anche alla base del concetto e della storia taubesiani della democrazia come luogo presente della convivenza. Per discuterle chiamerò in causa uno dei suoi testi meno noti, On the Symbolic Order of Modern Democracy, un saggio del 1955, pubblicato su una rivista statunitense44. Questa rivista era curata da Henry Kissinger, in seguito ministro degli esteri degli Usa, all’epoca docente alla Harvard University. Kissinger due anni prima aveva sondato, invano, nientepopodimeno che Carl Schmitt perché contribuisse alla rivista45. Per larghi tratti, il saggio di Taubes può essere inteso come un dibattito implicito con Schmitt. Il punto di partenza è l’osservazione secondo cui nel linguaggio politico sono entrate idee essenzialmente religiose, e infatti «autorità, sovranità, onnipotenza, decisione appartengono come dei ex machina al lessico fondamentale tanto della lingua religiosa quanto di quella politica»46. La citazione è chiaramente sulla scia delle argomentazioni di Schmitt, come mostrano in genere nel testo le molteplici allusioni a lui. Il punto di partenza implicito è il celebre enunciato iniziale del terzo capitolo della Teologia politica schmittiana: «Tutti i concetti pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati»47. Taubes non aveva però intenzione di fare critica dell’ideologia – com’era d’altronde en vogue in quegli anni –, ma di rispondere alla domanda «se, detta in breve, determinate tensioni nel canone simbolico tra linguaggio religioso e retorica politica possano mostrare una situazione critica nella struttura spirituale e secolare della no-

J. Taubes, On the Symbolic Order of Modern Democracy, «Confuence», 4 (1955), pp. 57-71. Nei passi seguenti, il saggio viene citato dalla sua traduzione tedesca: cfr. Id., Über die symbolische Ordnung moderner Demokratie, in Id., Apokalypse und Politik, cit., pp. 95-108. 45 Cfr. P. Noack, Carl Schmitt. Eine Biographie, Ullstein, Frankfurt a. M./Berlin 1996, pp. 286-287. 46 Cfr. J. Taubes, Symbolische Ordnung, cit., p. 95. 47 C. Schmitt, Politische Theologie. Vier Kapitel zur Lehre von der Souveränität, seconda edizione rivista, Duncker & Humblot, München/Leipzig 1922‚ p. 49 (qui e in quanto segue, cito dalla quarta edizione invariata, Duncker & Humblot, Berlin 1985); tr. it. di P. Schiera, Id., Teologia politica, in Id., Le categorie del “politico”, a cura di G. Miglio - P. Schiera, il Mulino, Bologna 1972, pp. 27-86: 61, tr. mod. 44

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stra società»48. Fundamentum in re è in questo il culto religioso, che Taubes designa con la parola “liturgia”, presa in prestito dal greco e che nel senso letterale del termine della Bibbia e della sua traduzione in greco intende come “servizio” a Dio inteso come signore. Tale culto nelle “religioni occidentali” è nel complesso fondato su «simboli monarchici»49. Il che riguarda l’Ebraismo come il Cristianesimo – dell’Islam (in quanto terza religione occidentale) non si parla qui, non avendo questo ancora calcato, alla metà degli anni Cinquanta, la scena storico-flosofca come potenza riconosciuta. Taubes però non mira a una critica del linguaggio, quanto a una critica politica. Per questo rigira bruscamente la sua osservazione e si interroga su come l’epoca successiva al 1789, che pure si collocava sotto il segno del regicidio e dell’uguaglianza di tutti, abbia avuto un impatto su ciò che egli chiama «coscienza religiosa» e sulla sua capacità di produrre simboli religiosi50. «Lo stretto nesso tra l’esecuzione del re unto da Dio e la libera associazione tra fratelli, tra regicidio e fraternità, potrebbe fungere da intestazione di un capitolo sulla storia spirituale della cultura occidentale degli ultimi due secoli»51. Se sul piano teorico ciò era stato descritto da Nietzsche e da Freud, sul piano letterario erano stati i grandi autori russi come Turgenev e Dostoevskij a renderlo evidente. Il che spinge a chiedersi se «il simbolismo religioso e politico delle religioni tradizionali, teistiche, è in genere capace di predisporre il canone simbolico per una società democratica. Oppure, al contrario, la struttura democratica della società moderna infuenza il simbolismo teistico tradizionale e questa stessa nomenclatura dogmatica comprende poi diverse immagini della divinità?»52. Il punto di svolta e fulcro della comprensione di Taubes è l’analogia tra uomo e Dio nel primo racconto biblico della Creazione. «Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò» (Gn 1, 27). Ma questa creazione a immagine di Dio viene corrotta o del tutto perduta per via della peccaminosità umana: sul suo grado le opinioni dottrinali delle diverse religioni e J. Taubes, Symbolische Ordnung, cit., p. 95. Ivi, pp. 95-96. 50 Ivi, p. 97. 51 Ibid. 52 Ivi, p. 98. 48 49

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delle diverse Chiese non sono concordi. «Un credo estremo insegna l’assoluta corruzione della natura umana, mentre altri, maggiormente orientati alla conciliazione, parlano unicamente del suo indebolimento. Ma liberare interamente la natura umana dall’effetto di corruzione dell’atto originario del peccato va integralmente contro lo spirito delle credenze teistiche, la cui dottrina fondamentale della peccaminosità inerente all’umano trova eco nell’assunto della Genesi, dove si legge “Perché l’istinto del cuore umano è incline al male fn dall’adolescenza”»53. Taubes chiarisce che nelle religioni occidentali l’uomo è considerato peccatore e fa riferimento a una critica del disagio (Unbehagen) che era stata sollevata al riguardo negli anni Cinquanta. Il disagio ha suscitato il postulato dell’originaria o ereditaria peccaminosità dell’uomo soprattutto perché non è democratico – nel senso dell’ottimismo roussoviano, alla base delle democrazie dopo il 1789, dell’uguaglianza e della bontà originaria di tutti gli uomini. «Una flosofa democratica non mira pertanto solo a migliorare le condizioni, ma insiste anche che non vi siano limiti per lo sviluppo umano, una convinzione che contraddice chiaramente le idee religiose tradizionali»54. Sono centrali al riguardo due idee diametralmente opposte di autorità. All’idea patriarcale, fondata sul decreto delle religioni occidentali e sul loro simbolismo monarchico, si contrappone quella democratica, basata sul consenso del popolo55. Contro la prima si sono levate continuamente proteste già nelle religioni stesse, non solo in epoca recente. «La logica della protesta è sempre la stessa: tutte le comunità sono sacre, ciascuna di esse – ceto sacerdotale o gerarchia non sono pertanto in diffcoltà»56. Già la gnosi antica – indagando la quale con ottimi frutti flosofci in Der Begriff der Gnosis Hans Jonas nel 1928 si era addottorato a Marburgo con Martin Heidegger, su stimolo del teologo protestante Rudolf Bultmann, e dalla quale aveva ricavato il suo grande libro Gnosis und spätantiker Geist – voleva innanzitutto protestare

Ibid. La citazione biblica è Gn 8, 21. Ibid, p. 99. 55 Cfr. ivi, pp. 99-101. 56 Ivi, p. 100. 53 54

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contro la mondanizzazione della religione57. Taubes stesso vedeva nella gnosi non solo una «idea di uomo» (questo il titolo di un saggio dello stesso anno di quello sui simboli della democrazia), ma scoprì anche un «nuovo fondamento per la comunità»: «Gli uomini sono fratelli perché sono tutti estranei nel mondo»58. Una tesi che si contrapponeva all’idea antica, poiché nell’«epoca precristiana l’uomo viveva come parte di un tutto della natura o nel tutto della società»59. Fu con questo che ruppe il “nuovo pensiero” di cui la gnosi costituiva l’ala più radicale. L’entusiasmo di Taubes per la gnosi restò sempre fortemente debitore nei confronti di Jonas – la cui Gnostic Religion, apparsa per la prima volta nel 1958, è scritta quasi nel senso di Taubes – un raro ribaltamento dei rapporti60. Taubes stesso aveva dato una mano a trovare una casa editrice americana. Le chiese uffciali non hanno mai protestato contro l’istituzionalizzazione come mondanizzazione, perché la «democrazia non sbocciò nella tradizione ortodossa delle religioni cristiane, ma tra gli eretici mistici e settari del medioevo, che abiurarono il sistema gerarchico del cattolicesimo romano, attaccarono l’ordine feudale della società medievale, e cercarono di penetrare l’intera popolazione con l’annuncio “egalitario” del vangelo»61. Qui la storia che Taubes fa delle religioni occidentali approda, quasi impercettibilmente, a una interpretatio Christiana che si compie sotto la luce degli «eretici mistici e settari» appena evocati, che sono sempre stati considerati vicini all’Ebraismo. A seguire l’argomentazione di Taubes, la democrazia sarebbe derivata dagli sforzi dei radicali cristiani come i Battisti. Lo spirito della democrazia sarebbe dunque non di casa ad Atene (come quintessenza della flosofa), non a Roma (come quintessenza della politica), ma a Gerusalemme (come quintessenza della teocrazia). Ma chiaramente è una Gerusalemme sempre più cristiana, dove per Taubes il Cristianesimo è originariamente ebraico – né ciò va inteso in senso solo temporale. Cfr. H. Jonas, Erinnerungen. Nach Gesprächen mit Rachel Salamander, cura e postfazione di Ch. Wiese, Insel, Frankfurt a. M./Leipzig 2003, pp. 116-118. 58 J. Taubes, Die gnostische Idee des Menschen, in Id., Apokalypse und Politik, cit., pp. 109-118: 117. 59 Ivi, p. 110. 60 Cfr. H. Jonas, The Gnostic Religion. The Message of the Alien God and the Beginnings of Christianity, Beacon Press, Boston 1958. 61 J. Taubes, Symbolische Ordnung, cit., p. 100. 57

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Nei due capitoli conclusivi del saggio Taubes accorda la sua tesi centrale, dislocata in una cornice di storia delle religioni, con diverse posizioni teoriche. Il protestante Sören Kierkegaard viene così apprezzato tanto quanto il cattolico Juan Donoso Cortés, o gli atei Karl Marx e Pierre-Joseph Proudhon. «Tutti e quattro erano laici che si interessarono con passione all’ordine simbolico delle religioni. Tutti e quattro rappresentarono le due facce di una stessa medaglia, infatti concordavano nell’analisi della funzione della religione nella società. Ciascuno di loro per la sua analisi prendeva spunto dalla rivoluzione del 1848 e ognuno giunse allo stesso “risultato”: la dittatura, che unanimemente preferivano a un nesso bilanciato di autorità e consenso generale»62. Dove prima si parlava di democrazia e di uguaglianza, ora si parla di dittatura. È una conclusione sconcertante, soprattutto dopo tutto ciò che la precede nel testo di Taubes. Essa scaturisce dalla congettura per cui Dio nel XX secolo deve essere «descritto come il perfetto straniero», come «l’interamente altro, con il quale non è possibile intesa alcuna da parte umana, e che interviene con terrore nella vita umana, esigendo completa obbedienza e fede cieca»63. È la teologia di Karl Barth, il Riformato svizzero e portavoce spirituale della Chiesa confessante, l’opposizione protestante a Hitler. Anche su Barth Taubes ha detto la sua64. Soprattutto nei suoi scritti successivi alla Prima guerra mondiale, quando i bisogni materiali si incontrarono con quelli spirituali, Barth diagnosticò una frattura radicale tra Dio e la sua creazione, il mondo. Non risparmiò neanche la religione, che da parte sua era soggetta al verdetto secondo cui tutte le cose terrene sono meri sotterfugi. Come pensatore, Barth fu infuente al di là della teologia

Ivi, p. 102. Ivi, p. 105. 64 Cfr. J. Taubes, Theologie und die philosophische Kritik der Religion, in Id., Apokalypse und Politik, cit., pp. 83-94. Il testo condivide molte sezioni con Id., Theodizee und Theologie: Eine philosophische Analyse der dialektischen Theologie Karl Barths, in Id., Vom Kult zur Kultur. Bausteine zu einer Kritik der historischen Vernunft. Gesammelte Aufsätze zur Religions- und Geistesgeschichte, a cura di A. e J. Assmann, W.-D. Hartwich e W. Menninghaus, Fink, München 1996, pp. 212-229; tr. it. Id., Teodicea e teologia: un’analisi flosofca della teologia dialettica di Karl Barth, in Id., Messianismo e cultura. Saggi di politica, teologia e storia, a cura e con una prefazione di E. Stimilli, Garzanti, Milano 2001, pp. 75-96. 62 63

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riformata, tra i Cristiani come tra gli Ebrei65. La sua teologia che si liberava dal mondo si approssimava a una teologia autoritaria, ma non nel senso di un autoritarismo politico, bensì in quello di un sistema che non conosce istanze mediatrici. Così dichiarava: «Gesù come il Cristo è la superfcie a noi sconosciuta, che taglia la superfcie a noi nota verticalmente, dall’alto»66. Se anche Barth era infuenzato da Kierkegaard, si servì di una metaforica della violenza esplosiva, del bombardamento, ad esempio quando diceva che la rivelazione lascia dietro di sé «crateri d’impatto»67. Proprio in questa radicalizzazione di Dio si incontrano tuttavia le posizioni, per il resto assai diverse, dei quattro eroi di Taubes dopo il 1848: Kierkegaard, Marx, Proudhon e Donoso Cortés. La loro assoluta prossimità teorica, a dispetto della più rigida opposizione riguardo ai loro scopi, viene costruita tra audaci inferenze e conclusioni. Sono fratelli diversi. Taubes, facendo riferimento a Rousseau, il «padre di ogni teoria politica moderna», parte dal fatto «che uno Stato non è mai stato costruito senza la religione come fondamento»68. Ma non è la «religione stabilita come fondamento della comunità», ma sempre la sua antitesi o una sua deviazione69. Il socialismo ad esempio si mostra per Kierkegaard e Donoso Cortés non come mondanizzazione conseguente, ma come “teologia satanica”, un appetito antidivino70. Carl Schmitt condivideva questa prospettiva, quando nella Teologia politica scriveva: «il satanismo di quest’epoca non era un paradosso corrente, bensì un solido principio intellettuale», rimandando a Charles Baudelaire71. In questo contesto, Taubes menziona addirittura Schmitt, esplicitamente. «Carl Schmitt, l’apologeta della rivoluzione nazista in Germania, si richiamò a Donoso Cortés e tentò di leggere nella retorica dell’inquisitore spagnolo la propria teoria nichilistica della 65 Cfr. B. Lazier, Romans in Weimar, in Id., God Interrupted: Heresy and the European Imagination Between the World Wars, Princeton/Oxford UP, Princeton 2008, pp. 37-48; R. Rashkover, Revelation and Theopolitics: Barth, Rosenzweig and the Politics of Praise, T&T Clark, London 2005. 66 K. Barth, Der Römerbrief. Zweite Fassung, Theologischer Verlag, Zürich 1922, p. 6. 67 Ivi, p. 5. 68 J. Taubes, Symbolische Ordnung, cit., p. 106. 69 Ibid. 70 Ibid. 71 C. Schmitt, Politische Theologie, cit., pp. 80-81: 80; tr. it. cit., p. 83.

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decisione»72. Il 1932/33 guarda indietro al 1848. Taubes prosegue: «La premessa comune alle due parti del dibattito del 1848 era stata l’equiparazione “Dio è potere, la religione è l’autorità”: Donoso e Proudhon, Kierkegaard e Marx non misero mai in questione tale equiparazione»73. Secondo Taubes lo Stato costituzionale democratico non aveva nessun principio di legittimazione ed era destinato «a sfociare in un nuovo cesarismo»74. Resta indeciso come ciò si accordi con il primato affermato della «partecipazione alla comunità»75. Il che vale anche per la conclusione che «la divinità» non è «la giustifcazione del potere, ma dell’amore76. Questo sarebbe un’intensifcazione paolina, con una piega assai particolare: non la legge (il nomos, la Torah), ma l’amore dominerebbe anche la dittatura. Taubes partiva dai profeti d’Israele e fniva con Paolo, letto attraverso Schmitt77. 4. Due immagini di democrazia Tra i molti riferimenti di Die symbolische Ordnung moderner Demokratie, il saggio di Taubes del 1955, vanno annoverati anche gli scritti di Schmitt, pure quando egli non vi rinvia espressamente. Nello stesso anno viene scritta la prima – e per lungo tempo anche unica – lettera scambiata tra Taubes e Schmitt, in cui l’uno cercava di guadagnarsi l’altro come autore della casa editrice americana Beacon Press78. Non ne venne fuori nulla, ma Schmitt, insieme ai suoi scritti, era sempre presente nel pensiero di Taubes. Accanto alla Teologia politica, va annoverato Il concetto di politico79. Tuttavia, J. Taubes, Symbolische Ordnung, cit., pp. 106-107. Ivi, p. 107. 74 Ibid. 75 Ibid. 76 Ibid. 77 Cfr. Ch. Schmidt, “Es gibt Vernichtung” - Jacob Taubes’ Die politische Theologie des Paulus, in Id., Die theopolitische Stunde. Zwölf Perspektiven auf das eschatologische Problem der Moderne, Fink, München 2009, pp. 269-302. 78 Cfr. J. Taubes - C. Schmitt, Briefwechsel mit Materialien, cit., p. 21 (lettera di Taubes a Schmitt del 2 agosto 1955). 79 Cfr. C. Schmitt, Politische Theologie, cit.; Id., Der Begriff des Politischen. Text von 1932 mit einem Vorwort und drei Corollarien, Duncker & Humblot, Berlin 19632; tr. it. Il concetto di “politico”, in Le categorie del “politico”, cit., pp. 87-208. 72 73

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in questo contesto occorre rimandare a un altro dei testi schmittiani, ossia a Cattolicesimo romano e forma politica, uscito nel 1923 a Hellerau bei Dresden, poi, con modifche, nel 1925 a Monaco. Quando si confronta questo libro con i due appena menzionati, si stenta a credere che l’autore sia lo stesso80. Come sempre, Schmitt comincia con un enunciato pregnante, provocatorio. «C’è un sentimento antiromano»81. Si tratta – sostiene Sam Weber – «di una risposta a un altro sentimento, meno consapevole: la paura»82. Una risposta diretta alla pletora di forme quanto mai diverse che vanno a comporre una complexio oppositorum: «Multilateralità e ambiguità, il doppio volto, la testa di Giano, l’ermafroditismo (come si è espresso Byron a proposito di Roma)»83. Questa proprietà è dovuta «alla rigorosa attuazione del principio di rappresentazione», che è opposto soprattutto al «pensiero tecnico-economico, oggi egemonico» (rispetto alla globalizzazione Schmitt è qui più attuale di quanto si sarebbe potuto presagire)84. Questo principio di rappresentazione consiste in una forma specifcamente giuridico-dottrinale e in un pensiero dell’uffcio (Amtsdenken), che si contrappone costantemente alle forze della dissoluzione, che in quanto tali portano anche alla rivoluzione e alla sovversione. Senza formularlo esattamente in questa maniera, Schmitt attribuisce queste forze dissolutrici a due (antiche) religioni, il paganesimo greco e il monoteismo ebraico, che avevano entrambe preso posizione contro Roma, o come impero, o come Chiesa. Essenziale al dominio romano come rappresentazione razionale è «che essa ha saputo egregiamente aver ragione degli entusiastici culti dionisiaci, delle estasi, delle tendenze a sprofondare nella contemplazione»85. Schmitt si basa qui sulla descrizione weberiana delle Cfr. G. Balakrishnan, The Enemy. An Intellectual Portrait of Carl Schmitt, Verso, London-New York 2000, pp. 51-52. 81 C. Schmitt, Römischer Katholizismus und politische Form, Klett-Cotta, Stuttgart 1984 (ristampa della seconda edizione, Theatiner, München 1925), p. 5; tr. it. Id., Cattolicesimo romano e forma politica, traduzione e cura di C. Galli, il Mulino, Bologna 2010, p. 7. 82 S. Weber, “The Principle of Representation”: Carl Schmitt’s Roman Catholicism and Political Form, in Id., Targets of Opportunity. On the Militarization of Thinking, Fordham UP, New York 2005, pp. 22-41: 25 (traduzione nostra). 83 C. Schmitt, Römischer Katholizismus, cit., p. 8; tr. it. cit., p. 11. 84 Ivi, p. 14; tr. it. cit., p. 18. 85 Ivi, p. 23; tr. it. cit., p. 29. 80

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religioni mondiali86. Altrettanto importante è il dato successivo: «Il Papa non è il profeta, ma il Vicario di Cristo»87. Pertanto, non è né un estatico né un portavoce, e neppure un giusto sofferente, ma è sovrano. È proprio questo a render possibile l’idea politica del cattolicesimo e la «triplice grande forma: la forma estetica della dimensione artistica, la forma giuridica del diritto e infne il glorioso splendore di una forma di potere storico-mondiale»88. Contro tutto ciò con cui Schmitt si confronta in questo testo, si sono indirizzati gli sforzi di quelle sette radicali da cui secondo Taubes sono derivati lo spirito e i simboli della democrazia. Erano distruttrici del diritto e spesso anche iconoclaste; ma amavano il potere e, quando infne lo conquistavano, lo imponevano senza pietà. Soprattutto però sono emersi in esse puritani – come Girolamo Savonarola, che predicava contro il lusso delle donne forentine, o Thomas Müntzer, per il quale i poveri della Turingia non erano abbastanza poveri. «Dovevano prima disfarsi di tutti i loro desideri terreni e rinunciare ai loro svaghi mondani, così che tra sospiri e preghiere potessero riconoscere il loro triste stato e al contempo la necessità di un nuovo capo, mandato da Dio»89. Siamo anche in linea, qui, con gli odierni gruppi emergenti nello Stato Islamico, per dare un taglio attuale e cambiare la religione di riferimento. Gli ultimi esecutori di queste idee sono però due russi: lo scrittore ortodosso Dostoevskij e l’anarchico Bakunin, richiamato anche da Schmitt, addirittura con particolare enfasi: all’inizio e alla fne del suo testo90. Schmitt stesso non è un avversario della democrazia, ma un appassionato antirepubblicano, perché la repubblica si era messa comoda «nella poltrona delle conquiste dell’Ottantanove»91. Per questa ragione essa è inadatta all’esercizio dell’autorità. Inoltre egli Ibid. Ivi, pp. 23-24; tr. it. cit., p. 29. 88 Ivi, p. 36; tr. it. cit., p. 44. 89 N. Cohn, Das neue irdische Paradies. Revolutionärer Millenarismus und mystischer Anarchismus im mittelalterlichen Europa, Rowohlt, Reinbek bei Hamburg 1988, p. 267. La prima edizione del libro di Cohn, The Pursuit of the Millennium, uscì nel 1957 (Secker & Warburg, London), ossia solo due anni dopo il saggio di Taubes. Ma è verosimile che questi abbia conosciuto lavori preliminari più antichi, tanto che Cohn può essere annoverato tra le sue pezze d’appoggio. 90 Cfr. C. Schmitt, Römischer Katholizismus, cit., pp, 5-6 e 60-65; tr. it. cit., pp. 8 e 72-76. 91 Ivi, p. 20; tr. it. cit., p. 24. 86 87

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ricusava tanto il parlamentarismo quanto il liberalismo e spiegava: «La fede nel parlamentarismo, in un government by discussion, rientra nel mondo ideale del liberalismo. Non fa parte della democrazia. Le due cose, liberalismo e democrazia, vanno separate, perché possa esser riconosciuta la compagine formata da elementi eterogenei che forma la moderna democrazia di massa»92. Non aveva in mente per l’oggi tanto la Chiesa cattolica quanto un cesarismo, una dittatura populistica, l’unica forma di governo all’altezza del rischio della guerra civile. Non così Taubes. Che, partendo da un simile punto di vista, nel saggio del 1955, ha tratto conclusioni ben diverse. In seguito egli ha ricondotto la sua affnità, ma anche la sua antitesi con Schmitt a una dimensione spaziale, quella di alto e basso. «Carl Schmitt pensa apocalittico, ma dall’alto in basso, a partire dai poteri: io penso dal basso. A entrambi è però comune quell’esperienza del tempo e della storia come scadenza (Frist), come sospensione (Galgenfrist)»93. L’alto e il basso per secoli non erano stati in antitesi, solo la «svolta copernicana» fece piazza pulita della concezione per cui «tutto ciò che accade sulla terra è solo un’ombra del regno celeste»94. Solo da allora è possibile parlare qualitativamente di alto e basso. Ma tentiamo un nuovo, ultimo approccio per rendere evidente l’antitesi tra Taubes e Schmitt nella concezione della democrazia e dei suoi simboli. Lo faremo sulla scorta di due fgure o creazioni fgurali di cui entrambi si sono trovati a parlare. Per Schmitt il frontespizio collocato in apertura al Leviatano di Thomas Hobbes nell’edizione del 1651 aveva un carattere emblematico95. Era opera dell’incisore parigino Abraham Bosse. Se ne è scritto

Id., Die geistesgeschichtliche Lage des heutigen Parlamentarismus, seconda edizione con nuova introduzione, Duncker & Humblot, München-Leipzig 1926, p. 13. 93 J. Taubes, Carl Schmitt. Ein Apokalyptiker der Gegenrevolution, in Id., Apokalypse und Politik, cit., pp. 271-285: 280; tr. it. Id., Carl Schmitt. Un apocalittico della controrivoluzione, in Id., In divergente accordo, cit., p. 33, trad. mod. 94 Id., Die kopernikanische Wende der Theologie, in Id., Apokalypse und Politik, cit., pp. 157-162: 158. 95 Cfr. C. Schmitt, Der Leviathan in der Staatslehre des Thomas Hobbes. Sinn und Fehlschlag eines politischen Symbols, seconda edizione aumentata, a cura di G. Maschke, Hohenheim, Köln-Lövenich 1982, pp. 25-27; tr. it. Id., Il Leviatano nella dottrina dello Stato di Thomas Hobbes, in Sul Leviatano, traduzione e cura di C. Galli, il Mulino, Bologna 2011, pp. 35-128: 48-49. 92

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molto96. Mostra un uomo enorme munito di corona, spada e pastorale, che veglia su un territorio e una città da lui dominati. Egli stesso a sua volta è composto di numerosi piccoli uomini. Ma il senso di questa rappresentazione non è che solo molti insieme costituiscono un potere, ma piuttosto che tutti questi insieme sono sotto la tutela di uno Stato. È questo il senso del Leviatano come simbolo, non la sua rappresentazione nel libro di Giobbe – capitoli 40 e 41 – come l’«animale più forte e indomabile»97. Infatti non è né «drago» né «mostro marino», né «un’altra delle bestie in forma di serpente, di coccodrillo o di balena»98. Si tratta piuttosto di «una mescolanza mitica di dio e animale, di animale e uomo, di uomo e macchina»99. Soprattutto esso esprime la convinzione hobbesiana sulla fonte del potere: «Auctoritas, non Veritas», o – come traduce Schmitt interpretando – «Nulla è qui vero; qui è tutto comando»100. Taubes, da buon ebreo, non nutriva grande considerazione per le immagini. Tuttavia nel suo ultimo decennio di vita aveva cominciato a interessarsi a un artista: il pittore e artista grafco olandese Hieronymus Bosch, attivo centocinquant’anni prima di Hobbes e considerato «faizeur de Dyables»101. A partire dal semestre estivo del 1978 gli aveva dedicato diversi corsi per cinque semestri, sotto il titolo Estetica dell’immaginazione gnostica. Per un’interpretazione gnostica di Hieronymus Bosch102. Come accadeva sovente, Taubes ha lasciato ben pochi appunti al riguardo, soltanto due scritti d’occasione: il commento a un corso alla Freie Universität di Berlino e una replica ai lettori sulla «Frankfurter Allgemeine Zeitung»103. Stando a questi scritti, le fantasmagorie di Hieronymus Bosch gli si rivelarono non solo come espressione delle paure e delle speranze 96 Per un’analisi più dettagliata della questione tanto in Hobbes quanto in Schmitt cfr. H. Bredekamp, Der Leviathan. Das Urbild des modernen Staates und seine Gegenbilder 1651-2001, quarta edizione corretta, Akademie, Berlin 2012. 97 C. Schmitt, Leviathan, cit., p. 10; tr. it. cit., p. 40. 98 Ivi, p. 29; tr. it. cit., p. 52. 99 Ivi, p. 31; tr. it. cit., p. 54. 100 Ivi, p. 82; tr. it. cit., p. 91. 101 N. Büttner, Hieronymus Bosch, Beck, München 2012, p. 8. 102 Annuncio dei corsi della Freie Universität Berlin per il semestre estivo 1978, p. 262. 103 Cfr. J. Taubes, Kommentar zum Oberseminar “Ästhetik gnostischer Imagination, zur gnostischen Interpretation von Hieronymus Bosch”, in Kommentiertes Vorlesungsverzeichnis des Instituts für Philosophie der FU Berlin für das Sommersemester 1978, senza pagina; Id., Hieronymus Bosch, in Id., Apokalypse und Politik, cit., p. 420.

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che egli stesso aveva attraversato e sofferto nel 1975 e nel 1976 durante una psicosi acuta, al termine della quale era stato dimesso, «guarito» dagli elettroshock. Nelle soluzioni iconiche di Bosch si possono riconoscere piuttosto quei simboli della democrazia in actu e rappresentati sulla tela come scena del mondo, di cui hanno parlato le sette radicali sin dall’antichità, passando per il Medioevo fno al presente più prossimo. Sembra documentarlo soprattutto la tavola centrale del trittico che si trova al Prado – il Giardino delle delizie (all’incirca 1500) – a prescindere se lì si tratti di illustrazioni di idee di eretici radicali (così sosteneva Wilhelm Fraenger – che era anche in rapporti con Schmitt)104, di enigmi fgurati per nobili eruditi (come sosteneva Hans Belting) oppure (con lievi variazioni) di commenti di un artista sui timori della propria epoca attraverso immagini fantastiche (l’opinione di Reindert Falkenburg)105. Bosch affascina non solo, ma anche, Jacob Taubes. Quel che si può vedere nei quadri di Bosch quanto alla paura e al piacere dell’annientamento e della punizione, ma anche quanto alla liberazione e alla soddisfazione, rivela la libertà e l’uguaglianza di fratelli e sorelle in maniera fno ad allora inimmaginabile. A ’s-Hertogenbosch (la città in cui era nato e visse per tutta la vita), egli aveva dipinto anche per la Confraternita della nostra diletta Signora, di cui egli stesso era membro. Molto è qui perturbante e sconcertante, tanto da suscitare ancora oggi stupore. Quali sono gli inferni, i paradisi che Bosch ha dipinto? Per Taubes sono espressione di una secolarizzazione radicale, che si compiva al di là di Dio e dello Stato, ma in grado di mescolare i simboli religiosi con quelli della democrazia, qualcosa che lo affascinava come poche altre. Bosch per lui non era tanto un illustratore, quanto un commentatore di ciò che è e che sarà escatologico. (Traduzione dal tedesco di Massimo Palma) 104 Cfr. W. Fraenger, Korrespondenz mit Hans Arp, Carl Schmitt und Franz Roh, «Sinn und Form», 57 (2005), pp. 303-330: 310-329 (otto lettere scambiate tra il 1944 e il 1950); C. Schmitt, Glossarium. Aufzeichnungen aus den Jahren 1947 bis 1958, nuova edizione ampliata e corretta, a cura di G. Giesler e M. Tielke, Duncker & Humblot, Berlin 2015, p. 112 (appunto del 10.5.1948). 105 Cfr. W. Fraenger, Hieronymus Bosch. Das Tausendjährige Reich. Grundzüge einer Auslegung, Winkler, Coburg 1947; H. Belting, Hieronymus Bosch. Garten der Lüste, Prestel, München-Berlin-London-New York 2002; R. Falkenburg, The Land of Unlikeness. Hieronymus Bosch, The Garden of Earthly Delights, WBooks, Zwolle 2011.

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Comunità e apocalisse. Un concetto teologico-politico di Jacob Taubes nel suo contesto Herbert Kopp-Oberstebrink

1. Berlino Ovest, estate 1967: sul maestro e i discepoli Eventi di portata epocale sono spesso contenuti in maniera latente in tendenze che si pongono tra loro in divergente accordo, e che solo nei successivi sviluppi trovano una risoluzione. Quando, nel luglio del 1967, Herbert Marcuse arrivò a Berlino alla Freie Universität per tenere conferenze e partecipare a discussioni, l’aspettativa degli studenti era alta, non solo per la sua fama come guida intellettuale del movimento studentesco, ma anche per l’atmosfera tesa di quei giorni, dovuta alle proteste del movimento contro il gruppo editoriale Springer. Che la frase di Rudi Dutschke – uno dei dirigenti del movimento studentesco – detta alla stampa nel giorno della prima conferenza di Marcuse – «dobbiamo fare qualcosa di più che protestare, dobbiamo passare all’azione diretta» – venisse citata, rappresentava un sintomo e un cattivo presagio al contempo1. L’altra faccia di quella Summer of Love che era stata proclamata nella California in cui si era stabilito Marcuse, era una teoria della violenza. Nel ben noto saggio marcusiano Repressive Toleranz si poteva leggere quanto segue: «credo che ci sia un “diritto naturale” della resistenza per le minoranze oppresse e dominate di usare mezzi extralegali», dal momento che – continua Marcuse – «la legge e l’ordine sono sempre e dovunque la legge e l’ordine che proteggono la gerarchia stabilita. [...] Se [tali minoranze] usano violenza, non danno inizio ad una catena di violenze ma cercano di spezzare 1 “Vogliamo l’esproprio di Axel Springer”. Colloquio dello Spiegel con Rudi Dutschke (SDS), studente alla FU di Berlino, «Der Spiegel» 21 (1967), 10 luglio 1967, pp. 29-33, qui p. 31.

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quella stabilita»2. Simile suonava il tema della seconda conferenza, Il problema della violenza nelle opposizioni, alla quale accorsero più di 3.000 ascoltatori. Nelle discussioni che seguirono, tuttavia, emersero notevoli tensioni tra Marcuse e gli studenti proprio circa la questione della violenza. La stampa diffuse queste divergenze, sostenendo che Marcuse avrebbe dichiarato che sarebbe «irresponsabile [...] cercare o provocare contrapposizioni violente». Le fratture che ebbero luogo tra gli studenti e il loro nume tutelare californiano, però, non furono solo registrate dagli organi di stampa. Quando Marcuse un anno più tardi tornò a Berlino per tenere altre conferenze sempre alla Freie Universität, gli studenti interessati ad “azioni concrete” lo considerarono rappresentante di una “mistica” teoretica. La parola che guidava questi confronti del ’68 era infatti “alienazione”3. Quello che più tardi è stato chiamato «il dubbio sul canone del ’68»4 era in quell’anno ben più che un dubbio, come dimostra il preludio dell’estate del 1967: almeno per una piccola, ma radicale minoranza, il paradigma offerto dalla teoria andava sostituito da quello della prassi. Era stato Jacob Taubes ad invitare Marcuse a Berlino in quella calda estate. La sua conferenza arrivava nel momento di passaggio tra la decisione defnitiva di Taubes di voltare le spalle alla Columbia University e la sua nomina a professore ordinario alla Freie Universität. Fu forse quel suo «senso sismografco per le correnti teologiche sotterranee di un eccitato spirito del tempo» – come un suo allievo ha detto paradigmaticamente – a portarlo a un’esternazione che può essere letta come un commento su eventi futuri?5 In effetti, Taubes disse, alcune settimane prima dell’evento che si sarebbe tenuto alla Freie Universität: «Marcuse non è effcace per un carisma personale, ma esclusivamente in quanto testo – e tuttavia, i suoi testi sono di scottante attualità, infammano la discussione studentesca dandole un’intensità che ricorda la serietà con cui gli studenti del Talmud H. Marcuse, Tolleranza repressiva, in R. P. Wolff - B. Moore jr - H. Marcuse, Critica della tolleranza, Einaudi, Torino 1968, pp. 77-105, qui p. 105. 3 Marcuse. Si percepisce l’alienazione, «Der Spiegel», 22 (1968), 20 maggio 1968, p. 54. 4 Cfr. Ph. Felsch, Der lange Sommer der Theorie. Geschichte einer Revolte 19601990, C. H. Beck, München 2015, p. 13. 5 H. Ritter, Akosmisch. Zum Tod von Jacob Taubes (1987), in H. Blumenberg - J. Taubes: Briefwechsel 1961-1981 und weitere Materialien, a cura di H. Kopp-Oberstebrink - M. Treml, Suhrkamp, Berlin 2013, pp. 288-290: 288. 2

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commentavano la Torah», in cui si poteva rintracciare «l’interpretazione profana di una illuminazione di tipo profetico»6. Queste parole facevano emergere l’elemento latente nel rapporto tra gli studenti e il loro maestro, sottolineando quello che in lui restava nascosto, in termini di divergente accordo. Questa procedura argomentativa, cui è inerente una plurivocità di signifcati, celando assai poco la serietà del suo contenuto, può facilmente sfociare in caricatura: Marcuse come annunciatore di un testo sacro, come fondatore di una religione, perfno come messia – oppure, assunto letteralmente, egli stesso come testo sacro, Libro dei Libri; e gli studenti, di contro, come i suoi allievi e interpreti profanatori. Non si poteva esprimere più chiaramente, già nell’estate del 1967, quella distanza, quella allusione alla separazione tra gli studenti e il loro nume tutelare, che prendeva forma di richiamo alla differenza tra il profetismo illuminato e la sua desacralizzazione, riferendosi all’interpretazione dei “discepoli”. Il commento rinvia così a un sintomo, in cui tuttavia l’ambivalenza espressa rifulge anche sul commentatore stesso, dal momento che nel gesto carico di senso di questa enunciazione si ritrovano sia il riconoscimento che una interiore presa di distanza. Si può però ritrovare in queste frasi taubesiane anche un riferimento ironico alla differenza di livello tra la dimensione della serietà “sacra” – nello sforzo del lavoro teorico – e quella dei suoi miseri risultati. E tuttavia, il cuore della considerazione di Taubes è indubbiamente costituito da due aspetti: il riferimento alla dimensione religiosa e il richiamo a quella comunitaria, alla comunità dei discepoli. Il processo teoretico era per Taubes uno sviluppo, una prassi che intendeva anche sempre il lavoro per il dissotterramento dei contenuti teologici, impossibile da pensare senza una relazione collettiva – o anche contrastiva/confittuale – degli attori coinvolti. 2. Questioni metodologiche Con ciò si apre un capitolo in cui si può osservare uno spostamento d’accento rispetto alla ben nota teologia politica – trattata con una certa predilezione: il capitolo cioè della politica intesa in senso Aiuto da parte dei disoccupati, «Der Spiegel», 25 (1967), 12 giugno 1967, pp. 103-104: 103. 6

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teologico7. Il ruolo di Jacob Taubes come intellettuale e il suo lavoro flosofco sono da determinare in tutta la loro complessità, già solo considerando il fatto che le sue rifessioni puntano sempre alla prassi politica. Il che sta a signifcare tre cose. Primo, la situazione concreta in senso politico reale nella quale egli si trovava in quanto cittadino e intellettuale. Da ricordare in tal senso sarebbero qui, esemplarmente, le proteste studentesche degli anni ’60, la guerra del Vietnam, o il cosiddetto “autunno tedesco” del 1977. In secondo luogo, con “prassi politica” bisogna intendere la politica accademica istituzionale dentro e fuori l’università, che si condensa esemplarmente negli aspri confronti intorno alla Freie Universität circa la vita dei suoi dipartimenti o le chiamate alle cattedre. In terzo luogo, infne, anche la politica delle idee, cioè la questione di come andassero organizzate conferenze, organizzati convegni, pubblicati saggi o recensioni, diffuse conferenze radiofoniche e spedite lettere ai giornali, a favore o contro quali tendenze intellettuali. Un esempio per simili interventi nello spazio discorsivo intorno alla politica tratto dai primi anni della vita accademica di Taubes sono i suoi interventi contro la sempre crescente congiuntura internazionale della flosofa heideggeriana8. All’interno di una prassi politica così concepita Taubes fa dunque il suo ingresso con saggi, conferenze, lettere, manifestazioni e colloqui, nonché provocazioni, praticamente su tutti i media disponibili al tempo. Tali interventi erano sempre volti alla ricerca, nei diversi contesti, di un “resto” teologico, che rendesse valide le «correnti teologiche sotterranee», per lo più trascurate. Lo slittamento semantico dalla teologia politica a una politica interpretata in senso teologico contiene un aspetto positivo e uno negativo. Prima di tutto occorre sottolineare che per la ricerca non può più trattarsi di una semplice ricostruzione sistematica della teo7 Sulla problematica del nesso ampio tra messianismo e “politica”, cfr. E. Stimilli, Il messianesimo come problema politico, in J. Taubes, Il prezzo del messianesimo. Una revisione critica delle tesi di Gershom Scholem, a cura di E. Stimilli, con un’intervista a J. Bollack, Quodlibet, Macerata 2017 (nuova edizione aggiornata e accresciuta), pp. 163-217. [Si è preferito rendere qui il sintagma tedesco “theologische Politik” non in senso letterale, ovvero come “politica teologica”, una defnizione che in questa sede darebbe a luogo a fraintendimenti di ordine storico-ecclesiastico. N.d.T.]. 8 Cfr. la recensione apparsa su «Symposion. Jahrbuch für Philosophie» (1952), ora in J. Taubes, Apokalypse und Politik. Aufsätze, Kritiken und kleinere Schriften, a cura di H. Kopp-Oberstebrink - M. Treml, Fink, Paderborn 2017, pp. 321-330; oppure l’altra in Actas del Primer Congreso Nacional de Filosofa Mendoza, Argentina (1954), ivi, pp. 365-366.

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logia politica taubesiana in collegamento a Paolo9, giacché una tale sistematizzazione signifca di solito partire dalle tarde affermazioni di Taubes su Paolo, codifcate con la pubblicazione del volume La teologia politica di San Paolo10. Problematica a tal proposito appare già la base testuale, non realmente certifcata, dal momento che in questo testo sono state per forza di cose trascritte e redatte – su richiesta dell’autore – le sue lezioni. E non si tratta solo di questo: «era anche necessario farle circolare fra amici e esperti, e poi inserire nel testo valutazioni, aggiunte e correzioni»11. Chi si è confrontato con l’edizione di testi protocollati e tramandati oralmente sa bene quanto sia importante la funzione degli editori; cionondimeno, non ci si può esimere dal confessare come si tratti qui di versioni di un testo pubblicato postumo, rielaborato collettivamente ad un livello molto alto. L’altro problema, decisamente più rilevante, è di natura ermeneutica, dal momento che questa tarda ricostruzione testuale viene considerata come un «lascito intellettuale» del suo autore12. A ciò va collegata anche la questione se dalla prospettiva che diparte da queste sue ultime parole si possano rileggere anche i suoi primi testi dedicati all’apocalisse, alla teologia e alla politica. Le ipotesi di coerenza interna che in tal modo vengono postulate appaiono in realtà altamente problematiche; e proprio per Taubes, il cui pensiero di regola reagisce in misura notevole agli stimoli e alle situazioni del suo tempo, ciò vale in forma particolare. Questa rifessione non è di ostacolo di per sé a una ricostruzione che aspiri a una qualche sistematicità. Le rifessioni che seguono intendono piuttosto sostenere l’indice storico che caratterizzano tali ipotesi ricostruttive. Oggetto di interrogazione è se non sia il caso di considerare ormai pronto l’ingresso in una fase di storicizzazione e ricontestualizzazione delle idee taubesiane, invece di mantenerle sempre distanti da contesti concreti, facendo leva sui testi paolini e 9 Esemplare in questo senso è l’accurato studio di C. Schmidt, Es gibt Vernichtung. Anmerkungen zu Jakob [sic] Taubes’ Die politische Theologie des Paulus, in Id., Die theopolitische Stunde. Zwölf Perspektiven auf das eschatologische Problem der Moderne, Fink, München-Paderborn 2009, pp. 269-302. 10 J. Taubes, La teologia politica di San Paolo. Lezioni tenute dal 23 al 27 febbraio 1987 alla Forschungsstätte della Evangelische Studiengemeinschaft di Heidelberg, a cura di A. e J. Assmann, H. Folkers, W.-D. Hartwich e C. Schulte, Adelphi, Milano 1997. 11 Così la curatrice Aleida Assmann nella Prefazione, ivi, p. 11. 12 Ibid.

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su altre fonti bibliche; e in tal modo rendere queste idee sistematiche e oggetto di una ricostruzione coerente. Tali ricostruzioni si riferiscono inoltre sempre al medesimo gruppo di testi e autori, quali Erik Peterson o Carl Schmitt. Con questo tipo di spiegazione si seguono le tracce lasciate da Taubes, ma solo quelle che lui stesso ha più tardi reso oggetto di analisi. Ciò potrebbe essere perfno auspicabile, trattandosi di un pensatore che intende guidare di persona le direttrici della sua recezione, ma in questo caso appare destinato a incrementare una sorta di controllo postumo sul proprio lascito intellettuale. Comunque, per gli attuali interpreti vale la pena ricordare che a considerazioni biografcamente tarde non si deve accordare uno status superiore e meditato. E con ciò approdiamo all’aspetto positivo di questo slittamento semantico che ci allontana dalla teologia politica: tali considerazioni circa procedimenti e metodologie possono schiudere prospettive più aperte su altri testi, contesti e costellazioni intellettuali. Qui di seguito si prenderanno in esame alcuni fra i primi testi di Taubes, con lo scopo di illuminare una parte della sua formazione teoretica nel corso degli anni ’50. Per l’esposizione di un tale intento dovrebbero risultare utili relazioni teoriche il cui signifcato per Taubes è ancor oggi di diffcile valutazione, soprattutto quella con Eric Voegelin – anche il pensatore viennese, da parte sua, verrà inserito, nei lavori successivi, in una più ampia rete di relazioni intellettuali. Come concetto teologico-politico centrale di quegli anni deve essere richiamato e ricostruito quello di comunità; esso ha la sua rilevanza anche per le fasi successive dell’attività intellettuale taubesiana. In tal modo, il concetto di “comunità” passa in primo piano anche rispetto alle considerazioni che Taubes fa a margine della visita berlinese di Marcuse del 1967: già nel ricordato commento pubblicato sullo «Spiegel» esso gioca un ruolo, giacché questo commento, defnendo gli studenti dei “discepoli” e Marcuse come il loro maestro (Rabbi, Messia o quel che sia), non mette in gioco solo una dimensione religiosa. Questa considerazione gioca anche con la fgura concettuale di una comunità iniziatica raccolta intorno a un centro, una fgura, un testo. Oggetto di rifessione devono essere anche i luoghi che rappresentano un tale lavoro teorico: i testi esaminati qui di seguito sono stati pubblicati negli Stati Uniti (a New York e Harvard), ma puntano chiaramente lo sguardo sulla situazione politica e intellettuale tedesca.

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3. Comunità e apocalisse Nell’intraprendere i suoi primi passi per una carriera accademica negli Stati Uniti, Taubes perseguì il tentativo di farsi un nome nell’ambito della teoria e delle scienze politiche e sociali. Fra i suoi contatti iniziali fguravano Alfred Schütz, che insegnava alla New School for Social Research di New York, e Eric Voegelin, all’epoca professore di Government alla Louisiana State University di Baton Rouge. Per mezzo di quest’ultimo conobbe Carl Joachim Friedrich, che insegnava scienze politiche ad Harvard. Questa rete intellettuale, di cui in seguitò farà parte anche Leo Strauss, rende improvvisamente molto chiaro il fatto che Taubes cercava soprattutto contatti con studiosi provenienti dalla Germania: una cosa che potrebbe apparire ovvia per molte ragioni, se osservata da una prospettiva biografca. Ma se ne potrebbe anche dedurre che Taubes intendesse riprendere le fla, in quegli anni di dopoguerra, di dialoghi e discorsi dell’età weimariana, interrottisi con la guerra. Sono proprio i ftti contatti con Eric Voegelin, cominciati nel 1952 e sviluppatisi in un gran numero di lettere, che permettono di formulare l’ipotesi che questi contatti, per lo più con rappresentanti conservatori della teoria politica, costituissero anche dei tentativi di trovare interlocutori sul tema della teologia politica13. Tali sondaggi apparvero però evidentemente meno promettenti rispetto al confronto diretto con Carl Schmitt, che si svolse dapprima quasi solo per mezzo di intermediari come Armin Mohler, Hans-Joachim Arndt e Roman Schnur. L’ambito carteggio con il giurista tedesco, però, partì solo nel 197714. Nell’attesa, non gli rimaneva che cercarsi altri interlocutori, competenti sul tema, quasi dei vicari di Schmitt (assente e irraggiungibile), a lui vicini. Una tale prospettiva interpretativa rende più complesso, per il caso Taubes, il lavoro di ricostruzione storica in campo teologico-politico. In una pubblicazione del 1959 curata da Carl Joachim Friedrich, Taubes provò a sviluppare il concetto di comunità politica15. 13 Una edizione di questa corrispondenza è in preparazione dall’editore Fink, curata da H. Kopp-Oberstebrink e S. Steiner. 14 Cfr. J. Taubes - C. Schmitt, Briefwechsel mit Materialien, cit.; tr. it. cit. La primissima lettera di Taubes che ci è pervenuta, rimasta senza risposta, risale al 1955; i primi infruttuosi tentativi in questo senso si trovano ivi, pp. 21-33; tr. it. cit., pp. 43-51. 15 J. Taubes, Community – After the Apocalypse, «Community. Nomos 2. Yearbook of the American Society of Political and Legal Philosophy», The Liberal Arts Press, New

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Friedrich non era solo un docente accademico, che oltre ad avere la sua cattedra ad Harvard insegnava dal 1950, all’università di Heidelberg; ma era anche, e soprattutto, il consigliere del capo dell’amministrazione militare americana in Germania, generale Lucius D. Clay. Friedrich considerava il processo di formazione della comunità come elemento costitutivo di stabilizzazione nella creazione di organizzazioni politiche e della democrazia stessa16. Taubes con il suo saggio tentava di andare oltre, con il progetto di inserire il concetto di comunità in una dimensione più profonda rispetto a quella delle organizzazioni politiche: «quando l’apocalittico prevede un regno ultimo, allora presuppone una società che oltrepassa le strutture delle organizzazioni politiche»17. In quanto concetto proveniente dalla sfera del pensiero religioso intorno all’apocalisse, la “comunità” assume la funzione di un agente, di una forza propulsiva interna ai processi storici e sociali. Le comunità di tipo chiliastico, in quanto attori che si trovano all’interno di strutture sociali stabilite, svolgono il ruolo di elementi che fanno saltare tali strutture preesistenti, fungendo in tal modo da fattori destabilizzanti. Taubes sottolinea le «forze dinamiche» (e quindi il momento rivoluzionario) inerenti a questi processi – e ciononostante fnisce per produrre una costruzione di comunità che resta ambivalente: «ammesso che estasi signifchi vivere nel qui e ora assoluto, ciò dipenderà molto dal fatto se l’ispirazione estatica consumi sé stessa o se produca istituzioni sociali; vale a dire, sé essa continui a sussistere nel momento in cui passa a vivere nel quotidiano. L’escatologia dà luogo ai suoi effetti non nel regno della storia, ma producendo nuova storia»18. In tal senso le considerazioni di Taubes si inseriscono in un discorso su distruzione e creazione, ovvero sulla distruzione creativa, che va da Bakunin a Nietzsche. York 1959, pp. 101-113; tr. ted. Gemeinschaft – nach der Apokalypse, in J. Taubes, Apokalypse und Politik, cit., pp. 127-138, da cui si cita. 16 Cfr. C. J. Friedrich, Man and His Government. An Empirical Theory of Politics, MacGraw-Hill, New York 1963. Sul concetto di “comunità” cfr. C. J. Friedrich, The Concept of Community in the History of Political and Legal Philosophy, «Community» cit., pp. 3-24. Cfr. al proposito F. Schale, Carl Joachim Friedrich. Gemeinschaft, Tradition und Verwaltung, in Neubegründung auf alten Werten? Konservative Intellektuelle und Politik in der Bundesrepublik, a cura di S. Liebold - F. Schale, Nomos, Baden-Baden 2017, pp. 129-154. 17 J. Taubes, Gemeinschaft, cit., p. 127. 18 Ivi, p. 130.

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Anche se Taubes sviluppa le sue considerazioni sulla comunità all’interno di alcune posizioni storiche, esse non rappresentano nient’altro che delle esercitazioni accademiche in ambito di storia delle idee, giacché pensa il suo concetto di comunità – costruito sulle «correnti teologiche sotterranee» – nel segno delle catastrof politiche, soprattutto quelle del XX secolo. L’ambivalenza inscritta nel concetto di comunità diventa la cifra della speranza, come anche della disperazione e della delusione: «l’apocalisse della nostra generazione è venuta ed è andata via. Quelli tra noi che speravano che una comunità elettiva si sarebbe generata sulla base dell’accordo spontaneo dei suoi membri con le trasformazioni sociali rivoluzionarie, scoprirono che il chiliasmo dei nostri tempi ci aveva aggiogato ai vincoli mortali di una burocrazia di tipo totalitario. Alla fne del viaggio nel nostro millennio si trova il terrore prodotto da un apparato totalitario; dopo l’apocalisse ci resta una gran quantità di illusioni andate deluse»19. Questa era l’ineliminabile esperienza storica, il segno sotto cui si trovava ogni rifessione post-1945 su comunità e apocalisse, che – le frasi di apertura lo rendono ancora più chiaro – non poteva non sussistere. Sarebbe tuttavia errato vedere dietro il discorso dell’«apocalisse della nostra generazione» esclusivamente l’esperienza storica della Shoah, cioè la distruzione del popolo ebraico. La frase «dall’esperienza della distruzione»20 può anche costituire, in quanto “apriori traumatico”, la premessa all’esegesi paolina – se si parte dal cosiddetto «lascito» del libro su Paolo21. Per un pensatore politico come Taubes una tale prospettiva appare decisamente troppo angusta. Questo restringimento di prospettiva può anche aiutare la rifessione sul tema dello sterminio intrapresa nella terra dei colpevoli – ma questo signifca soltanto che un’interpretazione basata sulla storia delle idee non deve giocarsi nel regno etereo di quelle liberamente trasformabili; piuttosto, deve essere collocata nel contesto politico, e con ciò individuare anche quei luoghi nei quali si produce il lavoro intellettuale. A esaminare le lezioni su Paolo partendo con i primi testi redatti negli USA emerge l’importante questione se una concezione che punti a risalire allo sterminio degli ebrei non risulti troppo Ivi, p. 127. J. Taubes, La teologia politica di San Paolo, cit., p. 68. 21 Così la pensa Schmidt, Es gibt Vernichtung, cit., p. 267. 19 20

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angusta e quindi forzata per il tardo Taubes e per la pubblicazione postuma del 1993. Anche considerando le parole «dall’esperienza della distruzione» e il loro tono prescindendo dal carattere generale, che non intende riferirsi al caso singolo, esse appaiono qui in un contesto assolutamente universale. Anche il testo del 1959 sulla comunità tenta in maniera molto decisa di fornire una base più ampia nell’esperienza storica dello sterminio, determinando apocalisse e sterminio come esperienze della «nostra generazione» e non come “una nostra esperienza”, nel senso del popolo ebraico. Il motivo teoretico per questa congettura di natura universale è dato dal contesto offerto dalle teorie sul totalitarismo. Anche se la concezione taubesiana si poneva in contrasto con l’ipotesi di Friedrich circa la stabilizzazione politica di istituzioni e organizzazioni politiche, risalendo alla formazione della comunità, essa restava pur sempre all’interno della teoria del totalitarismo, per come Friedrich poco prima l’aveva formulata, d’intesa con il suo allievo Brzezinski22. Proprio a questo rinvia il discorso di Taubes circa il giogo rappresentato dai «vincoli mortali di una burocrazia di tipo totalitario», che poteva indicare sia lo stalinismo che il nazionalsocialismo, dal momento che Friedrich e Brzezinski avevano indicato il ruolo cruciale delle formazioni comunitarie nella genesi dei sistemi totalitari, anche se legittimate da un lato dal Führerprinzip e dall’altro dai movimenti di massa23. Taubes aveva nondimeno in testa anche il curatore del volume in cui usciva il suo contributo, quando scriveva: «una tale visione della storia richiama la critica radicale espressa da teorici conservatori della politica»24. 4. Eric Voegelin – vicinanza e distanza Il riferimento a «teorici conservatori della politica» che si sono fatti conoscere con una «critica radicale» delle concezioni politico-escatologiche, riguarda principalmente Eric Voegelin. In tal modo il saggio di Taubes diventa anche un confronto con questo teorico e storico, di cui condivide le concezioni della gnosi e la criCfr. C. J. Friedrich, Z. Brzezinski, Totalitarian Dictatorship and Autocracy, Harvard University Press, Cambridge 1956. 23 Ivi, pp. 7-8 (si cita dalla seconda ed.). 24 J. Taubes, Gemeinschaft, cit., p. 127. 22

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tica alla sua persistenza nel moderno e nella contemporaneità25. Lo spunto teorico per la sua anticritica è da ricercare nella questione del mantenimento dell’ambivalenza nel pensiero apocalittico, che non va ridotto troppo frettolosamente a una concezione per cui in esso sarebbero all’opera esclusivamente potenze distruttive, in base alla quale l’apocalittica sarebbe assimilabile alle catastrof del XX secolo. Occorre considerare la critica taubesiana a Voegelin nella sua raffnata strategia. Il che vuol dire che vi si ritrova una critica esplicita, relativamente innocua, e una implicita, molto più radicale. Voegelin viene considerato esplicitamente «il più acuto tra i critici conservatori del chiliasmo contemporaneo». A fondamento di tale giudizio Taubes ritiene che Voegelin «descriv[a] la logica storica interna che dal liberalismo porta al comunismo»; una frase che il lettore è portato a considerare più una nota descrittiva che un rilievo critico, che tratteggia in maniera apparentemente morbida il punto cruciale circa Voegelin, ovvero che The New Science of Politics pone in parallelo liberalismo, comunismo, e di conseguenza anche il nazionalsocialismo, rendendoli manifestazioni di una fgura concettuale unica, quella dell’autoredenzione: «se per liberalismo si deve intendere la salvezza, sul piano immanentistico, dell’uomo e della società, il comunismo ne è certamente la sua più radicale espressione»26. Nel suo saggio sulla comunità Taubes prende di mira questa tendenza al livellamento e all’omogeneizzazione – ma rinuncia in quel punto a nominare esplicitamente Voegelin, che è indubbiamente colui cui si riferisce con queste parole: «tra i critici dell’epoca del millennio vi è una tendenza a riunire le sue diverse versioni contemporanee considerando comunismo, fascismo e nazionalsocialismo come complessivamente chiliastiche. Questa opinione è fuorviante, perché trascura delle differenze fondamentali nella struttura di comunismo e nazionalsocialismo, privilegiando la somiglianza tra i modelli organizzativi»27. Cfr. per la recezione taubesiana di Voegelin il signifcativo articolo di quest’ultimo Gnostische Politik, «Merkur» 6 (1952), pp. 301-317. 26 Eric Voegelin, La nuova scienza politica, Borla, Torino 1968, p. 256 [tr. it. mod.: la storica edizione del 1968, promossa e curata da Augusto Del Noce – che frma anche una densa introduzione al testo voegeliniano, Eric Voegelin e la critica dell’idea di modernità – reca invece di “liberalismo”, “radicalismo”, con lo scopo evidente, ma scorretto, di ammorbidire la critica implicita di Voegelin al pensiero liberale. N.d.T.]. 27 J. Taubes, Gemeinschaft, cit., p. 130. 25

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Il fatto che Taubes proceda con tanta cautela là dove cita apertis verbis Voegelin e La nuova scienza politica potrebbe anche risiedere nel contesto politico-scientifco cui fa riferimento il saggio, dal momento che Voegelin, al di là di tutte le differenze politiche, agisce per Taubes come una sorta di mentore28. La situazione non era certo cambiata nell’anno di pubblicazione del saggio. Decisivo per la cautela di Taubes deve essere stato però un motivo di ordine teorico-oggettivo: Taubes condivideva la concezione voegeliniana della gnosi e la sua fondazione metafsica, che lui traduceva in termini religiosi. Ciò si mostra anzitutto nella sistematica latenza con cui il pensiero gnostico viene assunto a sottostruttura dell’età moderna. Conseguentemente, Taubes neppure più tardi avrebbe seguito l’interpretazione di Hans Blumenberg, secondo cui l’età moderna costituirebbe «il secondo superamento della gnosi»29; la comprensione taubesiana dei motivi gnostici era fn troppo legata alla costruzione dell’autocomprensione umana in età moderna, della quale essi perciò assurgevano a fondamento. Ciò viene mostrato dai saggi degli anni ’50 come ad esempio The Gnostic Idea of Man30. La strategia interpretativa di Taubes mira a mantenere aperta – occorre ricordare questa ipotesi – l’ambivalenza del pensiero gnostico per poter tener conto di essa. Una tale costruzione fa apparire in primo luogo “età moderna” e “moderno” come delle categorie labili, una costellazione tra progresso e regresso, illuminismo e catastrofe. La sua disponibilità alla crisi è profondamente inscritta nella coscienza moderna e nei suoi dispositivi intellettuali. In secondo luogo, Taubes condivide la comprensione di Voegelin della mediazione storica del pensiero gnostico, con i suoi diversi gradi nell’età moderna. Lo si può dedurre dal passo curioso ma indicativo, in cui Gioacchino da Fiore viene assimilato a una fgura di mediatore. Oppure si dovrebbe ritenere al contrario che sia Voegelin a condiDi ciò offre testimonianza la lettera del 15 maggio 1953; cfr. E. Voegelin, The Collected Works, vol. 30: Selected Correspondence 1950-1984, a cura di T. W. Hollweck, University of Missouri Press, Columbia & London 2007, pp. 161-164. 29 H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, Marietti, Genova 1992, p. 132. La seconda edizione del 1988, rivista e ampliata rispetto alla prima, uscita nel 1966, sottolinea ulteriormente questo superamento, parlando di “primo” e “secondo” superamento. Sul complesso “gnosi” in Blumenberg, cfr. R. Buch, Gnosis, in Id. - D. Weidner (a cura di): Blumenberg lesen. Ein Glossar, Suhrkamp, Berlin 2014, pp. 87-100. 30 Ora in tedesco con il titolo Die gnostische Idee des Menschen, in J. Taubes, Apokalypse und Politik, cit., pp. 109-118 (il testo è originariamente del 1955). 28

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videre con Taubes questa costruzione storica? In ogni caso, il saggio di Voegelin pubblicato nel 1952 rimanda anche alle parti relative dell’Escatologia occidentale, uscito nel 194731. In terzo luogo, Taubes e Voegelin sono entrambi convinti della funzione centrale delle élites nell’affermazione del dispositivo intellettuale apocalittico. Un tale elitismo porta al concetto che è al centro di questa sezione: quello di comunità. Soltanto l’interpretazione di Voegelin della genesi dell’età moderna e contemporanea come una patogenesi svolta nel nome della gnosi era l’aspetto non condiviso da Taubes, mentre, nei termini di ricostruzione intellettuale dei sintomi e di sottolineatura delle emergenze storiche e storico-intellettuali di tali dispositivi e motivi, la vicinanza tra Voegelin e Taubes appare molto evidente. Ma, mentre Voegelin si premura di esibire esclusivamente delle prove in termini patologici, Taubes produce tesi differenziate, interessate a dimostrare il ruolo dei processi distruttivi anche per funzioni che si aprivano al Nuovo. Cosa resta dunque della critica taubesiana a Voegelin? Non molto, si sarebbe tentati di dire, visto che è troppo scarsa la differenza tra le due concezioni. La differenziazione critica si attutisce sino a un distinguo dei caratteri fondativi nella valutazione delle funzioni storiche, politiche e intellettuali all’interno del dispositivo gnostico. Ciò rende più chiare anche le critiche successive – e decisamente più nette – in termini di distanza storica di Taubes. A causa della differenza rispetto a tali caratteri, Taubes non era certo in grado di dimostrare che l’uso dell’attributo “gnostico” da parte di Voegelin fosse di semplice denuncia32. La sua critica appare debole e generica: «L’attacco generale mosso da Eric Voegelin alla legittimità dell’età moderna era stato impostato in maniera alquanto superfciale, la sua formula gnostica trattata in modo troppo generale per poter far presa»33. E. Voegelin, La nuova scienza politica, cit., p. 182. Anche il capitolo dedicato a Gioacchino da Fiore in K. Löwith, Meaning in History. The Theological Implications of the Philosophy of History, del 1949 (cfr. Signifcato e fne della storia. I presupposti teologici della flosofa della storia, il Saggiatore, Milano 1989, pp. 169-183), teneva probabilmente conto del libro di Taubes, di due anni prima. Sia Voegelin che Löwith rinviano anche al lavoro centrale di H. Grundmann, Studi su Gioacchino da Fiore, Marietti, Genova 1989. 32 Cfr. J. Taubes, La gabbia d’acciaio e l’esodo da essa – o uno scontro su Marcione, ieri e oggi, in Id., Messianismo e cultura. Saggi di politica teologia e storia, a cura e con una prefazione di E. Stimilli, Garzanti, Milano 2001, pp. 373-384. Il saggio uscì per la prima volta nel 1984. 33 Ivi, p. 374. 31

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5. Dimensioni e funzioni della comunità Cosa poteva contrapporre Taubes alla «critica radicale espressa da teorici conservatori della politica» del pensiero apocalittico? L’argomentazione di Taubes segue un doppio binario, da un lato ricorrendo a un argomento di teoria temporale, e dall’altro provando a elaborare una teoria della comunità. L’interesse gnoseologico dei critici conservatori viene da lui riassunto con la formula del sociologo e storico Benjamin N. Nelson, che sosteneva che la fne del mondo poteva essere scongiurata se si fosse riusciti a eliminare l’apocalittica futuristica: «If our cosmos is to have a future, it must learn to do without its two most persistent illusions, apocalyptic cosmism and redemptive futurism. [...] There will be a human future only if an end is put to apocalyptic futurism»34. Il pensiero di fondo di questa critica viene da Taubes assunto e rivoltato, quando afferma: «apocalisse e futuro posseggono il medesimo signifcato», il che signifca: «L’uomo che non ha una forza apocalittica di rappresentazione non possiede alcun senso del futuro»35. Per Taubes si tratta di una determinazione della funzione del pensiero apocalittico, non del suo contenuto in dettaglio. E per questo motivo può dare ragione perfno a un critico come Nelson riguardo al fatto che «la mitologia apocalittica reca in sé tracce della nostalgia per ciò che è passato»36. Con la semplice messa a fuoco del contenuto sfugge la funzione del pensiero apocalittico, che consiste nella ripartizione del «trascorrere vuoto e omogeneo del tempo in un passato e futuro divisi storicamente». Con tale costruzione il pensiero dell’apocalisse diventa l’apriori delle tre dimensioni temporali di passato, presente e futuro, esattamente come per il tempo storico. Inoltre vengono postulati “inizio e fne” come condizioni operative di tale ripartizione temporale. Tutte queste confgurazioni temporali costituiscono delle premesse inaggirabili per ulteriori formazioni umane: Taubes si concentra sulla «categoria del Novum»; dalla biografa si può ottenere un’autorelazione di tipo storico, viene creata «una nuova misura B. N. Nelson, The Future of Illusions, in Id., Man in Contemporary Society. A Source Book, Columbia University Press, New York 1956, vol. 2, pp. 958-979: 978. 35 J. Taubes, Gemeinschaft, cit., p. 128. 36 Ivi, pp. 128-129 (su ciò cfr. B. N. Nelson, The Future of Illusions, cit., p. 965). 34

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della comprensione dell’esistenza umana e dei tipi di ordinamento sociale», per cui «la storia dell’impero e delle tribù è divenuta storia del mondo»37. Una tale nascita della concezione lineare del tempo funge da modello precedente e alternativo a quella ciclica. La linearità del tempo, insieme ai fenomeni storici emergenti precedentemente descritti, viene introdotta come conquista storica in termini culturali e religiosi, giacché per Taubes era l’«escatologia profetica» che aveva dissolto il «simbolismo circolare di una natura che continuamente ritorna»38. Queste determinazioni strutturali si possono però realizzare solo alla presenza di attori; i quali a loro volta diventano capaci di storia solo se fanno il loro ingresso come “comunità”. Come si può dunque reintrodurre la categoria della comunità “dopo l’apocalisse”, dopo le catastrof del XX secolo, se anche per i movimenti che hanno condotto a queste catastrof tale categoria rappresenta un principio-guida? Per questo Taubes ricorre alla categoria dell’omogeneizzazione, amata da critici conservatori come Voegelin o Nelson ma anche da sostenitori delle teorie del totalitarismo, che tali movimenti hanno portato avanti; esigendone al contempo una differenziazione già in fase descrittiva, come già ricordato39. Taubes intende raggiungere tale differenziazione distinguendo in senso analitico «i piani per principio differenti nella struttura di una comunità». Ciò signifca che «una comunità si sviluppa fondamentalmente su tre piani: prima su quello del territorio, poi su quello del corpo, in cui la componente temporale risulta predominante; e infne su un piano spirituale, determinato dalla componente ideale»40. Lo schema prescelto da Taubes è vago e poco concreto. La fessibilità che lo contraddistingue appare però come un giudizio all’interno di un tale schema categoriale. In tal modo si possono analizzare i concetti legati allo spazio come Lebensraum o Großraum, termini che hanno avuto successo nel nazionalsocialismo; in tali considerazioni si intravvedono quelle tratte dall’arsenale teorico di Ivi, p. 129 (corsivi miei). Ibid. 39 Ivi, p. 130 [e cfr. nota 27 N.d.T.]. 40 Ibid. 37 38

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Carl Schmitt circa ordine e spazio41. I piani temporale e corporeo sono concepiti in vago collegamento a Essere e tempo di Heidegger, letto da Taubes – contro le intenzioni dello stesso autore – come uno studio di tipo antropologico42. A livello dello spirito viene invece messa in gioco in maniera molto esplicita una istanza che ha lo scopo di trascendere gli altri piani, che rimonta in senso genealogico all’antichità – ma che ha avuto in una prospettiva storico-flosofca un ampio ambito di applicazione fno ad Hegel (uno degli autori di riferimento del giovane Taubes)43. In questa ripartizione resta però non chiaro il rapporto tra i tre piani, dal momento che essi non devono formare paradigmi riconducili all’uno o all’altro; mentre, d’altro canto, essi vengono inseriti in una linea storico-temporale (e dunque genetica), in modo che il piano spaziale risulta più antico, da un punto di vista storico, di quello dello spirito. In altre parole: in questa costruzione si insedia un momento teleologico indirizzato al piano spirituale. Il momento qualitativo di questa teleologia consiste nel fatto che lo sviluppo di essa si trova sottomesso all’esigenza di una genesi rivolta al pensiero universale, sino a culminare in uno spirito pensato in senso “acosmico”44. Solo su questa base risultano pensabili considerazioni circa la ricaduta storica in rapporti comunitari creduti superati come quelli articolati qui da Taubes45, o successivamente con il topos spesso citato della «recidiva gnostica»46. Degno di nota in questo contesto risulta il fatto che l’apparato metaforico desunto dal lessico medico della “recidiva” sembra tratto dall’argomentazione voegeliniana della gnosi in quanto patologia del moderno; e tuttavia appare chiaro il fatto che il rapporto tra i diversi piani è postulato in maniera da formare, per ognuno di essi, un elemento dominante: «vi è una differenza, se la qualità “imperitura” di una 41 Cfr. J. Meierhenrich, Fearing the Disorder of Things. The Development of Carl Schmitt’s Institutional Theory 1919-1942, in The Oxford Handbook of Carl Schmitt, a cura di J. Meierhenrich - O. Simons, Oxford University Press, Oxford 2016, pp. 171216. Cfr. anche gli scritti contenuti in C. Schmitt, Staat, Großraum, Nomos. Arbeiten aus den Jahren 1916-1969, a cura di G. Maschke, Duncker & Humblot, Berlin 1995. 42 L’autore sta preparando una pubblicazione al riguardo. 43 Cfr. esemplarmente J. Taubes, Hegel (1956), in Id., Apokalypse und Politik, cit., pp. 119-126. 44 J. Taubes, Gemeinschaft, cit., p. 135. 45 Ibid. 46 Cfr. J. Taubes, La gabbia d’acciaio e l’esodo da essa, cit., p. 375.

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comunità è edifcata sulla terra o sul sangue, oppure se essa si fonda sullo spirito»47. Altrettanto evidente è che le comunità arcaiche si fondano in maniera più enfatica sul piano spaziale, qui pensato specifcamente come “suolo” e “terra”. Un tale paradigma deve essere sciolto in senso storico da quello dello spirito: «La comunità dello spirito può servire da fondamento di un nuovo tipo di legame tra gli uomini»48. Quest’ultimo non deve venir desunto da nessun altro piano, ma deve costituire una sorta di principio originario, una “nuova fonte primeva”. Nonostante le differenze di questi tre piani in rapporto alle dimensioni, essi trovano un punto di riferimento comune nella concezione dell’“uomo nuovo”: «la fondazione di ogni legame comunitario di tipo escatologico consiste nella fratellanza di uomini trasformati e rinnovati»49; una tale concezione abbraccia un periodo che va dalle prime comunità cristiane sino all’Illuminismo, fase in cui essa trova con Condorcet una radicale riformulazione. Questo paradigma forma però anche «il paradigma occidentale della comunità, nelle sette millenaristiche medievali, tra gli spirituali francescani, gli anabattisti tedeschi e le Chiese puritane dei santi. Nella sua forma secolarizzata tale paradigma continua a vivere come componente impressionante della rivoluzione francese e delle convinzioni democratiche contemporanee, all’est come all’ovest»50. Con tale cifra delle comunità escatologiche, Taubes si collega ancor più strettamente a Voegelin51. In tal modo, tuttavia, viene anche enunciata la crux del pensiero apocalittico, che allo stesso tempo rappresenta un ulteriore problema interno al modello complessivo di Taubes. Egli infatti non può fare a meno di alcune forti premesse di natura antropologica, il che sorprende in un pensatore che considera Arnold Gehlen uno dei suoi nemici principali. Altrettanto problematico appare il fatto che qui si tratta di postulati puri, non ulteriormente sviluppati. La prima di queste premesse consiste nell’esistenza di costanti nella natura dell’uomo: «la concezione apocalittica non si cura del fatto J. Taubes, Gemeinschaft, cit., p. 132. Ivi, p. 134. 49 Ibid. 50 Ibid.; su questa questione cfr. G. Küenzlen, Der Neue Mensch. Eine Untersuchung zur säkularen Religionsgeschichte der Moderne, Fink, München-Paderborn 1994. 51 Cfr. E. Voegelin, La nuova scienza politica, cit., p. 124. 47 48

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che certe qualità fondamentali della natura umana non cambiano nel corso del tempo. Non esiste e non è mai esistita una comunità, neppure una comunità di santi, in cui le intenzioni e gli interessi degli uomini formino un tutto senza confitti»52. Questa formula può valere come aspra condanna di ipotesi antropologiche, religiose e politiche; con essa Taubes si trova nella sfera del “politico” in quanto ambito di vigenza di interessi. Le sue considerazioni sfociano dunque nei confitti e nelle loro risoluzioni – o meglio, derivano da questo ambito del “politico”. La seconda premessa forte consiste nel «principio fondamentale dell’esistenza umana, per cui vi è un tempo del divenire e uno del trapassare»53. Entrambi questi assiomi costituiscono le istanze per la critica di Taubes a qualsiasi forma di pensiero chiliastico-apocalittico. La crux di un tale pensiero consiste però nel fatto che esso deve agire proprio contro tali premesse. Appare dunque problematica la questione se con tale costruzione si possa mantenere la distinzione tra nazionalsocialismo e movimenti comunisti rispetto al paradigma comunitario; in tal modo emergono anche le inconsistenze inerenti al progetto taubesiano. Scopo di queste considerazioni, in ogni modo, era soltanto quello di comprendere la sua prima concezione teologico-politica partendo dalle costellazioni teoriche e dal contesto politico ad essa sottesi. 6. Tornando a Berlino Ovest 1967 – un’antropologia chiliastica E con ciò torniamo al punto di partenza, ovvero al 1967. All’interno della comunità accademica berlinese Taubes veniva considerato un alleato del movimento studentesco di sinistra. Una imponente documentazione testimonia del suo impegno per avere Herbert Marcuse alla Freie Universität, come anche della stima intellettuale che nutriva per colui che aveva anticipato a livello teorico la sinistra studentesca tedesca; tuttavia, da parte di Taubes si notano chiaramente forti riserve contro la protesta degli studenti, come anche contro il loro mentore intellettuale. Sul terreno della ricostruzione di cosa intendeva Taubes per comunità a livello teologico-politico 52 53

J. Taubes, Gemeinschaft, cit., p. 127. Ibid.

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risulta evidente come la sua defnizione degli studenti quali “allievi talmudici” fosse ben più che una battuta. Anche gli studenti di sinistra, cioè, seguivano il modello delle comunità elitarie caratterizzate in senso chiliastico, analizzate da Taubes nelle loro funzioni e nei loro confni già nel 1959. Questa distanza intellettuale riguardava anche Marcuse, altrimenti oggetto di stima. Accanto alle due grandi conferenze universitarie, caratterizzate da una grande partecipazione, Taubes aveva pensato anche a una serie di colloqui con Marcuse, riservati a un pubblico più selezionato. Anche questo – sia detto en passant – va considerato sotto la rubrica della formazione di élites e della comunità che interessava direttamente Taubes. La tavola rotonda intitolata Morale e politica nella società opulenta venne introdotta da Taubes, che provò a delineare la situazione del 1967: «la società ha ormai la possibilità (la possibilità tecnologica) di emancipare in senso umano la vita degli uomini. Oggi è possibile l’eliminazione della miseria e della povertà, è possibile l’eliminazione della repressione superfua»54. E, dopo una breve introduzione alla posizione di Marcuse – che il flosofo avrebbe poi sviluppato nella conferenza La fne dell’utopia55 –, Taubes giunge al punto decisivo, quello riguardante un’antropologia concepita in senso chiliastico: «perché le nuove possibilità implicite nella moderna tecnologia non tornino a diventare potenzialità repressive [...], esse devono essere attualizzate – così Marcuse – dalla liberazione dei nuovi bisogni, devono essere portate da un homo novus». In tal modo Taubes rinvia alle considerazioni marcusiane sull’uomo nuovo, necessario tanto quanto risulta necessaria una “nuova antropologia”: «ciò che conta è l’idea di una nuova antropologia concepita non solo come teoria ma anche come modo di vita»56. Per rintracciare la distanza da Marcuse implicita in queste parole si dovrebbe rivolgere a Marcuse la questione che Taubes aveva rivolto contro Marx: «Marx era consapevole del fatto che la concezione di una nuova forma sociale di produzione volta al raggiunMorale e politica nella società opulenta. Dibattito, in H. Marcuse, La fne dell’utopia, Laterza, Bari 1968, pp. 99-141: 101-102. La pubblicazione di queste conferenze di Marcuse avvenne senza il suo permesso, come anche il resoconto dei dibattiti da magnetofono. 55 Cfr. H. Marcuse, La fne dell’utopia, ivi, pp. 9-19. 56 Ivi, p. 13. 54

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gimento di una vita buona “abbisogni solo di un uomo nuovo”?»57 Retrospettivamente, cioè nel necrologio di Marcuse redatto da Taubes nel 1979, si potrebbe trovare la risposta: «i marxisti ortodossi riconobbero [...] che la sua visione non era risolvibile in termini “di fne dei tempi”, ossia in senso storico»58. (Traduzione dal tedesco di Gabriele Guerra)

J. Taubes, Gemeinschaft, cit., p. 135. J. Taubes, Revolution und Transzendenz. Zum Tode des Philosophen Herbert Marcuse, in Id., Apokalypse und Politik, cit., pp. 417-419: 419. 57 58

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Per una critica della teologia politica

La teocrazia anarchica di Israele Donatella Di Cesare

1. Se si chiede quale sia la forma politica dell’Israele antico, la risposta non può che essere: la teocrazia. Questa parola, però, è circondata da pregiudizi e accompagnata da una cattiva fama. Al punto da essere assurta a negazione della politica. La teocrazia rappresenterebbe quel momento di sutura tra teologia e politica da cui la modernità si sarebbe emancipata. La separazione tra teologia e politica viene vista come un valore liberale, l’esito sempre precario e instabile di un processo non ancora compiuto. Il rischio sarebbe quello di ricadere in una politica infciata e compromessa da nascosti e impliciti temi teologici. Rispetto a questo ideale moderno di politica, incentrato su uno Stato sovrano e secolare, Israele costituisce sotto molti aspetti il polo opposto. Basti, d’altronde, pensare alla Torà, dove motivi politici e motivi teologici sono indissolubilmente intrecciati. Ecco perché il testo biblico, considerato espressione di un violento monoteismo teocratico, è divenuto bersaglio di nuovi attacchi. Si istituisce così un’antitesi fra teocrazia e democrazia che, letta sullo sfondo di una genealogia, spinge a credere che il governo democratico sia il risultato dell’affrancamento dallo stadio oscuro e dispotico della teocrazia. A questa visione molto discutibile ha contribuito paradossalmente il pensiero della Haskalà, che nei secoli dell’Illuminismo ha fnito per depoliticizzare l’ebraismo nell’intento di ridurlo a una confessione, come il cristianesimo, o di piegarlo a una metafsica confacente ai crismi dell’emancipazione. Contro tale tendenza, che ha dominato per secoli, non senza eccezioni, è stata inaugurata da alcuni decenni una nuova corrente di studi che, tra fussi e rivoli diversi, mira a riscoprire la «tradizione politica ebraica». Si tratta di risalire proprio alla Torà per portarne alla luce l’insegnamento politico, che non è certamente una dottrina 257

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coerente, ma offre nondimeno una raccolta di idee, motivi, suggestioni, che articolano nella narrazione del popolo ebraico, da Bereshit all’esodo, ai libri profetici e oltre. In breve: la Torà è a tutti gli effetti un testo politico e questa nuova corrente di studi lo rivendica. Aspira anzi a far emergere la politica della Torà. Il che non è semplice a causa delle molteplici barriere secolari. Tanto più che la lettura cristiana ha spiritualizzato e depoliticizzato il testo in modo quasi irreversibile. Tutta la teologia della sostituzione, l’elezione di un «nuovo Israele», al posto dell’antico, si regge sulla rinuncia alla dimensione politica, per cui i cristiani non sono un popolo e non sono protagonisti della politica nella città. Il regno a cui guardano sarà solo celeste. Di qui l’interpretazione riduttiva e spesso fuorviante di alcune parole svuotate del loro contenuto politico e giuridico. Per contro, indissolubile è il nesso fra teologia e politica nell’ebraismo, un nesso consolidato e rafforzato dal fatto che Israele è un popolo e come tale si riconosce. E un popolo – inutile dirlo – non è una congelazione religiosa. A differenza del cristianesimo e dell’islam, dove la rivelazione investe il singolo che poi si unisce alla comunità di discepoli, nell’ebraismo la rivelazione è indirizzata a un intero popolo, in cui sono compresi gli stranieri. È l’espressione erev rav, la moltitudine, che accompagna Israele già nell’esodo. Non si può dunque negare la dimensione politica dell’ebraismo, che va, anzi, riscoperta. Fondata sull’eteronomia della legge, è una politica nella cui immanenza è inscritta la trascendenza della sua ispirazione teologica. In tal senso è una politica affrancata sin da principio dallo Stato, impossibile da ricondurre a confni statuali, e per defnizione priva di sovranità. Tutta la storia del popolo ebraico è scandita dall’equilibrio tra questi due poli, un equilibrio instabile per cui alla tentazione mondana di essere «come gli altri popoli» fa da pendant il ritiro assoluto dalla storia1. 2. Ma che cosa vuol dire «teocrazia»? E in che senso si può parlare di teocrazia per Israele? A ben guardare si tratta di una tautologia. Nella Torà i nomi propri hanno una trasparenza semantica se letti e interpretati alla luce della lingua ebraica. Israel è il Si pensi, ad esempio, alla comunità di Qumran, ma anche alle vicende di molti gruppi ultraortodossi. 1

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nome che Dio impone al terzo patriarca (Gn 35, 10). Dapprima si chiamava Jakov, perché aveva tenuto «con la mano il calcagno [akev] di Esaù», il suo fratello gemello (Gn 25, 26). E in seguito con «perfdia», akva, gli aveva sottratto la primogenitura. Ma poi giunse il momento in cui l’astuto Jakov, passato per vie traverse e raggiri (akov), fu a sua volta battuto. Avvenne quando, alla riva del fume Jabbok – già il riferimento anagrammatico dei nomi mostra che questo fume era per così dire il Rubicone dei patriarchi – un Anonimo lo assalì mentre era sprofondato nel sonno. Dopo un’estenuante lotta Jakov ebbe la meglio e ricevette allora un nome più consono: «“Come ti chiami?”. Rispose: “Giacobbe”. “Non Jakov sarai chiamato, ma Israel, poiché hai lottato [sarità, lissrot] con un essere divino [Elohìm] e con uomini, e hai vinto”» (Gn 32, 29). In questo episodio decisivo della Torà il baro, che ricorreva a trucchi, viene preso di mira e consegnato ad essere colui che lotta con Dio (Gn 32, 26). Il profeta Osea ne offre una descrizione che ha echi onomatopeici: «Nel seno materno prese il fratello per il calcagno e, nel suo vigore, lottò con Elohim [akav et-achiv, sarà Et-Elohim]» (Os 12,4). Se ne deduce che colui che lotta con Dio è il soggetto dell’azione2. Il che è in effetti un’eccezione. Perché El, che compare sempre nei nomi biblici di Dio, è di solito soggetto e non oggetto. Il nuovo nome di Jakov, che diventa Israel, rinvia al militante e trionfante popolo di Dio. L’ambiguità onomastica, rispondente alla doppia natura del patriarca Jakov/Israel, darà adito a speculazioni sul carattere astuto e combattivo, ostinato e obbediente dei suoi discendenti. Più segreta, e tuttavia più accertata, è un’altra etimologia che fa risalire il composto unicamente a Dio. Israel deve essere derivato dal verbo dominare, regnare (sarar, lissror) e vuol dire allora «Dio regna» o anche «Dio regnerà», «possa Dio regnare». Israele è il Regno di Dio. Non c’è nome più giusto e adeguato per il popolo di Do. In questo nome è inscritto il suo compito nella storia, in quella temporale e in quella eterna. Non stupisce che, per via della sua trasparenza semantica, il nome Israel, secondo questa etimologia più recondita, abbia potuto essere tradotto in greco. L’esito fu theocratía che restituisce il composto ebraico da theós, Dio e kratéo, avere il dominio, regnare. Si può dire, dunque che teocrazia sia la traduzione greca, e occiden2

Cfr. anche Gdc 6, 32.

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tale, di Israele. Il neologismo è rimasto a indicare nella tradizione ebraica, dall’antichità ad oggi, la forma politica di Israele. 3. Sin dall’inizio flosof e apologeti del mondo ebraico hanno scorto nella costituzione di Israele una teocrazia, ben separata da ogni altra forma politica. A coniare per la prima volta il neologismo greco, che ricalca il composto ebraico, è stato Giuseppe Flavio nella sua opera Contra Apionem. Non si tratta solo di rivendicare la priorità cronologica di Mosè rispetto a Licurgo, Solone, Zaleuco di Locri, né solo di cogliere il pregio di una legge che, includendo tutti, organizza e articola la vita del popolo. Il tratto peculiare che distingue la costituzione di Israele dalla monarchia, dall’aristocrazia e dalla democrazia, intese secondo i criteri greci, va ricercato altrove: nel rapporto con il potere. Nessun essere umano può comandare e la sovranità spetta solo a Dio. Dove qualcuno si impadronisse del potere, si cadrebbe nella piena illegalità. Così scrive Giuseppe Flavio in un passo che ha avuto una lunga storia degli effetti: Infnite sono le distinzioni nei particolari tra i costumi e le leggi di tutti gli uomini. Si potrebbero così riassumere: alcuni hanno affdato l’autorità di governo a monarchie, altri a oligarchie, altri, ancora, alle masse. Il nostro legislatore, invece non si soffermò su nessuna di tali forme, ma determinò un governo che – forzando la lingua – si potrebbe chiamare teocrazia, riponendo in dio il potere e la forza [theôi tèn archèn kaì tò krátos anatheís]3.

Ecco, dunque, il passaggio decisivo: ‫ = ישראל‬Israel diventa in greco θεοκρατία. Il Regno di Dio – «Dio regna», «che Dio regni!» – è unico, esclusivo, assoluto, incomparabile. Esige, come condizione, che non vi sia dominio dell’uomo sull’uomo. Nessuno, all’infuori di Dio, può governare. Questo è Israele. Sennonché non sarà facile, nel corso della storia, tenere fede, anche sotto un proflo teorico, a questa forma teologico-politica. Lo stesso Giuseppe Flavio, subito dopo aver introdotto il neologismo, ne offre un’interpretazione fuorviante che fnirà per incidere profondamente sul signifcato di teocrazia. Giuseppe Flavio, Contro Apione, testo greco a fronte, a cura di F. Calabi, Marietti, Genova-Milano 2007, II, 16, pp. 207-208. 3

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Può esservi un principio più santo di questo? Quale onore più opportuno si può attribuire a Dio, dal momento che tutto il popolo viene educato alla devozione, ai sacerdoti [hieréon] viene affdata una funzione straordinaria e tutta l’organizzazione dello stato è regolata come una cerimonia religiosa? Pratiche che chiamano misteri e riti di iniziazione, gli altri popoli non le sanno osservare neppure per pochi giorni, noi invece le manteniamo per sempre con piacere e determinazione immutabile. Quali sono allora i precetti e i divieti? Sono semplici e noti. Il primo è quello che parla di Dio e dice che Dio governa l’universo4. Vi è un unico Tempio per il Dio unico, il simile ama infatti sempre il simile, comune a tutti come comune a tutti è Dio. I sacerdoti [hiereîs] lo serviranno tutto il tempo e sarà sempre il primo per nascita a guidarli. Con gli altri sacerdoti farà sacrifci a Dio5.

Per capire il signifcato di queste frasi, scritte quasi alla fne della sua vita, intorno alla metà degli anni Novanta, quelli del buio dominio di Domiziano, occorre ricordare la particolare condizione di Giuseppe Flavio, nato nel 37-38 a Gerusalemme e discendente dalla dinastia sacerdotale degli Asmonei. Dopo aver preso parte al bellum iudaicum contro l’Impero romano, per difendere la Galilea, una volta preso prigioniero, si legò al ramo gentilizio dei Flavi e si trasferì a Roma acquistandone la cittadinanza. Grande narratore, primo storico dell’ebraismo, già nelle Antichità giudaiche Giuseppe Flavio aveva descritto il disorientamento del popolo ebraico, chiamato a comparire dinanzi a Pompeo. In quel contesto aveva messo l’accento sul tratto antimonarchico e antimperialista di Israele. Qui ascoltò la questione degli ebrei e dei loro capi, Ircano e Aristobulo che litigavano tra loro; la nazione era scontenta di tutti e due, e non voleva sottomettersi a un re, asserendo che era usanza del paese obbedire ai sacerdoti del Dio da loro venerato, e questi due, pur discendendo da sacerdoti, stavano cercando di cambiare la loro forma di governo per farne una nazione di schiavi6.

A quell’epoca il Tempio era un cumulo di rovine e l’imperatore Domiziano si faceva chiamare «dominus et deus»7. I Romani, tuttavia, come già prima i Persiani, non avevano nulla contro comunità di Ivi, II, 22, pp. 215-217. Ivi, II, 23, pp. 217. 6 Id., Antichità giudaiche, a cura di L. Moraldi, 2 voll., Utet, Torino 2006, vol. II, XIV, 3, 2, p. 843. 7 Cfr. Svetonio, Domiziano, 13, 2. 4 5

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culto, peraltro lontane, nella provincia, che non avanzavano pretese politiche. Era il caso del Regno di Giudea che, dopo aver perso l’indipendenza politica, aveva fnito per essere amministrato interamente dalla stirpe sacerdotale. Fu questo il modello di teocrazia descritto da Giuseppe Flavio. A ben guardare era più una proiezione di quel che aveva lui stesso esperito che l’immagine fedele della costituzione mosaica. Un Dio, un Tempio, una gerarchia era il modello che rispondeva all’epoca nella quale i sacerdoti avevano assunto ruoli governativi. Giuseppe Flavio difese dunque una forma di teocrazia che, sebbene mantenesse il tratto antimonarchico, andava declinando in una ierocrazia. Il governo di Dio era già divenuto dominio della casta sacerdotale. Il che restituiva alla teocrazia una continuità con le altre forme di costituzione, dato che a governare erano alla fne pochi uomini, per quanto sacerdoti di Dio. Questa concezione ierocratica della teocrazia, che non rendeva in nessun modo giustizia alla costituzione mosaica, pur avendo effetti duraturi ed esiziali al di fuori, non ne pregiudicò tuttavia la ripresa e gli sviluppi all’interno della tradizione ebraica8. 4. Opposta a quella di Giuseppe Flavio è la concezione della teocrazia che Spinoza delinea nel capitolo XVII del Trattato teologico-politico. Il termine latino theocratia, che riprende il neologismo greco, rappresenta un hapax nel Trattato9. Ma il signifcato decisivo di quell’unica ricorrenza è confermato dall’aggettivo theocraticus che compare due volte: quando Spinoza dice che Mosè, prima di morire, lasciò un imperium che non si poteva chiamare «né popolare, né aristocratico, né monarchico, bensì teocratico» (TTP XII, 10); quando ribadisce che, dalla morte di Mosè, l’imperium, che non era amministrato né «da un solo uomo, né da un solo concilio, né dal popolo» non fu «né monarchico, né aristocratico, né popolare, ma […] teocratico» (TTP XII, 10). Per Spinoza furono i sacerdoti che, calpestando il bene comune e mirando ai propri privilegi di casta, provocarono il tramonto della sovranità teocratica. Se dunque per Giuseppe Flavio la ierocrazia Fortemente infuenzato dalla visione di Giuseppe Flavio è ad esempio G. Weiler, La tentation théocratique. Israel, la Loi et le politique, Calman-Lévy, Paris 1991. 9 B. Spinoza, Trattato teologico-politico, a cura di P. Totaro, Bibliopolis, Napoli 2007, XVII, 8, p. 409. 8

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era l’unica forma, autentica e attendibile, della teocrazia, per Spinoza la ierocrazia, sciagura della teocrazia, è un rischio che, lungi dall’essere confnato al passato, resta incombente. Così l’«eretico» Spinoza prospetta un’immagine della costituzione mosaica molto più rispondente di quella che il sacerdote Giuseppe ricordava nostalgicamente dal cuore dell’Impero romano. È una nostalgia diversa quella che pervade le parole del flosofo che scrive il Trattato teologico-politico nella solitudine di Voorburg, lontano da Amsterdam e dalla comunità. Malgrado il ritorno degli ebrei alla vita ebraica, dopo gli anni della persecuzione, il tempo verbale usato da Spinoza è il passato. Come se la teocrazia dell’antico Israele non fosse più recuperabile. Nessun confronto con altre forme politiche è adombrato per quella costituzione in cui nessuno era «asservito a un suo uguale, ma solo a Dio» (TTP XVII, 25). Nessun compromesso sembra accettato in una visione radicale della «repubblica degli ebrei», ovvero del «Regno di Dio», che non ha avuto pari nella storia del mondo, perché non c’era legge che non fosse comandamento di Dio (TTP XVII, 8). Così la pietà era giustizia e l’empietà crimine, i martiri erano patrioti e gli eretici nemici. Diritto civile e religione erano tutt’uno. Il rispetto delle leggi non era che l’obbedienza verso Dio (cfr. ibid.). Spinoza che, accusato di «orrende eresie», avrebbe potuto auspicare una separazione dell’ambito teologico da quello politico, e indulgere a un paragone con altre religioni, come quello proposto Giuseppe Flavio, non esita invece a sottolineare il signifcato politico dei comandamenti divini, a partire dal Sabato, dall’anno sabatico e dal «giubileo», lo Yovèl (TTP XVII, 25). Critico severo dell’ebraismo, Spinoza non trattiene i toni ammirati per la liberà trovata nell’obbedienza, per la gioia comandata, per l’interruzione del riposo, per il ritmo politico scandito da Dio: Tutta la loro vita era un ininterrotto esercizio di obbedienza. Poiché erano assuefatti all’obbedienza, questa dovette sembrar loro non più schiavitù, ma libertà, per cui nessuno dovette desiderare ciò che era vietato, ma solo ciò che era comandato, alla qual cosa sembra aver non poco contribuito anche il fatto che, in determinati periodi dell’anno, erano tenuti a darsi all’ozio e alla gioia, non per obbedire al proprio cuore, ma per obbedire di tutto cuore a Dio. Tre volte l’anno erano convitati di Dio (cfr. Deut. 16), il settimo giorno della settimana dovevano astenersi da ogni attività e darsi al riposo, e oltre a queste erano fssate altre ricorrenze nelle quali oneste manifestazioni di gioia e banchetti erano non solo consentiti, ma comandati. Non credo si possa immaginare qualcosa 263

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che riesca a piegare di più gli animi umani. Nulla può infatti prenderli più della gioia che nasce dalla devozione, cioè insieme dall’amore e dall’ammirazione. Né poteva accadere facilmente che fossero colti dal fastidio dell’abitudine, perché il culto destinato ai giorni festivi era eccezionale e vario (TTP XVII, 25).

La teocrazia di Israele ha per Spinoza un signifcato politico, al punto che dopo la distruzione della res publica Hebræorum ha perduto ogni forza di legge. Nell’istante in cui gli ebrei riconobbero un altro re, a cominciare dal re babilonese, «fu cancellato il patto in base al quale avevano promesso di obbedire a tutto quello che Dio avesse detto e fu annullato ciò che era stato il fondamento del Regno di Dio» (TTP XIX, 6). In questa visione della teocrazia, forse la più radicale nella rifessione politica dell’ebraismo, il dominio di Dio è esclusivo. Così l’ebreo divenuto cittadino della Repubblica d’Olanda non è tenuto a osservare il Sabato – per richiamare l’esempio di Spinoza – dato che quell’istituzione non ha più «forza di mandato» (TTP XIX, 6). Né è pensabile la sola osservanza religiosa nella sfera privata. 5. L’intento di Spinoza è riabilitare il concetto di «teocrazia» eliminandone ogni accezione ierocratica. In tal senso percorre a ritroso il corso della storia per giungere a quella scena che dischiude la teologia politica di Israele: la narrazione dell’Esodo in cui gli ebrei, liberati dalla «intollerabile oppressione degli egiziani», non erano più né legati al diritto di un’altra nazione né sottomessi a nessun essere umano. In breve, riconquistarono il loro «diritto naturale». Avrebbero potuto scegliere di conservarlo per sé o trasferirlo ad altri. Presero invece una decisione per nulla ovvia, che li distinse dagli altri popoli. Con le parole di Spinoza: su consiglio di Mosè […] decisero di non trasferire il proprio diritto a nessun mortale, ma soltanto a Dio e, senza esitare, tutti egualmente promisero, a una voce [uno clamore], di obbedire assolutamente a ogni comandamento di Dio e di non riconoscere altro diritto all’infuori di quello che Egli stesso, mediante rivelazione profetica, stabilisse come tale (TTP XVII, 7).

Gli ebrei rinunciarono così al proprio diritto naturale giurando con un «patto» e lo trasferirono a Dio «liberamente, non costretti con la forza» e «neppure atterriti da minacce». Dal canto Suo, Dio, affnché il patto fosse «valido, stabile e senza sospetto di frode», non stipulò 264

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nulla se non dopo che ebbero sperimentato «la Sua prodigiosa potenza» (ibid.). A stringere il berit, il patto, fu il Dio sovversivo dell’esodo che fece uscire il popolo con braccio teso: «io vi portai come su ali d’aquila e vi feci giungere presso di Me» (Es 19, 4). Fu perché credettero di potersi salvare anche in futuro che gli ebrei affdarono a Dio omne suum jus, «tutto il proprio diritto». Ne scaturì una teocrazia, un governo esclusivo di Dio, dove «i cittadini non erano vincolati a nessuna legge che non fosse rivelata da Dio» (TTP XVII, 8). Spinoza parla di cives, cittadini, e non di sudditi. Il che rinvia non solo alla differenza rispetto ad esempio alla monarchia, ma indica anche la libertà che caratterizza il legame. Perché il popolo, che in quel patto teologico-politico si costituì come tale, liberamente si piegò alla sovranità di Dio, che aveva spezzato il giogo della sua schiavitù, accettando un legame estremo di dipendenza in cui trovò una nuova libertà. Che ruolo attribuisce Spinoza alla teocrazia rispetto alla gerarchia aristotelica delle tre forme di governo, cioè la monarchia, l’aristocrazia e la democrazia? Giuseppe Flavio aveva mantenuto una continuità, perché aveva letto la teocrazia come dominio di una casta sacerdotale, avvicinandola dunque all’aristocrazia, a un dominio di pochi e dei migliori. Nelle pagine di Spinoza emerge invece uno iato che separa la teocrazia dalle altre forme di governo. Anzitutto perché si tratta dell’unica costituzione teologico-politica – mentre le altre sono solo politiche. Oltre a richiedere un dominio esclusivo di Dio, la teocrazia impedisce di trasferire il diritto a un mortale, vieta il dominio dell’uomo sull’uomo. Lo scarto non potrebbe essere più netto. Fra loro, invece, le tre costituzioni si distinguono nel numero dei mortali destinati a governare. Spinoza non si limita, dunque, a introdurre la teocrazia accanto alle altre forme di governo. Scompagina il lógos tripolitikós. Non cerca una mediazione tra costituzioni diverse. Piuttosto solleva la democrazia dal posto a cui è relegata nella gerarchia classica, la affanca alla teocrazia e, anzi, la rivendica nella tradizione politica ebraica, interpretandola in modo nuovo e diverso da quello greco e occidentale. Sta qui la novità del Trattato teologico-politico. Il nesso fra teocrazia e democrazia emerge con chiarezza già dove Spinoza parla dell’istante in cui gli ebrei stipularono il patto con Dio e tutti «in virtù di questo patto» rimasero «uguali» (TTP XVII, 9). Tutti avevano infatti il diritto di interpellare Dio, di ricevere e inter-

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pretare le leggi, di svolgere ogni funzione amministrativa aeque – un avverbio che ritorna continuamente. La uguaglianza di tutti davanti a Dio, che per defnizione la teocrazia sancisce, è paragonata a quella che sorge con la democrazia (cfr. TTP XVII, 7, 9; XIX, 6). Si intende che qui la democrazia non nasconde ai suoi margini la schiavitù, come se questa forma politica potesse convivere con qualche tipo di dominio del padrone sullo schiavo, giustifcato per natura, come vuole Aristotele10. La democrazia richiede l’uguaglianza perché nasce dalla rinuncia di tutti al proprio diritto. Scaturisce da quel communis consensus (XIX, 6) proclamato uno ore (TTP XVII, 9), in un accordo che Spinoza dice anche in unum conspirare (TTP, XVI, 5), che dà luogo alla comunità degli individui, cioè alla società democratica che si estende all’assemblea universale degli uomini (cfr. TTP XVI, 8). Se nella teocrazia il diritto è trasferito a Dio, nella democrazia è trasferito alla ragione (cfr. TTP XVI, 6). Di qui la continuità fra teocrazia e democrazia, tale per cui, nella sua ricostruzione storica, la seconda deriva dalla prima. È dall’impossibilità di realizzare la teocrazia ebraica nei suoi termini rigorosi che, grazie allo stesso modello e attraverso la testimonianza dell’esodo, cioè l’esperienza della liberazione dalla schiavitù, sorge la democrazia. Quest’ultima non è allora la mera estensione quantitativa della monarchia e dell’aristocrazia. Se così fosse, si tratterebbe di una forma ibrida di potere che ammetterebbe il dominio dell’uomo sull’uomo e non risponderebbe al requisito dell’uguaglianza. Sconosciuta al mondo antico, questa forma di democrazia è allora introdotta per la prima volta attraverso il patto teologico-politico che il popolo ebraico ha stretto dopo l’esodo. 6. Ma per Spinoza di teocrazia si può parlare a rigore solo per un istante: quello in cui gli ebrei uno clamore promisero di obbedire ai comandi di Dio. È il famoso naassé: «lo faremo»11. La teocrazia pura durò solo il tempo di pronunciare quella promessa. Subito dopo, quando si avvicinarono per ascoltare gli ordini, restarono talmente attoniti dalla voce di Dio, che chiesero a Mosè di mediare: «avvicinati tu e ascolta ciò che dirà il Signore nostro Dio e tu ci riferirai quello che avrà detto a te il Signore nostro Dio e noi lo 10 11

Aristotele, Politica, I, 3, 1253b-7, 1255b. Es 19, 8; 24, 7.

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ascolteremo e lo attueremo»12. La mediazione di Mosè mise fne al governo immediato e diretto di Dio. La teocrazia pura dileguò nel clamore di quella promessa. Il primo patto fu così abrogato e subentrò allora una nuova costituzione in cui Mosè era il solo a interpretare i responsi divini e a farli eseguire. Si trattò quasi di un interregno. E in effetti Mosè fu «il solo vicario di Dio fra gli ebrei» (TTP XVII, 9). Sarebbe tuttavia un errore prendere quel governo per una monarchia. Il crinale era sottile. Ma fedele all’ideale della teocrazia, che aveva atterrito il popolo ebraico, Mosè non scelse un successore, sebbene avesse potuto, e lasciò da amministrare un governo che «non si poteva chiamare né popolare, né aristocratico, né monarchico, bensì teocratico» (TTP XVII, 10). A tal fne divise i poteri: quello legislativo e quello esecutivo. E un sistema oculato di equilibri politici e controlli sociali impedì che un mortale usurpasse il governo e che Dio venisse espropriato. Il diritto di comunicare i responsi divini e interpretare le leggi fu attribuito ad Aron e, per successione dinastica, ai Leviti, che sarebbero stati dunque gli amministratori del Tempio. Il diritto di promulgare i comandamenti e di farli eseguire spettò al comandante supremo eletto di volta in volta. Il primo fu Giosuè, al quale doveva obbedire «l’assemblea dei fgli di Israele», dinanzi però al sacerdote El‘azar13. L’uno non poteva fare a meno dell’altro. Il sommo sacerdote poteva interpretare le leggi e dare i responsi divini, ma solo se richiesto dal comandante e, di converso, il comandante poteva interpellare Dio quando voleva, ma non poteva riceverne gli ordini se non attraverso il sommo sacerdote. La tribù di Levi era stata esclusa dalla spartizione delle terre, destituita di potere pubblico e consacrata solo a Dio. Il sommo sacerdote, pur accogliendo i decreti i Dio, non aveva dunque né diritto, né autorità, né milizia per imporli. Se avesse potuto farlo, sarebbe stato un monarca. Il comandante, che possedeva di diritto la terra, non poteva interpretare le leggi. «Dagli ordini impartiti da Mosè ai suoi successori – commenta Spinoza – possiamo facilmente concludere che scelse degli amministratori e non dei dominatori dello Stato» (TTP XVII, 13). La sovranità di Dio restò intatta, perché i comandamenti divini erano leggi. E intatta restò l’unità di teologia e politica. Piuttosto il potere amministrato venne distinto tra quello ermeneutico-legi12 13

Dt 5, 24. Nm 27, 20.

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slativo e quello pragmatico-esecutivo che continuarono ad essere tuttavia connessi e furono anzi rinviati l’uno all’altro. In tal senso la costituzione mosaica rimase teocratica. L’equilibrio tra la «verga» e la «spada» non venne mai meno. A ciò contribuì la confederazione delle tribù, ciascuna relativamente autonoma, e guidata da un capotribù eletto per anzianità e saggezza. Solo quando dovevano combattere era necessario un comandante supremo. Ma anche gli eserciti, dove prestavano servizio tutti i cittadini compresi fra i venti e i sessant’anni, rispecchiavano, nella loro pluralità tribale, la costituzione teocratica. Perciò non giuravano fedeltà né al comandante, né al sommo sacerdote, bensì solo a Dio. E l’arca dell’alleanza procedeva perciò fra le schiere (cfr. TTP XVII, 13). Nessuno dunque, dopo la morte di Mosè, prese in mano «verga» e «spada» insieme svolgendo tutti gli uffci della suprema autorità. Così Spinoza torna a usare per la seconda volta l’aggettivo theocraticus: dal momento che tutte le decisioni non dipendevano da un solo uomo, né da un solo concilio, né dal popolo, bensì alcune erano di competenza di una sola tribù altre delle restanti, e sempre con pari diritto, ne consegue con grande chiarezza che, a partire dalla morte di Mosè, lo Stato non fu né monarchico, né aristocratico, né popolare ma, come abbiamo detto, teocratico (TTP XVII, 15).

E Spinoza spiega distintamente i motivi. Anzitutto la «dimora regale» era il Tempio, quasi la corte della Suprema Maestà di quel governo (ibid.). Costruito a spese del popolo intero, l’edifcio che rappresentava il cuore della «repubblica divina» aveva due caratteristiche. Da un canto era juris communis, «di diritto comune», affnché tutti potessero ugualmente interpellare Dio (TTP XVII, 11, 15). E la condivisione del Tempio era il legame che univa indissolubilmente la confederazione delle tribù di Israele. La comunità si fondava sul Tempio, luogo di un non-luogo, Presenza di una Assenza, memoria della Sovranità divina. Se quel vuoto salvaguardato nel Tempio fosse stato riempito, si sarebbe spezzato il legame fra le tribù e sarebbe venuta meno la teocrazia. A questo motivo Spinoza ne aggiunge un secondo: «tutti i cittadini dovevano giurare fedeltà a Dio, loro supremo giudice, al quale soltanto avevano promesso di obbedire in tutto» (TTP XVII, 15). L’obbedienza, che Spinoza descrive con toni ammirati, e in cui vede il vincolo della teocrazia ebraica, non poteva indirizzarsi se non a Dio, 268

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perché avrebbe altrimenti ammesso il dominio dell’uomo sull’uomo. Il che non poteva accadere neppure in guerra. Perciò il terzo motivo è che «il supremo comandante di tutte le tribù, quando ve n’era bisogno, non era scelto da altri che da Dio» (TTP XVII, 15). La teocrazia mosaica si resse su un sapiente equilibrio di poteri, tra i quali non necessariamente doveva esserci, né in effetti ci fu armonia14. Quel che conta, però, è che «verga» e «spada» non caddero mai nella stessa mano15. Questo equilibrio è più volte elogiato da Spinoza. Coloro che dirigevano la res publica non potevano mascherare il crimine sotto una parvenza di diritto, perché l’interpretazione del diritto era appannaggio di altri. Dato che «si attribuiva esclusivamente ai Leviti il diritto di interpretare le leggi, fu tolto ai capi degli ebrei un movente per commettere delitti» (TTP XVII, 17)16. D’altronde l’esercizio ermeneutico, condizione – secondo Spinoza – del buon governo della res publica, era compito dell’«intero popolo»: «fu prescritto che ciascuno leggesse e rileggesse da solo, ininterrottamente e con la massima attenzione, il libro della legge» (TTP XVII, 17). A limitare gli abusi di potere da parte dei capi contribuì l’assenza di una milizia mercenaria e quindi il fatto, «di grandissimo rilievo», che l’esercito fosse reclutato fra tutti i cittadini che per di più «non combattevano per la gloria del comandante, ma a gloria di Dio, e che ingaggiavano battaglia solo dopo aver ricevuto il responso di Dio» (TTP XVII, 18). Si comprende poi che, dato che chi era soldato nell’accampamento, era cittadino nel foro, non si poteva desiderare più la guerra della pace. Tutti i capitribù, infne, eccellevano sugli altri non «per nobiltà, né per diritto di sangue, ma soltanto in ragione dell’età e della virtù» (TTP XVII, 21). Ed erano «alleati», associati, membri cioè di una confederazione il cui «vincolo» era la religione (TTP XVII, 19). Che cosa provocò allora la completa distruzione dello Stato degli ebrei? Non fu la «disobbedienza del popolo» (TTP XVII, 27). Piuttosto l’equilibrio venne meno quando i sommi sacerdoti si arrogarono l’autorità di legiferare, di trattare gli affari pubblici, e usurparono il «diritto del principato» (TTP XVIII, 4). Pur conservando il sommo sacerdozio, vollero regnare. La divisione funzionale degeEs 32, 31; Lv 10, 16. Cfr. Nm 27, 16-21. 16 Cfr. Dt 21, 5. 14 15

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nerò in un contrasto di poteri, regni e spade. La sovranità teocratica andò in frantumi. E così, in questo passaggio, tutt’altro che indolore, dalla teocrazia mosaica alla teocrazia ierocratica, la res publica degli ebrei dovette infne perire. Non sorprende che Gerusalemme, chiamata «città ribelle», fu presa e che in frantumi andò anche il Tempio17. Al contrario di quel che pensava Giuseppe Flavio, la ierocrazia, per Spinoza, non aveva serbato il diritto divino. 7. Un secolo dopo Spinoza, citato quasi alla lettera nel suo trattato teologico-politico Jerusalem, del 1783, il flosofo Moses Mendelssohn, esponente della Haskalà, chiama la costituzione mosaica, in linea con il concetto ebraico di Malkhut Shamajim, «politica celeste»18. In tal senso avrebbe potuto mantenersi come Zerimonialgesetz, come «legge cerimoniale», cioè una «sorta di scrittura» che avrebbe richiamato a una forma di vita ebraica19. Certo, non sarebbe più stata la «costituzione originaria», esistita una sola volta. Mendelssohn afferma: «chiamatela dunque costituzione mosaica, con il suo nome proprio». D’altronde era scomparsa e solo Dio sapeva «in quale popolo e in quale secolo» si sarebbe visto di nuovo qualcosa di simile20. La preoccupazione illuministica di Mendelssohn era di evitare che la teocrazia di Israele venisse confusa con il clericalismo politico. Nella teocrazia il cittadino era sottoposto solo a Dio. Non esisteva ancora quella distinzione tra fede e forma di vita, fra Stato e Chiesa. Teologia e politica erano «tutt’uno». Dio era il «Reggente». Né la Chiesa aveva inglobato lo Stato, secondo il modello cattolico-romano, né lo Stato aveva inglobato la Chiesa, secondo il modello hobbesiano. Piuttosto si trattava di un’unità retta al suo interno da un complesso equilibrio che già Spinoza aveva messo in luce21. Questo equilibrio venne meno nell’età della monarchia, quando il popolo ebraico volle essere simile agli altri. Fu allora che si ruppe l’unità. Cfr. Esd 4, 12.15. M. Mendelssohn, Jerusalem, ovvero sul potere religioso e sull’ebraismo, trad. it. di G. Auletta, Guida, Napoli 1990, p. 152. 19 M. Mendelssohn, Jerusalem, cit., p. 148. 20 Ibid. 21 Cfr. ivi, pp. 148-149. 17 18

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Ho detto che la costituzione mosaica non è restata a lungo nella sua originaria purezza. Già all’epoca del profeta Samuele l’edifcio subì una crepa che poi si allargò sempre più fnché le parti non crollarono completamente. La Nazione richiese come sovrano un re visibile, in carne e ossa […], un re come lo hanno tutti gli altri popoli22.

Dopo quella crepa la nuova Gerusalemme ebraica non avrebbe più dovuto avere come orientamento la costituzione mosaica, relegata per sempre in un passato remoto. La sinagoga, al pari della chiesa e della moschea, avrebbe potuto avere ancora solo uno spazio confessionale, nel rispetto di quella separazione ormai avvenuta fra cittadini e credenti. L’ingiunzione secondo cui il popolo ebraico non avrebbe dovuto assoggettarsi ad altre leggi politiche non ha così più alcuna validità per Mendelssohn che suggerisce di «non prenderlo alla lettera». Piuttosto: «date a Cesare e date anche a Dio!». E ancora oggi alla casa di Jakov non potrebbe essere dato un consiglio più saggio di questo. Adeguatevi ai costumi e alla costituzione del paese nel quale vi trovate; ma tenete ferma anche la religione dei vostri padri23.

Mendelssohn depoliticizzò dunque l’ebraismo, riducendolo ad una confessione. Nel Novecento, quando fu chiaro il fallimento del suo progetto di emancipazione, riemerse, pur se in un nuovo contesto, l’irrinunciabile valore politico che Spinoza aveva riconosciuto alla teocrazia ebraica. Se Israele non poteva coincidere né con una sovranità umana legittimata né con una ierocrazia, cioè con il governo di una casta sacerdotale, allora la «teocrazia» doveva essere assunta in un senso letterale. 8. La fligrana teologico-politica della Torà è attraversata dal flo rosso della rivolta. Questo flo si rafforza e si ispessisce negli scritti profetici. Il Dio sovversivo di Israele ama chi si ribella, chi resiste allo Stato e alla sua ingiustizia. Gli episodi, nella narrazione biblica, sono innumerevoli e si ripetono con ritmo incessante. L’avversione emerge già nel racconto della Torre di Babele dove l’umanità, considerandosi un unico popolo, si concentra in un’unica città-stato 22 23

Ivi, pp. 153. Cfr. 1 Sam 8, 10. Ivi, p. 154.

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(Gn 11, 1-9). Dio scende a fermare quella costruzione, a frantumare quell’universo statico e totalizzante24. Da quando compaiono sulla scena narrativa gli ebrei appaiono ribelli, per nulla proni a comandi, ordini, imposizioni – se non all’imperativo lech lechà, «va’, vattene!» (Gn 12, 1), che Dio rivolge anzitutto ad Abramo. Lo spinge così a lasciare i grandi centri metropolitani della Mesopotamia ed a inoltrarsi nel deserto dove conduce una vita nomade che può raccogliersi solo provvisoriamente in una tenda. Il deserto è il luogo dell’affrancamento da ogni istituzione25. La disobbedienza pubblica tocca il culmine nell’esodo, quando gli schiavi insorgono contro Faraone, i suoi ministri, i suoi emissari, ed escono dall’Egitto, prototipo di ogni Stato a venire. La scelta è per l’anarchia di Canaan. Nella Torà il soffo della rivolta si va articolando in una strategia politica di sovversione che, guardando con sospetto e diffdenza il potere, mira non a consolidarlo, a farne il fondamento di una forma statuale, bensì a destabilizzarlo, scuoterlo, scardinarlo. Questo atteggiamento di rivolta, di contestazione e dissenso, emerge verso ogni fgura che pretenda di incarnare il potere, verso ogni istituzione che imponga il dominio. Il che è in sintonia con la Torà dove due sono gli insegnamenti che fanno testo. L’essere umano è creato a immagine di Dio (Gn 1, 27). Un elemento divino si cela in ciascun individuo, che non può essere dunque sottomesso, né tanto meno svilito, calpestato, schiavizzato. Connesso a questo insegnamento è quello sulla sovranità unica e irrevocabile di Dio. Di qui il rispetto della Torà per gli individui che non sono docili seguaci, ma si impegnano e resistono. Se i modelli di comportamento sono quelli di Abramo, che prende la via nomade del deserto, di Jakov, che lotta perfno con Dio, come potrebbero essere ubbidienti e remissivi gli ebrei? La comunità di Israele è ostinata e diffcile da governare. Questo spiega la differenza che la separa dalle altre nazioni, dai grandi regni della Mesopotamia e dell’Egitto, dove un abisso divide regnanti e sudditi. Al contrario, nella comunità di Israele regnanti e sudditi per defnizione non esistono e il potere è zona di competenza esclusiva di coloro che, come Mosè, sanno di Mi permetto di rinviare a D. Di Cesare, Grammatica dei tempi messianici, Giuntina, Firenze 2011, pp. 7 sgg. 25 Cfr. Y. Hazony, The Philosophy of Hebrew Scripture, Cambridge University Press, Cambridge 2012, pp. 140 sgg. 24

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non essere padroni del potere. La separazione tra «verga» e «spada», che caratterizza la costituzione mosaica, ne è una conferma. Nel suo ultimo discorso Mosè va oltre infrangendo per sempre il mito stesso del re. Nei primi quattro libri della Torà non compare mai la fgura del re, che affora solo nel Deuteronomio, dove è comunque marginale. Non è il re, con il suo potere sovrano, a creare la legge – come avviene presso altri popoli del Vicino Oriente. La legge, che è per tutti, opera senza un potere sovrano. Tuttavia, anche nel Deuteronomio mai viene comandato al popolo di obbedire al re. Anzi, la possibilità di un re, che si prospetta all’indomani dell’ingresso nella terra promessa, viene denunciata da Mosè. Il timore è che quell’ingresso sia principio di assimilazione, che Israele voglia assomigliare agli abitanti di quella terra e venerare le divinità dei cananei: «Qualora tu dica: “Io porrò su di me un re come fanno tutte le nazioni che mi stanno intorno”» (Dt 17, 14). Ecco allora il messaggio: la monarchia è istituzione idolatrica, sedizione contro la regalità di Dio26. 9. Israel – che Dio sia sovrano! Il Regno di Dio è il prôton e l’éschaton di Israele27. Nessun compromesso è possibile. L’antico Israele fa sul serio con la teocrazia diretta. Come uno sceicco guida la sua tribù nomade, così JHVH, nel suo nome tetragrammatico, guida concretamente la comunità tribale di Israele. Viene atteso come mélekh, non nome, bensì appellativo divino, di radice semitica mlk, che indica la guida teologica e politica. JHVH, il mélekh, rinvia a questo movimento del Signore invisibile che guida, che va innanzi, che precede. Il racconto dell’esodo è testimonianza e garanzia storica di questa guida. Dopo essere incorsi nella privazione della libertà – la sorte peggiore per gli ebrei, che sono tribù seminomadi – la comune esperienza della liberazione, annunciata e operata dal Dio sovversivo, ancora così indeterminato, consente la formazione del popolo, am, che esce nel Nome che si è rivelato in un tempo verbale e nella promessa «sarò con voi». Come ha condotto le tribù federate fuori dall’Egitto, così JHVH si mostrerà Cfr. M. Goodman, L’ultimo discorso di Mosè, trad. it. di R. Volponi, Giuntina, Firenze 2018, pp. 59 sgg. 27 E. Sachsse, Die Bedeutung des Namens Israel: eine quellenkritische Untersuchung, Georgi, Bonn 1910, pp. 91 sgg. 26

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mélekh, tenendole separate dalla dispersione delle nazioni, grazie a quella forma politica esclusiva che è la teocrazia. Nulla di paragonabile è dato altrove. La teocrazia viene riconosciuta quando il popolo proclama JHVH in modo diretto (Es 15, 18) e JHVH assume la sovranità (Es 15, 18). Che El regni, che El sia sovrano, vuol dire che JHVH non si contenta di essere Dio in senso religioso, consegnando a un essere umano il dominio sulla vita terrena. Al contrario, rivendica e acquisisce proprio questo dominio. Perché non vi è nulla che non sia di Dio. Impossibile scorgere in questa teocrazia assoluta una separazione fra teologia e politica, che sarebbe artifciosa. Il berit, il patto dell’esodo tra Dio e il popolo, destinato a sostituire quello con i padri, sancisce la sfera teologico-politica della sovranità, mamlakhàh, che può essere solo divina, non umana. Come sottrae la sovranità, così Dio sottrae la proprietà della terra, dove intende fare di Israele, a condizione che serbi il patto, un allodio, qadòsh, separato e distinto, un popolo di kohanìm, di sacerdoti, un regno a parte, che suffraga e prepara il Suo Regno. Tutti sono allora kohanìm – «voi sarete chiamati sacerdoti di JHVH» (Is 61, 6) – cioè al servizio diretto di Dio. Alla base di questo patto regale Martin Buber ha scorto un paradosso. Nel riprendere l’argomento di Spinoza che aveva indicato nella negazione del dominio dell’uomo sull’uomo il sigillo del patto, Buber mette l’accento sull’indole anarchica di Israele. Se ci si chiede perché la lega di tribù seminomadi che emigrò dall’Egitto non elevò alla dignità di mélekh il suo condottiero umano, si può rispondere tenendo conto del «beduinismo» di tali tribù; il fatto, poi, che questo elemento venisse fronteggiato da una anavàh, una docilità, una sottomissione del condottiero – il concetto di anavàh non è infatti etico, ma religioso – ispirata dal messaggio di colui al quale si era sottomesso, edifcò sull’indole anarchica la teocrazia. Nel patto regale il popolo dalla dura cervice si piega alla sovranità del liberatore divino, che aveva spezzato il suo giogo e lo aveva fatto camminare a testa alta (Lv 26, 13). La personale, quotidiana ripetizione di questo atto nella vita di ogni ebreo verrà defnita a suo tempo dai tannaiti come «l’accettazione del giogo della regalità celeste»28.

M. Buber, La regalità di Dio, trad. it. di M. Fiorillo, pref. di A. Soggin, Marietti, Genova 1989, p. 171. 28

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Il paradosso sta in questo: che è l’indole anarchica a sostenere l’edifcio della teocrazia assoluta. Se non vi fosse ribellione contro ogni ordine, ogni imposizione, ogni comando umano, non potrebbe darsi sottomissione esclusiva alla regalità di Dio. Buber parla anche di un contenuto positivo e un contenuto negativo del patto. Le tribù seminomadi, in viaggio dall’Egitto verso Canaan, accettano JHVH come loro re «sempre e in eterno». Il che respinge e contesta ogni autorità terrena e ogni potere dinastico. Chi accetta temporaneamente di eseguire gli incarichi di Dio è solo un inviato. A meno di non divenire usurpatore. Il contenuto negativo è l’aspirazione libertaria delle tribù itineranti di Israele che rifutano ogni staticità del potere umano. La teocrazia risponde all’immemoriale bisogno di libertà. La sottomissione teologico-politica a Dio, quell’estremo legame di dipendenza, va di pari passo con la vena indomabile e l’esigenza di estrema indipendenza. La profondità esistenziale di questa condizione è provata dall’assenza di costrizione e da un patto che viene suggellato sempre di nuovo da ciascuno. Il che spiega anche le vicissitudini della teocrazia assoluta che, pur rimanendo nei secoli peculiarità di Israele, attraversa ogni fase della storia correndo sul crinale tra il rischio di cadere in una confusione inerte e selvaggia e l’attuazione del Regno di Dio29. 10. Nell’Israele premonarchico non vi è alienazione di sovranità, perché non esiste sfera politica all’infuori di quella teologica. Questo non signifca che in seguito il concetto ebraico di teocrazia non venga messo duramente alla prova nel confronto con le nazioni che esibiscono l’istituto monarchico. Nell’opposizione fra teocrazia e monarchia viene colta la differenza fra ebrei e pagani. Anche quando, all’epoca di Samuele, il popolo fa richiesta di un re, come quello che hanno tutte le altre nazioni (cfr. 1 Sam 8, 4-5), resta salda la convinzione che la monarchia sia una sorta di ribellione alla sovranità divina. Se è il libro antimonarchico dei Giudici a tenere salda l’idea di una comunità senza autorità, se non quella invisibile di Dio, sono i profeti a spingere le tribù verso l’obbedienza teocratica. Questo spiega perché non solo i cattivi re, ma anche quelli come David, appaiano, malgrado tutto, fgure secondarie rispetto alla teocrazia assoluta. Cfr. M. Buber, Werke (Schriften zur Bibel), vol. II, Lambert Schneider, Heidelberg 1964, pp. 684 e 686. 29

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Anche nella tradizione rabbinica l’ebraismo si riconosce come teocrazia senza Stato, senza terra, senza Tempio. I rabbini sono giunti a interpretare le parole dello Shemà Israel, la più importante preghiera ebraica, non come la semplice proclamazione metafsica dell’unicità di Dio, bensì come l’ammissione della sua esclusiva sovranità politica. La lettura in senso inverso delle lettere che compongono Shemà (shin, mem, ajin) dà luogo all’abbreviazione di Ol Malkhùt Shamajim, «il giogo della politica celeste». La fedeltà alla teocrazia si sarebbe conservata nella formula, di solito taciuta, e pronunciata solo al termine di Kippùr, che, a metà tra aspirazione e protesta, scandisce: Baruch Shem Kevòd Malkhutò leolàm vaed, «Benedetto il Suo Nome glorioso per sempre»30. Nella rifessione politica ebraica non si tratta allora di ricostruire una forma arcaica per un interesse antiquario. L’intento è piuttosto – come mostra già Spinoza – quello di indicare nella teocrazia la scaturigine delle altre forme politiche e la traccia a partire dalla quale ogni rappresentazione del potere può essere decostruita. In questo senso si spingono sia Gustav Landauer, che nella costituzione teocratica articola il suo anarchismo, sia Jakob Taubes, che nell’Escatologia occidentale rilancia il paradosso di Israele, dove Dio reclama il dominio31. La teocrazia si basa sull’animo sostanzialmente anarchico di Israele. In essa si manifesta il desiderio dell’uomo di essere libero da ogni legame umano e terreno e di essere legato da un patto con Dio. Nella disputa tra sovranità divina e sovranità terrena si avvertono i primi fermenti dell’escatologia. L’idea di teocrazia può trasformarsi in passione per l’azione. Così, dal punto di vista dell’immanenza, la teocrazia è un’utopia della società32.

Ecco allora il passo decisivo compiuto da Taubes: la teocrazia anarchica, non un relitto irrecuperabile del passato, bensì l’utopia del futuro, proietta Israele in prima linea nel movimento rivoluzionario.

30 Cfr. D. Krockmalnik, Theokratie in Israel, in Staat und Religion. Der moderne Staat im Rahmen kultureller und religiöser Lebenselemente, a cura di W. Schreckenberger, Duncker & Humblot, Berlin 2006, pp. 81-115: 101 sgg. 31 Per Landauer mi permetto di rinviare a D. Di Cesare, Israele. Terra, ritorno, anarchia, Bollati Boringhieri, Torino 2014, pp. 63 sgg. 32 J. Taubes, Escatologia occidentale, trad. it. di G. Valent, prefazione di M. Ranchetti, a cura di E. Stimilli, Garzanti, Milano 1997, p. 41.

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Teologia politica e Islamismo. Tra universalismo e caduta apocalittica nel pensiero di Sayyid Qutb Andrea Mura

Tra i campi di ricerca più duttili della rifessione critica contemporanea, la teologia politica ha rinnovato, negli anni, l’effcacia del suo percorso teoretico ed ermeneutico e delle sue capacità di lettura del presente. Partendo dall’opera di rivalutazione del nesso sistemico tra teologia cristiana e categorie politiche e giuridiche sviluppatesi nell’alveo della statualità moderna, l’odierno dibattito sulla teologia politica ha potuto ad esempio estendere il suo ambito di analisi al rapporto tra cristianesimo e potere economico-governamentale, animando nuove ricerche sui dispositivi di cattura della vita nella cosiddetta economia del debito1. Eppure tale dibattito può arricchirsi di nuove possibilità interpretative, esaminando come, fuori dal cristianesimo, la relazione tra teologia e politica abbia contribuito a defnire cittadinanza, potere, confitto e interesse economico. Una simile apertura sembra oggi più che mai necessaria per valutare la forza di immaginari politici emergenti che su altre concezioni di religione e politica fondano le proprie radici, dalla rinnovata «via confuciana» nel cosiddetto civilization-state della Cina contemporanea all’ideale del dawla del ben noto Daesh o «Stato Islamico» (traduzione problematica, come vedremo, dell’arabo al-dawla al-Islamiya). Laddove la relazione tra legge e grazia nell’universalismo paolino ha permesso di ripensare forme laiche di azione e confitto da opporre allo spazio dell’amministrazione globalizzata2, l’univerCfr. E. Stimilli, Il debito del vivente. Ascesi e capitalismo, Quodlibet, Macerata 2011. Cfr. A. Badiou, Saint Paul: La Fondation de l’universalisme, Presses Universitaires de France, Paris 1997; trad. it. San Paolo. Fondazione dell’universalismo, Cronopio, Napoli 2010; S. Žižek, The Ticklish Subject: The Absent Centre of Political Ontology, Verso, London 1999; tr. it. Il soggetto scabroso. Trattato di ontologia politica, Raffaello Cortina, Torino 2003. 1 2

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salismo politico islamico ha consentito, nel solco dei confitti coloniali e postcoloniali, di eccepire forme di territorialità alternative e avverse allo stato moderno. Più di recente, è sempre sulla base di un modello universalista che interpretazioni meno assertive dell’escatologia islamica hanno fnito poi per esaltare, nel campo dell’Islam politico, la tensione apocalittica al cuore della dinamica storica. Il tempo presente è stato descritto come il tempo del «terrore planetario» e della «guerra civile globale»3. La violenza del jihadismo globalizzato ben incarnerebbe questo tempo, rivelando la precipitazione sempre più apocalittica e armata del capitalismo globalizzato – anticipata dall’annuncio, a ben vedere «fnalistico e teologico», di Fukuyama della «fne della storia»4. Al culto e alla fede nel libero mercato, il terrore islamico oppone una liturgia, potremmo defnirla, della catastrofe generalizzata. Temi cari alla rifessione politico-teologica come il rapporto tra il Regno di Dio e il mondano, tra intensità messianica e accadere storico, richiedono dunque di essere riconsiderati integrando, ai tradizionali riferimenti al cristianismo e all’ebraismo, una disamina del rapporto fra politica e teologia nell’Islam contemporaneo. Il presente saggio intende percorrere un primo passo in questa direzione. Viene qui proposta una lettura critica del pensiero di Sayyid Qutb, fgura centrale nell’evoluzione storica e ideologica di quel vasto e complesso universo simbolico e discorsivo defnibile, con categorie scomode e tra loro poco affni, come «islamismo», «Islam politico» e «fondamentalismo islamico». Se la cesura tra lo spazio assertivo dell’universalismo politico islamico e la dimensione spettrale e apocalittica della storia svolge un ruolo centrale nella lettura del cosiddetto jihadismo globalizzato, il pensiero teologico dell’egiziano Sayyid Qutb (1906-1966), in seno al movimento islamico-politico sunnita del Novecento, rappresenta l’antecedente genealogico ove rintracciare il momento di inscrizione simbolica di questa cesura. Defnito come «l’ideologo dell’islamismo radicale», Sayyid Qutb è stato uno dei pensatori più infuenti del mondo islamista in fase postcoloniale5. La produzione intellettuale di Qutb inizia tra gli anni Trenta e Quaranta, quando Cfr. D. Di Cesare, Terrore e modernità, Einaudi, Torino 2017. Cfr. ivi, p. 179. 5 Cfr. Y. Y. Haddad, Sayyid Qutb: Ideologue of Islamic Revival, in J. Esposito (a cura di), Voices of the Islamic Revolution, Oxford University Press, Oxford 1993. 3 4

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ai lavori di esegesi coranica e di criticismo letterario si affancano i primi scritti di critica sociale. Animato da sentimenti anti-coloniali, come molti egiziani avversi al controllo ancora parzialmente esercitato dalla Gran Bretagna sull’Egitto, la sua partecipazione attiva all’Islam politico si concretizza solo a ridosso della rivoluzione degli Uffciali liberi del 1952. Un anno prima, Qutb aderisce all’Associazione dei Fratelli Musulmani, la cui fondazione nel 1928, a quattro anni di distanza dall’abolizione del califfato decisa dalla Grande Assemblea Nazionale della nuova Turchia, segna, a nostro avviso, l’evento fondativo dell’Islam politico. Uniti dalla comune tensione anti-britannica all’indomani della rivoluzione, i rapporti tra Fratellanza e Uffciali liberi andarono presto deteriorandosi, evidenziando la discrepanza tra la visione secolare e nazionalista del partito unico di Nasser e l’agenda islamista della Fratellanza, interessata a rilanciare il potenziale etico e politico dell’Islam. Divenuto capo della sezione propaganda e direttore del giornale dell’Associazione, Qutb viene arrestato e torturato a seguito del fallito assassinio di Nasser e dello scioglimento della Fratellanza nel 1954. La detenzione di Qutb, accusato di «tradimento della nazione», procede, assieme a quella di un numero imprecisato di oppositori politici, per oltre dieci anni, fno alla morte per impiccagione nel 1966. È negli anni di prigionia che Qutb scrive Ma’alim f-l-Tariq (titolo traducibile in italiano con Pietre miliari), pubblicato nel 1964, di cui offriremo una breve disamina, e che riprende in forma di manifesto politico temi già affrontati da Qutb in altri lavori come Giustizia Sociale nell’Islam (Al-’adala al-Ijtima’iyya f-l-Islam) e l’imponente All’ombra del Corano (Fi Zilal al-Quran), pure redatto nel periodo di detenzione. Il pensiero di Qutb rifette un momento complesso nella storia dell’Islam politico, incarnando una fase, tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, caratterizzata dalla incisiva repressione dell’opposizione islamista da parte dei regimi arabi, la quale si trova dunque a vivere un periodo di sostanziale inazione dopo gli anni di lotta anticoloniale a cavallo tra le due guerre. L’esecuzione di Qutb testimonia delle diffcoltà di questa fase e della relazione per così dire contingente tra il suo pensiero e l’instaurazione di autocrazie, monarchie o repubbliche, nel periodo immediatamente postcoloniale. Eppure la sua rifessione trascende il contesto storico e sociale di quegli anni. La generale rivisitazio-

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ne della tradizione universalistica islamica operata da Qutb gioca un ruolo essenziale nella lotta contro «l’imposizione di un discorso arabo monolitico di tipo nazionalistico e socialista sulla società egiziana»6. In qualche modo, all’interno del campo islamista, essa rompe con il riformismo della stessa Fratellanza Musulmana, più interessata, sin dagli anni del fondatore Hasan al-Banna, alla riforma della politica nazionale egiziana che al raggiungimento di una comunità universale islamica. In generale, essa fornisce infatti nuovo materiale teorico attraverso cui opporre, in maniera incisiva, il paradigma della statualità moderna in Medio Oriente, aprendo la strada al cosiddetto «ritorno» o «revival» dell’Islam politico negli anni Settanta7. Ma la teologia politica di Qutb introduce anche spunti escatologici essenziali, come vedremo, per la successiva affermazione di un flone globalista e jihadista nei decenni successivi. L’opera qui esaminata, Pietre miliari, ha avuto, infatti, un impatto enorme sulle future generazioni di attivisti islamici e, spesso, di semplici credenti, favorendo l’articolazione di nuove strategie e relazioni antagonistiche. Negli anni Novanta, l’infuenza della visione transnazionale di Qutb si avverte nelle formazioni più radicali e militanti del «neo-fondamentalismo islamico»8, termine usato per indicare formazioni, come al-Qaeda, perfettamente allineate a quello che esse percepiscono ormai, con toni appunto spesso catastrofci, come un mondo globalizzato, post-nazionale, espressione della violenza egemonica e miscredente americana. 1. L’universalismo del dar al-Islam In un noto saggio sulla storia moderna del pensiero politico islamico, Roxanne L. Euben interpreta Pietre miliari come un’analisi su tre livelli delle comunità politiche contemporanee. Secondo Euben, tale analisi implicherebbe una «diagnosi dei mali della modernità (jahiliyyah), una cura (nella forma di una ribellione seguita dall’af6 M. Moaddel, Islamic Modernism, Nationalism, and Fundamentalism: Episode and Discourse, University of Chicago Press, Chicago 2005, p. 218. 7 P. Mandaville Global Political Islam, Routledge, New York, NY 2007. 8 O. Roy, L’Islam mondialisé, Éditions du Seuil, Paris 2002; tr. it. Global Muslim. Le radici occidentali del nuovo Islam, Feltrinelli, Milano 2003.

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fermazione di una sovranità fondata sulla legge islamica) e un metodo di applicazione della cura (volto all’organizzazione di una contro-comunità, jama‘a, da diffondere attraverso il jihad)»9. Proponiamo qui invece un approccio alternativo per struttura e interpretazione, di Pietre miliari, cui rapportare differenze critiche essenziali in termini di confgurazioni spaziali e soggettuali nel pensiero di Qutb. Centrale in questa lettura è la discordanza tra piano descrittivo e normativo attraverso cui si articola, nel testo, la visione escatologica di Qutb e il suo giudizio sulla condizione umana. Da un lato l’esame critico dell’epoca attuale, in qualche modo riconducibile, al livello della diagnosi, nella tripartizione di Euben. Dall’altro, la visione normativa di Qutb, volta a defnire come la società dei credenti dovrebbe vivere e agire per dare piena e vera espressione al disegno divino. Sebbene i due livelli si intersechino nel testo, essi rimangono in qualche modo irriducibili, manifestazioni di piani temporali e spaziali differenti. A defnire come una società dovrebbe essere, e dunque indicare un livello normativo di analisi in Pietre miliari, è la capacità di una società di assumere l’Islam a principio costitutivo, di seguirne la centralità normativa «in fede e modalità di culto, in legge e organizzazione, nella morale e nella scelta dei costumi»10. Ciò richiede, tuttavia, ripensare radicalmente la sovranità statuale, e ritrovare i fondamenti teologici di una sovranità (hakimiyya) che sia, in quanto espressione della volontà di Dio, vero presupposto di una condizione di libertà e di civiltà umana. «Quando in una società la sovranità appartiene a Dio, ed esprime dunque la sua obbedienza alla legge divina, solo allora ogni membro di quella società è realmente libero dalla servitù e capace di assaporare la vera libertà. Questa solo potrà dirsi “civiltà umana”»11. Seguendo una tipica strategia anti-coloniale, una tendenza di rilievo nel periodo emergente del discorso islamista era stata quella di appropriarsi dei dispositivi della modernità, di islamizzarli, opponendo una dialettica negativa e contro-egemonica, piuttosto che rifutarli. Per Hasan al-Banna, obiettivo principale della FratelR. L. Euben Enemy in the Mirror: Islamic Fundamentalism and the Limits of Modern Rationalism, Princeton University Press, Princeton, N.J. 1999, p. 56. 10 S. Qutb, Milestones (1964), Islamic Book Service, New Delhi 2006, p. 93. 11 Ibid. 9

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lanza – rimasto a nostro giudizio inalterato nelle evoluzioni storiche dell’Associazione fno ai nostri giorni – doveva essere quello di riportare l’Islam al cuore della visione sociale e politica dell’Egitto, senza necessariamente rigettare l’impianto politico della statualità moderna. Ciò signifcava accogliere l’Islam a ispirazione e guida di un nuovo Egitto nazionale e indipendente. Per al-Banna, «un governo realmente islamico» è quello infatti che agisce «come servo della nazione nell’interesse del popolo»12. Ripensare la sovranità come espressione di Dio signifca invece per Qutb rifutare ogni riferimento ideologico e concettuale al potere sovrano dello stato, fnanche nella forma di uno stato islamico. La comunità politica dell’Islam è infatti chiamata a esercitare la professione di fede rifutando la possibilità di uno stato originario che trovi in sé stesso la propria legittimazione. Essa deve farsi tramite di un movimento verticale di restituzione che riporti la sovranità dalla società degli uomini a Dio: «gli [arabi] sapevano che «uluhiyah» signifca sovranità e avevano capito che riconoscere la sovranità in Dio richiedeva revocarla ai preti, ai capi delle tribù, ai notabili, e ai governanti, dunque riconsegnarla a Dio»13. Per Qutb, tale movimento non è conciliabile con l’istaurazione di una teocrazia ierocratica. Compito delle istituzioni giuridiche e politiche è di dare piena attuazione alla shari’ah, attenendosi ai suoi dettami, non quello di fondare nuovi poteri temporali: Fondare il governo di Dio sulla Terra non signifca affdare l’autorità di governo a soggetti consacrati – i preti – come è stato per la Chiesa; né signifca lasciare che qualche rappresentante di Dio diventi regnante e governante, come è nel caso di una “teocrazia”. Instaurare il governo di Dio signifca che le sue leggi siano applicate, e che la decisione ultima su qualsiasi affare umano sia presa in base a tali leggi14.

Restituire la sovranità a Dio signifca dunque per Qutb rifutare il governo degli uomini e la forma-stato. In tale prospettiva è utile, ad esempio, annoverare la decisione del regime dei Talebani negli anni Novanta di fondare un «emirato islamico», piuttosto che una H. al-Banna The Message of The Teachings, Cairo 1940, . 13 S. Qutb, Milestones, cit., p. 24. 14 Ivi, p. 58. 12

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repubblica islamica sul modello iraniano (che di fatto ha mantenuto intatto il modello statale ponendo, per scelta stessa di Khomeini, l’interesse dello stato al di sopra della legge islamica, e persino dei cinque pilastri). Di contro, si trattava per i Talebani – apparentemente in linea con quanto qui proposto – di mantenere in forma embrionale lo sviluppo di istituzioni giuridiche e politiche, limitandone lo scopo alla sola applicazione, peraltro dogmatica e letterale, della legge islamica. È qui che il concetto di dawla merita di essere esaminato, rilevando la sua contiguità storica e formale con l’istituto dell’emirato. Convenzionalmente tradotta come «stato», la dawla se ne discosta concettualmente, indicando l’esistenza di vari tipi di amministrazione politica nell’evoluzione storica dell’Islam, dalle forme più vaste e gerarchicamente superiori come l’impero abbaside (alDawla al-Abbasiyya) o l’impero ottomano (al-Dawla al-Uthmaniyya), a varie unità amministrative, spesso all’interno del califfato (ad esempio, la dinastia dei Buwayhidi, degli Ayyubidi, etc.). Come rilevato da al-Barghuthi, mentre «uno stato dentro uno stato è condizione inaccettabile in un sistema di stati-nazione, per buona parte della storia islamica la presenza di una dawla all’interno di una dawla ha costituito quasi una norma»15. Governata da un imam o più spesso da un emiro, la dawla esprimeva una forma politica essenzialmente aperta e complessa. Responsabili all’interno della propria area di giurisdizione, i governanti della dawla non erano «sovrani» in senso moderno, in quanto sottoposti al giudizio di legittimità al di fuori delle proprie frontiere. Un duplice movimento ne legava le sorti internamente, ai propri «soggetti», ed esternamente, all’istituto del califfato, espressione dell’intera umma (comunità dei credenti). A quest’ultima, di principio, era così affdato il giudizio fnale di legittimità della dawla, dalle unità minori alle forme imperiali complesse16. Si è spesso enfatizzata l’infuenza di questo doppio legame nelle relazioni politiche delle società islamiche, la sua capacità di garantire una forma generale di sintesi tra le diverse dinastie, emirati, sultanati e unità amministrative alternatesi nei secoli. Limitando gli 15 T. Barghuthi, The Umma and the Dawla: The Nation State and the Arab Middle East, Pluto Press, Ann Arbor, MI 2008, p. 59. 16 Ivi, p. 58.

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effetti della frammentazione politica succeduta al declino dell’impero abbaside, la sovra-determinazione della dawla ha giocato un ruolo essenziale nel preservare l’ideale unitario dell’umma, anche quando l’istituto del califfato era ormai un’istituzione puramente nominale, utilizzata per accrescere legittimità di un impero ottomano ormai in declino17. Più in generale, tuttavia, la fondamentale porosità dei confni della dawla nello spazio islamico rifette un modello irriducibile alla struttura dualistica dello stato moderno. L’abolizione del califfato nel 1924 pone, con l’introduzione del sistema degli stati in medio oriente, un colpo decisivo al modello universalistico islamico che l’impero ottomano era riuscito in qualche modo a preservare. Essa segna l’evento traumatico di una fondamentale dislocazione simbolica nell’Islam e di un’insanabile spaccatura all’interno dell’umma. La scelta di tradurre il famigerato Stato Islamico utilizzando l’inglese state al posto dell’arabo dawla, evidenzia non già una pratica consolidata sebbene concettualmente problematica, ma la tensione paradossale al cuore stesso di questa organizzazione islamista, in bilico tra il recupero di un immaginario universalistico fondato sulla dawla e sull’unità dell’umma, e la pragmatica riappropriazione dello stato moderno nella forma di uno stato islamico, atomico e con confni ben delineati. Abbiamo qui accennato al rigetto di Qutb della «teoria e della pratica della sovranità statale»18 e al suo imprescindibile riferimento coranico al giudizio e al dominio di Dio. Tale riferimento è articolato da Qutb opponendo a referenti convenzionali della dottrina statale – sovranità, territorio e popolo – quelle che potremmo defnire controparti concettuali della tradizione universalistica islamica: rispettivamente, hakimiyya (la sovranità islamica come sopra defnita), dar al-Islam e umma. Dell’umma si è teso spesso a celebrare la forma essenzialmente molteplice. Dagli arabi, ai mongoli, ai turchi, la varietà dei gruppi etnici che nel tempo hanno assunto il compito storico della sua diffusione ed espansione rifette la tenuta di una dinamica inclusiva e multiforme, il fatto «non tanto di essere J. P. Piscatori, Islam in a World of Nation-States, Cambridge University Press, Cambridge 1986. 18 J. Calvert, Sayyid Qutb and the Origins of Radical Islamism, Columbia University Press, New York 2010, p. 215. 17

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immaginata, ma di essere immaginata sulla base di modi di essere e agire distinti e diversi»19. Da un punto di vista normativo, una società islamica perfetta dovrebbe essere per Qutb «aperta e del tutto inclusiva», in grado di integrare le differenze all’interno della propria molteplicità, rigettando qualsiasi forma di appartenenza nazionale in quanto espressione di «tratti animalistici più bassi»: L’Islam ha fondato la comunità islamica unicamente sul legame di fede, invece di basarla su associazioni più basse ordinate sulla razza e il colore, il linguaggio e il paese, gli interessi regionali e nazionali [...]. Tra i suoi risultati concreti e brillanti, questa attitudine ha permesso alla società islamica di diventare una comunità aperta e del tutto inclusiva, composta da persone di varie razze, nazioni, lingue e colori; di questi tratti animalistici più bassi non restò traccia20.

Laddove il concetto di popolo rimane irrimediabilmente organizzato attorno a strutture dualistiche e originarie, soltanto la società islamica, per Qutb, riesce a dare piena attuazione a una visione inclusiva e universalistica del vivere sociale, realizzando la “vera” natura dell’uomo21. Ciò richiede, tuttavia, di superare qualsiasi tentazione nazionalistica, rifutando anche quelle manifestazioni di ferezza «araba» cosi centrali durante il confronto anticoloniale, dai movimenti nazionalistici al discorso islamista di Hasan al-Banna: «Questa meravigliosa civiltà non è stata nemmeno per un solo giorno una “civiltà araba”; essa è stata niente altro che una “civiltà islamica”»22. Da un punto di vista generale la defnizione dell’umma come superamento di qualsiasi legame comunitario fondato su adiacenza geografca, tratti biologici e affliazioni identitarie nazionalistiche o pan-arabe è accompagnata dal recupero del concetto di territorialità islamica attraverso cui si costituisce la rappresentazione spaziale dell’universalismo islamico: «Solo questo è l’Islam, e solo questo è il dar al-Islam – non il suolo, non la razza, non il lignaggio, non la tribù, e non la famiglia»23. 19 T. Asad, Formations of the Secular: Christianity, Islam, Modernity, Stanford University Press, Stanford 2002, p. 197. 20 S. Qutb, Milestones, cit., p. 49. 21 A. F. March, Taking People as They Are: Islam as a “Realistic Utopia” in the Political Theory of Sayyid Qutb, «American Political Science Review», 104 (1), 2010, p. 192. 22 S. Qutb, Milestones, cit., pp. 49-50. 23 Ivi, p. 124.

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Con l’introduzione del sistema di stati decisa dalle forze coloniali alla caduta dell’Impero ottomano, il concetto statale di “territorio”, espressione del paradigma dualistico e spesso ipertrofco del confne nazionale, inizia a giocare un ruolo simbolico e politico primario in Medio Oriente. Contro l’idea di “territorio”, la territorialità islamica dovrà essere in grado di riattivare il pieno potenziale inclusivo del dar al-Islam, un dispositivo centrale nell’immaginario spaziale di Qutb. Sebbene non riconducibile direttamente alla fonte coranica, la dottrina del dar al-Islam – letteralmente «terra dell’Islam» o «dimora della fede» – svolge una funzione centrale come strumento di organizzazione territoriale nel pensiero giurisprudenziale islamico. Nonostante importanti differenze concettuali abbiano segnato l’evoluzione storica e teorica di questo costrutto giuridico-religioso in epoca classica, le quattro scuole giuridiche dell’Islam sunnita per lo più concordano nel defnire il dar al-Islam come lo spazio entro cui è garantita per i musulmani l’inviolabilità e la santità della vita e della proprietà (‘Isma). Interpretazioni più estensive, ad esempio quella di al-Bujayrimi della scuola Shaf’ta, privilegiano un principio di possesso e di dimora piuttosto che di proprietà e di governo (il caso di al-Sarakhsi o di al-Dasuki della scuola Malikita), di fatto estendendo universalmente la nozione di dar al-Islam a qualsiasi terra in cui risiedano dei musulmani, anche se governata da non musulmani, o a qualsiasi terra ove almeno un tempo abbiano risieduto dei musulmani24. Secondo Parvin e Sommer, in linea con una certa piega «processuale, dinamica e accomodante» nella territorialità araba nomade e sedentaria, lungi dal sottendere un’idea di «immutabilità» territoriale, il dar al-Islam ha espresso nel tempo una «risposta spaziale» a ben precise condizioni temporali, ambientali e politiche25. Al tempo dell’iniziale espansione islamica, il dar al-Islam diviene parte integrante dell’ideale universalistico del califfato. Lo spazio del dar al-Islam è pensato come un’immediata presenza sprovvista di esteriorità e in grado di racchiudere ogni differenza sotto il proS. Hussain, Dar Al-Islam and Dar Al-Harb: An Analytical Study of its Historical Inception, its Defnition by the Classical Scholars and its Application to the Contemporary World, Al Hikma Publishing, Manchester 2012. 25 M. Parvin e M. Sommer, Dar al-Islam: The Evolution of Muslim Territoriality and Its Implications for Confict Resolution in the Middle East, «International Journal of Middle East Studies», 11 (1), 1980, p. 18. 24

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prio governo. Eppure fu esigenza pragmatica della giurisprudenza islamica quella di riconoscere e nominare l’esistenza – o meglio, il perdurare – di terre non governate da musulmani. Per queste terre, in un rapporto complesso e ambivalente con il dar al-Islam lungo i secoli, venne cosi ad essere impiegato il termine dar al-harb – traducibile letteralmente come «dimora della guerra». Con tale designazione si intendeva comprendere qualsiasi terra di fatto al di fuori della giurisdizione musulmana. Elemento comune alle formulazioni classiche del discorso universalistico islamico fu così quello di pensare il dar al-harb non già come un fuori costitutivo e necessario rispetto al quale si potesse giocare e defnire l’unità sacra del dar al-Islam, ma come un fattore contingente da assumere e integrare nell’universalità dell’Islam. Nella visione normativa di Qutb, il dar al-Islam è riattivato a partire dalle premesse universalistiche qui delineate. Da un punto di vista ideale, una piena realizzazione dell’umanità non può prescindere da una totale universalizzazione del messaggio islamico in terra. Dare attuazione al disegno divino signifca per ogni società abbandonare i propri tratti animalistici e consegnarsi a un vivere sociale fondato sull’Islam e sulla legge suprema di Dio in uno spazio che è, appunto, quello del dar al-Islam. L’universalizzazione del dar al-Islam come consustanziale alla piena realizzazione dell’umanità esprime allora, nel nostro ragionamento, uno stato o un piano di necessità. Tuttavia, se questo stato di necessità presuppone, a livello ideale e normativo, la visione del dar al-Islam come spazio universale e sine fnibus, la sua effettiva estensione territoriale è contrastata, nella contingenza della storia, dalla presenza stessa di terre non sottoposte al governo dell’Islam. Nell’accadere storico, il dar al-Islam fgura dunque come una realtà parziale in concorrenza con il dar al-harb. Il piano dove dar al-Islam e dar al-harb appaiono come manifestazioni storiche particolari può convenientemente essere defnito stato o piano di contingenza. Poiché nella visione escatologica di Qutb la piena realizzazione dell’umanità richiede l’affermazione ideale dell’Islam in quanto totalità, il dar al-harb, in linea con il discorso universalistico islamico, può solo apparire come una manifestazione storica temporanea che il dar al-Islam dovrà essere in grado, prima o poi, di assorbire. L’evento della sussunzione del dar al-harb, tuttavia, avrebbe come effetto

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l’espansione territoriale del dar al-Islam nell’accadere storico, la sua dilatazione fno al punto di formare una totalità omnicomprensiva. Tale effetto porterebbe allora il dar al-Islam ad assumere uno statuto permanente e universale nel piano di contingenza, realizzando al tempo stesso l’ideale di pienezza dello stato di necessità. L’acquisita condizione di universalità del dar al-Islam fnirebbe per rifettere, in altre parole, una sovrapposizione essenziale tra lo stato di contingenza e lo stato di necessità, consentendo all’ideale dell’universalismo islamico di trovare accesso e attuazione nell’ordine della storia. Sulla base di quanto qui accennato, il dar al-harb si presenta come una sorta di simulacrum sulla superfcie di una dinamica inclusiva in grado di collegare necessità e contingenza. Mentre per dinamica intendiamo in senso lato la «forza» capace di imprimere movimento e promuovere il cambiamento, caratterizzare il dar alharb come una sorta di simulacrum signifca esaltarne lo statuto come fenomeno storico transitorio nel processo inclusivo che porta all’universalizzazione dell’Islam. In quanto manifestazione contingente – votato, nell’ideale universalistico, alla sua necessaria inclusione nel dar al-Islam in un tempo della storia – il dar al-harb esprime l’universalità islamica come virtualità. La dinamica inclusiva qui delineata può essere pensata da un punto di vista topologico ricorrendo al ben noto nastro di Möbius, forma geometrica capace, come altri modelli topologici, di registrare i mutamenti spazio-temporali differenziali di una superfcie in deformazione costante. A differenza delle superfci orientabili della geometria euclidea, il nastro di Möbius problematizza i referenti di interiorità e di esteriorità, permettendo ai piani esterni ed interni di confuire gli uni negli altri, intersecandosi in un continuo mutamento morfologico. Apparentemente dotata di una faccia superiore (o interna) e di una inferiore (o esterna), la striscia di Möbius ha solo un lato e un solo bordo: percorrendo la superfcie a partire da un lato si fnisce sul lato opposto del nastro senza stacchi o salti. Per le loro proprietà, forme convenzionali di superfci orientabili sono spesso utilizzate per illustrare la dimensione spaziale di entità politiche la cui organizzazione discorsiva si affda a una logica binaria spazialmente o gerarchicamente orientata26. Lo spazio statale, D. Coole, Cartographic Convulsions: Public and Private Reconsidered, «Political Theory», 28 (3), 2000, pp. 337-354. 26

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ad esempio, può essere agevolmente rappresentato da un cerchio la cui circonferenza gioca il ruolo di confne nazionale. Più è forte la demarcazione di una simile circonferenza, più ipertrofca e rigida è la distinzione tra l’interno della nazione e il suo esterno. Nel nostro uso del Möbius, invece, sebbene la distinzione tra il piano interno e quello esterno sia apparentemente mantenuta, tale distinzione si rivela effmera, in quanto esposta a un mutamento inclusivo e continuo. Mentre i due lati del Möbius possono essere chiaramente distinti se presi nella loro dimensione locale, in un punto specifco del nastro, quando la striscia è attraversata e concepita nel suo telos diventa chiaro che essi sono infatti contigui. A dispetto della dimensione statica del cerchio, è la variazione temporale impressa dal moto del Möbius che induce i due lati della striscia a diventare indistinguibili lungo la struttura. Applicando questo modello topologico alla visione normativa di Qutb, i due lati apparenti della striscia, presi cioè nella loro dimensione locale e storica, esprimono lo stato di contingenza attraverso cui dar al-harb e dar al-Islam articolano i propri rapporti nell’accadere storico. Sia il dar al-harb, sia il dar al-Islam emergono qui quali manifestazioni particolari, contingenti e storiche, ciascuno localizzabile su una delle due facce provvisorie della striscia. Preso dal punto di vista della dinamica inclusiva dell’universalismo islamico, invece – e dunque dal punto di vista del movimento del Möbius nella sua generalità – si può assumere il dar al-Islam come il punto di partenza di una crescente inclusione in grado di assorbire e sussumere l’altra faccia del nastro, il dar al-harb, realizzando lo statuto necessario e permanente dell’universalismo islamico. Il dar al-Islam quindi rifette una doppia dimensione. Da un lato, esso coincide con una delle facce apparenti del nastro in una provvisoria competizione con il dar al-harb a livello di contingenza. Dall’altro, esso incarna la superfcie complessiva dello stesso nastro di Möbius, rifettendone il moto inclusivo ed esprimendo la realizzazione dello stato di necessità attraverso cui si dispiega la piena umanità della società islamica. Il dar al-Islam così funge da punto di collegamento tra necessità e contingenza. L’assorbimento del dar al-harb nello spazio contingente del dar al-Islam e la conseguente ascesa della contingenza allo stato di necessità lungo un movimento permanente, necessario e inclusivo, defnisce l’ideale dell’universalismo islamico. 289

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In un passaggio centrale, Qutb riafferma la formulazione normativa qui delineata, constatando la presenza del dar al-harb come fenomeno transitorio da assorbire nella dinamica «inclusiva» del dar al-Islam: La terra di un musulmano non è mai stata un semplice pezzo di terra, ma il dar al-Islam [...]. Essa è un rifugio per chi accetta la Sharia come legge di governo: è questo il caso dei dhimmi. Ma ogni regione in cui questa legge non è applicata e l’Islam non fonda il governo diventa dar al-harb sia per il musulmano, sia per i dhimmi27.

Nel passaggio qui citato, viene ribadita una posizione giurisprudenziale sostanzialmente tradizionale volta a riconoscere, come parte integrante della territorialità islamica, non solo la compagine dei credenti musulmani, ma anche i dhimmi, soggetti del dar al-Islam appartenenti ad altre confessioni religiose storicamente tutelati da un «patto di protezione». Allo stesso tempo, il dar al-harb è riconosciuto in quanto manifestazione contingente da assorbire dentro l’universalità dell’Islam come differenza interna nella forma della dhimma o come parte integrante della singolarità musulmana. È noto infatti, come affermato da Majid Khadduri in un testo oramai classico di analisi del diritto islamico, che «il dar al-harb non può avere alcuno status di permanenza o normalità» nell’universalismo islamico, ponendo i suoi abitanti nella posizione di dover scegliere se adottare l’Islam o accettare lo statuto di «religione tollerata»28. Nel pensiero giurisprudenziale islamico, tuttavia, si dovette fare i conti con l’impossibilità storica di assorbire il dar al-harb e, dunque, con i costi di un jihad permanente. Un principio di pragmatismo rese necessario adeguare l’ideale normativo dell’universalismo islamico alla decisione politica, moderando la polarità contingente tra dar al-Islam e dar alharb. Centrali furono, a tal fne, nuove categorie giuridiche come il dar al-ahd (dimora della tregua) e il dar al-sulh (dimora della pace) in grado di avviare forme di stabilizzazione delle relazioni con terre non islamiche attraverso l’istituto della tregua o dell’armistizio. Si trattava, infatti, di terre con cui veniva stipulato un accordo volto a garantire la protezione di abitanti musulmani sotto governo straniero S. Qutb, Milestones, cit., p. 124. M. Khadduri, War and Peace in the Law of Islam (1955), The Lawbook Exchange Clark, NJ 2006, p. 145. 27 28

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e di popolazioni non musulmane all’interno del dar al-Islam, di fatto consentendo di normalizzare i rapporti con paesi non apertamente in guerra29. I termini della «tregua» – sottoposta a rinnovo perpetuo – tra dar al-Islam e dar al-ahd rimasero a lungo generici e indefniti. Mentre l’impianto normativo dell’universalismo islamico veniva preservato come potenza o idealità (mantenendo la categoria del dar al-harb), tali espedienti permisero a un principio di pragmatismo di organizzare la sfera politica sul piano della contingenza storica. Al termine del periodo espansionistico dell’Islam, nuovi dispositivi amministrativi accrebbero il carattere culturalmente inclusivo del dar al-Islam, temperando ulteriormente il suo potenziale antagonistico. Con il cosiddetto sistema dei millet, ad esempio, l’Impero ottomano era solito riconoscere autonomia istituzionale, religiosa e amministrativa a comunità religiose non musulmane – ebraiche, greche, armene, etc. – che potevano dunque godere di forme sostanziali di autogoverno30. A prima vista la posizione di Qutb sembrerebbe rimanere fondamentalmente radicata sulla opposizione contingente tra dar al-Islam e dar al-harb: C’è solo un posto in terra che può essere chiamato dar al-Islam, ed è il luogo in cui risiede il governo islamico, dove la sharia ha piena autorità, dove le limitazioni dettate da Dio vengono osservate, e i musulmani amministrano gli affari di governo attraverso la reciproca consultazione. Il resto del mondo è dar al-harb. Un musulmano può avere solo due possibili relazioni con il dar al-harb: la pace attraverso un accordo contrattuale o la guerra31.

Sebbene la categoria giuridica del dar al-ahd non sia mai menzionata direttamente nel testo, il passaggio qui citato evidenzia come l’impianto polarizzato dell’universalismo di Qutb accolga in principio la possibilità di un accordo formale con il dar al-harb che ne trasformerebbe di fatto lo status in dar al-ahd. Come si è visto, un tale accordo aprirebbe la strada a forme di mediazione politica e alla possibilità di regolarizzare, nel lungo termine, i rapporti tra dar al-Islam e dar al-harb nell’accadere storico. Fondato su un fondamentale antago29 R. H. Salmi, Islam and Confict Resolution: Theories and Practices, University Press of America, Lanham, MD 1998. 30 B. Braude e B. Lewis, Christians and Jews in the Ottoman Empire. The Functioning of a Plural Society, 2 voll., Holmes & Meier Pub, New York 1982. 31 S. Qutb, Milestones, cit., p. 124.

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nismo tra dar al-Islam e terre belligeranti, l’ideale dell’universalismo islamico sembra dunque avere il potenziale per adeguare la proiezione di una piena umanità nella società islamica alle esigenze del secolo. In questo senso, carattere essenziale dell’Islam politico nel Novecento non è stato tanto di esser Islam, quanto di essere politico. Una polarità ben più radicale, tuttavia, viene a deformare la tensione «contingente» tra dar al-Islam e dar al-harb al centro della visione normativa di Qutb, di fatto minando il potenziale politico insito nel suo orizzonte universalista. In Pietre miliari, tale polarità si produce per effetto di una caduta apocalittica, con la quale si spezza, in ultima analisi, la relazione inclusiva tra necessità e contingenza, relegando dar al-Islam e dar al-harb a due piani tra di loro contrastanti e ora irrimediabilmente disgiunti. Riteniamo che tale evenienza si profli appunto allorché Qutb introduce la nozione di jahiliyya, avviando la sua analisi critica della condizione umana contemporanea. 2. Jahiliyya e caduta apocalittica Nell’orizzonte islamista, la nozione di jahiliyyah – concetto islamico volto a designare l’età pre-islamica, e dunque il tempo dell’ignoranza precedente la Rivelazione di Muhammad – trova un impiego radicale nel discorso del pensatore pakistano Syed Abul A’ala Mawdudi (1903-1979). Riarticolando la nozione classica del dar al-harb come spazio della jahiliyyah, Mawdudi assume quest’ultima come una manifestazione storica, parziale e transitoria di miscredenza nel mondo di oggi che solo una vera una rinascita islamica può riassorbire. «Lettore appassionato» di Mawdudi32, Qutb ne radicalizza ulteriormente l’approccio. In Pietre miliari, la nozione di jahiliyyah segna il passaggio dall’ideale normativo dell’universalismo islamico – volto a defnire come una società dovrebbe essere in quanto espressione di una piena umanità – a un «registro descrittivo» inteso a valutare come la realtà odierna si presenti e appaia di fatto e a livello storico: «Se osserviamo le fonti e i fondamenti su cui poggia il modo di vivere dei moderni, è chiaro che il mondo intero è oggi sprofondato nella jahiliyyah»33. Non più utilizzata come semplice 32 33

J. Calvert, Sayyid Qutb and the Origins of Radical Islamism, cit., p. 213. S. Qutb, Milestones, cit., p. 11.

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attributo e sostituto del dar al-harb, prospettiva che ne avrebbe preservato la dimensione transitoria e parziale in competizione con il dar al-Islam, la nozione di jahiliyyah implica, nella visione descrittiva di Qutb, l’articolazione di una superfcie onnicomprensiva di miscredenza, tale da investire nella sua totalità lo spazio stesso del dar al-Islam. Estesa al «mondo intero», la jahiliyyah di Qutb esprime un’universalità senza esteriorità nell’accadere storico, indicando, al contempo, il segno della caduta apocalittica dei tempi. La società islamica è ora soppiantata da questa universalità, perdendo il suo radicamento normativo sul piano di contingenza. La società della jahiliyyah è qualsiasi società che non sia la società islamica; e se vogliamo una defnizione più specifca, possiamo dire che qualsiasi società che non si dedichi all’abbandono in Dio, nelle sue credenze e idee, negli adempimenti e obblighi del culto, e nelle sue norme è una società della jahiliyyah. Secondo questa defnizione, tutte le società esistenti nel mondo oggi sono società della jahiliyyah34.

Vari sono i tipi di società che Qutb prende in rassegna in Pietre miliari, includendole nello spazio generalizzato della jahiliyyah. Organizzate attorno a diversi credi, ideologie e culture, dal «comunismo» al «paganesimo», al «nazionalismo», le società della jahiliyyah comprendono anche società tradizionalmente protette come le società ebraiche e cristiane: «Tutte le società ebraiche e cristiane oggi sono, parimenti, società jahili. Esse hanno distorto le loro credenze originali, assegnando alcuni degli attributi di Dio agli uomini»35. Se nella visione normativa di Qutb le popolazioni cristiane ed ebraiche sono incluse nello spazio del dar al-Islam nella forma dei dhimmi, la loro ricollocazione nello spazio della jahiliyyah segna una radicalizzazione della posizione di Qutb al momento di defnire la compatibilità delle società umane esistenti all’Islam. Sintomatica, in tal senso, è l’inclusione delle società musulmane stesse nella realtà della jahiliyyah: «Infne, tutte le cosiddette società “musulmane” esistenti sono pure società jahili [...]. Sebbene tali società rispettino il credo dell’unità di Dio, esse hanno ugualmente conferito la facoltà legislativa di Dio ad altri soggetti, sottomettendosi a queste autorità da cui derivano ora i loro sistemi»36. Ivi, p. 80. Ivi, p. 81. 36 Ivi, p. 82. 34 35

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Benché collegato al registro normativo, il registro descrittivo di Qutb ne produce dunque una trasformazione strutturale, modifcandone la dinamica inclusiva. Da un punto di vista generale, questa trasformazione evidenzia una logica di sostituzione. Il dar al-Islam è ora sostituito dalla jahiliyyah universale sul piano della contingenza, permanendo quale pura idealità e potenza nel solo piano di necessità. Dismettendo il suo statuto di manifestazione parziale e contingente, la società islamica si caratterizza così come pura assenza nell’accadere storico. Consustanziale all’universalizzazione della jahiliyyah sul piano descrittivo è infatti la virtualizzazione dell’umma, il suo farsi promessa e mera virtualità. Secondo la nostra immutabile defnizione di civiltà, la società islamica non è solo un’entità del passato da studiare nella storia, ma è una richiesta del presente e una speranza per il futuro. L’umanità può ritrovare dignità, oggi o domani, sforzandosi verso questa nobile civiltà, emergendo dall’abisso della jahiliyyah in cui è caduta37.

Sebbene la distinzione tra piano necessario e piano contingente sia mantenuta, la dinamica inclusiva e universalistica che collega i due livelli nella visione normativa viene così ad essere troncata. Non più concreta manifestazione storica, il dar al-Islam perde la sua capacità connettiva tra i due piani. L’universalità assoluta e onnipresente della jahiliyyah nello stato di contingenza si oppone ora all’universalità della società islamica nello stato di necessità. In luogo dell’universalismo normativo di Qutb rappresentato dalla dinamica inclusiva della striscia di Möbius possiamo ora immaginare la sua visione descrittiva come la sovrapposizione di due cerchi, espressione di due totalità chiuse ­– due universalità: la jahiliyyah universale sull’intero spettro di contingenza e la società islamica nel dar al-Islam, ora pura virtualità nello stato di necessità. In termini fgurativi, l’emergere di due cerchi sovrapposti segna la disgiunzione tra il piano di necessità e il piano di contingenza e l’organizzazione di un modello spaziale fortemente polarizzato, in qualche modo allineato alla struttura binaria dello spazio nazionale. Ne derivano, a nostro avviso, due tendenze principali e tra di loro alternative, oggi entrambe presenti nella militanza islamista. 37

Ivi, p. 103.

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Da un lato, lottare e «sforzarsi» per la società islamica – ricordiamo che signifcato profondo di jihad è appunto «sforzo», da intendersi in senso spirituale, non solo bellico, come «sforzo su sé stessi» (jihad al-nafs) – può signifcare ristabilire il dar al-Islam nel piano di contingenza. Ciò implica promuovere la sua attualità, recuperando la funzione connettiva del dar al-Islam tra stato di contingenza e stato di necessità e insieme la sua qualifca eminentemente politica come ordine di scelta e decidibilità all’interno di una dinamica universalista. Dall’altro, «sforzarsi» per la società islamica può signifcare impegnarsi e consegnarsi a una pura virtualità, assumendo la polarizzazione tra Islam e jahiliyyah e tra necessità e contingenza come insanabile e defnitiva. Nella forma più estrema dell’uccidibilità, questa divaricazione esprime l’alternativa implacabile tra uccidersi per uccidere e uccidere per uccidersi. Percorrendo questa seconda possibilità, lungi dal riaffermare la presenza dell’Islam nel qui storico dove concreti interessi politici e forme di compromesso possono sempre essere trovate, ogni resistenza alla jahiliyyah è votata alla celebrazione salvifca della catastrofe e, insieme, alla purifcazione necessaria per quell’aldilà dove solo ha dimora la società islamica. Ogni resistenza alla jahiliyyah è qui paradossale, essendo quest’ultima segno della caduta dei tempi e precondizione del giorno del giudizio (yawm ad-din). Il potere di questa resistenza non trattiene, non contiene, non «frena», ma affretta. Una posizione assertiva e classicamente revivalista sembrerebbe, a nostro giudizio, caratterizzare il pensiero di Qutb, superando le tendenze più apocalittiche e per certi versi millenaristiche pure presenti nel testo. La visione normativa sembrerebbe affermarsi su quella descrittiva. Innanzi all’abisso della jahiliyyah nel mondo contemporaneo, è compito irrinunciabile del vero credente affermare l’ideale normativo dell’Islam, la necessità di recuperare l’universalità inclusiva del dar al-Islam. Da qui l’incipit di Pietre miliari: «Il genere umano si trova oggi sull’orlo della distruzione […] In questo frangente cruciale e sconcertante è arrivato il turno dell’Islam e della comunità musulmana»38 (Qutb 1964/2006, 8). Per Qutb, la nozione di jihad, al tempo stesso «sforzo» e «lotta» nel cammino dell’Islam, emerge quale principio centrale, dovere e metodo di riaffermazione della società islamica nella storia e testimonianza della 38

Ivi, p. 8.

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centralità di Dio: «in modo che alcun muro possa ancora ergersi tra l’Islam e i singoli esseri umani»39 e siano infne rimosse quelle «istituzioni e tradizioni che limitano la libertà di scelta dell’uomo»40. Come defnire allora lo statuto del credente in questo contesto? Una pratica discorsiva comune tra i movimenti islamisti sin dai tempi della fondazione della Fratellanza è stata quella di pensare l’Islam come una forza dormiente all’interno delle società islamiche che solo lo sforzo attivo dei credenti può risvegliare. Pur condividendo con i termini «musulmano» (muslim) e «Islam» la radice slm, il termine «islamista» (al-Islamiyyun) è stato così spesso impiegato per evidenziare una pratica di fede attiva e assertiva. In linea con questa distinzione, per Mawdudi, i musulmani di oggi sono in maggioranza credenti «parziali», in quanto hanno confnato la pratica islamica a un affare privato, una mera dimensione spirituale e culturale. L’Islam è vissuto come la «semplice parte» di un tutto, mentre ad altre fonti si attinge per i restanti aspetti della vita41. Di contro, il «vero musulmano» è colui che vive il messaggio islamico integralmente, in ogni aspetto della vita quotidiana, e attivamente, sforzandosi di riportarlo al centro del vivere sociale. Per Mawdudi, tuttavia, parziali e veri credenti sono in ogni caso entrambi espressione di una sola umma – nessun credente può esserne escluso. Riprendendo questa distinzione, Qutb ne radicalizza la portata. Se l’Islam non è più dormiente o parziale nelle società musulmane, ma è adesso assente come manifestazione contingente, il credente parziale è allora certamente immerso nell’orizzonte pervasivo della jahiliyyah, espressione della caduta dei tempi al di fuori dell’umma. Ma come pensare «i veri musulmani», coloro i quali lottano per ripristinare la società Islamica e il messaggio di Qutb? In che modo la presenza «onnicomprensiva» della jahiliyyah li qualifca e caratterizza nell’accadere storico? È questo un nodo cruciale che costringe Qutb a formulare una qualche nozione di comunità islamica nello stato di contingenza della sua visione descrittiva. Se l’umma permane come sola «richiesta del presente e una speranza per il futuro», i veri credenti sembrerebbero allora «anticipare» la società islamica a venire. La Ivi, p. 72. Ivi, p. 75. 41 A. A. Mawdudi, Let Us Be Muslim, Islamic Foundation, Leicester 1982, pp. 116-117. 39 40

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«comunità» dei veri credenti non nega la valutazione generale dello stato di contingenza quale espressione universale di jahiliyyah, poiché tale comunità non può che emergere nella forma di un simulacrum, pura apparizione e anticipazione virtuale della società islamica. Da qui, ancora, la logica di sostituzione del modello descrittivo di Qutb. Mentre il dar al-harb nella sua visione normativa fgura come un simulacrum a livello di contingenza, esprimendo l’universalità islamica come potenzialità, è la comunità dei veri credenti ora a ricoprire questa posizione a livello di contingenza, espressione della società islamica che verrà e strumento della sua realizzazione. Come iniziare il compito di far rivivere l’Islam? È necessario che vi sia un’avanguardia e che essa proceda con questa determinazione, continuando a camminare sul sentiero, a marciare attraverso il vasto oceano della jahiliyyah che ha racchiuso l’intero pianeta. Nel suo cammino, essa dovrà riuscire a mantenersi in qualche modo distaccata da questa jahiliyyah che tutto abbraccia, pur rimanendo ad essa legata. [...] Ho scritto Pietre miliari per questa avanguardia, che considero una realtà ormai pronta a materializzarsi42.

Anticipazione virtuale di una promessa, l’avanguardia islamica di Qutb rifette dunque una condizione paradossale, come ben evidenziato dall’espressione «in qualche modo distaccata». Essa è al contempo parte integrante del «vasto oceano della jahiliyyah», e al di là di essa. Per il singolo vero credente non rimane, da questa posizione ambivalente, che riunirsi ad altri singoli veri credenti nella concezione spettrale dell’avanguardia. Immerso in «questa jahiliyyah che tutto abbraccia», tra credenti parziali e non musulmani, egli è infatti confnato a una singolarità dispersa e frammentata. Dedicarsi alla società islamica signifca, per Qutb, votarsi a una lealtà esclusiva, anche contro quanti, tra gli affetti più vicini, dichiarino «la loro alleanza con i nemici dell’Islam», alleanza che porrebbe il vero credente nella condizione estrema di interrompere «tutte le relazioni fliali»43. In continuità con questa visione, non sorprende che attivisti o semplici sostenitori di formazioni storiche come Hizb ut-Tahrir e al-Muhajiroun o di organizzazioni apertamente legate al terrorismo islamico come al-Qaeda e Daesh abbiano spesso esaltato il senso comune di appartenenza a una «avanguardia d’élite» della so42 43

S. Qutb, Milestones, cit., p. 12. Ivi, p. 119.

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cietà islamica a venire44. Lungi dal riaffermare l’ideale di ripristino dell’umma nell’accadere storico, questa avanguardia si mobilita attorno a una mera istanza apocalittica, superando il pessimismo pure presente nel pensiero di Qutb. Slegata da ogni ideale normativo, l’avanguardia islamica anticipa così la venuta della società islamica in un tempo che non è più quello storico, in quanto essa solo può darsi fuori dal secolo e dalla storia. Da qui, l’orizzonte fantasmatico entro cui si muovono, per Olivier Roy, i mujahidin contemporanei, «pessimisti perché sanno che non c’è più una fortezza da proteggere, che il nemico è nella fortezza», «assediati in una fortezza in cui non abitano»45. La spettralità dell’orizzonte jihadista è oggi ben incarnata, come ricorda Roy, dall’astrattezza spaziale e temporale del referente Sham – variamente inteso, anche nel nome originario di Daesh, come la provincia storica del Levante e l’entità territoriale della Siria contemporanea – che molti giovani musulmani europei adottano nella loro militanza per conto dello Stato Islamico46. La relazione apocalittica tra avanguardismo e jahiliyyah che il jihadismo globale ha articolato negli ultimi anni testimonia dunque tutta l’infuenza della visione escatologica di Qutb. Se il suo pensiero ha saputo rappresentare «una specie di fnestra nel mondo della pratica politica fondamentalista islamica contemporanea»47, è al cuore del rapporto tra teologia e politica in Pietre miliari che possiamo rinvenire il luogo di emergenza dell’odierno immaginario jihadista. Non più riconducibile alle forme politiche della Fratellanza Musulmana e dell’islamismo cosiddetto mainstream, esso ripercorre oggi il crinale qutbiano qui esaminato, ai margini tra caduta apocalittica e salvifca alla fne della storia e universalismo inclusivo e assertivo del dar al-Islam.

44 M. R. Habeck, Knowing the Enemy: Jihadist Ideology and the War on Terror, Yale University Press, New Haven 2006, p. 144. 45 O. Roy, L’Islam mondialisé, cit.; tr. it. cit., p. 289. 46 Id., Le Djhihad et la Mort, Éditions du Seuil, Paris 2016; tr. it. Generazione ISIS. Chi sono i giovani che scelgono il Califfato e perché combattono l’Occidente, Feltrinelli, Milano 2017. 47 R. L. Euben, Enemy in the Mirror, cit., pp. 55-56.

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Genealogie del governo. La questione del potere pastorale in Michel Foucault Laura Cremonesi

1. Il potere pastorale: un dispositivo teologico-politico? In molte delle descrizioni più effcaci che ne sono state fatte, un dispositivo teologico-politico si caratterizza in primo luogo per la propria «compattezza». Esso si struttura infatti in modo tale da rendere diffcile non solo praticarne concretamente un’«uscita», ma persino percepire i possibili tracciati di vie di fuga. A esser di diffcile visibilità è infatti l’esistenza stessa del dispositivo che, una volta instauratosi, ci circonda con una serie di abitudini di pensiero e di automatismi che fniscono con renderlo a tal punto parte integrante del nostro orizzonte pratico e concettuale, da farlo divenire trasparente al nostro sguardo. Di questa capacità del dispositivo teologico-politico, tratta Roberto Esposito in Due. La macchina della teologia politica e il posto del pensiero1, che si apre proprio sulla diffcoltà di assumere quella distanza necessaria per uscire dal dispositivo o, più semplicemente, per assurgerlo a tema del discorso: come se l’«uscita» richiedesse di superare un ostacolo di natura, prima che pratica, teorica e categoriale. Parliamo e pensiamo all’interno del dispositivo, con le sue categorie, con il suo lessico e con i suoi concetti, che sono dunque i primi impedimenti per una presa di parola sul dispositivo, che sia anche una presa di distanza dai confni del suo orizzonte: L’ostacolo di fondo a penetrare nell’orizzonte della teologia politica sta, insomma, nel fatto che ci troviamo già al suo interno. È per questo che si R. Esposito, Due. La macchina della teologia politica e il posto del pensiero, Einaudi, Torino 2013. 1

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dimostra inafferrabile – non perché la sua porta d’ingresso sia sbarrata, ma perché l’abbiamo da tempo immemore varcata, prima che essa si richiudesse alle nostre spalle impedendoci di uscire. Da qui l’impossibilità di assumere la distanza che sola consente uno sguardo analitico e critico. Come accade quando si è dentro un ambiente fno a confondersi con i suoi elementi, o quando si guarda un oggetto troppo da presso, è impossibile riconoscerne i contorni. Per farlo […], dovremmo attivare su di essa uno sguardo esterno, esprimerci in un linguaggio diverso dal suo. Ma proprio ciò è interdetto da un eccesso di vicinanza che ci schiaccia sulle sue pareti interne2.

Un analogo nodo problematico era stato incontrato da Michel Foucault, che aveva sperimentato, nelle sue molteplici descrizioni di dispositivi, la stessa diffcoltà a uscire da un orizzonte teorico e politico interamente disegnato da essi, dalla loro capacità di fssare in relazioni di potere stabilite la posizione del soggetto di conoscenza all’interno dei campi di sapere. Come vedere e dire un dispositivo che fssa in anticipo i campi di visibilità e dicibilità, ovvero il partage tra ciò che può – o non può – essere visto e detto? Una critica, questa, da subito rivolta a Foucault, sin dai suoi primi lavori sul potere disciplinare, e che non ha mai cessato di riemergere anche in seguito, a proposito del dispositivo di sessualità, della governamentalità o della costituzione dell’homo oeconomicus. La descrizione del potere offerta da Foucault in Sorvegliare e punire3 – scriveva, ad esempio, Cacciari in un articolo apparso su «aut aut» nel 1977 e che ebbe ampia risonanza – ci mette di fronte a una circolarità che esclude la possibilità di ogni agire politico4. Nel disciplinare, in effetti, tutto può apparire intrappolato in relazioni di potere talmente stringenti da confgurare il soggetto stesso dell’azione e della conoscenza, saturando il campo di ogni azione e di ogni parola possibili. Analogamente, ne La volontà di sapere5 Foucault sembra render vana, se non pericolosa, quella presa di parola sul sesso, cui i movimenti politici degli anni Sessanta e Settanta avevano conferito una potente capacità liberatoria. Al conIvi, p. 3. M. Foucault, Surveiller et punir. Naissance de la prison, Gallimard, Paris 1975; tr. it. Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 1976. 4 M. Cacciari, “Razionalità” e “Irrazionalità” nella critica del Politico in Deleuze e Foucault, «aut aut», 161, settembre-ottobre 1977, pp. 119-133. 5 M. Foucault, Histoire de la sexualité I. La volonté de savoir, Gallimard, Paris 1976; tr. it. Storia della sessualità 1. La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 1978. 2 3

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trario, per Foucault, il discorso sul sesso è un elemento centrale di quelle tecniche di potere che delimitano il campo della sessualità, disegnandone il partage tra normalità e anormalità. Inutile, quindi, liberare il desiderio, se esso è il primo appiglio per una cattura del potere sulla nostra soggettività. Di nuovo, il dispositivo della sessualità sembra chiudersi su sé stesso, senza lasciare vie di fuga e, in unisono con quello medico e giuridico, iscrive la propria azione in promesse di liberazione, salvezza o guarigione, dietro la quali si cela la messa in opera di potenti tecnologie di potere. Chiusura e invisibilità sembrano dunque essere, anche in Foucault, le due principali caratteristiche dei dispositivi che egli descrive: riprendendo le parole di Esposito, essi chiudono la porta alle nostre spalle, rendendoci diffcile anche solo percepire di essere al loro interno. Il fatto che Foucault avesse avvertito questa diffcoltà, è stato ben messo in luce da Gilles Deleuze che, nel suo saggio dedicato all’amico, sottolinea come tutte le ricerche svolte da Foucault a proposito delle pratiche di soggettivazione debbano essere intese come un tentativo – riuscito – di «varcare la linea»6 e di individuare, all’interno dei dispositivi, le linee di fuga praticabili. La domanda: «come varcare la linea?» diviene dunque la questione centrale su cui si concentrerà Foucault alla fne degli anni Settanta, dopo la pubblicazione de La volontà di sapere, testo che, più di altri, sembrava descrivere un dispositivo dai confni invalicabili. Per rispondere alla domanda, secondo Deleuze, Foucault non deve far altro che proseguire una delle direzioni del suo pensiero, già in atto anche nelle sue descrizioni di dispositivi degli anni Settanta: non si dà potere senza punti di resistenza, «che sono in un certo senso primari»7. Nel lessico deleuziano, si tratta di mettere in evidenza una delle linee di forza del dispositivo, quella dei modi di soggettivazione, seguendo una strada che fno ad allora Foucault aveva intravisto, ma non percorso fno in fondo. Ed è proprio assumendo a guida il lessico deleuziano, che questo articolo intende proporre un’analisi di uno dei dispositivi descritti da Foucault, quello del potere pastorale. Foucault ne offre una panoramica nel 1978, in vari articoli e conferenze, ma in particolare nel Corso al Collège de France intitolato Sicurezza, territorio, po6 G. Deleuze, Foucault, Éditions de Minuit, Paris 1986; tr. it. Foucault, Feltrinelli, Milano 1987, p. 103. 7 Ibid.

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polazione8, pubblicato integralmente nel 2004. Per molti aspetti, quello del potere pastorale, più di altri, si presta a essere letto come un dispositivo teologico-politico9: Foucault radica infatti la genesi delle attuali tecniche di governo nelle antiche pratiche di condotta degli uomini, sviluppate dal cristianesimo dei primi secoli. Lo scopo di questo articolo è quello di mostrare come, nella descrizione stessa di questo dispositivo, Foucault riesca a mettere in luce i suoi possibili punti di rottura. 2. La fragilità del dispositivo In Sicurezza, territorio e popolazione l’orizzonte del dispositivo non appare così compatto da non poter essere intaccato. Nei suoi margini si intuiscono infatti dei varchi che, nella storia, sono stati effettivamente aperti, anche se, di frequente, il dispositivo si è rapidamente richiuso, riportando al suo interno ciò che tentava di valicare i suoi confni, ricatturando – secondo un lessico più propriamente foucaultiano – nelle maglie di potere ciò che si era dato come resistenza. Altri varchi – aspetto, questo, senz’altro più interessante – non sono mai stati chiusi, ed hanno accompagnato il dispositivo sin dalla sua prima messa in atto. Si tratta di aperture che precedono, cronologicamente, l’affermazione del dispositivo, e contro cui il potere pastorale si è da subito battuto e che ha da subito tentato di bloccare. In questa descrizione foucaultiana del potere pastorale, i margini appaiono dunque meno solidi di quanto ci si potrebbe aspettare. Nella sua storicità, e nella storicità delle rotture che si sono effettivamente date, il dispositivo mostra la sua essenziale fragilità, rompendo quella rappresentazione di ineluttabilità e impermeabilità, così spesso imputata alle analisi di Foucault. 8 M. Foucault, Sécurité, territoire, population. Cours au Collège de France 1977-1978, a cura di M. Senellart, Seuil-Gallimard, Paris 2004; tr. it. Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France 1977-1978, a cura di P. Napoli, Feltrinelli, Milano 2005. 9 In direzione contraria va invece la lettura di Michel Senellart, Michel Foucault: une autre histoire du christianisme?, «Bulletin du centre d’études médiévales d’Auxerre», 7, 2013. La lettura del pastorato foucaultiano come dispositivo teologico-politico presentata in questo articolo è resa possibile dai fondamentali lavori di E. Stimilli, Il debito del vivente. Ascesi e capitalismo, Quodlibet, Macerata 2011 e Debito e colpa, Ediesse, Roma 2015.

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Dopo aver analizzato il modo in cui Foucault mette in atto questa descrizione «fragilizzante» del dispositivo, il presente articolo tenterà di mostrare come i movimenti di rottura storicamente avvenuti siano connessi, da Foucault, all’attività della critica, intesa proprio come quella pratica che ha per scopo l’apertura di un nuovo campo di visibilità sul dispositivo. In questo campo, esso apparirà in una fgura in cui le linee in risalto saranno quelle della sua fragilità. Si tratta di offrirne un disegno in cui balzino agli occhi la precarietà del dispositivo, dovuta al suo essere storicamente dato e, di conseguenza, la possibilità storica del suo venir meno. In quest’analisi del modo in cui Foucault descrive il dispositivo pastorale, farà da guida il breve testo di Deleuze, Che cos’è un dispositivo?10, pronunciato durante il primo grande convegno internazionale dedicato a Foucault, a Parigi, nel 1988. Per Deleuze, il dispositivo foucaultiano si presenta come un incrocio di linee di diversa natura, continuamente in stato di mobilità e mai stabilmente defnite. Durante tutto il suo percorso flosofco, Foucault ne ha individuati quattro diversi insiemi. Non si tratterebbe, però, di un apparire simultaneo, dato che i vari tipi di linee avrebbero fatto il loro ingresso nel pensiero di Foucault in tempi successivi. Il primo ad apparire è quello delle linee di visibilità e di enunciabilità, che emerge già dai lavori degli anni Sessanta, come Le parole e le cose11 e L’archeologia del sapere12, ma che non cessa di svolgere un ruolo importante anche in seguito. Quel che Foucault mostra, è che ogni dispositivo possiede un proprio regime di luce, ovvero un modo in cui la luce cade e illumina i contorni di certi oggetti, lasciandone in ombra altri. Si tratta di una distribuzione di visibile ed invisibile che varia, storicamente, da un dispositivo all’altro e che può organizzarsi, come accade ad esempio nel dispositivo disciplinare, nella forma di Panottico13, il famoso modello architettonico di prigione 10 G. Deleuze, Qu’est ce qu’un dispositif, in Michel Foucault philosophe. Rencontre international. Paris 9, 10, 11 janvier 1988, Seuli, Paris 1989, pp. 184-195; tr. it. Che cos’è un dispositivo?, Cronopio, Napoli 2007. 11 M. Foucault, Les mots et les choses. Une archéologie des sciences humaines, Gallimard, Paris 1966; tr. it. Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, Rizzoli, Milano 1967. 12 Id., L’archéologie du savoir, Gallimard, Paris 1969; tr. it. L’archeologia del sapere, Rizzoli, Milano 1971. 13 Cfr. Id., Surveiller et punir, cit., pp. 228-264; tr. it. cit., pp. 213-247.

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in cui è organizzata una visibilità che fa sì che i prigionieri siano permanentemente in piena luce, sotto lo sguardo del sorvegliante. A questo primo insieme appartengono inoltre le linee di enunciazione, che determinano anch’esse una distribuzione, questa volta non della luce, ma del dicibile e non dicibile, che fa sì che determinati enunciati entrino, o cadano fuori, da un determinato regime discorsivo. Le linee di questo primo insieme – visibilità e enunciabilità – formano dunque il campo del sapere, con i suoi partage tra ciò che può essere visto e detto e ciò che invece non si trova più – o non ha ancora fatto ingresso – nei modi di conoscenza di una determinata epoca. Più tardi, nei primi anni Settanta, farà la sua comparsa nei lavori di Foucault anche il secondo insieme, quello delle linee di forza, che passano da ogni punto del dispositivo e si intrecciano con quelle del sapere, formando dei nodi in cui le due dimensioni – sapere e potere – si situano sullo stesso livello, infuenzandosi a vicenda. L’ultimo ad apparire è dunque l’insieme delle linee di soggettivazione: il momento della sua «scoperta» corrisponde infatti, secondo Deleuze, proprio a quello della percezione dell’eccessiva «chiusura» dei dispositivi, dell’impossibilità di «varcare la linea», avvertita da Foucault alla fne degli anni Settanta. Secondo la lettura che ne offre Deleuze, il rischio di aver descritto dispositivi bloccati su linee di sapere e di forza troppo rigide sarebbe apparso, in quegli anni, in modo sempre più chiaro a Foucault che, proprio per evitare una perdita di mobilità dei dispositivi, si sarebbe trovato nella necessità di pensare dei vettori capaci di oltrepassare i confni e di mantenere in movimento le linee. La linea, però, prosegue Deleuze, è oltrepassabile solo attraverso una curvatura, ovvero solo con un ritorno delle linee di forza su sé stesse. Così, ad esempio, nella prima forma di soggettivazione studiata da Foucault, quella della polis greca, la linea di forza nata dalla rivalità tra uomini liberi si curva su sé stessa, grazie all’idea che, per comandare gli altri, occorra in primo luogo sapere dominare sé stessi: la linea di forza della padronanza degli altri si piega nella linea di soggettivazione della padronanza di sé14. L’insieme delle linee di soggettivazione non si confgura, quindi, come una vera e propria uscita dai confni del dispositivo, bensì come una piegatura, un esercizio dei primi due insiemi di linee – quelli del sapere e del potere – su sé stessi. Id., Histoire de la sexualité II. L’usage des plaisirs, Gallimard, Paris 1984; tr. it. Storia della sessualità 2. L’uso dei piaceri, Feltrinelli, Milano 1984. 14

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Non è, dunque, quest’ultimo insieme ad offrire una modifcazione radicale dei confni del dispositivo e delle sue linee di forza o, quantomeno, non da solo, senza il quarto insieme di linee, che attraversa, da sempre, ogni dispositivo: quello delle linee di «incrinatura»15, che possono divenire vere e proprie linee di frattura e modifcare, così, irreversibilmente gli altri insiemi, segnando il passaggio a un nuovo dispositivo. Ai fni della questione centrale di questo articolo – quella del potere pastorale e delle possibilità di fragilizzarlo – uno dei punti più interessanti di questa descrizione deleuziana dei dispositivi di Foucault sta nel modo in cui vi viene trattato il problema della soglia tra due dispositivi e del modo in cui può avvenire la frattura che determina la fne di un dispositivo e il passaggio a uno nuovo. Secondo Deleuze, infatti, le linee del dispositivo si distinguono anche per la funzione che svolgono: esse possono infatti avere un ruolo di sedimentazione, che contribuisce alla fssità del dispositivo o, inversamente, un ruolo di attualizzazione, che garantisce invece la mobilità del dispositivo e dà impulso alla sua continua trasformazione – trasformazione che, in determinate circostanze, può volgere in rottura. In altri termini, in ogni dispositivo è presente una parte di storia e di archivio, che corrisponde alle linee più fsse e sedimentate, ma anche una parte di attualità e di creazione, che coincide con le linee di trasformazione e che, se in molti casi garantisce la vitalità e l’effcacia del dispositivo, in altri può portare al suo tramonto. Ora, occorre sottolineare che non necessariamente il tramonto di un dispositivo implica l’apertura di uno spazio di libertà. All’inverso, per Deleuze il tramonto delle discipline si confgura in termini di insediamento di un dispositivo di controllo, se possibile ancora più sottilmente pervasivo di quello disciplinare: «le discipline descritte da Foucault», scrive Deleuze, «sono la storia di ciò che poco a poco cessiamo di essere, mentre la nostra attualità si delinea in termini di controllo»16. Tuttavia, nel passaggio da un dispositivo a un altro, sulla soglia tra linee di sedimentazione e linee di attualizzazione, non tutto è scritto. I momenti di passaggio sono particolarmente fecondi ed è in essi, nel margine, che più che in ogni altro punto della storia 15 16

G. Deleuze, Qu’est ce qu’un dispositif?, cit., p. 188; tr. it. cit., p. 20. Ivi, p. 198; tr. it. cit., p. 28.

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emergono le linee di soggettivazione. Sono queste, più delle altre, che tendono a farsi linee di attualizzazione, che spingono verso il bordo e impediscono la fssazione del dispositivo. La particolare irrequietezza di queste linee è ben descritta da Deleuze: Sfuggendo alle dimensioni del sapere e del potere, le linee di soggettivazione sembrano particolarmente capaci di tracciare percorsi [chemins] di creazione, che non smettono di abortire, ma anche di essere ripresi e modifcati, fno alla rottura del vecchio dispositivo.17

Certo, questa forza creativa delle linee di soggettivazione può anche cadere nel nulla: una ricattura o «una ricaduta del dispositivo sulle sue linee di forza più solide»18 è sempre possibile, così come lo è un reinvestimento delle linee di soggettivazione in un altro dispositivo, altrettanto potente del precedente. Tuttavia, questa potenzialità di creazione delle linee di soggetivazione per Deleuze è evidente. Questa descrizione di Deleuze si apre a due possibili interpretazioni. Il fatto che le linee di soggettivazione si situino sul bordo del dispositivo può lasciar intendere che, nei dispositivi foucaultiani, nuove forme di soggettività emergano, storicamente, solo nel margine tra archivio e attualità e che solo nel passaggio tra un dispositivo e un altro si apra lo spazio per una soggettivazione possibile. Si può però anche pensare che, per Deleuze, Foucault non si fosse limitato a una constatazione storica (qual è, di fatto, il momento più favorevole all’emergere di nuove forme di soggettività), ma che avesse inteso mostrare una specifca capacità delle linee di soggettivazione, quella di spingere verso la soglia, di incrementare le incrinature che porteranno alla frattura. È evidente che, se si accettasse l’ipotesi della capacità delle linee di soggettivazione di incrinare il dispositivo, la strada per la fragilizzazione e la criticabilità dei dispositivi apparirebbe, in Foucault, agevolmente tracciata. Un insieme inedito di forme e tecniche di soggettivazione, magari forgiate sul modello di quelle greche e romane, che possedevano ampi margini di autonomia, offrirebbe un chiaro punto di partenza per l’apertura dei confni del dispositivo. Come sarà, invece, possibile constare dalla descrizione del potere pastorale, la strada seguita da Foucault non è così lineare: la questione della fra17 18

Ivi, 190; tr. it. cit., p. 26. Traduzione modifcata. Ibid.

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gilizzazione del dispositivo non si risolve nell’assunzione di una nuova tecnologia del sé, anche se, indubbiamente, la questione della costituzione del soggetto tramite pratiche storicamente situate vi svolge un ruolo importante. Ad ogni modo, l’insieme di questioni sollevate da Deleuze potrà dunque fare da guida nell’analisi del modo in cui Foucault delinea i contorni del potere pastorale, intendendolo come matrice delle moderne forme di governo. Si tratta di comprendere in che modo Foucault attui la descrizione di questo dispositivo che, a suo parere, costituisce ancora oggi l’orizzonte entro cui ci muoviamo, e in che modo ne tracci alcune linee di fuga. 3. Le controcondotte pastorali Come le altre sue ricerche di quegli anni, il percorso che conduce Foucault ad occuparsi del potere pastorale è costituito da una genealogia. In Sicurezza, territorio, popolazione19, Foucault sta infatti cercando la genesi storica di una pratica di potere che, a suo avviso, ha affancato il potere disciplinare e il suo controllo dei corpi individuali, per assicurare una gestione dei processi vitali delle popolazioni. È la tesi, ben nota, proposta da Foucault a conclusione de La volontà di sapere, per cui all’anatomo-politica del corpo umano, già descritta in Sorvegliare e punire, nel XVIII secolo si sarebbe sovrapposta una biopolitica delle popolazioni20. Se quello disciplinare è dunque un potere legato al corpo individuale, destinato ad accrescerne le forze, a comporle con quelle degli altri individui e a fssarle localmente a un apparato produttivo, quello biopolitico presenta invece un’inedita capacità di gestire una moltitudine di individui, facendo presa non sulle capacità dei singoli componenti, ma sui fenomeni che riguardano tutto l’insieme, ovvero sui processi biologici dell’intera popolazione, come quelli legati ai tassi di natalità, di mortalità, al livello generale di salute, etc. La strategia di potere pertinente, in questo caso, è quella della gestione che, a differenza della disciplina, si fa carico dei fenomeni della popolazione lasciandoli fuire, e non bloccandoli entro confni dati, come accade nella circolarità chiusa del Panopticon. 19 20

M. Foucault, Sécurité, territoire, population, cit., p. 126 e sg.; tr. it. cit., p. 98 e sg. Cfr. Id., La volonté de savoir, cit., pp. 175-211; tr. it. cit., pp. 119-142.

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La genesi da rintracciare è dunque quella di un potere non radicato (o radicante) in uno spazio fsso, ma di un potere delocalizzato, capace di indirizzare una molteplicità nei suoi movimenti. Ecco dunque che l’immagine che emerge con forza è quella del pastorato, ovvero del pastore che porta il gregge ai pascoli, assicurandone i bisogni vitali e il benessere materiale. Con una breve ricognizione storica, Foucault mostra l’estraneità dell’immagine alla cultura antica, greca e romana, per rintracciarne l’origine nel tema ebraico di Dio che si pone alla testa del suo popolo e lo guida, assicurandone sussistenza materiale e salvezza spirituale. Lo sviluppo del tema in concrete pratiche di conduzione si realizza, però, soltanto con il cristianesimo dei primi secoli che, con le sue tecniche, trasforma quello che era un semplice tema in un vero e proprio dispositivo, dotato delle proprie linee di sapere, di forza e di soggettivazione, diverse da quelle che marcavano la cultura greca, ellenistica e romana. Un reale centro di sperimentazione di queste tecniche è stato offerto, secondo Foucault, dal modo in cui si sono gradualmente affermate e stabilizzate le regole della vita monastica, tra il IV e il V secolo d.C., e di cui offrono testimonianza le opere di Cassiano21. Questo ambito estremamente ristretto è infatti il luogo in cui si sono per la prima volta messe in atto quelle tecnologie di governo che formeranno, in seguito, il nucleo del dispositivo attuale e che orienteranno tutte le sue linee di forza. Da un certo punto di vista, si può dire che la vita monastica offra una matrice ad ognuno dei tre insiemi principali di linee di forza del dispositivo attuale e che contribuisca a delineare i contorni di quell’orizzonte che, ancora oggi, ci appare invalicabile. Gli assi portanti del dispositivo pastorale sono dati, per Foucault, dal particolare intreccio tra obbedienza, confessione e assoggettamento22 che si realizza nella direzione di coscienza cenobitica. Ad attrarre l’attenzione di Foucault è il fatto che, sin dal loro ingresCfr. Id., Sécurité, territoire, population, cit., pp. 166-232; tr. it. cit., pp. 123-164. Dubbi sull’accuratezza storica della ricostruzione di Foucault e sulla correttezza del rilievo dato a determinati aspetti del cristianesimo a scapito di altri, sono stati sollevati da Philippe Chevallier, Michel Foucault et le christianisme, ENS Éditions, Lyon 2011. 22 Sulla duplicità del termine soggetto [sujet], che rinvia sia all’idea di assoggettamento [assujettissement], sia a quella di soggettivazione [subjectivation], cfr. L. Cremonesi, O. Irrera, D. Lorenzini, M. Tazzioli (a cura di), Foucault and the Making of Subjects, Rowman & Littlefeld, London 2016. 21

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so nella comunità monastica, i monaci fossero sottoposti, per tutta la vita, a una guida su ogni dettaglio della loro esistenza quotidiana, e fossero condotti a praticare un’obbedienza illimitata, a tratti irragionevole, al loro superiore. Nell’analisi che Foucault ne propone, la direzione e l’obbedienza monastiche avevano lo scopo primario di produrre, nel diretto, uno stato di rinuncia permanente alla volontà, che si realizzava attraverso un meccanismo di riconduzione continua della volontà propria su quella, esterna, del direttore. Per attuarsi, questo meccanismo di riconduzione della volontà richiedeva anche che il diretto operasse una sorta di messa in discorso permanente di sé stesso, una confessione continua – almeno in linea di principio – dei proprio pensieri al direttore, che diveniva una vera e propria tecnica di produzione della verità individuale. È facile comprendere come, concretizzandosi in queste tecniche, il tema pastorale producesse una soggettivazione interamente risolta in assoggettamento, priva di alcun margine di autonomia: una sorta di «grado zero» della soggettività, solidamente catturata in meccanismi di potere. «Si tratta – riassume con grande effcacia Foucault – della costituzione di un soggetto specifco, assoggettato in reti ininterrotte di obbedienza e soggettivato estraendo da lui stesso la verità che gli viene imposta»23. Sin dal suo primo apparire nella storia, il potere pastorale si presenta dunque nella sua forma più estrema, come un dispositivo dalle linee estremamente fsse, molto distante dall’esperienza attuale. Eppure, Foucault non esita a rintracciarvi lo schema delle attuali tecnologie di potere, che farebbero ricorso, in una forma modifcata, ma contigua, alle stesse tecniche di direzione, obbedienza e confessione delle comunità monastiche. Foucault non si dilunga eccessivamente sul modo in cui questo disegno sia uscito dal confne dei monasteri per arrivare a inglobare l’orizzonte della nostra modernità, limitandosi ad affermare che, nel XVI secolo, si assiste a una vera e propria «intensifcazione»24 delle arti di governo, che si diffondono in molteplici ambiti della società, facendo della conduzione degli altri e delle relative tecniche una delle questioni centrali dell’epoca. L’idea di direzione in vista della salvezza o del benessere non riguarda più solo i fedeli, ma esce dall’ambi23 24

M. Foucault, Sécurité, territoire, population, cit., p. 188; tr. it. cit., p. 141. Ivi, p. 236; tr. it. cit., p. 168.

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to propriamente religioso per abbracciare la pedagogia, la salute del corpo, la famiglia, la casa, fno a investire la stessa sovranità, che assume quei nuovi compiti che fniranno per trasformarla radicalmente. In questo passaggio dall’originario ambito religioso alla società – nel suo trasformarsi, quindi, dal nucleare dispositivo monastico al più ampio dispositivo di governo – il pastorato sembra perdere d’intensità. Diffcile pensare che le arti di governo possiedano la stessa capacità radicalmente assoggettante della direzione monastica. Da questo punto di vista, il dispositivo monastico sembra essere una sorta di paradigma del governo, nello stesso senso in cui la visibilità totale del Panottico serviva, in Sorvegliare e punire, «da diagramma di un meccanismo di potere ricondotto alla sua forma ideale»25. Tuttavia, se quello che appare nei testi che narrano la vita nelle comunità monastiche è il dispositivo pastorale nella sua forma compiuta, capace di bloccare tutte le sue linee di forza, al punto di impedire l’emergere delle linee di soggettivazione, Foucault stesso non esita a notare come, nel corso della storia, il pastorato non si sia mai dato in questa forma pura, ma sia stato invece, da subito, accompagnato da rivolte che vertevano proprio sul nodo centrale della direzione. Per designare queste resistenze contemporanee al pastorato, Foucault impiega il termine di controcondotte, proprio per sottolineare come al cuore del pastorato e delle relative resistenze ci sia la condotta, con i suoi signifcati molteplici: la parola «condotta» indica in primo luogo il fatto di condurre gli altri, con il modo di condursi che ne deriva, ma può anche essere una conduzione autonoma di sé stessi, con conseguente il modo di vita. Essa può dunque rinviare sia a una direzione autonoma, sia a una eteronoma. Le controcondotte sono allora forme di resistenza che vertono su tutti gli aspetti della condotta: da un lato fronteggiano le tecniche di governo pastorali, cercando di elaborare dei modi di farsi condurre che abbiano tecniche e obiettivi diversi, dall’altro producono attivamente delle forme di vita centrate sulla conduzione autonoma di sé stessi26. M. Foucault, Surveiller et punir, cit., p. 239; tr. it. cit., p. 224. Su questo aspetto delle contro-condotte e sulla loro attualità, si veda il fondamentale testo di A. I. Davidson, In praise of counter-conduct, «History of the Human Sciences», 24, 4, 2011, pp. 25-41; tr. it. Elogio della controcondotta in P. Donatelli, E. Spinelli (a cura di), Il senso della virtù, Carocci, Roma 2009. 25 26

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Questo duplice aspetto della controcondotta appare in modo molto chiaro in quella che Foucault descrive come una delle prime forme storicamente affermatasi di resistenza pastorale: l’ascetismo individuale, il grande «avversario» delle comunità monastiche. Nella lettura di Foucault, infatti, i primi cenobi si sarebbero instaurati anche allo scopo di limitare gli eccessi dell’anacoresi che, nonostante le apparenti somiglianze, è presa in una diversa rete di relazioni tra potere, verità e soggettività. A variare, dall’ascetismo individuale a quello cenobitico, sarebbe proprio quel nodo di relazioni che vertono sull’obbedienza e sulla volontà. Nella vita monastica, la pratica dell’obbedienza all’altro produceva uno stato di rinuncia permanente alla propria volontà, ad ogni istante riallineata sulla volontà del direttore. Nell’anacoresi, invece, l’asceta lanciava a sé stesso delle sfde da superare, in cui metteva alla prova i propri limiti, in un tentativo di superamento continuo. Si trattava di un rapporto con sé stesso, in cui la altrui volontà non aveva alcun ruolo da svolgere, e che richiamava piuttosto una forma di padronanza di sé, in cui la volontà individuale non cessava di rafforzarsi. Da un certo punto di vista, questa padronanza di sé era affne a quella antica anche se, traslata all’interno dell’ascetismo cristiano, essa si caricava di un aspetto paradossale ed esasperato, che Foucault legge come una sorta di «rovesciamento» critico dell’obbedienza pastorale. In termini deleuziani, si potrebbe affermare che l’obbedienza monastica avesse subìto una piega: essa si esercitava su sé stessa in una forma, altrettanto estrema, di obbedienza illimitata a sé stessi e al proprio volere. Le controcondotte pastorali sembrano dunque corrispondere alle linee più mobili del dispositivo – le linee di incrinatura – che hanno accompagnato il dispositivo pastorale sin dal suo primo emergere storico. La controcondotta ascetica avrebbe addirittura preceduto l’instaurazione del dispositivo, dato che, nella ricostruzione foucaultiana, essa precede cronologicamente il pastorato, che si sarebbe affermato e rafforzato proprio contro le preesistenti forme ascetiche individuali. In queste linee di incrinatura, le pratiche di soggettivazione svolgevano effettivamente un ruolo centrale, ma occorre sottolineare come, in ognuna delle controcondotte descritte da Foucault, a essere in gioco siano tutti e tre gli insiemi di linee. L’esperienza di alcune comunità eretiche ruotava ad esempio intor311

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no alla messa in questione dell’idea dell’obbedienza assoluta, che veniva elusa attraverso un ripensamento o una critica della fgura del pastore. La mistica, invece, ha rappresentato a tratti, secondo Foucault, una forma di controcondotta relativa alla questione della verità, vanifcando la pratica della confessione, dato che, nell’esperienza mistica, l’anima si apre a Dio nella sua verità senza necessità della mediazione del pastore27. Anche se ognuna delle controcondotte descritte da Foucault pone l’accento su uno degli insiemi di linee del dispositivo, in esse è il nucleo stesso del pastorato ad esser sottoposto a un rovesciamento critico, nei suoi tre assi portanti di potere, verità e assoggettamento. Queste linee di incrinatura hanno storicamente impedito la chiusura del dispositivo pastorale sulle sue linee più solide e sono state indubbiamente all’origine delle numerose crisi attraversate dal potere pastorale durante la sua storia. Tuttavia, come riconosce Foucault, è accaduto più di frequente che esse fossero reinvestite e riprese dal dispositivo, senza condurre a una sua reale frattura. Foucault lo afferma chiaramente in Sicurezza, territorio, popolazione: «Il potere pastorale […] si è senza dubbio trasformato in modo signifcativo nel corso di quindici secoli di storia. Si è spostato, ricollocato e integrato in forme diverse, ma in fondo non è mai stato veramente abolito», per poi aggiungere, poco più avanti: «Il pastorato non ha ancora conosciuto il processo di rivoluzione profonda che lo congederebbe defnitivamente dalla storia»28. Nella fgura disegnata da Foucault, il pastorato non può emergere se, con esso, non entrano nell’immagine anche le relative controcondotte. Riprendendo il lessico deleuziano che ha accompagnato tutta questa analisi di Foucault, la descrizione del dispositivo comprende tutti e quattro gli insiemi di linee: quelli dei tre assi portanti – sapere, potere, soggettivazione – e il quarto, quello delle linee di incrinatura – le controcondotte. In questo quarto ambito, le linee di soggettivazione svolgono certo un ruolo importante, ma sono affancate da pratiche di rovesciamento di tutti gli altri insiemi.

27

M. Foucault, Sécurité, territoire, population, cit., pp. 211-217; tr. it. cit., pp. 157-

162. 28

Ivi, pp. 152-153; tr. it. cit., pp. 116-117.

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4. L’attualità del dispositivo pastorale Il passaggio all’attualità del dispositivo pastorale è stato quindi messo in luce da Foucault grazie all’idea dell’intensifcazione delle arti di governo e della loro diffusione all’interno della società. Attraverso questa disseminazione, esse avrebbero fornito la traccia su cui si sarebbe poi innestata la più ampia questione delle tecnologie governamentali e biopolitiche e della gestione delle popolazioni – nella sua differenza dal controllo disciplinare, localmente situato. Cosa ne è, però, dell’attualità delle controcondotte? È possibile affermare che abbiano anch’esse conosciuto un movimento di delocalizzazione dall’ambito prettamente religioso, per disseminarsi nella società, a contrastare l’espansione delle arti di governo? Questo movimento delle controcondotte è in effetti tratteggiato da Foucault in una conferenza del maggio 1978, contemporanea, quindi, al Corso al Collège de France su Sicurezza, territorio, popolazione, e intitolata Qu’est ce que la critique?29. In questo testo, Foucault intende ripercorrere la genesi di quello che egli defnisce come «atteggiamento critico», e di cui rintraccia uno dei possibili punti di origine proprio in connessione con l’«esplosione»30 delle arti di governo, nel XVI secolo. Questa esplosione non sarebbe avvenuta senza la contemporanea affermazione di un movimento critico, «avversario» delle arti di governo, un atteggiamento di continua messa in discussione delle tecniche di conduzione, del loro modo di esercizio e delle loro fnalità. In questa conferenza, Foucault defnisce con grande effcacia l’intreccio dei due movimenti: quello del diffondersi delle tecniche di governo, da subito incalzato dal relativo movimento della critica: Se la governamentalizzazione designa il movimento attraverso il quale si trattava, nella stessa realtà di una pratica sociale, di assoggettare gli individui mediante meccanismi di potere che si appellano a una verità, allora direi che la critica designa il movimento attraverso il quale il soggetto si riconosce il diritto di interrogare la verità nei suoi effetti di potere e il potere nei suoi discorsi di ve29 M. Foucault, Qu’est ce que la critique?, «Bulletin de la Société française de philosophie», 84, 2, avril-juin 1990; ora in Qu’est ce que la critique? Suivi de La culture de soi, a cura di H. P. Fruchaud, D. Lorenzini, Vrin, Paris 2015; trad. it., Illuminismo e critica, a cura di P. Napoli, Donzelli, Roma 1997. 30 Ivi, p. 37; tr. it. cit., p. 36.

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rità. La critica sarà pertanto l’arte della disobbedienza ragionata, dell’indocilità ragionata. Funzione fondamentale della critica sarà quindi il disassoggettamento nel gioco di quel che si potrebbe chiamare la politica della verità.31

«Arte» anch’essa, la critica attraversa ogni punto del dispositivo, mettendo in questione le linee di sapere e di potere e tentando di rovesciare in «dis-assoggetamento» l’effetto assoggettante della governamentalizzazione. Linea di incrinatura, da subito in atto, essa spinge continuamente contro i bordi del dispositivo, impedendone, certo, la fssazione sulle linee più solide, ma con in vista l’obiettivo più radicale di una presa di congedo defnitiva dall’orizzonte governamentale e dai suoi effetti di potere, di sapere e di assoggettamento. Il movimento della critica è dunque ciò che prosegue ed attualizza l’azione delle controcondotte pastorali, assicurando la mobilità del dispositivo. Esso si esercita dunque attraverso un’«interrogazione» del dispositivo, una sua messa in questione che, secondo Foucault, può seguire due strade. Essa avviene infatti all’interno dei movimenti politici che, come ha modo di notare Foucault nei primi anni Ottanta, stanno in quel momento assumendo a loro obiettivo proprio gli assi portanti del dispositivo governamentale32. Essa può però avvenire anche all’interno del pensiero flosofco, che può darsi il compito di «interrogare» i meccanismi di sapere e di potere, attraverso una descrizione che li renda visibili. Non si tratta, però, di produrre un mero resoconto del funzionamento del potere, ma di realizzare delle descrizioni che offrano l’intero disegno del dispositivo, che risulterebbe incompleto se non vi fossero tratteggiate anche le linee di incrinatura e le possibilità di rottura. È il compito di quell’«ontologia storica di noi stessi»33, defnizione che Foucault conia nei primi anni Ottanta, che fa della flosofa una critica del dispositivo attuale, assegnandole la capacità di «fragilizzarlo» nei suoi assi portanti. Fragilizzazione, quella operata dalla flosofa, che Ivi, p. 39; tr. it. cit., p. 40. M. Foucault, The Subject and the Power, in H. L. Dreyfus, P. Rabinow, Michel Foucault. Beyond Structuralism and Hermeneutics, The University of Chicago Press, Chicago 1983, pp. 211-213; tr. it. La ricerca di Michel Foucault. Analisi della verità e storia del presente, La Casa Usher, Firenze 2010, pp. 282-283. 33 M. Foucault, Qu’est ce que les Lumières?, in Id., Dits et écrits, a cura di D. Defert e F. Ewald, Gallimard, Paris 2001, t. II, p. 1393; tr. it. Che cos’è l’Illuminismo?, in Archivio. Interventi, colloqui, interviste, vol. 3: Estetica dell’esistenza, etica, politica, a cura di A. Pandolf, Feltrinelli, Milano 1998, p. 228. 31 32

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in Foucault si affda alla storia – alla genealogia – agendo, in primo luogo, col mostrare la storicità del dispositivo e, in secondo luogo, il suo essersi sempre accompagnato, sin dal suo instaurarsi storico, a permanenti tentativi di romperne i margini. Se, però, in Foucault la flosofa sfugge al rischio di offrire un mero resoconto del funzionamento dei dispositivi, non è solo grazie al suo ricorso alla storia: è il suo continuo raccordarsi ai movimenti politici in atto, cui Foucault non si è mai sottratto, a fare di essa un reale strumento critico della nostra attualità. Ritrovatosi, dunque, alla fne degli anni Settanta, a confrontarsi con la questione della chiusura e dell’invisibilità dei dispositivi, tuttora cruciale per il pensiero flosofco, Foucault traccia un possibile percorso da seguire, assegnando alla flosofa un compito critico, che le impone, da un lato, di confrontarsi con il potere, di dire e far vedere i suoi meccanismi secondo modalità descrittive che siano, al tempo stesso pratiche di trasformazione e, dall’altro, di agire in concerto con quei movimenti che, attualmente, costituiscono delle forme di resistenza alle tecniche governamentali. Un doppio compito che – fa notare Foucault34 – le era già stato assegnato nel 1784 da Kant, nella sua Risposta alla domanda sull’Aufklärung.

Id., Le gouvernement de soi et des autres. Cours au Collège de France 1982-1983, a cura di F. Gros, Seuil-Gallimard, Paris 2008, pp. 8-38; tr. it. Il governo di sé e degli altri. Corso al Collège de France 1982-1983, a cura di M. Galzigna, Feltrinelli, Milano 2009, pp. 16-46. 34

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La nozione di “spiritualità politica” nell’opera di Michel Foucault Philippe Chevallier

Questo articolo si propone di tornare su una nozione repentinamente apparsa e scomparsa nel pensiero di Michel Foucault: quella di «spiritualità politica». Se molto è stato scritto sulle ragioni e sul contesto del suo apparire – in particolare, nella primavera del 1978, l’emergere di una rifessione sulle controcondotte pastorali e, qualche mese dopo, l’opportunità offerta dal reportage sulla sollevazione iraniana – poco è stato detto sulla sua scomparsa, che non può essere spiegata solo con la violenza di una polemica ancora viva. Questa scomparsa non è dello stesso ordine delle ben note rotture proprie di un’opera che voleva rinnovarsi di continuo seguendo le proprie curiosità: il passaggio da un’archeologia dei discorsi a una fsica del potere (inizio degli anni Settanta), quello dal sapere-potere all’etica di sé (inizio anni Ottanta). Questa volta, invece, nonostante il suo carattere provocatorio e al tempo stesso promettente, la «spiritualità politica» non ha lasciato dietro di sé le abituali spiegazioni del flosofo sulle biforcazioni di un pensiero, le cui avventure sembrano esser sempre completamente sotto controllo; ma solo un «impaccio della parola [embarras de parole]»1. La mia ipotesi è che questo apparente falso-movimento, all’interno di un’opera sempre molto controllata dal suo autore, evidenzi una nuova preoccupazione: quella di dare ascolto al bisogno di una nuova Quello stesso «impaccio della parola in cui si trova presa la flosofa» di fronte a delle esperienze-limite, come quelle raccontate da Georges Bataille. Michel Foucault, Préface à la transgression, in Id., Dits et écrits, a cura di D. Defert e F. Ewald, Gallimard, Paris 2001, t. I, p. 277; tr. it. Prefazione alla trasgressione, in Scritti letterari, a cura di C. Milanese, Feltrinelli, Milano 2004, p. 71. Vedremo più avanti l’importanza di Bataille in questo interesse tardo di Foucault per la spiritualità. 1

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morale, di cui testimoniano i movimenti politici contemporanei e, in una certa misura, di farsene carico attraverso le sue inchieste flosofche. Tuttavia, il forte legame che si stabilisce in questi movimenti tra forma di vita (spiritualità) e impegno (politico) è sempre pericoloso, perché la confusione possibile tra di essi impedisce ogni elaborazione di un progetto collettivo libero da investimenti e opzioni personali. 1. Ritorno su una polemica ancora viva Nel settembre e nel novembre del 1978 Foucault è in Iran, su richiesta di un quotidiano italiano, «Il Corriere della sera», per cui redige nove articoli. Il 12 novembre teorizza, sullo stesso quotidiano, la necessità di condurre delle inchieste nel mondo, per «assistere alla nascita delle idee e all’esplosione della loro forza»2. Pur covando dal gennaio 1978, la sollevazione popolare scoppia all’inizio di settembre, cioè meno di due settimane prima dell’arrivo di Foucault a Teheran. L’8 settembre, «venerdì nero», l’esercito spara sulle migliaia di manifestanti riuniti a Piazza Jaleh, a sostegno dell’Ayatollah Khomeini, in esilio in Iraq. Questo massacro, le cui circostanze esatte e il numero di vittime restano incerti, non ferma il movimento di protesta. Al contrario: scioperi e manifestazioni, a Teheran e in molte città di provincia, si susseguono fno alla partenza dello Scià e al ritorno trionfale di Khomeini, il 1 febbraio 1979. Nell’ottobre del 1978, nei soli estratti del grande reportage per il «Corriere della sera» pubblicati in Francia – in forma di un unico articolo intitolato À quoi rêvent les Iraniens? – Foucault si chiede: Quale senso ha, per gli uomini che abitano [la terra d’Iran], cercare, a prezzo della loro stessa vita, quella cosa che noialtri abbiamo dimenticato nel modo più assoluto, dopo il Rinascimento e le grandi crisi del cristianesimo: una spiritualità politica?3

2 M. Foucault, Les “reportages” d’idées, in Id., Dits et Écrits, cit., t. II, p. 707. Originariamente pubblicato in italiano ne «Il Corriere della sera», 12 novembre 1978. 3 M. Foucault, À quoi rêvent les Iraniens?, in «Le Nouvel Observateur», 727, 16 ottobre 1978, p. 49, ora in Id., Dits et écrits, cit., t. II, p. 694. La sottolineatura è di Foucault. Originariamente pubblicato in italiano con il titolo Il ritorno del profeta?, ne «Il Corriere della sera», 22 ottobre 1978; ora in Id., Taccuino persiano, a cura di R. Guolo e P. Panza, Guerini e Associati, Milano 1998, p. 40.

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Questo articolo segnò l’inizio di una polemica molto violenta, più violenta e soprattutto più duratura di quella de Le parole e le cose e della morte dell’uomo. In un contesto, in Francia, di liquidazione dell’eredità della sinistra e di rinnovamento del pensiero liberale di destra (il primo numero di «Commentaire», patrocinato da Raymond Aron, esce nel marzo del 1978), molti detrattori aspettavano al varco quello che considerarono come il primo vero passo falso di Foucault: in realtà si sbagliavano. Mentre, almeno dagli anni Sessanta, era una critica comune quella di rimproverare al flosofo la sua posizione onnisciente, l’Iran fu l’occasione per rimproverare a Foucault di non esser stato abbastanza onnisciente, di non aver visto tutto, di non aver saputo tutto quello che migliaia di specialisti seppero solo dopo il ritorno di Khomeini in Iran. Criticando l’atteggiamento giornalistico di Foucault, gli si rimproverava, in realtà, di essere stato solo un giornalista, di non esser stato un visionario. La prima critica rivolta a Foucault arriva come risposta quasi immediata al suo articolo su «Le Nouvel Observateur» e proviene da un’Iraniana anonima che vive a Parigi, cui dispiace l’emozione di Foucault di fronte alla «spiritualità mussulmana»4. Il termine «spiritualità» ritorna tre volte nella lettera di Atoussa H. a Foucault, cosa che indica bene il punto dell’incomprensione. La lettera invita la «sinistra liberale» a non farsi sedurre da «un rimedio peggiore del male»: la legge islamica. Le altre critiche sono più tarde – a partire dal marzo del 19795 – e sono in parte motivate dalla pubblicazione del libro, peraltro molto moderato e ben accolto all’epoca, dei giornalisti Pierre Blanchet e Claire Brière, Iran. La révolution au nom de Dieu, che si chiude con un’intervista al flosofo6. Dal viaggio di Foucault in autunno, il cielo si è oscurato sull’Iran: il ritorno trionfale di Khomeini, il 1 febbraio, ha causato i primi abusi dei Guardiani della Rivoluzione. In questo contesto nuovo, la posizione del flosofo è messa in 4 Atoussa H., Une iranienne écrit, «Le Nouvel Observateur», 760, 6 novembre 1978, p. 27. 5 Prima Foucault era stato preso di mira in modo indiretto da due articoli di Maxime Rodinson (La résurgence de l’islam?, «Le Monde», 6-8 dicembre 1978; Khomeyni et la “primauté du spirituel”, «Le Nouvel Observateur», 19 febbraio 1979), ma non era stato citato per nome. 6 L’esprit d’un monde sans esprit. Entretien avec Michel Foucault, in P. Blanchet e C. Brière, Iran. La révolution au nom de Dieu, Seuil, Paris 1979, pp. 227-241, ora in M. Foucault, Dits et écrits, cit., t. II, pp. 743-755.

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questione: non ha forse sottostimato il pericolo di una repubblica islamica (che sarà promulgata il 1 aprile 1979) con Khomeini come guida suprema? Gli articoli de «Le Monde» e «L’express», usciti rispettivamente il 31 marzo e il 20 aprile, evocano brevemente un possibile errore di valutazione. Altri articoli, però, sono di un altro tenore: si tratta di additare non un errore occasionale, ma un errore necessario, legato alla flosofa stessa di Foucault. Così l’articolo uscito ne «Le Matin de Paris», del 24 marzo 1979, che si scaglia violentemente contro un pensiero «antidemocratico (borghese), anti-legalista, anti-giudiziario»7. L’articolo, scritto da due zelanti pentiti della Cina di Mao, accosta le esecuzioni sommarie in Iran e le posizioni di Foucault a favore della giustizia popolare diretta, senza tribunali – allusione all’intervista del 1972: Sulla giustizia popolare. Dibattito con i Maoisti8: Quando si è un intellettuale, quando si lavora su e con le “idee”, quando si ha la libertà – senza dover lottare a rischio della propria vita per ottenerla – di non essere uno scrittore cortigiano, si ha anche qualche dovere. Il primo è di prendersi la responsabilità delle idee difese, nel momento in cui queste si realizzano. Che i flosof della “giustizia popolare” dicano oggi: «Viva il governo islamico!», in modo da farci sapere che vanno fno in fondo al loro radicalismo. Oppure che dicano: «No, non era quello che volevo dire, mi sono sbagliato. Ecco cosa c’era di falso nel mio ragionamento, ecco dove il pensiero è venuto meno»9.

C’è anche, in anni più vicini a noi, il libro di Janet Afary e Kevin B. Anderson, uscito negli Stati Uniti, che prova a spiegare le «affnità» di Foucault con gli islamisti iraniani con il suo «discorso nietzschiano-heideggeriano»10, o il recente articolo di Robert Redeker, ne «Le Figaro», in occasione dell’ingresso di Foucault nella collana de La Pléiade11. Secondo questa linea interpretativa, FouC. e J. Broyelle, À quoi rêvent les philosophes?, «Le Matin de Paris», 24 marzo 1979, p. 13. 8 M. Foucault, Sur la justice populaire. Débat avec les Maos, in Id., Dits et écrits, cit., t. I, pp. 1208-1237; tr. it. Sulla giustizia popolare. Dibattito con i maoisti, in Microfsica del potere. Interventi politici, a cura di A. Fontana e P. Pasquino, Einaudi, Torino 1977, pp. 71-106. 9 C. e J. Broyelle, À quoi rêvent les philosophes?, cit., p. 13. 10 J. Afary, K. B. Anderson, Foucault and the Iranian Revolution. Gender and the Seduction of Islamism, University of Chicago Press, Chicago 2005, p. 13. 11 R. Redeker, Foucault, l’incendiaire, «Le Figaro littéraire», 26 novembre 2015, p. 8. 7

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cault sarebbe stato animato sin dall’inizio da un profondo disgusto per l’Occidente e per le sue istituzioni politiche e giuridiche, cosa che spiegherebbe la sua attrazione per un radicalismo venuto da fuori. Questo radicalismo offrirebbe un’alternativa al modo, freddo e razionale, in cui è stato posto, in Occidente, il problema del vero, del diritto e della giustizia, riferito a un insieme di regole astratte, portatrici di una visione normativa dell’uomo. La spiritualità sciita non è forse un modo di sfuggire alle razionalità che ci governano e alle loro pretese necessità? Sin dalla lettera di Atoussa H. è proprio questo accostamento tra spiritualità e politica ad esser problematico, come fnirà per esserlo per lo stesso Foucault, conscio dei fraintendimenti che esso suscita. Come vedremo, Foucault smetterà di usare l’espressione «spiritualità politica» e la toglierà dall’articolo che costituisce il suo ultimo intervento sulla questione iraniana, Sollevarsi è inutile?, dell’11 maggio 1979, ne «Le Monde»12. Prima, però, di precisare cosa si debba intendere per «spiritualità politica», riprendiamo i grandi assi della rifessione di Foucault sugli eventi che si svolgono dal settembre al novembre del 1978, cioè prima del ritorno trionfale di Khomeini, quando si trattava, almeno per un testimone esterno, di una sollevazione popolare e non di una rivoluzione politica. 2. Singolarità dell’evento iraniano La nozione occidentale di «rivoluzione», che ha tanto segnato la flosofa hegeliana (dove diventa il «magnifco sorgere del sole») e poi marxiana, fno ai movimenti di estrema sinistra degli anni Settanta, è portatrice di due caratteristiche che, secondo Foucault, sembrano essere assenti nell’Iran del 1978: a) una contraddizione interna alla società derivante da interessi materiali divergenti tra «classi»; b) un’avanguardia (un partito, un leader) che comprenda questa contraddizione e se ne impadronisca per superarla. M. Foucault, Inutile de se soulever?, «Le Monde», 11-12 maggio 1979; ora in Id., Dits et écrits, cit., t. II, pp. 790-794; tr. it. Sollevarsi è inutile?, in Archivio. Interventi, colloqui, interviste, vol. 3: Estetica dell’esistenza, etica, politica, a cura di A. Pandolf, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 132-136. 12

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L’Iran del 1978 fa andare in frantumi questo schema rivoluzionario, che si riteneva esser necessario a ogni cambiamento della società, mostrando nelle strade surriscaldate di Teheran due singolarità: a) La prima singolarità riguarda una «volontà collettiva»13 che non passa più dalle mediazioni tradizionali della delega politica, quella dei partiti o dei rappresentanti designati. Come se queste folle pacifche, ma risolute, ammassate nelle strade di Teheran senza parole d’ordine e senza agenda politica specifca, fossero l’immagine dell’unanimità di un movimento che non rappresenterebbe altro che sé stesso. Alcuni mesi dopo, nell’intervista con Farès Sassine, inizialmente pubblicata in un settimanale arabo pubblicato a Parigi (e rimasta inedita in francese fno al 2013), Foucault si fa carico di quella che fu la sua impressione, anche se ne parla con maggior prudenza: Ora, mi è sembrato, a torto o a ragione, e forse su questo mi sono sbagliato, che quando, in settembre, gli Iraniani sono scesi in piazza davanti ai carri armati, non vi scendevano perché forzati o costretti da qualcuno, non c’era un gruppo di persone che si esponeva al loro posto, […] no, erano loro, non volevano, non volevano più un regime subìto14.

Il 20 settembre, in particolare, Foucault incontra l’Ayatollah Shariat-Madari, grande fgura locale dell’Islam sciita, e Mehdi Bazargan, fondatore del Comitato di difesa dei diritti dell’uomo, rappresentante dell’ala laica e liberale del movimento, che gli fa da interprete. Il vortice dell’autunno porta via con sé tutte le classi sociali e le categorie socio-professionali, e soprattutto tutti i partiti di opposizione, dai liberali ai marxisti, passando dai militanti per i diritti dell’uomo. b) La seconda singolarità che emerge nelle strade di Teheran ha a che fare con aspirazioni che non riguardano solo la società e le condizioni materiali di vita, e che sarebbero quindi irriducibili al modo in cui interpretiamo, in Occidente, le aspirazioni politiche delle masse. Questa è una delle incomprensioni del 1978 sul signifId., L’esprit d’un monde sans esprit, in Dits et écrits, cit., t. II, pp. 746-747. Michel Foucault, Farès Sassine, Entretien, «Rodéo», 2, febbraio 2013, p. 37. La correttezza di questa visione, in seguito regolarmente criticata o messa in questione (cfr. J. Lacouture, Dieu et la révolution, «Le Nouvel Observateur», 753, 14 aprile 1979, p. 41), fu accolta con favore nel maggio del 1979 dai giornalisti Paul Balta e Claudine Rulleau, anch’essi testimoni degli eventi: cfr. Paul Balta, Claudine Rulleau, L’Iran insurgé, 1978 en Islam? Un tournant du monde, Sindbad, Paris 1979, p. 288, nota 1. 13

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cato dell’opposizione popolare allo Scià: gli osservatori occidentali, in particolare americani, sono persuasi che gli Iraniani vogliano in primo luogo la modernità, il progresso tecnologico, una democrazia liberale. Questo è il sogno, nell’entourage dello Scià, del generale Hassan Pakravan, affascinato da una transizione come quella di Juan Carlos in Spagna. Se Foucault non nega il ruolo che hanno potuto giocare i fattori economici e sociali nella sollevazione – povertà, violenza, corruzione – questi non bastano a spiegare la forma singolare che gli Iraniani hanno scelto di dare alla loro rivolta. Ora, questa forma è religiosa: la religione sciita non è solo un capriccio passeggero destinato a esser spazzato via da un’aspirazione naturale, comune a tutti i popoli, alla «modernità»; essa non è un rifugio temporaneo, una giustifcazione esterna, nell’ordine dell’ideologia. Essa è il movimento stesso. Non c’è differenza tra l’impegno degli Iraniani contro lo Scià a rischio della loro vita e il loro impegno personale per cambiare sé stessi, per dare alla loro vita un’altra forma «morale». Nell’intervista con i giornalisti Claire Brière e Pierre Blanchet, registrata alla fne del 1978, Foucault fa esplicitamente questo legame tra sollevazione politica e trasformazione di sé: Al limite, considerate tutte le diffcoltà economiche, resta ancora da capire perché ci sono persone che si alzano e dicono: così non va più bene. Sollevandosi, gli Iraniani si dicevano – e forse è questa l’anima della sollevazione – certo, dobbiamo cambiare regime e sbarazzarci di quest’uomo, dobbiamo cambiare questo personale corrotto, dobbiamo cambiare tutto nel paese […]. Soprattutto, però, dobbiamo cambiare noi stessi […]. Per loro la religione era come la promessa e la garanzia di trovare il modo di cambiare radicalmente la soggettività15.

Nel 1978, per molti degli osservatori, sia a destra sia a sinistra, la religione sciita era un arcaismo incomprensibile. A partire da questi due choc uscirà dalla penna di Foucault un’espressione pericolosa, proprio quella di «spiritualità politica», che bisogna ora provare a defnire.

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M. Foucault, L’esprit d’un monde sans esprit, cit., pp. 748-749.

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3. La spiritualità come sollevazione di sé Innanzitutto, Foucault prende sul serio la forza propria delle idee religiose. Affnché ci sia sollevazione, bisogna in primo luogo che ci sia qualcosa che ci scolli dal presente e ci proietti in un altro mondo possibile. Questo «qualcosa» è una rappresentazione di ciò che ancora non c’è: un’utopia o un mito. Il mito, anche quando si pone al posto di un’origine lontana (come ad esempio l’origine del mondo, l’origine di un popolo) o di un tempo prima del tempo, mette in questione il presente e riapre l’avvenire. In un’intervista del 1979, tornando sulla rivolta in Tunisia del giugno del 1968, Foucault riconosce «l’evidenza della necessità del mito, di una spiritualità»16. Di nuovo, nell’articolo Sollevarsi è inutile?, Foucault cita quelle «promesse millenarie»17 che motivavano gli uomini e le donne iraniane in rivolta. Le manifestazioni popolari dell’autunno del 1978 sono state effettivamente vissute al ritmo della commemorazione dei morti nella tradizione sciita e, soprattutto, del mese del Muharram (mese santo, che cade appunto nel dicembre del 1978), al cui cuore sta la memoria del terzo Imam, nipote del Profeta, ucciso nel 680 dal potere politico (un califfato, quello delle truppe di Yazid, che voleva imporre la propria successione al Profeta). Il reportage di Foucault è attraversato dalla convinzione, ereditata in parte dai lavori dell’islamista Henry Corbin, che la critica del potere politico sia inerente alla teologia sciita. E se non sempre lo è stata nella storia, essa è tornata ad esserlo con forza negli anni Settanta: a partire da Ali Shariati (1933-1977), considerato come uno dei Entretien avec Michel Foucault, in M. Foucault, Dits et écrits, cit., t. II, p. 898, originariamente pubblicata in italiano con il titolo Conversazione con Michel Foucault, a cura di D. Trombadori, ne «Il contributo», IV, 1, gennaio-marzo 1980, pp. 23-84; ora in D. Trombadori, Colloqui con Foucault. Pensieri, opere, omissioni dell’ultimo maître à penser, Castelvecchi, Roma 1999, p. 92. Nel testo italiano pubblicato da Trombadori non fgurano le espressioni «mito» e «spiritualità». Questo il testo francese riportato in Dits et écrits: «C’est ce que j’ai vu en Tunisie, l’évidence de la nécessité du mythe, d’une spiritualité, le caractère intolérable de certaines situations produites par le capitalisme, le colonialisme et le néocolonialisme». Il testo italiano è invece: «Questo è ciò che ho visto in Tunisia. Vi si scorgeva nettamente e con evidenza la necessità di una lotta, per il carattere intollerabile di certe condizioni prodotte dal capitalismo, il colonialismo e il neocolonialismo». La trascrizione integrale dell’intervista, che si è svolta in francese, si trova nel Fonds Michel Foucault della Bibliothèque nationale de France [N.d.T.]. 17 M. Foucault, Inutile de se soulever?, cit., p. 792; tr. it. cit., p. 133. 16

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pensatori della rivoluzione iraniana, i simboli della religione sciita sono stati oggetto di un’intensa ripoliticizzazione, che ha rimesso in causa la posizione accomodante del clero sciita tradizionale rispetto ai poteri politici, sin dalla fondazione dell’Impero persiano sciita, a partire dal XV-XVI secolo18. Le promesse escatologiche della religione non devono essere considerate come sogni che distolgono gli individui dalla realtà terrena, poiché sono vissute nel quotidiano come intensifcazione del rapporto con il tempo, quindi con il presente. Sul piano del pensiero, come su quello dell’azione, sono delle disrupzioni, a immagine dell’«istante» kierkegaardiano, punto senza spessore in cui l’eternità arriva a toccare in modo surrettizio il tempo, in cui il soggetto è strappato alla propria vita sensibile per conoscere un inizio assolutamente nuovo, di cui non potrà appropriarsi e che non potrà ripetere con le proprie forze19. Dietro questa considerazione delle idee religiose, si inserisce un riferimento inatteso, scoperto tardi dai foucaultiani. Nell’intervista del 1979 con Farès Sassine, da poco pubblicata in francese, Foucault pone il libro di Ernst Bloch, Das Prinzip Hoffnung – il cui primo volume era appena uscito in francese20 – all’origine del suo interesse per l’Iran: farès sassine Cosa l’ha portata a interessarsi all’Iran? michel foucault Molto semplicemente, la lettura di un libro non recente, che non avevo letto […]: il libro di Ernst Bloch, Il principio speranza. […] Mi è quindi sembrato che ci fosse un rapporto tra ciò che leggevo e ciò che 18 Foucault cita Shariati in questo senso in A quoi rêvent les Iraniens?, in Dits et écrits, cit., t. II, p. 693; tr. it. cit., pp. 39-40. Ringrazio Julien Cavagnis, flosofo e arabista – doppia competenza che manca spesso a chi scrive su Foucault e l’Iran (incluso l’autore del presente articolo) – per queste precisazioni sull’Islam sciita e Henry Corbin. Per una densa discussione di questo punto, rinvio al suo articolo, divenuto il punto di riferimento in lingua francese sul tema: J. Cavagnis, Michel Foucault et le soulevement iranien de 1978, retour sur la notion de spiritualité politique, «Chaiers philosophiques», vol. 130, 3, 2012, pp. 51-71. 19 Cfr. S. Kierkegaard, Briciole flosofche (1844) Morcelliana, Brescia 2012. Il rapporto con il flosofo danese Søren Kierkegaard, attraverso l’insegnamento di Jean Hyppolite (e senz’altro anche di Jean Wahl), e in seguito attraverso il flosofo e giornalista francese Maurice Clavel, amico di Foucault, è qui fondamentale. Cfr. P. Chevallier, Clavel, Foucault: le savoir, le temps, «Les amis de Vézelay», Spécial Maurice Clavel, 80, estate 2016, pp. 17-21. 20 E. Bloch, Das Prinzip Hoffnung, 1954-1959, tr. fr. Le principe espérance, t. I, Gallimard, Paris 1976.

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stava accadendo. E sono voluto andare a vedere. E veramente l’ho visto come un esempio, una prova di quel che stavo leggendo in Bloch21.

Offrendo un’ampia ermeneutica della «speranza situata nel mondo», il libro di Bloch interroga, sin dalle prime pagine, le società occidentali declinanti, che hanno perso il senso della speranza, contrariamente alle «società in espansione», in cui questa speranza è incoraggiata e concretamente messa in opera22. Bloch non esita ad affermare che è «la volontà utopica» che «guida tutti quanti i movimenti di libertà»23, citando l’Esodo e il messianismo ebraici. La religione sciita offriva una terra particolarmente accogliente per queste rifessioni, perché aveva sempre avuto una forte componente escatologica, con l’attesa del ritorno o della piena manifestazione dell’ultimo Imam, nascosto fno alla fne del tempo. Il parallelo con Bloch si ferma però qui: per Bloch, l’utopia ha il suo luogo innanzitutto nel pensiero e nella coscienza, in cui essa rivela dei possibili dell’Essere non ancora realizzati. C’è una corrispondenza, una sorta di dialogo silenzioso, in Bloch, tra la coscienza e l’Essere, in quanto entrambi costituiti di «non ancora [nochnicht-sein]». Per Foucault, l’effcacia delle idee religiose non passa da un’ontologia – quella che si rivelerebbe all’incrocio dell’Essere con la coscienza – ma per qualcos’altro, che ci allontana dall’hegelo-marxismo di Bloch: la religione come drammaturgia, cioè come messa in scena di un dramma. Foucault lo scrive nell’articolo del 1979: le sollevazioni del 1979 hanno trovato «la loro espressione e la loro drammaturgia nelle forme religiose»24. La parola «drammaturgia» potrebbe sembrare dispregiativa, se non ci si ricorda dell’importanza, in Foucault, anche per la flosofa, del teatro dei corpi25: il partage del vero e del falso non saprebbe limitarsi ad esser solo pensato, posto astrattamente sub specie aeternitatis, perché la sua ragion d’essere è anche sociale o politica. Per M. Foucault, F. Sassine, Entretien, cit., p. 35. E. Bloch, Le principe espérance, cit., t. I, pp. 10-11; tr. it. Il principio speranza, a cura di R. Bodei, Garzanti, Milano 1994, t. I, pp. 6-7. 23 Ivi, p. 15; tr. it. cit., p. 10. 24 M. Foucault, Inutile de se soulever?, cit., p. 791; tr. it. cit., p. 133. 25 Id., La scène de la philosophie, in Id., Dits et écrits, cit., t. II, pp. 571-595. Su questo tema cfr. Arianna Sforzini, Michel Foucault, une pensée du corps, Puf, Paris 2014 e Les scènes de la vérité. Michel Foucault et le théâtre, Le Bord de l’eau, Lormont 2017. 21 22

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questo motivo, il partage è regolarmente manifestato nelle nostre vite su scene che gli restituiscono ogni volta la sua qualità e il suo bagliore d’evento. Nell’opera di Foucault, le drammaturgie sono dunque degli spazi di produzione della verità, in cui il vero non è tanto dimostrato o spiegato, quando manifestato. «Drammaturgie» sono quelle delle isteriche di Charcot sulla scena clinica della Salpêtrière, quelle delle processioni di fagellanti in veste bianca nelle strade della Turingia, quelle del flosofo cinico nelle strade di Atene, etc. Il dramma è al tempo stesso messa in scena fnta e messa in gioco reale, come mostra l’analisi dei riti penitenziali cristiani dei primi secoli dopo Cristo, nel corso Del governo dei viventi: inginocchiarsi, cospargersi il capo di cenere, piangere tutte le proprie lacrime, signifca intensifcare una lotta che, di per sé, non è immediatamente visibile, e accelerarne l’esito26. Quest’importanza del corpo segna l’originalità dell’approccio di Foucault al fenomeno religioso, al di là della sola attenzione al potenziale rivoluzionario dell’utopia, già sviluppato da Bloch. Un corpo oggetto di un cambiamento interiore, ma che può, in determinate circostanze sociali e politiche, farsi anche agente di un cambiamento esteriore – cosa che pone immediatamente la questione dell’articolazione tra i due cambiamenti: quello che deriva dal governo di sé e quello che deriva dal governo degli altri. Per permettere questa articolazione decisiva tra sé stesso e gli altri, il corpo ha bisogno non solo di usare le forze ad extra e ad intra, ma di dare una forma regolare, visibile, chiara – se non luminosa – a questo doppio cambiamento interiore ed esteriore in cui spera, e che la religione gli permetterà di compiere nella forma del rito e, quindi, di una comunità. Questo è il senso in cui va compresa la frase misteriosa dell’articolo del 1979: la religione, ci dice Foucault, ha costituito a lungo non «l’abito ideologico, ma il modo stesso di vivere le sollevazioni»27. Questo signifca che essa non produce la sollevazione come conseguenza – come in Bloch – ma che essa è la sollevazione stessa. 26 M. Foucault, Du gouvernement des vivant. Cours au Collège de France 19791980, a cura di M. Senellart, Seuil-Gallimard, Paris 2012, pp. 189-210; tr. it. Del governo dei viventi. Corso al Collège de France 1979-1980, a cura di P. A. Rovatti e D. Borca, Feltrinelli, Milano 2014. 27 Id., Inutile de se soulever?, cit., p. 791; tr. it. cit., p. 133. Sottolineatura nostra.

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In queste condizioni, la spiritualità sarà, in Foucault, la parte soggettiva e insurrezionale della religione: una pratica con cui un soggetto tenta di disassoggetarsi e di sperimentare un nuovo rapporto a sé stesso, ma anche alle cose e agli altri, a Dio, etc. In un’intervista inedita con Jean-Paul Enthoven, nel gennaio 1979, Foucault insiste sulla spiritualità come sollevazione di sé. Che cos’è la spiritualità? Credo che sia quella pratica attraverso cui l’uomo si è spostato, trasformato, scosso, fno alla rinuncia alla propria individualità, alla propria posizione di soggetto. Non è più questione di essere soggetto come lo è stato fno ad ora, soggetto rispetto a un potere politico, ma soggetto di un sapere, soggetto di un’esperienza, soggetto anche di una credenza. Mi sembra che questa possibilità di sollevarsi a partire dalla posizione di soggetto che è stata fssata da un potere politico, da un potere religioso, da un dogma, da una credenza, da un’abitudine, da una struttura sociale, etc., sia la spiritualità, sia divenire altro da ciò che si è, altro da sé28.

È in questo, almeno in una prima comprensione del predicato, che la spiritualità può essere detta «politica», perché è rifuto di una posizione cui il soggetto è stato assegnato da fuori, ivi compresa, se è il caso, un’istanza religiosa. Più precisamente, diciamo che c’è spiritualità politica quando una sollevazione esteriore, politica, trae la propria forza e la propria ragion d’essere da una sollevazione di sé. L’intervista con Enthoven è importante, perché getta un ponte tra la nozione di spiritualità e la lettura che Foucault aveva fatto delle opere di Georges Bataille e di Maurice Blanchot all’inizio degli anni Sessanta, alla ricerca di un approccio non fenomenologico all’esperienza – un’esperienza che non fosse più esplorazione dei possibili condizionati dalla strutture della coscienza, ma messa alla prova radicale del loro limite, inclusa la trasformazione, se non l’abolizione, del soggetto stesso: «Questo è l’esperienza», precisa Foucault a JeanPaul Enthoven, «è rischiare di non essere più sé stessi»29, all’opposto dell’affermazione di un soggetto nella continuità fondatrice del suo progetto, come in Sartre. 28 BnF, Fonds Michel Foucault, L, dossier 12, Entretien Jean-Paul Enthoven/Michel Foucault. 29 Ibidem. Per un’analisi del rapporto di Foucault con Bataille, cfr. la nota di presentazione a Préface à la transgression, in Michel Foucault, Œuvres, a cura di F. Gros, Gallimard, Paris 2015, collana «Bibliothèque de la Pléiade», t. II, pp. 1580-1583.

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Foucault conclude la sua argomentazione con una distinzione, tradizionale e banale al tempo stesso, tra la forza propria alla spiritualità e le sue espressioni religiose, che ne costituiscono una «codifcazione»30 potenzialmente pericolosa, perché limitativa, se non normativa. Distinzione che alleggerisce la spiritualità dal suo contenuto teologico formale e le dà un senso molto ampio, che ingloba quindi tutte le esperienze di disassoggettamento di sé da sé – esperienze-limite di Bataille (dire la morte, la profanazione, l’orrore) comprese. La defnizione foucaultiana della spiritualità rimane di fatto decisamente laica – cosa che, senza dubbio, non fa che aumentare l’incomprensione dei commentatori. Se però è chiaro che ogni spiritualità, così intesa, è politica – anche quella che non avrebbe altro scopo che sé stessa – il tipo di relazione che essa può avere con degli atti che abbiano fnalità strettamente esteriore e materiale, come quelli che organizzano la vita di un popolo o di una città, appare meno chiaro. Per chiarire il problema, conviene ripartire dalle rifessioni sviluppate da Foucault alcuni mesi prima al Collège de France sulle condotte anti-pastorali. 4. Il posto della “spiritualità politica” nell’opera di Foucault L’articolo intitolato Sollevarsi è inutile?, apparso l’11 maggio 1979 su «Le Monde», non è una risposta agli attacchi. Foucault ha l’eleganza di non pubblicare il progetto di una replica, di cui i suoi archivi conservano la bozza infuriata31. L’articolo de «Le Monde», che sarà la sua ultima parola sulla questione, e in modo indiretto sulla polemica, non riprende l’espressione che ha dato fuoco alle polveri. Le parole «spiritualità politica» si trovano nella prima versione dattiloscritta, ma alla fne Foucault ci rinuncia: troppe incomprensioni avevano contaminato una nozione che, in seguito, si guarderà bene dall’utilizzare. Il dattiloscritto iniziale, conservato alla 30 BnF, Fonds Michel Foucault, L, dossier 12, Entretien Jean-Paul Enthoven/Michel Foucault. 31 Questo progetto è costituito da sette fogli manoscritti, in cui si legge la volontà di Foucault di rispondere punto per punto agli attacchi, con riferimento all’articolo de «L’Express», di B. Ullmann, Iran, la vengeance du prophète, 20 aprile 1979, 1 449, pp. 65-66. BnF, Fonds Michel Foucault, L, dossier 12, Entretien Jean-Paul Enthoven/Michel Foucault.

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Bibliothèque nationale de France, parla in effetti di «grandi sogni di spiritualità politica che l’Occidente ha conosciuto un tempo»32. Questa frase è stata oggetto di una prima riscrittura manoscritta di Foucault, che cancella il riferimento alla «spiritualità politica». Questo passaggio delicato è stato ridattiloscritto su un foglio a parte, in cui è invece questione di «vecchi sogni che l’Occidente ha conosciuto un tempo: quando si volevano iscrivere le fgure della spiritualità sul suolo della politica. Sappiamo con quali guerre questi sogni sono stati pagati». Non solo Foucault ritira l’espressione «spiritualità politica», ma la sostituisce con il riferimento a un pericolo: quello del rapporto troppo immediato tra uno «spirito» (spiritualità) e un «suolo» (politica), di cui avrebbero testimoniato le guerre di religione. La versione che sarà infne pubblicata cancella il prezzo sanguinoso di questi sogni – forse giudicato una concessione troppo grande ai suoi detrattori33. Espressione abbandonata34, la «spiritualità politica» sarebbe dunque una incongruità spuntata fuori per la questione iraniana e poi scartata dal flosofo, a causa di una polemica che l’avrebbe toccato personalmente, in un contesto francese improvvisamente divenuto più ostile?35 L’imbarazzo e il silenzio che seguirono potrebbero lasciarlo credere. Lapsus calami. La «spiritualità politica» è tuttavia l’anello che consente di iscrivere gli articoli sull’Iran nel quadro di una rifesBnF, Fonds Michel Foucault, L, dossier 10, Inutile de se soulever? La versione fnale è la seguente: «Sovrapposizione sorprendente, che faceva apparire, in pieno secolo XX, un movimento abbastanza forte per rovesciare un regime apparentemente tra i meglio armati, pur essendo vicino ai vecchi sogni che l’Occidente ha conosciuto un tempo, quando si volevano iscrivere le fgure della spiritualità nel terreno della politica». Inutile de se soulever?, cit., p. 792; tr. it. cit., p. 133. 34 L’unica citazione da parte di Foucault dell’espressione «spiritualità politica» dopo il 1978 si trova nella versione, pubblicata nel 1980, di una tavola rotonda tra il flosofo e degli storici più o meno critici del suo lavoro: «Come connettere l’uno con l’altro il modo di ripartire il vero e il falso e il modo di governare sé stessi e gli altri? La volontà di fondare interamente di nuovo l’uno e l’altro, l’uno attraverso l’altro […] è proprio questa la “spiritualità politica”». M. Foucault, Table ronde du 20 mai 1978, in Id., Dits et écrits, cit., p. 849; tr. it. Perché la prigione? Quattro risposte di Michel Foucault, in Poteri e strategie. L’assoggettamento dei corpi e l’elemento sfuggente, a cura di P. Dalla Vigna, Mimesis, Milano 1994, p. 82. 35 La sua collaboratrice e amica Arlette Farge parla di «traversata del deserto» per questo periodo: cfr. L. Vidal, Arlette Farge. Le parcours d’une historienne, «Genèses», 48, 2002-2003, pp. 120-121. 32 33

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sione in corso sulla soggettività e sulle forme di resistenza politica che essa permette, inaugurata dal corso Sicurezza, territorio, popolazione, nella primavera del 1978, cioè qualche mese prima della pubblicazione del reportage iraniano36. Il rapporto speculare tra queste due «inchieste» – una sul passato lontano, l’altra sull’attualità viva – è evidente se si considerano i loro riferimenti storici. Questi «vecchi sogni» menzionati in Sollevarsi è inutile?, la cui vaga indicazione temporale, «un tempo», assume in À quoi rêvent les Iraniens? la forma precisa del Rinascimento, indicano chiaramente i movimenti spirituali di rivolta delle condotte che si diffondono in Europa dal XII al XVI secolo, dai Catari agli Anabattisti e alla Riforma, nel contesto della pastorale cristiana. In tre interviste simultanee, non rilette da Foucault37, in cui è talvolta aggiunta la Rivoluzione inglese del XVII secolo, queste rivolte religiose, medioevali e moderne, sono in parte evocate come esempi di «spiritualità politica». Ora, queste rivolte, che vanno dal XII al XVI secolo costituiscono uno dei dossier storici maggiori di Sicurezza, territorio, popolazione. Nella conclusione della lezione al Collège de France del 1 marzo 1978, Foucault aveva mostrato che le idee religiose – l’ascetismo, la comunità, la mistica, la Scrittura, l’escatologia – potevano essere interpretate come delle «tattiche»38 per opporsi a un certo governo della vita quotidiana e che queste tattiche comunicavano quindi direttamente con le tattiche politiche e le rivendicazioni economiche o sociali. Dalle une alle altre, è in effetti in gioco la stessa questione: quella del M. Foucault, Sécurité, territoire, population. Cours au Collège de France 19771978, a cura di M. Senellart, Seuil-Gallimard, Paris 2004, lezioni del 1 e dell’8 marzo, pp. 195-253; tr. it. Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France 1977-1978, a cura di P. Napoli, Feltrinelli, Milano 2005, pp. 142-183. 37 Si tratta innanzitutto dell’intervista con Baqir Parham, a Teheran, il 23 settembre 1978, di cui abbiamo solo una versione indiretta: cfr. J. Afary e K.B. Anderson, Foucault and the Iranian Revolution. Gender and the Seductions of Islamism, cit., pp. 183-189. Si tratta, poi, dell’intervista del 13 gennaio 1979 con J. P. Enthoven, per «Le Nouvel Observateur», ad oggi ancora inedita (BnF, Fonds Michel Foucault, L, dossier 12). In quest’ultima intervista, Foucault non esita a sostenere che le rivoluzioni senza spiritualità – come la rivoluzione francese – sono un’eccezione. Infne, Foucault accorda un’intervista molto lunga, nell’estate del 1979, a Farès Sassine, in cui si sofferma sulla fgura di Calvino, per sottolineare tutta l’ambiguità di una spiritualità politica: «Mai la spiritualità politica è stata il paradiso in Terra. Calvino e la spiritualità politica di Calvino hanno portato a dei roghi» (M. Foucault, F. Sassine, Entretien, cit., p. 40). 38 M. Foucault, Sécurité, territoire, population, cit., p. 219; tr. it. cit., p. 164. 36

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rifuto di un certo governo, che Foucault, davanti alla Société française de philosophie, nel 1978, formulerà in questo modo: «come non essere governati in questo modo, in nome di questi principi, in vista di tali obiettivi e attraverso tali procedimenti»39. Dalle aspirazioni politiche alle aspirazioni spirituali non c’è analogia tra idee, ma omotetia tra volontà, nella forma di un rifuto di un certo eccesso di governo. Tuttavia, riprendendo nel suo reportage sull’Iran la nozione di «spiritualità», Foucault si spinge oltre, perché quella che era semplice indocilità al pastorato si scava all’interno, si installa in una durata e in una materia che le sono ormai proprie e si impone come lavoro di sé su sé. Da seconda, l’indocilità trasfgurata in lavoro diventa prima e, da tattica, diventa matrice. In altri termini: le operazioni di sé su sé compaiono sin dal corso del 1978, ma solo come modi di opposizione, tra altri, al potere pastorale, sempre derivati dalla volontà di non esser governati «in questo modo». Ora, questa volontà cerca un aggancio interiore, così come a ogni sollevazione serve un’«anima»40, o una «forma di vita», cioè una morale. Questa posizione, di nuovo matriciale, della spiritualità la si ritroverà nel Corso al Collège de France del 1982, L’ermeneutica del soggetto, in cui essa diviene «ascesi» e «cura di sé». Tuttavia, anche nel 1982 si produce un importante slittamento: l’ascesi de L’ermeneutica del soggetto non implica più direttamente e immediatamente un effetto politico, se non a rovescio. Essa non è più politica in sé stessa. Occupandomi di me stesso, pongo una distanza tra me e il mio compito nella società e mi costituisco una riserva di indipendenza rispetto a ogni status. È ciò che Frédéric Gros, curatore del Corso, chiama una «governamentalità della distanza etica»41. Io non mi disassoggetto: io creo, a partire da me stesso e dalle mie capacità proprie, uno spazio di libertà, a distanza da ogni oggetto. Tutta l’attività etica consisterà infatti nel porre un «intervallo» – termine usato da Foucault per commentare Seneca42 – tra la mia vita Id., Qu’est ce que la critique?, Vrin, Paris 2015, p. 37; tr. it. Illuminismo e critica, a cura di P. Napoli, Donzelli, Roma 1997, p. 37. 40 Id., L’esprit d’un monde sans esprit, cit., p. 749. 41 F. Gros, Situtation du Cours, in M. Foucault, L’herméneutique du sujet. Cours au Collège de France. 1981-1982, a cura di F. Gros, Seuil-Gallimard, Paris 2004, p. 520; tr. it. L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France. 1981-1982, a cura di M. Bertani, Feltrinelli, Milano 2003, p. 486. 42 M. Foucault, L’herméneutique du sujet, cit., p. 520; tr. it. cit., p. 487. 39

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pubblica (nella polis) e la mia vita di soggetto. Ciò che il reportage iraniano aveva ampiamente – e forse troppo rapidamente – dispiegato nello spazio di un popolo e di un paese, viene ripiegato dal Corso del 1982 sull’esiguità di una volontà autocentrata. Punto nodale e al tempo stesso critico, la «spiritualità politica» degli articoli del 1978-79 sull’Iran non è quindi un’invenzione isolata, suscitata dal solo fascino per l’evento: essa è quel concetto in cui si legano una tattica di sé non spirituale (1978) e una spiritualità non politica (1982). Si legano, però, per slegarsi subito nel pensiero di Foucault. Forse gli effetti di questo incontro diretto tra spiritualità e politica sono stati giudicati dal flosofo-giornalista troppo prevedibili e potenzialmente pericolosi per diventare, se non un ideale, almeno un’ingiunzione morale. Sarebbe in effetti problematico, se ogni azione politica sul mondo dovesse obbligatoriamente radicarsi in un’azione etica su di sé, e se questa dovesse a sua volta obbligatoriamente tradursi in quella. Foucault si è forse reso conto che sarebbe meglio mantenere una distanza – dal gioco – tra l’azione interiore (su di sé) e l’azione esteriore (sul mondo)? Distanza che può ben prendere la forma non di un’espressione diretta, ma di un’ironia, come quella di Socrate e del suo interprete Søren Kierkegaard43: l’ironia non è una semplice negazione, ancora meno una decostruzione, ma un modo di signifcare l’esistenza in modo obliquo, preservando non solo il suo segreto, ma la sua mobilità44. Non c’è dunque apprensione immediatamente sensibile del lavoro su di sé – quindi nessuna conseguenza politica immediatamente derivabile – nemmeno nella forma di una «cultura», Infne, se l’«ultimo» Foucault non ha mai risolto il problema dell’articolazione del governo di sé al governo degli altri, forse è perché non ha mai desiderato farlo, ma si è accontentato di mostrarne i passaggi multipli, di cui si potrebbe anche stabilire una 43 S. Kierkegaard, Le concept d’ironie constamment rapporté à Socrate, in Id., Œuvres complètes, t. II, a cura di P. H. Tisseau e E. M. Jacquet-Tisseau, Éditions de l’Orante, Paris 1975. Sulla portata esistenziale dell’ironia, cfr. A. Clair, Kierkegaard. Penser le singulier, Cerf, Paris 1993, pp. 11-64, capitolo 1, Ironie, dialectique, répétition. 44 Sull’importanza di questa mobilità, cfr. M. Foucault, Interview de Michel Foucault, in Id., L’origine de l’herméneutique de soi. Conférences prononcées à Dartmouth Collège. 1980, Vrin, Paris 2015, pp. 143-144; tr. it. M. Bess, Il potere, i valori morali e l’intellettuale. Un’intervista con Michel Foucault, «materiali foucaultiani», I, n. 2, luglio-dicembre 2012, pp. 137-138.

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tipologia: rapporto esteriore e circostanziale (Thomas Müntzer e la guerra dei contadini); espressione diretta e assoluta (il cinismo); raddoppiamento stretto (la Ginevra di Calvino); relazione negativa e distanziata (lo stoicismo) – altrettante costruzioni da cui si avrebbe torto ad estrarre una nuova morale contemporanea45, anche se questo bisogno è chiaramente riconosciuto da Foucault: «I recenti movimenti di liberazione soffrono per il fatto di non riuscire a trovare un principio sul quale fondare l’elaborazione di una nuova etica. Essi hanno bisogno di un’etica»46. Forse la questione non è tanto di articolare le due forme di governo, quanto quella di disarticolarle, o almeno di lasciarle alla mobilità delle loro forme e alla pluralità dei loro giochi. (Traduzione dal francese di Laura Cremonesi)

È il rischio di un libro, peraltro avvincente, come quello di Daniele Lorenzini, in cui la parrhesía («non violenta», come viene da subito precisato) diventa un modello morale e un programma politico per l’oggi: cfr. D. Lorenzini, La force du vrai. De Foucault à Austin, Le bord de l’eau, Lormont 2017, p. 150. Niente porta a pensare che Foucault auspichi un mondo in cui la politica sia retta dalla sola parrhesía, a scapito della «verità-conoscenza». 46 M. Foucault, À propos de la généalogie de l’éthique. Un aperçu du travail en cours, in Id., Dits et écrits, cit., t. II, p. 1205; tr. it. Sulla genealogia dell’etica. Compendio di un work in progress, in H. L. Dreyfus, P. Rabinow, La ricerca di Michel Foucault. Analitica della verità e storia del presente, La casa Usher, Firenze 2010, p. 303. 45

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1. La separazione tra teologico e politico La situazione politica della Francia e il pensiero politico di Simone Weil sono indissociabili. Questo è il primo dato di cui occorre tener conto nel momento in cui ci si voglia accostare ad una delle questioni politiche con cui Weil si misura nella sua intensa, per quanto limitata nel tempo1, rifessione, quale è quella del rapporto tra teologia e politica. Anch’essa, infatti, si comprende pienamente solo se collocata nel momento storico in cui Weil fu incaricata uffcialmente, dal governo francese in esilio, di immaginare scenari auspicabili per governare la Francia dopo la liberazione dai nazisti2. Questo è in 1 Sulla vita di Simone Weil (1909-1943) imprescindibile è la biografa dell’amica e compagna di studi Simone Pétrement, La vie de Simone Weil, Fayard, Paris 1973; tr. it. parziale di E. Cierlini, La vita di Simone Weil, a cura di M.C. Sala, Adelphi, Milano 1994, ma anche l’ormai classico volume di G. Fiori, Simone Weil. Biografa di un pensiero, Garzanti, Milano 1981. Per una contestualizzazione accurata e precisa nel panorama degli intellettuali degli anni Trenta, cfr. D. Canciani, Simone Weil. Il coraggio di pensare, Edizioni Lavoro, Roma 1996. 2 Dopo la fuga, nel 1940, da Parigi a Marsiglia e le varie peregrinazioni che la condurranno prima in Algeria e poi a New York, Simone Weil riesce ad arrivare a Londra e a essere assunta da André Philip, Commissario agli Interni del Governo francese a Londra, nella sezione diretta da Francis-Louis Closon, con l’incarico di vagliare e commentare proposte politiche o progetti (anche per la nuova Costituzione) elaborati dal Governo francese in esilio, oltre che prospettare lei stessa le future istituzioni socio-politiche. Sul lavoro di Weil a Londra, in relazione al rapporto tra religione e politica, interessanti spunti di rifessione, soprattutto sul testo L’Enracinement, si trovano in P. Rolland, Un texte pour la France libre e R. Chenavier, Les fondements d’un “pouvoir spirituel”, entrambi in S. Weil, Œuvres Complètes, tome V, Écrits de New York et de Londres, vol. 2, L’enracinement (1943), textes établis, présentés et annotés par R. Chenavier et P. Rolland, collaboration de M.-N. Chenavier Jullien, Gallimard, Paris 2013, pp. 11-45 e 46-

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particolare l’orizzonte degli scritti di Londra3, nei quali Weil tenta di offrire una chiara fenomenologia delle cause degli eventi che avevano coinvolto la Francia, per suggerire prospettive e correttivi realistici per il periodo post-bellico. In merito al teologico-politico mi sembra che dagli scritti di questo periodo, come proverò ad argomentare, emergano almeno tre tesi: 1) in nessun caso è auspicabile un connubio tra teologia e politica, le quali devono, piuttosto, permanere ambiti separati; 2) la politica, tuttavia, deve essere completamente pervasa di spiritualità, a tal punto da avere la capacità di irradiarla sull’intera nazione (sull’intera Europa), soprattutto in un momento costituente come quello post-bellico; 3) il rapporto tra la dimensione spirituale e quella della politica deve essere di costante ispirazione da parte della prima nei confronti della seconda; rapporto che potrebbe essere riassunto mutando lo slogan del realismo politico – politique d’abord! – in quest’altro: spiritualité d’abord! È all’interno di questo complesso rapporto, entro il quale il pensiero weiliano si muove, che tenterò di seguire le tracce di alcune rifessioni che sembrano poter confermare queste tesi. In relazione alla prima tesi, sono decisive due questioni: la prima riguarda i limiti del ruolo che Weil riconosce alla Chiesa Cattolica – con la quale si confronta in modo più diretto rispetto a quanto fa con le altre tradizioni cristiane, a causa del personale travaglio di rifessione sull’adesione o meno ad essa, che la porterà, infne, a restarne 86, ma anche in D. Canciani, M. A. Vito, Introduzione, in S. Weil, Una costituente per l’Europa. Scritti londinesi, a cura di D. Canciani e M. A. Vito, Castelvecchi, Roma 2013. 3 Mi riferisco in particolare a S. Weil, Écrits de Londres et dernières lettres, Gallimard, Paris 1957; tr. it. e cura di D. Canciani e M.A. Vito, Una costituente per l’Europa. Scritti londinesi, cit. e S. Weil, L’Enracinement. Prélude à une déclaration des devoirs envers l’être humain (1943), in Id., Œuvres complètes, tome V, Écrits de New York et de Londres, vol. 2, cit.; tr. it. di F. Fortini, La prima radice. Preludio ad una dichiarazione dei doveri verso la creatura umana, Edizioni di Comunità, Milano 1954. In questi scritti è evidente l’intersecarsi di categorie teologiche con il piano della politica, mediante argomentazioni il cui tratto più originale è costituito da alcune intuizioni – sul ruolo del diritto e dell’obbligo, sulla vulnerabilità e sull’esposizione – che saranno riprese da altri flosof che con Weil si sono confrontati, come Blanchot o Levinas. Su questa questione mi sono soffermata in R. Fulco, Emmanuel Levinas e Simone Weil: in divergente accordo, «Quaderni di InShibboleth», 3, 2014, pp. 25-48, a cui mi permetto di rinviare. Sul rapporto tra politica e religioni, con particolare attenzione a quello che viene defnito “l’universalismo religioso” di Simone Weil, ho rifettuto anche in R. Fulco, Le rapport entre politique et religions, «Cahiers Simone Weil», 3, 2017, pp. 325-343.

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fuori, per quanto sulla soglia4. Tale ruolo è considerato, da un lato, rispetto alla razionalità, facoltà intrinsecamente e irrinunciabilmente umana, alla quale Weil tributa una fedeltà assoluta, dall’altro rispetto ad istituzioni politiche che avrebbero secolarizzato alcune istanze della teologia cattolica – l’obbligo, ad esempio, di adesione agli insegnamenti del Magistero – assumendo il medesimo carattere “totalitario” che Weil individua e condanna in certi tratti peculiari della stessa Chiesa Cattolica. La questione della libertà dell’intelligenza, infatti, è per lei prioritaria, sia dal punto di vista individuale che socio-politico. Per Weil, radicata nel razionalismo alainiano e cartesiano, nessun compromesso è possibile rispetto alla libertà totale della ragione, in qualsiasi ambito5. Solo un consenso personale, in pieno accordo con i limiti, sempre personali, della propria ragione, può conciliarsi con la fede. È importante questa sottolineatura perché, se si prescindesse da essa, risulterebbe del tutto incomprensibile la professione di fede compiuta da Weil (probabilmente negli ultimi suoi giorni di vita) al Travaglio flosofcamente e teologicamente testimoniato, tra gli altri testi, in particolare dalla Lettre à un religieux (Gallimard, Paris 19802, p. 40; tr. it. e cura di G. Gaeta, Lettera a un religioso, Adelphi, Milano 1996), centrale per comprendere le relazioni personali tra Simone Weil e la Chiesa Cattolica, nonché i caratteri della sua vocazione a permanere sulla soglia della Chiesa (come ha chiarito, una volta per tutte, soprattutto Giancarlo Gaeta nella sua postfazione alla traduzione italiana della Lettera: cfr. G. Gaeta, Sulla soglia della Chiesa, ivi, pp. 97-128). La questione flosofca di fondo non è, tuttavia, estranea alla questione teologico-politica, vertendo sul rapporto tra intelligenza e misteri della fede. Molteplici sono stati i tentativi di risposta a tale Lettera, sia da parte di religiosi che di laici. Un volume recente, che ritorna da differenti prospettive sulla Lettera è P. Farina - M. A. Vito (a cura di), In dialogo con Simone Weil. Le provocazioni della Lettera a un religioso, Effatà, Torino 2015. Rispetto ai vari approcci succedutisi nel tempo in relazione alla fede sui generis di Simone Weil, mi sembra resti valida la descrizione che Weil stessa fa della sua situazione, anticipando l’eventuale accusa – l’eccessivo orgoglio dell’intelligenza – che le si sarebbe potuta muovere a partire dalla perentorietà delle sue affermazioni teologiche: «non ne può essere causa l’orgoglio; perché non c’è nulla che possa lusingare l’orgoglio in una situazione in cui si è agli occhi dei non credenti un caso patologico, dal momento che si aderisce a dogmi assurdi senza neppure la scusa di subire un’infuenza sociale; mentre si ispira ai cattolici la benevolenza protettrice, un poco sdegnosa, di chi è arrivato verso chi è in cammino» (S. Weil, Dernier texte, in Pensées sans ordre concernant l’amour de Dieu, Gallimard, Paris 1962, p. 151; tr. it. di G. Gaeta, Confessione di fede, in Lettera a un religioso, cit., p. 93). 5 Sul rapporto con Cartesio e Alain, cfr. A. Devaux, Présence de Descartes dans la vie et dans l’œuvre de Simone Weil, «Cahiers Simone Weil», 1, 1995; R. Fulco, Uno sguardo sulla via dell’Occidente. Con Alain da Cartesio a Platone, in Corrispondere al limite. Simone Weil: il pensiero e la luce, Studium, Roma 2002. 4

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cospetto del limite ultimo della propria intelligenza – kantiana anche in questo, si potrebbe dire – come lei stessa chiarisce, chiamando in causa la facoltà dell’“amore” che, solo, può aprirsi su un orizzonte ulteriore e ultimo6. Tuttavia, immediatamente dopo la confessione di fede, aggiunge: «Non riconosco alla Chiesa alcun diritto di limitare le operazioni dell’intelligenza o le illuminazioni dell’amore nell’ambito del pensiero. […] Non le riconosco il diritto d’imporre i commenti di cui circonda i misteri della fede come se fossero la verità e ancor meno di usare la minaccia e il timore esercitando, per imporli, il suo potere di privare dei sacramenti»7. Queste affermazioni relative al rapporto tra autorità del Magistero e intelligenza individuale – che danno alla rifessione weiliana un accento quasi protestante – hanno una ricaduta nell’ambito del Politico. Se nell’orizzonte individuale nessuna coercizione è ammissibile rispetto all’esercizio libero dell’intelligenza, allo stesso modo mai un’istituzione pubblica, che voglia realmente orientarsi al bene comune, può imporsi come giudice ultimo delle opinioni politiche personali. Weil ha denunciato una possibile deriva “totalitaria” soprattutto rispetto alla forma partito, tanto che, con un’argomentazione che appare foucaultiana ante-litteram, riconosce nella direzione delle coscienze8, che a suo avviso, caratterizza i partiti politici, una genealogia diretta dalla pratica in uso nella Chiesa Cattolica e nella sua lotta contro le eresie: Bisogna riconoscere che il meccanismo d’oppressione spirituale e mentale tipico dei partiti è stato introdotto nella storia dalla Chiesa Cattolica durante la lotta condotta contro l’eresia. Un convertito che entra nella Chiesa – o un fedele che la sceglie autonomamente e decide di restarvi – ha scoperto nel dogma una parte di verità e di bene. Ma, varcando la soglia, egli professa […] di accettare in blocco tutti gli articoli detti “di fede stretta”. Questi «Io credo in Dio, nella Trinità, nell’Incarnazione, nella Redenzione, nell’Eucarestia, negli insegnamenti del Vangelo. Credo, ovvero non faccio mio quanto la Chiesa dice al riguardo […] ma aderisco con l’amore alla verità perfetta, inafferrabile, racchiusa in tali misteri» (S. Weil, Dernier texte, cit., p. 149; tr. it. cit., p. 91). 7 Ivi, pp. 149-150; tr. it. cit., p. 92. 8 Tra gli altri luoghi in cui Michel Foucault ha sviluppato tale questione si vedano, in particolare, Les anormaux. Cours au collège de France 1974-1975, sous la direction de F. Ewald et A. Fontana, Seuil-Gallimard, Paris 1999; tr. it. e cura di V. Marchetti e A. Salomoni, Gli anormali. Corso al Collège de France (1974-1975), Feltrinelli, Milano 20173; Id., La volonté de savoir. Histoire de la sexualité I, Gallimard, Paris 1976; tr. it. di P. Pasquini e G. Procacci, La volontà di sapere. Storia della sessualità I, Feltrinelli, Milano 2013. 6

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articoli, non li ha studiati. […] Com’è possibile aderire ad affermazioni che non si conoscono? Basta sottomettersi incondizionatamente all’autorità da cui promanano9.

È scandaloso, secondo Weil, constatare come la Chiesa Cattolica, la quale avrebbe dovuto ispirarsi agli insegnamenti del Vangelo, abbia giocato un ruolo decisivo nell’elaborazione di procedure atte a limitare, quando non a reprimere del tutto, il libero esercizio del pensiero, fno a giungere, in passato, alle torture dell’Inquisizione. Non sorprende che istituzioni politiche fondate sul consenso e sulla fedeltà dei singoli ad una collettività, quali sono i partiti, ne abbiano mutuato le tecniche “pastorali” e “governamentali”, secolarizzandole. Il giudizio di Weil sui partiti politici è dunque durissimo, come si evince dalla tesi fondamentale della sua Note sur la suppression général des parties politiques: il male fondamentale dei partiti politici consiste nel veicolare e fabbricare passioni collettive, esercitando inaudite pressioni sul pensiero dei singoli. A causa di ciò essi costituiscono esclusivamente un pericolo per la democrazia, in quanto tutti potenzialmente totalitari e occorrerebbe, perciò, sopprimerli. La politica non deve in alcun modo rinsaldare il proprio potere e la propria autorità a partire da metodi e concetti che contengono quel germe di totalitarismo che la Chiesa, a sua volta, aveva ereditato – tesi discutibile che Weil, però, ribadisce più volte – dal potente, quanto disastroso, connubio teologico-politico tra il credo dell’Israele biblico e l’Impero Romano. La durissima condanna dell’Impero Romano e di tutte le forme teologico-politiche che ad esso si sono ispirate – Weil annovera tra queste anche l’impero napoleonico e il regime hitleriano – è uno dei riferimenti più ricorrenti e dirimenti rispetto alla tesi della necessità della separazione tra teologia e politica. Essa permea, comunque, anche le proposte politiche più pratiche che Weil immagina per la 9 S. Weil, Note sur la suppression général des parties politiques, in S. Weil, Écrits de Londres et dernières lettres, cit., pp. 141-142; tr. it. e cura di D. Canciani e M. A. Vito, Nota sulla soppressione generale dei partiti politici, in S. Weil, Una costituente per l’Europa. Scritti londinesi, cit., p. 134. Sulla Note si veda F. Ferrarotti, I partiti politici: un male non necessario, in Simone Weil. La pellegrina dell’assoluto, Messaggero, Padova 1996, pp. 37-61; ma anche D. Boitier, Quel milieu pour la circulation des idées? Critiques des partis politiques, «Cahiers Simone Weil», 3, 2014, pp. 253-269; R. Fulco, La radice totalitaria dei partiti politici. Simone Weil critica del collettivo, in F. Amigoni e F. C. Manara (a cura di), Pensare il presente con Simone Weil, Effatà, Torino 2017, pp. 213-234.

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Francia, ad esempio nelle sue rifessioni sul patriottismo. Rifettere sul patriottismo era assolutamente necessario in considerazione del momento di funesta disaggregazione che molte delle nazioni europee stavano subendo a seguito dell’invasione nazista, con la conseguente disarticolazione dei popoli nazionali tra resistenti e collaborazionisti, sorte che la Francia incarnava in modo paradigmatico: «In questo momento il mondo ha bisogno di un nuovo patriottismo. E questo sforzo deve essere compiuto ora, dato che il patriottismo è cosa che fa scorrere il sangue»10. Proprio la Francia, in considerazione del fatto che «la fedeltà alla ragione fa parte del suo patrimonio nazionale»11 e che, soprattutto dal 1789 in poi, ha assunto la vocazione universale di «elaborare i pensieri di cui il mondo ha bisogno»12, aveva il dovere di impegnarsi in un tale sforzo di invenzione. Weil, consapevole della necessità di alimentare nei francesi l’amore per la Francia, per non rischiare, a guerra fnita, la guerra civile, si guarda tuttavia bene dal proporre una qualsiasi concezione sacrale della patria, fondata su presunte investiture divine della nazione, o, soprattutto, su di un “corpo mistico”, come quella Union sacrée che aveva rinsaldato i rapporti all’interno del popolo francese nel primo confitto mondiale e che, di fatto, aveva perfettamente funzionato, in forma secolarizzata, nella Germania nazista. Nella proposta di quello che potrebbe essere defnito “patriottismo della vulnerabilità”, Weil tiene separate le due sfere, teologica e politica, partendo da una critica diretta del teologico: «È come se con il tempo si fosse fnito per considerare non più Gesù, ma la Chiesa come Dio incarnato quaggiù. La metafora del “Corpo mistico” serve da ponte tra le due concezioni. La concezione tomista della fede implica un “totalitarismo” soffocante al pari di quello di Hitler»13. Secolarizzata nel Politico, infatti, l’immagine del Corpo mistico ha effetti deleteri, a causa della potenza di unifcazione indissolubile e di identifcazione collettiva da essa veicolata: «L’immagine del corpo mistico del Cristo è molto seducente. […] Certamente si prova un’intensa ebbrezza nell’essere membro del corpo mistico del Cristo. Ma oggi molti altri corpi mistici, che non S. Weil, L’Enracinement. Prélude à une déclaration des devoirs envers l’être humain, cit., p. 231; tr. it. cit., p. 128. 11 Ivi, pp. 230-231; tr. it. cit., p. 128. 12 Ivi, p. 231; tr. it. cit., p. 128. 13 S. Weil, Lettre à un religieux, cit., p. 40; tr. it. cit., p. 41. Sulla questione, cfr. G. Gaeta, Sulla soglia della Chiesa, ivi, pp. 110-112. 10

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hanno Cristo come testa, procurano ai loro membri ebbrezze a mio avviso della medesima natura»14. Weil prova, quindi, a proporre un patriottismo di segno opposto a quello di stampo imperiale, “inventando” nuove categorie sulle quali fondarlo, in quanto tutte quelle messe in atto nella storia le apparivano intrinsecamente contaminate dai concetti di potenza e/o sacralità della patria, nonché dominate dalla tentazione del costante appello alla grandeur. Per operare questo capovolgimento Weil trova ispirazione nel rapporto, descritto dai Vangeli, tra Gesù e Gerusalemme: in esso domina un sentimento, estraneo alla forza, che le appare qualifcabile come “amore” verso un certo tipo di patria: è la compassione, che Cristo dimostra piangendo sul destino di Gerusalemme, parlandole come ad un essere umano e non smettendo di averne pietà fno alla morte in croce. Un simile sentimento, ad avviso di Weil, ha animato anche, ad esempio, i Cartaginesi pronti a difendere la loro patria dalla distruzione programmata dai Romani. La compassione, pur estranea alla forza, possiede un’energia che consente di combattere, ma con un fne del tutto diverso da quello della conquista di una grandeur, o del consolidamento di un “corpo mistico”, e che, dunque, riesce a mutare la natura stessa del combattere: «Questo sentimento di pungente tenerezza verso una cosa bella, preziosa, fragile e peritura è ben più ardente di quello che si prova verso la grandezza nazionale. […] Si può amare la Francia per la gloria che pare assicurarle una esistenza che si prolunga nel tempo e nello spazio. O si può amarla come cosa che, terrestre qual è, può venir distrutta e che vale quindi tanto di più»15. 2. La spiritualità della politica Questa argomentazione ci consente di passare alla seconda tesi: una tale concezione politica del patriottismo è fnalizzata, infatti, ad ispirare nel popolo un certo sentimento della “precarietà”16. Questo 14 S. Weil, Attente de Dieu, Fayard, Paris 1966, pp. 58-59; tr. it. e cura di M. C. Sala, Attesa di Dio, Adelphi, Milano 2008, pp. 40-41. 15 S. Weil, L’Enracinement. Prélude à une déclaration des devoirs envers l’être humain, cit., p. 251; tr. it. cit., p. 149. 16 Judith Butler, dopo l’11 settembre, ha sviluppato in modo originale, a partire da Derrida e Levinas, una “politica del lutto” che, contro l’istanza della forza e della violenza, riconosce nella vulnerabilità il proprio presupposto: cfr. J. Butler, Precarious Life: The

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può accadere, però, soltanto a partire da un orizzonte etico-spirituale che la politica dovrebbe assumere come proprio, di cui dovrebbe impregnarsi a tal punto da irradiarlo sull’intera nazione: la scelta della vulnerabilità piuttosto che della grandeur come oggetto dell’amor di patria è, infatti, qualifcabile come una scelta etica, ma essa non può essere compiuta, sembra, se non all’interno di un certo orizzonte spirituale, per quanto aconfessionale. La principale diffcoltà, dal punto di vista flosofco, è posta dallo statuto di una tale spiritualità a-teologica che, appunto, sembrerebbe poter essere assimilata a un’etica “laica”, atea perfno, di innegabile origine kantiana – nel considerare, ad esempio, l’essere umano sempre come un fne e mai come un mezzo – senza, tuttavia, identifcarsi del tutto con essa. Questa istanza, infatti, è fondata – non per scelta del singolo, che può addirittura essere inconsapevole di un tale fondamento, ma, direi, ontologicamente – su di una dimensione soprannaturale o, comunque, contronaturale. Per quanto, infatti, Weil si sforzi di conferire una portata universalistica alle sue proposte, bisogna prendere atto del fatto che la concezione flosofco-politica da lei suggerita negli ultimi anni di vita ha come condizione a priori l’affermazione che troviamo in apertura dell’Étude pour une déclaration des obligations envers l’être humain, che fonda, appunto, il seguito delle sue argomentazioni su di una dimensione soprannaturale: Vi è una realtà situata fuori del mondo, vale a dire fuori dello spazio e del tempo, fuori dell’universo mentale dell’uomo e di tutto ciò che le facoltà umane possono cogliere. A questa realtà corrisponde, al centro del cuore umano, l’esigenza di un bene assoluto che sempre vi abita e non trova mai alcun oggetto in questo mondo. […] Come la realtà di questo mondo è l’unico fondamento dei fatti, così l’altra realtà è l’unico fondamento del bene17.

Secondo Weil è, dunque, una realtà soprannaturale la fonte e l’origine del Bene e di ogni aspirazione ad esso. Non c’è qui, è vero, alcun riferimento a una specifca confessione di fede, tanto che Powers of Mourning and Violence, Verso, London-New York 2004; tr. it. di A. Taronna, L. Fantone, F. Iuliano, C. Dominijanni, F. De Leonardis, L. Sarnelli, a cura di O. Guaraldo, Vite precarie. I poteri del lutto e della violenza, postmedia books, Milano 2013. 17 S. Weil, Étude pour une déclaration des obligations envers l’être humain, in Id., Écrits de Londres et dernières lettres, cit., p. 74; tr. it. di D. Canciani e M. A. Vito, Dichiarazione degli obblighi verso l’essere umano, in Una costituente per l’Europa, cit., p. 114.

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questa realtà soprannaturale sembra sintetizzare il “Bene al di là dell’Essere” di Platone – formula che sarà ripresa anche da Levinas – e la “legge morale dentro di me” di Kant. Meno di uno specifco riferimento a una confessione religiosa, ma più di un’etica, la realtà soprannaturale a cui si rivolge Weil è luogo di irradiazione di ogni scintilla di Bene che, nell’immanenza, potrà assumere le più diverse forme, sia nelle differenti manifestazioni del divino, sia sul piano etico di azioni buone, che su quello estetico della bellezza della natura o dell’arte, che su quello della giustizia e della politica; forme mutevoli nello spazio come nel tempo, la cui fenomenologia immanente può essere racchiusa e custodita tanto dalle sacre scritture di ogni religione, che dal grande patrimonio della tradizione mitica, simbolica, folklorica, la quale, nelle differenti civiltà ed epoche, ha accompagnato la storia dell’umanità. Questa affermazione di principio, tuttavia, lungi dal preludere a una impostazione teologica del discorso politico weiliano, lo colloca, piuttosto, in una dimensione complessa in cui la separazione dei due ambiti non comporta mai l’esclusione pregiudiziale di uno dei due. Il metodo di Weil è quello utilizzato per il concetto di patriottismo: partire da concetti politici o teologico-politici, già presenti nel patrimonio culturale della nazione, per trasformarli. Questa modalità si ritrova costantemente nel pensiero weiliano: questi concetti vengono assunti, ma per essere rovesciati, non tanto nel senso di trasformati nel loro opposto, quanto, piuttosto, nel senso di essere rivoltati: l’interno viene portato all’esterno, le profondità alla superfcie. La costante di questo vero e proprio “rivolgimento” (teologico-politico), cui potremmo anche dare il nome di “conversione”, è che esso si compie contro la forza e la violenza, contro la potenza, che quasi sempre afforano alla superfcie dei concetti veicolati dalla teologia e dalla politica. Tuttavia la separazione dell’ambito teologico da quello politico non deve comportare, ad avviso di Weil, la totale messa al bando della religione, o una subordinazione di essa alla politica, come neppure il suo contrario. La storia di Francia aveva attraversato entrambe queste fasi, che Weil considera deleterie: Luigi XIV aveva degradato la Chiesa francese associandola al culto della sua persona e imponendole ubbidienza persino in materia di religione. Quel servilismo della Chiesa nei confronti del sovrano fu un elemento importante nell’anticlericalismo del secolo seguente. Ma quando commise l’errore irre343

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parabile di associare il suo destino a quello delle istituzioni monarchiche, la Chiesa si staccò dalla vita pubblica. Proprio quello che ci voleva per le aspirazioni totalitarie dello Stato. Ne risultò il regime laico, preludio della dichiarata adorazione dello Stato come tale, che è oggi in auge18.

I credenti, in un regime rigorosamente laicizzato, avrebbero solo due scelte: o impegnarsi totalmente in politica, con l’obiettivo di instaurare un governo teocratico a partire dalla propria confessione religiosa, o rassegnarsi all’irreligiosità della loro vita profana, come a Weil sembrava avvenisse in Francia: «In ambedue i casi si abbandona la funzione propria della religione che consiste nell’impregnare di luce tutta la vita profana, pubblica e privata, senza mai dominarla»19. Questo è il punto nodale: separazione e, tuttavia, relazione tra religione e politica. L’unica forma possibile affnché ciò possa avvenire è quella dell’ispirazione, oggetto della terza tesi. 3. L’ispirazione spirituale della politica Due concetti mi sembrano particolarmente signifcativi in relazione sia alla seconda tesi che all’ultima, ad essa strettamente collegata – cioè quella del rapporto di ispirazione che dovrebbe sussistere tra la spiritualità e la politica – in quanto conducono a un vero e proprio cambiamento di paradigma nella concezione della sovranità e del potere: il primo è il concetto di creazione (e l’immagine di Dio ad essa legata); il secondo, che riguarda la fgura del Figlio di Dio, è il concetto di incarnazione. Per Simone Weil la potenza creativa di Dio non si estrinseca nel processo attivo della creatio ex nihilo: Dio non crea il mondo, ma si ritira in sé, lasciando che altro da sé sia. Nel suo ritirarsi, lascia che altro venga al mondo, che lo stesso mondo avvenga20. Ogni essere che viene al mondo corrisponde, dunque, a un rin18 S. Weil, L’Enracinement. Prélude à une déclaration des devoirs envers l’être humain, cit., p. 208; tr. it. cit., p. 105. 19 Ibid. 20 Per quanto Weil non lo conoscesse direttamente, risuona qui la teoria kabbalistica di Isaac Luria che, com’è noto, ha il suo fulcro in tre grandi momenti: lo Tzimtzum, o autolimitazione di Dio, la shevirat ha-kelim o rottura dei vasi, e il Tikkun o riunifcazione armonica ed eliminazione del male causato dalla rottura dei vasi. Evidentemente i tre momenti sono interconnessi e dipendenti (cfr. G. Scholem, Zur Kabbala und ihrer Symbolik, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1973; tr. it. di A. Solmi, La Kabbalah e il suo

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novato ritirarsi di Dio. Una tale “creazione per ritrazione” viene da Simone Weil chiamata de-creazione21 e, a suo avviso, costituisce un indice infallibile per distinguere tra un dio vero e un idolo, come tra religioni vere e idolatriche. Il riferimento è, innanzitutto, alla religione dell’Antico Testamento, nella quale molteplici racconti esaltano l’Onnipotenza del Dio degli eserciti. Ma ogni religione che esalti la potenza di Dio, anche quella cristiana quando si orienta verso la teologia della Gloria, è falsa. L’immagine di Dio che la decreazione offre introduce una frattura nella simbolica teologico-politica del Dio Re dell’Universo, del Signore del mondo. Il mondo è, in verità, svuotato di Dio, lasciato‑essere e, quindi, abbandonato alle stesse leggi che regolano la natura. Le tracce della ritrazione di Dio, tuttavia, sono sparse come scintille in tutto l’universo e aspettano solo di essere riconosciute, decifrate. L’unico modo per giungere a intercettarle è che ciascuno singolarmente accetti di imitare il gesto decreativo di Dio: rinunciare alla propria pienezza, per fare spazio a un vuoto, rinunciare ad essere pienamente sé, per partecipare all’essere di Dio, quindi al non-essere22; limitare la propria soggettività dominata dal conatus essendi, per accedere a una dimensione di ulteriorità rispetto al piano simbolismo, Einaudi, Torino 1980). Uno dei primi a parlare del debito impensato di Weil nei confronti, in particolare, della mistica ebraica, è stato Massimo Cacciari, Note sul discorso flosofco e teologico di Simone Weil, «Il futuro dell’uomo», 2, 1982, pp. 47-49. 21 Sul concetto di decreazione si vedano E. Gabellieri, “Décréation” et donation, in Être et don. Simone Weil et la philosophie, Peeters, Louvain 2003, pp. 491-523; R. Chenavier, La “décréation”, achever la création, in R. Chenavier, Simone Weil. L’attention au réel, Michalon, Paris 2009; tr. it. e cura di F. Negri, La “decreazione”, completare la creazione, in Simone Weil. L’attenzione al reale, Asterios, Roma 2016; L. A. Manfreda, De-creazione, discorso etico, scrittura privata, in M. Durst, L. A. Manfreda, A. Meccariello (a cura di), Simone Weil tra politica e mistica, Aracne, Roma 2011, pp. 79-89. L’aspetto kenotico della decreazione aveva interessato, non a caso, anche un pensatore come Sergio Quinzio, che della kénosi aveva fatto il fulcro del suo pensiero, e che si confronta con Weil in S. Quinzio, Tra Grecia e Israele, in Id., La croce e il nulla, Adelphi, Milano 20062, pp. 47-53. Su questi aspetti del pensiero di Quinzio mi sono soffermata in R. Fulco, Kénosis e Katékon. Potere, nichilismo, messianismo in Sergio Quinzio, in P. Amato, R. Fulco, S. Gorgone, C. Resta, V. Surace, Schegge messianiche. Filosofa Religione Politica, a cura di C. Resta, Mimesis, Milano-Udine 2017, pp. 79-97. 22 Questo aspetto è signifcativamente messo in luce nell’interpretazione che Massimo Cacciari dà della decreazione a partire dal concetto gnostico di creazione come katabolé – che sarebbe anticipazione della Passione del Figlio. Per tornare alla vera dimensione divina occorre decrearsi, farsi ni-ente: «La concezione gnostica dell’esistenza fnita come intrinsecamente male e della redenzione come nientifcarsi di tale esistenza defnisce a priori come polemico-drammatico il rapporto di Weil con il cristianesimo» (M. Cacciari, Platonismo e gnosi. Frammento su Simone Weil, «Paradosso», 1, 1992, p. 127).

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della natura e delle sue leggi. Una via che non può essere imposta, ma solo scelta, acconsentendo a percorrere a ritroso la strada della padronanza su di sé, del potere, verso la non-padronanza e l’im-potere23. Proprio questo concetto di creazione come de-creazione, utilizzato per decostruire l’immagine di un Dio Onnipotente e Signore del mondo, è stato determinante per la rifessione weiliana degli ultimi anni di vita, che ha assunto un carattere di critica marcata della sovranità, intesa come sovranità assoluta, e del potere totalitario, ma anche del soggetto autofondato e autonomo24. La fgura del Figlio di Dio, a sua volta, ha assunto, nella rifessione weiliana, un ruolo analogo per la critica al concetto di sovranità. Il Figlio di Dio, in quanto eminente fgura della mediazione, metaxy`, ponte tra Dio e l’uomo, incarna al massimo grado il processo di decreazione e abbassamento, di kènosis, proprio di Dio Padre: «chi vede me, vede il Padre» (Gv 12, 45). In effetti, secondo Weil, l’incarnazione rappresenta non la pienezza del Dio fatto uomo, ma, piuttosto, la “mortifcazione” del principio divino. Gesù, il Figlio, è lasciato‑essere nel mondo, abbandonato alle sue leggi fno alla morte in croce. L’immagine di Dio incarnata in Gesù è quella kenotica25, che comprende in sé un doppio movimento, di decreazione e di abbassamento, secondo Sulla decostruzione della sovranità e sull’im-potere ha rifettuto soprattutto Jacques Derrida. Sulla questione, fondamentali sono le rifessioni di Caterina Resta, La passione dell’impossibile. Saggi su Jacques Derrida, il melangolo, Genova 2016. 24 Sullo statuto della soggettività e della persona Weil rifette, in particolare, in La personne et le sacré, in Id., Écrits de Londres et dernières lettres, cit; tr. it. di M. C. Sala, La persona e il sacro, a cura di M. C. Sala, Adelphi, Milano 2012. Sulla questione della soggettività in relazione al potere ho rifettuto in R. Fulco, Soggetto e impersonale negli ultimi scritti di Simone Weil, in F. Amigoni e F. C. Manara (a cura di), Pensare il presente con Simone Weil, cit., pp. 125-166, a cui mi permetto di rinviare. Illuminanti, a questo proposito, le costellazioni ermeneutiche sul pensiero weiliano indicate da Roberto Esposito, Categorie dell’impolitico, il Mulino, Bologna 19992, pp. 199-244. Esposito torna sulla concezione weiliana della persona in Terza Persona. Politica della vita e flosofa dell’impersonale, Einaudi, Torino 2007, in particolare, cfr. pp. 122-126. Sul dispositivo della persona in chiave teologico-politica, rifette, invece, in R. Esposito, Due. La macchina della teologia politica e il posto del pensiero, Einaudi, Torino 2013, riconoscendo in esso l’origine del legame indissolubile tra soggettività e assoggettamento: «Se c’è qualcosa che il dispositivo, romano e cristiano, della persona proietta fno a noi è proprio questo nodo teologico-politico tra soggettività e assoggettamento. Del resto il perno di commutazione semantica tra libertà e obbedienza non è espresso in greco ma in latino» (p. 114). 25 A questa immagine kenotica del Cristo, esemplarmente ritratta in un Ecce homo di Antonello da Messina, ha dedicato un intenso commento C. Resta, Ecce homo, in P. Amato, R. Fulco, S. Gorgone, C. Resta, V. Surace, Schegge messianiche, cit. 23

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la dinamica ben chiara già a san Paolo (Fil 2, 5-8), il quale invitava i Filippesi a imitare il processo kenotico di Gesù, come Weil non manca di ricordare. Nella fgura del Figlio di Dio incarnato si manifesta, dunque, un’ulteriore critica al potere come potenza dispiegata. Ciò che Weil critica, infatti, è l’illimitatezza connaturata al potere concepito sulla base degli attributi teologici dell’onnipotenza, dell’onniscienza, dell’ubiquità. L’illimitatezza, sia in senso temporale – il dominio acquisito si proietta sempre verso un’eterna durata – che spaziale – il dominio tende alla propria espansione ubiqua – è intrinseca a questo potere costituito a partire dalla secolarizzazione dell’onnipotenza divina. Un tale potere, in cui tutti gli interstizi sono riempiti dalla brama di dominio e dalla presa sui sudditi/cittadini, non può che interiorizzare la violenza necessaria alla sua autoriproduzione, perdendo la capacità di auto-limitarsi rispetto al suo uso indiscriminato. La critica di Simone Weil mette all’indice in maniera diretta un troppo pieno – di potere, di gloria, di prestigio – che avrebbe preso il posto dell’assenza, del ritrarsi di Dio, a tal punto da determinare l’illeggibilità della lingua dell’assenza, la cancellazione delle sue tracce. Vero sovrano per Weil è, potremmo dire, chi applica lo stato d’eccezione a sé stesso e autosospende la propria sovranità, introducendo in essa una vacatio ontologica: il sovrano ha già da sempre abdicato, si è auto-deposto, come Dio, che si è ritirato dal mondo e si è “depotenziato” nel Figlio. La logica che sta dietro la rifessione weiliana è quella della negazione: Dio è altro dal mondo, è non-mondo, separato da esso. Affnché vi possa essere una relazione tra Dio e mondo occorre attraversare il niente, farsi non-essere, rinunciare al pieno dell’essere. Mentre nel pensiero politico occidentale la logica del niente subisce di frequente, sul piano politico, uno scivolamento nell’annientamento dell’altro da sé – il nemico – nel pensiero di Simone Weil l’annichilimento ontologico operante nel processo di de-creazione – esemplato nella fgura del Figlio – permette, piuttosto, all’altro da sé di esistere: la nientifcazione operante nella de-creazione non è transitiva, ma rifessiva26. In che modo una simile concezione può ispirare direttamente una proposta politica? Nel testo Legittimità del Governo Provvisorio, possiamo trovarne, mi sembra, un esempio abbastanza convincente. 26 Sulla logica della negazione nel pensiero occidentale, acute e originali sono le rifessioni di R. Esposito, Politica e negazione. Per una flosofa affermativa, Einaudi, Torino 2018.

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Simone Weil immagina il governo di transizione più adatto per la Francia al momento della liberazione. Si tratta, dunque, di un testo dichiaratamente politico. Weil concorda sull’opportunità di affdare il governo al generale de Gaulle, legittimato dalla fducia di un numero crescente di francesi e dal ruolo svolto fno a quel momento per il governo francese in esilio. Il suo compito, ad avviso di Weil, dovrebbe essere, innanzitutto, quello di suprema guida spirituale per risollevare i francesi schiantati dalla guerra, ma anche dalla débâcle morale del collaborazionismo. Per rimanere tale de Gaulle dovrà, però, essere consapevole della provvisorietà del suo potere: Dovrebbe dichiarare di essere deciso a conservare il suo potere come un deposito durante il periodo – due anni ad esempio – necessario affnché il paese acquisisca la capacità di forgiare da sé il proprio destino […]. Sembra evidente che l’esercizio del potere provvisorio comporti la rinuncia a una ulteriore carriera politica. La preoccupazione per una ulteriore carriera rischierebbe di alterare la purezza assoluta indispensabile all’esercizio del potere provvisorio in condizioni così tremende27.

In questo caso la sottrazione al meccanismo della forza e dell’espansione del potere sarebbe la garanzia di ciò che Weil defnisce “purezza assoluta” nell’azione di governo: una sovranità la cui caratteristica deve essere la rinuncia preventiva, il farsi da parte già prima di iniziare, anzi, come condizione per l’inizio. La dinamica dell’autodissoluzione, accettata in anticipo, è ciò che crea uno iato con la dinamica di espansione del potere. Un potere che rinuncia preventivamente al proprio durare, affnché altro possa avvenire, non può essere pensato che a partire da un’ispirazione della politica che, però, proviene da un “fuori” dalla politica, quella sfera spirituale che ha permesso a Weil di pensare la decreazione28. L’orizzonte del Politico, sostanzialmente, al contrario di quanto si è pensato da Hobbes in poi, non sarebbe affatto riuscito a sottrarS. Weil, Légitimité du gouvernement provisoire, in S. Weil, Écrits de Londres et dernières lettres, cit., p. 71; tr. it., Legittimità del governo provvisorio, in Una costituente per l’Europa, cit., p. 99. 28 Un altro esempio di azione in cui una potenza si manifesta non a partire dalla forza ma dalla vulnerabilità è quello delle infermiere di prima linea, i cui tratti teoretico-politici più interessanti sono analizzati, a partire dall’insieme della rifessione politica weiliana, da Roberto Esposito in L’origine della politica. Hannah Arendt o Simone Weil?, Donzelli, Roma 20142. 27

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si all’orizzonte naturale, dominato dalla violenza: per quanto messa in forma, infatti, essa resta, per Weil, non una mera origine del politico, dalla quale avremmo preso defnitivamente congedo mediante le istituzioni statali, ma un’origine che permea l’intera genealogia del Politico. Tuttavia, istituzioni capaci di un reale mutamento di prospettiva, ad avviso di Weil, sembrano ben lungi dall’essere realizzate: «occorre inventarle perché sono sconosciute, ed è impossibile dubitare che siano indispensabili»29. Weil avrebbe voluto che la sua rifessione costituisse una fonte di ispirazione affnché le relazioni tra spiritualità e politica potessero essere pensate nella forma di un rapporto tra due istanze ugualmente importanti, certamente separate, ma indissociabili. Infatti una tensione, potremmo dire, tra quello che è possibile in un orizzonte puramente immanente e ciò che è giusto secondo un ordine trascendente attraversa le proposte weiliane, nelle quali il bene è, però, un’istanza proveniente sempre da un oltre rispetto al piano dell’immanenza. Una effcace ispirazione della politica a partire da un orizzonte etico-spirituale, come auspicato da Weil, avrebbe potuto comportare proprio il superamento dell’opposizione tra il giusto e il possibile, giungendo non solo ad immaginare, ma a realizzare istituzioni sempre più giuste.

29 S. Weil, La personne et le sacré, in Id., Écrits de Londres et dernières lettres, cit., p. 44; tr. it. di M. C. Sala, La persona e il sacro, a cura di M. C. Sala, Adelphi, Milano 2012, p. 55.

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“Pensare il teologico-politico a partire dalla pena di morte”: il sovrano, l’Illuminismo e la decostruzione Jean-Claude Monod

Il lavoro di Derrida sulla pena di morte è sempre stato una forma mista di analisi – tra una rifessione e un appello – delle forme tutt’oggi in vigore della pena di morte e, dunque, anche di una necessaria disamina dei progressi, dei successi, come pure dei limiti dell’abolizionismo incompiuto o “degli” abolizionismi. È proprio questo duplice gesto che desidererei, in questa sede, insieme, chiarire, interrogare e mettere in relazione. Nel suo seminario del 1990-2000, La pena di morte, dopo aver presentato quattro processi paradigmatici conclusisi con una condanna alla pena di morte – Socrate, Gesù, Al-Hallaj e Giovanna d’Arco – Derrida nota che si trattava di “processi dal contenuto tematico religioso”, mentre la “condanna a morte” era garantita da “un’istanza politico-statale”. Derrida richiama allora «la possibilità della pena di morte come violenza teologico-politica», e prosegue affermando: «questo concetto relativamente grezzo, ma già assai determinato, del teologico-politico, teologico-giuridico-politico, richiederà da parte nostra una interminabile analisi. Analisi nel corso della quale non dovremmo presupporre di sapere già ciò che vuol dire “teologico-politico”, come se ci restasse solo da applicare, in seguito, il concetto generale a un caso o a un fenomeno particolare chiamato “pena di morte”. No. Piuttosto bisogna fare l’inverso. Forse bisogna procedere in senso contrario, cioè tentare di pensare il teologico-politico nella sua possibilità a partire dalla pena di morte»1. 1 J. Derrida, Séminaire. La Peine de mort I (1990-2000), éd. établie par G. Bennington, M. Crépon, T. Dutoit, Galilée, Paris 2012, p. 50; tr. it. di S. Facioni, La pena di morte I (1999-2000), a cura di G. Dalmasso e S. Facioni, Jaca Book, Milano 2014, p. 44.

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Cosa signifca pensare «il “teologico-politico” a partire dalla pena di morte»? La diffcoltà sta interamente, a ben vedere, nel fatto che Derrida collega il chiarirsi del senso del «concetto di teologico-politico» a una «interminabile analisi» che la pena di morte deve poter, in modo circolare, chiarire. Vorrei tentare qui di esplicitare questo gesto, ma anche, in itinere, porre o aggiungere ulteriori questioni alle rifessioni di Derrida. La prima questione è inerente al teologico-politico, alla secolarizzazione e all’abolizione. Se è necessario pensare il teologico-politico, nella sua possibilità, a partire dalla pena di morte, si può intravedere o supporre un legame correlativo inverso? Cioè, da una parte, un legame tra l’abolizione della pena di morte – a fortiori la sua abolizione assoluta – e, dall’altra, una “uscita” dal teologico-politico, un declino, una “fne” del teologico-politico, forse una secolarizzazione, una laicizzazione più radicale, più “assoluta”, più universale? Claude Lefort ha suggerito che la democrazia moderna rappresentava una certa uscita dal teologico-politico, poiché “svuotava” il luogo del potere “incarnato”, da tempo immemore, dal vicario di Dio, il re con il suo duplice corpo, o l’imperatore ecc. Derrida non ha teorizzato nulla di simile. Non afferma, non suppone neanche che possa o potrà accadere (o esser già accaduto) qualcosa come una “uscita”, una fne del teologico-politico, e considera il concetto di secolarizzazione come inadeguato, superfciale – e questo coinvolge, ovviamente, la defnizione, la determinazione di questo concetto. Del resto, l’idea di un’abolizione “assoluta” della pena di morte, “l’assolutezza” dell’abolizione, può davvero essere altro da una certa ingiunzione, non soltanto etico-politica, ma ancora – e sempre – teologico-politica? Un’esigenza probabilmente radicata nel “Tu non ucciderai” – comandamento che appare “assoluto”, ma che è, tuttavia, immediatamente “circoscritto”, contraddetto nella Bibbia, come ricorda Derrida. È necessario pensare un’esigenza di “diritto” assoluto alla vita, per lo meno contro lo Stato che pretenderebbe di prendersela? Nello stesso tempo, ed è qui che si crea una tensione, un’esitazione, forse perfno un “doppio gioco” di Derrida – Derrida sembra riservare, riservarsi forse, la via, la possibilità di una via propria, di una «decostruzione radicalmente non-cristiana», che comprenda una decostruzione non-cristiana della pena di morte. E, al contem-

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po, un abolizionismo radicalmente non-cristiano, cosa che non è stata o non sarebbe stata, secondo Derrida, né l’abolizionismo durante l’Illuminismo (Beccaria, Voltaire…), né l’abolizionismo di Victor Hugo, sostenuto da un cristianesimo umanista, senza e contro la Chiesa, e neppure quello di Camus, il cui immanentismo antropologico è, secondo Derrida, perfettamente integrabile al cristianesimo2, religione della mediazione e dell’incarnazione – «il discorso di Camus […] sarebbe più cristiano, più cristico di quanto non lo si crederebbe»3. Che cosa distinguerebbe questo abolizionismo radicalmente non-cristiano, e staccato, forse, da ogni teologia politica, dalle forme precedenti? Il secondo blocco di questioni verte sulla storia dell’abolizione, sul ruolo, in essa, dell’Illuminismo e sulle trasformazioni della sovranità. Oggi esiste una storia dell’abolizione. La modalità con cui ci si rappresenta la storia dell’abolizione non è, con tutta evidenza, senza conseguenze sul modo in cui si comprende il “seguito”, l’avvenire della pena di morte, e forse l’universalizzazione della sua abolizione. Derrida è sempre stato diffdente rispetto alla storicizzazione teleologica, all’interno della quale la storia, in defnitiva, non farebbe che sviluppare la logica “necessaria” e irresistibile di una Idea della ragione o della libertà. È questo, ancora, il caso del grande racconto dell’Illuminismo, trasmesso da alcuni flosof della Storia del XIX secolo, e, forse, dal racconto fondatore del “progressismo” repubblicano, di una sinistra insieme repubblicana e metafsica, il cui rappresentante più eloquente, tra quelli individuabili in questa serie, è senza dubbio Victor Hugo. Il seminario sulla pena di morte è certamente un tributo, un omaggio reso a questa tradizione dei promotori dell’abolizione: Beccaria, Hugo, Camus, Badinter. Tuttavia, da un lato, Derrida così prosegue la sua decostruzione dell’umanismo e mostra che, paradossalmente, molti dei fautori della pena di morte, e la storia del suo perfezionamento tecnico, hanno favorito un certo discorso “umanista” – o, per lo meno, che si pretendeva tale. Dall’altro lato, però, Derrida si interroga sulle condizioni, le eccezioni, le fragilità delle argomentazioni abolizioniste, e rende questa storia più “tesa”, più complessa, e decisamente sicura… del suo avvenire. 2 3

Ivi, pp. 287-288; tr. it. cit., pp. 257-259. Ivi, p. 288; tr. it. cit., p. 258.

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È noto che raramente si trovano, in Derrida, delle “tesi” semplici, il cui enunciato non sia immediatamente seguito da riserve e da complicazioni, eppure, proprio qui, troviamo la seguente: «È sempre e solo limitando la sovranità degli Stati che si rimetterà in questione la pena di morte»4. Una tesi che si delinea a partire dal seminario sulla pena di morte, pensata a partire dal teologico-politico, è quella che la storia della pena di morte e della sua abolizione siano inseparabili dal teologico-politico, e cioè da una storia, tuttora in corso, tuttora agente, sia della sovranità come diritto di (vita e di) morte che della decostruzione della sovranità. La decostruzione di questi testi, sul limite tra il XX e il XXI secolo, non è pensata semplicemente come il gesto o il metodo del flosofo Derrida, ma come un processo in corso, la decostruzione in atto della sovranità. L’abolizione ha preso posto in una nuova economia del potere, una economia che è, per certi versi, una economia post-sovranità classica, o, per lo meno, che accompagna i mutamenti della sovranità e il declino di una certa fgura del sovrano. Le suggestioni di Derrida incrociano, qui, senza confrontarvisi e senza discuterle veramente, le tesi di Foucault: c’è stato “lo splendore dei supplizi”, c’è stata l’era della sovranità come potere di far morire o lasciar vivere5. Questo potere si manifestava in una giustizia folgorante, discontinua, spettacolare: i supplizi della pena medicalizzata, del dispositivo medico-penale, della sanzione individualizzante, adattata, “esperta”, della “biopolitica” – potere di “far vivere” attivamente (per mezzo dello Stato sanitario, delle politiche della salute, dello Stato-Provvidenza, dell’igienismo) e di lasciar morire. Queste formule brillanti e incredibilmente feconde a titolo euristico possono contribuire a spiegare in modo del tutto differente i progressi dell’abolizione: non semplicemente in termini di successo dell’umanismo e dei diritti dell’uomo, ma nei termini di una trasformazione nell’economia del potere di punire e delle tecniche di governo delle popolazioni. A partire da un certo momento storico, lo Stato moderno e la nuova classe dirigente, la borghesia, non hanno più avuto bisogno, quantomeno in Europa, di quella tecnica arcaica, Ivi, p. 118; tr. it. cit., p. 105. Scopro nel seminario di Derrida che questa opposizione, divenuta classica a partire dalle rifessioni di Foucault in La volontà di sapere, si trovava già, letteralmente, in L’Esecuzione di Robert Badinter. Non è escluso che sia proprio lì che Foucault l’abbia reperita. 4 5

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associata alla sontuosa economia della sovranità regale. La biopolitica offre altri meccanismi di controllo. Tuttavia anche su questo punto Derrida ha mostrato – altrove, nel seminario La Bestia e il Sovrano – tanto interesse quanto un certo, ironico, scetticismo rispetto alle ampie scansioni epocali, al grande passaggio dalla sovranità – ieri, e dunque? È fnita la sovranità? – alla biopolitica – oggi, e quindi? Il fatto che la politica “abbia effetto” sul vivente, sul corpo, sullo zoon politikòn sarebbe un evento dell’oggi? Vi sarebbe un terzo racconto possibile, di ascendenza hegeliana: la “pena di morte” avrebbe costituito il tramite grazie al quale il terzo, lo Stato, avrebbe “strappato” il diritto di punire alle fazioni coinvolte in omicidi e contro-omicidi, alla vendetta infnita delle Erinni, contenendo quella violenza e concentrandola sul colpevole. Tuttavia, per privare i protagonisti della vendetta infnita, per far accettare questo primigenio spossessamento, che è all’origine della giustizia razionale, occorreva, quantomeno, che il terzo infiggesse la morte al colpevole. Soltanto in un secondo momento, una volta acquisito e istituito il principio di un terzo che giudica e punisce, l’abolizione di quella pena e l’ammorbidimento della giustizia sarebbero diventati accettabili. Da parte sua, Derrida non fornisce alcun “racconto” ordinato, esplicativo, univoco, dei progressi dell’abolizione, ma articola il suo discorso attorno ad alcune “scene” storiche, “scene originarie” (i processi già citati) e scene più recenti, cerimonie di esecuzione raccontate dai grandi testimoni della pena di morte e dai fautori dell’abolizione (Hugo, Camus, Badinter…). Ma il discorso di Derrida non è di tipo storico-retrospettivo: il seminario si colloca all’interno di una rifessione di lungo respiro sul teologico-politico, con i suoi due poli: la bestia e il sovrano, con i suoi “atti”, anch’essi bipolari: da un lato il dono della grazia, il perdono, dall’altra il dono di morte, la pena di morte. La terza questione sarà piuttosto un’ipotesi sui due sensi del teologico-politico. Abbiamo visto che mentre Derrida si astiene dal defnire fn dall’inizio il teologico-politico, suggerisce che la comprensione, la stessa determinazione del concetto di teologico-politico, sia indissociabile da un’analisi del potere (detto sovrano) di donare la morte ma anche di elevare al di sopra, di sottrarre la pena di morte al regime (comune) dell’omicidio. Potremmo, ipoteticamente, dire questo:

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si è in presenza del teologico-politico laddove il potere di donare la morte pretende di essere tutt’altro che un potere omicida; si dà teologico-politico laddove un’istanza pretende (e tutto il seminario è, in un certo senso, una decostruzione di questa pretesa, che, tuttavia, si tratta di pensare, di prendere sul serio…) di concedere la morte strappandola al suo registro cosiddetto naturale, primo, istintivo, per iscriverla nel registro della pena – la pena di morte. Essa è sempre infitta da un terzo, da una parte che non è di parte, da un’istanza che pone la propria trascendenza in quanto non essere una parte. Pur essendo mie, tali riformulazioni mi appaiono fedeli alla tesi di questo seminario e all’affermazione sulla co-implicazione tra teologico-politico e pena di morte. Mi sembra, però, che Derrida lasci sussistere una certa “confusione”, o un equivoco; che giochi, forse, con questa confusione sulla nozione di teologico-politico, evocata all’inizio per dirne che non si sa bene cosa signifchi, che appare insieme ineludibile e confusa, e la “completi” cammin facendo, in due sensi distinti. Direi: un senso spinozista e un senso schmittiano. In un primo momento – ma, di fatto, dall’inizio alla fne – Derrida gioca sul senso ovvio, quello che chiamo il senso spinozista della nozione nei limiti in cui suggerisce un intervento simultaneo o reciproco, una eventuale collusione delle istanze politiche e delle autorità “teologiche” o religiose. I quattro processi – Socrate, Gesù, Al-Hallaj (quel “folle di Dio”, martire mistico dell’Islam condannato a morte per aver gridato “io sono la verità”, nel X secolo, nel 922, a Baghdad), Giovanna d’Arco – indicano la persistenza di un dispositivo giuridico in cui il religioso è parte integrante; nel quale, inoltre, il capo d’accusa principale ha a che fare con la religione, l’empietà, la trasgressione di norme religiose come norme civili, politiche. Ma abbastanza rapidamente sarà evidente che il concetto di teologico-politico deve essere inteso anche in un senso più ampio, ossia anche nella cornice di pensieri e di regimi che non offrono espressamente un posto alla religione, un luogo istituzionalizzato, che non le attribuiscono un ruolo di primo piano e che, però, hanno preteso – un’altra pretesa, sulla quale occorrerà tornare – di costruire, di ricostruire, l’ordine politico su un’altra base, su fondamenti altri che… la religione, gli dèi o Dio come fonte dei comandamenti e delle leggi, la regalità sacrale, l’alleanza del trono e dell’altare, ecc.

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Infatti – e comincio così col rispondere alle questioni precedenti sulle reticenze di Derrida a rifarsi ad una storia lineare dell’abolizione, correlata alla secolarizzazione del diritto – certamente, all’idea di una co-implicazione tra teologico-politico e pena di morte – nel caso in cui si intendesse il “teologico-politico” esclusivamente nel senso ovvio, “spinozista” – si potrebbe indirizzare la seguente obiezione: se così fosse, la pena di morte dovrebbe scomparire con la secolarizzazione, intesa come uscita dal teologico-politico, come “laicizzazione” del potere – attesa o tesi che Derrida attribuisce a Camus. Ma, in realtà, non è proprio questo ciò che, sostanzialmente, è accaduto? Non c’è una correlazione storica tra la secolarizzazione giuridico-politica e il declino della pena di morte, ovvero l’aumento della forza dell’abolizionismo? La storia della lotta contro la pena di morte e dell’abolizione mi sembra davvero indissociabile dalla storia della secolarizzazione, da ciò che Derrida chiama, ma non senza ironia, “secolarizzazione democratizzante” ed “emancipazione progressista”. Derrida ammette che l’abolizione della pena di morte si situa anche nella linea della flosofa moderna, dei Lumi, e della loro, se si vuole, originaria “decostruzione” della violenza teologico-politica. Per altri versi, però, Derrida (come Foucault su questo stesso punto) non intende attenersi al racconto progressista del declino della pena di morte grazie ai progressi della ragione, che dissiperebbe le brume teologico-politiche. Ed è qui che fa entrare in gioco un secondo concetto del teologico-politico, una visione che, in questo caso, non proviene da Spinoza bensì, in modo esplicito, da Carl Schmitt. Trattando quest’ultimo punto, tenterò di fornire un contenuto più determinato del “teologico-politico” prima di tornare rapidamente, grazie a un effetto domino, sui punti precedenti. Nel seminario sulla pena di morte, così come nei numerosi testi della fne degli anni Novanta e dell’inizio degli anni Duemila, Derrida si rifà diffusamente alla Teologia politica di Schmitt, e, in particolare, qui, a due noti enunciati di Schmitt, tratti dalla Teologia politica del 1922. Il primo è la famosa defnizione del sovrano: «Sovrano è chi governa nello stato d’eccezione» – ma il traduttore francese, Jean-Louis Schlegel, ha optato per una traduzione differente di «entscheidet über»: il sovrano è «chi decide dello stato d’eccezione», cioè sovrano è chi ha la prerogativa di decidere se l’ordine “normale” è

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in vigore o meno, cioè se la Costituzione, i diritti e i poteri sono garantiti nel loro normale funzionamento o se la situazione eccezionale (guerra, guerra civile, “tumulto”…) implica che sia decretato lo stato di eccezione, che tutto sia sospeso o che si parta dalla Costituzione, si decidano procedure eccezionali (decreti legge, abolizione della distinzione tra potere legislativo ed esecutivo, procedure semplifcate, fno all’instaurazione di tribunali eccezionali ecc.). La seconda affermazione di Schmitt, la seconda tesi che Derrida “accoglie”, opera a più riprese: «il razionalismo dell’Illuminismo ha rifutato l’eccezione sotto tutte le sue forme». Il razionalismo illuminista concepisce la ragione essenzialmente come capacità di cogliere, di delineare uno o più sistemi normativi dal valore universale: legalità delle leggi di natura, “legge” morale, legge giuridica. In tutti gli ambiti, questo razionalismo si oppone all’idea di un potere o di una potenza che possa sottrarsi alle leggi o interromperle, farvi eccezione: la potenza divina attraverso il miracolo, la potenza regale con gli atti arbitrari della propria imprevedibile, “il-legale”, volontà. Così la maggior parte dei flosof illuministi non si oppongono all’idea di Dio o della volontà divina ma vogliono sottometterla alla legalità delle leggi di natura. È il deismo come teologia razionale: una volta creato l’universo, Dio non interviene più nelle vicende del mondo. Allo stesso modo i flosof illuministi ammettono, per la maggior parte, la possibilità di un re, di un monarca; ma è un monarca illuminato dalla ragione e, dunque, che si sottomette alla legge, al parlamento, al potere legislativo. La sua fgura-limite è fornita da un adagio francese del XIX secolo: «il re regna ma non governa». Ne La Bestia e il sovrano, come in Stati canaglia o in Politiche dell’amicizia, e fnanche nel seminario sulla pena di morte, Derrida si è avvalso di questa cornice, di queste affermazioni schmittiane, per pensare la sovranità. Nel seminario sulla pena di morte, come in altri testi, non è lontano dal riconoscere a Schmitt una lucidità superiore in confronto agli uomini dei Lumi che, in fondo, avrebbero avuto una fducia ingenua, eccessiva, nella ragione, nella legge, dimenticando che l’origine della legge non è legale, che il fondamento dell’autorità è “mistico”. Derrida lo nota anche in uno strano e rapido passaggio in cui sottolinea che Beccaria ha concesso un’eccezione all’abolizione, per “garantire” la sicurezza della nazione, e dunque, altrettanto la sua sovranità. Ebbene, Derrida scrive: «Bec-

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caria, dichiarando di preferire la ragione all’autorità, si priva di comprendere in fondo questa logica della sovranità alla quale tuttavia non si oppone»6. Per converso, Schmitt ha (avuto) il merito di provare a pensare questa “autorità” nel suo infondato fondamento, nella sua storia teologica, e di affermare che la fonte della legge è sempre fuori norma, nell’eccezione, e non nella ragione. Derrida non accorda forse troppo credito a questa visione schmittiana, alla comprensione schmittiana del diritto e della teoria politica? E, a causa di ciò, non è forse condotto a sottovalutare le trasformazioni, le rotture intervenute nell’epoca moderna, in particolare per effetto dell’Illuminismo e, in certi casi, della secolarizzazione del politico e del diritto? Non nel senso schmittiano di una secolarizzazione-transfert dalla teologia al diritto, quanto, piuttosto, nel senso di una “de-teologizzazione”, di una separazione progressiva tra diritto e religione, tra politica e teologia, di una politica ripensata su basi “immanentistiche”, dal basso, a partire dagli individui. Questi approcci moderni mirano a una forma di rifondazione individualista, sulla base della libera volontà, del potere politico civile dello Stato, frutto di un contratto o di una “costruzione” a partire da esigenze individuali fondamentali; esse spogliano, poco a poco, il potere dalle sue immaginarie trascendenze e dalle sue “illimitate” prerogative, vincolandolo a mutue esigenze, di cui l’immagine del contratto è un’insigne espressione. Beccaria si basa su questo lavoro di rifondazione flosofca del potere politico operata da Locke, Spinoza, Rousseau; non a caso più commentatori, come Michel Porée o Robert Badinter, hanno sottolineato quanto l’essere fautore dell’abolizione sia indissociabile, in Beccaria, da un programma più ampio di secolarizzazione del diritto, di separazione tra diritto civile e religione, crimine, delitto e peccato. Derrida stesso cita, ma senza soffermarvisi, questo decisivo passaggio del Trattato dei delitti e delle pene (cap. XXXIX): «Io non parlo che dei delitti che emanano dalla natura umana e dal patto sociale, e non dei peccati, dei quali le pene anche temporali debbono regolarsi con altri princìpi che quelli di una limitata flosofa». Se mi inserisco nel contratto civile al fne di proteggere la mia vita dalla morte violenta, allora il potere civile non può chiedermi la 6

J. Derrida, Séminaire. La Peine de mort I, cit., p. 139; tr. it. cit., p. 124.

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mia propria vita – salvo, forse, in realtà, se si trattasse di garantire la sopravvivenza dell’insieme, del corpo politico in quanto tale, al di fuori del quale la protezione di ciascuno non è garantita. Torneremo su questa concessione-eccezione, che lo stesso Beccaria ammette – ma l’essenziale, in ogni caso, non è questo; l’essenziale, l’impatto enorme del trattato di Beccaria, non sta in quella concessione! Esso consiste, piuttosto, nel fatto che Beccaria trae le conseguenze giuridiche dall’idea che il potere civile, secolarizzato, è uno strumento al servizio della volontà degli individui che compongono il corpo politico. È suffciente questo per invocare l’abolizione? Il governo non eredita, necessariamente, delle prerogative “assolute”? No. Se ad essere sovrano è il popolo, il monarca illuminato, o colui che succede al monarca, il governante supremo, non sarà più rivestito, in prospettiva, da alcuna autorità divina o trascendente. Proprio per questo motivo la prerogativa, evocata da Robert Badinter in L’Exécution, quando attende la grazia sempre possibile per Buffet e per Bontems, diventa insopportabile. Il potere di graziare, il diritto di grazia, è (pressoché) tanto insopportabile quanto la pena di morte. La prerogativa presidenziale (in Francia fno alla fne della pena di morte) di accordare o rifutare la grazia, di “far vivere o lasciar morire”, una tale prerogativa, nel contesto moderno, democratico, secolarizzato, appare esorbitante. Ma come? Un uomo che si trova lì perché gli elettori l’hanno di certo voluto, un uomo “normale”, si trova collocato in una posizione quasi divina e può interpretare il Deus ex machina o Cesare, alzando o abbassando il pollice? Ma come? Il governatore del Texas, il decimo rappresentante della famiglia Bush, o un attore austriaco da Blockbuster riconvertito alla politica, si ritrova dotato del potere di vita o di morte su un cittadino, cioè, in un contesto democratico, secolarizzato, su un proprio simile, su un “pari”? Oppure? Forse un normalista, abilitato in lettere, il quale, anziché continuare a studiare la poesia del XIX secolo, si ritrovi ad aver ottenuto la presidenza della Repubblica lascia sperare, per poi rifutarla, la grazia a Buffet e Bontems?7 Il riferimento è a Georges Pompidou, che, in qualità di presidente della Repubblica francese aveva il potere di concedere la grazia. Pur non essendo un sostenitore della pena di morte, rifutò (probabilmente per non scontentare l’opinione pubblica) la grazia a Claude Buffet e Roger Bontems, la cui condanna alla ghigliottina, per omicidio, fu, quindi, eseguita il 28 novembre 1972. Il processo fece molto scalpore anche perché, al contrario di Buffet, che aveva sempre, provocatoriamente, chiesto la pena di morte, 7

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Si potrebbe qui, di certo, obiettare, con Schmitt e con Derrida: lo Stato democratico, cosiddetto secolarizzato, la sovranità moderna, quella stessa del popolo e della rifondazione contrattualista del politico, non ha, in realtà, assunto la prerogativa “assoluta” della sovranità classica – il diritto di vita e di morte? E non vi è, in questo, un transfert tipico dalla teologia al diritto, come quello che opera Rousseau, dal modello della volontà divina alla “volontà generale”, quando dichiara che quest’ultima è infallibile, che non può errare, che non può sbagliarsi, che ciò che vuole è immediatamente il bene e che non può volere altro che il bene? Non c’è dubbio: Rousseau ha certamente cercato qualcosa come un principio di elevazione di questo potere troppo umano nell’assolutezza della volontà generale, in una “religione civile”… Ma la pena di morte si aggira ancora, come fosse carica di rimorsi e di inquietudine, ai margini del suo pensiero. Essa sopravvive anche, come una concessione al tema della sicurezza e della salute pubblica, nella concessione di Beccaria, che Rousseau commenta diffusamente per minare un po’ la sua “leggenda”, così come commenta ampiamente l’argomento di Beccaria secondo il quale una pena lunga, oppure una pena perpetua, deve essere preferita alla pena di morte, perché la pena durevole, l’ergastolo, è, in fondo, più crudele, colpisce maggiormente lo spirito del criminale rispetto alla pena di morte, che è istantanea e troppo rapidamente “fnita”. Ma bisogna osservare che Dei delitti e delle pene è scritto, probabilmente, come un’arringa, come un dialogo con un pubblico, attraverso il quale Beccaria vuole guadagnare quest’ultimo alla propria causa, captare la sua benevolenza e, per farlo, da buon avvocato quale era professionalmente, fa leva sulle opinioni e sulle attese del pubblico stesso. Bisogna stupirsi del fatto che la richiesta di abolizione non sia stata subito “assoluta” e che sia stata sostenuta, “caldeggiata” con argomenti a volte ambigui, una sorta di utilitarismo della crudeltà, di calcolo della crudeltà? È vero, l’eliminazione della pena di morte è stata progressiva, è stata accompagnata da concessioni retoriche e da eccezioni strategiche Bontems venne condannato esclusivamente per la complicità con Buffet, senza aver materialmente eseguito l’omicidio. A difendere Bontems era Robert Badinter, che raccontò le traversie del processo nel libro L’Exécution (1974). La pena di morte venne abolita in Francia nel 1981, quando lo stesso Robert Badinter diventò ministro della giustizia, sotto la presidenza di François Mitterand [N.d.T.].

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che “si barcamenavano” con il principio d’ordine e la sicurezza pubblica. Non sarebbe stato il contrario a dover sorprendere? Anzi, sarebbe stato esso anche solo possibile? Posso a questo punto tornare sia alla prima che alla seconda delle mie questioni e tentare di comprendere quale risposta, quale signifcato Derrida attribuisca alla sua discussione dell’abolizionismo classico. La prima questione si concentrava sul legame tra abolizione e secolarizzazione, la seconda sulla storia dell’abolizione, sul ruolo dell’Illuminismo e sulla sovranità. Un problema classico e importante in rapporto all’abolizionismo è quello di sapere se fondarlo sull’idea o sul principio di una difesa incondizionata del diritto alla vita. Ciò non può essere fatto nel nome di una protezione incondizionata della vita: questo metterebbe la lotta contro la pena di morte, incluso il modo con cui è presa in considerazione da Derrida, in una posizione diffcile da difendere di fronte a questioni come il diritto all’aborto, al suicidio, fnanche in relazione a questioni come l’eutanasia e il suicidio assistito. L’opposizione di Derrida alla pena di morte tenta paradossalmente di svolgersi, nella decima seduta del seminario, in nome di ciò che Derrida designa come «la fnitezza della “mia vita”. È perché la mia vita è in un certo qual modo “fnita” che io conservo questo rapporto di incalcolabilità e di indecidibilità quanto all’istante della mia morte»8. Dunque è di questo che la pena di morte priva: priva della vita, certo, ma, nota Derrida, essa «mi priva della mia propria fnitezza», mi priva della mia morte come dell’incalcolabile, dell’imprevedibile, pretende di deciderne. Proprio in questo, secondo Derrida, si trova il nucleo teologico-politico della pena di morte: nella pretesa – il “fantasma” – di una “decidibilità”, di una “decisione calcolante” sull’avvenire; nella pretesa di un padroneggiamento dell’avvenire – origine, forse, della religione – «fantasma di un’infnitizzazione al cuore della fnitudine»: è attraverso questa illuminante formula che Derrida caratterizza la religione9 ed esplicita la sua articolazione con la pena di morte. Tuttavia questo fantasma sopravvivrà a lungo – da cui un certo pessimismo di Derrida, che presagisce una “doppia sopravvivenza”, assicurata per l’eternità, del fantasma della padronanza sul tempo e sulla morte: sopravvivenza della pena di morte e dunque soprav8 9

J. Derrida, Séminaire. La Peine de mort I, cit., p. 348; tr. it. cit., p. 312 (parz. mod.). Ivi, p. 350; tr. it. cit., p. 314.

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vivenza, fortunatamente, ma purtroppo, dell’abolizionismo. Connettendo in questo modo il destino della pena di morte a quello del fantasma religioso, Derrida non avrebbe dovuto dare ragione a Camus sul legame tra abolizione e secolarizzazione? La condizione di abbandono della pratica della pena di morte non è la diffusione di un umanismo ateo? Se è necessario, ovviamente, considerare in modo più complesso la questione e l’equazione, a mio avviso parzialmente vera ma troppo semplice, tra la secolarizzazione come declino della religione e l’abolizione, lo è in ragione dell’evidenza storica, dell’esempio storico dei regimi non “religiosi” che hanno fatto ricorso massivamente alla pena di morte: se si può discutere sul carattere non religioso del Terrore, a causa del culto dell’Essere supremo, si può prendere in considerazione il caso dell’URSS staliniana. Oggi, tra i regimi che applicano su larga scala la pena di morte, non ci sono soltanto i “cristiani” Stati Uniti – o meglio, alcuni degli Stati Uniti, visto che altri Stati federati hanno votato per l’abolizione – o la Repubblica islamica dell’Iran, ma la Cina, che non è affatto un regime fondato sulla religione, neppure confuciana; se, poi, si guarda ai flosof che difendono il Terrore – generalmente senza associarlo, in verità, alla pena di morte, ma ci può mai essere Terrore senza pena di morte? – se ne trovano di materialisti dichiarati e convinti. Camus ha ovviamente considerato questa obiezione a suo tempo, e ha risposto chiamando in causa le incarnazioni moderne del “cesarismo”, del principio romano della dittatura “razionale”, di cui reperisce gli avatar, ne L’uomo in rivolta, sia in quello che chiama “socialismo cesariano” che nel fascismo. La persistenza della logica romana della salute pubblica come legge suprema, dirottata sulla salvaguardia della rivoluzione o del regime da essa nato, costituisce non tanto un transfert dalla teologia al diritto quanto una sorta di auto-sacralizzazione propria del politico, dello Stato, fno a una giustifcazione del crimine di massa sempre nel nome della “salvezza dell’umanità”, in cui Camus individua una sorta di religione secolare. Non giustifcandosi più a partire da Dio, il crimine si giustifca, allora, nel nome di uno «sforzo disperato per fondare, al prezzo del delitto se occorre, l’impero degli uomini»10. A propoA. Camus, L’Homme révolté, in Id., Essais, Gallimard, Paris 1967, p. 437; tr. it. di L. Magrini, L’uomo in rivolta, Fabbri, Milano 1990, p. 33. 10

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sito del Terrore, Camus nota: «Il bene folgora, si fa lampo e lampo giustiziere»11. Su questo punto c’era certamente convergenza tra i due grandi scrittori francesi, impegnati contro la pena di morte, evocati da Derrida, cioè Hugo e Camus. In effetti, Hugo scriveva: «il patibolo è il solo edifcio che le rivoluzioni non demoliscono […] vengono per potare, per sfrondare, per svettare la società, la pena di morte è tra le roncole quella a cui rinunciano più diffcilmente»12. Il declino della pena di morte, la possibilità dell’abolizione, sembrano, dunque, essere condizionati non soltanto alla secolarizzazione e alla lotta contro la collusione teologico-politica, contro il “dispotismo teologico” di cui parlava D’Alembert, ma anche, probabilmente, al “temperarsi” della Rivoluzione e del “rivoluzionarismo”, o forse alla pacifcazione della stessa idea di rivoluzione come esaltazione della congiura tra fratelli, pacifcazione di cui testimoniano le rivoluzioni poco violente o non-violente, quelle rivoluzioni che trattengono la loro violenza, le “rivoluzioni di velluto” – questo auspicio di Hugo e di Camus non è rimasto lettera morta. Di questa congiura Politiche dell’amicizia rammentava, facendo eco a Freud, il fatto che essa si cristallizza, in generale, attorno all’uccisione del padre, o del re, ma anche che procede di pari passo – ivi compresa la sua forma giacobina, francese – con un “fraternalismo”, con una celebrazione del cittadino maschio, armato, del cittadino-soldato o dei cittadini-soldati posizionati contro il nemico esterno, e subito anche interno: il traditore, il sospetto, il mio nemico, mio fratello… Resta un ultimo punto, più importante, e di evidenza teologica, che ci conduce, questa volta, senza Spinoza o Schmitt, letteralmente alla teo-logia: è l’antica e solenne giustifcazione della pena di morte a partire dall’invocazione della legge biblica, della legge del taglione. Ed è il formidabile paradosso con cui Derrida apre e chiude quasi il suo seminario: l’istanza fondata sul Libro nel quale si trova il comandamento “Tu non ucciderai” non ha mai perorato l’interdizione assoluta, l’abolizione della pena di morte. Lascio da parte la legge del taglione, che meriterebbe un’analisi dettagliata e approfondita. Richiamerò soltanto i punti sottolineati da Derrida rispetto alla Genesi: il comandamento “Tu non ucciderai” che sembra assoluto, divino, incondizionato, è, in realtà, pres11 12

Ivi, p. 534; tr. it. cit., p. 143. Cit. in J. Derrida, Séminaire. La Peine de mort I, cit., p. 294; tr. it. cit., p. 264.

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soché immediatamente limitato e contraddetto: «Del sangue vostro anzi, ossia della vostra vita, io domanderò conto […]. Chi sparge il sangue dell’uomo, dall’uomo il suo sangue sarà sparso, perché ad immagine di Dio Egli ha fatto l’uomo» (Gn 9, 5-6). Si trova qui, di solito, il nodo teologico-politico che consente di invocare Dio, l’immagine di Dio, per fondare il “dono” della pena di morte, il contro-dono della morte per chi la infigge, sostituendosi così a Dio. Nessun perdono per colui che dona la morte – escluso Dio! – ma soltanto il contro-dono della morte, ordinato da Dio. Derrida si sofferma meglio sulla sorprendente successione secondo la quale, dopo il sesto comandamento, “Tu non ucciderai”, dopo la proclamazione di tutti i comandamenti, Dio ordina a Mosè di spiegare ai fgli di Israele i “giudizi”. E questi indicano, in sostanza, che bisogna condannare a morte tutti coloro che trasgrediranno questo o quel comandamento. In particolare, naturalmente, il sesto13! Dal dono al perdono, nozioni sulle quali Derrida lavora negli stessi anni, e che si ritrovano alle estremità della sovranità, divina e umana, potere di donare la morte e/o di perdonare, di comandare di non uccidere e di comandare che sia ucciso colui che ha ucciso, di graziare per umanità e di (aver la pretesa) di uccidere per umanità – tour de force che Derrida ritrova nei più grandi flosof, in Kant e in Hegel: la pena di morte come dono, dovuto al criminale, all’umanità e alla razionalità del criminale come essere morale. Si può meglio comprendere perché non è né in nome della vita, né in nome dell’umanità che Derrida tenta una via abolizionista differente. E si comprende il suo stupito insistere sui paradossi cristiani, di fatto abramitici, ebraici, musulmani e cattolici (e protestanti, non di rado), che conservano – o che hanno conservato fnché è vissuto Derrida, se pensiamo alla Chiesa Cattolica – il principio della pena di morte. In effetti, quando Derrida apriva il catechismo della Chiesa Cattolica, ancora all’inizio degli anni 2000, poteva sottolineare con forza il fatto che era precisamente, per eccellenza, nel quadro stesso di un commento ai comandamenti, e di ciò che, apparentemente, logicamente, “avrebbe dovuto”, con tutta evidenza, condurre all’assoluto divieto della pena di morte, che si trovavano, invece, giustifcazioni, tergiversazioni, certe restrizioni, fno a una “quasi condanna”, che però restava nell’ordine del “quasi”, dell’“ancora uno 13

Nel canone ebraico il sesto comandamento recita: “Tu non ucciderai” [N.d.T.].

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sforzo”, nello scandalo morale di questa tergiversazione, nel paradosso morale, almeno apparente, che faceva sì che proprio Sade – il Sade autore di Ancora uno sforzo, francesi per essere repubblicani, il Sade risoluto avversario della pena di morte – fosse in realtà più umanista della Chiesa Cattolica. Il brano che citerò si trova nella parte Terza del Catechismo, intitolata La vita in Cristo, Seconda sezione, I Dieci comandamenti, capitolo secondo, «Amerai il tuo prossimo come te stesso», Articolo 5, Il quinto comandamento, § 1, Il rispetto della vita umana. È, dunque, proprio nel quadro della rifessione sulla vita “in Cristo”, nel quadro del commento dell’«Amerai il tuo prossimo come te stesso», nella cornice generale della rifessione sul “rispetto della vita umana”, che troviamo non la condanna, ma la giustifcazione della pena di morte, certo accompagnata da molteplici riserve e quasi da un invito alla non-applicazione – ma come non dire, qui: «ancora uno sforzo…». Cito in extenso inserendo qualche commento nel testo originale: «[2267] L’insegnamento tradizionale della Chiesa non esclude, supposto il pieno accertamento dell’identità e della responsabilità del colpevole [questa restrizione sulla “responsabilità pienamente verifcata”, che avrebbe lasciato perplesso Derrida – non era ammessa da alcuni recenti papi, come vedremo], il ricorso alla pena di morte, quando questa fosse l’unica via praticabile per difendere effcacemente dall’aggressore ingiusto la vita di esseri umani». Anche in questo caso, che portata attribuire a questa restrizione? Quando la pena di morte può essere considerata come l’unico mezzo praticabile per proteggere effcacemente la vita di altri esseri umani da un ingiusto aggressore? Possiamo affermarlo: MAI. Segue l’invito a preferire altri mezzi, se possibile (il tutto resta molto al condizionale): «Se, invece, i mezzi incruenti sono suffcienti per difendere dall’aggressore e per proteggere la sicurezza delle persone, l’autorità si limiterà a questi mezzi, poiché essi sono meglio rispondenti alle condizioni concrete del bene comune e sono più conformi alla dignità della persona umana». E l’accenno alla pena di morte termina chiamando in causa le condizioni attuali della repressione del crimine e le ampie possibilità esistenti di rendere un individuo “incapace di nuocere” – senza precisare i mezzi per farlo: la questione sembra lasciata alla discrezione dello Stato…; semplicemente si aggiunge che occorre procedere «senza togliergli defnitivamente la possibilità di redimersi»! 366

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Restano i «casi di assoluta necessità di soppressione del reo» – eterna invocazione dell’eccezione nel nome della necessità, e sottolineiamo che “l’assoluto”, il termine assoluto, viene qui introdotto non per enunciare un principio assoluto, ma per puntualizzare quei casi, rari, eccezionali, “l’assoluta necessità”, eterna eccezione, che autorizza sempre, in tutte le argomentazioni, la pratica “abituale” della pena di morte… Cito: «Oggi, infatti, a seguito delle possibilità di cui lo Stato dispone per reprimere effcacemente il crimine rendendo inoffensivo colui che l’ha commesso, senza togliergli defnitivamente la possibilità di redimersi, i casi di assoluta necessità di soppressione del reo “sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti” (Evangelium vitae, 56)». L’ultima è una citazione dall’enciclica del 25 marzo 1995, Evangelium vitae, di Giovanni Paolo II, in cui egli, innanzitutto, sosteneva questo: «Accade purtroppo che la necessità di porre l’aggressore in condizione di non nuocere comporti talvolta la sua soppressione. In tale ipotesi, l’esito mortale va attribuito allo stesso aggressore che vi si è esposto con la sua azione, anche nel caso in cui egli non fosse moralmente responsabile per mancanza dell’uso della ragione». Detto altrimenti, mentre il Catechismo afferma la necessità che la responsabilità sia pienamente stabilita affnché la pena di morte possa dirsi legittima, cosa che presuppone, almeno sembra, che essa non sia comminabile a un individuo dichiarato “irresponsabile” per motivi psichiatrici, mentali, Giovanni Paolo II elimina anche questa restrizione. È necessario, tuttavia, segnalare qui un recentissimo e notevole cambiamento, dovuto a Papa Francesco, attuale pontefce: a partire dal 2 agosto 2018, l’articolo 2267 del catechismo è stato riscritto in modo da contenere una condanna totale e senza eccezioni della pena di morte. Derrida si sarebbe indubbiamente rallegrato per questa profonda rottura teologico-politica, grazie alla quale il “Tu non ucciderai” ha avuto la meglio sulle tergiversazioni, i compromessi e le eccezioni che ne avevano ridotto la portata in seno allo stesso insegnamento della Chiesa! Ma questa rivoluzione è ben lontana dall’essere compiuta in tutte le Chiese cristiane, protestanti, evangeliche e neo-evangeliche, che coniugano, spesso, argomentazioni “per la vita”, se si parla di aborto, con l’appoggio alle più repressive politiche penali, ivi comprese quelle sulla pena di morte, in particolare negli Stati Uniti; e i dispositivi penali dei paesi di confessione a

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maggioranza musulmana lasciano spazio, in assoluta maggioranza, alla pena di morte (su 57 Stati musulmani, solo l’Azerbaigian, il Gibuti, la Turchia e il Turkmenistan hanno frmato il Secondo Protocollo facoltativo al Patto internazionale sui diritti civili e politici dell’ONU, che prevede l’abolizione della pena di morte). L’impegno di Derrida contro la pena di morte è indisgiungibile dalla sua complessa concezione dell’impegno flosofco e politico. In un testo su Sartre, Il courait mort, Derrida sottolineava il fatto di voler restare fedele al gesto e alla “bella parola” impegno, ma che la modalità, le forme di quell’impegno, la sua articolazione rispetto a movimenti militanti, politici, non potevano essere, nel suo caso, ciò che erano stati per Sartre. Non è, qui, solo questione del rapporto con la violenza e con la stessa pena di morte, giustifcata da Sartre come pena di morte politica, nei regimi “rivoluzionari”. La posta in gioco è anche il desiderio di Derrida di mantenere sempre delle complicazioni, dei dubbi, di rivolgere l’interrogazione al proprio “campo”, e di non esitare, in un certo senso, a “infragilire” teoricamente, per lo meno in apparenza, ciò per cui si batte. Senza dubbio nella convinzione che le facilitazioni, le semplifcazioni, le generalizzazioni, le confusioni operanti “per una giusta causa”, anche e soprattutto per una giusta causa, non possano, a lungo termine, che nuocerle, limitarla, infragilirla. D’altra parte, il metodo della decostruzione e la prospettiva di decostruzione dell’umanismo entrano, talvolta, in una strana e pressoché acrobatica tensione con i “traguardi” politici ereditati dall’Illuminismo e da un’etica (“iperbolica”) di ispirazione non soltanto levinassiana, ma biblica – il debito, a tal proposito, sembra spesso impensato, malgrado il tardivo rinvio a una “messianicità senza messianismo” –, e ciò che viene presentato come il progetto di una “decostruzione radicalmente non-cristiana” sembra, a volte, nelle sue conclusioni, non soltanto radicalmente messianica – il “Tu non ucciderai” incondizionato, la giustizia al di là del diritto… – ma iper-cristiana; e tuttavia, in verità, contro la maggior parte delle istituzioni cristiane. Ma occorrerebbe, a questo punto, prendere in esame i rapporti tra decostruzione e cristianesimo, anche al di là del teologico-politico – compito infnito. (Traduzione dal francese di Rita Fulco)

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La crisi della democrazia nelle sue forme tardo-novecentesche ha assunto l’aspetto di un confitto istituzionale che oppone la lentezza della politica rappresentativa alla speditezza della risoluzione giudiziale delle controversie. L’operazione di fltro del Parlamento, per cui i rappresentanti della cittadinanza raccolgono e articolano istanze, interessi e rivendicazioni, s’inceppa per i difetti di meccanismi antiquati, il prevalere degli interessi costituiti e la proliferazione di obiettivi a breve termine, spesso a scopi elettorali. Senza scomodare la messe di studiosi che dalla fne del XX secolo offciano le esequie del gioco democratico1, già nel 1909, nella prolusione dedicata alla crisi dello Stato moderno, Santi Romano parlava dei dispositivi istituzionali del costituzionalismo liberale come di un progetto che attendeva compimento, non già un punto d’arrivo: «Le costituzioni moderne hanno avuto la pretesa di consacrare nel loro testo tutti i principi fondamentali del diritto pubblico, ma il più delle volte non hanno fatto che accennare istituti, che poi non hanno regolato, e scrivere le intestazioni di capitoli, che non sono nemmeno abbozzati. Esse per conseguenza presentano una serie di lacune maggiori È oramai divenuta classica la formula «postdemocrazia», per denotare un sistema politico-istituzionale che per paradosso tende a «incoraggiare il massimo livello di minima partecipazione» (C. Crouch, Postdemocrazia, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 126). In realtà, ben prima degli ultimi anni del secolo scorso, della scarsa governabilità delle democrazie del tardo ’900 faceva già menzione un celebre studio commissionato dalla Commissione Trilaterale: M. M. Crozier, S. P. Huntington, J. Watanuki, The Crisis of Democracy: Report on the Governability of Democracies to the Trilateral Commission, New York University Press, New York 1975. Lo studio in questione rappresenta in maniera nitida la tendenza a difendere forme di governo esili e snelle, che non pretendano di confgurare il sociale, ma semplicemente si curino di regolarlo. 1

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di quanto generalmente non si creda»2. Romano, va da sé, aveva in mente fenomeni diversi: il liberalismo «robusto» di fne ’800 si disgregava per la diffusione di corpi intermedi, movimenti sociali, organizzazioni sindacali, che lamentavano in modo veemente e bellicoso le insuffcienze della politica parlamentare. All’opposto, oggi sono i soggetti singoli, oppure i gruppi che si raccolgono attorno a interessi particolari, che lamentano la scarsa ricettività della politica e si rivolgono al diritto per trovare soddisfazione delle loro rivendicazioni. Eppure, proprio questa differenza tra quel che accade oggi e quel che accadeva allora pare assai interessante. Se la fne del XIX secolo era segnata dal confitto tra rappresentanza e forme di organizzazione sub-statale, rispetto alle quali il diritto risultava miope, la fne del secolo successivo si caratterizza per una crisi eguale, con esiti però per larga parte opposti: la rappresentanza si piega alla forza di un diritto che segue le traiettorie rivendicative di interessi particolari individuali e/o collettivi. Di conseguenza, la soluzione della crisi sembrerebbe non poter essere quella suggerita da Romano, ovvero una torsione pluralista del diritto pubblico che faccia spazio a nuove formazioni sociali e alla loro forza giusgenerativa. La frammentazione degli interessi, singoli e di gruppo, è troppo avanzata perché la politica possa farsene carico e le procedure parlamentari possano darne una qualche rappresentazione pubblica. Si assiste pertanto a una progressiva migrazione dei cittadini verso i tribunali, più sensibili all’immediatezza delle rivendicazioni individuali e capaci di dare soluzioni sorrette dall’effcacia della sentenza. Questo capitolo guarda al movimento dal Parlamento alle Corti come epitome di una nuova «teo-legalità»: vorrei mostrare come la crescente separazione tra politica e diritto favorisca il riemergere di alcuni tratti sacrali del diritto. Nel momento in cui al diritto viene richiesto di supplire ad alcune carenze della politica istituzionale, esso non può che attingere alle sue risorse ataviche, che rompono con il plesso della teologia politica che aveva caratterizzato la politica moderna. Comincerò offrendo alcuni cenni sull’attuale frattura tra politica e diritto per indicare come il diritto venga acquisendo progressivamente la forma e la forza di una tecnica di produzione di collettività. ConS. Romano, Lo Stato moderno e la sua crisi. Saggi di diritto costituzionale, Giuffrè, Milano 1969, p. 22. 2

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cluderò cercando di offrire un’immagine del giuridico che solleva alcune questioni su un diritto che esce fuori dall’orbita del politico. 1. La permutazione degli ordini In Genealogia della politica, Carlo Galli cattura in modo icastico la cifra della teologia politica per come intesa da Carl Schmitt: Per Schmitt la teologia politica non è una teoria che giustifchi la mediazione moderna com’essa si è pensata, ma è una teoria epocale dell’esserci politico moderno, delle sue logiche e aporie3. L’interpretazione della secolarizzazione a partire dal miracolo è il punto in cui la teologia politica di Schmitt diviene la comprensione epocale della necessità della sovranità decisionistica: se il Moderno è inaugurato da una catastrofe di paradigmi, la sovranità decisionistica […] è il modo politicamente adeguato di abitarlo […]. Che Schmitt sottolinei la “serietà” della politica non è un dato psicologico, né, almeno primariamente, un’affermazione morale, ma è la scoperta della sua ineludibilità epocale4.

Muovo da questa considerazione per avanzare un’ipotesi sul presente, che, sempre più caratterizzato dalla radicalità della contingenza, non risponde più a quel modo politicamente adeguato di abitare il Moderno. Se il politico è «sfda dell’immediatezza – violenza, inimicizia, pretese di dominio, prevaricazioni, asservimento»5, questa sfda è oggi raccolta sempre più dal giuridico. Di un crescente indebolimento della politica parlano quegli autori che si dedicano allo studio della cosiddetta «giudizializzazione della politica»6. Ran Hirschl defnisce la «giudizializzazione» come «uno dei C. Galli, Genealogia della politica. Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico moderno, il Mulino, Bologna 1996, p. 53. 4 Ivi, p. 353. 5 G. Preterossi, La politica negata, Laterza, Roma-Bari 2011, p. xv. 6 R. Hirschl, The Judicialization of Politics, in K. E. Whittington, R. D. Kelemen, G. A. Caldeira (eds.), The Oxford Handbook of Law and Politics, Oxford University Press, Oxford 2008, pp. 119-141. Cfr. altresì R. Hirschl, Towards Juristocracy: The Origins and Consequences of the New Constitutionalism, Harvard University Press, Cambridge, MA 2004; A. S. Sweet, Judicialization and the Construction of Governance, «Comparative Political Studies», 31, 1999, pp. 147-184; A. S. Sweet, Florian Grisel, The Evolution of International Arbitration: Judicialization, Governance, Legitimacy, Oxford University Press, Oxford 2017. 3

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fenomeni più signifcativi del governo dal tardo XX secolo», e in essa individua tre fenomeni distinti ma connessi tra loro. In primo luogo, l’interventismo delle Corti nazionali più alte come fltro e controllo delle procedure politiche: non solo a riguardo delle questioni di loro tradizionale competenza, come ad esempio il sindacato di costituzionalità, bensì anche temi attinenti alla politica ordinaria (elezioni, cittadinanza, diritti delle minoranze, regolazione della parentela, etc.). In secondo luogo, l’espansione delle prerogative decisionali e discrezionali delle Corti, specialmente quelle soprastatali, cui sono affdati compiti di ricomposizione di confitti politici e sociali e di giustizia restaurativa (caratteristica tipica dell’assetto internazionale del secondo dopoguerra). In ultimo, il trasferimento alle Corti, alte e basse, di responsabilità relative a quella che Hirschl chiama «megapolitica», una sfera in cui cioè, in assenza di linee guida amministrative o costituzionali, si decide dell’identità politica di un Paese. In sostanza, ad avviso di Hirschl, il potere giudiziario sembra sempre meno funzionale alla difesa dei margini di legalità e sempre più attivo sulle questioni di legittimità delle istituzioni e di generale legittimazione del sistema politico. Ne deriva, sostiene Hirschl, «una trasformazione globale delle alte Corti in attori cruciali dell’apparato politico dei loro rispettivi Stati nazionali»7. Se non v’è dubbio sul fatto che l’ingresso in scena delle alte Corti come attori megapolitici stia trasformando le dinamiche della politica democratica, non si tratta tuttavia di un processo che interessa i soli organi istituzionali di vertice. In molte zone del pianeta, che si tratti del sud o del nord globale, l’odierno processo di «giuridifcazione del sociale» viene letto dall’antropologo John Comaroff come nuova forma di «teologia giuridica». Si tratta, ad avviso di Comaroff, di un notevole cambio di paradigma rispetto all’assetto politico-giuridico degli ultimi due secoli. Per un verso, è un cambiamento che segna la metamorfosi nella concezione delle Carte e dei procedimenti costituzionali che sono a fondamento delle comunità politiche: «Mentre nel secondo dopoguerra le Costituzioni esaltavano la sovranità del Parlamento, la discrezione dell’esecutivo, l’autorità dell’amministrazione e l’omogeneità culturale, quelle più recenti si accentrano, quantunque in modo non uniforme, sui R. Hirschl, The New Constitutionalism and the Judicialization of Pure Politics Worldwide, «Fordham Law Review», 75, 2006, pp. 721-754, p. 727. 7

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primati dei diritti civili e politici, le libertà dei cittadini, i limiti del potere statale, la tolleranza della differenza, lo Stato di diritto»8. Per altro verso, però, tale processo eccede la sfera istituzionale e penetra nel tessuto sociale allorché i soggetti fanno ricorso al diritto come strumento d’azione politica. La teo-legalità si caratterizza infatti per «tendenza di popolazioni, defnite tra le altre cose d ­ a fede, cultura, genere, preferenza sessuale, razza, residenza e stile di consumo, ad affdarsi a modalità e strumentazioni giuridiche al fne di costruirsi e rappresentarsi come “comunità”»9. Il diritto si presenta infatti come un’arena discorsiva che sostituisce la politica – sempre meno capace di rispondere alla pluralizzazione frammentata delle forme di vita e di offrire rappresentazioni unifcanti e trasversali – e ottiene tutele attraverso vie giudiziali10. In sostanza, la «teo-legalità» non è sacralizzazione della legge, ma sostituzione della politica rappresentativa con una politica del diritto a opera di soggetti individuali e di gruppo quale medium di impareggiabile effcacia per la conquista di visibilità socio-politica. Secondo l’analisi di John Comaroff e degli studi da lui condotti assieme a Jean Comaroff, non c’è sfera del sociale che non sia oggetto della giuridifcazione teo-legale, che del giuridico fa non più un ambito di regolazione ma contesto di costruzione delle identità. A giudizio dei due antropologi11, le società contemporanee vengono infltrate da una concezione liberale e contrattualista della vita e delle relazioni, che celebra il mercato «libero» e la mercifcazione di pressoché tutti i segmenti dell’esistenza umana. Tale conclusione viene supportata da un giurista assai sensibile alle dinamiche di trasformazione del campo giuridico, Gad Barzilai, secondo cui la matrice neoliberale del diritto contemporaneo attribuisce al diritto un ruolo di assoluta centralità per due ragioni preminenti: da una 8 J. Comaroff, J. L. Comaroff, Refections on the Anthropology of Law, Governance and Sovereignty, in F. von Benda-Beckmann, K. von Benda-Beckmann, J. Eckert (eds.), Rules of Law and Laws of Ruling: On the Governance of Law, Burlington, Ashgate, Farnham 2009, pp. 31-59, p. 33. 9 J. L. Comaroff, Refections on the Rise of Legal Theology: Law and Religion in the Twenty-frst Century, «Social Analysis», 53(1), 2009, pp. 193-216: 196-197. 10 Per un’analisi più dettagliata e puntuale, mi permetto di rimandare a M. Croce, The Politics of Juridifcation, Routledge, Abingdon 2018. 11 Cfr. J. Comaroff, J. L. Comaroff, Law and Disorder in the Postcolony: An Introduction, in J. Comaroff, J. L. Comaroff (eds.), Law and Disorder in the Postcolony, The University of Chicago Press, Chicago 2006, pp. 1-56.

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parte, esso è naturalmente incline a favorire i diritti individuali rispetto ai beni collettivi; dall’altra, esso esalta la (presunta) neutralità delle procedure giuridiche, che fanno leva sulla competenza e l’expertise di un ceto professionale (che si presenta come) autonomo dalle vicissitudini della politica12. Assai interessante è che Barzilai non punta su una lettura realista o elitista del fenomeno, ma guarda alla natura del diritto come linguaggio tecnico nelle mani di un corpo di specialisti. Come mostrano molti dei saggi raccolti nel volume collettaneo a cura di Thomas Kirsch e Bertram Turner, Permutations of Order, il diritto diventa spazio di manovrabilità per politiche micro e macro. È un linguaggio che gode di una natura apparentemente neutrale, entro cui diverse pretese e linguaggi si rendono inter-traducibili, che viene utilizzato però per avanzare pretese a carattere eminentemente valoriale e politico13. Gli autori studiano movimenti e istituzioni di natura religiosa in varie zone del mondo per analizzare il loro comportamento «giudiziale», in cui il diritto diventa uno strumento secolare per raggiungere fni religiosi di salvazione. Questi soggetti, individuali e collettivi, non usano la religione per legittimare il diritto, bensì il diritto viene utilizzato quale potente strumento di legittimazione della religione, che consente a molte identità religiose di accreditarsi mediante iscrizione e canonizzazione giuridica. Questi studiosi parlano pertanto di una «permutazione degli ordini», in forza della quale movimenti religiosi associano i loro repertori normativi ai processi di standardizzazione giuridica transnazionale e tramutano le loro modalità di lotta in avanzamento di richieste di diritti. In altre parole, la teo-legalità non associa il diritto al religioso, ma costituisce una dinamica sociale in cui il diritto si sostituisce sia al politico sia al religioso come pratica di costituzione dell’identità di intere collettività – seppure collettività che perlopiù vivono di una logica segmentale di gruppo.

Cfr. G. Barzilai, The Ambivalent Language of Lawyers in Israel: Liberal Politics, Economic Liberalism, Silence and Dissent, in T. C. Halliday, L. Karpik, M. Feeley (eds.), Fighting for Political Freedom: Comparative Studies of the Legal Complex and Political Liberalism, Hart Publishing, Oxford/Portland, OR 2007, pp. 247-277. 13 Cfr. T. G. Kirsch, B. Turner, Permutations of Order: Religion and Law as Contested Sovereignties, Routledge, Abingdon 2009. 12

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2. Un’ipotesi sulla natura del diritto Se questo è un processo politico-sociale che sta cambiando la fsionomia istituzionale di molti stati costituzional-democratici, vorrei in questa sede avanzare un’ipotesi sul perché ciò sia possibile, anzi sul perché ciò sia scritto in un diritto che s’allontana dal modello della lex per riprendere i connotati sacral-sapienziali dello ius14. Ci si deve chiedere a mio avviso come mai il diritto riesca in modo così effcace a rispondere ad esigenze di visibilità politica e come vi riesce, o, meglio, con quali effetti di realtà sui soggetti che fanno uso del diritto. In un saggio del 1954 contenuto in un libro dedicato allo studio delle società al tempo dette «primitive», l’antropologo John Peristiany mostra come il diritto, al di fuori delle strutture organizzate complesse della modernità, di rado rappresenti il vertice di una società piramidale integrata15. Di solito esso costituisce una componente ordinaria allo stato diffuso all’interno di assemblaggi compositi, perlopiù privi di organizzazione centralizzata. Se questo oggi è un dato comune, dimostrato in modo persuasivo dagli studiosi che lavorano nel campo del pluralismo giuridico, Peristiany ci dice qualcosa in più. La sua descrizione, ancorché a tratti ingenua, parla del diritto come qualcosa che si distingue dalla forza del comando politico – qualcosa che disinnesca i confitti tra le unità che compongono le varie compagini sociali. Il diritto è un sapere «trans-sezionale», che consente di porre riparo a un confitto allorché le risorse della normatività proprie delle varie sezioni che compongono il sociale si rivelano insuffcienti. La normatività giuridica si distingue pertanto dalla normatività sociale (in quanto rimediale rispetto alle situazioni di fallimento di questa), così come si distingue dalla normatività politica (perché non mira alla stabilizzazione di un ordine gerarchico a fni di amministrazione e comando), e ha una sua chiara riconoscibilità, che Peristiany rende in termini di ritualità quando descrive il modo in cui gli anziani si raccolgono intorno a un albero per deliberare su un fatto che richiede l’intervento del diritto. 14 Sulla duplice natura del diritto occidentale, cfr. A. Schiavone, Ius. L’invenzione del diritto in Occidente, Einaudi, Torino 2005. Sulla differenza tra diritto e legge, assai utile e chiaro P. Grossi, Prima lezione di diritto, Laterza, Roma-Bari 2003. 15 Cfr. J. G. Peristiany, Law, in E. Evans-Pritchard et al. (eds.), The Institutions of Primitive Society, Basil Blackwell, Oxford 1954, pp. 39-49.

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Su questa linea, persino più chiari sono John Comaroff e Simon Roberts quando, nel libro seminale Rules and processes, descrivono il mekgwa le melao degli Tswana – che si rifutano di chiamare «diritto» per evitare ogni esercizio di proiezione etnocentrica – come una tecnica sofsticata di superamento di confitti. I due antropologi parlano degli Tswana come di una comunità che in alcune circostanze di grave confitto tra unità della popolazione si attiene a una serie di ritualità che richiedono tre passaggi. In primo luogo, l’utilizzo di un linguaggio caratteristico, una sorta di codice ristretto, segnato da formule auliche reiterate e ben riconoscibili. In secondo luogo, l’ingresso in un campo virtuale che vive di puri segni – circoscritto da confni appunto linguistici anziché materiali – che richiede la convocazione delle parti dinanzi a un terzo. Il terzo passaggio è che il confronto delle parti si snodi attorno a due centri focali: un duplice dibattito sulla differente descrizione dei fatti offerta dalle parti e sulla regola che meglio consente di descrivere i fatti16. Ad avviso di Comaroff e Roberts, queste sono ritualità che eccedono sia la normatività morale sia le pratiche religiose, per dare luogo a qualcosa di particolarissimo, la cui manifestazione è visibile in specifche circostanze in cui neppure il «capo politico» riesce a trovare rimedio, e per cui si richiede la sospensione della normatività della quotidianità media. Per ristabilire la pace sociale in quelle circostanza o si usa la forza o si ricorre a quella particolarissima risorsa di sapere che è il mekgwa le melao. A dispetto di comparazioni arrischiate, numerosi antropologi e giuristi insistono su due caratteristiche che fanno del diritto un ambito particolare e specialistico, come quello descritto da Comaroff e Roberts: un linguaggio formulaico, che si distingue nettamente dal linguaggio ordinario, e l’esigenza di attenersi a specifche ritualità che richiedono specifche performances. Ciò consente l’instaurazione di uno spazio, simbolico-linguistico prima che materiale, (che si presenta come) neutrale, in cui i confitti che minacciano di spezzare il legame sociale vengono riformulati in modo tale che sia proprio tale riformulazione linguistica a esercitare una funzione riparatrice. In altri termini, si ha una trasformazione semiotica del confitto che avviene attraverso la sua trasposizione dal campo dell’ordinario al Cfr. J. L. Comaroff, Simon Roberts, Rules and Processes. The Cultural Logic of Dispute in an African Context, The University of Chicago Press, Chicago 1981. 16

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campo virtuale del giuridico. Si tratta di quello che Pierre Bourdieu descrive come un processo di «conversione»17, per cui la trasposizione di un oggetto sociale nel campo del giuridico determina ipso facto una trasformazione giuridica di quell’oggetto: le categorie del giuridico non si interessano di come il mondo sia fatto davvero, ma presuppongono un rovesciamento della direzione di adeguamento tra mondo e parola – è il mondo che ha da adattarsi alle categorie del giuridico e non viceversa18. È questa fortissima pretesa di autosuffcienza che consente al diritto di costituire lo strumento ultimo di riparazione dei confitti. Non è un caso che Yan Thomas insista tanto sul parallelo tra diritto e rito e sulla distanza tra diritto e mito: il diritto non offre narrative, non rifette relazioni, non conferisce poteri, non assicura diritti, e, se si vuole, non regola – in prima istanza il diritto è tecnica di descrizione, che solo in quanto tecnica, e solo in quanto tecnica che descrive, regola19. Non v’è dubbio che l’universo simbolico della statualità occidentale tardo-moderna induce a concepire il diritto come un sistema a proiezione verticale, a carattere in prima istanza legislativo, intriso di politica e perlopiù soggetto all’esecutivo. Entro la forma-Stato della tarda modernità, la legge è intesa come articolazione e perno di una comunità che si autogoverna, nonché strumento che attribuisce poteri e aziona diritti. Eppure questa immagine – così recente rispetto alla storia millenaria del diritto20 – tende ad oscurare il tratto essenziale della pratica giuridica, perché cela quegli elementi che consentono di ricondurla nell’alveo delle ritualità più formali e liturgiche: il diritto come azione performativa che circoscrive un microcosmo entro cui la parola si esprime con un carattere istituente, rimediale, riparativo. Tale ritualità, come indicano alcuni antropologi del rito21, non distribuisce signifcati entro il mondo che lo circonda, ma 17 P. Bourdieu, La force du droit, «Actes de la recherche en sciences sociales», 64, 1986, pp. 3-19, p. 9. 18 Cfr. anche K. McGee, The Fragile Force of Law: Mediation, Stratifcation, and Law’s Material Life, Law, Culture and the Humanities, 11(3), 2015, pp. 467-490. 19 Cfr. in particolare Y. Thomas, Il valore delle cose, Quodlibet, Macerata 2015. 20 Cfr. ad esempio P. Grossi, L’Europa del diritto, Laterza, Roma-Bari 2007; A. M. Hespanha, La cultura giuridica europea, il Mulino, Bologna 2013. 21 Cfr. ad esempio R. Rappaport, Ritual and Religion in the Making of Humanity, Cambridge University Press, Cambridge 1999; M. Rosati, Ritual and the Sacred: A Neo-Durkheimian Analysis of Politics, Religion and the Self, Ashgate, Farnham 2008; A. Seligman et al. (eds.), Ritual and its Consequences, Oxford University Press, Oxford 2008.

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istituisce una realtà artifciale e temporanea, in cui le performances dei soggetti producono effetti dentro e fuori quello spazio. Se tutto ciò funziona in maniera così visibile ed effcace nelle società meno complesse e a scala più ridotta22, nei sistemi costituzionali contemporanei, caratterizzati da una proliferazione di quadri normativi in competizione23, il diritto come azione performativa di riformulazione del confitto ha conseguenze inattese. Ritengo quindi utile offrire un sintetico affresco di come tale opera di conversione semiotica venga attivata e di quali siano le sue conseguenze. 3. Normalizzazione negoziata Come sottolineavo sopra, il diritto funziona appunto in base alle proprie categorie interne, che richiedono una previa «accettazione» perché si possa entrare nel suo perimetro. Tale accettazione avviene in termini innanzitutto linguistici: perché i soggetti possano rendersi udibili al diritto, essi devono produrre le loro rivendicazioni in conformità al suo linguaggio. Diversamente da una politica che funziona come articolazione dei possibili e disfacimento dei limiti del linguaggio egemonico24 ed è in grado di dare nuovi contenuti in forza di un’azione creativa e decidente, il giuridico – per sua costituzione – non può valicare i propri confni linguistici. Ciò che entra nel diritto deve esservi portato, ma per farvi entrare qualcosa è necessaria una previa adesione al suo canone linguistico. Ogni apertura non-politica del diritto è quindi apertura inevitabilmente conservatrice, che richiede previa adesione. Specie allorché l’azione 22 Come accennavo poco sopra, è chiaramente un azzardo supporre che quel che funziona nelle società primitive abbia un qualche rapporto diretto con quella forma specifca di diritto che nasce col diritto romano (cfr. A. Schiavone, Ius, cit.). Eppure è ragionevole sostenere che delle similarità vi sono, specialmente nello svolgimento di certe funzioni tipiche. In tal senso, mi pare molto interessante la nozione di «law-jobs» avanzata in K. N. Llewellyn, The Normative, the Legal and the Law-jobs: The Problem of Juristic Method, «Yale Law Journal», 49(8), 1940, pp. 1355-1400. 23 Cfr. ad esempio il numero monografco della rivista «Jura Gentium» (11, 2014), dedicata al tema del pluralismo giuridico, in cui pure viene offerta una bibliografa assai vasta sul fenomeno della moltiplicazione degli ordini normativi. 24 Si veda in particolare l’idea bourdesiana di «effetto della teoria» come performativo politico di rottura e innovazione in P. Bourdieu, Ce que parler veut dire. L’économie des échanges linguistiques, Fayard, Paris 1982, pp. 149-161.

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della politica sul diritto s’indebolisce, la ritualità di quest’ultimo riacquista un’attitudine conservatrice. Anche quelle forme che sembrano di grande trasformazione sociale – come ad esempio le battaglie epocali, come le battaglie sui diritti civili – portano un marchio indelebile di conservazione25. Persino nella giurisprudenza ermeneutica della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) sono rinvenibili importanti tracce della trasformazione conservativa di cui sto trattando. Assai interessante in tal senso è la sentenza che chiude la controversia Schalk and Kopf vs. Austria (2010), con cui la Corte riconosce l’autonomia degli Stati membri nella regolazione delle unioni tra individui dello stesso sesso (nel senso che gli Stati non hanno alcun obbligo di aprire al matrimonio gay), ma pure sottolinea la necessità che tali unioni vengano in qualche modo regolate. La decisione dei giudici ha richiesto uno sforzo ermeneutico signifcativo, volto alla costatazione di una notevole trasformazione che interessa, a livello sia di pratiche sociali sia di diritto sostantivo comparato, le nozioni di famiglia e di vita di famiglia. Con una decisa attitudine pragmatica, la CEDU, che da anni presenta le fonti del diritto europeo come strumento vivente capace di adattarsi ai mutamenti del sociale, in riferimento all’articolo 12 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo26, conclude che è «artifciale l’opinione secondo cui, a differenza delle coppie di sesso diverso, le coppie dello stesso sesso non possono dar luogo a una “vita familiare”». Ne consegue, nelle parole dei giudici, che «una coppia che si trova a coabitare e che vive come una stabile partnership de facto, ricade nella nozione di «vita di famiglia», esattamente come la relazione di coppia tra persone di sesso differente». 25 Al di là delle veloci osservazioni che seguono, mi permetto di rimandare ad alcuni miei lavori, in cui tratto del fenomeno in questione in modo più esteso e documentato: M. Croce, Quod non est in actis non est in mundo. Legal words, Unspeakability and the Same-sex Marriage Issue, «Law & Critique», 26(1), 2015, pp. 65-81; M. Croce, Governing through Normality: Law and the Force of Sameness, «International Journal of Politics, Culture and Society», 28(4), 2015, pp. 303-323. Utilissimi sono i lavori di alcuni giuristi più vicini alla critica queer, come ad esempio K. M. Franke, Politics of Same-Sex Marriage Politics, «Columbia Journal of Gender and Law», 15(1), 2006, pp. 236-248; T. Ruskola, Gay Rights versus Queer Theory. What is Left of Sodomy after Lawrence v. Texas?, «Social Text» 23(3-4), pp. 235-249. 26 L’articolo afferma che «[a] partire dall’età minima per contrarre matrimonio, l’uomo e la donna hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia secondo le leggi nazionali che regolano l’esercizio di tale diritto».

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Bastano queste poche righe per dispiegare e ribadire il repertorio lessicale e normativo della parentela tradizionale: il meccanismo di riconoscimento giuridico ruota attorno alla coppia come relazione tra due individui che aspirano al riconoscimento del diritto (connaturato e quindi naturale) di costruire una relazione domestica impiantata sull’amore e sulla fedeltà reciproca. Come questo e altri esempi dimostrano, la riformulazione semiotica cui le relazioni tra individui dello stesso sesso si espone all’interno delle Corti è senz’altro foriera di una giusta equiparazione tra coppie, ma al contempo richiede, quantomeno come conseguenza tacita, l’ingresso in un reticolo di signifcati e rimandi normalizzanti: il luogo nel quale l’omosessualità si legittima è quello della relazione di coppia di lunga durata, i cui componenti assumono un impegno di reciproco supporto dinanzi a un pubblico uffciale. Rileva tuttavia il fatto che si tratta di una «normalizzazione» assai poco orchestrata o calata dall’altro – all’opposto, essa è prodotta dalla e nella interazione tra istituzioni giudiziali e soggetti che avanzano rivendicazioni27. Nel caso di molte sentenze relative al riconoscimento della sessualità (ma non si tratta che di un aspetto tra molti), il lessico tradizionale della parentela euro-americana è invocato e fatto proprio dai soggetti per ottenere diritti e benefci rispetto ai quali la politica è lenta o persino sorda. 4. Per una giudizializzazione politica La prospettiva tracciata sin qui si sforza di descrivere il processo di giudizializzazione della politica in modo tale che esso non risulti né un mero dispositivo della governamentalità neoliberale né uno strumento che depotenzia e destituisce la politica democratica. Come accennato in chiusura del paragrafo precedente, è importante evidenziare il grado di partecipazione dei soggetti in una dinamica che non segna tanto la fne della politica democratica quanto il suo transito dal Parlamento alle Corti. La richiesta di una presa in caAffronto questa decisiva ambivalenza in M. Croce, The Politics of Juridifcation. Cfr. altresì F. Swennen, M. Croce, The Symbolic Power of Legal Kinship Terminology: An Analysis of “Co-motherhood” and “Duo-motherhood” in Belgium and the Netherlands, «Social & Legal Studies», 25(2), 2016, pp. 181-203. 27

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rico di esigenze e bisogni pressanti si traduce in un ricorso sempre più consistente ai tribunali da parte di soggetti spesso insoddisfatti della politica istituzionale eppure pronti a fare politica in altre sedi e con altri mezzi. Senza dubbio questa transizione solleva questioni sia circa la legittimità delle forme di rappresentazione e di creazione del ceto giudiziale sia circa l’inevitabile tendenza alla particolarizzazione, giacché le singole controversie mai possono davvero adottare un punto di vista di trascendenza rispetto agli interessi delle parti in causa. In tal senso, la politica tradizionale ne esce indebolita. Al contempo, tuttavia, è possibile separare la giudizializzazione dai suoi aspetti teo-legali per sfruttare le potenzialità di un giuridico che si fa campo di articolazione delle alternative e al contempo impedire il rinserrarsi del diritto entro i confni del suo spazio categoriale chiuso. Una modalità di utilizzo dell’operatività del diritto che ne forzi i confni ristretti nel senso di un’apertura creativa è quello di una «etnografzzazione» degli strumenti di riconoscimento giuridico. Il diritto potrebbe guardare al sociale fuori dal fltro delle sue categorie consolidate, che ne fanno strumento di descrizione programmaticamente disinteressato alla verità non-giuridica. Senza rinunciare a qualcosa con cui pare avere un rapporto genomico – ovvero la pretesa di autosuffcienza che ne fa un sapere trans-sezionale – il diritto potrebbe lasciare uno spazio più ampio a quelle forme di produzione normativa né pubblica né privata che si ha allorché i soggetti si fanno creatori di regole. Si tratta di forme di auto-organizzazione che attengono alla sfera della parentela (assemblaggi famigliari non convenzionali), del lavoro (nuove fgure basate sullo sharing), della sanità (forme associative di prestazione di cura) e di molte altri ambiti del sociale. La soluzione che proponeva Romano sembra quindi ancora attuale: proprio come egli si augurava all’inizio del XX secolo, si potrebbero così ridurre le tendenze assimilative del diritto, che si serve troppo spesso di categorie obsolete e anguste, facendone uno spazio in cui forme di vita emergenti trovino composizione. Ne verrebbe fuori un modello di regolazione giuridica a misura dell’utente del diritto28, che fa leva su forme di autonomia non privatistica, capaci di creare reti associative non pubbliche né private, foriere di enorme potenziale trasformativo. Cfr. L. Nader, A User Theory of Law, «Southwestern Law Journal», 38, 1984, pp. 951-964. 28

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mariano croce

In conclusione, se la teo-legalità come rimpiazzo della dimensione teologico-politica del moderno rischia di fare del diritto uno strumento di normalizzazione negoziata, una giudizializzazione «politica» – nel senso di una politica degli utenti del diritto – apre invece la strada a modelli di regolazione che innovano la tradizione della modernità statuale. Il diritto non è più sistema che s’impianta su una gerarchia certa delle fonti, ma si lascia trasportare nel sociale per coglierne l’immanente forza di organizzazione. Indubbiamente, il diritto deve mantenere una distanza dal sociale, che gli permetta di presentarsi come istanza ultima di risoluzione delle controversie, ma può farlo in modo tale da non proiettare sul sociale forme regolative che non sono in grado di coglierne le dinamiche. La pretesa trans-sezionale del diritto potrebbe persino venirne rafforzata qualora esso fosse in grado di nutrirsi di una normatività che derivi dai movimenti con cui i soggetti producono formazioni sociali più rispondenti ai loro bisogni e alle loro aspirazioni.

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Materiali IT

Francesco Marchesi, Riscontro. Pratica politica e congiuntura storica in Niccolò Machiavelli Effetto Italian Thought, a cura di Enrica Lisciani-Petrini e Giusi Strummiello Decostruzione o biopolitica?, a cura di Elettra Stimilli Dario Gentili, Crisi come arte di governo Teologie e politica. Genealogie e attualità, a cura di Elettra Stimilli

Finito di stampare nel febbraio 2019 a cura di nw srl presso lo stabilimento di LegoDigit srl, Lavis (tn) per conto delle edizioni Quodlibet