Teatro e parateatro come pratiche educative. Verso una pedagogia delle arti. Atti della conferenza internazionale 9788820762391, 9788820762407

Il testo raccoglie gli Atti della Conferenza Internazionale "Teatro Parateatro Arti e Cultura Attiva, Tra ricerca d

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Teatro e parateatro come pratiche educative. Verso una pedagogia delle arti. Atti della conferenza internazionale
 9788820762391, 9788820762407

Table of contents :
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Studi sull’educazione

Teatro e parateatro come pratiche educative Documento acquistato da () il 2023/04/27.

Verso una pedagogia delle arti a cura di Maria D’Ambrosio

  Liguori Editore

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Studi sull’educazione 82 Collana diretta da P. Orefice e E. Frauenfelder (*)

(*) Fondata da R. Laporta e P. Orefice.

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Teatro e parateatro come pratiche educative Verso una pedagogia delle arti a cura di Maria D’Ambrosio

Liguori Editore

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Comitato scientifico e Referee: Lucia Ariemma (Seconda Università degli Studi di Napoli), Gianni Boscolo (Università Nazionale di Bahia del Brasile), Franco Cambi (Università degli Studi di Firenze), Michele Corsi (Università degli Studi di Macerata), Patrizia de Mennato (Università degli Studi di Firenze), Ornella De Sanctis (Università degli Studi Suor Orsola Benincasa, Napoli), Paolo Federighi (Università degli Studi di Firenze), Yaacov Iram (Bar-Ilan University, Israele), Bruno Rossi (Università degli Studi di Siena), Vincenzo Sarracino (Università degli Studi Suor Orsola Benincasa – Napoli), Ekkehard Nuissl von Rein (Università degli Studi di Francoforte), Simonetta Ulivieri (Università degli Studi di Firenze), Gonzalo Zapata (Università Cattolica del Cile).

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I volumi pubblicati in questa collana sono preventivamente sottoposti a una doppia procedura di “peer review”.: Questa opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore (http://www.liguori.it/areadownload/LeggeDirittoAutore.pdf). Tutti i diritti, in particolare quelli relativi alla traduzione, alla citazione, alla riproduzione in qualsiasi forma, all’uso delle illustrazioni, delle tabelle e del materiale software a corredo, alla trasmissione radiofonica o televisiva, alla registrazione analogica o digitale, alla pubblicazione e diffusione attraverso la rete Internet sono riservati. La riproduzione di questa opera, anche se parziale o in copia digitale, fatte salve le eccezioni di legge, è vietata senza l’autorizzazione scritta dell’Editore. Il regolamento per l’uso dei contenuti e dei servizi presenti sul sito della Casa editrice Liguori è disponibile all’indirizzo http://www.liguori.it/politiche_contatti/default.asp?c=contatta#Politiche Liguori Editore Via Posillipo 394 - I 80123 Napoli NA http://www.liguori.it/ © 2013 by Liguori Editore, S.r.l. Tutti i diritti sono riservati Prima edizione italiana Giugno 2013 Stampato in Italia da Liguori Editore, Napoli D’Ambrosio, Maria (a cura di) : Teatro e parateatro come pratiche educative. Verso una pedagogia delle arti/Maria D’Ambrosio (a cura di) Studi sull’educazione Napoli : Liguori, 2013 ISBN 978 - 88 - 207 - 6239 - 1 (a stampa) eISBN 978 - 88 - 207 - 6240 - 7 (eBook) 1. Pratiche teatrali

2. Pedagogia attiva

I. Titolo

II. Collana

III. Serie

Ristampe: ——————————————————————————————————— 22 21 20 19 18 17 16 15 14 13 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0 La carta utilizzata per la stampa di questo volume è inalterabile, priva di acidi , a ph neutro, conforme alle norme UNI EN Iso 9706 , realizzata con materie prime fibrose vergini provenienti da piantagioni rinnovabili e prodotti ausiliari assolutamente naturali, non inquinanti e totalmente biodegradabili (FSC, PEFC, ISO 14001, Paper Profile, EMAS)

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Indice

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Introduzione. Ovvero il Teatro come esperienza.

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di Maria D’Ambrosio

Prima parte Alle origini di una pedagogia: il teatro e il parateatro di Jerzy Grotowski 19

Un certo teatro. O del pedagogico di Maria D’Ambrosio

31

Contro la società dello spettacolo: Jerzy Grotowski e ‘Holiday’ (S'wie˛to) di Dariusz Kosin´ski

43

Condurre la ricerca sul confine tra studi sulla performance, etnografia sperimentale ed embodiment di Virginie Magnat

51

La nozione di verticalità e la morte del simbolico. Note su Grotowski di Vincenzo Cuomo

63

La relazionalità nel lavoro di Grotowski di Dominika Laster

69

Nell’atto del creare. Pratiche dai confini del parateatro e dell’antropologia del teatro di Ewa Benesz

79

Dalla Polonia alla Sardegna: lungo uno stesso crinale di François Emmanuel

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8

Indice

85

Le tappe preliminari dell’azione sull’esempio del lavoro di Ewa Benesz di Karina Janik

Seconda parte Dal Teatro alle professioni educative. Epistemologie e Pratiche 97

La pedagogia critica e le pratiche riflessive

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di Maura Striano

107

La parola agita: orizzonti politico-pedagogici di laboratori universitari del Teatro dell’Oppresso a Napoli e Rio de Janeiro di Maria Rosaria Strollo e Paolo Vittoria

129

A lezione dai linguaggi della musica. Programma di ricerca organizzativa e di management education di Luigi Maria Sicca

Terza parte L’arte del creare. Tracce ed esperienze di una pedagogia critica 143

I teatri di comunità. Quando la ricerca artistica diviene progetto e azione culturale, politica e sociale di Loredana Perissinotto

149

Il teatro dei luoghi e della relazione come sintesi dei movimenti teatrali del Novecento di Roberto Ricco

155

La scuola dello sguardo attraverso il progetto Città Invisibili. Note del regista sulla drammaturgia degli spazi di Pino Di Buduo

169

Equilibri e disequilibri di Nathalie Mentha

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Gli Autori

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a Ornella a Rena a Ewa ad Alfred al suono dei flauti alle danze alla bellezza dei volti nella danza e nel canto In memoria di Maria Lai

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ti invito al viaggio in quel paese che ti assomiglia tanto… (Franco Battiato da Charles Baudelaire)

… non sono importanti le case. Importano le storie che abitiamo. Qui, nello spettacolo, vedrai un’attrice che dice: “La storia deve essere raccontata”. Non è un’attrice. È Iben. (…) Iben rappresenta la sua biografia. Nella parola ‘biografia’ c’è l’idea di un grafico, di un disegno, di un filo. È rappresentazione, non confessione. Che cosa credevamo a quei tempi, quando tu intessevi i tuoi spettacoli ed io immaginavo di apprendere teatro, e invece mi scoprivo scoprendoti? (…) Il filo, allora, diventa sacro perché non lega, ma collega a qualcosa o a qualcuno che ci tiene in vita. (tratto da una lettera di Eugenio Barba a Jerzy Grotowski il 1° giugno 1991 in occasione dell’invio dello spettacolo Itsi Bitsi in: Barba, Eugenio, 1993, La canoa di carta, Bologna, Il Mulino, 1997)

«Non è solo amore dell’altro ma bisogno di conoscere me stesso» (Eugenio Barba)

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Introduzione. Ovvero il Teatro come esperienza

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di Maria D’Ambrosio

La Conferenza Teatro Parateatro Arte e Cultura Attiva. Tra ricerca della conoscenza e pratiche pedagogiche, i cui Atti sono raccolti in questa pubblicazione, risale all’ottobre del 2011 e segna il decimo anno accademico di presenza e di attività teatrale e parateatrale promossa all’interno dell’allora Corso di Forme della comunicazione e linguaggi multimediali (ora Pedagogia della Comunicazione) di cui è stata titolare Ornella De Sanctis. Il parateatro entra nelle aule accademiche grazie al lavoro condotto da Ewa Benesz, con Alfred Buchholtz e per un anno anche con Cenzo Atzeni e Andres Arce Maldonado, con gli studenti del Corso di Laurea in Scienze dell’Educazione della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Un’esperienza condivisa e segnata in questi anni da una ricerca psicopedagogica rivolta in particolare alla figura dell’educatore, ai formatori e ai professionisti della Cura perché potessero aprire, sin dal percorso formativo, uno spazio di riflessione e di esperienza focalizzato sulle competenze relazionali e sul primo dispositivo comunicativo-relazionale che è il corpo (insieme alle sue estensioni: voce, movimento, pensiero). Una ricerca sin dal principio ‘embodied’ dunque, che ha intercettato la matrice teatrale del mio percorso formativo nel quale, fin dai tempi del Liceo e del gruppo-laboratorio ‘Diffusione Teatro’, la pratica e la metodologia tracciate da Stalislavski, Artaud, Grotowski si sono attualizzate e cresciute nel mio incontro e nel lavoro, in molte occasioni di tipo residenziale, con il Teatro Kismet, il Teatro Potlach, il Living Theatre, l’Odin Teatret. Una ricerca, che è necessariamente ricerca-azione, che ha ‘in-formato’ un modo di essere, un modo ‘plastico’ che è il mio divenire, e ancora dà forma agli ambienti nei quali vado

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Teatro e parateatro come pratiche educative

agendo e dove si intrecciano e stratificano i differenti piani attraverso i quali si è andata attualizzando la necessità, e la bellezza, degli incontri. Incontri speciali di cui quello con Rena Mirecka1 costituisce un ‘passaggio’ importante che m’ha aperto e fatto attraversare e vivere il parateatro conducendomi a Ewa Benesz perché potesse ‘essere’ anche nelle aule universitarie, nella cittadella di Orsola Benincasa. Aver situato e attualizzato in un percorso di studi universitario la tradizione del teatro di Grotowski attraverso il percorso parateatrale di Ewa Benesz, ha significato contribuire a costruire una vera e propria comunità che può riconoscersi nel solco di una prospettiva che fa del corpo il ‘luogo’ di un agire educativo orientato e fondato sul nesso emozione-cognizione, ovvero sulla dimensione estetica dell’essere e del conoscere. Una prospettiva che se assunta all’interno del pensiero pedagogico, ritorna, con forza e per necessità, all’Arte come esperienza2 per chiamare in gioco i sensi e incarnare nell’azione il nesso tra sostanza e forma. In questo senso, il riferimento al pragmatismo di Dewey diventa centrale insieme al concetto di «esperienza come un tutto»3 e costituisce quell’orizzonte dentro il quale la proposta didattica acquista senso e rappresenta la possibilità per ciascuno di dar corpo a concetti come «trasfigurazione» e «forma artistica», e quindi di vivere e sperimentare la portata educativa della «esperienza estetica» nella sua perturbante ed eterea consistenza. Attraverso la conferenza e quindi grazie agli interventi che il testo qui ripropone e raccoglie, è possibile rintracciare le connessioni tra linee di ricerca collocate in ambito pedagogico e quelle riconducibili alla matrice artistica e teatrale del Novecento. La ricchezza di queste ricerche fa di ogni intervento una sorta di testimonianza che anima un discorso a più voci da cui emergono ‘materiali’ e suggestioni utili per nutrire un nucleo figurativo relativo all’agire educativo e ricondurre il tutto, oltre le questioni ontologiche, epistemologiche e metodologiche, lungo la traiettoria antropologica che continua a interrogarsi sulla natura umana. 1 A Milano, grazie all’Associazione culturale Albedo e al suo presidente, Pietro Brunelli, dal 28 ottobre al 1 novembre 1999. 2 Cfr.John Dewey, 1934, Art as experience [tr. it., Arte come esperienza, Palermo: Aesthetica, 2009]. 3 Cfr. John Dewey, 1949, Scuola e società, tr. it., Firenze: La Nuova Italia.

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Introduzione. Ovvero il Teatro come esperienza 13

Pertanto, questo volume va colto come discorso4 «in modo da mettere in scena non già un’analisi, ma un’enunciazione»5 la cui vivacità smuove un certo senso del drama6 – il fatto, l’azione, che precede il discorso e che dà sostanza al discorso stesso che ha origine in una ‘leggenda locale’, e forma la ‘mia piccola storia sacra’. Di fatto, «Possiamo chiamare questi frammenti di discorso delle figure. La parola non va intesa nel senso retorico, ma piuttosto nel senso ginnico o coreografico; in altre parole nel senso greco: ‹, non è lo “schema”; è in un’accezione ben più viva, il gesto del corpo colto in movimento, e non già contemplato in stato di riposo: il corpo degli atleti, degli oratori, delle statue: ciò che è possibile immobilizzare del corpo sotto sforzo»7. Dove il corpo evocato, ovvero il corpo che prende la parola, è quello dell’educatore e insieme quello dell’attore, eroe tragico, la cui azione suona come declamazione e anche rappresentazione, evento, partecipazione e riflessione. Il discorso può esser letto nel suo insieme come una topologia tracciata dagli autori, ciascuno segnando e transitando in un concetto e nella sua genealogia. Così mi sembra di cogliere l’attualità di Jerzy Grotowski e la necessità storica, politica e artistica della sua opera che nelle parole di Dariusz Kosiński emerge come‘pedagogia drammatica’ situata in un’arte scenica al confine, dove la ricerca tutt’ora si muove tra conoscenza ed autoconoscenza, esplorazione e trasformazione, e produce l’incontro: Holiday. E così risuona l’intervento di Virginie Magnat e la sua ricerca etnografica sulla performance che pone più evidente attenzione al lavoro delle donne che hanno lavorato e collaborato con Grotowski, e le cui pratiche artistiche e pedagogiche si muovono nel segno di una ‘conoscenza incarnata’ e si collocano‘sul confine’ tra teatro, tradizione e rituale. In questo stesso senso Vincenzo Cuomo individua il legame tra il visibile e il sacro, facendo emergere del teatro di Grotowski la nozione di verticalità, ovvero di

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Così come nei Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes (1977). Roland Barthes, 1977, Fragments d’un discours amoureux, Paris: Edition du Seuil [tr. it., 1979, Frammenti di undiscorso amoroso, Torino: Einaudi, 1992] p. 5. 6 Cfr. a proposito di dramma, dramma antico, Barthes, 1977, Fragments d’un discours amoureux, cit., pp. 85-86 e Nietzsche (1872). 7 Barthes, 1977, Fragments d’un discours amoureux, cit., p. 5. 5

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Teatro e parateatro come pratiche educative

oltrepassamento del quotidiano e di spinta verso l’ultraterreno, come la dimensione che connota l’attore e dà senso al suo agire ‘sacrificale’. La sacralità del gesto fa della forma estetica del teatro quello spazio dove ciascuno, senza distinzione di ruolo tra attore e spettatore, allievo o maestro, può realizzarsi nella trasfigurazione di sé. La questione dell’essere se stessi, e più di se stessi, torna nell’intervento di Dominika Laster e guarda alla possibilità di ‘attraversare i confini’come parte della disciplina di Grotowski per andare oltre i limiti posti dalla individualità e dalla società, facendo della relazionalità del sé, della sua porosità e dei suoi legami, la condizione stessa di essere e di trascendersi: utilizzando ‘l’arte come veicolo’. A partire dalla reciprocità tra il Sé e l’Altro, Ewa Benesz rintraccia e fa dono dei principi del suo lavoro e della sua ricerca ricordando che la lingua del teatro è l’azione e che attraverso l’agire è possibile per l’essere liberarsi delle resistenze, tornare alle origini e ‘toccare’ la propria sacralità. E le parole della Benesz risuonano anche dell’eco prodotta ad ogni incontro in questi anni nella cittadella universitaria di Orsola Benincasa restituendo la complessità del suo lavoro in una forma vitale, vibrante, come un canto. E così i racconti personali del lavoro parateatrale di François Emmanuel e Karina Janik con Rena Mirecka e con Ewa Benesz costituiscono testimonianza significativa dell’essere ‘attori’, e quindi del realizzarsi nell’azione in presenza di altri,come esperienza che qui riprende corpo attraverso le parole scritte ed apre così un ulteriore spazio di riflessione capace di parlare a sé e agli altri. Il percorso e le pratiche teatrali e parateatrali originate da Grotowski possono dunque essere collocate all’interno di quello che Maura Striano definisce un ‘movimento educativo’ tutto interno alla pedagogia critica – quindi a quella critica sociale che rende necessaria una rilettura delle pedagogie ufficiali – che attribuisce all’agire educativo una dimensione riflessiva e autoriflessiva grazie alla quale ciascuno sperimenta la propria ‘forza attiva’ e trova legittimazione per la propria continua domanda di senso. Pure nel solco della pedagogia critica, e nello specifico di una matrice storica e sociale in cui collocare ogni agire educativo, si situa l’intervento di Maria Rosaria Strollo e Paolo Vittoria che, recuperando il problema della libertà così come proposto dalla ‘pedagogia degli oppressi’ di Paulo Freire, rintraccia la proposta del teatro sociale di Augusto Boal e ne fa il centro di un’esperienza riferita alla formazione e agli interventi formativi dei professionisti

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Introduzione. Ovvero il Teatro come esperienza 15

dell’educazione riconoscendo la dimensione politica e sociale tanto della pedagogia quanto del teatro. Pedagogia attiva e pedagogia critica incontrano dunque la pedagogia teatrale e gli studi sulla performance, così da individuare nel teatro quella pratica attraverso cui ‘dare corpo’ ad una certa epistemologia educativa. In questo senso si colloca anche l’intervento di Luigi Maria Sicca e la sua ‘lezione dai linguaggi della musica’ per utilizzare il sapere pre-capitalistico delle organizzazioni artistiche nel campo della formazione manageriale, ad uso cioè di un sapere organizzativo capace di fare dell’ascolto e della relazione una competenza necessaria al lavoro in azienda e allo sviluppo di nuove economie, dove gli obiettivi del gruppo non escludono ma presuppongono il raggiungimento di quelli individuali. Si va via via configurando dunque una proposta teorico-prassica che suona in termini di pedagogia dell’arte e che, nel richiamare come fa Loredana Perissinotto ad un ‘teatro vivo e necessario’ e ai tanti ‘teatri di comunità’, afferma la dimensione pubblica dell’arte così che una certa esperienza artistica possa trasformare i luoghi in comunità, in luoghi cioè dove ciascuno è chiamato a realizzarsi in quanto cittadino. Etica ed estetica sono quindi chiamate insieme a fondare una progettualità educativa basata sul ‘noi’ che si alimenta di poetiche teatrali attraverso le quali ‘fare ed incarnare la comunità’. Così la Perissinotto e così Roberto Ricco il cui intervento contribuisce a focalizzare in particolare sulla dimensione urbana e territoriale della ricerca artistica attuale così da far emergere, a partire dalla tradizione e dalle differenti esperienze tracciate lungo il Novecento, il primato della relazione dell’artista con il ‘reale’ – e quindi anche con il disagio, la marginalità, le ‘zone d’ombra’: dalla relazione dell’artista rispetto ai differenti e specifici contesti si può generare un’azione creativa che passa per delle pratiche partecipative (e non rappresentative, come per la ‘rottura’ di Grotowski attraverso la proposta parateatrale) che ne fanno un’azione pedagogica e sociale capace di produrre un complesso processo di cambiamento nel contesto urbano e territoriale di riferimento. Il Teatro, ovvero un certo teatro e quindi le Arti, e la Pedagogia si incontrano almeno su due piani: quello della conoscenza del sé, che è anche quello della formazione e della Cura del sé, e quello della pratica educativa, che è anche pratica di conoscenza e cura dell’altro. In questo senso la ‘drammaturgia degli spazi’ ricostruita nelle note di lavoro che animano l’intervento di Pino di Buduo è un esempio concreto, un progetto artistico, il cui valore

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Teatro e parateatro come pratiche educative

sta nel riaprire continuamente lo sguardo sulla città per far emergere l’invisibile, in questo senso cioè l’intervento artistico viene letto sul piano sociale e politico come intervento territoriale, la cui portata va ben oltre l’evento e segue una metodologia che è propria dello scambio e della partecipazione in una dimensione pubblica. E così, infine, a partire dalla dimensione personale, per tendere a quella pubblica, ci muoviamo e restiamo sospesi tra ‘equilibrio e disequilibrio’ con l’intervento di Nathalie Mentha. Perché il lavoro dell’attore risiede nella sua azione costitutivamente nomade eppure necessariamente situata, attualizzata, ed è un lavoro che richiede ‘presenza’, una certa qualità della presenza: dello sguardo su se stessi e sul mondo, e del mondo su di sé, a generare uno ‘stato dell’arte’ che è proprio di ogni creatura vivente che si muove tra reale ed immaginario, connettendo luoghi e memorie per tessere ciascuno la propria storia. Ecco allora necessario che ciascuno degli autori prenda voce e riveli la possibilità di farsi canto: essere nell’incontro. Tra conoscenza ed esperienza. Tra pensiero e azione. Tra il Sé e l’Altro. Come d’incanto.

Questo volume contiene gli Atti della Conferenza Internazionale, organizzata e promossa dall’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa di Napoli, in collaborazione e con il patrocinio morale di Grotowski Institut – Wroclaw, Poland; British Columbia University – Vancouver, Canada; Università degli Studi di Napoli Federico II; Teatro Potlach – Fara Sabina; Comune di Napoli; Provincia di Napoli; Regione Campania., tenuto a Napoli, 28 e 29 ottobre 2011 – Sala degli Angeli dell’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa e sala PAN del Palazzo Arti Napoli con il titolo Teatro Parateatro Arti e Cultura Attiva. Tra ricerca della conoscenza e pratiche pedagogiche/Theatre Paratheatre Arts and Active Culture. Between search for knowledge and pedagogical practices.

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Prima parte Alle origini di una Pedagogia: il teatro e il parateatro di Jerzy Grotowski

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Un certo teatro. O del pedagogico di Maria D’Ambrosio

Prologo

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Sulla tomba di un santo si destano tanti uomini nuovi quanti di fronte all’opera immortale di un creatore. (Rainer Maria Rilke, 1900, Postille in margine a ‘La nascita della tragedia’ di Friedrich Nietzsche, tr. it., in: Artioli – Grazioli, 1995, a cura di, Rainer Maria Rilke. Scritti sul teatro, Genova: Costa e Nolan, p. 98)

Goethe (1808) fa dire al suo Faust: «Non nell’imperturbabilità cerco la mia salvezza. So che il brivido è il meglio dell’umanità. E per quanto il mondo cerchi di avvelenargli questo istante, l’uomo quando è commosso, ha il senso profondo del prodigio». Il brivido, dunque, la commozione, aprono per l’uomo lo spazio del prodigio: cielo e terra si riuniscono in un tutto ed in nome di quella totalità ad essere invocato è «il potere dell’uomo che si manifesta nel poeta»1. Siamo nel Prologo sul Teatro e, prima di incontrare Faust e «la sua anima agitata», le parole del Direttore ricordano che «ognuno si aspetta una festa»2. Ed è in nome della festa, dello spettacolo, degli slanci, e delle apparenze che fanno da «malinconico nutrimento», che l’uomo dà forma alla propria esistenza così che il poeta possa cantare: «Ridammi dunque quei tempi in cui stavo ancora formando me stesso, quando una fonte sempre nuova di canti erompeva ininterrotta, quando nebbie velavano a me il mondo e ogni boccio prometteva miracoli, quando coglievo i mille e mille fiori che empivano a profusione le valli! Non avevo nulla e pur mi bastava: ardente desiderio di verità e la gioia delle illusioni. Ridammi quegli indomabili slanci, la profonda e pur dolorosa felicità, la forza dell’odio, l’impeto dell’amore. Ridammi la mia giovinezza!»3. 1

Johan Wolfgang Goethe, 1808, Faust e Urfaust, vol. I, tr. it., Milano: Feltrinelli, 2009, p. 11. 2 Ivi, p. 5. 3 Ivi, p. 11.

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Teatro e parateatro come pratiche educative

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L’artista, il poeta, invoca la giovinezza, ovvero il tempo della sua formazione in cui verità ed illusione erano alimento a un’esistenza fatta di slanci ed impeti. Il formare se stessi, la Cura di sé, è la condizione cui il poeta vuole tornare. E a fargli eco sembra proprio essere Grotowski (1968) quando dice: «Vi è qualcosa di incomparabilmente intimo e fruttuoso nel lavoro che svolgo con l’attore che mi è affidato. Egli deve essere attento, confidente e libero, poiché il nostro lavoro consiste nell’esplorazione delle sue possibilità estreme. La sua evoluzione è seguita con attenzione, stupore e desiderio di collaborazione: la mia evoluzione è proiettata in lui, o meglio, è scoperta in lui, e la nostra comune evoluzione diventa rivelazione. Questo non vuol dire formare un allievo ma semplicemente aprirsi ad un altro essere rendendo possibile il fenomeno di una ‘nascita condivisa o doppia’. L’attore nasce di nuovo – non solo come attore ma come uomo – e con lui io rinasco»4. Il tema della rinascita – e quello della giovinezza e della festa dunque – risuona nelle parole di Faust e nelle note di lavoro di Grotowski come condizione, specie specifica, dell’uomo; condizione che ha bisogno di essere alimentata e orientata e che si nutre e acquista senso nell’incontro e nell’esplorazione dell’altro: in quella pratica che chiamiamo teatro, o un certo teatro, che coincide con la festa – il ‘giorno che è santo’ per dirla con Grotowski – che rompe con le consuetudini e crea del nuovo, l’inatteso. È in questo senso dunque che un certo teatro è considerato ambiente generativo e rigenerativo – pedagogico dunque – per quanti, in posizione di ‘agenti’, o ‘attori’ appunto, vi si connettono e ne comprendono, incorporandola, la ‘metodologia’ che lo sottende e che propone la necessità e la praticabilità dell’unità cognizione-percezione, dove quindi la corporeità è ‘emergenza’ del cognitivo e delle ‘stratificazioni’ che lo costituiscono.

Teatro come spazio del divenire. Un certo teatro – quel teatro che Grotowski definirà ‘povero’ e che in senso più ampio qui chiamiamo ‘di ricerca’5 – genera una possibi4

Jerzy Grotowski, 1968, Per un teatro povero, tr. it., Roma: Bulzoni, 1970, p.

32. 5

A proposito di ricerca, in una delle conferenze tenute nel 1970 alla Town Hall

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Un certo teatro. O del pedagogico 21

le riflessione in ambito pedagogico attraverso cui ripensare l’evento formativo come atto, declinandolo o facendolo coincidere quindi con la categoria di performance: il processo creativo che si realizza dall’incontro tra l’attore e il regista, come tra l’attore e lo spettatore e l’allievo e il maestro, ne esalta l’aspetto fisico, ‘carnale’, oltre che quello simbolico, cognitivo. L’incontro, il ‘dono’, la partecipazione, sono veri e propri topoi della geografia pedagogica così come di quella teatrale, e ne costituiscono elementi metodologici che contribuiscono al mutare della sua morfologia e al crescere della ‘cultura attiva’. La natura materiale del teatro, insieme alla sua vocazione all’invisibile6, ne fanno il nutrimento nonché il territorio pratico-esperenziale per quella ‘cultura attiva’ che Dewey (1916)7 aveva indicato come condizione per la libertà (dell’individuo) e per la democrazia (delle società) e che farà individuare l’arte come esperienza8. L’interesse per la pratica teatrale, per un certo modo di ‘fare teatro’, si colloca, infatti, nell’ampio spettro di una riflessione che è insieme epistemologica, ontologica e pedagogica e che si riconosce nella dimensione estetica: realtà, verità, identità sono concetti da coniugare con quello di ‘forma’ e dunque, in senso post-moderno, con il concetto di flusso o

di New York e alla New York University (di cui sono pubblicati frammenti in J. Grotowski, Holiday e Teatro delle Fonti, Firenze: edizioni VoLo, 2006) Grotowski diceva: «mi si permetta di dire che c’è qualcosa che rimane uguale in tutte le epoche, o per lo meno in quelle in cui la gente è consapevole della propria condizione umana: è la ricerca. La ricerca di cosa è essenziale nella vita. […] E la risposta? Non la si può formulare, la si può solo fare» p. 67; ancora a proposito del Teatro Laboratorio e del teatro di ricerca, Grotowski dice, in un’intervista fatta nel 1964 da Eugenio Barba e pubblicata in: Grotowski, 1968, Per un teatro povero, cit., «Il termine ricerca sta ad indicare che noi ci dedichiamo alla nostra professione con un atteggiamento simile a quello dell’intagliatore medievale che cercava di ritrovare nel suo pezzo di legno una forma pre-esistente. Noi non lavoriamo come gli artisti o gli scienziati, ma piuttosto come il calzolaio che cerca nella scarpa, il punto giusto dove poter conficcare il chiodo» p. 35. 6 Cfr. Umberto Artioli, 1995, Dionisismo ed estetica della luce nella teoresi teatrale rilkiana, in: Artioli-Grazioli, 1995, a cura di, Rainer Maria Rilke. Scritti sul teatro, Genova: Costa & Nolan. 7 John Dewey, 1916, Democrazia e educazione, tr. it., Firenze: La Nuova Italia, 1992. 8 John Dewey, 1934, Art as Experience, New York: Balch & Company [L’arte come esperienza, tr. it., Firenze: La Nuova Italia, 1951].

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Teatro e parateatro come pratiche educative

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di processo. Il teatro, nella sua tensione al qui ed ora, al farsi evento e dunque ‘fenomeno’ di quanto sembrerebbe sfuggire all’esperienza e alla condivisione, emerge e rivela qualcosa di ciò da cui si origina, contiene una carica poietica che non si esaurisce nella forma se non in quanto essa stessa, la forma, è concetto attraverso cui cogliere la tensione alla trasformazione. Rintracciare nella categoria di performance la specificità dell’evento formativo, significa quindi riconoscere l’importanza e la centralità di una dialogicità e di una relazionalità che sta al fondo e costituisce la condizione stessa della formazione e del suo essere in divenire. Attraverso l’azione scenica l’agire educativo acquisisce una sua concreta sperimentalità e riflessività9: si può osservare e ci si può osservare aderendo a una posizione ‘critica’ cui non sfugge di situarsi nel presente e al contempo di aprirsi al possibile, grazie a quella ‘tensione’ all’anthropos incarnato che genera formazione (ovvero trasformazione) e che investe il soggetto-attore e il mondo e la cultura cui appartiene. Sembra di poter riconoscere che sulla scena «si crea uno spazio terzo del reale, che costituisce – forse – la dimensione più specifica, più propria, più dinamica e dialettica del farsi anthropos da parte di ogni soggetto, poiché lì alberga la possibilità di autodeterminarsi e attivare la propria libertà»10. L’antropologicità della pedagogia11 trova nel teatro, quel ‘certo teatro’ cui qui alludiamo e che individua in Grotowski uno dei ‘maestri’ più significativi, l’opportunità di realizzare e ‘saggiare’ quello ‘spazio terzo’ in cui essenza ed esistenza rivendicano la loro unità e il loro necessario stato di ‘comunicazione’. In questo senso l’esperienza teatrale segnata da Grotowski e che ha attraversato buona parte del secolo passato, credo 9

Cfr. Franco Cambi, 2006, Metateoria pedagogica. Struttura, funzioni, modelli, Bologna: Clueb, in particolare p. 15: «L’educazione e la pedagogia sono sapere e saper-fare critico, ovvero capace di riflettere su se stesso e che di questa riflessività fa il proprio volano e il proprio vettore. Riflessività che è interpretazione e progettazione e incrocio tra universale e particolare, tra ‘legge’ e ‘caso’». 10 Ivi, p. 45. 11 Come sottolinea Cambi (2006): «La pedagogia è sapere antropologico, che si sviluppa tra descrizione e prescrizione, tra esperienza e progetto, tra realtà e utopia, poiché si colloca in quello spazio in cui l’anthropos si fa problema, si fa modello e si fa progetto, attivando una prassi trasformativa in quanto formativa, poiché sta dentro quel modello-in-costruzione che è sempre, per sé e la società, ogni uomo» p. 44.

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vada riletta in chiave pedagogica e antropologica, ancor più che storico-artistica, in quanto il suo valore sociale può orientare e fondare un nuovo umanismo12 che fa dell’evento, e quindi dell’azione e del fenomeno, il concetto-chiave per una educazione estetica 13 e quindi per una nuova paideia di cui si avverte una straordinaria urgenza. Formazione estetica ed estetica della formazione 14 si riconnettono grazie ad una pratica, quella teatrale, che riapre al gioco, alla meraviglia, alla ricerca, in una parola, alla festa, e che è a sua volta topos di una cultura attiva, di cui pure si avverte la necessità per orientare il pedagogico all’autonomia e alla poiesis. Proprio nel senso della cultura attiva, la riflessione pedagogica si riconosce nelle poetiche e nelle estetiche contemporanee e assume il teatro come quello spazio ‘terzo’ dove sperimentare un fare a vocazione artistica e quindi dove sperimentarsi come artista-performer. In questo spazio terzo quindi si fa incontrare quel certo teatro di Grotowski con Dewey e Pareyson per dire con quest’ultimo che: «Ora, che l’artista raffiguri o trasfiguri, l’essenziale è ch’egli ‘figuri’; sia ch’egli deformi o trasformi, l’importante è che ‘formi’. All’arte è bensì necessaria una poetica che, nel suo concreto esercizio, operosamente animi e sorregga la formazione dell’opera, ma non è essenziale una poetica piuttosto che un’altra. L’arte consiste solo nel formare per formare, sia che di fatto rappresenti o crei, ritragga o astragga, interpreti o inventi, esprima o idealizzi, ricostruisca o costruisca, penetri o sfiori»15. La ‘lezione’ di Pareyson orienta e unisce il processo produttivo, formativo, con l’esperienza estetica e costituisce la premessa per una pedagogia critica che fa dell’arte uno speciale ambito di ricerca capace di recuperare la formatività, e quindi la vita, la dinamica, dell’essere, oltre che dell’opera, e farne la condizione su cui fondare la sua concezione di Bildung e di conoscenza sensibile. Conoscenza che è creazione e cognizione al tempo stesso e si dà in quanto operazione artistica, ovvero formativa, fondata sull’unicità

12 Cfr. Martin Heidegger, 1976, Lettera sull’umanismo, tr. it., Milano: Adelphi, 1995-2006. 13 Cfr. Mario Gennari, 1994, L’educazione estetica, Milano: Bompiani. 14 Cfr. Maria D’Ambrosio, 2006, a cura di, Media Corpi Saperi. Per un’estetica della formazione, Milano: Franco Angeli. 15 Luigi Pareyson, 1950-1954, Estetica. Teoria della formatività, Milano: Bompiani, 2005, p. 314

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dell’artista e sulla sua capacità e necessità di darsi in forma di opera d’arte. L’attore-artista-performer diventa la categoria per cogliere di ciascuna esistenza la necessità di farsi atto estetico ovvero di realizzarsi attraverso la materia fisica e il gesto intenzionale e intenzionato del manipolarla e del darle forma. L’esperienza artistica ha tracciato e traccia traiettorie sempre nuove dentro ambienti e ‘paesaggi’ che sembrerebbero essere già attraversati e conosciuti ma che possono farsi ‘scena’ per una ‘pedagogia dell’azione’, considerato che, come sottolinea Rilke (1902), «Tutto era teatro ed era vuoto fino a che l’uomo non faceva il suo ingresso riempiendo la scena con l’azione comica o tragica del suo corpo. Tutto lo attendeva e quando egli arrivava, ogni cosa si ritraeva e gli faceva spazio»16. L’agire torna ad essere una categoria-chiave che qualifica l’esistenza umana e la collega indissolubilmente ad una ‘scena’ dalla quale emerge, per testimoniare il legame sociale e al contempo per affermare una posizione ‘critica’ verso il mondo cui si appartiene, e quindi la possibilità di mutarlo e di rigenerarlo. In questo senso la performance, così come intesa nel teatro e nel parateatro di Grotowski, è sacra: l’attore pubblicamente si consacra all’ordine delle cose e al contempo si fa rivelatore di un nuovo ordine del discorso, attualizzandosi come medium, incorporando la performatività della macchina teatrale nel suo complesso e dell’evento scenico nella sua unicità fenomenica, e facendo «dono totale di sé». L’allenamento dell’attore non è rivolto all’acquisizione di tecniche efficaci per la simulazione quanto invece ad un lavoro quotidiano per mettere in comunicazione il processo interiore con quello formale e per ricercare, in modalità ‘trasgressiva’, il modo per far riemergere gli strati più profondi del proprio essere, della realtà fisica e psichica, svelandone la tensione al sacro, al divino, al completo. La pratica teatrale in tal senso si configura come pratica educativa che rintraccia il ‘conosci te stesso’ e il ‘prenditi cura di te’ e li rende attualizzabili attraverso una disciplina che si rinnova nel confronto con le ‘fonti’ e nel lavoro sperimentale di ‘dare e prendere’, nell’hic et nunc. L’evento che si produce è unico, autentico, personale, collocato nel presente e generato da una condizione di apertura e di

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Rainer Maria Rilke, 1902, Sul paesaggio, tr. it., in: Artioli – Grazioli, 1995, Rainer Maria Rilke. Scritti sul teatro, Genova: Costa e Nolan, p. 156.

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Un certo teatro. O del pedagogico 25

contatto resa concreta ed ‘esibita’ dal corpo, la cui funzione è proprio quella di rendere esperibile (anche allo sguardo dell’altro), e perciò comunicabile e pubblico, ciò che appartiene alla sfera intima e più profonda dell’essere. Il teatro costituisce uno spazio di cui l’essere umano si riappropria della propria dimensione estetica, in quanto lo mette in contatto con la necessaria natura espositiva dell’esistenza. In questo senso, incontro relazione contatto presenza azione rivelazione: sono concetti essenziali, da collocare in una ricerca attraverso cui riconfigurare la produzione artistica insieme con la riflessione e l’esperienza pedagogica, che s’incarnano nell’idea gadameriana di Bildung17. Insieme con Faust, sembra di sentire anche Cassandra dire: «Ma al posto di che cosa stanno le immagini? – Questo è da vedere. Al posto di ciò che non osiamo riconoscere dentro di noi (…). Tu pensi, Arisbe, che l’essere umano non possa vedere se stesso. – è così. Non lo sopporta. Ha bisogno di una raffigurazione che gli sia estranea»18. Il teatro è proprio quel dispositivo riflessivo grazie al quale ciascuno può vedere se stesso, attraverso lo sguardo dell’altro, o del proprio fattosi altro. E così, se, oltre la voce di Cassandra, torniamo a quella del Faust di Goethe e a quella di Grotowski è per usare l’uno come metafora l’altro come ‘traccia storica’ della praticabilità della tensione faustiana: Faust19 infatti incarna il bisogno dell’umanità tutta di rigenerarsi, di 17 Cfr. Hans-Georg Gadamer, 1944-1992, Bildung e umanesimo, tr. it. a cura di Giancarla Sola, Genova: Il Melangolo, 2012. In particolare, Giancarla Sola nella sua Introduzione al testo, scrive: «Il concetto di Bildung, per essere correttamente assunto, va anzitutto ricollocato all’interno della sua storia, che dalla mistica medioevale giunge fino al classicismo tedesco di Goethe, incontrando – secondo Gadamer – in Herder e nella sua “Bildung dell’umanità” […] un’ideale attribuzione di senso. La Bildung, precisa Gadamer, si dà nella forma del divenire […] che è processo […] e mai risultato […]. Così la Bildung è un compito dell’uomo […] che solo lui stesso, in se stesso, può assolvere. Sulla scorta di Gadamer, risulta chiaro come l’essenza della Bildung […] non sia da cercarsi né in un’immagine (Bild), né in un modello (Vorbild) imposto e standardizzato, né nella formazione professione (Ausbildung), bensì compiendo una Heimkehr zu sich: “un ritorno a se stessi”» (pp. 13-14). 18 Christa Wolf, 1983, Cassandra, tr. it., Roma: Edizioni e/o, 1990-2010, p. 153. 19 Va ricordato che al dottor Faust (riferito al testo originale di Cristopher Marlowe), Grotowski dedica la regia di uno spettacolo le cui note – pubblicate nel 1964 a New Orleans in “Tulane Drama Review” e nel 1965 a Padova da Marsilio

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tornare a nascere, di conoscere (la verità) e farsi protagonista della storia (ribellandosi a Dio); Grotowski è l’interprete tutto novecentesco di tale bisogno e della sua attualizzazione, che ne fa il protagonista di una ricerca che non ha approdi veri e propri ma che ha fatto del teatro un potente strumento per dar forma alla festa, senza temerne la natura effimera e sfuggente ma esaltandone la posizione da contro-cultura dominante. Il teatro è dunque qui inteso in una accezione antropologica che ne fa la ‘casa’ del conoscere e del conoscersi: luogo e dimensione del far festa, del continuo riconfigurare se stessi e il mondo, ‘metodo’ per aprire a sempre nuovi campi di esperienza. È il cavallo di Troia fatto entrare nella cittadella arroccata dell’essere e delle sue meccaniche abitudini. In tal senso, la formazione dell’attore per Grotowski è ‘questione’ che tocca la formazione dell’uomo in senso più ampio, radicale: al centro è la relazione tra allievo e maestro, tra sé e l’altro, e quindi la possibilità dell’apertura dell’uno all’altro, ovvero della esplorazione e della rivelazione dell’uno attraverso l’altro. La relazione è centrale per la sua idea di teatro, e quindi non solo per la formazione dell’attore ma anche per l’incontro dell’attore con lo spettatore. Nella sua proposta di un teatro povero Grotowski sottolinea che «non ci rimane che l’attore e lo spettatore. Possiamo perciò definire il teatro come ‘ciò che avviene tra lo spettatore e l’attore’»20. Ciò che avviene tra lo spettatore e l’attore, dice Grotowski, delineando un orizzonte epistemologico cosiddetto fenomenologico, critico, ermeneutico e che fa del ‘laboratorium’ un modello esperienziale che individua nell’attore, ovvero nell’attorialità, un principio fondante per pensare e fare formazione. Il Teatr Laboratorium di Grotowski, infatti, ha rappresentato e rappresenta una significativa proposta pedagogica, cosiddetta ‘embodied’, che in sé coniuga il ‘problema’ della conoscenza (e della verità) con quello dell’identità (e della sua autenticità). La formazione dell’attore per Grotowski traccia un percorso e dà luogo a una condizione che è di ricerca, tanto per i maestri quanto per gli allievi. Egli infatti scrive: «Ciò che qui viene definito ‘il metodo’ è esattamente l’opposto di qualsiasi tipo di ricetta. (…) La forza di graEditori in Alla ricerca del teatro perduto – sono presenti nel suo Per un teatro povero edito a Roma da Bulzoni editore nel 1970 (edizione originale del 1968, Towards a Poor Theatre). 20 Jerzy Grotowki, 1968, Per un teatro povero, cit., p. 41.

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Un certo teatro. O del pedagogico 27

vità del nostro lavoro spinge l’attore verso una maturazione interiore che si manifesta mediante una disponibilità ad infrangere le barriere, a ricercare un ‘vertice’, la totalità»21. Nelle sue ‘affermazioni di principi’22 ritroviamo infatti esplicito riferimento ad un lavoro che necessita di una ricerca sistematica che apre al rischio e al ripensamento e necessita di recuperare l’etimologica ‘indivisibilità’ dell’individualità, così da orientare e radicare il lavoro dell’attore alla creatività, alla spontaneità e alla disciplina. Il suo è un progetto ambizioso: «il teatro e la recitazione sono per noi una specie di strumento che ci permette di uscire da noi stessi, di realizzarci»23: manifestarsi è realizzarsi, è conoscersi. La progettualità pedagogica e la sua utopia si incontrano dunque su un terreno pratico, concreto, ‘embodied’ appunto, che è l’azione, l’esercizio, il lavoro tecnico sul corpo, utilizzati per ‘liberarsi da ogni resistenza’ e scoprire se stessi. Energie fisiche e spirituali, sono richieste all’allievo perché possa auto-penetrarsi ovvero attivare un processo di indagine del sé basato su di un lavoro rivelatorio fatto di sottrazione, rinunce, sperimentazioni. La rinuncia alle abitudini è indicata da Grotowski come strumento e condizione per conoscersi: tutto il lavoro e la cosiddetta disciplina dell’attore sono gli strumenti operativi e ‘terapeutici’ di un atto di conoscenza e di autoconoscenza che si realizza nell’incontro – Grotowski per l’esattezza parla di dono, un «dono completo», e quindi di un «darsi in modo totale» – e attraverso il dubbio genera, o meglio intercetta e disvela, verità. Il realizzarsi dell’incontro mette al centro non solo il grande dispositivo relazionale maestro-allievo ma anche quello attore-spettatore. La macchina teatrale, fatta del processo di allestimento e poi dell’evento spettacolare, è individuata attraverso la sua dimensione terapeutica e politica: essa non teme, ma anzi si esprime nella tensione verso, la partecipazione, la responsabilità, l’interesse all’incontro e al dialogo interumano. Un dispositivo pedagogico in senso pieno, totale, che fa

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Ivi, p. 303. Che appaiono nel 1968 pubblicate nel volume di Jerzy Grotowski Towards a Poor Theatre, cit. Tali affermazioni erano destinate in particolare agli attori coinvolti in un periodo di prova, prima di venire accolti nella troupe e nel Teatro Laboratorio. 23 Ivi, p. 300. 22

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della provocazione e dell’eccesso la ‘via’24 per esplorare l’essere e il suo mistero e che fa dell’arte, ovvero della tecnica, lo strumento formale di un percorso che tocca la sfera dell’immaginario e del profondo e al contempo coinvolge la comunità e quindi la sfera sociale e pubblica. «Se l’attore provoca gli altri provocando se stesso pubblicamente, se con un eccesso, una profanazione un sacrilegio inammissibile, scopre se stesso gettando via la maschera di tutti i giorni, egli permette anche allo spettatore di intraprendere un simile processo di auto-penetrazione. Se egli non esibisce il suo corpo, ma lo annulla, lo brucia, lo libera da ogni resistenza agli impulsi psichici, allora egli non vende il suo corpo ma lo offre in sacrificio; ripete l’atto della Redenzione; si avvicina alla santità»25. In questo sta la responsabilità personale e politica dell’attore: il suo darsi e disvelarsi a se stesso e allo sguardo dell’altro, rende pubblico e condivisibile un atto estremo, o totale, di nuova conoscenza e creazione. Atto, azione, che coinvolge l’altro e tiene insieme auto-penetrazione e penetrazione, facendo del legame sociale – ovvero della partecipazione – la condizione della conoscenza di sé e del mondo26. Pertanto, nel solco della ‘cultura attiva’ e dell’esperienza teatrale e parateatrale di Grotowski, la conoscenza (che è sempre anche conoscenza del sé) viene connessa a uno stato di ricerca continua che trova nel teatro un territorio elettivo perché, a partire dal senso etimologico del theáomai, connette il vedere con l’esser visto e riqualifica la pratica corporea e la dimensione percettiva come condizione del pedagogico, come l’ambiente dove la presenza della vita corporea27 consente di figurare e di creare, di dar forma e vita ad un processo che apre all’ignoto e al mistero e lascia che ognuno realizzi la propria esistenza. Il lavoro del regista con l’attore suona come quello del maestro con l’allievo: nella comune spinta alla trasformazione se ne rintraccia una matrice pedagogica e dunque utopica che muove verso le fonti

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Si ricorda uno dei concetti-chiave di Grotowski che è l’arte come veicolo. Ivi, p. 42. 26 A questo proposito e in maniera esplicita in Sulla genesi di ‘Apocalypsis’ dice: «Cosa cerchiamo nell’attore? Indubbiamente lui stesso. […] Ma cerchiamo in lui anche noi stessi, il nostro ‘io’ profondo, il nostro sé» p. 33. 27 Cfr. Jerzy Grotowski, Holiday e Teatro delle Fonti, tr. it., Firenze: La Casa Usher, 2006. 25

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Un certo teatro. O del pedagogico 29

e ne fa il ‘luogo’ di sempre nuove e possibili genesi. In tal senso, il teatro, e soprattutto il Teatro delle Fonti28 o parateatro di Grotowski, incarna la spinta a cambiare punto di osservazione sul mondo per mutare lo sguardo e ciò che esso stesso produce: mettersi in osservazione diventa una modalità per ristabilire relazioni tra l’uomo e il suo mondo così da ritornare nuovamente al quotidiano, e trasfigurarlo. L’azione scenica, il drama teatrale, possono funzionare come vere e proprie ‘macchine per vedere’ attraverso cui sperimentare tecniche di straniamento capaci di ridare senso alle cose, nuovo significato alla propria esistenza e a ciò da cui si è circondati, che pure sembrerebbero dover rimanere immutati e immutabili. Figure, corpi, forme, attraverso il loro apparire allo sguardo di un altro si offrono a mutati sguardi che operano in senso come liberatorio per ritessere nuovi legami dalle profondità, in cui immergersi per esplorarsi ed emergere come altro. Il cambiamento avviene dunque in senso teatrale: tocca il vedere e ciò che viene visto, generando altri sguardi e altri modi di situarsi nel proprio ambiente di vita. Il teatro viene colto come la più antica forma di trasmissione culturale fondata sulla tradizione orale e successivamente, con l’invenzione della scrittura, codificata in testi e letteratura e riconosciuta come istituzione cui ciascuna società ha affidato la propria memoria e costruito un patrimonio su cui nel tempo si sono strutturati e articolati differenti immaginari sociali e identità culturali. Il teatro, infatti, si è configurato sin dalle origini come un dispositivo sociale affidato alla parola viva e all’arte degli aedi di decantarla, capace di farla divenire patrimonio comune. Il teatro si fonda dunque sin dalle sue origini sull’arte del novellare usata perché il sapere di pochi divenisse sapere comune e la memoria degli eroi non si perdesse ma fosse oggetto di pratiche, che noi definiamo artistiche e che in senso etimologico nominiamo propriamente come delle tecniche, tecnologie e artefatti. Ma il teatro

28 Come si legge nella prefazione a Holiday e Teatro delle Fonti, «Holiday si riferisce a quella fase dell’attività che Grotowski sviluppò tra il 1970 e il 1978, comunemente nota come ‘parateatro’, o come ‘teatro della partecipazione’, secondo una sua definizione degli anni Novanta; mentre Teatro delle Fonti si riferisce al progetto omonimo che ebbe inizio alla fine del 1976 ed è proseguito fino al 1982, quando Grotowski – in seguito al colpo di stato del generale Jaruzelski – lasciò la Polonia e l’Europa e chiese asilo politico negli Stati Uniti» p. 9.

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di Grotowski aderisce ad una matrice che l’avvicina all’esperienza del sacro e all’accadere che si dà nell’incontro. E il lavoro sull’accadere è quello tracciato da Grotowski, attraverso il Teatr Laboratorium e poi anche dal Teatro delle fonti e quindi dal parateatro. Lavoro attraverso cui ritornare alla formazione, al suo darsi come evento, per fare emergere la praticabilità di una certa pedagogia (critica, ermeneutica, costruttivista, fenomenologica) che inevitabilmente incontra la pratica teatrale e la fa propria. Spesso nella mia ricerca ritorno a sottolineare una dimensione estetica della formazione che trova nella pratica la spinta verso una pedagogia del sentire: sono il tentativo di dare una risposta a diversi interrogativi sull’Essere e il suo divenire e in particolare a quello che Bruner (1996) muove al mondo dell’educazione e della ricerca applicata all’educazione chiedendo «come fare a realizzare l’incontro, lo scambio, con l’altro?»29. «eliminando gradualmente tutto ciò che è superfluo»…

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Jerome Bruner, 1996, The Culture of Education, Harvard: Harvard University Press [tr. it., La cultura dell’educazione, Milano: Feltrinelli, 1997-1999].

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Contro la società dello spettacolo: Jerzy Grotowski e ‘Holiday’ (Święto)

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di Dariusz Kosiński

Alcune parole sono morte, anche se le usiamo ancora. Ve ne sono alcune che sono morte non perché fosse necessario sostituirle con altre, ma perché sta morendo quello che indicano. Così è, almeno, per molti di noi. Di tali parole fanno parte: spettacolo, rappresentazione, teatro, spettatore ecc. E cosa è necessario? Cosa vive? L’avventura e l’incontro, non uno qualsiasi; affinché si verifichi quello che desideriamo, affinché succeda a noi e poi succeda anche insieme agli altri, tra noi. Cosa ci è necessario per questo? All’inizio, che ci siano un posto e i nostri, e poi che vengano anche gli sconosciuti; cioè all’inizio non essere solo, e poi non essere soli. E cosa vuol dire i nostri? Sono coloro che respirano la stessa aria e – si potrebbe dire – condividono i nostri pensieri. Cosa è possibile fare insieme? Holiday (Święto)1.

Inizia così uno dei testi più noti e più influenti, per l’epoca, di Jerzy Grotowski. Considerato uno dei più illustri artisti di teatro, “mago” e “profeta”, in questo testo sembra compiere uno spettacolare atto di autodistruzione, annunciando la morte di quelle stesse parole a cui doveva la sua carriera; invece di ripetere (come fanno ancora oggi noti registi) la formula magica della necessità e del significato del teatro, con una frase lo spedisce nel passato e lo pone ai margini. In questo intervento, in questo atto di linguaggio giocato con precisione, e in seguito scritto e proclamato vi è una sorta di inesorabilità, quasi ferocia, risultante dalla necessità che lo ha creato. Per comprendere da dove venisse questa necessità e dove abbia portato Grotowski l’averla segui1 Jerzy Grotowski: Święto, sulla base dello stenogramma dell’incontro con studenti e professori nell’Aula Magna della New York University, 13 dicembre 1970, Odra, 1972 n. 6, p. 47.

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Teatro e parateatro come pratiche educative

ta, dobbiamo ricordare alcuni episodi, ancora non troppo conosciuti e diffusi, della vita dell’artista. Non si tratta di un excursus storico, di informazioni che si possono trovare in libri e articoli già pubblicati, ma di osservare l’attività di Grotowski negli anni ’70 nuovamente e da un’angolazione leggermente diversa rispetto a quanto fatto finora, per vedere se da questa storia non risulti per caso per noi oggi qualcosa di completamente non storico. Le parole citate all’inizio fanno parte di un brano del testo riscritto da Grotowski e dai suoi più stretti collaboratori (tra cui Ludwik Flaszen) della registrazione dell’incontro tra professori e studenti alla New York University, tenutosi il 13 XII 1970. Grotowski era tornato a New York esattamente un anno dopo le trionfali tournée del novembre e del dicembre 1969, durante le quali il Teatro Laboratorium aveva rappresentato Akropolis, Il principe Costante e il più recente, nonché ultimo, spettacolo diretto da Grotowski – Apocalypsis cum figuris. Questi spettacoli e gli incontri con il pubblico assicurarono a Grotowski lo status di profeta del nuovo teatro, strettamente legato a quella nuova cultura che ricercavano i giovani contestatori che protestavano contro la guerra in Vietnam, che ascoltavano rock e prendevano LSD per trovare il modo per aprire le “porte della percezione”. Apocalypsis… fu per loro una rivelazione e le azioni compiute dagli attori di Grotowski, soprattutto da Ryszard Cieślak, indicavano la possibilità di quella totale trasformazione della persona umana che tanto desideravano. Questi giovani non se ne rendevano probabilmente conto, ma anche loro furono in un certo senso una rivelazione per un regista arrivato da un paese comunista e che stava attraversando una delle crisi più profonde della sua vita artistica. Paradossalmente questa crisi era legata al trionfale coronamento del lungo periodo di lavoro su Apocalypsis… Nel corso delle ricerche, durate alcuni anni, Grotowski e i suoi attori vissero dei momenti di abbattimento, ma fecero il coraggioso esperimento di un’audace esplorazione di se stessi, il cui risultato fu il loro sviluppo umano, l’autoconoscenza, la trasformazione. Poi il frutto del loro lavoro – la rappresentazione – venne mostrato all’altra gente e anche se su molti ebbe una grande influenza, Grotowski evidentemente in maniera sempre più forte sentiva l’ambiguità di una situazione in cui le esperienze umane e i successi del suo gruppo venivano lodati dalle recensioni e inseriti negli ingranaggi della macchina teatrale. Si rendeva conto sem-

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Contro la società dello spettacolo 33

pre più chiaramente che il teatro – in quanto istituzione e costruzione culturale storicamente definita – non era quello che lo interessava realmente. Al tempo stesso, evidentemente, non sapeva bene che fare in seguito, quale teatro avrebbe potuto ancora creare dopo aver portato l’arte scenica al limite, al confine, all’Apocalisse. Come se ciò non bastasse, il mondo attorno a lui sembrava attraversare violenti mutamenti. Il 1968 è l’anno delle proteste anticomuniste in Polonia, della ribellione contro il potere sovietico in Repubblica Ceca e delle rivolte giovanili in Occidente. Un momento eroico della controcultura, il momento dei suoi maggiori trionfi, quando sembrava che sarebbe bastato un attimo e il volto di questo mondo avrebbe subìto un cambiamento. Tutto ciò fece sì che gli anni 1968-1970 fossero uno dei più importanti periodi di passaggio nella vita di Jerzy Grotowski, quasi una fase liminale nella sua biografia. Stando a quanto riportato dalle cronache sulla relazione cronologica, superficialmente sembra essere tutto relativamente normale: l’artista assolve agli obblighi di direttore del teatro – dirige le prove, fa lunghi e intensi viaggi con il suo gruppo, tiene delle lezioni, coordina stage, incontra giornalisti, presenzia in qualità di giurato a festival nazionali e internazionali. Sotto la superficie, tuttavia, è in corso un processo che non si manifesta quasi mai pubblicamente, che non è quasi possibile scandire con delle date, ma che ha un significato maggiore di tutto quello che è segnato sul calendario. Alcuni anni più tardi, in una delle sue più personali dichiarazioni Grotowski ricordò: Allora con alcuni non avevo già cuore, e con altri non avevo abbastanza coraggio. Che fare in questo caso? È possibile continuare a forza, [...] o rifugiarsi nella malattia [...] o diventare professore, rettore, creare una qualche superlativa scuola superiore di teatro, ci ho persino pensato. Ero anche molto diviso tra la possibilità per me già tangibile [...] di una reale compagnia con il mio proprio, puramente biologico, impigrirmi. [...] Di solito succedeva che quando più o meno sapevo di che cosa c’era bisogno veramente, sapevo anche cosa consigliare agli altri. Quindi agli altri, a cui auguravo tutto il bene, consigliavo di mettersi ad andare in giro. Fino a che poi – come mi è capitato un paio di volte nella vita – non mi sono reso conto che consigliavo agli altri quello che avrei dovuto fare io stesso. Poi è stato un momento molto difficile. Poi si è liberata un’immensa

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Teatro e parateatro come pratiche educative

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gioia. E l’uno e l’altra, allo stesso tempo. E la sensazione di conferma. E la sensazione del fatto che si può – che come è questo organismo, è così, che probabilmente non si tratta di una fatica di Ercole – ma che è possibile fidarsi, che, in altre parole, posso fidarmi di me. Posso incontrare un altro essere umano, così come sono, sullo stesso campo. Sono stati un’esperienza fondamentale – questi primi incontri. [...]2.

Definire i luoghi e i giorni precisi di questi momenti particolari e cruciali è naturalmente possibile, ma non sembra neppure indispensabile per la comprensione della natura e dell’importanza degli stessi. Molto spesso tale definizione è legata ai viaggi in India, che Grotowski fece a cavallo degli anni 1968/69, 1969/70 e infine tra il 10 luglio e il 23 agosto 1970. Soprattutto questo terzo viaggio è avvolto nella leggenda, poiché l’artista vi tornò completamente trasformato: era dimagrito 40 kg e, nell’aspetto, da impiegato dell’intellighenzia, si era trasformato in un giovane hippy. A quanto pare nessuno lo riconobbe. Stefania Gardecka, da molti anni segretaria e amministratrice del Teatro Laboratorium, che fu tra le prime persone a incontrare Grotowski dopo il rientro, ebbe a chiedere: “Sei tu? E dov’è quell’altro?” “Non lo so” – fu la risposta. Gli aneddoti, gli scoop giornalistici, le foto che presentavano Grotowski “prima” e “dopo” non dovrebbero offuscare il senso fondamentale della trasformazione, cioè il fatto che negli anni “di passaggio” Grotowski molto probabilmente aveva sperimentato qualcosa che non tanto e non solo gli aveva dato il coraggio di intraprendere ulteriori ricerche culturali, ma soprattutto aveva dovuto costituire una forte emozione interiore. Per dirla senza mezzi termini: negli anni 1968-1970 Jerzy Grotowski subì una totale e radicale trasformazione, la cui forza gli diede l’impeto e una incredibile illuminazione per le sue successive ricerche. Quest’esperienza fu come un terremoto, i cui echi saranno udibili nelle azioni e nei discorsi dell’artista ancora per alcuni anni. Non avendo accesso alla stessa “esplosione”, ne possiamo tuttavia – come credo – ascoltare attentamente gli echi che risuonano nelle frasi poetiche, a volte aforistiche, delle quali Grotowski si servirà negli anni ’70, per descrivere la sensazione che indicava agli altri come obbiettivo. Perché la caratteristica forse più importante di 2

Conversazione con Grotowski (Rozmowa z Grotowskim), di Andrzej Bonarski, [in:] Andrzej Bonarski: Ziarno, Warszawa: Czytelnik, 1979, p. 40.

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Contro la società dello spettacolo 35

questo insolito “periodo di passaggio” fu il fatto che “l’ex regista” invertì l’ordine in cui procedeva, non cercando più, come prima, risposte con l’aiuto degli attori, ma attraversando innanzitutto egli stesso il processo che negli anni successivi cercherà di preparare e rendere accessibile agli altri. Grotowski per tutta la vita conservò la pragmatica capacità di utilizzare i mezzi propri del mondo contemporaneo per comunicare con coloro con cui voleva collaborare e che poteva aiutare. Nel 1970 riconobbe giustamente che non era Parigi, ma New York la capitale della cultura globale nascente, quindi consapevolmente scelse appunto questa città come luogo in cui avrebbe dovuto svolgersi la grande rappresentazione della distruzione dei propri dogmi e della propria immagine e al tempo stesso l’atto finale del periodo di passaggio – l’ingresso in una nuova fase del suo lavoro, la fase post-teatrale. Aver riconosciuto, all’inizio di Holiday (Święto), la parola teatro come “parola morta” non significava che Grotowski avesse profetizzato la fine del mondo della scena, la sua caduta. Era invece convinto che la generale necessità – è qualcosa che oggi è accanto al teatro. [...] A mio avviso non è possibile dire che il teatro in generale non produce opere creative, perché le produce. Esiste solo la domanda se la corrente principale dei bisogni umani non scorra ormai altrove. [...] Ritengo che il teatro non stia rispondendo a questo bisogno che in questo momento aumenta insieme a una certa nuova sensibilità. Il teatro vive ancora della forza dell’impeto, della tradizione, dell’abitudine, della perseveranza della gente che in esso operano, di sporadici nuovi successi. È come un prolungarsi di qualcosa oltre il proprio confine, oltre il tempo naturale di funzionamento. È degno di rispetto in molti casi, e in molti altri il teatro è solamente il terreno che permette ai professionisti di mantenersi, assicurarsi la possibilità di lavorare eccetera3.

Non si trattava quindi della fine del teatro annunciata invano da anni, del limite come storia, ma piuttosto del riconoscimento della sua nullità come fine. Nel corso dell’esibizione al municipio di New York, il 12 dicembre 1970 Grotowski chiese: 3 Obok teatru (Accanto al teatro), trascrizione della conversazione con Jerzy Grotowski, Konstanty Puzyna e il pubblico, avvenuta il 19 dicembre 1972 al Wawel, “Dialog” 1973 n. 7, pp. 96-97.

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Teatro e parateatro come pratiche educative

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Il teatro può essere un fine? – Tale possibilità ovviamente esiste, ma ambire a ciò è forse assurdo. Mi si chiede continuamente come salvare il teatro. Mentre quello che bisognerebbe chiedere è: come salvare se stessi4.

È stata forse la più aperta e, anzi, al tempo stesso tragica nella sua semplicità, ammissione di un vero obbiettivo a lungo termine, che ha guidato l’artista nel corso di tutta la sua attività. «Salvare se stessi», rispondere attivamente – nell’azione, nella realizzazione – alla domanda, «come potremmo vivere, come essere, come avere vita – senza vergognarsene. Senza infamia […]»5 – in queste parole (annunciate e – cosa importante – pubblicate) Grotowski come mai prima d’allora svelò apertamente il proprio non religioso progetto di salvezza attraverso la cultura. Non era un progetto nuovo, ma solo ora – sotto l’influsso delle esperienze personali, e anche del contesto del tempo – poté essere rivelato pubblicamente. Quello che è stato tolto, per così dire, era il teatro, che fino ad allora era nascosto allo sguardo dei censori, dei controllori e di coloro che si beffavano dell’aspirazione alla risposta sulla “necessità essenziale”. Eseguendo a New York la grande performance di trasformazione, Grotowski in modo molto coraggioso costruì un parallelismo tra la sua contemporaneità e l’a volte evangelico, suggerendo inequivocabilmente l’esistenza di un’analogia tra gli «uomini che duemila anni fa passavano nei dintorni di Nazareth» e «cercavano la verità»6, e se stesso e coloro tra gli ascoltatori, che hanno anche intrapreso diverse “insensate” azioni per soddisfare la fame di senso che li angosciava. Il congedo dal lavoro dichiarato da Grotowski sulle rappresentazioni teatrali non significò al tempo stesso l’abbandono dell’attività drammatica. Lo dimostra il modo in cui parlò della necessità di ricercare risposte alla domanda più importante, che avrebbe salvato dalla morte. «Bisogna porla – disse – e la risposta? La risposta è impossibile da formulare, si può solo farla»7. In linea con le esperienze e i 4

Jerzy Grotowski, Takim, jakim się jest, cały, “Odra” 1972 n. 5, p. 53. Jerzy Grotowski: To święto stanie się możliwe, “Kultura” 1972 n. 52, del 24 dicembre, p. 1. 6 Jerzy Grotowski, Święto, cit., p. 47. 7 Ivi, p. 50. 5

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Contro la società dello spettacolo 37

successi del periodo precedente, l’attività drammatica rimase il modo fondamentale per conoscere la verità e la vita in verità. Questo punto essenziale – la necessità di fare e di credere nella realtà dell’esperienza – Grotowski non lo abbandonò mai. Credeva che – come dice il titolo di uno dei suoi successivi interventi – “l’azione è letterale”, poiché è diretta e conquistata al prezzo di uno sforzo personale a modo proprio. Scansando quello che, nella cultura dell’occidente, si era soliti considerare teatro, e nel quale vedeva la sfera del gioco e della finzione, non rinunciò al tempo stesso all’azione drammatica. Alla domanda cosa fosse possibile di fronte alla “morte del teatro” rispose: Holiday (Święto). Questo termine, usato spesso da Grotowski all’inizio degli anni ’70, si riferiva agli eventi particolari, preparati, vissuti in comune, che – per propria natura – hanno un carattere drammatico e spesso anche di rappresentazione e sono a volte visti come il fenomeno basilare, originario della creazione della cultura, dal quale sono nati tutti i successivi ambiti dell’arte, tra cui anche il teatro. Al contempo la parola stessa aveva un logico legame con la sacralità, sottolineato ancora (per così dire per necessità) dalla formula usata nel titolo della traduzione in inglese dell’esibizione di New York “holiday – the day that is holy”. Il nome stava ad indicare quindi le azioni che uniscono festività e sacralità, che si svolgevano in un tempo e in un luogo particolare. Ma la festa non doveva essere solo questo. Grotowski formulò il concetto, ad esempio, in questo modo. Se qualcuno ha la convinzione che si può cambiare il mondo, ma sino al momento in cui non diventa un fatto vive alla meno peggio, allora il suo comportamento crea una situazione in cui questo qualcuno crea opere che esortano gli altri a migliorare il mondo e la vita, lui stesso invece ne trae profitto. Se – invece – qualcuno arriva alla conclusione che la trasformazione comincia dal cambiamento della sua stessa vita allora – prima o poi – gli viene da chiedersi: è possibile cambiare senza legami con gli altri? Poiché non è possibile avere legami significativi con tutti, di conseguenza si dovrebbero cercare quelle persone che siano a noi – inizialmente in un certo senso – affini, cioè che sentono un bisogno simile, che si articola in diversi modi. È chiaro che tale legame – se dev’essere qualcosa di essenziale – non può concretizzarsi in una situazione di comunicazione nella quale entrano in contatto non unità irripetibili, ma particolarizzazioni dei ruoli sociali. Deve essere creata una nuova situazione speciale che non solo non disturbi tale intesa, ma – attraverso la creazione “del ritmo dello

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spazio, del tempo, della libertà” – la semplifichi e la rafforzi. Questa – situazione autoguidata, perché sia completa, dovrebbe abbracciare non solo la gente, ma anche il mondo tangibile. Permetterebbe allora all’uomo di trovarsi nella situazione di colui a cui guarda l’esistenza. I cui sensi non sono murati. Immerso nell’esistenza8.

Holiday (Święto) doveva quindi essere una situazione preparata di incontro di persone tra loro e con la natura circostante, e, al contempo, esperienza che avrebbe iniziato un graduale cambiamento del modo di vita e – in effetti – la trasformazione del mondo. Per potervi partecipare pienamente, è necessaria soprattutto la rinuncia al “teatro della vita quotidiana” e quindi togliere la maschera e non solo una delle molte maschere che più o meno consapevolmente indossiamo nelle diverse circostanze della vita, ma soprattutto la “maschera principale”, cioè la maschera di ciò che ci consideriamo, e di ciò che è il modo idealizzato di autopresentazione, accettato da noi e dal nostro ambiente. Questa “sospensione del nostro io sociale” è possibile soltanto come fatto (drammatico) in reciprocità (nei confronti dell’altro) – solo allora abbiamo, infatti, la possibilità sfuggire ai processi di auto drammatizzazione che si svolgono incessantemente – la creazione a proprio uso dell’immagine di noi stessi che ci soddisfa. Bisogna ricordare ora che nello stesso periodo in cui Grotowski formulò e annunciò il suo programma parateatrale, la pratica di utilizzare termini teatrali per descrivere e analizzare la vita sociale e individuale non era nulla di eccezionale. Già nel 1959 era uscito il famoso libro di Erving Goffman Presentantion of self in everyday life, la cui traduzione polacca, pubblicata nel 1981 è intitolata Człowiek w teatrze życia codziennego (L’uomo nel teatro della vita quotidiana). Otto anni dopo, quando il Teatro Laboratorium riportò i suoi grandi successi internazionali e il suo leader si trovava sulla soglia della sua fase liminale, uscì il libro dello scrittore francese, artista e filosofo Guy Debord Społeczeństwo Spektaklu (La società dello spettacolo), che fino ad oggi resta l’analisi di ispirazione del capitalismo globale mostrato come un grande spettacolo, a cui non si può sfuggire. Non bisogna neppure

8 Leszek Kolankiewicz, in: Na drodze do kultury czynnej. O działalności instytutu Grotowskiego Teatr Laboratorium w latach 1970-1977. Elaborazione e documentazione di Leszek Kolankiewicz, Wrocław 1978, pp. 18-19.

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dimenticare che l’inamovibile dipendenza da quello che si crea tra gli uomini nel processo di incessante drammatico gioco venne descritto precisamente dall’illustre scrittore polacco Witold Gombrowicz, di cui Grotowski era un accanito lettore già negli anni ’50. Non so, invece, se Grotowski avesse letto i libri di Goffman e Debord. È molto probabile che non li avesse letti. Ne richiamo comunque il contesto per formulare la tesi che parlando del teatro morto, non parlava solo dell’istituzione che perdeva popolarità e significato e della pratica artistica. Sentiamo ancora una volta le sue parole: In questa paura legata alla mancanza di senso, rinunciamo alla vita e cominciamo diligentemente a morire. La convenzionalità occupa il posto della vita e i sensi, rassegnati, si assuefanno alla banalità. Ogni tanto ci ribelliamo, ma, in realtà, solo in apparenza; facciamo una qualche grande scenata, uno scandalo – in generale non troppo forte, tale da non minacciare la nostra posizione: qualcosa che sia sufficientemente banale per poter essere compreso dagli altri, quindi ad esempio ci ubriachiamo fino a perdere conoscenza. Questa corazza, questo involucro sotto il quale diventiamo di pietra, diventa ormai la nostra esistenza – diventiamo duri e insensibili, e cominciamo ad odiare chiunque abbia ancora in sé una scintilla di vita. Non si tratta di una questione spirituale, abbraccia tutti i nostri tessuti ed è sempre più grande la paura di essere toccati da qualcuno, o di mostrare se stessi. La vergogna della pelle nuda, di una vita nuda, la vergogna di sé – e al tempo stesso – spesso – una totale spudoratezza laddove entri in gioco, per esporre tutto questo in un mercato, vendere bene. Non ci amiamo più, non amiamo noi stessi; odiando gli altri, cerchiamo di lenire questa mancanza d’amore. In maniera molto vivace, anche se nascostamente lugubre ci affaccendiamo attorno al nostro funerale. Quanto c’è da fare, quanta fatica, che rituale. E cos’è questa morte? Vestirsi, coprirsi, possedere, fuggire, canonizzare il proprio fardello.

Il teatro di cui qui si parla è il teatro della morte. La sua essenza è costituita dalla creazione di un’immagine adeguatamente attraente, che suscita un’impressione adatta alla situazione e svolge un ruolo sociale oltre che di esibizione di sé, che assicura il successo e al tempo stesso protegge dal confronto con la verità su se stessi. Ancora nel periodo teatrale Grotowski ripeteva testardamente che la condizione della vera creatività è scoprire se stessi e utilizzare i metodi teatrali per qualcosa che paragonò alla confessione. Abbandonando l’arte delle performance, non intendeva affatto abbandonare il lavoro su

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questa drammatica, attiva conoscenza della verità su se stesso e al tempo stesso purificazione di sé attraverso e nell’azione che unisce la spontaneità e la struttura precisamente elaborata. Voleva invece renderla disponibile agli altri non come uno spettacolo che – indipendentemente dalla sua forza di attrazione, dall’effetto e dall’influenza – rimane un qualcosa di relativamente facile da dimenticare, ma come azione propria, intrapresa a suo nome, e non per mezzo di rappresentanti pagati. Questa tensione costituì il fine dei suoi sforzi fino alla fine della vita, nonostante il cambio di nomi, formulazioni, uomini e luoghi. Persino l’uscita dall’azione con non professionisti, che si ebbe dopo il 1976 non modificò questo atteggiamento fondamentale, che si può intendere come una sorta di pedagogia drammatica. Non creando un metodo immutabile, Grotowski agì come un insegnante che osserva attentamente i suoi adepti e ricerca dei metodi specifici, che permettano a questa concreta unità umana di sconfiggerne i limiti e i problemi. Nello spirito della convinzione espressa nel 1970, che «non è possibile formulare una risposta, si può solo fare», l’unico immutabile principio restò per lui l’azione – la necessità di intraprendere un lavoro su se stesso e in nome proprio, di ricercare in sé non con l’aiuto di parole e idee, ma del proprio organismo. Questa pedagogia attiva e drammatica mira coerentemente – e oggi lo si vede in modo particolarmente chiaro – in direzione opposta a quello che promuove la cultura postmoderna che cerca di trasformare ogni forma di attività in oggetto di rappresentazione, creando in tal modo gli scenari per le nostre scelte individuali e costringendo a recitare ruoli scritti incessantemente dalla nuova forma di costrizione – Widowisko Wcielone (Spettacolo Incarnato), la performance totale. È difficile non notare che oggi Grotowski e la sua tradizione non appartengono alle correnti più note e popolari nell’arte e nella cultura. Oltre agli attori ingenui che ricercano qualche proprio “metodo” per svolgere meglio il lavoro, alle sue proposte si appassionano e si sforzano di svilupparle piccoli gruppi isolati di persone che cercano testardamente un modo di vita diverso da quelli che vengono incessantemente rappresentati sulla grande scena del mondo. Uno di questi gruppi è quello formato dai giovani collaboratori di Thomas Richards e Mario Biagini che ricercano nell’ambito del Workcenter of Jerzy

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Contro la società dello spettacolo 41

Grotowski and Thomas Richards di Pontedera i modi per costruire un passaggio tra il mondo contemporaneo e quello che Grotowski cercò di opporgli. Un altro gruppo è costituito dalle persone che gravitano attorno a Ewa Benesz, che sviluppa una sua propria e originale versione di parateatro. La loro attività non è amplificata dai mass media e ampiamente trattata nell’ambiente, ma gode di un interesse crescente, come dimostra anche la nostra conferenza. Permette di nutrire la speranza, che Holiday (Święto), di cui Grotowski parlò più di quarant’anni fa a New York, non rimarrà solo un’utopia culturale, un altro sogno ricordato con melanconia dai figli della controcultura, che hanno tagliato i capelli e hanno cominciato a far carriera.

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Condurre la ricerca sul confine tra studi sulla performance, etnografia sperimentale ed embodiment*

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di Virginie Magnat

La ricerca teatrale e parateatrale delle donne nella diaspora grotowskiana Sebbene gli storici del teatro considerino Jerzy Grotowski, insieme a Stanislavski e Brecht, uno degli innovatori teatrali più influenti del ventesimo secolo, vi è in proporzione un numero esiguo di testi accademici che s’interessano dell’approccio di Grotowski. Nell’ambito della limitata letteratura esistente a riguardo, si è prestata pochissima attenzione al lavoro delle donne. Meetings with Remarkable Women – Tu es la fille de quelqu’un indaga perciò sulla ricerca creativa di donne di diverse culture e generazioni che hanno in comune una connessione diretta con lo studio intrapreso dal regista polacco sulla performance teatrale e post-teatrale. Ho ricevuto due finanziamenti dal Consiglio di Ricerca degli Studi Sociali e Umanistici del Canada per sviluppare le metodologie di ricerca teoriche e pratiche del progetto. Attualmente sto finendo di scrivere un libro per la Routledge e una serie integrativa di documentari, comprensiva di video e fotografie prodotti in esclusiva per il progetto attraverso un processo di collaborazione che ha permesso a ciascun artista di lavorare a stretto contatto con una squadra di video-maker e fotografi professionisti, assicurando così una riproduzione rispettosa e, nel contempo, una molteplicità di prospettive. I film fanno parte dell’Archivio Digitale dello Spettacolo della Routledge. *

Testo tradotto da Daniela Marcello

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Visto che la spiritualità è un elemento importante nelle metodologie di ricerca indigena, queste ultime mi sembrano specialmente adatte per affrontare ciò che si può chiamare la dimensione spirituale della ricerca artistica grotowskiana, dimensione che contribuisce a rendere il suo lavoro e quello dei suoi collaboratori molto stimolante per i ricercatori. Trattare seriamente la spiritualità è qualcosa di particolarmente critico nello studio degli esperimenti post-teatrali di Grotowski a cui ha partecipato la maggior parte delle donne coinvolte nella mia ricerca. Proprio dopo aver acquisito fama internazionale come direttore artistico del Teatro Laboratorio in Polonia, Grotowski prese la controversa decisione, nel 1969, di abbandonare completamente le produzioni teatrali per concentrarsi sulla ricerca pratica che spaziava dagli esperimenti di partecipazione, eventi unici svolti in ambienti insoliti al chiuso o all’aperto, all’indagine pratica a lungo termine sui processi della performance rituale. Da allora la ricerca di Grotowski divenne sempre più orientata verso quelle fonti di conoscenza incorporata legate alle pratiche della cultura tradizionale. Grotowski stava molto attento a non parlare direttamente di spiritualità quando discuteva del suo lavoro, in modo da non incoraggiare generalizzazioni riduttive basate su una comprensione eurocentrica di ciò che può costituire la spiritualità. Tuttavia, ricollegarsi a una personale discendenza culturale era centrale nel suo approccio, specialmente nella ricerca pratica sugli antichi canti tradizionali. Egli afferma: Come si dice in un’espressione francese: ‘Tu es le fils de quelqu’un’ [Tu sei il figlio di qualcuno]. Non sei un vagabondo, sei di qualche parte, di qualche paese, di qualche luogo, di qualche paesaggio… Perché colui che ha cantato le prime parole era figlio di qualcuno, di qualche posto, di qualche luogo; allora, se ritrovi tutto ciò, tu sei figlio di qualcuno. [Altrimenti] sei separato, sterile, infecondo1.

Anche se quest’affermazione sembra incentrarsi solo sui figli e a prima vista privilegiare il genere maschile, dalle note alle trascrizioni e alle traduzioni dei suoi discorsi pubblici, sempre tenuti in francese, risulta chiaro che Grotowski era ben consapevole dei limiti delle espressioni linguistiche che denotano il genere e non voleva che il suo 1

Grotowski, Jerzy, “Tu es le fils de quelqu’un”, in Antonio Attisani – Mario Biagini, (a cura di), Opere e sentieri, Roma: Bulzoni, vol. II, p. 79.

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Condurre la ricerca sul confine 45

discorso si riferisse esclusivamente agli uomini. Tuttavia, il sottotitolo del mio progetto, Tu es la fille de quelqu’un, recupera e rielabora quello che essenzialmente è un detto popolare nella mia cultura di origine, generando domande sulla discendenza, artistica e di altro tipo, e su ciò che potrebbe significare essere figlia di qualcun altro. È interessante notare che i canti tradizionali occupano un posto centrale negli insegnamenti e nella pratica artistica delle collaboratrici di Grotowski e lavorare con loro mi ha portato a riconnettermi con i canti tradizionali nell’antica lingua occitana, che mia nonna materna parlava con le sorelle, i fratelli, i genitori e i nonni, ma che io e mia madre non capiamo. Questi canti potenti evocano un ambiente naturale che un tempo era familiare ai miei antenati, i quali, per quanto illetterati e poveri, possedevano tuttavia una conoscenza incorporata, ricca e antica, della terra. Quando la lingua e la cultura di queste popolazioni rurali furono soppresse, proibite e infine sradicate dall’imposizione della lingua nordica, che divenne la lingua ufficiale della nazione francese, i canti tradizionali occitani diventarono l’unico veicolo per la memoria culturale collettiva del mio popolo. Questa connessione tra canto tradizionale e memoria culturale sembra essere legata a un senso incorporato della posizionalità relativa all’interrelazione tra identità, discendenza e luogo, come esposto dalla studiosa hawaiana Manulani Aluli Meyer quando scrive: «Si veniva da un luogo. Si cresceva in un luogo e con esso si aveva una relazione. [...] La terra è qualcosa di più di un semplice luogo fisico. [...] È la chiave che apre le porte dentro di sé per riflettere su come lo spazio ci modelli»2. La Meyer continua citando l’hawaiano Halemakua, uomo di conoscenza, che afferma: «In passato si proveniva da un luogo familiare con la propria evoluzione e le proprie esperienze. In passato si aveva una comprensione ritmica del tempo e si facevano potenti esperienze di armonia nello spazio». La Meyer specifica che Halemakua credeva che fosse possibile riconnettersi a questo sapere e così «dare ancora vita ad atti di responsabilità e di compassione e alla giusta relazione con la terra, il cielo, l’acqua e l’oceano – vitale per i 2

Manulani Aluli Meyer, “Indigenous and Authentic: Hawaiian Epistemology and the Triangulation of Meaning”, in Handbook of Critical & Indigenous Methodologies, a cura di Norman K. Denzin, Yvonna S. Lincoln e Linda Tuhiwai Smith, Thousand Oaks: Sage, 2008, p. 219.

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tempi moderni»3. La comprensione ritmica del tempo e l’esperienza armonica del luogo che ricorda Halemakua, insieme al senso di compassione che sollecita, suggeriscono che la musica e il canto sono state a lungo modalità esperienziali importanti di cognizione empatica. La conservazione della cultura hawaiana può essere in parte ricondotta proprio alla sua eredità musicale straordinariamente ricca, basata sulla trasmissione orale transgenerazionale. Secondo Grotowski e i suoi collaboratori ciò che mantiene vivo un canto tradizionale è la particolare qualità vibratoria legata alla precisione della sua struttura ritmica, cosicché l’atto di un performer competente che dà corpo a un canto tradizionale in maniera attiva e accurata può diventare un veicolo che ricollega a chi per primo lo cantò. Grotowski crede perciò che l’ancestrale conoscenza incorporata sia inscritta nei canti tradizionali e che il potere dei canti dipenda dall’esperienza incorporata della loro esecuzione. La fiducia che il corpo possa ricordare come eseguire i canti può perciò diventare un modo di recuperare la continuità culturale. Rigore e competenza nell’eseguire e insegnare i canti sono perciò essenziali per mantenere vivo il processo con cui la conoscenza ancestrale opera la trasmissione in chi li apprende. In Theatre as Future: Grassroots Performance, Decolonization and Healing Qwo-Li Driskill si riferisce forse a un processo simile quando scrive sull’apprendimento di una ninna-nanna Cherokee: Come chi, cresciuto nella mia terra, non ha imparato la lingua o i canti tradizionali e si trova ora nel processo di recuperare la tradizione – come tanti nativi del Nord America – il processo di imparare di nuovo questa ninna-nanna era ed è parte integrante del mio personale processo coloniale. Il contesto dello spettacolo mi ha fornito l’opportunità di reimparare e di eseguire un canto tradizionale, un atto importante di ricongiungimento intergenerazionale e continuità culturale. Quando cantavo questa ninna-nanna durante le prove e lo spettacolo, immaginavo i miei avi che assistevano da ogni angolo del teatro, aiutandomi nel lavoro, spesso doloroso, di sutura e di ricongiungimento4.

3

Ivi, p. 231. Qwo-Li Driskill, “Theatre as Suture: Grassroots Performance, Decolonization and Healing”, in Aboriginal Oral Traditions: Theory, Practice, Ethics, Halifax & Winnipeg: Fernwood Publishing, 2008, p. 164. 4

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Condurre la ricerca sul confine 47

La relazione tra l’esecuzione, l’incorporazione e la continuità culturale ricordata qui da Driskill mostra un’azione creativa intimamente connessa all’esperienza vissuta, per quanto non limitata o ristretta ad una singola prospettiva individuale. È questo tipo di azione che caratterizza il mio apprendistato con le collaboratrici di Grotowski, dal momento che mi permette di rimanere in contatto con le mie radici culturali mentre insegno in un’università nord-americana, lontano dalla terra antica degli antenati occitani – perché la conoscenza incorporata dà i suoi frutti col passare del tempo. Grotowski associa questo processo ad una forma di “lavoro su di sé”, espressione presa in prestito da Stanislavski, un regista russo che rivoluzionò il teatro nella prima metà del ventesimo secolo e che Grotowski considerò suo predecessore artistico. Questo tipo di lavoro incorporato può essere inteso come una forma di “coltivazione del sé”, come la definì sei secoli fa il maestro e performer giapponese del teatro Noh, Zeami. La nozione di coltivazione del sé è un modo potente di concettualizzare una forma alternativa di azione collettiva e transgenerazionale, e, nel caso del mio progetto, è anche legata al fatto di essere donna. Quando Grotowski parlò di «lignée organique au théâtre et dans le rituel», titolo delle sue conferenze al Collège de France, stabilì una connessione tra processi performativi estetici e rituali, suggerendo che il teatro e il rituale erano collegati grazie al processo vivo che avevano in comune e che poteva essere descritto come una trasformazione di energia che genera una qualità differente di percezione – Grotowski impiegò il termine inglese awareness5. Floyd Favel, un artista Cree che lavorò con Rena Mirecka6 e con Grotowski in Italia durante la 5 Il termine viene mantenuto nella sua forma inglese anche nella versione italiana. Si veda Jerzy Grotowski, “Dalla compagnia teatrale all’arte come veicolo”, in A. Attisani – M. Biagini, (a cura di), Opere e sentieri, cit., vol. II, p. 102 (N.d.T.). 6 Rena Mirecka è membro fondatore del Teatro Laboratorio di Jerzy Grotowski e l’unica donna che ha preso parte agli spettacoli del Teatro Laboratorio, compresi Akropolis, Il principe costante e Apocalypsis cum figuris, in cui ricopriva ruoli centrali. Contribuì allo sviluppo dell’approccio innovativo del Laboratorio nell’allenamento e nella creazione degli spettacoli ed è un’esperta degli esercizi fisici noti come “esercizi plastici”. Avendo collaborato con Grotowski per 25 anni, continuò a lavorare indipendentemente, conducendo la sua ricerca parateatrale e insegnando a livello interna-

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Teatro e parateatro come pratiche educative

fase iniziale dell’Arte come veicolo, scrive sul processo che lega teatro, tradizione e rituale:

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Tradizioni teatrali e rituali hanno in comune le stesse caratteristiche: narrativa, azione e utilizzo di uno spazio specifico o sacro. Ma il teatro viene dall’altra parte della Grande Acqua, mentre le nostre tradizioni si sono originate qui. Questi due mezzi espressivi hanno obiettivi e scopi diversi. Là dove si connettono c’è un livello spirituale. Nel momento dello spettacolo viene attivata una parte più elevata di sé ed è su questo piano più alto che il teatro e la tradizione sono connessi e in relazione7.

Tra le donne di diverse culture e generazioni che hanno partecipato attivamente alla ricerca teatrale e post-teatrale di Grotowski, quelle coinvolte nel mio progetto hanno sviluppato approcci che, per quanto estremamente diversi, si situano spesso nel punto d’incontro tra teatro, tradizione e rituale. Di conseguenza il loro lavoro non è collocabile in nessuna delle categorie fornite dalla terminologia grotowskiana, che si tratti di Arte come presentazione, di Parateatro, di Teatro delle Fonti o di Arte come veicolo. La dimensione spirituale a cui si riferisce Fevel è presente nelle tradizioni da cui attingono queste artiste e il più alto livello di consapevolezza menzionato da Grotowski sembra anche una chiave per il loro insegnamento. Quando chiesi a Favel della sua personale esperienza nella ricerca parateatrale della Mirecka, spiegò che lavorò con lei in Europa quando era molto giovane. Disse che sperimentò un processo di ricongiungimento che lo aiutò quando era lontano da casa e deduceva dalla sua esperienza che la Mirecka era una buona insegnante. Ricordò che il suo approccio lo fece sentire realizzato, affascinato, profondamente coinvolto e disse che avrebbe potuto passare un’infinità di tempo a lavorare con lei. Ne concluse che senza quest’aspetto di ricongiungimento il lavoro non avrebbe raggiunto pieno potenziale, nonostante l’allenamento che si faceva o i libri che si leggevano. Sottolineò, tuttavia, che l’apprendimento da un insegnante-maestro implicava la

zionale. L’approccio della Mirecka attinge da tradizioni culturali non-occidentali e indigene, così come dall’allenamento fisico e vocale del Teatro Laboratorio. 7 Floyd Favel, Poetry, Remnants and Ruins: Aboriginal Theatre in Canada, “Canadian Theatre Review” 139 (Summer 2009), p. 33.

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Condurre la ricerca sul confine 49

ricerca di una propria strada, lo svolgimento di un proprio lavoro creativo e la capacità di trasmetterlo ad altri. Affermò che lo scopo di qualsiasi tecnica dovrebbe essere far stare meglio le persone, farle vivere più a lungo, renderle più felici, e osservò che nella sua cultura le cerimonie avevano questa finalità.

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Riferimenti bibliografici Driskill, Q., (2008), “Theatre as Suture: Grassroots Performance, Decolonization and Healing”, in R. Hulan, R. Eigenbrod (eds.), Aboriginal Oral Traditions: Theory, Practice, Ethics, Halifax & Winnipeg: Fernwood Publishing, pp. 155-168. Favel, F., Intervista dell’autrice del 28 gennaio 2011. —, (2009), Poetry, Remnants and Ruins: Aboriginal Theatre in Canada, “Canadian Theatre Review” 139 (Summer), 31-35. Grotowski, J., (1997-1998), “La Lignée Organique au Théâtre et dans le Rituel” (note e tr. Virginie Magnat), lezioni al Collège de France, 24 marzo, 2, 16 e 23 giugno, 6, 13 e 20 ottobre, 1997; 12 e 26 gennaio, 1998, Parigi. —, (1997), “Tu es le fils de quelqu’un [You Are Someone’s Son]”, trad. James Slowiak e Jerzy Grotowski, The Grotowski Sourcebook, a cura di Richard Shechner e Lisa Wolford, London/New York: Routledge, 1997, pp. 294-305. Pubblicato per la prima volta (trad. Jacques Chwat) in TDR T115 (Fall 1987), 30-40. Tr. it. in Antonio Attisani – Mario Biagini, (a cura di), Opere e sentieri, Roma: Bulzoni, 2007, vol. II, pp. 65-81. —, (1993), “From the Theatre Company to Art as a Vehicle”, tr. Thomas Richards, Michel A. Moos, Jerzy Grotowski, At Work with Grotowski on Physical Actions, New York: Routledge, pp. 115-135. Tr. it.: “Dalla compagnia teatrale all’arte come veicolo”, in Richards, Thomas, Al lavoro con Grotowski sulle azioni fisiche, Milano: Ubulibri, 1993, pp. 121-141; e anche in A Attisani – M. Biagini, (a cura di), Opere e sentieri, cit., vol. II, pp. 89-113. Meyer, M.A., (2008), “Indigenous and Authentic: Hawaiian Epistemology and the Triangulation of Meaning”, Handbook of Critical & Indigenous Methodologies, a cura di Norman K. Denzin, Yvonna S. Lincoln e Linda Tuhiwai Smith, Thousand Oaks: Sage, pp. 217-232.

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La nozione di “verticalità” e la crisi del simbolico. Note su Grotowski

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di Vincenzo Cuomo

In una famosa intervista fattagli da Eugenio Barba nel 1964, poi pubblicata con il titolo Il Nuovo Testamento del teatro, Grotowski, dopo aver introdotto la sua concezione dell’attore e del “teatro povero”, descrive la relazione che dovrebbe intercorrere tra l’esperienza spirituale, cui il teatro deve condurre, e il rigore della forma visibile, “teatrale” [dal verbo greco theáomai, osservo] attraverso cui quell’esperienza viene mostrata agli spettatori. Questa relazione egli la chiama – non credo a caso – il “principio determinante”: più ci concentriamo in ciò che vi è di occulto in noi – egli scrive –, nell’eccesso, nel denudamento, nell’auto-penetrazione, più rigida diventa la disciplina esteriore, cioè l’artificialità, l’ideogramma, il segno: su questo poggia tutto il principio dell’espressività1.

Alla base di questo discorso c’è l’opposizione critica della ricerca teatrale alla dimensione spettacolare della società di massa, dimensione spettacolare che trova nel cinema e, soprattutto, nella televisione i suoi media specifici. In questa nostra epoca in cui tutti i linguaggi sono confusi nella Torre di Babele e tutti i generi estetici si mescolano, il teatro è minacciato di morte perché il suo dominio è stato invaso dal cinema e dalla televisione2 – egli afferma.

1 Jerzy Grotowski, Per un teatro povero, prefazione di Peter Brook, tr. it. di M. O. Marotti, Roma: Bulzoni, 1970, p. 48. 2 Ivi, p. 35.

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Anche lo spettacolo è una “forma estetica”, ma è una forma che ha perso il legame con il sacro e con il rito religioso. È proprio questo legame che il teatro ha il compito di restaurare, con violenza, con crudeltà. Grotowski è consapevole che «i gruppi sociali sono sempre meno delimitati dalla religione, le forme mitiche tradizionali sono fluttuanti, in via di sparizione»3. Ma (siamo nel 1965) crede che sia possibile un “confronto” con ciò che chiama “il mito” attraverso lo strumento del sacrificio dell’attore. All’attore egli chiede di mettersi psichicamente a nudo per infrangere e far cadere le “maschere quotidiane”4, fino a far “bruciare” il suo stesso corpo. Sono due i riferimenti culturali utilizzati da Grotowski. Il primo è una famosa frase di Antonin Artaud, relativa alla Giovanna d’Arco di Dreyer (1927) – film a cui il poeta francese aveva partecipato come attore –, che dice: «se c’è qualcosa d’infernale e di veramente maledetto in questo nostro tempo, è attardarsi artisticamente su forme, invece d’essere come dei suppliziati che vengono bruciati e che fanno segni sui loro roghi»5. L’altro riferimento è cripto-cristologico (ma in versione gnostica): come il Cristo ha assunto la natura umana per trasfigurarla, così l’attore sacrifica la sua natura corporea per permettere la liberazione (per tutti) degli “impulsi psichici”6. Se [l’attore] non esibisce il suo corpo, ma lo annulla, lo brucia, lo libera da ogni resistenza agli impulsi psichici, allora, egli non vende il suo corpo ma lo offre in sacrificio; ripete l’atto della Redenzione; si avvicina alla santità7.

3

Ivi, p. 30. Ibidem. 5 Cito la traduzione del brano artaudiano di Franco Ruffini (in Franco Ruffini, I teatri di Artaud. Crudeltà, corpo-mente, Bologna: Il Mulino, 1996, p. 184). La frase è ricordata, in modo un po’ approssimativo, da Grotowski in Per un teatro povero, cit., p. 44. Sulla frase di Artaud cfr. Ferdinando Taviani, Quei cenni oltre la fiamma, saggio-prefazione a Monique Borie, A. Artaud. Il teatro e il ritorno alle origini. Un approccio antropologico, tr. it., Nuova Alfa Editoriale, [s.l.] 1994. 6 I motivi gnostici sono presenti in tutta la produzione di Grotowski, a partire dal suo secondo spettacolo (Caino di George G. Byron, messo in scena nel gennaio del 1960), giocato sull’opposizione di “Alpha-Dio-Natura” a “Omega-LuciferoRagione”, principi che alla fine si congiungono nel cosmo dell’unità. 7 Ivi, p. 42. La frase di Grotowski è relativa allo spettacolo Il principe costante, con Cieslak. Cfr. su questo famoso spettacolo quanto scrive Lorenzo Mango nel 4

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La nozione di “verticalità” e la crisi del simbolico 53

Solo in questo modo il teatro sarebbe capace, nella contemporanea società dello spettacolo, di restaurare il legame tra il visibile e il sacro, tra ciò che si dà alla visione e ciò che deve restare nascosto, separato, sottratto al vedere. Lo spettacolo cinematografico, ma soprattutto quello televisivo, ha “autonomizzato” le forme estetiche dal sacro. Il teatro, se vuole ancora avere una funzione, deve, quindi, restaurare il legame perduto. Grotoswki, a tal proposito, parla, paradossalmente, ma dal suo punto di vista correttamente, di profanazione, perché nel rito religioso è attraverso la profanazione – che è un aspetto dell’apparato sacrificale – che si ristabilisce il legame con il sacro8. Più la profanazione rituale è “rigorosa”, vale a dire crudele e senza sconti, più la distanza tra le forme visibili e il sacro, il “separato”, diventa incolmabile; infatti, il sacro si manifesta innanzitutto come tale, come sacro, attraverso la “sperimentazione” della sua inattingibilità. Siamo così tornati al “principio determinante” del teatro, secondo Grotowski: “più ci concentriamo sull’occulto che è in noi, più rigida diventa la disciplina esteriore” della forma “artificiale”, “ideogrammatica” del teatro. Insomma, l’artificialità della forma teatrale non serve a “far vedere” ma a “nascondere” l’essenza spirituale. L’attore-santo dà in sacrificio il suo corpo e ogni altra esteriorità sensibile affinché, attraverso questa distruzione del corpo e del visibile, si mostri l’accesso al sacro, ma come accesso negato e protetto dalla forma stessa. L’attore che si “sacrifica”, che si fa sacro (da sacrum facere) è colui che è capace di attraversare il limen tra la “forma” e l’informe, tra il visibile teatrale e l’occulto, tra il profano e il sacro, lanciando agli spettatori solo segni indecifrabili, cenni ambigui, accenni che indicano un percorso che l’attore è stato capace di compiere, non lo spettatore, almeno finché resta “spettatore”. È come se il sacrificio cui l’attore si vota ammettesse sì il rigore della forma,

suo libro: Il Principe costante di Calderón de la Barca – Słowacki per Jerzy Grotowski, Pisa: Edizioni ETS, 2008. 8 In un’intervista a Marianne Ahrne del 1992, Grotowski, a proposito del suo Akropolis da Wyspianski, afferma di aver utilizzato in modo esplicito la blasfemia, in quanto «modo per ristabilire i legami perduti, per ristabilire qualcosa che è vivo. Sì, è come una lotta contro Dio per Dio […]» (cit. in Franco Perrelli, I maestri della ricerca teatrale. Il Living, Grotowski, Barba e Brook, Roma-Bari: Laterza, 2007, p. 52).

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la precisione delle azioni e dei movimenti, ma che proprio tale rigore dovesse necessariamente trasformarsi in “artificialità” e in esteriorità indecifrabile dal momento che quel rigore dell’azione scenica è solo strumento adoperato dall’attore per andare oltre la scena profana facendosi tutt’uno con il sacro, inattingibile e in-teatrabile. Non è un caso che già in questo periodo della sua ricerca Grotowski a volte indichi lo spettatore come “il testimone”. Non è un caso perché, nonostante che a quell’epoca egli definisse il teatro come «ciò che avviene tra lo spettatore e l’attore»9, il centro del suo discorso teatrale è l’attore e la sua sperimentazione profanatoria del sacro. Allo spettatore, già in questa fase, non resta che il ruolo del testimone. Non resta che cogliere gli accenni che l’attore gli lancia affinché abbandoni il ruolo di spettatore per percorrere, ma come attore, la strada del rito teatrale10. Per tale ragione credo che la ricerca teatrale complessiva di Grotowski sia da concepirsi come una evoluzione e progressiva radicalizzazione di un’idea presente sin dagli inizi, vale a dire la riduzione del teatro ad un rito iniziatico cui sono ammessi solo partecipanti-attori. Utilizzando l’aggettivo “iniziatico” mi sto già riferendo alla differente strategia che in effetti Grotowski adotta nelle ultime fasi della sua ricerca. Una differente strategia, rispetto a quella adottata agli inizi nel “Teatro laboratorio” di Wroclaw, che, tuttavia, si differenzia dalla prima lentamente, nel corso di quella progressiva radicalizzazione della sua concezione del teatro. Questa strategia trova la sua ultima espressione nella teorizzazione, all’interno del Workcenter di Pontedera, della nozione di arte come veicolo. Come è noto, secondo questa concezione – che non a caso nel suo stesso titolo non fa più riferimento al “teatro” e, quindi, al “vedere” e 9

Ivi, p. 41. Ludwik Flaszen scrive a tal proposito: «Grotowski’s productions aim to bring back a utopia of those elementary experiences provoked by collective rituals, in which the community dreamed ecstatically, of its own essence, of its place in a total, undifferentiated reality, where Beauty did not differ from Truth, emotion from intellect, spirit from body, joy from pain; where the individual seemed to feel a connection with the whole of Being» (il giudizio di Flaszen è citato da Lisa Wolford nella sua introduzione a The Grotowski sourcebook, edited by Lisa Wolford and Richard Schechner, London and New York: Routledge, 1997, p. 8). 10

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La nozione di “verticalità” e la crisi del simbolico 55

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al “visibile” – gli spettatori compaiono solo come testimoni-invitati e l’opera consiste in una performance agita dagli attori del Workcenter. Tuttavia, non è su questi aspetti più noti che intendo soffermarmi, quanto su una nozione chiave che compare più volte nelle dichiarazioni e negli scritti dello stesso Grotowski. Mi riferisco alla nozione di verticalità. In un noto testo del 1993, dal titolo Dalla compagnia teatrale all’arte come veicolo, Grotowski scrive: Verticalità – il fenomeno è d’ordine energetico: energie pesanti ma organiche (legate alle forze della vita, agli istinti, alla sensualità) e altre energie, più sottili. La questione della verticalità significa passare da un livello cosiddetto grossolano – in un certo senso si potrebbe dire “quotidiano” – a un livello energetico più sottile o addirittura verso la higher connection. A questo punto, dire di più non sarebbe giusto, indico semplicemente il passaggio, la direzione. Qui, c’è anche un altro passaggio: se ci si avvicina alla higher connection – cioè, in termini energetici, se ci si avvicina all’energia molto più sottile – si pone anche la questione di scendere riportando questa cosa sottile nella realtà più ordinaria, legata alla “densità” del corpo11.

Grotoswki è quindi approdato ad una nozione abbastanza lontana non solo rispetto alla storia del teatro occidentale e rispetto alla sua prima strategia di ricerca teatrale, ma nei confronti della stessa riflessione occidentale sull’arte. Una nozione-chiave che può essere compresa solo comparandola con analoghe nozioni presenti nelle più importanti tradizioni del pensiero orientale. Qui, ovviamente, mi appoggio agli studi di F. Jullien12 sul pensiero cinese e a quelli di 11

Jerzy Grotowski, Testi 1968-1998, in Opere e sentieri, II volume, a cura di A. Attisani e M. Biagini, Roma: Bulzoni, 2007, p. 102. A tal proposito I Wayan Lendra, scrive: «In my observation, the exercises practiced in Objective Drama have a single, most important purpose: the awakening of innate physical power. This physical power, which the Hindu tradition refers to as the ‘sleeping energy’ (kundalini) lies at the bottom of the spine. This innate energy can be awakened through a variety of physical and vocal exercises. Grotowski described what I call innate physical power as the ‘reptile brain’, the spinal cord and brain stem, with the ‘sleeping energy’ at the very bottom of the spine” (I Wayan Lendra, Bali e Grotowski. Some parallels in the training process, in The Grotowski sourcebook, cit., pp. 326-327). 12 François Jullien, Nutrire la vita. Senza aspirare alla felicità, tr. it. di M. Por-

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G. Pasqualotto13 sulle diverse estetiche orientali (induista, buddista, taoista, zen). Commentando una tradizionale espressione cinese, yang sheng, “nutrire la vita”, espressione che si trova al centro di un antico testo di Zhuangzi14, Jullien ha mostrato come essa non riguardi solo il corpo o solo l’anima. “Nutrire la vita” significa innanzitutto “mantenersi in vita”, ma sviluppando e affinando l’energia vitale. Il pensiero cinese, infatti, ci dice Jullien, ha elaborato la nozione di stadio sottile o quintessenziale che fa «da ponte tra il concreto e lo spirituale, tra il senso proprio e il senso figurato»15. Nutrire la vita significherà allora rafforzare in sé la vitalità. «Impegnandomi sempre più a fondo nel processo di affrancamento-affinamento-decantazione […] – scrive ancora Jullien – sono al tempo stesso indotto a liberarmi da quei punti di fissazione, di blocco e di pesantezza, che fanno grossolanamente da schermo, costituiti da tutte le facce del mondo rispetto al mio flusso e dinamismo interiore»16. La nozione grotowskiana di verticalità appare estremamente vicina a quella del nutrire la vita. Al centro di entrambe c’è l’idea che tra l’energia del corpo e quella dello spirito non ci sia alcuna opposizione, ma “passaggio”, transizione continua, metamorfosi da uno stadio “grossolano” ad uno stadio “sottile”. Se questa energia è l’essenza, allora la finalità della “performance” attoriale consisterà nel «passaggio dal corpo-e-essenza al corpo dell’essenza»17. Per nutrire la vita dell’Io-io [l’io autentico, il sé] – scrive Grotowski – il Performer deve sviluppare non un organismo-massa, organismo dei muscoli, atletico, ma un organismo-canale attraverso cui le energie circolano, le energie si trasformano, il sottile è toccato18.

ro, Milano: Raffaello Cortina Editore, 2006; Id., Elogio dell’insapore. A partire dal pensiero e dall’estetica cinese, tr. it. F. Marsciani, Milano: Raffaello Cortina Editore, 1999. 13 Giangiorgio Pasqualotto, Estetica del vuoto. Arte e meditazione nelle culture d’Oriente, Venezia: Marsilio, 1992. 14 Zhuang-zi, tr. it. di C. Laurenti e Ch. Leverd, a cura di Liou Kia- hway, Milano: Adelphi, 1982. 15 F. Jullien, Nutrire la vita, cit., p. 25. 16 Ibidem. 17 Jerzy Grotowski, Testi 1968-1998, cit., p. 86. 18 Ibidem.

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Il processo della “verticalità”, vale a dire di trasformazione dell’energia pesante in energia sottile è legato da Grotowski a quello di awareness, termine che i traduttori italiani lasciano in inglese e che significa letteralmente “consapevolezza”, “presa di coscienza”, ma che nei testi di Grotowski assume chiaramente il senso della compiuta trasformazione dell’energia pesante del corpo nella forma di un’energia sottile capace di “sentire” la sua stessa presenza, una presenza che non ha niente a che fare né con il pensiero né con il linguaggio. Non si tratta di rinunciare a una parte della nostra natura – scrive Grotowski –; tutto deve tenere il suo posto naturale: il corpo, il cuore, la testa, qualcosa che sta “sotto i nostri piedi” e qualcosa che sta “sopra la testa”. Tutto come in una linea verticale, e questa verticalità deve essere tesa fra l’organicità e the awareness. Awareness, vuol dire la coscienza che non è legata al linguaggio (alla macchina per pensare), ma alla Presenza19.

Potremmo tradurre allora il termine awareness con “sentire il flusso sottile dell’energia che pervade ogni cosa” (Presenza). Come si vede la convergenza esplicita dell’ultima teorizzazione di Grotowski con alcuni capisaldi delle estetiche orientali, è evidente. Lo scopo dell’arte come veicolo è quello del venir meno di ogni finalità dell’intenzione, è l’approdo alla “coscienza del processo vitale”. Per raggiungere tale obiettivo bisogna fare il vuoto del soggetto pensante e parlante, perché è la soggettività in quanto tale, nella sua tendenziale “singolarità”, che è di ostacolo al fluire dell’energia. Come ha mostrato Jullien, il pensiero dei vari Orienti (India, Cina, Giappone) si è sviluppato sulla preminenza dell’idea di processualità in ogni campo e non sulle opposizioni corpo-anima, natura-mondo simbolico, vita-esistenza, che hanno permeato il pensiero filosofico dell’occidente (con poche eccezioni). Le concezioni orientali dell’arte non hanno portato all’elaborazione né di un’estetica dell’opera né di un’estetica dell’espressione soggettiva (anche se, in effetti, questa seconda “estetica” è da intendersi solo come estetica per così dire “popolare”). Sia quella di opera d’arte sia quella di artista sono nozioni abbastanza marginali nelle tradizioni d’Oriente20. Molte cose bisognerebbe pre19 20

Ivi, p. 102. Cfr. su questo punto quanto scrive Roberto Terrosi in L’immagine in Occidente

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Teatro e parateatro come pratiche educative

cisare in tale senso. Tuttavia, quello che vorrei mettere in evidenza è che, a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, in Europa e negli USA assistiamo a una sempre più ampia diffusione di nozioni artistiche di derivazione buddista, taoista, zen. Forse, con maggior correttezza, bisognerebbe parlare di “interpretazioni occidentali” dei pensieri d’Oriente. Si pensi, ad esempio, ad autori importanti come John Cage o Giacinto Scelsi. In verità Grotowski, rispetto ad un Cage, ha un atteggiamento esplicitamente più sintetico poiché si relaziona, oltre che alle tradizioni indù e buddiste, anche a quelle africane e caraibiche, e ha ragione Lisa Wolford a parlare di “intercultura dislocata” rispetto alle pratiche “tradizionali” riprese-ricostruite a Pontedera. Anche questo sincretismo è un segno dei tempi su cui bisognerebbe riflettere. Tuttavia, a mio avviso, l’interesse delle posizioni di Grotowski riposa in altro. Mentre la sua prima teorizzazione teatrale, quella legata alle attività del Teatro Laboratorio di Wroclaw era, come ho prima ricordato, esplicitamente pensata per circoscrivere (e difendere) un luogo proprio del teatro nei confronti (e contro) l’impero spettacolare del cinema e della televisione, almeno in apparenza le ultime fasi della ricerca grotowskiana sembrerebbero, nel loro rivendicato esoterismo e nella loro inattualità, lontane dalla contemporaneità. Eppure, se ben guardiamo, questa ricerca così appartata e “criptica” risulta in qualche modo in sintonia con le nuove condizioni di vita e di esistenza che, a partire da quegli anni, cominciano a manifestarsi. Come potremmo caratterizzare queste nuove “forme di vita”? Sono stati pubblicati vari studi fondamentalmente dedicati alle nuove patologie sociali e psichiche contemporanee. Si tratta di studi psicoanalitici, sociologici, estetologici e filosofici, in questa sede impossibili da sintetizzare, ma che sostanzialmente cercano di pensare i due grandi processi materiali che nell’ultimo ventennio hanno trasformato il mondo e la vita di ciascuno di noi. Mi riferisco da un lato a quello che è stato definito il “turbo capitalismo”, dall’altro alla rivoluzione tecno-informatica, legata al più ampio sviluppo dell’ingegneria cognitiva. Questi due processi, tra loro intimamente connessi, hanno reso

e in Estremo Oriente, in L’immagine in questione, a cura di V. Cuomo, Roma: Aracne, 2009, pp. 61-73.

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concrete e quotidiane delle tendenze culturali che prendono avvio negli anni Sessanta del secolo scorso. Senza voler valutare in maniera pregiudiziale tali processi come segni di irreversibile crisi dei valori, vorrei descrivere schematicamente – e senza la pretesa dell’esaustività – le caratteristiche delle nuove “forme di vita” e di soggettività che si sono progressivamente affermate: 1) È possibile individuare una tendenza delle nuove “forme di vita” ad una marcata oscillazione immaginaria dell’identità personale e, quindi, ad una scarsa stabilità “simbolica” della stessa; 2) Una seconda tendenza la possiamo riscontrare nel potenziamento delle abilità operazionali e degli “abiti tecno-operativi” che ha come conseguenza quella della dilatazione della dimensione psichica del pre-avvertito, ma nella forma del preconscio tecno-abitudinario21; 3) Le nuove “forme di vita” appaiono sempre più descrivibili nei termini di forme di vita “dissociate” in cui la dimensione della parola e del pensiero vigile coesiste con un’altra dimensione psichica, di tipo pre-simbolico e sub-simbolico22. 4) L’interazione tra questi processi comporta l’affermarsi di un sempre più ampio processo di singolarizzazione dell’esistenza individuale23, nel quale la contingenza non riguarda più solo le occasioni di vita ma le identità personali e in cui l’impersonalità del sentire si singolarizza attraverso strategie di esistenza che sempre più prescindono dalla “presa di parola” e dalla stabilità del “riconoscimento simbolico”. Si tratta di strategie singolarizzanti di esistenza che attendono ancora la piena comprensione, anche per le loro implicazioni etiche e politiche.

21 Cfr. sulla questione dell’abitudine Peter Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita. Sull’antropotecnica, tr. it. a cura di P. Porticari, Milano: Raffaello Cortina Editore, 2010. 22 Vedi su tale questione Massimo De Carolis, Il paradosso antropologico. Nicchie, micro-mondi e dissociazione psichica, Macerata: Quodlibet, 2008. 23 Mi si permetta il rimando al mio volume, Figure della singolarità. Adorno, Kracauer, Lacan, Artaud, Bene, Milano: Mimesis, 2009.

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Teatro e parateatro come pratiche educative

Per ragioni che sono innanzitutto di ordine psico-economico e psico-tecnologico la nostra è quindi un’epoca caratterizzata dall’affermazione su scala planetaria di forme di vita simbolicamente deboli e oscillanti, per le quali la tradizionale centralità della parola e del riconoscimento simbolico sembra marginalizzarsi a favore del potenziamento della dimensione vitale non-simbolica e sub-simbolica che non necessariamente mostra i caratteri della ripetitività e della standardizzazione comportamentale ma che può anche manifestarsi secondo i modi della irrequietezza, della vivacità, e della sensibile emotività. Non voglio affatto affermare che la dimensione della parola e del riconoscimento simbolico sia assente, anche perché è evidente che mai come nell’epoca presente si parli e si scriva. Mi riferisco, invece, a nuovi assetti psico-culturali, all’interno dei quali la dimensione linguistica e simbolica non è assente ma marginalizzata, e ciò accade anche nel flusso della comunicazione iper-veloce permessa dalle tecnologie informatiche, all’interno della quale prevale una connotazione fortemente emotiva della parola e una forte oscillazione immaginaria del riconoscimento delle identità personali. La questione che vorrei porre, in conclusione, è la seguente: come valutare questa vicinanza, questa stretta somiglianza tra pratiche artistiche sempre più esplicitamente non-simboliche, se non addirittura sub-simboliche, e la contemporanea affermazione di forme di vita simbolicamente deboli? Si tratta di due facce di uno stesso processo? Certo, si potrebbe mostrare come al centro dell’opera d’arte, quindi al centro di quel che è stata considerata l’espressione simbolica e spirituale più autentica, sia da sempre rintracciabile il vuoto del nonsimbolico e che, anzi, proprio intorno a tale vuoto simbolico, l’opera d’arte abbia costruito e costruisca il suo mondo. Tuttavia saremmo in tal modo ancora perfettamente all’interno di un’estetica dell’opera d’arte, estetica che nel corso del Novecento si è progressivamente erosa. Nonostante il fatto che Grotowski ponga apparentemente al centro della sua ultima ricerca l’opera, in effetti anche con lui siamo del tutto fuori da un’estetica dell’opera d’arte. Action è una “performance rituale” non un’opera teatrale. In modo ancora più coerente John Cage ha abbandonato molto prima di Grotowski l’estetica dell’opera trasformando le sue esibizioni in occasioni di meditazione zen, al cui centro c’è il silenzio del flusso processuale e impersonale degli eventi della natura e del mondo.

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La nozione di “verticalità” e la crisi del simbolico 61

È possibile rinvenire, in alcune delle strade che l’arte contemporanea ha praticato dopo l’epoca delle avanguardie, una linea di sperimentazione estetica sempre più marcatamente non-simbolica. Mi riferisco ad alcuni settori della video-arte, ad alcuni della body art e ad un po’ di installazioni mediali “tradizionali” (Anish Kapoor, Rebecca Horn, Olafur Eliasson) e ad una grande quantità di installazioni neo-tecnologiche. E vorrei ricordare che esiste da molti anni, al di fuori del territorio dell’arte contemporanea, un sempre più agguerrito settore di design ambientale di tipo atmosferico e affettivo, le cui applicazioni stanno trovando spazio sia in architettura che nel marketing24. Tuttavia, in conclusione, vorrei soffermarmi brevemente su di una recente installazione neo-tecnologica, quella ideata dall’artista inglese Brigitta Zics e intitolata Mind Cupola. Questa installazione è nello stesso tempo un complesso dispositivo di bio-feedback, che analizza i movimenti degli occhi e dei volti dei partecipanti, e un “ambiente affettivo” (affective environment) nel quale i partecipanti sono messi in grado di visualizzare in uno schermo il loro “stato cognitivo-affettivo”, codificato in tre stadi: caotico, meditativo, in equilibrio. Secondo la Zics, i partecipanti sono così guidati a realizzare l’esperienza di uno «stato di equilibrio»25. In tal modo, a suo dire, essi sono indotti a creare «a new self image»26 e sottolinea il fatto che «such an immersive state […] might produce a new body-awareness in the participant»27. E questa accresciuta consapevolezza di processi diversamente inavvertiti del proprio stato neuro-psichico non è senza conseguenze positive sulla vita quotidiana in quanto implica l’emergere alla coscienza di nuove qualità “sottili”, potremmo dire, nell’ambito dell’abituale interazione con gli altri e con il mondo-ambiente: i partecipanti sono infatti guidati «toward 24

Cfr. ad esempio, le ricerche di “estetica delle atmosfere”: Gernot Böhme, Atmosfere, estasi, messe in scena. L’estetica come teoria generale della percezione, tr. it. a cura di T. Griffero, Milano: Christian Marinotti Edizioni, 2010. Cfr. anche Tonino Griffero, Atmosferiologia. Estetica degli spazi emozionali, Roma-Bari: Laterza, 2010. 25 Brigitta Zics, Toward an Affective Aesthetics: Cognitive-Driven Interaction in the Affective Environment of the Mind Cupola, in Leonardo, vol. 44, No. 1, 2011, p. 33. 26 Ivi, p. 31. 27 Ibidem.

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a new body-mind state, linking new qualities of self-awareness to habituated body actions»28. Come vedete il termine chiave anche qui, come nella pratica dell’arte come veicolo, è awareness e anche in questo caso questa consapevolezza indica un ampliamento del “sentire” e non una distanza “critica”, indica la strada (orientalizzante) della meditazione che immerge i partecipanti nel flusso del divenire facendo il vuoto dell’io, vale a dire riducendo l’eccezione individuale (su cui ha insistito l’arte moderna dell’Occidente) fino a produrre una nuova immagine dell’io come elemento fluttuante nel flusso continuo della natura delle cose. È a partire dalla vicinanza di Grotowski a questa linea di tendenza dell’arte e della ricerca estetica contemporanea che bisognerà valutare criticamente la sua eredità.

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Ivi, pp. 31-32.

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La relazionalità nel lavoro di Grotowski*

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di Dominika Laster

In un capitolo del Per un teatro povero intitolato “Lui non era interamente se stesso”, Jerzy Grotowski conduce un’analisi critica di Antonin Artaud in cui prova a spogliare Artaud fino alla nuda essenza. Grotowski dimostra che la sfortuna di Artaud si trova nel fatto che la sua malattia non era allineata con la malattia della civiltà. Grotowski coglie l’autodiagnosi di Artaud, scandita in una lettera a Jacques Rivière: «Non sono interamente me stesso» (Grotowski 1969:91), come la fondamentale definizione del suo dilemma. Grotowski scrive di Artaud: «Non era meramente se stesso, era qualcun altro. Ha afferrato metà del proprio dilemma: come essere se stessi. Ha lasciato l’altra metà intatta: come essere interi, come essere completi». (1969:91) Io colgo il doppio significato dell’idea “Non era interamente se stesso” come la sintesi del concetto di Grotowski stesso del sé come ciò che non fa parte di un’entità separata, ma piuttosto come un essere relazionale. Uno che diventa pienamente se stesso solamente tramite e relativamente all’altro. Questo accade non solo attraverso il rapporto dialogico con un antenato (immaginato), ma anche attraverso l’essere insieme ad un altro essere umano nel qui ed ora. Per Grotowski, la via negativa – applicata internamente – è un modo di fare che arriva «al proprio essere solo tramite un essere che non sia io» (1979b). In un articolo pubblicato nel 1979, Grotowski incita ad «attraversare i confini con l’intero essere, con onestà, disciplina e precisione» (Grotowski 1979b). Leggo questa sfida come ancora un’altra variazione della nozione della natura porosa dell’essere che comporta vari *

Traduzione dall’inglese curata da Alexia Ferracuti.

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significati. Prima di tutto incapsula la sfida di Grotowski ad attraversare i propri confini, ad andare oltre i limiti imposti dall’individuo e dalla società, le idee ereditate, i quali prescrivono ciò che è possibile per l’individuo. Oltre a questo, però, leggo implicitamente in questa dichiarazione l’appello ad attraversare i confini del proprio essere individuato, attraverso la trascendenza dell’essere tramite la relazionalità con l’altro. La nozione della porosità e la concatenazione del sé relativo all’altro viene descritto da Thomas Richards nel seguente resoconto: Mi ricordo il volo tornando una volta dall’Italia dopo le vacanze di Natale che avevo passato a New York. Accanto a me in aereo c’era un giovane cassidico che stava pregando per tutto il volo. Ero profondamente interessato a questo processo, e nel corso del volo un certo legame si sviluppò tra di noi. Ad un certo punto, dal nulla, si voltò e mi disse sottovoce, “Io sono benedetto se tu trovi ciò che cerchi.” Queste erano le uniche parole che passarono fra di noi durante quel volo. Ero colpito dalla saggezza di quelle parole. Lui sarebbe stato benedetto se io avessi trovato ciò che cercavo. L’intero concetto di quello che era ‘suo’ e di quello che era ‘mio’ veniva offuscato. Dove iniziava e finiva la sua esperienza, la mia esperienza? Ero colpito dalla mancanza di possessività e dagli auguri dietro quelle parole. (2008:156 enfasi in originale).

L’aneddoto di Richards è un esempio dal quotidiano, che trova allineamento nel concetto dell’“Io-Io” articolato da Grotowski durante la fase della sua ricerca concentrata sull’Arte come veicolo. È nel lavoro sull’“Io-Io” che c’è una coincidenza assoluta tra i fini e i mezzi. Io estendo me stesso, attraverso i limiti del mio sé, tramite l’altro, tramite e con il mio bliźni29, il mio “Gemello”, il mio fratello, per realizzare pienamente il mio essere. La concomitanza dell’essere se stessi (być sobą) e dell’essere interi, completi (być całym, całkowitym), è al cuore della prassi di Grotowski in cui la realizzazione dell’essere è inestricabilmente legata al processo dell’autoscoperta assunta dal Performer concepito come człowiek poznania (uomo di conoscenza). L’essere se stessi è l’essere 29

Etimologicamente, bliźnięta (gemelli) sono bliźne o bliskie (vicini; vicinamente imparentati). Il vecchio termine polacco bliźny è stato sostituito da bliźni o krewny (consanguineo). Nell’usanza biblica e nell’etica cristiana tutti gli esseri umani sono bliźny relativi l’uno all’altro.

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La relazionalità nel lavoro di Grotowski 65

più di se stessi, o come un antenato (immaginato), o come la persona che ci sta accanto, o come ciò che Grotowski a volte chiama «higher connection» (alta connessione). Il concetto di Grotowski del sé è espansivo e si estende oltre all’ordinario e discreto “io” della vita quotidiana. L’“Io-Io” di Grotowski comprende quelli che sono venuti antecedentemente ed i bliźni (nel senso dell’affinità espressa nella nozione della gemellanza) nel qui ed ora. Inoltre, contiene il concetto di un “Io-Io” interno che Grotowski accenna come uno sguardo silenzioso ed immobile di un’altra parte del sé, un testimone percepito come se esistesse fuori dal tempo. È lo sviluppo dell’“Io-Io” che offre la potenzialità per la realizzazione del sé o ciò che viene formulata da Grotowski, nelle fasi più avanzate della sua ricerca, come corpo dell’essenza. Mentre accedere al proprio essere attraverso un altro è al cuore del lavoro di Grotowski, la sua realizzazione è complessa e sfaccettata. Tra i vari aspetti chiave delle idee e delle prassi di Grotowski associate con il lavoro sul sé si trovano la (ri)scoperta dell’essenza attraverso il processo della rammemorazione attiva; l’esplorazione della sorveglianza intesa come stati potenziati di consapevolezza ed una vigilanza attiva che ci portano verso atti di testimonianza ed attestazione; il lavoro strutturato verticalmente sul raffinamento delle energie; ed infine alle numerose e complesse linee di trasmissione concepite come un processo multidirezionale di relazionalità tra l’antenato (immaginato) e quel largamente interpretato “gemello”. Le connotazioni del lavoro di Grotowski sono sia ampie che profonde. Qui vorrei semplicemente offrire un’indicazione di ciò che comportano queste connotazioni. A mio giudizio, è la metodologia di Grotowski che ritiene l’importanza più profonda per i campi di ricerca che riguardano la pedagogia, l’antropologia, la memoria e gli studi sulla performance (Performance Studies). L’esteso e rigoroso lavoro pratico di Grotowski è un modello importante della ricerca incorporata che – malgrado il suo profondo investimento nel “corpo” e nelle varie idee di incorporazione – è ancora assente da questi campi di studio e ricerca. Il lavoro di Grotowski, che è una ricerca attiva ed un interrogatorio condotto con il corpo-essere dell’attuante, è la letteralizzazione e la concretizzazione delle discussioni – altamente teoriche e spesso astratte –riguardo alla pratica incorporata come modo di conoscenza all’interno degli studi sulla performance.

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Teatro e parateatro come pratiche educative

Oltre all’offrirci metodologicamente un modello alternativo di ricerca, il lavoro di Grotowski suggerisce qualcosa di molto più radicale. Il suo lavoro è un «consapevole e deliberato offuscamento del senso del sé» (Richards 2010). È un lavoro concreto – non metaforico – che infatti ha l’intenzione di offuscare i confini tra il sé e l’altro. L’implicita supposizione del suo lavoro è che il sé non finisce con i confini del corpo, ma si estende oltre, verso un campo più ampio che circonda il corpo. Questo concetto si manifesta nel lavoro pratico del Workcenter. Richards allude alla possibilità di essere all’interno dell’altro mentre si mantiene la distanza fisica (2010). È questo un consapevole, deliberato, vero sconvolgimento dei confini tra il sé e l’altro che ritiene –socialmente, politicamente, e teoricamente – le connotazioni più radicali. Invece di trarre delle conclusioni, questo mio breve saggio segnala un punto di partenza per altre indagini e ricerche su cui mi sto imbarcando. Vorrei concludere con una citazione di Grotowski che serve come apertura di questa ricerca: Dove sono i nostri confini? E dove sono i confini del Sole? Noi guardiamo: è una sfera che vibra e dalla quale provengono delle perturbazioni, esplosioni, tumulti solari, espansioni. E noi pensiamo che questi sono più o meno i suoi confini. Ma questi non sono i confini del corpo solare. Perché gli astronomi parlano di “vento solare”. Cos’è il vento? Questi sono corpuscoli di materia solare che emana lontano nel nostro sistema planetario, creando un tipo di tessuto che circonda l’intero sistema, proteggendolo da esterni raggi cosmici. È questo il confine del Sole? Forse. Ma se è così, noi siamo nel Sole. Lo stesso è vero per il nostro corpo. (Grotowski 1979a:96)

Riferimenti bibliografici Grotowski, J., (1979a), Działanie jest dosłowne, “Dialog” no. 9:95-101. —, (1979b), Ćwiczenia, “Dialog” no. 12:12-137. Grotowski, J., and Eugenio Barba, (1969 [1968]), Towards a poor theatre, London: Methuen. Laster, D., Grotowski’s Bridge Made of Memory: Embodied Memory, Witnessing and Transmission in the Grotowski Work, London, New York, Calcutta: Seagull Books, forthcoming.

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La relazionalità nel lavoro di Grotowski 67 Richards, T., (2010), At Work with Grotowski: The Early Years at Workcenter. A Discussion with Thomas Richards and Mario Biagini. April 1, John Jay College of Criminal Justice, New York.

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Richards, T., (2008), Heart of practice: within the Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards. London; New York: Routledge.

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Nell’atto del creare. Pratiche dai confini del parateatro e dell’antropologia del teatro

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di Ewa Benesz

Le esperienze di ‘Nell’atto del creare’ derivano principalmente dalle mie esperienze del periodo teatrale e parateatrale1 del Teatro Laboratorium – Istituto dell’Attore, guidato da Jerzy Grotowski a Wrocław, in Polonia; da ricerche di lunga data in collaborazione con Rena Mirecka; dalle ricerche antropologiche e dal lavoro artistico che conduco da anni in collaborazione con i colleghi che mi assistono: Cenzo Atzeni e Alfred Bucholz. Sono delle risposte alle domande che conseguono agli incontri coi partecipanti e alle domande che pone la realtà in cui vivo. In questa arte del teatro noi non impariamo come “recitare”, impariamo come “non recitare”, come svelare la verità che è in noi. Cerchiamo di trovarla attraverso l’atto del “ricordare” ciò che è nascosto nel profondo di noi stessi e che possiamo rievocare dalle memorie dimenticate. Ciò che è “poesia in azione”. Cerchiamo “l’infanzia delle cose” in estrema semplicità. Ci aiutano la natura e i suoi elementi, il fuoco e l’acqua, la terra e i suoi doni, *

Testo tradotto da Marina Fabbri. Con il termine parateatro si è indicato il periodo di ricerche ed esperienze condotte negli anni 1970-1976 principalmente in Polonia, in Francia, in Europa. Il termine ha due significati: uno ufficiale, che si associa all’etimologia greca e definisce “qualcosa che è accanto al teatro”, “oltre il teatro”, e perfino “contro il teatro” (parabola, paradigma, paradosso in cui il suffisso ‘para’ significa accanto, oltre, contro); il secondo significato era noto ai collaboratori più stretti di Grotowski e co-creatori della prima fase del parateatro. Para deriva dal sanscrito ed è un termine usato nei Veda e nel Vedanta nel significato: oltre questo, più in alto di questo, altissimo, supremo, come nella parola Paratman o para vidya. Questo era il significato della parola parateatro per Ryszard Cieślak. 1

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Teatro e parateatro come pratiche educative

le piante, i frutti, l’uva, il grano, i fiori, l’albero, la pietra. Sul nostro “palcoscenico” essi sono elementi compresenti e silenziosi. Esistono come noi esistiamo. Non sono degli oggetti-attrezzi nelle mani degli attori, né una scenografia nello spazio. Ci ricordano che la natura è la principale e prima sfera della nostra relazione e reciprocità con il mondo. Anche se ne abbiamo perso la consapevolezza e non siamo persuasi che siano coabitanti della terra, anche se dimentichiamo la nostra condizione e la dipendenza della vita dalla natura, i suoi elementi servono a ricordarcelo. Cantiamo per la fiamma di una candela, cantiamo alle rose, cantiamo per la pietra o per il grano, per poterli guardare, vedere e renderli presenti. Nella nostra vita normale noi non cantiamo per l’uva, per il pane, per il grano, ma quando io canto per il pane, non da sola ma con gli altri e davanti agli altri, si risvegliano e rivivono i “ricordi”: forse il tavolo a cui è seduta una nonna, la memoria dell’odore del pane, la mano che mi dà quel pane. Non ha nulla in comune con una scelta razionale, quello che “vedo” o “sento” durante il canto. Forse mi trasportano, anche solo per un istante, alla memoria di una “vita ancestrale”, quando la realtà circostante la si doveva “guardare fino in fondo, ascoltare, toccare e immaginare fino in fondo”. Al tempo in cui la rosa non era diventata un oggetto, in cui potevamo, come Goethe, pensare alla rosa oppure dire: “Dunque sei tu?”. Ho interrotto per un attimo la scrittura. Il maestrale, che soffiava da tre giorni, è cessato. Silenzio. Il silenzio profondo riempie di paura. Se in questo momento qualcuno fosse seduto accanto a me e ascoltasse il silenzio? Se lo ascoltassimo tu e io? E tu e tu? Se fossimo in alcune persone e ascoltassimo per un attimo soltanto il silenzio che proviene da ognuno di noi? Sarebbe un’attività, un’azione? Sì, sarebbe l’azione dell’ascoltare il silenzio. E forse diventerebbe ancora più profonda e ci circonderebbe di affetto. L’azione esige la presenza del tu e la stretta relazione con il tu. Soltanto in una stretta reciprocità del tu, l’io si manifesta. L’io in stretta relazione con il tu. Cito il filosofo Martin Buber. Sebbene non abbia scritto di arte teatrale né del mestiere dell’attore, la sua lingua è più utile alla descrizione delle esperienze parateatrali della terminologia delle arti performative attualmente in voga e utilizzata comunemente.

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Nell’atto del creare 71

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Ma questa relazione esclusiva, pura e incontaminata con il tu esige una percezione pura e un processo decisionale ininterrotto. È una cosa dura, prima di diventare una grazia. Più spesso è dura, con incredibile rarità è una grazia. Una mente automatizzata oppone una grandissima resistenza, un muro quasi invalicabile, per difendersi come può, per non perdere la propria funzione di freno poiché, volente o nolente, essa frena continuamente. Fino a che la mente non si farà convincere di non sapere, fino a che non si farà “diluire” – ad un livello superiore di percezione –, non potrà succedere nulla, nulla potrà nascere dalla pura ragione. Su cosa si basava il lavoro dell’attore su se stesso nel Teatro Laboratorium – Istituto dell’Attore? Qual era il training dell’attore e a cosa serviva? Serviva a liberare il corpo da ogni tipo di resistenza, perché l’organismo fosse funzionale al processo spirituale, cioè alla corrente spirituale degli impulsi che si origina hic et nunc. E perché la mente discorsiva e vigile non disturbasse quella nascente corrente di impulsi organici e spirituali. Serviva a superare le abitudini del corpo e, cosa più importante, le abitudini della mente, la quale ritiene di sapere, e se tentenna e o desidera sapere, blocca il processo. In buona sostanza serviva a superare i limiti della “quotidianità” del corpo e della mente. Nel momento del superamento di quei limiti, sia il corpo che la mente sono in armonia, in accordo. Si manifesta una diversa percezione. Nel mio caso, perché possono esistere differenze individuali, il primo grado di questa presenza è l’affinamento dei sensi dell’udito e della percezione spaziale. Prima di tutto sento il silenzio e sento lo spazio, sono nel silenzio e sono nello spazio. E questo spazio è il bene. L’attenzione si rivolge all’esterno, ma il centro dell’attenzione non è la testa, ma la gabbia toracica, nei dintorni del cuore. A volte nell’azione si manifesta la memoria del corpo, un frammento di azione donato esclusivamente grazie alla memoria genetica del corpo. Gli storici e i critici si interrogano sui motivi che spinsero Grotowski e Flaszen a rivolgersi al dramma romantico negli anni del “disgelo” in Polonia dopo il ’56, quando si era aperta la porta all’Occidente e l’ambiente teatrale, artistico e letterario era interessato

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principalmente alla drammaturgia contemporanea occidentale, fino ad allora proibita dalla censura e sconosciuta. La poesia e il dramma del romanticismo polacco si pongono le domande fondamentali e ultimative dell’umanità: quelle sull’uomo e Dio, su Dio e lo spirito della storia, sull’individuo e la società, sull’uomo e il suo destino, e sui confini della conoscenza. Ciò che nel dramma romantico vi era di spirituale ha reso possibile e ha favorito l’“illuminazione” interiore dell’attore. L’archetipo dell’eroe romantico, il dramma dell’individuo che si sacrifica totalmente a un’idea, l’idea della conoscenza (il Faust di Goethe, il Dottor Faust di Marlowe), l’idea della libertà, dei convincimenti e della fede è in fondo l’archetipo del desiderio nascosto di tutti coloro che sono incapaci di un simile sacrificio (Gli Avi di Adam Mickiewicz, Kordian di Juliusz Słowacki e Il Principe Costante di Calderon nella traduzione di Juliusz Słowacki)2. Quale eredità intima è l’archetipo nella cultura e nella storia! Sul dramma del romanticismo polacco si potrebbe dire quel che dice Peter Brook del teatro di Grotowski: «È uno strumento antico e basilare che ci fornisce aiuto per un solo dramma, il dramma della nostra esistenza, e per trovare la strada verso la sorgente di ciò che siamo»3. La poesia, il dramma e il teatro sono, forse, la cosa più preziosa nel patrimonio culturale polacco, così come l’opera in Italia. Da noi questi poeti vennero chiamati vati. Essi sono anche creatori di drammi, e dunque creatori di teatro. In vita solitamente esiliati dal paese, vi tornarono dopo la morte, per essere sepolti insieme ai re sul Wawel di Cracovia, il nostro Pantheon. Adam Mickiewicz, contemporaneo di Giacomo Leopardi; Juliusz Słowacki e Zygmunt Krasiński, più giovani di qualche anno; Cyprian Kamil Norwid, di 16 anni più vecchio di Carducci, poeta filosofo e storiosofo, i cui manoscritti di poemi, versi, drammi e prosa vennero trovati in un bauletto di legno dopo la morte. La poesia dei poeti romantici permise, forse, alla nazione di resistere per i quasi 150 anni di schiavitù. Mentre il teatro e l’arte scenica diventarono nella Polonia del dopoguerra il luogo e la lingua della libertà. Perciò il teatro in Polonia fu tanto vitale.

2 3

Drammi per la regia di Jerzy Grotowski Peter Brook nel film Nienadówka, regia di Mercedes Gregory,1980.

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Nell’atto del creare 73

Nelle ricerche parateatrali di Grotowski e del suo gruppo, l’esperienza percettiva divenne ancora più profonda. Il parateatro cominciò dallo studio della percezione e in buona sostanza lì rimase, fino a che si trasformò in conoscenza e sapienza. «Sentiamo come la necessità di purificare i sensi», diceva Grotowski, prima di trasferirsi in un modesto edificio nel bosco di Brzezinka vicino a Wrocław. Iniziò con la purificazione dei sensi, letteralmente. Noi esistiamo – diceva Grotowski – «in relazione a un essere diverso da noi». Che cosa è possibile mettere in comune? La festa o «Święto»4, con coloro «che respirano la stessa aria e – per così dire – condividono i nostri sensi». Penso che Grotowski si rifacesse ai misteri, cercasse di restituire la loro genesi e desiderasse ricrearli nuovamente nell’epoca a noi contemporanea. E così, come nel precedente periodo teatrale la trasgressione era lo spettacolo-evento davanti ai testimoni, la trasgressione era il mestiere dell’attore, il parateatro diventò trasgressione nel riconoscimento e nello svelamento delle capacità e della funzione dei sensi. Di fronte al testimone che è dentro di noi. Il superamento dei limiti della percezione dei sensi condusse alle tecniche del Teatro delle Fonti. Richard Shechner, autore del volume Sourcebook, afferma, in un commento al periodo delle ricerche parateatrali, che l’ironia di Grotowski non gli permise di soffermarsi a lungo nei “dintorni di Rousseau”. Ma si trattava davvero di Rousseau? Io avrei evocato piuttosto la tradizione francescana. Oppure Heidegger, che così rifletteva sulla spiritualità di Hölderlin: «Essere significa raccoglierci nella nostra essenza, come il punto al centro del cerchio. Lo spirito è il contrario della materia. Per noi si concentra tutto sullo spirituale, nello spirituale. Siamo diventati poveri per diventare ricchi. Povero significa la liberazione dal superfluo. Il sé ci rende ricchi. Essere in questo stato per liberarsi del superfluo di per se stesso significa essere ricchi». È stato forse un caso, o lo spirito del tempo, che le lezioni su Heidegger inaugurate all’Università di Varsavia raccolsero uditori contemporaneamente alle ricerche parateatrali a Brzezinka, sconosciute ai più? Grotowski scelse la foresta “A metà della vita…”, come Dante nella Divina Commedia, in cui la selva è l’ingresso al purgatorio.

4

È il titolo di un famoso saggio di Grotowski, tradotto in italiano con “Holiday – Il giorno che è santo” (ndt).

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Come shadu, sannjasin orientale, che credeva nell’Upanishad “sussurrate nel bosco”. Forse amava la foresta, aveva bisogno di allontanarsi, di un respiro più profondo e di silenzio. Non è stata forse la foresta la prima “casa” dell’uomo? Non siamo forse noi tutti usciti da una foresta, dal giardino biblico? Il parateatro è indubbiamente una ricerca personale di Grotowski e la sua risposta ai bisogni della generazione del 1968. In una società in cui homo homini lupus est, forse Grotowski cercava quel che avrebbe potuto significare homo homini deus est? Nel periodo della creazione teatrale egli cercò la testimonianza di ciò che è la verità nell’umanità, nel periodo parateatrale e in seguito, cercò la risposta alla domanda: Chi è l’uomo. Nel primo periodo cercò la verità sull’uomo, nel secondo – una conoscenza sperimentale e non dualistica dell’uomo. Unicamente il contatto esclusivo con il Tu riunifica in noi tutto ciò che è diviso. Lo storno cantò inaspettatamente, ascolto per un istante solo ed esclusivamente il suo canto straordinario. Cammino per le vie di una città sconosciuta, vedo un volto che mi sembra di conoscere. Vedo per un attimo solo e soltanto quel volto in mezzo ad altri. Noto per caso qualcosa che fino ad oggi non avevo visto in una persona a me vicina. Cade un fulmine, vedo la linea della luce tra il cielo e la terra. Siedo nello spazio in cui lavoro, accendo una candela e sono rapita soltanto dalla persona che siede di fronte a me. Tutto si concentra sull’attenzione indivisibile al Tu esclusivo. Ma in un istante l’attenzione si spegne, il Tu si fa riconoscere, sperimentare, chiamare, inghiottire nella memoria. Ma il Tu esclusivo apre la vastità non limitata dal tempo e dallo spazio, anche se dura solo un batter d’occhio. “come sono delicate le manifestazioni del Tu…” nella continuità della nostra vita. “Quanto potente è la continuità del mondo dell’Altro...”. Forse l’arte nasce da quelle manifestazioni del Tu nascoste e dimenticate? Torniamo ad esse, le trasformiamo e risorgiamo? Quando ero molto giovane avevo l’impressione che gli adulti, le persone più anziane, nascondessero qualcosa, non dicessero tutto. Anche gli insegnanti a scuola, e poi i professori all’università. Mi sembrava che le persone della generazione precedente venissero da non si sa dove, fossero cresciute in una qualche altra terra. Nei loro volti e nelle loro figure c’era qualcosa di non detto fino in fondo, qualcosa come un avvertimento: sì, noi siamo qui, insegniamo così, diciamo e facciamo questo e quello, e allora? Forse i loro destini erano segnati

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Nell’atto del creare 75

dalle vicissitudini della guerra e dalle esperienze della vita che mi erano ignote ed estranee, forse per il fatto che ero nata e cresciuta in una realtà sospesa tra due realtà, una ufficiale e di regime, l’altra sussurrata di notte tra i familiari e gli amici; in questa realtà che è ora, e in quella che è stata, nei frammenti della cultura sopravvissuta e della famiglia sopravvissuta, con i frammenti di un qualche altro passato nascosto negli angoli. E se aggiungiamo a questo una cosa così naturale come la rivolta generazionale? In una situazione del genere si cerca la verità là dove la si può trovare, là dove essa sembra piena e senza sospensioni. In questo tipo di situazioni i poeti diventano i veri maestri e amici. Il poeta regge l’universo sulle sue spalle, mi dicevo. La poesia è come una finestra, che puoi aprire per respirare più a fondo. Come uno specchio, in cui puoi vedere anche te stesso. Nasce in momenti particolari, quelli in cui ci si pone le domande definitive, le domande eterne dell’uomo, che restano senza risposta. Perché forse proprio le domande e soltanto le domande, e la loro estatica dinamica sono in grado di abbracciare senza confini, rinnovare i sensi e riempire il petto dell’omnicompresivo Tu? Quale uomo non sei? Non ci basta la realtà normale, quotidiana, per vivere, e abbiamo bisogno di crearne una immaginaria, ma anche quanto più reale come realtà. Esiste una sorta di carenza, come una trascuratezza e un vuoto, perché che cosa ci può essere di più meraviglioso di un giorno, di una settimana, e più di una settimana vissuti. Naturalmente possiamo dire che abbiamo già nel nostro calendario le festività, che celebriamo in modo diverso dalla comune quotidianità, ma sono di solito incontri di famiglia o di lavoro, amichevoli e gioiose, che hanno ormai perso la loro primigenia sacralità. Gli incontri tra le persone sono la nostra realtà fondamentale ed elementare. Ma ci incontriamo davvero? Per questo cerchiamo incontri nella lingua del teatro che, forse, tocca la sacralità del nostro essere. Creando la possibilità di tornare anche solo per un istante a quello stato di innocenza che è l’innocenza del bambino. All’essere pronti ad aprirsi verso qualcuno, verso qualcosa, nel puro impulso umano, nel silenzio, nell’illuminazione interiore, nell’indivisibilità dell’attenzione e nell’unificazione di ciò che dentro di noi nella vita comune è diviso. Forse ciò è simile all’innocenza di cui ha scritto S. Paolo nella Lettera ai Corinzi…

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Teatro e parateatro come pratiche educative

La lingua del teatro è l’azione. Tutti diventiamo attori. All’inizio non ci sono compiti definiti, ruoli definiti. Cominciamo dal punto zero: ci siamo noi, in uno spazio vuoto, in un’aula universitaria vuota (e ci aiuta la nobiltà dei suoi interni del XVII secolo). Cominciamo dal movimento, dal riscaldamento, che era l’introduzione agli esercizi fisici e plastici del training di attore del Teatro Laboratorium. Facciamo gli esercizi scherzando, divertendoci, fino a che la gioia non abbraccia tutti. Al centro della sala mettiamo una rosa, una pietra e una bacinella con dell’acqua. Io lavo la pietra. Una delle persone presenti inizia ad agire insieme a me, poi lo fa una seconda. Le mani si immergono nell’acqua e laviamo insieme. Sono attenta ad ascoltare il silenzio e il suono delle gocce d’acqua che cadono. Inizio i primi versi di Enûma Eliš, i primi versi di altri miti cosmogonici delle culture più antiche. Alfred prende in mano il flauto. Descrivo un’azione che in buona sostanza non si può descrivere. Ma cosa ne consegue, che cosa può conseguirne? La pietra resta una pietra, ma evoca molte associazioni personali. Può ad esempio diventare un corpo, un pavimento e una fondamenta, qualcosa di assai durevole, la terra intera. Allo stesso modo ci si può chiedere che cos’è il lavaggio con l’acqua? Con che cosa potrebbe associarsi nella memoria di ognuno dei partecipanti il lavare la pietra? Più importanti di tutte sono le sue tre soglie: la soglia dell’ineffabile, la soglia del non realistico o lontano dal realismo quotidiano e la soglia della fonte dei ricordi, fino a dove arriva la memoria… Tutti diventano gradualmente attori e personaggi del dramma. Preparano i testi e le azioni. La base dei testi e delle azioni che vengono creati, dei brevi monologhi e dei dialoghi, in poesia o in prosa, recitati o cantati, sono gli eventi della vita di ognuno di noi. Condividiamo ciò che forse è più importante in un certo momento, in un certo periodo, negli ultimi anni, o con cui non riusciamo a venire a patti dall’infanzia. Ciò che è un peso, che è doloroso e ritorna nei momenti di solitudine. La drammaturgia nascosta è fatta di un tessuto molto delicato e dipende da molti fattori. Dall’individualità delle persone che la creano, dal loro coraggio nell’assumersi un rischio, dalla fiducia negli altri del gruppo, in me e nei miei colleghi. Ma in fondo si tratta della confidenza in se stessi. Poiché non stiamo parlando di una cosa qualsiasi, ma di una verità ancora sconosciuta, che si può manifestare nell’agire e che

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Nell’atto del creare 77

è lontana da un’informazione o dichiarazione di qualcosa di conosciuto. La verità si svela grazie all’eliminazione di ciò che verità non è. Le emozioni si svegliano indipendentemente dalla nostra volontà, si moltiplicano nel gruppo umano, almeno fino a che non le si superano. Il processo di illuminazione interiore e di leggerezza avvertita fisicamente interviene quando superiamo la sfera delle emozioni o, più precisamente, nel momento in cui stiamo superando le emozioni, come se ci trovassimo ormai sulla sua ultima orbita e non ne fossimo più toccati. Si manifesta in modo quasi fisico. Quando una più acuta capacità percettiva dei sensi si riunisce di nuovo alla mente e al respiro per diventare uno. E tutto si fa quiete. Cerco le fonti che risveglino l’immaginazione, che siano la verità dell’uomo e risveglino la verità. Nei miti e nella letteratura, nelle tecniche e nelle pratiche dei patrimoni arcaici di cui siamo eredi, nelle danze e nei ritmi, nei canti più antichi e nelle tecniche vocali, poiché credo che l’umanità conservi di generazione in generazione le esperienze più importanti. Quello che c’è di più importante e pratico. Nel canto come nella cottura del pane. Ad esempio: Cenzo ha portato un canto-mantra degli sciamani Bon. Lo cantiamo da molti anni. Funziona. Alfred ha portato una danza, semplice e precisa nei movimenti, nelle quattro direzioni del mondo. La danza è la risposta ai miei dubbi, ma solo ai miei? Anche alla riflessione intima di Plutarco, del sacerdote di Apollo a Delfi, che confessa: «…la nostra vita è frutto di confusione, e perfino il cosmo lo è; una confusione che deriva dall’essere strattonati da due principi contrari e da due forze contrarie, che ci spingono una volta a destra, una volta a sinistra, una volta avanti e una volta indietro». (Iside e Osiride) O forse ancor prima, forse è la risposta alle parole dell’anonimo cantore dei Rig Veda: «Chi sono io? Non lo so, un passante errante schiavo della mente?» Raccogliere i pesi che si sono accumulati sulla testa e sulle spalle; rilassarsi, sciogliersi completamente e gettar via da se stessi tutto ciò che fa soffrire, come se fossero vecchi abiti smessi. E trasformarli in un atto creativo, in un atto di trasformazione… Arrivare al punto in cui il “faccio” si trasforma in “avviene”. “Avviene” è un’azione vera. Allora non si è più uno spettatore, si è un testimone.

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Teatro e parateatro come pratiche educative

Durante gli incontri nasce lo spirito del gruppo, poiché anche se la struttura dell’incontro è fissa, ogni volta vi prendono parte persone diverse. È possibile che la realtà del mito accada soltanto in un’azione che dura qualche minuto, a volte, per qualche miracolosa circostanza anche un’ora, ma vale la pena lavorare con caparbietà per quei soli momenti anche dei giorni o delle settimane. Situa l’uomo tra la terra e il cielo. Agisce come un impulso purificatore e iniziatico, simile alla catarsi, che è un dono per il coraggio e il rischio, ma la cui conditio sine qua non è la comunità umana. Ma a volte si manifesta in solitudine, dopo che si sono terminate le azioni, se non ci lasciamo distrarre. Forse in quell’impulso c’è qualcosa della sacralità del nostro essere nella buona casa del mondo.

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Dalla Polonia alla Sardegna: lungo uno stesso crinale

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di François Emmanuel

Evocazione del lavoro con Rena Mirecka e Ewa Benesz

Nel 1980 ho deciso d’interrompere la mia formazione di psichiatra per partecipare a uno stage di diversi mesi in Polonia presso il Teatr Laboratorium di Wroclaw, animato da Jerzy Grotowsky. La mia motivazione di partenza non era molto chiara: m’interessavo di teatro, scrivevo poesie e volevo segnare una rottura nel mio percorso professionale (psichiatria e psicanalisi) andando incontro a un lavoro del corpo e della voce per me del tutto inedito. L’esperienza è stata profondamente sconvolgente. All’epoca, il Teatr Laboratorium aveva quasi compiuto la sua traversata del teatro, non proponeva più spettacoli nel vero senso del termine (in cartellone c’era ancora Apocalypsis cum figuris, più simile a un canovaccio di gioco che a uno spettacolo) e il lavoro al quale ero invitato proponeva in alternanza momenti di esercizi e d’improvvisazione. Esercizi per sciogliere il corpo, aprirne le potenzialità, impostare e far risuonare la voce, inviti a scoprire-esprimere un movimento, una danza che si voleva personale, a contatto con altri partecipanti e legata a un impulso primario, per lo più fisico. Questo lavoro mi ha insegnato cose semplici: per far parlare il corpo in modo autentico bisogna anzitutto espellerne i luoghi comuni, svuotarsi di ogni intenzione, cercare di sospendere ogni volontà di controllo lasciandosi trasportare dal movimento della voce. Bisogna accettare la fatica, addirittura accoglierla come uno stato favorevole, *

Traduzione del testo di Stefania Ricciardi.

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Teatro e parateatro come pratiche educative

suscettibile di liberarci, di permetterci talvolta di accedere all’ispirazione secondaria. Ho ammirato in tutti gli attori del Teatr Laboratorium uno sguardo giusto e infinitamente sensibile all’energia, e poi la vitalità, la verità singolare che ognuno di noi esprimeva attraverso il corpo. Ho amato l’arte che avevano di scuoterci, d’invitarci a osare, di riconoscere in noi i momenti di avvento, e questo senza mai ricorrere a parole che fissano e, alla fine, accentuano il controllo mentale. Ma la parte propriamente iniziatica dell’esperienza è consistita per me nell’apprendimento del lasciarsi andare, del mollare la presa e, associato a questo, la scoperta che al cuore del processo vi è un ribaltamento di prospettive: non sono io a cantare o danzare ma c’è qualcosa che canta o danza attraverso di me. «I nostri corpi sono come tubi (strumenti a fiato, flauti)…», dichiarava Ludwig Flashen nell’unico preliminare alle nostre sedute di lavoro di voce, «… spesso questi tubi sono ostruiti, incrostati, ma talvolta lasciano transitare la musica, e allora su, forza…». Tutti i creatori esprimono così, credo, il mistero della creazione: scrittori, musicisti, scultori o pittori, siamo solo interpreti di ciò che ci supera, solo la nostra “maniera” o la nostra “voce” segna le opere, che allora possono essere riconosciute e riversate nel grande patrimonio. Questo paradosso, che è pure al cuore del mistero delle nostre vite (vivere l’avvento di essere nel momento stesso in cui l’io si cancella), ho potuto sperimentarlo in maniera sorprendente nel lavoro d’improvvisazione che seguiva gli esercizi del corpo e della voce. Al termine di una fase di riscaldamento, di scioglimento, di “training”, scoprivamo un campo d’improvvisazione di una libertà e una ricchezza umana stupefacenti. È stato allora, e solo allora, nell’arco di quella creazione unica ed effimera, che ho avuto l’impressione di poter finalmente deporre la mia maschera sociale. Essere andato “lì” mi ha invitato a rinnovare l’esperienza altrove, in altri settori, e non a caso il mio primo romanzo, La Nuit d’obsidienne, è stato scritto nella sua prima versione durante il soggiorno polacco. Ma come parlare di questi momenti d’improvvisazione senza snaturarli? Sicuramente al nocciolo il teatro esiste, ma il teatro come lo ha inteso Grotowski nelle categorie del povero, dell’organico e del sincero. Un qualcosa da offrire, più che da mostrare, da vivere, più che da lasciar apparire, e se non perdiamo in nessun caso la coscienza di ciò che accade, il nostro sguardo non è mai unicamente spettatore,

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Dalla Polonia alla Sardegna 81

mai e poi mai voyeuristico. Ogni azione prelude con fluidità a un’altra azione in un’alternanza di momenti forti, ritmati, allegri, e momenti gravi, profondi, meditativi. Ognuno dei partecipanti è idealmente disponibile a ciò che accade, completamente attento agli altri e, se qualcosa o qualcuno lo invita, pronto a decidere di farsi carico per il tempo che segue di questa fragile drammaturgia. Si producono allora quei rari istanti in cui scorre l’intero repertorio espressivo della relazione all’altro quando due voci, due corpi s’incontrano, quando la nudità di un dolore invita alla consolazione, quando un volo solitario chiama al clamore, allo stringersi del cuore, quando nuove inflessioni vanno a ravvivare la trenodia polifonica, quando alla tristezza segue la sorpresa o la gioia, quando un canto agonizzante si fa soppiantare da un altro… e questo avviene in modo fluido, naturale, secondo una partitura sempre viva, sempre aperta all’inatteso. Aggiungerei che in certi frangenti della melopea, nel librarsi della danza riaffiorano talvolta vecchie canzoni d’infanzia, qualche mantra personale o qualche parola intima, tracce eventuali di antiche ferite. Lungi dall’essere rifiutate, esse trovano posto nella dinamica d’insieme e l’arricchiscono di una risonanza umana singolare, data, abbandonata al gruppo affinché questo la reintegri a suo modo nel Canto Generale. Dire che il filo dell’improvvisazione è fragile, e che svariate condizioni interagiscono perché il processo possa resistere fino alla fine, è dir poco. Tutto il rigore dell’esercizio preventivo del corpo e della voce trova qui il suo senso più completo. Si tratta di portare ognuno dei partecipanti ad abbassare la guardia personale, a essere al diapason degli altri, ad aver fiducia nel “genio” del gruppo come nell’ignoto che può accadere, e di valersi del suo sapere intuitivo riguardo a quel che mantiene l’azione aperta, la sposta, la rilancia, la perpetua, non la chiude prima della sua naturale estinzione. Ho vissuto, nel corso di queste improvvisazioni, momenti di una bellezza e di un’intensità che raramente la vita mi ha lasciato intravedere, ho sentito lì più che altrove ciò che unisce gli uomini nell’intimo, e il mio sguardo, sul teatro come sulla vita, ne è uscito radicalmente trasformato. Più di dieci anni dopo aver vissuto l’esperienza polacca, ho ritrovato traccia di Rena Mirecka e Ewa Benesz in Sardegna a Pedru Siligu poi all’Annunziata.

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Teatro e parateatro come pratiche educative

Nel contesto italiano ho ritrovato l’essenza della pratica polacca, ma con un colore particolare e diversi arricchimenti. Gli esercizi risultano meno sistematici, più ispirati allo yoga, vi è un qualcosa di più femminile e più libero (il training in Polonia era un tantino austero), e nella bella cornice della montagna sarda ho scoperto un ancoraggio robusto nella natura (il ritmo di marcia, il ciclo del sole…) e un’adesione più forte attraverso i riti e i miti fondamentali. Nelle fasi di lavoro privilegiate, gli elementi naturali (terra, acqua, fuoco e aria, il regno animale e quello vegetale…) sono al centro delle improvvisazioni e a volte ci ritroviamo a inventare il rito, a vivere e a danzare la poesia della vita, a piangere i morti, a celebrare le nascite, a camminare per le vie del mondo, a condividere gioie e angustie in una strana festa o cerimonia ritmata che ci porta a lambire quella radice umana comune cui l’esperienza polacca mi aveva già sensibilizzato. Forse quel che accade lì non accadrebbe allo stesso modo se, all’alba del XXI secolo, non ci trovassimo intimamente tagliati dalle nostre radici naturali, collettive e mitiche, come isolati nelle traiettorie individuali, e invasi, per giunta, dalla sovrabbondanza dei falsi legami di sostituzione. Forse queste improvvisazioni ci permettono di sperimentare con una libertà stupefacente quel che compivano i popoli di un tempo quando celebravano, seppure con un apparato rituale molto codificato, i momenti di passaggio. Lì vige una celebrazione del mondo, una condivisione dei gesti, e il ritorno a un sentimento di appartenenza, di radicamento la cui mancanza si misura sul metro dell’esperienza. E vi è anche una gamma di incontri puri, perché fuori dal linguaggio delle parole, senza astuzie né calcoli di alcun genere, e s’inscrivono in quell’effimero di cui i poeti amano cantare l’eternità. Senza dubbio questa modalità di “messa a terra” ha qualcosa di profondamente catartico e riconciliatorio. È la dimensione “terapeutica” del lavoro, dimensione mai nominata e che d’altronde non è sfuggita allo psichiatra quale sono: accettare di lasciar cadere le proprie maschere, accettare di essere disarmato, cercare di trovare la propria voce, il proprio movimento, l’espressione più autentica e congiunta di sé e metterli al servizio di un collettivo in opera equivale a liberarsi degli intralci, a ritrovarsi un fondamento personale, un posto di uno tra altri, o addirittura uno spazio di creazione, prospettiva di ogni progetto psicoterapeutico. Dopo la traversata di ciò che è stata per me La Nuit d’obsidienne (La notte d’ossidiana – l’ossidiana

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Dalla Polonia alla Sardegna 83

è una pietra nera vulcanica usata dagli antichi per realizzare specchi d’ombra) mi sono sentito sempre più inscritto nel mondo con in me immense riserve d’ispirazione. L’applicazione dell’esperienza rimane tuttavia delicata: il “punto” del lavoro (definito e codificato con assoluto rigore come: il lavoro) è difficilmente percepibile, troppe parole possono snaturarlo, suscitando resistenze e diverse forme di riempimento del vuoto. Perché una dinamica nasca e rimanga viva nei partecipanti, le premesse sono più spesso indirette, silenziose, più vicine all’induzione che all’indicazione, alla metafora che a una regola cui attenersi. Da questa situazione emerge che alcune persone troppo fragili o troppo difese possono non entrare nel lavoro perché destabilizzate da questa assenza apparente di regole e riferimenti. Del resto è naturale che quanti sono passati per la pratica del teatro comprendono meglio ciò che è in gioco (quindi lo slittamento che fu del Teatr Laboratorium) poiché è a partire dal teatro che è nata quest’altra scena, un tempo definita, in modo del tutto imperfetto, parateatro. Come se l’uno fosse nato sotto le maschere dell’altro, come se lì e lì soltanto potesse prendere corpo una tale traversata dello spazio dell’apparire. Proposta di ritorno alle fonti e, al contempo, di evoluzione personale, il lavoro di Rena Mirecka ed Ewa Benesz si snoda lungo un crinale di cui non possono rendere conto né le chiusure dei discorsi religiosi né le riduzioni dei discorsi della psicologia. Proveniente dallo spazio scenico, questo lavoro prolunga l’ammirevole traiettoria del Teatro Povero per invitarci all’esperienza sconcertante del mollare la presa, dell’incontro e della verità. E mi porto impressi dentro compagne e compagni di lavoro, volti segnati, come epurati dalla loro traversata interiore. E sempre vibra in me il silenzio che segue l’ultimo canto, così vasto e limpido, nella montagna sarda.

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Le tappe preliminari dell’azione sull’esempio del lavoro di Ewa Benesz

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di Karina Janik

Dal 1980 Ewa Benesz, in un primo momento insieme a Rena Mirecka, quindi da sola (dal 1997), svolge un lavoro artistico in continua evoluzione. Sempre in un luogo appartato, con un piccolo gruppo di partecipanti (ogni volta diverso), il suo lavoro consiste nella partecipazione ovvero nella creazione da parte del gruppo di una forma d’arte unica e irripetibile. Diverse sono le sue finalità: si tratta di un lavoro artistico che permette anche di conoscere se stessi, incontrare l’altro da sé, liberare i sensi, vivere un’esperienza buona e formarsi attraverso una precisa tecnica di lavoro artistico, nella consapevolezza che esiste un sapere indispensabile per cercare non tanto una forma più perfetta d’arte, quanto la propria esistenza che col tempo aiuta anche a perfezionare il lavoro artistico. Di seguito, con qualche esempio, presento alcuni aspetti del lavoro che per adesso (nel corso della mia ricerca) chiamo lavoro parateatrale di Ewa Benesz che, attraverso una lunga partecipazione a diversi laboratori, porta alla precisione, alla libertà e alla bellezza quanti desiderano esplorare le possibilità di questo genere d’arte. Grazie agli esercizi individuali e l’interazione con gli altri, quelli che partecipano per la prima volta ai laboratori della durata di una o due settimane, e quindi attraverso quest’esperienza incredibile, scoprono le proprie potenziali capacità su cui vale la pena di lavorare in seguito. La consapevolezza e le possibilità dei partecipanti aumentano da un laboratorio all’altro. Gli esempi riguardano i laboratori di Ewa Benesz * L’azione di Ewa Benesz descritta di seguito non va confusa con l’Action del performer nel lavoro di Jerzy Grotowski.  Traduzione dal polacco di Katarzyna Woźniak.

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Teatro e parateatro come pratiche educative

tenutisi nel giugno 2010 e una sessione del mese di agosto dello stesso anno in una casa di campagna e nei suoi dintorni alle pendici delle montagne sarde a sud da Cagliari, nei pressi di Annunziata, dove vive e lavora la Benesz. Allo stage di giugno parteciparono sei persone, a quello di agosto più di venti. A Cagliari, dove per la prima volta incontro S., arrivo un sabato di giugno del 2010. Il giorno dopo invece partiamo insieme per San Priamo. A casa di Ewa Benesz mi ci porta un suo amico. Bisogna sottolineare che la macchina pian piano ci porta lontani dai rumori della civiltà elettronica e meccanizzata, finché ce ne stacchiamo del tutto. La D. e due domini, uno più anziano C., e l’altro più giovane V., che partecipano allo stesso laboratorio, li ho conosciuti prima, in occasione di alcuni altri lavori. Ci conosciamo un po’, ma dal lavoro piuttosto che dalle conversazioni private perché durante questo genere di laboratori para-teatrali non ve ne sono troppe occasioni, del resto cosa inutile durante un intenso lavoro creativo. Il fatto che pur non conoscendoci nella vita privata abbiamo deciso di lavorare insieme, in un certo senso aumenta la curiosità creativa. La casa immersa nella natura, desolata, pochi mobili indispensabili, accende l'immaginazione e avvia il nostro processo creativo, dà un senso di sicurezza e tranquillità. Il laboratorio dura più di dieci giorni. Lavoriamo in una stanza all’interno della casa e nei suoi dintorni. Entriamo a contatto con la natura allontanandoci a piedi per alcuni chilometri da casa, servendoci di una tecnica particolare del guardare e del muoversi: bisogna camminare ritmicamente, seguendo i passi di chi ti sta davanti nel senso orizzontale, ascoltando i suoni che ti circondano, appena toccando il suolo coi piedi, sentendosi figlio naturale di questa terra. Il cammino, nato nel periodo del Teatro delle Sorgenti di Jerzy Grotowski, è uno degli esercizi che secondo me aiutano la ricerca interiore, o almeno io lo intendo in questo modo. Il primo giorno, nella stanza, dopo qualche ora di riscaldamento della voce, del canto, dell’aprirsi ad esso e della ricerca della sintonia a partire dall’apposita disposizione del corpo, il suo rilassamento e qualche gioco, ci avviamo verso l’azione. L’azione è l’atto di agire in presenza dell’altro o insieme a lui o agli altri, in cui l’attuante non è ostacolato dal proprio corpo. Le singole azioni di cui è composta, nascono da impulsi; il contenuto è comprensibile e ogni attuante può rispondere con la sua azione a quella dell’altro o esserne testimone.

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Le tappe preliminari dell’azione

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Ewa Benesz fa dei colloqui individuali con ciascuno di noi. Mi chiede se ci sia qualcosa di importante che possa servire come punto di partenza per l’azione, legato a qualcosa di primordiale, a un mio rito personale, importante per me e nato nella mia intimità. Scelgo il mio argomento, il mio rito, ma non si tratta di un puro atto intellettuale: è piuttosto un approccio a un tema preciso che attraversa tutta la vita plasmandola in una modo preciso, molto essenziale, onesto, sentito nel corpo, nella memoria e nella mente. Per non entrare nei particolari della conversazione, dico soltanto che il mio tema riguarda il rapporto con una cara persona e con alcune altre persone che hanno cercato o cercano ancora di sostituirmi quel rapporto. Per un attimo cerchiamo diverse associazioni con il tema prescelto che poi, nel corso del laboratorio, non viene realizzato letteralmente, perché sarebbe poco naturale, troppo studiato e anche troppo semplice. Non (mi) è possibile risolvere in uno solo lavoro artistico le questioni più intime: ne risulterebbe senz’altro un capolavoro o un’illusione. Non succede né uno, né l’altra. Il tema è comunque un punto di riferimento, fonte di ispirazioni, problema da affrontare formulato a voce, domanda interessante che richiede un’apposita preparazione. Scelgo una cosa che per me è comunque fondamentale, sebbene non creda che l’uomo abbia un nucleo. Il tema mi guida nel lavoro di quei giorni; si dilata su quattro persone, porta in quattro direzioni. Nella mia esperienza interiore le persone sono collocate ai quattro angoli del mondo, perché è stata l’associazione più immediata durante il primo colloquio con la Benesz che diventa anche la più familiare. Un modo di pensare e di fare ricerca, di cercare risposte nell’agire attraverso gli esercizi e le forme artistiche proposti dalla Benesz in una stanza chiusa, che inizia quindi da una domanda. Per due settimane cantiamo, facciamo esercizi per rendere più elastica e agile la colonna vertebrale, lavorando nei dintorni della casa e svolgendo attività quotidiane: cucinando, tenendo in ordine lo spazio, dando da mangiare agli asini allevati dietro la casa, prendendoci cura dei gatti e annaffiando i fiori. Ogni giorno segue quasi lo stesso ritmo. Si parla poco. Dopo pranzo, per qualche giorno Ewa spiega Promethidion di Cyprian Norwid, discutendolo con noi. Oltre a esercizi vocali, il canto la mattina e la notte, pratichiamo lo yoga e ci sottoponiamo a massaggi, a secondo delle nostre necessità e quanto prestabilito. Per quanto sia possibile, cerco di trovare durante que-

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Teatro e parateatro come pratiche educative

sti lavori quotidiani qualcosa d’utile nel lavoro sulle azioni e sulla loro struttura. I lavori fatti bene, la Benesz li chiama azioni; le azioni portano altrove, verso un’altra percezione; nonostante siano radicate negli esercizi, nelle ipotesi di lavoro, in ciò che nasce e appare mentre l’attuante agisce con precisione, permettono di scoprire/sperimentare l’ignoto (a prescindere da come lo intendiamo). Nel giugno 2010 l’attività di sostegno che per qualcuno (se lo desidera) può diventare la principale è la ricerca di azioni fisiche legate ai primi suoni (deve essere un lavoro individuale). Il passo successivo è quello di provare a usare la propria voce e la scrittura. Che cosa aiuta a sviluppare la propria azione, una linea di azioni, in questo genere di lavoro? In primis tutti gli esercizi sulle principali azioni drammaturgiche, talvolta anche il tema intuito e precisato all’inizio. Bisogna avere il coraggio di arrendersi all’impotenza, all’incertezza, all’attesa e allo stesso tempo portare avanti il proprio lavoro: cantare canti tradizionali, stare da soli, in silenzio, in mezzo agli altri, senza troppe chiacchiere e messaggi inutili che sviano la ricerca artistica. Eseguendo le azioni bisogna invece richiamare qualcosa dalla memoria: un canto, un’esperienza, un testo, un’immagine. La ricerca obbligatoria intorno all’espressione vocale e il linguaggio è stimolante, perché specifica e richiama un vecchio particolare dalla nostra memoria: anche quella corporea. Mi sono ricordata la disposizione del corpo nello spazio (ispirandomi a un’esperienza corporea ritrovata precedentemente durante un’ipnosi), aggiungendovi un ulteriore ricordo di una fotografia e di un racconto per me e su di me appreso da mia madre. Queste fonti (e in questo caso preciso, perché non è una regola) mi permettono di ritrovare la fisicità di un neonato; riesco appena a reggere la testa sulle mani. Pian piano, un gesto dopo l’altro, ritrovo nelle azioni la mia nostalgia e l’attesa della mamma. Non riesco a parlare per la tristezza. In un altro momento sono da sola in una stanza della mia balia: mi alzo e incuriosita dirigo i primi passi verso il divano immerso nella luce del sole. Il mio corpo acquista la fisicità di un bambino di un anno. Ora conosco più particolari della situazione ritrovata perché la guardo dalla distanza di una vita, quindi decido di non ripeterla, ma di evocarla nel corpo; ed è proprio la fisicità che diventa più articolata. Mi appoggio, mi alzo e faccio qualche passo in avanti: prima un

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Le tappe preliminari dell’azione

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movimento appena visibile, appoggiandomi ancora con una mano al muro, cerco l’equilibrio; infine mi stacco, faccio tre passi in avanti: sono molto contenta di esser arrivata fin dove volevo, in uno spazio illuminato dalla luce del sole che entra dall’altra stanza. Una grande gioia sentire la voce della balia che pure arriva dall’altra stanza gridare: «Mamma, guarda, cammina!». Sento nel corpo la gioia di aver compiuto un gesto coraggioso e del suo esito, della vittoria; sento un legame con gli altri; mi sento accettata. I piccoli gesti che rievoco con precisione, ritrovandoli in me stessa e intrecciandoli alle immagini dello spazio di qui ed ora e di allora: appoggiandomi al divano in uno spazio illuminato, allo stesso tempo e di fatto sto in uno spazio illuminato di una stanza della casa della Benesz. La finestra della camera in cui mi trovo dà sul cancello aperto del giardino. Le azioni come le intendo io non sono una ripetizione letterale del passato né lo sembrano; sono piuttosto un’ispirazione e risvegliano risorse della memoria personale e dell’esperienza di solito inaccessibili, quindi le trasformano soprattutto grazie agli esercizi e allo spazio di lavoro che preparano alla scoperta di una percezione alternativa e azioni extra-quotidiane. La casa in cui ho vissuto da bambina non aveva un giardino anteriore: c’era una sabbiera, magari un prato, in poche parole piuttosto triste, ma trovo qualche somiglianza tra lo spazio di allora e la stanza in cui mi trovo adesso per via della luce, l’esperienza del corpo. Continuo le mie azioni. Ho imparato a stare dritta e a camminare, quindi voglio raggiungere mia madre, ma non la vedo. Mi manca, per cui comincio a piangere e a chiamarla. La mia voce, il suono nasce come grido, le parole invece non trovavano un riferimento nelle presenze, ma nelle mancanze: grido «Non scimmia, non coniglio (indicando i giocattoli). Mamma! Mamma!». Ma non arriva nessuno; e nella stanza della casa della Benesz mi arriva invece una risposta dall’esterno, dagli asini. Ed io gli rispondo in un linguaggio infantile. La nostra conversazione prosegue. Nella stanza vi trovo qualche filo d’erba che dispongo in forme fantastiche secondo la mia immaginazione da bambina. Infatti, da bambina facevo lo stesso con le mollette da biancheria. Giocando in questa stanza accetto che la mamma non arriverà e dovrò provvedere a me stessa. Allora ho cominciato a raccontare ai giocatori che cosa ne pensavo della sua assenza, adesso faccio lo stesso con gli asini. Allora non avrei potuto farlo perché

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Teatro e parateatro come pratiche educative

laddove sono cresciuta non vi erano asini, ma si tratta piuttosto di una similitudine di reazioni, esperienza del corpo, un modo di agire che mi è proprio. Creo un certo ordine in figure simboliche che in un secondo momento trasformo nelle parole. Nella vita ero sempre presente, vi era sempre un io ovvero una parte di me. Adesso riesco a ritrovare con precisione l’esperienza nel corpo grazie agli impulsi che mi hanno spinta ad agire e alla stessa esecuzione di una sequenza di azioni, perché ho intrecciato il corpo, le emozioni, i pensieri e le immagini a quello che mi circonda: le persone nella stanza e lo spazio della stessa. Mentre io svolgo le mie azioni, gli altri cantano in italiano un canto semplice di san Francesco. Lo saprò solo dopo, anche se il loro canto mi dà l’impulso per cominciare ad agire e sostiene per tutto il tempo mentre cerco le sensazioni ed emozioni e le collego con la disposizione del corpo, la sua espressione e l’esperienza interiore, che man mano ritrovo, richiamo, costituisco qui e ora e che coincidono con l’ignoto. Seguo ciò che nasce dal mio agire. Nell’esempio appena riportato, ho descritto le azioni concrete e i punti cruciali di un lavoro di alcune ore. Un’azione che raggiunge una forma conclusa e completa, percepibile per chi vi assiste/ne è testimone e cerca di darle un nome, guida l’attuante verso nuove possibilità: gli apre una porta e il testimone lo vede. Uno degli uomini ha trovato molte difficoltà nell’espressione vocale. Durante le sue prime azioni da neonato, si è bloccato dopo aver sentito un severo divieto di un uomo adulto. Ha sviluppato l’espressione mimica mentre l’incapacità di produrre suoni è diventata un vero problema. Ad un certo punto, ha cominciato a interagire con un altro uomo emettendo un suono, un balbettio. In un secondo momento invece, ha interagito con un altro uomo nella stessa sequenza di azioni, giocando con la voce quindi cantando insieme, in risposta alle azioni fisiche che si sono proposti a vicenda. Quest’uomo aveva problemi con l’intimità. È stato commuovente quando finalmente è riuscito a emettere un suono, dopo aver cercato contatto/interagito con un uomo maturo, trovato un partner ed essersi lasciato guidare da lui e iniziato. Alla fine le sue azioni lo hanno portato a una domanda sulla donna. Ho raccontato in breve il loro lavoro in realtà molto più complesso, preciso e ricco di elementi importanti. Quando ho incontrato il più giovane di loro in occasione di un altro lavoro con la Benesz, ho

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Le tappe preliminari dell’azione

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visto un ulteriore sviluppo di ciò che era successo nell’interazione con l’uomo maturo, con cui aveva cantato ed interagito al livello fisico. Ha sviluppato le proprie possibilità vocali e di interazione durante le azioni fisiche con le donne e altri uomini. In breve tempo ha fatto notevoli progressi: l’apertura al canto era frutto di una serie di trasformazioni e superamenti di resistenza, esplorando il proprio potenziale e sostenendo lo sviluppo. Ho scelto il suo esempio, perché è molto evidente e lineare il che non succede in tutti i casi e ovviamente anche questa è una semplificazione per meglio illustrare il fatto che le azioni che seguono un ordine preciso aprono all’attuante possibilità inaspettate e gli offrono un’esperienza extra-quotidiana. Come ho cercato ispirazione per la mia azione in azioni drammaturgiche concrete e nell’esperienza personale? Tutto che quello che troviamo nello spazio, per esempio la canna depositata in un angolo della stanza, l’ulivo al centro con appeso sopra un grande foulard di seta (che ha spinto una donna da poco diventata madre ad avvolgerne il tronco), un canto di qualcuno o le sue azioni sono una potenziale fonte d’ispirazione. Le mie azioni sono nate da un canto degli altri partecipanti e ovviamente dalle precedenti riflessioni sulla mia infanzia, sulla qualità di rapporti con gli altri e loro stessi nonché sullo spazio d’allora e il suo significato per me e sul significato della vita. Che cosa si prova quando si comincia a parlare? Come è stato nel mio caso? La ricerca delle azioni secondo me non è un ingenuo ritorno al passato, consiste invece in un uso molto attivo della memoria, per individuarvicerte esperienze e guardarle dalla prospettiva recente per capirle e osservarle, quindi arrendersi ad esse, aprirsi a ciò che sta accadendo qui e ora inteso come agire, ed essere pronto a lasciarsi guidare da qualcosa che proviene in parte anche dall’esterno e circonda, arrivando molto lontano e nel profondo del passato e del corpo, per esempio fino alle origini della nostra voce. L’osservazione mentre si agisce può risultare anche da qualcosa del nostro presente ovvero il passato recente o un possibile futuro. Durante il laboratorio di giugno e in parte anche in quello di agosto del 2010, abbiamo lavorato soprattutto su alcuni esempi concreti dal passato: il primo suono emesso, il proprio linguaggio quindi la propria scrittura (su quest’ultima soprattutto nel mese di giugno). Possono essere cose scontate, niente di particolare, ma sperimentate nel corpo e nella voce, acquistano una nuova qualità.

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Teatro e parateatro come pratiche educative

Finora ho descritto la struttura del lavoro. Adesso cercherò di descriverlo dal mio punto di vista in quanto testimone. Assistendo al lavoro dei partecipanti si colgono i movimenti degli occhi e le espressioni del viso, le parti del corpo in tensione, il punto di appoggio del corpo sul pavimento: se dal corpo nascono canti e ne sono guidati, se i canti a loro volta si sviluppano in azioni fisiche oppure se è la parola a guidare le azioni cercando di radicarsi nel corpo e nel ritmo; si vedono i momenti di esitazione e i tentativi di costringersi a qualcosa che non è proprio, a uno sforzo enorme senza un perché né giustificazione all’interno della struttura intera. Di fronte a questo lavoro non è possibile rimanere indifferenti perché si stabilisce un certo legame: gli attuanti agiscono su di me in quanto testimone e un ben percepibile impulso interiore e un consenso da parte loro mi permette di rispondergli prendendo parte nel loro lavoro; è tanto forte che lo sentirò senz’altro quando sarà il momento. Allo stesso tempo e in ogni momento del lavoro rimango testimone e partecipante: partecipo in qualcosa che riguarda piuttosto chi agisce che me stessa e per questo, appunto, ne sono testimone e non osservatore ed è una differenza fondamentale. Il lavoro come questo, basato su esercizi e un clima particolare, permette solo una presenza da testimone oppure da attuante; è la condizione sine qua non della struttura. Cerco di capire ciò che l’altro comunica. Anche se leggo le sue azioni dal mio punto di vista e interagisco seguendo la mia intuizione e ciascuno di noi lavora su associazioni ed esperienze diverse, senza un quadro di riferimento comune, siamo in grado di elaborare insieme una struttura precisa, dare un aspetto comune alle nostre azioni e condividere i significati. I corpi comunicano attraverso il suono, il movimento, il ritmo, lo sguardo, l’espressioni del viso piuttosto che sullo stesso retroterra culturale e intellettuale. Il risultato è coerente e radicato in ciò che appartiene a ciascuno di noi personalmente. Guardiamo il lavoro dell’altro attraverso le nostre associazioni estetiche, le esperienze, le conoscenze e il nostro sapere. Ciascuno di noi agisce con un ritmo e con modalità diverse: un giorno il lavoro risulta ben fatto, l’altro invece la struttura, senza un perché, può sembrare poco chiara, dileguarsi. Alcune azioni concluse rimangono proprio così: imprecise, incomplete ma bisogna sottolineare che lo stesso processo di ricerca è molto importante;

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Le tappe preliminari dell’azione

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in altri casi invece aprono prospettive inaspettate, portano nuove domande o risposte. La Benesz crea e mette a disposizione degli altri uno spazio artistico particolare, da una parte molto effimero, leggero, dall’altra invece rassicurante. I particolari delle azioni di un giorno trovano risonanza nei giorni, laboratori e luoghi successivi. Le nostre azioni, una serie ordinata di azioni fisiche, ci aprono la possibilità di sviluppo: uso di nuove tecniche e risorse personali. La Benesz chiede precisione, impegno e concentrazione e allo stesso tempo non costringe nessuno ad agire né chiede sforzi impossibili. Ciascuno di noi deve diventare maestro e guida di se stesso. Molti esercizi la Benesz li esegue insieme a noi, per individuare ciò che potrebbe avere un valore personale per ciascuno di noi e spingerci verso un lavoro insieme all’altro e in sua presenza. Il lavoro durante i laboratori della Benesz lo trovo bello dal punto di vista estetico e stimolante. L’azione degli altri partecipanti spinge il testimone ad agire personalmente, per incontrarlo ancora in questa nuova situazione. Le tracce dei nostri movimenti di questi giorni di lavoro parlano di tutti i laboratori precedenti: i passaggi tra i singoli elementi sono di solito agili e ritmici, anche se lo stesso ritmo può variare a seconda di ogni partecipante, giorno e ora di lavoro, perché risulta da un intreccio di azioni, bisogni, conversazioni per cui la risposta al mio agire la posso trovare un altro giorno in un’azione inaspettata di qualcun’altro. Immergersi nelle azioni degli altri che si dispongono in drammi è un impulso altrettanto importante per agire personalmente, unendosi al loro ritmo, voce e movimento oppure contrastandoli, come gli esercizi, il cammino, lo yoga e la natura. Ewa Benesz aiuta le nostre azioni: la sua presenza è sincera, per tutto il tempo aperta al nuovo e inaspettato che caratterizzano il nostro lavoro anche se ci troviamo in uno spazio preparato, con le ispirazioni e i temi prescelti, i compiti prestabiliti e ci conosciamo sempre meglio man mano che il nostro lavoro comune procede e scorrono i giorni della permanenza nella casa della Benesz e nei suoi dintorni.

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Seconda parte

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Dal Teatro alle professioni educative. Epistemologie e pratiche

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La pedagogia critica e le pratiche riflessive

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di Maura Striano

La pedagogia critica Matrice culturale e scientifica della “pedagogia critica” è la cosiddetta “Scuola di Francoforte” nata e sviluppatasi in Germania intorno agli anni Sessanta, le cui basi teoriche sono rintracciabili nel pensiero marxista e in particolare nella relazione tra le “strutture” economiche e sociali e le sovrastrutture culturali che da tali strutture sono condizionate. Principale obiettivo euristico è la critica della società contemporanea cui è sotteso un preciso obiettivo politico e sociale: smascherare le contraddizioni del vivere collettivo nelle sue diverse declinazioni, tra cui vengono ad essere identificate anche le istituzioni e le pratiche dell’educazione. In questa prospettiva diventa possibile identificare i vincoli che condizionano i sistemi ed i processi educativi in un particolare momento storico ed in un particolare contesto sociale, mettendone a fuoco le distorsioni, i limiti, le empasse. Tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta, la Scuola di Francoforte ha costituito il background teorico comune che ha fondato uno specifico paradigma nell’ambito del pensiero pedagogico contemporaneo sulla base di una serie di coordinate teoriche e metodologiche: il riconoscimento della natura storica e sociale dei processi educativi, che vengono ad essere oggetto di analisi e riflessione critica; l’esigenza di fare oggetto di riflessione non solo i processi, ma anche i modelli educativi a cui tali processi si ispirano e le ideologie che li sostengono, allo scopo di evidenziare la presenza di eventuali interessi sociali, che possono strumentalizzare i processi educativi in funzione di determinati scopi; la necessità di analizzare le condizioni sociali di valorizzazione

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Teatro e parateatro come pratiche educative

di specifiche teorie pedagogiche in relazione a particolari mutamenti di ordine culturale e storico-sociale. Nei diversi contesti culturali e socio-politici in cui si è affermata a livello internazionale in Europa come in America Latina e nel Nordamerica, la “pedagogia critica” non si è tuttavia evoluta in riferimento ad un unico modello teorico, ma ha dato luogo a differenti approcci euristici ed interpretativi. Da ciò è derivata una varietà di articolazioni e declinazioni, che ne hanno connotato l’emergenza e lo sviluppo come paradigma di ricerca e di pratica in ambito educativo a partire dagli anni Sessanta fino ai nostri giorni, con diverse focalizzazioni determinate dal mutamento delle condizioni storiche e sociali ma anche dalla specificità culturale e territoriale in cui si è inscritto il discorso pedagogico. Come avverte Bernhard, riferendosi in particolare ai lavori di Gamm e di Mollenhauer, in Germania, tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta, la pedagogia critica è stata essenzialmente alimentata da una relazione dialettica tra il costrutto di Bildung (sviluppato in senso profondamente diverso da quello della tradizione romantica) e quello di emancipazione, il che ha evidenziato come i processi educativi possano e debbano essere letti essenzialmente come funzionali alla liberazione o meglio alla “autoliberazione” politica e sociale del soggetto in formazione, nella misura in cui gli consentono di esprimere appieno quello che Mollenhauer definisce il suo potenziale di trasformazione sociale, attraverso le diverse forme di pratica in cui è implicato nei contesti di vita e di lavoro (Bernhard, 2006). A partire dagli anni Ottanta, i processi di trasformazione economico-sociale e le nuove condizioni di vita create dalla globalizzazione hanno imposto alla pedagogia critica di confrontarsi con situazioni e problemi di natura globale e la hanno quindi connotata come scienza che mira alla liberazione non del singolo soggetto nella sua connotazione culturale e storica, ma dell’intera specie umana; in questa prospettiva – sulla scorta di una istanza fortemente emancipativa e di orientamento al futuro – suo primario oggetto di studio risulta essere quella che Bernhard definisce la questione fondamentale, di natura eminentemente pedagogico-antropologica, che consiste nell’esplorare forme ed i modi attraverso cui le costrizioni sociali ed i meccanismi di dominio vengono internalizzati nel soggetto umano (Bernhard, 2006).

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La pedagogia critica e le pratiche riflessive 99

Anche in America Latina, tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta sulla scorta dell’esperienza e del pensiero di Freire in Brasile (Freire, 1971), che hanno definito le principali categorie connotanti il discorso pedagogico all’interno del framework teorico della “pedagogia critica” (il binomio “oppressione” “liberazione”, il costrutto di “coscientizzazione”) si è definita una matrice essenziale di ragionamento e di riflessione attraverso cui si evidenziano come principali obiettivi dell’agire educativo l’emancipazione di individui e gruppi sociali (nel senso dell’affrancamento da barriere e vincoli culturali, economici, sociali) e la attivazione dei potenziali di crescita dei singoli e delle comunità nella direzione di una formazione continua, con significative ricadute di sviluppo locale e territoriale ma anche con forti implicazioni di ordine politico e sociale. In questo scenario particolarmente interessante è l’esperienza di Boal e del “teatro dell’oppresso”, che consente di realizzare in chiave educativa differenti rappresentazioni della realtà, esplorandone possibili trasformazioni in forma creativa e condivisa, con l’obiettivo di fornire strumenti di cambiamento e di emancipazione personale, sociale e politico ad individui, comunità, gruppi in condizioni di emarginazione e di oppressione (Boal, 1979). Con l’affermarsi della globalizzazione e l’avvertenza della sempre più radicale separazione tra il nord e il sud del Mondo, sempre maggiore attenzione viene posta alle condizioni culturali e sociali dell’America Latina nel suo complesso, che vive sulla propria pelle una estraneazione culturale, economica, politica da cui può sollevarsi solo attraverso un rifiuto netto dell’esistente, ma anche una ricerca di tutti quegli elementi che possono costruire un’alternativa possibile a partire dal recupero di saperi e tradizioni negate e occultate; ciò può avvenire solo tramite un’azione educativa, che si realizza tramite un processo dialettico inteso come attività incessante orientata al ribaltamento dei ruoli all’interno di sistemi di relazioni di dominio o di parità, che si costituiscono in un rapporto di antagonismo o di complementarietà tra individui e gruppi sociali (Dussel, 1980). All’interno di questo quadro teorico, la pedagogia critica è andata quindi ad alimentare una varietà di “pedagogie della liberazione”, variamente tradotte in azioni e in pratiche di coscientizzazione e di emancipazione a livello individuale e collettivo. Nel Nordamerica la pedagogia critica si è sviluppata sulla scia delle forti istanze di critica sociale che hanno connotato gli scenari cul-

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Teatro e parateatro come pratiche educative

turali e politici degli anni Sessanta, da cui è derivata anche una rilettura radicale delle pedagogie ufficiali e delle istituzioni educative esistenti attraverso la definizione non solo di costrutti teorici, ma anche di strategie operative e pratiche sul piano educativo e formativo. All’interno di questo framework, Henry Giroux, ha definito la pedagogia critica come un “movimento educativo” piuttosto che come un apparato di studi e di teorie, evidenziando come l’alimento principale di tale movimento siano stati le “passioni” ed i “principi” etico-normativi che hanno orientato gli educatori prima ancora che i teorici dell’educazione; ciò ha permesso di identificare come principale obiettivo dell’agire educativo la presa di coscienza, da parte dei soggetti in formazione, della propria condizione di libertà a partire da cui diventa possibile – collegando il “sapere” al “potere” – riconoscere e combattere le tendenze autoritarie presenti all’interno dei sistemi e dei processi educativi attraverso azioni costruttive ed emancipative (Giroux, 2010). In questa prospettiva la pedagogia critica si è sempre più configurata, come avverte Ira Shor, come un «habitus di pensiero, lettura, scrittura, discorso» che permette di scandagliare in profondità credenze, opinioni, opzioni culturali, morali, politiche e di comprenderne i significati nascosti in riferimento ai contesti sociali, alle ideologie, agli assetti sociali (Shor, 1992). Su queste basi si è definita nell’ambito della cultura nord americana una posizione epistemica che, negli anni, è andata a connotare il pensiero di una varietà di autori non immediatamente ascrivibili al movimento della pedagogia critica ma ad esso in qualche modo consonanti (ci riferiamo, ad esempio, ad alcune posizioni della Nussbaum o di vari esponenti delle cosiddette pedagogie post-moderne). In Italia in riferimento alle istanze della pedagogia critica emergenti nel dibattito pedagogico internazionale tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta sono stati sviluppati molteplici itinerari di riflessione pedagogica che hanno interessato da un lato le istituzioni e le pratiche dell’educazione, dall’altro la stessa pedagogia in quanto scienza, il suo linguaggio, le sue logiche, le sue metodologie (Metelli di Lallo, 1966; Broccolini, 1974; Granese, 1976; Bertoldi, 1981; Cambi, 1986; Massa, 1987). Tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta, all’interno del framework epistemologico della “complessità” si è poi costituito vero e proprio movimento culturale orientato all’esplorazione di una serie di nodi

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La pedagogia critica e le pratiche riflessive 101

critici che connotano il sapere pedagogico in riferimento sia alle sue matrici teoriche, sia alle sue ricadute pratiche e sociali (Massa, Muzi, Piromallo Gambardella, 1991; Porcheddu 1992; Cambi, Cives, Fornaca, 1992; Spadafora, 1992; Granese, 1993; Cambi, Frauenfelder, 1994; Muzi, Piromallo Gambardella 1996; Fadda, 1996). Oggetto di indagine sono la natura stessa del sapere pedagogico, il suo ruolo e la sua funzione di orientamento alle pratiche educative, la sua portata critica rispetto alle ideologie, ai modelli, ai valori sottesi alle pratiche in oggetto, il suo impatto sociale in chiave emancipativa e trasformativa. In questa prospettiva abbiamo assistito negli ultimi anni, alla realizzazione di ricerche finalizzate a mettere il luce le forme e le modalità di sviluppo che attualmente ha assunto la “pedagogia critica” (in ambito nazionale ed internazionale) nelle sue molteplici declinazioni ed interpretazioni anche sulla scorta di precise piste euristiche (la ricognizione delle tendenze antilluministiche di appropriazione e strumentalizzazione della critica; la messa a fuoco dei rischi di monopolizzazione e gerarchizzazione di singole forme di critica; le problematiche di ordine pragmatico determinate dallo sviluppo della razionalità critica in diversi contesti; le diverse forme di metodizzazione e “addomesticamento” della critica in alcuni contesti culturali e storico-sociali; la relativizzazione, pluralizzazione, problematizzazione e talvolta “trivializzazione” della critica ma anche la sua “utopizzazione” nell’ambito della ricerca e della pratica educativa (Borrelli, 2004; Cambi, 2009). Ciò anche tenendo conto del fatto che, come avverte Cambi, nella riflessione pedagogica contemporanea spesso istanze e problemi della “pedagogia critica” si sono fatti strada attraverso altre “etichette” (razionalismo critico, fenomenologia pedagogica, teoria critica della società e pedagogia, sociologia pedagogica critica, psicoanalisi e pedagogia, neopragmatismo pedagogico, razionalità postmoderna in pedagogia, decostruzionismo pedagogico, etc.) (Cambi, 2009). Nel tempo, quindi, la pedagogia critica si è declinata sia come approccio interpretativo sia come metodologia di lavoro riflessivo e meta-riflessivo, che ha investito non solo le pratiche dell’educazione ma anche lo stesso sapere pedagogico, laddove esso richiede di essere sottoposto a costanti revisioni e re-interpretazioni in riferimento alle sfide poste dalle profonde trasformazioni culturali, politiche e sociali che caratterizzano gli scenari del mondo globalizzato.

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Teatro e parateatro come pratiche educative

In questa prospettiva, la pedagogia in quanto scienza dell’educazione (ovvero delle teorie e delle pratiche educative) viene ad assumere una funzione normativa e regolativa sul piano culturale, politico e sociale (Behrnar, 2006), nella misura in cui la definizione delle norme cui si ispirano le pratiche educative e la fondazione della loro validità non risulta più di esclusivo appannaggio dei gruppi sociali dominanti, ma viene legittimamente a rientrare nell’orizzonte di attività di una pedagogia intesa come dispositivo di riflessività sociale, funzionale ad uno sviluppo dei sistemi educativi sostenuto da una riconfigurazione critica dei processi e delle pratiche in essi inscritti (Luhmann e Schorr, 1988).

Il paradigma critico e l’epistemologia riflessiva Il paradigma delineato dalla pedagogia critica nelle sue molteplici declinazioni ha consentito di introdurre all’interno dei sistemi e dei processi educativi una riflessività dei meccanismi sistemici volta a sostenere la pressione data dalla complessità dei fattori e delle variabili implicate nei sistemi in oggetto e che si articola attraverso procedure di pianificazione, differenziazione, articolazione ed organizzazione elle azioni e delle pratiche in essi inscritte; una riflessione, che rappresenta una forma particolare di riflessività interna ai sistemi stessi e che risulta funzionale alla definizione ed alla conservazione dell’identità sistemica attraverso la costruzione di dispositivi conoscitivi ed interpretativi che assumono funzioni normative e regolative (Giacomini, 1990). La riflessione si configura quindi come una “forza attiva” all’interno dei sistemi socio-educativi, cui funzione è quella di mettere in evidenza e di esplorare in profondità «i problemi del sistema educativo in cui diventano problematiche le dimensioni di senso di per sé e nella loro rilevanza sociale» (Luhmann e Schorr: 30). La riflessione può essere intesa, insieme, come una funzione di auto-osservazione dei sistemi e dei processi educativi ma anche come una funzione di “riflessività” che consente di mettere in relazione le azioni educative «alla ricerca della loro trasparenza e controllabilità» (Ravaglioli in Luhmann e Schorr: X). Se, infatti, si intende l’agire educativo come articolato campo di “azioni regolate” da credenze, istanze, orientamenti, intenzionalità socio-culturalmente determinate

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La pedagogia critica e le pratiche riflessive 103

si riconosce anche la necessità di utilizzare la riflessione come dispositivo normativo e regolativo, delle pratiche e delle azioni in esso inscritte (Striano, 2001). Ciò impone una continua problematizzazione e revisione di intenzioni, orientamenti, scelte oltre che di conoscenze e saperi e richiede una sistematica chiarificazione dei rapporti che si determinano tra conoscenza e azione, mezzi e fini, teoria e prassi all’interno dei processi e delle pratiche dell’educazione Secondo un modello interpretativo definito da Habermas, nell’ambito dei contesti educativi la riflessione, attraverso una varietà di dispositivi e di pratiche, si declina come “autoriflessione” a diversi livelli, rispondendo a diversi interessi cognitivi e producendo diverse forme di conoscenza (di ordine teorico e pratico) (Habermas, 1990). A livello critico-analitico, la riflessione viene a focalizzarsi su questioni relative alla relazione mezzi-fini ed ai rapporti tra teoria e pratica inscritti all’interno dei sistemi, dei processi e delle pratiche dell’educazione; a livello ermeneutico-fenomenologico la riflessione si focalizza sulla natura dell’esperienza educativa e sulla comprensione delle prospettive di significato di cui i diversi attori implicati nell’esperienza sono portatori nel loro interpretare e vivere l’esperienza in oggetto; a livello critico-teoretico la riflessione si indirizza infine, alla critica delle credenze, teorie implicite, delle norme e delle regole che orientano il vissuto individuale e sociale e le esperienze formative ed educative che vi si innestano, attraverso procedure emancipative e trasformative (Habermas, 1990). L’ipotesi di Habermas (Habermas, 1990) viene ripresa in direzione pedagogica da van Manen (van Manen, 1977) il quale distingue i primi due livelli di riflessione dal terzo, nella misura in cui quest’ultimo implica il riferimento ad una teoria consensuale ed emancipatrice della verità, istanza fondante per ogni atto logico-discorsivo ed argomentativo orientato ad una revisione critica dei processi educativi, delle diverse forme di agire in essi inscritti e delle pratiche attraverso cui tale agire si realizza. Bisogna infatti tener conto che le pratiche educative sono sempre culturalmente situate, orientate da istanze etiche e valoriali, sostenute da diverse forme di intenzionalità emergenti da specifici contesti storico-sociali di cui bisogna tener conto per poterle comprendere, modificare, orientare, sostenere. D’altronde, solo attraverso un processo

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Teatro e parateatro come pratiche educative

di riflessione sulle presupposizioni (criteri, idee, norme, obiettivi, rappresentazioni, teorie, valori...) implicati più o meno consapevolmente nella prassi educativa, diventa possibile un’autentica emancipazione da possibili forme di alienazione, di distorsione comunicativa, di oppressione (van Manen, 1977). La valorizzazione del livello critico-teoretico della riflessione in ambito pedagogico non implica, tuttavia la messa in ombra di altri piani di discorso ma consente invece di recuperarne appieno (sulla base di un dispositivo meta-riflessivo) la pregnanza e la significatività educativa; ciò può realizzarsi attraverso il disegno di percorsi di riflessione integrati, che vengano a costituirsi, insieme, come analitici, ermeneutici e critici in riferimento alla complessa articolazione e sfaccettatura dei processi educativi e delle pratiche in essi inscritte (Striano, 2001). Ne deriva la necessità della messa in atto di procedure di autoriflessione, che possono realizzarsi attraverso diverse forme di pratica intrasoggettiva ed intersoggettiva, nell’ambito di comunità di attori attivamente e responsabilmente implicati in un costante e sistematico processo di indagine critica sulle condizioni del proprio agire, del proprio conoscere e del proprio esperire. Per questo motivo, nei contesti educativi, la riflessione si configura come uno dei segmenti di un processo circolare in cui uno o più attori riescono ad interpretare una situazione e ad agire in essa in modo razionale e dotato di senso e di significato, mettendo a fuoco le intenzionalità, le motivazioni nonché i condizionamenti culturali e socio-politici sottesi alle pratiche che compongono il loro agire (Carr, Kemmis, 1986). Molto utile è, in una prospettiva riflessiva, l’uso di dispositivi di ricerca-azione e di ricerca-azione partecipativa (Carr, Kemmis, 1986) in cui si coniugano istanze di natura esplorativa, emancipativa e formativa (Orefice, 2006) ma anche dispositivi dialogici, narrativi o teatrali che rappresentano un importante strumento di riflessione e di auto-riflessione nella misura in cui consentono di decostruire e ricostruire funzioni, ruoli, posizioni, prospettive in gioco nei diversi contesti dell’agire educativo su diversi piani e a diversi livelli, e permettono di esplorare sia le problematiche relative alla relazione mezzi-fini nel contesto dell’agire educativo; sia le implicazioni relative alle intenzioni, alle motivazioni, ai vissuti sottesi all’esperienza educativa ed alle diverse forme interpretative che vi si inscrivono; sia le

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La pedagogia critica e le pratiche riflessive 105

credenze, le ideologie, le teorie, i sistemi di valori talvolta impliciti o occulti che orientano l’agire educativo in un determinato momento storico-sociale.

Riferimenti bibliografici

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La parola agita: orizzonti politico-pedagogici di laboratori universitari del Teatro dell’Oppresso a Napoli e Rio de Janeiro

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di Maria Rosaria Strollo e Paolo Vittoria*

Pedagogia Critica ed educazione democratica Al contempo paradigma epistemico e formativo, la Pedagogia Critica è oggi attiva in Europa, negli Stati Uniti e nell’America Latina, ove costituisce comune terreno di meta-riflessione in merito agli orizzonti «eidetici e vocazionali, al congegno ideal-regolativo» (Cambi, 2009, p. 13) della Pedagogia. Ebbene, il paradigma critico genera, almeno sul piano culturale, una rivoluzione del modo di intendere la relazione educativa cui non sempre fa seguito, tuttavia, un’adeguata costruzione di strategie operative. È critica la pedagogia nel suo operare riflessivo, ma lo è anche nelle sue proposte educative, al contempo «sapere-dell’uomo e sapere-per-l’uomo posto all’incrocio di liberazione-emancipazione-formazione» (ivi, p. 30), che prende le mosse dalla critica del soggetto per approdare alla formazione di un soggetto critico. Si tratta allora di un modello a partire dal quale è possibile affrontare il nesso educazione/democrazia le quali appaiono legate da un vincolo ricorsivo: l’evoluzione della democrazia richiede un numero sempre maggiore di persone preparate a vivere in una società * L’intero saggio è opera collettiva così come le ricerche in esso riportate sono l’esito del lavoro sinergico dei due autori. Tuttavia a Maria Rosaria Strollo sono da attribuirsi dal primo al settimo paragrafo, a Paolo Vittoria dall’ottavo all’ultimo paragrafo.

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democratica, mentre il progredire di tale preparazione è, a sua volta, condizione di un ulteriore sviluppo della democrazia stessa. Al di fuori di questo rapporto reciprocamente regolativo la democrazia si traduce in un’appartenenza formale piuttosto che sostanziale, concretizzandosi in atteggiamenti di delega piuttosto che di partecipazione attiva e proattiva, esito quest’ultima di un sentimento di appartenenza al contesto culturale, sociale e politico. Ebbene, a partire da queste premesse, l’educazione al pensiero critico, così come teorizzata nell’approccio pedagogico-critico, appare una via imprescindibile ai fini della formazione di individui e gruppi sociali che siano in grado di partecipare alla vita democratica in maniera eticamente responsabile. Dean Braa e Peter Callero (2006) definiscono la Pedagogia Critica come «a radical approach to education that seeks to transform oppressive structures in society using democratic and activist approaches to teaching and learning». È chiara la ricaduta di questo approccio nell’ambito della didattica istituzionale: se tradizionalmente le istituzioni educative hanno assolto al compito di riprodurre e sostenere lo status quo spingendo gli studenti ad accettare l’ordine sociale come naturale ed inevitabile, sostenendo il ruolo passivo degli allievi nel processo di apprendimento, le pratiche connesse alla Pedagogia Critica si incentrano sulla proposta di problemi da risolvere al di là di ogni risposta precostituita. Apprendere e insegnare non sono attività neutre: non sono semplicemente delle attitudini o delle tecniche, ma delle forme di lettura del mondo. La Pedagogia Critica si definisce tale perché considera l’esperienza educativa situata socialmente e storicamente e per questo non separata dalla realtà storica e dalle relazioni di potere che la attraversano: in questo senso è storico-critica. Ma va oltre la contestualizzazione storica della pedagogia perché guarda all’educazione come a una delle forze di trasformazione delle strutture oppressive della società e, per questo, le attribuisce una profonda responsabilità sociale. Pedagogia critica è storico-critica perché la critica non è fine a se stessa, inoffensiva, inattuante. Non è inoperante. È una critica capace di farsi azione: una prassi nella storia. È in gioco allora il problema della libertà, «del rapporto tra l’inevitabile elemento di conformazione insito nell’educazione e quello, altrettanto indifferibile, della differenziazione, l’esigenza di coniugare

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universale e individuale, appartenenza e auto appartenenza [...] con l’obiettivo – che è il fine primo di ogni atto educativo – di mettere ogni persona affidata nella condizione di divenire legislatore di se stesso, capace di scegliere e scegliersi, di decidere quale sia la propria strada […] senza che altri la tracci per lui» (Fadda R., 2009, p. 47). Secondo il filosofo argentino Enrique Dussel (Dussel, 2009) la prassi di liberazione consiste in due fasi: la prima è composta da un movimento di critica e decostruzione di una data realtà istituita e la seconda è la ricerca di uscita o di liberazione dalla situazione esistente attraverso la creazione di una nuova realtà. In questo senso la critica si rende creativa, deve essere creativa. Tale strategia è molto chiara anche nella Pedagogia degli Oppressi di Paulo Freire (Freire, 2002). Da una parte, il libro tratta del riconoscimento delle oppressioni radicali in situazioni di dipendenza e colonizzazione, dall’altro, propone l’azione dialogico-rivoluzionaria come superamento di tali situazioni. Purtroppo dobbiamo constatare come nella società neo-liberale la critica astratta sia una forma molto comune. Spesso limitiamo il nostro potenziale al pensiero. Ci accorgiamo delle oppressioni presenti nella società, ma non riusciamo a trovare gli strumenti per cambiarle. In questo modo, il pensiero pur essendo critico, perde la relazione con l’agire. Si aliena dalla realtà perché non riuscendo a intervenire ha paura di affrontarla. E si distanzia nella relazione tra coscienza e realtà (Vittoria, 2011b). Una sfida della pedagogia critica è riflettere su quest’alienazione, cercando strumenti culturali, sociali, pedagogici, artistici in grado di accrescere le potenzialità di trasformazione della realtà. Naturalmente si tratta di una sfida complessa, non semplice e frastagliata da ostacoli. L’ostacolo più complesso potrebbe essere quello che la pedagogia critica si basi sulla critica al capitalismo e ai suoi effetti socio-culturali laddove lo stesso mondo scolastico-universitario da cui proviene è impregnato di strutture capitaliste. Certamente si tratta di una contraddizione interna. Una contraddizione che va riconosciuta, ma che non deve impedire l’azione culturale, laddove la Pedagogia Critica non è uno stile accademico isolato, ma uno strumento di dialogo, riflessione e azione con i movimenti sociali in difesa dei diritti degli oppressi e a promozione della capacità di leggere criticamente la realtà in cui si vive.

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Pedagogia Critica e Teatro sociale La filosofia e le tecniche del teatro sociale che stiamo utilizzando in laboratori all’Università di Napoli e di Rio de Janeiro rappresentano per noi una possibilità concreta di relazione tra pedagogia critica, movimenti e contesti sociali. Emerge, di conseguenza, una questione: chi è l’oppresso oggi? Ci avventuriamo in una definizione: “Oppresso/a è chiunque soffre le ripercussioni sociali del processo di interiorizzazione dell’ideologia delle strutture oppressive-dominanti”. A partire dall’esigenza educativa emergente da tale definizione sono stati costruiti e testati empiricamente nel corso degli ultimi dieci anni una pluralità di percorsi formativi volti ad indagare la possibilità di promuovere negli studenti di Pedagogia Sociale un ascolto critico di sé, degli altri e dell’ambiente sociale (Strollo, 2007; Osorio, Strollo 2009) e in tali pratiche inseriamo la metodologia del Teatro Sociale che stiamo sperimentando in un approccio comparato con il corso di Educazione Popolare dell’Università Federale di Rio de Janeiro. Nel contesto sociale la pratica teatrale si presenta come finalizzata all’apprendimento trasformativo, così come definito da Jack Mezirow (1991) il quale distingue tre diversi tipi di prospettive di significato, epistemologiche, sociolinguistiche e psicologiche, individuando una serie di fattori che le condizionano, limitano o distorcono. Tra i fattori che condizionano le prospettive epistemologiche vi sono la portata della consapevolezza e la riflessività, le quali, contribuendo alla definizione degli schemi di significato, ovvero quell’insieme di conoscenze, convinzioni, giudizi di valore e sentimenti che guidano le nostre azioni, necessitano di un continuo esame critico a partire dal quale è possibile operare una trasformazione della prospettiva che generi nuove modalità di azione. È attraverso la riflessione e la critica che è possibile, dunque, prendere consapevolezza dei presupposti specifici su cui si basa una prospettiva di significato distorta o incompleta, trasformandola attraverso una riorganizzazione del significato. Il processo di esplicitazione/revisione delle modalità di azione inizia con uno schema di significato dubitabile o problematico e procede attraverso l’esplorazione, l’analisi, il ricordo, l’intuizione, l’immaginazione, fino a giungere alla costruzione di una nuova interpretazione che genera un cambiamento riflessivo nello schema originario di significato arricchendolo, integrandolo e

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trasformandolo: «quando la nuova interpretazione pone efficacemente in discussione un’intera prospettiva di significato, può sfociare in una trasformazione della prospettiva» (p. 97). A partire da questo processo ha origine l’apprendimento emancipativo che consiste «nella libertà dalle forze istintive, linguistiche, epistemologiche, istituzionali e ambientali che limitano le nostre opzioni e il controllo sulla nostra vita. Noi raggiungiamo questa emancipazione esaminando criticamente i nostri assunti» (p. 99).

Teatro Sociale e Teatro dell’Oppresso A partire dal contesto interpretativo, epistemologico e pratico-sociale appena descritto abbiamo maturato l’idea di ispirarci alle metodologie del Teatro dell’Oppresso create in America Latina dal drammaturgo brasiliano Augusto Boal. Così come in Bertold Brecht, in Boal il senso formativo del teatro si fa politico, ma non si limita a pensare la scena, perché concentra la sua lettura anche sulla platea, sulla possibilità che essa intervenga nelle azioni, suggerisca idee, prenda parte. Così facendo radicalizza la partecipazione dello spettatore in scena. La ricerca sociale non si disgiunge dall’azione politica di emancipazione. Modifica il rapporto spettatore-attore, così come l’educatore Paulo Freire aveva fatto nella relazione professore-alunno, praticando una relazione dialogica, aperta, circolare e, per questo, con potenzialità critiche (Vittoria, 2008). Augusto Boal fonda il Teatro degli Oppressi in Brasile a inizio degli anni Sessanta in un periodo di fervore dei movimenti sociali. Dopo la persecuzione e la tortura della dittatura militare, che aveva preso il potere nel 1964 con un Golpe appoggiato dal governo degli Stati Uniti, si esilia in Argentina, poi in Perù dove partecipa insieme a Paulo Freire a una grande campagna di alfabetizzazione, per approdare in Portogallo e quindi in Francia dove si stabilisce per molti anni e fonda il Centre d’étude et de diffusion des techniques actives d’expression. Il clima di repressione adottato dalle dittature militari latino-americane negli anni sessanta e settanta non riguardò solo Boal e Freire, ma ampi settori della base democratica del Paese. Boal ritorna in Brasile a inizio degli anni ottanta, con la ridemocratizzazione del Paese, contribuisce alla diffusione dei Centri Popolari di Cultura,

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fonda il Centro de Teatro do Oprimido, attualmente attivo nella città di Rio de Janeiro. Ci ha lasciato nel 2009, dopo aver pubblicato un suo capolavoro A estética do oprimido recentemente tradotta in italiano dalla Meridiana (Boal, 2011). Per spiegarci la genesi e l’articolazione del Teatro degli Oppressi, Augusto Boal ha utilizzato la metafora dell’albero, le cui radici più remote sono la politica, la storia, la filosofia e l’etica le quali, mediante gli strumenti del gioco, della parola, dell’immagine e dei suoni e alimentate dalla moltiplicazione e della solidarietà, danno vita alle diverse tecniche da lui create e sperimentate: il Teatro Forum, il Teatro Immagine, il Teatro Giornale, l’Arcobaleno del Desiderio, il Teatro Invisibile, il Teatro Legislativo1. Le radici danno vita all’albero, lo alimentano, lo fondamentano. In senso concreto, etica, politica, filosofia, storia, solidarietà, moltiplicazione sono l’energia vitale del Teatro. In Boal la politica nasce dentro di noi: attraverso il teatro può aprirsi all’esterno. Piuttosto che interiorizzazione di ideologie esterne o deleghe di responsabilità, la politica è emersione e esternazione del senso di giustizia. In questo modo si rincontra col suo significato profondo e creativo. Si realizza nella solidarietà. Negli ultimi anni Augusto Boal insisteva spesso sul pericolo che i mass-media divenissero strumenti sempre più efficaci di oppressione e invasione delle menti, dominando idee e percezioni, imponendo 1

Si tratta di diverse tecniche teatrali create da Augusto Boal durante la sua esperienza di educatore e drammaturgo. Il Teatro Forum problematizza situazioni di oppressione e conflitto sociale, facendo partecipare gli spettatori al dibattito e coinvolgendoli nelle dinamiche teatrali. Il Teatro Immagine utilizza il corpo, il suono e la percezione per ricreare immagini a sfondo tematico e codificarle, rileggendo quella stessa situazione a partire dall’immagine creata che può essere fissa o in movimento. Il Teatro Giornale è un insieme di tecniche pensate e praticate per demistificare la presunta neutralità dei mezzi di comunicazione di massa. Il Teatro Invisibile fu praticato clandestinamente in Argentina a causa della repressione militare: creava in luoghi pubblici situazioni inedite con attori “in borghese” per riflettere su questioni e temi sociali. Il Teatro legislativo, una delle invenzioni più singolari di Boal, ripresenta il teatro come strumento di analisi di conflitti e creazione di leggi per difendere le categorie più deboli. Mediante il Teatro Legislativo, Boal in qualità di consigliere comunale nella città di Rio de Janeiro, riuscì a far approvare varie leggi in difesa delle comunità popolari. (Vittoria, P. Mazzini, R. Augusto Boal. Il teatro per la liberazione. In Vittoria, Vigilante, 2011)

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subdolamente concezioni prestabilite di valori universali come il “bello”, il “desiderabile”, il “certo”, il “brutto”, “il giusto e sbagliato”. La comunicazione di massa si presta, mediante il controllo dei grandi proprietari, all’ideologia del mercato. In una intervista registrata il 27 gennaio del 20092 in occasione del Forum Sociale Mondiale, con tono accorato, esclamava: la parola non è assoluta, il suono non è rumore, e le immagini parlano … sono questi i tre cammini reali dell’estetica: parole, suoni e immagini sono anche i canali di dominazione perché stanno nelle mani degli oppressori e non degli oppressi. Mediante i giornali, la radio, la televisione e il cinema degli Stati Uniti vogliono imporci un pensiero unico fatto di progetti imperialisti e del suo mercato. Non è più il tempo della contemplazione e dell’innocenza. Bisogna agire. Parole, immagini, suoni che oggi sono nelle mani degli oppressori, devono essere conquistate dagli oppressi come forma di liberazione. Non basta consumare la cultura, bisogna produrla. Non basta godere dell’arte, bisogna essere artisti. Non basta produrre idee, è necessario trasformarle in atti sociali concreti e continuati. L’estetica è uno strumento di liberazione.

Quando Boal si riferisce alla liberazione tramite l’estetica vuol dire che non si ottiene eliminando le scorie della comunicazione mediatica, ma creando immagini, suoni, parole, teatro, insomma un’estetica che sia nostra e non della cultura dominante. Del resto, «la politica non è l’arte di fare quello che è possibile, ma l’arte di rendere possibile quello che si deve fare». Non è necessario essere musicisti, artisti, attori affermati per creare arte, perché tutti siamo potenzialmente artisti. «Cercando l’artista troveremo il cittadino», amava dire Boal e «cittadino non è chi abita la società, ma chi la trasforma»3.

I laboratori a Napoli: scuola e oppressione Le nostre esperienze nascono da un’articolazione tra le Università di Napoli e Rio de Janeiro, in un percorso comparato che mette in azione e dialogo i laboratori LEPE (Laboratorio di epistemologie 2 Intervista disponibile in lingua portoghese sul sito http://www.youtube.com/ watch?v=QZbhB3Y-wdE&feature=related 3 Boal A., (2002), Dal desiderio alla legge, Molfetta: La meridiana.

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dell’Educazione) – Federico II e EPNOL (Educaçao Popular no Luar) – Universidade Federal de Rio de Janeiro, all’interno di un percorso di collaborazione più ampia che parte dalla narrazione, focalizzandosi su elementi relazionati all’educazione mediante un’analisi sincronica e comparativa su esperienze di formazione. Nelle esperienze formative consideriamo di fondamentale importanza riconoscere i conflitti: possono essere conflitti relativi alla relazione professore-alunno o genitori-figli o relazioni di genere o ancora oppressioni sociali legate alla vita nelle città di Napoli e Rio de Janeiro che consentono di riflettere sull’esperienza del disagio, della diseguaglianza, dello scontento.

Contesto e obiettivi L’obiettivo è articolare il pensiero con l’azione concreta, esplicitando le connessioni tra ambiti dell’educazione formale, non formale e informale. Immaginiamo, costruiamo e realizziamo laboratori basati sulla riflessione esperienziale, volti ad un’azione educativa autonoma, cosciente e critica nella gestione di pratiche plurali e alternative. Con queste premesse, oltre al teatro, utilizziamo elementi della Biografia musicale e dell’Ipertesto quali strumenti di coscientizzazione sull’esperienza del pensiero e dell’azione socio-educativa. I contesti di Rio de Janeiro e Napoli costituiscono uno scenario particolare in quanto le due città presentano similitudini, analogie e convergenze sorprendenti: nelle due città per secoli il modello coloniale ha lavorato per impoverire molti e arricchire pochi, creando un sistema di sviluppo in cui la crescita della povertà era direttamente proporzionale all’affermazione dei privilegi. Rio e Napoli due capitali … anzi ex capitali. Rio non lo è più dalla fondazione di Brasilia e Napoli dall’Unità d’Italia. In entrambe vivono le ripercussioni storiche di questi profondi cambiamenti. Ma anche due città oppresse dalla criminalità e, al tempo stesso, sorprendenti per la vivacità della cultura popolare. Le mettiamo in dialogo tramite laboratori legate al disagio svolte dagli studenti delle due università.

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Metodo Inizialmente stiamo lavorando col Teatro Forum e con Laboratori Estetici in cui utilizziamo la fotografia, la poesia, il teatro-immagine. Il Teatro Forum è una delle tecniche maggiormente diffuse del Teatro degli Oppressi. Si costruiscono spettacoli che hanno come intenzione quella di rappresentare azioni concrete legate ad oppressioni nella vita sociale, per produrre cambiamenti e possibili trasformazioni, ma soprattutto per riflettere sul conflitto. L’obiettivo non è lo spettacolo, ma lo spettacolo è uno strumento di riflessione all’interno di gruppi o categorie sociali. Tramite tecniche, giochi, esercizi, improvvisazioni, lavori di gruppo, utilizzando il corpo, la voce e il movimento per montare la scena che nasce da esperienze o condizioni di oppressione vissute spesso in contesti educativi, narrate e discusse dal gruppo. Quando arriviamo alla presentazione pubblica (in una scuola, in una piazza, in un’aula universitaria), si interrompe la scena e si coinvolge il pubblico, ponendo domande come: “vedete qui una situazione di oppressione?” “Quale?” “In che contesto?” “E chi sarebbe l’oppresso?” “Chi l’oppressore?” “Perché lui\lei è l’oppresso\a?”. Queste prime domande provocano nel gruppo e nel pubblico riflessioni sulla scena rappresentata, sull’oppressione che, non deve essere vissuta in modo individuale, ma riconosciuta nel suo carattere sociale. Il pubblico si interroga su un problema oggettivo, una situazione reale rappresentata e, in questo modo, comincia a codificare e decodificare quella realtà in movimento. A questo punto si apre uno scenario totalmente nuovo perché lo spettatore non è sfidato soltanto ad utilizzare la parola, ma a rivelare il proprio pensiero nell’azione scenica mediante il suono, l’immagine, il corpo, il movimento: entrando in scena. In questo modo si travalica il confine tra spettatore e attore, tra pensiero e azione, tra palcoscenico e platea e, come dice Boal, non ci sono più spettatori e attori, ma spett-attori.

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Il Teatro Forum su Scuola ed oppressione Le riflessioni che riportiamo si riferiscono ad un laboratorio di Teatro Forum che ha messo in scena un conflitto acre tra una docente e gli studenti dovuto a una forte insensibilità della docente rispetto a un lutto vissuto dagli studenti stessi. Il Forum è stato costruito e problematizzato all’Università di Napoli. In contesti di pensiero eccessivamente caricati di elementi individualistici e terapeutici crediamo che sia importante trattare ed elaborare il tema dell’oppressione non solo in senso soggettivo, ma anche e soprattutto sociale. Riconoscere che le oppressioni che viviamo sono anche e soprattutto la conseguenza di condizioni sociali e ragionare collettivamente cercando socialmente e in modo creativo strumenti di trasformazione. La rappresentazione è stata preceduta da incontri laboratoriali rivolti a 33 studenti frequentanti il Corso di Pedagogia Sociale nell’ambito del Corso di Laurea in Psicologia Dinamica, Clinica e di Comunità dell’Università degli Studi di Napoli Federico II. Nel corso degli incontri gli studenti, già avvezzi a lavorare nell’ambito del gruppo in virtù della comune partecipazione a numerose esperienze laboratoriali pregresse, hanno raccontato episodi di oppressione nella scuola, anche attraverso la condivisione di testi narrativo-autobiografici scritti, tra i quali è stato scelto quello che sarebbe stato messo in scena. Si tratta di una fase, quella narrativa, di estrema importanza ai fini dell’apprendimento, su cui ci soffermeremo in seguito. La valutazione dell’esperienza è stata condotta a partire dalle narrazioni degli studenti per quanto attiene la loro percezione dell’oppressione in contesto scolastico e a partire dai “diari di bordo” redatti durante e a conclusione del laboratorio per valutare gli esiti dell’intervento dal punto di vista tras-formativo.

Oppressione a scuola Le narrazioni degli studenti sembrano ricondurre il tema dell’oppressione a scuola a particolari figure di insegnanti nei quali il narratore sottolinea l’assenza di una propensione ad instaurare con singoli allievi o con l’intero gruppo classe una relazione rispettosa dell’altro.

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Immagini di registri, interrogazioni “a sorpresa”, frasi offensive rivolte agli studenti, si susseguono nei racconti del gruppo ed è chiaro che è ancora quello il punto di vista a partire dal quale guardano la scuola, il punto di vista dello studente: ... tra il suo ritardo, le parole campate in aria, le polemiche svalutanti sul nostro ipotetico futuro universitario finisce l’ora...l’indomani qualcuno l’ha letto […] il capitolo e qualcuno no...chi l’ha letto ha avuto ovviamente difficoltà, ma lei arriva e nonostante avesse detto che ci avrebbe spiegato tutto, si siede e tuona: “ragazzi qualcuno si offre per essere interrogato? o faccio io?” e mentre scorre il suo dito lungo l’elenco del registro io penso a quanto la odio, quanto è incoerente, quanto è ignorante... su quel quaderno del cavolo tiene scritte 4 cose e neanche se le ricorda... ma quando se ne va in pensione?4

Giunti alla presentazione pubblica alla presenza di numerosi partecipanti al seminario, si seguono le tecniche del Teatro Forum appena descritte. 4 E ancora, in un altro racconto: «Lei, di fatto, entrò in classe con la solita espressione di superbia ostentata, con la solita espressione di sfida e l’intima soddisfazione che provava nella consapevolezza di essere lei a dover dire a noi cosa andava fatto e cosa no, e quando andava fatto e come, senza aver mai accolto le nostre proposte di dialogo e le nostre richieste di confronto. Lei non sapeva parlare, sapeva soltanto urlare. Inizialmente urlava senza alcun motivo valido per farlo, urlare era il suo modo di parlare ma risultava irritante e fastidioso e in nessuno di noi aveva mai suscitato simpatia.» Non mancano racconti di oppressione legati al contesto scolastico e ad un sistema di regole cui il docente non sa o non vuole sottrarsi: «...secondo anno delle scuole medie... contesto difficile, scuola situata dentro il quartiere più malfamato del mio piccolo paesino, la metà degli alunni è composta da “ragazzi difficili” (in opposizione ai quali poi c’eravamo noi, quelli che “spiccavano” secondo le parole dei prof -.-) è proposto un progetto di ceramica, facoltativo, al quale è associato un concorso cui partecipano tutte le scuole del paese... ci chiedevano di produrre dei bassorilievi con il calco (o qualcosa di simile, non ricordo benissimo)... della mia classe eravamo circa una decina... tra di noi c’è anche uno di quei “ragazzi difficili” che aveva scelto autonomamente di partecipare... gli incontri di laboratorio non sono tantissimi... siamo seguiti e non seguiti... lui non fa un bassorilievo... forse non ci riesce o semplicemente voleva essere diverso anche in quello... ma con la ceramica fa un vasetto... una ceneriera [posacenere]... non so spiegare... comunque... non risponde alla consegna... alla fine del laboratorio si selezionano i prodotti da portare al concorso... i nostri sono tutti proposti dal nostro prof... il suo no... lui al concorso non ha partecipato... non ha potuto partecipare. Penso a quanto spesso i contesti formativi paralizzano la creatività e opprimono il pensiero...».

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Eravamo in un’aula universitaria: il pubblico era composto da studenti, ricercatori, insegnanti e docenti che stavano partecipando insieme a noi a un seminario sulle “Pedagogie della Liberazione”. La maggioranza dei partecipanti non conosceva ancora il Teatro Forum, di conseguenza, non era al corrente del tipo di dinamica che avremmo attivato. E la dinamica è quella propria di un intervento didattico sul tema dell’oppressione a scuola in cui la tradizionale struttura “letteraria” della lezione si trasforma in azione. La partitura diviene “la struttura dell’azione, non la parola scritta. La partitura deve essere la struttura delle motivazioni, delle relazioni tra gli attori e tra i personaggi – e quindi tra gli educatori e i ragazzi. Una partitura di segni e significati. Quello che c’è in gioco non è il tradurre in attività educative certi obiettivi o tradurre in tecniche didattiche certi contenuti, ma una partitura di segni e di significati in cui l’azione educativa sia svolta sulla base delle motivazioni, delle reazioni e dei contatti fra gli attori di quella relazione” (Massa, 2001, p. 79). Non fu l’intero pubblico partecipante a identificare la studentessa e la classe in generale come oppressa. Questo non era ovvio, soprattutto perché in una metafora della dialettica oppresso-oppressore sappiamo che l’oppresso, per lo stesso fatto di essere oppresso, può opprimere e viceversa l’oppressore può essere tale per aver sofferto l’oppressione. Più di un partecipante entrò in scena sostituendosi a turno alla studentessa oppressa e cercando possibili soluzioni. L’interpretazione della docente ritraeva una donna evidentemente inflessibile e insensibile: probabilmente ingabbiata dal suo ruolo professionale. Per questa ragione, nonostante i numerosi interventi in scena, la “macchina scenica” si è congelata più di una volta, considerando che l’insegnante non accennava a cambiare la sua posizione. Sembrava che il Forum potesse chiudersi senza soluzioni, finché una spettatrice non entra in scena, discute con la classe un gesto dimostrativo, il gruppo unito si alza e in silenzio abbandona la classe. Il silenzio è segnale di rispetto del lutto e di indignazione nei confronti dell’insegnante. Solo un’azione di gruppo poteva alterare le relazioni di potere tra l’insegnante e gli studenti. Questo gesto della classe (e non di un individuo solo) ruppe la cristallizzazione del potere ed aprì nel seminario la discussione generale sull’esperienza agita da parte di tutti i partecipanti al Forum.

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La ricerca non era del “lieto fine”, ma della riflessione sulle relazioni di potere e degli strumenti di dialogo (di cui fa parte anche il conflitto) che potevano alterarla. Poiché l’insegnante si era mostrata indisponibile al dialogo, soltanto l’unione tra gli studenti (in questo caso gli oppressi) poteva cambiare il gioco delle relazioni.

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I “diari di bordo” Per quanto attiene ai diari di bordo redatti nel corso e a conclusione del laboratorio, si è proceduto alla loro lettura individuando diverse categorie attraverso un’analisi del contenuto, sacrificando diversi dettagli, ma consentendo anche una maggiore ‘maneggevolezza’ che ha favorito la ricostruzione della processualità sottostante l’attività formativa. I diari di bordo sono stati sottoposti ad un’analisi qualitativa operata da un gruppo di tre giudici indipendenti, due coinvolti nell’esperienza ed uno esterno, che hanno costantemente discusso le loro osservazioni. Questa triangolazione ha consentito di ovviare alla possibile inclinazione a interpretare le evidenze in termini che tendono a confermare le aspettative e le congetture iniziali dei ricercatori direttamente coinvolti nell’esperienza. Una terza fase, infine, ha previsto la ricostruzione dei significati delle procedure e strategie attivate dagli studenti alla luce delle premesse teoriche dalle quali ha avuto origine l’ideazione e la costruzione dell’esperienza. Questa fase di ricostruzione ha richiesto l’integrazione e la ricomposizione di elementi separati. Dall’analisi condotta è possibile individuare alcune categorie significative trasversali ai diversi diari: – possibilità di elaborare vissuti di oppressione attraverso la narrazione e la messa in scena. Il teatro ha rappresentato uno spazio di elaborazione, di metaforizzazione dell’esperienza, uno spazio di esplorazione psicologica e culturale che ha visto il suo completamento nella elaborazione dei diari intesi come momento critico autoriflessivo, in cui la decostru-

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Teatro e parateatro come pratiche educative

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zione dell’esperienza educativa narrata viene esplicitata, analizzata, interiorizzata.5 – apertura a soluzioni inaspettate ed abbandono di risposte precostituite. Come abbiamo anticipato, la maggior parte delle esperienze narrate fa riferimento a situazioni in cui il docente è vissuto come oppressore. Si è trattato di affrontare uno dei compiti di sviluppo propri della tarda adolescenza relativo all’incontro/scontro con le istituzioni e l’elaborazione di una rappresentazione di sé che tenga conto dei condizionamenti e delle limitazioni sociali. La tendenza a trasformare il particolare in legge generale e la difficoltà a cogliere gli elementi che costituiscono un problema può essere superata attraverso la negoziazione del “senso” dell’esperienza peculiare del teatro forum (Gigli A., Tolomelli A., Zanchettin A., 2008, p. 87)6.

5 Alessandra: «Sara ha raccontato per prima la sua storia, forse perché la portata della sua storia era qualcosa che travalicava i confini del rappresentabile, qualcosa che esigeva di essere raffigurato, messo in scena, qualcosa di inelaborato, sicuramente, ma probabilmente di inelaborabile nella sua cruda spietatezza. Qualcosa che non si poteva soltanto raccontare, qualcosa che andava vissuto e rivissuto, qualcosa che andava agito, incarnato. Si, la parola agita è parola incarnata, parola sanguinante, di quando le emozioni ti affondano i loro artigli nel petto e ti fanno scendere una lacrima anche se sei in aula, anche se sei seduta tra professori e dottorandi, anche se tu non ami piangere e meno che mai accetti di poter piangere in pubblico». Valentina, che è stata la protagonista della storia narrata e problematizzata attraverso il Forum ha ammesso: «ad alcuni viene da ridere come anche a me, ma il rendermi conto dell’importanza del far evincere la situazione di oppressione rappresentava per me un compito di forte responsabilità, come ha rappresentato per me la liberazione da un oppressione. Il non aver mostrato per anni la violenza da me subita, mi ha dato l’opportunità, attraverso la recitazione, di poterla esprimere a piena voce questa oppressione. Arrivato il momento dell’inizio del seminario mi sentivo in ansia, sentivo il peso della responsabilità di dover mostrare al pubblico questa oppressione, di dovermi e dover riscattare attraverso questo ruolo da una oppressione fin troppo presente nelle agenzie educative». 6 Giusi: Con mio grande stupore la platea riconosce all’unanimità che il vero oppresso è l’insegnante: è lei ad essere oppressa da quella situazione di lutto dei suoi studenti che non riesce a tollerare. Tutto ciò mi porta a riflettere. Avevo da subito creduto che l’oppresso fosse in questa storia rappresentato dal gruppo classe e che l’oppressore fosse l’insegnante. Mi rendo a poco a poco conto di come quella

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– mutamento dell’idea di politica L’azione politica si può definire come «azione e discorso che si attua tra gli altri per costruire insieme un mondo umano» (Mortari, 2005, p. 43) e necessita di una educazione che implementi l’abilità di narrare fatti, esprimere giudizi, inventare mondi, cogliendo il senso degli eventi, giudicandoli criticamente, prendendo posizione rispetto ad essi, ideando l’altrimenti rispetto all’esistente. Ebbene, proprio attraverso un pensiero che non si chiuda in uno spazio intrasoggettivo, ma sia inteso come attività intersoggettiva con l’obiettivo di “pensare insieme” le questioni fondamentali della vita politica e sociale, esperienze educative incentrate sul teatro dell’oppresso consentono di organizzare un contesto in cui prenda forma una comunità di discorso in cui il costante confronto con gli altri arricchisce di nuove prospettive favorendo la liberazione dall’«asfissia cognitiva connessa all’illusione di un’autosufficienza soggettiva», (ivi, p. 54)7.

visone delle cose fosse stata influenza dal mio personale vissuto dell’insegnante come figura oppressiva e degli studenti come oppressi e sono spinta ad entrare più nel profondo del concetto di “oppressione”. È l’insegnate ad essere oppresso da chi,sentendosi oppresso a sua volta,agisce un’oppressione cercando ciò che questa insegnante non può dare perché non riesce a tollerare. Daniela si interroga sulla relazione oppresso-oppressore: «Differentemente da come mi aspettavo le risposte non sono immediate, il pubblico non riconosce soltanto la classe e Sara come oppressi,ma anche la professoressa che non riesce ad avvicinarsi alle proprie emozioni e nel negarle adotta un atteggiamento autoritario con la classe che le si rivolta contro aggredendola a sua volta.» Come afferma Alessandra «Quando si entra in scena si perde la certezza assoluta delle proprie idee, perché si viene immediatamente messi in discussione. Questo è il senso del Teatro-Forum di Boal, in cui lo spett-attore entra direttamente in scena problematizzando con la sua azione possibili alternative di trasformazione, questo è il senso dello scendere sul campo, dello sporcarsi le mani, dell’azione che si rende prassi educativa grazie ad un processo di metariflessione.» 7 Ilaria: «Non avevo mai pensato che la politica potesse essere qualcosa di bello e qualcosa di umano… non avevo mai pensato che la politica, quasi al pari di un sentimento viene da dentro di noi, è una nostra intima produzione.. L’avevo piuttosto immaginata come una produzione abbastanza malefica, fatta da uomini corrotti assetati di potere ... qualcosa di brutto, subdolo e qualcosa che non posso capire perché non mi appartiene.. mi sbagliavo…» Alessandra: «Emancipazione che nasce dalla costellazione che siamo, dalla possibilità di guardare un mondo altro, di guardare un altro modo di fare educazione, di formarci e di formare. È un avanzo di magia quello che si è giocato oggi, nella

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Teatro e parateatro come pratiche educative

I laboratori a Rio de Janeiro: dalla fotografia alla poesia

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Un’esperienza di riconquista di sentimenti e emozioni sedimentate e, fino a quel momento poco elaborate, è sfociata, nel Teatro Forum, in una riflessione attiva su una condizione sociale di oppressione. Strumento efficace di politica della discussione. L’estetica dell’oppresso, secondo Boal, si riconosce in un insieme di attività creative che hanno come principio quello di disarticolare quelle strategie del sistema dominante che inducono gli oppressi a

ricchezza di quanto si è dato, nella gioia di quanto si è condiviso. E io ho avuto il coraggio di alzarmi e di provare a fare qualcosa, e sicuramente avrei dovuto mandare a quel paese quell’insegnante oppressiva, perché non devo sempre capire gli altri, non devo sempre avere paura di vivere e di sbagliare, perché la paura di sbagliare e di fallire mandando a quel paese la docente è quella che non ti fa vivere, e ti rinchiude nelle prigioni dell’assertività.» Noemi: «È stato eccitante vedere tutto questo da dentro, cioè, vedere effettivamente e concretamente come può essere che un gruppo, una folla, una comunità, si possa identificare ed interrogare rispetto all’ingiustizia che vede e non solo riflettere rispetto ad essa, ma cercare soluzioni creative, propositive. Mi viene da dire che tante persone “si sono messe in gioco”…e rifletto ancora su questo mettersi in gioco…che significa? Mi rispondo a questa domanda con un’altra domanda che ci ha provocatoriamente lanciato la prof.: qual è la differenza tra parola detta e parola agita? La parola detta non ti mette sempre in gioco, cioè, è una parola dietro la quale ci si può nascondere, è qualcosa che può sfuggire, scappare (anche se non è sempre del tutto vero), la parola agita invece è una parola incarnata, con cui gioco forza ci torni a fare i conti perché ti lascia qualcosa proprio a livello fisico, e poi è qualcosa che si porta dietro tutta l’ambivalenza e le contraddizioni che spesso animano il nostro parlato…è una parola che si serve di più canali non sempre in accordo tra loro, e a dispetto di quanto comunemente si possa pensare per me la parola agita è autentica…e mi diverte pensare di cogliere l’autenticità attraverso la finzione scenica…ecco la parola agita è capace di metterti in crisi.» Fabio ritrova la politica che coinvolge parole, immagini e suoni come percorso di liberazione. Fabio: Chiudiamo il nostro saggio con le sue parole che, a nostro avviso, rivelano tratti essenziali della pedagogia critica nel suo rapporto tra desiderio e azione: «Ritrovare la politica che nasce da dentro, le forme comunicative che democratizzano le relazioni, ciò che coinvolge suoni, immagini, corpi, movimenti, che inventa e reinventa linguaggi, è la via attraverso cui l’emozione diventa sapere critico, diventa apertura sul mondo. Non è catarsi, non ha la presunzione di fare Teatro né Letteratura, ma liberazione mediante azione. Per fare in modo che la esperienza sia trasformativa, non basta smuovere sensazioni sclerotizzate, ma bisogna organizzare il pensiero. Muovere il desiderio verso la azione».

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La parola agita

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sentirsi incapaci di creare, partecipare e decidere. Entra in contraddizione con i principi del consumo passivo stimolando la produzione creativa e critica di cultura e arte.

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Nel Teatro dell’Oppresso il processo estetico deve essere un’esperienza di potenziamento dei partecipanti mediante l’appropriazione dei mezzi di produzione teatrale, attraverso la scoperta di potenzialità individuali e collettive e di eliminazione di ciò che limita la creatività. Un’estetica che oggettiva la sinergia artistica e promuove la lettura critica e l’intervento per la trasformazione attiva della vita in società (Santos, 2012).

In questo senso, le attività non si limitano al teatro propriamente detto, ma si aprono a esperienze che provocano la percezione e l’espressione: giochi di immagine, poesie, fotografia, ritmi corporali, immagini sceniche, danze che rappresentano movimenti e situazioni della vita quotidiana tendono a de-meccanizzare il movimento, la parola, la percezione e a socializzarla. I laboratori che stiamo facendo a Rio de Janeiro si ispirano a concetti, pratiche e principi dell’estetica dell’oppresso. In principio stiamo lavorando con circa quaranta studentesse e studenti del corso di Educazione Popolare dell’Università di Rio de Janeiro, con l’intenzione di ampliare le esperienze nel progetto di estensione universitaria Educaçao Popular no LUAR8 e nel corso di Pedagogia Sociale dell’Università di Napoli attivando percorsi dialogici-comparativi. Inizialmente siamo andati a ritrarre situazioni di disagio e conflitto nella città di Rio de Janeiro, fotografando immagini di oppressione nella vita quotidiana: dietro alla macchina abbiamo cercato immagini che simbolizzino ingiustizia, conflitto, insoddisfazione ... e le abbiamo condivise col gruppo in aula. Le foto che “traducono” l’oppressione fanno parte di un percorso di dialogo e scoperta, riflessione in gruppo. La fotografia si propone come strumento di codificazione e decodificazione della realtà dell’oppressione non letta più nella sua singola quadratura, ma ripensata in un significato più ampio che ne traccia le radici sociali. Alla ricerca del fenomeno sociale. 8

Progetto dell’Università di Rio de Janeiro in collaborazione con la Compagnia di danza LUAR teso a creare percorsi culturali in zone della città soggette a oppressione socio-economica. Il progetto si basa sull’arte e sulla percezione estetica come strumenti di coscuentizzazione e azione sociale.

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La nostra idea di ricerca non si limita all’ambito logico-razionale, ma coinvolge aspetti sensibili, emotivi, estetici, consapevoli del fatto che pensiero simbolico e pensiero sensibile non possono essere divisi in modo dicotomico, come in una separazione, una frattura netta, ma si articolano in ambiti compenetranti (Maturana-Varela, 1999; Boal, 2011). Gli aspetti sensibili hanno i propri risvolti logici e hanno le potenzialità di organizzare il pensiero tramite la creatività e il sentire. Le immagini scattate sono state oggetto di discussione e riflessione e hanno riportato questi ambiti di studio: – – – – –

Oppressione e questione di genere Oppressione e miseria Oppressione e razzismo Oppressione e comunicazione di massa Oppressione e sistema educativo

Prima di andare a elaborare i singoli temi come ambiti della ricerca, abbiamo ritrasmesso tutte le immagini in aula e ogni partecipante si è soffermato su un’immagine in particolare (che non fosse la sua) e che lo ispirasse per comporre poesie. Con le luci basse e una musica lieve di sottofondo, ci siamo dedicati alla poesia. In questo, come in altri momenti laboratoriali, ci siamo resi consapevoli che non esistono liberatori e liberati, ma che la pedagogia sociale e l’educazione in senso ampio possono creare strumenti di riflessione comune tra insegnanti e studenti sulle strutture di oppressione e le prassi di liberazione. Comuni, perché noi, in ogni incontro e ogni spazio di lavoro, impariamo insieme, cambiamo, ci trasformiamo. Impariamo ed, imparando, insegniamo. Ci mettiamo in gioco. Non crediamo che una singola esperienza possa essere motivo di trasformazione assoluta, ma che possa riaccendere qualcosa che già esiste in noi e che un sistema alienante e individualista ha reso fragile e a volte irriconoscibile. Si tratta del desiderio di aggregazione, di socializzazione e creazione collettiva. Si tratta della volontà di riconoscersi nell’altro, di entrare nelle emozioni e nelle riflessioni dell’altro, perché il dialogo non è fatto soltanto di parole, ma di sguardi, pensieri, gesti, mani, piedi, suoni, sensazioni.

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In circolo ci siamo scambiati le poesie e ognuno di noi ha letto poesie di altri “compagni di viaggio”. La lettura in circolo, in piedi e tenendosi per mano, è un altro momento importante che risignifica la narrazione (non di sé, ma dell’altro) e armonizza il vicino e il lontano in voci che si incrociano. Riporteremmo tutti i versi e le parole lette in quel momento, ma per ragioni di spazio ne scegliamo una parte che consideriamo significativa per la lettrice o il lettore. Chiudendo questo nostro saggio con la lettura o l’ascolto di parole … in poesia. Mutare è Azione Cosa possiamo aspettare da una società crudele che invece di giudicare il colpevole mette l’innocente nel banco degli imputati? Massacro, odio e oppressione Questo vediamo nella nostra Nazione I poveri si consumano nella propria vecchiaia Quando potremmo seguire leggi e direttrici della nostra Costituzione Come se non bastassero i dolori della vita … durante gli anni Dobbiamo anche sopportare Disperazione, miseria e inganni Dentro carte e cartoni, invisibili per le strutture sociali vivono “solo” in milioni. Ridotti a niente Vivendo la vecchiaia naturale Stanchi di tutto. Solo la morte li può portare? Alziamo, allora, la bandiera dell’indignazione E andiamo a trasformare le parole … in azione Trasformando la nostra visione in questione.

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Teatro e parateatro come pratiche educative

Riferimenti bibliografici Boal, A., (2002), Dal desiderio alla legge. Manuale del teatro di cittadinanza, Molfetta: La Meridiana. —, (2009), Il poliziotto e la maschera. Giochi, esperienze e tecniche del teatro dell’oppresso, Molfetta: La Meridiana, 2009. —, (2010), L’arcobaleno del desiderio. Manuale per la pratica del teatro dell’oppresso, Molfetta: La Meridiana.

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A lezione dai linguaggi della musica. Programma di ricerca organizzativa e di management education

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di Luigi Maria Sicca

I confini del programma di ricerca e di management education In questo intervento vi propongo i risultati di un programma di ricerca (tradotto in esperienza didattica) che porto avanti da alcuni anni, sperimentato e condiviso con studenti di laurea triennale alle prime armi con i codici ed i linguaggi del management, fino a quelli di laurea magistrale, di dottorato o di master. Ma anche in contesti di alta formazione con manager e professionisti già in carriera1. Un’esperienza che ha direttamente a che fare con la dimensione corporea, estetica e relazionale, a fondamento della pratica educativa e formativa che ci proponiamo di mettere in evidenza in questo convegno. Nel corso degli anni, questo



Questo scritto riprende ed elabora la relazione, tenuta dall’autore, nell’ambito del convegno: ”Theatre Paratheatre Arts and Active Culture between search for knowledge and pedagogical practices”, Napoli, 28-29 ottobre 2011 – Sala degli Angeli, Università Suor Orsola Benincasa. Per facilitare la lettura e riportarla a quel contesto relazionale, si prediligerà l’andamento discorsivo della narrazione a scapito del sistematico rimando alla letteratura di riferimento. Rinviando però alla bibliografia finale, vera testata d’angolo dell’esperienza di ricerca e della sperimentazione didattica di seguito proposta. Buona lettura! 1 Tra le numerose organizzazioni coinvolte si ricordano (in ordine alfabetico): Anm – Associazione A. Scarlatti, Ente Morale – Atitech – Ansaldo-sts – Clinica Mediterranea – Comune di Napoli – Comune Filine Valdarno – Conservatorio di Musica di Benevento, N. Sala – Ente Autonomo Volturno – Equitalia Polis – Fondazione Ravello Festival – ENI – Ina Assitalia – Intesa San Paolo – La Doria – Loreal – Optima Italia – Pmi Sic – Shl Italia – StellaFilm – Telespazio.

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Teatro e parateatro come pratiche educative

percorso di ricerca e di management education si è istituzionalizzato con l’etichetta: “Capacità di ascolto e organizzazione aziendale: musicisti e manager per la formazione di una generazione”.

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Il setting Il setting entro cui si è svolto il programma è quello dell’incontro tra musicisti e manager afferenti a settori anche molto diversi tra loro: entrambi disposti a mettere (e mettersi) in gioco con il proprio portato di esperienze professionali, ma anche di vissuti emozionali connessi alle pratiche quotidiane delle proprie comunità professionali di riferimento. I principali momenti di incontro da ricordare sono: 15 aprile 2005: master in marketing e service management, Università degli Studi di Napoli Federico II. Analisi dei modelli di leadership attraverso l’esperienza diretta dei partecipanti alla direzione di coro e d’orchestra2; 10 maggio 2008 corso di Organizzazione Aziendale, Università degli Studi di Napoli Federico II. Costruzione del coro “Libiamo ne’ lieti calici” dal primo atto della Traviata di G. Verdi (scena II)3; 22 marzo 2010: corso di Organizzazione Aziendale, Università degli Studi di Napoli Federico II. Un trio d’archi4 si incontra per la prima volta in quella formazione (team building) e prova – alla presenza di un pubblico partecipe – il trio di F.J. Haydn, op. 100 per 2 violini & cello: 20 maggio 2011: corso di Organizzazione delle Aziende e della Amministrazioni Pubbliche, Sala degli Angeli, Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. L’ensemble Ludwig van5, si presta a due ore di “prove aperte” con lo studio del settimino di Beethoveen op. 20. Un gruppo, in questo caso, già da tempo impegnato a studiare insieme (team working), che si è concentrato su alcuni passaggi che in quella fase di preparazione risultavano critici, in vista di una possibile “uscita” sul mercato, da lì a poco, con un prodotto artistico vendibile; 2

Francesco Vizioli, direttore d’orchestra. George Pehlivanian, direttore d’orchestra. 4 Alain Meunier, violoncello (e coordinamento musicale) – Alberto Maria Ruta e Rossella Bertucci, violino 5 Daniele Colombo, violino – Filippo Dell’Arciprete, viola – Marco Vitali, violoncello (e coordinamento musicale) – Alessandro Mariani, contrabbasso – Luca Sartori, clarinetto – Simone Baroncini, corno – Francesca Alterio, fagotto. 3

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A lezione dai linguaggi della musica 131 20 settembre 2011: master HR Suor Orsola Benincasa. Francesco D’Errico jazz trio: pianoforte batteria e contrabbasso6 sviluppano i temi di team building e di team working, attraverso le dinamiche dell’improvvisazione che caratterizzano i linguaggi del Jazz; 7 Febbraio 2012, Master in Management, Marketing e Comunicazione della Musica, Università La Sapienza, si è lavorato chiedendo ai partecipanti di costruire “In C”, testo di Steve Reich, mettendo in campo un’azione organizzativa fondata sul senso del learning by doing7.

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La domanda didattica/di ricerca La domanda di ricerca, in prima battuta, e successivamente di management education si attesta sull’urgenza epistemologica di andare a fondo in una riflessione che interessi le origini delle conoscenze manageriali. Urgenza epistemologica che trova riscontro, però, in un dato di realtà cogente, presente e pressante, rappresentato dalla crisi economica che, con i suoi caratteri strutturali e non più congiunturali, impone di dubitare: quale direzione intraprendere per il futuro delle nostre economie e, quindi, quale strada seguire per la formazione delle prossime generazioni di manager e di professionisti d’impresa?

Organizzazioni aziendali e musica: una risposta alla crisi Il nesso che lega le cd “organizzazioni aziendali” ed i linguaggi della musica è utile a comprendere alcuni problemi chiave di gestione delle risorse umane. Specie in tempi di crisi. Non si tratta di richiamare la logica effimera che estende al mondo del teatro o del teatro musicale le logiche del management. Né si tratta di muoversi sul terreno delle metafore: come quella, per esempio, del regista o del direttore d’orchestra alla guida di un gruppo di lavoro. Il nesso che vi propongo è tutt’altro che metaforico: è reale, materiale. Vi sono organizzazioni che vivono e sopravvivono ad ogni passaggio 6

Francesco D’Errico, pianoforte (e coordinamento musicale) – Marco De Tilla, contrabbasso – Dario Guidobaldi, batteria. 7 Con il contributo di Chiara Mallozzi, violoncello (e coordinamento musicale).

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Teatro e parateatro come pratiche educative

epocale da alcuni millenni ed altre – invece – che hanno solo poche centinaia di anni: le prime (pre-capitalistiche), possono insegnare qualcosa (o molto) alle più recenti, che chiamiamo “organizzazioni aziendali”. Si tratta, quindi, di partire dalle organizzazioni piuttosto solide nel tempo e nello spazio, per capirne di più, successivamente, sui processi di divisione del lavoro e di coordinamento che interessano il management delle organizzazioni aziendali più tipicamente studiate in letteratura: quelle che hanno caratterizzato la storia recente, quella del capitalismo industriale. Si schiude, a questo punto, un sentiero di ricerca, di formazione e di possibili soluzioni manageriali ad ampio spettro. Un sentiero dove si stagliano alcune tappe: punti di arrivo e spunti per ripartire.

Organizzazione e testo: divisione del lavoro Ciascun musicista, seduto insieme agli altri in semicerchio in aula, abbandonata la solitudine dello studio individuale sul proprio strumento, si confronta con il tipico dilemma presente nelle situazioni in cui un obiettivo del singolo non è raggiungibile, senza passare per un obiettivo di gruppo. E viceversa, un obiettivo di gruppo passa per il perseguimento degli obiettivi individuali. Un ordito ed una trama: la carta da musica, lo spartito, vero e proprio mansionario. I compiti sono rigorosamente scritti, nero su bianco, attraverso l’alfabeto e la sintassi di quei testi. Ciascuno, per potere dare un proprio contributo al gruppo, sa cosa fare e come farlo: sapere la propria parte è già un punto di arrivo, a valle dello studio individuale. Un primo risultato che si concretizza grazie ai molti e duri anni di scolarizzazione. Eppure, quando ascoltavamo uno solo degli strumenti provare la propria parte, dovevamo constatare che quel “pezzo” – da solo – non diceva proprio nulla. Non serviva veramente a niente.

Coordinamento, interpretazione e tradimento Sono state molte le dinamiche di comportamento organizzativo (Organization Behaviour) emerse durante le varie fasi del ciclo di vita che caratterizzava il lavoro sui testi/spartiti studiati e poi eseguiti. Ve ne è

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A lezione dai linguaggi della musica 133

una, però, a valle di un lavoro di rigorosa fedeltà al testo, che vorrei richiamare in questa sede. L’importanza del tradimento. Sapere tradire (un testo, un compito, una mansione, etc.) in nome di un obiettivo (gratuito o utilitaristico) condiviso è un buon esempio per capirne di più su come saperi (apparentemente) lontani possono reciprocamente darsi una mano. E su come, nel nostro caso, la musica possa facilitare l’apprendimento nei processi di management education. Vediamo allora cosa può significare – tra l’altro – tradire. Dopo aver rispettato alla lettera il dettato della microstruttura del lavoro, eseguendo esattamente “ciò che è scritto”, nessuno dei musicisti presenti in alcuna delle sessioni sopra indicate aveva ancora ottenuto nulla. Solo dopo che ciascuno degli attori organizzativi aveva imparato a leggere correttamente quanto scritto e prescritto dal testo, si poteva giungere ad un risultato di insieme. Una buona ed onesta lettura di una melodia ed una armonia: ben più e ben diverso da quando si ascoltava un singolo (in assenza degli altri), con sonorità monche ed un po’ goffe; ancora molto meno di un prodotto vendibile o acquistabile. Per fruire, insomma, di un’esperienza estetica che, se priva di “interpretazione” sarebbe risultata – contestualmente – priva di senso e di valore. Priva di vantaggio competitivo, rispetto a qualunque altra offerta artistica (o non), in grado di competere con il tempo libero di un pubblico pagante. Quanti trii o quanti settimini (e quanti gruppi, nelle nostre aziende), quante orchestre e quanti cast operistici, nella competizione locale o globale sono in grado di leggere correttamente ed esattamente quanto scritto? E quanti, oltre a “saper leggere”, sanno anche “scrivere”, nel senso di saper costruire e generare? La risposta (e la possibilità per i singoli ed i gruppi di andare al di là di quanto prescritto, di realizzare un vantaggio competitivo rispetto ai concorrenti) è ben chiara in alcune espressioni di senso comune discusse spesso, in questi anni di ricerca e di formazione, tra musicisti e manager: “la magia della musica”, nel gergo un po’ vago e vanesio di gusto salottiero; “il valore aggiunto è nel mio team, questo grande team che ho l’onore di guidare”, nella traduzione aziendalese di un capo intermedio o di un top manager. Frasi simboliche dell’urgenza di tradire. Urgenza evidenziata in una serie di utili sollecitazioni per capirne di più di management education e sulle fonti, le origini da cui provengono i saperi manageriali. I musicisti mentre provano e ri-provano i propri passi discutendone

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Teatro e parateatro come pratiche educative

con (la partecipazione attiva di) manager di differenziata scaturigine rendono evidente a tutti noi come possa essere strategico essere un po’ meno fedeli a se stessi, per cogliere invece le aspettative dell’altro: un “altro” da ascoltare, con cui negoziare idee, obiettivi e risorse. Andare oltre il testo – per i musicisti come per i manager – inteso come atto di (in)fedeltà, rispetto agli obiettivi di efficacia organizzativa. Tradire viene dal latino tràdere per dire: “dare, consegnare, mettere in mano”. Come può, questa etimologia, non evocare recenti abilità di problem solving tipicamente richieste ai gruppi di lavoro che abitiamo tutti i giorni nelle pratiche aziendali? Se si pensa che questo verbo è composto dal prefisso trans che significa “oltre, al di là”, per indicare una trasmissione di qualcosa e dal suffisso dére e quindi “dare”; come è possibile non assegnare al tradimento di ciò che è scritto, una base buona e giusta per “interpretare”? Per raggiungere quindi i nostri obiettivi con qualcosa in più rispetto ai nostri concorrenti?

Formale, informale e decision making Le considerazioni fin qua proposte rendono evidente l’importanza delle istituzioni formative che presidiano i “saperi” ed i “saper fare” umanistici. Le istituzioni che presidiano i saperi umanistici, che fanno sviluppare e crescere conoscenze che oramai hanno superato la prova del tempo (e quindi di obsolescenza) attraverso lo studio, la ricerca ed anche l’uso diretto del corpo, incarnano alla perfezione quel modello di education ipotizzato come “ideale” da uno studioso di Harvard – Henry Mintzberg – inizialmente un po’ in rotta con il dogmatismo dei suoi capi. Un approccio che dagli anni ’70 sostiene che un buon manager (colui che gestisce) deve potere crescere e svilupparsi esercitando entrambi gli emisferi del sistema nervoso centrale: sia quello destro, sia quello sinistro. Sia il femminile, sia il maschile. Sia l’intuitivo, sia il lineare. Sia il corporeo, sia il mentale. Questo approccio va ricondotto ad un altro grande movimento che ha interessato le scienze sociali e, in particolare, gli studi economici. Un movimento che vede in Herbert Simon un esponente fondamentale, con il Nobel per l’economia conseguito nel 1978 «per le sue pioneristiche ricerche sul processo decisionale nelle organizzazioni economiche». Un contributo fondante che, irrompendo nella tradizione del pensiero economico

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A lezione dai linguaggi della musica 135

neoclassico, introduce il concetto di “razionalità limitata” (bounded rationality), di fondamentale importanza per lo sviluppo del pensiero e dell’azione manageriale: la razionalità degli individui è limitata dalle informazioni di cui disponiamo, ergo dai limiti delle nostre menti e dall’ammontare finito di tempo di cui disponiamo per la ricerca delle informazioni, necessarie alla costruzione dei processi decisionali.

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Conclusioni Un manager al cospetto della musica è come un ricercatore in laboratorio: luogo d’osservazione privilegiato per comprendere, sotto il microscopio degli studi di cultural symbolism, fenomeni che riguardano il variegato mondo delle organizzazioni formali, di cui le aziende sono un sottoinsieme. Da cui la possibilità di vedere ingranditi processi tipicamente riscontrabili anche nelle aziende, “oggetti” studiati dalla letteratura di economia e management ed entro i quali si realizza la maggior parte delle attività che interessano l’uomo contemporaneo. Da cui una serie di costruttive provocazioni per la ricerca e la formazione dei manager, di seguito proposti per ampliare (e non chiudere) il dibattito futuro:

Dal testo all’ascolto Si è messa in evidenza la centralità del testo, sinonimo di organizzazione. Il fatto che nessun mansionario o altro testo possa prevedere la capacità di ascolto, per esempio, rende evidente l’esigenza di valorizzare, in azienda, linguaggi e codici idonei a far circolare questa competenza: la difficoltà ed al tempo stesso l’importanza dell’ascolto nelle prassi manageriali interessa qualunque organizzazione, anche la più strutturata, che per progettare e implementare le politiche di sviluppo delle risorse umane deve confrontarsi con il “rischio” di imperfezione rispetto a ciò che è sfuggito nei processi precedenti di pianificazione e rispetto a ciò che sarà nella reale performance. Una dimensione prototipale dei prodotti artistici, che ha molto da insegnare a noi, gente di management, fino a suggerire un’idea di management come manifestazione più palese dell’umanesimo contemporaneo;

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Nuovo o non nuovo, cambiamento e diversità L’esperienza condotta attraverso la ricerca dei linguaggi della musica, traendo spunto dalle tradizioni della cultura classica, può insegnare a manager, studiosi e professionisti delle aziende che molto di quanto oggi sembra “nuovo”, è di fatto presente nel patrimonio di conoscenze, esperienze e tradizioni, della collettività e degli individui. La prudenza nel definire ciò che è realmente nuovo e ciò che è maschera del vecchio è un’urgenza non rimandabile di fronte ai rischi di camaleontismo insiti nell’esperienza della crisi economica, che ha assunto oramai tratti strutturali. Al punto da essere divenuto oggetto di dibattito nella letteratura – specie di critical management – sul cambiamento organizzativo che distingue due categorie concettuali polari: la neophilia e la neophobia, ovvero l’amore e la paura del nuovo. Due poli di un ideale continuum, in grado di pensare alle formazione ed alla formazione delle risorse umane, tenendo conto di quanto sia complesso gestire la diversità, categoria che per definizione fa da spartiacque tra novo e non nuovo. La diversità, insomma (ed il Diversity Management come pratica quotidiana), non è tanto (e non solo) questione di età, sesso o colore della pelle, ma prima di tutto ciò che è a monte delle competenze, in termini di affettività, competizione interna; ma anche storie scolastiche, di istruzione e culturali di ciascun attore nel contesto di azione organizzativa. La ricerca condotta e le esperienze di management education sopra descritte rendono evidente l’esigenza di andare al “profondo” di questo tema che orienta l’azione organizzativa. Dove “profondo” sta a significare comprensione dei linguaggi che sono a monte e che orientano le pratiche e le azioni quotidiane;

Dialettica progettazione-comportamento Diretta conseguenza dell’approccio descritto è ri-ribadire, ancora una volta, una evidenza tanto semplice quanto fondamentale per chi si interessa di management: che le organizzazioni aziendali operano sempre all’incrocio tra dinamiche di comportamento organizzativo e processi di progettazione delle strutture. Una duplice prospettiva di più ampio respiro, rispetto ad approcci unilaterali, ovvero analisi in termini esclusivamente hard (le organizzazioni come “strutture” da

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A lezione dai linguaggi della musica 137

progettare), o esclusivamente soft (le persone a prescindere da un design). L’esperienza che oggi vi ho proposto, a finale, conduce ad alcune riflessioni su cosa i manager possono imparare – in materia di management – dalla musica. A lezione dai linguaggi della musica! Ciascun musicista e ciascun manager coinvolto nella sperimentazione didattica illustrata (alla stregua di qualunque non musicista prestato ad esperimenti di ricerca con la musica), con il proprio strumento (musicale o non) tra le mani ha dimostrato di intendersi di management molto di più di quanto ella/egli stesso potesse immaginare: divisione del lavoro e coordinamento; capacità di ascolto; negoziazione; trade-off efficacia/ efficienza; valutazione di performance, persone e potenziali; dialettica leadership/membership; metodi di team building; motivazione; empowerment, sono tutte dimensioni dell’agire organizzativo. In presentia.

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Teatro e parateatro come pratiche educative

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Terza parte

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L’arte del creare. Tracce ed esperienze di una pedagogia critica

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I teatri di comunità. Quando la ricerca artistica diviene progetto e azione culturale, politica, sociale

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di Loredana Perissinotto

‘Teatri di Comunità’: una definizione, un titolo, un ambito...? Quale che sia, l’importante sì è che le parole siano declinate al plurale: potrebbe essere altrimenti? Per mio modo di vedere ed esperienza, non potrebbe essere altrimenti ed anche all’interno della Storia del teatro occidentale è più funzionale parlare di ‘teatri’, proprio per la stretta relazione esistente tra forma spettacolare e classe sociale o destinatario. Il dizionario definisce ‘comunità’ un gruppo sociale la cui caratteristica fondamentale è un grado medio di coesione in base ad una comune origine, agli interessi pratici, idee e opinioni dei componenti. Si può designare così una realtà locale, linguistica, religiosa, artistica o geografica – comunità d’origine – o storico/geografica come la Comunità Europea, fino alla Comunità Internazionale con caratteristiche economiche oltre che politiche. Al di là delle relazioni e dei vincoli di varia natura, indica un organismo unico i cui componenti cooperano (o dovrebbero cooperare) per soddisfare i bisogni della vita sociale, economica, culturale. Non desidero affrontare il tema nell’ottica storica e socio-antropologica, tanto più che non mancano libri, saggi e documenti di vario genere. Desidero, invece, sottolineare l’andamento ciclico, quindi temporale, che favorisce i ‘teatri di comunità’ e che si gioca in primo luogo su due pronomi: IO e NOI. Anche in riferimento all’oggi, e dopo il marcato individualismo che ha caratterizzato l’ultimo ventennio del

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Teatro e parateatro come pratiche educative

Novecento, quando la parola comunità è accompagnata da aggettivi di nuovo conio quali global e glocal e se ne parla in riferimento ai gruppi comunicanti via internet. Una nuova Koiné... In secondo luogo, desidero sottolineare il significato flessibile di termini quali: attore, destinatario, corpo, spazio, testo, drammaturgia, creazione, comunicazione, ascolto, partecipazione, ecc. Parole ‘aperte’, vale a dire sorrette da una filosofia e da una prassi sensibili al cambiamento; non univoche e neanche storicamente rigide e fissate. Nei ‘Teatri di Comunità’ questi ed altri termini, appartenenti al lavoro e alla comunicazione teatrale, hanno trovato nuove sfumature e aperture. Solo un piccolo passo indietro per annodare alcuni fili della storia e nutrire la memoria. Sul finire degli anni Sessanta, la visione politica basata sul ‘noi’ diventa poetica teatrale per molti artisti ed operatori; si esprime come azione culturale nel sociale e prassi di ricerca artistica a tutto tondo. Nel nostro paese, il decennio settanta del Novecento vede lo sviluppo di tante forme d’espressività, di animazione teatrale, di decentramento culturale, di teatro di strada, di murales, di happening, di valorizzazione delle ‘culture’, di riscoperta di spazi sociali pubblici (magari sotto lo slogan ‘il teatro fuori dal teatro!’ anche come edificio non più corrispondente alle esigenze), di coinvolgimento di cittadini di varia età e censo, di interventi in situazione di ‘normalità’ come di disagio, devianza o difficoltà. Al teatro come ‘discorso’ si contrappone il teatro come ‘linguaggio’ e, di fronte alla ‘società dello spettacolo’ profetizzata da Guy Debord, si tenta di rispondere col rimettere al centro la ‘persona’ e la processualità del fare artistico. Si preferisce valorizzare la formazione attraverso le dinamiche del laboratorio teatrale sia per quanto riguarda i professionisti e gli amatoriali come la gente ‘comune’ che fa altro di mestiere. Si fa largo una visione drammaturgica attenta al contesto umano e sociale, alla scrittura scenica, che elabora quindi la partitura testuale a valle e non in partenza. Un teatro ‘vivo e necessario’, si diceva, come della cultura. Ma vivo e necessario a chi? A chi lo fa e a chi lo sostiene, in primo luogo, ma anche a chi assiste.

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I teatri di comunità 145

I sette quesiti – ‘come, dove, quando, cosa, perché, per chi e con chi?’ – diventano le linee guida di una dialettica basata sul dialogo e la maieutica. Dialogo, in primis, di artisti professionisti con l’utente o destinatario, per coinvolgerlo negli obiettivi, nelle scelte e nella comune responsabilità. Questi professionisti considerano la loro stessa formazione, una formazione in progress e tentano di armonizzare l’ottica del servizio, sotteso al progetto, con la personale ricerca espressiva. Si impegnano nella questione processo/prodotto (a cosa dare priorità?); discutono di una possibile mediazione tra la considerazione strumentale del teatro (verso obiettivi o risultati che non gli appartengono direttamente) e l’affermazione della sua autonomia quale linguaggio articolato, complesso certo, quanto ricco di potenzialità. Detto altrimenti, il considerare le priorità cognitive e tematiche pur sempre all’interno di una visione etica ed estetica. Le valenze educative e civili del teatro, che ritroviamo in tante significative esperienze del primo Novecento e nella lezione dei registi ‘maestri pedagoghi’, come li definiva Fabrizio Cruciani, possono essere più emergenti oppure scorrere sotto, come l’acqua nel torrente ghiacciato o come nel ricambio venoso/arterioso del nostro sangue. In questo sfondo, il destinatario a cui ci si indirizza, lo si cerca e lo si trova nella ‘comunità scuola’, ‘comunità carcere’, ‘comunità di handicap’. Comunità in linea teorica, poiché questi sono spesso solo luoghi (a sfondo educativo, terapeutico, punitivo, assistenziale, ecc.) che per diventare comunità abbisognano di progetti, di azioni e di obiettivi condivisi. Tornando all’oggi, al terzo millennio, la progettualità in questi luoghi nel favorirne il passaggio a comunità, è ancora realizzata all’insegna del ‘noi’. Ha avuto una sua continuità, pur tra molte difficoltà, questa azione artistica e culturale nel sociale che vede impegnati, per scelta, molti operatori e studiosi. Sociale, cioè della polis, e dunque politica. L’agire nel sociale non entra in conflitto con la ricerca espressiva e drammaturgica, tanto che se ne sono accorti pure alcuni teatranti e registi più conosciuti, rispetto ai tanti operatori che da molti anni lavorano coi bambini e giovani nel Teatro della Scuola, coi detenuti nel Teatro Carcere, con varie forme di handicap nel Teatro Integrato e nel

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Teatro e parateatro come pratiche educative

Teatro e Disabilità. L’agire nel sociale non significa, necessariamente scadere nel didascalico o rimestare nell’educativo come qualche allegro, e distratto, spirito potrebbe pensare. Ci vuole molta competenza per arrivare ad un buon lavoro con le persone (non professionistiche) e ad un risultato artistico. Il teatro resta un’esperienza viva rispetto alle tante esperienze virtuali possibili oggi. È, e resta, l’umano linguaggio della presenza e del ‘noi’. Le statistiche che qui riporto non sono aggiornate, ma pur sempre significative dell’estensione del fenomeno anche se non entrano, ovviamente, nel merito della qualità1. Teatro e Scuola – Dati riferiti al 2009* Istituti scolastici partecipanti a rassegne di teatro della scuola 3.400 Rassegne di teatro della scuola 100 Spettacoli 3.600 Studenti coinvolti 90.000 Docenti e operatori teatrali 7.300 Spettatori 1.260.000

Ci sono tante altre scuole che fanno teatro, ma non partecipano alle rassegne: l’89% delle scuole italiane (totale scuole ca. 10.500) mette in scena uno spettacolo di teatro.

Teatro e disabilità Il dato attuale non è verificabile se non attraverso un auspicabile aggiornamento del primo censimento nazionale, realizzato tra il 2000 e il 2002, e solo in parte esaustivo di un ampio fenomeno. Ben 109 su 174 tra gruppi e compagnie censiti si occupavano allora di teatro e disabilità, con una netta preminenza di strutture nell’ Italia centrosettentrionale. Ad oggi, ci sembra verosimile ipotizzare una crescita di esperienze laboratoriali nate all’interno delle ASL; mentre i gruppi teatrali 1 Teatri di Comunità. Persone Culture Luoghi, dvd a cura di Agita per MiBac, 2010. * Fonte Osservatorio Agita e studi campione in Piemonte,Veneto, Campania.

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I teatri di comunità 147

professionali potrebbero aver subito trasformazioni e cambiamenti da analizzare.

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Teatro e Carcere – Dati riferiti al 2005** Istituti penitenziari 207 Detenuti presenti (4,8% di sesso femminile) 59.125 Laboratori teatrali-musicali 178 Detenuti impegnati, di cui 1050 in gruppi di lavoro stabili 1.750 Operatori e/o Compagnie teatrali coinvolte 97 Spettacoli di media all’anno 36

Cosa lega queste comunità tra di loro? Siamo di fronte, ugualmente, ad un doppio destinatario: l’attore/destinatario (interno) e il pubblico/destinatario (esterno). Siamo di fronte ad ‘attori non progettati’ – come si dice – o ‘tremanti’, nel senso che si mettono in gioco con la realtà dei propri corpo e anima, con le emozioni e le ragioni, col testo o l’argomento; che rischiano sulla scena nella verità del loro parlare, muoversi, interagire ... Siamo di fronte ad una propedeutica per far acquisire una ‘grammatica’ teatrale. Siamo di fronte ad una ‘sintassi’: la drammaturgia del testo o della scena o dell’interpretazione, che può rendere problematica la visione poetica dell’esperto, specie se direttiva, e la sua responsabilità verso l’autenticità espressiva. Siamo di fronte a spazi teatrali o teatrabili, al chiuso come all’aperto. Siamo di fronte, spesso, alla mancanza di tempo per un naturale evolversi del progetto e del risultato. Siamo di fronte, spesso, alla mancanza di risorse adeguate e, da che mondo è mondo, in teatro ma specialmente in questi ambiti ‘si fa di necessità, virtù’. Il teatro sorregge perché deve puntare sull’essenziale. Deve affrontare il simbolico, la metafora, la parte per il tutto, l’evocazione... Deve far appello all’immaginazione, all’intelligenza sensibile dello **

Fonte www.giustizia.it.

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Teatro e parateatro come pratiche educative

spettatore... In questo, deve accettare la sfida del superare le difficoltà di vario ordine che gli si presentano e, in questo senso, stimolare ‘cellulette grigie’ e neuroni creativi.

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A quali costanti di qualità il lavoro deve rispondere? Con una formula sintetica, a me cara, ‘alla pedagogia in situazione deve corrispondere la drammaturgia del contesto’. La ‘situazione’ riguarda direttamente la persona e il gruppo con cui s’inizia l’avventura teatrale: chi è e chi sono, che dinamiche relazionali manifestano, che bisogni e desideri, che competenze o abilità, che difficoltà e conoscenze hanno, e via dicendo. La ‘situazione’ suggerisce, e impone, di valorizzare tutti, di trasformare anche una difficoltà o difetto in atto espressivo comunicante. Il rigore e la regola ne fanno parte integrante. Con ‘drammaturgia del contesto’ si vuole indicare la necessita/opportunità di trovare la soluzione scenica più consona a quella specifica situazione (personale ed oggettiva), nella consapevole convinzione di essere tutti protagonisti e partecipi di un atto di ‘con-creazione’. Non ho portato alcun esempio concreto di Teatro della Scuola (ma neppure di esperienze coinvolgenti insegnanti o genitori), né del Teatro Carcere e della Disabilità (ma neppure di esperienze che s’intrecciano e si integrano col resto della comunità/territorio). Volutamente, poiché gli esiti di questo teatro, come altre proposte spettacolari del resto, non possono essere descritti a parole e la visione-presenza attiva dello spettatore chiude il cerchio.

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Il teatro dei luoghi e della relazione come sintesi dei movimenti teatrali del Novecento

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di Roberto Ricco

Le esperienze che il teatro ha realizzato negli ultimi decenni in diversi luoghi sensibili della vita collettiva (scuole, carceri, istituti psichiatrici, ecc.) si sono sottratte a una lettura complessiva a causa della forza identitaria delle specifiche esperienze con le quali si è confrontato. Ogni esperienza costituisce un caso a sé, una scelta radicale di artisti e di istituzioni che tendono a mettere in secondo piano l’interpretazione complessiva attraverso la quale costruire un’immagine e una logica del modello “nomade” del teatro contemporaneo. La crisi di molte esperienze sociale e civili, il proliferare di modelli e di reti di cooperazione, impongono invece una riflessione sull’insieme dei fenomeni che hanno portato, soprattutto in Italia, a esperienze di grande forza artistica e sociale, ma anche a quella grande quantità di esperienze quotidiane che agiscono nei luoghi più diversi del disagio e della sensibilità civile, perennemente in bilico tra azione educativa ed espressione d’arte. Possiamo con certezza affermare che queste esperienze sono conseguenza di una diaspora dai luoghi del rito teatrale borghese, un viaggiare alla ricerca di quelle condizioni in cui il teatro trova nuova forza e senso per la propria esistenza. Questa fuga, iniziata alla fine degli anni sessanta con le esperienze del teatro per ragazzi, si è poi incanalata in tutti gli interstizi istituzionali in cui l’azione dei governi locali e nazionali lasciava margini di azione e di libera gestione, sia da parte dei rappresentanti istituzionali che degli artisti che si impegnavano in questa azione di liberazione del teatro.

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Teatro e parateatro come pratiche educative

La tensione verso la realtà non appartiene solo al teatro ma, seguendo Mario Perniola1, si avvicina all’esperienza dello “choc” o “invasione del reale” nell’arte contemporanea. L’esperienza teatrale è però un’operazione del tutto inversa rispetto a quella dell’arte contemporanea: non è il reale che invade la creazione ma, al contrario, è il teatro che cerca i luoghi dove il reale è presente con maggiore e indubbia intensità umana e simbolica. L’effetto è però simile, la nascita di un sistema di esperienze in cui l’oggetto creativo si giustifica nella rappresentazione di una verità, di una crudezza, di una forza che altrimenti sarebbero impossibili. Perniola, nell’individuare le due correnti contrapposte dell’arte/ mercato e dell’arte/reale, riconosce una terza opportunità che si traduce in una zona d’ombra, la “cripta”, luogo di isolamento dalle zone di influenza del reale e del mercato, dove le arti visive possono ritrovare nella difficoltà della rappresentazione, la parole pleine2, come la definisce Lacan, in cui esperire il valore simbolico e non esaustivo dell’oggetto artistico. Seguendo il filo di queste riflessioni si può mettere in risalto la vitalità dell’esperienza nomade del teatro in quella che per l’arte contemporanea è la contrapposizione tra “choc del reale” e “cripta”, mentre per il teatro rappresenta una felice sintesi di ricerca. Il teatro civile, nel suo richiudersi in un luogo di predilezione, entra nel reale e lo elegge a luogo di senso, ne legge le contraddizioni e le istanze e le reinterpreta attraverso un’azione creativa che ha più capacità di parlare al presente e di accogliere la parole plein in quanto luogo vivo e di relazione. La relazione è l’elemento caratterizzante questa esperienza teatrale. Anche nell’arte contemporanea il valore dell’arte del reale si incontra con l’esperienza della performance per realizzare quella che si definisce “arte pubblica”, un insieme di pratiche che si concretizzano nell’approccio con la dimensione sociale e civile del territorio, con la sua dimensione urbana e la sua naturale fattualità antropologica. In questo, l’esperienza teatrale anticipa quella delle arti visive di almeno trent’anni.

1 2

Mario Perniola, L’arte e la sua ombra, Torino: Einaudi, 2000, p. 3. Ivi, p. 15.

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Il teatro dei luoghi e della relazione 151

Il primato della relazione nell’esperienza teatrale attraversa tutto il Novecento, assumendo forme differenti, dalla nascita dei metodi di formazione dell’attore alla ricerca di registi come Craig fino a Brecht, per giungere al teatro antropologico e a Peter Brook. Questa linea di lavoro passa dall’esperienza disallineata di Jerzy Grotowski in cui la rinuncia alla logica della rappresentazione si consuma interamente in funzione di una profonda necessità di relazione, di verità parateatrale, che ha generato un modello difficilmente ripercorribile ma i cui presupposti sono alla base di innumerevoli esperienze teatrali e in particolare di moltissimi esperimenti di teatro civile e sociale. Il tema della relazione è dunque al centro di una serie di pratiche che si concretizzano nella ricerca di luoghi e soggetti sensibili con i quali avviare una ricerca artistica sia formale che di contenuto ma soprattutto di intervento in un’isola sociale nella quale realizzare un’intensa dimensione comunitaria basata sulla ricerca di valori e identità. La dimensione urbana è di conseguenza il territorio di ricerca più aperto e promettente in cui le diverse esperienze artistiche trovano forti contiguità e sinergie tuttora poco confrontate e sintetizzate. In questa assenza di riflessione si consuma la debolezza dei valori della relazione in quanto sintesi della parte artistica e di quella civile. Proprio per questo ancora troppo spesso ci si trova di fronte alla contrapposizione tra dimensione civile (il teatro dei valori, della liberazione e della narrazione) e della ricerca (il teatro poetico e delle simbologie) che provoca un indebolimento di queste forme perché le priva dello spessore di cui necessitano, riducendole a luogo marginale della ricerca teatrale contemporanea. Questa sintesi è felicemente descritta da Eugenio Barba ricavandola da Jarry e dal suo Nulle Part: … il reame di Nulle Part come un regno abbandonato dai suoi re e della sue regine. La sua vita è regolata da molte discipline e nessuna Legge. È il luogo in cui si può dire “no” senza sprofondare nella negazione degli obblighi e dei legami. È il luogo del Rifiuto che non si separa dalla realtà circostante, anzi, dove l’atto di rifiutare può essere cesellato come un gioiello, come una favola attraente, che poi ci sorprende, quando ci sembra che parli di oggi e proprio a noi3. 3

Eugenio Barba, Discorso in occasione del conferimento della Laurea Honoris

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Teatro e parateatro come pratiche educative

Nulle Part è dunque la visione di un teatro che si manifesta contraddittoriamente in ogni luogo, proprio nel rifiuto del legame identitario a vantaggio di un territorio multiforme e multiculturale dove le identità si manifestano in un sistema di relazioni tra radici ed esperienze diverse. Il salto all’oggi ci riporta a una sistema di sperimentatori di quell’enorme patrimonio di domande e di saperi che il Novecento ha accumulato. Il teatro che dai maestri si trasferisce al movimento teatrale passa da forme di sperimentazione di grande spessore critico e metodologico ad una apertura delle frontiere della pratica, lasciando libero spazio alla ricerca di un contesto specifico di azione poter ritrovare un Nulle Part ancora palpitante di vita. Una delle modalità primarie del nuovo teatro a partire dagli anni ’70 è la ricerca di contesti adeguati alle domande di verità, efficacia, libertà di cui il teatro si è fatto carico nei decenni precedenti. Si comincia con il teatro per ragazzi negli anni ’70 e si giunge oggi a constatare con stupore la continua nascita di esperienze in quartieri disagiati, carceri, scuole. Luoghi, questi, dove identificare un pubblico che, per definizione, motivasse l’urgenza di una pratica assieme artistica e pedagogica. “Urgente” diventa una parola chiave della pratica teatrale consegnata al disagio o al bisogno di liberazione. La necessità molto spesso si trasforma in rapidità di risultati, necessità di dimostrare l’efficacia del proprio agire in mancanza di una direzione di ricerca a lungo termine. Il rischio principale di questo sistema teatrale è dunque proprio l’urgenza di dimostrasi utile negando il valore a lungo termine della relazione creativa e pedagogica. Questa “fretta”, fortemente strutturale, è all’origine della carenza di una riflessione adeguata attorno all’incontro fra pratica artistica e educazione. Almeno una riflessione che sia capace di guardare alla complessità delle esperienze artisticamente possibili, alla complessità delle situazioni affrontate e a una inevitabile appartenenza di questi elementi a un contesto sociale più ampio. In questa sede facciamo solo un tentativo di definizione dei grandi argomenti che costituiscono gli estremi di questa riflessione. Causa dall’Università di Varsavia, 28 maggio 2003. Cfr. Ateatro 53.3. http://www. ateatro.org/mostranotizie2bis.asp?num=53&ord=3

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Il teatro dei luoghi e della relazione 153

Estremi che si esplicitano attraverso la definizione di tre confini lungo i quali si consuma la pratica del teatro civile.

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1) Il doppio ruolo. Nello sviluppo delle pratiche teatrali in contesti che possiamo definire in maniera ampia “sensibili”, si confonde spesso tra una pratica pedagogica, che cioè regola un’esperienza di apprendimento e scambio, e una pratica registica che trasferisce, cioè le nozioni e gli spazi di protagonismo utili alla realizzazione di una messa in scena. Le due esperienze spesso sono ovviamente legate da una disciplina di lavoro, da una pedagogia dell’attore, ma questo sistema duale viene spesso abbandonato da una pratica fortemente sperimentale. Mancano spesso il tempo e le condizioni per costruire un setting adeguato alla ricerca di un metodo naturale e originale per un determinato contesto. Il regista e il pedagogo, pur coincidendo in una sola persona, entrano facilmente in conflitto. 2) La doppia istituzione. In Italia siamo abituati a sviluppare pratiche di lavoro in interstizi istituzionali senza spesso valutare le conseguenze di questa “intrusione”. Spesso sono le istituzioni a avviare un progetto teatrale ma questo non cambia lo statuto primario del processo: attivare una pratica sostitutiva di un servizio sociale, di un intervento educativo. Dimentichiamo spesso che le istituzioni all’ombra delle quali svolgiamo questo lavoro, posseggono una forza di inerzia che attira il lavoro teatrale verso una normalizzazione che si basa su motivazioni profondamente differenti da quelle di chi pratica il teatro in questi contesti. 3) Il doppio metodo. Gli interventi in luoghi sensibili agiscono sempre in presenza di una prepotente organizzazione istituzionale che applica metodi di pedagogia fortemente accreditati, per quanto provvisori, e modelli di intervento formalizzati. La pratica del teatro mira spesso a organizzare l’esperienza, a dedurre un metodo dall’esercizio e dal lavoro. Questa doppia lettura della pratica porta spesso fortissime contraddizioni e genera conflitti e prese di posizione radicali fra gli operatori del teatro e gli attori istituzionali.

Questi, come detto, i confini principali su cui misurare l’ampiezza del fenomeno del teatro nella sua condizione civile. A complicare l’analisi è il dovere di una comparazione tra le esperienze delle altre discipline, arti visive, performance, danza, e delle cosiddette pratiche partecipative4. 4

Per pratiche partecipative si intendono tutta una serie di esperienze in cui, attraverso meccanismi mutuati dalle attività artistiche, così come dall’animazione

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Teatro e parateatro come pratiche educative

Il problema primario è costituito dalla scarsa attitudine del teatro a pensare se stesso in una dimensione complessa. Il miraggio di un nuovo spettatore fa perdere di vista il tema dell’efficacia, che è la domanda primaria e resta l’obiettivo ultimo da raggiungere in un intervento di teatro civile. L’efficacia però può essere intesa in modalità molto differenti. Quanti sono i possibili soggetti interessati a un processo educativo? Prendiamo l’esempio di un carcere: possiamo lavorare solo per il bene dei detenuti o possiamo anche pensare agli altri abitanti dell’istituzione (gli altri detenuti, gli educatori, la polizia penitenziaria, la direzione, ecc.), possiamo parlare di famiglia? È un tema fortemente messo in gioco dai detenuti, la mancanza degli affetti e principalmente dei figli. E la comunità circostante? Altro tema fondante nel dialogo con il detenuto è quello dell’innocenza e della colpa. In una accezione laica questi temi non possono appartenere a una dimensione individuale ma divengono un carattere collettivo. Il diffondersi di pratiche che associano teatro e pedagogia, il lavoro che oggi realizziamo nelle nostre collettività, il percorso di artisti civili, ci obbligano a un atteggiamento molteplice capace di cogliere i segnali che vengono da punti differenti della comunità e che agiscono in forme diverse. Dobbiamo essere capaci di una lettura più ampia dei contesti. Dobbiamo trasferire la logica educativa al di fuori della relazione binaria tra artista e soggetto da liberare (o a cui dar voce). Dobbiamo riuscire a pensare una complessità che non è solo nelle mani dell’artista e regista ma che passa per altre figure che accompagnano queste attività e processi. Figure educative e organizzative che devono imparare ad agire in complicità con la parte artistica portando al percorso un forte senso di consapevolezza delle tante variabili che definiscono l’efficacia di un processo educativo.

e dal lavoro di comunità, si mira a costruire consapevolezza nei cittadini in merito all’azione della politica laddove essa può modificare le condizioni di vita in contesti urbani e non urbani (urbanistica, lavori pubblici, trasporti, servizi sociali e culturali, ecc.). Così come i processi di costruzione di identità a vantaggio della valorizzazione turistica e produttiva di un territorio. In tutte queste esperienze si passa dalla costruzione di consapevolezza allo stimolo per lo sviluppo di azioni dirette di valorizzazione, restituendo ai cittadini il potere di agire sul proprio futuro e sulle condizioni della propria vita di relazione.

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La scuola dello sguardo attraverso il progetto Città Invisibili. Note del regista sulla drammaturgia degli spazi

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di Pino Di Buduo

L’esperienza del Potlach è legata all’Arte dell’Attore L’attore è al centro della nostra ricerca così come lo è la sua formazione attraverso un esercizio continuo. L’attore si prepara per dialogare con il territorio nel quale vive, con i territori nei quali presenta i propri spettacoli, le attività pedagogiche i progetti artistici. È in grado di scambiare esperienze con le diverse culture che incontra, è in grado di raccogliere storie dalle persone, dai luoghi, dagli ambienti, nei quali vive o nei quali viaggia. L’attore che si forma al Teatro Potlach acquisisce capacità e tecniche che permettono di creare spettacoli e progetti nei quali, il suo corpo è preparato per entrare in contatto con spettatori delle diverse parti del mondo. Con questo scopo creiamo spettacoli e progetti. Il progetto che più racchiude la nostra missione pedagogica ed artistica in relazione ad un territorio, alla sua memoria, alle sue storie alle leggende, alle persone che lo abitano è ‘Città Invisibili’. Nato nel 1991 a Fara Sabina sede del nostro teatro, è stato fino ad oggi realizzato in più di sessanta città di diverse parti del mondo. Il progetto ‘Città Invisibili’ del Teatro Potlach, è nato un po’ per caso, un po’ per necessità. L’interesse di mettere insieme Teatro, Architettura e Antropologia culturale ha fatto poi il resto. Quando abbiamo avuto la possibilità di realizzare un Festival Laboratorio, abbiamo inserito il progetto nel programma con lo scopo di coinvolgere le associazioni culturali di Fara Sabina e del territorio direttamente nelle rappresentazioni. Il progetto intendeva inoltre utilizzare come scenografia gli

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Teatro e parateatro come pratiche educative

spazi interni ed esterni dell’architettura medioevale del centro storico e la sua memoria invisibile. Il teatro si era installato stabilmente nell’antico monastero di Santa Maria del Soccorso dal 1976 e nei quindici anni di attività continua si era fatto la fama di un gruppo di giovani artisti affidabili, seri, riservati, molto apprezzati all’estero. I nostri spettacoli, che sperimentavano nuove forme di drammaturgia, interessavano tanto i grandi Festival Internazionali, ma, a livello locale, non venivano compresi. Ciò nonostante, ci eravamo guadagnati, attraverso il nostro comportamento quotidiano, un grande rispetto. Questo atteggiamento degli abitanti di Fara Sabina verso di noi è risultato essenziale per la realizzazione del progetto ‘Città Invisibili’, e quando abbiamo chiesto di utilizzare le loro cantine, i loro cortili, i loro giardini, tutti ci hanno affidato i loro spazi privati dandoci le chiavi in modo che li potessimo usare liberamente. Ben ventisei diversi! Fantastico! Si trattava di spazi straordinari che neanche gli abitanti stessi di Fara Sabina spesso conoscevano. Abbiamo chiamato in quel momento Tersilio Leggio, uno studioso di archeologia, grande conoscitore del territorio, appartenente ad una importante famiglia di medici di Fara Sabina che ci ha fatto focalizzare l’attenzione su aspetti nascosti dell’architettura antica del centro storico. Ha fatto emergere ai nostri occhi ogni pietra di ogni muro di Fara Sabina spiegandone la provenienza, ha focalizzato la nostra attenzione su vicoli che oggi non esistono più, passaggi invisibili, cantine scavate a tre livelli sotto il suolo e che sboccano in giardini nascosti. Archi medioevali e tecniche di costruzione irripetibili, solidità e compattezza sorprendenti. Percorsi e spazi inusuali nell’architettura di oggi. Scenografie quindi, scenografie in ogni angolo, spazi orizzontali, verticali, obliqui. Forme architettoniche straordinarie e nascoste agli sguardi quotidiani. Una ricchezza sorprendente. Dietro i portoni e portoncini comuni si rivelavano spazi inimmaginabili, scalinate di ogni tipo. Archi meravigliosi e giardini incastonati tra mura di pietra alte abbastanza per impedire la vista dall’esterno, giardini pieni di vegetazione anche esotica appena organizzata, spesso con grandi alberi, spazi organizzati per riposare nei pomeriggi estivi pieni di calura, nascondigli segreti a volte. Forme e spazi pieni di memoria da evocare. Volevamo guidare lo sguardo dello spettatore alla scoperta delle ‘Città Invisibili’, guidarlo allo stupore, alla meraviglia, alla sorpresa del pensiero in movimento. Tanta ricchezza poteva mobilitare energie impensate negli spettatori, po-

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La scuola dello sguardo 157

tevamo accendere e colpire i loro sensi e loro emozioni. Volevamo suggerire un percorso dove lo spettatore si sentisse libero di reagire alle nostre suggestioni nate dal silenzio e dall’ascolto di queste pietre, di queste forme, di queste memorie sopite. Ogni volta che inizio un nuovo progetto di ‘Città Invisibili’, la prima cosa che faccio è prendere due o tre giorni per conoscere la città nella quale mi hanno invitato, poi devo individuare un luogo all’interno del quale definire un percorso di circa 600-700 metri. Devo poi stabilire un punto di partenza facilmente individuabile per lo spettatore ed un punto di arrivo per il finale. La scelta del percorso è importante e rappresenta la struttura ossea e nervosa che tiene in piedi il corpo della rappresentazione. Dedico molta attenzione a questa fase iniziale. Perché scelgo un percorso invece che un altro? Dietro ogni minima scelta c’è una ragione o un intuito. La scelta della zona della città dove creare il percorso si decide in base a ragioni pratiche e ragioni artistiche. Le ragioni pratiche in questo progetto giocano un grande ruolo e sono alla base di molte scelte. Bisogna partire dal principio che ogni difficoltà, ogni ostacolo, ogni impossibilità, sono benedetti da Dio perché sono stimoli creativi, sono possibilità di invenzione, di scoperta. Da un punto di vista pratico, soprattutto per le situazioni urbane, scelgo un percorso senza ristoranti o bar o attività aperte di sera, comunque con traffico chiudibile. Importante la possibilità di spegnere totalmente la luce pubblica. Quindi un percorso protetto da interferenze esterne alla rappresentazione che possono deviare l’attenzione costruita per lo spettatore. Alcune volte è molto difficile ottenere queste condizioni, come nel caso di Karlsruhe nel sud della Germania dove sembrava impossibile ottenere di fermare il traffico per alcune ore e soprattutto impedire il parcheggio delle macchine. Avevo scelto il quartiere chiamato Südstadt che si apre proprio accanto all’enorme costruzione in cemento armato del teatro stabile della città, costruito dopo la Seconda guerra mondiale al posto della stazione ferroviaria completamente distrutta dai bombardamenti. Un quartiere nato per ospitare operai italiani, che erano emigrati a Karlsruhe prima della guerra per costruire la ferrovia e la stazione ferroviaria. Un quartiere nato dal nulla, fatto di blocchi praticamente uguali con strade perfettamente parallele e perpendicolari. Costruzioni basse tutte uguali, massimo tre piani. Facciate compatte e simmetriche.

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Teatro e parateatro come pratiche educative

Südstadt è un quartiere che ha subìto un lungo processo di degrado, molti degli abitanti di origine italiana lo hanno abbandonato e sono andati ad abitare altrove. Ora è un quartiere sempre con matrice e spirito italiani, ma con molti emigranti di altre parti del mondo. Una piazza centrale, stretta e lunga, con molti alberi alti, una bella fontana e una chiesa protestante, tanti negozi e attività commerciali. L’anima del quartiere. Perché scegliere un posto come questo in una città con castelli meravigliosi, giardini e distese di prati verdi, con laghetti e parchi enormi all’inglese? Come abbiamo detto, ci sono ragioni pratiche e ragioni artistiche. Gli allestimenti esterni di luce, proiezioni, e teli bianchi che utilizziamo lungo il percorso per le ‘Città Invisibili’, con più di 100 fari con 3 chilometri di cavi elettrici, 8 dia-proiettori e 8 videoproiettori, e centinaia di metri quadrati di teli bianchi, devono essere smontati ogni sera e rimontati il giorno dopo per evitare furti. Non si può rischiare. Il teatro vicinissimo ci permetteva di fare tutto a piedi con carrelli appositi, mentre in altri luoghi della città avremmo dovuto caricare tutto sul furgone e riportare al deposito. Ma non basta: il castello, i giardini, i parchi sono luoghi molto conosciuti e frequentati da turisti e da abitanti che ci vanno per prendere il sole nelle belle giornate e per far giocare i bambini. Südstadt invece è un quartiere poco frequentato da turisti, è un quartiere dove abita molta gente, operai, studenti, alcuni della classe media, un po’ degradato, ma con case a misura d’uomo e cariche di memoria. Sappiamo che saranno gli abitanti stessi che poi inviteranno i loro parenti, i loro amici, i loro conoscenti, i loro colleghi di lavoro ad assistere alle rappresentazioni, raccontando come gli artisti stanno trasformando il quartiere con le loro installazioni. Tutto questo negli spazi del castello e nei grandi parchi adiacenti accade molto di meno, perché noi proviamo le luci e le proiezioni di notte, e di notte questi luoghi sono deserti. Se partiamo dal teatro, entriamo subito dentro le antiche stradine di Südstadt, penetriamo attraverso portoni e passaggi privati che immettono nei cortili e giardini interni spesso sconosciuti agli abitanti, attraversiamo il cinema, la scuola, per uscire sulle strade parallele. Trasformiamo lo spazio di alcune stradine ed entriamo dentro la ex fabbrica di stoffe ora museo di macchine antiche. Entriamo dagli scantinati del cortile interno, risaliamo al piano superiore fino ad uscire nella strada opposta. Alla fine arriviamo sulla piazza principale dalla strada laterale

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La scuola dello sguardo 159

per terminare sul sagrato della chiesa davanti all’antica fontana. Dal teatro alla chiesa di Südstadt: il percorso stesso dice qualcosa, ha uno sfondamento nella memoria storica, sociale, emotiva della città e dice che il teatro non è solo dentro l’edificio teatrale ma anche fuori, dentro la città che lo circonda. Dal teatro alla chiesa attraverso le stradine, il vecchio cinema liberty, il grande cortile interno, lo storico edificio scolastico, le stradine trasformate da allestimenti di teli, la ex fabbrica di stoffe fino al sagrato della chiesa protestante nella piazza principale di Südstadt: questa è la struttura del percorso, un percorso che ha una drammaturgia, che attraversa spazi esterni ed interni, luoghi conosciuti e sconosciuti, pubblici e privati, all’aperto e al chiuso, che penetra e rivela la concezione architettonica della Südstadt prima e dopo la guerra. Una drammaturgia legata agli spazi che vengono scelti in relazione alla memoria che raccolgono, all’alternarsi di spazi interni ed esterni, alla penetrazione ed attraversamento di strutture architettoniche, una drammaturgia che rivela agli occhi degli spettatori una città mai vista prima. Bisogna dare significato allo sguardo creando il silenzio e accendendo l’ascolto. Lasciar passare le prime idee, i primi pensieri. Abbassare la temperatura e lasciare che il corpo assorba lo spazio senza opporre resistenza. Dare spazio al dormiveglia prima di addormentarsi la sera per individuare i diversi nodi da risolvere. Svegliarsi la mattina un’ora prima per prendere decisioni. Tutto viene poi da sé. La notte svolge la sua funzione. Il percorso deve avere ritmo, attraversare ambienti diversi, utilizzare spazi chiusi e spazi aperti, nascondere per rivelare, sorprendere. Incarnando questi principî torno più volte sia di giorno che di notte a camminare nella zona del percorso, spesso da solo o con un compagno di viaggio capace di mantenere il silenzio. Per quanto riguarda l’intuito bisogna avere la natura del cacciatore che sceglie una direzione invece che un’altra e lì trova la preda. Avere fiuto. Sapere interpretare ogni minimo segno. Fare in modo che le idee nascano dal luogo stesso. Vedo lo spazio come un corpo umano, di conseguenza ho bisogno di capire come funziona, come si articola quel luogo in modo da costruire un percorso organico che stia in piedi e viva. M’illumino quando scopro collegamenti sorprendenti, insospettabili, quando cerco in una direzione e trovo.

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Teatro e parateatro come pratiche educative

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Alcuni esempi di percorso Carouge è una piccola cittadina in Svizzera che è stata pianificata a Torino e costruita dagli stessi italiani più di duecento anni fa quando quel territorio apparteneva ai Savoia. A Carouge, accanto a Ginevra, siamo partiti appunto dalla piazza Sardegna, centro storico della città, abbiamo traversato la chiesa cattolica con il nuovo sontuoso organo in azione, la piazza antistante, poi il municipio ed il parco alle sue spalle, quindi dentro il tempio calvinista, la biblioteca dei gesuiti, la grande palestra comunale, i graziosi giardinetti pubblici per terminare nella piazza dalla quale siamo partiti. A Holstebro, in Danimarca, l’inizio era nello slargo antistante l’altissima ciminiera in mattoni che sovrasta la città, ora solo un simbolo, abbiamo traversato l’antico impianto di riscaldamento imponente ed avveniristico ai suoi tempi che serviva acqua calda a tutta la città, siamo scesi poi lungo il fiume, vero cuore della città, per un lungo tratto passando sotto tre ponti, poi nella piscina comunale, nella quale avevamo messo una vera gondola di 11 metri con sopra Daniela Arena, meravigliosa cantante lirica di Cosenza. Nel tratto finale attraversavamo case giardini e cortili per tornare al grande impianto di riscaldamento antico, orgoglio della città, per la scena finale. A Cluny, in Francia, siamo stati invitati in occasione dei festeggiamenti per i 1.100 anni dalla fondazione di quella che era stata la più grande e potente abbazia d’Europa, quasi completamente distrutta dalla Rivoluzione francese. Iniziavamo da quel che resta dell’antica entrata dell’abbazia, scendevamo lungo la larga e sontuosa scalinata, attraversavamo i resti della grande navata centrale, entravamo nel grande chiostro ancora intatto, e sede della più importante ed antica scuola di architettura francese, scendevamo fino alla piccola strada che attraversa tutto il centro storico di Cluny, per passare poi nella chiesa di Notre-Dame. Salivamo poi le scale del giardino della curia per uscire in alto nella stradina sulla collina. Scendevamo poi attraverso l’antico municipio della città e tornavamo all’antica e distrutta entrata dell’abbazia. A Salvador de Bahia l’inizio era nel giardino antistante la lussuosa abitazione di quello che era stato il più grande commerciante di schiavi di Salvador, oggi Accademia delle Belle Arti. Attraversavamo l’edificio, gli uffici e le sale da esposizione, entravamo nel largo patio ed

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La scuola dello sguardo 161

uscivamo nella parte nuova costruita in cemento armato che ospita le aule di storia dell’arte e alcuni laboratori. Penetravamo nella foresta tropicale che circonda l’Accademia per rientrare dopo un largo giro dalla porta di servizio di una costruzione antica che ospitava i laboratori di scultura e pittura; poi nei cortili che costeggiano le costruzioni fino allo slargo per le lezioni all’aperto. Costeggiavamo le basse e lunghe costruzioni adibite a laboratori di pittura e attraverso il deposito di scenografie tornavamo al giardino antistante l’antica casa del ricco commerciante di schiavi per la scena finale. Nel 2000 Nitis Jacon ci ha invitato al Festival da lei organizzato a Londrina nello stato del Paraná nel sud del Brasile, una città che non esisteva all’inizio del ’900 e che in settant’anni era diventata la più grande esportatrice di caffè al mondo. Londrina si era sviluppata intorno alla ferrovia che tagliava con una linea retta le foreste tropicali dello stato del Paraná comprate dagli inglesi attraverso la Compagnia delle Indie. Durante la dittatura militare, negli anni ’50-’60, fuori della città, in un grande spazio rubato alla foresta, era stata costruita un’immensa università con tutte le facoltà dislocate in grandi aree ben riconoscibili con costruzioni basse per lo più di legno, secondo l’architettura locale, tutte con veranda e rialzate di almeno un metro da terra per difenderle dalle acque dilavanti del periodo delle piogge tropicali e dagli animali. Dopo lunghi e interessanti sopralluoghi ho scelto l’area della facoltà di Agraria perché le lezioni avvenivano direttamente nei campi di soia tra le coltivazioni di ananas, nei vivai di fiori tropicali, nei boschi di bambù, nella porzione di foresta tropicale lasciata intatta per lo studio. Iniziavamo al cancello di entrata della facoltà, appunto, e poi, attraverso un lunghissimo viale di terra rossa si entrava in un immenso campo di soia. Attraverso una siepe passavamo davanti ad una serra di vetro per la coltivazione delle orchidee, attraversavamo un lungo vivaio vuoto e uscivamo davanti al grande serbatoio di acqua appoggiato su un alto traliccio di ferro. Poi giravamo intorno ad uno slargo con piante di caffé fino al deposito per le canne da zucchero e subito dopo a sinistra entravamo in una foresta di canne di bambù bellissima e ben coltivata. In fondo, attraversando una rete di metallo, ci inoltravamo nella sezione di foresta tropicale lasciata intatta proprio per essere studiata. All’uscita un larghissimo spiazzo fatto di immensi alberi alti fino a 70 metri con al centro un enorme fosso dove gettavano le foglie ed i rami secchi. Sulla sinistra una piccola costruzione

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Teatro e parateatro come pratiche educative

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di legno rialzata con tre porte aperte e all’interno un piccolo altare scarno e vuoto. Una chiesetta per tutte le religioni, per pregare. Lì davanti abbiamo deciso di fare il finale. Dal 1991 ad oggi abbiamo realizzato più di cinquanta edizioni di “Città Invisibili” in diverse parti del mondo. In Italia, in Germania, in Francia, in Danimarca, in Svezia, in Inghilterra, in Portogallo, in Svizzera, in Austria, poi in Brasile, in Messico e negli Stati Uniti. In architetture urbane medioevali e moderne, nella natura, lungo i fiumi, nei laghi, nei parchi nazionali, anche in siti archeologici o di archeologia industriale. Abbiamo lavorato con decine di artisti, con centinaia di associazioni locali, con una media di duecento partecipanti per ogni rappresentazione con un picco di trecentoquarantasei a Rovereto ed un minimo di ottanta a Noto in Sicilia. Lungo ogni percorso bisogna immaginare almeno trenta luoghi diversi di rappresentazione inusuali per le associazioni di teatro, musica, danza, arti visive. A volte artisti singoli, a volte situazioni di sport come box, arti marziali, sollevamento pesi. L’inizio della rappresentazione di ‘Città Invisibili’ vede tutti gli artisti partecipanti in una fila unica di fronte al pubblico. Daniela Regnoli del Potlach invita gli spettatori a viaggiare nelle Città Invisibili, poi ogni partecipante va nel proprio luogo di rappresentazione e tutto inizia in contemporanea. Gli spettatori-viaggiatori sono liberi di creare il proprio viaggio e di assistere ad ogni rappresentazione che incontrano lungo il percorso per il tempo che vogliono. Tutti gli spazi vengono trasformati spegnendo l’illuminazione pubblica e ricreando un’illuminazione fatta di luci ed ombre, di colori che isolano e mettono in evidenza dettagli che nella vita quotidiana scompaiono. Creiamo allestimenti di teli che cambiano la percezione dello spettatore, che a volte avvolgono, a volte coprono, a volte nascondono per rivelare. Con le proiezioni ridefiniamo prospettive e caratteristiche architettoniche del luogo che vogliamo segnalare all’attenzione dello spettatore-viaggiatore. Il viaggio è difficile.

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Uso delle scenografie di teli bianchi trasparenti A Karlsruhe, per dare ritmo ad una strada della Südstadt, abbiamo fatto un allestimento con una striscia di 150 metri di un telo bianco alto un metro e cinquanta che abbiamo steso in modo verticale e a zig zag approfittando dei lampioni per l’illuminazione stradale. Il telo, legato in verticale ad altezza d’uomo al lampione di sinistra, attraversava la strada in obliquo fino al lampione di destra, poi gli girava intorno e proseguiva sempre in obliquo fino al lampione più avanti a sinistra, intorno al quale girava per formare il zig zag e cosi via. Sul lato destro rimaneva un piccolo passaggio che poi si allargava e di nuovo si stringeva, lungo il quale lo spettatore poteva proseguire il proprio viaggio. Al Parco Nazionale dello Stelvio volevamo far vedere la forma perfetta di una breve collina di erba verde. Allora l’abbiamo coperta con un telo bianco crespato di 70 metri per 50. Nella Rutgers University di Newark nel New Jersey – per sottolineare il gelo dei sensi che provocava l’enorme costruzione moderna in cemento armato e mattoni rossi che gli spettatori si trovavano davanti agli occhi quando uscivano su una balconata al terzo piano, dopo un lungo percorso all’interno – facevamo lanciare un enorme e leggero telo bianco che veniva gettato dal terrazzo e che fluttuando nell’aria andava a coprire l’intero immobile. Questa azione poi si ripeteva più volte coprendo e scoprendo la grande facciata. A Klagenfurt, in Austria, abbiamo coperto con migliaia di metri quadrati di teli bianchi trasparenti un canale d’acqua di 450 metri. Gli spettatori, quando traversavano il piccolo ponte di legno non lo vedevano più. Il canale era artificiale ed era stato scavato molti anni prima per portare l’acqua del lago intorno alla città per spengere gli incendi che spesso distruggevano interi quartieri di case di legno.

Uso delle luci A Fara Sabina, per far vedere le bellissime pietre bianche regolari tagliate a mano che distinguono le costruzioni nobiliari dalle case normali fatte di pietre irregolari, abbiamo buttato addosso al muro, con

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Teatro e parateatro come pratiche educative

tagli radenti, la luce violenta dei Par. Appoggiato con le spalle alle pietre del muro, un violinista suonava una melodia triste. A Gallipoli abbiamo illuminato con luci a scarica e di taglio il bagnasciuga della spiaggia della Puritate per rendere visibile il moto delle onde che s’infrangono sulla spiaggia di notte e per dare sfondo alla fila dei duecento partecipanti alle ‘Città Invisibili’ che si erano schierati con le spalle al mare per la scena d’inizio della rappresentazione. A Stoccolma abbiamo illuminato con controluci potenti la sagoma del Ricksteatern per rivelarne la perfetta forma cuboidale. A Braga in Portogallo abbiamo illuminato con luce verde il grande sipario che attraversava tutta la strada principale del famoso centro storico e che avevamo messo per impedire la normale visione del corso. A Fara Sabina, con otto studenti del corso di scenografia della Facoltà di architettura di Roma e con lo scenografo Luca Ruzza, abbiamo coperto con teli bianchi tutte le strade del centro storico, per cambiare la percezione degli spettatori e per dar loro una guida.

Uso delle proiezioni Fin dalla prima edizione di ‘Città Invisibili’ a Fara Sabina, abbiamo utilizzato strumenti per proiettare. Prima i famosi dia-proiettori Carousel con i quali proiettavamo sul campanile del duomo le foto dell’inizio del secolo che avevamo chiesto ad ogni famiglia di Fara Sabina. Poi i potentissimi Stark che potevano proiettare fino ad 800 metri di distanza, infine i videoproiettori di diverse potenze guidati dai sofisticati computer della Apple. A Cluny abbiamo proiettato un testo di 30 metri per 12 direttamente sull’unico grande muro di pietra dell’abbazia che si era salvato dalla distruzione per far vedere quanto era grande. A Ingolstadt, in Germania, abbiamo realizzato tre grandi installazioni visive con proiezioni che hanno avvolto con grafie dinamiche il lungo muro di cinta del “castello vecchio” e la torre e le enormi pareti interne del vicino, ma più possente, “castello nuovo”. Le immagini proiettate raggiungevano dimensioni di 60/70 metri per 18. A Carouge abbiamo proiettato da terra su un telo bianco in obliquo, di 40 metri per 15, una grafia luminosa dentro la quale si

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svolgeva una danza silenziosa nella palestra comunale che volevamo annientare. Per concludere, vorrei parlare degli allestimenti per gli attori, i musicisti, i danzatori che hanno partecipato in diverse parti del mondo alle ‘Città Invisibili’. Vorrei prima sottolineare ancora una volta che i percorsi sono trasformati in uno spazio unico, senza soluzione di continuità, dalle luci, dalle proiezioni, dagli effetti speciali, dagli allestimenti di teli. Lungo questi percorsi, in relazione alla natura dei luoghi, gli spettatori incontrano decine di piccoli e grandi rappresentazioni di teatro, musica, danza, arti visive, a volte sport. Spesso sono singoli artisti che poniamo nei grandi spazi, come a Cosenza quando abbiamo trasformato un’enorme rettangolare e orribile pista di pattinaggio in una grande lastra bianca sospesa e illuminata di taglio, la visione di un immenso deserto, al centro della quale un attore kathakali, Mario Barzaghi, completamente deformato dall’impressionante costume e dal trucco danzava come un dio sull’Olimpo. A Liverpool avevamo scelto l’area dismessa di un Dock. Un deserto di calcinacci che si distendeva fino al fiume. Avevamo scelto quell’area perché rappresentava la ferita vivente della città. Pochi anni prima erano stati costretti a spostare uno dei più grandi porti del mondo 12 chilometri più a valle perché con l’invenzione dei container avevano bisogno solo di enormi distese di cemento. I grandi magazzini per il tabacco, le spezie, il cotone, il tè, che avevano rappresentato la grande ricchezza della città, non servivano più. Avevano dovuto abbatterli quasi tutti e ricoprire le grandi distese di acqua che ospitavano le navi. Alcuni depositi erano ancora in piedi e venivano usati per rimettere le enormi pietre degli approdi ormai distrutti. Come fare per dare ritmo all’enorme distesa di calcinacci che dovevamo attraversare per arrivare al fiume? Come potevamo attrarre gli spettatori al fiume per fargli vedere, dall’altra parte del fiume, gli immensi edifici della Cunard Building, la famosa compagnia di navigazione che aveva portato in America del nord ed America del sud milioni di emigranti dall’Inghilterra e da tutta Europa, il Palazzone delle poste ed il famoso Albert Dock? Ho chiesto una scavatrice ed ho fatto scavare un buco di 15 metri circa di diametro, fondo 60 centimetri. Tutto lo scavato era stato appoggiato sui bordi in modo da impedire la vista di ciò che accadeva

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Teatro e parateatro come pratiche educative

dentro lo scavo. All’interno, la grande scavatrice, illuminata con tagli di luce, come un drago moderno, giocava a spaventare due giovani danzatrici che, fuggendo, traevano piacere dallo spavento. Più in là, sul tetto di un vecchio bus a due piani, i cinquanta componenti del coro di Liverpool, cantavano con grande allegria illuminati in modo surreale. Nel deposito delle enormi pietre di granito ammonticchiate a caso nel largo capannone, un vecchio attore, leader sindacalista, con grande forza d’animo ed un magnifico portamento, recitava arrampicandosi sopra le pietre i famosi versi di Brecht «ma chi ha costruito Babilonia?». Poco più in là, su uno slargo davanti al fiume, vedevi avanzare, dal buio, quaranta ragazzine della scuola di danza di New Brighton, con le loro gonne corte, con le mani sui fianchi e lanciando una dopo l’altra le gambe in avanti per battere il ritmo scatenato dei vecchi musical americani. In Austria, invece, sul verde lago di Unterach vicino a Salisburgo, abbiamo chiesto e ottenuto di utilizzare le belle navette a ruota che fanno servizio sul lago. Ne avevamo tre, che a turno si riempivano delle migliaia di spettatori che erano venuti per vedere le ‘Città Invisibili’. Facevano un tragitto sul lago e poi sbarcavano 200 metri più in là all’inizio del bosco. Lungo questo tragitto, su chiatte di legno, avevamo installato scenografie acquatiche: un cubo bianco trasparente di 3 metri per 3 con all’interno una danzatrice vestita di bianco che si muoveva come fluttuando nell’acqua, un enorme cappello d’oro, simbolo delle donne del posto, che emergeva e scompariva nel fondo del lago, un gigantesco ventaglio enorme di acqua, che avevamo ottenuto con l’aiuto dei vigili del fuoco, sul quale proiettavamo l’ombra di Nathalie Mentha che camminava su un filo a due metri di altezza. Una barca tipica del lago, lunga e stretta, una specie di gondola che scivolava sull’acqua con le sue otto donne che indossavano costumi tradizionali ed il famoso cappello d’oro. Un gazebo costruito su una chiatta simile al Redentore di Venezia con dentro il coro di Unterach che cantava le canzoni del lago. A Bologna, alla Salara, antico porto del sale, costruita ai bordi di un canale ora ricoperto, avevamo allagato la stanza di sotto del grande edificio, con alcuni centimetri d’acqua. Nel mezzo un grande letto co-

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La scuola dello sguardo 167

perto di stoffe nel quale una languida Medea recitava i propri lamenti, mentre al piano superiore, su una distesa di sale bianco, Stefano e Beatrice giocavano a scacchi vestiti da Kublai Kan e Marco Polo. Al di fuori, lungo il muro di mattoni rossi che conteneva le acque del canale ora ricoperto, facevamo trasudare acqua. Un’attrice danzava appoggiandosi al muro come una ninfa in un ambiente umido. Più in là, una lunga scarpata portava ad un livello superiore della valle che circondava l’antico porto. Alla base della scarpata avevamo messo una macchina rovesciata: le porte aperte, le ruote all’aria il cofano aperto. Una giovane donna cercava a fatica di uscire. A Gallipoli e Casarano abbiamo scoperto i grandi Ipogei scavati sotto le case. Erano i mulini dove venivano pigiate le olive per produrre l’olio lampante che illuminava le strade di Londra. Con un gruppo teatrale colombiano abbiamo trasformato uno di questi in un girone dell’inferno dantesco, con corpi incassati nei profondi buchi a terra che lasciavano emergere solo le teste, corpi incatenati alle ruote di granito dei mulini che gridavano tutto il loro dolore e illuminazioni di fuoco che facevano tremare sulle pareti le sagome dei condannati. A Formia, nell’enorme cisternone romano appena ristrutturato e pieno d’acqua, si scendeva per assistere al viaggio di una specie di nave dei folli che trasportava Vito Signorile, imperatore romano, mentre trangugiava angurie rosse appena spaccate, contornato da danzatrici del ventre che si muovevano voluttuosamente al suono di un’arpa. Lo spettatore delle ‘Città Invisibili’ è uno spettatore che viaggia, che esplora città sconosciute, che ha sete di conoscenza. Un archeologo che riorganizza pezzo per pezzo i frammenti della memoria, frammenti fatti di suggestioni, di suggerimenti. In alcuni momenti di emozioni sublimi. Le ricompone per gettarle nel futuro come grano su un campo che forse darà frutti. Lo spettatore delle ‘Città Invisibili’ è uno spettatore che viaggia in un’illusione.

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Equilibri e disequilibri

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di Nathalie Mentha

Nel 1991 è nato a Fara Sabina il progetto ‘Città Invisibili’, ispirato al libro di Italo Calvino. A quel tempo ero attrice al Teatro Potlach da 13 anni. I primi 4 anni sono stati di apprendistato, di training fisico, di studio di uno strumento musicale e di diverse tecniche fisiche di presenza dell’attore prese in tutte le culture del mondo. Poi gli anni di applicazione dell’apprendistato con lo studio di partiture per nuovi spettacoli, con la creazione di spettacoli di strada, di sala e le prime tournées all’estero. Durante tutti questi anni noi attori siamo stati abituati a lavorare con il regista in sala nel nostro teatro, oppure in spazi esterni, per lo spettacolo di strada chiamato ‘Parata’. Con il progetto ‘Città invisibili’, cambia tutto! Ascoltiamo il luogo, gli angoli delle strade… Ogni artista deve scegliere tre luoghi dove percepire una relazione con il proprio lavoro, elaborare una proposta e poi proporla al regista. Lavoriamo prima sulla memoria del posto… lo scopo è di lasciare nascere una relazione non decisa prima, tra l’artista e il luogo. In questo rovesciamento di modo di lavorare, nasce un altro tempo di azioni, di ascolto e di relazione con lo spazio e con quello che faccio. Non ho niente da perdere, sono senza riferimenti; solo quello dell’ascoltare i muri e reagire. Reagire al silenzio, al tipo di fiori appoggiati ai piedi della scala, all’odore di muffa, alla luce che entra nel cortile interno che ho scelto… e stare. Solo stare . Chi sono? Per ora… un’anima. E così, poco a poco, con lo stare ‘dentro’, guardare lo spazio, escono da me fonti sotterranee, trattenute. In realtà non devo fare, sono senza armi. Posso organizzare il mio spazio. E poco a poco, quel cortile interno, le sue piante verdi, la sua luce, diventa

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Teatro e parateatro come pratiche educative

un quadro. Questa è la prima proposta. Così poco a poco costruisco lo spazio come un pittore: usando la frutta, aranci, melograni aperti disposti in modo da richiamare l’attenzione dello spettatore ad entrare nel quadro. Ed io, l’attrice, dove sono? Cosa faccio? Costruisco una situazione d’attesa, una pittrice sola nel suo atelier… Cosa vedranno gli spettatori? L’attesa di una donna innamorata… sola. Per me lo scopo era di creare delle azioni con un certo ritmo, che permettevano di far vedere lo spazio dove stavo e di rivelare una ‘presenza’ tra queste mura, mantenendo l’attenzione dello spettatore per circa un’ora. Creare disequilibri. Lavoro da sempre sul disequilibrio. Nei workshop che guido, parte del mio lavoro con gli alunni è dedicato a questo. Ho insegnato per molti anni come scoprire quel punto di disequilibrio che ti fa reagire con un cambio di ritmo: salto mortale, piroletta o carezza (secondo le situazioni) attraverso l’acrobatica per attori. Naturalmente questo principio lo ritrovo in tutte le materie che insegno. Per danzare e trovare una fluidità serve il dialogo tra equilibrio e disequilibrio. Per comporre una scena, per sorprendere il pubblico e sorprenderci. Come attrice lavoro anche come danzatrice sulla corda tesa. Era un sogno: imparare a camminare su una corda tesa. Camminare sul filo. Poco a poco grazie a una grande disciplina quotidiana, ho realizzato questo sogno e una scena con la corda è stata inserita in uno spettacolo di strada del Teatro Potlach chiamato “Ambasciatori Immaginari”. Ma lo scopo per me non era solamente: fare una scena per uno spettacolo, no. Lo scopo è trovare la vita nel disequilibrio che mi permette di creare. Nel progetto Città Invisibili lavoro con la corda tesa per rivelare la poesia del luogo scelto, la sospensione immaginaria di quel luogo legato alla sua memoria reale. Un’opposizione tra la realtà e il sogno. Questo è il mio lavoro d’artista con la mia corda nel progetto Città Invisibili. Ogni volta cerco il luogo dove posso mettere la mia corda e trovare una relazione tra il luogo, la sua storia e i suoi sogni, il luogo reale e il luogo immaginario. Mi ritrovo di nuovo a danzare e raccontare la vita tra l’equilibrio e il disequilibrio e a lavorare con gli opposti.

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Gli Autori

Ewa Benesz, attrice polacca, laureata in Lettere all’Università di Lublino e diplomata in Arte drammatica a Varsavia. Ha lavorato nell’Instytut Aktora-Teatr Laboratorium diretto da Jerzy Grotowski in Polonia. Nel ’70 ha fondato insieme a tre colleghi della Scuola d’Arte Drammatica di Varsavia lo Studio Teatrale. Negli anni ’75-76 ha insegnato all’Università di Lublino Teoria della Cultura e Storia del Teatro Contemporaneo. Dall’82 al ’96 ha collaborato con Rena Mirecka nei progetti parateatrali: Be here now... Towards; The way to the centre e Now it’s the Flight, realizzati in Europa, in America e in Israele. Dal ’97 conduce le esperienze: Essere; Verso l’origine; Le pratiche originarie dell’attore; Le pratiche vocali. Collabora con diverse Università e partecipa al progetto Meetings with Remarkable Women. You Are Someone’s Daughter per la British Columbia University di Okanagan in Canada e l’Istituto di Grotowski a Wroclaw, Polonia. Vive in una casa tra le montagne in Sardegna dove sta sviluppando una ricerca ispirata agli antichi testi sanscriti dei Veda e ai miti cosmogonici. Vincenzo Cuomo (Torre Annunziata 1955) è docente di Filosofia nei Licei Statali italiani ed è direttore di “Kainos. Rivista on line di critica filosofica” (www.kainos.it). I suoi interessi scientifici prevalenti sono nel campo dell’estetica e della filosofia della tecnica. Collabora con alcune Università italiane (Salerno, Napoli “Federico II”), europee (Université de Nice – Sophia Antipolis) e Accademie (NABA di Milano). Le sue ultime pubblicazioni in volume sono: Del corpo impersonale. Estetica dei media e filosofia della tecnica, Napoli: Liguori, 2004; Al di là della casa dell’essere. una cartografia della vita estetica a venire, Roma: Aracne, 2007; Figure della singolarità. Adorno, Krakauer, Lacan. Artaud, Bene, Milano: Mimesis, 2009; C’è un io in questo mondo? Per un’estetica non simbolica, Roma: Aracne, 2012.

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Gli Autori

Maria D’Ambrosio è Professore Associato di Pedagogia generale e sociale all’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa di Napoli dove insegna Pedagogia della comunicazione, Formazione e cultura digitale e Progettazione e formazione a distanza ed è responsabile di pari e dispari, lo sportello pari opportunità del Comune di Napoli attivo presso l’Ateneo, e dove ha coordinato le attività del Centro e-learning, del Centro di Lifelong Learning e di Orientamento dopo-laurea. Nel solco di una pedagogia critica che guarda al nesso tra dimensione estetica e formazione, i suoi interessi di studio e ricerca si muovono tra comunicazione, identità, consumi mediali, teatro e parateatro, arti e media digitali. Attualmente lavora nello specifico sul tema della divulgazione scientifica, degli ambienti digitali per l’apprendimento, della cittadinanza attiva e della responsabilità sociale d’impresa, coordinando attività di ricerca e promuovendo progetti e interventi di carattere nazionale e territoriale. Tra le pubblicazioni più recenti: Per un’identità situata. Consumi, identità e affetti: il caso-studio di una comunità di studenti, in: Stramaglia, M., (a cura di), Pop-pedagogia L’educazione postmoderna tra simboli, merci e consumi, Lecce-Brescia: Pensa MultiMedia, 2012; La ‘scena’ digitale. Derive e sfide pedagogiche della performanza nell’era post-elettrica, in: Sibilio, Maurizio, 2012, a cura di, La complessità decifrabile, Lecce: Pensa MultiMedia; con Ornella De Sanctis, a cura di, 2011, L’orientamento nei processi formativi, Napoli: Liguori. Pino Di Buduo, fondatore direttore artistico e regista del Teatro Potlach con sede in Fara Sabina (Ri) dal 1976, direttore artistico del progetto interdisciplinare e multimediale ‘Città Invisibili’, membro della “Maison des Sciences de l’homme” Parigi. Ha diretto spettacoli, progetti, laboratori e festival in Germania Spagna Portogallo Ex Yugoslavia Inghilterra Svezia Danimarca Norvegia Svizzera Austria Polonia Israele Brasile Argentina Uruguai Paraguai Messico Guatemala Perù Cile Cuba India Iran Giappone. François Emmanuel divide il suo tempo tra scrittura e psichiatria. Poeta, è anche autore di numerosi romanzi, tradotti in una decina di lingue. La Question humaine è apparso in Italia con il titolo Il quarto musicista (Ed. San Paolo, traduzione di Stefania Ricciardi).

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Gli Autori 173

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Karina Janik è specializzata al Dipartimento di Studi sulla Performance dell’Università Jagiellonian di Kraków. Sta preparando un lavoro sul Parateatro di Jerzy Grotowski e il gruppo del Teatro Laboratorio, sul parateatro di Rena Mirecka e su quello di Ewa Benesz. Si occupa del teatro polacco del XX secolo, di performance e delle tradizioni polacche. Sta preparando una mostra sul teatro nel Museo della Storia di Kraków. Dariusz Kosiński è professore presso il Dipartimento di Performance Studies della Jagiellonian University a Kraków. Dall’inizio del 2010 è Direttore del Grotowski Institute a Wrocław. Tra le principali pubblicazioni: Polski teatr przemiany (Teatro polacco di trasformazione, Wrocław 2007), Grotowski. Przewodnik (Grotowski. Una guida, Wrocław 2009) and Teatra polskie. Historie (Teatri polacchi. Storie, Warsaw 2010). Dominika Laster è docente di Studi teatrali e borsista post-dottorato in Studi interdisciplinari sulla Performance alla Yale University. Ha pubblicato in Performance Research, Slavic and Eastern European Performance, New Theatre Quarterly e TDR (The Drama Review). È autrice di: Grotowski’s Bridge Made of Memory: Embodied Memory, Witnessing and Transmission in the Grotowski Work e curatrice di Loose Screws: Nine New Plays from Poland (entrambi in uscita con Seagull Press e distribuiti da University of Chicago Press). Virginie Magnat è docente di Performance all’Università British Columbia. La sua monografia ‘Grotowski, Women, and Contemporary Performance: Meetings with Remarkable Women’ è in uscita con Routledge. Il libro e gli allegati documenti video, finanziato da due grandi Istituzioni, offre una panoramica della ricerca incorporata di Grotowski, e inaugural il nuovo Archivio della Performance della Routledge Performance ed esplora il percorso artistico e le attuali pratiche creative delle donne di diverse culture e generazioni che hanno lavorato con Grotowski durante il periodo teatrale e post-teatrale, sulla ricerca cross culturale della performance. Nathalie Mentha, attrice e formatrice, è nata a Ginevra. Dopo gli studi partecipa alla Scuola Teatro del clown svizzero Dimitri a Verscio (TI).

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Nel 1978 si diploma alla Scuola Superiore di Arte Drammatica del Conservatorio di Ginevra. Nel 1979 incontra il Teatro Potlach, e comincia la sua formazione con pedagoghi di fama internazionale come Iben Nagel Rassmussen (Danimarca-attrice), Isso Miura (Giapponedanzatore butoh) Ingemar Lindt (Svezia-discepolo del mimo Etienne Decroux), Danilo Terenzi (musicista) e Peppe Rio (Spagna-danzatore di flamenco). Da allora vive in Italia e lavora in modo stabile come attrice nelle produzioni del Teatro Potlach. Loredana Perissinotto è stata tra i protagonisti – come attrice, regista e studiosa – dell’animazione teatrale, del teatro di comunità e del teatro professionale per l’infanzia e la gioventù, a partire dagli anni Settanta. Si occupa attualmente della progettualità di connessione tra Cultura – Arte – Formazione – Educazione. Ha scritto diversi libri e saggi su questi argomenti, tra cui Teatri a scuola, Torino: Utet, 2001); Animazione teatrale, Roma: Carocci, 2004 e 2013; In ludo, Perugia: Edizioni Corsare 2013, e curato la pubblicazione di saggi con altri autori. Tra questi: Manuale delle professioni culturali (Torino: Utet 1997 e 1999), Geografia del teatro della scuola in Italia (Milano: Leonardo, 2001), Guardarsi in scena (s.l.: s.n., 2007), Grazie alla cultura (Milano: Franco Angeli 2011), Cultura. Punto e accapo (Milano: Franco Angeli 2013). È presidente di Agita, associazione nazionale per la promozione della cultura teatrale nella scuola e nel sociale. Roberto Ricco, organizzatore e project manager. Inizia la sua esperienza come attore fondando il Teatro Kismet OperA a Bari. Dopo dieci anni di lavoro e ricerca decide abbandonare la scena per dedicarsi al lavoro organizzativo e di progettazione. In questo periodo, sempre al Kismet lavora a numerosi progetti di cooperazione internazionale e si avvicina al teatro sociale cercando di sviluppare nuove ipotesi di lavoro e di accompagnare numerosi artisti in questi percorsi. Da queste esperienze sviluppa numerose riflessioni sul teatro e la pedagogia. Nel 2004 diventa direttore artistico del Teatro Kismet OperA e, alla fine del mandato, lascia il Kismet a trent’anni dalla sua fondazione. Oggi è un libero professionista e insegna Progettazione e gestione di attività teatrali all’Università di Bari ed è presidente del neonato Distretto di imprese cultuali Puglia Creativa.

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Luigi Maria Sicca è professore ordinario di Organizzazione Aziendale e di Organizzazione e Gestione delle Risorse Umane, Università degli Studi di Napoli Federico II. Studioso di cultural symbolism e di art management, ha al suo attivo circa 100 pubblicazioni tra riviste internazionali e monografie. È inoltre curatore di numerosi lavori collettanei, fondati su un’autentica ricerca interdisciplinare orientata al costante scambio tra musicisti e artisti visivi, scienziati stricto sensu, studiosi di scienze umane e sociali; ed è direttore della collana di studi “punto org” per Editoriale Scientifica. Maura Striano è professore straordinario di Pedagogia e Storia della Pedagogia presso il Dipartimento di Studi Umanistici, Università Federico II di Napoli dove insegna Pedagogia generale e Pedagogia della Marginalità e della Devianza presso il corso di Laurea in Scienze e Tecniche Psicologiche; Pedagogia presso il corso di Laurea in Fisioterapia; Didattica e Pedagogia Speciale presso il corso di laurea in Odontoiatria. Ha orientato i suoi interessi di studio e di ricerca in costante riferimento ad una matrice deweyana, approfondendo in prima istanza la questione dell’educazione del pensiero in senso critico e riflessivo e in seconda istanza le valenze educative e formative del modello dell’inquiry. In prospettiva deweyana ha indagato anche le emergenze educative intese come forma di emergenza sociale ed i dispositivi funzionali alla loro gestione. La ricerca degli ultimi anni si è orientata verso lo studio dei processi di apprendimento in età postadolescenziale ed adulta (con particolare attenzione alle difficoltà di apprendimento in contesti formali); verso i processi di costruzione dell’identità professionale e verso le pratiche di orientamento e sostegno a tali processi; verso i dispositivi e le pratiche educative volti a promuovere l’inclusione sociale. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni in volumi e riviste in ambito nazionale ed internazionale. Maria Rosaria Strollo è Professore ordinario di Pedagogia generale e sociale (M-PED/01) alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Napoli Federico II. È direttore scientifico del Laboratorio di Epistemologie e Pratiche Educative. I suoi interessi di ricerca sono focalizzati sulla formazione dei formatori (insegnanti, educatori, psicologi) e in particolare sulla costruzione di una formazione pratica al pensiero riflessivo e all’apprendimento trasformativo. I suoi

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lavori più recenti, basati sulla connessione tra fenomenologia, scienze cognitive e pedagogia, riguardano ricerche empiriche condotte nel Laboratorio di Epistemologie e Pratiche dell’Educazione (LEPE). È autrice di: 2008, I laboratori di epistemologia e di pratiche dell’educazione. Un percorso neurofenomenologico per la formazione degli educatori, Napoli: Liguori, 2012; A Formação de educadores através de percorso estéticos: tratro, musica e narração; (2010); Laboratorio de epistemología y prácticas de la educación: la valencia del informal en el proceso formativo, in “ODISEO”. Paolo Vittoria è docente alla Facoltà di Educazione dell’Università Federale di Rio de Janeiro (UFRJ). Insegna Filosofia dell’educazione e Educazione popolare e movimenti sociali. PhD in Pedagogia (20052008) all’Università degli Studi di Napoli Federico II e Post-Phd in Politiche educative (2008-2010) all’Università Federale Fluminense (UFF) di Rio de Janeiro. È autore di Narrando Paulo Freire (2009; tr. rumena 2010, portoghese 2011) e Pedagogie della Liberazione (2011) con Antonio Vigilante.

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Studi sull’educazione Collana diretta da P. Orefice e E. Frauenfelder

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P. Orefice, V. Sarracino (a cura di), Comunità locali ed educazione permanente F. Cambi, La «scuola di Firenze» da Codignola a Laporta (1950-1975) G. M. Bertin, Progresso sociale o trasformazione esistenziale. Alternativa pedagogica G. Viccaro, Educazione e decentramento A. Piromallo Gambardella, Pedagogia tra ragione e immaginazione. Riflessioni sul pensiero di Gaston Bachelard G. M. Bertin, R. Laporta, P. Pontecorvo, Università in transizione V. Atripaldi (a cura di), Problemi e prospettive istituzionali dell’educazione permanente M. Muzi, Geografia: una «nuova» scienza sociale E. Frauenfelder, La prospettiva educativa tra biologia e cultura P. Orefice (a cura di), Educazione e sviluppo locale e regionale. Esperienze europee G. Cives, L’educazione in Italia. Figure e problemi F. Frabboni, E. Lodini, M. Manini, La scuola di base a tempo lungo G. Genovesi, T. Tomasi Ventura, L’educazione nel paese che non c’è V. Sarracino, La scuola media. I soggetti e le didattiche L. Trisciuzzi, M. Pisent Cargnello, M.T. Bassa Poropat, G.P. Cappellari, Storia sociale della psicologia D. Ragazzini, Dall’educazione democratica alla riforma della scuola E. Colicchi Lapresa, Prospettive metodologiche di una teoria dell’educazione L. Borghi, Presente e futuro nell’educazione del nostro tempo P. Orefice, V. Sarracino (a cura di), Ente locale e formazione T. Tomasi, L. Bellatalla, L’Università italiana nell’età liberale (1861-1923) G. Viccaro, Scuola e società post-industriale O. De Sanctis, L’educazione e il moderno L. Trisciuzzi, Il mito dell’infanzia. Dall’immaginario collettivo all’immagine scientifica P. de Mennato, Pedagogia e psicologia. Modelli di relazione A. Gallitto, Tecnica, cultura, formazione umana G. Viccaro, G. Piras (a cura di), Educazione delle comunità locali in Europa V. Sarracino (a cura di), Scuola elementare e didattica S. Beccastrini, M. P. Nannicini, G. Piras, Pedagogia della salute B. Schettini, Teoria e metodologia dell’educazione sanitaria

(*) Fondata da R. Laporta e P. Orefice.

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G. Flores d’Arcais, Dal «logos» al «dialogo». Sessant’anni di pedagogia in Italia V. Sarracino, Scuola e educazione: linee di sviluppo storico C. Fratini, Bruno Bettelheim. Tra psicoanalisi e pedagogia V. Telmon (a cura di), Saperi, metodi, istituzioni nel sistema formativo integrato E. Frauenfelder, Pedagogia e Biologia. Una possibile «alleanza» D. Izzo, L’educazione come politica sociale A. Cunti, La formazione in età adulta. Linee evolutive e prospettive di sviluppo P. Federighi, Strategie per la gestione dei processi educativi nel contesto europeo P. Cambi, P. Orefice (a cura di), Fondamenti teorici del processo formativo. Contributi per un’interpretazione P. Orefice, B. Gavagna (a cura di), I ritmi di vita di Piazza S. Croce. Un’esperienza di didattica dell’ambiente V. Sarracino (a cura di), La formazione. Teorie, metodi, esperienze F. Cambi, P. Orefice (a cura di), Il processo formativo tra storia e prassi. Materiali d’indagine V. Sarracino, E. Corbi, Storia della scuola e delle istituzioni educative (18301999). La cultura della formazione F. Santoianni, Sistemi biodinamici e scelte formative P. de Mennato, La ricerca «partigiana». Teoria di ricerca educativa P. de Mennato, Fonti di una pedagogia della complessità E. Flamini, A. R. Tamponi, Lingue straniere e multimedialità. Nuovi scenari educativi A. Mariani, Foucault: per una genealogia dell’educazione. Modello teorico e dispositivi di governo M. Striano, I tempi e i “luoghi” dell’apprendere. Processi di apprendimento e contesti di formazione V. Sarracino, M. R. Strollo (a cura di), Ripensare la formazione A. Cunti, Pedagogia e didattica della formazione V. d’Agnese, Esperienza e costruzione di senso. Riflessioni su un decennio di scritti bruneriani S. Guetta, Il successo formativo nella prospettiva di Reuven Feuerstein M. A. Galanti, Affetti ed empatia nella relazione educativa E. Frauenfelder e F. Santoianni (a cura di), Le scienze bioeducative. Prospettive di ricerca C. D’Alessandro, Problemi pedagogici nelle teorizzazioni e nelle pratiche educative dell’età romantica M. R. Strollo, Prospettiva sistemica e modelli di formazione B. Benedetti, La relazione educativa nel gruppo. Verso una prospettiva sistemica C. Sabatano, Dal corpo alla mente. Prospettive teoriche e metodologie formative F. Cambi, P. Orefice (a cura di), Educazione, libertà, democrazia. Il pensiero pedagogico di Lamberto Borghi

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A. Cunti, P. Orefice (a cura di), Multieda. Dimensioni dell’educare in età adulta: prospettive di ricerca e d’intervento P. Orefice, La Ricerca Azione Partecipativa. Teoria e pratiche di creazione locale dei saperi F. Sabatano, Per una pedagogia delle competenze. La costruzione di un modello di formazione in contesti aziendali P. Orefice, La Ricerca Azione Partecipativa 2 F. Santoianni, La fenice pedagogica. Linee di ricerca epistemologica F. Sabatano (a cura di), La formazione del soggetto per lo sviluppo organizzativo. Modelli pedagogici e strategie di intervento M. R. Strollo, Il laboratorio di epistemologia e di pratiche dell’educazione. Un approccio neurofenomenologico alla formazione pedagogica degli educatori M. D’Ambrosio, Discorsi sul divenire dentro i luoghi del contemporaneo. Suggestioni pedagogiche M. L. Iavarone, Alta formazione per lo sviluppo educativo locale F. Cambi, M. Striano (a cura di), John Dewey in Italia. La ricezione/ripresa pedagogica F. Bacchetti (a cura di), Attraversare boschi narrativi. Tra didattica e formazione P. Perillo, La trabeazione formativa. Riflessioni sulla formazione per una formazione alla riflessività P. Orefice, R. Sampson Granera, G. Del Gobbo (a cura di), Potenziale umano e patrimonio territoriale per uno sviluppo sostenibile tra saperi locali e saperi globali G. Genovesi (a cura di), Paideia rinascimentale. Educazione e “buone maniere” nel XVI secolo V. D’Agnese, Responsabilità e incertezza nel processo formativo C. Melacarne, Apprendimento e formazione nella vita quotidiana. Sull’identità del professionista dell’educazione M. Sibilio (a cura di), Il corpo e il movimento nella ricerca didattica. Indirizzi scientifico-disciplinari e chiavi teorico-argomentative M. Sibilio (a cura di), I significati del movimento nella ricerca didattica. Approcci di ricerca e protocolli sperimentali a confronto Stefano Oliverio, Prospettive sulla “buona educazione” per un moderno avenire P. Valerio, M. Striano, S. Oliverio (a cura di), Nessuno escluso. Formazione, inclusione sociale e cittadinanza attiva M. D’Ambrosio (a cura di), Teatro e parateatro come pratiche educative

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Il testo raccoglie gli Atti della Conferenza internazionale ‘Teatro Parateatro Arti e Cultura Attiva. Tra ricerca della conoscenza e pratiche pedagogiche’ promossa e organizzata dall’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa di Napoli nell’ottobre del 2011, in occasione del decimo anno di presenza e di attività teatrale e parateatrale condotta da Ewa Benesz con gli studenti del Corso di Laurea in Scienze dell’Educazione. Collegare i diversi piani della ricerca artistica e teatrale con la riflessione e la pratica pedagogica è stato l’obiettivo della conferenza ed è quindi il focus attorno al quale ruotano i diversi contributi, animando l’incontro e il dialogo all’interno di una comunità che si riconosce in una matrice fenomenologica che fa dell’estetica la dimensione dell’agire e dell’essere attraverso cui tendere alla conoscenza e alla conoscenza di sé. La ricerca teatrale di Jerzy Grotowski – con il teatro povero, il parateatro e il teatro delle sorgenti in Polonia, e con il dramma oggettivo e l’Arte come veicolo in America e in Italia – è punto di riferimento che fa dei linguaggi artistici e della loro dimensione e ricerca poetica un territorio privilegiato per quanti riflettono e sperimentano la praticabilità di nuovi paradigmi nell’ambito della pedagogia attiva. Maria D’Ambrosio è professore di Pedagogia generale e sociale all’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa di Napoli dove è anche responsabile di pari e dispari, lo sportello pari opportunità del Comune di Napoli attivo presso l’Ateneo, e dove ha coordinato le attività del Centro e-learning, del Centro di Lifelong Learning e di Orientamento dopo-laurea. Nel solco di una pedagogia critica che guarda al nesso tra dimensione estetica e formazione, i suoi interessi di studio e ricerca si muovono tra comunicazione, identità, consumi mediali, teatro e parateatro, arti e media digitali. Attualmente lavora nello specifico sul tema della divulgazione scientifica, degli ambienti digitali per l’apprendimento, della cittadinanza attiva e della responsabilità sociale d’impresa, coordinando attività di ricerca e promuovendo progetti e interventi di carattere nazionale e territoriale. Tra le pubblicazioni più recenti: Per un’identità situata. Consumi, identità e affetti: il caso-studio di una comunità di studenti, in: Stramaglia, M., (a cura di), Pop-pedagogia L’educazione postmoderna tra simboli, merci e consumi, Lecce-Brescia, Pensa MultiMedia, 2012; La ‘scena’ digitale. Derive e sfide pedagogiche della performanza nell’era post-elettrica, in: Sibilio, Maurizio, 2012, a cura di, La complessità decifrabile, Lecce, Pensa; con Ornella De Sanctis, a cura di, 2011, L’orientamento nei processi formativi, Napoli, Liguori. In copertina: Maria Lai, Il mondo incandescente, 1986.

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