Sulla 'traccia' di Michel de Certeau. Interpretazioni e percorsi 9788874622108

Dal punto di vista teorico l'opera storica di Michel de Certeau si è concentrata su tre differenti linee tematiche:

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Sulla 'traccia' di Michel de Certeau. Interpretazioni e percorsi
 9788874622108

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DISCIPLINE FILOSOFICHE Anno XVIII, numero 1, 2008

Quodlibet

Sulla "traccia" di Michel de Certeau Interpretazioni e percorsi a cura di Barnaba Maj e Rossana Lista

Quodlibet

DISCIPLINE FILOSOFICHE Anno XVIII, numero 1, 2008 Rivista fondata da Enzo Melandri. Periodicità semestrale. Aut. Tribunale di Macerata, n. 527/stampa del 16. 12. 2005 ISSN: 1591-9625 Direttore

Stefano Besoli

Direttore responsabile

Barnaba Maj

Dipartimento di filosofia

Comitato scientifico Massimo Barale (Università di Pisa), Jocelyn Benoist (Université Paris-I PanthéonSorbonne), Giuseppe Cantillo (Università Federico II di Napoli), Jean-François Courtine (Université Paris-IV Sorbonne), Françoise Dastur (Université de Nice Sophia Antipolis), Roberta De Monticelli (Università Vita-Salute San Raffaele di Milano), Bianca Maria d’Ippolito (Università di Salerno), Massimo Ferrari (Università di Torino), Gottfried Gabriel (Friedrich Schiller Universität Jena), Gianna Gigliotti (Università Tor Vergata di Roma), Wolfhart Henckmann (Ludwig-Maximilians-Universität München), Douglas Hofstadter (University of Indiana), John Lachs (Vanderbilt University), Claudio La Rocca (Università di Genova), Eugenio Mazzarella (Università Federico II di Napoli), Ernst Wolfgang Orth (Universität Trier), Renato Pettoello (Università di Milano), Manfred Sommer (Christian-Albrechts-Universität Kiel), Jürgen Stolzenberg (Martin-LutherUniversität Halle-Wittenberg), Francesco Saverio Trincia (Università La Sapienza di Roma), Frédéric Worms (Université de Lille III) Comitato di redazione Francesco Bianchini, Roberto Brigati, Andrea Cavazzini, Roberto Dionigi†, Gabriele Franci, Roberto Frega, Michele Gardini, Alberto Gualandi, Luca Guidetti, Barnaba Maj, Marina Manotta, Riccardo Martinelli, Giovanni Matteucci, Maurizio Matteuzzi, Davide Messina, Giorgio Volpe Direzione e redazione Dipartimento di Filosofia, via Zamboni 38 - 40126 Bologna. Tel 051-2098344. Fax 051-2098355 E-mail: [email protected] — http://www.filosofia.unibo.it/discfil/Welcome.html Copertina

Augusto Wirbel

© Copyright 2008 Quodlibet ISBN: 978-88-7462-210-8 Quodlibet edizioni, via Santa Maria della Porta, 43, 62100 Macerata tel. 0733-264965 fax 0733-267358 e-mail: [email protected] Finito di stampare nel mese di luglio 2008 dalla Grafica Editrice Romana s.r.l., Roma. Questa rivista è parzialmente pubblicata col contributo di fondi di ricerca R.F.O e dell’Università di Bologna.

Indice

Sulla «traccia» di Michel de Certeau. Interpretazioni e percorsi a cura di Barnaba Maj e Rossana Lista 5

Barnaba Maj, Rossana Lista Presentazione

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Michel de Certeau Storicità mistiche

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Hayden White Storia mistica

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Andrew Baird Etica e luogo della storia

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Silvana Borutti Immagini-traccia e scrittura. Storio-grafia ed etno-grafia in Michel de Certeau

83

Christina Antenhofer Emozionalità nella storia. Riflessioni sullo sfondo di Storia e Psicoanalisi e La scrittura della storia di Michel de Certeau

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Massimiliano Mazzini Blumenberg e/o de Certeau. Stabilità e/o frattura? Il ritorno del rimosso e l’inversione del pensabile all'interno della storiografia sociologica dei comportamenti religiosi

115

Stefano Selenu Elaborando le tracce della storia. Linguaggio, metafora e alterità in Antonio Gramsci

135

Barnaba Maj «Les traces de l’autre»: Robinson Crusoe e il problema della storia

149

Rossana Lista Pratiche di senso e di scrittura in Heart of Darkness

171

Desirée Petrizza La «neve nera»: spazio del tempo nella poesia di Paul Celan

189

Lisa Regazzoni Campi di vittime e controcampi politici. Il dittico di Clint Eastwood sulla battaglia di Iwo Jima

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Abstracts

Barnaba Maj, Rossana Lista

Presentazione

Non è certo necessario citare il nome di Giambattista Vico e la tradizione vichiana per rammentare che, dalla fine dell’Ottocento fino agli anni Settanta del secolo scorso, con Labriola, Croce, Gramsci, Antoni, Badaloni e Tessitore, la cultura filosofica italiana ha dato un contributo di sicuro rilievo alla teoria della storia e della storiografia. Alla ricerca della fondazione di una teoria marxista «pura», in grado di fornire la struttura concettuale del «continente della storia», alla tradizione italiana fece per esempio esplicito riferimento Louis Althusser, con una punta di invidia. Ma, per una singolare coincidenza, proprio a partire dalla pubblicazione dell’edizione critica dei Quaderni del carcere, a cura di Valentino Gerratana, nel 1975 questo tema tradizionale nelle declinazioni del neoidealismo e dello storicismo marxista è rapidamente sparito dall’orizzonte filosofico italiano. Naturalmente c’è qualche eccezione, come l’elaborazione innanzi tutto metodologica della scuola padovana intorno alla Begriffsgeschichte ispirata all’opera di Reinhart Koselleck – che è anche un tentativo di interpretazione del Moderno – o gli sviluppi metodologici e teorici della microstoria, con gli echi da essa suscitati in Francia e USA (ben documentati in Giochi di scala. La microstoria alla prova dell’esperienza, a cura di Jacques Revel, Viella, Roma, 2006). Né sono certo mancati contributi di rilievo riguardanti soprattutto la ricostruzione storico-teorica dello storicismo tedesco, in particolare intorno al bilancio critico tracciato da Ernst Troeltsch nei primi anni Venti. Si tratta comunque di contributi focalizzati o intorno a categorie come il politico o l’antropologico (culturale o sociale) o alla storia della teoria. Ma ciò che sembra venuta meno è l’intenzione di porsi in un vero e proprio confronto critico a livello di reine Theorie con le nuove tendenze apparse nel mondo. Sotto l’impulso del dibattito critico legato allo strutturalismo e alla polemica contro la tradizionale storiografia narrativa sviluppata dai sostenitori dei «metodi statistici e quantitativi», tali tendenze teoriche prendono le mosse proprio nello stesso periodo, intorno alla metà degli anni Settanta – in Francia avviate addirittura già con il memorabile saggio Le discours de l’histoire (1967) di Roland Barthes. Basta ricordare alcuni titoli e nomi per avere un elenco cospicuo: Metahistory (1974) di Hayden White, Theorie der Geschichte (1977) di Reinhart Koselleck, Wolfgang J. Mommsen e Jörn Rüsen, Temps et récit (1983-1985) di Paul Ricœur, Grundzüge einer Historik

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BARNABA MAJ, ROSSANA LISTA

(1983-1989) di Jörn Rüsen, Geschichtsdiskurs (1993-1999) di Wolfgang Küttler, Jörn Rüsen e Ernst Schulin, A New Philosophy of History (1995) di Frank Ankersmit e Hans Kellner, cui vanno aggiunti ulteriori contributi dal citato Barthes a Michel Foucault, da Jacques Le Goff a Lawrence Stone, per finire con il dibattito epistemologico – di lontana ascendenza hempeliana ma tuttora in atto – sulla «narrazione storica come modello esplicativo» (cfr. D. Carr, ed., Historical Explanation, in «History & Theory» 47, 2008, 1, pp. 19-68). Nel quadro va poi senz’altro annoverato quel monumento insieme linguistico-concettuale, storiografico e teorico che sono i Geschichtliche Grundbegriffe. Historisches Lexikon zur politisch-sozialen Sprache in Deutschland, avviati nel 1972 (Klett-Cotta, Stuttgart: 7 volumi terminati nel 1978, il volume 8 del Register in due tomi nel 1997) da Otto Brunner, Werner Conze e Reinhart Koselleck. Né possono essere dimenticati altri momenti di rilevanza storica diretta, come il ruolo svolto nella cultura politica tedesca – non solo in termini di Erinnerungspolitik – dallo Historikerstreit provocato dalle note tesi di Ernst Nolte (1986) sulla «guerra civile europea», il dibattito intorno all’ipotesi neohegeliana della “fine della storia” avanzata da Francis Fukuyama (1992: The End of History and the Last Man), il forte rilancio di un’idea unitaria e razionale di storia a livello di integrazione epistemologica con le neuroscienze compiuto da Eric J. Hobsbawm (2005), in una sorta di appassionata perorazione della ragione nella e della storia che, in versione aggiornata, ricorda l’idea di Vernunft di György Lukács. Come si è accennato, il nucleo principale di queste nuove idee teoriche ha preso le mosse dalla discussione critica intorno allo strutturalismo e all’egemonia dei modelli quantitativi in campo storiografico. In questo contesto, un episodio particolarmente significativo è il vero e proprio rifiuto critico di La possession de Loudun (1972) di Michel de Certeau, formulato da un importante esponente delle «Annales» come Emmanuel Le Roy Ladurie in una recensione del 1973. Si tratta della prima opera storiografica di de Certeau. Ma in essa si delineavano già alcune evidenti novità di prospettiva, che spiegano chiaramente perché la sua ricezione sia stata così tardiva. Con poche eccezioni, infatti, essa è iniziata seriamente solo dieci anni dopo la morte dello storico francese (1986), con la monografia americana di Jeremy Ahearne, Michel de Certeau. Interpretation and its Other (Politiy Press, Cambridge, 1995) e si è consolidata con il saggio Les trois héritages de Michel de Certeau. Un projet éclaté d’analyse de la modernité di Éric Maigret, apparso nel numero 3/2000 delle «Annales». Questo saggio, che traccia sia un profilo dello studioso che un bilancio critico anche in senso euristico, ha il merito di mostrare con chiarezza come l’opera di de Certeau – mirabile sotto il profilo dell’indagine storiografica in senso stretto, notoriamente rivolta al campo del misticismo e del mutamento delle forme di credenza religiosa e e (con il capolavoro del 1982 La fable mystique. XVI et XVII siècles, Galli-

PRESENTAZIONE

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mard, Paris) –, dal punto di vista teorico si è concentrata su tre differenti linee tematiche: l’epistemologia storica (L’écriture de l’histoire, Gallimard, Paris, 1975, 1984²); la socio-antropologia delle religioni (Le christianisme éclaté, con Jean-Marie Domenech, Seuil, Paris, 1974; La faiblesse de croire, Seuil, Paris, 1987); le teorie dell’azione e della ricezione, complessivamente riconducibili a Invention du quotidien. Arts de faire (Gallimard, Paris, 1980, 1990²) – opera in cui c’è l’evidente tentativo di giungere a un’analisi “compiuta” e politicamente non inerte della modernità – e a La prise de parole (Seuil, Paris, 1968, 1994²), una fra le più originali interpretazioni in campo simbolicoculturale e politico del Maggio parigino e del Sessantotto. In linea di continuità con il precedente volume 1/2006 di «Discipline filosofiche» su “La struttura subatomica dell’esperienza”. Questioni di teoria della storiografia, il presente volume affronta soprattutto il primo tema: l’epistemologia storica. In de Certeau, essa si distingue dagli altri tentativi teorici sopra richiamati per una serie di elementi: pur non rinunziando affatto al rigore scientifico, essa ingloba direttamente l’elemento letterario come alterità irriducibile nella teoria del discours de l’histoire (Barthes), declinando così la teoria narrativa in modo molto originale; in questa connessione, tende a un radicale superamento della dicotomia fra “discorso vero” (scientifico) e “finzione”; indica nel letterario l’orizzonte del referente analogico che spiega il rapporto fra discorso storico e il passato come alterità assente; in questa chiave, assume la psicanalisi sia come modello – le Krankengeschichten freudiane –, che come indispensabile strumento di indagine, pur nella netta divaricazione – riferita soprattutto al montaggio del tempo storico – fra ricostruzione storiografica e psicoanalitica del passato. Rispetto al grande modello di storiografia «filosofica»/filosofia «storiografica» di Foucault, ciò rende l’analisi del discorso storico più aperta insieme alla dimensione narrativa e – proprio per questo – all’articolazione storica, sociale e linguistica della dimensione “soggettiva” (punctum dolens della teoria foucaultiana). Il titolo del volume fa riferimento alla traccia, termine-chiave nella riflessione di de Certeau sulla storia e sulla storiografia. Esso si apre con un saggio del 1985, inedito in lingua italiana, sulle cosiddette «storicità mistiche». Si tratta di un tema cruciale, come dimostra il saggio di Hayden White, che contestualizza la svolta post-strutturalista in cui si collocano le riflessioni teoriche di de Certeau e focalizza il ruolo analogico svolto nella teoria dallo studio stesso sui mistici e sul misticismo. La parte dedicata alle interpretazioni continua con i saggi di Andrew Baird sulle importanti implicazioni etiche della «conoscenza dell’Altro» in senso lato e in campo storiografico, Silvana Borutti sull’inversione storiografica prodotta dall’idea della traccia, Christina Antenhofer sulla delicata questione dell’emozionale rispetto alla pratica storiografica stessa, Massimiliano Mazzini su un possibile confronto

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BARNABA MAJ, ROSSANA LISTA

fra de Certeau e il concetto di Epochenschwelle di Blumenberg. Il saggio di Stefano Selenu sulla teoria del linguaggio in Gramsci, con alcuni puntuali richiami comparativi a de Certeau, e di Barnaba Maj sul ruolo del Robinson Crusoe nell’elaborazione dell’idea di traccia hanno funzione di raccordo con la sezione dei percorsi. Questa è sviluppata in un discorso (storico-)letterario con il saggio di Rossana Lista, che è una lettura di Heart of Darkness elaborata seguendo il modello stesso di de Certeau e di Desirée Petrizza sulla poesia di Celan come elaborazione poetico-linguistica di un assente della storia, e in un discorso (storico-)cinematografico con il saggio di chiusura di Lisa Regazzoni, che affronta l’importante dittico sulla memoria storica americana e giapponese legata alla battaglia del febbraio-marzo 1945, realizzato nel 2006 da Clint Eastwood: Flags of Our Fathers e Letters from Iwo Jima. In conclusione desideriamo rivolgere un ringraziamento particolare al professor Hayden White (Università di Stanford e Santa Cruz, California) per avere accettato con grande generosità l’invito a contribuire a questo volume con una riflessione inedita sull’opera di de Certeau e al professor Davide Messina dell’Università di Edimburgo per la preziosa e generosa collaborazione.

Michel de Certeau∗

Storicità mistiche

Uno studio storico sui mistici cristiani dei secoli XVI e XVII si costruisce a partire da silenziose popolazioni di archivi che si moltiplicano e in molti casi non si lasciano racchiudere nelle biblioteche e nei musei. Un volta steso il testo, questo studio si delinea tra le instabilità di queste mille memorie. Ma esso stesso obbedisce a una doppia attrazione. Con il metodo, esso mira a scoprire come i documenti «mistici» si inseriscono nella società di un tempo e ciò che essi ne rivelano – dunque a situarli in un insieme più vasto che rende intelligibile la loro singolarità – e a sistemare in quadri coerenti le correlazioni stabilite sulla base delle unità e delle regole che un’impresa scientifica si assegna. Su questa base, mette in opera il postulato di una razionalità sociale, vale a dire di una congiunzione possibile tra un ordine e la storia. Ma il ricercatore può ugualmente sperare che i suoi archivi modifichino l’apparato di cui si serve per analizzarli e che le questioni che essi pongono dirottino ciò che domanda loro. Da ciò si aspetta allora non solo il mezzo per rinnovare i suoi modelli secondo un processo che caratterizza ogni ars inveniendi ma anche la possibilità di ritrovarsi a sfiorare qualcosa di insolito. Così si va verso il mare. L’attrattiva dell’altrove è una componente (repressa o seducente) della ricerca, al pari dell’esigenza di razionalità. Ciò che il ricercatore si aspetta è che alla fine in questo paesaggio di rovine «arrivi» qualche cosa. Questi due movimenti della conoscenza non sono mai del tutto separabili. Lo sforzo per costruire con dei dati una figura attuale dell’intelligibilità dipende pure da un «interesse» altro (come dice Habermas) o da uno «stile» di pensiero altro dall’attenzione per la capacità che le cose avrebbero di tracciare un’estraneità nelle nostre cornici concettuali. L’analisi istituisce un luogo dove la storia che noi fabbrichiamo entra in competizione con quella che dall’altrove può venire ad abitare i nostri territori. Il suo esercizio privilegia sia lo sviluppo di un ordine, che l’interru-

∗ Questo saggio è la versione italiana di M. de Certeau, Historicités mystiques, in «Recherches de science religieuse», 73, 1985, pp. 325-354 (numero speciale dedicato al tema Pratiques historiennes). I curatori di questo volume e la direzione di «Discipline filosofiche» rivolgono il loro sentito ringraziamento alla direzione della rivista «Recherches de science religieuse» e in particolare al caporedattore Pierre Gilbert per avere generosamente autorizzato la pubblicazione di questa versione italiana.

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MICHEL DE CERTEAU

zione di un inizio. Il suo rischio si gioca in termini di comprensione o in termini di instaurazione. A questo riguardo, lo studio storico mette in scena (una scena scientifica) il lavoro della memoria. Lo studio ne rappresenta l’opera contraddittoria, ma in modo tecnico. In effetti la memoria ora seleziona e trasforma delle esperienze precedenti per adattarle a dei nuovi usi oppure pratica l’oblio, il solo che fa posto a un presente; ora fa ritornare sotto forma d’imprevisto cose che si credeva fossero passate – e forse invece non hanno età – e sistemate, aprendo nell’attualità la breccia di qualcosa di non saputo. L’analisi scientifica compie di nuovo in laboratorio queste ambigue operazioni della memoria. Ora conforta, ora inquieta la legittimità di un ordine presente. Le regole di una disciplina non sono in grado di scegliere fra questi due stili. Controllano la correttezza e l’erudizione di uno studio ma non decidono dell’interesse che lo anima. Il movimento che lo sostiene sta alla sua tecnicità come il senso sta alla correttezza di una frase. La grammatica della storiografia1 verifica il buon andamento del lavoro ma non determina la direzione che esso prende. Nel campo storiografico è dunque lecito preferire l’una di queste direzioni e domandarsi a quali condizioni i mistici di un tempo possono ancora «tracciare» le loro proprie operazioni nei nostri laboratori. Tale interrogativo potrebbe riallacciarsi a una pratica banale della meraviglia. Così grazie allo schermo della televisione un viso, un gesto o un paesaggio trova uno spazio di visibilità, in cui si mostra con dettagli sorprendenti l’improvviso inizio di un altro mondo. Certo questo modo di apparire alle finestre dei media non sopraggiunge più come «la scrittura» che una volta sui muri del palazzo di Baldassarre «tracciava» le parole Mene, Tekel, Peres2. Lo storico non potrebbe confidare in una tale rivelazione (anche se dal sogno al lapsus la psicoanalisi fa emergere delle manifestazioni anche terribili o fantastiche, in grado di organizzare a sua insaputa il discorso della ragione). Assomiglia di più al cameraman o al pittore: egli monta una scena (una cornice di ipotesi e attese) che possa impressionare l’ignoto. Con la meticolosità stessa della sua pazienza prepara un luogo di inscrizione per ciò che egli non sa e la cui singolarità sposta un ordine del pensabile. Questo effetto di inscrizione è la prima forma di ciò che chiamerò «la storicità» di questi documenti antichi: è la maniera in cui la loro storia inizia a imprimersi nella nostra, mostrando l’apparato scientifico con il quale noi produciamo i nostri saperi. Una difficoltà ulteriore complica l’incrocio possibile di pratiche storiche e produzioni mistiche: le nostre richieste scientifiche si confrontano con dei 1

Con «historiographie» intendo lo studio storico, «l’écriture de l’histoire», per distinguere dal suo oggetto (la storia) l’analisi che ne viene fatta. 2 Daniele 5, 24-28.

STORICITÀ MISTICHE

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documenti che, come essi stessi dicono, dipendono da una «scienza» – la scienza mistica3. Scienza strana, è vero. Nei secoli XVI-XVII essa resta legata ai presupposti cristiani di una teologia medievale ma è ormai priva dell’apparato razionale che un tempo li articolava in oggetti di pensiero; perciò, portata a riesumare i postulati di una credenza che perde i suoi oggetti, le occorre sostenere il loro fondamento per altre vie: una pragmatica del dialogo, una retorica del corpo-soggetto, una metodologia, anzi una tecnologia sperimentale «moderna». Comunque sia, se si prende sul serio questa rivendicazione di scientificità, essenziale a proposito dei mistici, essa introduce un equivoco circa il concetto stesso di «scienza». Da quale punto di vista esaminare il rapporto tra la nostra e la loro? È il problema di una storia delle scienze, quando essa considera dei sistemi epistemologici eterogenei – un «pensiero selvaggio» – e non lo sviluppo, costellato di punti di non-ritorno, che permette una base comune di postulati logici. Questa premessa mette in discussione la possibilità di definire la ricerca che mira a una «scienza» costruita al di fuori dei presupposti che istituiscono i nostri saperi. Livelli successivi di analisi corrispondono a differenti tipi di inscrizione di questa scienza nella nostra storia: 1. innanzi tutto si presenta una documentazione che in archivi e libri attesta i mille modi in cui questi mistici sono stati trattati e recepiti nel passato; 2. in questo materiale oggi vengono ritagliati degli oggetti scientifici, affinché una parte dell’informazione prenda forma intelligibile all’interno delle nostre cornici di pensiero. Si potrebbe allora cercare (argomento di un ulteriore articolo) dove e come la scienza mistica mostra la sua pratica propria della storia in operazioni specifiche. Questi registri, relativi a delle iscrizioni formalmente distinte, dovrebbero condurre da ciò che la storia ha fatto dei mistici fino a ciò che essi ne hanno fatto. Tentare questo rovesciamento (con la mediazione di ciò che ogni scienza pretende fare della storia), significa passare dalle tracce che una mistica ha lasciato nelle nostre storie ai modi in cui essa dice e fa se stessa – alla storicità sua propria. Significa domandarsi ciò che «avviene» in questi documenti (mistici), vale a dire come leggerli per riconoscervi ciò che essi «producono» e ciò che, a questo titolo, sono capaci di instaurare nello spazio epistemologico delle nostre discipline di lavoro. Dalla loro estraneità (o da ciò che ne resta), può nascere qualcosa?

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Cfr. M. de Certeau, La Fable mystique (XVIe-XVIIe siècle), Gallimard, Paris, 1982, pp. 138-152 («Le substantif d’une science»). [Cfr. M. de Certeau, Fabula mistica. La spiritualità religiosa fra 16. e 17. secolo, trad. it. di R. Albertini, Il Mulino, Bologna, 1987, N.d.T.].

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MICHEL DE CERTEAU

1. Una documentazione sociale All’avventuriero che, fidando in ciò che ha inteso o letto, conta di scoprire i ricchi tesori di saperi sconosciuti, la documentazione disponibile sembra ben presto spegnere i suoi sogni. Essa è il risultato dell’immenso lavoro che ha selezionato, trasformato e manipolato dei materiali antichi, prima che essi vengano collocati nei depositi dove il ricercatore li trova. Lo storico lavora sempre di seconda mano, nel senso che egli utilizza ciò che fruitori che l’hanno preceduto hanno già definito, reimpiegato e cento volte arrotolato nei loro uffici o nei loro tribunali. Egli arriva per ultimo nei cimiteri dove si ammucchiano i resti lasciati da tante operazioni antecedenti. Egli assiste alla fine di mille storie singolari. Ben lontano dal circolare in un regno di mistici antichi, sfoglia in silenzio un paesaggio frammentario di residui sociali. Quest’esperienza demistificatrice ha valore positivo. Essa riporta la ricerca della mistica sul terreno delle realtà sociali, laddove i sogni sono catturati dai conflitti e le idee attirate dal tempo. A inventariare alcuni aspetti di questi archivi giacenti, vittime e testimoni della storia, si individuano dunque i problemi elementari posti dalla loro interpretazione; si evita di identificare con la «mistica» questi documenti che sono innanzi tutto gli effetti di attività sociali. Questo primo «stato» della questione mina l’arroganza ideologica del ricercatore o la sua impazienza di sapere circa il suo oggetto «nascosto»4. Un quartiere sospetto. I capitoli in cui le sistemazioni archivistiche e bibliotecarie ospitano i documenti da studiare rimandano innanzi tutto al lavoro di classificazione che nei secoli XVI e XVII ha isolato la regione particolare posta sotto il segno globalmente spregiativo di «mistica». Il raggruppamento stesso del materiale pone la domanda sulla funzione che aveva questa identificazione socio-ideologica. A quali fini se ne utilizzava la designazione in una società retta dal rango e dallo stato? Quale arma essa forniva contro particolari gruppi e convinzioni? Reciprocamente, a quale interiorizzazione dava luogo nelle persone definite come «mistici», a titolo di quale «umiliazione di nascita» (come diceva Maria dell’Incarnazione) l’accettavano, in nome di quale rottura con il «mondo» o di quale ambizione sfuggendo alle sue gerarchie se ne inorgoglivano? La mistica è una regione stigmatizzata, gravata da una denominazione pesante quale lo sono oggi quelle di «banlieue» o di «immigrato». Nell’età classica, era pericoloso risiedere in questo quartiere sospetto, anche se ci sono varianti consistenti, locali e cronologiche, nel valore che gli è assegnato. L’ulteriore destino della 4 Per questa rapida panoramica mi astengo dal citare i fondi d’archivio e le «serie» correlate: l’indicazione di alcune fonti resterebbe derisoria.

STORICITÀ MISTICHE

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parola induce a dimenticare che essa risale a una storia delle mentalità, cioè ai rapporti di forza che giungono a legittimare delle qualifiche culturali5. Conflitti e violenze. La violenza regna in questi quartieri. Nella loro grande maggioranza i documenti ufficiali riguardanti la «mistica» provengono da procedure disciplinari – dottrinali, giuridiche, mediche e così via – che un tempo miravano a esorcizzare i «pericoli» di un’emigrazione (reale o immaginaria) rispetto alle autorità ecclesiastiche, civili o di organizzazione del sapere. Dall’inizio del XVI secolo fino alla fine del XVII, dagli «alumbrados» spagnoli fino ai «quietisti» francesi, i documenti formano un’immensa letteratura di procedure cavillose, che tratta di «complotti», «minacce» e segrete «sovversioni» da scoprire e reprimere6. Forse ci ingannano su ciò che è effettivamente successo ma è comunque ciò che essi raccontano. C’è un fatto massiccio a distinguere l’informazione circa i fenomeni mistici: essi sono generalmente indissociabili da dispute e lotte. Niente mistici senza processi. Perciò è innanzi tutto attraverso i processi (regolari e pubblici, o interni a un gruppo, o selvaggi) che i mistici si fanno riconoscere. Un’ostilità aderisce a questi testi sull’amore, come se essi non riuscissero a sbarazzarsene, e spesso essi stessi si sviluppano in apologie e polemiche all’indirizzo del «mondo». Questi récit abitati da passioni appaiono legati (inchiodati?) a una violenza della storia. Questo clima di «crisi» denota senza dubbio un fatto essenziale. Le grandi e piccole tragedie mistiche mettono in discussione i soggetti più che gli enunciati. «La tua esistenza deve cambiare», dicono le voci che si levano, «e non le tue proposizioni, che si conformeranno poi alle tue scelte». Non c’è più spazio autonomo dove discutere obiettivamente di verità e prove. «O ti converti o rifiuti la vita ». L’ingiunzione crea dei discepoli o degli avversari. Un simile diktat riprende l’antico processo biblico tra Yahweh e il 5 Il carattere spregiativo di questa denominazione nei documenti non è un fenomeno tardivo, dovuto a un «antimisticismo» della fine del XVII secolo. A partire dal XVI secolo, i procedimenti contro gli «alumbrados», le messe all’Indice di opere di spiritualità, i dibattiti sui Reno-fiamminghi e così via attestano dappertutto il sospetto che colpisce il termine «mistica». Se per un certo periodo di tempo il riferimento neoplatonico vale a questo termine un prestigio in diverse scienze alchemiche o ermetiche (cfr. W. Shumaker, The Occult Sciences in the Renaissance, University of California Press, Berkeley, 1973), l’autonomizzazione della «scienza mistica» non ha cessato di suscitare (come uno Stato nuovo che non riuscisse a farsi riconoscere) imprese volte a scomunicarla o a riportarla alla teologia. Già H. Bremond ha evocato questa storia (nel tomo 11 della Histoire littéraire du sentiment religieux). Ma tale scienza non è solo il contrappunto di un’«invasione mistica»; essa la domina e l’avviluppa. 6 Cfr. per esempio A. Huerga, Historia de los Alumbrados (1570-1630), Fundacion universitaria española, Madrid, 1978, 2 tomi; A. Marquez, Los Alumbrados (1525-1559), Taurus, Madrid, 1980; dall’altra parte: L. Cognet, Crépuscule des mystiques, Desclée, Tournai, 1958; J. Le Brun, La spiritualité de Bossuet, Klincksieck, Paris, 1972, pp. 439-695 («La querelle du quiétisme»).

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suo popolo ma la contestazione, che oppone dei voleri contrari tra interlocutori, negli archivi assume la figura di procedimenti giudiziari, di condanne e imprigionamenti con cui si difende la (presunta) neutralità di un diritto comune o di una ragione di stato. Anche i «casi» innumerevoli che segnano le apparizioni pubbliche della mistica non rappresentano che un aspetto legale e parziale di questi confronti, accanto a brusii, denunce, dispute e sospetti che riempiono cronache e corrispondenze private, e che segnalano i fenomeni mistici nei villaggi e nelle città. Una quotidianità selvaggia si sveglia intorno ai «santi». Si direbbe che in ciascun gruppo essi toccano una fragilità dell’istituzione o un dolore dell’esistenza – quali rinunce, quali nostalgie, quali desideri impossibili? – e che nello scuotere non si sa quale muto equilibrio essi debbano subire una penalizzazione anonima, che non cessa di metterli alla prova qualificandoli. Forse si scopre con loro un «furore» originario, latente in ogni società – violenza temporaneamente calmata dall’«ordine» che si rimprovera loro di turbare7. Rumori di un altro corpo. In parallelo con tutte queste febbri sociali, strani fenomeni fisici popolano gli archivi. Essi non corrispondono alle malattie le cui «idee», conosciute e definite dalla medicina, articolano allora un sapere cosmo- e antropo-logico. Non si tratta neppure di corpi che soffrono o godono ma di organi sconvolti, di teste dolenti, di membra ferite, di calori o di pus locali, cioè di segnature corporee isolate che hanno forma di eccessi «straordinari». «Confessioni» o «osservazioni» espongono una fenomenologia dispersa ma inesauribile di «singolarità» fisiologiche (piaghe, incisioni, perdite di sangue, tumefazioni, levitazioni, distorsioni fisiche) o sensoriali (sensazioni tattili interne, disgusti, allucinazioni olfattive, uditive o visive). Passando da un documento all’altro cresce lo strato di questi frammenti corporei, simile a un mare ricoperto da relitti che saranno le reliquie del futuro: non sono in effetti i residui sacri di corpi scomparsi ma i segni locali di un corpo a venire – «spirituale» – che qui o là s’impianta già in strani tatuaggi, come un essere-là muto, come l’atto anonimo di un altro corpo. Questa teratologia presuppone, invisibile, una curiosità instancabile di testimoni, biografi o giudici che notano i minimi dettagli degli avvenimenti fisici e le loro sottili varianti. Gli eccessi corporei si stagliano davanti a degli occhi avidi. Negli stessi conventi, un’abbondante letteratura necrologica traccia l’inventario minuzioso di «mortificazioni fiammeggianti», di malattie 7 Ciò che essi destano intorno a loro è ugualmente ciò che sperimentano in se stessi: una «passione» primaria che chiamano «collera», «furore» o «odio» e che deborda dalla scena individuale, simile a un «eccesso» originario di cui testimoniano anche le relazioni sociali. Le alternanze della sfida – rischio – e del dolorismo – patire – rimandano a un fondo primario sadomasochista. Esse sono gli effetti di una «discesa» nelle radici dell’esistere e attestano una visione non idealista della vita umana.

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e miracoli barocchi o di agonie che giorno dopo giorno gli sguardi della famiglia religiosa8 sorvegliano. Di quale dolore questi sguardi sono schiavi? A quali anatomie fantastiche si applicano? Accumulata a partire da fonti differenti (religiose, mediche, giuridiche), questa moltitudine di «particolarità» rimanda a una drammaturgia corporea della società. Collazionando tutti gli indizi fisici di «combattimenti spirituali», un teatro della crudeltà si compone in «blasoni» che hanno oggi il tratto di oscenità. Una malattia coglie il ricercatore (forse a causa anche delle complicità che i documenti insinuano nel suo lavoro solitario); se egli si sottrae a una tale vegetazione fisiologica, è per merito dell’attività tecnica che deve dispiegare per registrare e classificare il materiale fornito dal «terreno». Ma che cosa gli rivela dunque una simile inventività corporea posta sotto il segno della mistica? Senza dubbio nel passato ciascuna giurisdizione si è presa la sua rivincita sui radicalismi spirituali afferrandoli alla base, dove le loro «malattie» (d’amore o di disperazione) le restituivano la possibilità di una padronanza giudiziaria e terapeutica. Soprattutto i dolori e le gioie dei «santi» sembrano aver fatto uscire in piena luce un elementare sadismo collettivo, fornendolo di un linguaggio che gli corrispondeva troppo bene. Nel lessico corporeo degli «stati» mistici si gioca in ogni caso la relazione patologica che una società intrattiene con se stessa. Gli archivi introducono una visione nietzscheana dei corpi sociali interrogati sulla loro propria identità dalle «malattie» interne, cioè da tutti questi luoghi pericolosi in cui degli organi smettono di essere silenziosi per emettere dei rumori inquietanti. I fenomeni mistici vi raffigurano in effetti questi rumori insensati venuti dall’altrove – è l’angelo, è la bestia? – e percepiti come dei problemi o delle minacce per la coscienza che il corpo sociale ha di se stesso. Legittimità sociali. La documentazione riserva ben altre sorprese al visitatore che è partito alla ricerca di saperi mistici e a poco a poco registra i sintomi di incroci tra le politiche dell’ordine e le «passioni» sociali che esse esprimono, regolano o respingono senza conoscerle. È la scoperta che l’esperienza mistica potrebbe caratterizzarsi innanzi tutto per la presa in carico di fondamentali poste in gioco nascoste al fondo della vita collettiva. Comunque sia, per sfuggire a questi rumori di conflitti e di corpi che una concezione idealista della mistica considera come sentieri melmosi della storia, si può provare a staccarne le opere maggiori in cui si espone una «scienza mistica»: Teresa d’Avila, Giovanni della Croce, Maria dell’Incarnazione, Angelus Silesius e così via. In esse brillerebbero infine i castelli di cristallo della vera scienza. Queste opere infatti sono state poste sotto il titolo di «mistiche» e selezionate dalle istituzioni – una chiesa, una setta, una casa 8 Cfr., per esempio, J. Le Brun, L’institution et le corps, lieux de la mémoire, in «Corps écrit», 11, 1984, pp. 111-121.

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editrice. Esse sono state «portate alla luce» e difese da dei gruppi di pressione nel corso di guerriglie tra correnti9. Si sa a quale silenzio sono stati votati i testi che non beneficiavano del sostegno di un ordine religioso o di una rete di poteri10, e anche come essi sono vittime di questo appoggio quando ne beneficiano11. Generalmente l’opera edita è stata riveduta (con o senza il consenso del suo autore) e i suoi mutamenti raccontano il permanente lavoro cui l’hanno sottoposta delle genealogie di diffusori e ricettori prima che essa pervenisse a noi.12 Questa letteratura dipende da «aggregazioni» successive che l’hanno conformata a dei modelli e a degli imperativi sociali. Essa sta alla mistica come la canonizzazione sta alla santità13. Esattamente come le «narrazioni di vita» contemporanee, anzi ben più di queste, essa è l’effetto di correzioni che le hanno valso la sua legittimità. Anche i corpi teorici devono pagare il prezzo di tagli e torture per il loro accesso a un’autorità che ottengono in primo luogo dall’istituzione – ieri dogmatica, oggi commerciale e mediatica. Ma, una volta innescato, dove si arresta il riconoscimento degli interventi sociali che pre- e sovra-determinano i discorsi mistici? Persino prima di essere manipolati, censurati e archiviati, questi testi per la maggior parte sono stati organizzati dalle richieste e dai comandi cui risposero – formulati da autorità competenti, «famiglie» spirituali, reti politico-religiose. Essi adottano il linguaggio loro imposto da una congiuntura interlocutrice. Obbediscono alle codificazioni sensoriali, corporee o affettive di un ambiente. Per il solo fatto di essere enunciati, si inscrivono in un sistema preliminare di regole linguistiche e di protocolli pragmatici...

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Basti evocare i dibattiti appassionati di cui le opere classiche sono state allo stesso tempo l’oggetto e l’espressione: Teresa d’Avila, Giovanni della Croce, Benoît de Canfield e così via. Cfr. E. Llamas Martinez, Santa Teresa de Jesús y la inquisición española, Consejo Superior de investigaciones cientificas, Madrid, 1972; J. Krynen, Le Cantique spirituel de S. Jean de la Croix commenté et refondu au XVIIe siècle, Universidad de Salamanca, Salamanca, 1948; J. Orcibal, La Montée du Carmel a-t-elle été interpolée?, in «Revue de l’histoire des religions», 166, 1964, pp. 171-213; R. Duvivier, La genèse du «Cantique spirituel» de S. Jean de la Croix, Les Belles Lettres, Paris, 1971; J. Orcibal, Benoît de Canfield. La Règle de perfection, PUF, Paris, 1982. 10 Così fra mille altri il manoscritto anonimo presentato da J. Guennou, La couturière mystique de Paris, Cerf, Paris, 1959. Ma l’opera di Maria dell’Incarnazione, questa Teresa d’Avila francese partita per il Québec non è neppure del tutto edita. 11 Occorre spiegare così il fatto incredibile che non c’è ancora una vera edizione critica di Teresa d’Avila o di Giovanni della Croce? E che dire di tanti altri o altre come Jeanne de Chantal, conosciuta solamente per un’edizione incompleta e «ritoccata da mani pietose»? 12 A proposito di una lettera di Surin cfr. una micro-analisi in M. de Certeau, La Fable mystique, cit., pp. 278-308 («Histoires textuelle»). 13 Cfr. P. Delooz, Sociologie et canonisations, Faculté de droit-M. Nuhoff, Liège-La Haye, 1969; A. Vauchez, La sainteté en Occident aux derniers siècles du Moyen Age, École française de Rome, Rome, 1981.

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Insomma, la documentazione cambia fondamentalmente il dato iniziale. Mentre il ricercatore poteva ingenuamente supporre che il suo lavoro consistesse nel reintegrare dei fenomeni individuali nella storia sociale del tempo, riconosce dappertutto le operazioni collettive che hanno fabbricato la sua informazione. C’è di più: in nome di un’istituzione scientifica non dà il cambio alle istanze giudiziarie che gli hanno preparato il materiale, sicché non fa che proseguire con altre regole una socializzazione già dappertutto palese negli archivi? Non deve dunque domandarsi come collegare questi documenti con delle realtà sociali – interrogativo nato da un’illusione ottica – bensì come scollegarli da questa. Ciò che è difficile discernere in questi prodotti del tempo, non è il «sociale» – che sta dappertutto – ma il «mistico». 2. Un non-luogo della filosofia Per quanto necessario sia il materiale per un esercizio della meraviglia e una pratica del controllo (coglie di sorpresa l’attesa e verifica o «falsifica» delle ipotesi), esso non è sufficiente a definire una ricerca. Così come l’ha prodotto un passato, esso non genera uno dopo l’altro degli effetti di differenza – una distanza – o di conferma – una prova, un’illustrazione – che in rapporto a un procedimento analitico. Ogni lettura di documenti fa riferimento a un’aspettativa. Essa si sviluppa in funzione di una codificazione o di una «griglia» che determina in anticipo ciò che ci si aspetta di trovare nei testi. È per la sua capacità di esplicitare e definire un codice d’attesa che si caratterizza una procedura scientifica. Essa si costruisce dunque un «oggetto» che non è identificabile né con l’informazione ricevuta né con la realtà stessa, e che in modo in linea di principio decisorio specifica un insieme coerente di criteri che selezionano i tratti da mettere in rilievo in un corpo pertinente. Su questa base, che la fa accedere a uno statuto «scientifico», l’analisi si distacca dal terreno organizzato dalle denominazioni archivistiche o bibliotecarie e dalle operazioni sociali antecedenti. Essa attraversa l’informazione per estrarne e combinare gli elementi riguardanti i suoi propri interessi. Con questo distacco epistemologico, si oppone non solo alle complesse e ancora oscure regole delle attività passate che hanno prodotto il materiale nel modo in cui oggi si presenta ma parimenti al modo in cui la mistica dei secoli XVI e XVII in quanto «scienza» si diede anche un oggetto proprio, distinto dal «mondo» in cui si prolungherebbero le sue ricerche. Essa si differenzia dunque allo stesso tempo dal suo materiale e dalle altre scienze. Che ci si attenga rigorosamente a questo proposito scientifico o no (nelle scienze sociali, si resiste difficilmente a delle curiosità collaterali), esso stesso si inscrive in una storia, che non è più quella antica dei secoli XVI e

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XVII i cui documenti mostrano gli effetti, ma quella recente del XX secolo, dalla cui configurazione dipendono le nostre discipline. Certo ci sono molte continuità tra queste due storie, l’una che fornisce dei materiali alla ricerca, l’altra che la situa nella cornice di una problematica presente: una riflessione sulle scienze ha precisamente il compito di svelarle, sia mostrando in maniera storica come il «materiale» presupposto – un passato – determina ancora a loro insaputa le nostre procedure analitiche, sia derivando in maniera filosofica una questione relativa al Reale che sovrasta le figure successive dei dispositivi di conoscenza. Questi due modi concernono anche lo statuto della «scienza mistica», in quanto essa è divenuta un passato e in quanto è un’esperienza del Reale. Si può dunque riprendere questa doppia analisi ma a partire dallo stesso gesto con cui un’ambizione scientifica si distacca oggi dai dati che essa riceve dal passato. Un insieme di interessi sociali e teorici nuovi trasforma la maniera in cui la mistica appare nel campo dei nostri interrogativi. Precisare questa relazione significa riesumare i postulati presenti delle nostre analisi e interrogarsi anche sul lavoro che questa esperienza passata effettua nei nostri campi epistemologici. Significa «storicizzare» le nostre ricerche ricollocandole in una configurazione contemporanea da cui esse dipendono, e «destoricizzare» la mistica mostrando che non si può ridurla a una positività del passato. Segnalando ciò che le nostre scienze fanno della mistica, si riconosce parimenti ciò che essa vi inscrive. Il mio esame si limiterà a scandagliare in due direzioni per considerare: 1. quale funzione generale si vede assegnare la mistica nel sistema delle scienze sociali dopo l’inizio del secolo; 2. in quali regioni del sapere – psicologia, sociologia, etc. – e sotto quali formalizzazioni – il patologico, il marginale, etc. – si presentano gli oggetti che queste scienze scoprono nella documentazione mistica. Questo doppio scandaglio risponde a due semplici domande: 1. di che si tratta quando la mistica risorge nel contesto delle scienze sociali? 2. come è trattata nella cornice di queste discipline? L’uno, mira a specificare l’interesse del problema; l’altro, la forma oggettiva che può prendere. La fondazione delle scienze sociali – istituzione egemonica dopo la fine del XIX secolo – ha comportato una riclassificazione di tutte le manifestazioni religiose. Alle lotte tradizionali tra istituzioni di senso (un chiericato religioso, una magistratura civile o politica), alle loro alleanze contro le emigrazioni dell’interiore (movimenti spirituali), o alla separazione che ha per lungo tempo privilegiato la civilizzazione cristiana rispetto alle altre religioni, si sostituisce la frattura che instaura un campo di sapere e che oppone l’istituzione scientifica a dei «fenomeni» (storici, sociali o psicologici) dipendenti ormai dalla sua giurisdizione. Risultato di un processo storico di molti secoli, a poco a poco questa istituzione toglie alle Chiese la gestione intellettuale della loro eredità. In particolare, tutte le specie di «credenze»

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riunite in una categoria generale – il «religioso» o il «sacro» – sono d’ora in poi costituite in un rapporto frontale con il sapere per essere pensate da questo in modo diverso da come esse pensavano se stesse. L’emergere e la differenziazione delle scienze sociali comportarono anche un’erosione della filosofia, malgrado la sua apparente prosperità accademica e professionale. Con la perdita della filosofia di stato promossa da Cousin e la redistribuzione degli interrogativi sull’uomo tra discipline specializzate, si esprime dappertutto la coscienza di una «crisi» della filosofia14. La «fine» della filosofia accompagna, come suo contrappunto, la costituzione dell’uomo in oggetto di saperi scientifici diversificati. Ormai «il contrasto tra la “scientificità” di questi gruppi di scienze e al contrario la “nonscientificità” della filosofia non può essere misconosciuta»15. Nella sua Krisis Husserl avvia dunque una critica della scientificità stessa e pone la psicologia come base strategica di un ritorno all’«enigma della soggettività»16. La mistica diviene allora uno dei luoghi in cui si articolano l’appropriazione del religioso da parte delle nuove scienze e la crisi della filosofia. Dai fenomeni religiosi, distribuiti in «oggetti» dipendenti da particolari discipline – la critica storica, la patologia, l’etnologia, etc. –, ripartiti in aree culturali e in periodi storici eterogenei, si distingue in effetti una sorta di «resto» o «fondo» comune che riceve il nome di «misticismo» (già impiegato da più di un secolo). Da Renan stesso a Bremond con esso si indica un’esperienza situata al di qua di determinazioni istituzionali o storiche, sciolta da ogni aderenza a delle tradizioni religiose particolari o persino a degli oggetti di credenza («Je suis mystique au fond et je ne crois à rien», diceva già Flaubert)17. Essa fornisce la sua utopia a uno «spiritualismo» liberato da ogni appartenenza positiva e locale, quindi distinto da tutto ciò che costituisce l’oggetto delle scienze sociali. Questo riferimento rimanda evidentemente all’elaborazione romantica tedesca di un misticismo filosofico – di tipo metafisico (in Schelling) o fondato sul «sentimento» (Gefühl) immediato di sé come «assolutamente dipendente» (in Schleiermacher)18 – ma anche (lo si dimentica troppo spesso) alla «filosofia spirituale» che il quietismo ha staccato dalle ragioni, dagli interessi e dalle istituzioni storiche. Il «pur amour» si riconosce ugualmente nel «christianisme libre», «éter14 Cfr. per esempio J.-L. Fabiani, Enjeux et usages de la «crise» dans la philosophie universitaire en France au tournant du siècle, in «Annales ESC», 40, 1985, pp. 377-409. 15 E. Husserl, Le crise des sciences européennes et la phénoménologie transcendantale, trad. fr. di G. Granet, Gallimard, Paris, 1976, p. 9. 16 Ivi, pp. 9-10. 17 Correspondance, lettre 320, 8-9 mai 1852. 18 In particolare nella Glaubenslehre. [L’autore di riferisce all’opera di Schleiermacher apparsa in due volumi nel 1821-1822 e in seconda edizione profondamente riveduta nel 18301831, N.d.T.].

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nel et universel», esaltato da Renan19 e lungo tutto il secolo seguente fino a Bremond20. Questa spiritualità, universale per essenza, affettiva e sperimentale nella sua forma, estranea alle positività del «mondo», si opponeva in anticipo alle teodicee razionaliste dell’Aufklärung e alla svolta del XX secolo sostiene ancora l’uso che viene fatto del «misticismo» di fronte alla parcellizzazione delle ragioni scientifiche. Qui in effetti importa solo la funzione epistemologica assegnata a questo misticismo nel momento in cui le scienze positive si spartiscono il trattamento oggettivo dei «fatti» umani e la filosofia appare perciò minacciata. Questa situazione porta i pionieri di queste scienze, quasi tutti provenienti dalla filosofia, a interrogarsi sulla possibilità di pensare un’unità dell’esperienza umana e dunque di superare le cesure che le loro discipline creano tra delle positività antropologiche, storiche o psicologiche. Nella cornice di questa differenziazione tra le scienze e i loro oggetti, quale può essere il posto di questioni fondamentali come queste: Siamo dello stesso mondo? C’è uno stesso mondo umano? Tra le altre soluzioni possibili – per esempio in Durkheim, il disegno centrale di fondare un’etica sociale universale – il misticismo diviene una maniera di considerare queste questioni. È l’antidoto al positivismo scientifico. Esso indica un’«apertura» a un’essenza invisibile dell’Uomo – un’apertura sottratta a tutte le determinazioni obiettive – persino laddove l’osservazione scientifica si impadronisce di tutto il visibile e lo isola in unità eterogenee. È il non-luogo di un’esigenza filosofica nella cornice di discipline che gestiscono tutti i luoghi oggettivi. Il concetto di «misticismo» è perfettamente adeguato alla funzione che riceve. Un’opera può servire d’esempio. Questa prospettiva in effetti illumina il lento cammino che ha condotto Bergson a riconoscere, in un’«esperienza» che egli proteggeva dalle investigazioni psichiatriche circoscrivendola ai soli «grandi mistici cristiani», una dinamica dell’«aperto» capace di superare la «chiusura» che richiude ciascuna società su se stessa. Questa «chiusura» è un prodotto delle scienze umane. Bergson la riceve da esse come un risultato – che è anche un postulato. In Les deux sources de la morale et de la religion (1932), egli tratta su una base psicologica un problema analogo a quello che Durkheim si poneva in Les formes élémentaires de la vie religieuse (1912): come pensare «l’umano» in rapporto alla sua frammentazione in gruppi positivi – un problema che era già quello di Lévy-Bruhl – e tra individui o società quale elemento può attraversare le frontiere scientificamente 19 E. Renan, L’avenir religieux des sociétés modernes, in «Revue des Deux-mondes», 15 oct. 1860, ripreso in Oeuvres complètes, éd. H. Psichari, Calmann-Lévy, Paris, 1947, t. 1, p. 273. 20 M. de Certeau, Henri Bremond et la métaphysique des saints, in «Recherches de science religieuse», 55, 1966, pp. 23-60; E. Goichot, Henri Bremond, Ophrys, Paris, 1982, pp. 209-233.

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stabilite dall’analisi? Il suo libro è innanzitutto un trattato di filosofia sociale21 che, dopo aver posto una legge di chiusura e di eterogeneità, cerca su quale principio reale fondare una possibilità di superare questa operazione di chiusura. Per lui questo principio non è etico, come in Durkheim, ma innanzi tutto metafisico, identificabile con un movimento dell’essere: «L’amore mistico (...) è per essenza metafisico ancor più che morale»22. Esso costituisce parimenti un dato empirico. Rispetto alle esigenze scientifiche, il ricorso all’esperienza mistica è legittimo perché essa è «sperimentale» (è un fatto) e consiste in «operazioni epistemiche»23 (sono atti di conoscenza), malgrado essa ecceda ancora ciò che di essa una scienza può problematizzare nei suoi propri termini. In molte altre opere contemporanee si ritrova in modo evidente lo stesso funzionamento «filosofico» del misticismo: da E. Récéjac ancora a H. Bergson o a H. Bremond, passando per H. Delacroix, R. Rolland, J. Baruzi e altri24. Nel 1920 Jules Sageret pretende persino che tutti i filosofi che hanno un nome passino al misticismo25. Senza dubbio il movimento è accentuato dalla guerra del 1914-18 che ha rivelato – autentico choc epistemologico – che la scienza serve la divisione e che un imprevedibile divorzio separa il suo proprio progresso da quello delle società. È il periodo in cui proliferano le «metafisiche positive» a proposito dei mistici propri a ciascuna area culturale; per limitarci alla sfera francese: Olivier Lacombe e Romain Rolland per l’India; Louis Massignon e Henri Corbin per l’Islam; D. Sabatucci per il mondo greco; Alexandre Koyré per l’illuminismo gnostico tedesco. Fatto notevole, questa funzione «filosofica» del misticismo riappare proprio laddove un’impresa scientifica rifiuta di arrischiare simili uscite dal suo dominio e nei fenomeni mistici prende in considerazione solo gli oggetti che il suo apparato concettuale e tecnico definisce. Anche qui basterà un esempio, contemporaneo di Bergson. È nota l’indifferenza, per non dire l’allergia di Freud a proposito del «sentimento oceanico» con cui R. Rol-

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M. Cariou, Bergson et le fait mystique, Aubier, Paris, 1976, p. 236, lo definisce addirittura «un grande trattato dell’ordine sociale». 22 H. Bergson, Les deux sources de la morale et de la religion, Alcan, Paris, 1932, p. 250. 23 Secondo la felice espressione di M. Cariou, op. cit., pp. 236 e 239. Per questa analisi Bergson è in larga misura debitore di H. Delacroix, Études d’histoire et de psychologie du mysticisme, Alcan, Paris, 1908 – «un libro che meriterebbe di diventare un classico»: Bergson, Les deux sources, cit., p. 243, nota 1. Quest’opera resta essenziale; in particolare essa mette in forte rilievo che l’essere dell’esperienza mistica è per natura un «agire», anche se non si tratta di quello di un soggetto: cfr. Études, cit., p. 235 a proposito di Mme Guyon. 24 Emile Poulat traccia il panorama di questa letteratura scientifica sul misticismo dal 1895 al 1935 in Critique et mystique, Le Centurion, Paris,1984, pp. 254-306. 25 J. Sageret, La vague mystique, Flammarion, Paris, 1920. Cfr. E. Poulat, op. cit.

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land gli opponeva il «fatto»26. Dalla Psicopatologia della vita quotidiana (1901) al Disagio della civiltà (1929), un’interpretazione psicoanalitica definisce questo «fatto» che si suppone primario come un effetto secondario, dovuto a dei meccanismi di derivazione, a un’utilizzazione simbolica dei complessi o a un investimento libidinale del soggetto nelle rappresentazioni: essa afferra il fenomeno nei termini che essa stessa ha costruito. Eppure anche nei testi di Freud e fin dentro l’ultima nota delle sue Opere complete sotto il nome di «mistica» s’insinua una questione che deborda da questa spiegazione e riguarda il rapporto che l’esistenza del soggetto intrattiene con il limite e la morte27. Che l’esistenza del soggetto si instauri a partire dal suo rapporto con l’esteriorità che gli rivela il suo limite, questo sarebbe dunque una modalità della «mistica». Poiché questa questione non può ancora essere trattata in maniera scientifica, Freud pensa però di doverla mettere da parte, per sottrarla alle interpretazioni irrazionali o dogmatizzanti. Ma non per questo l’annulla: «Esistono assolutamente certi fatti che noi non possiamo attualmente conoscere»28. Il fatto mistico resta fino alla fine conficcato nell’opera, alla maniera di un interrogativo filosofico – un interrogativo che però non ha più una collocazione. Tutti questi reimpieghi della mistica all’inizio del secolo riguardano 1. un «misticismo» staccato dai fatti oggettivi che le scienze sociali analizzano; 2. un dato sperimentale che quindi in linea di principio ha legittimità scientifica; 3. un elemento – ora primitivo, ora superiore – che permette di valicare le chiusure create dall’analisi scientifica tra le sue discipline o tra i loro oggetti, e di restaurare l’orizzonte di un’unità umana in simbiosi con l’universo. Una destoricizzazione crea lo spazio «atopico» in cui può esprimersi una riflessione fondamentale. Questo «misticismo» nasce da ciò che le scienze sociali sembrano allora (e ad alcuni) non poter più pensare: da una parte l’unità umana, dal momento che essa è distribuita in positività chiuse; dall’altra, il radicamento dell’umano in una dinamica di «energie» vitali, dal momento che, dopo Kant, la «scienza dell’uomo» isola dalla natura una dialettica sociale29. Questi due «impensati» corrispondono insomma ai due in26 Cfr. D. J. Fisher, Sigmund Freud and Romain Rolland, in «American Imago», t. 33/1, 1976, pp. 1-57. 27 Per esempio nella lettera del 15 novembre 1920 a Georg Groddeck: «Ogni individuo intelligente ha ben un limite in cui egli inizia a diventare mistico, là dove incomincia il suo essere più personale», in G. Groddeck, Ça et moi, Gallimard, Paris,1977, p. 65. Cfr. M. de Certeau e M. Cifali, Entretien: Mystique et psychanalyse, in «Le Bloc-notes de la psychanalyse», 4, 1984, pp. 135-161. 28 Lettera a Romain Rolland del 19 gennaio 1930, cit. in D. J. Fisher, op. cit., p. 38. 29 Su questo secondo punto cfr. S. Moscovici, Essai sur l’histoire humaine de la nature, Flammarion, Paris, 1968, esame critico della frattura che per lungo tempo ha separato la storia sociale dei conflitti di classe o di potere da una storia naturale.

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terrogativi che Bergson cerca allora di annodare in una metafisica dell’élan vital fondata sull’esperienza dei «grandi mistici cristiani». Divenendo una sorta di anti-storia in un contesto in cui la storiografia appare come la disciplina egemonica che, con Fustel de Coulanges, Herr, Lavisse, Seignobos e altri fornisce il modello di una metodologia scientifica30, proprio questo misticismo per parte sua seduce le filosofie spiritualiste e ancor più i movimenti irrazionalisti che si sviluppano in letteratura. Come un «imprendibile» – estatico e ineffabile – esso costituisce una Ragione «generalista», cui poco a poco le scienze erodono dominio e pertinenza. Esso simboleggia con un non-luogo una «crisi» o un arretramento della filosofia. Sotto questo profilo, ha una funzione analoga a quella che esercitava nei secoli XVI-XVII in rapporto a una «crisi» o un arretramento della teologia medievale. Nei due casi, in modo sperimentale esso sembra proteggere o prendere in carico le questioni fondamentali portate con sé da una declinante configurazione del sapere. 3. Oggetti scientifici instabili Il misticismo appare ben differente nell’analisi che praticano le scienze sociali. Qui i fenomeni mistici sono trattati da «oggetti» conformi alle regole di ciascuna disciplina, la psichiatria, la storia o l’etnologia. Se da questo punto di vista si esaminano le trasformazioni che la mistica di un tempo subisce e gli spostamenti che persino in questa forma alterata essa reciprocamente introduce nelle nuove scienze, tre processi risultano di particolare rilevanza: a. l’assegnazione dei fenomeni mistici a certe regioni del sapere piuttosto che ad altre e gli effetti che vi producono; b. i transiti che fanno passare da una disciplina a un’altra la definizione formale di questo «oggetto» sfuggente; c. infine, la messa tra parentesi dell’esperienza mistica da parte dell’impresa che prende sul serio il compito di darsi un obiettivo scientifico. Anche qui basterà qualche esempio. Non pretendo di tracciare una storia dell’assimilazione scientifica della mistica (una storia che comincerebbe con il progetto di colonizzarla e terminerebbe con la necessità di eliminarla) – sarebbe una caricatura –, né di prendere il funzionamento dei «fenomeni mistici» come un indicatore possibile della recente evoluzione delle scienze sociali – questo sarebbe un altro lavoro –, ma di suggerire una «storicità» singolare: gli avatar della mistica, prodotti da discipline contemporanee, hanno pure degli effetti propri come se, persino nella cornice che li muta in oggetti di sapere, i frammenti di una «scienza selvaggia» conservassero qualcosa di irriducibile.

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Cfr. J.-L. Fabiani, op. cit., p. 38.

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A. Localizzazioni individualiste. I fenomeni mistici sono di preferenza sistemati nelle discipline che riguardano la vita «individuale». Stephen Sharot lo ha constatato di recente: «Poca attenzione è stata accordata ai contesti sociali del misticismo... È difficile trovare una sociologia del misticismo»31. Messe da parte le celebri analisi di Ernst Troeltsch e di Max Weber32, nate da un confronto con lo storicismo tedesco, la mistica è stata generalmente travasata nella psicologia individuale, soprattutto patologica, i cui lavori sono stati da allora privilegiati dalla filosofia. Il fatto può stupire, non solo in ragione di ciò che è la documentazione ma soprattutto perché l’esperienza mistica, passata o presente, si offre in un primo tempo sotto delle figure sociali: «scuole» e gruppi, relazioni da «maestro di verità» a discepoli; reti di comunicazione e di trasmissione – orale, scritta, gestuale, itinerante – che passano per le filiere di famiglie, genealogie, ambienti, linee culturali e commerciali, etc.; modelli di organizzazione – cenobitiche o eremitiche, poiché anche l’eremitismo costituisce una forma sociale – e protocolli di conversazioni come confessioni, dichiarazioni, «direzione spirituale»; procedure di prova e di riconoscimento (con l’ascesi, i miracoli, le guarigioni, il pellegrinaggio, etc.); codificazioni sensoriali, alimentari, sessuali e linguistiche; tecniche di rappresentazione, concentrazione o «vacuità» mentale; economie d’onore, di vassallaggio, o di molti materiali scambiati con dei valori simbolici; e altro ancora. Come mai è accaduto che tutta questa esperienza sia stata massicciamente classificata nella psicologia e trattata sotto la forma di fenomeni individuali? Che il suo accesso allo statuto di oggetti scientifici sia associato alla sua desocializzazione e alla sua depoliticizzazione, è innanzi tutto un effetto della storia. Per molto tempo la mistica non è stata un affare privato o individuale. Essa lo è divenuta, nella misura in cui le credenze che aveva radicalizzato facendo affidamento assolutamente su esse smisero di definire la struttura del mondo vissuto. Poiché essa isolava così i postulati di un universo, un tempo ha senza dubbio contribuito essa stessa a staccarli dalla realtà che essi fondavano fino a quel momento o almeno a manifestare il loro esilio progressivo, lontano dalle lotte quotidiane. Spesso la si è anche accusata di essere «atea», cosa che nel lessico dell’epoca significava togliere all’istituzione 31 S. Sharot, Messianism, Mysticism and Magic, The University of North Carolina Press, Chapel Hill (N.C.), 1982, pp. 13-16, 20, 255. E ancor prima, a proposito del fenomeno religioso, cfr. le riflessioni più generali di N. Birnbaum, Beyond Marx in the Sociology of Religion, in C. Y. Glock e P. E. Hammond (eds.), Beyond the Classics? Essays in the Scientific Study of Religion, Harper and Row, New York, 1973, pp. 3-70 (o di C. Geertz, The Interpretation of Cultures, Basic Books, New York,1973, pp. 87-125 («Religion as a Cultural System»). 32 E. Troeltsch, Social Teaching of the Christian Churches, Allen and Unwin, London, 1931, pp. 734-736, 743-749, 795-900; M. Weber, Economy and Society, Bedminster, New York, 1968, pp. 544-551.

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religiosa o civile il diritto di accreditarsi in nome delle sue origini e del suo fondamento. Sotto questo profilo, l’«ateismo» – rimprovero già rivolto al cristianesimo degli inizi – è essenzialmente un crimine contro le autorità riconosciute. Riguarda la loro credibilità, assai più che l’esistenza di Dio. Ogni Chiesa ne fa perciò un capo d’accusa contro quelle che scalzano la sua legittimità. La mistica colpisce precisamente questo punto, in un grande dibattito storico sulle «autorità». Nei secoli XVI e XVII le poste in gioco sono fondamentalmente politiche e le strategie che organizzano nuovi dispositivi di potere animano dappertutto i modi di procedere del sapere, in azioni impegnate al servizio di una riforma con la produzione di metodi, utopie e pedagogie. Nel groviglio delle istanze che compongono allora una sorta di gioco a tre termini – il principe (un testimone sacro dell’ordine cosmico), le istituzioni civili e religiose (una realtà mobile della storia) e «l’anima» (un principio trascendentale) –, i «santi» praticano una riduzione, giustificata ai loro occhi dalla «corruzione» delle istituzioni, che tende a privilegiare il faccia a faccia (già biblico e tradizionale) del re e del profeta33, del politico e del mistico, o del «principe» e dell’«anima»34. In una congiuntura che spesso frammenta e assoggetta le Chiese, e che soprattutto nel XVII secolo accentua smisuratamente la natura quasi divina del Re35, innumerevoli sono le forme assunte dall’incontro tra queste due figure sociali di riferimento ultimo, dall’appello di Teresa d’Avila a Filippo II perché sostenesse la fondazione del Carmelo contro le autorità religiose36, fino all’inquietudine quasi superstiziosa che manifesta Luigi XIV – eppure gratificato da «ispirazioni», come dice lui stesso37 – a proposito di oscuri complotti quietisti. In gioco è l’autorità e non la realtà del potere. Si tratta di una politica del credibile. Attraverso i confronti dei mistici con il potere che unisce il cielo alla terra, dall’Inghilterra alla Spagna si delinea una forma spirituale di ciò che diventerà il

33 Tema costante – spirituale e letterario – che sposta verso il principe l’obbedienza o la protesta un tempo indirizzata al papa. Teresa d’Avila ne dà testimonianza solo quando, per quanto «donnetta» ella sia, ha la pura ambizione di «parlare a quelli che governano» (Libro de la Vida, cap. 21). Cfr. gli studi sul tema in S. Ozment, Mysticism and Dissent, Yale University Press, New Haven, 1973, che risale a Engels (La guerre des paysans) e a E. Bloch (Müntzer, theologien de la révolution) e si ritrova fino a P. Zagorin, Rebels and Rulers, 1500-1660, Cambridge University Press, Cambridge, 1982. 34 C’è tutta una letteratura su questo soggetto, ivi compresa quella che fa della persona regale il teatro per eccellenza di un confronto fra «l’anima» e il potere. Cfr. J. E. A. Pocock, The Machiavellian Moment, Princeton University Press, Princeton, 1975 e H. Blumenberg, The Legitimacy of the Modern Age, MIT Press, Cambridge (Mass.), 1983, pp. 123-226. 35 Cfr. M. Bloch, Les rois thaumaturges (1924), Gallimard, Paris, 1983, pp. 327-379. 36 Cfr. la lettera del 18 settembre 1577 a Filippo II e Las Fundaciones, cap. 29. 37 Cfr. J.-L. Thireau, Les idées politiques de Louis XIV, PUF, Paris,1973, pp. 33-56.

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«cittadino», separando dal potere un principio trascendentale o etico dalla società38. Ne testimoniano già il quietismo e, nelle sue vicinanze, Fénelon. All’inizio del XX secolo, questa politica della mistica o dell’«anima» è compiuta, almeno in Europa occidentale. Essa passa nel privato e sulla scena pubblica le subentrano altre esperienze e altri linguaggi. La psicologia la raccoglie dunque laddove la storia la deporta. D’altronde Bergson come Husserl non s’ingannava, essa acquista un ruolo dominante nei saperi relativi a una società ormai fondata sul postulato individualista. Discute le unità che combinano un’economia liberale e delle istituzioni democratiche. Se la storiografia promette un discorso collettivo della nazione, della classe o della piccola patria, la psicologia – chimica dell’umano – scruta i meccanismi «elementari» della vita sociale e mira alla loro razionalizzazione. Essa costituisce il laboratorio centrale di una nuova politica. È a lei che tocca anche il compito di spiegare, nei termini di una problematica ancora pionieristica, i fenomeni divenuti marginali, se non aberranti, della mistica. Niente di stupefacente che questi fenomeni rientrino progressivamente nel campo della patologia, settore di élite in cui, in nome della psicologia e della medicina scientistica, ci si sforza di comprendere e curare ciò che «resiste» alle avanzate della Ragione. Come scrive il dott. Michéa nel 1871, non è così lontano il tempo in cui l’estasi, «che è sempre uno stato morboso», «sarà completamente rientrato nel girone della patologia»39. Alla svolta del secolo seguente, insieme con il rapimento, la lievitazione e tante altre «turbe» essa vi rientra del tutto, in primo luogo sotto la categoria di «manie» – «teomanie», «demonomanie» e così via –, che designano delle zone anormali ancora da esplorare, per scoprirvi in un primo tempo delle «affezioni» maligne, poi delle «costituzioni» patogene. È la storia che fornisce la cornice in cui si inscrivono delle «osservazioni» sempre più precise, con una semiologia di grande livello, spesso in seguito ineguagliata. Altro elemento determinante in queste analisi: il loro carattere «obiettivo». Un sezionamento anatomico dei «fatti» permette di reperire le loro combinazioni e di stabilire dei «quadri», ma sottraendoli alla loro funzione di essere il lessico di un linguaggio parlato e di inscriversi in pratiche interrelazionali in cui l’osservatore stesso si trova implicato. Non c’è da sorprendersi che la concezione «patologica» di questi fenomeni isolati dal processo 38 Si può estendere ai mistici la tesi (troppo unilaterale) di M. Walzer, The Revolution of the Saints, Harvard University Press, Cambridge (Mass.), 1965. In History of England David Hume aveva d’altronde già analizzato questa portata politica – e il pericolo, a suo parere – dell’«entusiasmo» (cfr. L. Bongie, David Hume, Prophet of the Counter-Revolution, Clarendon Press, Oxford, 1965, pp. 12-13). 39 Dr Michéa, art. Extase, in Dr Jaccoud (éd.), Nouveau dictionnaire de médicine et de chirurgie pratique, J. B. Baillière et fils, Paris, 1871, t. 14, pp. 337-347. Egli ha di mira in particolare la Nosologie méthodique di Boissier Sauvages, trad. fr. di S.-J. Gouvion, Bruyset, Lyon, 1772.

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interlocutorio sotto molti aspetti si riallacci alla critica, così frequente nei mistici del XVI e XVII secolo, degli «stati» (visioni, estasi, etc.) ai quali lo spirituale si ferma, come se fosse «questo» l’esperienza divina, e che, essendo così protetti contro un oltrepassamento necessario – «non è questo, né quello» – diventano le «malattie» dell’anima. Colpisce all’inverso che l’osservazione psicopatologica, quando è tanto prolungata e attenta da lasciare apparire nel loro movimento gli effetti dello scambio tra soggetti, assuma di nuovo l’andamento di una «direzione spirituale» – fatto che sorprendeva già Freud40. Così la celebre opera De l’angoisse à l’extase (1926) dedicata da Pierre Janet a quella «Madeleine» che, egli dice, ha «seguito per ventidue anni». Analizzata come un caso di «astenia costituzionale», è una «mistica» strana: nata in una famiglia borghese del Nord della Francia, partita a diciotto anni per condividere in Germania la vita del proletariato (nel 1872, dopo la guerra del ’70 e la Comune), poi clochard, operaia occasionale e imprigionata più volte a Parigi dove rifiuta ogni legame con altri suoi prossimi se non con i «miserabili», finita infine a Bichat, a Necker e alla Salpêtrière (1896). Ella affascina il suo osservatore, per il quale ella scrive più di 2000 pagine indirizzate a «mon père». Pia, estatica ma allergica ai preti, restaura sulla scena stessa della psichiatria questi dialoghi mistici in cui il «direttore», fosse Francesco di Sales o Fénelon, diveniva il discepolo e l’interprete della sua diretta. Le novecento pagine che Janet dedica alla scienza e a Georges Dumas tradiscono la conversione dell’oggetto patologico in narrazione di una relazione il cui carattere dialogico è appena velato dal pudore del medico. È all’ospedale che, malata che assomiglia a tante eroine di Bremond, la mistica parla41. B. Oggetti in transito. Il fenomeno si muove e si trasforma nella casella che per esso è stata stabilita. È necessario dunque circoscrivere formalmente ciò che s’intende per «mistica». Fatica di Sisifo: l’oggetto non cessa di ricadere fuori dal luogo teorico in cui una definizione l’ha innalzato. A questo proposito, è tipico il dibattito che dopo un mezzo secolo occupa la riflessione anglo-americana. Semplificato all’estremo, esso mira a determinare quali elementi possono ricapitolare una tale molteplicità di esperienze diverse e a quale livello di analisi va riconosciuto ciò che le unifica. L’impresa comincia sicuramente con investigazioni psicologiche. In una tradizione americana che ha sempre considerato il «sentimento religioso» come più fondamentale o «elementare» delle diverse Chiese in cui può trovare una dimora, un linguaggio e delle applicazioni pratiche, William James caratte40 «I nostri predecessori (Vorgänger) in psicoanalisi, i direttori spirituali cattolici», scriveva a Pfister il 18 marzo 1909 (S. Freud – O. Pfister, Briefe, Fischer, Frankfurt a. M., 1963, p. 18. 41 P. Janet, De l’angoisse à l’extase (1926), Société Pierre Janet, Paris, 19752, vol. 2, pp. 431 e 480.

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rizza «l’esperienza mistica» con quattro tratti specifici: l’ineffabilità, la qualità noetica, la forma transitoria e la passività42 – descrizione di una fenomenologia più rigorosa della riduzione praticata più tardi da James Leuba, che riconduceva i fatti mistici all’estasi e questa a un’«incoscienza» compatibile con ogni sorta di ideologizzazioni secondarie conformi al paesaggio culturale del rapimento43. Quando nel 1957 Zaehner riprende questa descrizione, ne fa l’elemento dimostrativo di un teismo e l’emblema sperimentale di una presenza divina. Stabilendo caratteri supposti costanti, egli pensa di isolare un fenomeno che attraversa le antinomie istituzionali, le diversità socio-storiche e persino l’opposizione tra «sacro» e «profano». Vi riconosce dunque la manifestazione positiva di una realtà universale44. Significa scambiare un’interpretazione per la Cosa stessa. Lo slittamento è rilevante: la descrizione fenomenica di James si trova mutata da Zaehner in indicatore e prova di uno spiritualismo; assicura all’unità la vittoria sulle differenze – «abissali» secondo R. Otto45 – che distinguono tra loro le intuizioni mistiche. La stessa concezione monista di un’esperienza identificata con un «nucleo universale» si ritrova in W.T. Stace46 o, malgrado le sue riserve a proposito di Zaehner, in Ninian Smart, per il quale la mistica è «fenomenologicamente dappertutto la stessa», benché manchi di tener conto delle varianti «estrinseche» attribuibili all’auto-interpretazione dei visionari nei contesti socioculturali loro 42 W. James, The Varieties of Religion Experience (1902), The New American Library, New York, 1958, pp. 292-328 («Mysticism»). 43 J. Leuba, The Psychology of Religious Mysticism, Kegan Paul, Trench, Trubner & Co.Harcourt, Brace & Co., London-NewYork, 1925, che ha avuto l’onore di essere tradotto in francese da Lucien Herr. In francese era stato pubblicato innanzi tutto Les tendances fondamentales des mystiques chrétiens, in «Revue philosophique», luglio e novembre 1902. H. Delacroix (Études, cit., pp. 381-397) considerava allora la «teoria» di Leuba come «la più ampia e penetrante». Essendo più filosofo, all’«incoscienza» che l’americano poneva al centro della sua «teoria», sostituiva però «l’appercezione irrazionale di un volere essenziale sparso in tutta la natura e che la natura ripete in innumerevoli variazioni, come la musica scandisce i movimenti di un’anima» (op. cit., p. 389). J. Maréchal, Études sur la psychologie des mystiques, DDB, Paris, 1937, t. 2, pp. 383-407, se la prende con Leuba piuttosto che con James, scandalizzato soprattutto per l’assimilazione della «alta contemplazione cristiana» alla «trance dei selvaggi». 44 R. C. Zaehner, Mysticism, Sacred and Profane (1957), Oxford University Press, Oxford, 1978. L’opera si ispirava a Aldous Huxley, The Doors of Perception, Chatto and Windus, London, 1954, e a Jung. 45 R. Otto, Mystique d’Orient et mystique d’Occident, trad. fr. di J. Gouillard, Payot, Paris, 1951, in particolare pp. 144-213, sulla «differenziazione del sentimento mistico» e le «differenze» tra i mistici, a proposito di Çankara e di Meister Eckart. Un grande testo che va sempre meditato. 46 W.T. Stace, The Teaching of the Mystics, New American Library of World Literature, New York, 1960 e soprattutto Mysticism and Philosophy, J. B. Lippincott, Philadelphia, 1960. Cfr. già E. Underhill, Mysticism, Methuen, London, 1911, che ha reso popolare tutta una corrente.

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propri47. In quanto mistica, l’esperienza non appartiene né alla storia né alla sociologia. Antibabelica per essenza, essa restituisce all’Uno il suo linguaggio originario. La psicologia è divenuta lo strumento di una teologia fondamentale. Contro questa tendenza, già criticata da R. Otto e portata a presupporre la mistica «senza patria»48, Steven Katz ha indirizzato «un’arringa per il riconoscimento delle differenze»: egli confuta la possibilità sia per il comparativismo di assimilare il linguaggio di una tradizione spirituale a quello di un’altra, che per una fenomenologia di postulare che una stessa «intenzionalità linguistica» nei testi garantisca che essi mirino a uno stesso «oggetto intenzionale»49. Attraverso un’analisi del linguaggio, restituisce la mistica alla sua pluralità storica e ristabilisce per la differenza lo statuto di essere un fatto non «estrinseco» ma essenziale. Ma che cos’è allora questa mistica, contesa tra Dio e la storia che essa pretende di riconciliare sperimentalmente? Bisogna crederle, e in che modo, quando essa si dichiara intuizione dell’assoluto in un modo singolare? I dibattiti teorici su questo argomento la travasano suo malgrado ora da un lato, ora dall’altro. Secondo quali criteri? È in nome di una filosofia del linguaggio, e di Wittgenstein, che S. Katz rifiuta l’universalizzazione di cui le proposizioni mistiche sarebbero l’oggetto. Fatto significativo, in trent’anni la discussione è passata dal terreno della psicologia a quello della linguistica, attraverso la mediazione di una fenomenologia cui si attribuiva la capacità di enunciare la struttura stessa di un’esperienza fondamentale. In effetti questa struttura non specifica che una forma, alla fine ridotta a due caratteri: il paradossale e l’ineffabile. Al termine, si hanno così due regole essenziali proprie a una grammatica del discorso mistico. Esse non concernono più né la storia né l’ontologia. Designano un protocollo linguistico, fuori dal quale non sembra esserci espressione mistica ma che non dice nulla di ciò che è l’esperienza stessa. Necessaria ma non sufficiente, questa determinazione non accede a un valore universale che staccato dall’uso («use») che ne fa il soggetto mistico, cioè dall’atto singolare di cui questi è il «performatore». Almeno, ritagliando una forma di sapere che si distacca nettamente dalla forma usuale dei nostri discorsi, essa designa un tipo di discorso in linea di principio alleggerito di un a priori monista o ontologico – un altro 47 N. Smart, Interpretation and Mystical Experience, in «Religious Studies», t.1/1, 1965, e Mystical Experience, in W. H. Capitan and D. Merrill (eds.), Art, Mind and Religion, University of Pittsburgh Press, Pittsburgh, 1967, pp. 133-158, e History of Mysticism, in P. Edwards (ed.), Encyclopedia of Philosophy, Macmillan, New York, 1964, vol. 5. 48 R. Otto, op. cit., p. 144. 49 S. Katz, Language, Epistemology and Mysticism, in S. Katz (ed.), Mysticism and Philosophical Analysis, Oxford University Press, New York, 1978, pp. 22-74 e Jewish Concepts, Schocken Books, New York, 1977.

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«gesto del pensiero» nella lingua. Anche se non è sicuro che questa forma sia propria al solo discorso mistico, essa traccia una «maniera di dire» simultaneamente estranea ai nostri modi scientifici di ragionamento o di verificazione, e del tutto omologa alla definizione essenziale che la «scienza mistica» dei secoli XVI e XVII dava di se stessa, caratterizzandosi – su un altro registro della lingua – come un «modus eloquendi»50. Una volta di più, «l’oggetto» passato sembra ritornare come un fantasma sulla scena scientifica ma altrove e diversamente da come lo si pensava. C. Omissioni necessarie. La difficoltà di circoscrivere formalmente l’esperienza mistica implica una strategia differente, che consiste nell’eliminare ciò che non è trattabile. Ogni impresa scientifica deve rinunciare a trattenere il reale negli oggetti che essa vi isola. Il suo rigore si fonda sui limiti che essa si dà. Un apprendimento dell’oblio sostiene dunque la produzione di conoscenze. Dopo tutto forse non si tratta che di un’astuzia da cacciatore, che prepara con cura le trappole in cui venire a prendersi ciò che non potrebbe acchiappare, astuzia cui corrisponde peraltro quella delle cose, accadute assai prima che le si cerchi, e che nei testi – e innanzi tutto nel modo di scrivere – insinuano mille modi di debordare da o aggirare ciò che essi pretendono di controllare. Non è così facile praticare l’oblio. E quindi anche diagnosticare ciò che viene effettivamente omesso da uno studio scientifico. Un caso notevole ci è fornito dall’opera per molti aspetti monumentale che Leszek Kolakowski ha dedicato ai Chrétiens sans Eglise51. Il libro, che concerne le figure olandesi e francesi di un radicalismo spirituale, tenta di riarticolare coerentemente una storia sociale su una storia intellettuale. Esso sviluppa continuamente la trama della relazione tra queste due storie, che rappresentano due grandi modelli contemporanei: da una parte György Lukács e la sua filosofia marxista della cultura, dall’altra Alexandre Koyré, ovvero la più acuta erudizione al servizio delle opere pionieristiche della scienza «moderna». Comunque sia, nel riesumare progressivamente questi sistemi intellettuali – con mano più felice nella parte olandese che in quella francese –, il libro offre tutta una riflessione metodologica sul tentativo di riarticolare coerentemente le due storie, il cui principio consiste nel restaurare la pertinenza politica e sociale dei movimenti spirituali. All’inizio, esso inciampa in una difficoltà preliminare che ancora una volta riconduce all’oggetto stesso della ricerca: che cos’è la mistica? In che modo va trattata? La prima mossa compiuta da Kolakowski per «costruire» il suo «oggetto» è quella di eliminare «la mistica», che egli ritiene specificata dall’esperienza e dalla questione della sua autenticità, entrambe dipendenti dalla psicologia. 50

Cfr. M. de Certeau, La Fable mystique, cit., pp. 156-208. L. Kolakowski, Chrétiens sans Eglise. La conscience religieuse et le lien confessionel au XVIIe siècle, trad. fr. di A. Posner, Gallimard, Paris, 1969. 51

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Tiene fermo invece ciò che egli chiama «il misticismo», una serie di «dottrine teologiche che interpretano le esperienze mistiche». Il suo «oggetto» consiste allora nelle varianti del rapporto tra due fattori: il primo – «ideologico» – relativo alle speculazioni religiose fondate su un’esperienza ma considerate indipendentemente da ciò che essa è; il secondo – «sociale» – riguardante la funzione di persone o gruppi che negano a una Chiesa la sua autorità in materia dottrinale ma pretendono di attestare il suo spirito autentico separandosi da istituzioni corrotte52. Che questo oggetto trasponga sulla scena di un passato religioso la situazione politica dell’autore, marxista escluso dal partito comunista polacco e che s’interroga sulla possibilità di essere un «marxista senza Partito», in ciò si vedrà non l’indice di un’assimilazione indotta – data la straordinaria minuzia dell’inchiesta storica – ma una messa in evidenza dell’interrogativo contemporaneo su ciò da cui trae la sua origine ogni opera scientifica di peso. L’«oggetto» dell’inchiesta formalizza un’esperienza attuale che qui si è sostituita a quella di un tempo. L’omissione della «mistica» marca il luogo lasciato all’attualità che organizza la problematica – ma non il contenuto – della ricerca e alla quale è offerto un altro campo operativo perché l’interrogativo presente, messo a confronto con dati differenti, possa essere spiegato e aperto a nuove ipotesi. In effetti Kolakowski constata piuttosto che il «cristianesimo non confessionale» del XVII secolo è stato un «radicalismo fallito» o riportato a un conformismo istituzionale o escluso dalla storia. Ci si può domandare se lo stesso non possa dirsi dei mistici, ma anche se è necessariamente il segno di un fallimento di ciò di cui sono testimoni e che non cessa di riapparire ora come un’esigenza etica, ora come una «chanson» i cui ritorni sfidano la storia. Forse l’analisi di Kolakowski, vittima di ciò che essa elimina, riduce troppo la politica ai suoi successi. In ogni caso, l’omissione che istituisce il suo studio potrebbe avere nel libro stesso una traccia curiosa. In effetti, al di là dei punti discutibili in questo studio53, se l’intenzione che lo organizza è proprio quella di coniugare le sicure tecniche di una storia dei testi dottrinali con la cornice fornita da una teoria delle lotte sociali, di fatto il matrimonio non ha luogo. L’opera presenta piuttosto un intreccio di due approcci eterogenei. Con osservazioni epistemologiche sulla possibilità di trattare le dottrine come le «manifestazioni di conflitti sociali», essa puntella un’analisi testuale le cui qualità di precisione e acutezza corrispondono al modello di storia intellettuale fornito da Koiré. Nel suo spessore, essa resta divisa, in una tensione che è meno il segno di un’impresa «fallita» che la vibrazione di un’opera a due fuochi – un’ela52

Ivi, pp. 1-68. Su aspetti innovatori e punti deboli di questa interpretazione storica cfr. M. de Certeau, L’absent de l’histoire, Mame, Paris, 1973, cap. 4. 53

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borazione della questione iniziale. Nell’ascoltare il rumore che fanno in quest’opera gli elementi che essa non può conciliare, come non evocare l’esperienza che ne è assente e che, presa tra una violenza della storia e una pratica eccessiva di ciascuna ragione, scopre nello scacco un’apertura «mistica»? Operazioni mistiche Analizzata, osservata e trattata da tante ricerche, la mistica abita già il lavoro scientifico. Attraverso le differenti eco che essa suscita nel campo dei nostri saperi, attraverso le questioni cui il suo studio fornisce un linguaggio, si rivelano – come per anamorfosi – aspetti di ciò che noi riteniamo un oggetto passato. Bisogna uscire dall’epistemologia che a un soggetto del sapere opponeva i suoi oggetti di studio. La strana «storicità» della mistica all’interno stesso dei discorsi che hanno l’ambizione di conoscerla obbliga a elaborare un altro modello di analisi, cui l’esame della letteratura scientifica contemporanea servirà da introduzione. In effetti mi sembra che è possibile analizzare la letteratura mistica stessa come un campo, definito da un insieme di positività storiche, in cui si effettuano e tracciano delle operazioni mistiche. Detto in altro modo, la scienza mistica sarebbe costituita dai diversi modi con i quali queste operazioni si inscrivono nelle reti storiche del sapere, del linguaggio corporeo e delle istituzioni proprie a un’epoca e a un ambiente. Ciascun testo o ciascun documento – poiché siamo obbligati a lavorare su di essi – costituisce un teatro che il lessico e la sintassi di un momento della storia organizzano ma in cui si mostrano delle azioni singolari, come in un corpo colpito. Si tratterebbe di lasciare che queste operazioni si inscrivano nei luoghi che essi formano e di provare a specificarne le forme proprie, cui i mistici si votano quando elaborano la loro «scienza». Per questa via, essa stessa si articola sulla storia. Si deve dunque poter riconoscere oggi nei testi di questa scienza una scrittura che è la sua «maniera di fare» – così come nei laboratori ci sono «manipolazioni» caratteristiche. Ogni documento mistico è anch’esso un laboratorio in cui si descrivono gesti specifici come quelli di una danza sulla scena. Un modello a questo proposito ci viene proposto da G.-G. Granger se, lasciando da parte nel suo Essai d’une philosophie du style (1968) ciò che concerne «l’individuazione», se ne mantiene il progetto di una «stilistica della pratica scientifica», cioè la possibilità di isolare in un’opera il suo «stile» proprio, quella «strutturazione latente e vissuta dell’attività scientifica stessa in quanto costitutiva di un aspetto della pratica»54. Come ci sono 54 G.-G. Granger, Essai d’une philosophie du style, Armand Colin, Paris, 1968, pp. 13-16 e 187-216.

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degli stili scientifici – euclideo, cartesiano, vettoriale –, ci sono degli stili mistici, anch’essi indissociabili da un’estetica. Per questa via si ritrova ugualmente la pertinenza della definizione che la scienza mistica dava della sua inscrizione nella storia. La mistica non ha del proprio: è un esercizio dell’altro in rapporto a un campo dato; essa si caratterizza per un insieme di «operazioni» specifiche in un campo che non è il suo –, per una maniera di procedere o di dire. (Traduzione dal francese di Rossana Lista)

Hayden White*

Storia mistica

Memory is a sense of the other. The pleasure of seeing is the death of meaning. There will thus be facts that are no longer truths. Melancholy is not enough. Michel de Certeau, Varia

Il fondamentale problema teorico della moderna conoscenza della storia [historiology] è se lo studio del passato (o la «storia» intesa come modo distintamente umano di essere nel mondo) è (o possa essere) una scienza o se è solo un discorso che cerca di farsi passare per una scienza1. Certo con discorso si intende qualcosa come una discussione socialmente autorizzata su qualche argomento o tema comune, circa il quale ci siano ragioni sufficienti per un radicale disaccordo tra persone di analoga competenza. Ma con discorso si può anche intendere una maniera di parlare che rivendica l’autorità di distinguere tra essere e apparenze e di stabilire norme per ciò che può essere propriamente detto su una data questione di interesse umano generale. I discorsi possono essere classificati come au* [Università di Stanford, Palo Alto e Berkeley (USA)]. 1 Per «discorso» s’intende una lunga conversazione tra – in questo caso – eruditi che studiano un campo concordato dell’accadere (qui il passato e/o la storia), il cui referente rimane indeterminabile e aperto a revisione, poiché il linguaggio usato in ogni data descrizione di esso cambia o è sostituito da uno nuovo. I criteri per decidere quale tipo di oggetti possa dirsi appartenente alla «storia» o dotato di un modo di essere propriamente «storico» sono sempre stati soggetti a revisione. I cambiamenti dei modi in cui una data società concepisce la «storia» propria (o di altri) sono di conseguenza argomento di considerazioni più pratiche che teoriche. Così ci fu per esempio un tempo prima del quale la «bourgeoisie» poteva qualificarsi come l’oggetto proprio di indagine storicamente rilevante [historiological inquiry] o, per fare un altro esempio, un momento in cui si poteva dire che gruppi chiamati «barbari» godevano di rilevanza storica [historicality] ma solo come portatori di forze anti-storiche (o anti-civilizzatrici). Quindi, la continua discussione di ciò che appartiene o non appartiene alla storia, il grado di efficacia o azione causale posseduto da un dato gruppo o individuo e la rilevanza di un dato insieme di eventi per la comprensione di un determinato «presente» –, tutto ciò costituisce l’oggetto del discorso storico. Questo è il motivo per cui gli studi storici sono sempre in procinto di trasformarsi in quella scienza che tuttavia non diventeranno mai. È proprio de Certeau a definire gli studi storici come un discorso che cerca di divenire una scienza ma manca dei mezzi per farlo. Cfr. M. de Certeau, Heterologies: Discourses on the Other, translated by B. Massumi, University of Minnesota Press, Minneapolis, 1986.

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torevoli, nella misura in cui provengono dai centri del potere sociale, e come resistenti o devianti, nella misura in cui manifestano un desiderio di sottrarsi, sfuggire, resistere a o rendere nulli gli effetti delle loro autorevoli controparti. Gli storici di professione dell’Occidente moderno (per la maggior parte collocati nelle università) credono che gli studi storici siano «disciplinati» abbastanza da poter rivendicare un posto tra le altre scienze umane e sociali. I filosofi occidentali della storia rimangono d’altra parte divisi appunto sulla questione se la storia è o possa essere una scienza oppure se è vincolata a rimanere un discorso, cioè un modo di parlare circa oggetti più costruiti che prestabiliti e aperti alla percezione tramite procedure empiriche di indagine. I «discorsivisti» sostengono che tra tali oggetti costruiti rientra il passato stesso (eventi, persone, istituzioni, e così via: tutto ciò che esisteva una volta ma che non esiste più e perciò non può essere né oggetto di percezione né replicato nei laboratori nello stesso modo in cui possono esserlo i fenomeni naturali). Da questa idea deriva che il modo dell’essere umano chiamato «storia» è esso stesso una costruzione del pensiero e dell’immaginazione umana, che non ha un grado di realtà maggiore delle finzioni della letteratura. Questo non significa che gli oggetti esistenti nel presente e che furono chiaramente creati in un’epoca precedente non possano essere indagati in relazione con ciò che potrebbero raccontarci circa il luogo e il tempo della loro origine. Ma ciò che da una parte possiamo legittimamente dire intorno a tali oggetti e ciò che dall’altra possiamo legittimamente asserire intorno ai tempi e luoghi del passato da cui provengono, sono due cose completamente diverse. Inoltre: vaste regioni di quella che viene chiamata realtà storica non hanno lasciato nessun oggetto né altri tipi di documenti della loro esistenza. E ancora: ci sono alcuni tipi di oggetti certamente assegnati al passato, ma così singolari che non potranno mai essere sottoposti alle tecniche di analisi scientifica della storia. L’idea che «il passato» e quindi anche «la storia» stessa possano essere costruzioni piuttosto che dati di fatto della realtà nacque con il declino della fiducia nella legge naturale. La storia è divenuta un problema nel tardo XVIII secolo, quando le scienze moderne privarono progressivamente la «natura» di significato, valore, fine e scopo. Finché la vita umana è stata concepita come diretta derivazione dalla natura presieduta da Dio o assicurata dal governo della Provvidenza nel coordinamento delle parti con l’intero o garantita dalla certezza che fini buoni risultassero dal gioco del male o di altri mezzi anche neutrali, si è potuto dare per scontata la bontà dei fini del processo storico e limitarsi a studiare le sue varie manifestazioni, nella fiduciosa convinzione dell’adeguatezza del pensiero all’esistenza. Ma, una volta che si giunse a pensare che la storia in un certo

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senso è staccata dalla natura o, cosa più allarmante, è una specie di contro-natura, allora ogni passato divenne in qualche modo alienato da ogni presente – un’alienazione che accrebbe ulteriormente il grado della lontananza indietro nel tempo in cui ogni passato sembrava essersi ritirato. L’alterità del passato rispetto al presente e la lacuna che si aprì tra presente e passato intorno all’epoca della Rivoluzione Francese – essa stessa percepita spesso come una rivolta contro il passato e uno sforzo di cominciare da capo senza il suo fardello – contribuirono entrambe a rendere «la storia» ancora più minacciosa per i gruppi sociali costituiti, costringendo a inventare nuove tecniche e nuovi concetti per addomesticarla. Il risultato fu l’invenzione di un nuovo tipo di «metodo storico» e la fatale subordinazione della conoscenza della storia alle istituzioni impegnate nella creazione e legittimazione dei nuovi stati-nazione che andavano prendendo forma sulla scia dell’«avventura napoleonica». L’alleanza tra l’indagine storica e il potere del nuovo stato-nazione lavorò a vantaggio di entrambi fino all’avvento degli stati totalitari del XX secolo, alle cui politiche più estreme gli ambienti della storiografia ebbero poca difficoltà ad adattarsi. Gli effetti funesti legati all’ascesa di Nazismo, Fascismo e Stalinismo sono stati molti. Ma nessuno ha prodotto un disorientamento intellettuale per gli intellettuali occidentali maggiore della degradazione della storia, che ora appariva semplicemente come un’altra di quelle stesse ideologie che essa pretendeva di contrastare con la verità. Collegati in un vincolo cruciale con il destino dell’umanesimo postrinascimentale, nella prima metà del XX secolo gli studi storici insieme alla loro matrice umanistica conobbero il declino. Lo sforzo di salvare gli studi storici importando le tecniche e i procedimenti delle nuove scienze sociali era destinato a fallire, esattamente come le nuove discipline – economia politica, sociologia, antropologia, psicologia sociale – create apposta per adattare la società tradizionale alle disgregazioni e mistificazioni del capitalismo industriale. Fino al maggio ’68 gli storici legati all’establishment riuscirono a stento a mantenere il loro posto nelle università e la loro funzione di custodi e amministratori del patrimonio storico del nazionalismo patriottico, del tradizionalismo e dell’eredità industriale. Dopo questa data gli storici di professione dovettero però giocare a rincorrere le scienze sociali, ora al servizio dei nuovi imperialismi delle corporazioni del capitalismo avanzato, e le «industrie culturali» a nuova base capitalistica, rese possibili dalla rivoluzione dei media. Michel de Certeau (1925-1986) fu un osservatore interessato delle fasi successive del processo che ho descritto sopra e condivise in modo appas-

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sionato alcune delle avventure più utopiche degli anni ’602. Alle avventure di quegli anni giunse nella qualità di cattolico devoto già ordinato sacerdote, membro della Società di Gesù, storico del misticismo francese del XVII secolo, studioso di S. Agostino e Hegel, e (più tardi) devoto di Jacques Lacan, il guru della psicanalisi francese, della cui École freudienne fu uno dei membri fondatori. Questo era sufficiente per renderlo sospetto all’establishment storiografico, malgrado il prestigio che negli anni ’50 e nei primi anni ’60 si era guadagnato come storico ortodosso delle religioni. Ma furono i suoi studi sul primo misticismo moderno che in effetti gli diedero accesso a una dimensione dell’esistenza storica che, nello sforzo di diventare una scienza, i moderni studi storici avevano effettivamente escluso dal loro orizzonte di considerazione in quanto incomprensibile in termini di teoria della conoscenza storica. Nello studio dall’ambiguo titolo Histoire et mystique (1972)3, de Certeau si è diffuso lungamente sul problema di come scrivere il resoconto storico di una pratica che violava regolarmente i canoni di pertinenza epistemologica. L’atteggiamento della gerarchia della Chiesa verso i suoi mistici è stato sempre ambivalente. Per quanto devoti essi fossero, tendevano comunque a sottrarsi alla disciplina sacerdotale e alla lettera del dogma ecclesiastico. I mistici avevano cercato l’incontro con e fatto esperienza di quegli aspetti del divino che resistevano alla ragione umana e al margine consentito della speculazione. L’esame degli scritti di Pierre Favre e JeanJoseph Surin portò de Certeau alla convinzione che il misticismo rappresentasse un caso-limite nella determinazione delle capacità degli storici moderni di comprendere quelle persone e istituzioni del passato che venivano meno alla conformità con il modello dominante in cui consisteva e di cui rispondeva l’essere sociale. 2 Cfr. M. de Certeau, La prise de parole et autres écrits politiques, Éditions du Seuil, Paris, 1994, trad. it. di R. Capovin, La presa della parola e altri scritti politici, Meltemi, Roma, 2007, Parte prima. 3 Il titolo è «ambiguo» perché non è chiaro se de Certeau stia suggerendo un problema storiografico – cioè il modo in cui gli storici devono affrontare il misticismo – o se stia suggerendo una connessione tra conoscenza storica da un lato e il tipo di conoscenza rappresentata dal misticismo dall’altro. Cfr. M. de Certeau, Le Lieu de l’autre: Histoire religieuse et mystique, édition établie par L. Giard, Seuil-Gallimard, Paris, 2005, Cap. 2. Nella versione inglese antologizzata di questo saggio, i curatori Jacques Revel e Lynn Hunt lo elogiano così: «de Certeau merita rispetto perché rivela il significato più ampio [del misticismo] unendo all’erudizione teologica le risorse dell’analisi storica e i metodi delle scienze sociali», in Histories: French Constructions of the Past, J. Revel and L. Hunt, eds., translated by A. Goldhammer, The New Press, New York, 1995, p. 436. L’intera opera di de Certeau sul misticismo intendeva al contrario mostrare i modi in cui «l’erudizione teologica», non meno dell’«analisi storica» e della «scienza sociale», erano stati incapaci di comprendere il «discorso mistico». E il saggio suggerisce infatti che il misticismo equivale a un test di prova per la pretesa della moderna «analisi storica» di essere in grado di comprendere ogni cosa appartenente all’umano.

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Sebbene gli studi storici di Certeau fossero estremamente ortodossi, i suoi argomenti di studio erano tutto fuorché convenzionali. I suoi studi su Pierre Favre, uno dei fondatori della Società di Gesù, e su Surin, l’esorcista di Loudun, non solo lo abituarono al gergo, all’argot e alla glossolalia di visionari ed esperti mistici ma lo resero anche sensibile a una dimensione della storia che, nella sua visione, era esclusa nell’ordine di considerazione di quei principi della «autentica» pratica storiografica che avevano permesso alla storia di farsi passare per una scienza nel mondo moderno. In altre parole, come nella storia della Chiesa i mistici apparivano nella Cristianità ma non come a essa appartenenti in senso vero e proprio, così anche nella doxa della storiografia essi dovevano essere collocati in una zona a parte, come soggetti per la comprensione dei quali si richiedeva qualcosa di diverso dal modo standard di intendere proprio della storiografia. Per de Certeau, infatti, i mistici sembravano rappresentare un dominio dell’esperienza umana che era non tanto «folle» o «psicotico» quanto piuttosto semplicemente «altro» rispetto all’orizzonte di aspettative intorno alle possibilità umane preso in considerazione dagli storici di professione dell’età moderna. Malgrado l’essere stato «posseduto» dai demoni che aveva esorcizzato dall’abbazia delle Orsoline di Loudun, un mistico come Surin riuscì a vivere, lavorare, studiare, e a scrivere sulle sue esperienze per moltissimi anni in modi che ne attestarono la realtà4. Surin credeva di aver fatto esperienza di una realtà che era – concetto tipicamente mistico – «ineffabile». Egli aveva avuto – o credeva di avere avuto, il che equivaleva alla stessa cosa – esperienze che non potevano essere adeguatamente descritte con il linguaggio o la scrittura. Essere in grado di comprendere il discorso di Surin in ogni suo senso letterale o addirittura figurato, non era la pretesa di de Certeau. Ma egli era in grado di comprenderlo come documento di un’esperienza di aspetti del mondo del tempo di Surin che cadevano al di fuori dalla provincia «propria» del pensiero, dell’immaginazione e dell’emozione, insieme del suo e del nostro tempo. Nella visione di de Certeau, questo attestava le limitazioni di ogni indagine dei fenomeni del passato che sostenesse di possedere principi universalmente validi di conoscenza e spiegazione. Il discorso mistico era «altro» e di una «alterità» che provava l’esistenza di vasti domini dell’esperienza umana non assoggettabili a nessuna delle tecniche di indagine delle scienze umane e sociali, tradizionali o moderne. Per de Certeau, il problema era come trattare questi domini dell’«inconoscibile» e dell’«indicibile» in modo da una parte di render loro onore come campi della presenza umana, senza dall’altra addomesticarli, traducendoli in versioni 4 Cfr. L. Giard, Un viaggio fuori dalle rotte, introduzione a M. de Certeau, Storia e psicoanalisi. Tra scienza e finzione, Bollati Boringhieri, Torino, 2006, pp. 39-42.

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di tipi sociali del presente5. In altre parole: come scrivere l’oscura parte sommersa o il complemento sconosciuto di quelle storie ufficiali, che spiegavano certi generi di fenomeni semplicemente accantonandoli nella riserva della non-comprensione? La soluzione di de Certeau a questo problema fu di inventare un’idea caratteristicamente postmodernista di storia6. L’esperienza con i mistici francesi aveva preparato de Certeau, attraverso la sua partecipazione agli eventi del maggio ’68, all’ingresso in quell’inebriante mondo dell’attività intellettuale francese, in cui Greimas (semiotica), Foucault (analisi del discorso), Derrida (decostruzionismo), Barthes (critica letteraria), Lévi-Strauss (etnologia) e naturalmente Lacan (psicoanalisi) stavano offrendo varie versioni di ciò che sarebbe divenuto collettivamente noto come post-strutturalismo. Il contributo di de Certeau a questo movimento è stata una filosofia post-strutturalista della storia. Ma che cos’è una filosofia post-strutturalista della storia? Se assumiamo il decostruzionismo di Derrida come paradigma del pensiero poststrutturalista francese, potremmo dire che la storia post-strutturalista comincia con il decentramento e il rovesciamento dei paradigmi di struttura e processo prediletti dalla scuola degli storici delle Annales guidata da Fernand Braudel. Il che vuol dire: sostituzione di categorie spaziali a quelle temporali per l’ordinamento dei processi storici; spostamento dell’accadere storico dal macro- al micro-livello, risalendo all’umano inteso come soggetto della storia e insieme opposto ai processi anonimi in larga scala; ricerca di qualsiasi cosa vi sia nel passato che resista alle analisi in termini di «intelligibilità» cartesiana7. Andrebbe comunque detto che il soggetto umano ritornato al centro della storia non è quello dell’umanesimo occidentale né quello dell’illuminismo cartesiano. Questa revisione 5 F. Dosse, Paul Ricoeur, Michel de Certeau. L’histoire: entre le dire et le faire, Herne, Paris, 2006, pp. 55-60. 6 Andrebbe detto che gli amici di de Certeau, in particolare la sua esecutrice letteraria Luce Giard e il suo collaboratore e quondam capo delle Annales Jacques Revel, non ritengono che de Certeau sia in alcun modo uno storico «deviante». Giard specialmente lo considera innanzitutto un mediatore tra la conoscenza della storia [historiology] in senso proprio e certe altre discipline esperte nel saper discernere le tracce di cose passate, che la percezione propriamente storica potrebbe non riconoscere. D’altra parte vedi M. Poster, The Question of Agency: Michel de Certeau end the History of Consumerism, in «Diacritics», vol. 22, 2, Summer, 1992, pp. 95-97. 7 Non tutte le revisioni delle pratiche delle Annales si qualificano come «post-strutturaliste», non per esempio le «microstorie» di Carlo Ginzburg e Giovanni Levi. Davvero de Certeau può essere il paradigma della storiografia post-strutturalista in quanto è giunto a formulare le sue proposte di revisione della storiografia strutturalista dopo essere stato a essa profondamente devoto. Il maggio ’68 sembra aver cristallizzato la sua visione di una nuova storiografia, che intende concentrarsi sull’«assente della storia» e le «voci» messe a tacere dai discorsi propri del potere.

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del soggetto della storia è dovuta (oltre alla valorizzazione cristiana dei poveri della terra) principalmente a due nuove discipline del ventesimo secolo: la psicoanalisi (lacaniana) e l’etnologia (lévi-straussiana). La prima estende il dominio della ricerca storica fino alle profondità dell’inconscio, la seconda l’estende oltre la sfera della storia scritta e documentata, per includere le esperienze di tutti quei popoli e quelle culture che sono state sottomesse alla disciplina imposta da missionari cristiani, conquistadores imperialisti e imprenditori capitalisti8. Nel modello normativo di narrazione della filosofia occidentale della storia, la maggior parte dei popoli e delle culture del mondo non-occidentale è stata trattata come paziente più che come agente della storia e non ha avuto altro ruolo nei resoconti storici occidentali dell’espansione europea se non quello di parte sconfitta, impotente nella lotta per la ricchezza e il potere tra contendenti. Come Benjamin per primo ha messo in risalto, la storia fu scritta dai vincitori, su di essi e per essi. E la loro vittoria incluse tra l’altro la fondazione del mito, secondo il quale i perdenti erano entrati nella «storia» solo attraverso la loro sconfitta e inscrizione nella storia del «progresso» dell’Occidente verso il compimento del suo destino storico-universale9. Era questo master narrative che Lévi-Strauss aveva in mente quando, in un famoso passaggio de La pensée sauvage (1962), aveva sostenuto che «la storia è il mito dell’Occidente». La pensée sauvage – l’antitesi del ragionamento cartesiano – sarebbe più tardi riapparsa in L’invention du quotidien di de Certeau (1980) come modo principale della produzione culturale, strumento di resistenza e maniera per esprimere tutte quelle «pratiche quotidiane» che costituivano la storia di tutte quelle persone e istituzioni che non avevano nessuno spazio nell’epica di conquista e sviluppo dei «vincitori» della storia. Un’altra caratteristica della storia post-strutturalista è la messa in stato di accusa della stessa «scrittura» (écriture). A lungo pensata come la pratica culturale che distingue le «civilizzazioni» dalle «culture» – e quindi come il segno che marca la differenza fra le culture che hanno una storia e quelle che non l’hanno –, la scrittura finisce ora sotto accusa come la pratica che, nel processo di trasmissione della conoscenza, esclude o blocca l’accesso a quegli aspetti dell’esperienza umana che eludono l’espressione in un linguaggio disciplinato. Nell’opera di de Certeau, infatti, la rappresentazione storica – intesa come una scrittura solo di quelle parti della storia che godono di una documentazione scritta – è considerata come intrinsecamente contraria al discorso, in cui viene sviluppata la dialettica del detto e dell’indicibile. Nel periodo di de Certeau posteriore al maggio ’68, 8 9

Cfr. ancora l’introduzione di Giard a M. de Certeau, Storia e psicoanalisi, cit. F. Dosse, Paul Ricœur, Michel de Certeau, cit., pp. 68-69.

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la scrittura è ricettiva solo di quegli aspetti del discorso che possono essere tradotti (trascritti) in un testo elaborato secondo le regole fisse della grammatica e della sintassi. La vita quotidiana delle masse, dei perdenti che «patiscono» la storia, non trova espressione nei documenti scritti della storia, perché – e non solo in quanto la maggior parte di queste masse era analfabeta – ciò che avevano da dire sulle loro vite non era considerato degno di ricordo e perché non aveva valore di testimonianza per la storia di ciò che è grande e potente. Diversamente da Michelet, de Certeau non tenta di restituire le voci e i discorsi dei dimenticati e anonimi della storia, perché non pensa che questo sia possibile. Ciò che egli immagina è una «storia» in cui le lacune, i «tagli», le «ferite» e i silenzi delle masse saranno evocati in qualche equivalente storiografico della «via negativa» seguita dal mistico nella sua ricerca dell’inconoscibile. In questo consiste lo sforzo compiuto in La fable mystique (1982), il suo grande studio del misticismo e della devozione religiosa nella Francia rurale dei secoli XVI e XVII. Il misticismo fu per lui l’indicibile espressione di un senso di perdita di Dio o di distanza da Dio, il suo discorso lo sforzo di parlare dell’assente dell’esistenza umana. Si tratta del genere di assenza che la psicoanalisi ha assunto come suo oggetto di studio e da cui de Certeau fu attratto per farne un protocollo per la ricerca storiografica. Qui lo sforzo non è né di spiegare né di descrivere ma di restare solamente in ascolto per sentire i suoni del desiderio e del bisogno. Un altro tema ancora della storiografia post-strutturalista di de Certeau è la spazializzazione del passato storico. La storiografia standard, ortodossa o professionale è vincolata a una nozione seriale o lineare del processo storico. Secondo questa visione, un evento segue linearmente l’altro e il significato matura quando gli effetti e le conseguenze delle azioni storiche diventano manifeste. Il prima spiega ciò che viene dopo – così è stato pensato a partire da Aristotele. Stabilire data, tempo e luogo di un dato evento è perciò il compito principale dello storico. Secondo de Certeau, la realtà storica o la relazione passato-presente dovrebbe essere pensata in analogia con la città di Roma, cioè come un palinsesto: la stratificazione di residui, tracce o salmerie depositate dagli effetti delle azioni umane in un luogo specifico durante un periodo di tempo. Questo è il caso in particolare di quegli elementi della storicità che persistono o resistono a dispetto delle azioni degli «artefici della storia», che sono in costante movimento mentre espandono il loro potere di epoca in epoca e di luogo in luogo. Secondo questa visione, la storia è una congerie di «posti», cioè di «spazi praticati» in cui si compiono abitudini, rituali, riti, o semplicemente operazione ripetute, conferendo a un luogo l’aspetto di un posto (einer Stätte, come direbbe Heidegger).

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La fisionomia di ciò che si definisce storico, dunque, appare come una congerie di posti, alcuni dei quali sono quelli occupati dai detentori di potere, privilegio e prestigio, altri sono quelli in cui la vita ordinaria va avanti senza fanfara o auto-considerazione – posti che sono «distese di acque stagnanti» o enclave in cui i processi della vita tradizionale riescono a resistere a, sfuggire a, o ignorare le richieste riversate su di essi dai centri dominanti degli avvenimenti storici. A differenza della prima categoria di posti, queste località di provincia o rustiche lasciano «segni» o «tracce» che sono anonime e anche anti-monumentali. Si tratta dei segni di una grande massa di esseri umani che vivono al di fuori dalla «storia» e avendone una relativa ignoranza o piuttosto con la loro devota osservanza della tradizione e del costume costruiscono un’alternativa alla storia di ciò che è grande e potente. A questa anti-storia non si può accedere con gli strumenti normalmente usati dallo storico, documenti scritti in particolare e gli annali e le cronache dei tempi passati. I posti di questa anti-storia possono essere conosciuti soltanto attraversandoli a piedi, sul terreno, a un livello che permetta di vedere gli effetti di modeste o umili attività, più domestiche e private che nobili e pubbliche. Solo così – usando le tecniche del moderno antropologo e archeologo – è possibile accedere alle vite delle masse e moltitudini sepolte sotto lo sfarzo scintillante della storiografia trionfalista e indicare la loro dolorosa assenza. Altri aspetti della storia post-strutturalista di de Certeau potrebbero essere menzionati, specialmente il modo in cui scardina la convenzionale opposizione tra storia e finzione. È sufficiente dire che, lungi dal considerare la «finzione» come l’antitesi della storia e l’immaginario come l’opposto del reale storico, de Certeau è intenzionato a restituire al pensiero storico l’immaginazione, come lo strumento senza il quale non si potrebbe accedere alla storia dei dimenticati e dei senza-voce della storia. Intesa come l’immaginazione del possibile, la finzione è usata propriamente come lo strumento per riuscire a discernere le presenze sbiadite di anime e corpi del passato. Nella brillante discussione su Der Mann Moses und die monotheistische Religion di Freud10, Certeau considera questo testo come il romanzo di Freud e la prova che in vecchiaia il fondatore della psicoanalisi è giunto a vedere che l’Inconscio non poteva essere analizzato scientificamente ma soltanto «immaginato» nell’arte. Così considerata, la teoria post-strutturalista della conoscenza storica di de Certeau invita gli storici a riprendere le tecniche di ciò che Barthes chiama «il romanzesco». Questo invito lascia sperare in una ripresa del «romanzo storico» – un tempo screditato – di Scott, Manzoni, Dumas, Dickens, Tolstoj, etc., in cui ciò che del passato è noto tramite gli stru10

Cfr. M. de Certeau, La scrittura della storia, cit., pp. 319-367.

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menti della conoscenza storica è completato come un campo di possibilità ancora-da-essere-realizzate, ove le persone del passato verrebbero costrette a prendere decisioni del tipo di quelle che ovunque vengono affrontate da tutte le persone. Questo accrescimento tramite gli strumenti della finzione non fa aumentare la nostra conoscenza del reale passato, ma ci permette di afferrare nell’immaginazione un senso di che cosa si provava a essere in un altro caso ancora della «condizione umana». Invero La Fable mystique fa proprio questo. (Traduzione dall’inglese di Rossana Lista)

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Etica e luogo della storia

Com’è sempre più noto, grazie alla letteratura secondaria che si è accumulata a partire dalla sua morte nel 19861, il lavoro di Michel de Certeau è stato guidato da una prolungata riflessione sul problema della conoscenza dell’altro. De Certeau se ne è occupato per tutta la durata di una carriera accademica che ha forma di un viaggio, intellettuale e fisico, compiuto attraverso discipline, attraverso istituzioni, attraverso paesi e attraverso il tempo (ovviamente in senso metaforico)2. Nell’opera di de Certeau, la possibilità di conoscere l’altro è sempre accompagnata da un’insistita analisi della finitudine di tale conoscenza. In più occasioni, de Certeau ammonisce i propri lettori che ogni qual volta «l’altro» – una persona, un gruppo, una società del passato – viene inteso come un oggetto di conoscenza, inevitabilmente c’è qualcosa che viene mancato, escluso o perso nella sua rappresentazione; ciò che sfugge alla presa dell’intelligibilità o che un regime di intelligibilità esclude ritornerà per destabilizzare l’ordine che è stato insediato. Il lavoro di de Certeau sull’istituzione storiografica fornisce un’analisi della «scrittura della storia» come attività culturale tra le più convincenti fra quelle disponibili. Esso esamina non solo ciò che è in gioco nel «fare storia», ma anche la questione ancora più fondamentale sul perché si fa storia. Per de Certeau la storia non è meramente conoscenza del passato – «un savoir de plus» – ma una costellazione di attività, attraverso le quali viene istituito e controllato il rapporto di una società con l’alterità e la temporalità –: l’assenza e la morte. In una famosa formulazione contenuta in The Writing of History, de Certeau definisce l’operazione storiografica come la combi* [Drury University, Springfield, Missouri]. 1 Introduzioni si sono alternate a testi encomiastici. Cfr. J. Ahearne, Michel de Certeau: Interpretation and its Other, Polity, Cambridge, 1995; I. Buchanan, Michel de Certeau: Cultural Theorist, Sage, London, 2000; T. Conley and R. Terdiman, eds., Michel de Certeau. Special Issue of «Diacritics», 22, 2 1992; C. Delacroix, F. Dosse, P. Garcia, M. Trebitsch, dir., Michel de Certeau, Les chemins de l'histoire, IHTP-CNRS-Collexe, Paris-Bruxelles, 2002; F. Dosse, Michel de Certeau: Le marcheur blessé, La Découverte, Paris, 2002; L. Giard, H. Martin, J. Revel, Histoire, mystique et politique: Michel de Certeau, Jérôme Millon, Grenoble, 1991; B. Highmore, Michel de Certeau, Continuum, London, 2006; Michel de Certeau, histoire/psychanalyse. Mises à l’épreuve, «Espaces Temps», 80-81, 2002. 2 F. Dosse, Michel de Certeau. Le marcheur blessé, cit.

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nazione in un unico luogo di pratiche «scientifiche» e scrittura3. Scopo del presente saggio è esaminare il modo in cui de Certeau articola la relazione tra l’etica della storia e il suo «luogo», in particolare nel tardo saggio History: Science and Fiction che è risultato essere poi l’ultima – se non «definitiva» nel senso della summa o del vertice – diffusa trattazione di temi specificatamente dedicati alla teoria della storiografia. Sebbene sia interamente influenzato dal primo e meglio conosciuto lavoro storiografico di de Certeau e dalla sua teorizzazione della storia come «eterologia», History: Science and Fiction sviluppa in modo esplicito le implicazioni critiche e programmatiche di questo primo lavoro. L’obiettivo della critica contenuta in tale saggio è ciò che de Certeau definisce «nuovo dogmatismo» e il cui tratto più caratteristico è l’idea che la storia deve coltivare una «neutralità», cui si attribuisce il compito di garantire sia la sua scientificità che il suo status etico (o eticità). In pratica, questa aspirazione alla «neutralità» equivale a produrre nel discorso storico un’occlusione del rapporto di questo stesso discorso con il luogo particolare della sua produzione, del suo status autentico appunto in quanto produzione. La posizione di de Certeau non è semplicemente che il debito della storia con il luogo della sua produzione compromette la sua «neutralità» ma che è proprio l’aspirazione alla neutralità a compromettere effettivamente il peculiare potenziale scientifico ed etico della storia, incoraggiando la produzione di simulacri: Quel che la storiografia deve dunque fare è esplicitare il proprio rapporto interno e attuale con il potere (esattamente come accadeva un tempo per la relazione con il sovrano). Soltanto questo le impedirà di crearsi dei simulacri che, presupponendo un’autonomia scientifica, hanno in realtà l’effetto di eliminare ogni possibile modo di affrontare seriamente il rapporto che il linguaggio – di senso o di comunicazione – intrattiene con i giochi di potere4.

La base del «programma» di de Certeau per la storia sarebbe così una «ripoliticizzazione», intesa a ricostituire la credibilità del discorso storico con il riconoscimento e l’analisi del suo rapporto con la realtà attuale, con un «luogo» particolare. In History: Science and Fiction de Certeau sostiene che la possibilità da parte della storia di realizzare il suo potenziale etico e scientifico dipende dalla sua volontà di riconoscere e analizzare il suo proprio «luogo» all’interno dell’attuale ordine sociale. In The Writing of His-

3 Cfr. M. de Certeau, L’Écriture de l’histoire, Gallimard, Paris 1975, trad. it. di A. Jeronimidis, La scrittura della storia, Jaca Book, Milano, 2006, p. 63. 4 M. de Certeau, Histoire et psychanalyse entre science et fiction, Gallimard, Paris, 1987, nuova ed. riv. accr. 2002, trad. it. di G. Brivio, Storia e psicoanalisi, Bollati Boringhieri, 2006, Torino, p. 70.

ETICA E LUOGO DELLA STORIA

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tory egli delinea l’importanza di questa riflessività critica nel modo seguente: Ma il gesto che riconduce le «idee» a dei luoghi è precisamente un gesto da storico. Comprendere, per lui, significa analizzare in termini di produzioni localizzabili il materiale che ogni metodo ha dapprima instaurato secondo propri criteri di pertinenza. Quando la storia diventa l’oggetto stesso della sua riflessione, può il ricercatore invertire il processo di comprensione che riporta un prodotto a un luogo? Significherebbe disertare, cedere a un alibi ideologico se, per stabilire lo statuto del suo lavoro, egli ricorresse a un altrove filosofico, a una verità formata e ricevuta al di fuori delle vie attraverso le quali, in storia, ogni sistema di pensiero viene riferito a «luoghi» sociali, economici, culturali ecc. D’altra parte una simile dicotomia tra ciò che fa e ciò che ne direbbe servirebbe l’ideologia dominante, proteggendola dalla pratica effettiva. Essa porterebbe anche le esperienze dello storico a un sonnambulismo teorico5.

Qui de Certeau sostiene che «per praticare ciò che essa predica» la storia deve trattare il proprio discorso come «produzione», con le proprie specifiche limitazioni e condizioni di possibilità. Ciò che rende possibile la distinzione tra storia e ideologia e l’associazione tra storia ed etica è l’esame critico del rapporto del discorso storico con il «luogo» della sua produzione, condotto all’interno di questo stesso discorso. In History: Science and Fiction de Certeau mette in discussione ciò che potrebbe essere considerato come una caduta o un rifiuto di riflessività critica nel nostro «moderno» e «disciplinato» discorso storico, sostenendo che proprio tale rifiuto è ciò che deve essere superato per «ricostituire un’etica». 1. L’etica della storia tra alterità e alterazione Scrivere sulla posizione di de Certeau in merito all’«etica della storia» è una sfida quasi scoraggiante, proprio perché si potrebbe dire che in un modo o nell’altro la sua intera riflessione di teoria della storiografia riguarda questo problema. Se nonostante ciò in questo saggio ho deciso di raccogliere la sfida è perché penso ci siano nel pensiero di de Certeau aspetti che sono rimasti ancora non del tutto riconosciuti, malgrado la dimensione e la qualità della ricezione postuma del suo lavoro, e malgrado il fatto che, nel campo della riflessione di teoria della storiografia dell’ultimo ventennio, nessun argomento ha suscitato attenzione maggiore di quello dell’etica della storia. In ciò che almeno nell’ambiente accademico anglofono ha acquisito notorietà come ethical turn (svolta etica) della storia, la questione preminente è l’obbligo o il debito contratto dagli storici verso gli «altri» vissuti nel passato – coloro le cui vite hanno loro fornito il materiale su cui lavorano. 5

M. de Certeau, La scrittura della storia, cit., pp. 62-63.

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L’idea di un obbligo etico nei confronti delle vittime di catastrofi provocate dall’uomo pone una sfida molto particolare agli storici, in quanto li costringe a trovare una via d’uscita fra l’imperativo della rammemorazione –: «non dobbiamo mai dimenticare ciò che è stato fatto agli altri» – e quello dell’interdizione –: «non dobbiamo illuderci di poter conoscere l’esperienza dell’altro». Come tale, l’ethical turn è stato ampiamente dedicato alla considerazione di quale tipo di «posizione soggettiva» – dati questi contrapposti imperativi –, lo storico dovrebbe adottare quando studia e scrive di ciò che spesso è stato chiamato «trauma storico» – passati che, secondo la famosa formulazione di Henry Russo, «si rifiutano di passare». Il lavoro di de Certeau è stato a ragione identificato come un precedente importante e una fonte ispiratrice per questi sforzi. Senza negare l’importanza del contributo di de Certeau all’elaborazione di ciò che per la storia può essere considerato un’«etica dell’alterità» – legittima portavoce dell’importanza dell’empatia, della riflessività e della riservatezza nello studio impegnato con gli «altri» vissuti nel passato –, nel presente saggio vorrei richiamare l’attenzione del lettore su un insieme di questioni etiche in certa misura differenti e tuttavia non irrelate, che hanno una posizione di grande rilievo nel lavoro di de Certeau, ma non vengono forse messe in sufficiente risalto nell’attuale ethical turn. Queste questioni hanno a che fare molto più con le relazioni fra il discorso storico e il «potere» – quel potere che è esercitato sul discorso storico, attraverso di esso e da esso stesso nel corso della sua produzione e ricezione – che con le implicazioni etiche derivanti del divario incolmabile tra il discorso storico e «il reale» che esso cerca di rappresentare. In questa seconda concezione dell’etica, che chiamerei «etica dell’alterazione», la posta in gioco è ciò che de Certeau definisce «operatività sociale», cioè la trasformazione attiva della realtà presente per mezzo di «operazioni efficaci». Per de Certeau il concetto di «operatività sociale» unisce l’eticità della storia al suo potenziale scientifico. Mentre l’interesse fondamentale di un’«etica dell’alterità» è il rapporto tra attività storica e realtà passata, un’«etica dell’alterazione» mette in primo piano il rapporto dell’attività storica con la realtà presente in cui essa «prende posto». Questa scissione del «campo etico» consegue dal famoso assunto di de Certeau, secondo il quale lo storico lavora tra «due posizioni del reale»: [...] la situazione della storiografia [fa] apparire l’interrogazione sul reale secondo due posizioni molto diverse del procedimento scientifico: il reale in quanto è il conosciuto (quello che lo storico studia, comprende o «risuscita» di una società passata) e il reale in quanto è implicato dall’operazione scientifica (la società attuale a cui si riferiscono la problematica dello storico, le sue procedure, le sue forme di comprensione e infine una pratica del senso). Da un lato, il reale è il risultato dell’analisi e dall’altro ne è il postulato. Queste due forme della realtà non possono es-

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sere eliminate, né ricondotte l’una all’altra. La scienza storica sta proprio nel loro rapporto, e ha come suo obbiettivo svilupparlo in un discorso6.

Per comprendere l’elaborazione di un’etica dell’alterazione per la storia da parte di de Certeau, dobbiamo cimentarci con la sua disamina del rapporto fra la storia e il «luogo» attuale della sua produzione. Il lavoro di de Certeau solleva la questione del modo con cui dovremmo delineare la rilevanza etica del «luogo» dell’attività storica, all’interno del più ampio spazio sociale e politico del presente. Sicuramente de Certeau insiste nel riconoscimento di un debito con il passato, ma ci rammenta anche la necessità di guardare al di là della relazione soggetto-oggetto e di includere nella sfera dell’«etico» una riflessione critica sui legami flessibili ma indissolubili della storia con le più ampie strutture del potere politico e sociale, che assicurano la sua produzione. Per de Certeau gli storici sono in debito non solo con il passato che studiano ma anche, e forse in modo primario, con un ordine presente, che fornisce un «luogo» istituzionale per il loro lavoro7. 2. L’«ethical turn» e de Certeau Prima di procedere con History: Science and Fiction di de Certeau, vorrei fare una breve ricognizione contestualizzante per chiarire meglio al lettore il senso per cui penso che ancora oggi sia importante riconsiderare questo saggio e la sua articolazione del rapporto tra l’etica della storia e il luogo della sua produzione. L’ethical turn della storia può certamente essere compreso come parte di una preoccupazione culturale più larga circa la memoria e la commemorazione, e parimenti come un tentativo di contribuire al compito immenso e forse insuperabile di «elaborazione compiuta» dell’oscura eredità della schiera di catastrofi perpetrate dall’uomo nel XX secolo. L’ethical turn va comunque compreso anche come risposta alle diverse critiche, e in certi casi anche come reazione contro di esse, rivolte alla disciplina storica e alle sue pretese epistemologiche, che tanta attenzione hanno attirato nel corso delle ultime decadi del secolo scorso. 6

Ivi, pp. 45-46. Nell’arco di tutto il suo lavoro di teoria della storiografia, de Certeau sostiene che la storia non deve mai dimenticare il proprio debito nei confronti del potere, del «luogo» istituzionale in cui la ricerca è portata avanti e il discorso storico viene prodotto. Ciò significa che tutta la ricerca storiografica è articolata lungo un luogo di produzione socio-economico, politico e culturale. Essa implica un’area di elaborazione, che è circoscritta da peculiari determinazioni: una libera professione, la posizione propria di un osservatore o di un professore, un gruppo di persone di cultura e così via. Perciò è governata da vincoli, legata a privilegi e radicata in una particolare situazione. È nei termini definiti da questo luogo che sono stabiliti i suoi metodi, può essere specificata la topografia dei suoi interessi, sono organizzati i suoi dossier e l’interrogazione dei documenti. 7

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Negli anni Settanta e Ottanta, la storia era una delle molte discipline accademiche i cui presupposti epistemologici furono messi in discussione nei termini presi in prestito da ciò che nel bene e nel male giunse ad essere definito teoria del «postmoderno». Nel caso della storia, a essere messa principalmente in questione in tale quadro critico è stata la nozione ad essa particolarmente cara di «obiettività storica». La critica «postmoderna» della storia, fino al punto in cui per scopi euristici può essere permeata da un’unità o coerenza che non caratterizza necessariamente la sua elaborazione, ha posto l’accento sui ruoli dello storico e del discorso storico nella costruzione dell’oggetto della rappresentazione storica, contro una nozione più tradizionale del lavoro storico come un processo di indagine disinteressata o «neutrale», mediante il quale la verità storica veniva «scoperta» nel corso della ricerca e in modo più o meno trasparente convertita nella scrittura della storia. L’argomento secondo cui la verità storica è più costruita che scoperta è talvolta associato con ciò che in seguito, a proposito delle tematiche epistemologiche, è stata definito come posizione «relativista». Tale posizione equivale all’idea che gli storici possono offrire visioni storiche in competizione o incompatibili tra loro, ognuna delle quali ciò nonostante può rivendicare pari validità epistemologica. In altre parole, il relativismo epistemologico implica la convinzione che la «verità» di un particolare resoconto storico non può essere stabilita ricorrendo a una «realtà storica» indipendente dai nostri sforzi per conoscerla e rappresentarla. La posizione «relativista» o «costruttivista», che in questa sede è ovviamente presentata in sintesi estrema, è stata e continua ad essere molto controversa, per usare un eufemismo. Le sue implicazioni non sono state accolte e neppure prese in considerazione dalla corrente principale della disciplina storica, il cui conservatorismo è ben noto. La violenta reazione contro la teoria «postmoderna» ha accumulato grande forza polemica grazie all’introduzione dell’Olocausto come una sorta di cartina di tornasole, in base alla quale dovrebbe essere valutato il pregio – o più precisamente la responsabilità morale ed etica – di ogni teoria della rappresentazione storica. Sebbene sia stata spesso presentata come una risposta alla «crisi epistemologica» indotta dal postmodernismo, la mobilitazione dell’Olocausto – con lo spettro in particolare del suo rifiuto o della sua negazione – ha preso la forma di un’ingiunzione normativa, piuttosto che di un argomento di discussione epistemologica. Tale ingiunzione potrebbe essere riassunta come segue: non si dovrebbe abbracciare o sottoscrivere nessuna teoria della rappresentazione storica che possa avallare la «relativizzazione» o negazione dell’Olocausto – o impedire la capacità di dichiararla «non vera». L’associazione del «postmodernismo» con l’«irresponsabilità etica» si è dimostrata una risposta estremamente efficace alla crisi epistemologica della storia, anche se in certa misura reazionaria. Non è passato inosservato che molti di

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coloro che hanno elaborato tale associazione avevano la tendenza a rispondere alle critiche mosse alle fondamenta epistemologiche della storia non già difendendo queste stessa fondamenta, ma limitandosi ad affermarne appassionatamente l’auspicabilità e la necessità. Naturalmente ciò che è stato messo in discussione nella critica postmoderna della storia non è stata l’auspicabilità della fondazione epistemologica ma la sua possibilità8. L’ethical turn in storia e in teoria va compreso almeno in parte come una risposta all’ormai logora associazione della «teoria critica» con l’«irresponsabilità etica», che è prevalsa da quando è stato introdotto ciò che ho definito la cartina di tornasole dell’Olocausto9. Agli storici con inclinazioni teoriche l’ethical turn ha fornito l’opportunità di acquisire o ri-acquisire una «immanenza» e una gravitas etica o morale che è sembrata sempre più elusiva, allorché l’associazione tra «teoria postmoderna» e ambiguità etica e politica ha raggiunto lo status del convenzionale buonsenso. La sfida dell’Olocausto come esempio-limite per approcci critici alla rappresentazione storica ha esposto questa presunta mancanza di immanenza e di una posizione morale o etica esplicita e dai presupposti definiti come una profonda deficienza – o almeno un handicap retorico – del «postmodernismo». Sotto l’egida di una svolta nella comprensione dell’etica, storici con inclinazioni teoriche sono stati in grado di muoversi al di là dell’irresponsabilità del «relativismo postmoderno» o del «gioco post-strutturalista», per attestarsi in posizioni di prima linea nel confronto accademico con gli eventi più terrificanti e le loro conseguenze culturali – eventi che, da quando «traumi storici» resistono di regola ai processi del «lavoro di superamento», preoccupano per definizione le produzioni sociali e culturali della società più ampia che circonda l’istituzione storiografica professionale. Il lavoro di teoria della storiografia di Michel de Certeau occupa un posto unico sia nelle discussioni sulla «crisi epistemologica della storia» che nel superamento di tale crisi proposto dall’ethical turn. Sebbene nessun critico delle fondamenta epistemologiche della storia abbia mai offerto un’analisi più scrupolosa o lucida della capacità della «realtà passata» di sfuggire e resistere al processo della conoscenza storica, dei limiti e della provvisorietà di ogni pretesa di conoscere «l’altro che è passato» e dell’inevitabilità del ricorso della storia alla fiction, spesso è stato fatto appello proprio alla riflessione di teoria della storiografia di de Certeau per difendere le fondamenta epistemologiche della storia e la sua rivendicazione di autorità 8 Mettono in risalto questo punto i saggi di J. Cracraft, Implicit Morality, «History and Theory», Theme Issue, 43, 2004, pp. 31-42 e di M. Dintenfass, Truth's Other: Ethics, the History of the Holocaust, and Historiographical Theory after the Linguistic Turn, «History and Theory», vol. 39, 1, 2000, pp. 1-20. 9 Cfr. S. Friedländer, ed., Probing the Limits of Representation: Nazism and the «Final Solution», Harvard University Press, Cambridge (Mass.), 1992.

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e credibilità. Ciò è avvenuto in virtù della sua famosa definizione, secondo la quale la storia è la combinazione in un unico luogo delle pratiche della scienza e della scrittura: tale definizione, infatti, può essere citata come argomento contrario alla riduzione postmoderna della storia a letteratura10. Per de Certeau il discorso storico non può essere compreso indipendentemente dal suo rapporto con la disciplina accademica e con la serie di pratiche tecniche che lo storico utilizza per muoversi sulle tracce della realtà passata. La storiografia è il prodotto di un «luogo». Nella visione di molti che risiedono in questo luogo, le sue regole e i suoi protocolli, così come le sue pratiche tecniche e collegiali forniscono quel baluardo epistemologico che, data la sua persistente dipendenza dalla narrazione e dalla figurazione, il discorso storico non potrebbe altrimenti darsi11. De Certeau è inoltre un caso particolare. Per quanto le questioni che affronta possano apparire di taglio teoretico o esoteriche e per quanto il suo stile di esposizione possa apparire estraneo a molti storici «di mestiere», infatti, il suo lavoro è stato decisamente dispensato dalle accuse di «irresponsabilità etica» che sono state sollevate contro autori considerati suoi pari in questo campo «metastorico» di discussione. Può darsi ciò sia dovuto al fatto che de Certeau era uno storico «praticante» che come tale si identificava e la cui scrittura specificatamente storica – in quanto opposta a quella di teoria della storiografia – ha rivelato tanto un’erudizione immensa, quale può essere raggiunta solo attraverso uno studio prolungato negli archivi, quanto un autentico rispetto per i protocolli della pratica storica. De Certeau non era un polemista né un provocateur. La profondità e la complessità del suo

10 Al giorno d’oggi possiamo di sicuro constatare che una massa crescente di libri storici va assumendo carattere romanzesco o mitico. Tali libri non producono più trasformazioni nei campi della cultura, mentre al contrario l’intento della «letteratura» è lavorare sul linguaggio e produrre una scena «testuale» – ciò che Raymond Russel definisce come «un movimento di riorganizzazione», una circolazione funebre che genera così come distrugge. In altre parole, in questa forma la storia cessa di essere «scientifica», mentre la «letteratura» lo diventa sempre più. Quando gli storici suppongono che nei loro testi è svelato un passato già dato, tanto più si allineano al comportamento dei consumatori. Ricevono passivamente oggetti distribuiti dai produttori. 11 Come vedremo, a complicare tale visione è l’argomento di de Certeau secondo cui, malgrado il rapporto con il luogo di produzione sia la chiave di accesso al valore epistemologico, tale rapporto è continuamente oscurato, addirittura occluso dal discorso storico, che tenta di spacciarsi per diretta espressione del reale. In ciò che segue, è in discussione il significato etico del «luogo» della storia, piuttosto che quello epistemologico. Ma vorrei comunque suggerire che la posizione di de Certeau potrebbe essere meglio compresa come un’argomentazione contro la riduzione della storia – come attività culturale o pratica sociale – ai suoi testi, piuttosto che l’irriducibilità del ricorso a tecniche letterarie nella scrittura della storia.

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impegno nel problema della conoscenza dell’altro ha reso facile il recupero del suo lavoro come precedente e insieme risorsa dell’ethical turn12. Qui di seguito vorrei ora provare a dimostrare che le questioni etiche di cui si occupa de Certeau sono differenti e anche più ampie di quelle che riguardano l’ethical turn contemporaneo. Con una formula si potrebbe dire che, mentre l’ethical turn tende a collocare l’etica della storia «dopo Auschwitz», de Certeau la colloca «dopo il Maggio ‘68». Ovviamente ciò non significa che de Certeau non abbia presenti gli obblighi nei confronti degli «altri che sono passati». Vedremo anzi che il suo lavoro contribuisce all’elaborazione di una «etica dell’alterità», che è largamente una posta in gioco nella discussione dell’ethical turn. Ma va messo in risalto che de Certeau si è profondamente impegnato nel delineare la posizione della storia all’interno di una più ampia «architettura sociale della conoscenza», la cui organizzazione istituzionale interna e la cui complicità – chiaramente percepita – con il dominio capitalista e imperialista, nel 1968 spinse un’avanguardia di studenti sulle barricate alla ricerca di una trasformazione, e i cui poteri di «sutura» hanno contribuito a una chiusura quasi immediata – attraverso la storicizzazione – di qualunque possibilità di trasformazione aperta dagli eventi del Maggio ’68. Ciò che l’ethical turn contesta – o più precisamente ciò che esso contesta all’«etico» – è in prima istanza la negazione o il revisionismo dell’Olocausto e in secondo luogo il «relativismo postmoderno», che si presume indebolisca la nostra capacità di rispondere a negazionisti e revisionisti. Ciò che de Certeau contesta all’etica è invece il «dogmatismo», che lui stesso definisce come l’imposizione di leggi in nome del «reale». 3. History: Ethics, Science and Fiction Se si considera la dedizione quasi totale di de Certeau durante tutto il suo percorso accademico al problema della conoscenza dell’«altro», è in un certo senso ironico il fatto che una delle sue più importanti e chiare discussioni in merito all’etica riferita alla storia sia disponibile in lingua inglese solo in una raccolta di suoi saggi che precede l’edizione definitiva e postuma delle sue opere. Il significato particolare della trattazione che de Certeau riserva al concetto di «scienza» e «finzione» nel saggio History: Ethics, Science and Fiction, inserita in un resoconto complessivo del suo approccio all’«etica della storia», potrebbe a buon diritto aver ingannato i lettori che hanno familiarità solo con la versione disponibile nella raccolta Histoire et psychanalyse entre science et fiction. 12 In ciò naturalmente hanno svolto un ruolo importante anche la personale statura morale e la serietà di de Certeau.

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Durante un convegno a Berkley nel 1980 dal titolo «Social Science as Moral Inquiry», de Certeau ha presentato una versione inglese di History, Science and Fiction. La relazione venne pubblicata negli atti del convegno con il titolo History: Ethics, Science and Fiction. È questo testo, e non una semplice traduzione della versione finale in lingua francese, ad apparire in seguito nella raccolta Heterologies, sebbene con lo stesso titolo della versione finale francese: Histoire, science et fiction. Nella sua prefazione a Histoire et psychanalyse entre science et fiction, Luce Giard afferma che la versione francese del saggio inclusa in quel volume è «più completa» – e questo commento sembra vada inteso come riferito ad alcune precedenti e frammentarie riedizioni del saggio –, ma anche che è «alleggerito di qualche sviluppo anteriore». Non ho alcuna intenzione di criticare il lavoro di edizione del testo in lingua francese. Mi limito a suggerire tuttavia che il materiale inserito nella versione inglese del saggio, presentata al convegno ed eliminata dalla versione finale in lingua francese, è di grande interesse soprattutto in relazione all’«etica della storia», la questione di cui trattiamo in questa sede13. L’idea che il lavoro di Certeau sulla storia contiene due concetti di etica, uno orientato verso un passato che non «è» più, l’altro orientato verso un futuro che dobbiamo costruire, appare con molta forza già nell’incipit della versione inglese del saggio: La mia analisi della storiografia deve essere situata in un contesto troppo ampio perché possa essere trattata in modo esaustivo in questa sede. Mi riferisco all’antinomia tra etica e ciò che, in mancanza di un termine migliore, chiamerò dogmatismo. L’etica è articolata mediante operazioni valide e definisce la distanza tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere. Tale distanza designa lo spazio all’interno del quale dobbiamo agire. Dall’altra parte, il dogmatismo è legittimato dalla realtà che esso pretende di rappresentare e impone delle leggi proprio in nome di tale realtà. La sto-

13 In assenza di ogni ulteriore commento di Giard sull’eliminazione del preambolo dalla versione francese del saggio, posso solo congetturare che sia stato rimosso perché troppo strettamente legato al contesto specifico del convegno di Berkeley. Per la verità, l’introduzione dell’editore agli atti del convegno presenta una breve ricostruzione dell’emergere delle scienze sociali nella modernità, che è strettamente parallela a quella che si trova nel materiale soppresso. A giudicare dall’introduzione alla pubblicazione degli atti, il convegno esemplifica in modo tipico una prima fase dell’interesse per l’etica e le scienze sociali. I temi in discussione sono: l’esaurimento e il fallimento del paradigma illuminista, tramite il quale le scienze sociali sono associate al progresso e alla perfettibilità, l’eclissi del valore neutralità o «scientismo», il riconoscimento – sulla scia del sovvertimento degli anni Sessanta – della complicità della scienza sociale con il potere che paga per le sue produzioni, il fallimento della teoria della modernizzazione e così via. Se i partecipanti al convegno accettarono largamente sia il ripudio del «valore neutralità» che la complicità potenziale e in atto della conoscenza sociale a carattere scientifico con l’ordine sociale e politico che investe nella sua produzione, erano anche stimolati a pensare a una nuova base per una «scienza sociale come ricerca etica».

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riografia funziona collocandosi a metà strada fra questi due poli: ma ogni volta che tenta di rompere con l’etica, ritorna verso il dogmatismo14.

L’incertezza della storia fra etica e dogmatismo si deve all’ambivalenza della sua funzione sociale, che consiste nel contribuire alla creazione di un presente tenendo sotto controllo qualunque cosa sfugga o sfidi l’ordine instaurato. Cercando di afferrare come oggetto «l’altro» che non è più, organizzando le tracce di questa «realtà passata» che persiste nel presente, la storia stabilisce una relazione tra l’alterità e l’identità, il cui scopo è rendere intelligibile e comprensibile questa stessa alterità15. Il lavoro della creazione di «legamenti» che la storia perfeziona dipende dalla riduzione della «differenza» dell’altro sino a un livello di sicurezza, senza però eliminarlo completamente. La storia aiuta a creare un «luogo» nel presente, allestendo un «teatro della differenza», in cui ciò che non è adeguato al luogo viene assegnato a un altro «luogo» subordinato e a sé stante, che è l’equivalente di una tomba16. Ciò che de Certeau sembra descrivere è un continuum di intelligibilità, le cui linee di demarcazione sono tracciate da due opposte concezioni del rapporto tra un ordine e ciò che ne sta fuori o al di là. Partendo da questa prospettiva, da una parte l’estremo «etico» presumerebbe una separazione o distanza dall’altro, che rimane sempre da colmare per mezzo di una qualche operazione futura, dall’altra l’estremo «dogmatico» sarebbe la negazione o il ripudio dell’alterità –: l’altro è già incluso o non è degno di essere incluso. Ma, se viene collocata nel più ampio contesto del lavoro di de Certeau sulle scienze umane da lui stesso chiamate «eterologie» o «scienze dell’altro», l’antinomia tra etica e dogmatismo appare come una caratteristica 14

M. de Certeau, Heterologies: Discourse on the Other (Theory and History of Literature, vol. 17) [raccolta di saggi, alcuni dei quali precedentemente pubblicati, tradotti dal francese da Brian Massumi], University of Minnesota Press, Minneapolis, 1986, p. 199. 15 «Nel passato da cui si distingue, esso [lavoro storiografico] opera una cernita tra ciò che può essere compreso e ciò che deve essere dimenticato per ottenere la rappresentazione dell’intelligibilità presente. Ma ciò che questa nuova comprensione del passato considera come non pertinente – residuo creato dalla selezione del materiale, resto trascurato da una spiegazione – ritorna malgrado tutto ai margini del discorso o nelle sue faglie: il bell’ordine di un “progresso” o di un sistema di interpretazione viene discretamente turbato da “resistenze”, “sopravvivenze” o ritardi. Si tratta di lapsus nella sintassi costruita dalla legge di un luogo. Essi vi raffigurano il ritorno di un rimosso, vale a dire di ciò che, in un dato momento, è diventato impensabile affinché diventi pensabile una nuova identità»: M. de Certeau, La scrittura della storia, cit., p. 8. 16 «Non bisogna che renda troppo comprensibile ciò che le è stato affidato come estraneo. Così la scrittura storiografica ricostituisce ogni volta, al termine delle procedure di riduzione, un teatro della differenza [...] Alla richiesta di un pubblico che vuole un prodotto esotico, ma certificato e garantito da competenze, questa retorica risponde mantenendo letterariamente una differenza , dopo averla praticamente e razionalmente neutralizzata, rendendola conforme al pensabile»: M. de Certeau, Storia e psicoanalisi, cit., p. 186.

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generale che definisce non solo la storia ma ogni «eterologia»17. Questa antinomia può essere riformulata come segue: la forma di ogni eterologia è definita da una tensione irriducibile tra l’apertura verso la differenza e la volontà di difendere ciò che è «proprio», tramite il recupero o l’esclusione dell’«altro».18 Esiste sicuramente un senso in cui l’antinomia tra etica e dogmatismo indica una predicazione strutturale di categoria per la storia come per ogni «eterologia», che potrebbe essere considerata la tensione in ultima istanza insolubile tra l’atteggiamento di apertura verso l’altro che dovrebbe caratterizzare la ricerca storica e la tendenza alla chiusura nella composizione del testo storico. Nel capitolo L’operazione storiografica di La scrittura della storia, de Certeau fornisce un’analisi esaustiva di tale tensione antinomica, secondo una prospettiva chiaramente evidente in tutta la sua riflessione. In un passo analogo contenuto nel capitolo Fare della storia, de Certeau afferma per esempio: «La storia vacilla così tra due poli. Per un verso, essa rinvia a una pratica, dunque a una realtà; per l’altro è un discorso chiuso, il testo che una forma di intelligibilità organizza e chiude [clôt]»19. E ancora, questa volta nella seconda prefazione a The Writing of History, scritta circa nello stesso momento di History: Science and Fiction: La storiografia (vale a dire «storia» e «scrittura») porta inscritto nel proprio nome il paradosso – e quasi l’ossimoro – della messa in relazione di due termini antinomici: il reale e il discorso. Ha per compito di articolarli e, laddove questo legame non è pensabile, di fare come se li articolasse20.

A partire da tale prospettiva, l’«etica dell’alterità» sembra ampiamente riducibile a un’attitudine o a una disposizione: una rinuncia ai preconcetti, una disponibilità a farsi sorprendere, una resistenza a chiusure premature, una consapevolezza dei limiti e dei «punti morti» del testo scritto. E ancora, nell’antinomia fra etica e dogmatismo sembra essere in gioco qualcosa di 17 «Una struttura propria della cultura occidentale moderna si mostra senza dubbio in questa storiografia: l’intelligibilità si instaura in un rapporto con l’altro; si sposta (o “progredisce”) modificando ciò di cui fa il suo “altro” – il selvaggio, il passato, il popolo, il pazzo, il bambino, il Terzo Mondo. Attraverso queste varianti tra loro eteronome – etnologia, storia, psichiatria, pedagogia, ecc. – si dispiega una problematica che articola un saper-dire su ciò che l’altro tace, e che garantisce il lavoro interpretativo di una scienza (“umana”) con la frontiera che lo distingue da una regione che lo attende per essere conosciuta». M. de Certeau, La scrittura della storia, cit., p. 7. 18 Il lavoro di de Certeau è quasi sempre impegnato con questa duplice questione: come le istituzioni della conoscenza traggano la loro autorità dalle loro pretese di comprendere un «Altro» o «altri» e come l’alterità sfugga alla presa di questi discorsi e tecniche e ritorni per riformularli dall’interno. De Certeau ha prodotto un corpus multi- e metadisciplinare, che ritorna ogni volta all’eterologia: la sua possibilità, le sue limitazioni, le sue funzioni sociopolitiche e le sue proprie storie. 19 M. de Certeau, La scrittura della storia, cit., pp. 27-28. 20 Ivi, p. 3.

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più di una certa modestia o umiltà di fronte allo scarto fra discorso e realtà. Come si è visto, de Certeau dice che «L’etica è articolata mediante operazioni valide e definisce la distanza tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere». La distanza tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere non equivale allo scarto esistente tra il discorso e il reale: «ciò che dovrebbe essere» non è «la realtà passata» ma il futuro possibile. L’affermazione di de Certeau, secondo cui l’etica «designa lo spazio all’interno del quale dobbiamo agire», suggerisce un’attività, un laboratorio per la trasformazione e non semplicemente un atteggiamento di apertura. Infine, il dogmatismo non è semplicemente la mancanza o il rifiuto di impegnarsi con il diverso: è la diffusione di un’illusione o di un inganno al servizio del potere dominante. Ritornando per un momento alla sua prefazione alla seconda edizione di The Writing of History, possiamo comprendere meglio ciò che de Certeau intende con il termine «dogmatismo». Spiegando il motivo del suo rifiuto a fornire in questa stessa prefazione un sintetico resoconto che unifichi le diverse indagini sviluppate nei singoli capitoli del libro, de Certeau afferma che: Rifiutare la fiction di un meta-linguaggio che unifichi il tutto, significa lasciare apparire il rapporto tra procedure scientifiche limitate e ciò che a loro manca del «reale», di cui esse trattano. Significa evitare l’illusione, necessariamente dogmatizzante, propria del discorso che pretende di far credere di essere adeguato al reale – illusione filosofica celata nei preliminari del lavoro storiografico e di cui Schelling ha mirabilmente confessato la tenace ambizione: «Il racconto dei fatti reali è per noi dottrinale». Questo racconto intende fare la legge21.

Questo breve passo fissa alcuni punti importanti. In primo luogo, c’è l’identificazione del dogmatismo con un’«illusione filosofica», proclamata da un discorso allo scopo di convincere i suoi lettori che «le sue parole sono adeguate al reale», e quindi allo scopo di «stabilire delle leggi nel nome del reale». In secondo luogo, il passo suggerisce che, per evitare il dogmatismo, è necessario riconoscere i limiti e la provvisorietà della presa sul reale resa possibile da una qualunque procedura scientifica sviluppata su di esso nel corso di una particolare indagine. Ma infine c’è in terzo luogo un senso, in base al quale la tendenza a coltivare l’illusione dogmatica e la negazione dello scarto esistente tra il discorso e il reale è un «requisito nascosto» del lavoro storico. Come si deduce dal passo di questa prefazione citato prima, il compito della storia è connettere il discorso e il reale, di procedere «come se» fossero congiunti. Come suggerisce il titolo originario, il saggio History, Science and Fiction è dedicato in gran parte a una nuova valutazione dei concetti di «scienza» e 21

Ibid.

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«fiction» e al ruolo da essi svolto nell’operazione storiografica, ma con un impegno particolare nell’affrontare l’idea che la «scientificità» della storia possa essere stabilita mediante un’opposizione alla o un’esclusione della «fiction». L’idea che, per poter diventare una «scienza», la storia debba rompere con la fiction fa parte di un’auto-comprensione profondamente radicata nella disciplina storica ma non ben indirizzata, in essa rappresenta l’incapacità a cogliere il fatto che il tratto distintivo della «scientificità» della storia ha a che fare più con la prospettiva di una «operatività o efficacia sociale», che con un distacco «neutrale» o «obbiettivo» dal materiale di cui essa tratta: Viene detta «scientifica», in storia come altrove, l’operazione che muta l’«ambiente» – o che fa di un’organizzazione (sociale, letteraria, ecc.) la condizione e il luogo di una trasformazione. In una società, l’operazione fa dunque muovere, in uno dei suoi punti strategici, l’articolazione della cultura sulla natura. In storia essa instaura un «governo della natura» su un registro che riguarda la relazione del presente con il passato – in quanto quest’ultimo non è «dato», bensì un prodotto.22

Che la «scientificità» della storia debba essere legata più agli effetti da essa resi possibili che alle caratteristiche del discorso che produce, risulta evidente se, seguendo de Certeau, si riconosce che: Considerata poi come «disciplina», la storiografia è una scienza che non ha i mezzi per esserlo, assumendosi come compito proprio ciò che offre le maggiori resistenze alla scientificità: il rapporto sociale con gli avvenimenti, la violenza, con il passato, con la morte – ovvero ciò che ogni disciplina ha dovuto escludere da se stessa per costituirsi in quanto tale. Eppure, all’interno di una posizione così difficile, questo discorso cerca di sostenere, attraverso la globalizzazione testuale di una sintesi narrativa, la possibilità di una spiegazione scientifica. Il «verosimile» che lo caratterizza difende il principio della spiegazione e il diritto a un senso. Il «come se» del ragionamento – lo stile entimematico delle dimostrazioni storiografiche – ha valore di progetto scientifico23.

Qui come altrove de Certeau mette l’accento sul fatto che il carattere essenziale della storia come «progetto scientifico» non consiste nella qualità degli enunciati riguardanti la realtà, resi possibili dalle diverse pratiche tecniche – cui mancano comunque l’«univocità» e la «neutralità» proprie degli enunciati prodotti dalle scienze naturali –, bensì nella possibilità che il discorso storico sia in grado di trasformare il nostro rapporto con la realtà stessa. Con le scienze naturali la storia condivide certamente l’orientamento verso l’operatività, ma si distingue da esse nella misura in cui raggiunge i suoi effetti mediante la produzione di un discorso «finzionale». Nella visio22 23

Ivi, p. 83. M. de Certeau, Storia e psicoanalisi, cit., pp. 75-76 [e Heterologies, cit., pp. 219-220.]

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ne di de Certeau, il rapporto della storia con la fiction non dovrebbe essere inteso come un ostacolo che impedisce la realizzazione delle sue aspirazioni scientifiche, bensì al contrario proprio come ciò che ne rende possibile la realizzazione. Come tale, la storia è ibrida, e de Certeau sostiene appunto che essa deve accettare e non combattere questa sua qualità: Questa amalgama passa sovente per essere l’effetto di un’arretratezza che sarebbe opportuno eliminare progressivamente dalla vera scienza, oppure un «male necessario» da sopportare come una malattia incurabile. Ma essa può anche – ed è ciò che credo – costituire l’indice di uno statuto epistemologico proprio, e dunque di una funzione e di una scientificità che devono essere riconosciute in quanto tali24.

Le ragioni per cui la relazione con la «fiction» va considerata una parte intrinseca e irriducibile dell’attività storica – una parte essenziale per le pretese epistemologiche della storia e per la sua utilità sociale – sono sviluppate in modo esaustivo da de Certeau nel suo primo lavoro storiografico. Ciò che rende particolarmente importante riesaminare oggi History: Science and Fiction, ponendolo al centro dell’«ethical turn» della storia, è l’assunto secondo cui il mancato riconoscimento delle basi della scientificità della storia non è semplicemente un problema epistemologico: esso mette parimenti a rischio l’eticità dell’impresa scientifica. 4. Il nuovo dogmatismo e il problema del luogo Considerato nel contesto dell’immensamente diversificata produzione post-Sessantotto di de Certeau, il saggio History: Science and Fiction sembra fare da tramite o sintesi tra la riflessione teorica sulla storiografia esposta in The Writing of History e il lavoro di critica culturale più «impegnato» di de Certeau che risulta dalla sua osservazione degli e dalla partecipazione agli eventi e conseguenze del Maggio ’6825. Come suggerisce il passo in cui è presentata, in prima istanza l’antinomia tra etica e dogmatismo è semplicemente un dispositivo euristico, un incapsulamento di una «questione troppo complessa per essere trattata in questa sede», ma che in effetti viene trattata in tutta la sua estensione nelle precedenti analisi di de Certeau sulla storiografia contenute in The Writing of History e L’absent d’Histoire. Declinata in tale registro, l’antinomia non è la base di un giudizio normativo: non c’è nulla di necessariamente «positivo» riguardo all’etica o di «deteriore» riguardo al dogmatismo. Allontanandosi comunque dal tono analitico 24

Ivi, p. 69 [e Heterologies, cit., p. 214.] Nella ricezione postuma di Certeau, almeno nell’ambiente accademico anglofono, non c’è stato alcuno sforzo consistente di mettere il suo lavoro storiografico in connessione con ciò che è giunto a essere noto come il suo lavoro sui «cultural studies». Sulla rilevanza degli eventi del ’68 per de Certeau cfr. i citati studi di Dosse. 25

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del suo primo lavoro, a rapidi passi in questo preambolo de Certeau fa sua l’idea che l’antinomia tra etica e dogmatismo può servire come punto di partenza per una riflessione critica sul – o più precisamente per una storicizzazione del – ruolo della storia nella società contemporanea. Dopo aver introdotto l’idea dell’antinomia come osservazione della tensione strutturale tra identità e differenza, apertura e chiusura – ossia ciò che determina la forma di ogni impresa «eterologica», de Certeau poi la reimpiega per delineare la cornice narrativa dell’istituzionalizzazione della storia. All’interno di ciò che è essenzialmente una breve storia del «conflitto tra discorso e storia» così come si manifesta nella nostra modernità, l’antinomia tra etica e dogmatismo è riaffermata come tensione tra due progetti della storia: la trasformazione di un ordine esistente –: «fare la storia» – e la conferma della legittimità di tale ordine –: «conoscere la storia». Nel secondo e terzo paragrafo del preambolo alla versione di History: Science and Fiction contenuta in Heterologies, de Certeau suggerisce l’idea che la storia e le altre scienze sociali inizino come «crociate morali» che aspirano a una «operatività sociale». Con il passare del tempo, ciò che inizia come ribellione scientifica grazie al suo stesso successo acquista tuttavia lo status di «establishment scientifico»: Questa antinomia tra etica e dogmatismo svolge un ruolo essenziale nella storia delle scienze, soprattutto nelle questioni riguardanti le scienze sociali. L’organizzazione della conoscenza scientifica che prende forma nei secoli XVII e XVIII presuppone un cambiamento nel postulato fondamentale della società medievale: l’obiettivo religioso o metafisico di stabilire la verità degli esseri umani secondo il volere di Dio fu sostituita dal compito etico di creare o fare la storia (faire de l’histoire). Tuttavia, entrambe le ambizioni si preoccupavano in ultima istanza di stabilire un certo ordine. Al giorno d’oggi questa ricerca di un ordine dominante è stata soppiantata dall’imperativo sociale di costruire un mondo più umano. Il valore viene ora assegnato a ogni essere umano più in base alle sue azioni e funzioni all’interno di un’economia storica governata dalla legge del progresso che in base alla sua posizione all’interno di un sistema di assoluti. Discipline differenziate e con limiti definiti, che organizzano le operazioni all’interno di cornici coerenti, definiscono ipotesi teoriche, oggetti specifici della conoscenza e ambiti della ricerca. Le scienze sociali nate in epoca moderna formano un insieme di istituzioni che esprimono postulati etici tramite operazioni tecniche. Per un lungo periodo queste istituzioni organizzarono «nuove crociate» di natura tecnica per portare a compimento obiettivi etici; ma esse entrano in contrasto con altre istituzioni che parlano in nome della «realtà» e usano mezzi dogmatici per creare credenze e opinioni. È apparso tuttavia un «dogmatismo» di specie nuova, che ha sostituito la storica connessione storica fra obbligo etico e abilità tecnica. L’establishment scientifico è andato gradualmente separandosi dai propri obiettivi etici, che per un lungo periodo di tempo avevano motivato e guidato le sue operazioni tecniche. Lentamente es-

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so è andato perdendo la sua fondazione nell’operatività sociale e trasformando i suoi prodotti in rappresentazioni di una realtà in cui ognuno deve credere. Definisco questa tendenza dogmatizzante «l’istituzione del reale». Essa consiste nella costruzione di rappresentazioni convertite in leggi imposte dagli stati delle cose. Tramite questo processo, gli obiettivi etici vengono sostituiti da ciò che si suppone essere l’espressione di realtà. Una pietra di paragone è il concetto di «fiction»26.

In questo schizzo storico la storia e le scienze sociali iniziano come un progetto etico. Il loro approccio «scientifico» definisce se stesso contro una tradizione dogmatica ed è orientato verso la progressiva trasformazione del loro contesto sociale (tramite lo sviluppo di una valida conoscenza di esso). Quando de Certeau descrive la funzione della storia all’interno della società contemporanea come «istituzione del reale», sta suggerendo che essa ha abbandonato l’obiettivo di «fare la storia», per svolgere il ruolo che in precedenza era riservato alla religione: imporre credenze e opinioni nell’ordine più vasto e approvarlo. L’idea secondo cui nella modernità la razionalità scientifica competa con la credenza religiosa e alla fine prevalga su di essa è ormai relativamente un luogo comune. Ciò nonostante, il trattamento che de Certeau riserva al sismico sviluppo storico, attraverso il quale la conoscenza scientifica giunge a occupare la posizione dominante un tempo tenuta della religione, è del tutto particolare. Nel «prendere il posto» della religione, lo status delle scienze sociali rispetto all’ordine sociale dominante cambia: diviene la sua espressione, anziché la sua critica. Per de Certeau, «l’architettura sociale della conoscenza» abita il guscio vuoto da cui la religione è stata obbligata a ritirarsi, mentre «passate» strutture di credenze restano in quel «luogo», simili ad altrettanti fantasmi che influenzano di nascosto il lavoro apparentemente scientifico che accade al suo interno. Mentre il preambolo di History: Science and Fiction si limita ad abbozzare il processo storico attraverso il quale, con lo sviluppo della nostra modernità, l’equilibrio nell’antinomia fra etica e dogmatismo inclina verso il secondo fra questi due poli, credo che sia possibile leggere tale abbozzo come un’allusione al resoconto più compiutamente elaborato di questa «tendenza dogmatizzante», quale è sviluppato altrove nell’opera di de Certeau, in particolare in La culture au pluriel. In quest’opera de Certeau discute la rilevanza dell’emergenza di uno «stato pedagogico», in cui le distinzioni fra potere e conoscenza sono sempre più sfuocate27. Per de Certeau la ca26

M. de Certeau, Heterologies, cit., pp. 199-200. «In linea di principio la scuola-stato si impone su tutti e non appartiene a nessuno. Sopprime il suo proprio limite. Distrugge ciò che fonda in una sola volta un’autorità, un controllo e una battaglia: la relazione con l’altro. Il suo linguaggio obiettivo è dato come una legge senza confini, come quella del mercato o della storia. Con la loro condotta grigia e ostruzionistica, i leaders nascondono la loro violenza in un sistema universale e indispensabile. Il gruppo ristretto dei produttori cancella la propria marca distintiva nella logica espansionistica dei suoi 27

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ratteristica che definisce il nostro ordine attuale è che il «potere» – le strutture amministrative e di governo – e la «conoscenza» – l’università con le sue discipline – sono unite dalla loro comune adesione a una «razionalità scientifica», il cui tratto distintivo è definito dalla «neutralità»28. Coltivare la «neutralità» universalizza i discorsi oscurando le condizioni specifiche della loro produzione; come suggerisce il passo precedente, essa nasconde il carattere provvisorio, costruito delle rappresentazioni storiche, trattandole come espressione di una «realtà pre-esistente». La «neutralità» è definita da de Certeau nel modo seguente: La «neutralità» rimanda alla metamorfosi delle convinzioni in ideologie all’interno di una società tecnocratica e produttivistica anonima che non sa più designare le sue scelte né rintracciare i suoi poteri (al fine di confessarli o denunciarli). Così, nell’Università colonizzata, corpo tanto meno autonomo quanto più ingigantito, lasciato ormai in balìa delle consegne e delle pressioni provenienti dall’esterno, il ritrarsi si sostituisce all’espansionismo scientista o alle crociate «umanistiche» di ieri. Quando si tratta di opzioni, all’affermazione si sostituisce il silenzio. Il discorso assume un colore grigio: «neutro». Diventa anche il mezzo per difendere dei posti, invece di essere l’enunciato di «cause» capaci di articolare un desiderio. Non può più parlare di ciò che lo determina: un dedalo di posizioni da rispettare e di influenze da sollecitare29.

Il problema che de Certeau desidera sottoporre alla nostra attenzione è che laddove la storia e le scienze sociali iniziano come un progressivo movimento tattico contro il potere della tradizione, grazie al loro successo finiscono poi con l’identificarsi con il centro effettivo del potere socio-politico e logistico. Il marchio di fabbrica di tale potere è il suo uso di una conoscenza, la cui produzione viene occultata. Il suo carattere collettivo e anonimo lo converte in una forza per eccellenza dogmatizzante, dal momento in cui le specifiche condizioni della sua produzione non sono più riconosciute o identificate. La fiducia etica nella capacità di opposizione e traprodotti. Se è vero che ogni ordine sostiene una relazione necessaria con la violenza di un irriducibile altro – reso significante in un mitico crimine, in un pubblico conflitto, in una categoria sociale –, in questo caso abbiamo il crimine perfetto, quello che nel linguaggio lascia solo la traccia del suo anonimato. Si sviluppa così un potere senza autorità, perché esso rifiuta di esprimere se stesso, perché è senza un nome proprio, senza qualcuno che lo autorizzi esplicitamente o che possa rispondere per esso. Si tratta di un governo dell’anonimato, di una tirannia senza tiranno, in altre parole del regime burocratico.»: M. de Certeau, La culture au pluriel, nouvelle édition établie er présentée par L. Girad, Édition du Seuil, Paris, 1993, 19741, p. 77. 28 «Probabilmente questo regime totalitario ha ereditato il suo modello dalla scienza. È essenziale che il discorso che organizza le sue pratiche sia sostenuto da ognuno e da nessuno in particolare. In realtà, la neutralità del discorso scientifico, combinata con l’oscurità della sua funzione, con la sparizione di un’organizzazione agente, con l’obliterazione dei luoghi sociali in cui è costruito, lo ha trasformato nel discorso del servilismo inconscio»: ivi, pp. 77-78. 29 M. de Certeau, La scrittura della storia, cit., p. 77.

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sformazione del movimento scientifico, in quanto movimento della società, è dissolta nel momento in cui esso viene a costituire la base del «moderno» potere burocratico e tecnocratico che mira a controllare piuttosto che a trasformare la società. Questo era il tema del convegno di Berkeley in cui fu presentato History: Science and Fiction, lo stesso che ha ispirato anche gli altri contesti in cui sono apparse varie versioni di questo saggio. Le nostre scienze sono nate con quel gesto storico «moderno» che ha depoliticizzato la ricerca dando vita ad ambiti «disinteressati» e «neutri», sorretti da istituzioni scientifiche. Questo gesto continua spesso a sostenere l’ideologia propugnata da alcuni ambienti scientifici, ma lo sviluppo di ciò che esso ha reso possibile ne ha capovolto la portata. Ormai da molto tempo le istituzioni scientifiche, tramutatesi in forze strategiche, sono fagocitate all’interno di quel sistema che esse razionalizzano ma che le collega le une alle altre, fissando i loro orientamenti e assicurando la loro integrazione socioeconomica. Tale effetto di assimilazione è ovviamente più consistente per quelle discipline, il cui grado di elaborazione tecnica è più debole; ed è questo il caso della storiografia30.

Qual è il rapporto della storia con il potere che provvede di risorse e legittimità questo «luogo di produzione»? Il punto chiave per de Certeau non è che la storia sia inevitabilmente «determinata» dal suo rapporto con il potere e cerchi di nascondere tale determinazione allo scopo di rendere ancora più efficace il suo servizio. Il problema è piuttosto che, nel tentativo di conformarsi a un’immagine particolare di scientificità che privilegia «neutralità» e «obiettività», il discorso storico tende a occludere e nascondere il suo proprio status di «produzione». De Certeau sostiene che il silenzio del discorso storico sulle specifiche condizioni della sua produzione ha l’involontario effetto ironico di estraniare la storia dalla particolare modalità scientifica di cui può disporre e che dipende dalla credibilità ottenuta tramite la specificazione della sua base in un insieme limitato di operazioni, piuttosto che dall’illusione che il «reale» sta parlando senza la mediazione dell’impresa storiografica. Il rapporto con un «luogo» particolare e con un insieme di pratiche che così spesso è arruolato in difesa dell’autorità della storia e il suo status di «scienza» appaiono in una luce diversa, se si tiene conto dell’insistenza di de Certeau sul fatto che il discorso storico nasconde ciò che dovrebbe essere trattato come sua base: Detto senza mezzi termini, il problema è il seguente: la messa in scena di un’effettività (passata) – ovvero il discorso storiografico in se stesso – tende a occultare la struttura tecnica e sociale che la produce, vale a dire l’istituzione professionale. L’operazione in questione sembra piuttosto astuta: il discorso guadagna la propria credibilità in nome di una realtà che si presume esso rappresenti, ma questa appa30

M. de Certeau, Storia e psicoanalisi, cit., p. 70.

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renza autorizzata serve precisamente a occultare la pratica che in realtà la determina. La rappresentazione cela la prassi che la organizza31.

La capacità di fornire un discorso e di far in modo che esso venga accolto come «autorevole» senza rendere esplicito il suo rapporto con il luogo e le operazioni che sono le condizioni preliminari della sua produzione, è il marchio di autenticità per eccellenza dell’ideologia dominante: Prendere sul serio il suo luogo, non significa ancora spiegare la storia. Nulla si è ancora detto di ciò che vi si produce. Ma è questa la condizione per poterne dire qualcosa che non sia né leggendario (o «edificante»), né a-topico (senza pertinenza). In quanto principio stesso dell’ideologia, la denegazione della particolarità del luogo esclude qualsiasi teoria. Inoltre, collocando il discorso in un non-luogo, essa interdice alla storia di parlare della società e della morte, cioè di essere storia32.

5. Conclusioni: l’etica come ripoliticizzazione Un modo per costruire un senso unitario fra i diversi e dispersi impegni accademici di de Certeau nel periodo successivo agli eventi del Maggio ’68 sarebbe quello di considerarli nell’insieme come un tentativo di «ripoliticizzare» le scienze umane, sviluppando una «teoria critica» del ruolo svolto nella società contemporanea da questi tentativi scientifici. Non solo nel saggio qui esaminato ma anche altrove, uno degli interessi prevalenti in de Certeau è la funzione «egemonica» delle scienze sociali e della storia in particolare. History: Science and Fiction esamina il rapporto dell’istituzione storiografica con le più ampie strutture del potere sociale o politico, che le forniscono risorse e autorità; esso considera il servizio che la storia presta nel contribuire a mantenere quelle strutture di intelligibilità che sorreggono la credibilità di questo ordine più ampio. La questione della complicità della storia con il potere dominante – i suoi meccanismi, la sua estensione, la sua necessità – era prevalente nel primo periodo posteriore al ’68 della riflessione sulla storia. Di recente invece la questione della «politica dell’interpretazione storica» è stata superata da quella dell’«etica della rappresentazione storica». Questa svolta verso l’etica è stata anche un allontanamento dalla questione della politica delle istituzioni. Il problema della funzione egemonica della storia e delle altre scienze sociali, che era così largamente diffuso sulla scia degli anni Sessanta ed è ancora così evidente nel convegno «Social Science as Moral Inquiry» in cui de Certeau presentò il saggio qui preso in esame, nel contesto dell’ethical turn contemporaneo è oggi sovrastato dall’idea dell’obbligo o del dovere nei confronti delle vittime della storia e delle loro esperienze. Non sto so31 32

Ivi, p. 55. M. de Certeau, La scrittura della storia, cit., p. 79.

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stenendo che queste due concezioni dell’etica siano incompatibili tra di loro né che non siano entrambe interessi cruciali di de Certeau. Vorrei solo schierarmi contro la prematura storicizzazione del problema del luogo delle «scienze sociali» e della funzione egemonica della storia. Questo problema non è stato risolto e rimane tuttora un tema pressante, anche se poco riconosciuto. Penso che, allo stesso livello in cui l’ethical turn contemporaneo rappresenta qualcosa di simile a una risposta alle precedenti critiche della storia, dobbiamo pretendere che rimanga in discussione anche l’altra concezione dell’etica –: l’etica dell’alterazione. La riflessione etica sulla storia ha bisogno di occuparsi non solo della questione della posizione dello storico rispetto all’oggetto passato ma anche di quella del luogo della storia nella sua relazione con le più ampie strutture di potere che le conferiscono autorità. Questi aspetti, insieme a molti altri, rimandano lo «statuto di una scienza» a una situazione sociale che ne è il non-detto. È dunque impossibile analizzare il discorso storico indipendentemente dall’istituzione in funzione della quale esso è organizzato in silenzio; o pensare a un rinnovamento della disciplina garantito dalla sola modificazione dei suoi concetti, senza che intervenga una trasformazione delle situazioni acquisite. Da questo punto di vista, come indicano le ricerche di Jürgen Habermas, si impone una «ripoliticizzazione» delle scienze umane: non si può renderne conto o permetterne il progresso senza una «teoria critica» della loro situazione attuale nella società33.

(Traduzione dall’inglese di Silvia Zanichelli)

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Ivi, p. 71.

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Immagini-traccia e scrittura. Storio-grafia ed etno-grafia in Michel de Certeau

Une image. Un presque rien. M. de Certeau, Histoire et anthropologie chez Lafitau

Ces voix dont la disparition est le postulat de tout historien et auxquelles il substitue son écriture ré-mordent l’espace d’où elles sont exclues et parlent encore dans le textetombeau que l’érudition élève à leur place. M. de Certeau, Histoire et psychanalyse entre science et fiction

1. Storia, linguaggio e psicoanalisi Come dice il trattino, storio-grafia ed etno-grafia sono in Michel de Certeau delle pratiche di scrittura, ma non nel senso di una lettura narrativista (tropologica, alla Hayden White) del discorso storico e del discorso antropologico. Non nel senso di quelle prospettive narrativiste che oppongono il letterario allo scientifico e concepiscono la storia unicamente come un «literary artifact»1. Finzionalità e letterarietà, cioè le strutture poetico-narrative, non esauriscono per Certeau lo statuto epistemologico della pratica storica. La messa in forma scritturale ha nella sua prospettiva un significato più complesso rispetto ad ogni forma di narrativismo2, perché la sua concezione della finzione storiografica implica che potere conoscitivo e significato politico ed ontologico della scrittura siano strettamente connessi.

* [Università di Pavia]. 1 Cfr. H. White, Metahistory. The Historical Imagination in XIX Century Europe, The John Hopkins University Press, Baltimore and London, 1973, trad. it. di P. Vitulano, Retorica e storia, 2 voll., Guida, Napoli, 1978; Id., Tropics of Discourse, The John Hopkins University Press, Baltimore and London, 1978. 2 White si concentra sul valore di letterarietà della scrittura storica, escludendo dal campo di analisi il valore di verità e di conoscenza - cioè i temi epistemologici che hanno impegnato sia il verificazionismo neopositivista, sia il narrativismo, nella prospettiva analitica di Dray e di Danto e nella rilettura ricoeuriana della comprensione narrativa come ordinamento dell’esperienza del tempo. Semmai la concezione di Certeau della finzione scritturale è più vicina al narrativismo nel senso di Ricoeur, che in Tempo e racconto ha mostrato che nella storiografia l’elemento della messa in forma discorsiva e l’elemento epistemologico e conoscitivo si coappartengono.

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In altre parole, la concezione di Certeau della scrittura della storia non è semplicemente narrativista, perché l’operazione storica non è da lui intesa solo come messa in forma conoscitivo-interpretativa (comprendente) dell’oggetto storico, ma si riferisce al «combinarsi di un luogo sociale, di pratiche “scientifiche” e di una scrittura»3. Se pur sinteticamente, questa definizione presenta in modo efficace la strutturazione triangolare della storiografia4, intesa non come sapere codificato di cui dare le regole, ma come atto che viene realizzando l’unione tra i vertici costituiti dal lavoro tecnico (le pratiche documentarie, di raccolta di informazioni e di formazione degli archivi), dal rapporto con un interesse pubblico e con i suoi luoghi sociali e le sue pratiche (ieri il potere del principe, oggi l’istituzione scientifica, non disgiunta da interessi e strategie di potere), dalla separazione che definisce un tempo del soggetto passato al fine di istituire un tempo del soggetto presente. Se epistemologicamente la storia è un fare e un insieme di operazioni che producono un oggetto attraverso scrittura e finzione (attraverso cioè una costruzione testuale), ontologicamente la storia organizza per la nostra autocomprensione le forme della distanza spazio-temporale dell’altro, ma in questo modo compie anche un gesto a efficacia politica, poiché esclude l’altro per darne una comprensione a partire da un voler-fare nel nostro presente. Nella sua interpretazione della storio-grafia, Certeau ricorre alla strategia psicoanalitica, che insegna a riconoscere il passato nel presente e a portare in luce i rapporti di imbricazione, ripetizione, equivoco, con cui un soggetto si istituisce su un’assenza5. In questo modo, egli smaschera la strategia del tempo messa in atto dalla storiografia, che pone il passato accanto al presente, in rapporti di disgiunzione e di successione lineare. Il passato non è per Certeau un dato da portare in luce, non è un fatto da rivivere nella sua autenticità (ciò che propriamente è stato)6: 3 M. de Certeau, L’écriture de l’histoire, Gallimard, Paris, 1975, trad. it. di A. Jeronimidis, La scrittura della storia, Il Pensiero Scientifico, Torino, 1977, p. 61. 4 Strutturazione triangolare che in Certeau è riconducibile a fonti che sono nomi propri: Foucault e il sapere come pratica, le «Annales» e la rivoluzione nelle tecniche documentarie e nell’analisi delle forme temporali, Lacan e il rapporto tra il linguaggio e la mancanza. Negli anni Settanta, Certeau assume un ruolo importante nella ridefinizione della storia come operazione: nel 1974 esce da Gallimard la trilogia Faire de l’histoire, a cura di P. Nora e J. Le Goff, che riprende il titolo di un articolo di M. de Certeau, Faire de l’histoire. Problèmes de méthodes et problèmes de sens, in «Recherches de science religieuse», 58, 1970, pp. 481-520 (ripubblicato come primo capitolo de La scrittura della storia). Per il rapporto di Certeau con la nuova storiografia, cfr. F. Dosse, Michel de Certeau. Le marcheur blessé, La Découverte, Paris, 2002, cap. 17. 5 Cfr. M. de Certeau, Histoire et psychanalyse entre science et fiction, Gallimard, Paris, 1987, 20022, trad. it. di G. Brivio, Storia e psicoanalisi. Tra scienza e finzione, Bollati Boringhieri, Torino, 2006, pp. 78-80. 6 Ricordiamo la critica di Benjamin al tema storicistico della conoscenza del passato «come propriamente è stato [wie es denn eigentlich gewesen]»: «Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo “come propriamente è stato”. Significa impadronirsi di un ricordo

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[…] la ricerca – egli scrive – parte non più da una «rarità» (resti del passato) per giungere a una sintesi (comprensione presente), ma da una formalizzazione (un sistema presente) per dar luogo a «resti» (che sono indizi di limiti e quindi di un «passato» che è il prodotto del lavoro)7.

Non si va dai resti alla loro comprensione, ma dal lavoro presente alla produzione del passato, della sua assenza e delle sue tracce. «Assenza» e «traccia», in quanto prodotti della storiografia, sono i concetti centrali di questa inversione di prospettiva. Analizzerò prima brevemente il tema dell’assenza, o, meglio, dell’«assente della storia» – dove il genitivo rimanda al ruolo performativo della scrittura storica, che rende assente il suo oggetto. Ma è la «traccia» il concetto-chiave dell’ermeneutica dell’assenza elaborata da Certeau; ed è su questo concetto e su una sua declinazione specifica che tornerò più avanti. L’assenza e la distanza del passato, non il progetto storicista ed ermeneutico di farlo rivivere, né il progetto nomologico di spiegarlo, fanno dunque parlare lo storico: un’inversione di prospettiva che è nello stesso tempo, e finalmente, un congedo dall’opposizione comprendere/spiegare. La comprensione dello storiografo (e dell’etnografo) mette in scena nel presente l’assenza del suo oggetto, attraverso procedure di separazione e messa a distanza, di denegazione e trattamento scritturale dell’angoscia di morte, di istituzione del presente. Le scienze umane (storiografia, etnografia) si istituiscono sulla separazione e sulla messa a distanza del passato, in un rapporto di alterazione (un rapporto reciproco, come vedremo subito): comprendono cioè non per una relazione di rappresentazione con i propri oggetti, ma per le relazioni di alterazione che fabbricano, producendo assenza, modellando cioè lo spazio e il tempo del proprio altro. Etnologia, storia, psichiatria, pedagogia articolano «un saper dire su ciò che l’altro tace»8. Un rapporto di alterazione che è in primo luogo separazione e allontanamento nel tempo. Il passato non è per l’Occidente ciò che le liste genealogiche sono per le comunità arcaiche: e cioè una presenza, un tesoro e un alimento che ha la forma di parola viva, presente nelle orecchie e sulla bocca dei viventi,

come esso balena nell’istante del pericolo. La storia è oggetto di una costruzione il cui luogo non è il tempo omogeneo e vuoto, ma quello pieno di “attualità” [Jetztzeit]. Ma nessun fatto, perché causa, è già perciò storico. Lo diventerà solo dopo, postumamente» (W. Benjamin, Über den Begriff der Geschichte, in Id., Schriften, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a.M., 1955, vol. I, 2; trad. it. di R. Solmi, Tesi di filosofia della storia, in Angelus Novus, Einaudi, Torino, 1962, 19952, p. 77). 7 M. de Certeau, La scrittura della storia, cit., p. 90. 8 Ivi, p. 3.

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e che porta identità nella comunità9. Il passato per l’Occidente moderno è piuttosto il risultato di un gesto di differenziazione da un’altra epoca o società. Così la Rivoluzione produce la storia dell’Ancien régime, così le periodizzazioni (Medioevo, Storia moderna), le delimitazioni di epoche (Rinascimento, Rivoluzione), operano «una cernita tra ciò che può essere compreso e ciò che deve essere dimenticato per ottenere la rappresentazione di un’intelligibilità presente»10: un ordine di senso per il presente viene istituito su elementi della tradizione, che vengono selezionati e classificati come «passato». In quanto allontanato e separato dal presente, il passato è l’invenzione con cui l’Occidente si assegna un’identità presente. Tra il presente e il passato istituiti dalla scrittura della storia, il rapporto è di alterazione reciproca. L’altro, l’assente, è infatti il «limite, necessario e denegato, [che] caratterizza la storia come scienza umana»11: la storiografia come «lavoro di morte e lavoro contro la morte»12; lavoro che crea un assente (lavoro di morte), e nello stesso tempo un’origine e un’identità presente (lavoro contro la morte). Certeau designa con il termine «denegazione» (dénégation), che possiamo leggere attraverso il concetto freudiano di Verneinung, questo rapporto con l’alterità passata, a significare che si tratta di un rapporto ontologico13. La storia instaura una frattura col passato, ma questa frattura è continuamente rimessa in causa: il passato, che si vorrebbe ridurre ad oggetto, ritorna come un revenant a formare l’identità presente. Ogni società dice con forza: «non sono questo»; ma nello stesso tempo è costretta a confessare: sono «determinata da ciò che denego»14. Il corpo e la parola enunciatrice dell’altro – la cui alterità si vorrebbe dominare oggettivamente attraverso il lavoro di comprensione e di spiegazione, attraverso l’arma (europea) del senso – investono e alterano il soggetto della scienza. Ora, è attraverso la scrittura che l’Occidente ha instaurato questo particolare rapporto con il tempo e con la morte. La storio-grafia trasforma la tradizione vissuta in oggetto di sapere: lo fa in quanto scrittura, cioè in quanto trattamento particolare della relazione del vivente con l’assenza e la morte. Certeau interpreta l’operazione della scrittura, intesa come il luogo 9

Cfr: M. Kilani, La construction de la mémoire. Le lignage et la sainteté dans l’oasis d’El Ksar, Labor et Fides, Genève, 1992; Id., L’archivio, il documento, la traccia. Antropologia e storia, in S. Borutti, U. Fabietti, a cura di, Fra antropologia e storia, Mursia, Milano, 1998, pp. 24-39. 10 M. de Certeau, La scrittura della storia, cit., p. 4. 11 Ivi, p. 44. 12 Ivi, p. 6. 13 La Verneinung, smentita, non è semplice negazione di un contenuto, ma atto che segnala la presa di coscienza del rimosso: cfr. S. Freud, Die Verneinung (1925), trad. it. di E. Fachinelli, La negazione, in Opere di Sigmund Freud, a cura di C.L. Musatti, vol. 10, Boringhieri, Torino, pp. 197-201. Nel nostro contesto, è interpretabile come un atto di rifiuto, che nello stesso tempo istituisce e segnala un legame con ciò o con chi è rifiutato. 14 M. de Certeau, La scrittura della storia, cit., p. 56.

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della relazione all’altro, attraverso temi lacaniani. L’altro assoluto (la morte) appartiene alla struttura ontologica del soggetto nella forma della mancanza15. Il soggetto, il cui corpo è segnato dall’angoscia per l’inaccessibilità della cosa, è abitato da una divisione costituente ed es-propriato: è esposto originariamente all’altro nel suo proprio e nella sua identità. La scrittura interviene a esorcizzare l’angoscia in quanto porta fuori la morte (la mancanza) dall’esistenza e la trasferisce nel linguaggio simbolico. Con la sua performatività, col suo fare narrativo, la scrittura fornisce una rappresentazione della morte (del passato), e in questo modo riempie la lacuna che rappresenta, offrendo una lezione al presente16. Così il linguaggio istituisce un trattamento dell’altro che è relativo all’identità del soggetto. La storia si istituisce sul confine tra una società e l’atto di distinguersi dal suo passato: la storia come «vibrazione di limiti»17, frontiera mobile tra oggetto passato e prassi presente. In questo senso, in quanto rielaborazione del passato orientata sull’apertura di orizzonte del presente, la scrittura della storia assume significato politico. È questo un carattere fondamentale della storiografia moderna, a partire dal XVI secolo. Esemplare il caso dei Discorsi, che Machiavelli presenta come un commento a Tito Livio, ponendo il passato come finzione del presente18. È lo stesso gesto che compie ogni storico, che inscrive una realtà passata nel proprio discorso, ma a partire dalla situazione presente, dai modelli interpretativi del presente, da significati riconoscibili dal pubblico attuale, da posizioni sociali e da strategie di potere. Il lavoro del lutto che elabora la memoria del passato è dunque politico in quanto si nutre di un presente politico e delle sue progettualità: la comprensione storica muove dal proprio luogo, dal proprio tempo e dal proprio senso per prendersi cura dei luoghi e dei significati di una popolazione di morti. In questo senso, è un vero e proprio rito di sepoltura, in senso etnologico, che «esorcizza la morte introducendola nel discorso»19; e ha una funzione simbolizzatrice, in quanto, escludendo l’altro, dà senso a un voler fare presente: una società di vivi fissa la propria posizione «dandosi nel linguaggio un passato» e ricevendo dal passato un significato20.

15 «[...] il ritorno dell’Altro che costituisce il soggetto in quanto relazione a un oggetto impossibile»: M. de Certeau, Lacan: un’etica della parola, in Storia e psicoanalisi..., cit., p. 225. 16 Cfr. M. de Certeau, La scrittura della storia, cit., pp. 120-121. 17 Ivi, p. 45. 18 Ivi, p. 11. 19 Ivi, p. 119. 20 Ibid. Cfr. P. Ricoeur, La mémoire, l’histoire, l’oubli, Seuil, Paris, 2000, trad. it. di D. Iannotta, La memoria, la storia, l’oblio, Cortina, Milano, 2003, pp. 522-523.

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2. Le immagini-traccia: la voce L’operazione storiografica che trasforma un popolo di morti nel nostro altro è una configurazione scritturale. In che senso? Dobbiamo presupporre che la scrittura si istituisca restituendo il discorso dell’altro? Certeau riformula questa domanda: ciò che bisogna chiedersi in realtà è se esista un discorso dell’altro. «No» è la sua risposta. L’altro parla nel discorso sull’altro, come alterazione del discorso del sapere: l’altro non parla, ma fa parlare – come Certeau mostra esemplarmente analizzando il linguaggio delle possedute di Loudun.21 Non c’è un discorso dell’altro che non sia detto nel linguaggio del sapere. L’altro è ciò che ritorna «nel discorso che lo interdice»22. Il discorso delle possedute, così come il dire delle isteriche nella nascita della psichiatria moderna, non è qualcosa di nascosto da portare in luce, ma ha la sua condizione di possibilità nella relazione con i discorsi religioso e psichiatrico. Ciò che è detto nei documenti (testi religiosi, medici, giuridici), è detto dalle possedute solo in quanto esse si trovano prese nella rete degli interrogatori che le accusano o dei racconti che le definiscono. Ora, in questo rapporto col discorso del sapere, l’alterità non è un altro discorso da ricostruire, ma un’alterazione del discorso, per cui il discorso del sapere è in «rapporto con una trasgressione che non è un discorso»23. Il discorso dell’altro non si enuncia se non attraverso il «discorso sull’altro», che sa quello che dice l’altro, e lo mette al suo posto: nel registro demonologico, la parola femminile della posseduta parla nel logos maschile della demonologia; nel registro etnologico, il nativo parla nel linguaggio del sapere occidentale; nel registro medico, il pazzo parla nel discorso del sapere psichiatrico. L’altro non parla, se non nella forma dell’alterazione del logos: quando la posseduta parla il linguaggio che si mette al suo posto, il discorso alienante che fa porta «la “ferita” dell’alterità che il sapere pretende di ricoprire»24. L’altro ritorna come un rimosso, e segna la scrittura. Ora, questa relazione di inscrizione dell’altro che «rimorde» nella scrittura presente (per riprendere una delle potenti metafore di Certeau) è pensabile con il tema della traccia. Un tema non nuovo, negli studi di epistemologia della storia. Ricoeur ha ad esempio ripreso in modo interessante il tema lévinasiano della traccia come segno del passaggio di qualcuno: per Lévinas, la traccia dice che il passato non è una «cosa» univoca, non è in altre parole né l’azione di un attore, la sua intenzione, né la cosa materiale, considerate in un’autonomia naturalistica, ma il loro ricordo, la loro impronta, la loro «inscrizione» – il «segno» del passaggio di qualcuno, un segno «al di fuori di ogni in21

Il linguaggio alterato. La parola della posseduta, in La scrittura della storia, cit., pp. 258-285. Ivi, p. 265. 23 Ivi, p. 263. 24 Ibid. 22

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tenzione di far segno»25, ma che rimane per qualcun altro. Ricoeur ha interpretato la traccia come rapporto tra differenti temporalità, ricorrendo alla nozione psicoanalitica di rappresentanza (Vertretung). Un fatto storico non è tanto un evento inferito a partire da una causa in un ordine di successione temporale, quanto un fatto raccontato da qualcuno e per qualcuno, costruito in una forma discorsiva e comunicativa e incluso in un orizzonte testuale e simbolico (una cronaca ufficiale, una testimonianza oculare, una memoria, un’autobiografia), e modalizzato, connesso cioè a valutazioni e intenzioni di soggetti. La «rappresentanza» è la «traccia» di qualcuno, di un «esserci» (di qualcuno che c’è stato), per noi, ed è dunque elemento che mette in relazione livelli di senso e ordini temporali differenti26. In Certeau il tema della rappresentanza, o della traccia dell’altro, ha, rispetto a Ricoeur, una declinazione più specificamente psicoanalitica. Certeau parla di «revenance» dell’altro, che ritorna come un rimosso e segna il discorso di un’inquietante estraneità. Questo spettro nel discorso ha lo statuto dell’Unheimliche freudiano, inteso come legame insolubile tra il proprio e l’estraneo27: l’inquietante non come ciò che è misterioso e ci colpisce, perché straniante e inspiegabile, ma semmai come non segreto – come ciò che doveva rimaner nascosto, e che ritorna, svelandoci qualcosa di noi. L’Unheimliche è ciò che svela il segreto del domestico, che svela cos’è l’Heimliche, che cos’è il proprio – una specie di ferita (un’alterazione del logos) che ci risveglia e che ci fa capire la radice indicibile del senso, che rivela cioè l’estraneità del proprio, la dismisura dell’abitare e della familiarità – quasi una «radicalizzazione ontologica della nozione di inconscio»28:

25 Cfr. E. Lévinas, En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, Vrin, Paris, 1967, 19743, trad. it di F. Ciaramelli, La traccia dell’altro. Scorciatoie, Pironti, Napoli, 1979, ristampa: 1985, p. 44. 26 Cfr. P. Ricoeur, Temps et récit III. Le temps raconté, Seuil, Paris, 1985, trad. it. di G. Grampa, Tempo e racconto III. Il tempo raccontato, Jaca Book, Milano, 1988, pp. 178-191. Sulla memoria storiografica come rapporto tra differenti temporalità, cfr. anche C. Calame, Reciprocità nella memoria collettiva: temporalità in contatto (Somaré e Erodoto), in S. Borutti, U. Fabietti, a cura di, Fra antropologia e storia, cit., pp. 75-95. Più recentemente, Ricoeur ha connesso la nozione di traccia alla nozione di pluralità delle testimonianze e al tema del ricordo come ricostruzione e ri-scrittura: P. Ricoeur, La marque du passé, in «Revue de Métaphysique et de morale», 1, 1998, pp. 7-31. Ricoeur distingue la nozione di traccia dal tema aristotelico, presente anche in Bergson, della memoria come impronta, che trattiene il tema della traccia entro il rapporto di somiglianza con l’evento originale, e sottolinea il valore di «luogotenenza» della traccia. 27 S. Freud, Das Unheimliche (1919), trad. it. di S. Daniele, Il perturbante, in Opere di Sigmund Freud, cit., vol. 9, Boringhieri, Torino, 1977, pp. 81-118. 28 Mi permetto di citare il mio libro Filosofia dei sensi. Estetica del pensiero tra filosofia, arte e letteratura, Raffaello Cortina, Milano, 2006, Parte 2, p. 151.

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L’altro è il fantasma della storiografia. È l’oggetto che essa cerca, che onora e che sotterra. Un lavoro della separazione viene effettuato rispetto a quest’inquietante e affascinante prossimità29. Vi è qualcosa di «perturbante» (une «inquiétante familiarité») in questo passato che un attuale occupante ha spodestato – o ha creduto di spodestare per collocarsi al suo posto. I morti perseguitano i vivi (Le mort hante le vif)30. Il passato come un fantasma che, ricacciato indietro, torna a svelare la prossimità dell’estraneo. In un saggio recente, Barnaba Maj ha prestato attenzione al tema del mito di Robinson, presenza ricorrente nell’analisi di Certeau. Il romanzo di Defoe, scrive Certeau, è il romanzo della scrittura come pratica di conquista dello spazio-tempo e di gerarchizzazione sociale da parte del soggetto moderno31. Maj isola un fotogramma della narrazione di Robinson Crusoe, che appare come un vero e proprio «“risveglio” del suo inconscio»32: Robinson, dopo una serie di sogni e di segni premonitori, è folgorato da un’orma umana sulla sabbia: traccia inquietante che, svelandogli il proprio «desiderio dell’altro», rivela il carattere estraneo della sua identità più propria. L’inscrizione dell’orma sul suolo dell’isola (il luogo proprio)33 non racconta semplicemente l’altro, ma svela, nella presenza dell’altro, il fantasma che ci «rimorde», che parla cioè di noi. La traccia svela all’uomo la propria estraneità, e lo fa scrivere. Ora, nei saggi di Certeau ricorrono analisi di immagini che mettono in scena il potere inquietante della scrittura. Le immagini-traccia, un’impronta grafica o un’immagine visuale o sonora, sono metonimie della scrittura – così come l’orma trovata da Robinson34: le immagini come tracce che rivelano l’inscrizione dell’altro in noi stessi. Sono in questo senso particolarmente interessanti le pagine della Scrittura della storia in cui Certeau procede a una genealogia per immagini dell’etno-grafia: l’immagine istituisce il testo, poiché è la visibilità che trasforma lo spazio scritturale in operatore di sapere e di potere35. In una pagina folgorante della Prefazione all’edizione italiana della Scrittura della storia, Certeau mostra come il rapporto immagine-scrittura sia all’origine dell’etno-grafia. L’Occidente traccia la propria 29

M. de Certeau, La scrittura della storia, cit., p. 2. M. de Certeau, Storia e psicoanalisi, cit., p. 78. 31 M. de Certeau, L’invention du quotidien. 1. Arts de faire, Gallimard, Paris, 1990, trad. it. di M. Baccianini, L’invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro, Roma, 2001, cap. 9, pp. 200 sgg. 32 B. Maj, An Enchanted Island. L’inquietante traccia dell’umano in The Life & Adventures of Robinson Crusoe, in A. Buttarelli, G. Rimondi, a cura di, Dove non c’è nome. Nuovi contributi sul perturbante, Scuola di Cultura Contemporanea, Mantova, 2007, p. 133. 33 M. de Certeau, L’invenzione del quotidiano, cit., p. 201. 34 L’orma gli fa riconoscere il proprio desiderio di ritorno, e Robinson intraprende un viaggio in un tracciato terrestre pieno di simboli inquietanti: cfr. B. Maj, An Enchanted Island, cit., pp. 136-137. 35 Cfr. M. de Certeau, Storia e psicoanalisi, cit., p. 127. 30

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storia sul corpo dell’altro: così Certeau commenta un disegno allegorico del 1619, in cui lo scopritore Vespucci, corazzato e crociato, con i vascelli che riporteranno tesori in occidente, e armato delle armi europee del senso, sta in piedi di fronte alla donna indiana che si chiama «America», una donna distesa, un corpo nudo in uno spazio di vegetazioni e animali esotici36. Certeau sottolinea la frattura tra l’estetizzazione dell’altro (percepito come corpo di piacere non scrivibile: piacere dell’occhio, piacere del gusto, piacere dell’ascolto, piacere del corpo nudo) e la sua traduzione nel corpo scrivibile e leggibile del testo. Se la parola dell’altro è favola, la traduzione trascrive ciò che la favola nasconde in qualcosa di intellettualmente comunicabile e ascoltabile in Occidente. L’antropologia nasce così dallo scontro dei sistemi di senso orale (estetizzato) e scritto (astratto): [...] quella che viene così avviata, è una colonizzazione del corpo da parte del discorso del potere. È la scrittura conquistatrice: userà il Nuovo Mondo come una pagina bianca (selvaggia) dove scrivere il volere occidentale; trasforma lo spazio dell’altro in un campo di espansione per un sistema di produzione; a partire da una frattura tra un soggetto e un oggetto dell’operazione, tra un voler scrivere e un corpo scritto (o da scrivere), fabbrica storia occidentale. La scrittura della storia è lo studio della scrittura come pratica storica37.

Il rapporto delle immagini-traccia con la scrittura, nei suoi aspetti di doppio legame e di reciproca alterazione, è oggetto di un’analisi di maggior respiro nel saggio dedicato all’Histoire d’un voyage faict en la terre du Brésil, pubblicata nel 1578 da Jean de Léry38. La ricostruzione che Certeau vi fa della genealogia dell’etnografia («[…] l’equivalente di una “scena primaria” nella costruzione del discorso etnologico»)39 potrebbe essere riassunta così: il viaggiatore occidentale-soggetto di sapere (nell’epoca delle alterazioni prodotte nella cultura occidentale dalla scoperta del Nuovo Mondo) va a caccia del senso dell’altro, assegnandosi la funzione etica di civilizzarlo40; ma, come nel mito di Atteone, diventa preda delle immagini sensuali, audi36

Cfr. M. de Certeau, La scrittura della storia, cit., p. XV. Ivi, pp. XV-XVI. 38 Léry, pastore francese riformato, fuggito a Ginevra e di qui partito per fondare in Brasile un rifugio calvinista, erra in Brasile per tre mesi, tra il 1557 e il 1558, tra i Tupinamba, per poi tornare a fare il pastore in Francia (M. de Certeau, Etno-grafia. L’oralità o lo spazio dell’altro: Léry, in La scrittura della storia, cit., pp. 219-257). 39 Ivi, p. 222. 40 Gran parte dell’analisi di Certeau è dedicata all’opposizione tra la storia del viaggio di andata e ritorno raccontata da Léry (l’impresa del soggetto occidentale di sapere, che avviene nel tempo), e il mondo selvaggio che occupa uno spazio senza storia e senza un senso proprio: l’allontanamento immaginario spazio-temporale dell’altro è ciò che consente di farne un oggetto di sapere. Nel mio percorso, che privilegia nel saggio di Certeau il trattamento delle immagini, lascio questo tema, pur fondamentale, in secondo piano. 37

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tive e visive, dell’altro, che lo fanno scrivere; un’estetica e un’erotica alterano e insieme rendono possibile la scrittura del sapere. L’esito del viaggio occidentale di sapere presso l’altro è l’etno-grafia, o coazione a scrivere in un sistema di sapere le cose insensate viste e udite: Il selvaggio diventa la parola insensata che rapisce il discorso occidentale, ma che, proprio a causa di ciò, fa scrivere indefinitamente la scienza produttrice di senso e di oggetti41.

Il processo che fa scrivere Léry è una progressiva cattura attraverso immagini che, mentre fanno parlare l’altro, lo istituiscono come resto – cioè come il rimosso dell’Occidente che ad un tempo definisce l’Occidente, come dice la tabella delle opposizioni tra il selvaggio e il civilizzato42: l’altro è il senza vestiti (è nudità), il senza tempo produttivo (è festa), il senza distanza-separazione tra soggetto e oggetto del sapere (è prossimità e coesione), il senza etica (è corpo di piacere). Ora, l’analisi di Certeau si trasferisce sul campo di Léry e ne svela il dinamismo: svela come lo sguardo del viaggiatore-etnografo si traduca in pensiero e scrittura in un processo in cui il soggetto, che si presenta inizialmente come soggetto dell’azione (qualcuno che racconta di sé e del proprio viaggio di sapere), si trasforma in qualcuno che diventa oggetto di seduzione da parte delle immagini sensuali dell’altro. L’osservatore deve mettersi in gioco, poiché è investito da tracce dall’altro in quel suo essere investigante che ha nella vista (l’andare a vedere) l’organo fondamentale. Ma non è la cosa vista la traccia principe, per quanto il proto-etnografo sia mosso dall’impulso a vedere: la traccia che scatena il processo che porterà alla scrittura è la voce. L’osservatore è investito in primo luogo da immagini auditive. In primo luogo, la voce dell’altro: perché è la voce, puro atto di enunciazione cui non corrisponde alcun enunciato intelligibile, a costituire lo scarto e l’interruzione nell’attività di ricerca del proto-etnografo che portano in presenza il corpo dell’altro. Il rapimento che Léry prova nell’udire l’accordo di voci (Übereinstimmung, direbbe Wittgenstein) nella ballata ascoltata all’assemblea tupi è un fuori tempo irrecuperabile, poiché il significante è un’intonazione, ed è senza contenuto: non si conserva distaccato dal corpo che lo enuncia, ed è una favola, una parola che dice senza sapere. Tuttavia, il rapimento effimero e irrecuperabile viene recuperato al tempo e al senso, in quanto è tradotto dall’interprete e da Léry nel racconto di un diluvio analogo a quello della Sacra Scrittura – in quanto è scritto cioè secondo l’intelligibilità del testo dell’Occidente, in cui acquista un tempo e una ragione. C’è dunque una traduzione dall’economia superflua della festa all’economia del sapere oggettivante, ma il rapporto non è di traduzione li41 42

M. de Certeau, Etno-grafia, cit., p. 257. Ivi, p. 244.

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neare, bensì di alterazione reciproca, perché vi opera la presenza inquietante della traccia – che, scrive Certeau, è traccia di una «“perdita” irreparabile»43. L’esperienza dell’insensato lascia infatti un resto: il corpo di piacere del selvaggio (lo spreco glorioso, direbbe Bataille) resta come residuo inquietante, poiché è l’altro che è stato rimosso (addomesticato, ancora nei termini di Bataille) affinché il lavoro produttivo e l’economia del senso potessero istituire la civilizzazione occidentale. E alla fine l’altro sarà tradotto in scrittura, e sarà fatto parlare in modo tale che la parola che gli è attribuita sarà «destinata a essere ascoltata altrimenti da come essa parli»44. La dinamica degli episodi di cattura dell’osservatore ricostruiti da Certeau non fa che sviluppare il tema della seduzione da parte della voce insensata. La voce dell’altro è «oscena»: attira perché è un fuori scena per lo sguardo occidentale. Per perseguire il proprio progetto scientifico neutrale (osservare rimanendo separato), lo sguardo di Léry deve lasciarsi investire da questo altro insensato: attirato da un meraviglioso unisono di voci, lo sguardo si erotizza, vuole vedere e penetra nella scena, vi si intrufola attraverso un foro praticato in un rivestimento di erbe. L’osservatore esperimenta il desiderio come «il rovescio della legge»45, e come destinato a essere sottomesso alla legge. Come scrive Lacan, «la legge fondamentale è semplicemente una Legge di simbolizzazione. L’Edipo vuol dire questo»46: l’Edipo va tradotto in verità, in legge, in simbolizzazione, cioè nella legge del senso e della scrittura. Il fuori scena va tradotto in una scena intelligibile, attraverso l’operazione di potere della scrittura: la rimozione dei corpi è la condizione della scrittura che prende il loro posto. Così scrive Certeau: «La scrittura simbolizza il desiderio costituito dalla relazione con l’altro»47. Ma la traduzione scritturale della traccia immaginativa presuppone l’azione inquietante di cattura dei sensi da parte dell’immagine-traccia. Intorno al tema del carattere inquietante della traccia, Certeau orchestra più piani di lettura della nascita della scrittura scientifica dell’altro. Al ritorno dal viaggio, il testo verrà a stabilizzare la volatilità della parola orale e delle emozioni; ma sul campo un’opera di stabilizzazione testuale (una messa in forma, quasi una proto-scrittura) è comunque presente già nel lavoro dell’occhio che, osservando, costruisce lo spazio del selvaggio in uno spettacolo leggibile, e la sua carne in un corpo significante. Sul campo, l’immagine, che ha potere configurante perché costituisce una scena che si trasformerà in 43

Ivi, p. 223. Ivi, p. 220. 45 Ivi, p. 248. Certeau cita Lacan, Kant con Sade, trad. it. e cura di G. Contri, Einaudi, Torino, 1974, p. 788. 46 J. Lacan, Le séminaire. Livre III. Les psychoses (1955-1956), Seuil, Paris, 1981, trad. it. e cura di G. Contri, Il seminario. Libro III. Le psicosi, Einaudi, Torino, 1985, p. 98. 47 Cfr. M. de Certeau, La scrittura della storia, cit., p. 121. 44

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un oggetto di sapere, è anche ciò che cattura l’etnografo. Egli mette l’altro a distanza, essendone tuttavia stato investito: avendo cioè inseguito con gli orecchi l’armonia dei canti e con gli occhi la nudità e la felicità delle donne che si lavano nei ruscelli e danzano la notte. La scienza nasce da questa trasgressione che rivela il desiderio rimosso. È una trasgressione temeraria, perché va a vedere: percorre il corpo della terra-madre, vi inscrive la propria volontà di sapere, la trasforma in oggetto, e fa questo correndo il rischio dell’eccesso che viene dalla nudità dell’altro e dalla sua oltreumanità: il divino dell’apparizione delle donne nude e il diabolico dell’antropofagia rituale. Le donne nude sono i fantasmi della trasgressione (il desiderio come il rovescio della legge) che rende possibile il rapporto scritturale col mondo dell’altro nell’etnografia – così come le voci dei morti parlano nel testo-tomba della storiografia. Una vecchia storia di ambivalenze tra piacere e sapere, ben nota all’Occidente nella versione sublimata (platonica) dell’eros teoretico:48 Le donne nude […] indicano un nuovo rapporto, scritturale, con il mondo: sono l’effetto di un sapere che «calpesta» e percorre «ocularmente» la terra per costruirne la rappresentazione. […] Attraverso queste donne, il racconto narra dunque anche gli inizi e le temerità di uno sguardo scientifico.49

3. Le immagini-traccia: dalla visione alla scrittura Se il saggio su Léry ricostruisce una genealogia dell’etno-grafia attraverso un’analisi di immagini-traccia abitate dalla presenza inquietante dell’altro, ma già orientate alla traduzione scritturale, il saggio che Certeau dedica al frontespizio di Moeurs des sauvages amériquains di Lafitau (1724) completa il percorso genealogico50. Certeau mostra nella sua lettura come la rappresentazione scelta a «blasone» da Lafitau sia un commento per immagini all’operazione del sapere occidentale che riporta l’altro nella storia umana complessiva attraverso il potere della scrittura. Nella figura è infatti possibile riconoscere la rappresentazione di un insieme di livelli secondo 48

Nel secondo racconto della raccolta postuma sui cinque sensi Sotto il sole giaguaro, intitolato Sapore Sapere e dedicato al senso del gusto, Italo Calvino ragiona narrativamente sul gusto come senso in cui si mostra il nesso ambivalente tra piacere e sapere, tra oralità e intellettualità. Nello scenario messicano del racconto di Calvino, comunione mistica e cannibalismo (una vetta dell’estasi da una parte, e un abisso della trasgressione dall’altra) sono le due specie iperboliche dell’unico genere che è il lavoro simbolico dell’inghiottire. Mi permetto ancora di rinviare al mio libro Filosofia dei sensi, cit. pp. 141-143. 49 M. de Certeau, Etno-grafia, cit., p. 254. 50 M. de Certeau, Histoire et anthropologie chez Lafitau, in C. Blanckaert, a cura di, Naissance de l’ethnologie? Antropologie et mission en Amérique XVIe-XVIIIe siècle, Èditions du Cerf, Paris, 1985, trad. it. di G. Baggio, Storia e antropologia in Lafitau, in M. de Certeau, La scrittura dell’altro, a cura di S. Borutti, Raffaello Cortina, Milano 2005, pp. 1-27.

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cui un sapere si istituisce nel passaggio dal vedere allo scrivere – un percorso che, come mostra la lettura di Certeau, va dalla collezione archivistica, alla tecnica di manipolazione comparativa del materiale, all’autorità scritturale. I due saggi su Léry e su Lafitau si completano in quanto esempi di fondazione del sapere scritturale (etnografia, storiografia) attraverso la scrittura immaginaria (per immagini-traccia) dell’altro: se da una parte il tema del saggio su Léry è il ritorno di ciò che l’Occidente produttivo ha rimosso, l’estetica del corpo dell’altro e la sua traduzione nell’etica del senso, dall’altra parte il saggio su Lafitau indaga sulle istanze immaginarie e simboliche che presiedono alla «scrittura dell’altro», al processo in cui la visione si fa testo. In entrambi i percorsi, Certeau analizza ad un tempo il lavoro sull’altro e il lavoro dell’altro entro la scrittura occidentale. La tavola del frontespizio delle Moeurs istituisce un rapporto tra visione e testo che, ci dice Certeau51, è lo stesso che Lafitau intende riproporre nelle immagini che costellano il suo libro: si tratta di immagini-traccia in quanto si rivelano capaci di continuare a far vedere il tempo degli inizi nel tempo presente. Non sono perciò semplici illustrazioni dello scritto, ma, in quanto citazioni delle origini che pretendono autenticità, diventano fonte di autorità per la scrittura del libro. Sono anch’esse immagini-traccia: ma, a differenza delle voci seducenti e dei bei corpi che turbano Léry, sono già segni leggibili, che rendono leggibili anche le epoche antiche di cui non ci sono vestigia. Le immagini-traccia fondano la scrittura lottando col tempo. La figura del frontespizio è esemplare perché mette in scena più livelli di dialogo e di conflitto tra la Scrittura e il Tempo, rappresentati come una donna seduta a uno scrittoio, circondata da resti e tracce del Nuovo mondo, del mondo classico e dell’Egitto, e come un vecchio alato e barbuto, munito di una falce, a significare l’opera di cesura, di distruzione e insieme di giustizia del tempo52. Il dialogo è in primo luogo a senso unico: il tempo insegna all’etnografia a inscrivere nel suo testo l’alterità attuale, l’alterità dei selvaggi del Nuovo mondo, mantenendo il rapporto con l’alterità trascorsa, gli antichi, di cui solamente il tempo è testimone e signore. L’invenzione illuministica del sapere attraverso il modello comparativo è rappresentata nella costruzione dell’immagine: gli «archivi» sparsi a terra ai piedi della scrittrice (resti di Egitto, Medio oriente, tardo ellenismo: medaglie, un si51

Ivi, p. 4. Mi chiedo se, ponendo a «blasone» del suo libro La memoria, la storia, l’oblio l’immagine di una scultura barocca del Monastero di Wiblingen (Ulm) rappresentante la figura doppia della storia: davanti Chronos, il dio alato che strappa un foglio da un grande libro, alle sue spalle la storia con il libro, il calamaio e la penna, Paul Ricoeur non abbia pensato al frontespizio di Lafitau e al commento di Certeau. Sotto la riproduzione, una scritta a mano di Ricoeur: «Entre la DÈCHIRURE par le temps ailé et l’ÈCRITURE de l’histoire et son stilet» (P. Ricoeur, La memoria, la storia, l’oblio, cit., p. 5). 52

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stro, un Hermes di pietra, una carta, libri, un globo terrestre …) sono tracce di antichità che danno a vedere quello che i costumi e le favole dei selvaggi consentono di comprendere attraverso un’operazione comparativa. Così l’antichità frammentata, che non sembra aver il senso di un testo, si viene scrivendo attraverso l’introduzione dei «lumi» che colmano la mancanza di senso, e che sono rappresentati da un percorso di ordine (la collezione, che implica una ricerca ordinata in serie) e da un modello di comparazione. Nel confronto istituito dalla rappresentazione, una traccia orale (i costumi e le favole dei selvaggi) e una traccia visiva (le antichità) si danno reciprocamente senso creando connessioni sistematiche: Non mi sono accontentato di conoscere il carattere dei selvaggi e di informarmi sulle loro abitudini e sulle loro pratiche, ma ho cercato in queste pratiche e in queste abitudini vestigia dell’antichità più remota; ho letto con cura quegli antichi autori che si cono occupati di costumi, leggi ed usanze dei popoli di cui avevano qualche conoscenza; ho comparato questi costumi gli uni con gli altri, e confesso che se gli autori antichi hanno gettato una luce che mi ha permesso di sostenere qualche felice congettura sui selvaggi, le abitudini dei selvaggi hanno gettato una luce che mi ha permesso di comprendere più facilmente, e di spiegare diverse cose che si trovano negli antichi autori53.

La scena rappresenta così la fondazione dell’etnografia nel quadro sistematico del sapere illuministico e della sua operazione comparativa: nel sistema settecentesco, che rappresenta la storia umana come vicenda per stadi dominata da un principio universale monogenista, l’«altro attuale», il selvaggio, svolge il ruolo di testimone vivente di un «altro trascorso», il passato degli antichi. In un dialogo che va dal basso verso l’alto, il Tempo insegna infatti indicando alla discepola, che alza il volto verso di lui, un quadro, luminoso perché sorgente di verità, che rappresenta l’origine rivelata dei tempi (Adamo, Eva e il serpente: l’origine adamitica dell’umanità), e l’escatologia apocalittica (l’uomo e la donna redenti, ai lati del triangolo di luce divina). Il quadro dà non la teologia (l’origine mosaica), ma la teoria, il sistema delle origini (l’origine unica dell’umanità da Adamo ed Eva). Nella scena è così leggibile anche una corrispondenza tra il ritaglio operato dal Tempo nello spaziotempo infinito, e l’inscrizione operata dall’etnografia nello spazio del testo. Il Tempo, allegoria del vecchio sapere degli storici, indica un quadro alla donna, allegoria del giovane sapere degli antropologi: le due figure dialogano e si corrispondono nel riconoscere il valore della forma (il quadro come apertura di uno spazio-tempo configurato) in cui si inscrivono gli eventi.

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J.-F. Lafitau, Les moeurs des sauvages américains comparées aux moeurs des premiers temps (1724), edizione ridotta, Maspero-La Découverte, Paris, 1983, p. 3. Il passo citato è tradotto in M. Kilani, L’archivio, il documento, la traccia, cit., p. 25.

IMMAGINI-TRACCIA E SCRITTURA

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Nel dialogo, la donna è simbolo della mediazione, è il lavoro femminile di tessitura. Allo stesso tempo, come matrice del testo, rappresenta l’autocomprensione di una scienza che si istituisce separandosi dalla tradizione: come nella vicenda di Robinson, inizia un nuovo mondo, il mondo del potere della scrittura, in cui «bisogna ormai fabbricare dello scritto con i resti dell’Altro»54. La scrittura è insuperabile, perché traduce la parola orale, rendendola ascoltabile oggi: l’antropologo, come lo storico strappa un senso alla traccia, sostituendovi la scrittura55. Ma in questo modo la scrittura trasporta la distanza spazio-temporale nella storia, trasforma l’alterità in differenza, e porta a compimento il progetto dei proto-etnografi: «umanizzare» i selvaggi e le loro tracce all’interno di una Storia che riesca a spiegare la loro alterità, e ad un tempo la loro umanità.

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M. de Certeau, Storia e antropologia in Lafitau, cit., p. 14. Cfr. M. Kilani, L’archivio, il documento, la traccia, cit., p. 27.

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Emozionalità nella storia. Riflessioni sullo sfondo di Storia e Psicoanalisi e La scrittura della storia di Michel de Certeau1.

1. Introduzione Si diventa storici per due motivi. O perché si prova un particolare piacere nel raccontare storie o perché si coltiva un singolare rapporto con i morti.

L’approccio con cui una storica affronta questo genere di riflessioni intorno ai testi di Michel de Certeau è già di per sé una storia. E appunto perché è una storia soggettiva – a sostegno della quale proprio de Certeau offre basi di argomentazione – s’inserisce nel modo migliore nell’opera dello storico francese. Il che è confortante, dato che diversamente il soggettivo deve trovare particolari giustificazioni per legittimare il suo posto nella scienza e ancor più nei testi scientifici. Proprio de Certeau afferma che le condizioni con cui questi testi – e certo non solo quelli storiografici – sono stati prodotti risultano facilmente occultate. Con ciò si simula, anzi fondamentalmente si crea l’illusione di realtà e obiettività – cioè appunto di scientificità. I testi diventano «finzioni teoriche»2, in cui si nasconde che autrici e autori sono soggetti, i quali redigono i loro testi in «condizioni di produzione» del tutto determinate3. A loro volta i testi vivono una specifica socializzazione o portano con sé determinate disposizioni caratteriali, che inducono autrici e autori a sviluppare interessi riferibili a problematiche scientifiche (a condizione che, per così dire, non adiscano un’eredità familiare). * [Università di Innsbruck]. 1 M. de Certeau, Histoire et psychanalyse entre science et fiction, Gallimard, Paris, 1987, trad. ted. di A. Mayer, Theoretische Fiktionen: Geschichte und Psychoanalyse, hrsg. von L. Giard, Turia + Kant, Wien, nuova ed. riv. e accr. 2002 (1997¹); trad. it. di G. Brivio, Storia e psicoanalisi. Tra scienza e finzione, Bollati Boringhieri, Torino, 2006; M. de Certeau, L’écriture de l’histoire, Gallimard, Paris, 1975, trad. ted. di S. M. Schomburg-Scherff, Das Schreiben der Geschichte (Historische Studien 4), Campus, Frankfurt/New York, Editions de la Maison des Sciences de l’Homme, Paris, 1991; trad. it. di A. Jeronimidis, La scrittura della storia, Jaca Book, Milano, 2006. 2 Cfr. M. de Certeau, Storia e psicoanalisi, cit., pp. 51-77. 3 M. de Certeau, La scrittura della storia, cit., pp. 62-79.

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Nel caso di storiche o storici questa specifica disposizione sembra essere il piacere di raccontare storie e un legame morboso con i morti, come indicato nella citazione d’apertura. Senza indicazione della fonte, che mi rimane perciò ignota, mi è stata riferita da uno storico italiano durante una conversazione in occasione di un «Convegno di giovani leve» a Trento nel febbraio 2005. Era una osservazione evidentemente piena di ironia, accresciuta inoltre dal contesto in cui cadeva, cioè una discussione sul perché, malgrado il dichiarato pessimismo sul loro disperante futuro professionale, giovani studiose e studiosi continuassero a cercare la propria fortuna nella ricerca storica. La citazione mi colpì profondamente. Cosa spinge effettivamente gli uomini a frugare nei documenti relativi a persone morte da tanto tempo, come nella biancheria sporca di altre persone? Storiche e storici sono solo «giornalisti scandalistici», che assecondano le loro inclinazioni voyeuristiche nella cornice «neutrale» del passato, nascondendosi sotto il manto della serietà scientifica? Sono forse criminologhe o criminologi, che vogliono strappare confessioni ai morti e riaprire processi da tempo caduti in prescrizione? Oppure sono narratori di fiabe camuffati, che utilizzano l’autorità della fonte ermeticamente chiusa – poiché richiede l’interpretazione di specialisti – per sviluppare appassionatamente contro-mondi, utopie di un’alterità nella dimensione storica da contrapporre al presente (corrotto) come contro-immagine e caricatura? La fonte «sconosciuta» della citazione potrebbe essere proprio Michel de Certeau, che apre il suo saggio L’opération historique4 con queste parole: Che cosa fabbrica lo storico, quando «fa la storia»? A che cosa lavora? Che cosa produce? Interrompendo il suo girovagare erudito nelle sale degli Archivi, egli si distacca per un momento dallo studio monumentale che lo situerà tra i suoi pari e, una volta in strada, si chiede: che cos’è questo mestiere? Mi interrogo sull’enigmatica relazione che mantengo con la società presente e con la morte, attraverso la mediazione di attività tecniche.5

In quanto storica, non farò qui un’esegesi dell’opera teorica di de Certeau, che spetta in primo luogo a filosofe e filosofi come «custodi» del senso dei testi e loro commentatori. Tenterò piuttosto di trasferire alcune riflessioni di de Certeau nell’ambito di un tema che negli ultimi tempi interessa la storiografia e mi coinvolge personalmente in relazione ai miei studi: la ricerca dell’emozionale nella storia. Rispetto a ciò, procederò in due direzioni che tuttavia non separo nettamente ma tendo anzi a intrecciare continuamente 4 M. de Certeau, L’opération historique, in J. Le Goff/P. Nora, éd., Faire de l’histoire, vol. 1, Gallimard, Paris, 1974, pp. 3-41, trad. it. L’operazione storiografica, in La scrittura della storia, cit., pp. 62-120. 5 Ivi, p. 62.

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fra loro. Si tratta sempre della questione dell’emozionalità, considerata da una parte nella storia come «oggetto» di ricerche storiografiche e dall’altra come elemento della ricerca storica stessa in quanto scienza che ha per «produttori» dei soggetti, cioè storiche e storici. Queste riflessioni sono nate dunque dal «dialogo» con i testi di de Certeau e riportate perciò nei termini di tale contesto di lettura. Restano come «frammenti» sulle tracce di de Certeau. 2. L’Altro nella storia La ricerca e la costruzione dell’Altro – che egli chiama anche resistenza – caratterizzano i testi di de Certeau. Egli segue questo «estraneo» e «altro» nella cornice di tre scienze, dalle quali si sente influenzato e con cui si confronta: la storia, l’etnologia e la psicoanalisi. Il nesso che lega la ricerca di contro-mondi in storia e in etnologia risale tra l’altro a una venerabile tradizione collegata con Erodoto, padre della storiografia in generale6. Rispetto a ciò l’intreccio con la psicoanalisi sembra essere effettivamente una vittoria dell’ epoca moderna, una conquista del secolo scorso, che – come spesso è stato detto – di buon grado si è sdraiato sul lettino dell’analista, per giungere fin nelle profondità della propria anima. La conseguenza è che contro-mondi e immagini dell’Altro non vengono più cercati nell’utopica lontananza di spazi e regioni spazialmente e temporalmente remote, bensì nella propria interiorità più profonda, i cui accadimenti sono spesso tanto lontani dalla coscienza quanto gli eventi che si svolgono da qualche parte nelle viscere della terra7. Secondo uno stereotipo diffuso anche dal cinema – al più tardi con i film di Woody Allen –, questa disponibilità all’autoanalisi può essere collegata con la comunità intellettuale americana (in particolare di New York), non con la normalità della vita sociale di paesi europei come Italia e Austria (per citare quelli in cui intrattengo rapporti sociali). Qui andare dall’analista implica piuttosto l’aperta ammissione di essere «spostato», quindi di trovarsi fuori dall’ordine. Il che provoca stigmatizzazione. L’autoanalisi è 6 Cfr. R. Bichler, Von der Insel der Seligen zu Platons Staat: Geschichte der antiken Utopie Bd. 1, (Alltag und Kultur im Altertum 3), Böhlau, Wien u. a., 1995; Id., Herodots Welt: Der Aufbau der Historie am Bild der fremden Länder und Völker, ihrer Zivilisation und ihrer Geschichte, (Antike in der Moderne), Akademie-Verlag, Berlin, 2000. 7 Cfr. H. Hastedt, Kultur, Natur und Innerlichkeit in der Philosophie der Gefühle. Eine Auseinandersetzung mit der Neurobiologie: «I propri desideri sono considerati come qualcosa di nascosto in profondità come in una miniera, che in fondo può essere realmente scoperto», in A. Neumayr, hrsg.von, Kritik der Gefühle: Feministische Positionen, Milena, Wien, 2007, pp. 45-62, qui p. 58.

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tanto meno opportuna nel caso di scienziate e scienziati «razionali», per i quali vige per principio il postulato della razionalità. Sintomo della presenza e dell’azione di tale postulato è paradossalmente l’assenza dell’«io» che continua a contraddistinguere i testi scientifici e costringe a ibride costruzioni passive per nascondere l’esistenza dell’io – che qui pensa e scrive – e renderlo irriconoscibile: «Inversamente l’“io” [je], marchio essenziale del discorso fantastico [...], va evitato in quanto cancellerebbe la nominazione»8. L’io e i suoi accadimenti interni sono quindi sempre lontani e tenuti fuori dall’inquadratura. Per lo meno così sembra a un primo sguardo. Se si analizzano le «rimozioni» che compiono, i testi scientifici possono essere letti interamente come psicodrammi di autrici e autori. Il che è dimostrabile non da ultimo partendo già dalla scelta di temi e oggetti della ricerca. Uno sguardo allo sviluppo delle questioni-guida della ricerca nella scienza storica permette perciò anche di farsi un’idea di un processo di «presa di coscienza», che sul tavolo anatomico della scienza porta temi rimossi e tabuizzati. A questo proposito, Pierre Bourdieu parla di produzione sociale delle questioni della ricerca: in ultima analisi è la società a determinare quando un problema può essere riconosciuto come tale, reso cosciente e perciò trasformato in oggetto della ricerca9. La differenza fra i problemi di volta in volta selezionati dipende dalle tradizioni nazionali di ricerca. Per esempio, nell’aerea linguistica tedesca si può partire semplificando da una prima periodizzazione: al predominio del politico e delle grandi azioni di singoli eroi maschili con esso collegate – tipico dello storicismo –, è seguita una svolta verso la storia sociale ed economica, caratterizzata dalla tendenza a costruire serie, abolendo le dimensioni dell’individuo e dell’evento singolo. Nella successiva fase post-strutturalista, c’è stata una rapida successione di varie «scosse», definite di volta in volta come «svolta» (turn), con una continua fioritura –: linguistic, iconic, spacial turn etc. Da alcuni anni, l’interesse si è poi concentrato sul tema del corpo. Strettamente collegato con la ricerca di genere, esso è determinato anche dall’enorme boom delle scienze naturali. Ciò ha prodotto una forma del tutto nuova di biologizzazione10. Mentre queste problematiche continuano a essere studiate con metodi quantitativi per l’influenza della storia sociale e dello strutturalismo, contemporaneamente accanto a esse 8

M. de Certeau, La scrittura della storia, cit., p. 112, nota 110. P. Bourdieu/Loïc J. D. Wacquant, Réponses pour une anthropologie réflexive, Seuil, Paris, 1992, trad. ted. di H. Beister, Reflexive Anthropologie, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1996, pp. 269-279 (cfr. Risposte: per un’antropologia riflessiva, Bollati Boringhieri, Torino, 1992). 10 Cfr. H. Hastedt, op. cit. e Id., Gefühle. Philosophische Bemerkungen, Reclam, Stuttgart, 2005. 9

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ha ripreso di nuovo forza l’interesse per l’individuo e la sua biografia. E gradualmente la narrazione ha trovato di nuovo il suo posto nelle scienze storiche11. La strada percorsa per lo studio dell’individuo è stata in primo luogo la ricerca delle tracce dell’individualità passata – storica – nei documenti scritti. Ciò ha prodotto il boom dell’indagine sulle testimonianze di sé o la ricerca di documenti dell’io, che tuttavia nel frattempo ha già incontrato il suo limite. Il concetto della testimonianza di sé risulta altamente discutibile, poiché sembra scaturire dalla rappresentazione romantica di una «Letteratura di rivelazione» (Offenbarungsliteratur), cui vengono assegnati i generi Diario (Tagebuch, Journal) e Lettera (Brief). In questa speciale funzione di «auto-rivelazione», entrambi i generi sono peraltro profondamente ancorati ai secoli XVIII e XIX12. La ricerca di tali testimonianze degli «io» storici ha dovuto per lo più constatare il proprio fallimento, essendo apparso chiaro che gli «io» storici sono presenti nei testi in una moltitudine di forme. Molto spesso però le loro testimonianze «fingono», per esempio quando abbelliscono la loro propria biografia per lasciare ai posteri un’immagine convenientemente colorata13. Anche le manifestazioni di sentimenti nelle lettere non possono essere lette – le analisi retoriche l’hanno nel frattempo dimostrato – come «testimonianze» vere, reali ed effettive degli stati d’animo esposti da un soggetto. La lettera stessa si trasforma anzi nel luogo di una messinscena, in cui è il proprio «sé» a realizzare la propria auto-collocazione, potendo così costruirsi come autore autonomo14. Per non parlare delle epoche che quasi non conoscono tali generi di testi o in cui gli «io» storici parlano di luoghi del tutto impossibili e ina-

11 A questo riguardo, gli sviluppi del tempo sono ormai andati oltre de Certeau. Egli attribuisce ancora l’individuo al romanzo freudiano opposto al mito storiografico, mentre la storia appartiene al mondo come intero. A questo proposito i metodi post-strutturalistici sembrano però avere ormai consolidato i loro effetti. Anche se ritengo che l’individuo è sempre stato oggetto dell’interesse storico – a suo tempo particolarmente celebrato negli studi dello storicismo così come nella forma della biografia, anch’essa di recente in ripresa. 12 Per un’analisi della lettera nell’evoluzione storica cfr. C. Antenhofer/M. Müller, hrsg. von, Briefe in der politischen Kommunikation. Vom Alten Orient bis ins 20. Jahrhundert, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen, 2008. 13 Cfr. per esempio le conclusioni in H.-D. Heimann, hrsg. von, Kommunikation mit dem Ich. Signaturen der Selbstzeugnisforschung an europäischen Beispielen des 12. bis 16. Jahrhunderts, (Europa in der Geschichte. Schriften zur Entwicklung des modernen Europas 7), Winkler, Bochum, 2004. 14 Cfr. P. von Matt, Wer hat Robert Walsers Briefe geschrieben? in P. Chiarini/H. D. Zimmermann, hrsg. von, «Immer dicht vor dem Sture…». Zum Werk Robert Walsers, Athenäum, Frankfurt a. M., 1987, pp. 98-105.

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spettati, come i planisferi di fra Mauro 15! I concetti di ricerca di testimonianza di sé e documento dell’io incarnano in modo quasi esemplare la pretesa di storiche e storici di rintracciare nella storia l’autentico, il vero: testimonianze, fonti o affermazioni «finte» rendono difficile questa pretesa e mettono così in discussione questi stessi metodi16. Per cui, mentre la ricerca della testimonianza di sé sta progressivamente decadendo, si può nello stesso tempo rilevare un incremento delle ricerche sul tema delle emozioni e dell’emozionalità. Nel trattare questo tema, gli studi storici fanno ricorso in maniera ormai consolidata all’analisi retorica delle loro fonti, avvicinandosi perciò di nuovo alla scienza della letteratura, da cui sono originariamente sorti17. 3. Un dialogo con i morti Qual è la radice di questo interesse di storiche e storici per le emozioni dei morti? In occasione del convegno «Critica dei sentimenti» (Innsbruck 2007)18, Heiner Hastedt ha iniziato la sua relazione sul tema delle emozioni descrivendo il suo personale stato d’animo: ha fatto una parodia della cornice della relazione scientifica, come dei discorsi a essa attribuiti, e descritto per prima cosa il suo stato di salute. Raccontò di essere stato per molto tempo vittima di una malattia che gli impediva di lavorare. La malattia, egli diceva, è uno di quei momenti in cui molto tardivamente lo scienziato diventa cosciente di avere un corpo, che si rende percettibile in momenti ora opportuni ora inopportuni e può insidiosamente sabotare lo spirito razionale assiduamente al lavoro di ricercatrici e ricercatori, facendo loro perdere il filo. Il corpo e lo spirito si mettono in moto (emotion), «patiscono» (passion) le «passioni», che il corpo d’altra parte soffre e da cui è colpito (Affekt)19.

15 P. Gautier Dalché, Weltdarstellung und Selbsterfahrung: Der Kartograph Fra Mauro, in H.-D. Heimann, hrsg. von, Kommunikation mit dem Ich. Signaturen der Selbstzeugnisforschung an europäischen Beispielen des 12. bis 16. Jahrhunderts, cit., pp. 39-51. 16 Cfr. le riflessioni sviluppate in proposito più avanti e le argomentazioni di de Certeau relative alla storia tra finzione e scienza in Storia e psicoanalisi, cit., pp. 74-77. 17 Ibid. 18 Gli atti sono pubblicati in A. Neumayr, hrsg. von, Kritik der Gefühle: Feministische Positionen, cit. 19 Rimandando alla nota citazione foucaultiana di un testo di Borges su una strana classificazione degli animali in una «certa enciclopedia cinese», Hastedt rifiuta una categorizzazione logica e strutturalista delle emozioni. Oltre a ciò, nel suo elenco di astrazioni include: «passioni, emozioni, stati umorali, sensazioni, percezioni sensitive, desideri, sentimenti cognitivi, virtù sentimentali», H. Hastedt, Kultur, Natur und Innerlichkeit, cit., pp. 46 e 60-61.

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In questo stesso convegno, Hilge Landweer si è spinta fino a definire come «autoinganno collettivo» il fatto che la scienza lasci da parte l’emozionale e con esso anche il soggettivo: Anche se la scienza segue regole razionali, questo non significa né che questo accada sempre e dappertutto né che le persone dedite alla scienza si distinguano dalle altre per una più alta razionalità. Chi si considera razionale, è più soggetto all’autoinganno di altri, la cui immagine di sé non è focalizzata già in partenza sulla razionalità. Appare evidente che, proprio a causa della sua costitutiva pretesa di scientificità, la scienza richiede una specie di autoinganno collettivo, che – nonostante la congiuntura di cui godono teoria e empiria dei sentimenti come oggetti scientifici – deve misconoscere la fondamentale importanza dei sentimenti anche per la propria prassi scientifica20.

In linea con la presa di coscienza del rimosso e della costituzione sociale delle problematiche scientifiche, si potrebbe quindi sostenere che la nuova consapevolezza del corpo, la nuova biologizzazione connessa con il boom delle scienze naturali e con un crescente feticismo del corpo conoscono ora anche la loro sconfitta nelle scienze, e precisamente in quelle che tradizionalmente si occupano dello «spirito». Tanto più che i tabù sono diventati evidentemente presentabili in società. Ciò che Foucault aveva introdotto come rivoluzione, è ormai common sense nelle scienze storiche: corpo, genere e sesso, l’individuo nella sua interazione con istituzioni totali... sono divenute aree di ricerca non più provocatorie ma stabilizzate e istituzionalizzate, a seconda della tradizione nazionale di ricerca. Se si guarda ai temi di convegni storici recenti, in certa misura il paesaggio della ricerca sembra addirittura dominato da una spettacolare pubblicità di «temi tabù» e qualche volta anche di stramberie – «goofy history», fenomeni transgender, culto di morti e cadaveri –: si avvera il panottico etnografico delle stramberie di de Certeau: Lo storico non è più l’uomo che costituisce un impero. Non mira più al paradiso di una storia globale. Si trova a circolare intorno alle razionalizzazioni acquisite. Lavora nei margini. Sotto questo aspetto diventa un randagio. In una società portata alla generalizzazione, dotata di possenti mezzi centralizzatori, lo storico si spinge verso i gradini delle grandi regioni sfruttate. «Fa uno scarto» verso la stregoneria, la follia, la festa, la letteratura popolare, il mondo dimenticato del contadino, l’Occitania, ecc, zone, queste, tutte silenziose21.

20 H. Landweer, Sozialität und Echtheit der Gefühle. Geschlechtertheoretische Perspektiven, in A. Neumayr, hrsg. von, Kritik der Gefühle: Feministische Positionen, cit., pp. 63-91, qui pp. 64-65. 21 M. de Certeau, La scrittura della storia, cit., pp. 91-92.

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Lo spirito di storiche e storici si rivela allora come quello di un domatore in un circo che presenta uno spettacolo di curiosità – lo spirito di chi cerca e crea mondi altri per far vedere al presente la sua vera immagine? Di «randagi» ai confini, secondo la formula di de Certeau? Ritengo che anche e soprattutto qui si riveli questo «strano essere interessati» dei vivi ai morti. Ciò che al momento o fino ad ora è o è stato tabuizzato viene cercato nel passato, per rintracciarne modelli e forme di contatto. Se oggi in molte aree le emozioni vengono tabuizzate e rimosse, quale aspetto esse ebbero nel corso della storia? Qual era nel passato il posto delle emozioni? I nostri antenati avevano un differente rapporto con le loro emozioni o non ne avevano assolutamente nessuno (per cui ci si potrebbe forse anche di nuovo disfare di esse)? È questo tratto didattico e criminologico a spingere storiche e storici a rovistare nel passato, alla ricerca di esempi e modelli22, i cui reperti sono ora strambi e ridicoli – il «selvaggio barbarico», che funge da immagine terrificante –, ora nobili ed esemplari – il selvaggio «nobile, virtuoso» – o anche semplicemente rassicuranti, poiché è rassicurante trovarsi nel proprio tempo inseriti in una catena di esseri, che furono travagliati dagli stessi moti d’animo, esattamente come lo siamo noi oggi. Sotto questo aspetto, per de Certeau la scrittura storica diventa un «rito di sepoltura; esorcizza la morte introducendola nel discorso»23. Allo stesso tempo «situa» però anche il presente: «Si può allora dire che [la scrittura] fa dei morti affinché vi siano altrove dei vivi»24. Storiche e storici sono quindi seppellitori di cadaveri e insieme evocatori di spiriti (o anche esorcisti) della società, che puliscono la casa dagli spettri, tranquillizzandoli e assegnando loro un posto nei propri testi25. Nello stesso tempo operano come sacerdoti, che strappano ai morti anche confessioni, mettendosi alla ricerca di questi «testimoni». Proprio sotto questo aspetto si aprono paralleli del tutto sorprendenti con il dialogo terapeutico dell’analista con il suo paziente e con la confessione, nel contesto della quale Certeau pone anche la tortura. Paralleli che s’impongono, considerando il prospetto dei temi presenti nelle sue opere26. Questo sfondo spiega anche l’obiettivo proprio di storiche e storici di selezionare dalle fonti l’«autentico», il «vero». Se ci si può fidare dei sentimenti nominati, allora questi uomini sentiva22 Alla narrazione storiografica de Certeau attribuisce il carattere di un’ingiunzione. Pretendendo di narrare il reale, essa intreccia di nuovo le azioni e rende credibile ciò che racconta. M. de Certeau, Storia e psicoanalisi, cit., pp. 59-60. 23 M. de Certeau, La scrittura della storia, cit., p. 118. 24 Ivi, p. 119. 25 Ivi, pp. 117-120. 26 Per questa analisi specifica del percorso che porta dalla tortura alla confessione cfr. M. de Certeau, Storia e psicoanalisi, cit., pp. 198-202.

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no davvero queste emozioni oppure erano solo messinscene – retorica, strategia. Come lo psicoanalista, lo storico corre costantemente il pericolo di essere ingannato o fuorviato dalle sue fonti. Al confine di un mondo altro – dell’estraneo – munito dei sui strumenti metodologici, egli cerca i mezzi per carpire alle fonti testimonianze «vere». Perché? 4. Razionalità al di fuori della nostra razionalità Il cerchio magico dell’emozionale attira storiche e storici in quanto «sistema di esperienza» del mondo per lungo tempo tabuizzato. La dicotomia ragione vs. sentimento, rivestita di caratteri di genere – qua maschile e là femminile –, è il tratto distintivo dell’atteggiamento spirituale della modernità. Esattamente come la dicotomia corpo-spirito, anche la radicale contrapposizione fra ragione e sentimento è sempre più aspramente criticata da tutte le discipline scientifiche. Vengono messi in circolazione lemmi come «ragione emozionale», con cui l’emozione è vista non in contrapposizione con la ragione ma come elemento costitutivo della conoscenza razionale27. Le emozioni quindi ritornano e conquistano il loro posto, tuttavia in una forma razionalmente guidata. Ma così non si pone solo un nuovo controllo della razionalità sull’emozione, la sorella finora «ignorata»? Gli sforzi per sistematizzare i sentimenti e offrire una tassonomia delle emozioni paiono compiere passi in questa direzione 28. Un confronto più ravvicinato con i sentimenti ha portato infatti alla luce lo spiacevole riconoscimento che non c’è nessuna nomenclatura unitaria dei sentimenti e delle emozioni né nel presente e ancor meno nel passato. Né si è ancora raggiunta l’unanimità su tutto ciò che appunto va o non va annoverato tra le emozioni o i sentimenti. Dal punto di vista storico, lo stato delle cose diventa ancora più difficile, perché non si può stabilire quali contenuti sono collegati con le parole o se concetti e parole sono rimasti gli stessi attraverso i secoli. Da tempo gli scienziati della storia sono consapevoli del mutamento di parole, concetti e contenuti, che opere di grande solidità – come Geschichtliche Grundbegriffe (Concetti storici fondamentali)29 – hanno istituzionalizzato.

27

H. Hastedt, Kultur, Natur, Innerlichkeit, cit., p. 48. Ne è un esempio il gruppo di ricerca interdisciplinare in fase di formazione nella cornice del gruppo ESA Emotions, impegnato in una tassonomia dei sentimenti. Per ESA cfr. http://socemot.com/ [Marzo 2008]. 29 Geschichtliche Grundbegriffe. Historisches Lexikon zur politisch-sozialen Sprache in Deutschland, O. Brunner, W. Conze e R. Koselleck, hrsg. von., 8 Bde, Klett-Cotta, Stuttgart, 1972-1997. 28

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Una delle strade offerte dalle scienze storiche come contributo a una «storia delle emozioni» è perciò proprio un «lavoro lessicale»: afferrare le lingue dell’emozionalità30 e delle loro concettualizzazioni e, nella misura ricavabile dalle fonti, delle loro attribuzioni semantiche, così come dei campi semantici che esse creano. Questa attività di raccolta sta di diritto all’inizio del lavoro storico – così continua sempre a far parte del mestiere dello storico raccogliere dati per l’analisi, sulla scorta dei quali possono essere verificati e sviluppati modelli teorici più ampi. In ciò storiche e storici assomigliano a uno scienziato della natura che per prima cosa stabilisce una procedura sperimentale, allestisce un laboratorio in cui conduce le sue ricerche in uno scenario in certa misura rispondente a un modello. Sotto questo profilo de Certeau assegna alla storia addirittura lo status di una «posizione di “ausiliaria”»: Un interesse scientifico «esterno» alla storia definisce gli oggetti che essa si dà e le regioni verso cui successivamente si dirige, secondo i campi di volta in volta più decisivi (sociologico, economico, demografico, culturale, psicoanalitico, ecc.) e in conformità alle problematiche che li organizzano. [...] Crea così laboratori di sperimentazione epistemologica31.

Secondo de Certeau, lavorare in e sulle suddivisioni appartiene ai modi di procedere fondamentali del lavoro storico32. Si tratti di analizzate cause di divorzio – cioè ciò che gli individui producevano davanti al tribunale in materia di affermazioni di sentimenti33 – o corrispondenze di principi rinascimentali, in cui principi e principesse apparentati e legati da amicizia si diffondevano in reciproche e costanti attestazioni di simpatia34, o, infine, esplosioni di rabbia e dolore inscenate da sovrani35: tutte queste ricerche hanno in comune la suddivisione selettiva che esse presentano. Ma comune è anche l’ulteriore questione riguardante la comprensione di questi «frammenti» emozionali che si mostrano nei testi a storiche e storici. Pro30 Al riguardo cfr. l’iniziativa di ricerca «Languages of Emotion» della Freie Universität, Berlin: http://www.geisteswissenschaften.fu-berlin.de/languagesofemotion/index.html. 31 M. de Certeau, La scrittura della storia, cit., pp. 96-97. 32 Ivi, pp. 83-89. 33 E. Forster, «Weibliches Gefühlsrepertoire» in Konfliktsituationen des 19. Jahrhunderts. Eine Gegenüberstellung von «gelebten» und zugeschriebenen Emotionen, in A. Neumayr, hrsg. von, Kritik der Gefühle: Feministische Positionen, cit., pp. 275-296. 34 C. Antenhofer, Emotionale Argumentationsmuster oder Gefühle als Pflicht? Ein Fallbeispiel aus dem 15. Jahrhundert, in A. Neumayr, hrsg. von, Kritik der Gefühle: Feministische Positionen, cit., pp. 254-274. 35 G. Althoff, Spielregeln der Politik im Mittelalter. Kommunikation in Frieden und Fehde, Primus, Darmstadt, 1997; G. Althoff, hrsg. von, Formen und Funktionen öffentlicher Kommunikation im Mittelalter, (Vorträge und Forschungen Bd LI), Thorbecke, Stuttgart, 2001.

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prio la sfera dell’emozionalità pone la questione se la si possa descrivere adeguatamente all’interno di modelli – positivistici – di acquisizione e classificazione. Qui di nuovo la scienza storica si offre come correttivo una funzione, chiaramente riconosciutale da de Certeau 36, che riguarda la possibilità di sfuggire alla razionalità del proprio tempo con i suoi metodi di lavoro scientifico. Ciò che ci appassiona nel museo delle stranezze della storia, dice Foucault, è che ci imbattiamo in sistemi di organizzazione completamente diversi e impensabili, che restano completamente inaccessibili al sistema attuale di organizzazione e di pensiero. È in questo contesto che de Certeau nomina l’entusiasmo della ricerca foucaultiana di stranezze, condotta forse all’unico scopo di riderne e percepire così quanto di costruito c’è nel proprio sistema di pensiero37. Effettivamente durante il loro lavoro storiche e storici sperano di trovare nella storia altre forme del «razionale», che si sottraggono alla razionalità della ragione positivistica. Scrive Volker Depkat: Invece che della cornice invariabile delle pretese di validità universale si tratterebbe della razionalità relativa – cioè appunto sempre specifica di una data epoca –, delle pratiche comunicative [...] In questo contesto, ci sarebbe poi da chiedersi quali ragioni per le pretese di validità degli enunciati apparvero accettabili ai partecipanti della comunicazione di un’epoca. È solo questo, infatti, che definisce la validità sociale degli enunciati e delle pratiche comunicative, come anche la specifica razionalità delle azioni. L’interesse conoscitivo di una storia della comunicazione laicamente fondata consisterebbe dunque nel ricostruire questa razionalità relativa delle pratiche comunicative, mettendo in luce i presupposti della sua validità sociale38.

Se il re medievale che piange può in prima istanza meravigliare e stupire, egli trova tuttavia un attuale, sorprendente parallelo nelle lacrime della candidata alla presidenza americana Hillary Clinton. Il che conferma come in generale un’analisi di esempi emozionali di discorsi storici rischia di ricorrere al noto specchio in cui il proprio tempo riflette se stesso con la sua emozionalità (segreta), più che di mostrare sistemi di organizzazione e pensiero completamente diversi.

36 37

M. De Certeau, La scrittura della storia, cit., pp. 97-101. Cfr. la lettura di Foucault contenuta in de Certeau in Storia e psicoanalisi, cit., pp. 123-

165. 38 V. Depkat, Kommunikationsgeschichte zwischen Mediengeschichte und der Geschichte sozialer Kommunikation. Versuch einer konzeptionellen Klärung, in K.-H. Spieß, hrsg. von, Medien der Kommunikation im Mittelalter, (Beiträge zur Kommunikationsgeschichte 15), Steiner, Stuttgart, 2003, pp. 9-48, qui pp. 25-26.

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5. Il soggetto e il luogo di produzione della storia In L’opération historique, con un gesto come sempre così provocatorio da togliere il fiato, de Certeau pone la questione cruciale delle «condizioni di produzione» dei testi storiografici e scientifici. La scienza si caratterizza come uno spazio elitariamente chiuso, come un vuoto depoliticizzato che funziona in base a costrizioni che si spacciano per metodi e teorie, crea rapporti di dipendenza clientelare e malgrado tutto cerca di tenere in piedi l’apparenza di scientificità39. Per mascherare questo procedimento profondamente feudale, imperialistico e profittatore, vengono introdotti discorsi scientifici di elevata complessità, che rendono del tutto impossibile ai «profani» decifrarne i contenuti. Scienziate e scienziati si rivelano così come i sacerdoti del tempo odierno. Un analogo tabù, che proibisce ai «profani» l’operazione di decifrazione, circondò prima gli scritti religiosi, poi quelli giuridici, che per parte loro avevano bisogno di esegeti ed esperti di scrittura per decifrare scritti sacri e ermetici. La scienza ha sostituito questi sistemi di organizzazione, creando lingue proprie, sacre ed ermetiche. Il sistema riproduceva se stesso in sacrosanti vestiboli; beati i tempi in cui la scienza poteva produrre discorsi in sé chiusi. Gradualmente i vestiboli hanno subito delle scosse: l’introduzione delle prime donne nella un tempo immacolata sfera maschile; la diversa provenienza sociale di scienziate e scienziati, che all’improvviso sono arrivati (come gli studenti universitari) da tutti gli strati sociali; infine, il mutamento della stessa formazione teorica e metodologica prodotto da «provocatori» quali, in posizione di primaria importanza, Foucault e, molto meno recepito in Germania, lo stesso de Certeau, il quale ha tempestivamente criticato la pressione alla «definizione del profilo» cui era sottoposta la scienza storica del suo tempo e, in questo contesto, ha parlato di «proletariato» degli intellettuali40. Se oggi si considera la situazione delle scienze dello spirito, la situazione si è notevolmente aggravata. Esse hanno inequivocabilmente perso la loro corsa contro le scienze della natura e combattono dalla difensiva, per cui parole come «eccellenza» devono figurare come etichette per coprire la sovranità che da tempo dipende dal favore dei principali finanziatori e di altre istituzioni di finanziamento per la ricerca. Arroccate nel discorso ermetico altamente specializzato del loro linguaggio scientifico, le scienze naturali si sono procurate una nuova enclave di inviolabilità, legittimata dalla caducità del corpo e dell’ambiente, in definitiva 39

M. de Certeau, La scrittura della storia, cit., pp. 62-79. «[...] con i suoi padroni, la sua aristocrazia, i suoi “capomastri” – spesso proletari delle ricerche “patronali” [...]», M. de Certeau, Storia e psicoanalisi, p. 56. 40

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dalla morte cui promettono di porre un freno. Chi ha bisogno ancora di dialogare con i morti, quindi, quando la nuova generazione della scienza può creare artificialmente la vita, differire la vecchiaia, ringiovanire il corpo e tenere in scacco la morte? L’alchimia ha vinto, i mezzi magici rendono possibile una vita nella norma, che spinge le diversità sempre più ai margini. Le categorie quindi si rovesciano e già da tempo nei discorsi pubblici l’emozionale ha rimosso la razionalità – il discorso razionale. La lingua dei media, segnata da appelli emozionali, è la marca distintiva non solo di quella dei politici ma in misura crescente anche di quella cui ricorrono scienziate e scienziati, che si candidano per ottenere fondi di ricerca usando non più contenuti ma etichette variopinte. Anche qui può trovarsi una radice del nuovo interesse per l’emozionalità. La scienza continua a negare di essere condizionata dalle emozioni, tuttavia per gli addetti ai lavori è chiaro che la vita quotidiana nelle università è determinata dalle emozioni: quanta invidia, odio e gelosia decidono su concessione o rifiuto di finanziamenti? Quanta paura, disperazione oppure ostinazione si nascondono nelle domande di ricerca, che decidono dell’esistenza di coloro che fanno domanda? Per non parlare delle emozioni che accompagnano ricerche della durata di anni come dissertazioni e abilitazioni, le cui tracce si intravedono solo nelle prefazioni, quando familiari e amici vengono ringraziati per la lunga «sopportazione» durante l’esecuzione del progetto. Altri «fori» per espressioni emozionali si trovano altrimenti in qualche recensione e nota a piè di pagina, in cui talora inaspettatamente rabbia, disprezzo o pura furia distruttrice si sfogano liberamente. E accanto a queste le emozioni positive, tracce di passione e amore per gli oggetti della ricerca, che si sono inscritte nei testi. La finzione della ragione si regge fragilmente sugli abissi delle emozioni. 7. Raccontare storie – Finzioni Il concetto di finzione – soprattutto di «finzione teorica» – occupa una posizione centrale nell’opera di de Certeau. La finzionalità specifica della scienza storica si può a questo proposito constatare su diversi piani e di nuovo si tratta del luogo in cui entra in gioco l’emozionalità. L’emozionale si trova innanzi tutto già nell’atto stesso della scelta delle fonti: lo storico descrive non tanto realtà e fatti quanto ciò che è degno di nota (o intelligibile). Decidere su ciò che di eventi o di circostanze di fatto è degno di nota dipende qui dalla sua scelta41. Non è una proprietà inerente all’evento storico stesso. Si può quindi dire senz’altro che quella dello stori41

M. de Certeau, La scrittura della storia, cit., pp. 49-52.

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co è una scelta guidata da interessi – emozionale in definitiva – che lo muove a scegliere determinate fonti, lasciandone però altre negli archivi. Questo processo di scelta – che ha luogo a diversi livelli, non ultimo quello che determina l’inserimento stesso dei documenti nell’archivio; i processi successivi sia della nuova produzione di fonti – che vengono raggruppate, trascritte, tradotte – che del loro allontanamento dal luogo in cui sono sorte; la loro organizzazione completamente nuova: tutto ciò, dice Certeau, costituisce il processo storico in generale. In altre parole: storiche e storici creano in generale le fonti solo mediante questa selezione e nuova organizzazione42. A questo segue poi un secondo, ben più profondo approccio emozionale: l’interpretazione delle fonti. Essa è sempre sorretta da modelli ermeneutici di analisi testuale e dal postulato per cui lo storico accede alla comprensione delle fonti e con essa può superare la frattura tra presente e passato43. Alla fine, questa scelta di frammenti di «resti» storici – prodotto dell’artificiale situazione del descritto laboratorio di analisi storica – viene formulata da storiche e storici in una narrazione: un altro passo carico di emozioni. Qui de Certeau esercita la sua tagliente critica metodologica alla ricerca storica, mettendo in rilievo che questo discorso narrativo non segue le leggi di deduzione e argomentazione logica ma sceglie un modo di esposizione cronologica con cui mette in atto impliciti nessi di causalità44. In sé e per sé ciò non sarebbe da considerare problematico, poiché in definitiva anche la logica aristotelica segue modelli di argomentazione costruiti 45. Il problema – de Certeau ne fornisce una dimostrazione piuttosto convincente – è che questa narrazione ha luogo per lo più a partire da un osservatorio che si finge neutrale e viene svolta da una terza persona, che non assume nessuna responsabilità per ciò che enuncia: a parlare sono qui la realtà e la storia stessa. Il carattere finzionale della scienza storica è colto da de Certeau proprio in questa costruzione di una narrazione coerente composta a partire da frammenti, che per sé rivendica anche il postulato di realtà. Essa com-

42

Ivi, pp. 83-89. Ivi, p. 111. 44 Ivi, pp. 109-117. 45 Contro questa logica argomentativa razionale Douglas N. Walton indica la prevalenza dei modelli emozionali di argomentazione in situazioni dialogiche interattive. I modelli logici di argomentazione classificati dalla retorica classica contraddistinguono quindi solo l’argomentazione deduttiva, razionale e lineare ma non la logica quotidiana, che si svolge nella maggior parte dei casi in modo interattivo. Cfr. D. N. Walton, The Place of Emotion in Argument, The Pennsylvania State University Press, Pennsylvania, 1992, pp. 6-15. 43

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pensa il suo deficit di scientificità tramite questo postulato di autorità –: «è accaduto»46. Si pone così la questione di come la scienza della storia possa sfuggire a questo dilemma, poiché se essa rinunciasse come metodo alla narrazione, le resterebbe solo la pura enumerazione aggiuntiva, cioè allineerebbe eventi e persone come in un museo. Ma ricadrebbe così nella gabbia del «gesto» di ordinare ed elencare e di nuovo non potrebbe sfuggire alla «volontà» di dare forma che le appartiene e determina la sua finzionalità. Attento alle tendenze del suo tempo, de Certeau si è interessato anche delle possibilità dei metodi quantitativi, che all’epoca si prospettavano anche per la ricerca storica grazie all’impiego del computer. Secondo Roger Chartier, le argomentazioni sviluppate da de Certeau in L’opération historique in definitiva si spiegano proprio sullo sfondo dell’attacco che in quegli anni fu sferrato dalle scienze quantitative contro la vecchia forma della storia narrativa47. Ma in realtà è de Certeau stesso a fare polemicamente osservare il carattere di costruzione presente in queste stesse serie, che si limitano in ogni caso a spostare il problema, operandovi ulteriori occultamenti: «In realtà si tratta di un’opzione decisiva. Il posto accordato alla tecnica avvicina la storia alla letteratura o alla scienza»48. In effetti la critica di de Certeau alla storiografia per certi aspetti implica una critica alla scienza in generale. Ritenere che de Certeau sviluppi un attacco contro questo carattere finzionale della storiografia narrativa sarebbe quindi un fraintendimento. Piuttosto egli vede la storia, che un tempo aveva la pretesa di essere una scienza «globale», costretta in questo rapporto di tensione tra «scientificità» (fatticità) e «letteratura» (finzione), che a sua volta ebbe origine nella separazione tra scienze dello spirito e scienze della natura nel XVIII secolo. Egli pensa che le forme del letterario nella storia sono nel frattempo divenute rimozioni che, nella misura in cui non sono rese esplicite, in effetti rendono la storiografia un «simulacro»49. Perciò la disciplina rimane rinchiusa nel descritto campo di tensione tra spirito e emozione, divenuta sotto un certo profilo «vittima» di una logica delle scienze positivistiche.

46

Qui de Certeau recepisce R. Barthes. Cfr. La scrittura della storia, cit., pp. 59-61. R. Chartier, L’histoire ou le savoir de l’autre, in L. Giard, éd., Michel de Certeau, Collection Cahiers pour un temps. Centre Georges Pompidou, Paris, 1987, , trad. ted. di U. Raulff, Historie oder das Wissen vom Anderen, in M. de Certeau, Das Schreiben der Geschichte, cit., pp. 289-299. 48 M. de Certeau, La scrittura della storia, cit., p. 79. 49 M. de Certeau, Storia e psicoanalisi, cit., pp. 70-71. 47

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Come risultato di ciò, la storia stessa quindi combatte contro altre storie e leggende con essa concorrenti, contro superstizione e favola, insieme alle quali il più delle volte viene menzionata nella stessa cornice50. Da parte sua, essa postula di essere subentrata a queste «tradizioni». Ma a questo proposito si tratta di ammettere che il discorso scientifico della storia è solo uno tra i tanti. Mentre la scienza storica attribuisce il suo diritto di esistere alla sua scientificità, al suo contenuto di realtà e all’insistenza sul concreto, de Certeau le riconosce certamente come correttivo critico la capacità che a ciò si accompagna ma le assegna anche un ulteriore potenziale: quello di progettare finzionalità utopiche –: possibilità di progettare il pensabile51. In questo discorso tra passato e presente, la scienza della storia riesce come sempre a progettare modelli di vita possibile per il futuro. Questa forza la collega con gli antichi poeti. Perciò non la si può neppure rimproverare, se essa si rivolge ai temi congiunturali del presente –: «Canto le lodi di colui che mi dà il pane». Più che di opportunismo, si tratta dell’autentico diritto all’esistenza proprio delle scienze: in definitiva, in gioco è sempre solo il presente, al massimo il futuro (prossimo). Perché si dovrebbero ascoltare storie di morti, se fossero favole di persone vecchie, decrepite, disperatamente «sorpassate»? I bardi ubbidivano alla volontà del loro pubblico, rivestendo la loro lingua con le immagini e le favole note ai loro ascoltatori, perché venissero comprese e il loro canto trovasse ascolto. Il lavoro di de Certeau crea queste immagini, crea un dialogo tra mondi e aree di ricerca, incornicia i teorici in immagini liriche: il riso di Foucault, la lingua al margine dell’abisso, Freud che invecchia lottando con la sua stessa scrittura. La sua opera si sottrae anche alla volontà di dare ordine e forma caratteristica del progetto globale e rimane spesso frammento, allinea l’una all’altra tracce tra le quali si aprono buchi, si mostra e si sottrae: Dubito anch’io di aver udito questo «sapere». Ho lasciato così, segnato nello spazio di uno «studio» che «prende il posto» di quello di Freud ma che non può ridirlo, le impronte straniere (tedesche) dei passi della danzatrice. Ma in questo luogo che occupo, la sua inquietante familiarità mi ricorda l’espressione di un altro, Jean

50 51

Ivi, pp. 51-53. M. de Certeau, La scrittura della storia, cit., pp. 97-101.

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Cavaillès, che considerava il progresso della scienza una «perpetua revisione dei contenuti mediante approfondimento e cancellatura»52.

(Traduzione dal tedesco di Rossana Lista)

52

Ivi, p. 367.

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Blumenberg e/o de Certeau. Stabilità e/o frattura? Il ritorno del rimosso e l’inversione del pensabile all’interno della storiografia sociologica dei comportamenti religiosi

La storiografia innanzitutto separa il suo presente da un passato […] Il lavoro determinato da questa frattura è volontaristico. Nel passato da cui si distingue, essa opera una cernita tra ciò che può essere compreso e ciò che deve essere dimenticato per ottenere una rappresentazione di una intelligibilità presente. Ma ciò che questa nuova comprensione del passato considera come non pertinente – residuo creato dalla selezione del materiale, resto trascurato da una spiegazione – ritorna malgrado tutto ai margini del discorso e delle sue faglie: il bell’ordine di un progresso o di un sistema d’interpretazione viene discretamente turbato da resistenze o ritardi. Si tratta di lapsus nella sintassi costruita dalla legge di un luogo. Essi vi raffigurano il ritorno di un rimosso, vale a dire di ciò che, in un dato momento, è diventato impensabile affinché diventi pensabile una nuova identità. Michel de Certeau1

1. Preliminari Lo scopo di questo saggio è di indagare la questione del ritorno del rimosso che Michel de Certeau applica al criterio scientifico della conoscenza storica contemporanea. L’indagine è focalizzata sulla storiografia sociologica dei comportamenti religiosi. In L’Écriture de l’histoire de Certeau propone una ricostruzione storica dell’avvicendarsi delle forme culturali tra il XVII e XVIII secolo. L’analisi ha luogo «a partire da quella che viene chia-

* [Università di Bologna]. 1 M. de Certeau, L’Écriture de l’histoire, Gallimard, Paris, 1975, trad. it. di A. Jeronimidis, La scrittura della storia, Jaca Book, Milano, 2006, p. 8.

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mata vita spirituale»2 della storia religiosa francese e che viene intesa come un’archeologia temporale profonda del pensiero storico. Seguendo un’ipotesi che coglie nell’organizzazione scritturale della storiografia contemporanea – e in particolare nella storiografia delle pratiche sociali di Gabriel Le Bras – «la sopravvivenza di antiche strutture»3 di senso, de Certeau tenta di analizzarne, secondo un’idea già applicata all’evoluzione del processo storico da Sigmund Freud in Totem und Tabu e Der Mann Moses und die monotheistische Religion, il fenomeno della latenza del significato precedente e della coazione a ripeterlo che s’insinua al suo interno. Sotto questo aspetto, l’archeologia storica spiegherebbe un nascosto funzionamento procedurale del criterio scientifico della storiografia religiosa, analizzandone la genesi nell’arco dei tre secoli precedenti: Nato storico nella storia religiosa, determinato in larga misura dal dialetto di questa specialità, mi interrogavo sul ruolo che, nell’organizzazione “scritturale” moderna avevano potuto avere le produzioni e le istituzioni religiose di cui essa ha preso il posto trasformandole. L’archeologia era per me il registro nel quale cercavo di precisare il ritorno di un “rimosso”, un sistema di Scritture di cui la modernità ha fatto un assente ma senza poterlo eliminare.4

Facendo slittare la questione freudiana del ritorno del rimosso sulla metodica storiografica, in Histoire et psychanalyse de Certeau scrive che c’è «qualcosa di “perturbante” in questo passato che un attuale occupante ha spodestato – o ha creduto di spodestare – per collocarsi al suo posto»5. Sotto i colpi della critica della scienza tra XVII e XVIII secolo la coscienza religiosa si sarebbe ritirata, lasciando vacante il posto del senso storico al quale era annessa la sua capacità di dare un’immagine del mondo. Secondo la metafora del luogo del senso storico utilizzata da de Certeau, è proprio la storiografia che, imponendosi come forma della coscienza storica contemporanea secondo un principio illuministico di «lotta contro la finzione»6, subentra alla coscienza religiosa per produrre la propria identità scientifica: questo principio di sostituzione del senso storico, che de Certeau più volte mette in evidenza in L’Écriture de l’histoire, è causato dal criterio scientifico della storiografia. È proprio qui che la questione del perturbante e del rimosso s’innesta su problematiche di teoria della storiografia concernenti la possibilità della conoscenza storica. Il criterio scientifico della storiografia religiosa, in2

Ivi, p. 131. Ivi, p. 48. 4 Ivi, p. 20. 5 M. de Certeau, Histoire et psychanalyse entre science et fiction, Gallimard, Paris, 1987, trad. it. di G. Brivio, Storia e psicoanalisi, tra scienza e finzione, Bollati Boringhieri, Torino, 2006, p. 78. 6 Ivi, p. 51. 3

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fatti, celerebbe al suo interno una dimensione temporale rimossa che – nonostante il criterio medesimo produca la propria realtà conoscitiva attraverso un principio di rimozione e di distanza rispetto «al dire e alle credenze comuni»7 del passato – provocherebbe una scissione dell’identità scientifica. Secondo de Certeau, ciò costituisce «l’inganno»8 temporale della storia: In termini più generali, ogni ordine autonomo si costituisce in virtù di ciò che elimina, producendo un residuo condannato all’oblio. Ma ciò che viene escluso s’insinua nuovamente all’interno di questo luogo “puro”, ne prende di nuovo possesso, lo turba, rende illusoria la consapevolezza del presente di essere “a casa propria”, si nasconde nella sua dimora; e questo “selvaggio”, questo “osceno”, questo “rifiuto”, questa “resistenza” della “superstizione” inscrive in quel luogo, a insaputa del – o contro il – suo proprietario (l’io) la legge dell’altro.9

La storiografia procede secondo «una netta separazione fra passato e presente»10 e quindi, grazie al principio d’identità della coscienza storica, parla in nome del reale sottoponendo il processo storico del passato a «un processo di “falsificazione”»11 che ne elimina la finzione dalla realtà. Secondo l’indagine archeologica suggerita da de Certeau, la storia al contrario si dimensiona grazie a un rapporto temporale anacronistico: il passato e tutto ciò che è rimosso dal principio d’identità razionale della storiografia contemporanea non si trova differenziato da quest’ultima e allontanato in quanto pregiudizio e finzione ma agisce dall’interno, provocando una scissione sia del soggetto scientifico indagatore che dell’oggetto indagato (la religione). 2. Il ritorno del rimosso e la «tattica dello scarto» Il filo conduttore, che guida l’analisi di de Certeau sulle forme culturali tra XVII e XVIII secolo, è una teoria della storicità basata sulla trasformazione della fisionomia dell’essere storico e quindi sulla tematizzazione di una frattura temporale – definita come l’inversione del pensabile – da cui dipende l’autocomprensione storiografica della coscienza storica moderna. Sotto questo aspetto, la storia religiosa francese «è il campo di un confronto tra la storiografia e l’archeologia, a cui si è in parte sostituita»12. Secondo de Certeau, questo confronto permette di individuare i «condizionamenti»13 temporali che la storiografia religiosa mantiene con il proprio passato. Que7

Ibid. Ivi, p. 78. 9 Ivi, pp. 78-79. 10 Ivi, p. 79. 11 Ivi, p. 52. 12 M. de Certeau, La scrittura della storia, cit., p. 25. 13 Ivi, p. 47. 8

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sta infatti fa risorgere nel proprio criterio scientifico, secondo un’inconsapevole rammemorazione temporale, un’antica organizzazione storica della coscienza cristiana: Il criterio religioso cambia lentamente; e quello che viene così elaborato nel XVII secolo all’interno della Chiesa è senza dubbio lo stesso criterio che oggi emerge, promosso allo statuto di criterio scientifico, nella “sociologia religiosa” […] Oggi quando considera la pratica come la base per una misurazione quantitativa della religione, la sociologia fa dunque risorgere nella scienza un’organizzazione storica della coscienza cristiana.14

Michel de Certeau mette a fuoco la questione basandosi soprattutto sulla storiografia sociologica delle pratiche sociali di Gabriel Le Bras15. Nel quadro teorico delineato da questo storico, la coscienza religiosa è un elemento sovrastrutturale e secondario rispetto alla base sociale che la produce. Ciò che la sociologia accentua attraverso il suo metodo storiografico, infatti, è «una separazione tra gesti oggettivi e credenza soggettiva»16. Tuttavia questa divisione metodica, che agisce appunto come criterio scientifico, è per de Certeau un presupposto storico già latente da quattro secoli: «Nel XVII secolo la credenza comincia già a dissociarsi dalla pratica – fenomeno questo che da allora non ha cessato di accentuarsi»17. Recuperando sul piano metodico quest’antica polarità esistenziale, la sociologia perciò non fa che accrescere uno «scisma tra dei fatti religiosi sociali e le dottrine che pretendono di spiegarne il senso»18. Seguendo una prospettiva già delineata da Fernand Braudel nei suoi Écrits sur l’histoire, de Certeau scrive che sono i modelli determinati da una misurazione quantitativa dei fenomeni a fornire allo storico «la capacità di far apparire degli scarti»19 storici. Al principio di razionalizzazione del modello, infatti, è attribuita la capacità di contare «i gesti»20; qui l’interesse metodico è infatti rivolto alle pratiche in quanto rappresentanti di una realtà sociale che «ha il suo rovescio in una svalutazione scientifica nel loro significato dogmatico (ricondotto a “pregiudizi” demistificati dal progresso o a convinzioni private impossibili da introdurre in una analisi scientifica)»21. 14

Ivi, pp. 137, 32. M. de Certeau, Christianisme et “modernité”dans l’historiographie contemporaine. Réemplois de la tradition dans les pratiques, in «Recherches de science religieuse», 63, 1975, pp. 243-268, ristampato in Id., Le lieu de l’autre, histoire religieuse et mystique, édition établie par L. Giard, Seuil/Gallimard, Paris, 2005, p. 27. 16 M. de Certeau, La scrittura della storia, cit., p. 32. 17 Ibid. 18 Ivi, p. 33. 19 Ivi, p. 94. 20 Ivi, p. 33. 21 Ibid. 15

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Perciò lo storico, continua de Certeau, ruota sempre «intorno alle razionalizzazioni acquisite. Lavora nei margini. Sotto questo aspetto diventa un randagio. In una società portata alla generalizzazione, dotata di possenti mezzi centralizzatori, lo storico si spinge verso i gradini delle grandi regioni sfruttate. “Fa uno scarto” verso la stregoneria, la follia, la festa, la letteratura popolare, il mondo dimenticato dal contadino, l’Occitania, ecc., zone queste tutte silenziose»22. Questa «tattica dello scarto»23, che ha innanzitutto la capacità di razionalizzare e quindi di differenziare il presente da un passato, ha origine da una fondamentale rivoluzione religiosa avvenuta in Francia tra XVII e XVIII secolo. Questa origine, identificata come una frattura tra dimensione pratica ed eidetica, è l’elemento rimosso che ritorna nella sociologia delle pratiche in qualità di criterio scientifico. Paradossalmente ciò che la storiografia sociologica contemporanea fa risorgere dal passato è la tattica dello scarto medesima, in quanto principio d’identità razionale della coscienza temporale moderna originatasi tra XVII e XVIII secolo24 e nello stesso tempo come organizzazione storica della coscienza cristiana. 3. L’inversion du pensable Oltre a essere un modello, la tattica dello scarto è una forma culturale di coscienza storiografica che si è imposta nella sociologia dei comportamenti: la misurazione quantitativa dei fenomeni storici, infatti, privilegia la dimensione pratica rispetto a quella eidetica. Esse risultano perciò divise in rapporto all’indagine storica. Sotto questo aspetto, l’archeologia delle forme culturali – che è innanzitutto l’impresa che deve svelare gli elementi rimossi dal lavoro dello storico – riconduce la tattica dello scarto a una trasformazione dell’essere storico prodottasi tra XVII e XVIII secolo. Questa trasformazione, che è stata una vera rivoluzione religiosa, rovesciò per sempre i ruoli della dimensione pratica nel rapporto con la verità ontologica; come scrive de Certeau, alla fine sarà «la prima a fondare e determinare la seconda»25: Il “senso spirituale” è ormai costretto in un linguaggio di pratiche, mentre nel Medio Evo si spostava in un universo cosmologico d’idee e di parole che erano cose.26

22

Ivi, pp. 91-92. Ivi, p. 96. 24 L’elemento rimosso che risorge all’interno della storiografia non appartiene a un fenomeno di lunga durata poiché, secondo de Certeau, la tattica dello scarto utilizzata dalla sociologia delle pratiche è preceduta storicamente dall’analisi simbolica del romanticismo, il quale cercava di riconoscere un senso dato e nascosto. 25 M. de Certeau, La scrittura della storia, cit., p. 134. 26 Ivi, pp. 179-180. 23

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L’antica verità teologica, ormai frantumata e relativizzata da diversi gruppi religiosi in conflitto, è ridotta a costruzione culturale, qui la verità «è quanto il gruppo fa»27, secondo un principio di autoaffermazione e di inversione del pensabile che trasformerà le dottrine in sovrastrutture ideologiche prodotte dalla società e dai suoi gruppi costituenti: […] il “fatto” non funziona più come il “segno” di una verità, quando la “verità” cambia statuto, cessa gradualmente di essere ciò che si manifesta per diventare ciò che si produce.28

La transizione all’età moderna è una sorta di varco ontologico che si manifesta attraverso ciò che de Certeau definisce come l’inversione del pensabile. Questa è una categoria-chiave che, oltre all’essere storico, definisce una modalità di rapporto della storiografia contemporanea con la «griglia d’intelligibilità»29 delle società passate. Come scrive Jean-Claude Monod: Dal momento che “noi” sviluppiamo una ricerca nella storia o nelle scienze umane, coscientemente o meno siamo gli eredi di una storia critica o di una critica della religione, che è la condizione della sua costituzione in oggetto del sapere. In effetti noi spieghiamo la religione – nelle sue varie espressioni – in rapporto alla società, non spieghiamo la società e la storia in rapporto alla volontà di dio o degli dèi […] più esattamente: per lo storico o il sociologo i contenuti teologici non esprimono qualche cosa della società bensì qualcosa che deve essere spiegato attraverso la società.30

Al centro dell’inversione del pensabile sta l’impotenza dell’unità della teologia tradizionale nel creare una coerente totalità strutturale del senso dell’esistente. Ciò che si affianca all’unicità dell’immagine teologica del mondo e la mette in pericolo è la nuova, acuta esperienza della pluralità delle visioni del mondo. Come scrive Blumenberg: Il fatto che “al di là dei monti”, come aveva detto in primo luogo Montaigne, sia valido il contrario di ciò che al di qua sembra essere sicuro e ovvio, descrive l’esperienza fondamentale dalla quale ha preso le mosse la storicizzazione dell’immagine del mondo e che l’ha ridotta a un’impotenza infine ancora buona solo per il godimento estetico.31

27

Ivi, p. 133. Ivi, p. 17. 29 J.-C. Monod, Inversion du pensable et transit de croyance, in «Revue de théologie et de philosophie», 136, 2004, p. 337. 30 Ibid. 31 H. Blumenberg, Weltbilder und Weltmodelle, in «Nachrichten der Giessener Hochschulgesellschaft», vol. XXX, Schmitz, Giessen, 1961; trad. it. di D. Messina in «Discipline filosofiche», XI, 2001, 1, p. 19. Secondo de Certeau, il godimento estetico delle espressioni religiose sarà il risultato ultimo della critica illuminista della religione. Proprio nel rapporto con i 28

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Attraverso il moltiplicarsi dei sistemi religiosi e delle loro immagini del mondo nasce un nuovo spazio sociale, in cui tutto parla dell’unità scomparsa. Ciò significa che la dimensione totalizzante del senso dell’unità teologica è ormai divenuta solo una parte all’interno del paesaggio in disordine che richiede un nuovo principio di coerenza strutturale dell’esistente: qui «un criterio sociale» del senso sostituisce il «criterio religioso»32: Inaugurato sotto Richelieu fra «lacerazioni» e nel quadro di scetticismo di cui sono permeate tutte le dottrine, il rafforzamento dello stato sconvolge le vecchie strutture mentali, perché in sostanza riorganizza le condotte alleggerite da criteri e quadri di riferimento. Qualunque sia il destino delle credenze votate all’incertezza, quello che viene allora percepito come mancante e necessario è una ragione della pratica. Occorre un’assiomatica dell’azione. La scienza moderna si formerà cercando un ordinamento delle pratiche.33 Il «cristianesimo cambia posto»34, entra in un nuovo spazio del senso in cui è centrale la maniera di «praticare». Ovunque un gesto sociale prodotto di uno Stato si sostituisce all’assimilazione interiore della fede. Perciò è la «frattura fatale dell’antica religione dell’unità» a caricare «progressivamente sullo Stato la capacità d’essere per tutti l’unità referenziale»35. Per via di questo spostamento generale del sistema del senso, la religione «comincia a essere percepita dall’esterno»36. La ragione, che ha il potere di organizzare le pratiche, distingue da sé come «il campo delle sue conquiste, l’immenso spazio delle “credenze” irrazionali e l’inerte distesa di questa Natura»37: sono soprattutto le espressioni religiose a risultare inerti rispetto alla capacità operativa della ragione: In particolare, per essersi costruita in una relazione con il suo altro «selvaggio», la cultura stabilisce un doppio linguaggio: quello confessabile, produttore di una ragione «illuminata» organizzato da un’assiomatica dell’utilità sociale; quello delle credenze, sconfessate ma ancora presenti, e che, denegate nel presente, assumono la figura di un’origine oscura, passato «oscurantistico» dei sistemi che vengono a sostituirle.38

Difficile e violento, scrive de Certeau, il rimaneggiamento dello spazio religioso delle chiese tra XVII e XVIII secolo introduce sia la gestione polilumi, questa viene ridimensionata come favola, mito, finzione. Secondo la formula di de Certeau: una ragione instaura il proprio folclore. 32 M. de Certeau, La scrittura della storia, cit., p. 134. 33 Ivi, p. 163. 34 M. de Certeau, Christianisme et “modernité” dans l’historiographie contemporaine, cit., p. 22. 35 Ivi, p. 25. 36 M. de Certeau, La scrittura della storia, cit., p.159. 37 Ivi, p. 185. 38 Ivi, p. 186.

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tica delle differenze religiose che la manipolazione dei costumi e delle credenze anteriori, secondo un principio di produzione e di inversione del pensabile legato alla maniera di fare. Questo creerà una differenza fondamentale fra coscienza religiosa e rappresentazione ideologica prodotta dalla struttura sociale. Ciò farà sprofondare proprio l’antica esperienza della coscienza religiosa in una dimensione marginale del senso in cui la spiritualità, scrive de Certeau si manifesterà come «l’inverso, dapprima “mistico”, poi “pazzo”, “idiota”, del nuovo ordine di cose che è “laico”»39: qui una ragione instaura il proprio folclore, fissandolo «come oggetto di una politica o di un sapere»40. Ciò che è emerso all’interno della svolta storica considerata e che, in una sorta di balzo temporale, sarà infine recuperato come criterio scientifico dalla storiografia contemporanea, è un capovolgimento dell’essere storico dovuto al subentrare della dimensione pratica alla verità ontologica. Questo capovolgimento è percepibile nello «scarto tra le credenze e le dottrine o tra l’esperienza e le istituzioni»41. 4. La storiografia sociologica contemporanea delle pratiche religiose La questione-chiave cui fa appello l’archeologia di de Certeau, dunque, è l’inversione del pensabile. Ciò significa che la ricostruzione storico-filosofica del periodo esaminato è anche un’interpretazione filosofica dello stesso processo storico del pensiero: lo storico che studia la religione dal punto di vista della condotte sociali evoca sulla scena della scrittura la frattura che ha instaurato quella inversione del pensabile che sta all’origine della traiettoria temporale dell’età moderna. Secondo lo storico contemporaneo, infatti, i contenuti dottrinali della religione esprimono la dimensione sociale che li ha prodotti in base a un principio ermeneutico per cui la «“società” non è uno dei due poli di confronto con la religione, bensì l’asse di riferimento, il “modello” palese di ogni possibile intelligibilità, il postulato attuale di ogni comprensione storica»42. Proprio in base a questa prospettiva, comprendere i fenomeni religiosi nel loro aspetto dottrinale, significa chiedere loro una cosa sostanzialmente diversa da quello che hanno voluto dire: «significa intendere come rappresentazione della società quello che, dal loro punto di vista, fondava la società»43. La storia religiosa del XVII secolo esprime una differenza fondamentale tra due diverse «epoche della coscienza»44: una co39

Ivi, p. 135. Ivi, p. 185. 41 Ivi, p. 135. 42 Ivi, p. 148. 43 Ibid. 44 Ivi, p. 149. 40

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scienza sociale legittimata in base alla pratica – la nostra – e una coscienza religiosa fondata sulla dottrina teologica – propria dei fenomeni religiosi. Perciò «la storiografia sociologica analizza le pratiche preferendole alle rappresentazioni: essa ha per postulato un acquisto dell’evoluzione descritta dalla propria ricerca»45. In altre parole, lo storico sposta «l’oggetto religioso»46 all’interno della frattura che instaura l’identità della coscienza storica moderna: la storia religiosa contemporanea, scrive de Certeau, «sa meglio di cosa sono fatte le pratiche religiose […] e sa di meno in cosa esse siano “religiose”»47. 5. Transizioni dell’età moderna: Blumenberg e/o de Certeau. «“Stabilità” e/o “frattura”?»48 In ogni studio che le è dedicato, la religione presenta, fin dal XVIII secolo, questa ambiguità del suo oggetto: ad esempio, il suo passato viene spiegato volta per volta dalla sociologia che tuttavia esso ha organizzata, e considerato come la spiegazione di questa sociologia che gli è stata sostituita. Più in generale ogni società nata e scaturita da un universo religioso (esistono forse altri tipi di società?) deve affrontare il rapporto che essa intrattiene con la sua archeologia. Questo problema è inscritto nella cultura attuale, in quanto le strutture religiose si sono scollate dai contenuti religiosi organizzando le condotte razionali. Sotto questo profilo, studiare la religione significa oggi pensare quello che i suoi contenuti sono diventati nelle nostre società (dei “fenomeni religiosi”), nei termini di ciò che sono diventate le sue formalità nella nostra pratica scientifica. Michel de Certeau49

45

M. de Certeau, Christianisme et “modernité” dans l’historiographie contemporaine, cit.,

p. 30. 46

M. de Certeau, La scrittura della storia, cit., p. 149. M. de Certeau, Christianisme et “modernité” dans l’historiographie contemporaine, cit., pp. 28-29. 48 Ivi, p. 25. 49 M. de Certeau, La scrittura della storia, cit., 2006, p. 191. 47

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Il quadro di ricostruzione storica proposto da de Certeau spiazza qualsiasi proposta di pensare in modo semplicemente diacronico gli eventi storici: la frattura instauratrice del moderno opera «all’interno della disposizione e dell’utilizzazione di elementi stabili»50 del passato. Quello che si sta svolgendo nel processo storico è uno «spostamento globale». Scrive de Certeau che esso è «difficile da indicare poiché la distinzione tra politica e religione (e non più soltanto tra temporale e spirituale) è proprio quello che sta producendo: è dunque impossibile far affidamento su questi due concetti come sue due colonne solide e inalterabili, rispetto alle quali un’analisi storica potrebbe valutare il cambiamento in corso»51. I contenuti religiosi, infatti, vengono sottoposti a un «fenomeno di reinterpretazione sociale» che li «distribuisce in un nuovo spazio»52 del senso. Sotto questo aspetto, l’archeologia della storia religiosa si basa su una teoria della storicità delle forme culturali che è possibile avvicinare al modello di lettura delle soglie epocali proposto da Blumenberg in Die Legitimität der Neuzeit, testo peraltro noto allo studioso francese anche nell’edizione americana. Secondo de Certeau, l’esperienza storica che genera l’età moderna e che tende a «distanziarsi nei confronti dei contenuti religiosi, a sua volta opera come se rendesse possibile una trasposizione che mantiene delle formalità religiose […]»53. Ciò permetterebbe «un nuovo funzionamento delle strutture fino allora caratteristiche del cristianesimo, ormai liberate dai loro contenuti ideologici o pratici, e reinterpretabili – e persistenti anche – nel linguaggio della “politica”, della “coscienza” o del “progresso”»54. Ciò si esplicita in modo evidente nel «soggetto della scienza», che «si organizza ancora secondo le formalità proprie delle varie figure storiche dell’esperienza cristiana moderna»55. Ma, continua de Certeau, è «senza dubbio inesatto pensare ancora queste formalità come “religiose” poiché esse appunto cessano di esserlo [nel luogo del loro contenuto] e in un certo senso si potrebbe considerare il tempo del loro “riempimento” religioso come un momento nella storia di queste forme culturali»56. Grazie a questa distinzione tra forma – formalità – e contenuto – riempimento –, de Certeau mette in campo un modello di lettura della transizione dell’età moderna che presenta alcune analogie con il funzionalismo storico di Blumenberg. 50

M. de Certeau, Christianisme et “modernité” dans l’historiographie contemporaine, cit., p.

51

M. de Certeau, La scrittura della storia, cit., p. 172. M. de Certeau, Christianisme et “modernité” dans l’historiographie contemporaine, cit., p.

25. 52

25. 53

M. de Certeau, La scrittura della storia, cit., p. 191. Ibid. 55 Ibid. 56 Ibid. 54

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Il filosofo tedesco utilizza un modello di lettura delle svolte epocali basato sulla differenza tra contenuto e funzione. Sotto questo aspetto, la transizione dell’età moderna è una ripresa di «funzioni esplicative»57 di senso del sistema cristiano di interpretazione attraverso nuovi contenuti: «In determinati luoghi del sistema di interpretazione del mondo e di sé da parte dell’uomo, contenuti del tutto eterogenei possono appunto assumere funzioni identiche»58. Blumenberg si avvale della metafora spaziale dei luoghifunzionali del sistema di interpretazione del mondo. Nel sistema vi sono luoghi del senso determinati, in cui operano degli equivalenti funzionali. Qui la funzione rappresenta il posto insaturo di senso storico che, come un contenitore antropologicamente vuoto, dovrà essere occupato o riempito da un nuovo contenuto. Oltre le soglie tra diverse epoche della coscienza, infatti, la continuità del processo temporale della storia è assicurata non dalla sopravvivenza di contenuti ideali ma dall’ipoteca di questioni insolute, sotto forma di aspettative e bisogni precostituiti – sopravvivenza di funzioni di senso – che un’epoca declinante prescrive all’originarsi della nuova. Il contenuto che s’impone nel processo storico del pensiero è la risposta che, risolvendo le domande insolute originate dalla tradizione, occupa o rioccupa il posto o il luogo insaturo di senso della funzione. Esemplare è il caso dell’idea di progresso che, legata a un’origine laica, viene spinta a una generalizzazione tale da consentirle di rioccupare attraverso un nuovo contenuto di senso la funzione di orientamento generale svolta dalla storia della salvezza: «[…] l’idea di progresso viene spinta a una generalizzazione che eccede il suo ambito enunciativo originariamente limitato regionalmente e legato a un oggetto preciso. Come una delle possibili risposte alla questione dell’insieme della storia, essa fu implicata nella funzione della coscienza che era stata svolta dal quadro della storia della salvezza tra creazione e giudizio universale»59. Sul piano della teoria dell’evoluzione si ha quella che in Höhlenausgänge Blumenberg definisce come la sopravvivenza delle transizioni (das Überleben der Übergänge), per cui la nuova epoca (o il nuovo biotopo) ha la necessità di riacquisire e di rioccupare – la formula usata è Struktur der Umbesetzung60 – la densità del senso storico dell’epoca precedente: «Per perdurare nelle sue forme superiori e tarde la vita deve ritrarsi continuamente alle sue forme inferiori e anteriori. L’evoluzione è un’incur57 H. Blumenberg, Die Legitimität der Neuzeit, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1988, trad. it. di C. Marelli, La legittimità dell’età moderna, Marietti, Genova, 1992, p. 74. 58 Ivi, p. 70. 59 Ivi, p. 55. 60 «Il recupero cristiano dell’Antichità e la ripresa moderna di funzioni esplicative del sistema cristiano sono, dal punto di vista strutturale, processi storici largamente analoghi. Come il Cristianesimo patristico si presenta nel ruolo della filosofia antica, così la filosofia moderna sostituisce ampiamente la funzione della teologia […]»: ivi, pp. 74-75.

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sione in possibilità sconosciute nelle quali si può avanzare ben riparati se si sostengono le posizioni di retroguardia in cui rifugiarsi»61. Ci sono gli elementi per cogliere un rapporto di analogia tra l’avvicendarsi delle forme culturali individuate dall’archeologia di de Certeau e la formazione delle soglie epocali pensate da Blumenberg. Questo rapporto è dato da un principio di sopravvivenza formale/funzionale dell’evento del passato all’interno del nuovo, per cui nel modello temporale di de Certeau l’originarsi della dimensione laica del senso è il «reciproco del processo che, lo si è visto, fa funzionare le manifestazioni religiose secondo delle formalità politiche»62. Ad agire all’interno del soggetto della storiografia contemporanea è una sopravvivenza formale, in quanto la possibilità conoscitiva del criterio oggettivo è appunto orientata da una formalità di origine religiosa. Come si è più volte fatto notare, secondo de Certeau la sociologia fa risorgere nel proprio criterio scientifico un’antica organizzazione storica della coscienza cristiana: 61 H. Blumenberg, Höhlenausgänge, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1989, p. 71. La sopravvivenza delle transizioni (Das Überleben der Übergänge) è il titolo del secondo paragrafo della prima parte dell’opera dedicata alle caverne della vita (Die Höhlen des Lebens). Qui Blumenberg discute un’affascinante teoria dell’evoluzione applicata alla descrizione delle sopravvivenze nelle transizioni epocali. Essa si basa su alcune suggestioni e intuizioni della psicoanalisi classica di Ferenczi e della teoria della ricapitolazione di Haeckel. In Versuch einer Genitaltheorie (pubblicato a Leipzig nel 1924 come volume 15 della Internationale psychoanalytische Bibliothek), Sandor Ferenczi ha discusso l’ipotesi delle regressione talassale, secondo cui ci sarebbe un desiderio di tutte le creature viventi di ritornare all’oceano primordiale. Una serie di catastrofi geologiche avrebbe imposto agli organismi nuovi adattamenti, ma allo scopo di ristabilire al più presto possibile nei nuovi ambienti di vita l’antica condizione di quiete del grembo marino. Secondo Ferenczi, il sonno e il coito, come lo sviluppo di un sacco amniotico e, in senso più generale, la fecondazione interna e lo sviluppo intrauterino, sarebbero tutte forme di organizzazione che tendono a ristabilire la fase evolutiva dell’oceano primordiale. Blumenberg sostiene appunto come ipotesi di ricerca che la transizione dal mare alla terra dei primi organismi viventi deve aver prodotto un trauma così violento da sedimentarsi per sempre nel patrimonio mnemonico e filogenetico di ogni forma di vita: «L’affermazione secondo cui esisterebbe una memoria della specie come degli individui non è né dimostrabile né confutabile; essa però ci apre un accesso alla comprensione dei fenomeni. […] la transizione dal mare alla terra deve essere stato un abbandono della forma tridimensionale del movimento nella transizione alla bidimensionale, completamente dominato innanzi tutto dalla sensazione avvertita per la prima volta della pesantezza del corpo» (Ivi, p. 23). Analogamente sul piano antropogenetico l’essere preumano, abbandonando la selva primigenia che si stava diradando e in cui viveva protetto, si trovò esposto ai rigori della realtà del paesaggio aperto della savana, oltrepassando così una soglia paragonabile a quella tra mare e terra. Al fine di trovare un riparo e di sottrarsi il più possibile al duro “realismo” dello spazio aperto, esso s’insediò nelle caverne, creando così la cultura. Questo nuovo insediamento deve essere inteso «come riconquista del biotopo perduto in un nuovo addensamento» (Ivi, p. 25). È sullo sfondo di queste originarie transizioni da un biotopo all’altro che va collocata la teoria della soglia epocale (Epochenschwelle) e della rioccupazione. 62 M. de Certeau, La scrittura della storia, cit., p. 192.

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In ogni studio che le è dedicato, la religione presenta, fin dal XVIII secolo, questa ambiguità del suo oggetto: ad esempio, il suo passato viene spiegato volta per volta dalla sociologia che tuttavia esso ha organizzata, e considerato come la spiegazione di questa sociologia che gli è stata sostituita.63

Quello che perciò si produce come nuovo sul piano storico, scrive de Certeau, «obbedisce ancora ai principi di quello che sostituisce»64, grazie a un principio di sostituzione per cui le formalità delle pratiche di origine laica si inverano nella religione, laddove le «formalità religiose»65 strutturano il senso del linguaggio della scienza e del progresso. È proprio questo principio di sostituzione ciò che più si avvicina al modello di temporalità storica proposto da Blumenberg.

63

Ivi, p. 191. Ivi, p. 192. 65 Ivi, p. 191. 64

Stefano Selenu∗

Elaborando le tracce della storia. Linguaggio, metafora e alterità in Antonio Gramsci

[...] la mia esistenza è stata, bruscamente e con non poca brutalità, costretta in una direzione data da forze esterne e i limiti della mia libertà sono stati ristretti alla vita interiore e la volontà è diventata solo volontà di resistere. Antonio Gramsci, Lettere dal carcere, 25 gennaio 1936.

L’opera carceraria di Antonio Gramsci costituisce tanto una riflessione caleidoscopica sulla storia italiana, europea e mondiale1, quanto una personalissima lotta di rigenerazione dal trauma di un rivoluzionario sconfitto nella lotta politica di breve periodo. Tanto i Quaderni del carcere quanto le Lettere dal carcere intessono e traducono nella scrittura un processo di rielaborazione critica in cui esperienza vissuta, lotta politica e lavoro intellettuale operano in maniera inscindibile. Gramsci si sforzò continuamente, anche nei momenti più difficili della sua vita carceraria, di riformulare criticamente il proprio pensiero precedente la detenzione e di elaborare (working through-and-out) il trauma della sconfitta senza recitarlo subendolo passivamente (acting out)2. Da questa prospettiva l’attività di lettura, ∗ [Brown University]. Sebbene io sia l’unico responsabile di quanto è scritto in questo articolo, ringrazio Joseph Buttigieg, Monica Facchini e Lorenzo Benadusi per i loro utili consigli. Ringrazio anche Barnaba Maj per avermi invitato a scrivere questo articolo. 1 Per un’attenta indagine sulla riflessione gramsciana sulla storia si veda A. Burgio, Gramsci storico. Una lettura dei «Quaderni del carcere», Laterza, Roma-Bari, 2003. 2 Mi riferisco alla distinzione di origine freudiana tra working through e acting out ripresa in ambito di teoria della storiografia da Dominick LaCapra. I due concetti riguardano due diverse modalità di rapportarsi al trauma. Il trauma viene definito da LaCapra come un’esperienza-fuori-contesto (out-of-context-experience) in cui nel soggetto traumatizzato opera una disgiunzione tra dimensione cognitiva e percettiva che genera una perdita relativa dei punti di riferimento utili e necessari per elaborare la propria esperienza del mondo. Nel concetto di working through espresso da D. LaCapra, Writing History, Writing Trauma, The Johns Hopkins University Press, Baltimore and London, 2001, p. 70 e History in Transit. Experience, Identity, Critical Theory, Cornell University Press, Ithaca, 2004, p. 119, innesto il concetto gramsciano di «elaborazione» (working out) ripreso poi da E. Said in The World, The Text, the Critic, Harvard University Press, Cambridge (MA), pp. 170-172 e G.C. Spivak, Subaltern Studies: Deconstructing Historiography, in R. Guha e G.C. Spivak, eds., Selected Subaltern Studies, Oxford University Press, Oxford-New York, 1988, p. 5. Il working through-and-out costituirebbe il processo di interpretazione e rielaborazione degli eventi traumatici nel senso di una ri-

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pensiero e scrittura gramsciana assume un rilievo particolare. Il suo atto di lettura e scrittura si configura come un unico momento di espansione nel pensiero dell’orizzonte del suo mondo fisicamente ristretto e rinchiuso dalla prigionia3. Gramsci stesso nei suoi scritti descrive i vari effetti che la vita carceraria aveva sui detenuti e osservava meticolosamente e con particolare autoironia i cambiamenti che la detenzione operava su di lui. Basti ricordare i suoi commenti sulla vita «fuori da ogni esperienza normale di umana convivenza»4 nella colonia penale di Ustica, in cui, per la prima volta nella sua vita, scopre dall’interno della prigione gli effetti di «abbrutimento fisico e morale»5 e di annientamento della personalità causati dalla detenzione; o ancora, la definizione del carcere come «una lima così sottile che distrugge completamente il pensiero»6. O gli autoironici riferimenti nelle Lettere alla «carcerite», cioè a quell’eccesso di attenzione per i dettagli a cui lo aveva costretto la vita ristretta della detenzione e che, mescolato al suo metodo di lettura filologica dei fatti appreso durante gli studi universitari7, diveniva spesso un modo eccessivamente disciplinato, distaccato e pedantesco di sentire, capire e riflettere. O ancora alla serie di «rotture dei fili affettivi» tra il carcerato e le persone a lui care che il carcere in modi diversi imponeva loro8. Gramsci reagì agli effetti del trauma della prigionia non solo a un livello psicologico-emotivo. L’elaborazione del trauma del carcere coinvolse, infatti, l’intero programma di studi da portare avanti negli anni di detenzione. Tale programma, delineato per la prima volta nella lettera del 19 marzo 1927 alla cognata Tania Schucht, e modificato diverse volte durante gli anni, era in un semantizzazione dell’accaduto che apre nuove possibilità di giudizio critico intorno all’esperienza umana di chi ha subito il trauma storico. L’acting-out al contrario si configura come un processo di arresto, in cui il traumatizzato, ripetendo compulsivamente il passato, viene da esso bloccato e posseduto. 3 Secondo Nereide Rudas la dimensione di limitazione e privazione psico-somatica che avrebbe spinto Gramsci a espandere nel pensiero l’orizzonte del suo mondo, è legata tanto all'esperienza spaziale e temporale data dalla dimensione insulare della vita vissuta da giovane in Sardegna, quanto poi all’esperienza del carcere che lo privò della possibilità di espandere i propri movimenti e interazioni spaziotemporali nel mondo. Cfr. N. Rudas, Reclusione, solitudine e creatività in Gramsci, in E. Orrù e N. Rudas, a cura di, Il pensiero permanente. Gramsci oltre il suo tempo, Tema, Cagliari, 1999, pp. 310-333. 4 A. Gramsci, Lettere dal carcere, a cura di A. A. Santucci, Sellerio, Palermo, 1996, vol. 1, p. 77. 5 Ivi, p. 28. 6 A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino, 1975, Q 9, § 51, p. 1126. 7 Significativi a riguardo gli insegnamenti del linguista Matteo Bartoli, del dantista Umberto Cosmo e del filosofo Annibale Pastore. 8 A. Gramsci, Lettere dal carcere, cit., vol. 2, p. 441.

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certo senso un atto di risposta al carcere, in quanto in grado di assorbire e centralizzare la «vita interiore»9 del detenuto. Lo studio e l’elaborazione critica portati avanti nelle carceri fasciste spinse Gramsci a cercare di narrare in modo nuovo i concetti e le pratiche di costruzione e decostruzione ideologico-concettuale, a percorrere svariati percorsi tra numerosi discorsi e spazi di ricerca nei più disparati ambiti del sapere e della vita quotidiana, a scrivere un continuo dialogo diretto verso un altro da sé dislocato in uno spazio e in un tempo indefinito rispetto a quello definito dal carcere10. Il linguaggio stesso, quindi, diviene nell’opera gramsciana strumento di lotta politica e di analisi psicologico-filosofica, oggetto di studio e mezzo per un dialogo con il mondo esterno al suo vissuto spaziotemporalmente imprigionato. I percorsi di lettura, pensiero e scrittura di Gramsci aprono continuamente verso la possibilità di «pensare in un altro modo». Per usare la stessa metafora che Michel de Certeau usò per Michel Foucault, Gramsci fu un grande «viaggiatore clandestino»11. Il suo viaggio contro-autorità, guidato dalla bussola di una filosofia critica della prassi, percorse in diacronia e sincronia i vari meandri della storia italiana, europea e mondiale. Con l’ausilio di diversi stimoli di pensiero datimi dalla lettura di Michel de Certeau, in questo articolo cercherò le tracce di questo viaggio lasciate da Gramsci in alcune isole e terre di quel vasto e variegato continente labirintico costituito dai Quaderni e dalle Lettere dal carcere. La prima isola del continente gramsciano su cui rifletterò riguarda l’idea di coscienza e di elaborazione critica espressa nei Quaderni. La coscienza in Gramsci non è più intesa come principio fondativo della conoscenza umana, ma come il momento iniziale per l’elaborazione delle infinite tracce che la storia ha depositato in noi. Gramsci anticipando, come ha sostenuto Peter Ives12, le tante svolte linguistiche che caratterizzarono il secondo Novecento, non scinde la questione della coscienza da quella linguistica. L’elaborazione critica è, infatti, strettamente legata all’inventariazione ed elaborazione delle tracce storiche conservate nelle lingue e linguaggi da noi usati,

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Ivi, v. 1, p. 55. È stato merito di Valentino Gerratana aver messo in particolare luce questo carattere dialogico del pensiero gramsciano. V. Gerratana, Gramsci. Problemi di metodo, Editori Riuniti, Roma, 1997, p. XIII. Cfr. anche Giorgio Baratta, Le rose e i quaderni. Sul pensiero dialogico di Antonio Gramsci, Carocci, Roma, 2003. 11 M. de Certeau, Histoire et psychanalyse entre science et fiction (1987), trad. it. di G. Brivio, Storia e psicanalisi. Tra scienza e finzione, Bollati Boringhieri, Torino, 2006, p. 122. 12 P. Ives, Language and Hegemony in Gramsci, Pluto, London, 2004 e Gramsci’s Politics of Language. Engaging the Bakhtin Circle and the Frankfurt School, University of Toronto Press, Toronto, 2004. 10

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in quanto «il linguaggio è insieme una cosa vivente e un museo di fossili della vita e delle civiltà passate»13. Rifletterò non solo sulla teoria gramsciana ma anche sul modo aperto e multidirezionale con cui Gramsci indaga e rielabora le tracce storiche depositate nella sua coscienza. Per fare questo, analizzerò la discussione sull’antisemitismo portata avanti nelle Lettere da Tania Schucht, Gramsci e Piero Sraffa, in quanto costituisce un ottimo esempio attraverso cui osservare più da vicino il complesso intreccio tra operazione di smascheramento dell’ideologia e critica di ogni rappresentazione essenzializzante dell’altro operata attraverso l’inventariazione e l’analisi delle tracce depositate nel linguaggio e nel vissuto di quello che de Certeau chiama «soggetto del sapere»14. La relazione tra storia e linguaggio sarà il ponte tra la prima e la seconda isola, che riguarda l’idea di linguaggio come «continuo processo di metafore»15. Gramsci non intende la metafora come semplice espediente stilistico del soggetto individuale, ma come motore stesso del linguaggio. L’affermazione secondo cui il linguaggio è sempre metaforico rivela, inoltre, che ogni espressione e lingua è sempre storicamente aperta verso un’alterità che rivela e permette il cambiamento del linguaggio e la decostruzione/costruzione delle egemonie culturali e politiche. Il modo di leggere, pensare e scrivere di Gramsci indica una continua apertura ordinata, ma non preordinata, verso le idee, le parole, le azioni, gli attori e le pratiche linguistico-intellettuali con cui gli esseri umani si rapportano e si organizzano tra di loro nella società. Infine, metterò in evidenza l’aspetto rizomatico, labirintico e aperto del corpus di scritti che Gramsci ci ha lasciato. Il carattere aperto e multidirezionale del pensiero dialogico gramsciano rende difficilmente accettabile l’idea dell’esistenza nella sua opera di una omologante Ideologia-baricentro, di cui Gramsci stesso fu nella sua esistenza strenuo critico. Infatti per lui, la filosofia della praxis è una riforma e uno sviluppo dello hegelismo, è una filosofia liberata (o che cerca liberarsi [sic]) da ogni elemento ideologico unilaterale e fanatico, è la coscienza piena delle contraddizioni, in cui lo stesso filosofo, inteso individualmente o inteso come intero gruppo sociale, non solo comprende le contraddizioni ma pone se stesso come elemento delle contraddizioni, eleva questo elemento a principio di conoscenza e quindi di azione16.

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A. Gramsci, Quaderni, cit., Q 11, § 28, p. 1438. M. de Certeau, Storia e psicanalisi, cit., p. 72-74. 15 A. Gramsci, Quaderni, cit., Q 11, § 28, p. 1438. 16 Ivi, Q 11, § 62, p. 1487. 14

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1. Coscienza, elaborazione critica e tracce storiche. La questione dell’antisemitismo e l’articolazione spaziotemporale della storia Toutes les civilizations, toutes les coutumes, toutes les conquêtes et tous les rêves de l’humanité ont laissé leur trace, qu’avec un peu d’attention l’on voit reparaître. Michel Bréal, Essai de sémantique.

La nascita della modernità filosofica coincide con il momento storico in cui la coscienza individuale diviene il concetto sovrano per la filosofia. In altre parole, la modernità inizia in filosofia quando la conoscenza del mondo diviene conoscenza da parte della coscienza del soggetto individuale. Tanto il razionalismo cartesiano, quanto l'empirismo inglese con Locke, Berkeley e Hume, sono intrisi di questo principio filosofico. Kant parla di una filosofia fondata sull’analisi delle forme a priori della conoscenza e dell’Io come di una rivoluzione copernicana della filosofia. L’idealismo tedesco, dopo Kant, torna con Fichte a problematizzare il rapporto dinamico tra l’Io e il non-Io, in cui l’Io ponendo il non-Io si separa da sé, per poi ritornare nuovamente a se stesso. L’idealismo hegeliano, attraverso le intuizioni fichtiane e schellinghiane, identifica la filosofia con la pratica speculativa attraverso cui la coscienza diviene autocosciente, ovvero la filosofia diviene la fenomenologia del divenire autocosciente da parte dello Spirito. Con Darwin, Marx, Freud e Nietzsche il principio-coscienza perderà, infine, lo statuto di concetto sovrano attraverso un fondamentale mutamento d’accento filosofico che dalla coscienza individuale porta all’indagine e definizione, rispettivamente, dei rapporti biologico-evolutivi dell’essere umano con il mondo animale (Darwin), dei rapporti sociali di produzione che condizionano e determinano la coscienza individuale (Marx), dell’azione dell'inconscio e frantumazione psicologica dell’Io (Freud), della volontà di potenza (Nietzsche). Anche in Gramsci la questione della coscienza si rivela come il punto di partenza per la sua riflessione critica. Infatti, riprendendo la prospettiva novalisiana e vichiana espressa nell’articolo Socialismo e cultura pubblicato nel 1916 su Il Grido del Popolo!, nel Quaderno 11 dedicato allo studio della filosofia, alla nota 12 Gramsci sostiene che l’inizio dell’elaborazione critica è la coscienza di quello che è realmente, cioè un “conosci te stesso” come prodotto del processo storico finora svoltosi che ha lascia-

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to in te stesso un’infinità di tracce accolte senza beneficio d’inventario. Occorre fare inizialmente un tale inventario17.

Da principio fondativo della conoscenza umana del mondo esterno, la coscienza diventa in Gramsci esperienza conoscitiva del sé e della storia. Il conosci te stesso di Socrate rivive in Gramsci come inizio dell’elaborazione critica che fa della coscienza individuale, esistente sempre nella collettività, un prodotto della storia che ha lasciato in ognuno di noi infinite tracce. Il primo atto critico e filosofico è per Gramsci quello di fare un inventario di queste tracce. La formula socratica del conosci te stesso, rimessa in gioco da Gramsci in un ideale dialogo con se stesso e con un tu immaginario, mira a storicizzare il nostro essere nel mondo, ossia a ricercarlo e ridefinirlo in maniera critica e consapevole nell’orizzonte delle infinite tracce depositate in noi dalla storia. Dunque, la coscienza di sé diviene l’apertura verso uno spazio plurale in cui le tracce storiche sedimentate in noi devono essere inventariate, cioè elaborate con metodo filologico. Questa opera d’inventariazione costituisce l’inizio dell’elaborazione critica che ogni essere umano dovrebbe imputare a se stesso in vista del cambiamento storico della società. L’idea secondo cui la coscienza di sé, attraverso l’imperativo etico ed epistemico del conosci te stesso, sia l’apertura alla memoria, cioè allo spazio in cui sono depositate un’infinità di tracce storiche, ci conduce a ripensare la nostra idea di storia e le nostre pratiche di comprensione storica, che ritraducono nella teoria e nella praxis il nostro rapporto con il processo storico in via di realizzazione. La questione delle pratiche storiografiche e teoriche si lega, quindi, alla questione della comprensione della nostra coscienza e al nostro modo di osservare e interpretare l’accaduto che, sebbene passato, non può essere considerato solo come una serie di eventi e cadaveri della storia. Degli eventi e dei morti, come ci ricorda anche The Dead di James Joyce, rimangono vive le infinite tracce depositate nella nostra coscienza e da lì si deve ripartire. La coscienza perde in Gramsci ogni forma di essenzialità e diviene, in vista di un profondo cambiamento sociale, uno spazio d’azione per l’indagine sulle tracce storiche depositate in ognuno di noi. Come appare chiaro anche dall’articolo Socialismo e cultura, la storia non è per Gramsci mera erudizione che si libra su un tempo svuotato di senso, ma si definisce come inizio dell’elaborazione critica. Un tale inizio è carico di messianismo, per dirla con Walter Benjamin18. Infatti, l’atto di inventariazione ha una carica di trasformazione tanto epistemologica quanto politico-sociale. Avendo un inventario delle tracce che costituiscono le nostre coscienze, siamo collocati 17

A. Gramsci, Quaderni, cit., Q 11, §12, p. 1376. Cfr. W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia, in Angelus Novus, a cura di R. Solmi, con un saggio di F. Desideri, Einaudi, Torino, 1995, pp. 75-86. 18

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in una posizione migliore per essere storicamente e politicamente attivi. Infatti, potendo narrare la storia a partire dalle tracce depositate in noi, possiamo rifiutare e criticare la narrazione storica imposta su di noi e, così facendo, riconoscerci come esseri umani che partecipano attivamente al farsi della storia. Attraverso la critica della filosofia e della storia finora svoltasi, secondo Gramsci, ogni traccia potrebbe da un momento all’altro divenire carica di senso e muovere verso la liberazione dall’oppressione e dalla subalternità. La critica mira in Gramsci alla costituzione di una concezione del mondo più coerente e, in quanto coerente, in grado di essere autonomamente pensata e non imposta meccanicamente. Infatti, dimostrato che tutti sono filosofi, sia pure a modo loro, inconsapevolmente, perché anche solo nella minima manifestazione di una qualsiasi attività intellettuale, il “linguaggio”, è contenuta una determinata concezione del mondo, si passa al secondo momento, al momento della critica e della consapevolezza, cioè alla questione: è preferibile “pensare” senza averne consapevolezza critica, in modo disgregato e occasionale, cioè “partecipare” a una concezione del mondo “imposta” meccanicamente dall’ambiente esterno, e cioè da uno dei tanti gruppi sociali nei quali ognuno è automaticamente coinvolto fin dalla sua nascita nel mondo cosciente [...] o è preferibile elaborare la propria concezione del mondo consapevolmente e criticamente e quindi, in connessione con tale lavorio del proprio cervello, scegliere la propria sfera di attività, partecipare attivamente alla produzione della storia del mondo, essere guida di se stessi e non già accettare passivamente e supinamente dall’esterno l’impronta alla propria personalità?19

Il nostro rapporto con la storia si lega strettamente al linguaggio e a quella pratica di elaborazione critica che ogni essere umano dovrebbe poter autonomamente portare avanti in modo da generare, senza coercizioni esterne, una dinamica «organizzazione del senso»20 che ha determinato storicamente i rapporti semantici nelle lingue e linguaggi usati. Dovrebbe, cioè, portare a una liberata e coerente concezione del mondo che permetta a tutti di partecipare attivamente alla vita reale della storia. Come esempio di questa pratica critica e di questa idea della filosofia della praxis, definita da Gramsci come una «filologia vivente» attenta all’«esperienza dei particolari immediati»21, basti pensare al modo in cui il filosofo-politico sardo riflette sulla questione dell’antisemitismo in Italia. Nel settembre del 1931, la cognata Tania Schucht scrive una lettera a Gramsci in cui, in seguito alla visione del film Due mondi del regista tedesco Ewald Andreas Dupont, sente l’esigenza di comunicare al cognato le sue 19

A. Gramsci, Quaderni, cit., Q 11, §12, pp. 1375-1376. M. de Certeau, Storia e psicanalisi, cit., p. 142. 21 A. Gramsci, Quaderni, cit., Q 11, § 25, p. 1430. 20

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idee intorno alla questione dell’esistenza di due razze diverse, quella ebraica e quella cristiana. Il film, infatti, mostra l’amore impossibile tra una ebrea polacca e un tenente austriaco, in quanto appartenenti a due mondi diversi. Tania nella lettera dice di condividere la tesi di base del film, secondo cui «il mondo di ciascuno era diverso da quello dell’altro, erano due razze diverse»22. Gramsci rispose che le affermazioni della cognata lo avevano «fatto strabiliare» e che «questo è un modo di pensare degno dei Centoneri, o del Ku-klux-klan americano o delle croci uncinate tedesche»23. Gramsci, in lettere successive, mise in evidenza che da tempo in Italia non esisteva un vero e proprio antisemitismo. La discussione si sviluppò in maniera intermittente, portandosi avanti per alcuni mesi, fino a quando, nel febbraio del 1932, Piero Sraffa da Cambridge fornì un ulteriore stimolo critico alla discussione sui Due mondi. La situazione degli ebrei in Italia indicata da Gramsci, secondo Sraffa, non era più interamente esatta, in quanto nella recente realtà italiana si stavano verificando nuove tendenze «dirette a fare di nuovo degli ebrei una comunità isolata»24. Gramsci, come chiarirà nella lettera a Tania dell’8 febbraio 1932, non voleva mettere in discussione la possibilità di esistenza di nuove tendenze antisemite, ma il fatto che per lui la condizione degli ebrei in Italia non costituiva una questione di esclusione della comunità per motivi razziali25. Nei diversi casi di esclusione di ebrei dalle funzioni pubbliche, Gramsci vede esempi politicamente molto importanti di creazione di paria civili, che però non erano ancora casi di un generalizzato stato di esclusione per motivi razziali di un’intera comunità religiosa da tutte le funzioni sociali e istituzionali. La creazione di paria civili spesso veniva operata, secondo Gramsci, per questioni di convenienza politica e interessi di potere e non per motivi di discriminazione razziale imposti e giustificati dall’opinione pubblica e dalla legge. Quello che Gramsci mostra di fare in queste lettere, quindi, non è liquidare la possibilità di esistenza di tendenze antisemite, ma «interrogare» e mettere in questione il ruolo del «soggetto del sapere»26 e criticare ogni forma di adesione acritica a una visione positivista delle culture fondata su un principio di discriminazione, essenzializzazione e stigmatizzazione dell’altro. Il pensiero gramsciano mira a mettere in dialogo, in comunicazione e in con22 A. Gramsci e T. Schucht, Lettere 1926-1935, a cura di A. Natoli e C. Daniele, Einaudi, Torino, 1997, p. 796. 23 Ivi, p. 801. 24 P. Sraffa, Lettere a Tania per Gramsci, introduzione e cura di V. Gerratana, Editori Riuniti, Roma, 1991, p. 42. 25 Gramsci, morto nel 1937, non conobbe la drammatica situazione creata dalla promulgazione delle leggi razziali fasciste del 1938. 26 M. de Certeau, Storia e psicanalisi, cit., p. 73.

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trappunto le differenze, non a essenzializzarle e naturalizzarle. Gramsci non sopportava «certa faciloneria superficiale e bohème che ha procurato tanti guai e ancora ne procura e ne procurerà»27 e critica il lorianesimo teorico, cioè l’assenza di pensiero critico e metodico, sottostante alle affermazioni semplicistiche di Tania, del film Due mondi e di molti intellettuali reazionari, travestiti, come Achille Loria e nipotini, di principi teorici presi dal socialismo e dal marxismo. Gramsci stesso chiese alla cognata di chiarificare che cosa intendesse con l’espressione due mondi. «Cosa vuoi dire con l’espressione “due mondi”? Che si tratta come di due terre che non possono avvicinarsi ed entrare in comunicazione tra loro? Se non vuol dire questo e si tratta di un’espressione metaforica e relativa, essa ha poco significato, perché metaforicamente i “mondi” sono innumerevoli»28. Aurelio Lepre nella sua biografia di Gramsci ha cercato di usare alcune di queste lettere sui «due mondi» per mostrare che Gramsci non riusciva, da una parte, a comprendere i sentimenti della cognata e, dall’altra, a comprendere la profondità della concezione dei due mondi e delle due razze. Questo perché, secondo Lepre, Gramsci era legato a un modo di pensare totalitario che mirava alla costruzione di una civiltà superiore in grado di omologare economicamente e culturalmente l’intera umanità e di eliminare i diversi «modi di comportarsi e di pensare»29 degli esseri umani. In realtà, la lettera del 12 ottobre 1931 a Tania, quella forse più interessante dell’intera discussione sui due mondi, non viene menzionata da Aurelio Lepre30. Questa lettera invece dovrebbe essere letta per intero nel suo flusso discorsivo, in quanto costituisce un interessantissimo esempio di quella «filologia vivente» che dà un senso concreto al pensiero mondano di Gramsci. Nella lettera, Gramsci mette in evidenza le varie posizioni prese dalla cognata nelle diverse lettere precedenti. Tania, infatti, passa da «un punto di vista che conduceva dritto all’antisemitismo» a «una concezione da nazionalista ebreo e da sionista» e, infine, a «dei punti di vista che sarebbero stati condivisi dai vecchi rabbini che si opposero alla distruzione dei ghetti, prevedendo che il venir meno di quelle comunità a territorio segregato a27

A. Gramsci, Lettere dal carcere, cit., vol. 2, p. 797. Ivi, p. 501. 29 A. Lepre, Il prigioniero. Vita di Antonio Gramsci, Laterza, Roma-Bari, 1998, p.170. Lepre dice che, secondo Gramsci, «l’ebraismo sarebbe scomparso così come il meridionalismo, perchè entrambi sarebbero stati superati, nell’ambito di una superiore civiltà mondiale, in cui non ci sarebbero più state differenze. In una società economicamente omogenea, e al suo massimo livello di sviluppo, tutti avrebbero avuto eguali modi di comportarsi e di pensare». 30 Anche Francesca Izzo nel suo studio su Gramsci e la questione ebraica trascura diversi aspetti della lettera. Infatti, con l’intento di «fissare il profilo della [...] teoria della storia e della politica» di Gramsci, Izzo limita la sua discussione quasi esclusivamente alla parte della lettera concernente la relazione tra Marx e Gramsci. F. Izzo, «I due mondi». Tatiana Schucht, Antonio Gramsci e Piero Sraffa sulla questione ebraica, «Studi storici», 2-3, 1993, p. 677. 28

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vrebbe finito collo snaturare la razza e coll’allentare i vincoli religiosi che la mantenevano come una personalità»31. Dopo aver esposto le diverse contraddizioni della cognata, Gramsci cerca di risolvere la questione dei due mondi usando tre argomenti. Il primo è di ordine generale e riguarda il fatto che la questione ebraica, come aveva argomentato Marx in Zur Judenfrage, si sarebbe dissolta con la dissoluzione della speculazione capitalista. Il secondo riguarda l’importanza «del riconoscimento del diritto per le comunità ebraiche dell’autonomia culturale (della lingua, della scuola, ecc.) e anche dell’autonomia nazionale nel caso che una qualche comunità ebraica riuscisse in un modo o nell’altro, ad abitare un territorio definito»32. Il terzo è una critica alla visione essenzializzante dell’ebreo depositata dalla propaganda ufficiale e clericale nella cultura cosacca. Questa critica, che riprende un motivo già espresso precedentemente nella lettera del 28 ottobre 193133, probabilmente mirava a colpire certe tracce ideologiche depositate dalla storia russa nella coscienza di Tania. Gramsci nella critica all’essenzializzazione dell’ebreo, mettendo in pratica l’idea secondo cui «la storia della semantica è un aspetto della storia della cultura»34, analizza il significato dei vari termini del sardo usati per denominare gli ebrei e delinea un contrappunto critico che mirava a mettere in evidenza il ruolo della propaganda politica nella formazione delle diverse concezioni del mondo dei sardi e dei cosacchi. Se questi ultimi erano stati indottrinati dalla propaganda ufficiale e clericale, in modo da pensare che gli ebrei fossero esseri mostruosi diversi per natura, i sardi non avevano subìto simili forme di propaganda e quindi «in Sardegna l’ebreo è concepito in vari modi [...]. Al contrario dei cosacchi i sardi che non sono stati propagandati, non distinguono gli ebrei dagli altri uomini»35. La lettera costituisce quindi una doppia confutazione alla biografia di Gramsci scritta da Aurelio Lepre. Da una parte, essa confuta l’interpretazione ideologica data alle lettere scritte da Gramsci alla cognata e, dall’altra, mette a dura prova la stigmatizzazione della sardità e di Gramsci che Lepre esprime quando dice che Gramsci «cercò allora, appellandosi alla ragione, di cancellare la sardità, ma la sua terra continuò a vivere nel sentimento e a essa pensò di tanto in tanto, specie nei momenti in cui il suo mondo di certezze razionali mostrava delle crepe»36. Gramsci, per mostrare la parzialità e 31

A. Gramsci, Lettere dal carcere, cit., vol. 2, p. 478. Ivi, p. 479. 33 Nella lettera Gramsci dice sarcasticamente «io penso al proverbio italiano (o francese): “grattate il russo e troverete il cosacco”; e molti cosacchi credevano come articolo di fede che gli ebrei avessero la coda». Ivi, p. 472. 34 A. Gramsci, Quaderni, cit., Q 11, § 28, p. 1438. 35 A. Gramsci, Lettere dal carcere, cit., vol. 2, p. 480. 36 A. Lepre, Il prigioniero, cit., p.11. 32

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il fondamento ideologico delle affermazioni della cognata, ripensa alla sua identità e, facendo un inventario della sua coscienza linguistica sarda, ragiona sulla «finzione»37 contenuta nell’argomentare della cognata. La lettera mostra la messa in pratica di quel metodo di articolazione spaziotemporale della storia38 e di elaborazione critica della propria concezione del mondo che libera le infinite tracce che la storia ha depositato in noi e apre verso uno spazio discorsivo alternativo. In questa lettera, lo spazio, il tempo e il linguaggio agiscono nell’inventariazione filologica delle tracce storiche come «prismi eterologici» (de Certeau), cioè come molteplici indicatori di concezioni alternative, plurali e differenziali del mondo. Se Lepre indica ideologicamente nel pensiero di Gramsci un pensiero svuotato dai sentimenti e antipluralista, in quanto fondato solo su un’ideologia e dogma comunista mirante all’omologazione economica e culturale dell’umanità39, la lettera del 12 ottobre, che secondo Gramsci avrebbe dovuto chiudere definitivamente la questione dei due mondi, mette in evidenza quanto vario, pluralista, aperto e mondano rimanga il suo metodo di pensiero. In questa lettera, il filosofo-politico sardo critica attraverso un contrappunto geografico e linguistico dislocato tra la Sardegna e la Russia la concezione del mondo essenzializzante, imprigionante e naturalizzante che supporta e permette l’antisemitismo. Fa questo partendo dalle tracce che la storia ha lasciato nella sua coscienza, nella lingua sarda e nella sua esperienza vissuta. La pratica storiografica in Gramsci si intesse al suo vissuto e rivela quella «mondanità» (worldliness) di pensiero, di cui Edward Said40, Joseph Buttigieg41 e Giorgio Baratta42 hanno diverse volte parlato, che mira a mostra37 M. de Certeau, Storia e psicanalisi, cit., p. 54. De Certeau definisce la finzione come «un discorso che “informa” il reale senza tuttavia pretendere di rappresentarlo o di farsene carico». 38 Il concetto di «articolazione spaziotemporale della storia» è un allargamento dell’espressione «an essentially geographical, territorial apprehension of human history and society» usata da Edward Said per definire l’opera gramsciana. Cfr. E. Said, Reflections on Exile, cit., p. 464. A differenza di altri marxisti, come Lukács, il cui materialismo storico rimaneva fondato su una dimensione esclusivamente temporale, secondo Said, Gramsci rivela una concezione maggiormente geografica e spaziale della storia e della società. In linea con quest’interpretazione di Said, ma tenendo in maggior conto rispetto a lui l’insegnamento della neolinguistica di Matteo Giulio Bartoli, che ebbe il merito di fare della linguistica «una scienza storica, le cui radici, sono da cercare “nello spazio e nel tempo”» (A. Gramsci, Quaderni, cit., Q 3, 74, p. 352), credo che si debba parlare di articolazione spaziotemporale della storia e della società. Sul Gramsci come teorico spaziale si veda anche B. Jessop, Gramsci as a Spatial Theorist, «Critical Review of International Social and Political Philosophy», 4, 2005, pp. 421-437. 39 A. Lepre, Il prigioniero, cit., p.170. 40 Si veda la relazione tra worldliness e anthropology messa in evidenza da Edward Said, Representing the Colonized, in Reflections on Exile, cit., p. 301. 41 Cfr. J. Buttigieg, The Exemplary Worldliness of Antonio Gramsci’s Literary Criticism, «Boundary 2», 2, 1983, 21-39. 42 G. Baratta, Le rose e i quaderni, cit.

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re le dislocazioni linguistiche e geografiche della cultura e a recuperare meticolosamente le tante storie inespresse, sedimentate in noi in infinite tracce. Per dirla ottimisticamente con Michel Bréal, con un po’ di attenzione filologica in più, queste tracce possono ancora essere portate alla luce. 2. Linguaggio, processi di produzione di metafore e alterità La massima parte di qualunque linguaggio umano è composto di metafore, perchè le radici sono pochissime, e il linguaggio si dilatò massimamente a forza di similitudini e di rapporti. Ma la massima parte di queste metafore, perduto il primitivo senso, son divenute così proprie, che la cosa ch’esprimono non può più esprimersi, o meglio esprimersi diversamente. Giacomo Leopardi, Zibaldone di pensieri

Merito indubitabile di Benedetto Croce fu l’aver sottoposto a dura critica l’impianto di pensiero positivista europeo egemone dalla seconda metà dell’Ottocento fino agli inizi del Novecento. Rinnovando la tradizione hegeliana e storicista, il pensiero crociano mina le basi del positivismo filosofico e linguistico. Tuttavia, pur criticando il paradigma naturalista del positivismo, Croce non rifiutò il fondamento stesso dell’idea positivista di scienza, cioè il concetto di verità43. Infatti, anche le critiche mosse da Croce alla corrente neogrammaticale intorno alla scientificità della grammatica e della linguistica conservano l’idea che la scienza affermi «leggi di verità»44. Se i positivisti pensavano che la linguistica fosse capace di scoprire vere e proprie leggi scientifiche di natura, Croce fece della linguistica una branca dell’estetica, togliendo così alla grammatica ogni valore teoretico e scientifico. Infatti, riducendo il linguaggio a puro momento espressivo del soggetto individuale, Croce relegava la grammatica esclusivamente al campo pratico, in quanto capace di dare solo delle regole utili per l’uso pratico della lin43 Anche secondo Derek Boothman, sulla concezione della scienza «l’idealismo crociano arriva a una posizione simile a quella del positivismo». Cfr. D. Boothman, Gramsci, Croce e la scienza, in R. Giacomini, D. Losurdo e M. Martelli, a cura di, Gramsci e l’Italia, Atti del Convegno Internazionale di Urbino, 24-25 gennaio 1992, La città del Sole, Napoli, 1994, p. 174. 44 B. Croce, Questa tavola rotonda è quadrata (1905), in Problemi di estetica e contributi alla storia dell’estetica italiana, Laterza, Bari, 19666 (19101), p. 174.

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gua45. Se da una parte il discorso positivista sosteneva una visione naturalistica del linguaggio, a fondamento del quale veniva posto l’apparato vocale dei parlanti, dall’altra, il discorso idealista crociano riduceva il linguaggio a un flusso di atti espressivi del soggetto individuale. Sia il positivismo che l’idealismo non ponevano al centro delle loro concezioni linguistiche l’idea secondo cui le lingue costituissero delle istituzioni sociali e storiche le cui radici fossero da trovare nello spazio e nel tempo. Attraverso la sua interpretazione critica del materialismo storico e l’eredità lasciata dalla linea di studi linguistici che da Graziadio Isaia Ascoli, Wilhelm Meyer-Lübke, Jules Gilliéron, Gaston Paris, Michel Bréal, Antoine Meillet porta alla neolinguistica di Matteo Bartoli, Gramsci, in maniera molto simile a quanto fece Vološinov in Russia46, mise in evidenza, contro il positivismo e l’idealismo, l’aspetto istituzionale, sociale, politico, culturale e storico delle lingue. Significativo in proposito il passo tante volte citato del Quaderno 29 in cui afferma che ogni volta che affiora, in un modo o nell’altro, la quistione della lingua, significa che si sta imponendo una serie di altri problemi: la formazione e l’allargamento della classe dirigente, la necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la massa popolare-nazionale, cioè di riorganizzare l’egemonia culturale47.

La critica gramsciana al positivismo e all’idealismo crociano e gentiliano pone al centro delle questioni linguistiche la dimensione politica e filosofica del linguaggio. A differenza dei positivisti, interessati alla scoperta di leggi naturali che regolano lo sviluppo storico delle lingue, Gramsci rivaluta l’aspetto culturale e semantico delle lingue, che le colloca nel divenire indeterminato della storia. A differenza degli idealisti, che rivalutarono l’aspetto elocutorio del parlante individuale, Gramsci rivaluta l’aspetto costitutivamente sociale, collettivo e storico dell’istituzione linguistica. Nel rivalutare la natura storica e socio-istituzionale delle lingue, egli ridefinisce anche la questione filosofica del rapporto tra linguaggio e mondo esterno. Infatti, nello stesso momento in cui nega l’esistenza della partenogenesi linguistica, cioè che una lingua nasca da un’altra lingua, e afferma che le lingue vengono innovate attraverso interferenze di culture diverse, afferma anche il carattere strutturalmente metaforico del linguaggio. La metaforicità del linguaggio, per Gramsci, così come già Michel Bréal aveva mostrato nel suo Essai de sémantique (1897)48, sta al fondamento del processo di trasformazio45

Ivi, p. 175. Su Gramsci e Vološinov si veda Peter Ives, Gramsci’s Politics of Language, cit. 47 A. Gramsci, Quaderni, cit., Q 29, § 3, p. 2346. 48 Gramsci cita il libro di Bréal nella nota 24 del Quaderno 11 dedicata appunto a «Il linguaggio e le metafore» : «S’il nous était possible de remonter plus haut dans le passé de l’humanité, nous trouverions sans doute, tout comme dans les langues que nous connaissons 46

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ne semantica delle lingue, cioè di creazione di nuove concezioni del mondo. La metafora, quindi, non è più intesa come espediente stilistico del soggetto individuale, ma come motore del linguaggio. In questo modo, la metafora assume una dirompente carica epistemologica e pratica. Il linguaggio, intanto, è sempre metaforico. Se forse non si può dire esattamente che ogni discorso è metaforico per rispetto alla cosa od oggetto materiale e sensibile indicati (o al concetto astratto) per non allargare troppo il concetto di metafora, si può però dire che il linguaggio attuale è metaforico per rispetto ai significati e al contenuto ideologico che le parole hanno avuto nei precedenti periodi di civiltà. Un trattato di semantica, quello di Bréal per esempio, può dare un catalogo storicamente e criticamente ricostruito delle mutazioni semantiche di determinati gruppi di parole. Dal non tener conto di questo fatto, e cioè dal non avere un concetto critico e storicista del fenomeno linguistico, derivano molti errori sia nel campo della scienza che nel campo pratico [...]49.

La carica critica, sia nel campo della scienza che in quello pratico, trasportata da una tale concezione critica e storicista del linguaggio è legata strettamente al fatto che la natura metaforica del linguaggio permette di segnalare la presenza in ogni forma linguistica di un’alterità. Ogni forma linguistica è, infatti, una «citazione»50 di un già-pensato e di un non-ancorapensato. Quest’atto di citazione nasconde al suo interno un paradosso che cercherò di comprendere attraverso uno degli esempi datoci da Gramsci nella già citata nota 24 del Quaderno 11. La parola «disastro», in questa nota, viene trattata da Gramsci come «evento aleatorio» (de Certeau), cioè come elemento indicatore di un altro da sé. La parola mostra di esprimere una dimensione semantica presente e, allo stesso tempo, di rimandare metaforicamente a una dimensione altra e passata. Sebbene nella mente del parlante tale rimando metaforico non sia consapevole, la parola «dis-astro» richiama alla mente una traccia della dimensione semantica passata che legava la parola all’astronomia/astrologia. Quindi, con la pronuncia della parola nel presente viene inconsapevolmente esclusa la dimensione semantica passata di cui però rimane traccia nella parola stessa. Questo perché il processo storico lascia nel linguaggio infinite tracce dei vari rapporti di dissociazione e associazione semantica operanti tra significanti e significati. Le tracce che mieux, la métaphore partout présente». «La loi des métaphores est la même que pour tous les signes. Une métaphore étant devenue le nom de l’objet peut de nouveau, partant de cette seconde étape, être employée métaphoriquement, et ainsi de suite». M. Bréal, Essai de sémantique. Science des significations, Monfort, Brionne, 1982 (18971), pp. 134 e 136. 49 A. Gramsci, Quaderni, cit., Q 11, § 24, p. 1427. 50 Uso la parola «citazione» nel senso dell’uso frequente che de Certeau fece di questa parola, in particolare quando, parlando di Foucault, egli dice che «questi segnali di un’alterità [...] erano per lui altrettante citazioni di un impensato»: M. de Certeau, Storia e psicanalisi, cit., p. 124.

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la storia lascia in noi portano testimonianza di questi rapporti. L’elaborazione critica, inventariando queste tracce, richiama alla mente e cita il complesso processo di rapporti di associazioni e dissociazioni semantiche. Con l’elaborazione critica, per dirla con de Certeau, «ciò che dev’essere ritrovata è un’organizzazione del senso, che ha determinato dei significati e alla quale ogni elemento rinvia nel momento in cui si riferisce ad altri»51. Il continuo processo di produzione di metafore che costituisce il dispositivo nascosto del linguaggio è permesso dalla compresenza in esso di due assi: l’asse storia passata-prassi nel presente e l’asse significato-realtà materiale. In che senso infatti la stessa parola «disastro» contiene dentro di sé una metafora? Nel senso che la nostra comprensione della parola è sincronicamente legata sia alle tracce che la storia ha lasciato in noi – cioè al significato etimologico e ai vari significati possibili trasportati storicamente dal significante dis-astro – che alla prassi comunicativa nel presente, cioè alle pratiche di domanda-risposta/stigmatizzazione semantica-chiarificazione logica che conducono i parlanti a costruire e decostruire continuamente i significati delle parole usate. L’azione bifronte e simultanea di perdita e acquisizione di significato tipico del processo metaforico insito nel linguaggio genera, pertanto, un rapporto continuamente aperto, dialogico e molteplice con il mondo. Permette, cioè, di pensare in altro modo e di trovare «zone di coerenza e al contempo [...] repentini cambiamenti»52. Questa apertura e molteplicità insita nel linguaggio si ritraduce e si genera nelle molteplici forme di grammatiche che gli esseri umani possono produrre. In realtà oltre alla “grammatica immanente” in ogni linguaggio, esiste anche, di fatto, cioè anche se non scritta, una (o più) grammatica “normativa”, ed è costituita dal controllo reciproco, dall’insegnamento reciproco, dalla “censura” reciproca, che si manifestano con le domande, “Cosa hai inteso, o vuoi dire?”, “spiegati meglio”, ecc., con la caricatura e la presa in giro, ecc.; tutto questo complesso di azioni e reazioni confluiscono a determinare un conformismo grammaticale, cioè a stabilire “norme” o giudizi di correttezza o di scorrettezza, ecc. Ma questo manifestarsi “spontaneo” di un conformismo grammaticale, è necessariamente sconnesso, discontinuo, limitato a strati sociali locali o a centri locali, ecc.53

Inoltre, il legame tra parola e cosa non è mai immediato, ma è sempre mediato dai rapporti tra i vari segni del sistema linguistico e dagli spostamenti semantici che il segno ha subito nella sua storia. Questi rapporti non sono stabiliti, come pensavano i positivisti, da leggi fonologiche stabili e date per natura, ma sono generati storicamente attraverso «tutto un complesso

51

Ivi, p. 142. Ibid. 53 A. Gramsci, Quaderni, cit., Q 29, § 2, p. 2342. 52

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di processi molecolari»54 che si verificano nella società e si ritraducono nella lingua. Il cambiamento semantico in una lingua, quindi, non è mai un atto neutro, ma è sempre un atto potenzialmente carico di conseguenze politiche (nel senso più largo del termine «politica», che investe cioè ogni possibile rapporto tra gli esseri umani). Il rapporto di alterità e distanza tra parola e cosa e tra passato e presente è, infatti, attraversato da innumerevoli azioni di interferenze e mediazioni politiche, culturali e psicologiche che conducono al continuo mutamento storico delle lingue. Su tale rapporto di mediazione tra parole, cose e concetti e tra passato e presente agiscono le egemonie culturali. Infatti, il dispositivo metaforico insito nel linguaggio genera ed è generato dalle dinamiche dell’egemonia politica e sociale. Il linguaggio ritraduce al livello culturale, in maniera complessa e molecolare, le trasformazioni nei rapporti politici dei gruppi sociali in gioco. Il dispositivo metaforico del linguaggio diviene quindi generatore di cambiamento storico e lente per l’osservazione fenomenologica di tale cambiamento. 3. Storie, intellettuali e mondanità Nel saggio Il riso di Michel Foucault, Michel de Certeau sostiene che il tipo di storia delineata da Foucault è una storia «senza eroi e senza nomi propri, una storia diffusa, anonima ed essenziale. Essa ha per oggetto le pratiche intellettuali, poiché queste si inscrivono nella rete dei mille modi di esercitare il potere»55. Con Foucault, continua de Certeau, l’oggetto della storia «dunque è mutato: non riguarda più direttamente degli attori, bensì delle azioni; non dei personaggi il cui profilo si staglia sullo sfondo della società, ma delle “operazioni” che, in un moto browniano, tessono e compongono il fondo della tela»56. Per rendere più evidente questo aspetto della storiografia à la Foucault, de Certeau usa la tecnica del «contrappunto critico»57. La diversità di Foucault diviene più evidente, nel momento in cui il suo interprete definisce con precisione il contrasto con altri autori. De Certeau schematizza brevemente la storia dell’idea di intellettuale riducendo il tutto al fatto che, a differenza di Foucault, diversi autori, riguardo alla questione del potere, hanno focalizzato la loro attenzione sugli intellettuali. Tra questi autori de Certeau menziona anche Gramsci, come figura autorevole che ha riflettuto e contribuito allo sviluppo della teoria e della storia degli intellettuali. Nel parlare di Gramsci, de Certeau, opera, con un gesto sbrigativo, una riduzione del concetto 54

Ivi, Q 29, § 3, p. 2345. M. de Certeau, op. cit., p. 131. Corsivi miei. 56 Ibid. 57 Ivi, p. 130. 55

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di intellettuale organico a intellettuale «lié au peuple par le “Prince moderne” qu’est le Parti»58. Una tale riduzione non permette di comprendere l’aspetto più importante della riflessione gramsciana sulle forme moderne di intellettuale. Le idee gramsciane sull’intellettuale moderno hanno il compito di riportare l’intellettuale nella società, cioè di «“ripoliticizzare” le scienze»59. Il partito stesso per Gramsci non è un individuo o un gruppo di individui esprimenti una serie di forze coercitive, ma un mito, un simbolo, una metafora in grado di co-involgere con-sensualmente le diverse volontà provenienti dalla società. L’idea di intellettuale articolata da Gramsci non serviva alla sottomissione strumentalizzante dell’intellettuale al partito, ma a ridefinire il ruolo della cultura e dei saperi nella società moderna, in modo da poter «riarticolare il loro apparato tecnico su quei campi di forza, all’interno e in funzione dei quali esso produce operazioni e discorsi»60. La riarticolazione tra saperi e poteri coinvolge, pertanto, la storicità del soggetto del sapere. Gramsci stesso nella nota 62 del Quaderno 11 esprime con piena consapevolezza la storicità del proprio pensiero61, come a confermare quanto de Certeau dice sul fatto che la «ripoliticizzazione» del sapere «consiste nello “storicizzare”» il proprio discorso, in modo da «restituire pieno significato alle forze attuali che presiedono alla organizzazione delle rappresentazioni del passato»62. Il pensiero del filosofo-politico sardo non mira mai a ridurre le dinamiche della storia, della cultura e della politica alle vicende di personaggi-attori, ma cerca di osservare «le parole, i parlanti e le cose» nella loro vasta complessità. La sua riflessione sugli intellettuali, quindi, si intreccia a infinite altre riflessioni, tra le quali di fondamentale importanza è quella sui modi di organizzare e trasmettere la cultura, cioè di costruire (e decostruire) l’egemonia culturale e politica attraverso quelli che Gramsci, seguendo l’insegnamento di Matteo Bartoli, chiamava «focolai di irradiazione di innovazioni linguistiche». Tra questi focolai di irradiazione quotidiana della cultura Gramsci ne indica almeno otto: la scuola, i giornali, gli scrittori d’arte e quelli popolari, il teatro e il cinema, la radio, le riunioni pubbliche di ogni genere, i rapporti di conversazione tra i vari strati della popolazione più colti e meno colti, i dialetti loca-

58 M. de Certeau, Histoire et psychanalyse entre science et fiction, présentation de L. Giard, Gallimard, Paris, 1987, p. 58. Anche se nell’originale francese si trova l’espressione usata da Gramsci di «moderno Principe», nella versione italiana essa è tradotta con «moderno sovrano». M. de Certeau, Storia e psicanalisi, cit., pp. 129-130. 59 Ivi, p. 70. 60 Ibid. 61 Cfr. A. Gramsci, Quaderni, cit., Q 11, § 62, pp. 1486-1490. 62 M. de Certeau, Storia e psicanalisi, cit., pp. 70-71.

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li63. Le pratiche linguistiche e culturali rimandano a loro volta alle istituzioni e ai metodi di costruzione delle egemonie che legittimano e delegittimano nella vita quotidiana metodi e modi di produzione di linguaggi, spazi, tempi, etc. In Gramsci, tuttavia, accanto alle analisi delle pratiche del micro-potere quotidiano e del macro-potere statale ed economico, non vengono meno gli esseri umani, le loro vite, le loro idee e le loro azioni. Per Gramsci, la storia rimane, vichianamente, una storia fatta dagli esseri umani. La riflessione gramsciana non si fissa mai attorno a un prestabilito baricentro univoco che riassuma il sapere in un’unica grande Idea. L’elaborazione critica appare come la pratica di riflessione teorica che apre allo spazio infinito delle tracce storiche agenti in noi senza beneficio d’inventario. In Gramsci la coscienza non si chiude nell’unicità definitoria del Cogito, dell’Idea e dell’Essere ma si apre alla ricerca delle infinite tracce lasciate dalla storia in ognuno di noi. La coscienza diviene l’apertura dello spazio d’azione delle e attraverso le tracce storiche. L’idea secondo cui la coscienza, attraverso l’imperativo etico ed epistemico del conosci te stesso, sia lo spazio in cui la storia deposita le sue infinite tracce ci conduce a ripensare la nostra idea di storia e le nostre pratiche di inventariazione e comprensione storica che ritraducono nella teoria e nella praxis il nostro rapporto con il processo storico in via di realizzazione. Anche il linguaggio in Gramsci non si solidifica mai nell’espressione di un’unica realtà e ideologia-baricentro. Essendo costitutivamente metaforico, esso rimanda infatti a un’alterità sempre presente nel rapporto tra passato e presente, parola e cosa. Questo rimando all’alterità permette la costruzione di sempre nuove forme di egemonia; ossia una continua opera di mediazione tra linguaggio e mondo che apre ogni sistema linguistico a una strutturale alterità spaziotemporale. Ogni parola, discorso e indagine si situa storicamente, si disloca nello spazio e nel tempo. La pratica storiografica connessa in Gramsci con quella linguistica, come ha mostrato anche l’analisi sulla questione dell’antisemitismo, non deriva da un’ideologia-baricentro ma dall’elaborazione critica del vissuto stesso dell’investigatore, che scava nelle tracce lasciate in lui dal processo storico. Il tessuto di idee ed emozioni contenuto nel corpus di Gramsci rivela un pensiero vario, pluralista e mondano (worldly) aperto al re-

63 A. Gramsci, Quaderni, cit., Q 29, § 3, p. 2344. La teoria linguistica di Gramsci non nasce solo dal terreno teorico, ma anche dall’esperienza pratica vissuta da Gramsci in vari momenti della sua esistenza. Si deve, infatti, ricordare che Gramsci scrittore si forma come critico teatrale e come giornalista. Inoltre, anche la sua attività di organizzatore culturale non può essere considerata secondaria. Infatti, l’esperienza giornalistica, in particolare quella dell’«Ordine Nuovo», e delle varie scuole fuori e dentro il carcere furono per lui dei momenti importantissimi in cui poté osservare direttamente le pratiche del potere linguistico e culturale nella vita politica quotidiana.

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cupero e alla citazione di storie implicite e inespresse che hanno lasciato in noi infinite tracce di memoria.

Barnaba Maj*

«Les traces de l’autre»: Robinson Crusoe e il problema della storia

Le teorie di Michel de Certeau riguardano certamente lo statuto della storiografia e sotto questo profilo s’inscrivono nella linea tracciata dal celebre saggio Le discours de l’histoire di Roland Barthes1 – che notoriamente ha fornito anche un importante contributo storico alla definizione della cruciale figura di Jules Michelet2 –, assai più che in quella con cui la teoria della connaissance historique (1954) di Henri-Irénee Marrou si ricollegava alla tradizione della comprensione storica aperta dai contributi di Raymond Aron. Ma esse riguardano anche e soprattutto lo statuto della storia e sotto questo profilo costituiscono forse il vertice del nominalismo storiografico (prospettiva condivisa da Marrou stesso). Proprio perché insiste sul carattere discorsivo della storiografia, questa concezione non dissolve la realtà storica riducendola all’operazione discorsiva della storiografia. Al contrario, mettendo in luce il carattere di finzione (nel senso istituzionale del termine) di questa operazione, le pone sempre di fronte il problema dell’alterità irriducibile della realtà storica. Cosa che de Certeau scopre proprio attraverso l’eterologia delle pratiche discorsive del misticismo seicentesco. Ma un modello analogico di scoperta dell’alterità è individuato da de Certeau nella letteratura e in particolare attraverso il Robinson Crusoe di Daniel De Foe, cioè un romanzo archetipico e fondante della moderna civilizzazione occidentale. In de Certeau, quindi, non si tratta del tradizionale rapporto storia-letteratura o della sua innovativa articolazione in Walter Benjamin3, ma di una funzione conoscitiva e rivelativa della letteratura stessa, attraverso cui si chiarisce il rapporto triadico (réel-signifié-signification) fra realtà storica e storiografia. Ciò che nella teoria della storia e della storiografia di Jörn Rüsen negli anni Ottanta del secolo scorso – dopo Metahistory (1974) di Hayden White, uno dei vertici della riflessione occidentale sulla storia insieme a Temps et ré* [Università di Bologna]. 1 In «Social Science Information», 4, 1967, ristampato in Id., Le bruissement de la langue. Essais critique 4, Seuil, Paris, 1984, pp. 163-177. 2 Michelet, Seuil, Paris, 1975. 3 Nel celebre saggio sulle Wahlverwandtschaften di Goethe si osserva che un testo letterario tanto più resiste nel tempo quanto più ha saputo assorbire in sé i temi profondi del proprio tempo storico. Ciò significa che il rapporto fra letteratura e storia va rovesciato: non si tratta di inserire la letteratura nella storia ma la storia nella letteratura.

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cit di Paul Ricœur – veniva definito come eccedenza della storia4, nella teorizzazione di Michel de Certeau (anteriore di circa un decennio) era molto più radicalmente definito non solo come alterità ma addirittura come l’assente della storia, titolo di un saggio del 19735 e di uno dei saggi teoreticamente più impegnativi raccolto in Histoire et psychanalyse entre science et fiction6. Questa differenza non dipende solo dalla diversità dell’orizzonte filosofico dei due studiosi ma anche e soprattutto dal fatto che mentre nella teoria di de Certeau il riferimento alla letteratura è costitutivo e determinante, in quella dello studioso tedesco è del tutto secondario. Per sua stessa ammissione, Rüsen conosce poco la teoria della letteratura. Il saggio di de Certeau ha il compito preliminare di situare i precedenti saggi della raccolta in uno spazio che si trova fra due differenti territori, «un entre-deux». È una regione platonicamente definibile come metaxu, che apre perciò due differenti prospettive. Come linea di confine, può assomigliare alla frontiera in cui si trova alla fine Charlot in Le Pèlerin (1923: The Pilgrim). L’evaso travestitosi da prete capita in un villaggio che lo scambia per il nuovo parroco. Egli assolve molto onorevolmente a questa funzione ma alla fine è riconosciuto e riacciuffato dallo sceriffo. Questi in fondo è convinto dell’onestà dell’evaso e quando durante il viaggio si trovano al confine con il Messico, lo invita a cogliere dei fiori «al di là del confine». L’evaso non capisce, esegue ma torna indietro. Allora lo sceriffo gli assesta un calcio e lo spedisce letteralmente al di là. Ora l’evaso ringrazia ma improvvisamente dalla macchia saltano fuori due banditi che si sparano addosso. L’evaso si allontana saltellando sulla linea di confine, un piede di qua e uno di là. Se seguissi questa linea di condotta, scrive de Certeau, eviterei le due polizie confinarie ma anche ogni serio confronto e allora si produrrebbe niente altro che una «subversion fuyante et atopique». Si tratta in realtà di altra cosa: «L’entre-deux est l’espace créé par une pratique de l’écart. Il correspond à un transit, passage d’un lieu à un “ailleurs” non encore identifiable»7. La «pratica del margine» corrisponde all’idea della «recensione/rendiconto». L’«altrove» 4 Cfr. B. Maj, Mutamento temporale ed eccedenza, Introduzione a Jörn Rüsen, La ragione storica. Lineamenti di un’istorica 1. I fondamenti della scienza storica, Aletheia, Firenze, 2001. 5 M. de Certeau, L’absent de l’histoire, Mame, Paris, 1973. 6 Per ragioni di filologia testuale qui facciamo riferimento alla Nouvelle édition revue et augmentée. Précédé de Un chemin non tracé par Luce Giard, Gallimard (folio histoire), Paris 2002 (d’ora in poi in sigla = HP – L’absent de l’histoire corrisponde al capitolo 8, pp. 208-218). La prima edizione francese del 1987 faceva riferimento all’edizione americana, University of Minnesota Press 1986. Sull’edizione riveduta del 1987 si basa M. de Certeau, Storia e psicoanalisi. Tra scienza e finzione, trad. it. di G. Brivio, Bollati Boringhieri, Torino, 2006, pp. 182-191 (d’ora in poi in sigla = SP). 7 HP, p. 208 – SP, p. 182: «Lo spazio intermedio è quella regione cui dà vita una pratica “del margine”: essa corrisponde a un transito, al passaggio da un luogo a un “altrove” non ancora identificabile». «Ailleurs» è termine introdotto da Barthes.

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non ancora identificabile si situa in primo luogo nell’operazione del «commento a un testo». La premessa è che «Le commentaire n’a plus pour fonction d’exhumer du texte, ou de chose dont il parle, une vérité que ne serait le “fond”…»8. Come Benjamin, de Certeau parla evidentemente di commento ai testi e alla realtà. L’operazione del commento non consiste più nell’avviluppare il nobile «marmo» di un testo o una realtà di fondo significata. Essa consiste invece in una serie di operazioni, in cui i luoghi che nella loro stessa relazione rendono possibile la scrittura e la lettura si generano reciprocamente. Questo rapporto si modifica ulteriormente grazie all’attività tecnica che produce il libro, il quale a suo volta modifica il lettore. Si crea così un luogo in cui non c’è un accumulo di saperi censito come punto da cui il sapere può parlare ma l’enunciazione stessa è soggetta a un’alterazione tale da cambiare il sapere stesso e il luogo con cui è collegato. Se questo riguarda il commento in generale, «Ayant pour objet l’histoire, ces opérations participent ansi à l’histoire. Elles inscrivent dans l’historiographie un travail de l’histoire»9. Il loro compito, dunque, è quello di inscrivere nella storiografia ciò che resta sempre un lavoro della storia. Se questo evita di cadere nel puro soggettivismo storiografico, si tratta d’altra parte di evitare che l’idea del «lavoro della storia» postuli una generica metafisica della storia. Perciò de Certeau si preoccupa di osservare che queste operazioni restano letterarie. Ma con la loro stessa attività «elles perturbent l’immuabilité d’une place où la connaissance prétendrait s’accumuler sans changer de locuteur ni de gestionnaire»10. In modo discreto, esse mettono anche in discussione l’uso del criterio della competenza – quello che prevede il buon autore e il buon lettore che lo giudica –, per sostituirlo con il criterio oggettivo della alterazione reciproca prodotta dall’operazione stessa. In questo consiste appunto il «lavoro della storia». Questa alterazione è la marca più pertinente di un déplacement opératoire rispetto al livello in cui si situa quanto viene definito «le compte rendu» (recensione). Questo termine, osserva de Certeau, «sous-tend l’idéologie d’une activité justicière et justificatrice, fondée sur le préjugé d’une réalité donnée à la compétence»11. Appunto in quanto «marca», essa indica un continuo la8

HP, pp. 208-209 – SP, ibid.: «La nota del recensore non ha più la funzione di far emergere dal testo, o dalla cosa di cui si sta parlando, una verità che ne costituirebbe il “fondamento” [...]» L’uso metaforico di exhumer (riferimento al mondo dei morti) è sistematico in de Certeau. 9 HP, p. 209 – SP, p. 183: «Avendo come oggetto la storia, tali operazioni partecipano di essa, inscrivendo, all’interno della storiografia, un lavoro della storia medesima». 10 Ibid. – SP, ibid.: «contribuiscono già a scalfire l’immutabilità di un ambito in cui la conoscenza si accumulerebbe senza cambiare mai di detentore né di locutore». 11 Ibid. – SP, ibid.: «sottintende l’ideologia di un’attività giudicatrice e giustificatrice, basata sul pregiudizio di una realtà offerta a una competenza».

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voro dei testi fra loro – mediato dalle stesse dislocazioni successive prodotte da questa operazione. Non c’è dunque più il disvelamento di idee o di fatti di cui i libri e i documenti sarebbero i segni. Queste operazioni non hanno mai una fine né un fine – cioè una teleologia che permetterebbe di giudicarle basandosi su un certo momento storico. Attraverso esse, «un travail de l’histoire fait retour dans l’historiographie»12. Anche i saggi precedenti, con le loro citazioni e riferimenti sono dei comptes rendus. Ma il loro senso è quello di permettere un «“travail sur la limite”», scrive de Certeau citando dal capitolo «Faire de l’histoire» del suo L’écriture de l’histoire13. Questo lavoro consiste in una presa di distanza – un sorta di straniamento14 – rispetto alle opere su cui si compiono le operazioni storiografiche, trasformandole così in pré-textes. Perciò la scrittura che si genera su di esse le sposta verso qualcosa che, per i loro stessi limiti, esse designano proprio nel rifiutarsi di dirlo: «un hors-texte»15. Ciò che il libro di partenza ha circoscritto si trova così come doppiamente circondato. In primo luogo, per il fatto stesso che l’esistenza di questa scrittura seconda (appunto la recensione-rendiconto), aggiunta alla prima, «signe du rapport que le texte initial entretient avec une lecture, c’est-à-dire avec son dehors social et scientifique»16. In secondo luogo, per l’effetto di movimento che in ciascuno di questi libri si articola su ciò che ognuno di essi non dice: «ses conditions de possibilité, les exclusions que postule une rigeuer, la réalité même à la quelle il se substitue en la faisant jouer comme son référent, en somme l’autre du texte»17. Ma questa alterità riferita alla pratica testuale implica anche un’altra questione che, indipendentemente dalle modalità, riguarda il discorso storiografico: «l’histoire implique une relation à l’autre en tant qu’il est l’absent, mais un absent particulier, celui qui “a passé”, comme le dit la langue populaire. Quel est donc le statut de ce discours qui se constitue en parlant de son autre? Comme fonctionne cette hétérologie qu’est l’histoire, logos de l’autre?»18 La risposta a questa questione si trova nel saggio citato di L’écriture de l’histoire. Ma qui de Certeau la pone per vedere come essa risale sempre «dans

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HP, p. 210 – SP, ibid.: «un lavoro proprio della storia riconfluisce nella storiografia». Gallimard, Paris, 1984³. 14 Il termine distantiation qui usato da de Certeau è lo stesso usato in francese per tradurre il termine brechtiano Verfremdungseffekt: effet de distantiation. 15 HP, p. 210. 16 Ibid. – SP, p. 184: «segno del rapporto che il testo iniziale intrattiene con una lettura, vale a dire con il suo ambito sociale e scientifico». 17 Ibid. – SP, ibid.: «le loro condizioni di possibilità, le esclusioni imposte da un certo rigore, la realtà stessa alla quale il libro si sostituisce facendola valere come proprio referente, ovvero come l’altro del testo». 18 HP, pp. 210-211 – SP, ibid.: «la storia implica una relazione con l’altro in quanto assente, ma un assente particolare, che, come si dice nel linguaggio comune, “è passato”». 13

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le récit, toujours didactique, de l’histoire»19. Questa visibilità si rende tangibile attraverso il confronto fra discorso filosofico e discorso storico. La definizione del primo come discours hénologique – hénos: l’uno – è di grande interesse. Da molto tempo il discorso filosofico ha postulato un’esclusione e ha fondato il suo rigore dando a se stesso «un insurmontable». È un pensiero che accede alla discorsività, ponendo la sua stessa contraddizione come qualcosa che ne sta al di fuori. L’extraterritorialità diventa così la sua stessa condizione di possibilità. Di volta in volta, a seconda dei casi, si tratta del genio maligno, di Dio, della follia, della violenza: «Le discours hénologique […] s’organise à partir d’une limite qui constitue comme hors-texte une irréductible altérité»20. Non si tratta evidentemente di un limite della filosofia ma del limite che la filosofia deve costituire fuori di sé per potersi appunto costituire come discorso filosofico21. Il discorso storico moderno – esattamente come quello etnografico – sembra muovere dal postulato opposto: «Il fait de la différence même son objet»22. Il parallelo con l’etnografia è determinante, poiché qui de Certeau evidentemente scarta tutta la linea di costruzione teorica del discorso storico (scientifico) moderno, soprattutto di ambito tedesco, quale era stato per esempio ricostruito da Ernst Cassirer come ultimo capitolo di Das Erkenntnisproblem in der Philosophie und Wissenschaft der neueren Zeit. Non si tratta solo del «platonismo rovesciato» di Niebuhr, ove il divenire ha preso il posto dell’essere e lo storico è l’opposto dell’«illuminista» dell’allegoria platonica: è colui che penetra in una camera buia e deve abituarsi a riconoscere gli oggetti nell’oscurità. Lo studioso francese punta dritto al cuore della premessa epistemologica comune a Niebuhr, Humboldt, Ranke, Boechk, Droysen, come alla fondazione delle scienze dello spirito di Dilthey: l’omologia fra passato storico e presente. Proprio come l’etnografia può costituirsi come discorso scientifico in base al riconoscimento della differenza, così il discorso storico ha fin dall’inizio «reçue comme une donné, la coupure par la quelle une société se définit en se distinguant de son autre, le passé. Et l’historiographie se voit affecter pour tâche l’investigation des régions extérieures à la circonscription d’un présent»23. 19

HP, p. 211. Ibid. – SP, p. 184: «Il “discorso dell’uno” si struttura a partire da un limite che costituisce, in quanto fuori testo, un’irriducibile alterità». 21 Si potrebbe obiettare adducendo il modello di discorso filosofico proprio delle filosofie dialettiche. Ma l’obiezione ricadrebbe su di sé, perché questo modello riconosce l’alterità per renderla riducibile al suo logos, risponde ciò a una metafisica profondamente enologica. La stessa diade indeterminata di Platone presuppone l’unità. 22 Ibid. – SP, pp. 184-185: «esso fa della differenza stessa il proprio oggetto». 23 Ibid. – SP, p.185: «vi è, come una sorta di dato di fatto, quello iato in virtù del quale una società si definisce distinguendosi dall’altro da sé, cioè dal passato. La storiografia si vede così 20

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Il rischio della riduzione al presente e dell’omologazione è dietro l’angolo, svelando come ipocrita l’operazione storiografica. Come scrive Nietzsche nella Seconda inattuale, infatti, essa è preposta a ospiti stranieri (fremden Gäste) che intende collocare in ordine e onorare24. La storiografia avanza verso questo «paese altro/straniero», fabbricando una scrittura consacrata «comme un cimitière, aux disparus»25. La missione sociale che l’al di là del presente le affida, ha per obiettivo «de ramener l’autre dans le champ d’une compréhension présente, et par conséquent d’éliminer l’altérité qui semblai être le postulat de l’entreprise»26. Mantenuto all’esterno, l’altro che è la condizione di possibilità del discorso filosofico, diventa il suo contrario, si trasforma in oggetto e risulta «l’élément que le discours historique transforme en significants et réduit à de l’intelligible pour en effacer le danger»27. Il passato sarebbe dunque fornito al discorso storico perché proprio laddove esso risorge (resurgit: termine di Michelet) venga ripulito indefinitamente con un colpo di spugna e consegnato a nuove comprensioni? Le cose, osserva de Certeau, non sono così semplici, poiché «l’altérité se marque»28 proprio in questo lavoro di ripulitura e assorbimento. È un paradosso che può essere colto a due livelli. Il primo livello riguarda le procedure. Lo storico lavora sulle fonti formate sul terreno del presente e già etichettate come reliquie (reliques) del passato. Lavora su una geografia del passato come un dato culturale. Deve manipolare le carte, non fabbricarle. Con elementi definiti passato deve realizzare un preparato, nel senso chimico del termine. I significati dispersi nella cultura come passato devono essere isolati e delineati secondo criteri di pertinenza, disposti secondo un ordine, trasformati in oggetti trattabili: «À cet égard, l’altérité reçue comme un fait est, par une série d’opérations, ramenée à une raison qui la rend assimilable, “compréhensible”»29. I récits storiografici riconoscono curiosamente questa sorta di preliminare alterità del passato reso convenable (accettabile) come «les “chers disparus” d’Evelyn

attribuire come compito l’indagine delle regioni esterne alla circoscrizione di un presente». Sul rapporto con l’etnografia cfr. il contributo di S. Borutti in questo stesso volume. 24 Il testo di Nietzsche ha il pregio di operare una sorta di riduzione pre-fenomenologica degli atteggiamenti verso il passato che orientano l’attività storiografica. Ciò spiega la sua vitalità nel tempo (cfr. SP, p. 185, nota 3). 25 HP, p. 211. 26 HP, pp. 211-212 – SP, p. 185: «di ricondurre l’altro nell’ambito di una comprensione presente e, di conseguenza, eliminare quell’alterità che sembrava essere il postulato dell’impresa». 27 HP, p. 212 – SP, p. 185: «l’elemento che il discorso storico trasforma in significante, riducendolo a una realtà intelligibile nel tentativo di neutralizzarne il pericolo». 28 Ibid. – SP, ibid.: «imprime la sua traccia». 29 Ibid. – SP, p. 186: «Da questo punto di vista, l’alterità ricevuta come un fatto viene ricondotta, in virtù di una serie di operazioni, a una ragione che la rende assimilabile e “comprensibile”».

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Waugh»30. Perciò la scienza storica non deve uscire affatto dal suo luogo, non deve rendere troppo intelligibile il passato, e la scrittura storiografica con le sue procedure riduttrici deve allestire un teatro della differenza, mantenere una distanza per mettere in scena delle varianti, non delle differenze. Il discorso storico moltiplica le marche dell’alterità usando sistematicamente la datazione, i nomi propri, le citazioni, gli aneddoti, le riproduzioni, dei grafici e così via. Come per soddisfare un contratto con il lettore, si mette in scena ovunque «un vraisemblable de l’autre»31. Il pubblico vuole qualcosa di esotico, con tanto di garanzie fornite da competenti, con una retorica che alla lettera mantenga la differenza ma dopo averla disinnescata razionalmente e nella pratica, rendendola così conforme al pensabile. Al secondo livello si coglie l’ambivalenza dello statuto sociale dello storico, che ha il ruolo di spiegare l’estraneità, senza sopprimerla del tutto. In questo spazio, egli deve restaurare la rassomiglianza proprio laddove è stata collocata la dissomiglianza. Al riguardo, il suo compito pedagogico non è affatto quello di ricavare lezioni dal passato per il presente ma al contrario di conformare il racconto del passato all’intelligibilità che organizza il presente32. Lo storico esercita pratiche, che hanno a che fare con l’intelligibilità contemporanea, in una zona indecisa e indefinita della società, che è il suo rapporto con il passato. Mette in movimento le macchine della sua competenza «là où se joue le rapport de ses contemporains avec la limite, l’irréel, la mort, l’autre»33. È questa la zona di contatto con la letteratura, più precisamente con il romanzesco: «Par là, il est aussi établi dans le romanesque, s’il est vrai que le roman est l’exténuation du mythe»34. Questo riferimento al mito si precisa ulteriormente. Lo storico deve rendere pensabile una società proprio nella sua dimensione di eterogeneità, restituirla a se stessa proprio ai margini del luogo da cui essa trae origine e si perde nella sua propria assenza, e partecipare tecnicamente «au travail commun de métamorphoser en légendes cette altérité»35. Il primo riferimento era a LéviStrauss, il secondo dovrebbe andare a Kafka. Il risultato di queste considerazioni è esplicito: «Le texte historiographique combine donc la rationalité

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HP, p. 213. Certamente de Certeau si riferisce anche al romanzo breve di intento satirico The Loved One. An Anglo-American Tragedy (1948), noto in Italia come Il caro estinto. 31 HP, 213. 32 HP, p. 214 e nota 4, p. 288 – SP, p. 186: «una verosimiglianza dell’altro». . 33 HP, p. 214 – SP, p. 187: «là dove si gioca il rapporto dei suoi contemporanei con il limite, l’irreale, la morte, l’altro». 34 Ibid. – SP, ibid.: «Con ciò, egli si colloca anche nel romanzesco, se è vero che il romanzo è l’esasperazione del mito». Qui de Certeau si riferisce a una tesi di Claude Lévi-Strauss, L’Origine des manières de table, Plon, Paris, 1968, p. 106. 35 Ibid. – SP, ibid.: «al lavoro comune di trasformare questa alterità in leggenda».

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de l’explication et le récit littéraire qui parle de l’autre en le déniant»36. Esso fa un uso fittizio del sillogismo – entimematico (cioè tipico dell’argomentazione retorica assunta dal discorso storico, secondo Barthes). Ma è l’elemento narrativo – il récit – che viene ricondotto allo schieramento di una legalità storica, in base alla quale la storia «doit avoir l’air d’être le développement d’une raison, et d’une raison dont tout historien s’attache à faire croire que c’est “la nôtre”»37. Proprio perché è un luogo di scambio fra il medesimo e l’altro, il discorso storiografico è esposto a polarizzazioni opposte. Quanto più è serio e tanto più esso tende a presentare il passato come uno strumento attraverso il quale «une dogmatique s’expose sans avoir à se prouver»38. Per molto tempo a servizio dei principi, la storiografia è divenuta in seguito «le récit d’un pouvoir. Plus ancore, c’est une narration qui a pouvoir lorsqu’elle articule, selon un ordre établi, les zones marginales qui échappent aux normes explicites d’une societé»39. Basato soprattutto su idee di Jean-Pierre Faye40, questo argomento è un modo diverso di articolare la critica di Marrou al ruolo della storiografia nel rapporto fra concezioni/pratiche totalitarie della politica e costruzione di filosofie della storia. Un esempio-limite molto interessante al riguardo potrebbe essere il caso del film Terra senza pane, più noto con il nome originale Las Hurdes, girato nel 1933 da Luis Buñuel per documentare le condizioni di estrema povertà di alcuni villaggi spagnoli al confine con il Portogallo, in contrasto con la sfarzosa ricchezza esibita dalla chiesa cattedrale della regione. Inizialmente non fu per nulla gradito dalla Repubblica, che poi cercò di usarlo contro le forze di Franco. In seguito la falange vittoriosa non esitò a proiettarlo, facendone uso a sostegno della sua propaganda: «aboliremo appunto situazioni di questo genere». Continuando la sua impressionante serie di metafore, de Certeau scrive che la storiografia fa opera di «arredamento»: «Avec toutes les garanties du vraisemblable, elle meuble d’une “doctrine” l’espace laissé vacant par les morts et le désir qu’ont les vivants de savoir ce vide rempli»41. Questo passo si collega di nuovo con l’i36 Ibid. – SP, ibid.: «Il testo storiografico coniuga così la razionalità, propria della spiegazione, con la narrazione letteraria, che parla dell’altro rinnegandolo». 37 Ibid. – SP, ibid.: «deve avere l’aria di essere lo sviluppo di una ragione, e di una ragione che ogni storico si impegna a far credere che sia “la nostra”». 38 Ibid. – SP, ibid.: «un dogmatismo può venire espresso senza essere messo alla prova». 39 HP, pp. 214-215 – SP, ibid.: «la narrazione di un potere. Più ancora, è una narrazione che ha potere nel momento in cui dà forma, secondo un ordine stabilito, a quelle zone marginali che sfuggono alle norme dichiarate di una società». 40 Cfr. J.-P. Faye, Théorie du récit. Introduction aux «langages totalitaires», Hermann, Paris, 1972. 41 HP, p. 215 – SP, pp. 187-188: «Provvedendolo di tutte le garanzie del verosimile, essa arreda con una “dottrina” lo spazio lasciato vuoto dai defunti e il desiderio dei vivi di saperlo riempito».

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dea della résurrection du passé che, collocabile fra Michelet (che ne è senza dubbio l’ideatore) e Benjamin, ha non pochi riferimenti ulteriori ancora fra pensiero storiografico (Siegfried Kracauer) e letteratura (Proust e lo stesso Joyce). Malgrado ciò – ecco la ripresa del tema della contraddizione sviluppato sui due livelli – la storiografia e il suo discorso svolgono pur sempre una funzione critica: «Mais elle insinue aussi la faille d’une critique dans le monde plein d’une société. Sur le mode du pensable, elle réintroduit l’hypothèse d’une différence, l’hérésie d’autres cohérences [...]»42. Un facile esempio al riguardo sarebbe la celebre testimonianza storiografica contenuta nel testo autobiografico Die Welt von Gestern che Stefan Zweig nostalgicamente scrisse fra il 1939 e il 1941, cioè nei primi anni della Seconda Guerra Mondiale. Nell’organizzazione sociale, culturale e simbolica del presente, la storiografia diventa così la marca della «fêlure d’un irréel», nello stesso istante e forse proprio perché indica la possibilità che si tratti del «réel d’hier»43. In sostanza: «L’écriture historiographique crée des a-topies. Elle ouvre des nonlieux (des absences) dans le présent»44. Nell’ordine sociale e in quello di pensieri e pratiche contemporanee, essa organizza così sistematicamente dei punti di fuga: «Elle se range alors du côté du rêve»45. Qui la stringente argomentazione di de Certeau non riguarda solo il rapporto fra letteratura e storia ma molto più precisamente la necessaria presenza del letterario nel discorso storiografico. In primo luogo, egli si richiama alla distinzione fra real e fictitious elaborata da Bentham, secondo la quale fictitious non vuol dire «illusorio» ma fictif, nel senso che tutta la verità ha una struttura di finzione46. E all’interpretazione che nel Seminario 19591960 ne ha dato Lacan, sottolineando che fictif non è l’illusorio/ingannevole ma in senso proprio il simbolico stesso47. L’intuizione di Bentham è stata ulteriormente chiarita dall’analisi freudiana: «l’altérité du réel resurgit dans la finction, revient dans l’irréel du fantastique. Elle reparaît sous la figure littéraire du fictitious, après avoir été éliminée par les pratiques productrices de

42 Ibid. – SP, p. 188: «la storiografia non può fare a meno di insinuare all’interno del mondo compiuto di una società il dubbio lancinante di una critica. Attraverso la categoria del pensabile, essa reintroduce l’ipotesi di una differenza, l’eresia di altre coerenze [...]». 43 Ibid. – SP, ibid.: «l’incrinatura di un’irrealtà», «la realtà di ieri». 44 Ibid. – SP, ibid.: «La scrittura storiografica dà vita a delle atopie: apre dei non-luoghi, delle assenze all’interno del presente». 45 Ibid. – SP, ibid.: «Essa si colloca così nelle regioni del sogno». 46 Nel progetto metaforologico di Blumenberg, convergente con la Begriffsgeschichte di Reinhart Koselleck e la svolta linguistica da questa postulata, il motivo della possente verità rientra fra le metafore fondanti. Il termine italiano fittivo significa alla lettera «che crea con l’immaginazione» ma anche inesorabilmente l’opposto: «creato dall’immaginazione». 47 HP, p. 215 e nota 8, p. 288. Cfr. J. Lacan, Le Séminaire 7. L’Éthique de la psychanlyse, Seuil, Paris, 1986.

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“faits objectifs”»48. Si giunge con ciò all’autentico significato dell’Unheimlich freudiano, che è l’inquietante familiare o non segreto49. Proprio per il rapporto con questa dimensione, cioè per il suo rapporto con l’onirico, «le récit historique continuerait à mettre en scène “l’inquiétante familiarité” de l’autre»50. Lungi dall’essere una semplice modalità di scrittura o un framework – la cosiddetta «cornice narrativa» –, il letterario riflette questo statuto ambivalente della realtà storica: «Ce qu’il ya de “littéraire” dans l’histoire maintiendrait l’ambivalence du réel, autre et même»51. Presenza del letterario e ambivalenza del reale non sono esemplificate dal romanzo di De Foe ma vi trovano ispirazione come modello analogico. In parte dimenticandosi di avere definito il genere romanzo come «esasperazione del mito», molto opportunamente de Certeau definisce Robinson Crusoe come uno degli ultimi miti occidentali prima di Totem e tabù. In primo luogo, il fatto che Defoe colloca la vicenda nell’estuario dell’Orinoco, «alors que l’historien use de la cronologie pour ordonner son récit, ce n’est là qu’une tranformation de code»52. Ciò che è proiettato in uno spazio geografico può essere ritradotto in termini di datazione. L’importante è che si tratti di un luogo lontano, in cui la ragione «pose et rencontre son autre»53. Robinson diviene maître imponendo al caos dell’isola un lavoro che ubbidisce a una ragione classificatoria e tecnica con elementi cartesiani. Il produttore diventa così anche il soggetto della storia. Ma quest’opera civilizzatrice e a suo modo colonizzatrice è continuamente minacciata da una serie di paure e di incubi che acquistano vera sostanza con la scoperta della traccia, dell’impronta perfetta di un piede umano: «vestige humain d’un pied nu 48 HP, p. 215 – SP, ibid.: «l’aspetto altro del reale riemerge nella finzione, si ripresenta nell’irrealtà del fantastico, riappare sotto le spoglie della figura letteraria del fictitious, dopo essere stato eliminato dalla pratiche produttrici di “fatti oggettivi”». 49 Ne ho trattato in B. Maj, Das Unheimliche. Il fantastico nella letteratura tedesca, in M. Farnetti (a c. di), Geografia, storia e poetiche del fantastico, Olschki, Firenze, 1995, pp. 11-25. 50 HP, p. 215 – SP, ibid.: «la narrazione storica non cesserebbe dunque di mettere in scena il carattere “perturbante” dell’altro». Inoltre de Certeau (nota 9, p. 288) cita J. Derrida, La dissémination, Seuil, Paris, 1972, p. 300, nota 56, il quale ha il merito di avere messo in luce che la letteratura «comprend des ressources supplémentaires de Unheimlichkeit» (termine che va appunto tradotto con «inquiétante familiarité» piuttosto che con «inquiétante étrangeté»). 51 HP, p. 215 – SP, ibid.: «e la componente “letteraria” della storia contribuirebbe a conservare l’ambivalenza del reale, altro e stesso a un tempo». 52 HP, pp. 215-216 – SP, pp. 188-189: «mentre lo storico si serve della cronologia per dare forma alla sua narrazione, non è che un mutamento di codici». In una pagina del capitolo 3 Le «roman» psychanalytique. Histoire et littérature (HP, p. 119), de Certeau interpreta il romanzo di Defoe come figura archetipica dell’individualismo occidentale e figura storica della modernità, filosoficamente ritradotte da Kant in postulati che poco più di un secolo dopo Freud rovescerà uno per uno: l’adulto determinato dalla sua minore età, il sapere da meccanismi pulsionali, la libertà dalla legge dell’inconscio, il progresso da eventi originari. 53 HP, p. 216 – SP, p. 189: «pone e incontra l’altro da sé».

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parfaitement empreint sur le sable»54. Leggermente ampliato, ecco il testo originale: «It happened one day, about noon, going towards my boat, I was exceedingly surprised with the print of a man’s naked foot on the shore, which was very plain to be seen in the sand. I stood like thunderstruck, or as if I had seen an apparition»55. Tutte le pagine che seguono narrano del disordine ora prodotto nel metodo da questo ingresso allucinatorio, per cui «L’éthique technicienne se change en un poème érotique et hallucinatoire de l’autre»56. Si tratta di una «parenthèse de déraison» che si chiude con la salvezza dello straniero poi chiamato Venerdì e trasformato in schiavo: Venerdì – poi, il «mio Venerdì». Ora l’impero sulle cose può riprendere, raddoppiato dal potere sul servo. In parte de Certeau trascura che la traccia sulla sabbia è inquietante proprio perché è una traccia dell’umano scoperta dopo una lunga riflessione teologica di Robinson, che formula l’ambivalente desiderio di incontrare un altro essere umano. Riflessione e desiderio alludono all’altro come qualcosa che abita lo stesso Robinson. Egli teme di trasformarsi in omicida – una pulsione che gli è estranea e gli appare eticamente ripugnante e razionalmente ingiustificabile (in ciò affiora anche un dubbio ante litteram sul diritto alla missione civilizzatrice). Il punto messo in luce è diverso: la divisione fra tecnica e incubo sembra preludere agli spazi che nel corso del XIX secolo saranno occupati dalla scienza economica e dalla interpretazione dei sogni: «Elle montre surtout comment deux modes de la relation à l’autre s’extravertissent: la rationalité (économique) et la fiction (du rêve). Depuis deux siècles, l’histoire paraît avoir pour rôle de les réconcilier, tenant à la fois des pratiques de production et du récit romanesque, sinon du rêve hallucinatoire. Elle articule sur de méthodes de fabrication le désir ambivalent de l’autre [...]»57. 54 Ibid. – D. Defoe, Vie et adventures de Robinson Crusoé, trad. P. Borel, Gallimard-Pléiade, Paris, 1959, p. 69. SP, ibid.: «“impronta del piede nudo di un uomo, visibilissima sulla sabbia”». 55 Cfr. D. Defoe, The Life & Adventures of Robinson Crusoe, Oxford U. P., London, 1965, p. 196. Ho commentato il punto in B. Maj, «An Enchanted Island. L’inquietante traccia dell’umano in The Life & Adventures of Robinson Crusoe», in A. Buttarelli-G. Rimondi, Dove non c’è nome. Nuovi contributi sul perturbante, Scuola di Cultura Contemporanea, Mantova, 2007, pp. 131-140, in part. pp. 134 e 139-140 (nota 20): «Accadde un giorno, intorno a mezzogiorno, mentre andavo verso la mia imbarcazione, la sorpresa straordinaria che mi fece l’orma di un piede nudo di uomo sulla sabbia. Rimasi fermo come fulminato, o come se avessi visto un’apparizione». 56 Ibid. – SP, p. 189: «l’etica tecnologica si tramuta nel poema erotico e allucinatorio dell’altro». 57 HP, pp. 216-217 – SP, ibid. «Essa mostra soprattutto come due modalità di relazione con l’altro vengano alla luce: la razionalità (economica) e la finzione (onirica). Da due secoli a questa parte, la storia sembra avere il compito di cercare di riconciliarle. Situandosi al tempo stesso dalla parte delle pratiche produttive e della narrazione romanzesca, per non dire del so-

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Figura assoluta (poeta) di questo ruolo di riconciliazione è Jules Michelet. Qui de Certeau fa riferimento a saggi di Barthes, Jeanne Fevret e JeanPierre Peter. A fare irruzione sembra anche la forza stessa del saggio del 1846 Le peuple di Michelet. Qui nella prefazione scritta in forma di lettera a Quinet, Michelet parla della sua scoperta del Musée des Monuments français di Alexandre Lenoir come regno dei morti – lo era «doppiamente» perché Lenoir lo concepì in piena rivoluzione per salvare le vestigia artistiche della Francia dalla furia iconoclasta della rivoluzione ma fu poi a sua volta distrutto – e del suo peculiare rapporto con il popolo, di cui lui stesso è figlio. Michelet «voulait parler la langue du peuple, langue “inaccessible” de l’autre; et il “aimait la mort”, cette étrangère indissociable du désir. Il est vrai qu’en se donnant Michelet pour référence, l’historiographie contemporaine cherche à enterrer au plus vite celui qu’elle honore, mais elle dénie ainsi ce qui reste d’histoire dans son écriture scientifique»58. Senza cessare di essere una produzione tecnica, la storia è erotica e rimanda in toto alla dimensione corporea. Questo è proprio quanto insegna la rilettura di Michelet: «Relu, Michelet nous le réapprend lorsqu’il en fait le récit du corps qui ne parle pas et l’hallucination (le retour, la “résurrection” littéraire) du mort»59. Certamente quello del discorso storico è il «corpo sociale», «mais il fonctionne en histoire comme le corps cherché par la caresse, étranger à l’esprit, “différent de la pensée”, “constituant” ce que la représentation donne comme “constitué”, “permanente contestation du privilège qu’on attribué à la conscience” de produire le sens»60. Nel passo si percepisce un’eco di Proust, anche se tutte le citazioni interne rimandano a Totalité et infini di Emmanuel Levinas61. In ogni caso questa idea di corpo risale comunque a Michelet. Esso è «l’autre qui fait parler, mais qu’on ne fait pas parler. Il faut remonter à ce corps – nation, peuple, milieu – dont la mar-

gno allucinatorio. Essa articola sui metodi di produzione il desiderio ambivalente dell’alterità [...]». 58 HP, p. 217 – SP, pp. 189-190: «intendeva parlare la lingua della gente, la lingua “inaccessibile” dell’altro: egli “amava la morte”, questa straniera inseparabile dal desiderio. È vero che assumendo Michelet come parametro, la storiografia contemporanea cerca in realtà di seppellire il prima possibile colui al quale rende omaggio; ma è anche vero che in tal modo rinnega ciò che resta di storico nella sua scrittura scientifica». 59 Ibid. – SP, p. 190: «Michelet ce lo ricorda, allorché ne fa la narrazione del corpo privo di parola e l’allucinazione – il ritorno, la “resurrezione” letteraria – del morto». 60 Ibid. – SP, ibid.: «ma esso funziona nella storia proprio come il corpo che la mano cerca con le sue carezze, estraneo al dominio dello spirito, “altro dal pensiero”, “costitutivo” di ciò che la rappresentazione dà come “costituito”, “permanente contestazione del privilegio attribuito alla coscienza” di essere produttrice di senso». 61 HP, nota 16, p. 289.

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che a laissé les vestiges avec lesquels l’historien fabrique une métaphore de l’absent»62. Non c’è dubbio che il richiamo alla corporeità come l’assente che fa parlare ma che non si lascia parlare indica un fondamentale punto di convergenza fra storico e letterario. Ma, a distanza di quasi quarant’anni dall’epoca di elaborazione di questa tesi, i termini della relazione vanno rovesciati. Le vicende storiche del Novecento, a partire dalla Prima Guerra Mondiale, parlano di corpi annientati e di distruzione del lutto – il sentimento cui legittimamente Michelet poteva fare riferimento. L’alterità radicale si è rivelata come «assenza» del corpo per distruzione o volontario annientamento, cioè qualcosa che non è un altro che fa parlare e su cui la storia può costruire una «metafora dell’assente». Il mito letterario cui fare riferimento è Kafka o Celan – la lingua del corporeo in quanto tale e del metonimico63. Il saggio di de Certeau sembra «presentire» comunque il problema, se sul punto conclude così: «il y a histoire lorsque le discours se met à dire la dérision du “sens” qu’il organise et la perte irrémédiable qui en est la cause. Une mort est le fantasme que l’historien ne peut ni oublier ni supporter»64. La conclusione del punto è molto legata alle immagini e agli spazi indagati da Michelet. Il luogo dove Robinson fa iniziare il suo regno fantastico non potrebbe essere più pertinente: la spiaggia ovvero il limite dell’impero insulare creato della sua attività metodica. Anche lo storico «est à cette place aussi, devant la mer d’où vient l’homme qui a laissé des traces. Mais à difference de Robinson, il sait que l’autre ne reviendra pas. Le récit de l’histoire devrait donc s’arrêter là. L’étranger ne ressortira pas de la mer. Il a passé»65. Ma questa chiusa ha un senso evidentemente opposto a ciò che Michelet intendeva per résurrection du passé. Come Robinson, anche lo storico è stato bouleversé (sconvolto) dalle tracce dell’assenza marcate sulle spiagge che delimitano la società e ne ritorna «alteré, mais non pas silencieux. Le récit se met à parler entre contemporains [...]»66. Ma è appunto questa assenza del passa62 HP, p. 217 – SP, p. 190: «il corpo è l’altro che dà la parola, ma al quale la parola non viene data. E occorre risalire a questo corpo – nazione, popolo, ambiente –, il cui cammino ha lasciato le vestigia con le quali lo storico produce una metafora dell’assente». 63 Cfr. «Discipline filosofiche» 1/2006: La struttura subatomica dell’esperienza. 64 HP, p. 217 – SP, p. 190: «vi è storia nel momento in cui il discorso comincia a dare espressione a quell’irrisione del “senso” che esso stesso organizza e a quella perdita irrimediabile che ne è la causa. La morte è il fantasma che lo storico non riesce a dimenticare né a tollerare». 65 HP, pp. 217-218 – SP, ibid.: «si trova esattamente nella stessa posizione: di fronte al mare da cui proviene l’uomo che ha lasciato delle tracce sulla sabbia; a differenza di Robinson, però, egli sa che l’altro non farà ritorno. Il racconto della storia dovrà fermarsi lì; lo straniero non riemergerà dal mare: egli – ormai – è passato». È noto che Michelet ha scritto sul mare, mentre de Certeau lo ha fatto nella prefazione a un volume di Jules Verne. 66 HP, 218 – SP, ibid.: «alterato ma non muto. La narrazione si mette a parlare fra contemporanei [...]»

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to che rende possibile il discorso: «Il me semble qu’il peut parler du sens rendu possible par l’absence, lorsqu’il n’ya plus d’autre lieu que le discours»67. La conclusione sulla forma di comunicazione che il discorso può assumere appare singolarmente vicina al frammento Prometheus di Kafka, in cui si parla di saghe sullo sfondo di un’assenza. Con tutte le avvertenze del caso, torna il riferimento alla forma della leggenda: «Il dit alors quelque chose qui a rapport avec toute communication, mais il le raconte en forme de légende – à bon entendeur, salut –, dans un discours qu’organise une présence manquante et qui garde du rêve ou du lapsus la possibilité d’être la marque d’une altérité altérante»68. La présence manquante è chiaramente un concetto mistico69. Così, «l’écriture met en scène le “vestige”d’un pied nu sur la sable. Ou plutôt elle s’y réfère comme à son autre»70. Assomiglia alla statua Personnage (1968) di Joan Miró – combinazione del «grafo» di un volto e di due impronte di piedi: «d’une part, une écriture signifiante (la silhouette dessinée par le sculpteur); d’autre part, l’impression silencieuse (la marque laissée par le pieds). Elle renvoient l’une à l’autre, s’appellent et s’altèrent dans un rapport qui lie la production d’un discours sur l’absent (l’icône) à la muette garantie abandonnée par l’absent (l’empreinte)»71. Il discorso storico articola dunque indefinitamente e senza chiusura «les traces de l’autre». È una «manière de mémoire» e di résurrection. Il letterario ne è l’inviolabile traccia.

67 Ibid. – SP, pp. 190-191: «[...] essa [la narrazione] – credo – può parlare di quel senso reso possibile dall’assenza, proprio nel momento in cui non esiste più altro luogo al di fuori del discorso». 68 Ibid. – SP, p. 191: «Essa dice allora qualcosa che ha a che fare con ogni forma di comunicazione, ma lo esprime in forma di leggenda – il lettore avrà già capito a cosa mi riferisco – all’interno di un discorso organizzato da una presenza mancante e che conserva la possibilità, tipica del sogno o del lapsus, d’essere il segno di un’alterità alterante». 69 Ne è conferma il fatto che lo stesso autore rinvia al suo saggio Histoire et mystique, in «Revue d’histoire de la spiritualité», 48,1972, pp. 69-82. 70 Ibid. – SP, p. 191: «la scrittura non fa altro che mettere in scena l’“orma” di un piede nudo impresso sulla sabbia; o, per meglio dire, vi si riferisce come all’altro da sé». 71 Ibid. – SP, ibid.: «da una parte una scrittura che esprime un significato (la silhouette disegnata dallo scultore), dall’altra l’impressione silenziosa (l’orma lasciata dai piedi). Questi elementi rinviano l’uno all’altro, richiamandosi e alterandosi in un rapporto che riunisce la produzione di un discorso sull’assente (l’icona) e la tacita garanzia che l’assente ha lasciato (l’impronta)».

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Pratiche di senso e di scrittura in Heart of Darkness

In chiusura dello splendido Anatomy of Criticism. Four Essays, Northrop Frye ci ricorda che la letteratura, come la matematica, è un linguaggio, e il linguaggio in se stesso non rappresenta alcuna verità, fornisce solo i mezzi per esprimere un numero qualsiasi di verità. L’universo verbale e quello matematico, continua Frye, sono modi diversi di concepire il medesimo universo, offrendo un mezzo provvisorio per unificare l’esperienza. Da questa unificazione si è sempre dedotta l’esistenza di una più alta unità, ma «non è facile trovare alcun linguaggio capace di esprimere l’unità di questo più elevato universo intellettuale. Sono state usate la metafisica, la teologia, la storia, la legge, ma si tratta sempre di costrutti verbali e più le approfondiamo, più chiaramente risalta la loro trama metaforica e mitica. Ogni volta che costruiamo un sistema di pensiero per congiungere la terra al cielo, si ripete la storia della Torre di Babele: scopriamo che dopo tutto non ce la facciamo e quel che otteniamo è solo una pluralità di linguaggi.»1 Allo stesso modo, riflettendo sulla «disgiunzione crescente creata dalla divisione del lavoro, dalla frammentazione sociale e dalla specializzazione professionale»2, de Certeau afferma che gli innumerevoli discorsi, in cui oggi siamo sommersi, sono altrettanti tentativi di fornire, attraverso sintesi narrative, un punto di riferimento comune, «istituendo, in nome del “reale”, un linguaggio simbolico che permette di credere all’esistenza di una comunicazione e che tesse incessantemente la ragnatela della “nostra” storia»3. In questo contesto, il «compito» che si pone la storia è quello di fornire un linguaggio simbolico che garantisca un «senso», posto al di sopra delle violenze e delle divisioni del tempo, capace, quindi, di realizzare delle suture tra passato e presente. Ed è proprio per questo che la storia privilegia gli avvenimenti che rappresentano delle cesure. Ma le cesure, le crisi, gli incidenti irrompono in una teoria e ne rivelano i limiti; lo spazio che si apre * [Università di Bologna]. 1 N. Frye, Anatomy of Criticism. Four Essays, Princeton University Press, Princeton, 1957, trad. it. di P. Rosa-Clot e S. Stratta, Anatomia della critica, Einaudi, Torino, 1969, pp. 476-477. 2 M. de Certeau, Histoire et psychanalyse entre science et fiction, Gallimard, Paris, 1987, nuova ed. riv. accr. 2002, trad. it. di G. Brivio, Storia e psicoanalisi. Tra scienza e finzione, Bollati Boringhieri, Torino, 2006, p. 58. 3 Ibid.

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è quello di una narrazione infinita. Come il romanzo psicoanalitico freudiano, il testo che narra il passato è appunto il rapporto che la teoria instaura con i propri limiti. Il rapporto tra letteratura e matematica indicato da Frye si trasforma in de Certeau in un’analogia a quattro termini: la letteratura sta alla storia come la matematica sta alle scienze esatte, ovvero «la letteratura costituisce il discorso teorico dei processi storici: essa crea infatti quel non-luogo in cui le operazioni effettive di una società hanno accesso a una formalizzazione. Lungi dal considerare la letteratura come “espressione” di un referente, bisognerebbe invece riconoscere in essa l’analogo di ciò che la matematica è stata a lungo per le scienze esatte: un discorso “logico” della storia, la “finzione” che la rende possibile»4. Al discorso «oggettivo», che intende esprimere il reale, si sostituisce dunque il discorso che assume la forma di una «finzione», intendendo con ciò un testo che espliciti il suo rapporto con l’ambito della sua produzione. È Freud a introdurre questo mutamento nella storiografia ponendo «la necessità, da parte dell’analista, di indicare il proprio posto (affettivo, immaginario, simbolico)»5. Questa è la premessa teorica con cui qui analizzeremo Heart of Darkness, cioè in una cornice ove «il testo letterario [...] rappresenta uno spazio [...] teorico e protetto, quasi una sorta di laboratorio, in cui vengono a formularsi, identificarsi, mescolarsi e attuarsi le sottili pratiche del rapporto con l’altro: è l’ambito, in sostanza, in cui si attua la logica dell’altro»6 1. Significato e narrazione: una metafora della luce Nell’estuario del Tamigi uno yawl di nome Nellie è in attesa del riflusso per poter prendere il largo. A bordo ci sono cinque uomini: il direttore della compagnia, un avvocato, un ragioniere, Marlow e l’autore. Tutto intorno è pacifico: l’acqua, il cielo e le alture boscose dell’entroterra; «Solamente quell’oscurità verso ovest [gloom to the west], incombente sui tratti più alti del fiume, si andava di minuto in minuto facendo più cupa, come adirata all’avvicinarsi del sole»7. E ancora più lontano verso occidente, «a brooding gloom in sunshine»8 segna il luogo in cui si trova Londra, la «mostruosa città». Ecco comparire e già ricorrere uno dei termini appartenenti all’area semantica dell’oscuro – the gloom – che, declinata in tutte le sue gradazioni e figurazioni, 4

Ivi, p. 99. Ivi, p. 82. 6 Ivi, p. 106-107. 7 J. Conrad, Heart of Darkness, trad. it. di A. Rossi e G. Sertoli, Cuore di tenebra, con testo a fronte, Einaudi, Torino, 1999, p. 5. 8 Ivi, p. 8: «un’oscurità incombente nella luce del sole». 5

PRATICHE DI SENSO E DI SCRITTURA IN HEART OF DARKNESS

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tesserà il racconto di Marlow, ne costituirà la trama, intrecciandosi con quella della luce e della luminosità, la cui natura sarà però feroce e crudele. Marlow è l’unico dell’equipaggio del Nellie «che ancora “seguiva il mestiere del mare”»9. Come tutti i marinai, ha propensione a raccontare storie, ma i suoi racconti sono diversi da quelli degli altri marinai, «per lui il significato di un episodio non stava all’interno del guscio come un gheriglio, ma al di fuori, avvolgendo il racconto che lo generava come un bagliore genera tutt’attorno a sé una zona di penombra, al modo di quegli aloni nebulosi che rende talvolta visibili la spettrale luminescenza della luna»10. Questa notazione si compone di una metafora spaziale e di una similitudine, articolata sull’immagine della luce che rende visibile l’ombra. La relazione significato/racconto è spazializzata secondo la coppia oppositiva esterno/interno, con un’evidente inversione rispetto a una più «consueta» localizzazione. Questa inversione potrebbe indurre a pensare che il significato sia in questo modo più visibile o prossimo, mentre si è invece allontanato nella penombra. Il racconto brought it out, lo ha «portato fuori», «messo in evidenza/risalto», come un bagliore (glow) mette in evidenza la foschia (haze), al modo di quegli aloni nebulosi (misty halos) che qualche volta sono resi visibili dalla luminescenza della luna. Il significato, quindi, come la foschia e gli aloni nebulosi, diventa visibile, sia pure nelle gradazioni dell’ombra, solo nel riflesso della luce del racconto e, in senso più esteso, della narrazione o fiction. La relazione tra fiction e significato, che identifica la specificità dei racconti del secondo narratore Marlow, rientra certo tra le riflessioni poetologiche di Conrad. Nella prefazione a The Nigger of the Narcissus (1897)11 Conrad aveva definito l’arte stessa come un tentativo risoluto di rendere massima giustizia all’universo visibile, portando alla luce la verità (by bringing to light the truth) – molteplice e una – che sta sotto ad ogni sua apparenza, indicando il compito dello scrittore nel farci udire e sentire ma «before all, to make you see». Qualora fosse riuscito in ciò, avremmo trovato, secondo i nostri meriti, incoraggiamento, consolazione, paura, incanto: tutto ciò che domandiamo è forse anche quel barlume di verità (the glimpse of truth) che ci siamo dimenticati di chiedere12. 2. L’altro e lo stesso nel concetto di wilderness Le prime parole di Marlow sono in realtà una riflessione che corre lontano all’indietro nel tempo, a quando anche quel luogo – le rive del Tamigi – 9

Ivi, p. 9. Ivi, p. 10. 11 cfr. J. Conrad, The Nigger of the ‘Narcissus’, Penguin, London, 1988, pp. XLVII-LI. 12 Ivi, p. XLIX. 10

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era uno dei luoghi tenebrosi della terra (dark places of the earth)13, a quando, millenovecento anni prima, i romani giunsero lì per la prima volta. Marlow immagina, invitando i suoi ascoltatori a fare lo stesso, i sentimenti di un comandante romano di una trireme giunto in quelle paludi in mezzo a dei selvaggi, con niente da mangiare di adatto allo stomaco di un uomo civile. Un solo accampamento militare sperduto «in a wilderness»14 e la morte in agguato. Ma quel comandante, che c’è l’ha fatta a non soccombere alla wilderness, è anticipazione rispettivamente in positivo e in negativo di Marlow e di Kurtz. Wilderness, termine che costituisce un polo fondamentale di Heart of Darkness, indica una regione deserta, disabitata e inospitale ma che nel corso del racconto delineerà insieme uno spazio, un tempo storico e astorico, una condizione umana, una forza misteriosa, il volto della natura. Marlow commenta che la vita della wilderness si agita misteriosamente nelle foreste, nelle giungle, «in the hearts of wild men»15. L’aggettivo wild significa «selvaggio», «not civilized», ma anche «uncontrolled, unrestrained »16, «senza controllo», «senza freni» – il che consente di attribuirlo anche agli uomini che quel controllo e quei freni invece li hanno persi. Infatti, la wilderness possiede un fascino che agisce anche sull’uomo civilizzato. Il suo è però «the fascination of abomination»17, la malia dell’abominio di ciò che in senso morale suscita il nostro sentimento di disgusto e di odio. Ma è l’efficienza, la devozione all’efficienza che Marlow pone come la più strenua resistenza alla wilderness. In questo accenno all’efficienza e al suo potere salvifico, Marlow anticipa l’importanza che, nell’esperienza che si appresta a raccontare, il lavoro ha avuto nel mantenere una presa reale sulle cose e su se stesso. Il lavoro e l’attività umana in generale, come costitutivi dell’individualità stessa, rappresentano un motivo fondamentale dell’intera opera conradiana. In Nostromo troviamo un’esemplificazione del loro valore esistenziale con la rappresentazione di una situazione limite: la condizione di solitudine e inattività, l’incapacità di affrontare se stessi da solo a solo, la propria individualità confusa nel mondo di forze naturali e forme della natura, oppressero a tal punto Charles Decoud sull’isola della Grande Isabella da portarlo al suicidio per annegamento: «Solo nella nostra attività possiamo trovare davvero l’illusione sostentatrice di un’esistenza messa a confronto dell’ordine universale di cui siamo una debolissima parte»18. Questa

13

J. Conrad, Heart of Darkness, cit., p. 8. Ivi, p. 12. 15 Ibid. 16 cfr. Compact Oxford English Dictionary. 17 J. Conrad, Heart of Darkness, cit., p. 12. 18 J. Conrad, Nostromo – A Tale of the Seaboard, trad. it. di R. Zerbini e U. Mursia, Nostromo, Mursia, Milano, 1990, p. 304. 14

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intuizione sarà anche quella di Gaston Bachelard: «Il lavoro pone il lavoratore al centro di un universo e non più al centro di una società»19. Il perseguimento dell’efficienza è anche ciò che distingue i colonizzatori dai puri conquistatori, anche se la conquista della terra resta lo scopo comune: «Ciò che la redime è soltanto l’idea: un’idea che la giustifichi. Non una finzione sentimentale, ma un’idea – e una fede disinteressata in questa idea – qualcosa che si possa levare in alto, e inginocchiarcisi davanti, e offrirle sacrifici...»20; un’idea che in quest’ultima progressione mostra il volto di un idolo assetato di sangue. Qui vi è certo l’intuizione di una specificità che raggiungerà la sua massima concrezione storica nel Novecento: l’ideologia. Con questa riflessione, la memoria di Marlow si è già spinta più avanti nel tempo, a quell’esperienza che è insieme personale e storica. Sta per iniziare il racconto di «one of Marlow’s inconclusive experiences»21. L’uso dell’aggettivo inconclusive («non conclusivo», «inconcludente»: nel senso che non porta a nessuna conclusione) riprende e rafforza quanto era stato detto a proposito del rapporto tra significato e racconto nelle narrazioni di Marlow. Le esperienze di Marlow sono definite «inconcludenti» dal primo narratore perché nell’esposizione (Darstellung) il loro significato resta nell’ombra, come un «alone nebuloso». Appartiene alla stessa natura del linguaggio svelare e velare a un tempo. Le narrazioni di Marlow sono il difficile tentativo di scoprire – nell’accezione letterale di «liberare da ciò che copre» – il significato della propria esperienza e quello ancor più difficile di riuscire davvero a comunicarla. La tecnica narrativa di Conrad, consistente nell’introduzione da parte del primo narratore di un secondo narratore che racconti la storia, risponde infatti alla necessità formale di spodestare l’autore principale dell’esclusivo punto di osservazione, di enfatizzare la relatività dell’osservatore, la distanza della narrazione e l’irriducibile opacità del significato. 3. Lo spazio e il tempo: mappa e scrittura Dopo una permanenza di sei anni nei mari d’Oriente, Marlow si trovava a Londra alla ricerca di una nave su cui imbarcarsi. La ricerca si trascinava invano, finché un giorno nella vetrina di un negozio non vide la carta geografica di un luogo familiare alla fantasia della sua fanciullezza, quando si divertiva a contemplare gli spazi vuoti sulle carte terrestri e a fantasticare in19 G. Bachelard, La Terre et les Rêveries de la volonté. Essai sur l’imagination des forces, Josè Corti, Paris, 1948, trad. it. di A. C. Pedruzzi e M. Citterio, La terra e le forze. Le immagini della volontà, Red edizioni, Como, 1989, p. 50. 20 J. Conrad, Heart of Darkness, cit., p. 15. 21 Ivi, p. 16.

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torno a essi le glorie dell’esplorazione. Quel luogo, di cui non verrà mai fatto il nome, già da tempo non era più uno spazio vuoto, poiché s’era riempito di fiumi, laghi e nomi, «it had ceased to be a blank space of delightful mystery [...] It had become a place of darkness»22. La pratica di dare luogo a uno spazio bianco su una carta geografica, per poi riempirlo con il proprio segno, corrisponde ai termini della pratica della scrittura descritti da de Certeau: la scrittura stessa, infatti, istituisce la pagina bianca su cui scrivere, sostituisce «l’oscurità del corpo vissuto con l’enunciato di un “voler sapere” o di un “voler dominare” il corpo»23. Nel saggio Language and Fictional SelfConsciousness, Jeremy Hawthorn ha mostrato che Conrad percepiva l’arte creatrice di uno scrittore di fiction alla stregua della conquista di una colonia24. Un enorme fiume percorre quella vastissima regione. Sulla carta ha le sembianze di un immenso serpente (snake) srotolato, al cui fascino Marlow già cedeva come uno sciocco uccellino. Fu alla vista di quella carta che egli si rammentò dell’esistenza della Compagnia che esercitava il commercio su quel fiume e pensò quindi alla possibilità di poter ottenere il comando di una delle sue imbarcazioni. Marlow non riusciva a liberarsi da questa idea: «The snake had charmed me»25. La Compagnia aveva sede nel continente26, dove Marlow aveva dei parenti. Fu l’entusiasta intercessione di una sua zia a fargli ottenere il comando di un vaporetto fluviale. Doveva sostituire un capitano di nome Fresleven che era stato ucciso durante una lite con degli indigeni. Con sorprendente rapidità, Marlow interrompe la narrazione lineare con l’anticipazione del momento in cui mesi dopo, cercando di recuperare il corpo, avrebbe saputo il futile motivo della lite. L’anticipazione è un elemento specifico della narrazione conradiana. È la problematic mobilility, che, secondo Cedric Watts, caratterizza soprattutto la tecnica narrativa di Nostromo. L’anticipazione appartiene più esattamente alla temporal mobility: «There are unexpected juxtapositions of events from different times; and Conrad is fond of delaying our decoding of large and small effects: experiences are thrust at us before we are in a position to comprehend their sig-

22

Ivi, p. 18: «Aveva cessato di essere uno spazio vuoto avvolto di delizioso mistero [...]. Era diventato un luogo di tenebra». 23 M. de Certeau, L’Écriture de l’histoire, Gallimard, Paris, 1975, trad. it. di A. Jeronimidis, La scrittura della storia, Jaca Book, Milano, 2006, p. 10. 24 cfr. J. Hawthorn, Joseph Conrad: Language and Fictional Self-Consciousness, Edward Arnold, London, 1979, p. 22. 25 J. Conrad, Heart of Darkness, cit., p. 18: «Il serpente mi aveva ammaliato». 26 Il riferimento corre alla Société anonyme belge pour le commerce du Haut-Congo con sede a Bruxelles, dalla quale Conrad ricevette nel 1890 il comando di uno dei battelli a vapore in servizio sul fiume Congo.

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nificance»27. Essa permette anche di introdurre alcuni Leitmotiv del nucleo centrale del racconto di Marlow. Il capitano Fresleven pensò di essere stato ingannato nell’affare che riguardava due galline nere e cominciò a bastonare il capo del villaggio, fino a che il figlio di questi non lo colpì a morte con la lancia. Probabilmente il capitano, da due anni al servizio della «nobile causa» della Compagnia, aveva sentito – commenta Marlow –, «the need at last of asserting his self-respect in some way»28. Come forse accadde al comandante romano, l’incontro con la wilderness – con un’umanità selvaggia, forse con un Doppelgänger disconosciuto ma ancor più con un «io» sconosciuto – sembra mettere in discussione la rappresentazione che l’uomo civilizzato ha di sé, il suo rispetto di sé, la sua identità. È in questo conflitto interiore, originato dal rifiuto di vedere sé nell’Altro – sia esso il selvaggio o un io sconosciuto – che la violenza trova una delle sue radici. 4. Strategie narrative e tattiche mitiche Prima di partire per la sua nuova destinazione, Marlow doveva firmare il contratto nella sede della Compagnia. Ed è lì che si reca, nella città che ha l’aspetto di un sepolcro imbiancato29. L’assenza di precisi riferimenti geografici dissolve la rassicurante distanza da un luogo, e il tempo, senza distanza, diventa mitico. La scena che segue, infatti, può definirsi un incontro con le Moire. Due donne presiedono l’ingresso della Compagnia: «Due donne, una grassa e una magra, erano sedute su delle seggiole impagliate lavorando a maglia certa lana nera»30. La più vecchia, che restava immobile mentre la più giovane andava avanti e indietro per ricevere gente, si limitava a lanciare occhiate di indifferente saggezza: «Quella donna aveva un’aria misteriosa e fatale. Spesso, laggiù, ripensai a quelle due donne che facevano la guardia alla porta delle Tenebre e lavoravano la loro lana nera come un caldo drappo funebre: una ad annunciare, ad annunciare continuamente sulla soglia dell’ignoto, l’altra a scrutare le facce idiote e giulive coi suoi occhi pieni di indifferenza»31. Il viaggio di Marlow assume così l’aspetto di uno fra i più arcaici 27 W. Cedric, A Preface to Conrad, Longman, London-New York, 1993² (1982¹), p.150: «Ci sono giustapposizioni inaspettate di eventi risalenti a tempi differenti; e Conrad ama differire la nostra decodificazione di effetti grandi e piccoli: le esperienze ci assalgono prima che noi siamo nella posizione per comprenderne il significato». 28 J. Conrad, Heart of Darkness, cit., p. 22: «il bisogno di rivendicare in qualche modo la propria dignità, alla fine». 29 A questa definizione seguiva nel manoscritto: «Le sue strade quiete[, il] vuoto decoro dei suoi viali, tutte queste grandi case così intensamente rispettabili a vedersi e così strette l’una all’altra suggeriscono il riserbo di una turpitudine discreta» (c. n.) cfr. ivi, p. 283. 30 Ivi, p. 25. 31 Ivi, p. 29.

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viaggi in letteratura, quello che inizia oltrepassando la porta delle tenebre, per procedere nel Regno dei morti o delle anime perdute, dove è in gioco l’anima stessa del viaggiatore, alla cui profonda oscurità si risale come si risale un fiume infernale – uno Stige africano: il grandioso fiume Congo. Segue l’incontro con il medico della Compagnia, le cui poche parole accennarono ai cambiamenti mentali cui erano soggetti coloro che si recavano nella colonia, e infine il congedo dalla zia, fiera ed entusiasta sostenitrice della grande opera filantropica di civilizzazione della Compagnia e, perciò, preda della montatura costruita allora intorno alle sue attività, di cui ora il nipote avrebbe fatto parte, «... like an emissary of light, ... like a lower sort of apostle»32. Di fronte a tanta cecità rispetto alla verità Marlow provò disagio e per strada ebbe poi la strana sensazione di essere un impostore e l’impressione – come un presagio – che stesse per partire non per il centro di un continente ma per il centro della terra (the centre of the earth). In questo presagio sembra trovare eco l’unico passo biblico (The Holy Bible, English Standard Edition), in cui ricorre questa stessa espressione, ovvero Ezechiele 38, 10-12: «In quel giorno ti verranno in mente dei pensieri e concepirai progetti malvagi. Tu dirai: Andrò contro una terra indifesa, assalirò genti tranquille che si tengono sicure, che abitano tutte in luoghi senza mura, che non hanno né sbarre né porte, per depredare, saccheggiare, metter la mano su rovine ora ripopolate e sopra un popolo che si è riunito dalle nazioni, dedito agli armenti e ai propri affari, che abita al centro della terra». Imbarcatosi su un piroscafo francese, Marlow giunge sulla costa dell’Africa occidentale, dove assiste al continuo sbarco di soldati in tutti i porti che vi possedevano i francesi. Proprio dalla costa giunge il primo richiamo sinistro: «Guardare una costa mentre scivola via lungo la nave è come meditare su un enigma. Eccola lì davanti a voi: sorridente, corrucciata, invitante, grandiosa, meschina, insulsa, selvaggia – sempre muta e con l’aria di sussurrare: “vieni a vedere”»33. Contro quest’enigma, in a God-forsaken wilderness venivano scaraventati soldati e doganieri, senza particolare cura per la loro sorte. Per Marlow questa era una sordida farsa recitata dinanzi a uno scenario sinistro e farseschi erano i nomi delle stazioni commerciali. Gli sembra che l’oziosità di passeggero, il suo isolamento in mezzo a uomini con i quali non aveva nessun punto di contatto, un mare dall’aspetto oleoso e languido e l’uniforme cupezza della costa lo tengano lontano dalla verità delle cose e tutto dentro la fatica (toil) di una lugubre e assurda allucinazione. Come un incantatore di serpenti, Marlow ha appena trasportato noi – suoi ascoltatori – nella stessa faticosa allucinazione che ci rende così incerti sul significato delle cose. E come lui, alla voce della risacca anche noi sembriamo provare 32 33

Ivi, p. 32. Ivi, p. 35.

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lo stesso autentico piacere, perché è qualcosa di naturale che ha la sua ragion d’essere e un significato. E non meno naturale e vera egli ci presenta la vitalità selvaggia (wild vitality) dei neri alle pagaie delle imbarcazioni che vengono dalla costa: «Non avevano bisogno di pretesti per trovarsi in quei luoghi, loro. Guardandoli, provavo un grande conforto. Per qualche attimo, sentivo di appartenere ancora a un mondo di fatti positivi; ma era una sensazione che non durava mai a lungo: qualcosa sopraggiungeva a fugarla»34. A sgomentare e insieme a fugare (to scare away) la sensazione di appartenere a un mondo di fatti positivi, chiari, facili da capire (straightforwards facts), sopraggiunse lo spettacolo di una nave da guerra ancorata al largo, che bombardava un punto della costa in cui c’erano solo cespugli: «Nella vuota immensità della terra, del cielo e dell’acqua, essa stava lì, incomprensibile, a far fuoco su un continente»35. E la rassicurazione che lì nascosto ci fosse un accampamento di indigeni, che con stupore di Marlow qualcuno chiamava nemici, non servì a dissipare la sensazione che «C’era un tocco di follia in tutta la faccenda, qualcosa di lugubremente buffo nello spettacolo [...]»36 Marlow ritornò con la mente a questo spettacolo quando, giunto presso la stazione della Compagnia, assistette alle ripetute detonazioni che sembravano essere del tutto inutili alla costruzione della ferrovia lì in corso d’opera. Tutto intorno brulicava una folla di neri, incatenati l’uno all’altro. Per descrivere l’intera scena, Marlow usa una sorta di ossimoro definendola «inhabited devastation»37. L’ossimoro è un elemento caratterizzante la lingua conradiana, usato certo non solo per la potente carica suggestiva ma anche per richiamare l’attenzione dell’ascoltatore/lettore sul linguaggio e la sua capacità di «affermare di una cosa che essa non è quella che è»38. La nostra fiducia nel linguaggio è continuamente scossa. Questa diffidenza rende però possibile riconoscere la corruzione cui il linguaggio può essere soggetto, come ci ricorda Marlow quando racconta che, ricorrendo a un altro nome, si era provveduto all’impossibilità di definire nemici quegli uomini – che di uomini ormai avevano solo la parvenza –: ora erano chiamati criminals. In Joseph Conrad: The Modern Imagination39 C. B. Cox sottolinea quanto Conrad abbia creato deliberatamente un tipo di scrittura che attira l’attenzione sulla sua stessa inadeguatezza. Anche l’uso ripetuto della costruzione «as if» – l’als ob kantiano – suggerisce che le similitudini hanno soltanto uno statuto provvisorio: «The “as if” construction gives Conrad the freedom to shape experience in terms of human language, and yet still to imply doubt 34

Ivi, p. 37. Ivi, p. 39. 36 Ibid. 37 Ivi, p. 42. 38 Cfr. G. B. Vico, Institutiones oratoriae. 39 J.M. Dent-Rowman & Littlefield, Totowa, N.J.-London, 1974. 35

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about its final validity. This insistence on the failure of civilized language is a central purpose of the novel, illustrated not only when Marlow despairingly admits that words cannot express his experience but also in the symbolism»40. Un simbolismo che possiamo rintracciare anche nel rapporto tra luce e tenebre. Se la luce rende possibile la visione delle cose, spesso però la distorce o la rende persino impossibile con il suo potere abbagliante. The darkness per così dire batte in «a blinding sunlight» che immerge «all this at times in a sudden recrudescence of glare»41, e, ancora, «in the blinding sunshine of that land would become acquainted with a flabby, pretending, weak-eyed devil of a rapacious and pitiless folly»42. Di contro, è solo in una luce fioca (dim light) che intravediamo gli indigeni – in realtà portati lì dai più lontani recessi della costa – ridotti a black shapes dallo stremo del lavoro, sedere tra gli alberi «in all the attitudes of pain, abandonment, and despair»43, in attesa della morte. Tra queste ombre nere, entro una luce crepuscolare brilla il bianco degli occhi di un uomo, spalancati e fissi ormai solo sulla propria cecità. Intorno al collo di quest’uomo vi è un filo di lana bianca. Con domande sul suo significato Marlow incalza il suo stesso racconto, se stesso, quindi il suo ascoltatore e noi lettori fino a farci «vedere» la nostra cecità sull’altro e il suo mistero. Questa immagine fa da contrappunto, non solo cromatico, a quella della Moira bianca che tesse della lana nera. Dai colloqui con il ragioniere capo della stazione, che laggiù con stupore e insieme rispetto da parte di Marlow era riuscito a mantenere un aspetto impeccabile, egli venne a conoscenza dell’esistenza di Mr. Kurtz, un agente di prima classe, una persona notevole – secondo le ammirate parole del ragioniere – che, dalla stazione commerciale di cui era capo, mandava più avorio di tutti gli altri agenti messi insieme. Marlow rimase lì dieci giorni prima di potersi mettere finalmente in cammino. Con una carovana di sessanta uomini si mise in marcia in una regione deserta per percorrere una distanza di duecento miglia. Dopo averci presentato il ragioniere dal mirabile, indifferente autocontrollo, che ammetteva che «Quando si devono fare delle registrazioni corrette, si finisce per odiare questi selvaggi – per odiarli a

40

Ivi, p. 49: «La costruzione del “come se” dà a Conrad la libertà non solo di dare forma all’esperienza nei termini del linguaggio umano ma anche di insinuare dubbi sulla sua validità finale. Questa insistenza sulla fallibilità del linguaggio civilizzato è uno scopo centrale del racconto, illustrato non solo quando Marlow ammette con disperazione che le parole non riescono a esprimere la sua esperienza ma anche nel simbolismo». 41 J. Conrad, Heart of Darkness, cit., p. 42. 42 Ivi, p. 46:«sotto il sole accecante di quella terra mi sarebbe toccato fare conoscenza col demone flaccido, pretenzioso e miope di una rapace e spietata stupidità». 43 Ivi, p. 48: «nei più vari atteggiamenti della sofferenza, dell’accasciamento, della disperazione».

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morte»44, come in una sorta di galleria di personaggi dei vari gironi dell’Inferno, Marlow ci presenta con ironia e una punta di sarcasmo il bianco che l’accompagnava, pingue e facile agli svenimenti, che affermava di essersi recato laggiù per fare soldi, e un bianco incontrato sul sentiero, in uniforme sbottonata, con una scorta armata di mercenari zanzibaresi, «molto ospitale e festoso, per non dire ubriaco»45, che dichiarava di sorvegliare la manutenzione di una strada di cui non c’era traccia, «a meno che il corpo di un negro di mezz’età, steso con una fucilata in fronte, [...] potesse considerarsi una miglioria permanente»46. Dopo quindici giorni Marlow giunse nella Stazione Centrale. Situata in un’insenatura, era circondata dalla foresta, con un grazioso bordo di fango puzzolente (with a pretty border of smelly mud) su un lato, secondo le ironiche parole di Marlow, sugli altri tre recintata da una pericolante palizzata di giunchi: «bastava un’occhiata intorno per rendersi conto del demone flaccido che stava a capo dell’intera faccenda»47. Nella scena successiva Marlow ci mostra questo demone flaccido (flabby devil): «Alcuni bianchi con dei lunghi bastoni in mano comparvero languidamente tra i fabbricati, si avvicinarono di qualche passo per darmi una sbirciatina, e sparirono di nuovo chissà dove»48. La nostra attenzione è attirata dai lunghi bastoni nelle loro mani. È l’unico elemento che li connota, un dettaglio che non può e non poteva non far pensare alle lunghe aste con cui gli indigeni venivano rappresentati all’epoca. Si tratta di una sovrapposizione che, insieme al fatto che questi uomini «appaiono», cerca di cogliere una realtà allucinata. Da uno di questi uomini Marlow apprese che il suo battello giaceva in fondo al fiume. La riparazione del battello l’avrebbe impegnato per i successivi tre mesi, come con estrema precisione aveva stimato il Direttore della Stazione Centrale, un uomo che «non ispirava né timore, né amore, e nemmeno rispetto. Ispirava un senso di disagio. [...] Non avete idea di quanto possa essere efficace una simile..., una simile... facoltà [...] Ma era grande. Era grande grazie a una cosa da nulla: nessuno avrebbe saputo dire che cosa poteva tenere a freno un uomo del genere»49. Marlow si mise subito a lavoro, il solo mezzo che gli permetteva di mantenere una presa su «the redeeming facts of life»50. Tuttavia non poteva fare a meno di guardarsi intorno di tanto in tanto e ciò che vedeva erano quegli uomini bianchi con i loro lunghi bastoni che andavano avanti e indietro, «come se fossero una folla di pellegrini im44

Ivi, p. 55. Ivi, p. 59. 46 Ibid. 47 Ivi, p. 61. 48 Ibid. 49 Ivi, p. 65. 50 Ivi, p. 68. 45

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prigionati da qualche sortilegio all’interno di una palizzata cadente»51. La parola «avorio» veniva sussurrata, invocata: «Un lezzo di rapacità imbecille circolava per ogni dove, a zaffate, come il fetore di un cadavere. Per Giove! Non ho visto mai nulla di tanto irreale in vita mia. E là fuori, l’immensità selvaggia e silenziosa che circondava questo minuscolo spiazzo sulla terra mi appariva qualcosa di grande e invincibile, come il male o la verità, pazientemente in attesa che quella spettrale invasione terminasse»52. Ritraendola in una posa di paziente attesa, Marlow personifica the silent wilderness (tradotta da Sertoli con «l’immensità selvaggia e silenziosa»), che gli appare grande e invincibile come il male o la verità. Marlow usa una «o» disgiuntiva per allineare «male» e «verità», tuttavia avvertiamo a questo punto che il tentativo di avvicinarsi a «the wilderness» significa insieme avvicinarsi al male e alla verità. Nell’alloggio di un giovane agente e alla luce di una candela, Marlow notò un piccolo bozzetto a olio che rappresentava una donna drappeggiata, con gli occhi bendati e una torcia accesa in mano: «Il fondo era scuro, quasi nero. Il piglio della donna era maestoso e il riflesso della torcia sul suo viso aveva un che di sinistro»53. Seppe dal giovane agente che quel bozzetto era stato dipinto più di un anno prima da Kurtz in quella stessa stazione. Nel suo racconto Marlow non si sofferma su questo bozzetto, ma esso resta davanti ai nostri occhi a fare da contrappunto alle parole che il giovane agente spende per celebrare Kurtz: «He is a prodigy [...] an emissary of pity, and science, and progress»54. Declama ancora che per la causa loro affidata dall’Europa c’era bisogno di intelligenze superiori «and so he [Kurtz] comes here, a special being»55. Il motivo della torcia permette di associare la donna raffigurata da Kurtz alla dea Ecate, uno dei cui epiteti era Phosphoros (portatrice di luce). Guardiana delle zone liminali, essa rappresenta il varco reale e simbolico di una soglia. Tuttavia, la divinità qui raffigurata è bendata. Conrad sembra suggerirci che Kurtz dipinse quel bozzetto nella sincera convinzione di portare in quella remota umanità la «luce», in nome di un’idea di giustizia. Ma, come nei quadri di Titorelli in Der Prozeß di Kafka, quella dea di Giustizia finisce per assomigliare a una dea della Caccia, davanti alla quale Kurtz sta per inginocchiarsi. Si scivola progressivamente in una dimensione arcaica – come arcaica e primordiale è la natura descritta da Marlow: «Un odore di fango, l’odore del fango primordiale [...] l’altissima quiete della foresta primordiale si stendeva 51

Ivi, 69. Ibid. 53 Ivi, p. 75. 54 Ivi, p. 76. 55 Ibid. 52

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davanti ai miei occhi...»; ancora: «Mi chiedevo se la perfetta quiete aleggiante sul volto di quell’immensità che ci contemplava racchiudesse un’invocazione o una minaccia. E noi che ci eravamo sperduti là dentro, cos’eravamo mai noi? Avremmo saputo padroneggiare quella cosa muta, o non sarebbe stata invece lei a padroneggiarci? Sentivo quanto immane, quanto tremendamente immane fosse quella cosa che non parlava, e che probabilmente era anche sorda. Che c’era là dentro? Vedevo uscirne un po’ di avorio, e avevo sentito dire che il signor Kurtz si trovava là in mezzo»56. I discorsi che Marlow aveva sentito su Kurtz non riuscivano però a evocare in lui nessuna immagine, mentre una forma di «credenza» intorno alla sua esistenza si andava però condensando nella sua mente, tanto da giungere a mentire a causa sua, lasciando credere al giovane agente di avere grande influenza in Europa, solo perché intuiva che poteva essere d’aiuto a Kurtz, l’agente che con il suo arrivo aveva sconcertato i piani di ascesa di molti. Ma Marlow odia la menzogna, non perché sia più schietto degli altri, come egli stesso proclama, ma perché «There is taint of death, a flavour of mortality in lies – which is exactly what I hate and detest in the world – what I want to forget»57. Brook Thomas commenta così questo passo: «Marlow wants to forget the truth of human finitude that lies remind him of: the truth of our existence in a fallen state in which we cannot have full access to truth, a state making lies inevitable. The lie Marlow tells Kurtz’s intended at the end of the story signals Marlow’s ability to overcome his hatred of lies and his acceptance of a world of finitude»58. Proveniente da un contesto del tutto diverso, risuona qui un’eco che raggiunge le parole con cui il sacerdote si rivolge a Josef K. nella Parabola della Legge di Kafka: «man muß nicht alles für wahr halten, man muß es nur für notwendig hal59 ten» e la conclusione di K.: «Trübselige Meinung... Die Lüge wird zur Weltordnung gemacht»60. Brook Thomas continua: «For Conrad, as for many contemporary theorists, humanity’s finitude is intricately related to human56

Ivi, p. 81. Ivi, p. 82:«C’è in essa un tanfo di morte, un alito di corruzione – che è proprio ciò che più odio e detesto al mondo – quel che vorrei dimenticare». 58 B. Thomas, Preserving and Keeping Order by Killing Time in Heart of Darkness, in J. Conrad, Heart of Darkness, A Case Study in Contemporary Criticism, ed. with introduction by Ross C. Murfin, University of Miami, A Bedford Book, St. Martins Press, New York, 1989, p. 250: «Marlow vuole dimenticare la verità della finitudine umana che le menzogne invece gli rammentano: la verità della nostra esistenza in un mondo della caduta, in cui non possiamo avere pieno accesso alla verità, una condizione che rende inevitabile le menzogne. La menzogna che Marlow dice alla fidanzata di Kurtz alla fine della storia segna la sua capacità di superare l’odio per le menzogne e la sua accettazione della finitudine del mondo». 59 F. Kafka, Der Prozeß, Fischer, Frankfurt a. M., 1994, p. 233: «non si deve considerare tutto vero, si deve considerarlo soltanto necessario». 60 Ibid.: «Desolante opinione ... La menzogna viene innalzata a ordine del mondo». 57

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ity’s existence within language. Language, our only access to truth, by its very nature offers only a trace of what it seeks to represent. To be within language is to be in a perpetual state of lost presence (c. n.)»61. Questo stato di «presenza perduta» riguarderà di conseguenza ogni tipo di narrazione, sia essa fiction o history. Conrad, infatti, s’interroga non solo sulla natura dell’essere umano e su quella del linguaggio ma come scrittore anche sulla «novels’ own ontology»62. Gli stacchi e le interruzioni nel racconto di Marlow sono gli elementi formali che descrivono un’ontologia negativa: «Disrupting the narrative flow, they [breaks and gaps] suggest something that resists narrativization; that is, the glimpse of the truth we have forgotten to ask»63. Marlow stesso dichiara: «No, it is impossible; it is impossible to convey the life-sensation of any given epoch of one’s existence – that which makes its truth, its meaning – its subtle and penetrating essence. It is impossible. We live, as we dream – alone...»64 Si tratta di una radicalizzazione del discorso sull’Altro trasportato all’interno dello Stesso: «Il discorso destinato a dire l’altro resta il suo discorso e lo specchio della sua operazione»65. Nel discorso di Marlow l’altro è il suo stesso vissuto. Marlow rivela «l’irreparabile perdita della presenza»66 che abita il discorso e insieme il luogo della sua organizzazione: «Of course in this you fellows see more than I could then. You see me, whom you know...»67 Il segno di questa perdita di presenza è raddoppiato dall’operazione del primo narratore, questa volta lo scrittore, che ne fa il proprio lutto, «se è vero che farne il proprio lutto significa scrivere»68.

61 B. Thomas, op. cit., p. 250: «Per Conrad, come per molti teorici contemporanei, la finitudine umana è collegata in modo complesso con l’esistenza umana dentro il linguaggio. Secondo la sua vera natura, il linguaggio – il nostro solo accesso alla verità – offre soltanto una traccia di ciò che cerca di rappresentare. Essere dentro il linguaggio significa essere in una perpetua condizione di presenza perduta». 62 cfr. J. Hawthorn, op. cit., p. 6. 63 B. Thomas, op. cit., p. 248: «Interrompendo il flusso della narrazione, [interruzioni e lacune] rivelano qualcosa che resiste alla narrativizzazione: è il barlume di verità che ci siamo dimenticati di chiedere». 64 J. Conrad, Heart of Darkness, cit., p. 82: «...No, è impossibile, impossibile comunicare ad altri quel che proviamo dentro di noi in un momento qualsiasi della nostra vita – ciò che costituisce la verità, il significato – la sua sottile e penetrante essenza. Impossibile. Si vive come si sogna: soli...». 65 M. de Certeau, L’Écriture de l’histoire, cit., p. 9. 66 Ivi, p. 339. 67 J. Conrad, Heart of Darkness, cit., p. 82: «Naturalmente, in questa storia, voi vedete molto più cose di quante ne potessi vedere io allora. Se non altro vedete me, che conoscete...» 68 M. de Certeau, L’Écriture de l’histoire, cit., p. 339.

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5. Risalire il tempo Giunti i sospirati bulloni, necessari alla riparazione del battello, Marlow lasciò la Stazione Centrale e iniziò la risalita del fiume, che due mesi dopo si sarebbe conclusa nella stazione di Kurtz. Risalire un fiume è cosa assai diversa che navigare in mare aperto. Lo è non solo sul piano della tecnica di navigazione e delle differenti difficoltà da affrontare ma anche su quello simbolico; se la navigazione in mare aperto avanza nel futuro, quella in senso opposto al corso di un fiume volge lo sguardo al passato: «Risalire quel fiume era come viaggiare all’indietro nel tempo verso i primordi del mondo, quando la vegetazione ricopriva tumultuosa la terra e i grandi alberi regnavano sovrani. Un corso d’acqua deserto, un enorme silenzio, una foresta impenetrabile. L’aria era calda, spessa, pesante, torbida. Nessuna gaiezza nello splendore abbagliante del sole»69. Per l’evidente connotazione panica, il risalire un fiume presenta affinità con l’essere bloccato in mare aperto a causa della bonaccia, come accade in The Shadow-Line, dove tuttavia si dice che: «The sea [...] was pure, safe, and friendly»70; a segnare la differenza, infatti, è soprattutto lo spettacolo di questa terra primordiale che limita e invade il fiume, tanto da renderlo torbido, pericoloso, minaccioso: «Su per quel fiume ci si smarriva come in un deserto, e a ogni momento, cercando un canale navigabile, si andava a dar di cozzo contro qualche bassofondo, così che alla fine veniva fatto di credersi in preda a un sortilegio e tagliati fuori per sempre da tutto ciò che s’era conosciuto un tempo – chissà dove – lontano lontano – in un’altra esistenza forse»71. A questa sorta di spodestamento di se stessi la memoria personale cercava di sopperire irrompendo con immagini del passato, ma queste assumevano l’aspetto di «un sogno agitato e rumoroso, ricordato con stupore frammezzo alle prepotenti realtà di quel prodigioso mondo di piante, acqua e silenzio. Ma quell’immobile vita non aveva proprio nulla di pacifico. Era l’immobilità di una forza implacabile che covava un imperscrutabile disegno»72. Da questa inquietante immobilità (stillness) Marlow fu presto distolto. Era necessario dedicarsi a occupazioni pratiche, badare a ciò che egli definisce «meri incidenti di superficie», increspature della realtà che finiscono per assorbirne e esaurirne la percezione, fino a farla scomparire. E così la verità profonda rimane nascosta – luckily. Tuttavia, sebbene Marlow cercasse di distrarre lo sguardo dalla realtà, era quella verità profonda a volgere lo sguardo su di lui e sui suoi esercizi scimmieschi (monkey tricks): «la sentivo spesso, 69

J. Conrad, Heart of Darkness, cit., p. 103. J. Conrad, The Shadow-Line. La linea d’ombra, trad. it di F. Marenco, Einaudi, Torino, 1993, p. 142. 71 J. Conrad, Heart of Darkness, cit., p. 105. 72 Ibid. 70

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misteriosamente immobile, che mi guardava mentre andavo compiendo i miei esercizi scimmieschi, proprio come guarda voialtri mentre eseguite i vostri numeri da funamboli per... quanto? Mezza corona a capriola...»73 Addentrarsi in quell’immobilità e in quell’immensità selvaggia, che aveva l’odore di carne putrefatta, era per Marlow penetrare sempre più a fondo nel cuore delle tenebre (heart of darkness). Un rullar di tamburi, che di tanto in tanto rompeva il silenzio della notte e il cui significato era ignoto, accompagnava quest’avvicinamento. Marlow descrive sé e gli altri uomini come erranti su una terra preistorica, che per loro non aveva più nulla di noto, i primi a dover prendere possesso di un’eredità orribile, che poteva essere soggiogata solo a costo di profonde angosce e di infinite fatiche. Un’eredità orribile (accursed inheritence) che aveva sul volto la smorfia orrenda di quell’umanità preistorica urlante e saltellante: «Non potevamo capire, perché eravamo ormai troppo lontani, e non potevamo ricordare, perché ci stavamo inoltrando nella notte di età primordiali, di età che sono scomparse lasciando appena qualche traccia dietro di sé – e nessuna memoria»74. A dare i brividi però era proprio l’assenza di un’estraneità assoluta, perché il senso di una remota parentela con quell’umanità selvaggia afferrava chiunque fosse abbastanza uomo da riconoscere che avvertiva dentro di sé «una traccia di rispondenza alla terribile schiettezza di quel baccano»75. Questa era la verità, – truth stripped of its cloak of time.76 È la verità costituita di sentimenti elementari come la gioia, la paura, la tristezza, la devozione, il coraggio, il furore. Rispondere al suo richiamo significava tuttavia riconoscere l’«incatenamento originale, ineluttabile, unico al nostro corpo; significa soprattutto accettare quest’incatenamento»77. Chi è uomo deve affrontare questa verità con quanto in lui c’è di più vero, con la sua forza innata, non con i principi: «No, i principi non servono. Sono acquisizioni, vestimenti, cenci graziosi che se ne volano via alla prima buona scrollata. Quel che occorre è una fede robusta»78. Cos’è dunque questa fede robusta (deliberate belief)? È un «credere» senza oggetto, inteso come «gesto “puramente” etico [...] Si “crede” in questo modo quando non è possibile fare altrimenti, quando il fondamento della realtà viene meno. Da parte sua la vita sociale esige un credere, del tutto diverso, che si articola sulle presunte conoscenze garantite dalle istituzioni, e si fonda su società di 73

Ibid. Ivi, p. 111. 75 Ibid. 76 Ivi, p. 112. 77 E. Lévinas, Quelques réflexions sur la philosophie de l’hitlérisme, in «Esprit», 2, 1934, trad. it. di A. Cavalletti, Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo, Quodlibet, Macerata, 1996, p. 32. 78 J. Conrad, Heart of Darkness, cit., p. 113. 74

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sicurezza che tengono al riparo dal problema dell’altro, dalla follia del “nulla”»79. Non furono certo i buoni sentimenti a trattenere Marlow dal partecipare a quelle urla e a quelle danze. Ancora una volta a salvarlo fu il lavoro – il duro lavoro che la navigazione in quel fiume insidioso richiedeva: «C’era tanta verità alla superficie di quelle cose da salvare un uomo assai più saggio di me»80. Anche la lettura del libro sull’arte marinaresca, ritrovato sulle rive del fiume, confermava Marlow in questo sentire. All’onesta preoccupazione dell’autore di dare indicazioni su come eseguire nel miglior modo possibile un lavoro, Marlow provava la deliziosa sensazione di essersi imbattuto in qualcosa di indiscutibilmente reale. Qui, anche il linguaggio appariva più vicino al reale. Marlow ritorna poi di nuovo sul tema del freno (restraint) per negarne l’esclusivo possesso da parte dei soli bianchi. In fondo, ci presenta gli uomini che incontra sempre sotto la luce della stessa domanda: qual è il loro limite? Gli stessi cannibali a bordo dell’imbarcazione, morsi sempre più dalla fame, sembrano rispondere anch’essi a una forza inibitrice che li trattiene dal saltare addosso ai bianchi, certo «uno di quei segreti dell’animo umano che sfidano ogni probabilità, doveva essere entrato in gioco»81. 6. La voce: l’entre-deux del corpo e della lingua Dopo il tentativo degli indigeni di respingere l’imbarcazione, conclusosi con l’uccisione del timoniere, Marlow sospettò che Kurtz potesse essere ormai morto e, al senso di profonda delusione che accompagnò questo pensiero, si accorse che stava compiendo quel viaggio al solo scopo di parlare con Kurtz. Non si era immaginato quell’uomo nell’atto di agire ma di discorrere: «tra le sue doti quella che sopra tutte dominava, che portava con sé un senso di autentica presenza, era la sua abilità oratoria, erano le sue parole – il dono dell’espressione stupefacente, illuminante, sublime e infimo, palpitante torrente di luce o ingannevole flusso scaturente dal cuore di una tenebra insondabile»82. Con Kurtz il problema del linguaggio è declinato in un’altra delle sue manifestazioni: l’espressione orale. Kurtz si presenta a Marlow as a voice. Il valore che questa voce assume per lui sembra essere quello della voix d’un autre in senso lacaniano, che comanda l’inclinazione del piano dello specchio perché rimandi l’immagine del soggetto. E allo stesso tempo voix nel senso di Derrida, sulla quale riposa il privilegio della presenza e l’idea stessa di verità. Kurtz è la capacità oratoria stessa, ambigua e contrad79

M. de Certeau, Histoire et psychanalyse entre science et fiction, cit., p. 122. J. Conrad, Heart of Darkness, cit., p. 113. 81 Ivi, p. 129. 82 Ivi, p. 149. 80

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dittoria. Di fronte al pensiero di una tale perdita, Marlow dichiara di aver provato un dolore così intenso da paragonarlo a quello provato per la perdita di una fede o per avere mancato il proprio destino nella vita. Qualcuno tra i suoi ascoltatori sbuffa, e così veniamo strappati alla seduzione della voce e recuperiamo la distanza del lettore. Marlow riprende la parola e, contro l’insinuazione di assurdità che qualcuno sembra ravvisare nel suo racconto, protesta ricordando la rassicurante condizione in cui vivono i suoi ascoltatori: «un macellaio dietro l’angolo e un poliziotto dietro l’altro»83. Ora Marlow anticipa l’esperienza di quell’ascolto, ricorrendo non alla descrizione ma direttamente al ricordo: «this voice – other voices – all of them were so little more than voices – and the memory of that time itself lingers around me, impalpable, like a dying vibration of one immense jabber, silly, atrocious, sordid, savage, or simply mean, without any kind of sense. Voices, voices – even the girl herself – now. [...] I laid the ghost of his gifts at last with a lie ...»84. Qui per la prima volta si fa cenno a una ragazza, la fidanzata di Kurtz, del tutto estranea all’intera faccenda, che Marlow conoscerà solo una volta ritornato a Londra. A lei racconterà una bugia (a lie) che, come ha chiarito l’interpretazione di Thomas Brook, segna per Marlow una nuova e diversa consapevolezza del linguaggio. Finalmente Marlow ci mostra l’anima stessa di Kurtz, di nuovo con un’anticipazione, prima che il suo racconto sia giunto al momento dell’incontro fra i due: «Quell’immensità selvaggia gli aveva dato un buffetto sulla testa, ed eccola di colpo diventata simile a una palla – una palla d’avorio; quella terra lo aveva preso, amato, avvinto, gli era penetrato nelle vene, aveva consumato la sua carne, suggellato la sua anima alla propria coi riti inimmaginabili di chissà quale diabolica iniziazione. Ne aveva fatto il suo beniamino, coccolato e viziato»85. Tutte le parole di Kurtz, racconta Marlow, erano accompagnate dall’aggettivo possessivo «mio», ogni cosa gli apparteneva, ma questo, aggiunge, non significava granché, perché cosa assai più importante era sapere a che cosa lui appartenesse, quali potenze delle tenebre lo rivendicassero a sé: «He had taken a high seat amongst the devils of the land – I mean literally»86. Marlow ricorda ai suoi ascoltatori, e a noi lettori, quanto sia difficile capire per noi, sottoposti come siamo al controllo sociale e circondati da vicini pronti ad acclamarci o a darci addosso, noi che viviamo 83

Ivi, p. 151. Ibid.: «quella voce – altre voci – tutti quanti erano poco più che voci – e il ricordo di quel tempo indugia ancora intorno a me, impalpabile, come la morente vibrazione di un immenso chiacchiericcio: stupido, atroce, sordido, selvaggio, o semplicemente meschino, privo di ogni senso. Voci, voci...persino la ragazza...ora [...] Alla fine placai con una bugia il fantasma delle sue doti». 85 Ivi, p. 153. 86 Ivi, p. 154. 84

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con la rassicurante presenza del macellaio e del poliziotto, nel sacro terrore dello scandalo, della forca e del manicomio. Come potremmo immaginare «in quali regioni delle età primordiali piedi liberi da pastoie possono portare un uomo lungo le vie della solitudine assoluta, senza un solo poliziotto intorno – lungo le vie del silenzio – di un silenzio totale, dove nessuna voce di qualche cortese vicino vi mette bisbigliando in guardia contro l’opinione pubblica. Sono queste piccole cose che fanno tutta la grandissima differenza»87. La questione posta da Marlow è ancora una volta la questione del restraint, di quale sia il limite di un uomo, prima o senza che ci sia una qualsiasi costrizione esterna a porlo. La capacità di porsi un freno significa saper resistere alle potenze delle tenebre, la cui seduzione certo non riguarda né gli ottusi né gli sciocchi, tanto meno quelle creature che sono sensibili soltanto a visioni e suoni celesti. La maggior parte non appartiene a nessuno di questi tipi umani. Per la maggior parte la terra è il posto in cui si deve sopportare ogni genere di suoni, visioni, odori. È allora che ci si deve appellare alla propria forza innata, alla fiducia nella nostra capacità di «scavare una 88 qualche buca fuori mano in cui seppellire tutta quanta quella roba» , al potere di una devozione non a se stessi ma a un oscuro e sfiancante compito. È la capacità di restare al di qua di una soglia, oltrepassare la quale significherebbe lo spezzarsi della propria struttura morale. Kurtz è certo la storia di questo superamento, con cui si rivela non solo la tenebra che abita il suo cuore ma – è noto – anche quella che abita il cuore dell’impresa coloniale europea della fine del XIX secolo. Conrad ha tenuto in modo particolare a dare a Kurtz un’origine europea: sua madre era mezza inglese, suo padre mezzo francese, aggiungendo che l’intera Europa aveva contribuito a formarlo. Un altro personaggio conradiano avrà le stesse origini di Kurtz: Mr. Verloc, anche lui un agente: The Secret Agent. Marlow stesso ha sfiorato il limite di quella soglia, al di là della quale si apre l’abisso in cui l’anima di Kurtz è caduta. Ma questo abisso è anche quello dell’anima europea, preda di un auto-inganno sostenuto dall’idea di Progresso e di una magniloquente Benevolenza, come quella di Kurtz appunto, o come – nella sua forma più diffusa – quella della zia di Marlow; oppure preda della prospettiva di poteri illimitati e di facili guadagni, come quella del direttore e di tutti gli altri pellegrini: «Una maledizione di futilità pesa sulla nostra indole: Don Chisciotte e Sancho Panza, cavalleria e materialismo, sentimenti altisonanti e supina moralità, violenti sforzi per un’idea e un’accigliata acquiescenza a ogni forma di corruzione»89. Per incarico della Società internazionale per la soppressione dei costumi selvaggi – probabile riferimento all’Association Interna87

Ivi, p. 155. Ivi, p. 157. 89 J. Conrad, Nostromo, cit., p. 112. 88

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tional pour l’Exploration et la Civilisation en Afrique, di cui fu presidente Leopoldo II –, Kurtz aveva redatto un rapporto nelle cui pagine, vibranti di eloquenza, si esaltava il potere benefico, pressoché illimitato, che i bianchi avrebbero potuto esercitarvi. Pagine entusiasmanti, dichiara Marlow, che mostrano certo un potere illimitato: quello dell’eloquenza. Kurtz è ispirato dalla fiducia e dall’esaltazione di poter operare per il bene, un’illusione sostenuta da un’enorme vanità, «quella squisitissima forma di egoismo che può assumere l’aspetto di qualsiasi virtù»90. Un uomo ossessionato da un’idea fissa, anche se da quella di giustizia, è pericoloso, perché la sua giustificazione non ammetterà nessun limite. In fondo all’ultima pagina del rapporto, dopo una commovente invocazione di altruistici sentimenti, Kurtz scriveva questa annotazione: «Exterminate all the brutes!»91 7. L’orrore e il volto dell’anima Giunto nella stazione di Kurtz, Marlow racconta del suo incontro con il giovane russo, simile a un arlecchino, un sincero avventuriero, incantato dall’eloquio di Kurtz. Anche la tribù di indigeni che lo aiutava nelle sue razzie di avorio riservava a Kurtz un vero e proprio culto. Scorrendo con il binocolo la collina su cui poggiava la stazione, Marlow scorse delle teste impalate e fu per lui la conferma che Mr. Kurtz mancava di ogni restraint nella gratificazione dei suoi smodati desideri, difettava di qualcosa che non poteva essere trovato al di sotto di quella sua magnifica eloquenza. Marlow insinua il sospetto che Kurtz sia diventato consapevole di questa mancanza soltanto alla fine, mentre the wilderness se ne era accorta fin dal primo istante e si era presa su di lui una terribile rivincita per quella eccentrica invasione, sussurrandogli: «sul suo conto cose che egli ignorava, cose di cui non aveva avuto alcuna idea fino al momento in cui non si era consultato con quell’immensa solitudine – quel sussurro aveva esercitato su di lui un fascino irresistibile. Gli aveva risvegliato echi fragorosi, perché egli era vuoto all’interno...»92 Questo vuoto (hollow) fu la cassa di risonanza del suo eccezionale eloquio. Ed ecco finalmente Kurtz, disteso su di una barella portata da un gruppo di uomini, un uomo ormai reso macilento dalle lunghe malattie, al cui acutissimo grido, come per incanto, apparvero torrenti di uomini, nudi e armati. E tutto per un momento si arrestò in una immobilità attenta. Marlow rimase colpito dal fuoco dei suoi occhi e dal composto languore della sue espressione. Non aveva l’aria di soffrire, sembrava invece per il momento pago di ogni emozione. Ma ciò lo che impressionò – e di certo 90

Ivi, p. 189. J. Conrad, Heart of Darkness, cit., p. 158. 92 Ivi, p. 183. 91

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ora non può stupirci – fu la sua voce, grave, profound, vibrating, mentre il suo corpo non sembrava capace di emettere nemmeno un sussurro. Contro il cupo (gloomy) ciglio della foresta guizzavano oscure forme umane, ma lungo la riva illuminata muoveva da destra verso sinistra la selvaggia e sfarzosa apparizione di una donna. Selvaggia e superba, il suo incedere aveva qualcosa di sinistro e magnifico, in lei l’immensità selvaggia, quel colossale corpo di feconda e misteriosa vita, si specchiava, contemplava l’immagine della propria anima tenebrosa e appassionata. Il suo viso aveva una tragica e fiera espressione di dolore selvaggio e muta sofferenza, e insieme di paura per una qualche risoluzione in lotta dentro di lei. Avanzò di qualche passo e poi si arrestò, come se il cuore le fosse mancato. A questa altezza del testo nel manoscritto e nell’edizione del «Blackwood’s Magazine» compariva questo interrogativo ancora una volta a sondare l’universo morale dell’Altro: «Il cuore le era ceduto, oppure i suoi occhi, velati del lutto che grava su tutte le cose selvagge della terra, avevano visto quell’inanità del desiderio che anche un’anima selvaggia scopre a volte nella solitudine [nella versione «Blackwood’s Magazine»: nella solitaria oscurità] del suo essere?»93 In un passo precedente avevamo già rilevato quanto per Conrad la solitudine sia un ineludibile dato dell’esistenza: Ora è proprio nella solitudine (loneliness) – o nella solitaria tenebra (lonely darkness) – del proprio essere che l’anima scopre la disperazione dell’ardente desiderio (hopelessness of longing) – scoperta forse non preclusa persino a un’anima «selvaggia». Qui nell’intreccio che lega desiderio ardente (Sehnsucht), dolore (Schmerz) e morte (Tod) risuonano forse le letture schopenhaueriane di Conrad. E piena di brama era ancora la voce di Kurtz quando, scovato da Marlow mentre sotto il richiamo dei tamburi si trascinava verso i fuochi accesi nella foresta, proclamava di aver avuto progetti immensi e di essere stato sul punto di compiere grandi cose. Risvegliando in lui istinti dimenticati e brutali, la memoria di soddisfatte e mostruose passioni, quell’immensità selvaggia lo attirava nel suo spietato seno. Questo era per Marlow ciò che seduceva l’anima senza legge di Kurtz oltre i limiti delle lecite aspirazioni. Di fronte a Kurtz Marlow provava terrore, non tanto per la possibilità di essere colpito in ogni momento alla testa, quanto perché aveva a che fare con un essere al quale non ci si poteva appellare in nome di niente di nobile o ignobile. Lo si poteva solo invocare – invocare lui e la sua esaltata e incredibile degradazione, proprio come facevano gli indigeni. Marlow si trovava a lottare con un’anima, che da sola in quell’immensità selvaggia si era guardata dentro ed era impazzita: «I saw the inconceivable mystery of a soul that knew no restraint, no faith, and no fear, yet struggling blindly with itself»94. 93 94

Ivi, p. 288. Ivi, p. 210.

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Il battello ripartì per riportare indietro Kurtz e l’avorio «salvato». Nonostante la malattia l’avesse ormai stremato, Kurtz continuava a discorrere. In fondo egli era la sua voce, profonda fino all’ultimo. Essa sopravviveva alle sue forze, per nascondere nelle pieghe dell’eloquenza l’arida tenebra del suo cuore. Così l’anima di Kurtz lottava con se stessa. Intorno alla sua nobile e superba espressione si raccoglievano le evanescenti immagini di gloria e ricchezza che infestavano gli spazi desolati della sua mente. La sua fidanzata, la sua stazione, la sua carriera, le sue idee erano gli argomenti che gli davano occasione di manifestare i suoi elevati sentimenti. Ora, a contendersi il possesso della sua anima vi era l’amore diabolico (diabolic love) e l’odio non terreno (unearthly hate) dei misteri (mysteries) che essa aveva penetrato. I due ossimori, formati dall’inversione di una connotazione morale che distingue chiaramente bene e male, finiscono per confondersi ed essere l’uno immagine speculare dell’altro; la specificazione che segue ai due ossimori è di tipo possessivo, non oggettivo: l’amore diabolico e l’odio non terreno appartengono al mistero penetrato, quello dell’anima e del suo oscuro abisso. Questo è il tremendo volto della verità intravista da Kurtz e sbirciata da Marlow over the edge: «the strange commingling of desire and hate»95. Forse in quell’istante di suprema conoscenza che precede la morte, è a quel volto che Kurtz in un sussurro ha rivolto il suo grido: «The horror! The horror!»96 Proprio in quest’espressione risiede per Marlow la grandezza di Kurtz, un uomo che ha guardato in fondo ai recessi della propria anima e infine l’ha giudicata. Questo verdetto è pur sempre un’espressione di una qualche fede, un’affermazione: «a moral victory paid for by innumerable defeats, by abominables terrors, by abominable satisfactions. But it was a victory!»97

95

Ivi, p. 222. Ivi, p. 218. 97 Ivi, p. 222: «una vittoria morale pagata al prezzo d’innumerevoli disfatte, di terrori abominevoli, di abominevoli soddisfazioni. Pure era una vittoria!» 96

Desirée Petrizza*

La «neve nera»: spazio del tempo nella poesia di Paul Celan

È noto che la poesia di Celan è legata a un profondo trauma personale e storico, che tuttavia non è mai nominato, a differenza di quanto accade per esempio nella poesia di Nelly Sachs. Essa rappresenta perciò un’esemplificazione letteraria e linguistica di grande rilievo del tema dello absent de l’histoire, così centrale nella pratica storiografica e nella riflessione teorica su storia e storiografia di Michel de Certeau. Esattamente come l’absent di cui parla lo storico francese, il trauma non nominato è la traccia profonda e costitutiva della poesia celaniana. Qui tentiamo di risalirla, iniziando da un’immagine ossimorica. Neve nera e bruciante cadde dal cielo della Romania nell’inverno del 1943. Il giovane Paul Celan, lavoratore coatto nel campo di Tăbăreşti in Valacchia, aveva appreso della morte della madre deportata in Transnistria. Il poeta decide di tradurre in versi, in un manoscritto dello stesso anno, la lettera della madre – ricevuta in circostanze e con modalità mai del tutto chiarite – in cui è contenuta la notizia della tragica morte del padre, deportato anch’egli e minato dal tifo, avvenuta presumibilmente nell’autunno del 1942. Nella cornice dell’assurda temperie dello sterminio motivato, la madre, già perduta, ma, nella finzione, lontana vedova nel gelo senza riparo, parla per l’ultima volta a un figlio già orfano: SCHWARZE FLOCKEN Schnee ist gefallen, lichtlos. Ein Mond ist es schon oder zwei, daß der Herbst unter mönchischer Kutte Botschaft brachte auch mir, ein Blatt aus ukrainischen Halden: »Denk, daß es wintert auch hier, zum tausendstenmal nun im Land, wo der breiteste Strom fließt: Jaakobs himmlisches Blut, benedeiet von Äxten… O Eis von unirdischer Röte – es watet ihr Hetman mit allem Troß in die finsternden Sonnen… Kind, ach ein Tuch, mich zu hüllen darein, wenn es blinket von Helmen, wenn die Scholle, die rosige, birst, wenn schneeig stäubt das Gebein deines Vaters, unter den Hufen zerknirscht * [Università di Bologna].

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DESIRÉE PETRIZZA

das Lied von der Zeder… Ein Tuch, ein Tüchlein nur schmal, daß ich wahre nun, da zu weinen du lernst, mir zur Seite die Enge der Welt, die nie grünt, mein Kind, deinem Kinde!« Blutete, Mutter, der Herbst mir hinweg, brannte der Schnee mich: sucht ich mein Herz, daß es weine, fand ich den Hauch, ach des Sommers, war er wie du. Kam mir die Träne. Webt ich das Tüchlein1. FIOCCHI NERI Neve è caduta, senza luce. Una luna è già o due che l’autunno sotto tonaca da monaco portò un messaggio anche a me, una foglia dalle colline dell’Ucraina: «Pensa che è inverno anche qui, per la millesima volta ora nella terra dove scorre il torrente più largo: sangue celeste di Giacobbe, benedetto da asce… O ghiaccio di un rosso non terrestre – guada il loro atamano con tutto il carriaggio nei soli che si rabbuiano…figlio, ah un panno, per avvolgermi dentro, quando luccichi d’elmi, quando la lastra di ghiaccio, rosea, si fenda, quando neve polverosa si facciano le ossa di tuo padre, e sotto gli zoccoli stritoli il canto del cedro… Un panno, anche piccolo, anche stretto, che io conservi ora, che tu a piangere impari, al mio fianco l’angustia del mondo, che mai sarà verde, o figlio, per tuo figlio!» Sanguinò, madre, via l’autunno da me, mi bruciò la neve: cercai il mio cuore, ché piangesse, trovai l’alito, ah, dell’estate. Era come te. Mi vennero le lacrime. Tessei il panno2.

Di lacrime, fili di neve sciolta3, è intessuta la trama del panno che la madre implora. È questo il testo (nella sua accezione etimologica di «tessuto») che il

1 P. Celan, Gesammelte Werke in sieben Bänden, hrsg. von B. Allemann und S. Reichert, unter Mitwirkung von R. Bücher, Bd. 4, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 2000, p. 129. 2 Traduzione parzialmente modificata da P. Celan, Poesie, trad. it. di M. Kahn e M. Bagnasco, Mondadori, Milano, 1976, p. 31. 3 Cfr. B. Wiedemann-Wolf, Antschel Paul-Paul Celan. Studien zum Frühwerk, Niemeyer, Tübingen, 1985, pp. 269-271.

LA «NEVE NERA»: SPAZIO DEL TEMPO NELLA POESIA DI PAUL CELAN

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figlio nell’ultimo verso tesse, e per tutta la vita tesserà nella lingua materna4 degli assassini: una trama di parole per conservare «l’angustia del mondo» (die Enge der Welt). Per strati contigui5 di date, corpi, terra e cristalli di ghiaccio, la neve del regno millenario della distruzione – che cadde e ricoprì i corpi di Leo e Friederike Antschel – diviene elemento di un paesaggio poetico, di un paesaggio di parole (Wortlandschaft)6. La parola poetica ha carattere fenomenico (phänomenal), come Celan scrive nel suo saggio sulla poesia di Mandel’štam7, essa è fenomeno strettamente umano – «creaturale» –, essa si protende nel tempo8 come solco dell’incandescenza interiore inscritto nella roccia. Al di là della metafora e dell’emblema, la «neve» è un luogo in cui il tempo può accedere e partecipare: «das Gedicht bleibt zeitoffen, Zeit kann hinzutreten, Zeit partizipiert»9, in cui si manifesta l’attitudine specialissima della poesia ad essere in rapporto con un «tempo universale»10, un tempo creatura4 In Bucovina, paese natale di Paul Celan, si parlavano numerose lingue (rumeno, ucraino, tedesco, svevo, yiddish), ma la comunità ebraica, di cui il poeta faceva parte, conservava la lingua tedesca come «Muttersprache». In casa Antschel il tedesco è trasmesso dalla madre, Fritzi Schrager. 5 Aspetto «metonimico» della poesia celaniana, la contiguità, il rapporto corpo-a-corpo tra mondo e memoria, corpi e date, ha il suo archetipo nel contatto, immaginato, tra i cadaveri dei genitori e la neve, straordinariamente abbondante nell’inverno del 1942 in Ucraina e in Bucovina. 6 P. Celan, Der Meridian. Vorstufen – Textgenese – Endfassung. Tübinger Ausgabe, hrsg. von J. Wertheimer, B. Böschenstein u. H. Schmull, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1999, p. 102: «Gedichte als Wortlandschaften». 7 Cfr. P. Celan, Die Dichtung Ossip Mandelstamms, in Id., Mikrolithen sinds, Steinchen. Die Prosa aus dem Nachlaß. Kritische Ausgabe, hrsg. und kommentiert von B. Wiedemann und B. Badiou, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 2005, pp. 196-206, trad. it. di G. Bevilacqua La poesia di Osip Mandel’štam, in P. Celan, La verità della poesia. «Il meridiano» e altre prose, Einaudi, Torino, 1993, pp. 47-56. 8 Ivi, p. 197; trad. it. parzialmente modificata da Celan, La verità della poesia, cit., p. 49: «Der Ort des Gedichts ist ein menschlicher Ort, “ein Ort im All”, gewiß, aber hier, hier unten, in der Zeit. Das Gedicht bleibt, mit allen seinen Horizonten, ein sublunarisches, ein terrestrisches, ein kreatürliches Phänomen. Es ist Gestalt gewordene Sprache eines Einzelnen, es hat Gegenständlichkeit, Gegenständigkeit, Gegenwärtigkeit, Präsenz. Es steht in die Zeit hinein». [«Il luogo della poesia è un luogo umano, “un luogo nel tutto”, certo, ma qui, quaggiù, nel tempo. La poesia resta, con tutti i suoi orizzonti, un fenomeno sublunare, terrestre, creaturale. È lingua di un singolo divenuta figura, essa possiede una capacità di resistenza, permanenza, vigilanza, presenza. Essa si protende nel tempo»; sottolineature di P. Celan]. Per la resa italiana del penultimo periodo e l’ottima analisi linguistica cfr. C. Miglio, Vita a fronte. Saggio su Paul Celan, Quodlibet, Macerata, 2005, p. 23. 9 Ivi, p. 199; [«la poesia resta aperta al tempo, tempo può accedervi, tempo partecipa»; le sottolineature di P. Celan]. Una riflessione su questo concetto, e sul tempo celaniano è in S. Zanetti, »zeitoffen«. Zur Chronographie Paul Celans, Fink, München, 2006. 10 P. Celan, Mikrolithen sinds, Steinchen, cit., p. 98: «Die Dichtung steht nicht so sehr in einem Verhältnis zur Zeit, sondern zu einer Weltzeit» [«La poesia non è tanto in rapporto con

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le esteso. Schnee è, allo stesso tempo, luogo del tentato annientamento di corpi e di memoria, e tempo invernale del lutto, grano di ghiaccio che resiste all’estate: ICH bin allein, ich stell die Aschenblume ins Glas voll reifer Schwärze. Schwestermund, du sprichst ein Wort, das fortlebt vor den Fenstern, und lautlos klettert, was ich träumt, an mir empor. Ich steh im Flor der abgeblühten Stunde und spar ein Harz für einen späten Vogel: er trägt die Flocke Schnee auf lebensroter Feder; das Körnchen Eis im Schnabel, kommt er durch den Sommer11. SONO solo, metto il fior di cenere nel vaso pieno di matura nerezza. Bocca sorella, tu dici una parola che sopravvive dinanzi alle finestre, e su di me arrampicando sale tacito ciò che sognai. Io porto il fiore nero dell’ora sfiorita e serbo una resina per un uccello tardivo: egli porta il fiocco di neve sulla piuma rossa di vita; col grano di ghiaccio nel becco egli passa attraverso l’estate12.

Bianco, rosso e nero. Il bianco che acceca, ricopre, cancella alla vista ma serba sotto la sua coltre gelida. Il rosso del sangue del patriarca Giacobbe13, delle vittime insepolte della shoah, della vita che scorre canalizzata e anima il volo di un uccello migratore. E il nero14, capovolgimento mistico del bianil tempo, quanto con un tempo universale»]. Weltzeit vale, tra gli altri significati: «“universalzeit für alle orte der erde”, (mit bezug auf die ortszeit am nullmeridian) einheitlich festgelegte uhrzeit» [«“tempo universale per tutti i luoghi della terra”, (in riferimento all’ora locale del meridiano zero) ora fissata in modo unitario»]. J. u. W. Grimm, Deutsches Wörterbuch, Hirzel, Leipzig, 1854-1971. 11 P. Celan, GW, Bd. 1, p. 55. 12 Traduzione parzialmente modificata da P. Celan, Poesie, a cura di G. Bevilacqua, Mondadori, Milano, 19994, p. 89. Per le traduzioni successive delle poesie analizzate seguo la versione di Bevilacqua apportando parziali variazioni. 13 Due testi fondamentali per l’analisi della poesia e la comprensione delle numerose allusioni al mondo ebraico sono: B. Wiedemann-Wolf, Antschel Paul-Paul Celan, cit., pp. 266-272 e J. Felstiner, Paul Celan: Poet, Survivor, Jew, Yale University Press, New Haven/London, 2001, pp. 14-21. Per una ricognizione dei testi sulla giovinezza di Celan e sulla storia e la cultura della Bucovina cfr. C. Miglio, Vita a fronte, cit., p. 28, n. 14. 14 In questa poesia Celan gioca sul doppio significato di «Flor» che vale sia: «flos, vigor, blüte» sia: «pannus tenuissimus, nebula, velum, trauerflor [fascia da lutto]»: J. u. W. Grimm, Deutsches Wörtebuch, cit. Inoltre il termine «Schwärze» vale anche: «schwarzer Farbstoff aus verkohlten Resten tierischer oder pflanzlicher Stoffe» [«sostanza colorante nera ricavata dai

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co, luogo in cui avviene l’inversione storico-poetica fondamentale, la contaminazione dei dati «reali» del paesaggio con le date del limite temporale aggiunto che scandiscono la vita di una creatura. La poesia s’insinua nelle fibre del reale15, ne produce una mutazione genetica, o forse no, è la realtà che irrompe in tutta la sua impossibile presenza nella parola: «La poesia – tra quali condizionamenti! – diventa la poesia di qualcuno che – ancor sempre – percepisce, rivolto a quanto appare, interrogandolo e interpellandolo; diventa colloquio – spesso un colloquio disperato.[…] Ma, in questa presenza, l’entità interpellata e nominata fin quasi a diventare un Tu, porta con sé anche il suo essere Altro. Ancora nel qui e ora della poesia – la quale, di per sé, possiede sempre soltanto questo unico, irripetibile e puntuale presente –, ancora in questa immediatezza e contiguità la poesia consente che abbia voce quanto, all’Altro, è più proprio: ossia il suo tempo»16. HEIMKEHR Schneefall, dichter und dichter, taubenfarben wie gestern, Schneefall, als schliefst du auch jetzt noch. Weithin gelagertes Weiß. Drüberhin, endlos, die Schlittenspur des Verlornen. Darunter, geborgen, stülpt sich empor, resti carbonizzati di sostanze animali o vegetali»], Duden, Das große Wörterbuch der deutschen Sprache in zehn Bänden, Dudenverlag, Mannheim/Leipzig/Wien/Zürich, 19993. Il «nerofumo» maturo è terreno nel vaso in cui l’«io» mette il fiore di cenere, fiore del lutto, unica presenza «in fiore», vita dalle ceneri in un tempo di ore appassite. 15 «Il rapporto storia-poesia [...] è un rapporto estremamente perfido: mai aspettarsi dalla poesia un discorso diretto “sulla storia” [...] Esiste una specie di convergenza-antagonismo fra storiografia e poesia [...] La poesia (più che la letteratura in senso lato) è forse l’unica storiografia “reale”, l’unico evento che si autoscrive e autoparla, un evento che finisce per identificarsi senza residui nella traccia scritta che ha lasciato. La poesia è questo, e di più, e anche molto di meno, ben s’intende.»: A. Zanzotto, Qualcosa al di fuori e al di là dello scrivere, in Id., Le poesie e prose scelte, a cura di S. Dal Bianco e G.M. Villalta, Mondadori, Milano, 20035, pp. 1227-1228. 16 P.Celan, Der Meridian, in Id., GW, Bd. 3, pp. 198-199: «Das Gedicht wird – unter welchen Bedingungen! – zum Gedicht eines – immer noch – Wahrnehmenden, dem Erscheinenden Zugewandten, dieses Erscheinende Befragenden und Ansprechenden; es wird Gespräch – oft ist es verzweifeltes Gespräch. [...] Aber in diese Gegenwart bringt das Angesprochene und durch Nennung gleichsam zum Du Gewordene auch sein Anderssein mit. Noch in Hier und Jetzt des Gedichts – das Gedicht selbst hat ja immer nur diese eine, einmalige, punktuelle Gegenwart –, noch in dieser Unmittelbarkeit und Nähe läßt es das ihm, dem Anderen, Eigenste mitsprechen: dessen Zeit».

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was den Augen so weh tut, Hügel um Hügel, unsichtbar. Auf jedem, heimgeholt in sein Heute, ein ins Stumme entglittenes Ich: hölzern, ein Pflock. Dort: ein Gefühl, vom Eiswind herübergeweht, das sein tauben-, sein schneefarbenes Fahnentuch festmacht17. RITORNO IN PATRIA Cade la neve, sempre più fitta, color di colomba, come ieri, cade la neve, quasi tu dormissi ancora. Bianco gettato a distesa. Laggiù, senza fine, il solco della slitta di chi è perduto. Di sotto, raccolto e sicuro, si rizza verso l’alto ciò che tanto agli occhi duole, colle dopo colle, invisibile. Su ognuno, ricondotto al suo oggi, un Io scivolato nella mutezza: un piolo, di legno. Là: trasportato dal vento glaciale, un moto dell’animo che il suo stendardo color di colomba e di neve assicura.

Il ritorno in patria, alla radice, è ossessione celaniana. Esso è impossibile nella realtà della non appartenenza, della scomparsa dell’unità culturale e geografica dei luoghi da cui si proviene; ma può essere tentato nei luoghi della poesia costruendo sulla memoria, in una «topografia mnestica tracciata dalla 17

P. Celan, GW, Bd. 1, p. 156.

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scrittura»18. Quello della neve è, ancora con parole della Miglio, «spazio determinato dal tempo»19, è luogo mentale in cui il tempo, quel tempo vive e rivive in un movimento circolare: la neve nasconde e acceca, ma, allo stesso tempo, consente di vedere l’invisibile tumulo dei morti insepolti. E solo sulla neve l’«io», muto, è ricondotto al suo presente, al suo «oggi», egli diventa un piolo di legno, un punto di riferimento nella landa monotona e innevata20, un paletto per fissare un lembo di tenda che in Anabasis21 diverrà «parolatenda» (Zeltwort) da abitare. Solo attraverso la rielaborazione ossessiva e poetica del passato l’«io» può ritrovare il suo presente e abitare la distanza da esso in una proiezione stratigrafica di suggestiva impronta geologica22: c’è piolo, e quindi testimonianza e (tentativo di) vita attuale e «superficiale», solo se c’è neve, se ci sono corpi sotto la neve a rendere una distesa bianca senza fine, luogo della traccia di slitta della ferita del passato. ALLERSEELEN Was hab ich getan? Die Nacht besamt, als könnt es noch andere geben, nächtiger als diese. Vogelflug, Steinflug, tausend beschriebene Bahnen. Blicke, geraubt und gepflückt. Das Meer, gekostet, vertrunken, veträumt. Eine Stunde, seelenverfinstert. Die nächste, ein Herbstlicht, dargebracht einem blinden Gefühl, das des Wegs kam. Andere, viele, ortlos und schwer aus sich selbst: erblickt und umgangen. Findlinge, sterne, schwarz und voll Sprache: benannt nach zerschwiegenem Schwur. Und einmal (wann? auch dies ist vergessen): den Widerhaken gefühlt,

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C. Miglio, Vita a fronte, cit., p. 49. Ivi, p. 28. 20 Cfr. J. Seng, Auf den Kreis-Wegen der Dichtung: Zyklische Komposition bei Paul Celan am Beispiel der Gedichtbände bis »Sprachgitter«, Winter, Heidelberg, 1998, p.202. 21 P. Celan, GW, Bd. 1, p.256-257. 22 Per un’analisi «geologica» di alcuni temi celaniani, cfr. U. Werner, Textgräber. Paul Celans geologische Lyrik, Fink, München, 1998. 19

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wo der Puls den Gegentakt wagte23. TUTTE LE ANIME Che cosa ho fatto? Ho inseminato la notte, come se ancora altre ci fossero, più notturne di questa. Volo d’uccelli, di pietre, mille percorsi tracciati. Sguardi rapinati e recisi. Il mare, gustato, bevuto, sognato. Un’ora, oscurata dalle anime. La successiva, una luce d’autunno, offerta a un cieco sentimento che sopraggiunge. Altre, molte, spaesate e grevi: viste e aggirate. Erratiche, stelle, nere e di parole piene: denominate secondo un giuramento taciuto. E una volta (quando? anche questo è dimenticato): sentito nella carne l’uncino, dove il polso osò il controtempo.

Cosa fa il poeta? Egli agisce sui luoghi, semina paesaggi di parole, sparge il suo seme nella notte come se si potesse rendere più buio il nero. Le orbite tracciate dalla gravità delle pietre, dagli uccelli in volo, si muovono nello spazio profondo, al di là del visibile. Gli sguardi sono recisi, il mare giammai visto, solo gustato, bevuto, immaginato in sogno; le ore trascorrono scure, oscurate dal filtro delle anime morte, impregnate della luce del ricordo, come il lucore autunnale circonda un cieco sentire che giunge a tentoni. Ore che sembrano massi, rocce erratiche24 scivolate giù dalle vette 23

P. Celan, GW, Bd. 1, p. 183. P. Celan, Der Meridian. Vorstufen – Textgenese – Endfassung. Tübinger Ausgabe, cit., p. 97: «Wer schon durchschaut hat, ehe er wahrnimmt und anschaut, dem erscheint das Gedicht in seiner ganzen – auch im geolgischen Sinne zu verstehenden – Mächtgkeit gegenüber; es füllt sich mit dem Dunkel des Dagegenstehenden; ein erratischer Sprachbloch, schweigt es dich an. Es ist das Ärgernis – auch da noch gibt es dir eine Chance. –»; «die einzige Hoffnung: das Gedicht möchte noch einmal, erratisch,da sein –» [«A chi ha già capito, prima di percepire e di guardare, appare a fronte la poesia in tutta la sua – anche in senso geologico – potenza; essa si riempie dell’oscurità di ciò che si pone di contro; un erratico blocco di parole tace verso di te. È lo scandalo – là c’è ancora una chance per te –; l’unica speranza: la poesia potrebbe ancora una volta, erratica, essere là».] Cfr. S. Günther, Physische Geographie, Göschen, Stuttgart, 24

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ghiacciate della patria in memoria e atterrate in lande ignote, come trovatelle spaesate e pesanti, del colore della notte più notturna. Pietre piene di parole costellano il paesaggio, l’unico paesaggio; e il dire è nero, il giuramento è taciuto, il movimento è impossibile, le ore continuamente aggirate, viste e non viste25. Nella carne del polso l’uncino, strumento del ritorno, boomerang della sofferenza che ritma con voce diversa il suono dell’odierna partitura. Il polso, luogo del tempo umano, scandisce il controtempo della creazione poetica, della poesia come creazione nella creazione. E la tempia è «tempus»26 1895, p. 132, in P. Celan, Die Gedichte. Kommentierte Gesamtausgabe in einem Band, hrsg. und kommentiert von B. Wiedemann, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 2005, p. 660: «Auch die Findlinge oder erratischen Blöcke dürfen nicht fehlen, Felsstücke von allen Größen, deren geognostische Beschaffenheit von derjenigen des Ortes, an den man sie gegenwärtig antrifft, grundverschieden ist». [«Anche i trovanti o blocchi erratici non possono mancare: pezzi di roccia di tutte le dimensioni la cui natura geognostica è radicalmente differente da quella del luogo in cui attualmente le si incontra».] I massi erratici sono blocchi rocciosi di dimensioni varie (dai più piccoli fino ad arrivare ad alcune centinaia di metri cubi), residuo del dilavamento di depositi morenici. Sono irregolarmente distribuiti nelle aree glacializzate e a volte si ritrovano completamente isolati in posizioni imprevedibili. In base alla loro posizione e diffusione è spesso possibile ricostruire l’originaria estensione e i percorsi dei ghiacciai che li hanno trasportati. 25 Cfr. Kommentar zu Paul Celans »Sprachgitter«, hrsg. von J. Lehmann, unter Mitarbeit von J. Finckh, M. May u. S. Brogi, C. Winter, Heidelberg, 2005, p. 198: «Bei Celan indes sind Stein und Stern keine Alternative, der Stein kann, wie in unserem Gedicht [Blume], Sternqualitäten haben, der Stern (wie im Textzeugen) durch Lichtverlust (blind) ein Stein sein.» [«In Celan, invece, pietra e stella non sono in alternativa, la pietra può, come nella nostra poesia, avere le qualità di una stella, la stella (come nel testo) con la perdita della luce (cieca) può essere una pietra]. L’ambivalenza della pietra-stella è ancora più evidente in Allerseelen in cui si parla di stelle-massi (erratici) piene di parole; non esiste alternativa neanche tra parola e silenzio compresenti nell’oscurità della pietra. 26 Alla voce Puls (di chiara derivazione latina) del Duden, Deutsches Universalwörterbuch, Bibliographisches Institut & F. A. Brockhaus AG, Mannheim, 2003 come prima definizione silegge: «das Anschlagen der durch den Herzschlag weitergeleiteten Blutwelle an den Gefäßwänden, bes. der Schlagadern am inneren Handgelenk und an den Schläfen» [«il battito (del flusso di sangue mosso grazie alla pulsazione cardiaca) sulle pareti dei vasi sanguigni in particolare delle arterie del polso e delle tempie»]. Polso e tempie sono il luogo in cui il ritmo (Takt) umano del flusso sanguigno può essere percepito, misurato, e in molte lingue e dialetti (valenziano, catalano, provenzale, fino all’arco appenninico in Italia) la voce «polso» non denota una parte del braccio, ma le «tempie». La diagnosi «temporale» delle pulsazioni su soggetti umani è raccomandata fin dai tempi di Ippocrate e, probabilmente, tempus, time, e forse anche Zeit sono in origine termini onomatopeici costruiti sulla radice tam/tem/tim/tom/tum, simile alla scansione di uno strumento a percussione. Cfr. H. Weinrich, Am Puls der Zeit. Linguistische Beobachtungen zum Zeitsinn, in Ders., Beiträge zur Zeit, Universität Stuttgart, Stuttgart, 1992, e Id., Le temps, le pouls et la tempe, lection terminale du Collège de France, Collège de France, Paris, 1999, ed. it. Il polso del tempo, o ciò che le tempie sanno del tempo, in Il polso del tempo, a cura di F. Bertoni, La Nuova Italia, Milano, 1999. Altre notizie ancora in H. Weinrich, Knappe Zeit. Kunst und Ökonomie des befristeten Lebens, Beck, München, 2004, trad. it. di F. Ri-

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che si oppone al tempo storico e si sgretola come roccia trasportata dalla fusione del ghiaccio, matrice delle forme della memoria, a comporre, stella fredda della costellazione del cuore, la rima petrosa della terra nominata. MUSCHELHAUFEN: mit der Geröllkeule fuhr ich dazwischen, den Flüssen folgend in die abschmelzende Eisheimat, zu ihm, dem nach wessen Zeichen zu ritzenden Feuerstein im Zwergbirkenhauch. Lemminge wühlten. Kein Später. Keine Schalenurne, keine Durchbruchscheibe, keine SternfußFibel. Ungestillt, unverknüpft, kunstlos, stieg das Allverwandelnde langsam schabend hinter mir her27. CUMULI DI CONCHIGLIE FOSSILI: tra questi io con la mazza di pietra grezza passai, seguendo i fiumi verso la patria glaciale in disgelo, verso di essa, verso quella pietra focaia nell’alito delle betulle nane28,

gotti, Il tempo stringe. Arte ed economia della vita a termine, Il Mulino, Bologna, 2006. Il tempo pulsante e ritmico del polso è tempus che, sempre in latino, è anche la tempia in cui si avverte il battito del cuore umano. Polso e tempia sono luoghi celaniani dell’umano e l’umano nelle sue poesie è portatore di un proprio tempo; di una scansione che si affianca, si sostituisce o si discosta dal tempo «ufficiale» in una sorta di straniamento, come il battito del cuore sotto il quadrante dell’orologio da polso. Cfr. P. Celan, GW, Bd. 2, p. 17; Bd. 1, p.287; Bd. 3, p.77. 27 P. Celan, GW, Bd. II, p. 235.

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per inciderla con l’emblema di chi? Lemming scavarono. Nessun Dopo. Nessuna urna a conca, nessun disco traforato, nessuna fibula dal piede a stella. Inappagata, non collegata, senz’arte, dietro di me lentamente strascicando saliva quella cosa che muta ogni cosa.

L’uncino si chiude su se stesso: kein Später. Lento come lo scioglimento dei ghiacci nell’Olocene29 – il riflusso, il ritorno. Non è ritorno in patria questo, ma cristallizzazione della condizione del ricordo; impossibilità tutta mentale e poetica di un cammino storico che non sia circolare, che non sia scavo analisi e sedimentazione di quel terreno, ma anche di tutta la Terra: che essa ritorni, che riviva incessantemente l’impossibilità del disgelo. Che la Terra tutta non giunga mai all’età del bronzo30: è questo il bulino che tarla 28 La betulla nana e il lemming (v. 10) sono presenti, sotto forma di fossili del Pleistocene (da circa 1,8 milioni a circa 12.000-9.000 di anni fa), nell’Europa centrale. Cfr. Brockhaus-Taschenbuch der Geologie. Die Entwicklungsgeschichte der Erde. Mit einem ABC der Geologie, Brockhaus, Leipzig, 1959, p. 392: «Von Nagetieren (Rodentier) finden sich vor allem Reste des Lemming (Myodes torquatus) häufig in Höhlen. Er liebte ein kaltes Klima; seine Reste entstammen somit wahrschenlich Glazialzeiten». [«Tra i roditori si trovano soprattutto resti del lemming spesso in cavità. Esso prediligeva un clima freddo; i suoi resti sono perciò verosimilmente originari del periodo glaciale»]. E p. 395: «Die untersten, noch der ausgehenden Eiszeit angehörenden Schichten werden von arktisch-alpinen Glazialpflanzen beherrscht, wie Polarweide (Salix polaris), Silberwurz (Dryas octopetala) und Zwergbirke (Betula nana)». [«Gli strati più profondi appartenenti ancora alla tarda epoca glaciale sono dominati da piante glaciali artico-alpine come il salice polare, il camedrio alpino e la betulla nana»]. 29 L’Olocene o Alluvium, inziato tra 12.000 e 9.000 anni fa, è il periodo più recente dell’era neozoica (Quaternario); in esso le condizioni climatiche della Terra divengono molto simili a quelle attuali. 30 Schalenurne, Durchbruchscheibe e Sternfußfibel sono oggetti appartenenti all’età del bronzo. La «Schalenurne» è un’urna a conca molto frequente nei corredi funebri della prima e della media età del bronzo essa porterà ad una vera e propria «Shalenurnenkultur» nell’antica età del ferro. Cfr. J. Filp, Enzyklopädisches Handbuch zur Ur- und Frühgeschichte Europas in zwei Bänden, Kohlhammer, Stuttgart-Berlin-Köln-Mainz, 1966, p. 839. Il disco traforato «a giorno»

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ogni corda del ponte verso il Dopo. I cumuli di conchiglie fossili (Muschelhaufen)31 del Mesolitico diventano l’unico paesaggio possibile da attraversare, da cui l’«io» si lascia circondare armato della mazza di pietra della «cultura dei ciottoli scheggiati»32, mentre si naviga controcorrente seguendo i fiumi33 verso la patria in disgelo, verso la vetta, il ghiacciaio eterno cui continuamente si anela. Nessun oggetto dell’età del bronzo vedrà mai la luce in questa storia cristallizzata. Il cuore comanda l’ultima glaciazione, la parola si muove per «amor di vedretta»34, la lacrima rotola indietro nell’occhio. BRUNNENartig ins Verwunschne getieft, mit doppelt gewalmten Tagträumen drüber, Quaderè un orpello ottenuto a partire dall’età del bronzo attraverso la «Durchbrucharbeit», una tecnica ornamentale che consiste nel perforare il corpo dell’oggetto sfruttando il secco contrasto tra parti solide e parti precedentemente intagliate lasciate senza sostegno, Cfr. Reallexikon der Vorgeschichte in 14 Bänden, hrsg. von M. Ebert, de Gruyter, Berlin, 1925, Bd. 2, p. 471. La fibula fa la sua prima comparsa nel Paleolitico, ma conosce la sua piena fioritura solo durante l’età del bronzo, età in cui il «piede» («Fuß») della fibula comincia ad essere variamente decorato e ad assumere le più svariate forme (conca, disco, sfera, spirale, animale ecc.). Cfr. “Fibulae”. Dall’età del bronzo all’alto Medioevo. Tecnica e tipologia, a cura di E. Formigli, Polistampa, Firenze, 2003. 31 Cfr. F. Behn, Kultur der Urzeit, 3 Bände, W. de Gruyter, Berlin, 1950, Bd. 1, p. 59 in P. Celan, Die Gedichte, cit., p. 800: «Diese Anhäufungen, Kjökkenmöddinger, Affaldsdynger oder Skaldinger (Muschelhaufen) genannt, [...] enthalten Asche und Kohle, Topfscherben und Werkzeuge aus Feuerstein, Knochen und Hirschhorn». [«Questi ammassamenti, chiamati Kjökkenmöddinger, Affaldsdynger o Skaldinger, [...] contengono cenere e carbone, frammenti di vasi e utensili di selce, ossa e corno di cervo]. I cumuli di conchiglie fossili sono il risultato del consumo di molluschi per il sostentamento in seguito al popolamento delle coste dopo l’ultima glaciazione». Cfr. G. Smolla, Epochen der menschlichen Frühzeit, Karl Alber, Freiburg-München, 1967, pp. 85-87. 32 La «Pebble Culture» («Geröllindustrie») o cultura dei ciottoli scheggiati in Europa risale a oltre un milione di anni fa, il più antico manufatto litico tipico di questa cultura è il «chopper» o ciottolo scheggiato. Esso era ottenuto asportando una o più schegge da un ciottolo fino a ottenere un bordo più o meno tagliente. La Geröllkeule è un artefatto del Mesolitico ottenuto, specie negli esempi più antichi, semplicemente forando un ciottolo di grandezza variabile e fissando successivamente un manico in legno nel foro centrale. Secondo alcune ipotesi, l’esigua ampiezza del foro di fissaggio di alcune «Keulenköpfe» è da attribuirsi alla funzione magica o di statussymbol assunta in seguito da questi oggetti. Cfr. Reallexikon der Vorgeschichte, cit., pp. 334-336; Fischer Weltgeschichte, Bd. 1: Vorgeschichte, hrsg. von M.-H. Alimen u. M.-J. Steve, Fischer, Frankfurt a.M., 1966, p. 38 in P. Celan, Die Gedichte, cit., p. 800. 33 Le glaciazioni del Pleistocene prendono il proprio nome da affluenti del Danubio: Günz, Mindel, Riß, Würm. Cfr. Brockhaus-Taschenbuch der Geologie, cit., p. 401. 34 Cfr. P. Celan, GW, Bd. 1, p. 92.

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ringe um jeden Hauch: die Kammer, wo ich dich ließ, hockend, dich zu behalten, das Herz befehligt den uns leise bestrickenden Frost an den geschiedenen Fronten, du wirst keine Blume sein auf Urnenfeldern und mich, den Schriftträger, holt kein Erz aus der runden Holz-Lehm-Hütte, kein Engel35. COME UN POZZO sprofondata nella malia, con, sopra, un tetto a doppio spiovente di sogni ad occhi aperti, cerchi di pietra squadrata attorno ad ogni respiro: la camera, dove ti lasciai, rannicchiata, per conservarti, detiene, il cuore, il comando sul gelo che tenue ci incanta su fronti divisi, tu non sarai un fiore su campi di urne, e me, portatore di scrittura, nessun bronzo toglie dal tondo capanno di legno e argilla, nessun angelo.

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P. Celan, GW, Bd. 2, p. 302.

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Nessun «bronzo», nessun oggetto prodotto a partire dal 1800 a.C. toglie l’«io» dal suo capanno tondo di legno e argilla del Neolitico. Il «tu» non sarà mai un fiore su campi di urne36, non vedrà mai la civiltà della media età del bronzo. La camera funeraria (Kammer)37 tipica della civiltà villanoviana in cui il «tu» è conservato è punto storico finale di un cammino che riconduce all’inizio, sempre: ai pozzi della Bucovina (Brunnenland)38. In un pozzo si sprofonda – in una tomba («Pozzograb»)39 – ma i conci di pietra costruiscono un cunicolo, un camino, un luogo cilindrico di disperazione e dispersione. E ritorna l’idea del luogo nascosto che, mentre sottrae alla vista e destina a una speculazione mnestica e poetica, conserva40, protegge, lascia

36 Nella tarda età del bronzo (dal 1300 al 1100) in Europa l’incinerazione soppianta l’inumazione; a questa espressione di nuove concezioni religiose corrispondono anche nuovi cimiteri, i cosiddetti «campi di urne» («Urnenfelder») scoperti in Lusazia, lungo i confini tra la Slesia e il Brandeburgo. La «civiltà dei campi di urne» costituirà una potente confederazione dell’Europa sud-occidentale che diffonderà in modo pacifico nuove tecniche e una nuova religione. Anche gli Umbri, fondatori della «civiltà villanoviana» tra il 1150 e il 1100, usavano cremare i morti, conservandone le ceneri in urne biconiche con coperchio, molto simili al tipo lusaziano. Cfr. R. Furon, Manuale di preistoria, Einaudi, Torino, 1961, pp. 444-446; P. Celan, Historisch-kritische Ausgabe, hrsg. von der Bonner Arbeitsstelle für die Celan-Ausgabe, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1990-, Bd. 9.2, p. 192: «Urnenfelder der Villanovakultur» («Campi di urne della civiltà villanoviana»). 37 Le tombe «a camera» sono tipiche dell’Etruria costiera, in cui è frequente il rito funebre dell’incinerazione ma non è escluso quello dell’inumazione. Queste tombe presentano una camera a pianta ellissoidale, rettangolare o circolare, con copertura a pseudocupola. Cfr. G. Bartoloni, La Cultura Villanoviana. All’inizio della storia etrusca, Carocci, Roma, 2002, pp. 161-163; P. Celan, Historisch-kritische Ausgabe, cit., Bd. 9.2, p. 191: «Sargkammer / in die Erde gesenkte Räume / Kuppelgräber» [«Camera funeraria / spazi sprofondati nella terra / tombe a cupola»]. 38 Cfr. P. Celan, GW, Bd. 1, p. 59; C. Miglio, Vita a fronte, cit. p. 31: «Brunnenland: terra dei pozzi, a migliaia visibili ancora oggi nella campagna intorno all’odierna Černivci [città natale di Paul Celan], ma anche metaforicamente terra permeabile, attraversata da corsi d’acqua sotterranei pronti a sgorgare, a far circolare la vita». Costruzioni protettive a doppio spiovente sono spesso realizzate sulla bocca dei pozzi. 39 Le tombe «a pozzo» o «a pozzetto», tipiche della cultura villanoviana, erano di forma cilindrica più o meno regolare e scavate nel suolo vergine, esse ospitavano l’urna con le ceneri del defunto. Cfr. P. Celan, Historisch-kritische Ausgabe, cit., Bd. 9.2, p. 192: «brunnenartig eingetiefte / Schächte / (Pozzogräber)» [«sprofondati come un pozzo | pozzi | (tombe a pozzetto»)]. 40 Cfr. F. Behn, Kultur der Urzeit, cit., Bd. 1, p. 141 in P. Celan, Die Gedichte, cit., p. 819: «Die “Hockerstellung” wird man wohl als Nachbildung der natürlichen Schlaflage erklären dürfen, man wollte sie auch als symbolische Wiederholung der Embryonallage im Mutterleib deuten, in der man den Toten der Mutter Erde zurückgab, als Mittel der Fesselung der Leiche oder ganz rationalistisch aus Gründen der Raumersparnis». [«La “posizione rannicchiata dello scheletro” si potrà spiegare come imitazione della posizione assunta naturalmente durante il sonno, la si è voluta anche intendere come una riproduzione simbolica della posizione dell’embrione nel grembo materno (il morto veniva così restituito alla madre terra), come modo di legare il cadavere o, per motivi puramente razionali, per risparmiare spazio»].

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una traccia verso cui ritornare. Il periodo villanoviano di transizione41 in cui, accanto all’inumazione, compare l’incinerazione, rappresenta l’oscillazione tra la presenza e l’assenza, la dispersione e la conservazione del corpo. La cosiddetta «urna a capanna»42, spesso realizzata con il tetto «a doppio spiovente», trasferendo nella sepoltura l’immagine dell’abitazione dei vivi, evoca una vita quotidiana del ricordo e nel ricordo, la possibilità di abitare nella memoria. Il cuore comanda l’ultima glaciazione, essa è movimento di sistole e diastole, cadenza modellata su respiro e memoria. UNGEWASCHEN, UNBEMALT, in der JenseitsKaue: da, wo wir uns finden, Erdige, immer, ein verspätetes Becherwerk geht durch uns Zerwölkte hindurch, nach oben, nach unten, aufrührerisch flötets darin, mit Narrenbeinen, der Flugschatten im irisierenden Rund heilt uns ein, in der Siebenhöhe, eiszeitlich nah steuert das Filzschwanenpaar durch die schwebende Stein-Ikone43 41 Nella cultura villanoviana il rito della cremazione dei morti comincia ad apparire e poi a prevalere solo a partire dal XII secolo a.C. Alcuni ritrovamenti testimoniano del passaggio dall’inumazione all’incinerazione; in essi i due tipi di deposizione sono compresenti. 42 L’«urna a capanna», attestata nell’età del bronzo finale, poteva avere pianta ovale o rettangolare, con un’apertura indicante l’ingresso molto rialzata rispetto alla base; il tetto, a padiglione o a doppio spiovente, era sorretto da file parallele di pali in legno; attorno alle pareti verticali terra e sassi svolgevano una funzione isolante. Cfr. G. Bartoloni, La Cultura Villanoviana, cit., pp. 121-128. 43 P. Celan, GW, Bd. 2, p. 333.

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NON LAVATI, NON IMBELLETTATI, nel capannuccio dell’aldilà: là, dove noi ci ritroviamo, Terrosa, sempre, un attardato elevatore a tazze passa attraverso di noi ridotti a nuvolaglia, verso l’alto, verso il basso, in tono ribelle si fischietta là dentro, con gambe da buffone, l’ombra del volo nel globo iridescente ci accoglie, a quota sette, prossima all’era glaciale la coppia di cigni in feltro si dirige attraverso la pietra-icona in aria sospesa.

Il «capannuccio» villanoviano ritorna, in questa poesia, integrando il valore etimologico di Kaue, dal latino cavea, con il significato medio alto tedesco di kouwe ovvero “capanna sul pozzo di una miniera” («Schacht-Häuschen», «Hütte über dem Schacht»)44. Un altro significato corrente di Kaue è quello di «spogliatoio e stanza per la doccia dei minatori»45. La potentissima stratificazione semantica costruita attraverso l’evocazione di luoghi e ambienti preistorici imprime una pregnanza notevole alla prima strofa: dalla caverna («cavea») del Paleolitico alle «docce» tristemente famose durante lo sterminio nazista; dalla sepoltura «a pozzo» all’urna «a capanna», al ricongiungimento alla terra da un pozzo di miniera su cui si erge – 44 Cfr. rispettivamente Duden, Das große Wörterbuch der deutschen Sprache, cit.; F. Kluge, Etymologisches Wörterbuch der deutschen Sprache, bearbeitet von W. Mitzka, W. de Gruyter & co., Berlin, 196720. 45 «Wasch- und Umkleidraum der Bergleute; Waschkaue», Duden, Das große Wörtebuch der deutschen Sprache, cit.

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nome di una lingua del passato – la capanna neolitica. Abitare, trivellare: abitare la possibilità del ritorno, l’imbocco verso il passato. L’elevatore a tazze46 con il suo movimento circolare senza fine, recupera, smista, trasporta in superficie detriti, terra di cui è fatto il dire («Rede von Erde»)47. Un meridiano di pale meccaniche smuove il terreno della memoria. Sullo sfondo, a dirigere i versi, il motore contingente della storia: Paul Celan viaggiò in aereo da Parigi a Berlino il 16 dicembre 1967 per tenere delle letture rispettivamente alla Akademie der Künste (18 dicembre), alla Freie Universität (19/20) e presso il Sender Freies Berlin (28); il corridoio aereo FrancoforteBerlino conduceva sopra Fulda, Eisenach e le coltivazioni a cielo aperto di lignite dell’allora DDR48. I brandelli di nuvole di un popolo annientato nel corpo, di un aereo visto dal basso che si confonde e scompare, di una presenza visibile, tangibile, eppure attraversabile, rarefatta, non più smistabile, percorrono il cielo del tempo «totale» della poesia. «“Oscura” è la poesia innanzitutto per la sua presenza, per la sua resistenza, permanenza; oscura, dunque, nel senso di una opacità fenomenica propria di ogni oggetto; nel senso, quindi, che essa da sé vuole essere compresa come una cosa presente»49. Lo «spessore»50 della poesia la rende opaca, la rende «fenomeno», essa diviene oggetto di un «fuori», oggetto estraneo come il «bianco e verde» del ghiacciaio51 della Conversazione nella

46 «Mezzo trasportatore in cui contenitori a forma di tazza in lamiera d’acciaio o in ghisa malleabile sono fissati a una struttura rotante senza fine come una catena Galle, una catena di bulloni d’acciaio, o una catena a maglie rotonde. Durante il giro le tazze, la cui forma è adeguata al materiale trasportato (sabbia, terra, granaglie ecc.) fanno presa in basso nel cumulo di materiale e lo gettano fuori, con un cambiamento di direzione, nella zona superiore di smistamento. Il trasporto procede verticalmente oppure in avanti in linea obliqua», Der Grosse Herder, Herder, Freiburg, 1956. 47 Cfr. P. Celan, GW, Bd. 3, p. 92. 48 Cfr. P. Celan, Die Gedichte, cit., p. 831. 49 «“Dunkel” ist das Gedicht zunächst durch sein Vorhandensein, durch seine Gegenständlichkeit, -ständigkeit; dunkel also im Sinne einer jedem Gegenstand eigenen, mithin phänomenalen Opazität; in dem Sinne also, daß es von sich her, als ein Vorhandenes verstanden sein will»: P. Celan, Mikrolithen sinds, Steinchen, cit., p. 137. 50 «In der bergmannssprache: die ausmessung eines ganges nach seiner breite, welche mit der weite der von ihm ausgefüllten spaltung einerlei ist, wird dessen mächtigkeit genennet». [«Nel linguaggio dei minatori: la dimensione di un filone secondo la sua altezza, che è identica all’ampiezza della fenditura da esso occupata, viene chiamata potenza di quel filone»]: J. u. W. Grimm, Deutsches Wörtebuch, cit.; cfr. la voce «Epaisseur (der Schicht)» [«Spessore (dello strato)»] in G. Schweinfurth, Deutsch-französisches Wörterverzeichnis der die Steinzeit betreffenden Literatur. Kunstsprache zur Beschreibung des in Gebrauch genommenen, bearbeiteten, und zugeschlagenen Steins, W. Pormetter, Berlin, 1906. 51 Cfr. P. Celan, GW, Bd. 3, p. 170-171. A. du Bouchet sostiene che la natura delle nostre vocali e consonanti è analoga a quella della «lingua-fuori» del ghiacciaio nella Conversazione nella montagna (Gespräch im Gebirg). Grazie all’aggrumarsi della neve attorno alla parola, essa,

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montagna. Essa è opaca, oscura, è pietra che attraversa in frantumi, continuamente smistati da un elevatore a tazze, i brandelli di nuvole della storia di un popolo, della storia tutta che passa e si lacera, e che può essere dimenticata. La poesia resta, nella sua presenza silenziosa, pietra muta di memoria, pietra-icona, sacra resistenza di un ricordo che sempre conduce all’inizio, alla neve, al ghiaccio, alla matrice di ogni luogo di parole, di ogni luogo reale. Il nodo scorsoio della realtà sfida e stringe la parola e, di tanto in tanto, la vince lasciandola «cosa», segno, incisione, solco, fessura che rivela il tempo come strato geologico o che spezza la successione «naturale» con l’orogenesi della creazione (poetica) e i prismi dell’interpretazione. Creazione è pagliuzza di assoluto nell’umor vitreo dell’occhio deformatore; ma arancia amara di tempo che gli spicchi non possono contenere; orologio della (di) Terra sferzato a sangue dalle proprie lancette; piccola eternità: parola. Une pierre Les livres, ce qu’il déchira, La page dévastée, mais la lumière Sur la page, l’accroissement de la lumière, Il comprit qu’il redevenait la page blanche. Il sortit. La figure du monde, déchirée, Lui parut d’une beauté autre, plus humaine. La main du ciel cherchait sa main parmi des ombres, La pierre, où vos voyez que son nom s’efface, S’entrouvrait, se faisait une parole52.

da estranea, diventa parola della poesia. Cfr. B. Böschenstein, André du Bouchet im Gespräch mit Paul Celan, in «Celan-Jahrbuch» 8, 2001, Winter, Heidelberg, pp. 225-235. 52 Y. Bonnefoy, Les planches courbes, trad. it. di F. Scotto, Le assi curve, Mondadori, Milano, 2007, p. 68: «I libri, quel che lacerò, / La pagina devastata, ma la luce / Sulla pagina, l'accrescersi della luce, / Capì che ridiventava la pagina bianca. // Uscì. La figura del mondo, lacerata, / Gli apparve di una bellezza diversa, più umana. / La mano del cielo cercava la sua mano tra le ombre, / La pietra, dove vedete che il suo nome si cancella, / Si socchiudeva, diveniva una parola».

Lisa Regazzoni*

Campi di vittime e controcampi politici Il dittico di Clint Eastwood sulla battaglia di Iwo Jima

1. Campo: esercito americano versus esercito giapponese Per narrare la tremenda battaglia combattuta dagli Americani contro i Giapponesi sull’isola di Iwo Jima nel febbraio-marzo del 1945 Clint Eastwood ha adottato il registro della ricostruzione archeologica sensu latu. Le fonti, ritrovate rispettivamente dentro tre cartoni custoditi in un ripostiglio di una piccola città americana, Antigo, e nelle profondità sotterranee di quella stessa isola che fu teatro di guerra, costituiscono le cerniere che collegano e articolano i due pannelli del dittico sulla battaglia. Nel primo pannello, intitolato Flags of Our Fathers, la sanguinosa conquista dell’isola, l’innalzamento della bandiera americana sul Monte Suribachi e la fama superna dei marines che la issarono è rappresentata dall’angolo prospettico americano. La ricostruzione degli avvenimenti su cui si basa il film è opera di James Bradley1, figlio di uno dei sei eroi che issarono la bandiera, l’assistente di sanità John Henry Bradley. Il materiale da cui muove questa sorta di archeologia della memoria paterna sono le tre scatole ritrovate in un ripostiglio dell’ufficio dopo la sua morte, avvenuta l’11 gennaio 1994. Le foto e i documenti contenuti, tra cui la riproduzione della foto scattata da Joe Rosenthal il 23 febbraio 1945 sul Monte Suribachi, quel quattrocentesimo di secondo in cui la Storia mise a fuoco suo padre e altri cinque marines2, hanno fornito il materiale per la ricostruzione di James Bradley, tesa a scalfire l’ostinato silenzio e l’aura di mistero che avevano sempre avvolto quell’episodio in famiglia. Con un gesto che è già cifra interpretativa, Clint Eastwood rovescia l’ordine cronologico naturale tra il ritrovamento delle fonti e la ricostruzione dei fatti. La scena del ritrovamento è mostrata negli ultimi minuti del film, quando la complessa narrazione degli eventi – affidata, in buona parte, a veterani intervistati da James Bradley – ci ha già fornito tutti gli strumenti critici per una valutazione oggettiva del materiale riportato alla luce. La scatola che Clint Eastwood ci riserva alla fine, al termine di un la* [Università di Potsdam]. 1 J. Bradley, R. Powers, Flags of Our Fathers, Batam, New York, 2000; trad. it. di E. Peru, Flags of Our Fathers. La battaglia di Iwo Jima, BUR, Milano, 2006. 2 L’espressione è di J. Bradley, op. cit., p. 4.

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voro di ricostruzione storica che è al tempo stesso di decostruzione ermeneutica, contiene quelli che oramai si rivelano essere solo dei simboli come la Navy Cross, immagini e strumenti di propaganda come gli articoli conservati. Più che testimonianze di un evento originario, sono il prodotto del lungo lavorio del mito che lo ha avvolto. Nei 110 minuti precedenti, il regista decostruisce quel patriottismo posticcio, quel significato aggiunto al semplice fotogramma per scopi politici e propagandistici. L’evidenza immediata offerta dalle fonti ritrovate alla fine non coincide più con il loro significato autentico, restituito nel corso del film. Il motivo del ritrovamento fa da cerniera anche al secondo pannello del dittico, Lettere da Iwo Jima3, in cui la medesima battaglia è raffigurata dall’angolo prospettico giapponese. Pure questo film prende spunto da un libro, Così triste cadere in battaglia della giornalista giapponese Kumiko Kakehashi, un’opera basata sulle lettere che il generale di divisione Tadamichi Kuribayashi inviò da Iwo Jima soprattutto ai familiari. Nei ringraziamenti riportati al termine del libro, l’autrice dichiara di aver avviato la sua ricerca il giorno in cui uno dei tre figli di Kuribayashi, Tarô, le consentì di leggere le lettere del padre, conservate con tanta cura4. Era l’autunno del 2003, il libro sarebbe stato pubblicato due anni più tardi. Con un gesto ancora più radicale del semplice capovolgimento temporale fra decostruzione dei fatti e ritrovamento delle fonti, Clint Eastwood lascia che sia un gruppo di ricercatori giapponesi a ritrovare le lettere di Kuribayashi e di altri soldati nelle viscere di Iwo Jima. È l’anno 2005, lo stesso in cui esce l’opera della Kakehashi. Nel film, quelle lettere non sono mai giunte a destinazione, ma sono state avvolte con cura nella plastica e sepolte dal soldato semplice Saigo nella primavera del 1945, in una delle tante gallerie sotterranee di Iwo Jima. Tali fonti, protette da uno strato di terra per sessant’anni e prive di incrostazioni interpretative, riemergono intonse da manipolazioni propagandistiche. Una sorta di anno zero della memoria giapponese le cui profonde lacune, soprattutto sugli ultimi mesi di guerra, sono da imputare, in buona parte, agli Americani. Dopo il 1945 le forze di occupazione statunitensi proibirono qualsiasi riferimento alla guerra e alla bomba atomica, impedendone letteralmente ogni accenno nei testi scolastici5. Sessant’anni dopo la fine 3 I due film sono usciti nelle sale cinematografiche americane, rispettivamente, il 20 ottobre 2006 e il 20 dicembre dello stesso anno. 4 K. Kakehashi, Chipuzo Kanashiki, Shinchosha, Tokyo, 2005; trad. it. di P. Arlonio, Così triste cadere in battaglia, Einaudi, Torino, 2007, p. 206. 5 Vedi E. Ohnuki-Tierney, Letters to the Past: Iwo Jima and Japanese Memory, in «Media development», 4, 2007, pp. 17-19. Purtroppo nel suo brevissimo articolo l’autore non fornisce altri dettagli sulla rimozione storica operata e subita dai Giapponesi dopo la guerra. Anche la sua affermazione, «i dibattiti [attuali] su che cosa e come inserire il resoconto del periodo bellico nei testi scolastici sono appassionanti», senza tuttavia aggiungere nulla in proposito susci-

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della Seconda guerra mondiale sarà proprio un regista americano a scrivere quella storia e a porre la nuova generazione giapponese di fronte ad un passato fatto anche delle atrocità commesse dall’esercito imperiale. La battaglia svoltasi a Iwo Jima, la più seguita dal popolo americano durante la guerra, è oggi ignorata dalla maggior parte dei Giapponesi. Il suo stesso eroe, quel generale Kuribayashi che escogitò e condusse una tattica di difesa geniale, è sconosciuto ai più. «Nessuno sa niente di lui, né della battaglia» ha dichiarato Clint Eastwood in un’intervista rilasciata ai Cahiers du Cinéma, «il Giappone non ha fatto per così dire niente su quest’episodio, né libri né film. Alcuni momenti della storia giapponese, questo in particolare, sono passati semplicemente sotto silenzio. Non se ne parla. Nessuno degli attori delle Lettere sapeva qualcosa di Iwo. Dopo la guerra è stata dimenticata, accantonata»6. Paradossalmente, è stato proprio un regista americano a dirigere il gruppo di attori giapponesi nel ritrovamento delle proprie fonti. Con questo gesto, Eastwood ha risarcito inconsapevolmente i Giapponesi di quella memoria storica che i suoi connazionali avevano contribuito a sotterrare. 2. Mito: immagini versus lettere 23 febbraio 1945, Monte Suribachi. Quel giorno, il quinto dopo lo sbarco dei marines sull’isola di Iwo Jima, un primo gruppo di soldati iniziò l’ascesa del Monte Suribachi, il vulcano ormai spento all’estremità sudoccidentale dell’isola. Dal momento dello sbarco, il 19 febbraio alle ore 9.03, gli Americani avevano subito perdite gravissime, costretti a combattere contro un nemico invisibile, sprofondato in un complesso sistema di difese sotterranee da cui sferrava attacchi a sorpresa7. Quel 23 febbraio, un primo gruppo di marines guidato dal Luogotenente Harold G. Schrier e dal Sergente Ernest Thomas, raggiunse la cima del Suribachi senza incontrare ulteriori resistenze e alle 10.35 issò la bandiera americana, un atto mediatico immortalato dal fotografo Lou Lowery. Udite le grida di giubilo che si levarono dalla spiaggia e dalle navi, il Luogotenente Colonnello Chandler Johnson, ordinò la sostituzione di quel vessillo, appena visibile dalla spiaggia. Volendo sollevare il morale dei marines e incoraggiarli al proseguimento tano una curiosità subito frustrata. D’altro canto, la mia ignoranza della lingua giapponese rappresenta un ostacolo insormontabile per qualsiasi tentativo di approfondire una discussione di straordinario interesse. 6 E. Burdeau, Entretien avec Clint Eastwood, in «Cahiers du cinéma», 620, février 2007, pp. 34 e 35. 7 Per una trattazione diffusa della strategia difensiva adottata da Kuribayashi, il suo carattere innovativo e gli ostacoli, anche interni, incontrati nella sua realizzazione rimando qui a K. Kakehashi, op. cit., pp. 54-71.

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degli aspri combattimenti, Johnson incaricò il luogotenente Ted Tuttle di issare una bandiera più grande8. L’innalzamento di quella seconda bandiera, evento accolto senza ulteriori grida di giubilo per non dire nell’indifferenza generale, e immortalato dal fotografo della Associated Press, Joe Rosenthal, assurse al rango di evento storico, presente ancora oggi nell’immaginario collettivo americano. Il rullino di Rosenthal, contenente quella che sarebbe divenuta, oltreoceano, l’immagine di guerra più famosa, fu spedito a Guam. Qui il fotogramma in questione superò la doppia selezione del censore e del responsabile delle immagini e fu trasmesso per radiofoto in patria9. Il 25 febbraio, la fotografia scattata da Rosenthal apparve su numerosi quotidiani statunitensi, dal New York Times al Los Angeles Times. Sebbene la battaglia di Iwo Jima fosse solo all’inizio (l’isola sarà dichiarata conquistata il 26 marzo 1945) quell’atto compiuto da sei soldati sul Monte Suribachi fu interpretato dagli Americani come segno inequivocabile di vittoria. Quel messaggio preteso, imposto, bramato, trovò in patria un terreno emotivamente fertile su cui attecchire. Nel clima di malcontento e di critiche mosse al governo e ai vertici militari per via delle gravi perdite subite dall’esercito nei primissimi giorni della battaglia e di stanchezza diffusa rispetto alla guerra, l’immagine si tradusse immediatamente in un simbolo di vittoria, nella giustificazione stessa di quelle perdite10. Nelle settimane successive, giornali e riviste stamparono edizioni speciali con la riproduzione della fotografia a colori; un membro del Congresso, Joe Hendricks, avanzò la proposta di erigere un monumento che riproducesse l’immagine di Rosenthal; diversi cantautori composero canzoni ispirate al gesto dei sei marines; in seguito a una proposta del senatore Joseph O’Mahoney, il 7 luglio le poste emisero un francobollo con la riproduzione dell’immagine, il più venduto nella storia del paese11. Il 7 marzo il deputato Mike Mansfield presentò alla Camera la proposta di organizzare una campagna di sottoscrizione di buoni del tesoro per il sostegno delle spese belliche che u8 Così si espresse inoltre Johnson: «qualche figlio di puttana vorrà avere la bandiera come souvenir. Ma non l’avrà. Questa è la nostra bandiera. Faremo meglio a piazzarne un’altra lassù». Cit. in R. Wheeler, Iwo, Lippincott & Crowell, New York, 1980, p. 161. Nel film, come del resto nel libro di Bradley, il desiderio di conservare il vessillo come souvenir è attribuito al segretario alla marina, James Forrestal: vedi J. Bradley, op. cit., p. 211. 9 Questi ed altri dettagli nella ricostruzione meticolosa dell’evento e del mito che lo avvolse esposta da K. A. Marling e J. Wetenhall, Iwo Jima. Monuments, Memories, and the American Hero, Harvard University Press, Cambridge-London, 1991, qui p. 72. 10 Vedi in proposito J. Dülffer, Über Helden – Das Bild von Iwo Jima in der Repräsentation des Sieges. Eine Studie zur US-amerikanischen Erinnerungskultur seit 1945, in «Zeithistorische Forschungen», 2, 2006, in part. pp. 250-251. 11 Maggiori dettagli in K. A. Marling e J. Wetenhall, op. cit., in part. pp. 74-75; J. Dülffer, op. cit., pp. 253-254; R.S. Burrell, The Ghosts of Iwo Jima, Texas A&M University Press, 2006, pp. 144 e sgg.

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tilizzasse la foto della bandiera12. Considerata la bancarotta cui stava andando incontro il paese per via dei costi elevatissimi della guerra, la proposta trovò subito accoglimento. Su suggerimento del direttore del Chicago Herald American, Louis Ruppel, il Presidente Roosevelt ordinò che i Marines immortalati da Rosenthal fossero trovati e richiamati in patria per partecipare alla 7ª campagna di sottoscrizione13. Dei sei uomini che issarono la seconda bandiera, solo tre erano ancora in vita: Rene Gagnon, Ira Hayes e James Bradley. Il 20 aprile il nuovo Presidente Henry Truman li accolse nello studio ovale della Casa Bianca per comunicare loro ufficialmente la nuova missione che li attendeva. L’immagine di Iwo Jima, incorniciata accanto a loro, si era trasformata in un poster pubblicitario dalle tinte drammatiche e recante la scritta: «7th War Loan / Now All Together». Il particolare rilievo assunto dalla bandiera americana nella riproduzione pittorica a colori tradiva già il patriottismo a cui il manifesto faceva appello. Un appello alla volontà collettiva, cui gli Americani risposero con un’adesione senza precedenti, acquistando buoni del tesoro per un valore di 26 miliardi di dollari, quasi il doppio rispetto ai 14 miliardi cui mirava il Tesoro. La conquista di una tale «montagna di soldi»14, difficile e necessaria quanto il Monte Suribachi, fu affidata ai tre alzabandiera sopravvissuti. La metafora della montagna, utilizzata da James Bradley, assume una rilevanza centrale nel primo film di Eastwood che la ripropone in una battuta del presidente Truman. Rivolgendosi ai tre giovani, la massima istanza politica del paese sentenzia: «avete lottato per una montagna nel Pacifico. Ora abbiamo bisogno che lottiate per una montagna di soldi». Da quel momento il film mette in scena due vere e proprie guerre parallele, la prima combattuta dai marines contro l’esercito giapponese, l’altra dalla propaganda politica per conquistare il sostegno finanziario dei cittadini, necessario per proseguire le attività belliche. Strumento della propaganda sono, ancora una volta, semplici soldati. La forza di supporto a loro disposizione è l’industria dei mass media, le loro armi sono la messa in scena e la menzogna15, il terreno su cui combattono è l’emotività fragile di un’intera nazione. L’atto eroico della prima bandiera, rimosso, è riassorbito senza scalpore dalla plasticità della seconda immagine, a cui il pubblico preferisce credere. Le tappe del Bound Tour affrontato dai tre eroi di Iwo Jima sono 12

J. Bradley, op. cit., p. 239. Ivi, p. 245. 14 Vedi J. Bradley, op. cit., p. 279. 15 Fra cui, ad esempio, la menzogna sulla vera identità del sesto marines che piantò la seconda bandiera. Appena giunto a Washington, nel corso del primo colloquio tenuto alla caserma dei Marines, Ira Hayes rivelò l’errore di identificazione commesso: non si trattava di Hank Hansen, bensì di Harlon Block. Entrambi erano già morti sul campo di battaglia, e Hayes fu obbligato da un superiore a mantenere il silenzio sull’errore. 13

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scandite come le giornate di una campagna militare. Dei tre che ripetono il gesto fittizio di issare la bandiera davanti ai potenziali acquirenti dei buoni del tesoro, dalla Times Square di New York fino al Soldier Field Stadium di Chicago, uno rimane ucciso, Ira Hayes, un altro ferito, Rene Gagnon, e solo il terzo sopravvive incolume, John Bradley16. Vittime su due fronti, i tre marines furono prima costretti alla guerra e poi a reggere la finzione del movente patriottico. Come sostiene l’ex capitano Severance nel film, ricalcando le affermazioni raccolte da James Bradley nel corso delle sue interviste ai veterani, quei marines non combatterono per la patria o per la libertà, ma perché così dovevano fare e se morivano, era per aiutare i propri amici e commilitoni. Virtù molto umane e poco politiche, nelle quali Eastwood sembrerebbe voler scorgere il nocciolo sano dello spirito americano. Etica, anno zero? La decostruzione di questo patriottismo indotto, operata dal regista nel 2006, assume un’ulteriore sfumatura di significato se la si colloca sullo sfondo della reazione emotiva agli attentati dell’11 settembre 2001. Anche in questa occasione, l’appello all’unità nazionale e alla lotta comune contro il terrorismo ebbe la propria icona. I vigili del fuoco, morti a centinaia durante le operazioni di soccorso a New York, divennero i primi eroi caduti nella lotta contro il terrore. Come segnale della loro volontà di sopravvivere, alcuni pompieri issarono la bandiera americana sulle macerie del ribattezzato ground zero. Un’istantanea scattata da Thomas E. Franklin immortalò quel momento. La tradizione in cui si inseriva quel gesto fu colta perfettamente da alcuni organi della stampa che riprodussero l’immagine di Franklin accanto alla storica foto di Rosenthal17. Quasi eseguendo un rituale ormai consolidatosi, la storia ripeté in quell’occasione i gesti già compiuti nel 1945: l’immagine fu riprodotta in un francobollo, il suo progetto fu presentato in una cerimonia ufficiale alla Casa Bianca dal Presidente Bush e dai protagonisti (ritrovati) della fotografia nel marzo del 2002, e fu realizzato il modello per un monumento ai pompieri caduti ispirato alla fotografia di Franklin. Un’ultima analogia significativa: «per tener testa ai terroristi fu

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L’indiano Pima Ira Hayes, la cui statura tragica sarà restituita da una canzone di Johnny Cash (The Ballad of Ira Hayes) e dalle interpretazioni di Lee Marvin (nel telefilm The American) e di Tony Curtis (nel film di Delbert Mann The Outsider), già distrutto dall’alcolismo, sarà ritrovato morto per assideramento o forse per le botte subite il 24 gennaio 1955. Rene Gagnon, a cui furono fatte molte promesse di lavoro nel breve periodo di celebrità, promesse mai mantenute, condurrà un’esistenza insoddisfatta come impiegato prima e portinaio poi. Il solo che riuscì a condurre una vita realizzata e serena con la propria famiglia fu John Bradley, che mantenne tuttavia l’assoluto riserbo sull’esperienza della guerra e cercò sempre di sottrarsi alla stampa. 17 Per ulteriori dettagli vedi J. Dülffer, op. cit., pp. 265-268.

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opposto loro il simbolo di una vittoria ancora da conquistare. Questa situazione corrispondeva esattamente a quella della foto di Iwo Jima del 1945»18. Riconsiderato alla luce del passato prossimo, il messaggio di pacifismo che parte della critica ha voluto scorgere nel dittico di Clint Eastwood, si rivela essere un messaggio di superficie19. Oggetto di denuncia del regista sono, piuttosto, quegli attori politici che alimentarono e alimentano la fede in valori posticci e astratti quali il patriottismo, per creare una base di consenso e di legittimazione della propria azione politica. Tale lavoro decostruttivo giunge al culmine in un’inquadratura delle Lettere da Iwo Jima, in cui il patriottismo americano è sottoposto ad una vera e propria mortificazione visiva. Dopo aver ricevuto la notizia che il Monte Suribachi è caduto in mano americana, Kuribayashi imbocca l’uscita del bunker del comando situato nella parte nord dell’isola, e scruta la vetta del Suribachi in lontananza. Al di là di Kuribayashi e di alcuni soldati ripresi di spalle si intravede una macchiolina scura e informe, quasi impercettibile, che si dilata e si contrae. La bandiera svolazzante piantata dagli Americani è relegata in un campo totale, quasi al margine destro dell’inquadratura. L’insignificanza a cui è ridotto il vessillo dimostra innanzitutto che la storia è una questione di inquadratura e di angolazione. Ma rivela anche l’errore percettivo, ovviamente inconsapevole, di Kuribayashi che non è in grado di scorgere nelle sue dimensioni reali l’immagine che acquisterà un’importanza decisiva per la prosecuzione dello sforzo bellico statunitense. Quel puntino denuncia il fallimento della sua strategia di logoramento che, stando a James Bradley, mirava ad infliggere un tale numero di perdite nelle file nemiche da indurre l’opinione pubblica americana a richiedere la fine della guerra con il Giappone20. A giudizio di Robert S. Burrell, che cita a sua volta lo storico Jon Hoffmann, questa strategia fu quella adottata, in generale, dall’alto comando giapponese che, pur non nutrendo alcuna illusione di vincere la guerra, mirò ad azioni di logoramento per preservare la sovranità giapponese21. Quando assunse il comando dell’isola, Kuribayashi sapeva che non sarebbe sopravvissuto e che avrebbe condotto alla morte i 21.152 soldati ai suoi ordini. Ma nonostante l’obbedienza con cui il generale eseguì l’ordine di difendere Iwo Jima fino alla morte, la sua figura, quale ce la restituiscono le lettere, le te18

Ivi, p. 268. Sull’etica di Clint Eastwood, in cui sarebbe assente una condanna della guerra in quanto tale, e la logica nazionalistica e militare in cui il regista resterebbe intrappolato si veda A. Pezzotta, Clint Eastwood, Il Castoro, Milano, 2007, pp. 166-181. 20 K. Kumino, op. cit., p. 62; J. Bradley, op. cit., p. 146. Va ricordato inoltre che Kuribayashi era un profondo conoscitore degli Stati Uniti, dove trascorse ben due soggiorni, rispettivamente dal 1928 al 1930 e dal 1931 al 1933. Convinto che l’entrata in guerra contro l’America fosse un grave errore, fu sospettato persino di filo-americanismo. 21 R.S. Burrell, The Ghosts of Iwo Jima, cit., p. 116. 19

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stimonianze di alcuni sopravvissuti e le dimostrazioni del suo realismo politico-militare, si sottrae all’identificazione tout-court con il fanatismo militare nipponico. Se, da un lato, l’eroe positivo e umano che emerge nel secondo pannello di Eastwood – l’uomo preoccupato di tenere l’isola il più possibile per donare qualche giorno di vita in più ai familiari in patria – attende ancora il giudizio imparziale della storia, è altrettanto vero che Kuribayashi fu vittima a sua volta del fanatismo militare e ideologico giapponese. Dopo averlo spedito a morte sicura e avergli negato rinforzi aerei, navali e l’invio di ulteriori contingenti, il governo dipinse con toni eroici il comportamento del generale, facendone un esempio di virtù guerriera da imitare. In patria, la battaglia di Iwo Jima fu interpretata come una lezione triste, ma necessaria che rinvigorì piuttosto che indebolire lo spirito nazionalista. Un cinegiornale patrocinato dal governo e diffuso il 23 marzo lodava la battaglia come esempio da seguire nella guerra contro l’avversario: «I nostri uomini – recitava il testo – hanno inflitto il massimo di perdite al nemico... Da un certo punto di vista la battaglia di Iwo Jima può essere vista come una dimostrazione miracolosa della superiorità della forza spirituale sulla forza materialista»22. La vittoria militare americana coincide, nell’illustrazione di Eastwood, con il successo mediatico dell’immagine della bandiera. In modo speculare, ma opposto, la sconfitta giapponese coincide con la negazione e la censura della comunicazione. I due campi visivi in cui si svolge la battaglia, quello superno americano e quello infero giapponese, si trasformano nel film in due veri e propri spazi comunicativi. Il primo subisce una dilatazione dell’orizzonte che va dal campo di battaglia allo spazio pubblico americano, il secondo si restringe e si richiude sull’isola e le sue gallerie sotterranee. L’estensione del campo di battaglia americano alle piazze, ai teatri, agli stadi illustra e al tempo stesso simboleggia la vittoria di uno spazio comunicativo in cui il messaggio del patriottismo trova risonanza. Le lettere dei soldati giapponesi viceversa, unico mezzo di contatto con i familiari in patria, sono sottoposte a censura e, dall’11 gennaio, non sono più recapitate. La stessa poesia funebre di tre strofe, contenuta nel cablogramma di commiato scritto da Kuribayashi il 16 marzo, subisce l’intervento della censura prima di essere pubblicata dalla stampa. L’espressione «tristi siamo caduti» è stata epurata in «mortificati siamo caduti»23. Dal punto di vista della comunicazione, il primo film si dilata come un megafono, il secondo si restringe piuttosto a imbuto. Tale metafora restituisce il senso dell’ultimo messaggio inviato dalla madrepatria ai soldati giapponesi, una canzone cantata dai bambini della città di Nagano per il generale Kuribayashi e le sue truppe, tra22 23

Ibid. K. Kakehashi, op. cit., pp. 17-18 e 187 e sgg.

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smessa via radio. Con il suo invito a combattere in modo onorevole e fiero fino alla fine, a qualsiasi costo, questa canzone propagandistica si insinua nelle viscere di Iwo Jima e vi ricaccia i soldati senza offrire loro alcuna possibilità di obiezione. A coloro che presto moriranno, il canto di lode al valore guerriero giunge come un canto funebre. I due modelli comunicativi, entrambi al servizio della propaganda, soffocano le voci di due umanità solo apparentemente opposte: il primo tramite il rumore assordante dei media, il secondo con il silenzio. Il dittico ricompone orizzontalmente, in un unico campo, le due umanità offese, vittime di un unico controcampo verticale in cui si situano la politica, il fanatismo e la propaganda. 3. Contromito: la teoria degli atterraggi d’emergenza Se la memoria collettiva americana avrebbe ricordato – con un’intensità che solo i simboli o i miti sono in grado di dispensare – quel 23 febbraio 1945 in cui la bandiera nazionale fu issata sul Monte Suribachi piuttosto che il 16 marzo dello stesso anno, giorno in cui l’isola fu dichiarata ufficialmente sicura24, un’altra data avrebbe assunto una rilevanza particolare nell’affabulazione degli eventi. 4 marzo 1945, cielo sopra Iwo Jima. Quel giorno, «i laceri e sfiniti Marines videro la prima dimostrazione del perché stavano combattendo e morendo su quella piccola isola. Un bombardiere B-29 danneggiato che rientrava da un’incursione su Tokyo, il Dinah Might, fu il primo aereo americano a effettuare un atterraggio d’emergenza su Iwo Jima»25. La gioia soddisfatta di quel collettivo anonimo, i marines, descritta da James Bradley nel suo libro, è stata tradotta da Clint Eastwood nell’espressione soddisfatta di John Bradley e di Gust, un suo commilitone, alla vista dell’atterraggio. Nel film, i due assistono alla scena dalla spiaggia, l’uno adagiato su una barella con una gamba ferita e l’altro inginocchiato accanto a lui. Un rumore assordante proveniente dal cielo li distrae dai loro discorsi. Alzato lo sguardo, John e Gust vedono una superfortezza B-29 con un motore in fiamme avvicinarsi a quota bassissima. Dopo aver invaso e attraversato lo schermo, il bombardiere effettua un atterraggio di fortuna sulla pista del Motoyama, la prima pista di atterraggio conquistata dagli americani il 25 febbraio. Nella finzione cinematografica, l’episodio è riferito dall’anziano Gust, uno dei veterani intervistati da James Bradley dopo la morte del padre. A lui è affidato il commento chiave sulla necessità strategica di conquistare Iwo Jima. A

24 25

Anche se i combattimenti principali proseguirono fino al 26 marzo. J. Bradley, op. cit., p. 236.

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quel primo atterraggio, ricorda Gust, seguirono migliaia di atterraggi d’emergenza: «quell’isola salvò molte vite». Di vite ne salvò 24.761, stando al calcolo proposto dai sostenitori della Emergency Landing Theory26 e ricavato dal numero dei B-29 atterrati sull’isola a partire dal 4 marzo, ossia 2.251, moltiplicato per gli 11 membri di cui era composto ciascun equipaggio27. Tutti i bombardieri con il loro equipaggio al completo sarebbero andati perduti se l’isola conquistata non avesse offerto le sue piste d’atterraggio. Un numero di caduti nettamente superiore a quello subito effettivamente dai marines nel corso della battaglia: 6.821 morti, 19.217 feriti e 2.648 affetti da una patologia psichica denominata «combat fatigue»28. La conquista di Iwo Jima, la battaglia più costosa in termini di vite umane di tutta la storia del corpo dei marines, fu senz’altro utile, come recita il ritornello ripetuto da quel 4 marzo. Tuttavia, quegli atterraggi di emergenza salutati con tanta euforia dalle truppe e dalla stampa americana, non costituirono la ragione strategica per cui la Joint War Plans Committee, commissione incaricata di valutare l’opportunità della conquista di Iwo Jima, i primi di ottobre del 1944 l’approvò definitivamente. I motivi addotti dai vertici militari circa la necessità dell’operazione – e che troveranno eco nella storiografia successiva – si possono così riassumere: l’isola, a metà strada tra le Marianne e l’isola madre dell’arcipelago giapponese, quella di Honshu, era dotata di due piste d’atterraggio (più una terza in costruzione) e di una stazione radar. Quest’ultima era in grado di intercettare i quadrimotori B-29 in rotta verso il Giappone, e di allertare l’isola madre con un paio d’ore d’anticipo consentendole così di difendersi. In secondo luogo, le colossali superfortezze Boeing B-29 in rotta dalle Marianne verso obiettivi giapponesi costituivano un facile bersaglio dei caccia nemici di base a Iwo Jima. In terzo luogo, accanto all’obiettivo difensivo di ridurre le perdite, la conquista di Iwo Jima mirava a scopi offensivi. L’isola avrebbe dovuto offrire uno scalo ai B-29 per il rifornimento di carburante e di esplosivo. In questo modo, i B-29 avrebbero potuto decollare dalle Marianne con un minore carico di combustibile e un maggiore carico di bombe. In quarto luogo, l’isola sarebbe servita da base di decol-

26 Le argomentazioni che seguono restituiscono in forma sintetica l’importante articolo di R.S. Burrell, Breaking the Cycle of Iwo Jima Mythology: A Strategic Study of Operation Detachment, in «The Journal of Military History», 68, 4, October 2004, pp. 1143-1186. Gli stessi argomenti saranno riproposti con ulteriori aggiunte nel volume pubblicato nel 2006: The Ghosts of Iwo Jima, cit. 27 Lo stesso James Bradley aderisce a questa teoria: J. Bradley, op. cit., p. 251. 28 Le cifre sono tratte da R.S. Burrell, The Ghosts of Iwo Jima, cit., p. 82.

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lo per i caccia P-51 Mustang che avrebbero scortato i B-29 verso i loro obiettivi29. Alla luce dell’uso effettivo dell’isola dopo la sua conquista, tutti questi motivi sbiadiscono o decadono completamente. In estrema sintesi: il sistema radar di cui era dotata l’isola non era in grado di localizzare con precisione i bersagli americani. Di fatto, il sistema di allerta giapponese più efficace era l’intercettazione dei messaggi via radio che consentiva di sapere con un anticipo di quattro o cinque ore quali sarebbero stati gli obiettivi dei raid americani30. I Giapponesi fecero scarso uso dello scalo di Iwo Jima dopo il giugno del ’44, mese in cui gli Americani occuparono le isole Marianne. Inoltre, dei bombardamenti aerei a tappeto sarebbero stati sufficienti a rendere inoffensiva la base giapponese ed evitare così la sua cattura31. In merito al motivo del rifornimento, i B-29 erano in grado di percorrere con un pieno la rotta di 4.600 miglia dalle Marianne all’isola di Honshu e ritorno. Va aggiunto poi che il tempo necessario affinché gli oltre cinquecento bombardieri di ogni missione potessero effettuare una sosta sul campo di Iwo Jima sarebbe stato talmente elevato da neutralizzare il vantaggio ottenuto dall’aumento del carico esplosivo a detrimento delle scorte di carburante. Senza dimenticare che l’entità di tali missioni avrebbe reso difficoltoso l’atterraggio di tutti i bombardieri sull’isola. L’ultimo motivo menzionato, l’utilizzo dell’isola come base per i caccia P-51 Mustang richiede un’esposizione più ampia, proprio perché costituì il motivo principale addotto dalle forze armate. Le superfortezze B-29, i bombardieri tecnologicamente più avanzati dell’intero arsenale militare della Seconda guerra mondiale e destinati al teatro dell’Estremo Oriente, iniziarono le loro missioni operative il 15 giugno 1944, decollando dall’India e dalla Cina. Tuttavia, anche in seguito alla conquista americana delle Marianne da cui il 24 novembre decollarono le prime missioni dirette verso l’isola di Honshu, i bombardamenti dei B-29 si rivelarono poco efficaci. I quadrimotori, costretti a sganciare le loro bombe da un’altezza di 9.000/10.000 metri per evitare il fuoco dei caccia giapponesi, non disponendo di un radar di puntamento sufficientemente preciso e incontrando spesso formazioni nuvolose, mancavano ripetutamente i loro 29 Innanzitutto vanno richiamate le due fonti a cui si ispira il dittico di Clint Eastwood: J. Bradley, op. cit., p. 144 e K. Kakehashi, op. cit., pp. 35-38, Vedi inoltre B. Millot, La guerra del Pacifico 1941-1945. Il più grande conflitto aeronavale della storia, BUR, Milano, 2002, p. 846847. 30 Senza contare che l’obiettivo di privare il nemico di un sistema radar d’allerta fu menzionato dall’ammiraglio Raymond A. Spruance ex eventu, vedi R.S. Burrel, Breaking the Cycle of Iwo Jima Mythology, cit., p. 1170. 31 Ciò è quanto dichiarato dallo stesso Joint War Plans Committee nel «Seizure of the Bonins» del 30 ottobre 1943 e citato in ivi, p. 1151.

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obiettivi industriali. L’enorme dispendio di costi ed energie per la produzione, la manutenzione e le materie richieste così come le perdite subite crearono tensioni negli ambienti militari di Washington che sottoposero i B-29 e il loro impiego a violente critiche32. La proposta di conquistare Iwo Jima, questa la tesi sostenuta da Burrell, fu avanzata dall’aeronautica militare allo scopo di incrementare la resa delle incursioni aeree contro il Giappone dotando i B-29 di base alle Marianne di caccia di scorta. Data la scarsa autonomia di volo del prototipo di caccia in uso, il P-51D Mustang, era necessaria una base di decollo intermedia. Tuttavia le ricerche iniziali, avviate fin dal 1942 dalla commissione congiunta per le operazioni belliche (Joint War Plans Committee) sull’opportunità di conquistare le isole Bonin, giunsero alla conclusione che i bombardamenti di superficie sarebbero stati sufficienti a neutralizzare le isole come basi nemiche33. Inoltre, nello stesso documento, la Commissione aveva previsto un numero elevato di vittime come conseguenza dell’operazione. Sulla base di tale rapporto, i capi di stato maggiore congiunti (Joint Chiefs of Staff) decisero di accantonare il piano di conquista delle Bonin. La situazione mutò dopo l’aprile del 1944 allorché i capi di stato maggiore, volendo assicurarsi il controllo dei nuovi sofisticati B-29, approvarono la creazione della 20th Air Force, composta appunto dai nuovi bombardieri, e ne affidarono il comando a uno dei suoi membri, il generale Henry H. Arnold. Quest’ultimo, che a giudizio di Robert Burrell mirava ad impiegare i B-29 in una campagna aerea contro il Giappone come trampolino di lancio per attuare «lo scopo di tutta la sua vita di creare un’aviazione indipendente»34, fu uno dei principali sostenitori della necessità di conquistare Iwo Jima. Dopo che i caccia di scorta si erano rivelati essenziali per garantire il successo dei bombardamenti alleati sulla Germania sembrò logico che si sarebbero potuti ottenere gli stessi risultati nel Pacifico. Il 29 giugno 1944, il quartier generale della 20th Air Force a Washington ordinò un’indagine sulla possibilità di fornire delle scorte ai B-29 di base alle Marianne. La ricerca, condotta e chiusa in sole sei ore, sancì l’attuabilità dell’uso dei campi di atterraggio di Iwo Jima come base per i caccia P-51. In realtà, le caratteristiche tecniche di questo prototipo non gli consentivano di coprire con un solo pieno di carburante la distanza di circa 1.500 miglia fra andata e ritorno che separavano l’isola di Iwo Jima da quella di Honshu35. I capi di stato 32

B. Millot, op. cit., pp. 880 e sgg. Il rapporto della Commissione, «Seizure of the Bonins», del 30 ottobre 1943 è citato da R.S. Burrel, Breaking the Cycle of Iwo Jima Mythology, cit., p. 1151. 34 Ivi, p. 1152. 35 I P-51D avevano un’autonomia di circa 1.000 miglia. Teoricamente, dei serbatoi di combustibile esterni avrebbero potuto garantirgli un’autonomia di 2.000 miglia, ma la lunghezza del raggio di questi caccia era altamente variabile, a seconda della forza del vento con33

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maggiore – che nel frattempo avevano cominciato a riconsiderare la conquista delle Bonin – ritenevano tuttavia, in disaccordo con la 21th Air Force, che l’isola più adatta fosse quella di Chichi Jima36. I tentennamenti dei vertici militari a Washington nel prendere decisioni sulle prossime operazioni nel Pacifico, dovuti alle costanti rivalità tra i diversi corpi dell’esercito per il comando delle operazioni (in particolare quelle relative all’isola di Formosa, considerata un’ottima piattaforma per l’invasione futura del suolo nipponico) indussero l’ammiraglio Chester W. Nimitz, comandante delle forze del Pacifico centrale, a rivolgersi direttamente all’ammiraglio Ernest J. King, comandante in capo della marina, per avere istruzioni sulle operazioni future dopo la conquista delle isole Marianne. Di fronte all’incapacità dei capi di stato maggiore congiunti di risolvere i loro conflitti, Nimitz, dopo aver consultato l’ammiraglio Spruance, alle sue dipendenze, propose una soluzione di compromesso. Al posto dell’isola di Formosa, il cui comando era oggetto di rivalità fra la marina e l’esercito, si sarebbero conquistate le isole di Okinawa e Iwo Jima. Vinte le remore dell’ammiraglio King, sempre convinto dell’inopportunità di conquistare Iwo Jima, e avanzata la proposta ai capi di stato maggiore congiunti, questi approvarono la cosiddetta Operation Detachment allo scopo ufficiale di provvedere i B-29 di caccia di scorta. Il 7 ottobre 1944 Nimitz poté emanare l’ordine di occupare Iwo Jima alla flotta del Pacifico. Sebbene gli esiti della ricognizione fotografica aerea dell’isola, visionati verso la fine di ottobre, rivelassero la costruzione di un sistema difensivo raffinato e complesso, tanto da rendere illusoria la convinzione che si trattasse di un obiettivo semplice, l’Operation Detachment non fu arrestata. Già durante la battaglia di Iwo Jima l’aeronautica appostò sei squadriglie di caccia, per un totale di oltre cento P-51. Tuttavia, dall’isola partirono solamente 10 missioni di scorta: non solo il numero dei caccia era troppo esiguo per i circa 1.000 B-29 in continua attività, ma le loro caratteristiche tecniche li rendevano inadatti per quel tipo di missione. La conseguenza fu la sospensione repentina di tali missioni37. trario, del carburante supplementare impiegato nei combattimenti ravvicinati con i caccia giapponesi, ecc. Ivi, p. 1154. 36 Per quanto le sue piste aeree fossero più corte di quelle di Iwo, essa presentava un ampio porto, acqua potabile e distava, soprattutto, circa 150 miglia in meno dall’isola di Honshu. 37 Brian Hanly contesta la tesi di Burrell che attribuisce la sospensione delle missioni di scorta sostanzialmente alle caratteristiche tecniche dei caccia P-51. Hanley, luogotenente colonnello dell’esercito, sostiene contro Burrell, capitano del corpo dei marines, che la sospensione delle scorte fu dovuta alla nuova tattica di bombardamenti adottata dai primi di marzo. I bombardieri infatti, per non attrarre il fuoco nemico, cominciarono ad agire isolatamente e non in formazione: B. Hanley, The Myth of Iwo Jima: A Rebuttal, in «The Journal of Military History», 69, July 2005, pp. 801-8. Tuttavia, anche ammettendo la validità di questa e altre critiche mosse da Hanly, i suoi argomenti non inficiano, a mio giudizio, l’impianto argomentativo

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Decaduto lo scopo della conquista di Iwo Jima, si affermarono lentamente nuove ragioni, motivi estranei alle intenzioni iniziali, tra cui quella di fornire una base per gli atterraggi d’emergenza dei B-29. Il 4 marzo del 1944, giorno del primo atterraggio d’emergenza su Iwo, divenne la data fondatrice del mito dell’utilità di tante vittime. Nell’ultimo numero della rivista dell’aeronautica americana «Impact», uscito nel 1945 e dedicato alla vittoria dell’aviazione contro il Giappone erano già contenuti tutti gli elementi con i quali sarebbe stato tessuto il mito della Emergency Landing Theory. In un articolo dedicato alla battaglia si legge che «dal 4 marzo, dopo che il primo B-29 danneggiato vi atterrò, fino alla fine della guerra, 2.251 superfortezze atterrarono a Iwo. Un ampio numero di questi sarebbe andato perduto se Iwo non fosse stata utilizzabile. Ogni B-29 portava un equipaggio composto da 11 membri, un totale di 24.761 uomini. Prendere l’isola costò 4.800 morti,38 15.800 feriti e 400 dispersi [...] ma [...] ogni uomo che servì sotto la 20ª Air Force [...] nutre eterna gratitudine»39. Il vizio generale di questa teoria è la mancata distinzione tra gli atterraggi di emergenza e quelli pianificati per altri motivi, una mancanza da imputare all’aeronautica stessa. Le cause di tali atterraggi furono di fatto molteplici: le esercitazioni militari che prevedevano scali su Iwo Jima, il rifornimento di carburante, le soste effettuate prima di rientrare alle basi di partenza (Tinian, Guam o Saipan) in attesa di un miglioramento meteorologico e di schiarite. Senza contare che molti degli atterraggi effettuati, soprattutto per fare rifornimento, furono l’immediata conseguenza della nuova strategia di bombardamenti adottata dal generale LeMay che pretese dagli equipaggi di volare ai limiti delle loro possibilità, con poco carburante e nonostante le condizioni atmosferiche pessime. Quando nel 1951 lo storico Jeter A. Isely interrogò il colonnello dei marines Gordon Gale sull’affermazione per cui Iwo Jima salvò circa 20.000 aviatori, Gale rispose che «approssimativamente un quarto di questi piloti sarebbero andati perduti se l’isola non fosse stata in mano agli Americani»40. Al di là di questa affermazione, è sufficiente considerare i seguenti dati per comprendere l’assurdità di una simile teoria, fondata sulla pesa dei sacrifici: secondo i resoconti ufficiali delle forze armate, i piloti dei B-29 che persero la vita durante le operazioni militari effettuate in tutto il Pacifico partendo e le conclusioni tratte da Burrell. Sulla nuova strategia di bombardamento, elaborata dal generale LeMay vedi B. Millot, op. cit., pp. 882 e sgg. e B.H. Liddell Hart, History of the Second World War, Cassell, London, 1970, trad. it. di V. Ghinelli, Storia militare della Seconda guerra mondiale, Mondadori, Milano, 1996, pp. 962-964. 38 In realtà, le perdite americane, come riportato sopra furono di 6.821 morti, 19.217 feriti e 2.648 affetti da combat fatigue. 39 In R.S. Burrell, Breaking the Cycle of Iwo Jima Mythology, cit., p. 1177. 40 Ibid.

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dalla Cina, dall’India e dalle Isole Marianne furono 2.148. La teoria degli atterraggi di emergenza afferma che sarebbero morti addirittura 24.761 aviatori decollati solamente dalle Isole Marianne se Iwo Jima non avesse offerto le sue piste d’atterraggio, un numero undici volte superiore a quello di tutti i piloti di B-29 deceduti nel corso della guerra aerea del Pacifico. Inoltre il 21th Bomber Command, la divisione principale della 20th Air Force, postato alle Marianne, contava al suo apice circa 1.000 B-29. Considerato il numero degli atterraggi, 2.251, ogni velivolo avrebbe dovuto effettuare due atterraggi di emergenza – dato improbabile, considerato che i bombardieri potevano volare addirittura con due motori guasti sullo stesso lato – oppure, senza le piste d’atterraggio sarebbe andato distrutto almeno due volte. Laddove Clio e i suoi poeti non vollero o non seppero trarre le implicazioni paradossali di tale teoria, il mito iniziò a tessere la sua tela e l’assurdità dei dati oggettivi non fu più sottoposta a verifica. «La “nuda verità” – afferma il filosofo Hans Blumenberg – non è qualcosa con cui la vita possa vivere»41. Tanto meno la vita, per quanto fittizia, di Gust. Il personaggio creato da Clint Eastwood rappresenta una sintesi tra alcuni ex commilitoni intervistati da James Bradley, che gli riferirono alcuni episodi di eroismo del padre, e il veterano anonimo, tornato con un corpo mutilato. Il ritornello recitato per cinquant’anni dalla storia ufficiale, secondo cui la conquista dell’isola salvò molte vite, assume nel film un significato particolare, perché pronunciato da qualcuno che, in quell’isola, perdette non solo compagni e amici, ma anche le proprie braccia e l’uso delle gambe. La funzione del mito è espressa, involontariamente, ma con evidenza cristallina da James Bradley: «È fuor di dubbio che la vittoria americana accelerò la fine della guerra. Nei mesi successivi circa 2.400 superfortezze B-29 in difficoltà, con a bordo 27.000 uomini d’equipaggio, effettuarono atterraggi d’emergenza sull’isola, salvando così quelle vite. Sapere questo diede un po’ di conforto ai ragazzi che avevano combattuto sull’isola. Ad alcuni almeno»42. A questo mito aderisce anche Clint Eastwood, e non gliene facciamo una colpa. La resistenza ostinata di questo racconto rivela, al contrario, le ragioni autentiche e profondamente umane del suo radicamento. Grazie alla significatività che è in grado di opporre alla realtà nuda e terrificante, il mito soddisfa bisogni elementari di sopravvivenza, non tanto fisica quanto esistenziale. Diversamente, come sopravvivere alla propria realtà di mutilato senza il conforto offerto dal mito del sacrificio utile? Come proteggere lo sguardo dalla verità nuda, per cui l’isola avrebbe potuto essere semplice41

H. Blumenberg, Arbeit am Mythos, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1979; trad. it. di B. Argenton, Elaborazione del mito, il Mulino, Bologna, 1991, p. 146. 42 J. Bradley, op. cit., p. 251.

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mente neutralizzata mediante i bombardamenti e aggirata senza lasciarvi braccia e gambe? 4. Controcampo: cinema e storia C’è un piccolo episodio della storia del cinema o della storiografia che merita di essere raccontato perché, seppur effimero, condensa alcuni interrogativi fondamentali sul rapporto fra cinema e realtà storica, da un lato, cinema e narrazione storica, dall’altro. All’inizio del giugno 1997 il regista Jean-Luc Godard invita lo storico François Furet nel suo ufficio alla periferia di Parigi per mostrargli il suo ultimo lavoro, ormai quasi completato: le Histoire(s) du cinéma, la storia del XX secolo raccontata dal cinema. Dopo aver guardato i primi sei episodi e scambiate le prime impressioni, i due si ripromettono di incontrarsi nuovamente dopo l’estate per registrare le rispettive riflessioni. Quell’incontro non avrà luogo. Furet fu colto da morte improvvisa un mese più tardi, l’11 luglio 1997. Solo alcuni suoi commenti, raccolti nel corso di una conversazione con Antoine de Baecque nei giorni successivi, testimoniano l’impressione profonda lasciata dalle Histoire(s). La loro pubblicazione, pur essendo il frutto di un’intervista mai riveduta da Furet, rivela la notevole lucidità con cui lo studioso ha saputo cogliere una differenza centrale fra il proprio operare in qualità di storico di professione, e quello di Godard, regista della storia. Al proprio metodo freddo e raziocinante (modus operandi che spesso gli è stato imputato come una colpa), ritenuto necessario per la comprensione storica, Furet oppone il lirismo evocativo e perturbante delle immagini godardiane. Non è un caso che proprio lo storico che ha pubblicato solo due anni prima Le passé d’une illusion. Ese sai sur l'idée du communisme au XX siècle avvii le sue brevi riflessioni sulle Histoire(s) dalla necessità di «spezzare le catene delle invocazioni magiche», così come il potere simbolico di parole quali rivoluzione, comunismo e fascismo, che hanno caratterizzato il XX secolo. «È per questo – afferma Furet – che la capacità lirica delle immagini, considerate nel loro rapporto alla storia, mi fa paura, soprattutto le immagini del XX secolo che conservano una memoria carica di emozioni, di consenso e un’antimemoria fatta di tabù e di oblio»43. Oggetto della riflessione di Furet è dunque il rapporto reciproco che entrambi, il cinema e la storia del XX secolo, intrattengono con l’illusione. Il cinema, in quanto «straordinario strumento di rilevazione e mobilitazione di illusioni [...] è dunque in sintonia con la storia del secolo». Eppure, nonostante il cinema, secondo Godard, si sia vendicato della storia, «un po’ come, se cito bene, Chaplin diceva di essersi vendicato di Hitler ne 43 F. Furet, Lettre(s) à Godard, in «Cahiers du cinéma», novembre 2000, p. 7. Una breve introduzione di Antoine de Baecque riassume le circostanze dell’incontro riportate.

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Il grande dittatore perché gli aveva rubato i baffetti [...] esiste un’analogia e un’ambiguità tra cinema e storia»44. Le immagini di Godard, pur restituendo la storia come illusione, sono a loro volta l’illusione stessa, «non hanno abbastanza senso critico e [...] funzionano secondo lo stesso principio delle grandi illusioni del secolo»45. Prese separatamente, le suggestive immagini consacrate ad esempio alle guerre franco-tedesche o all’epopea comunista, continuano ad essere una parte di queste illusioni, e sembrano farle perdurare al di là della loro morte, sancita, tra gli altri, da Furet stesso nella sua riflessione sul comunismo. Da un lato, in queste poche righe Furet ha fornito la chiave per comprendere il patto fatale tra cinema e totalitarismi basato sulla loro affinità e il perché le grandi illusioni storiche furono interessate allo strumento cinematografico come mezzo emotivo di convincimento e propaganda. Dall’altro lato, un suo accenno breve (troppo), quasi en passant, ma significativo al montaggio cinematografico come strumento di critica di quelle stesse illusioni lascia intuire le potenzialità del cinema quale mezzo di riflessione storica. È evidente che il problema, formulato in questi termini, non è tanto il problema di Godard, quanto piuttosto quello dello storico Furet, uscito da un difficile confronto con il comunismo, la sua Grande illusion. Come rendere critiche le immagini cinematografiche di certo passato, neutralizzando quel loro potere di suggestione, quella carica nostalgica di cui continuano a vivere?46 Come risolvere l’analogia e l’ambiguità tra cinema e storia? Come può il cinema, macchina di sogni e di illusioni, produrre al tempo stesso una riflessione critica sulla realtà storica? Una possibile risposta, tanto semplice quanto fatale, sembra essere quella di spogliarla delle sue illusioni e lasciarla lì nuda. Con un gesto di stizza Chaplin strappa a Hitler i suoi baffetti. Ma se li attacca storti, suscitando il riso. Questa sorta di prologo non intende porre le premesse per stabilire analogie o per individuare una qualche aria di famiglia tra due registi così abis44

Ivi, p. 8. Ibid. 46 Questo nodo problematico su cui si arrovella Furet trova in realtà una soluzione potente nelle Histoire(s), per quanto lo storico la sottoesponga. Assunto il rischio dell’errore che ogni estrema sintesi comporta, l’opera godardiana può essere definita un’escatologia della storia che, da un lato, giudica, salva o condanna le immagini – come ha notato lo stesso Furet – ma che dall’altro le rende leggibili e parlanti nel presente a cui sono destinate. Montate dialetticamente tra loro, questi frammenti d’immagini dimostrano che il cinema svolse il ruolo di Cassandra del XX secolo. Immagini tratte dai film M., Siegfried, To Be or Not to Be, The Great Dictator, montate accanto a fotogrammi documentaristici dei dittatori e delle atrocità da loro commesse, dimostrano che la sua voce rimase inascoltata. Per una trattazione più estesa che renda giustizia alla complessità del progetto storico di Godard (di dichiarata derivazione benjaminiana) rimando qui a M. Dall’Asta, Godard and his Angel, in M. Temple, J.S. Williams, M. Witt (eds.), For Ever Godard, Black Dog Publishing, London, 2007. 45

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salmente diversi fra loro come Eastwood e Godard, ma introdurre la questione del modo in cui il cinema di finzione può riflettere produttivamente sulla realtà storica47. Seppur con modalità e tecniche assolutamente differenti rispetto a Godard, Clint Eastwood presenta un uso dialettico del montaggio che merita attenzione. Flags of Our Father, 6 min. e 24 sec. Nell’oscurità della notte, squarciata da razzi luminosi, tre marines in divisa, protetti dal loro elmetto scalano una montagna irta e accidentata. In una coltre di fumo e tra colpi di esplosione i tre volti contratti dall’angoscia e dalla fatica raggiungono la vetta, afferrano un’asta e piantano una bandiera. In quell’istante l’intensità della luce aumenta e rischiara la farsa cui lo spettatore, per qualche istante ha creduto: non sono razzi luminosi, bensì fuochi d’artificio ed enormi fari a squarciare l’oscurità, non sono le bombe, ma i botti ad accompagnare l’ascesa dei tre eroi di Iwo Jima, e la cima raggiunta non è il Monte Suribachi, ma una montagna di cartapesta, circondata non dall’Oceano Pacifico, bensì da una marea di spettatori giubilanti disposta sugli spalti del Soldier Field Stadium di Chicago. È il 19 maggio maggio 1945. Rene Gagnon, Ira Hayes, John Bradley, impegnati nella settima campagna di sottoscrizione dei buoni del tesoro, ripetono per l’ultima volta il gesto di innalzare la bandiera americana. In questa scena, la macchina da presa non solo va a braccetto con la propaganda, ma pare servirla con grande solerzia. Lo spettatore cinematografico, a differenza del pubblico presente allo stadio, cade vittima dell’illusione di trovarsi di fronte al campo di battaglia reale. La luce e l’inquadratura sono i mezzi con cui è prodotta questa percezione ingannevole. L’oscurità che avvolge la scena e il campo medio in cui sono iscritti i tre soldati mentre scalano la montagnola non lasciano presagire nulla delle presenze fuori campo. Ma quando, raggiunta la vetta, lo stadio si illumina e la macchina da presa passa dal mezzo campo a quello totale, ecco che lo spettatore vede finalmente il contesto dell’azione e si desta dal torpore dell’illusione. Il fuori campo, ovvero quella porzione di realtà che restituisce il contesto autentico negato inizialmente allo spettatore, coincide con lo spazio del pubblico americano, accorso allo stadio per assistere alla farsa. Dunque la percezione del pubblico di quel 19 maggio, la sua consapevolezza di trovarsi di fronte alla semplice riproduzione di un gesto sono superiori a quelle dello spettatore del 2006, cascato in pieno nella trappola visiva. Il riscatto dello spettatore comincia sulla cima di quella montagnola. John Bradley sente una voce fuori campo che lo chiama: «Infermiere!», lui si volta, e il suo viso, ora in primo piano, è illuminato a intermittenza dai fuochi artificiali che producono però il rumore di bombe che esplodono. La 47 Uso l’espressione cinema di finzione per rendere esplicita l’esclusione del genere documentario di cui non è possibile tener conto in questa sede.

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similitudine fra i botti nello stadio e le esplosioni, che introduce la scena successiva girata sul campo di battaglia reale, suggerisce allo spettatore una similitudine che il pubblico presente non può cogliere, ossia che forse anche quello stadio è teatro di guerra e che i tre soldati stanno combattendo un’altra battaglia. Due flashback mostrano quel fuori campo visibile allo spettatore, ma non al pubblico. Il vantaggio gnoseologico si rovescia a favore del primo. Il film ricostruisce d’ora in avanti la storia di quegli uomini alternando costantemente scene del loro addestramento sull’atollo di Tarawa nel dicembre 1944, dello sbarco su Iwo Jima e dei combattimenti alle varie tappe della campagna di vendita dei buoni del tesoro. Allo spettatore è mostrato il cinismo politico con cui viene condotta questa campagna di vera e propria propaganda per raccogliere il sostegno finanziario degli Americani, le menzogne, le verità taciute, le tensioni, l’imbarazzo e la vergogna con cui i tre soldati indossano la veste di supereroi, il loro senso di colpa rispetto ai compagni caduti. 80 minuti più tardi lo spettatore assiste ai preparativi nello stadio di Chicago, la montagna di cartapesta su cui i tre eroi dovranno piantare la bandiera americana cercando di assumere la posizione della prima volta, come se gli altri tre, i tre morti, fossero presenti. La scena della scalata della montagnola artificiale è ripetuta, ma lo spettatore ora sa che fuori campo c’è un pubblico in attesa di applaudire il momento conclusivo della farsa. Mediante il montaggio alternato, la sequenza dell’ascesa è spezzata da continui flashback che raccontano i nostoi mancati degli altri tre eroi. Ora lo spettatore rivive insieme a Rene, Ira e John, la morte di Mike Strank, Franklin Sousley, Harlon Block. La loro presenza/assenza non è simulata facendo loro fisicamente spazio al momento di issare la bandiera (come richiesto da copione), ma restituita dai flashback che raccontano la loro morte in combattimento. La farsa a cui continua ad assistere il pubblico di quel 19 maggio, si capovolge nuovamente in dramma per lo spettatore. La produzione di quella illusione iniziale di cui era caduto vittima, insieme alle similitudini ricorrenti nel film tra spari e flash, fuochi d’artificio e cariche esplosive, si rivelano ora funzionali all’interpretazione filmica di quegli eventi: che si trattò cioè di un’unica guerra, sebbene combattuta su due fronti diversi. Dunque l’illusione iniziale, realizzazione perfetta e verosimile di quella ripetizione voluta dalla macchina mediatica messa in moto dal governo, si rivela, paradossalmente, un potente strumento di demistificazione: quanto più, inizialmente, contribuisce a produrre l’effetto di farsa, tanto più la rovescia nel dramma degli abusi della politica. «Se un’immagine, guardata separatamente esprime chiaramente qualcosa, se comporta un’interpretazione, tale immagine non si trasformerà a contatto con un’altra immagine, le altre immagini non avranno alcun potere su

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di essa, ed essa non avrà alcun potere sulle altre immagini, né azione né reazione, essa è definitiva e inutilizzabile nel sistema del cinematografo»48. Viceversa, se l’immagine di Joe Rosenthal, questa icona perfetta nel suo isolamento, simbolo di vittoria e di spirito patriottico, viene reinserita nella corrente delle immagini che la precedettero e la seguirono, rimontata tre volte nel campo di Flags of Our Fathers, prima come farsa, poi come realtà e in ultimo come dramma, per essere infine annichilita nel controcampo delle Lettere da Iwo Jima, ecco che la sua iconicità si dissolve nella riflessione sul significato più autentico degli eventi.

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J.-L. Godard, Histoire(s) du cinéma, chapitre deux (b): Fatale beauté.

Abstracts

1. Michel De Certeau, Storicità mistiche In the mystic documents at his disposal, the historian must recognize the result of the collective operations which produced his information. The difficulty will rather be to disengage the «mystic» from the «social». Nowadays, every science constructs objects which are consistent with its objective. A new block of social and theoretical «interests» transforms the way in which the mystique appears in the field of our investigations. But if we examine what general function has been assigned to it in the system of social sciences from the beginning of the century, in which regions of knowledge (psychology, sociology, etc.) and under what formalities (the pathologic, the marginal, etc.) occur the objects that these sciences define in the documentation, we can find how the mystique traces specific questions, concerning an historicity on its own terms. The way in which the mystique returns in the field of our present disciplines suggests analyzing as well how its operations are inscribed in the ancient knowledge, and how, once delivered to history, it keeps on differentiating itself. 2. Hayden White, Storia mistica The crucial question for historical knowledge is whether history should be considered as a science or it remains a discourse on the historical past. Responding to the transformations of the second half of the 18th century, politically and socially dominant groups featured modern history as a form of taming the past, while in the first half of the 20th century it was reduced to ideology. In the ’70s, within the large French debate on history and the crisis of Structuralist historiography, the work of M. de Certeau played an important role. The turning point was May ’68, together with an analogy between mysticism and the comprehension of that part of the human past which remained untold. Combining psychoanalysis and ethnology, de Certeau has elaborated a post-Structuralist theory of history which spatializes the past, thematizes the absent and aims, like Freudian psychoanalysis does, at recovering the instrument of fictional imagination.

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3. Andrew Baird, Etica e luogo della storia It is already well-known that the ethical implications of claims to «know the other» are a major concern of Michel de Certeau’s work on history and other «heterologies». For Certeau, the problem of the «ethical» concerns not simply the «power» that a discourse exerts over its object, but also the question of the relation of this discourse and the activity that produces it to a wider sociopolitical order. In the work associated with history’s «ethical turn,» there has been a tendency to restrict the terrain of the ethical to a concern for the object and its fate in historical representation; the preeminent ethical question in this context is the «obligation» or «duty» of historians to the past «others» that their work addresses. Certeau’s work reminds us of the necessity of looking beyond the subject-object relationship, and including within the scope of the «ethical» a critical reflection on the present «place» in which this relationship unfolds. In what follows, I want to examine Certeau’s framing of history’s ethical potential in his late essay entitled History: Science and Fiction. In this essay, Certeau argues that history’s ethics must be understood in relation to the abiding, but ultimately irreducible, threat of dogmatism. I will argue that if we understand the «ethical» as a struggle against «dogmatism» we must be prepared to consider history’s ethics as an endlessly renewed, never resolved struggle against the «place» of its production. 4. Silvana Borutti, Immagini-traccia e scrittura. Storio-grafia ed etno-grafia in Michel de Certeau This article investigates the psychoanalytic approach to history writing by Michel de Certeau. In particular, the notion of «trace» is pivotal to de Certeau’s inversion of perspective, according to which the historiographical process doesn’t move from the residues of the past to their present narrative comprehension, but from the writing labour of the present to the production of the past, of its absence and of its traces. Around the uncanny character of the trace, de Certeau organizes a multi-layered reading of the emergence of the scientific writing of the otherness. The article comments upon two essays on pictorial, visual or acoustic images, which de Certeau reads as traces performing the uncanny power of writing. 5. Christina Antenhofer, Emozionalità nella storia. Riflessioni sullo sfondo di Storia e Psicoanalisi e La scrittura della storia di Michel de Certeau Starting from the present interest for emotionality in history, this contribution analyses the process of historical research and writing before the

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background of de Certeaus texts. The essay is organized in five chapters: The other in history, A dialogue with the dead, Rationalities beyond our rationality, The subject and the place of production, Telling stories – fictions. Historians search for the other, the strange in the past. Similar to psychoanalysts they try to get the «truth» out of their sources as if they were looking for some sort of confession (of the dead and the sources). This obsession with the «truth» results from the desire to enable the present by reconstructing the past, to make it understandable and to create projects for the future. Historians build in their works epistemological laboratories. The process of historical work has fictional aspects from the very beginning on: This starts with the choice, construction and production of «events» (worth telling) and corresponding sources and culminates in the method of writing: Historians always tell stories by organizing events in a series and formulating causalities. Certeau expresses this aspect as possible criticism yet seeing in it the power of history as well: The potential to function as a corrective for the present and sketch models for the future. What remains to be questioned is the clear distinction between history and the «stories», namely literature and legends. Certeau states that this distinction is a result of the historical process which made history a science – yet literature thus excluded comes back as a suppression in the products of historical writing. Taking in consideration the subject and the conditions of production as well, historical texts moreover get the character of psychographs of their authors: The present interest for emotions in history thus reveals the emotionality of the writing subjects and of the conditions of production in the scientific community itself. 6. Massimiliano Mazzini, Blumenberg e/o de Certeau. Stabilità e/o frattura? Il ritorno del rimosso e l’inversione del pensabile all’interno della storiografia sociologica dei comportamenti religiosi How does the Freudian question of the return of the repressed appear when applied to contemporary historiographical methodology of writing history? Essentially quoting from de Certeau’s L’Écriture de l’histoire, this essay tries to show how the scientific criterion for religious historiography, based on a clear-cut separation between the past and the present, conceals a repressed temporal dimension. Even if this criterion yields its own cognitive reality through a principle of repression and a distanciation from the speech acts and common beliefs of the past, this dimension would cause a splitting up of the scientific identity as a result. According to de Certeau, this constitutes the temporal deception of history. This study aims to describe temporal archaeology – the inversion of the thinkable – as a method to expose the return of the repressed, as practiced by de Certeau in the historical and

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scriptural thought of the historiographical sociology of religious behaviours. The comparison between this archaeology and the historical functionalism of Hans Blumenberg reveals some significant structural analogies. 7. Stefano Selenu, Elaborando le tracce della storia. Linguaggio, metafora e alterità in Antonio Gramsci Gramsci’s prison work constitutes both a reflection on Italian, European, and world history, and a working-through-and-out of the trauma of the political defeat and detention. His critical elaboration is the source for his dialogic philosophy (Gerratana, Baratta), whose starting point, recasting the Vichian tradition, is the idea that every human being should make a «philological» inventory of the traces that history left in his or her consciousness. This inventory allows human beings the possibility of knowing how their consciousness is historically constituted. By knowing it they are in a better position to actively and critically narrate themselves instead of being narrated by others. In this paper, which will also take into consideration the question of the Italian anti-Semitism that Gramsci discussed in the Prison Letters with his sister-in-law Tania Schucht and friend Piero Sraffa, I will argue that Gramsci’s critical method informs his worldly reflection on history and language, and that his writing on history relates to his lived experience as well as to his reflection on language. As a development of this interconnection between history, lived experience, and language, I will also discuss Gramsci’s insight that language is always metaphoric. This idea relates to his critique of both neogrammarians’ positivist and Croce’s idealist conceptions of language. According to Gramsci, language is a historical and social product as well as a producer of history and social relationships. This makes language a continuous process of the creation of metaphor. I argue that Gramsci did not intend metaphor as an individual elocutionary and stylistic utterance, but as the inner dispositive of language. By stating that language is metaphoric, Gramsci reveals that language and history are always open to an indissoluble immanent otherness. I will argue that Gramsci’s thought itself, in its variety, worldliness, and criticism of any totalizing idea and ideology, mirrors this continuous dialogic opening up to otherness. 8. Barnaba Maj, «Les traces de l’autre»: Robinson Crusoe e il problema della storia The following essay presents an analytical review of L’absent de l’histoire, chapter 8 of Histoire et psychanalyse. The analysis will show that the

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theme of the trace, as suggested by the archetypical novel The Life and Adventures of Robinson Crusoe by Daniel Defoe, does not simply perform a reference by analogy. Setting up the familiar strangeness of the Freudian uncanny, this theme alludes in the historical field as well to inexhaustibility of the corporeal field of the Other, and therefore to the fictional setting of the novel as an inherent reference of the historical discourse. 9. Rossana Lista, Pratiche di senso e di scrittura in Heart of Darkness In the research field on complex connections between history and literature Michel de Certeau is a point of theoretical reference among the most original. According to de Certeau, «literature is the theoretical discourse of the historical process », which «creates the non-topos where the effective operations of a society attain a formalization». Literature is «the “logical” discourse of history, the “fiction” which allows it to be thought». The literary text is also the theoretical space where the subtle practices of relation with the other are devised, identified and combined: essentially it is the field where the logic of the other is fulfilled. This is the theoretical assumption, the place from which the here proposed analysis of Heart of Darkness speaks, in order to trace the practices of writing and meaning effected by Conrad, the logic of the other and the logic of the same that insinuate into the text. 10. Desirée Petrizza, La «neve nera»: spazio del tempo nella poesia di Paul Celan «Snow» is the Celanian «locus» where loss comes into sight, blinds, covers and protects. «Ice» is the crystallization of loss in a «new landscape of words», a landscape of which «word» is the «material» the «opaque» matter (as it is really present) that doesn’t let the sunlight shine through but can be crumbled, eroded, melted, etched, kneaded. The geologic and linguistic stratification that characterizes the construction, or better the «creation» of Celan’s world and language is the ground on which the ear can pick up prehistoric echoes, topological constants, and geological figures bearing witness of the persistent trace of what has been lost and of the impossibility of moving beyond the ice age of memory. This impossibility summons up a cyclic return to the «ice homeland», and generates the «temporal indicators» (either technical terms from geology or pre-history, or direction figures, or temporal vectors) which mark from time to time the articulation or the overlapping of «creatural» and «total» time. The analysis is conducted on seven poems by Celan.

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11. Lisa Regazzoni, Campi di vittime e controcampi politici. Il dittico di Clint Eastwood sulla battaglia di Iwo Jima In his two films on Iwo Jima, Clint Eastwood not only achieved the allworthy representation of the battle from two opposite and conflicting perspectives, namely the American and the Japanese one. Moreover, deconstructing political propaganda and military chauvinism, false myths and symbols, the director got hold of the shared humanity on both fronts to show how private soldiers were in fact the real victims of war, both from a political and from a military point of view. The peculiar use of montage in some scenes of the two films conveys a few important ideas on the contribution that narrative cinema can make to historical understanding. Despite the merits, Eastwood though yields to another myth, which is much more embedded in the American collective memory, that is the myth according to which the conquest of Iwo Jima, regardless of the very high losses, was «useful» and helped saving the lives of many American aviators.