Studi di geopolitica 1992-1994
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Table of contents :
STUDI DI GEOPOLITICA
Indice
I nuovi poli geopolitici
1. Il Modello egemonico
2. Il Modello autoritario
3. Il Modello Istituzionale
4. Il Modello virtuale
Bibliografia
Stati Uniti e Occidente: un’identità difficile
Bibliografia
La nuova geopolitica europea
Lo strappo
Frammentazione
Estremo promontorio dell’Asia
Nuove certezze
Nuovo modello
Germanizzazione
Quattro aree
La rinascita tedesca
I costi da pagare
Bibliografia
La ricostruzione dell’Europa
Bibliografia
Le istituzioni della sicurezza nell’età postbipolare
Bibliografia
Geopolitica e strategia del «Sistema Sud»
1. Il tema
2. La minaccia
3. Il rischio
4. Confronti
5. Il Sistema Sud
6. L’Italia e il Sistema Sud
Bibliografia
Geopolitica e sicurezza del Mediterraneo
Il caso Italia
Nazionalismo e sviluppo politico nell’ex URSS
1. Il problema
2. Il nazionalismo
3. Lo sviluppo politico
4. La formazione del sistema politico
5. Il problema dell’identità nazionale
6. Il nazionalismo come forma della politica
Bibliografia
Russia: un sistema politico in cerca di identità
La politica estera e strategica russa
Le due culture
Cooperazione e sviluppo: sei innovazioni possibili

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CARLO MARIA SANTORO

STUDI DI GEOPOLITICA 1992-1994

G. GIAPPICHELLI EDITORE - TORINO

© Copyright 1997 - G. GIAPPICHELLI EDITORE - TORINO VIA PO 21 - TEL.: (Oil) 812.76.23 - FAX: 81.25.100

ISBN 88-348-6128-0

Composizione: Repro 3 - Torino

Stampa: Stampatre s.a.s. - Torino

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Per Mirella

Indice

Introduzione

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Parte Prima Il Sistema Politico Internazionale

1. 2. 3. 4. 5.

I nuovi poli geopolitici Stati Uniti e Occidente: un’identità difficile La nuova geopolitica europea La ricostruzione dell’Europa Le istituzioni della sicurezza nell’età postbipolare

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Parte Seconda I Sottosistemi 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13.

Geopolitica e strategia del «Sistema Sud» Geopolitica e sicurezza del Mediterraneo Il caso Italia Nazionalismo e sviluppo politico nell’ex URSS Russia: un sistema politico in cerca di identità La politica estera e strategica russa Le due culture Cooperazione e sviluppo: sei innovazioni possibili

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Introduzione

Per un paradosso della logica (e un’invenzione della ragione) la caduta del Muro di Berlino nel 1989, e poi il collasso del paradigma scientifico che ad esso era saldamente cementato, invece di sollecitare l’apertura di un dibattito approfondito sul futuro del sistema politico intemazionale, che è ancora ignoto e non del tutto rassicurante in quanto privo di riferimenti strutturali, ha indotto politici e politologi a rifugiarsi nelle certezze “globaliste”, tipiche degli economisti e in quelle "istituzionaliste”, tipiche dei giuristi, assegnando così al parametro culturale americano della liberaldemocrazia delle regole il dominio assoluto del campo di gioco. Rammento bene, per fare un esempio, come nel 1990 in occasione del Congresso Annuale deìV International Studies Association (ISA), l’organizzazione accademica che raccoglie la stragrande maggioranza degli specialisti di politica intemazionale, la questione del revival nazio­ nalistico, già largamente presente in diverse aree del mondo, fosse del tutto ignorata negli oltre quattrocento panels in cui si divideva l'impo­ nente Congresso, che pure radunava migliaia di studiosi provenienti da tutto il pianeta. Tale assenza tematica era così vistosa da escludere a priori l’Europa, ritenuta del tutto immune dai rischi di quella “malattia”, che invece nel giro di pochi mesi sarebbe diventata l’agente principale della dissoluzione etnico-politica dell’Unione Sovietica, della Jugoslavia e della Cecoslovacchia. Il fenomeno mi colpì perché si trattava dell’anno zero del fallimento storico, culturale e morale del sistema sovietico, iniziato nel 1989 con il crollo dei regimi comunisti in Europa Orientale e con un terremoto nazio­ nalistico i cui echi non si sono ancora spenti. Dopo di allora, peraltro, le cose non sono andate certamente meglio. Invece di studiare le cause della rinascita di categorie analitiche date per morte e sepolte fin dal 1945, e invece di mettere al vaglio critico le teo­ rie e le procedure interpretative dominanti durante la guerra fredda, il mondo dei "vincitori”, vale a dire gli Occidentali, in particolare gli Americani e gli Europei, ha preferito cullarsi, dapprima nell’illusionismo

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Introduzione

della "fine della storia” (F. Fukuyama) ovvero di un "Ordine Mondiale” immaginario, e successivamente nella rigida codificazione di un corpo di formule politiche ed accademiche, elaborate in precedenza e funzionali alla vittoria sul ComuniSmo, che vennero automaticamente estese a diven­ tare modello d’imitazione generale, quindi da esportare ovunque. Invece di domandarsi quali fossero le ragioni per le quali il ComuniSmo era imploso minato dalle sue stesse debolezze, gli osservatori occidentali, che pure erano stati presi di contropiede dal fallimento del sistema sovie­ tico non avendone affatto previsto l'imminente fine, hanno preferito ada­ giarsi sui comodi letti del luogo comune intellettuale come quello dell’e­ terno duello fra "Democrazia e Totalitarismo” (R. Aron), senza capire che, forse, non è stata la "democrazia”, e neppure la teoria liberaldemocratica che le fa da sfondo teorico, a svuotare di senso il blocco sovietico. Ma che invece sono stati determinanti i cosiddetti "agenti del passato”, quali le teorie nazionalistiche ed etnicistiche, le questioni della geopolitica e della geoeconomia, quindi le dinamiche della potenza, e con esse anche i modelli storici, culturali, religiosi e di “civilizzazione” (S.P. Huntington). Sono stati cioè gli eventi e le mentalità, quindi i fattori di lungo periodo, come le “permanenze” (F. Braudel) e i sentimenti, i miti e i loro "mito­ motori” (A.D. Smith), che hanno prevalso sulle razionalizzazioni di stampo illuministico, istituzionale o idealistico-utopistico. Gli esempi più recenti, caratteristici di questo atteggiamento conven­ zionale e al tempo stesso ignaro, sono quelli fomiti dalla sequenza perio­ dica dei Congressi intemazionali delle principali organizzazioni politologiche, a cominciare dalla già nominata International Studies Association, all’American Political Science Association (APSA), fino all’assise de\\’International Politicai Science Association (IPSA) tenutasi a Berlino nel 1994, così come nei Congressi annuali dei Sociologi, dei Giuristi e degli Storici internazionalisti, e di altri scienziati sociali, celebrati con la solennità tipica dell’accademismo mondano in varie città del mondo, a partire dall'"annum mirabilis” 1989. Sono stato testimone oculare della progressiva omologazione dei temi di ricerca, attraverso l’inserzione obbligata e ridondante di filoni d’inda­ gine alla moda o d’occasione (Gender Studies, Multiculturalismo, Diritti delle Minoranze, Gay and Lesbians, ecc.), dell’approfondimento pedante di questioni minori o marginali, sia teoriche che empiriche, immerse in logiche quantitative e modellizzazioni matematiche, tanto complesse quanto euristicamente inutili, ma soprattutto dominato dall’occultamento dei temi scomodi, dalla mancanza d’invenzione e, alla fine, dal diffuso timore della novità che fa affondare la disciplina nelle sabbie mobili del più melenso conformismo accademico.

Introduzione

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Per curiosità ho raccolto decine di Programmi Congressuali (IPSA, ISA, APSA, OAH, ASA, ecc.) con l'elenco dei temi prescelti, dei panels e dei partecipanti, per recensire gli orientamenti della comunità scientifica e accademica in materia di politica internazionale. Ebbene, se si sfogliano i programmi di quelle manifestazioni accademiche o si leggono i saggi pubblicati dalla maggioranza delle riviste soprattutto americane dedicate alle Relazioni Intemazionali, da World Politics a International Organization, dall’American Politicai Science Review a International Studies Quarterly, da Foreign Affairs a Foreign Policy, il dominio quasi monopolistico delle tematiche globaliste, istituzionaliste e dell’idealismo "ordinista”, intriso di normativismo e di economicismo, è del tutto evidente. La ragione di tutto questo è abbastanza comprensibile. In effetti è molto più semplice, per un governante o per un politico, ma anche per un esperto tradizionale o uno studioso accademico della politica internazionale, prendere per buono il paradigma scientifico appa­ rentemente vincente, quello che tutto sommato ha superato gli scogli del Novecento, sconfiggendo in successione il Fascismo prima e il ComuniSmo poi, e quindi tentare di generalizzarlo come modello di rife­ rimento da imporre, alla comunità scientifica e ai governanti, senza porsi il problema di una verifica critica capace di leggere i dati senza schemi preventivi di decodifica degli eventi. Il fatto poi che le ragioni della vittoria del paradigma liberaldemocratico fossero assai più complesse di quanto non sembrasse ad una prima lettura e che non tutte queste ragioni fossero da attribuire ai meriti del modello occidentale, tanto nel caso della vittoria sul Fascismo (otte­ nuta con l’aiuto determinante deH'Urss, che poco aveva a che fare col paradigma liberaldemocratico angloamericano), quanto nel caso della vittoria sul ComuniSmo (ottenuta con l’aiuto del fallimento economico strutturale del modello sovietico e con il revival dei processi di fram­ mentazione nazionalistica ed etnica in funzione anti-imperiale), viene messo del tutto in ombra, previlegiando invece il successo occidentale tei quel. D’altra parte, anche l’adozione del paradigma liberaldemocratico e istituzionalista, che trascura l'emergenza dei fattori nuovi o la resurre­ zione delle "forze profonde” (P. Renouvin), omologando tutti gli eventi all'intemo di un modello di sistema politico intemazionale adatto a tutto il pianeta, tale da sostituire il paradigma obsoleto del Sistema Bipolare, presenta degli inconvenienti notevoli. In primo luogo perché, nel corso della sua applicazione planetaria, attraverso l’imposizione del modello liberaldemocratico a tutti gli attori e alle élites politiche, esso tende a perdere il suo connotato "liberale” per

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Introduzione

assumerne uno obbligato e vincolante, che ne svaluta proprio la motiva­ zione essenziale e quindi ne riduce la legittimazione. In effetti, per convincere il mondo ad omologarsi sulla via dell’in­ terdipendenza politica, economica e culturale di stampo occidentale, il modello liberaldemocratico, da modello "liberale" tende a mutarsi in modello imposto e quindi oggettivamente “autoritario”, con rischi impli­ citi di trasformazione "totalitaria" (H. Arendt), qualora la sua indiscutibi­ lità diventi dogma incontrovertibile, mutando progettualmente l'uomo, i popoli e la società internazionale che verrebbe così integrata in senso "uni­ dimensionale” (H. Marcuse). In secondo luogo, il paradigma occidentale, basato su proiezioni lineari e non certo dialettiche, trascura di confrontarsi con i fattori di dissolu­ zione del modello precedente, che pure hanno efficacemente contribuito alla vittoria dell’occidente, anche se con modalità profondamente diverse. Ne consegue che il paradigma occidentale, sicuro della propria incon­ trastata superiorità, non tiene conto degli ostacoli che le nuove correnti politiche e culturali (fondamentalisti, nazionalisti, etnicisti, continentalisti, ecc.) frappongono oggettivamente al dominio esclusivo del modello liberaldemocratico e istituzionalista, il quale, in sintesi, non è poi altro che l’ideologia delle potenze marittime e degli Stati Uniti in particolare (A.T. Mahan; C. Schmitt). L’errore di prospettiva potrebbe quindi trasformarsi in vera e propria incapacità euristica o interpretativa, condizionando per questa via ogni ipotesi preditiva sul futuro, con effetti gravi sulle capacità di riorganiz­ zazione del Sistema Politico Internazionale (SPI) che pure sembravano a priori risolte con la fine del comuniSmo sovietico. È questa infatti una delle questioni più difficili nello studio delle Rela­ zioni Internazionali postbipolari che si salda con quella della "riconcet­ tualizzazione" del mondo e delle sue leggi di sviluppo politico dopo la fine della “guerra fredda”. Con il 1989, più ancora che nel 1945 (ma come nel 1914) sono andati a fondo i criteri di analisi, e con essi anche il paradigma scientifico della politica internazionale contemporanea. Sono cadute definitivamente in pezzi due delle tre ideologie del Novecento che hanno dominato il campo durante tutto il secolo: il Fascismo e il ComuniSmo. È sopravvissuta, espandendosi a coprire il pianeta di un “cablaggio" istituzionale quasi globale, l’ideologia occidentale, liberaldemocratica, istituzionalista e mer­ cantile, delle potenze marittime, di cui gli Stati Uniti sono il modello e al tempo stesso il protagonista imperiale (G. Liska). Ci affacciamo così al Terzo Millennio con un bagaglio culturale preconfezionato e un' "ordine mondiale" beffe pronto ad essere esteso

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sulla superficie del mondo intero, uniformando l’intero pianeta alla "civi­ lizzazione” occidentale. Il rischio che si tratti di un pericoloso paradigma omologante, impo­ sto dapprima e poi esportato con la forza e il potere di convinzione det­ tati dalla tecnologia e dall’economia, oltre che con il deterrente della supe­ riorità militare, è davvero cospicuo. Esso trascura infatti di considerare le "differenze” culturali, religiose, politiche e storiche, oltreché geografi­ che ed etniche, dei vari popoli e stati che caratterizzano il pianeta terra, ma anzi prevede di assimilarle tutte in una formulazione di regole e pro­ cedure onnicomprensive che si sovrappongano autoritativamente sia alla verità che alla volontà degli altri. Tale disegno strategico contrasta peraltro radicalmente anche con un fenomeno diametralmente opposto, cioè con l’eccesso di attenzione che si concentra sulle questioni particolari, sugli aspetti legati alla condizione "speciale" delle minoranze e degli individui, dei gruppi sociali o politici marginali e periferici, il nuovo culto per le "diversità" di stampo ameri­ cano, il rispetto delle differenze etniche, razziali, culturali, degli handicaps, dei generi e via dicendo che caratterizza invece sempre più nettamente le scienze sociali e perfino il costume nel mondo sviluppato (A. Schlesinger). Questa forbice concettuale e di metodo, che da un lato punta all’omo­ logazione internazionale delle idee generali, dei mercati finanziari, delle organizzazioni e istituzioni, dall’altro lato entra in rotta di collisione con i processi di attenzione alle differenze della condizione umana e sociale dei gruppi e dei ceti di ogni tipo e natura. La teoria che per semplicità chia­ miamo liberaldemocratica, non è infatti in grado di rispondere a questa contraddizione logica insita nell'approccio stesso al problema, creando così le premesse della confusione scientifica e dell’inconsistenza accademica. Come è possibile infatti pretendere che tutti gli attori del sistema internazionale si adeguino al modello occidentale liberaldemocratico, basato sui principi che ispirano il modello americano, europeo e delle Nazioni Unite, diretto quindi alla crescita dell’interdipendenza e della integrazione se, al tempo stesso, si sostengono i diritti all'autonomia o all’indipendenza di minoranze oppresse ma aggressive, di gruppi etnici e tribali indistinti o primitivi, il diritto all’autodeterminazione dei popoli, anche quando proclamino codici morali, ideologie politiche o religioni estreme, radicalmente in contrasto con i principi della libertà e della democrazia intemazionale? D'altra parte, come è possibile giustificare logicamente il rifiuto della soluzione militare delle controversie intemazionali quando si sostiene il diritto alla secessione, come è stato il caso della frammentazione jugo­ slava o della polverizzazione degli stati ex coloniali dell’Africa Centrale?

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Infine, perché negare che l'uso della forza nelle situazioni di crisi, attra­ verso l’impiego di truppe che agiscono sotto la bandiera azzurra delle Nazioni Unite è stato un fallimento, e che le operazioni di controllo dei conflitti non hanno alcuna speranza di successo se le Grandi Potenze non assumono in prima persona, con l’autorità della propria bandiera nazio­ nale o sotto le insegne di alleanze da queste dominate (Nato), le inizia­ tive di peace-making o peace-enforcing, come è stato il caso della Guerra del Golfo, della Bosnia e della Somalia, smentendo così automaticamente ogni prospettiva di multinazionalità egualitaria e super partes? Nel caso in cui, invece, si volesse tener conto delle "diversità”, e quindi delle "differenze”, come nell’esempio delle teorie “multiculturaliste” fio­ rite negli Stati Uniti e poi esportate in Europa e nei paesi sviluppati, con una coda di deformazioni interpretative nei riguardi dei paesi del Terzo Mondo sottosviluppato, il rischio diventa di natura diametralmente oppo­ sta rispetto al primo. La teoria "multiculturalista” infatti non è altro che una teoria "relati­ vista” e "giustificazionista”, nel senso che prevede l’assoluta indipendenza dei diversi approcci culturali, senza verifiche circa la loro possibile sovrap­ ponibilità, ovvero senza constatazioni relative alle contraddizioni che pos­ sono emergere fra culture coesistenti o coabitanti geograficamente, che spesso diventano la causa prima delle crisi che a loro volta danno luogo alla generalizzazione dei conflitti. Ne deriva che in entrambi i casi, sia in quello della “globalizza­ zione” omologante che in quello del “relativismo” culturale e politico, viene a mancare un principio di metodo che renda coerente la scelta fatta, senza creare nel contempo effetti strutturali perversi. Nel contesto delle Relazioni Intemazionali contemporanee prevale per ora il primo tipo di rischio, cioè quello della omologazione ideologica e culturale del Sistema Politico Intemazionale sulla "linea generale” impo­ sta dalla tradizione culturale del pensiero marittimo angloamericano. In questo ambito il cammino è già tutto tracciato. Le istituzioni poli­ tiche, economiche o militari, di carattere regionale, create al tempo del confronto bipolare fra Est e Ovest, come è il caso della Nato o dell’Unione Europea, diventano paradigmi da consolidare senza verifiche e anzi si costituiscono in modello prefabbricato, da esportare ovunque, come è possibile rilevare dall’esistenza di una serie di Organizzazioni interna­ zionali, specializzate o di area, che proprio da quel quadro di riferimento mutuano la propria struttura (Osce, Asean, Apec, Nafta, ecc.). Quelle di carattere globale, create alla fine della prima o della seconda guerra mondiale sulle ceneri deU’imperialismo europeo o del nazifasci­ smo, come la Società delle Nazioni (1919) o le Nazioni Unite (1945), con

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imprinting americano e in misura più ridotta inglese, con il loro cor­ teggio di Agenzie specializzate come il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale, oltre al GATT, che ha oggi preso il nome, abortito nel dopoguerra, di World. Trade Organizazion, sono diventati dei grandi con­ tenitori vuoti, ovvero delle griglie normative ispirate alle regole della “paci­ ficazione” e deH’“armonizzazione” fra i popoli, il cui primo documento storico è fissato nel discorso dei "Quattordici Punti” pronunciato dal Presidente americano Woodrow Wilson nel Gennaio del 1918. Tali architetture istituzionali sono rette da principi e norme di carat­ tere generale, a maglia larga, di natura più etica che politica, ma comun­ que generati da una particolare filosofia politica del Potere Marittimo (democrazia elettorale e libero mercato) che corrisponde anzitutto agli interessi nazionali (in senso lato) degli Stati Uniti, e dei regimi politici liberaldemocratici vigenti nei paesi sviluppati dell’occidente. Ogni alterità viene bandita o delegittimata in questo contesto, in quanto “immorale”, perché contraria ai principi della liberaldemocrazia. Questo atteggiamento, inquirente e giudicante al tempo stesso (ma sempre “giu­ diziario”) della filosofia politica internazionalista, delle Istituzioni in­ ternazionali e degli Stati Uniti che le hanno ispirate, è particolarmente evidente nel comportamento delle Nazioni Unite, o in sua vece dello stesso Governo di Washington, che direttamente intervengono, con più o meno successo, nella sovranità degli stati nazionali (Irak, Corea del Nord, Somalia, Serbia, ecc.) allo scopo di individuare e punire i colpevoli degli scostamenti dal modello basico. Tutto questo ha però due tipi di vincoli: da una parte quello di negare nei fatti quanto viene detto in teoria, relativamente ai principi della libertà, dell'indipendenza e deH’autodeterminazione dei popoli, mentre dall’altro lato soffre della mancata corrispondenza operativa fra il quadro delle norme e la realtà degli eventi politici intemazionali. In effetti siffatta impostazione, creata per contrastare l’aggressività dell’ideologia comunista e dell’Urss, non è più in grado, ora che il “nemico” è scomparso, di inglobare concettualmente la nuova serie di eventi impre­ visti (come le crisi in Europa, la dissoluzione di alcuni stati dell’Africa centrale e orientale, la dislocazione delle Federazioni, le varie forme di “fondamentalismo”, ecc.) ai quali è sottoposto il sistema politico internazionale. In particolare questa meccanica trasposizione dei modelli istituzionali della guerra fredda dal passato al presente, non riesce a con­ cepire intellettualmente le crisi e i conflitti regionali, generati dalle diver­ sità e dalle distanze culturali, etniche, religiose, geografiche e storiche. Non basta infatti espungere il conflitto dall’orizzonte della ricerca e della realtà per esorcizzarlo e farlo scomparire. Né è sufficiente ignorarlo

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(come nel caso della guerra tribale in Africa Centrale fra Ruanda, Burundi, Uganda e Zaire), oppure trasformarlo in fenomeno residuale criminalizzabile (Irak, Serbia, ecc.) o in eziologia patologica (la guerra come malat­ tia del sistema internazionale) per negarne la funzione politica e il ruolo di mutazione genetica delle regole del mondo che i conflitti comportano. La teoria generale del peace-keeping o del peace-making non sostituirà mai l’eterna relazione fra guerra e pace, proprio perché manca di uno dei due termini concettuali del problema, quello dell’uso bilanciato della diplomazia e della forza, che entrambe producono effetti come fonti di produzione del diritto e della politica internazionale (N. Bobbio). Di fronte alle astrazioni teoriche del modello “ordinista” e istituzio­ nale oggi dominato dalla banalità dell’orizzonte globalista degli studi internazionali, e per cercare di rispondere a interrogativi che sembrano senza risposta, emerge la necessità di esaminare alcune ipotesi teoriche, o meglio di verificare quei metodi d’indagine che possano fornire stru­ menti operativamente utilizzabili, liberi da vincoli ideologici precostituiti, e quindi meglio capaci di leggere il tempo nuovo, designati a compren­ dere l'età postbipolare che stiamo vivendo. Uno di questi metodi d’indagine della realtà politica internazionale è quello della "Geopolitica”, intesa come attrezzo concettuale utilizzabile per la "mappatura” delle affinità e delle diversità del comportamento degli attori nazionali e infranazionali, oltre a quelli istituzionali, e per la indi­ viduazione dei meccanismi di funzionamento sistemico della loro inte­ razione. In altre parole la Geopolitica, teorica e/o applicata, aiuta a dise­ gnare il profilo e a individuare la sostanza geostorica e culturale del nuovo Sistema Politico Internazionale in fase di formazione che ha preso il posto del vecchio Modello Bipolare e, prima di lui, di quello dell'Equilibrio di Potenza, che hanno contrassegnato gli ultimi due secoli e mezzo di sto­ ria del mondo, a partire dalla Rivoluzione Francese. L’uso della Geopolitica permette infatti l’adozione di una ricca tastiera di categorie analitiche, che vanno ben al di là della rigorosa e limitante ideologia, venata di illuminismo, utopismo universalista, puritanesimo protestante, pietismo cattolico e idealismo giacobino, di cui è tuttora intrisa la teoria liberaldemocratica occidentale. La Geopolitica recupera inoltre da un lato il rapporto fra la “matericità” delle antinomie tradizionali fra "Terra e Mare”, tradotte poi nel­ l’opposizione di “Eurasia e Oceania” e, finalmente, nel confronto cultu­ rale fra “Oriente e Occidente", e dall’altro lato la libertà intellettuale di creare ipotesi di ricerca basate sulla teoria generale dei sistemi e delle organizzazioni complesse, nonché sulla loro traducibilità nella realtà delle Relazioni Internazionali.

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Questo metodo d’indagine fornisce nuovi orizzonti alla lettura dei pro­ blemi contemporanei della politica internazionale, svestendola dei panni immaginari del modello istituzionalista, riconducendola invece alla realtà dei rapporti di forza, della geografia e della storicità culturale. Si possono così meglio comprendere le radici dei problemi, delle crisi e dei conflitti, ma anche individuare le opportunità della diplomazia, che non può essere il risultato del caso o dell’ideologia della mediazione for­ zata, né della pace ad ogni costo, ma che invece si forma come la natu­ rale conseguenza della relazione fra identità, interessi, cultura e forza. Il volume raccoglie alcuni testi che rappresentano il tentativo di leg­ gere le tematiche della politica intemazionale odierna, attraverso il filtro dell’analisi geopolitica e storico-culturale delle questioni generali di sistema, ovvero mediante il dispiegamento di casi studio di area, uniti dall’affinità del linguaggio, dall’approccio di metodo, e dalla quasi con­ temporaneità della loro redazione. Si tratta di tredici saggi e articoli, scritti fra il 1992 e il 1994, cioè nei primi anni della riflessione postbipolare. Sono saggi in larga misura ine­ diti, o solo in parte già pubblicati su riviste o volumi collettanei, che seguono un percorso intellettuale coerente e che hanno in comune il fatto di essere esterni agli standard interpretativi degli scienziati politici di scuola tradizionale che oggi sembrano prevalere. Il volume è diviso in due parti, una (Capp. 1 -5) di carattere "generale” dedicata all’analisi delle forme che il Sistema Politico Intemazionale (SPI) postbipolare potrebbe assumere al termine di questa fase di transizione, e una (Capp. 6-13) di carattere “speciale”, dedicata all’analisi dei princi­ pali Sottosistemi del Sistema Politico Intemazionale nelle diverse aree regionali (Europa, Russia, Stati Uniti, Medio Oriente, Medi terraneo). Ringrazio tutti coloro che mi hanno aiutato con idee, suggerimenti, e consigli. In primo luogo sono grato ai miei colleghi, ricercatori ed allievi; in particolare ricordo il Dott. Alessandro Colombo, il Professor Gianfranco Pardi e la signora Laura Palma Vassalli.

Carlo Maria Santoro Università degli Studi di Milano, Febbraio 1997

Parte Prima Il Sistema Politico Intemazionale

I nuovi poli geopolitici

Lo studio dei nuovi assetti internazionali successivi alla fine del bipo­ larismo può proficuamente utilizzare un approccio basato su una teoria ciclica delle Relazioni Intemazionali in alternativa a quello del pensiero tradizionale legato alla dottrina della transizione alla democrazia. La lettura «ciclica» dell'evoluzione delle relazioni intemazionali, intese come ricerca delle uniformità e delle forme, ovvero dei meccanismi di fun­ zionamento della politica intemazionale, definibili anche come Sistemi Politici Intemazionali (SPI), è un modo per studiare le trasformazioni strut­ turali avvenute nel contesto mondiale dopo il 1989. Il pensiero tradizionale tende a semplificare il quadro metodologico indi­ viduando due sole categorie analitiche utili alla lettura interpretativa dei fenomeni in atto. La descrizione delle trasformazioni strutturali e la ragione degli eventi della politica internazionale troverebbe la sua chiave di volta interpretativa nel contrastato, ma ineluttabile, passaggio dal disordine all’or­ dine intemazionale, quindi dall’anarchia alla gerarchia [Bonanate, 1994]. Le forme di questo fisiologico passaggio non sono né predeterminate né univoche. Esistono però delle indicazioni di massima sulla qualità e strut­ tura delle forme organizzative della transizione dal disordine all'ordine a cui fanno capo le principali scuole di pensiero nel campo degli studi poli­ tologici internazionalisti. Le più significative, che qui ricordiamo per memo­ ria sono quelle istituzionaliste o strutturali [Keohane, 1984], quelle globaliste [Wallerstein, 1978-82], quelle marxiste. In termini ancora più restrittivi, questa filosofia evolutiva della realtà internazionale si accoppia con quella dottrina, altrettanto finalistica, detta della tendenziale transizione alla democrazia dei regimi politici interni degli stati nazionali che, sul versante internazionalistico delle relazioni interstatali, si definisce come la teoria secondo la quale gli stati demo­ cratici non si fanno la guerra fra loro, cioè non risolvono tensioni e con­ flitti in guerra aperta. Nel primo caso il processo di transizione si pro­ durrebbe come una trasformazione, per tappe o stadi successivi, dei sistemi politici interni, che muoverebbero dalla semplicità e incompiu-

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Il Sistema Politico Internazionale

tezza dei regimi autoritari verso la complessità e il completamento dei regimi democratico-liberali. Si tratterebbe in sostanza di una invisibile regia concettuale diacronica di tipo lineare fondata sull’assioma dell’inarrestabilità dello sviluppo politico che condurrebbe gradualmente alla omogeneità istituzionale e politica dei sistemi interni. Nel secondo caso, che deriva concettualmente dal primo, l'ordine inter­ nazionale, e la sua storica «necessità», sarebbero ulteriormente suffragati dal fatto che i regimi politici di tipo democratico, almeno statisticamente, non si fanno la guerra l’un l’altro. L'argomentazione si basa sulla convin­ zione diffusa che i vincoli politici e le vischiosità che trattengono i governi democratici dallo scatenamento della guerra reciproca, essenzialmente dovuta alle difficoltà dei processi decisionali e al rilevante numero di attori fra i quali è distribuito il potere decisionale, oltre che alla necessità di garan­ tirsi il consenso, impediscano quel tipo di soluzione delle controversie inter­ nazionali. Da qui, per conseguenza, l’idea che in assenza di guerra gli attori nazio­ nali (e/o le organizzazioni intemazionali) saranno sempre di più indotti a trovare delle regole di comportamento e di soluzione del conflitto attra­ verso gli strumenti non direttamente bellici del negoziato, della media­ zione, dell’accordo, ovvero delle pressioni, delle minacce, della deterrenza, dell’egemonia, dell’alleanza, delle sanzioni fino alla rappresaglia. La neces­ sità di darsi delle regole diventa così la premessa naturale dei regimi inter­ nazionali che, a loro volta, contribuiscono alla costruzione di strutture ad hoc o permanenti, dette istituzioni. Questa sequenza concettuale diventa la strada che conduce all’ordine e riduce oggettivamente il disor­ dine, prima nelle «aree di pace», cioè nelle isole di democrazia, poi in quelle di conflitto. Ne deriva l’equazione, semplice e paralogica, secondo cui l’ineluttabile sviluppo politico democratico dei diversi attori nazionali porterà alla gra­ duale eliminazione dei conflitti, data la non disponibilità delle democra­ zie politiche a entrare in conflitto bellico fra loro. Di qui l’emersione pro­ gressiva di un ordine pacifico fra gli Stati, che precede o anticipa l’ordine internazionale globale basato su intelaiature istituzionali, norme e pro­ cedure, cioè sui doveri degli Stati [Bonanate, 1994], costituendone peral­ tro il presupposto e la condizione. Tale duplice approccio allo studio delle trasformazioni del Sistema Internazionale dopo il 1989, non è convincente perché:

a) implica una filosofia della storia di tipo evolutivo (dal disordine verso l’ordine) che ipotizza una teoria del progresso, e in più di tipo lineare, in quanto contempla un’ascesa senza cleavages, ovvero fratture e ritorni, che conduce dall’arretratezza all’immancabile progresso [Gerschenkron, 1962;

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Polany, 1974 Nietsche, 1965; Frammenti postumi, I p. 185, ecc.]; b) sceglie una griglia interpretativa del fenomeno «dal disordine verso l’ordine» basata essenzialmente sull’idea che l’ordine possa essere rap­ presentato da un framework normativo-istituzionale di tipo acentrato, basato cioè sugli attori nazionali esistenti, senza tenere in alcun conto il fatto che oggi il sistema internazionale è nel mezzo di una fase di destrutturazione-ricomposizione degli attori nazionali del tutto nuova, i cui carat­ teri sono ignoti e i cui esiti imprevedibili. Tale originalità della situazione è evidente in quanto si fonda sulla inattesa dissoluzione dei parametri classici di riferimento delle unità analitiche del sistema internazionale, a partire dalla barriera esterno/interno, dalla teoria delle frontiere e dalla identità triadica fra territorio, popolo e sovranità degli Stati. Tale schema tradizionale è ormai largamente infiltrato dalla sovrapposizione contem­ poranea di dimensioni subnazionali, sopranazionali e globali. Il caso della relazione interno/esterno è a questo proposito emblematica. Con­ trariamente alle attese, infatti, la graduale sparizione dei contorni tema­ tici fra i due termini non va nell’auspicata direzione istituzionalista, ma invece in quella anarchica della frammentazione; c) impone un modello di riferimento uguale per tutti, definito sulla base della sua corrispondenza dichiarata ai criteri della democrazia for­ male. Ogni altro modello di regime politico viene valutato perciò sulla base di un canone di scostamento rispetto a quel paradigma desunto dall’esperienza anglosassone e poi europea occidentale (Lipijart, 1977). La democrazia diventa così, in questa ottica, la discriminante della legit­ timità internazionale, quindi il metro di misura fondante, tanto della legittimità quanto della legalità [Schmitt, 1972: pp. 211-244 e 1991 pp. 323-325]; d) trascura la cultura politica ed etnica dei diversi attori, le condizioni geografiche e geopolitiche delle aree, i differenziali economici e tecnolo­ gici fra gli Stati, i trend di sviluppo o regressione; e) non tiene conto della «disumanità» implicita derivante dalla forzata espulsione del conflitto dal quadro delle operazioni di funzionamento del sistema intemazionale. La cancellazione della forma-conflitto dalla poli­ tica intemazionale è infatti impensabile per motivi sia individuali che dei gruppi o dei soggetti e attori nazionali, intesi come unità minime di ana­ lisi (v. teoria del conflitto e psicoanalisi del conflitto).

Ben diverso è invece un approccio che ipotizzi, come schema d’ana­ lisi, una teoria ciclica delle Relazioni Internazionali. Tale approccio epi­ stemologico si basa, infatti, sull’analisi realista dei pesi di potenza, cioè sulle proporzioni, rilevabili sulla scorta di indicatori predefiniti, delle forme di potenza «potenziale» o «attuale», e in particolare sul grado di

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concentrazione/diffusione di potenza tanto nelle diverse regioni quanto globalmente1 (vedi anche la teoria dell’«eterno ritorno» in Nietsche, 1976). L’uso dell'analisi realista conduce quindi alla comparabilità geografica delle regioni del globo e dei singoli attori. Per di più consente la lettura dinamica dei processi di concentrazione e di diffusione attraverso la rico­ gnizione delle più note teorie cicliche, da quelle dei cicli economici di Kondratieff (1989) a quelle dei cicli storici di ascesa/declino delle Grandi Potenze [P. Kennedy, 1987], dall'esame della teoria delle guerre generali [J. Levy, 1986], alla comparazione sincronica fra civilizzazione [Huntington, 1993] e modelli culturali. Le teorie cicliche sono comunque più verificabili (ovvero più falsifi­ cabili) di quanto non siano le teorie «ordiniste» o della transizione alla democrazia. La difficoltà concettuale su cui si basano le teorie cicliche risiede essenzialmente nel problema della periodizzazione, e quindi della scansione temporale fra le diverse fasi del ciclo e i punti di svolta, supe­ riore e inferiore. Si tratta, in effetti, di teorie fondate sull’analisi diacro­ nica dei trends di concentrazione/diffusione di potenza che segnalano, o potrebbero segnalare, le linee di tendenza e i fenomeni macroscopici del sistema intemazionale. Ma che non dicono molto della loro dislocazione, ovvero omologazione, nello spazio. Il «tropismo» delle teorie cicliche è infatti limitato. Esistono poi, come nelle teorie del ciclo economico, delle sfasature, propriamente degli «echi» di fase che denunciano una diver­ sità nella relazione spazio-temporale del ciclo. In altri termini, il trend ciclico di concentrazione/diffusione di potenza non ha sempre la stessa valenza temporale nella sua distribuzione spa­ ziale, quindi nelle diverse aree geografiche del mondo. Vi sono stati casi, storicamente verificati, che contraddicevano il trend principale. Nel senso che in alcune aree geografiche il trend di concentrazione globale poteva sincronicamente ribaltarsi in un trend di diffusione regionale. Da qui l'im­ portanza dell’utilizzo del metodo geopolitico e storico accanto alla regola generale dell’approccio ciclico. La geopolitica, nata al tempo del riordino coloniale, dello Scramble for Africa e delle aspirazioni alla Weltmacht, torna infatti a campeggiare nel­ l'analisi della politica internazionale post-bipolare, proprio perché la dimensione spazio-temporale diventa essenziale, dal momento che tor­ nano ad esplodere le frontiere dell’Eurasia.

1 Gaddis, 1982; Goldstein, 1988; P. Kennedy, 1987; Modelski, 1987; Wallerstein, 1974; Wallerstein, 1984b; Kondratieff, ed. it. 1981, Rapkin, 1979, in A.P.J. Taylor, 1985, 1993, p. 64 ss.

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Grafico 1 - Trend di formazione del Sistema post-bipolare

Legenda:

1 -C 2-F 3 -R 4 - NS

= = = =

Fase di crisi dello SPI Fase di frammentazione Fase di riconversione Fase di avvio del nuovo SPI

Dotata di un’anima globalista (ma non universalista), frutto dell’evo­ luzione delle tecnologie di trasporto e dei sistemi di comunicazione, la dimensione spaziale della politica tende così a diventare, ancora una volta, il metro di misura dell’interazione politica fra gli attori operanti nel sistema internazionale, nel momento in cui il collasso delle ideologie del Novecento è diventato assolutamente palese. Eppure la questione dello spazio e dei confini, delle vocazioni e dei ruoli obbligati o possibili non ha facile udienza nella cultura contem­ poranea, sia dell’occidente che dell’oriente e del Sud del mondo che, invece, preferisce crogiolarsi nell’astratto disegno di quelle architetture istituzionali e normative che sono il basamento concettuale delle orga­ nizzazioni internazionali e che prefigurano le moderne utopie funzionaliste.

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Eppure lo spazio - scriveva già Ratzel alla fine del secolo scorso - non è che «l'organizzazione politica del suolo» [Ratzel, 1923] (p. 61). Lo «sviluppo dello Stato è quindi una questione di spazio» (p. 73), così come il senso profondo della politica internazionale non è altro che un rapporto sempre mutevole tra Ortung e Ordnung, inteso come spazio immutabile e fango mer­ curiale. Non è infatti possibile partire dal vuoto. Il ritorno della geopolitica è, in un certo senso, la riappropriazione della dimensione materiale, la concretizzazione della politica. Non solo dello Stato-nazione, ma anche delle grandi aree regionali, delle strutture reali dell’interazione fra Stati, degli interessi, della formazione e/o disgre­ gazione degli Stati, della fissazione o cancellazione dei confini. La rela­ zione fra la temporalità della teoria ciclica e la spazialità della teoria geo­ politica è quindi data dalla misurabilità spaziale dei processi di concentrazione/diffusione di potenza. Finisce così la totalizzazione delle idee, delle utopie volontaristiche e delle prescrizioni di politica internazionale. Disvelano il loro volto realpolitiker, sia pure tra affanni e incertezze, perfino le Nazioni Unite, que­ sto cinquantennale miraggio istituzionale che si vede, ora, costretto a sce­ gliere fra buoni sentimenti e controllo del territorio, fra ingerenza e inu­ tilità del ruolo, come in Somalia, in Bosnia o in Ruanda. La geopolitica può diventare così la demistificazione della politica internazionale delle ideologie, creata dalla normatività del diritto inter­ nazionale, in quanto si basa su regole antiche ma efficaci, come quelle che derivano dall'analisi di concetti-chiave quali potenza, nazione, etnia, terra/mare, oltre che sulla comparazione dei rapporti di forza e sulle voca­ zioni geografiche. C’è però geopolitica e geopolitica. Nel senso che anche l’analisi spa­ ziale può essere, ed è stata spesso nel passato, una forma della falsa coscienza, cioè una forma dell’ideologia ovvero della propaganda. La geopolitica, ad esempio, è certamente diversa dalla Geopolitik del gen. Haushofer [Haqshofer Karl, 1934; Weltpolitik vom Heute Berlin, Andermann], ma non è del tutto immune, come peraltro anche quella anglosassone, francese o russa (Eurasisti), dal sospetto che gli assunti preanalitici della disciplina, ovvero il corpo dei valori che stanno a monte degli studi dell’analisi spaziale, siano anch’essi influenzati da motivazioni speciose di carattere politico. Tuttavia, la geopolitica resta uno strumento analitico decisivo inte­ grato dallo studio della disciplina sorella-ancella, detta «geoeconomia». E al loro seguito la «geostrategia» che, in qualche misura, ribalta l’ordine interno delle priorità, facendo discendere dalla strategia lo studio del ter­ reno e la definizione dei fini, invece che dalla geografia, cioè dal terreno,

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le vocazioni politiche e strategiche. È una scienza dei criteri analitici da assumere che si àncora però a punti di riferimento concreti. Essa riconosce infatti i vincoli oggettivi e le potenzialità dell’azione politica intemazionale dei singoli attori e, più recentemente, ne classi­ fica, ovvero ne organizza, i criteri analitici anche nel campo, per così dire sistemico, dell’interazione geografica e politica dei diversi ambiti regio­ nali, fino a quello globale. Le capacità euristiche della geopolitica, trascurate per mezzo secolo durante la guerra fredda, sprezzantemente definita magic geography dalla rivista americana Life già nel 1941, sono invece molto consistenti perché poggiano su un basamento immodificabile (lo spazio geografico) che, fra l’altro, con il tempo è andato arricchendosi di nuove dimensioni attra­ verso la verticalisation [Virilio, 1971], dovuta alla conquista del cielo e dello spazio extratmosferico e la «nuclearizzazione» [Brodie, 1946] che ne definisce l’essenziale globalità. Essa è perciò ben più convincente della faticosa erezione di una cami­ cia di Nesso normativa e istituzionale, che non sostituisce di fatto la dimensione conflittuale della politica, ma al massimo la imbriglia par­ zialmente, giuridicamente o negozialmente, prolungandone nel tempo l’insolvibilità. La geopolitica fornisce infatti uno strumentario elementare (Terra-Mare; Est-Ovest; Heartland-Rimlands, ecc.) che, per deduzione, tende a diventare, sia pur gradualmente, un codice di lettura della poli­ tica, e al tempo stesso una griglia equilibrata (se gli statisti sono tali) per l’azione diplomatica e militare. Il legame, infatti, che attraverso la geopolitica si prolunga nel tempo non è quello dato dalle presunte vocazioni geografiche, e quindi automaticamente o deterministicamente e quasi darwinianamente, dalle necessità poli­ tiche degli Stati (la concezione definita da Ratzel (1923) come «biogeogra­ fica» e organicista, p. 59), ma dalla capacità di mettere in relazione pace e guerra, cioè le due anime della politica internazionale, e quindi diplomazia e conflitto, senza attribuire valenze ideologiche obbligate, ovvero perseguire utopie impossibili, alle diverse soluzioni. Ma la geopolitica, che possiamo definire anche come una sottodisci­ plina delle Relazioni Internazionali, è piuttosto una forma storica del pen­ siero politico dell’ultimo secolo. E come tale va riletta a partire da un certo numero di autori, da Ratzel (1923) appunto a Spengler e Schmitt (1950) fino a Brzezinski (1986) o a Gray (1977), passando per le grandi scuole degli ultimi cento anni, che hanno segnato le origini concettuali e lo sviluppo aggiornato di teorie dell’analisi politica dello spazio, spesso non coordinate fra loro, sia nel metodo che nel merito, ma anzi talvolta con­ trapposte. In molte occasioni, queste ricerche dettate da circostanze poli-

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Il Sistema Politico Internazionale

tiche, da esigenze militari o da un clima culturale specifico, la cui scienti­ ficità è stata spesso oscillante, alla fine sono risultate essere molto più incar­ dinate nella coscienza del pensiero occidentale di quanto molti frettolosi liquidatori non si attendessero. In particolare la geopolitica, scienza degli spazi organizzati, si lega alle teorie cicliche, scienza delle scansioni temporali, proprio attraverso la sua verificabilità e falsificabilità che un implicito principio di indetermi­ nazione rende fecondo. Sulla base di queste considerazioni preliminari, il nostro studio si pro­ pone come oggetto l'analisi geopolitica dei processi di trasformazione in atto nel Sistema Politico Intemazionale (SPI) contemporaneo, e nel con­ tempo l’obiettivo di individuare, accanto alle principali linee di frattura (cleavages'), e quindi di frammentazione anche le principali linee tenden­ ziali di aggregazione (clusters) del sistema, dopo il crollo del polo Est e l’esaurirsi della fase bipolare. Il progetto, in altri termini, investe una tematica spazio temporale ricca e complessa, di grande attualità politica, quella dell’individuazione delle linee di tendenza emergenti dal crollo del sistema bipolare e dalle anar­ chiche spinte alla frammentazione etnico-nazionale2. L’analisi verterà sullo studio delle modalità di passaggio, a partire dal mondo preglobale feudale fino a quello globale e a quello dei Grandi Spazi organizzati. Lo scopo è quello di verificare la coesistenza/contemporaneità di più cicli, ovvero il grado di concentrazione nei diversi Grofìraum [Schmitt, 1991, pp. 37, 297, 310-11, 386-89], nonché la loro diversità, ovvero lo scostamento dalla curva sinusoidale del ciclo [Modelski-Thompson, 1988; Goldstein, 1988; P. Kennedy, 1987] nei diversi Grandi Spazi. Sono tutte proposte di metodo e di merito per l’esame di diversi casi studio, ovvero dei modelli di ricomposizione geopolitica, che possono essere letti anche come parametri di organizzazione dei Grandi Spazi ordinati (Ordnung) secondo la loro localizzazione (Ortung). La prima diversità concettuale e strutturale che fa da sfondo a qualsiasi analisi che si serva del metodo geopolitico, è quella fra mare e terra [Schmitt, 1986], Tuttavia l’opposizione concettuale e metodologica fra i due campi nasce solo nell’età moderna, quindi solo dopo che gli oceani si erano spa­ lancati e si era formata la prima immagine globale della terra [Schmitt, p. 36], quando l’Europa, messa con le spalle al muro, sceglie di accerchiare l’Asia attraverso il mare [vedi il Diario di Bordo di Cristoforo Colombo e la

2 Vedi i «ritmi della politica globale»: Cronomacropoliti.es, in Modelski, 1987 ed.

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Grafico 2 - Dinamica del sistema internazionale post-bipolare - Modello A

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letteratura sulle Grandi Scoperte, Morison (1971-76), la nuova geopolitica dell’Europa, Santoro]3. La filosofia politica e geografica che si cela dietro la trasformazione delle relazioni terra-mare, dal passato all'età moderna, è ancora una volta quella - che vedremo meglio nell’analisi dei modelli Virtuali - del rap­ porto eternamente rinnovato e permanentemente conflittuale fra Europa e Asia, fra Oriente e Occidente. La scoperta dell'oceano è stata, in certo senso, la strada per concepire finalmente l’Europa affrancata dall’Asia [v. Santoro, 1995b]. Il carattere primario di questa opposizione terra-mare è stato quello di organizzare lo spazio globale secondo strutture concettuali continen­ tali o marittime. Nel senso che è stata attribuita alle diverse aree, cioè agli spazi organizzati, una specificità definita secondo un criterio di clas­ sificazione duplice e antagonistico, continentale/terrestre, ovvero marittimo/oceanico. L’alternativa espressa in questi termini semplificati è senza scampo: non vi possono essere soluzioni o situazioni intermedie. Neanche le penisole o i mari interni sfuggono a un loro destino continentalista, così come interi continenti, Australia, America, sfuggono alla loro dimen­ sione insulare e quindi marittima [v. Santoro, Nord e Sud, luglio 1994], Ma questa prima considerazione non esaurisce la questione. Quello che conta è il fatto che, mentre nella tradizione degli Imperi tradizionali il carattere dell'organizzazione spaziale era essenzialmente continentale (o fluviale), nell’organizzazione moderna (o europea) dello Spazio la rela­ zione fra spazi avviene in buona parte attraverso la comunicazione penin­ sulare, insulare, e poi oceanica, con la grande eccezione del Grofiraum terrestre eurasiatico {land mass'), e della fascia desertica afroasiatica. I grandi spazi, quindi, si organizzano necessariamente per aree di conti­ guità macroinsulare, ovvero per costellazioni interstellari, continentali o ocea­ niche, tenute insieme da fasci di comunicazione e controllo politico, economico-egemonico, tecnologico-informatico. Gli esempi maggiori dei due tipi di Grande Spazio, in questa fase di trasformazione del Sistema Intemazionale, sono quello che abbiamo definito della «germanizzazione» (continentalista) [Santoro in S. Romano, 1996] e quello della «sfera di Coprosperità della Grande Asia orientale» di scuola giapponese (marittimo)4. La diversità della 3 Per una più attenta distinzione temporale fra la concezione, che potremmo chia­ mare «mediterranea» dei rapporti terra-mare, la cui filosofia ha dominato nel pas­ sato, e quella «oceanica», emersa dopo il XV secolo, si rinvia a Braudel (1953-76, voi. I), che sottolinea la terrestrità implicita di qualsiasi tradizione marittima del mondo antico e, al massimo, quella «costiera» del periodo delle Repubbliche marinare ita­ liane, ovvero della «Hansa» tedesca [v. C.M. Santoro, 1994b].

4 [Vedi la teoria del «giusto luogo» Schmitt, p. 31].

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specificità, continentale o marittima, dell’organizzazione dei Grandi Spazi nega quindi a priori, almeno parzialmente, la presunta globalità (concen­ trazione) ovvero universalità delle relazioni intemazionali postbipolari. Ne esclude infatti la omogeneità, anche se ne valorizza la comparabilità. I Modelli di realignment, ovvero di ricomposizione geopolitica, che sono oggetto della ricerca sono quindi anzitutto Modelli di tipo, ovvero di cul­ tura politica, continentale o marittima, anche quando si nutrono di ambi­ zioni istituzionali, ideologiche o federali. Ma il loro carattere strutturale, in quanto singoli Modelli, è determinato, con l’eccezione del Modello isti­ tuzionale che aspira imprudentemente alla globalità, dalla loro applicabi­ lità regionale, ovvero dalle loro caratteristiche specifiche nei Grandi Spazi. Sono quindi una rappresentazione della differenza, della non omogeneità globale, piuttosto che della aggregazione indistinta. Le regole di funziona­ mento di ciascun Modello operano infatti in modo radicalmente diverso. Ciò comporta, per conseguenza, una valutabilità diversa e una relativa diso­ mogeneità dei comportamenti politici di ciascun aggregato geopolitico dovuta anche ai propri connotati geopolitici e culturali. La dissoluzione dell’URSS e la proliferazione degli stati sovrani nell'Europa Centro-Orientale e nel macro continente eurasiatico hanno messo in moto infatti un processo di revisione, non solo delle identità sovrane e nazionali degli Stati, ma anche degli insiemi regionali o di area destabilizzandone i sistemi operativi, modificando alla radice sia gli assetti geopolitici generali, sia le regole interne di funzionamento, fino alla messa in crisi dei regimi politici domestici. Il Modello interpretativo del sistema politico internazionale, o dei sistemi di ricomposizione regionale da esso derivati, che sta all’origine di questa ricerca è quello che indica in una teoria ciclica [vedi Modelsky-Thompson, 1988; Goldstein, 1988; Kondratieff, 1989 ecc.] dei processi di concentrazione e diffusione di potenza la struttura costante e le regole principali di con­ dotta delle Relazioni Internazionali fra attori nel sistema. Si tratta di una regola non definita nella frequenza fra le varie fasi del ciclo e neppure nel­ l’ampiezza dell’onda ciclica. Si limita infatti ad individuare storicamente ed empiricamente una serie di trends di concentrazione/diffusione di potenza di ampiezza regionale, continentale, spesso sforzati fra loro, senza scansioni periodiche predeterminate. I diversi cicli regionali concorrono alla defini­ zione di un Modello ciclico tendenziale che stabilisce una relazione spazio­ temporale riscontrabile e verificabile analiticamente e storicamente. Questa teoria si fonda sulla individuazione di alcune forme ricorrenti di Sistema Politico Internazionale (SPI) che diciamo pure, quindi idealtipiche, corroborate da forme storiche, che rappresentano, in linea di principio, i casi studio delle principali forme pure.

2. C.M. Santoro: Studi di geopolitica

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Il Sistema Politico Internazionale

Le forme pure di SPI non sono necessariamente presenti in natura. Alcune sono partorite, come Minerva dal cervello di Giove, dall’immagi­ nazione degli uomini. Questi sono, ad esempio, i grandi progetti di orga­ nizzazione politica e sociale contenuti nelle grandi Utopie (da Platone a Campanella, da Dante a Moro, da Saint-Simon a Fourier, a Marx). Ovvero quelle altre grandi utopie-esperienze che sono le concezioni filosofiche, religiose e ideologiche da Cristo a Budda a Mosé e Maometto tradotte in modelli politici virtuali di autorganizzazione degli uomini e delle società, di tipo universale e/o settoriale, razziale, etnico, ideologico e culturale. L’analisi del periodico mutamento di status del Sistema Politico Intemazionale, inteso come quadro di riferimento generale dell’interazione fra attori e aree geopolitiche, all’interno della teoria ciclica che vede l’alter­ narsi delle forme storiche di sistema e le onde lunghe e periodiche della frammentazione e della concentrazione di potenza, diventa, in questa chiave di lettura degli avvenimenti, una condizione fondamentale per l’acquisizione degli strumenti di conoscenza e per la identificazione dei meccanismi ope­ rativi della fase dinamica che il sistema mondiale attraversa [Modelski, 1987; Gilpin, 1981]. Il metodo analitico, sorretto da un approccio metodologico originale, analisi dei sistemi [von Bertalanffy, 1950; Miller, 1978; Emery, 1969], diventa perciò essenziale. L’uso di strumenti tradizionali, come sono state per mezzo secolo le letture ideologiche o strategiche del sistema bipolare, non basta più. Né è sufficiente, ma anzi deviante, una interpretazione dei trends di mutamento che si basi solo sull’analisi della relazione esistente fra transizione alla democrazia e/o sullo sviluppo dell’economia di mer­ cato nei paesi in fase di rapida trasformazione dell’Est e del Sud del mondo. Le grandi fratture epocali, come quella presente, hanno bisogno invece dell’impiego di attrezzi analitici nuovi, o poco usati, quali sono quelli della geopolitica e dell’evoluzione ciclica dei Modelli di SPI basati nel trade-off fra concentrazione e diffusione di potenza. Negli ultimi anni, a partire dal 1989, abbiamo infatti assistito al logoramento graduale e poi definitivo di quel processo di concentrazione di potenza iniziato nella seconda metà del XIX secolo al tempo del sistema multipolare dell’Equilibrio di Potenza, che si era via via consolidato nella meccanica bipolare Est-Ovest e nel­ l’aspirazione unipolaristica di entrambe le superpotenze. L’inversione di marcia, iniziata negli anni sessanta, con la dissoluzione degli Imperi coloniali europei e la creazione di decine di Stati nazionali artificiali, aveva fatto già intendere che il processo di concentrazione avrebbe lasciato gradualmente il posto alla ricerca dell’autonomia e quindi alla frammentazione [Rapkin et al., 1979],

Grafico 3 - Dinamica del Sistema internazionale post-bipolare - Modello B

1. Crisi e destrutturazione

2. Frammentazione

3. Realignment

4. Nuovo SPI

del sistema bipolare

I nuovi poli geopolitici

Fonte: Carlo M. Santoro, 1993

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Il Sistema Politico Internazionale

Tale trend si è manifestato negli anni '60 e '70 nella sua forma speci­ fica attraverso l’emergere di un crescente trade-off fra il sistema bipo­ lare (BP) e i processi di diffusione di potenza (BP), di cui sono testimo­ nianza conflittuale, fra gli altri, le guerre d’Indocina e dell'Afganistan, le vicende di Cuba e del Nicaragua, le lotte civili-tribali nelle ex colonie portoghesi e in altre aree dell’Africa Nera ed Arabia, erroneamente trat­ tate come guerre di liberazione nazionale. Si trattava, invece, di guerre di frammentazione del SPI che sono ormai diventate fenomeno tipico dell'attuale sistema dopo il crollo del comuni­ Smo. Si pensi ai fenomeni di dislocazione etnica e nazionale, come nel Corno d’Africa, in Ruanda nel Burundi, e nel Sudan. Questi fenomeni di frammentazione sono ancora agli inizi. L’intero con­ tinente africano è minacciato nella sua attuale e artificiale struttura geopo­ litica dalla crescente conflittualità tribale Ferguson & Whitehead, 1992] che sta sgretolando la sua ossatura giuridico-istituzionale postcoloniale. Anche la fine dell’apartheid e la riforma del sistema politico in SudAfrica prelude ad una crescente instabilità di tutta l’Africa Australe. Mentre a Nord i punti di contatto fra Africa araba e Africa nera sono ormai un confine conflittuale ininterrotto che coincide con il confine desertico saha­ riano e lo smantellamento dell’equilibrio somalo-etiopico sta diventando un ulteriore elemento di destabilizzazione continentale che avrà delle con­ seguenze importanti su tutta l’Africa Orientale. Questo discorso, così evidente per l’Africa, è peraltro in via di emer­ sione anche in altre regioni del mondo, a partire dal Medio Oriente fino all’Asia Centrale, Meridionale e Sud-Orientale e, forse, in un tempo non lontano, anche in America Latina. La destrutturazione delle frontiere e la creazione di unità e sottounità nazionali, su base etnica o territoriale, ha avuto infatti l’effetto di dele­ gittimare o depotenziare i sistemi politici e partitici interni, i regimi poli­ tici e le forme istituzionali di governo, avviando processi di ricambio delle élite e delle forme-partito all’interno dei diversi attori nazionali. Ha infine ridefinito, e talvolta svuotato di legittimazione politica se non di operatività, molte organizzazioni e istituzioni internazionali, sia globali che regionali o settoriali che, sovente, hanno visto appannarsi la loro funzione e quindi la loro ragion d’essere dissolvendosi (Patto di Varsavia), altre volte invece hanno perduto funzioni e capacità di rap­ presentanza (NATO, Unione Europea, CSCE, ecc.), oppure hanno assunto compiti sproporzionati rispetto alle possibilità come nel caso dell’ONU o dell’UEO (peace-keeping e peace-enforcing operations: PKO e PEO). I meccanismi della frammentazione sono un processo inarrestabile per­ ché sono giustificati e stimolati da causazioni profonde. Esse sono anzi­

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I nuovi poli geopolitici

tutto il prodotto di cause sistemiche, globali o regionali, cioè della con­ clusione della fase storica di sopravvivenza del sistema politico interna­ zionale bipolare. La loro esplosività per contiguità mette in luce la con­ traddizione insita nei processi ciclici e la loro provvisorietà. Il ciclo di diffusione di potenza che produce la frammentazione del sistema inter­ nazionale è un fenomeno ricorrente di tipo antropico che tende a ridurre la complessità del sistema concentrato, senza per questo ridurne la dif­ ferenziazione. Anzi, per uno strano paradosso, la frammentazione s’in­ nesta in un movimento ciclico che risponde al principio del «ciclo di vita» dei sistemi viventi [Miller, 1978] e quindi alla morte del SPI. Tuttavia il ciclo morte-resurrezione del processo di concentrazione/diffusione implica una regolarità delle fasi (anche se non è possibile stabilire l’am­ piezza temporale del periodo), che garantisce il ritorno della fase di ricom­ posizione dopo quella di frammentazione. Tuttavia, alla radice del fenomeno di deconcentrazione di potenza vanno collocate anche le ragioni profonde, storiche e culturali, che l’instaura­ zione del modello bipolare, ovvero degli imperi contrapposti, aveva rele-

Grafico 4 - Forme pure e storiche di sistemi politici internazionali (Processi di con­ centrazione/diffusione di potenza)

Equazione: power/poles

T

F

FM

BoP

IM

WS

BP

IO

@—►------- ►--------- ►--------»----------- ►------- ►--------- >--------- ►-

SI T F FM BoP IM WS BP IO VE E S2

Livello individuale, atomatizzazione SPI tribale/sporadico Frammentazione (Poliarchie, Città-Stato, ecc.) Stati barbarici/Monarchie feudali Equilibrio multipolare di potenza Sistemi intermedi o misti Sistemi di guerra Sistemi bipolari Ordine Internazionale/Enti internazionali/Federalismo Imperi Virtuali (Influenza, Ideologia, Fede, Egemonie) Imperi (Nomadici e Stanziali, Territoriali e Marittimi) Livello Globale (Ordine Universale/Modelli globali)

VE

E

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Il Sistema Politico Internazionale

gato nello scantinato della politica. Operando così una frequente confu­ sione interpretativa fra l'obsolescenza definitiva dei parametri politici tra­ dizionali, come il nazionalismo, l’etnicismo, gli interessi nazionali e la potenza, e l’idea che si trattasse invece di una eclissi provvisoria destinata prima o poi a concludersi. La tesi che si trattasse di un'eclissi provvisoria della cultura politica della frammentazione durante la guerra fredda è però ormai quella prevalente. La moltiplicazione dei fenomeni di disgregazione e le forme politiche che essi assumono, spesso tradizionali o arcaiche, ovvero come riedizione di nuove forme di relazione politica fra attori, fanno pensare che questo pro­ cesso sia da collegare ad un’esigenza profonda, che rappresenti cioè un ritorno ai Grundrisse della cultura politica dei popoli nascosti e defilati per troppo tempo da una cultura politica delle élites, astratta e globalizzante, istituzionale, normativa, tecnocratica e quindi ideologica, sovrapposta cioè alla diversità delle esperienze reali dei popoli e delle civiltà. Se questo è vero sarà allora possibile ipotizzare una tendenziale per­ manenza, e quindi una legittima riaffermazione, di questi valori profondi della cultura politica, la loro traduzione in concetti e procedure opera­ tive moderni, in formule di differenziazione politica da costruire sulle ceneri delle creature e dei mostri generati dalla teoria idealista e istituzionalista, e poi da quella dell’esportazione a livello internazionale, delle teorie della democrazia totalitaria rousseauiana ovvero dell’ecumenismo pacifista kantiano e groziano [vedi Sui doveri degli stati di Bonanate, 1994]. Ne deriva la possibilità di elaborare delle ipotesi relative a questi pro­ cessi di riconcettualizzazione della politica interna e internazionale, basati sulla rigenerazione dei valori culturali profondi, etnici, religiosi, nazio­ nali (Blut und Boden), nel tentativo di anticipare le linee di tendenza e i disegni che emergono oggi dai processi di frammentazione e prevederne, per quanto possibile, i Modelli principali di ricomposizione. Perché ai processi di frammentazione corrisponde sempre, nel quadro di un’inter­ pretazione ciclica del sistema internazionale, un potenziale processo di realignment5, che è ancora embrionale, ma che si manifesta attraverso segnali che vanno - se possibile - individuati e studiati. Lo studio si concentrerà quindi su alcuni Modelli geopolitici di con­ centrazione di potenza la cui modalità operativa e forma strutturale rap­ presentino anche delle ipotesi di funzionamento dei principali sistemi regionali su scala mondiale. La relazione apparentemente impropria che si può stabilire fra i

5 Vedi grafico Santoro A e B.

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modelli teorici di realignment, ovvero di ricomposizione, le loro caratte­ ristiche sistemiche, strutture portanti, e la realtà geopolitica dei diversi sistemi regionali discende dal fatto che l’assenza o la minore incidenza di regole istituzionali (v. Clausewitz sulle regole: 1970, p. 184), tipiche dei Modelli normativi del Novecento, permettono la formazione di aggre­ gazioni geopolitiche regionali che, quasi spontaneamente, tendono a organizzarsi sulla scorta dell’interazione oggettiva fra potenza e valori di base, fra geografia e storia, modificandone il corso, ma senza ipotesi pre­ costituite. La ricerca ha perciò un carattere polivalente e modulare, sia sotto il profilo dell’analisi di area, sia sotto quello dell’approccio di metodo, e si basa sulla verifica di quattro Modelli geopolitici principali di ricomposi­ zione aggregativa operanti nelle diverse regioni del mondo, sia su scala regionale che subregionale, o tendenzialmente globale: il Modello ege­ monico, il Modello autoritario, il Modello istituzionale/federale e il Modello virtuale. I Modelli sono definiti sia in termini geopolitici che in termini con­ cettuali, in quanto si propongono di rappresentare delle nuove forme idealtipiche di organizzazione dell’interazione politica intemazionale e di essere assunti come paradigmi applicativi delle principali tendenze in atto. In altri termini, i quattro Modelli possono essere utilizzati anche nell’analisi di aree più ristrette (come ad esempio il Medio Oriente), ovvero a zone limitate di frontiera (come il Caucaso Settentrionale), col­ locate all’interno di stati-nazione singoli. Ciascun Modello comporta la collaborazione di diversi specialisti e la messa a punto di una serie di iniziative di vario tipo e livello.

1. Il Modello egemonico La teoria egemonica può essere considerata come un surrogato moderno della teoria degli imperi [Gilpin, 1981; Kennedy, 1987; Doyle, 1986] e, sul versante della politica interna, come un sostituto meno radi­ cale del concetto di dittatura [Gramsci, 1967] ovvero di democrazia tota­ litaria. La teoria egemonica, quindi, intesa come modello di realignment del SPI, risente dell’influsso sia della teoria dell’egemonia alla Gilpin, sia di quella gramsciana, ma se ne discosta radicalmente nei suoi connotati strutturali. Il Modello egemonico, infatti, è un Modello funzionale (non istituzionale), asimmetrico, stellare e multibilaterale, basato su una con­ dizione strutturale particolare.

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Dal punto di vista del sistema politico interno l’egemone ha infatti raggiunto e oltrepassato quella soglia di differenziazione delle funzioni, di composizione conflittuale degli interessi e di sviluppo politico per cui le regole di base del gioco politico - le sue arene di rappresenta­ zione, il sottosistema partitico e i processi politico-amministrativi - sono considerate valide per tutti, e come tali percepite dalla larga maggio­ ranza degli utenti. Il complesso delle regole di funzionamento basico del sistema politico consente infatti la proiezione esterna delle capacità organizzative dell’egemone. Queste capacità si fondano sulle caratteri­ stiche strutturali dell’egemone, e in particolare sul differenziale quali­ tativamente rilevante fra l'egemone e gli attori egemonizzati, sia in ter­ mini tecnologici e produttivi, che monetari e finanziari. Il differenziale e le dimensioni del suo gradiente è la precondizione che crea le pre­ messe dell’egemonizzazione. Il differenziale è dunque fondamentale (vedi il caso della Gran Bretagna nella prima parte dell'ottocento), ma anche il livello di disponibilità delle risorse, nonché della qualità e della produttività è di importanza rilevante. L’egemonia nasce quindi dalla compresenza di due fattori che interagiscono, dal differenziale di svi­ luppo in primo luogo, ma anche dal mutuo vantaggio che deriva agli attori nel gioco, come accade nel teorema ricardiano del commercio internazionale dei costi e dei vantaggi comparati. L’egemonia, dunque, diventa una naturale ed accettata supremazia, è quindi una libera satel­ lizzazione di aree non definite a priori, al di là di ogni framework isti­ tuzionale. Potrebbe essere anche descritta, in termini hobsoniani e leni­ niani come una forma di imperialismo economico moderno, privo però della componente militare e coloniale che di quel periodo dell’impe­ rialismo era caratteristica [Hobson, 1903, 1972; Kemp, 1967 Teorie del­ l'imperialismo; Lenin, 1975; Luxemburg, 1975; Hilferding, 1910, 1960; ecc.]. In un certo senso si tratta di una forma di impero indiretto (Doyle, 1986) di tipo leggero, che lascia cioè la completa autonomia agli attori satellizzati, sia nel campo della politica estera sia in quella interna, limi­ tandosi alla interdipendenza e alla complementarietà degli apparati economico-finanziari, fino alla graduale integrazione delle strutture pro­ duttive. Non è molto diverso quindi dal processo di costruzione dell’Unione Europea, intesa come Impero funzionale, con il vantaggio di una maggiore flessibilità operativa dovuta all’assenza di regole scritte e del rigore programmatorio di quell’istituzione, ed il limite di una minore coerenza programmatica ed evolutiva. Il Modello egemonico è perciò molto difficile da costruire perché deve essere sempre il risul­ tato di un delicato equilibrio fra dominanza e democrazia interna, fra egemonia economica e influenza politica. I casi studio più significativi

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sono, allo stato attuale, quelli della Germania, del Giappone e degli Stati Uniti. Tuttavia è un Modello relativamente efficiente, spontaneo e libe­ rista, che tende ad autosostentarsi in quanto non deve sopportare né i costi, in termini di rendimento delle istituzioni, che ha il Modello isti­ tuzionale e/o federale, né i costi, in termini di controllo politico e gestio­ nale (polizia, esercito, conflitto), che comporta il Modello autoritario. I Modelli egemonici6, proprio a causa della loro asimmetricità e/o stellarità (multibipolari), sono quindi dei Modelli di realignment o di ricomposizione postbipolare che potremmo definire anche come natu­ rali e/o funzionali, non istituzionali. Si tratta di Modelli potenziali o tendenziali, che possono assumere forme operative differenziate, senza strutture predeterminate, in quanto le aree interessate non sono predefinite neppure spazialmente. Sono quindi dei sistemi aperti, macroregionali e più spesso continentali, se non bicontinentali e al tempo stesso dei sistemi complessi che coinvol­ gono tanto le Grandi Potenze e/o le Superpotenze quanto le Piccole e le Medie Potenze. Il grado di funzionalità del Modello è indeterminato. Tuttavia esercita una indubbia influenza, non solo sul sistema interat­ tivo di relazione fra gli attori che operano aH’intemo del Modello, ma perfino sui sistemi politici ed economico-sociali domestici dei singoli attori. Come sempre accade nei Modelli di aggregazione lo standard, definito dalla potenza egemone, diventa la pietra di paragone di tutti gli stati membri che sono per forza di cose e per spirito di emulazione costretti a misurarsi con esso. Ne consegue una sostanziale differenziazione dei ruoli e dei com­ portamenti: i diversi partners della potenza leader, distribuiti in modo stellare attorno ad essa, forniscono cioè rendimenti diversi, sia in ter­ mini di interdipendenza/integrazione, sia in termini di competitività/complementarietà. Si costruisce così, senza forzature, una gerarchia oggettiva di compiti e funzioni che, talvolta, si trasferiscono dall’economia alla politica, stringendo i legami di dipendenza degli attori minori dall’attore leader, mentre talvolta stimolano delle reazioni nega­ tive, delle contrapposizioni difensive/offensive, con il rischio di abban­ doni o soffocamenti, come nel classico «gioco degli alleati» del dilemma della sicurezza [Snyder, 1984], Un esame ravvicinato del Modello egemonico prevede quindi lo studio dettagliato delle interazioni fra i processi di realignment spontanei e/o con­ trattuali bilaterali, liberi o vincolati, nonché dei trends multilaterali, nor-

6 Vedi in Gilpin, 1981 la «.Teoria della stabilità egemonica».

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mativi e istituzionali, la cui compresenza in alcuni casi può non ostacolare la formazione di questo tipo di Modello, ma anzi facilitarla. Si veda a questo proposito la relazione ambivalente e complessa esistente in questa fase fra la Germania postbellica e la rete di relazioni istituzionali che essa ha stabilito nel passato in vista delle prospettive future (ONU, NATO, Unione Europea, UEO, Consiglio d’Europa, CSCE, ecc.), ovvero per il Giappone, il sistema di relazioni vincolate ai trattati bilaterali con gli Stati Uniti (1951), con i paesi dell’ASEAN, oltre che con le organizzazioni multilaterali dove il governo di Tokyo ha svolto fino ad ora ruoli, tutto sommato, secondari. Il Modello egemonico può quindi essere studiato partendo da alcuni criteri di metodo. La premessa analitica si basa quindi sulla verifica dei:

a) Sistemi politici interni delle potenze centrali (Germania, Giappone e Stati Uniti) nonché sulla loro evoluzione alla luce del ruolo che essi svolgono rispetto alla funzione di motore del realignment. Su questo punto si veda il dibattito in sede tedesca sui concetti di iden­ tità nazionale, e in proposito del Bundgesetz e Verfassung [Die Zeit], oppure sul destino della Costituzione elaborata nel primo dopoguerra dal gen. Mac Arthur per il Giappone; b) Sistemi econom.ico-finanz.iari di interdipendenza sia degli attori cen­ trali che di quelli periferici, ma soprattutto della categoria analitica dei così detti attributi nazionali dei diversi attori sia in termini politico-eco­ nomici che sociali e culturali; c) Struttura geopolitica e contesto strategico sistemico delle aree di ege­ monia, in relazione ad aree contigue o distinte; d) Sistemi e sottosistemi culturali delle influenze e delle subculture etni­ che o minoritarie aH'interno dell’area e dei singoli attori; e) Individuazione delle unità minori facenti parte del Modello, loro ana­ lisi politico-economico-spaziale; f) Relazioni intrasistemiche, confini del sistema, raggio di influenza/egemonia potenziale; g) Caratteri e specificità della relazione stellare di egemonia; h) Corrispondenze, cioè il meccanismo delle affinità/differenze con gli attori maggiori dell’area per delineare le funzionalità e i rischi del Modello egemonico. L’analisi geopolitica regionale delle aree interessate comporta quindi un approccio essenzialmente sistemico/spaziale dell’area e delle subaree ad essa collegate7.

7 Es. articoli Santoro, 1996, ovvero Joyaux, 1991 per Estremo Oriente.

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Un esame attento dell’intreccio sistemico di aree e subaree di tipo ege­ monico può essere individuato comunque a partire da qualsiasi punto focale di osservazione. Nel caso del Mediterraneo, ad esempio, le ipotesi di Modello geopolitico di tipo egemonico può prendere in considerazione non solo gli attori dominanti potenziali o reali, come nel caso della Germania, Giappone o Stati Uniti, bensì delle forme egemoniche esercitate per delega ovvero suddivise fra gruppi di potenze leader. L'Italia come Media Potenza, infatti, potrebbe esercitare (come nel passato aveva tentato invano) una funzione di leader dell’area per delega dell’Unione Europea ovvero della Germania sia nella relazione verso la sponda Sud che verso l’area balcanico-adriatica.

2. Il Modello autoritario Il Modello Egemonico si fonda sull’idea della democrazia economica che diventa strumento inconsapevole dell’espansionismo geopolitico con­ tinentale da parte delle potenze egemoni, ed è rappresentabile altresì come una relazione interattiva fra spazi vuoti e di spazi pieni. La Germania, il cui destino nazionale è strettamente collegato alla sua capacità di egemonia economica e finanziaria, ad esempio, è un land-state imperfetto e incompleto. Il Modello Autoritario, invece, di cui la Russia, ma anche la Cina e parzialmente l’india sono casi studio emblematici, è fondato sulla restaurazione della dinamica classica delle relazioni di forza, potenza militare, gerarchia, diplomazia, deterrenza, verticalismo. Nel pas­ sato queste forme [Doyle, 1986 e Gilpin, 1981] erano dette imperiali. È quindi un Modello del tipo imperiale, regionale o continentale, il cui tasso di espansione è alto ma limitato da fattori decisivi: a) la sua territorialità; b) il controllo delle popolazioni; c) il costo del mantenimento imperiale; d) la necessità di espandersi sempre per motivi di sicurezza. Tale ipotesi di ricomposizione geopolitica si basa sulla tendenza, addotta sovente come necessità di ridurre la complessità e la differen­ ziazione all’interno dei sistemi politici per contrastare fenomeni di ingo­ vernabilità, di non decisione e conflitto politico sul piano interno. Ovvero anche per evitare processi di frammentazione centrifuga, di destruttura­ zione nazionale o subnazionale, minacciata o reale, di un set complesso di minacce/rischi, veri o presunti, provenienti dall'interno della propria cultura e proiettati all’esterno nella materializzazione ideale e demoniz­ zata dei nemici, dei complotti, della persecuzione della sicurezza, sia in termini politico-strategici che in termini di percezioni, ideologie e vir­ tualità.

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Ciò comporta una domanda interna del sistema produttivo egemonico molto più accentuata che nei casi di Modello federale dove la compo­ nente di mediazione e compromesso tende a prevalere a discapito delle esigenze di produttività. Nel Modello Egemonico, invece, il meccanismo d’interazione centro-periferia si basa essenzialmente sul mantenimento dei tassi di crescita e di produttività economica e tecnologica e sulla capa­ cità di competizione all’interno dell’area e fra diverse aree (trade-hlocs). Il Modello è quindi, per quanto possibile, autopropulsivo in quanto si regge solo sulla capacità di sostenere uno sviluppo equilibrato e dura­ turo, con effetti benefici e d’imitazione per i partner minori. Ovviamente il centro imporrà gradualmente la sua gerarchia nella divisione del lavoro e, quindi, delle specializzazioni produttive, agli attori dell’area di ege­ monia. Ma poiché agirà in un contesto di relativa liberalizzazione dei mercati, sarà costretto a misurarsi costantemente con la concorrenza di altri attori e aree sul proprio terreno di egemonia. In questo senso il Modello Egemonico è un Modello economico-politico più che politico-economico. E inoltre un sistema geopolitico selfsustaining che evita la maggior parte dei rischi che corrono altri Modelli, sia quelli di tipo istituzionale (Mod. ONU o Mod. Federale) sia quelli di tipo imperiale (Modello Autoritario e alcuni Modelli virtuali) che, per ragioni diverse, hanno entrambi bisogno di input esterni per sostenere il sistema di taglio normativo il primo, di taglio militare e repressivo il secondo. Il Modello Autoritario corrisponde, quindi, all'esigenza di tenere unito imperialisticamente un insieme territoriale e di popolazioni, minoranze etniche, religiose o alloglotte, ovvero di contenere flussi migratori verso o dall’esterno, o ancora di frenare spinte alla frantumazione regionale o subregionale. Il Modello Autoritario prefigura perciò un processo di ricomposizione dello SPI a livello regionale di tipo geopolitico e geostrategico, basato anzitutto sulla centralizzazione, sull’autoritarismo, la gerarchia e quindi sull’uso sistematico della forza e del controllo politico-militare per ragioni di sopravvivenza del sistema. Il Modello Autoritario tende inoltre a manifestarsi essenzialmente nelle aree continentali, laddove esistono le condizioni per l’esercizio della geopolitica terrestre, attraverso le procedure della contiguità e le regole della teoria delle frontiere, dove prendono corpo strutture demo­ grafiche mal distribuite, e in particolare dove sopravvive una tradizione imperiale consolidata che, in qualche caso (come in Russia e parzial­ mente in Cina, mentre in India il fenomeno è recente e, semmai, l’im­ perialismo è di origine islamica come nel Pakistan), ha reso incerto il

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confine fra sistema politico interno e sua ramificazione operativa all’e­ sterno di confini spesso provvisori o improvvisati, incidendo altresì sui caratteri dell’identità nazionale8. La definizione incerta delle frontiere nelle aree continentali è oggetto di dibattito. In termini di geopolitica dei modelli di ricomposizione il Modello Autoritario identifica nella proiezione esterna e nel controllo di entità nazionali o etniche esterne al nocciolo duro della metropoli la formula di identificazione di se stesso come teoria della ricomposizione regionale del SPI. La metropoli si tra­ sforma così in madrepatria mentre la periferia si trasforma in colonia, e la costrizione dello stato diventa un problema di gestione ammini­ strativa e di controllo poliziesco. In alcuni casi, come nell’ex URSS, il Modello Autoritario totalitario si strutturava secondo parametri d’i­ dentificazione Partito-Stato in cui al partito venivano assegnate le fun­ zioni politiche di iniziativa, decisione, controllo, mentre allo stato veni­ vano assegnate le funzioni di implementazione tecnico-amministrativa e le formule di apparente decentramento federale. In altre forme del Modello Autoritario la struttura portante è senza mediazione centralista, come in Cina dove le regioni vengono da sempre identificate come provincie senza tener conto dei processi etnici e nazio­ nali. Il controllo è esercitato attraverso una burocrazia selezionata con procedure statuali centrali, gerarchicamente ordinate ad albero. Di qui la struttura potente e fragile dell’impero che difficilmente sopporta le incrinature del sistema politico di controllo senza rischiare lo sgretola­ mento. L’assenza di meccanismi di successione politica predeterminati e la non manifestabilità delle regole del gioco politico che restano segrete e quindi delegittimate, rende il Modello Autoritario necessariamente rigido e poco adattabile alle variazioni di funzionamento del controllo politico. In Cina ha dato luogo più volte a fenomeni di frammentazione e regionalizzazione basata su regole di aggregazione o di frattura sub­ nazionale, che con l’eccezione del Tibet e della Mongolia, non si sono mai caratterizzate in senso etnico nazionale e neppure strettamente regionale. Ma invece si sono organizzate sulla base della riproduzione miniaturiz­ zata delle funzioni imperiali e militari di controllo9. Il Modello Autoritario, quindi, sul versante interno tende ad affermarsi come modello di realignment regionale in stati-nazione di tipo civico-territoriale e a vocazione: 8 Vedi il caso russo dei 25 milioni di russi all’estero e dei 25 milioni di non russi all’in­ terno, si veda in particolare, il Modello Russia in Santoro, 1995e; a cura di, nonché il sag­ gio di A. Vitale (1994). 9 [Signori della guerra e in particolare la biografia di Chen-Tso-Liu e figlio].

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a)terrestre; b) di dimensione continentale; c) di tradizione imperiale con identità nazionale (o statuale) e impe­ riale sovrapposte; d) che esercita il suo controllo gerarchico all’interno semplificando il sistema politico-decisionale e riducendo le differenze. Tale Modello Autoritario si costruisce invece sul piano esterno attraverso:

e) l’esercizio della sua influenza e/o egemonia politica e militare per contiguità sui vicini minori (come in Russia e Cina); f) l'attribuzione di una valenza maggiore all’apparato militare e di con­ trollo politico-poliziesco e alla force projection piuttosto che all’esercizio dell’egemonia economica e tecnologica; g) il ruolo politico imperiale della cultura politica derivante e della lin­ gua (russo, mandarino, hindi) che diventano lo standard della omologa­ zione (in URSS anche i nomi venivano russificati).

I casi studio più significativi sono:

a) Russia estema/intema: Heartland e invulnerabilità dagli attacchi dal mare; b) Cina e area di rispetto: Frammentazione ricorrente fra sviluppo e sottosviluppo; c) India e aree di rispetto: Frammentazione etnica e religiosa con revi­ val imperial-nazionalistico induista; d) Turchia, Panturchismo e/o Panturanesimo: Impero “turchico” o neoOttomano?

3. Il Modello Istituzionale Il XX secolo ha visto la successione di alcuni Sistemi Politici In­ ternazionali come quello Multipolare o dell’Equilibrio di Potenza (BoP) e Bipolare (BP) basati essenzialmente sulla tendenza alla concentrazione di potenza, che tendevano cioè a ridurre il livello di anarchia del sistema e al tempo stesso a limitare l’autonomia e la indipendenza sovrana dei soggetti. La successione del sistema BoP con il sistema BP avviene concreta­ mente a cavallo della Seconda Guerra Mondiale. Non si tratta però di un processo lineare dovuto aH’esaurimento del ruolo e della funzione dell'Europa delle Potenze come centro motore dell’attività internazionale. Le tappe della trasformazione sono state molto più complesse. Anzitutto

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perché fra la fine del BoP e della sua cornice giuridico-politica triseco­ lare (lo/us publicum europaeum) e l’inizio del sistema BP c’è stata la breve fase neoimperiale, ideologica e razziale dell’Europa germanica e nazista. Il concetto e la prassi del Bipolarismo è una struttura razionale basata sul fallimento reciproco degli obiettivi ideologici dei due maggiori attori (USA e URSS), mentre il concetto di Europa e BoP era molto più valido anche sotto il profilo culturale e giuridico-costituzionale. A partire dalla «linea globale» di Papa Alessandro VI (1493) fino al Congresso di Vienna e di Berlino, il BoP aveva organizzato un meccanismo automatico di fun­ zionamento della potenza bilanciata (e della guerra limitata) che nel sistema BP non esisteva più. Il passaggio fra la cultura del BoP e l'incertezza del sistema BP avviene con il fallimento della nuova linea globale, cercata invano da Hitler e dalla Germania. La Raya che divide fra le potenze maggiori la Terra e il Mare è un modello virtuale (come vedremo più avanti) che si frappone rispetto al BoP di Vienna-Versailles e al BP di Yalta-Potsdam. Quest’ultimo infatti è tutto beyond the line, al di là quindi dell’amity line che descrive le aree dove esiste il diritto pubblico europeo, e quelle dove l’uso indiscriminato della forza è ammesso. Tutta la teoria schmittiana del bellum civile euro­ paeum nasce da questa frattura (ovvero ricongiungimento) della limita­ zione europea dell’uso della forza con Hitler e poi con il BP. Questa tendenza, che risale al secolo XVII, è ora in discussione. I nuovi processi di frammentazione e le spinte indipendentistiche di molte etnie e nazioni, la frantumazione di imperi secolari come quello sovietico, la secessione di parti o la divisione di altri attori come la Jugoslavia e la Cecoslovacchia, la minaccia di estensione di questo processo in Africa, e perfino in Europa, sembrano indicare un’inversione parziale di tendenza rispetto al passato. I processi di diffusione di potenza si accavallano però con altri processi di segno opposto quindi di concentrazione di potenza, soprattutto nell'am­ bito delle forme istituzionali aggreganti, che hanno contrassegnato l’orga­ nizzazione intemazionale dalla fine della Prima guerra mondiale ad oggi. All’interno di questa tendenza aggregante si sono sviluppate delle spinte dirette alla costituzione, e poi al consolidamento, di alleanze di garanzia, ovvero di sicurezza e non aggressione, collettiva, regionale, ecc. che avevano per obiettivo la prevenzione e/o la gestione dei conflitti e delle crisi. La teoria istituzionalista e normativa di origine anglosassone (e quindi marittima geopoliticamente) si basava sull’avanzata parallela di un ordine internazionale di cui la Corte dell’Aja del 1899 e del 1907 è stato il primo esempio e la Lega delle Nazioni (1919) il secondo, e le Nazioni Unite

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(1945) il terzo. Era altresì il solo modo inventato dagli Stati Uniti per intervenire nel Vecchio Continente con una filosofia giustificatoria della propria cultura politica originale. Solo i Padri Fondatori imbottiti di illu­ minismo razionalista, di progettualità utopica e di concretezza politica potevano immaginare che il salto fra l’autoisolamento della Dottrina Monroe nel 1823 (con il meridiano fantasma di Jefferson nel 1812 e nel 1820 collocato al centro dell’Atlantico) e la dottrina di Hay del 1899 della Open Door Policy, e poi il framework istituzionale conseguito a Versailles nel 1919 e a S. Francisco nel 1945, non fosse un salto di qua­ lità ma solo la realizzazione di un progetto immaginato due secoli prima. Schmitt ne fa cenno ma per dire che in fondo, a differenza della storio­ grafia revisionista liberal-radical americana, da Williams 1980 a Kolko 1969, LaFeber 1983, proprio sulla teoria del salto di qualità del 1898 fa perno, si trattava di qualcosa di implicito. Forse era qualcosa di più com­ plesso: una linea globale che gradualmente si estendeva allargando i con­ fini del Western Hemisphere fino a comprendere il mondo, per il tramite della fondazione di una Nuova Gerusalemme, celeste e istituzionale, di cui la bandiera azzurra delle Nazioni Unite è simbolo e modello. AU’interno di quella linea, sempre più sfumata geopoliticamente, rientravano tutti i comportamenti internazionali egemonicamente o impcrialisticamente sottoposti alla tutela indiretta del Modello USA esercitata dalle Nazioni Unite. Questa traslazione del Modello intemazionale in Modello di dila­ tazione del sistema politico interno americano trasformava gli oppositori in nemici e la guerra in guerra civile. La terra resterà sempre più grande degli USA - scriveva Schmitt nel 1943 (Schmitt, 1943, 1994) anche se il Segretario alla Guerra di F.D. Roosevelt, Stimson, sosteneva che non cera posto per due sistemi. Questo è il dilemma americano dellìncertezza fra autoisolazionismo e globalismo. Le teorie dell’integrazione, funzionaliste e neofunzionali di matrice franco-tedesca, si fondavano invece sull’idea che il monopolio del potere e della forza a livello intemazionale avrebbero ridotto la violenza e la con­ flittualità attraverso un meccanismo di gendarmeria internazionale che nel lungo periodo avrebbero depotenziato le sovranità nazionali e prefi­ gurato un nuovo ordine mondiale. Il Modello Istituzionale è il prodotto di questo filone dottrinale parallelo all’evoluzione reale del Sistema Politico Intemazionale (SPI) multipolare, bipolare o di transizione. Attualmente però il trend di concentrazione pare essersi invertito e il ruolo semi-unipolare svolto dagli Stati Uniti non è sufficiente da solo o in coalizione, a sostituire la precedente gestione bipolare del mondo, inte­ rattiva e funzionale.

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Di qui i processi di diffusione di potenza e l’esplodere di conflitti a bassa e media intensità nelle diverse aree del mondo. Di qui il tentativo di usare l’ONU in funzione di surroga dell’egemonia-controllo dell’occidente. Tuttavia l’esperienza dell’intervento delle Nazioni Unite è stata sinora fallimentare. E evidente che questo Modello manca dei presupposti generali di funzionamente, vale a dire della volontà politica e della disponibilità dei governi maggiori, incluso quello ameri­ cano, a fornire risorse umane e materiali in funzione di peace-keeping (PKO) e più ancora di peace-enforcing (PEO). A questo scopo l’ONU dovrebbe essere ristrutturato e rinforzato nella sua capacità operativa politica e militare, cambiando le regole del gioco stabilite alla fine della Seconda guerra mondiale, interpretandole cioè non come strumento della politica ma invece come proiezione operativa dei doveri degli stati cioè come braccio armato della legge contro i criminali. Il disegno del possibile Modello Istituzionale è però più ampio. Esso comprende una struttura a scacchiera, gerarchica e acentrata al tempo stesso (umbrella system) in cui l’ONU svolge funzioni di copertura gene­ rale e di decisionalità ultima. All'intemo di questa struttura potrebbero funzionare altri enti internazionali in una sorta di complesso sistema di scatole cinesi e gusci istituzionali, originariamente creati per altri scopi, che ormai possono collaborare all’esecuzione delle decisioni delle Nazioni Unite (CSCE, NATO, Unione Europea, UEO, OSA, OUA, ASEAN, APEC, ecc.). Questo Modello ONU è integrato dalle procedure Golfo (coalizione autorizzata dall'ONU con funzioni di compellence o peace-enforcing con­ tro l’Iraq nel 1991), o più recentemente con missioni del tipo Bosnia/Croazia, Somalia, Cambogia, Namibia, ecc. Questo Modello idealizza un’entità che non esiste ancora, (la Comunità Intemazionale), presupponendo una convergenza di vedute e d’impegno da parte di tutti i membri delle Nazioni Unite, e soprattutto la disponi­ bilità politica degli attori maggiori ad intervenire essenzialmente con fun­ zioni di compellence invece che di deterrence. Dietro la formula delle Nazioni Unite si nasconde una concezione delle relazioni internazionali che smantella la tradizione europea da Westfalia in poi. Abbatte, in primo luogo, la differenza fra le formule di separazione/distinzione, ovvero di limes, esistenti fin dal Trattato di Tordesillas del 1494 e dalla Bolla papale di Alessandro VI, relativi alla spartizione fra Spagna e Portogallo delle nuove terre scoperte a occidente dell’Oceano Atlantico (la Raya). Si perde altresì la concezione franco-inglese delle amity line [Schmitt, 1991, p. 88] e quella definita beyond the line dei pirati inglesi per lasciar spazio al concetto di linea globale della dottrina Monroe del Western Hemisphere americano [Schmitt 1943, p. 46], Woodrow

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Wilson e Franklin Delano Roosevelt sono i traduttori e i trasduttori della linea dell’autoisolazionismo americano nell’internazionalismo globalista [Santoro, 1987], Ma c’è anche un’altra utopia di matrice illuministica e protestante che nell’ONU è presupposta: quella della possibilità di eliminare la guerra, e non solo di limitarla, come nella tradizione dello jus publicum europaeum [Schmitt, 1991, p. 309]. Annulla inoltre il quadro spaziale, contro la teoria del Grofiraum cioè quella dei Grandi Spazi organizzati. In effetti il peace-keeping, che è stato finora lo strumento operativo più frequentemente usato, ha un valore ridotto in quanto, se la pace esiste già è ovviamente inutile, mentre se la pace non c’è, è altrettanto inutile perché non ha né poteri né mezzi per intervenire altro che come forza d’interposizione. L'esempio più clamoroso è quello fornito dalla Somalia, dove un’opera­ zione montata dall’ONU con l’appoggio statunitense e di altri attori si è sal­ data con il suo completo fallimento. Se neppure in una situazione di con­ flitto a bassa intensità l’ONU è riuscita a imporre la pace, è del tutto inutile sperare che possa imporre la pace in una situazione ben più complessa come è quella della ex Jugoslavia o di un’eventuale guerra balcanica. In ogni caso l’uso dell’ONU come possibile contenitore del diverbio fra Occidente e Oriente, sia fra Russi e Americani in Bosnia, sia in senso più generale, è senza avvenire. La provvisoria soluzione della guerra in Bosnia è infatti stato il prodotto dell’intervento diretto e coercitivo della NATO, vale a dire di un’alleanza militare integrata che ha operato al di fuori dei suoi limiti statutari e attraverso l’uso della forza. La teoria della gestione delle crisi internazionali [Brecher e Wilkenfeld, 1989; Brecher e James, 1986] era infatti il prodotto di una lettura globa­ lista delle Relazioni Internazionali, nata fra il 1907 e il 1919, consolidata con il 1945 e messa in pratica durante la guerra fredda. Era dunque il risultato di una concezione di controllo delle crisi che faceva parte di un sistema internazionale sostanzialmente concentrato, basato cioè sulla pre­ valenza delle due Superpotenze, senza gravi smagliature funzionali, semiordinato e garantito dal sistema di interazione costituito dal regime di deterrenza, convenzionale e soprattutto nucleare. Le crisi, in questo quadro, erano fenomeni marginali, controllabili, delegati ora alle Nazioni Unite, ora direttamente assunti in prima persona dalle Superpotenze. Il crisis management, dunque, non era altro che il processo di controllo delle disfunzioni funzionali del sistema bipolare. Ora che il bipolarismo non esiste più e che il processo di frammen­ tazione procede nello smantellamento del globalismo, riducendo l’indice di concentrazione di potenza, il sistema internazionale è molto più anar­

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chico che in passato. Il suo principio organizzatore [Miller, 1978], l’ellisse bipolare, si è dissolto. Il suo regime di controllo, la deterrenza strategica, ha perso di significato. L’ordine intemazionale di tipo istituzionale (ONU, ecc.) non è in grado di gestire una situazione che tende a disintegrarsi. Sempre più frequenti saranno le situazioni di crisi, sempre meno capaci saranno le Nazioni Unite a governarle. La volontà politica delle Nazioni Unite è del tutto immaginaria nel momento in cui i fallimenti evidenti delle operazioni di PKO e l’assenza di quelle PEO avranno l’effetto di ridurre ulteriormente la disponibilità delle Potenze maggiori, o più dotate di risorse, ad intervenire in situazioni pericolose e irrisolvibili. Il Modello ONU può invece avere delle possibilità di sviluppo nel qua­ dro della estensione di quella rete di contratti espliciti o taciti che pren­ dono il nome di regimi intemazionali. In altre parole, l’ONU potrebbe autorizzare e benedire eventuali coalizioni (crociate?) di gestione e inter­ vento così come il Papa era solito benedire i Crociati in partenza per la Terra Santa. Non di Modello di ordine istituzionale quindi si tratterebbe, ma invece solo di una arcaica teoria delle alleanze che sottolineerebbe l’anarchia strutturale del sistema internazionale. Il Modello ONU-Golfo, quindi, indica tanto una modalità di ricomposi­ zione basata sulla instaurazione di un nuovo ordine mondiale o regionale centrato sulla funzionalità creativa delle istituzioni intemazionali, quanto un’ipotesi più modesta di semplice battistrada alla formazione di regimi intemazionali non istituzionalizzati ma funzionali. Si tratta cioè nelle ipotesi teoriche di un Modello acentrato di demo­ crazia confederale, federale o prefederale, con l’assegnazione di compiti crescenti agli organi di gestione delle istituzioni, e quindi di funzioni pro­ prie degli stati nazionali membri (sovranazionalità parziale o settoriale). Le principali funzioni operative di questo Modello possono essere di due tipi: a) integrazione economica e/o b) cooperazione politica nel campo della politica estera o della difesa. Nel caso dell’ONU esiste solo questa seconda funzione, mentre nel caso dell’Unione Europea esiste solo la prima. Nel caso ONU la funzione si dovrebbe manifestare nelle tré finizioni del peace-keeping, del peace-making e del peace-enforcing. Nel caso dell’Unione Europea essa diventa l’espressione del meccanismo premio/punizione, cioè del trade-off fra sanzioni/aiuti (es.: Albania, Bosnia, Europa orientale). Il problema è tuttavia più complesso nel caso in cui il Modello ONUGolfo si basi, solo o soprattutto, su un sistema d’alleanza/coalizione sin­ gle-issue e sia quindi diretto a gestire un problema specifico, come nel caso del Golfo, o in altre forme d’intervento ad hoc. Il Modello istituzionale comporta la sovrapposizione predeterminata

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del Modello globale sui sistemi regionali e di area preesistenti con con­ seguenze dilaceranti per i loro delicati equilibri; In altri termini accade che la logica della gendarmeria internazionale nel crisis management, owero nell’intervento di PKO e PEO, secondo le regole del Modello normativo di ordine internazionale, s’infranga sugli scogli dei sistemi locali che avevano trovato un equilibrio instabile in modo pragmatico e non astratto. Il caso più tipico di questa dissonanza concettuale e difficoltà operativa, dovuta alla sovrapposizione di Modelli diversi, è data dal sistema, interat­ tivo fra attori del Medio Oriente, ovvero del più complesso «Sistema Sud». L'analisi del Sistema Sud comporta anzitutto una premessa di ordine definitorio e concettuale diretta ad inquadrare geopoliticamente l’area in questione. In termini generali possiamo considerare come Sistema Sud quella fascia territoriale che si estende dalle coste africane dell’Oceano Atlantico, alle coste africane dell’Oceano Indiano e a quelle asiatiche del Mare Arabico. Questa vasta area non ha di per sé quella che potrebbe chiamarsi una vera e propria autonomia spaziale o geografica. Al contrario la sua compo­ sizione, sia geografica che strutturale, è molto differenziata. Ciò che rende ammissibile la sua aggregazione in quello che abbiamo definito come Sistema Sud è però solo il suo ruolo funzionale rispetto al quesito che la ricerca si propone, cioè l’analisi dei rischi per la sicurezza dell’Italia e dell’Europa provenienti dalla sponda meridionale e orientale del Mediterraneo e delle sue aree di rispetto. All’interno di questo framework concettuale il Sistema Sud può essere considerato come l’appendice meridionale del Sistema Eurasia, ovvero come una Rimland [Mackinder, 1904; Kjellen, 1917; Spengler, 1918-22; Spykman, 1942, 1970; Haushofer, 1934], meridionale del sistema eura­ siatico [Sloan, 1988]. In altri termini, se geograficamente l’Europa è un’appendice dell’Asia, e quindi fa parte del macrosistema Eurasia, allora il Sistema Sud costi­ tuisce fl^^rale completamento meridionale del Sistola Eurasia, attra­ verso il Mediterraneo, il Mar Rosso e il Golfo. Nella sua ossatura portante il macrosistema Eurasia, con la sua appen­ dice occidentale (Europa) e quella meridionale (Sistema Sud), comprende la gran parte del Vecchio Tricontinente, quindi la landmass terrestre della World Island (Asia, Europa, Africa). Si tratta cioè della più ampia contiguità territoriale ininterrotta esi­ stente sul pianeta, la cui unità simbolica ha rappresentato sempre l’obbiettivo irraggiungibile di tutte le principali ambizioni e utopie, religiose, ideologiche o politiche della storia.

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Volta a volta, la potenziale unità della landmass ha dato luogo alle mag­ giori civiltà e civilizzazioni, nomadi e/o stanziali, dall'antichità ad oggi, alla costruzione dei massimi imperi territoriali, da quello cinese a quello persiano, fino a quello macedone e poi romano, alla creazione rapida e fragile degli imperi continentali senza occupazione permanente, come quelli mongoli o turcheschi, alla permanenza storica, al di là delle partizioni nazionali, di linee di comunicazione terrestri come la Via della Seta che per millenni hanno inte­ grato e/o sostituito egregiamente le rotte marittime fra Ovest ed Est. In una più limitata e contemporanea accezione, tuttavia, il Sistema Sud può essere enucleato dal macrosistema eurasiatico (al quale è però colle­ gato da una serie di istmi) e definito nella sua composizione dalla fascia di paesi che, muovendo da Ovest verso Est, includono via via il Maghreb, il Sahel, il Mashrek, il Como d'Africa, il Golfo.

4. Il Modello virtuale La virtualità delle società utopiche e dei disegni di palingenesi sociale e politica, da Tomaso Moro a Platone, da Wells a Orwell, fino a SaintSimon, Campanella, Marx, Hitler, sono solo un aspetto della permanenza politica della «virtualità» nell’analisi della politica internazionale. Accanto alla virtualità dei grandi disegni politico-filosofici, infatti, c'è la straordinaria virtualità delle fedi religiose, dei «Libri Sacri», e la loro traduzione terrena in chiese e organizzazioni teocratiche. Il fondamen­ talismo, nelle sue forme moderne, (islamico, ebraico, ortodosso, cattolico, confuciano, buddista, indù, ecc.), è quindi solo un tassello marginale di questo grande affresco musivo virtuale. Il secondo grande filone della virtualità politica è poi quello delle ideo­ logie, forme della «filosofia della prassi», cioè aspetti e modelli dell’or­ ganizzazione degli uomini e del loro controllo che, al di là delle idee sul destino dell’uomo associato in società, miravano alla conquista e alla sot­ tomissione culturale e psicologica delle masse e degli spazi La virtualità ideologica, di cui il Novecento ha vissuto tutto lo splen­ dore e la catastrofe, ha costruito miti dell’anima e eretto templi gigante­ schi all’autoasservimento con risultati più che lusinghieri. Dal comuniSmo, epitome estrema del socialismo ottocentesco e delle piccole ideologie elitiste e illuministiche settecentesche, da Diderot (1982) a Voltaire a Rousseau (1966) a Babeuf a Lenin (1980), alle diverse fami­ glie del Nazionalismo civico ed etnico, fino alle filiazioni moderne, seco­ larizzate e corrusche del fascismo e del nazismo, le ideologie politiche si

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sono intrecciate con ideologie non meno virtuali e non meno immagina­ rie. Quali sono quelle discese dal liberalismo e dalla cultura giuridica e istituzionale europea, di cui gli enti intemazionali e le utopie federali, europee o globali, sono il prodotto più recente, ovvero dalla filosofia di basso profilo degli Imperi commerciali e marittimi, olandese prima e inglese poi, fino all’ultima investitura della teoria democratica statuni­ tense, cavallo di battaglia della virtualità vincente di oggi. Ma neppure le grandi teorie imperiali, da quelle più antiche che uni­ vano i popoli per utilizzarne la forza motrice e l’energia del lavoro di massa, sono immuni dalla virtualità. Al contrario, la divinizzazione dei capi, dal Faraone al Gran Re persiano, sono stati e sono tuttora gli stru­ menti della virtualità politica di cui le tombe di Lenin e Mao sono i più recenti esemplari. L’idea imperiale, comunque, è immortale perché racchiude le segrete aspirazioni di tutti quelli che sperano di risolvere le proprie incomple­ tezze nell’annullarsi delle differenze, nella reductio ad unum di cui il Modello ONU è, per certi versi, l’ultimo e più recente stadio. Esso si basa infatti sulla teoria «ordinista» che concepisce le Relazioni Intemazionali come un eterno conflitto fra ordine e anarchia e, nel contempo, come un processo lineare che implica la tesi evoluzionistica del progresso. Una filosofia della storia quindi di matrice illuministica, e poi giuridico-normativa ovvero neofunzionale, che implica lo sviluppo politico delle Relazioni Intemazionali come una ininterrotta marcia verso la costru­ zione di un ordine globale pacifico che gradualmente espunge dal qua­ dro le componenti conflittuali. Il Modello istituzionale è, quindi, la traduzione operativa di un dise­ gno utopico, di una Repubblica dei Filosofi su scala mondiale regolata dalle norme della legittimità liberal-democratica trasferita daH’interno degli Stati Uniti verso l’esterno nelle relazioni fra gli attori operanti nel Sistema Internazionale. D’altra parte le Relazioni Internazionali sono sempre state il prodotto incompiuto di un binomio concettuale ed operativo, quello delle utopie e dei rapporti di forza. Fortuna, caso e realtà si sono sempre mescolati nelle vicende di uomini e continenti senza anticipare il risultato ma certo influenzandolo. I Modelli di organizzazione più frequenti, concepiti ed elaborati dal­ l’uomo, sottostanti alla ricomposizione effettiva del Sistema Politico Internazionale, sono in genere molto più ambiziosi e omnicomprensivi perché non giocano le carte della realtà delle Relazioni Intemazionali (RI), cioè quelle tradizionali della potenza, della forza, dell’equilibrio e della diplomazia. Giocano invece le carte segrete e immaginarie della pro-

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paganda, quindi dell’epopea, del mito globale, della totalità del futuro, della rigenerazione, del Gòtterdammerung, della palingenesi, della paura e dell’il­ lusione. Sono gli alfieri dell'ignoto, dell’esoterico e perfino del suicidio rituale, della Nuova Gerusalemme e della Gerusalemme Celeste in terra. Dall'impero universale, un mito nato con gli Accadi nel 3° millennio a.C., fino ai Cinesi della Dinastia Song, all’impero di Roma e a quello Occidentale, Sacro, Romano e poi Germanico, per arrivare ai Comunisti della Rivoluzione mondiale e permanente, ovvero al «Reich dei Mille Anni», fino alla teocrazia implicita dei Re Taumaturghi, della Monarchia Universale e delle filosofiche «Repubbliche», alla Umma islamica: la «vir­ tualità» nella politica globale è stata fin dalle origini della storia una costante della politica internazionale. In ogni caso, prima ancora del tempo in cui la globalità, e anche l'u­ niversalità, diventassero concetti operativi possibili, i Modelli-Virtuali del passato, anche lontano, sono sempre stati, almeno concettualmente, glo­ bali. Le caratteristiche dei grandi, talvolta inconsapevoli, disegni politici e ideologici o religiosi del passato, anche quando le conoscenze della geo­ grafia erano limitate, e perfino la forma del mondo sconosciuta o equi­ vocata, il Modello-Virtuale era basato sulla globalità, ovvero sull'univer­ salità, vale a dire sull'assolutismo potenziale, o meglio sull’ambizione all’o­ mogeneità e alla totalità. Era di questa fatta la teoria dell'«impero universale» nel De Monarchia di Dante, il nocciolo della filosofia politica dell’impero cinese, l'epopea di Alessandro Magno, che cercò di tradurre in fatti, massimo e generoso eroe, la virtualità di un’idea di congiunzione fra Oriente e Occidente, fino all’Internazionale Comunista di Lenin e perfino l’idealistica e astratta costru­ zione giuridico-religiosa e visionaria del Presidente Wilson. I fondamenti di questa ambizione all'unicità e al livellamento erano fomiti dal tentativo di creare un’omogeneità, se non una identità cultu­ rale, da diffondere capillarmente all'interno nell’impero «reale», e all’e­ sterno nell’impero «virtuale», con l’apostolato delle identità religiose e dei controlli interni, spesso autoinflitti mediante la coercizione o la persua­ sione psicologica, attraverso cui rinforzare quelli esterni forniti dalla forza militare e dalla polizia. Tutto questo comportava anzitutto l’identificazione del territorio fisico e psicologico dove esercitare la «missione», quindi un’investitura della virtualità, la formazione di una milizia di puri e fedeli, radicale, totaliz­ zante, ingiusta, ma dedicata, alternativa alle differenze, rivoluzionaria e violenta, volta al mito politico o religioso della globalità e dell’universa­ lità, del monismo culturale. All’interno di questo Modello-Virtuale la geopolitica, ovvero la rap­

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presentazione cartografica della terra, progetto d’impero globale, non veniva trascurata o respinta, ma anzi diventava una sorta di geografia magica [Weigert, 1942], di manipolazione della geografia e della territo­ rialità della politica. La ricostruzione delle diverse parti del mondo ad uso e consumo di un’idea pan-politica, col tempo, diventò una specie di garanzia scientifica che le rilevazioni erano state compiute correttamente (si pensi al ruolo svolto dagli esploratori e colonizzatori dal Duecento in poi), e che quindi la suddivisione, arbitraria e immaginaria, delle diverse parti del mondo era scientificamente valida e del tutto oggettiva (geopo­ litica informatica) in quanto venivano rispettate le procedure di rileva­ mento dal punto di vista spaziale e culturale dell’osservatore. Un esempio di questo immaginario immanente è dato dai tre livelli di conflitto geopolitico che hanno scandito le diverse età della storia:

a) quello fra terra e mare; b) quello fra Oriente e Occidente; c) quello fra Europa e Asia.

In effetti si tratta di tre coppie concettuali senza riscontro oggettivo, o necessario, nella realtà. Per fare un esempio si pensi all'interpretazione data da Braudel (1987) in «Mediterraneo» per rendersi conto della difficoltà a stabilire una distinzione logica e funzionale fra i due elementi di terra e mare, ovvero alla insormontabile incertezza nella definizione dei confini e delle influenze di Occidente e Oriente, di cui proprio l’ambivalenza di Alessandro Magno è un'immagine vivente. Per non dire della definizione dei confini fra Europa e Asia per la quale il dibattito, aperto nell'antichità, è ancora insignificante e quindi irrisolto. Eppure l’uso di queste coppie di concetti virtuali in opposizione politica, oltre che essere assai pertinaci, sono indubbiamente utili perché sintetiz­ zano delle ipotesi sul mondo, semplificano il quadro, mobilitano risorse, trovano soluzioni, creano o rivelano dialettiche distinzioni, annunciano o prefigurano alleanze «naturali» e conflitti «artificiali» o «culturali». La semplificazione terminologica e concettuale che ne deriva è quindi fonte di rischio ideologico, ma anche di analisi proficue. Può diventare nuo­ vamente un dibattito sui «mondi possibili», e in particolare sulla prevedi­ bilità della storia attraverso la geografia, integrata però dalla virtualità, cioè dall’autopercezione di sé e degli altri il cui peso politico è stato raramente analizzato dai teorici di scuola realista, ma anche idealista, della politica e delle Relazioni Internazionali. Un esempio di questa utilità euristica è dato, a nostro avviso, dalla proposta analitica di Samuel Huntington (1993) relativa all’ipotesi defi­ nita come la teoria del Clash of Civilization che tenta di individuare attra­ verso l’esame di alcune aree di civilizzazione (o meglio di Kultur) che,

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tutto sommato, potrebbero rappresentare le principali zone omogenee del mondo contemporaneo alla fine della guerra fredda 1011 , gli Schwerpunkte del mondo contemporaneo. La visione di Huntington (1993) è certo semplificata e insoddisfacente, se presa per sé, nonché deliberatamente provocatoria e pessimista. Tuttavia rappresenta un'ipotesi di lavoro interessante. Anche se andrebbe integrata da valutazioni più approfondite sui caratteri culturali delle diverse civili­ zations, nonché dalla definizione dei network di interazione fra le diverse aree. In effetti, le aree culturali di Huntington non valutano affatto i flussi di comunicazione politico-intemazionale esistenti nel medio termine, per definire solo i valori virtuali autopercepiti e costanti del lungo periodo. Con un quadro analitico così semplificato non si colgono i processi di ricom­ posizione potenziali e le forme delle possibili aggregazioni, sia di tipo ege­ monico (come nella relazione del Modello-Egemonico fra West e SlavicOrthodox ovvero Islamic-Turkic; ovvero, nel Modello Egemonico, versione nipponica, nella relazione fra Japanese e Confucian in relazione all’area Asia-Pacifico nel suo complesso), sia di tipo autoritario (come nel caso dei Modelli di controllo pluriculturali della ricomposizione imperiale russa: Modello Autoritario). Il disegno che si legge dietro questa classificazione per grandi civilizations è invece di tipo conflittuale in cui le lorn countries come Turchia, Messico e Russia dovrebbero far da pilastro di aggregazione delle rispettive aree, mentre alcune di esse, come Cina e Giappone, potreb­ bero avere invece un destino di weapon states, potenzialmente molto peri­ colosi per la stabilità del pianeta. L'argomentazione per sostenere questa specificazione della tesi di Huntington è improbabile proprio perché confonde due livelli di analisi, quello di longue durée delle civilizations e quello, molto più «événementiel», delle tom countries ”. E tuttavia uno sti­

10 Le otto aree definite in termini culturali sono in realtà otto «regioni virtuali», spesso sovrapposte ma tutte fondate su coppie di opposizione e di conflitto. Da quella domi­ nante ma attaccata da più parti, all’esterno e all’interno, che viene definita come Western, a quella affine ma contrastante detta Slavic-Orthoox, a quella incerta nei suoi connotati futuri chiamata Latin-American, fino a quelle nettamente contrapposte nelle quali il «dono» della modernizzazione ha sollecitato reazioni diverse spesso opposte, come è il caso di quella Confuncian, Japanese, fino a quelle che vivono la relazione con il processo di modernizzazione come una spoliazione culturale, da reintegrare con la tradizione, da quella Islamic a quella Hindu, fino a quella poliarchica, per semplicità detta African.

11 Esso attinge a diverse e, forse, incompatibili concetti e teorie politiche contempo­ ranee, che vanno dalle Teorie della organizzazione politica internazionale alle teorie imperiali e imperialistiche alle teorie nazionali e nazionalistiche o etnopolitiche; alle teo­ rie della «città celeste» e confuciane; alle teorie didascaliche e pedagogiche (democra­ zia, comuniSmo, modelli globali); fino alle teorie geopolitiche moderne (eurasismo).

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molo intellettuale molto allettante perché potrebbe indurre alla lettura dei fenomeni di «virtualità» sotto un profilo multipolare, ipotizzando un certo numero di blocchi, separati e interagenti. In altri termini si potrebbe creare una sovrapposizione di aree, o meglio di «Grosse Raume» organizzati, per la gran parte coincidenti in termini culturali e geopolitici, come forme di ricomposizione del SPI, ma spesso anche non compatibili o differenziati. La costruzione di questi «lucidi» sovrapposti sulla mappa del pianeta potrebbe dar luogo, geopoliticamente, alla realizzazione di aree «forti», nel senso della loro compattezza culturale e al tempo stesso geopolitica, ma anche all'esistenza di aree «deboli» o incerte dove la serie dei temi di iden­ tificazione non sarebbe definita nei dettagli. Si potrebbero quindi delineare aree di confine, marginali ovvero territori di sovrapposizione di aree a cul­ tura diversa. In altri termini potrebbe essere impossibile individuare, solo attraverso le così dette civilizations, il vero network interattivo e la preva­ lenza dei flussi d'interdipendenza o comunicazione. Si porrebbe, quindi, ancora una volta un problema di confini, di linee divisorie fra aree della stessa civilizzazione, mentre si potrebbero altresì avere dei connotati simili fra aree diverse. La teoria del Modello Virtuale è invece più flessibile di quella strettamente culturale di Huntington, nel senso che comprende le forme più dispa­ rate di Virtualità, da quelle culturali a quelle religiose, a quelle ideologiche, sia di tipo globalista che regionale [Schmitt, 1991, pp. 388-91], sia moniste che pluraliste, fino a quelle strettamente determinate dalle coppie di oppo­ sizione che abbiamo nominato. La virtualità dei modelli di Sistema Politico Intemazionale consiste, quindi, in senso generale, nella differenza o discrepanza fra potenza e idea, fra cause monofattoriali (ideologie, fedi, missioni, o altro) e realtà polivalenti, di tipo politico-economico e militare. In altri termini la «virtualità» dei modelli plurifattoriali opera attraverso lo sprigionamento di energia che deriva dai processi di «rimozione» col­ lettiva della realtà e dall’attribuzione di valore e potere alle idee, alle ipo­ tesi, alle leggi (il Nornos), alle istituzioni, al consenso, alle regole del gioco, alle illusioni e alle emozioni collettive. Il Modello Virtuale si propone quindi di analizzare, per casi studio, gli effetti che le utopie, gli equivoci, gli errori, le fedi, esercitano sulla realtà effettiva dei rapporti politici intemazionali, e quindi il peso quantitativo che essi hanno nel trasformare la debolezza in forza, la fantasia in realtà e, viceversa, la stabilità in caos. Non è un caso che la «virtualità» del Modello europeo contemporaneo, che è quella dell’unificazione federale del Continente, sia in forte crisi d’i­ dentità, anzitutto perché è in crisi la definizione e la percezione dell’Europa,

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fin qui intesa esclusivamente come l’ala occidentale del continente i cui con­ fini sono oggi incerti. L’Europa di Bruxelles del 1958 era un’idea che a Maastricht, nel 1992, sembrò trovare la via del suo completamento. Si trat­ tava invece di un’idea mutilata di Europa, costruita e consolidata prima nella testa dei suoi fondatori, attraverso le norme e le istituzioni, la crea­ zione di arene politiche illusorie, e solo successivamente tradotta nella realtà di uno spazio territoriale che oggi non è più quello di allora, fissato dai vin­ coli bipolari, ma invece uno molto più grande e molto più diverso di quanto gli europei della vecchia CEE avrebbero mai potuto immaginare. Così oggi siamo alle prese con un’Europa «virtuale» che si è sfarinata fra le mani dei suoi costruttori e non abbiamo ancora avuto il tempo di inventarne (trovarne) un’altra altrettanto credibile, anche se basterebbe guardare bene nel cuore della realtà per averla già sotto i nostri occhi. La debolezza dell’Europa comunitaria di oggi, in termini di politica estera e della sicurezza ma anche in termini di integrazione, è tutta qui. Non c'è abbastanza virtualità perché non c’è abbastanza flessibilità ideo­ logica ovvero capacità di riclassificazione dei giudizi e delle abitudini per prendere atto che l’Europa non sarà quella che ci aspettavamo. Il «Modello europeo», federale, democratico-liberale, acentrato ed economico-monetario, è quindi un esempio di Modello di ricomposizione del SPI che, da un lato può essere studiato nell'ambito del «Modello isti­ tuzionale», ma d’altro lato - per i suoi connotati progettuali e utopici può essere senz’altro riclassificato anche all’interno di un'analisi del «Modello virtuale». Il disegno utopico consisteva nell’ipotesi della creazione di una Città del Sole europea, piccola e omogenea, che facesse da specchio e da modello per gli altri europei, una maquette dell’omogeneità continentale ideata dai Padri Fondatori negli anni ’50. Il Modello originario di questo Modello virtuale, con le sue procedure di graduale armonizzazione, doganale e commerciale prima, agricola e industriale poi, finanziaria e monetaria successivamente, e infine politica e istituzionale, con i suoi riti celebrati periodicamente, gli impegni assunti e rinnovati, le scadenze predeterminate (e spesso non rispettate) erano il corpo concettuale di questa «virtualità», cioè di questo progetto politico di lungo termine che non aveva una territorialità e una spazialità defi­ nita. I sei paesi della Comunità iniziale (Benelux, Germania Ovest, Francia, Italia) rappresentavano solo un esempio, un modello appunto del futuro. Dovevano dare il via ad un processo di aggregazione istituzionale regio­ nale (l’Europa Occidentale), caratterizzato però da un'ideologia virtuale di tipo monista o globalista (la regola del mercato e della democrazia come conditio sine qua non per l’adesione alla Comunità). Il Modello era

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normativo-istituzionale e poggiava su una concezione neofunzionale della mutazione qualitativa del grado di integrazione attraverso la diffusione dei processi settoriali di armonizzazione e unificazione. Vigeva, in altri termini, l'idea che lìnterdipendenza crescente avrebbe automaticamente portato all’integrazione [Santoro, 1984], Si trattava quindi, ancora una volta, di un Modello virtuale, sorretto per di più da una filosofia teleologica. Natura - però - non facit saltus e il Modello d’interdipendenza crescente non si è tradotto, né avrebbe mai potuto diventare, un Modello d’integra­ zione. Gli eventi periodicamente arrestavano il processo, a partire dal 1961, quando De Gaulle sconfessò il Pian Fouchet ed espose la teoria dell’ «Europe des patries» fino alla crisi petrolifera del 1973, ad eventi ancora più recenti, come la faticosa marcia verso l'unificazione monetaria o le ricorrenti crisi de\YEuropean Monetary System. Né ha contribuito a invertire la tendenza l’allargamento spaziale della Comunità a Nove, poi a Dieci, finalmente a Dodici a partire dal 1985, e poi l'estensione ai tre paesi dell'ex-EFTA (Svezia, Finlandia, Austria). Il problema del trade-off fra widening (allargamento) e deepening (approfon­ dimento) non si è affatto risolto. È diventato una delle forme attraverso le quali può essere misurata la difficoltà della traduzione, da virtuale in reale, del Modello acentrato, istituzionale e federale classico, dei Trattati di Roma e Maastricht, che non hanno un automatismo implicito, ma anzi sono costretti a risolvere il dilemma attraverso compromessi negoziali al ribasso con evidenti esiti di dissimmetria. L’alternativa teorica e complementare a quella federale è un’altra uto­ pia che rovescia, paradossalmente, il Modello neofunzionalista del­ l’Europa istituzionale, basandosi sul Modello della divisione intraeuropea, delle autonomie, delle macroregioni, delle poleis. e dei comuni, della variopinta differenza culturale, della non-unità, degli «autunni e prima­ vere» occidentali, di cui i Balcani in fiamme, o il sistema della Balance of Power di tipo ottocentesco, o la linea di divisione orizzontale del Mediterraneo, mai cicatrizzata, sono gli esempi più significativi.

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Stati Uniti e Occidente: un’identità difficile

1. L’attonito «stupore» con cui è stato accolto il crollo del sistema inter­ nazionale bipolare ha rivelato infatti quanto distante fosse la dinamica del reale rispetto al paradigma interpretativo dominante. Il «Modello» della guerra fredda incarnava una lettura del mondo e delle sue regole che, volutamente, tendeva a mettere in ombra le diffe­ renze per valorizzare le affinità, e perfino le omogeneità da omologazione. Era questo il «punto di vista» (Weber, 1922, 1974) da cui prendeva le mosse quella lettura ideologica del mondo secondo cui il trend ciclico delle Relazioni Intemazionali puntava da tempo all’accentuazione della fase di «concentrazione» della potenza internazionale, riducendo e sfron­ dando diversità e differenze, in nome della lotta alla «frammentazione», ovvero alla «diffusione» di potenza, da esorcizzare come «antistoria», o come primitivismo politico e culturale, per il «disordine» che ne derivava. Di qui l'improvviso, e imprevisto, scricchiolio del sistema internazio­ nale, il suo fragoroso rovinio con il collasso del polo sovietico, e soprat­ tutto la disidratazione culturale e l’impotenza euristica delle ideologie «ordiniste». Il mondo delle idee «universali» e dei sistemi «globali», basati sulla estensione applicativa delle filosofie politiche fondate sulla teoria econo­ mica e, per converso, su quella istituzionale, di derivazione illuministica prima, e poi ottocentesca, ha improvvisamente rivelato la sua minacciosa incapacità a spiegare e rivedere gli eventi che avevano tracimato al di sopra della griglia ideologica e istituzionale costruita nel Novecento per ingabbiarli e addomesticarli.

2. Si sono così destrutturati, per primi, i sistemi politici ed ideologici che, più degli altri, avevano risentito di questa cultura dell'omogeneità, a partire da quelli dell’utopia comunista (URSS, Jugoslavia), fino a quelli dell’utopia istituzionale e federalista (ONU, Unione Europea, ecc.). Ma anche le consolidate identità nazionali, o imperiali, sopravvissute

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alla tempesta del Novecento (Bracher, 1982; Junger e Schmitt, 1987), come quella statunitense o cinese, quella giapponese o franco-inglese, stanno risentendo ora della caduta del «Modello» globalista, e soprattutto della perdita di «senso», vale a dire della frantumazione di criteri con­ vincenti e credibili di analisi e di interpretazione del reale. Ed è per questa ragione che le organizzazioni umane più strutturate, nel tempo o nello spazio, tendono a recuperare acriticamente strumenti analitici già presenti al proprio interno, come è il caso della dissepolta diade concettuale tra «identità» e «interesse nazionale», senza sottoporli però al vaglio della revisione critica e storica necessaria per il loro uti­ lizzo con temporaneo. Di qui la rinascita del «nazionalismo», deH'«etnicismo», dei valori cul­ turali profondi, del territorialismo, della mito-simbologia dei gruppi e dei popoli. Che questi temi culturali, oggi di nuovo posti al centro dell’attenzione, anche scientifica, dagli studi intemazionali, fossero sempre presenti, sia pure in posizione defilata rispetto alla centralità delle motivazioni ideologiche e istituzionali, è un dato certo e dimostrabile. Che, anzi, questi filoni di ricerca rappresentassero un momento impor­ tante della conoscenza, anche di tipo antropologico, è provato dall’uso che di questi temi venne fatto dalla letteratura politica ed economica sui processi di emancipazione e di sviluppo dei paesi del cosiddetto «Terzo Mondo», la cui necessità di trovare un'identità, dopo l'esperienza colo­ niale, portava a valorizzare proprio queste esperienze nazionali ed etni­ che (vere o presunte che fossero) contrapposte, illuminate da una valenza morale e di legittimità superiore, per definizione, rispetto al tendenziale processo di omologazione indotto dalla «modernizzazione» (Polanyi, 1974 ecc.) e daU'«imperialismo» (Hobson, 1972; Lenin, 1975; Luxemburg, 1975 Hiferding, 1966) europeo o americano, in altre parole «occidentale» (Dos Santos, Grander Frank, Amin, ecc.). Ma questa residuale attenzione alle questioni della «differenza» e della «identità», rispetto ai processi di globalizzazione istituzionale ed econo­ mica in atto nel secondo dopoguerra, era di matrice ideologica o, nel migliore dei casi, antropologica. Consisteva cioè nella rappresentazione della «differenza» in nome di una «globalità» alternativa, quella della «unità» del Terzo Mondo nelle varie forme dei «Paesi Non-Allineati», dell’unità «Tricontinentale», della «Unctad», ovvero del «New International Economie Order» o, finalmente, del programma ideologico totale delle «campagne contro le città» del mondo (Lin Piao). Il valore di acquisizione della differenza etnica, linguistica, religiosa,

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nazionale, in quella chiave ideologica, servì ad alimentare la crescita for­ male del mito originario in stati-nazione costituiti amministrativamente con la fine degli imperi coloniali europei, e privi di ogni sorta di legitti­ mazione. Ebbe quindi una funzione sussidiaria rispetto a quella ideologica, ma non in contrasto con quella, alimentando anzi, nella gran parte dei casi, la falsificazione ideologica delle realtà etniche e nazionali, sovrapponendo ad esse false identità e falsi miti originari (Ted Gurr, 1994; Schmitt, Breuilly, 1995; Gellner, 1983; Hobsbawm, 1991).

3. La rinascita di criteri analitici, come appunto il nazionalismo, l’etnicismo ed il territorialismo, non va perciò riguardata solo come la pro­ secuzione della sotterranea presenza di un basso continuo che aveva con­ servato una parte del disegno nell’insieme della rivoluzione ideologica del Novecento. Si tratta invece di strumenti nuovi, il cui uso è complesso e soggetto ad errori di sottovalutazione, ovvero di sopravvalutazione. Essi rappre­ sentano, in molti casi, non già un ritorno indietro, bensì un passo avanti nella forma della definizione dei punti di riferimento dello «sviluppo poli­ tico», vale a dire della differenziazione e crescita delle funzioni complesse di governo. In realtà la fine della guerra fredda, fra le altre cose, sta riconducendo alla necessità di identificare dei nuovi paradigmi analitici (Kuhn, 1969; Lakatos, 1970-1976) che sostituiscano quelli ormai consunti delle grandi ideologie globaliste del secolo XX, dal comuniSmo al fascismo all’istitu­ zionalismo, democratico e normativo. La costruzione di un nuovo «paradigma» scientifico, tuttavia, è il prodotto combinato dell’impiego di due formule interagenti: metodo e invenzione. In entrambi i casi si tratta di individuare delle ipotesi interpretative e di utilizzare una metodologia analitica fondata su strumenti operativi tratti anche da discipline diverse che consentano la verifica delle ipotesi assunte. Nella circostanza che ci riguarda, il metodo che è possibile uti­ lizzare, di fronte all’evidente logoramento del paradigma delle ideologie del Novecento, è, fra gli altri quello dell’intreccio fra geografia, storia e cultura che, di per sé, costituisce una griglia potenziale di lettura dello «spazio mondiale». U «invenzione », invece, è - come spesso accade - il prodotto della spe­ rimentazione delle ipotesi. In questo caso è il recupero, sotto altre vesti, delle teorie geopolitiche spaziali, sostenute però dalla analisi geostorica di breve periodo (événementielle) e di lungo termine (longue durée) (Feb-

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vre, 1922, 1980; Bloch, 1946; Braudel, 1973, 1974) tale da identificare, accanto alla diacronia degli eventi politici e sociali che si svolgono nello spazio geopolitico, contrassegnando per questa via (quindi non esclusi­ vamente spaziale) anche la loro valenza profonda (le «permanenze» e le «mentalità») che formano il substrato continuo della spazialità e della storicità, vale a dire la dimensione culturale, etno-nazionale, religiosa o mito-simbolica. Muovendo da queste premesse l’utilizzo di categorie analitiche in disuso, come sono quelle che si riferiscono ai macro-aggregati spaziali, che si pos­ sono identificare come tali per complesse ragioni di affinità geostorica e cul­ turale, può condurre all’interpretazione aggiornata, non solo delle trasfor­ mazioni strutturali avvenute nei comparti spaziali maggiori (crollo del sistema sovietico e disgregazione dell’unione), ma anche delle tendenze in atto o potenziali, sia nel senso della ulteriore frammentazione, ovvero della ricomposizione geografica e del sistema politico (Santoro: Nuovi Poli Geo­ politici, 1995). Di qui la necessità di servirsi di «metafore» tratte dalle costanti geo­ grafiche e storiche che sono alla radice della geopolitica moderna. Fra queste, in primo luogo, «Oceania» ed «Eurasia». Ci opponiamo a questa coppia di concetti perché si tratta di due metafore coagenti e non storicamente determinate, come sarebbe invece il caso, qualora volessimo parlare di Stati Uniti e di Unione Sovietica. Perfino l’uso di una terza metafora simbolica, come quella di Atlan­ tide e Eurasia per designare la vecchia diade di attori leader di blocco del duello bipolare, e in particolare l’alleanza marittima delle due sponde dell’Oceano (si vedano le origini politico-culturali di quel concetto dell'Atlantic Charter dell’agosto 1994, che fu allo stesso tempo modello di «Atlantide» della mitologia simbolica delle Nazioni Unite), non risponde compiutamente alla necessità di revisione del quadro teorico e analitico del sistema intemazionale.

4. La Comunità euro-atlantica, ovvero euro-americana, può essere defi­ nita anche con un altro nome, quello di Oceania. Meno usato del primo, Oceania è purtuttavia una «categoria dello spirito» connotata storicamente, determinata spazialmente, dotata di un linguaggio geo-strategico molto pre­ ciso (quello navalista), disegnata nel tempo da pensatori europei e ameri­ cani, anche se non va confusa come spesso è accaduto - con il concetto di Occidente. Oceania, dunque, non è un sinonimo di Occidente, ma invece una sua parziale quanto abusiva, deformazione extraeuropea. Si tratta infatti della «marittimizzazione» del concetto geopolitico, com-

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plesso di Occidente che, peraltro, è l'unico ad appartenere, anche etimolo­ gicamente, (belong to) alla grande tradizione Europea. Oceania, dunque, può essere considerata come il prodotto della vitto­ ria ideologica e politica delle grandi potenze marittime del secolo XX, il cui trionfo è stato scandito da tre guerre mondiali. La «distruzione del­ l’Europa», iniziata nel 1914, è infatti passata attraverso la sconfitta delle Grandi Potenze terrestri, Germania, Austria, Turchia e Russia. I quattro Imperi terrestri si sono dissolti nel 1918. Ha attraversato successivamente la seconda sconfitta della Germania, unico impero continentale europeo, nel 1945. Si è conclusa con la sconfitta dell'URSS, penultimo impero eura­ siatico del Novecento (oltre alla Cina), nel 1989. Oceania è quindi il parto della vittoria anglosassone, confermata dal sistema bipolare, nella duplicità degli schieramenti contrapposti che divi­ dono (distruggono) l’Europa in due parti e che si fronteggiano in per­ manenza, fino alla inevitabile sconfitta dell’uno o dell'altro. Oceania, nel secondo dopoguerra, si è tradotta in Alleanza Atlantica, mentre Eurasia per simpatia si è rispecchiata nel patto di Varsavia. Per estensione Oceania si è così investita pienamente nella parte di Occidente, mentre Eurasia, con procedimento più macchinoso, stentava ad inserirsi nel ruolo esclusivo di Oriente. Per questa ragione fondamentale una teoria della «ricostruzione» del­ l'Europa non può passare attraverso l’accettazione, ovvero l'inglobamento, del concetto di Oceania all’intemo del processo di unificazione europeo. Nella filosofia di Oceania, infatti, erroneamente intesa durante la guerra fredda come sinonimo di Occidente, non possono essere inseriti, se non con un ruolo subalterno, o meglio periferico, i paesi «continentali» del sistema euroatlantico come la Germania e, parzialmente, anche l’Italia, per non dire dei paesi minori dell’Europa Centrale e Orientale. Soprattutto adesso che lo sfaldamento del sistema Est, centrato sulla grande potenza eurasiatica russa, ha spostato nuovamente il baricen­ tro della relazione euroatlantica dall’Atlantico all'Europa Occidentale, «stirando» la relazione euroamericana ben al di là della sua capacità di tenuta indolore. In altri termini, Oceania rischia oggi di dividersi in due parti, dotate entrambe di un proprio baricentro autonomo quello ame­ ricano e quello europeo. Sarebbe la fine della rappresentazione, anche culturale, di Oceania come sistema gerarchico centrato Sull'Oceano, o negli Stati Uniti, e, quindi, ancora meno potrebbe valere la sua identi­ ficazione semantica, frequentissima durante l’età bipolare, con il con­ cetto di Occidente. Nei fatti questa tendenza di Oceania a dividersi, e a perdere quindi le sue caratteristiche unicellulari, non è da considerare negativa poiché resti-

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tuisce ad una delle sue componenti, l'Europa, la complessità originaria dei suoi elementi costitutivi che, nella concezione esclusivamente oceanica, perdevano una parte importante della loro identità e diversità.

5. Che questo problema fosse relativamente presente anche negli anni d’oro della guerra fredda è dimostrato dal fatto che la proiezione mili­ tare dell'Alleanza Atlantica, cioè la NATO, intesa come alleanza difensiva contro la minaccia orientale, aveva una strategia generale fondata su tre principi sostanzialmente diversi fra loro: da un lato il «continentalismo» aeroterrestre per la difesa dell’Europa Centrale e Settentrionale; dall’al­ tra il «navalismo», nel sistema di controllo del mare per l’organizzazione dei rifornimenti all’Europa dagli Stati Uniti, e finalmente una strategia «aeronavale» (oggi si direbbe: From the Sea) per il Fianco Sud dello schie­ ramento nel Medi terraneo. Questa diversità concettuale e strutturale è diventata essenziale dopo la caduta del Muro di Berlino. La dottrina strategica della NATO è infatti in via di trasformazione da una prevalenza «continentalista» ad una dot­ trina a «connotazione marittima», attraverso i concetti relativamente poco definiti di «intervento» con funzioni di prevenzione e deterrenza, oltre che di controllo delle crisi e dei conflitti. Gli Stati Uniti hanno anzi ela­ borato una nuova dottrina del potere marittimo che risente sempre meno delle teorie «navaliste» di Mahan (1965) e sempre più delle teorie di Cor­ bett (1988). In questo ambito di trasformazione strategica, peraltro, si manifestano, in modo più vistoso che nel passato, le contraddizioni insite nella nuova strategia NATO, che dovrebbe configurarsi come la dottrina ufficiale di Oceania. La proiezione di forza «from the sea» sui litorali e nell’entroterra con­ trasta infatti radicalmente con le necessità dell’Europa di prevenire, deterrere ed eventualmente intervenire, in aree continentali land locked come la Bosnia, o anche in territori eurasiatici molto più lontani dal mare. Esi­ ste cioè una contraddizione crescente fra le esigenze dei paesi non ocea­ nici dell’Europa, e i vincoli che la dottrina di Oceania, per sua natura, si vede costretta a imporre. Di qui la necessità di una revisione culturale profonda delle ipotesi di partenza, ma anche dei capisaldi della teoria occidentale postbellica. L'Europa, quindi, non può più essere considerata solo come una parte di Oceania, ma deve trovare un'identità più complessa e variata, sia cul­ turale che geopolitica, o geostrategica, al tempo stesso. Questa chiave d’a­ nalisi più specificamente europea potrebbe essere individuata nella cop­

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pia opposizionale dei concetti di Occidente ed Oriente. La diade «Occi­ dente-Oriente» (Mazzarino, 1989; Junger e Schmitt, 1987) riconduce infatti alla grande tradizione culturale che, dall’antichità ad oggi, ha con­ notato le relazioni all’interno del «Continente Asiatico» (Europa più Asia). Lo Schwerpunkt dell’occidente toma, quindi, ad essere collocato in Europa. La contrapposizione geopolitica fra Oceania ed Eurasia, globalista ed extraeuropea, lascerebbe spazio alla rinnovata contrapposizione fra Occidente e Oriente, centrata sull’Europa e i suoi confini.

6. Il concetto teorico di Occidente, comporta, infatti, una lettura idiosincratica della storia dell’Europa che, accoppiata a quella più nomotetica della geografia del continente, ci consente di leggere le vicende attuali in una dimensione meglio comprensibile e meno superficiale. D’altra parte la crisi delle organizzazioni internazionali create durante la guerra fredda, ha suggerito una riflessione più puntuale sul significato da attri­ buire al sistema di frameworks istituzionali, normativi e procedurali, che ormai sono sempre meno in grado di svolgere le funzioni (per non dire degli obiettivi a lungo termine) per le quali erano stati fondati e orga­ nizzati. Il collasso del sistema multilaterale ha fatto andare in crisi anche la credibilità dei riferimenti della cultura anglosassone, basati appunto sul navalismo e sul multilateralismo istituzionale, che facevano da sfondo ad Oceania (e quindi all’atlantismo), così come anche i riferimenti della cul­ tura imperiale russa che facevano da sfondo ad Eurasia (e quindi al comu­ niSmo). La de-oceanizzazione dell’occidente è tuttavia un processo appena agli inizi la cui evoluzione è molto problematica. Ma se l’Occidente è l’Europa, mentre l’America è l’estremo Occidente e gli Oceani sono stati il mezzo dell’Europa per difendersi attivamente dall’oriente, allora è chiaro che nel mondo postbipolare sarà necessario recuperare tutti gli aspetti e i riferimenti culturali dell’occidente, al di là di quelli strettamente oceanici. Sarà, in altri termini, necessario riannodare i fili dispersi della occiden­ tals continentale, difensivo-controffensiva, per alleggerire la pressione da Est la cultura del limes verso Est e verso Sud, l’austerità e l’ingegnosità del­ l’architettura militare e del pensiero ossidionale, di cui la Festung Europa è stata portatrice fin dal Basso Impero romano, fino alla gemmazione del­ l’incastellamento medievale. Sarà inoltre indispensabile finalizzare le strut­ ture della nuova Europa «ricostruita» alla conquista dei mercati e all’e­ sportazione dei valori, uscendo dal percorso obbligato del «naturalismo» economicista per recuperare la funzione «missionaria» e «liberale», anche

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attraverso l’uso nobile e ardito delle regole umane e cristiane della nuova Cavalleria. D’altro canto il procedimento è più necessario oggi che l'Occidente (e quindi l’Europa) è in grado di misurarsi con la crisi dell’Eurasia, inclusi i rischi di conflitto che tutto questo comporta. Un Occidente che si fondasse esclusivamente sulla concezione ocea­ nica, quindi marittima, del proprio messaggio culturale, sarebbe impo­ tente di fronte alla complessità culturale, etnica, strategica e geopolitica di un Oriente in fase di frammentazione e di ricomposizione, ma dotato di uno straordinario patrimonio culturale e storico al quale solo lo spes­ sore della grande tradizione occidentale europea potrebbe fornire una degna risposta. In altre parole, il processo di ricostruzione dell’Europa diventa operativo solo se è in funzione della scelta, ovvero della individuazione, di un princi­ pio motore comune che funga da ispirazione e coagulo delle energie e delle ricchezze che non può non essere quello dell'occidente, simbolo forte e ricco di spessore storico e culturale, molto più antico e più significativo del rela­ tivamente recente concetto di Oceania atlantica, e quindi dell'intera tradi­ zione angloamericana. L’azione difensivo-controffensiva della tradizione occidentale europea diventa così un fattore di rafforzamento dell’Europa e al tempo stesso un elemento di attrazione notevole da parte degli altri euro­ pei che ancora oggi navigano nel limbo di una «Europeità» contestata e con­ trastata, come dimostra anche la difficile situazione che si è creata nel nego­ ziato di adesione degli ex comunisti dell’Europa Centro Orientale alla NATO, o nell’interazione con la Federazione russa.

7. «Atlantide» infatti è stata solo la forma storica novecentesca di «Ocea­ nia». Oceania è invece un concetto più generale che non ha una vera loca­ lizzazione orientata. Si potrebbe piuttosto definirla come una concezione particolare della «spazialità», intesa come forma generale e come moda­ lità della «territorializzazione» marittima. Storicamente, infatti, Oceania è stata identificata anzitutto con le talas­ socrazie mediterranee dell’antichità, ovvero con quelle asiatiche, poi con gli imperi marittimi moderni. Più in generale, però, Oceania è una for­ mula che esprime ogni sorta di network di relazione fra le terre attraverso il mare. In altri termini, nella filosofia di Oceania è il mare che «fluidifica» le rela­ zioni territoriali, le espande varcando lo spazio fra i continenti, permette l’e­ sportazione di persone, merci, idee, civiltà, senza però consolidarle o imporle una volta per sempre. Nessun impero marittimo è infatti penetrato davvero

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a fondo nel tessuto sociale, etnico, religioso, e quindi culturale, del mondo dell’interscambio in cui si è avventurato di là dal mare. Neppure l’Occidente, che pure può essere considerato come la forma storicamente più riuscita di Oceania, è stato in grado di raggiungere la globalità, cioè una diffusione generale, e anzi una omogeneizzazione dei suoi valori e contenuti spirituali, nel corpo interno degli spazi profondi di Eurasia. Oceania è infatti diventata Occidente solo quando si è costituita come spazio marittimo fra l'Europa e il Western Hemisphere. Ma Oceania non è più Occidente quando si costituisce come spazio marittimo fra Western Hemisphere e Asia Orientale, attraverso il Bacino del Pacifico. Oceania diventa infine Oriente quando si costituisce come spazio marittimo fra Africa e Asia meridionale. I tre grandi bacini marittimi (Atlantico, Pacifico, Indiano) rappresen­ tano, quindi, in questa prospettiva analitica, le tre forme che Oceania può assumere, ed ha assunto storicamente. Tuttavia, la loro «marittimità», per il fatto di essere intercambiabile, resta alla superficie indistinguibile delle acque e non coglie appieno l’essenza dei percorsi della civilizzazione. Oceania quindi è piuttosto un metodo, ovvero un criterio epistemologico di azione politica e culturale, una modalità specifica di influenza e con­ trollo delle coste e dei litorali, ma non una modalità di conquista e domi­ nio dei continenti, che sono il cuore delle civiltà umane. Si potrebbe dire che i valori marittimi, e attraverso questi, i criteri ana­ litici e operativi di Oceania - come è il caso di tutte le talassocrazie sono di tipo «orizzontale», mentre quelli continentalisti di Eurasia hanno connotati duplici, tanto orizzontali nella spazialità delle steppe, delle fore­ ste, dei deserti, del «permafrost», quanto «verticali» nella ricognizione spazio-temporale, e quindi della sedimentazione storica, dalle montagne alle città, alla territorializzazione urbanizzata, alle frontiere e ai limes naturali e/o artificiali.

8. Oceania, quindi, non può mai prevalere a lungo e, soprattutto, non può annientare le civiltà estranee, né eliminare definitivamente le minacce permanenti che provengono dal «cuore di terra» del mondo (Heartland). Oceania è perciò un concetto, ovvero un metodo «neutrale», tecnico, che individua lo spazio marittimo in generale, senza distinzione di Ortung né di Ordnung. Non ci consente cioè di assegnare un contenuto specifico, vale a dire il «senso e lo spirito» (Geist), allo statuto concettuale di Oceania. Questa distinzione fra le tre Oceanie (Atlantico, Pacifico, Indiano), la loro diversità storico-culturale, e finalmente le loro affinità, impediscono

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infatti di riconoscere in esse una essenza unificante e uno «spirito» comune che le saldi insieme. Il controllo globale di Oceania, e perfino delle tre Oceanie in quanto articolazioni spaziali del concetto generale, è però sempre possibile attra­ verso il controllo delle linee di comunicazione marittime (istmi, capi, ecc.) e dei flussi di traffico mercantile. In questo senso, nel secolo scorso, Ocea­ nia è stata apparentemente unificata proprio attraverso il «controllo» (seacontrol), dalla Gran Bretagna e, nel Novecento, dagli Stati Uniti. Di unificazione apparente però si trattava che non scalfiva, se non mar­ ginalmente attraverso i processi di «modernizzazione» e di «occidenta­ lizzazione», il Geist, e quindi il contenuto profondo degli spazi stermi­ nati del retroterra costiero. Nessuna vera trasformazione culturale è inter­ venuta, al di là della propagazione del mercato e dei consumi, che cer­ tamente modificano comportamenti e abitudini, ma non disgregano le antiche fonti dell'identità dei popoli. In effetti è proprio l’assenza di «territorializzazione», cioè di Ortung, che impedisce, o quantomeno vincola seriamente, l'azione di Oceania, cioè del «controllore» marittimo che non è mai in grado di assegnare le forme e stabilire le regole dell’«ordinamento» spaziale e terrestre, cioè deW'Ordnung. Oceania - si potrebbe azzardare - non ha patria perché non ha Ordnung. Lo stesso diritto del mare, che parrebbe codificare in norme gene­ rali i principi del potere marittimo, così come si sono consolidati fin dal­ l’antichità, ma in particolare a partire dalle grandi scoperte geografiche del XV secolo e successivi, non ha un «centro», quindi non ha una vera patria perché è il derivato di imperi marittimi «virtuali» che, nella glo­ balizzazione del diritto del mare, hanno perduto, invece che guadagnato, la loro identità originaria. Gli esempi più singolari di questo fenomeno di dispossessamento o di alienazione dell’identità sono dati dal destino delle talassocrazie dell’antichità, ovvero del medioevo e dell’età moderna, da Creta a Cartagine, ad Atene e poi Genova e Venezia, fino al Portogallo e all’olanda e, forse oggi, all’Inghilterra. Tutte queste grandi potenze marittime, antesignane di Oceania nei Sette Mari, che hanno gettato le basi del diritto del mare, dapprima con­ suetudinario e poi pattizio, sono state ristrette e quindi ridotte a poca cosa dall’emersione di potenze terrestri che, dal fondo dei continenti, le hanno gradualmente piegate e sconfitte con la forza delle armi e della demografia. Queste considerazioni potrebbero spiegare l’apparente contraddizione che ha animato, in tutto il corso della propria storia, gli Stati Uniti, sem­ pre a cavallo fra isolazionismo ed interventismo. Perfino nel secolo XX,

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il «secolo americano», queste oscillanti perplessità non sono mai del tutto scomparse. Anzi l’isolazionismo americano (America first, firtness America) rina­ sce sempre dalle sue ceneri sotto le specie più diverse, anche quelle più recenti dell’«unilateralismo», cioè del recupero della assoluta libertà di manovra politica, nonostante le alleanze e gli impegni all’estero. L’isola­ zionismo insulare degli Stati Uniti, infatti, non è solo il frutto del pro­ vincialismo storico e discusso dell’America interna e neppure il risvolto populista e contadino che contrasta il naturale imperialismo del grande capi­ tale industriale. Ma invece, si tratta in questa lettura geopolitica, della costante e fisiologica riproduzione del dilemma irrisolto di uno «spazio orga­ nizzato» come gli Stati Uniti che sono al tempo stesso «isola» e «continente», e che da entrambi questi caratteri sono plasmati. Continental United States è la formula con cui il pensiero strategico americano si esprime quando parla di difesa territoriale degli Stati Uniti. La dimensione continentale, incluso il concetto di «Frontiera» mobile, tipico della fine del secolo scorso, contrasta con la flessibilità marittima della sua dimensione imperiale. Il con­ tinente americano è YOrtung sulla cui base si è costruito YOrdnung (il «Nomos della Terra», scriveva Schmitt, 1991 nelle sue riflessioni postbelliche). L’e­ terna tentazione isolazionista, è dunque il fondamento dell’energia ameri­ cana verso l’esterno. È una perenne «nostalgia dell’Heartland» che defini­ sce lo spazio interno in uno stato forzatamente unificato con la guerra di Secessione e sempre più preoccupato dall’equilibrio fra melting pot patriot­ tico e multiculturalismo subnazionale. È quindi la componente più genuina, perché terrestre, di un paese a filosofia marittima dominante. Mancanza di Ortung sufficientemente dimensionato e mancanza di Ordnung stabile, valido sia per il mare che per la terra, sono infatti alla radice del fallimento strategico di tutte le potenze marittime. UOrdnung, infatti, presuppone il «dominio», se non Y imperium, e non solamente il «controllo»: non scaturisce quindi solo dall’influenza o dal­ l’egemonia informale, ma invece dalla capacità di organizzazione del ter­ ritorio, anche sotto le specie dell’«equilibrio» di potenza multipolare. Che questo sia, nel lungo termine, il destino di tutte le potenze marit­ time, dall’antichità ad oggi, è storicamente dimostrato da innumerevoli casi. Quello che però non viene messo in rilievo è il fatto che spesso la causa originaria del declino è dovuta alla evidente mancanza di «spazio» interno che ha caratterizzato la gran parte delle potenze marittitme. In particolare gli imperi talassocratici hanno registrato tempi di declino più rapidi a seconda che avessero, o meno, un territorio sufficiente, oppure troppo ridotto (Portogallo, Inghilterra, Olanda, Atene, Cnosso, Genova, ecc.).

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Non esiste, in altri termini, una vera possibilità di autoprotezione nel­ l’acquisizione delle risorse, ovvero nella «self-reliance» o autosostenta­ mento, qualora il sistema di comunicazione della madrepatria con il sistema delle colonie e con l’impero venga compromesso o bloccato. Mentre gli attori con sufficiente territorio e nel contempo «insularità», ovvero «contiguità protetta», possono sopravvivere più a lungo, quelli troppo sottodimensionati o senza contiguità protetta, sono costretti a ridurre le attività patrimoniali, anche politiche e militari, gettando le basi del proprio declino tendenziale (Paul Kennedy, 1987). Inoltre la mancanza di sufficiente territorio e/o scarsità di popolazione, non sono in grado di esportare un «Modello» imperiale credibile il cui spessore risponda ad esigenze complesse, ben al di là dell’esclusiva capa­ cità di dominio militare ovvero della superiorità marittima e navale.

9. Il concetto di Oceania è dunque bifronte: rispecchia da un lato una capacità di gestione, diffusa ma limitata e sempre provvisoria, del potere globale; mentre, dall’altro lato, non risolve il problema centrale dell’Occidente, e in particolare dell’Europa, che è quello di difendersi dall’Oriente, in qualsiasi forma esso si presenti. Possiamo quindi anticipare una prima considerazione da quanto detto: Oceania, anche nella sua forma attuale, non è identificabile con il con­ cetto spazio-temporale di Occidente, che ha una valenza molto più com­ plessa e ricca di implicazioni, sia culturali che territoriali, in quanto pre­ suppone sia un Ortung che un Ordnung differenziato e radicato nella diversità naturale e organizzativa della terra (il Nomos della Terra). La frequente sovrapposizione dei due concetti, quello di Oceania e quello di Occidente, avvenuta soprattutto negli ultimi cinquanta anni, era dovuto esclusivamente al rispecchiamento della supremazia americana sull’Europa, a sua volta divisa in due dalla guerra, e minacciata da Est. Ma l’idea che Oceania, o meglio «Atlantide» per i suoi connotati euroamericani attraverso l’oceano Atlantico, rappresentasse il Geist dell’intero Occidente, è stata un’ar­ bitraria operazione riduzionista postbellica di un problema più generale. Questo è un punto di sostanza che va approfondito. L’atlantizzazione dell’occidente è stato, infatti, un fenomeno derivato dall'esplosione, nel secolo delle ideologie, del sistema del diritto pubblico europeo e della conseguente «guerra civile europea» di cui hanno scritto molti studiosi del Novecento, e in particolare Cari Schmitt, 1950, 1991 e, più recente­ mente, Ernst Nolte, 1987, 1988. La distruzione del sistema europeo ha comportato infatti una radicale rimodellazione, non solo deìl’Ordnung (dalla bilancia di potenza del

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sistema bipolare, all’ordine mondiale), ma perfino dell’Ortung che, in nome delle ideologie «ordiniste», dal comuniSmo all'istituzionalismo, è stato «de-territorializzato» assegnando allo spazio una pura e semplice funzione «virtuale» di raccordo fra informazioni e sistemi di controllo collegati fra loro dalla generalizzazione delle ideologie. In questo la relazione fra le ideologie universaliste o globaliste, dal comuniSmo all'istituzionalismo, e la filosofia del pensiero marittimo, è molto evidente. La uniformità indiscussa dello spazio marittimo induce, infatti, a considerare possibile una parallela omogeneizzazione anche dello spazio terrestre, e soprattutto l’appiattimento delle differenze, delle tradizioni, delle etnie, delle culture. La «normalizzazione» marxista è stata il massimo e involontario esem­ pio di questa trasposizione concettuale dal mare alla terra dell’ordine poli­ tico-istituzionale di origine marittima indifferenziata. Parve quindi giustificato immaginare che il nuovo «Ordnung» fosse possibile applicando le stesse regole utilizzate nella dottrina marittima del «controllo», sottovalutando quindi le diversità che sono invece la forma profonda e l’espressione interna del Geist dei popoli e dei territori. Atlantide sembrò, quindi, prefigurare un destino comune ai popoli sulle due sponde delI'Oceano che, nelle istituzioni internazionali regio­ nali e globali, trovarono il loro referente ordinativo. Di qui la filosofia profonda dell’alleanza atlantica che va ben al di là del suo pur importante contenuto difensivo rispetto alla ben identificata minaccia proveniente da Oriente. Essa consiste infatti nella «materializzazione», per così dire, del principio generale di matrice americana della «democrazia» interna­ zionale che ha fatto e fa tuttora da sfondo al processo di unificazione isti­ tuzionale dell’ONU, della NATO e dell’Unione Europea (Huntington, La 3a ondata, 1993). Ma, come già era accaduto alla Gran Bretagna nel secolo precedente, la cui supremazia politica d’origine marittima venne a conclusione con la prima guerra mondiale, che spezzò finanziariamente le reni dell'ege­ monia imperiale britannica, ora anche il modello statunitense di Atlan­ tide, forma rinnovata e specializzata del concetto più generale di Ocea­ nia, è in fase di naturale declino, forse irreversibile (Paul Kennedy, 1987).

10. Le ragioni di questo invalicabile limite e vincolo originario, sia progettuale che politico, sono però di agevole intuibilità. Le aspirazioni delle potenze marittime all’Ordnung mondiale sono costantemente fallite perché, nonostante la superiorità indiscussa delle flotte inglese e ameri­ cana nell’ottocento e nel Novecento, a queste due potenze imperiali mancò

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sempre, non solo il dominio, ma perfino il controllo concreto cioè terre­ stre, e poi aeroterrestre, di Eurasia. E, quel ch’è peggio, fece loro difetto perfino la capacità di concettualizzarlo intellettualmente. In altri termini, le grandi potenze marittime, anche gli Imperi più svi­ luppati e forti della loro superiorità tecnica, navale, culturale, avevano ed hanno tuttora un limite strutturale ineliminabile che ne condiziona l’o­ peratività e la durata. Si tratta dell’impossibilità di concepire il depotenziamento di Eurasia, intesa come quell'area territoriale che un tempo veniva definita in ter­ mini di «Tricontinente Antico». Nessun progetto imperiale delle potenze marittime, anche il più ambizioso, si è mai davvero posto storicamente il problema di «frammentare», e quindi di controllare, la World Island, e in particolare di scardinare l’unità storica dell’Heartland euro asiatico. Sono stati quindi l’impegno teorico e l’innovazione intellettuale, non certo le risorse, a mancare costantemente nella progettualità delle varie forme di Oceania politica che si sono succedute nella storia. Oggi, ancora una volta, questa impotenza intellettuale è più che evi­ dente in relazione alla fine del bipolarismo, alla crisi dell’impero russo­ sovietico, e all’evidente logoramento dello storico vincolo fra le parti di Atlantide (Europa e Nord America). Ne d’altra parte poteva essere altrimenti perché la dottrina del potere marittimo non prevede in alcun modo la possibilità di penetrare in Hear­ tland, come già sapeva Sir Halford Mackinder fin dal 1904, o prima di lui Friedrich Ratzel (1923) e gli altri progenitori della geopolitica tedesca. Il valore negativo di questa carenza concettuale è dato dalla dimostrata incapacità di liquidare una volta per tutte la più seria e permanente minac­ cia che l'ipotesi dell’unificazione politica del Tricontinente (Eurasia + Africa) fa planare sulla sicurezza di tutti gli attori operanti nel sistema internazionale. Il rischio dell’unificazione imperiale diretta, cioè dell’occupazione terri­ toriale di Eurasia (più Africa) da parte di un attore centrale che muova dal «cuore del mondo» (Heartland) ovvero che di Heartland si impadronisca è stato corso più di una volta da parte dell’umanità. In termini generali l’e­ sperienza più vistosa è stata quella dei due imperi mongoli di Gengis Khan e Kubilay Khan nel secolo XIII (Liddell Hart, 197,1990, pp. 3-34). In que­ sto caso la dimensione territoriale organizzata fu la più estesa che la sto­ ria ricordi. Ma molti altri esempi di progetto di unificazione del Tricontinente sono stati avviati, anche se non provenienti dal cuore della terra dell’«Isola del Mondo», a cominciare dagli imperi «virtuali» dell’IsIam, o di quello ideologico come quello sovietico.

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In effetti, le spinte espansive di tipo imperiale che partono dall’interno di Eurasia, cioè da zone non marittime, né costiere, tendono ad assumere - ove possibile - delle dimensioni crescenti, che possono essere arrestate esclusivamente con gli strumenti della contrapposizione politico-militare. Ogni forma di reazione basata su opere difensive, fortificazioni, valli, muraglie, o altro, ha bisogno di una costante vigilanza che comporta la mobilitazione permanente delle risorse, con la conseguenza che ben dif­ ficilmente una linea di «contenimento» tipica delle potenze marittime potrà raggiungere lo scopo perché è, mediamente, molto più dispendiosa, e può essere quindi mantenuta in efficienza solo per periodi di tempo limitati. Queste considerazioni di ordine generale fanno si che l'utilizzo di una concezione politica internazionale mutuata dalle teorie del potere marit­ timo e dalle talassocrazie, diventi antieconomico e, tutto sommato, con­ troproducente se applicato da attori che operano in aree peninsulari, ovvero nelle «Rimlands» di Eurasia. Di qui la contraddizione che esiste, anche all’intemo della comunità di attori euro-americani che definiamo, per comodità, col nome di Occi­ dente, fra gli attori «insulari» ovvero a contiguità protetta, e quelli «penin­ sulari» o «continentali». Il sistema di protezione basato su meccanismi di sicurezza collettiva, o di alleanza, che ha salvaguardato la comunità di Atlantide durante il mezzo secolo postbellico, fondato sulla deterrenza nucleare e su quella convenzionale legittimata e resa credibile dalla presenza di 300 mila sol­ dati americani sul continente europeo, si è dissolto nel momento in cui la fine del bipolarismo ha restituito legittimità alla variabilità delle fron­ tiere nazionali (riunificazione della Germania e dissoluzione della Jugo­ slavia e dell’URSS). Sono di nuovo presenti le diversità di condizione che sussistono fra paesi «insulari» (come gli Stati Uniti) e paesi «peninsulari» (come l’Eu­ ropa). La dottrina del containment, immaginata e definita per contrastare la minaccia sovietica al corpo di spedizione americano in Europa Occi­ dentale (la NATO), non ha più successo. I nuovi rischi potenziali riguar­ dano gli Stati Uniti e l’Europa in modi profondamente diversi. Per gli Stati Uniti la parcellizzazione di Eurasia non è necessaria per­ ché l’attore centrale di Eurasia (la Russia e, forse domani anche l’india e la Cina) sia relativamente debole e sulla difensiva. Per l’Europa, invece, la dislocazione dell’unità eurasiatica è condizione essenziale di sopravvivenza del continente europeo. Di qui la fragilità congenita della dottrina politica degli Imperi marit­ timi che, a fronte delle necessità degli Imperi terrestri, hanno sempre

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dimostrato un'incapacità strutturale non solo a governare la landmass eurasiatica con la sua appendice africana, ma perfino a concepirne la dimensione e le sue leggi di movimento. Il tentativo inglese di controllare l’Africa, ad esempio, che è uno dei tre perni spaziali di Eurasia, vale a dire del Tricontinente Antico (Europa, Africa, Asia), la World Island di Mackinder, andò a buon fine, solo par­ zialmente e per pochi decenni al tempo della guerra contro i Boeri dei primi del secolo, che completò l’asse Nord-Sud dall’Egitto al Capo e disin­ nescò la minaccia francese con Xentente cordiale del 1904. Tuttavia, non riuscì mai a realizzarsi quel disegno di legare la fascia meri­ dionale dell’Asia, da Suez all'india alla Cina, secondo perno della trìade spa­ ziale, in una catena di dominio inglese permanente, nonostante la vittoria di Pirro inglese nella prima guerra mondiale. L'Asia interna, e l’Eurasia in particolare, non vennero mai intaccate dal predominio inglese sulle Rimlands, nonostante le traversie dell’impero zari­ sta, del potere bolscevico e della Cina rivoluzionaria. Quanto all’Europa, terzo perno di forza di Eurasia, gli Inglesi non aspi­ rarono neppure alla sua egemonia, ma solo al controllo (riuscito) del Medi­ terraneo e all’equilibrio di potenza continentale (definitivamente fallito nel 1914) fra i maggiori attori europei. La presenza della Germania, a partire dal 1871, e la sua naturale aspirazione alla Weltmacht, rese tutto più diffi­ cile, e il sogno britannico irrealizzabile. La sostanziale «casualità» della politica imperiale britannica, intesa come prodotto del potere marittimo dell’Inghilterra, è facilmente rileva­ bile dalla rappresentazione cartografica della distribuzione spaziale delle colonie e dalla loro graduale espansione nel corso degli anni. Lo stesso dicasi per l’egemonia marittima statunitense nel secolo XX. Gli Stati Uniti hanno infatti tentato di esercitare il dominio marittimo con maggiore sistematicità e con una ideologia politico-mercantile più coerente di quanto non avessero gli Inglesi i quali, empiricamente, ave­ vano gradualmente allargato la loro influenza per via incrementale attra­ verso le guerre europee e con lo strumento funzionale della loro appen­ dice coloniale, fino allo smantellamento degli Imperi coloniali precedenti e all’occupazione dei punti di controllo e rifornimento o commercio nelle diverse parti del mondo (Williams, 1972; Lafeber, 1963, ecc.). La dottrina americana, però, nella sua ambivalenza «insulare» e «conti­ nentale» oscillò sempre fra isolazionismo e interventismo, senza peraltro abbandonare mai del tutto, anche nel corso delle tre guerre mondiali del Novecento la concezione classica del potere marittimo basato sull’allinea­ mento fra «sea-control» e «From the Sea», vale a dire fra dominio del mare (Mahan, 1965) e proiezione sui litorali di corpi di spedizione (Corbett, 1988).

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È sufficiente esaminare la pianificazione strategica statunitense fra la fine dell’ottocento e oggi per rendersi conto della assoluta fedeltà statu­ nitense ai criteri del navalismo (oggi aeronavalismo).1 Così come è sufficiente analizzare il comportamento politico americano nei confronti delle maggiori Potenze di Eurasia nel corso della loro storia (Russia, Cina, India) per verificare la strategia del «containment» (Gaddis, 1982) come Ersatz della strategia continentalista del tutto assente.

11. Tuttavia la strategia americana che pure, fin dalla fine del secolo passato, aveva risolto una volta per tutte il problema dell’indipendenza continentale con la Dottrina Monroe del 1823, quello della forma dello stato con la guerra di Secessione, quello del completamento spaziale con la conquista graduale e conflittuale della Frontiera mobile verso il West e il Far West, quello dell’area di influenza con l’egemonia nei Caraibi e in America Centrale, nonché con l'irraggiamento politico e commerciale sull’America Meridionale, aveva pianificato più razionalmente il suo pro­ getto strategico escludendo per principio il coinvolgimento permanente negli affari di Eurasia. Proprio per questa utopia il fallimento probabile del Modello americano sarebbe tanto più grave di quello inglese per il destino dell’occidente. L’ipotesi di partenza infatti era sempre quella della futura centralità geo­ politica globale del Western Hemisphere, basata su una strategia del potere marittimo che si sarebbe diramata dal cuore insulare del continente ame­ ricano, capace di autosostenersi, come le ali di una farfalla, sia verso il bacino del Pacifico sia verso l’Atlantico. Si trattava, in sostanza, di spostare il «centro» della potenza mondiale dall’Europa agli Stati Uniti, trasformando il Far West americano (rispetto all'occidente europeo) in Occidente tout court. In questa ottica l'Europa avrebbe assunto un ruolo, dapprima paritario ma poi subalterno, di posta­ zione territoriale avanzata, una vera e propria testa di ponte, dell’Occidente verso Eurasia perdendo così la primogenitura e le differenze cul­ turali, storiche, politiche, etniche, ecc., nel grande calderone (melting pot) americano dilatato all’Europa, che avrebbe omogeneizzato e «normaliz­ zato» l’intero Occidente. Tuttavia, si trattava sempre di una strategia tipica delle potenze marit­ time, diretta cioè alla conquista dell’egemonia e non del dominio. In

1 (Henig, 1976 che mette a confronto le strategie navali di Germania e Stati Uniti fra il 1889 e il 1941; Plan Orange e la pianificazione nel Pacifico; Kirkpatrick, 1990)

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entrambi i casi si trattava di « imperium» ma nel primo il sistema impe­ riale si reggeva sul controllo e il contenimento mentre il secondo esige l’occupazione e, forse, lo stanziamento. La terza opzione possibile è anch’essa di origine «egemonica». Essa con­ siste nel praticare la formula politica del «divide et impera» secondo il Modello classico degli Imperi coloniali (e territoriali) delle potenze europee. Ma per gli Stati Uniti questo Modello è sempre stato inaccettabile per ragioni culturali ed etiche. Nessuna dislocazione diretta a indebolire l’av­ versario potenziale è auspicabile. Come accadde per la Cina prima della prima guerra mondiale, con l’URSS dopo la seconda e la terza guerra mondiale, Eurasia non va intac­ cata o troppo indebolita perché il rischio di un confronto a lunga distanza con armi nucleari è l'unico pericolo percepito dagli Stati Uniti. Le ragioni di questo inconsapevole disegno erano solide e il secolo XX, secolo delle ideologie, ne offrì il motivo e l’occasione immediata. Tre guerre mondiali, combattute principalmente in Europa, giustifica­ rono la costruzione di un Occidente guidato dagli Stati Uniti, il cui bari­ centro si era spostato dalla Germania, che a partire dal 1871 era diven­ tata lo Schwerpunkt dell’Europa, al centro dell’Atlantico e poi, gradual­ mente, fin sulla Costa Orientale degli USA. Tuttavia l’impero marittimo americano voleva diventare, ed era, un Impero quasi globale i cui interessi non si limitavano ad Atlantide, ma erano altrettanto importanti nel Pacifico e, a partire dagli anni Settanta di questo secolo, anche nel terzo bacino di Oceania, quello indiano. Tale progetto globale di lungo termine si era articolato dapprima attra­ verso la costruzione della doppia flotta (Atlantico-Pacifico) per arrivare, negli anni '70 del Novecento, alla ideazione e formazione del Central Com­ mand per l’Oceano Indiano. La rappresentazione fisica di questa filoso­ fia politica venne data dal suo sistema di comunicazione interoceanico, cioè dalla costruzione del Canale di Panama, anch’esso un rispecchia­ mento consapevole del taglio dell’istmo di Suez di cui gli Inglesi tardiva­ mente, percepirono l’importanza, la cui ideologia globale, valida in un primo tempo soprattutto per l’«ala del Pacifico», riposava sui principi della Open Door Policy e sull'«apertura» del Giappone e della Cina. L'«ala atlantica», invece, prese le mosse dall’inserimento degli Stati Uniti nella grande politica delle Conferenze europee, all’epoca di Theodore Roo­ sevelt, a Versailles nel 1919, per poi consolidarsi definitivamente dopo il 1945. Non è infatti un caso che i perni di controllo oceanico delle potenze marittime globali siano sempre stati i passaggi territoriali obbligati, e in particolare i «canali» artificiali, come quello di Suez per gli Inglesi e quello di Panama per gli Americani.

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Risalendo più indietro nel tempo è possibile analizzare da vicino la funzione politica degli «stretti», dai Dardanelli a Gibilterra per i Bizan­ tini e gli Arabi, ovvero quello di Malacca per le talassocrazie antiche e medioevali dell’Asia Sud Orientale. Le tre guerre mondiali del Novecento, due calde e una fredda, permi­ sero così agli Stati Uniti di penetrare egemonicamente in Europa, ridu­ cendo al ruolo di satellite la Gran Bretagna e a quello di potenza scon­ fitta prima, e poi per necessità di baluardo centrale del sistema dell’Eu­ ropa Occidentale atlantica, la Germania Ovest. Di qui la nascita del «sistema atlantico» (Atlantide), forma parziale e soluzione provvisoria del sistema Oceania, spesso arbitrariamente iden­ tificato come «Sistema Occidentale» che, nonostante la sua presunta «glo­ balità», non è riuscito a costituirsi saldamente in struttura spaziale defi­ nitiva, altro che per brevissimi periodi, prima e dopo la fase di prevalenza del bipolarismo, nel 1945-47, e poi ancora una volta nel 1991-92. In realtà quell’astratto concetto di Oceania, intesa come sinonimo di Occi­ dente, non si è realizzato né con gli Inglesi né con gli Americani, poiché facevano difetto sia le premesse funzionali che quelle territoriali dell’ope­ razione. In altri termini perché mancavano di corporeità spazio-temporale. Ma soprattutto erano assenti le coordinate concettuali e la base filo­ sofica che desse consapevolezza alla necessità storica di esercitare il con­ trollo sulla landmass eurasiatica, con l’obiettivo primario di sgretolarne l’unità, attraverso la liquidazione delle organizzazioni multinazionali di tipo imperiale russa, cinese e indiana, così da eliminare una volta per tutte la minaccia permanente che l’Oriente eurasiatico fa gravitare sull’Occidente europeo.

12. Questo è il punto centrale di tutta la nostra argomentazione. Con una metafora si potrebbe dire che l'incapacità intellettuale della «balena» di farsi «orso» ne ha ridimensionato storicamente il potere, e soprattutto ne ha ridotto il tempo di sopravvivenza. Costretta ad aggirarsi nelle tre «vasche» oceaniche (atlantica, pacifica e indiana) senza poterne mai uscire, la potenza marittima globale, anche gli Stati Uniti, vive come gli squali con la necessità di muoversi ininter­ rottamente in un eterno girotondo che non ha destino. La differenza con la speculare potenza terrestre globale, detentrice del controllo di Eurasia risiede nel fatto che per Oceania non esiste alcuna pos­ sibilità di penetrare in Eurasia, altro che attraverso i litorali e per poche centinaia di miglia dal mare, mentre per Eurasia la contiguità territoriale che il Tricontinente (Eurasia + Africa) è ininterrotta. Si tratterà cioè di per­

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seguire il disegno fino in fondo per raggiungere il risultato. Caduto il Tri­ continente, le Isole e le Rimlands dell'«Inner» e dell’«Outer Crescent» (Mackinder e Spykman) perderanno la loro capacità di sopravvivenza (vedi i Rapporti del Gruppo EF in Diffidence and Ambition in Santoro, 1987,1992). In altri termini, mentre Eurasia potrà sempre sopravvivere come Impero Terrestre Tricontinentale, Oceania è costretta a contenere Eura­ sia senza poterla mai sottomettere però, per poter sopravvivere essa stessa. Già Clausewitz (On War, III, 17, p. 220) aveva messo in rilievo, anche nello scritto sulla «Campagna del 1812» (Clausewitz 1858, voi. 7 Berlino), che «un paese di quella taglia non può essere conquistato e ... che le pro­ spettive di un eventuale successo non sempre diminuiscono in propor­ zione alle battaglie perdute, capitali catturate e provincie occupate ...» {ibidem, cit. in Wallach, 1986, p. 265). L’identità geografica, storica, politica, militare, dell’occidente e in par­ ticolare dell’Europa risiede, infatti, essenzialmente nelle modalità di sopravvivenza della sua civiltà difronte alle pressioni e agli attacchi pro­ venienti da Est. Questo «progetto di sopravvivenza» - come è stato natu­ rale - ha avuto conferme e riprove in molti momenti della storia dell’Occidente come fine e contenuto stesso della storia europea almeno a partire dall’età carolingia. La «ricostruzione» dell’Europa è quindi un pro­ getto di recupero e ridefinizione dell'identità attraverso la verifica del cuore della sua civiltà autoctona che il continente ha prodotto nei secoli. Tuttavia un’identità basata sulla pura sopravvivenza, non basta. Tale condizione difensiva ha infatti uno statuto fragile. È sottoposta al costante rischio di venire travolta o sopraffatta, periodicamente, dalla spinta dell’Oriente. È però ipotizzabile un’inversione di marcia, vale a dire che, dopo un’in­ terminabile fase «difensiva», l’Occidente potrebbe pensare di passare ad una fase «controffensiva». Non ci fu mai una capacità politico-militare europea che non fosse difensiva. Per cui i viaggiatori medievali che percorrevano, rari e sper­ duti, a ritroso la «via della seta e delle spezie», erano così isolati fram­ mentari episodi che punteggiavano un'assenza invece che una presenza dell’occidente in Oriente. Per avere una dimostrazione di questa sostanziale difensività dell'Eu­ ropa, basterà tener presente che nel lungo periodo che va dalla caduta dell'impero Romano di Occidente fino alle prime esplorazioni marittime di Vasco de Gama, cioè per circa mille anni, solo pochi viaggiatori si avventurarono nel cuore di Eurasia per via di terra, in particolare Gio­ vanni de Piano Carpini nel 1245-1247, William of Rubruck pochi anni dopo (1253-1255) e Marco Polo, fra il 1271 e il 1275.

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Vale a dire che nei 1000 anni che vanno dal 476 al 1498 mentre i grandi flussi di migrazione e invasione da Oriente, i Volkervanderungen, tocca­ vano il loro apice con ondate successive di marea contro i bastioni della Fortezza Europa, gli episodi di segno contrario furono infinitesimali e quasi nulli. Lo spirito «controffensivo» di penetrazione in Eurasia e nella sua forma più politica e meno militare di destabilizzazione della sua minacciosa unità politica e culturale, è rimasto quasi del tutto assente anche nei periodi più alti del colonialismo europeo. L'identità attraverso la sopravvivenza e l’irraggiamento della propria civiltà è stato il paradigma storico della vita dell’Europa sin dai secoli bui dell’Alto Medioevo e poi di quelli delle sue diverse «Rinascenze», a par­ tire dal secolo XII. Il suo limite perenne e invalicabile è stato però quello di non avere altro che le forze per resistere alla minaccia da Est, inventando volta per volta le forme della sua indipendenza conflittuale. In altre parole si trattò di una politica difensiva da Festung Europa, iniziata con la fondazione dell’impero Carolingio, compensata poi dalla politica marittima, prima verso le sponde Sud ed Est del Mediterraneo (Repubbliche Marinare Italiane e la lunga stagione delle Crociate), poi verso gli Oceani, con l’età delle grandi scoperte geografiche e la forma­ zione dei primi imperi coloniali (Portoghesi, Olandesi, Spagnoli, Inglesi, Francesi). Oggi, ancora una volta, l’Occidente ha l’occasione di prendere l’ini­ ziativa. È chiaro però che una operazione di questa natura, che non può essere altro che culturale, necessita di una ben più radicata identifica­ zione territoriale, quindi di un ragionamento sulle frontiere del conti­ nente, di una percezione collettiva dello «spirito» dell’Europa e, final­ mente di una netta distinzione dell’occidente nelle sue due parti (Europa da una parte e America dall’altra) che la filosofia oceanica di Atlantide non poteva neppure lontanamente ipotizzare. In altri termini, allargando il ventaglio delle opzioni geopolitiche e strategiche, da quelle del potere marittimo integrale, tipiche della tradi­ zione anglo-americana, ovvero a quelle di matrice continentalista della Festung Europa a geometria variabile (dilatazione o contrazione dello spazio) tipico della tradizione germanica e alto imperiale, per passare ad un modello «misto» di interazione marittimo-terrestre, integrato dalla terza dimensione verticale del potere aereo, inteso come teoria della deter­ renza nucleare e del controllo dello spazio, le possibilità di un’azione effi­ cace dell'occidente europeo nei confronti della permanente minaccia da Oriente non sono del tutto da scartare.

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L’ipotesi della prevalenza assoluta di un modello sull’altro (potere marittimo vs. potere terrestre), data l’assenza di autonomia geopolitica del potere aereo, sarebbe ormai insufficiente, sia a rendere permanente l’egemonia dell’uno sull’altro, sia a risolvere una volta per tutte il pro­ blema dell’«eccesso di gravità» di Eurasia intesa come Oriente rispetto all’occidente.

13. Vale infatti il caso di rileggere analiticamente le esperienze delle grandi «avventure» politico-militari Occidentali del passato che hanno tentato di contrastare Eurasia adottando una strategia che potremmo definire di «compellenza» controffensiva, o meglio di tipo «preemptive» contro l’Oriente, basate essenzialmente sui modelli classici del tipo ter­ restre e/o continentale. Ognuno di questi grandi progetti utopici di «con­ quista» di Eurasia ha rivelato infatti la sua impossibilità congenita di vit­ toria che quelle operazioni auspicavano. Peraltro, gli esempi di penetrazione profonda nella massa eurasiatica da Ovest verso Est, nel tentativo di prevenire una minaccia permanente di segno contrario anticipandone l’occorrenza, sono stati relativamente pochi. I più significativi, dei quali sarebbe opportuno riesaminare atten­ tamente i caratteri, sono stati quelli di Alessandro Magno, di Napoleone Bonaparte e di Adolf Hitler. In tutti e tre questi tentativi di conquista di Eurasia, in cui l’uso dello spazio inteso come soluzione politica e mili­ tare del problema geopolitico fondamentale, quello del controllo di Hear­ tland, è stato l’obiettivo primario dell’azione, l’Occidente è stato in qual­ che momento, molto vicino al successo. Nel caso di Alessandro Magno, anzi, il caso ha voluto che l’opera del Macedone s’interrompesse per causa naturale, e non certo per la forza di reazione di Eurasia, anche se, ancor prima della sua morte le difficoltà «spaziali» di tipo logistico e perfino di natura psicologica si erano già mani­ festate creando problemi non secondari all’esercito. Basterà pensare ad alcune delle defatiganti operazioni condotte nella fascia meridionale del­ l’Arabia, ovvero a quelle di controllo territoriale verso la Battriana e Tantimurale dell’indo, per comprendere come l'intuizione strategica di Ales­ sandro Magno fosse giusta, mentre la capacità di realizzazione, in termini di risorse, uomini e tecnologie, fosse assai al di sotto delle necessità. Lo stesso dicasi per l’avventura di Napoleone Bonaparte il cui falli­ mento riposa più sulla debolezza dell’intuizione strategica e le incertezze dopo l’occupazione di Mosca, che non sulle capacità russe di imbastire un progetto controffensivo diverso dal tradizionale meccanismo del trade­ off fra spazio e tempo.

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Ancora più vicina al successo è stata, infine, l’operazione Barbarossa, nel 1941, interrotta solo dalla fatale decisione del Fuehrer di distrarre le forze corazzate dall’occupazione della linea Mosca-Gorky, orientandole verso l’Ucraina (Stolfi, 1991). L’impossibilità teorica di invadere e occupare, più o meno stabilmente, il «cuore della terra» è infatti un vincolo del tutto astratto, annidato nella cultura collettiva dell’Europa ed è una conseguenza psicologica del timore storico dell’invasione da Est. Non esistono infatti ostacoli naturali dav­ vero insormontabili che interrompano la continuità territoriale di Eura­ sia da Ovest verso Est. Non sono certo un ostacolo di qualche rilievo i Monti Urali, ma non lo sono neppure le popolazioni dell’area divise tra etnie e nazionalità diverse spesso unificate solo dall’odio antirusso. D'altra parte la relativa facilità con cui sono avvenute le invasioni di segno opposto, quelle da Est verso Ovest, che periodicamente hanno sfondato le difese dell'Europa, a partire dalla preistoria fino al secolo XX, fanno supporre che quel vincolo ipotetico non sia assoluto. È evi­ dente però che se è stato più facile per l’Oriente, nelle sue diverse forme, invadere l’Occidente e l'Europa che di esso è la «madre patria», che non il suo contrario, debbono esserci delle ragioni più profonde e meno visi­ bili. L'ipotesi interpretativa che attribuisce la «superiorità» dinamica dell’Oriente al differenziale demografico rispetto all'occidente non pare abbia troppa consistenza. In termini assoluti, infatti, e anche in termini di rap­ porto fra popolazione e territorio, a partire dalla preistoria, il differenziale demografico fra Oriente e Occidente, se misurato sulla base del numero degli «invasori» rispetto al numero degli «invasi» non ha mai rappresentato un vero salto quantitativo. Al contrario, in molti casi, come durante i secoli del Vòlkerwondereng, i numeri sono tutti a favore degli «invasi» rispetto a quelli degli «invasori». Lo dimostrano gli studi sulle invasioni barbariche in seno all’impero Romano, nelle successive ondate, dalle prime tribù Germaniche a quelle Unne, Slave, Arabe, Vichinghe, Mongolo-Tartare, ecc. Certo il differenziale esisteva, ma era di tipo essenzialmente militare (Car­ dini, 1982; Delbrùck, 1975, ecc.). nel senso che la superiorità militare dell’Oriente era legata alla diversa dimensione culturale dello spazio nelle due categorie di abitanti di Eurasia, quella ristretta e difensiva di Europa e quella ampia e offensiva dell’Heartland asiatico. I cavalieri della steppa e gli opliti di Alessandro Magno non avevano la stessa filosofia della guerra e il risul­ tato dello scontro fra Napoleone e Kutuzov, ovvero fra Hitler e Stalin ben dif­ ficilmente avrebbe potuto essere diverso.

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Tuttavia anche questo differenziale non è decisivo. È più facile imma­ ginare una concezione strategica occidentale vincente, basata su criteri tecnologici e dottrinali mutuati dalla grande tradizione della cavalleria nomadica asiatica per vincere Eurasia e l’Oriente (Liddell Hart, 1954), con la teoria della Blitzkrieg, soprattutto se accompagnata dallo stru­ mento innovatore della deterrenza nucleare (Freedman, 1981; Gray, 1977; Kahn, 1962; Kissinger, 1957; Schelling, 1960, ecc.), che non una nuova invasione dell’occidente basata sui differenziali di forza, di popolazione e di risorse e materie prime. Quello che è sempre mancato nel pensiero politico, geopolitico e stra­ tegico occidentale, e che ha «fatto la differenza», è stata la capacità di concepire l’Asia come una moltitudine frammentata di «Asia» diverse. Il «cuore della terra» del mondo, infatti, è stato sempre interpretato come un unicum, quindi unitario e indivisibile. Qualcosa che, aprioristicamente, veniva dato per omogeneo, organizzato, privo di vere differenziazioni. È stato probabilmente questo il vero «asset» dal cuore asiatico dell’«Isola del Mondo», quello cioè di aver fatto credere che si trattasse di un tutto omogeneo, caratterizzato dalla mitologia truce e spaventata della tradizione, storica e leggendaria insieme, delle invasioni barbariche provenienti da Est. Questo assioma, indimostrabile ma indiscusso, ha comportato che difronte alla minaccia permanente da Est, le opzioni di risposta si ridu­ cessero a due: a) quello della strategia difensiva, basata su difese fisse, regionali, con­ cessioni, difesa flessibile, ecc. b) quello della strategia offensiva, basata sul tentativo di invadere, penetrare e occupare l’Heartland sostituendo così il potere unitario del­ l'Europa a quello unitario dell’oriente.

Quest’ultima opzione soffriva di quei limiti che abbiamo sin qui elen­ cato (differenziale strategico e, al tempo stesso, differenziale demogra­ fico nel momento in cui si fosse voluto occupare militarmente Eurasia), mentre la prima scontava la permanenza della minaccia e il rischio con­ creto di invasione. Erano entrambe delle opzioni sbagliate dovute soprattutto al limite culturale della diversa concezione dello spazio fra Europei e Asiatici. In particolare dello spazio territoriale, terrestre quindi, che per gli Europei è misurabile in miglia o chilometri mentre per l’Eurasia è misurabile in centinaia di miglia e chilometri. Nel passato anche recente (Alessandro Magno, i Crociati, Napoleone, Guglielmo II e Hitler) infatti la controffensiva venne tentata con l’obiet­

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tivo di conquistare territorialmente Eurasia, o parti di essa, senza peral­ tro distruggerne l’unità, ma invece cercando di sostituire agli Imperi eura­ siatici un Impero occidentale. Si pensi alla vasta letteratura relativa a quelle imprese «imperialiste» del passato per rendersi conto di quanto fosse radicato questo inarrivabile progetto. Non sorprenda perciò che tutti questi tentativi di controffensiva finis­ sero miseramente, né che in breve tempo dopo il fallimento del tentativo il vento riprendesse a soffiare come sempre da Est verso Ovest. Né poteva essere altrimenti se consideriamo il fatto che l’ipotetica vittoria occiden­ tale in Eurasia aveva l’ambizione di costruire un vasto Impero che, in sostanza, non avrebbe avuto altro effetto che quello di tenere in piedi l’u­ nità eurasiatica, sia pure sotto altra guida politica, creando così le premesse del suo stesso rovesciamento, per evidenti ragioni di squilibrio del bari­ centro territoriale.

14. In effetti la sproporzione fra terra, risorse e uomini esistente nelle due parti di Eurasia, un piccolo Occidente confinato nella penisola euro­ pea e un grande Oriente disteso fino a coprire oltre il 20% della superfi­ cie del mondo, rendeva impossibile la sua conquista territoriale defini­ tiva, e soprattutto inimmaginabile la sua conquista politica e culturale da parte del primo sul secondo. Già nell’antichità questo rischio era apparso molto concreto, in parti­ colare quando Alessandro il Macedone, disfatto l’impero persiano ed entrato in India, cominciò ad essere suggestionato dall’attrazione dell’Oriente trasformando la sua stessa figura guerresca di «re-militare», mace­ done e occidentale, in quella di «imperatore-dio» persiano orientale, fino ad abbracciare l’utopia della unificazione definitiva fra Oriente e Occi­ dente (Green, 1991; Bosworth, 1993; Fox, 1973, 1981). Lo stesso dicasi per gli imperatori romani del III secolo, e successivi, che si «orientaliz­ zarono» gradualmente indebolendo il carattere originario occidentale­ mediterraneo di Roma, città dell’Ovest, che si era forgiata appunto in una serie di guerre contro il Sud (Cartagine) e contro l’Est (Macedoni, Greci e Persiani). Il limite di queste grandi strategie di conquista consisteva, inoltre, nel fatto che si trattava di ipotesi basate essenzialmente sul modello terrestre e continentalista, cioè qualcosa che contrastava radicalmente con il modello sulla base del quale gli Occidentali, proiettati alla controffensiva verso Est o Sud, conservavano involontariamente pur sempre l'imprinting difensivi­ sta che gli era stato impresso dalla necessità di difendersi permanentemente dall’oriente.

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Mancavano quindi della capacità, tipica degli imperi nomadici (Chaliand, 1995), di utilizzare il territorio quasi fosse un oceano, praticando strategie di conquista di tipo marittimo, come già fecero gli Unni, gli Ungari in seguito, e i Mongoli soprattutto, molto dopo di loro. Gli strateghi dell'occidente, invece, sono sempre stati condizionati dalla loro esperienza storica di popolazioni sedentarie ed agricole, che hanno bisogno di un centro, di confini, di segnali di rappresentazione e differenziazione del territorio. Tutto questo rallenta ogni avanzata, sta­ bilisce una struttura dell'attacco per tappe sempre troppo corte (vedasi Napoleone e Hitler), riduce l’energia con frequenti arresti, ma soprattutto richiede spreco di risorse per garantirsi l’acquisizione del suolo. Truppe di occupazione si disperdono nella costruzione di fortezze, nel presidio delle città, nella protezione dei fianchi esposti. Mancano, in altre parole, della necessaria «marittimità» terrestre di cui disponevano i popoli noma­ dici (Liddel Hart, 1954, 1967). Le potenze marittime, peraltro, soffrono del problema opposto. Per quanto forti possano essere, sia sul terreno militare che economico (gli Stati Uniti nel 1945 avevano messo in campo oltre 12 milioni di soldati e producevano il 40% del PIL mondiale) esse non sanno immaginare, nep­ pure concettualmente, la conquista e l’amministrazione, ovvero la suddivisione gerarchica dei grandi Imperi continentali. In questo senso sono di straordinario interesse le esperienze delle occu­ pazioni militari post belliche da parte delle potenze vincitrici in Europa e in Giappone. Il carattere provvisorio di queste occupazioni, la loro labi­ lità era dovuta al fatto che l’impegno di quelle occupazioni era svolto da eserciti di potenze marittime (gli anglo-americani) la cui influenza era destinata ad essere essenzialmente ideologica, trasferendo a popolazioni di cultura e tradizione continentale le proprie tradizioni di tipo mercan­ tile e/o politico democratico liberale. La liberaldemocrazia è infatti, in tutte le sue versioni, una forma storica della classica concezione marittima oceanica (Gray, 1992). Nel senso che introduce all’interno della logica terrestre della suddi­ visione spaziale, delle frontiere, del limes e della fortezza, la logica mer­ cantile del libero scambio, del diritto di accesso, dell’informazione, della suddivisione atomistica del potere di contro alla concentrazione con­ trapposta e autoritaria della protezione, del dazio, della corporazione di mestiere. Per queste ragioni la presenza degli anglosassoni in Germania o in Giappone è stata labile. Perfino in Giappone, dove l’intero ordinamento costituzionale venne sottoposto a radicale trasformazione, l’influenza cul­ turale profonda è stata limitata.

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Il controllo marittimo infatti, di per sé, è labile e sempre provvisorio, se non è accompagnato dalla possibilità di concepire operazioni «miste», aeroterrestri e aeronavali, tali da assicurare il controllo non solo delle coste e del retroterra, ma anche del «cuore di terra» del mondo, la cui invulnerabilità è la fonte primaria e permanente di nuovi conflitti e minacce (From the Sea).

15. L’egemonia americana in Europa occidentale, e poi centrale, è stata ottenuta a seguito delle tre guerre mondiali, ma essa è ora a rischio per la fragilità concettuale statunitense (l’ONU è una caricatura di ordine mon­ diale sopravvissuto alla seconda guerra mondiale) e per il ritorno natu­ rale degli Stati Uniti alla loro tradizionale concezione insulare, e oggi unilateralista (non quindi neoisolazionista), dopo il lungo periodo di coin­ volgimento forzato sulle «sponde» occidentali del continente eurasiatico. In effetti le potenze marittime, soprattutto quella americana che è «estremo-occidentale», senza alcuna vera esperienza o tradizione di con­ tatto terrestre (per contiguità) con l'Oriente, e con Eurasia non riescono a concepire altro che una logica di controllo esterno della minaccia da Est, ovvero una «filosofia del contenimento». Ma il contenimento, ovvero le politiche che prendono il nome di «cor­ done sanitario», che già fallirono nel 1918-20 con la Russia sovietica, e poi quella della «cortina di ferro» che non ha certo impedito il rafforza­ mento dell’URSS dopo il 1945, non sono in grado da sole di risolvere il problema cruciale della storia del mondo, quello rappresentato cioè dal conflitto permanente fra Occidente e Oriente. Questo conflitto, ora poten­ ziale ora in atto, si basa sulla constatata esperienza che l’Oriente tende «naturalmente» a espandersi verso l’Occidente, e in particolare a premere sull’Europa. Questa pericolosa, e fisiologica in quanto geopolitica, minac­ cia che da Oriente si accanisce fin dall’Antichità Sull’Occidente, non potrà mai essere eliminata attraverso una semplice politica di «contenimento» e di «cooperazione», fondata sul potere marittimo e i corpi di spedizione. La nuova formula militare statunitense elaborata dopo la fine della guerra fredda (From the Sea; Power Projection Army; Force XXI) non è altro che la modernizzazione della «politica del pompiere» basata sulla filosofia del containment, ma senza orientamento geografico specifico. È una politica di containment tout azimouth, a 360°, che in realtà sconta anticipatamente l’im­ possibilità di intervenire politicamente e/o militarmente sulla landmass eura­ siatica in quanto tale. Per certi aspetti inoltre la grande potenza americana, pur dotata di una marittimità globale (sea-control e protezione nucleare, minaccia e

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deterrenza missilistica), non è riuscita a sviluppare un vero esercizio del controllo terrestre, neppure nei ristretti limiti della dottrina «from the sea» e successive, tale da garantirsi l’egemonia sulle coste e sui paesi rivie­ raschi del tricontinente antico. La dottrina del «blocco» navale, dell'embargo, delle sanzioni, ecc. è solo un surrogato minore e inutile della politica di penetrazione territo­ riale, di liquidazione della forza armata avversaria in uno scontro defi­ nitivo (Vemichtungsschlacht), di resecazione delle vie di comunicazione e dei «nervi del governo» (Deutsch, 1963, 1972), della più grande o delle grandi potenze continentali, fino allo sfaldamento della loro unità in sub­ sistemi o subunità nazionali e statali indipendenti. Ma al di là di queste vicende, e delle motivazioni più sostanziali che ren­ dono improbabile l’utopia dell’impero occidentale eurasiatico, va qui sotto­ lineato che un piano politico credibile di penetrazione territoriale all'interno di Eurasia non dovrebbe essere diretto alla sostituzione dell’impero orien­ tale con un Impero occidentale, bensì alla sua liquidazione in quanto entità territoriale e strutturale unitaria. Il problema, quindi, non diventerebbe quello di occupare militarmente, e in modo definitivo, Eurasia, e in particolare le sue forme imperiali pri­ marie (Russia, India, Cina) con le forze armate dell’occidente. Al con­ trario, si tratterebbe di utilizzare la forza politica deterrente dell’Occidente per indurre le componenti di Eurasia alla frantumazione e all’in­ dipendenza dei diversi frammenti.

16. In termini di politica internazionale contemporanea questa ipotesi consisterebbe nella decisione da parte dell’occidente di favorire politicamente i processi di autonomia, sovranità e indipendenza (i tre gradi della libertà politica) delle diverse componenti della Federazione russa, delle provincie della Cina popolare, degli Stati federati dell’india. Invece di ostinarsi a considerare meccanicamente, come fattore essen­ ziale della bilancia fra Occidente (Europa + America) e Oriente (Russia + Cina) e della stabilità politica di Eurasia, la sua massima unità terri­ toriale possibile, sarebbe più logico, e certamente più efficace, applicare la potenza occidentale alla trasformazione del sempre minaccioso «pieno» di Eurasia unita, nel «vuoto» più rassicurante di Eurasia divisa. Con il positivo risultato di accelerare, e poi consolidare, la «ricostru­ zione» dell’Europa, in quanto matrice e «spirito» dell’occidente. È evi­ dente che questo approccio politico-strategico diretto a favorire la fram­ mentazione della landmass porterebbe alla riduzione della pressione di Eurasia Sull’Occidente, con il conseguente sviluppo dell’autonomia del­

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l’Europa in quanto tale e, con essa, anche alla ridefinizione più equa dei rapporti euro-americani. Ben diversa, invece, rispetto a ciascuna delle esperienze del passato è stata la concezione strategica ed operativa del potere americano durante tutto il corso del Novecento. Guidati da una ispirazione missionaria (l'A­ merica come Nuova Gerusalemme) e da una filosofia politica idealistica ma espansionista al tempo stesso, liberal democratica da una parte, ma anche classista e razzista dall'altra, gli Stati Uniti hanno imbastito una poli­ tica estera a doppia lama. Da un lato hanno tenacemente perseguito una linea isolazionista e difensiva nei confronti dell’Europa fino al momento in cui, trascinati dagli eventi e dalla propria evidente superiorità, sia produttiva che finanziaria e tecnologica, si sono trasformati definitivamente in potenza globale e successivamente in Superpotenza unipolare. Dall’altra parte, però, il «Manifest Destiny» ha costantemente accompagnato come un basso con­ tinuo la dinamica della politica internazionale americana trasformando gradualmente, e in parallelo, la riottosità originaria ad immischiarsi negli affari del mondo in «evangelizzazione» dei principi ispiratori di quel modello politico; la democrazia liberale e il libero mercato. Questa veloce escalation di ruolo e di peso politico non aveva, però in partenza, un pensiero politico né una dottrina strategica che fossero all’al­ tezza dei compiti crescenti che venivano affidati agli Stati Uniti dalla sto­ ria e dalla geografia. Ne derivò la necessità di utilizzare lo strumentario tecnico a disposizione, sia nei confronti della politica estera che di quella militare. In politica estera prevalse così il Modello «esportativo», basato appunto sull'esportazione del Modello di sistema politico interno americano, sia a livello nazionale nelle istituzioni intemazionali, sia nelle relazioni con gli attori vinti o satellizzati. Sul piano della dottrina strategica si trattò di una, per molti versi banale, riproposizione della teoria dell’Ammiraglio Alfred Mahan sul potere marittimo, fondata sulla costituzione di una rete di basi navali e d’appoggio nonché sulla politica commerciale della «Porta Aperta» (Open Door Policy, Note di Jay, ecc.), ben diversa, quindi, non solo dalla poli­ tica continentalista della Germania, sia nella prima che nella seconda guerra mondiale, ma perfino dalla più penetrante politica coloniale bri­ tannica, che integrava il potere marittimo puro e semplice con una poli­ tica «a connotazione marittima» (Corbett, 1988), e che si era posta con­ cretamente, anche se senza successo, il problema del controllo terrestre di aree sterminate, come l’india, il Canada, l’Australia e l'Africa. Si può quindi affermare che, nonostante le apparenze, ben più labile

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è, potenzialmente, la superiorità della potenza statunitense rispetto a quella britannica, la cui forza di «impero informale» (Doyle, 1986) si loca­ lizza solo nella volontà politica astratta dell'Amministrazione al potere e nella più o meno ampia disponibilità dei bilanci della Difesa, più che non nella logica territoriale dell’Ortung/Ordnung di matrice europea. Il risul­ tato di questo approccio pragmatico (ma senza disegno), di questa casua­ lità dell'interesse internazionale degli Stati Uniti che, al di là di una filo­ sofia generale sul mondo e di procedure operative sperimentate, non ha tradizioni e competenze effettive in materia di analisi delle costanti e dei caratteri strutturali geostorici e culturali di Eurasia è ambivalente e, tutto sommato, precario.

17. La sola soluzione dell’eterno dilemma «terra-mare», come aveva già ben compreso Friedrich Ratzel riferendosi in modo rovesciato alla Germania guglielmina, risiede in sostanza nella acquisizione della con­ sapevolezza che l’Occidente, per disfarsi una volta per tutte del problema di Eurasia e del Tricontinente, come spazio organizzato unitario o comun­ que accentrato, dovrebbe da un lato favorire i processi di sfaldamento della Federazione Russa, della Cina e dell’india (e nel contempo impe­ dire che il militantismo fondamentalista riesca a risolvere la questione ■della minacciata unità islamica), mentre dall’altro lato dovrebbe orga­ nizzare le sue forze, non solo sulla scorta delle teorie del potere marit­ timo, ma invece integrandole con l’assunzione della duplice capacità stra­ tegica, sia marittima che continentale (la «balena» si fa «orso», ma non viceversa), tale da assicurare la Weltmacht necessaria all’occidente per sconfiggere definitivamente l’Oriente e liberarsi così dalla spada di Damo­ cle dell’invasione. A questa ambivalenza dottrinale e strategica di tipo aeroterrestre e aeronavale che, se praticata in senso assoluto, comporterebbe la neces­ sità di dotarsi di un arsenale sovradimensionato, costoso e irrealizzabile per ragioni politiche e finanziarie, dovrebbe aggiungersi la terza grande strategia, quella che unisce politica e guerra nella correzione del «potere aereo» inteso come filosofia della deterrenza, convenzionale e nucleare, nelle due forme della deterrenza by denial e by punishment. Il raccordo interattivo fra le tre autonome proiezioni del potere stra­ tegico quella «aeroterrestre», quella «aeronavale» e dalla equazione deterrenza/compellenza, cioè dalla teoria del «potere aereo» configurato in senso contemporaneo come deterrenza strategica primaria potrebbe diventare l'attrezzo concettuale e operativo per la frammentazione del­ l’unità eurasiatica che verrebbe così a sostituire la vecchia dottrina del

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containment che, anche in versione aggiornata, è insufficiente a risolvere alla radice il problema. D’altra parte una lettura più attenta della dottrina strategica ameri­ cana del containement dell’Unione Sovietica che ha guidato concettual­ mente la politica estera e di sicurezza degli Stati Uniti nei 50 anni di guerra fredda dimostra che anch’essa è il prodotto aggiornato del pen­ siero strategico marittimo. Si tratta infatti di una concezione tipica della tradizione marittima delle «Rimlands» che circondano e, appunto, «con­ tengono» la debordante pericolosità deU’espansionismo euroasiatico, che ha trovato le sue diverse espressioni ed esperienze storiche nelle teorie del «blocco marittimo», da quello «continentale» contro Napoleone, a partire dal 1807, alle leggi intemazionali sul mare, sulle sanzioni, fino all’attuale esempio dell’operazione NATO in Adriatico, denominata «Sharp Guard». Questa ipotesi presuppone, tuttavia, che il controllo di Oceania, e in particolare di Atlantide, non sia più solo il riflesso dell’egemonia di un solo attore, di cultura essenzialmente marittima, come sono gli Stati Uniti. Sarebbe necessario infatti che l’egemonia marittima venisse temperata, per così dire, dall’integrazione del pensiero terrestre o continentalista. E ciò anche se gli Stati Uniti, mutuando concetti dalla grande tradizione del pensiero marittimo relativo alla teoria della fleet in being ovvero della Riskflotte, hanno modernizzato e affinato per primi la teoria della «deter­ renza», sia nella versione nucleare che in quella, meno sofisticata, della «compellenza» convenzionale. Le formule della deterrenza by denial o by punishment sono quindi indubbiamente un punto di partenza concettuale importante per elabo­ rare, nell’età postbipolare, dei concetti più complessi, come quello della «deterrenza politica», diretto a minare le basi di legittimità e di potenza dell’avversario attraverso la specularità e la competitività del modello di confronto nonché l’appoggio alle spinte centrifughe interne ai diversi sistemi imperiali eurasiatici.

18. Ma la «deterrenza politica», che è la forma più complessa della deterrenza strategica, è un misto di azione e reazione, di prevenzione, preemptiveness e compellenza al tempo stesso. Questa è la ragione di fondo per la quale diventa indispensabile che l’integrazione concettuale e dottrinaria di Oceania si produca attraverso l’impiego consistente delle teorie continentaliste, accanto a quelle stret­ tamente marittime. E che quindi la supremazia americana venga inte­ grata, come nel sistema ottocentesco del Balance of Power dell’Europa

4. C.M. Santoro: Studi di geopolitica

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delle Potenze, dall'attore che meglio ha interpretato, nell’ottocento e nel Novecento, la capacità di elaborare un pensiero strategico continentali­ sta su scala continentale, vale a dire la Germania. Lo studio della dottrina strategica statunitense, nonché l’analisi rav­ vicinata delle campagne militari americane, rivela infatti quanto dipen­ dente e poco innovativa sia stata la pianificazione strategica, l'ordina­ mento delle forze di terra e la condotta operativa dello Stato Maggiore dell’Esercito rispetto alla capacità inventiva delle altre Forze Armate. Sia nella Guerra di Secessione che nella Prima e Seconda Guerra Mon­ diale, ma anche in Corea e perfino nel Vietnam, gli Americani (e con loro anche gli Inglesi) hanno dimostrato l'assoluta inferiorità concettuale delle potenze marittime rispetto alla dottrina strategica, alla pianificazione e alla condotta operativa degli eserciti «continentalisti», primo fra tutti quello tedesco. Sopravvalutando la guerra di logoramento e d’attrito rispetto alla manovra, la potenza di fuoco rispetto all’economia delle forze, hanno praticato una caricatura delle teorie di Clausewitz, senza godere dei benefici della guerra marittima trasferita sul terreno (Liddel Hart, 1965, 1979). Uno studio attento del blitz militare tedesco invece, tanto in Africa Set­ tentrionale come in URSS, nel 1941, potrebbe fornire la «libreria» della gran parte delle intuizioni e delle risposte necessarie ad identificare le forme di prevenzione della minaccia proveniente da Eurasia, e poi per la dissoluzione della landmass. Diventerebbe così palese, a questo proposito, come nel rapporto di forze fra tedeschi e sovietici nell’estate del 1941, nella teoria del blitz, nella capacità di penetrare lungo gli assi strategici solo i generali tedeschi siano stati capaci (ancor più di Napoleone) di comprendere a fondo proprio le regole della strategia marittima da applicare per analogia agli ampi spazi di Eurasia. In altri termini, se è ammissibile assumere, come ipotesi di ricerca, la formula di Ratzel, esposta in «Der Lebensraum», basata sul principio che la lotta per la vita è lotta per lo spazio e che l'Occidente e l'Oriente, prima di essere concetti culturali, sono anzitutto concetti spaziali, allora non si potrà più escludere la necessità di affidarsi ad opzioni di riorganizzazione dello spazio, in particolare di quello eurasiatico, basandosi su una pano­ plia di strumenti strategici e concettuali nuovi che vanno dalle teorie del potere terrestre e aereo, a quelle del potere marittimo e costiero, da quelle della deterrenza e della compellenza, a quelle della deception, disinforma­ tion, e/o, secondo la versione russa, della maskirovka. L’appoggio ai movi­ menti secessionisti e indipendentisti diventerebbe così lo strumento poli­ tico-strategico primario per far saltare il cuore di Eurasia. Esso dovrebbe

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accompagnarsi ad una gestione alternata di deterrenza/compellenza tale da impedire la riorganizzazione territoriale e politico-strutturale di Eura­ sia, accelerandone anzi la frantumazione. Né pare che contraddica questa ipotesi strategica la constatazione che oltre il 70% della popolazione mondiale si addensa in regioni che non distano più di 5-600 km dal mare. Questa tesi, infatti, non tiene conto del fatto che se l’attacco eventuale provenisse dal mare, quelle popolazioni potrebbero difendersi indefinitamente nell’entroterra sapendo che, ai sensi della nuova concezione strategica della Marina statunitense {Forward From the Sea), le potenzialità e le capacità militari dell’occidente dell’attacco non potrebbero mai andare oltre i 5-600 km dalla costa. Il cuore di terra di Eurasia continuerebbe così ad essere irraggiungi­ bile a meno di voler impiegare la «compellenza» nucleare che, peraltro, al di là della sua evidente pericolosità, non risolverebbe il problema, data la impossibilità di occupare concretamente il territorio devastato. Che questo sia un «apriori», confitto nella cultura politica e strategica di tutte le potenze marittime, e anche di molte potenze semi-marittime, come sono la maggioranza dei paesi europei, è dimostrato, per differenza, dal fatto che anche la dottrina strategica della NATO in Europa Centrale, fra i primi anni Cinquanta e il 1990, si è basata su una concezione difen­ siva nonché sull’illusione di imporre una battaglia d’attrito ai Sovietici nel caso in cui si fosse giunti allo scontro. La dottrina NATO della Forward Defense e della Flexible Response rivela esattamente questa logica statica a fronte di una minaccia da Est che pre­ vedeva invece un «blitz» a sorpresa. Tale concezione perdente era così fortemente radicata negli strateghi dell'occidente, e degli Stati Uniti in particolare, che quando, verso la seconda metà degli anni ’80, Samuel P. Huntington propose, secondo il suo costume di studioso dotato di imma­ ginazione, di modificare la dottrina NATO sul fronte intertedesco attri­ buendogli una quota di dinamicità e di manovra con la teoria della Coun­ teroffensive Defense, il dibattito che ne seguì fu caratterizzato da una gene­ rale reazione di rigetto e di timore per le conseguenze imprevedibili che tale disegno «controffensivo» avrebbe potuto provocare. In altre parole la dottrina del potere marittimo, aggiornata in termini contemporanei dalla proiezione di forza sui litorali, non è sufficiente, a risolvere alla radice il problema della possibile ricostituzione della minac­ cia di Eurasia così come non è sufficiente neppure la dottrina, derivata dall’air-power, della deterrenza nucleare, la cui concettualizzazione aggiornata risale ai primi anni della guerra fredda e anzi è uno strumento, della dottrina americana del containment le cui origini - come si è detto - vanno ricercate nella vecchia teoria navalista della fleet in being.

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19. Tuttavia, se si accettassero le premesse di Ratzel, e cioè che lo Stato ha come suo sostrato primordiale esclusivamente il «suolo», allora lo spa­ zio diventerebbe il solo criterio di valutazione oggettiva e obbligata misu­ rando i suoi comportamenti sulla base della logica spaziale e territoriale finendo per essere un criterio del tutto organicistico e le sue mosse deterministicamente predisposte. Se invece, accanto alla «spazialità», viene accostata la «temporalità», quindi la storia, la cultura e il Geist, allora lo Stato, la Nazione, l’Etnia, vale a dire i «grandi insiemi» storico-culturali, etnici, linguistici, religiosi, nazionali, ecc., che legittimano non solo l'identità degli Stati, ma anche quella degli spazi organizzati contigui e affini, speculari ovvero conflit­ tuali, disposti sul suolo come simulacri consapevoli di esso, diventereb­ bero per forza di cose i luoghi deputati alla rappresentazione delle civi­ lizzazioni e quindi i poli geopolitici del nuovo sistema internazionale. L’Occidente, per questa via, tornerebbe ad essere l’immagine hegeliana dello «Spirito Assoluto», il cardine teorico e il cuore della civiltà del mondo moderno, fucina di trasformazione, e riscatto dal letargo che le avvol­ geva, delle altre civilizzazioni (Oriente, Sud, Nord), garanzia di ordine, libertà, benessere, gerarchia e controllo dell’intero mondo. È quello che potremmo chiamare in termini attuali, mutuandolo dalla tradizione, lo «Spirito dell'occidente» che anima ancora questa nuova fase della breve storia del mondo. La sua salvaguardia, nella cornice cul­ turale che fa da sfondo alla sua «potenza», è la condizione stessa della sua operatività storica e quindi del suo destino. «Il problema del destino si presenta eminentemente come il problema della storia (cioè il problema del tempo)», scriveva quasi ottanta anni fa Oswald Spengler in «Il tra­ monto dell’occidente» (p. 86), invitando a distinguere, nella fenomeno­ logia degli eventi, non già solamente un «fatto per l’intelletto» ma anche qualcosa che arrivasse al «senso» dell’evento stesso. Anche difronte alla apparente, e forse sostanziale, casualità del reale - e in questo caso ci si riferisce alle possibilità di identificazione di un «carattere» nazionale così come di uno «spirito» dell’occidente - esso non va solo trattato come un «oggetto», ma anche come un «simbolo» di qualcos’altro definibile in ter­ mini di «archetipo» (Jung, 1941, 1972), ovvero di «costante», ovvero di «principio» che è un sinonimo di esperienze filtrate e assunte come valore. È questo il significato primario dello «spirito dell’occidente». Questo «principio», che può dirsi anche «Kultur», si può autorappresentare in modi diversi: come «cristianità», come «razionalità», come «forza», come «tecnica», come «sviluppo», come «modernità». È quindi un sistema culturale complesso che si è forgiato nei secoli in Europa e che si irradia verso l’esterno vincolando l'Oriente alle sue culture e civi­

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lizzazioni differenziate, attraverso la filosofia e la prassi delle «frontiere», dell’«alterità», dello «scambio» e della «guerra». Lo Stato, e per lui l’Occidente, cioè l’Europa intesa come «Kultur» di un superstate che si unifica sulla base di una «civilizzazione» comune, ha le sue radici e il suo basamento nella «terra» e nel «sangue», quindi tipicamente nel Geist dell'occidente. Dallo «Stato-suolo» alla «Civiltà-suolo» il passo è breve e corrisponde meglio all’esperienza contemporanea di un mondo intessuto di networks di comunicazione e informazione. Di qui la relazione «Civiltà-Spazio» che si stabilisce sulla base dei punti di contatto-scontro, primi fra tutti la questione delle «frontiere», quella delle «migrazioni» e quella degli «scambi» (Whittaker, 1994). La lotta per l’esistenza e l’eccesso di popolazione sta diventando infatti ancora una volta, come più volte nel passato, la forma suprema della comunicazione fra Oriente e Occidente. Essa con tutta probabilità domi­ nerà il tempo a venire, insieme alla tecnica che ne modulerà (finché potrà) i flussi. «Qui non si tratta di ciò che il mondo "è”, bensì di ciò che esso significa per l’essere vivente che in esso si trova» (Spengler, 1918-22, 1957, I, p. 251). La relazione fra Occidente e Oriente fra Europa e Eurasia, è quindi essenzialmente simbolica. Anche la sua «spazialità», i suoi con­ fini, il suo territorio, sono il prodotto della creazione simbolica della pro­ pria identità esattamente come accade nella rappresentazione del «com­ plesso mito-simbolico» (A.D. Smith, 1986, 1994) delle comunità etniche o nazionali.

20. Tale contrasto permanentemente rinnovato fra Occidente e Oriente, però, non può non esser letto anche come il segno della loro strutturale e quasi fisiologica incompatibilità. L’esempio della Germania, confine di sangue fra Occidente e Oriente, secondo Ratzel, è significativo per il suo ruolo ambiguo, territorialmente mal determinato, fra Est e Ovest, senza vere frontiere e con il «centro» spesso mobile. Basterà riflettere alle varia­ zioni di posizione del centro della Germania nel secolo XX per rendersi conto di quanto difficile sia riconoscerne l’identità in senso spaziale. Cionondimeno, però, la Germania, intesa come «corpo mistico» del­ l’idea di Europa, e quindi come erede del Reich imperiale, esiste e si iden­ tifica volta per volta in tutte le sue forme politico-statuali nella sua fun­ zione di barriera vivente, linguistica, religiosa, spirituale oltre che di san­ gue nei confronti del mondo slavo-ortodosso, e anche potenzialmente di quello arabo-islamico. Una Germania ben diversa, però, quella odierna rispetto alla Germa­

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nia del passato. Depurata della sua componente dominante prussiana e protestante essa si è, a sua volta, ancor più occidentalizzata, gravitando sul Reno al confine francese, con una presenza cattolica decisiva. Si potrebbe dire che essa si è occidentalizzata definitivamente proprio attraverso la drammatica esperienza della sua divisione cinquantennale. La riunificazione del 1990 ha restituito così all’Europa una Germania equilibrata il cui trend di marcia verso l'Est è ormai compensato dai forti legami con l’Ovest europeo e americano che ne hanno connotato la vita dopo il 1945. La disfatta del 1945 e i decenni della divisione della due Germanie hanno quindi avuto l'effetto di schiarire l’aria della terra tedesca, ridu­ cendo all’osso il rischio della sua permanente anima filorussa e, al tempo stesso, togliendole ogni complesso verso l’Occidente, nei cui confronti non c’è più spazio per la contrapposizione. Né con la Francia, dapprima sconfitta e poi recuperata in un legame bilaterale che è stato forte e frut­ tuoso, né con la Gran Bretagna, cugina diversa e comunque poco inte­ grabile, come nell’età d'oro di Bismarck, né con l'Italia che condivide con lei la geopolitica delle frontiere dell’Europa, allineate entrambe come sono al confine orientale e meridionale dell’occidente. Da Herder, che qualificò la Germania come «la parte tartara dell’Eu­ ropa», a Ratzel che ne ha sottolineato la posizione bloccata fra Slavi e Romani, il mito tedesco del tempo andato era infatti passato attraverso fasi diverse, ma sempre indeciso nella sua ambivalenza fra Est e Ovest, dovuta essenzialmente alla sua storica frammentazione statuale. Alcune di queste fasi, infatti, si sono troppo concentrate sulla spazialità delle frontiere, invece che sulla legittimità del suo ruolo politico in Europa. Il che poteva indurre a interpretazioni parziali, e quindi euristicamente inu­ tili o meglio pericolose per sé e per gli altri.

21. Senza l’Europa, e in particolare senza la caratterizzazione dell’Eu­ ropa come cuore dell’occidente, anche il destino della Germania potrebbe risultare quasi del tutto incomprensibile. In effetti la «spazialità» non è l’«estensione» di un territorio. Non è quindi il prodotto della larghezza per la sua lunghezza. Questa infatti si limita ad essere, per dirla con Spengler, l'«impressione» (p. I, 259) puramente sensibile, l’epifenomeno della spa­ zialità. La vera dimensione della spazialità è invece quella della «profon­ dità» vale a dire l'«espressione» della lontananza, della distanza. Con la distanza comincia il mondo e al tempo stesso si definisce la «natura» del­ l’identità, cioè il contenuto simbolico di un ordine che si riconosce attra­ verso la misurazione della distanza, e quindi della differenza.

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In questo senso, la cultura politica imperiale e mandarina cinese attri­ buisce, non alla «estensione» ma alla «distanza», il valore fondante della «civiltà», e quindi della stessa Cina. Il criterio simbolico della «misura­ zione di distanza» rappresenta infatti la scala di valutazione della quan­ tità di barbarie presente negli «stranieri» rispetto ai cinesi. La distanza dal cuore del palazzo imperiale di Pechino centro simbolico della Cina, è in relazione diretta con la crescita della barbarie dello straniero. Più grande è la «distanza», maggiore è la «barbarie». Anche per l'Eu­ ropa, ovvero la civiltà euroccidentale, il criterio della «distanza» e quindi della «differenza» contribuisce a definirne l’identità spaziale. Lo stesso dicasi per il concetto filosofico di Germania. Il ruolo della Germania non può più quindi essere ridotto alla sua «spa­ zialità», intesa come rapporto fra la lunghezza e la larghezza e quindi all’ir­ risolta questione delle sue frontiere, né può essere studiato solo in quanto Schwerpunkt del continente, e al tempo stesso come minaccia costante aH'Equilibrio di Potenza europeo. Questa procedura tradizionale, che ha concentrato tutta l’attenzione del mondo sul peso della Germania in Europa durante il Novecento, ha fatto passare in secondo ordine la questione della funzione storica basi­ lare che la Germania, per posizione, per civilizzazione e per sangue, ha svolto a favore dell’Europa durante quasi dodici secoli: opponendosi siste­ maticamente alla marcia di Eurasia verso Occidente. È stata una costante questa che, perfino durante il predominio della Prussia, il più orientale degli Stati tedeschi, non è mai venuta meno. Non è un caso se l’Europa Occidentale ha avuto il privilegio di non conoscere alcuna invasione esterna a partire dalla metà del secolo X, caso unico al mondo insieme al Giappone, di indipendenza dalla pressione di Eurasia. È stata soprattutto la Germania, infatti, che sotto le specie del Sacro Romano Impero di Nazione Germanica, nelle sue diverse versioni, ha fatto da sponda permanente rispetto agli attacchi provenienti da Nord-Est, con il Deutscher Orden e poi con il Regno di Prussia, contro quelli da Est e da Sud-Est con il Sacro Romano Impero e gli Asburgo, fino alle formule più recenti del Secondo Reich guglielmino, del Terzo Reich nazista, e final­ mente, come Repubblica Federale, mutilata e divisa ma avanposto dell’Occidente, che ne ha definitivamente occidentalizzato lo spirito. Tuttavia, questa sua inequivocabile funzione di baluardo verso Eurasia è stata spesso mal compresa, in molti casi mistificata. Le lotte intestine all’occidente, che si sono concluse con le due guerre mondiali, avevano messo in ombra la funzione primaria della Germania verso l’Est. C’è voluta la terza guerra mondiale, quella fredda da poco conclusa, a rivelare la pre-

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minenza assoluta della funzione tedesca nella difesa dell’occidente, quindi, anche della macroregione di Oceania-Atlantide. Sarà sufficiente leggere in prospettiva i fondamenti concettuali della dottrina strategica e operativa della Nato sul Fronte Centrale intertedesco, fra il 1955 e il 1990, per comprendere come, dietro la primogenitura americana, si stagliasse l’indispensabilità germanica. Questa essenzialità strutturale della funzione tedesca si sta rivelando ancora più importante, in quanto anche progettuale e proiettata nel futuro, ora che Atlantide, forma moderna di Oceania, si sta incrinando nelle sue due componenti (Europa e America), e il potere marittimo risulta insuf­ ficiente difronte ai problemi crescenti di instabilità di Eurasia, e in par­ ticolare della Federazione russa, nonché dei nuovi attori usciti dal crollo dell’Unione Sovietica, e in prospettiva, della Cina e dell’india. La sua specificità, che è quella della prevalenza del «sangue» rispetto allo «spazio», ha certamente contribuito in molte occasioni a rendere oscura la funzione tedesca. I suoi caratteri originali impedivano, per defi­ nizione, la fissazione e la concettualizzazione dei suoi confini. La per­ meabilità, anche culturale, e la mobilità storica delle sue frontiere, ren­ devano impossibile ogni disegno di «claritas» romana, così come si espri­ meva un tempo nel « limes », o di quella cinese, significata dalla «Grande Muraglia». La spazialità del concetto di «limes», infatti, che fa da cornice allo jus soli, non trova corrispondenza adeguata nella concezione, di ori­ gine nomadica, del diritto di sangue (jus sanguinis). Tale distinzione resta ben netta anche se nella concezione romana (e parzialmente anche in quella dell’impero cinese) le externae gentes al di fuori del limes erano pur sempre «sudditi ma in genere non meritevoli di occupazione». In effetti si trattava di due forme diverse, ma non incom­ patibili, di jus soli, la prima, quella dell’«impero di amministrazione», la seconda, quella dell’«impero di controllo» (Whittaker, 1994, p. 17). Nonostante la graduale «romanizzazione» dei Germani, la sussunzione del diritto romano, inteso come asse portante e strumento normativo pri­ mario del processo di «sedentarizzazione», fino alla più tarda invenzione della teoria della renovatio imperii, o addirittura della traslatio imperii, nella fondazione del Sacro Romano Impero di Nazione germanica e poi successivamente fino alla teoria della propagatio imperii (Richardson, 1979), \o jus sanguinis è sopravvissuto fino ad oggi come «destino» per­ manente della Germania, rendendo nei fatti difficile, se non impossibile, la stabilizzazione dei suoi «confini naturali», tanto verso Ovest, Nord e Sud, quanto verso Est e Sud-Est. Di qui quella che è apparsa a volte come l'ambiguità della Germania, sempre a cavallo fra Occidente e Oriente, che tanto ha influenzato la cui-

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tura europea, ma anche la stessa politica tedesca dopo l’unificazione del 1871. Di qui l’errore di considerare, volta per volta, la Germania come «fonte» dell’occidente romano-germanico e cristiano, oppure come avan­ guardia storica, mistica e violenta, dell'oriente eurasiatico.

22. Un'ipotesi interpretativa del passato tedesco è quella che attribui­ sce chiaramente alla Germania una funzione centrale, ma confinaria, al tempo stesso, rispetto al più vasto concetto di Europa Occidentale. Le frontiere della Germania quali che siano possono infatti essere con­ siderate come le frontiere dell’intera Europa, proprio perché alla Ger­ mania è stata assegnata in sorte la difesa dell’occidente dalla pressione orientale. In altri termini la Germania rappresenta tanto il bastione cen­ trale permanente del continente europeo in espansione, quanto il confine mobile della Festung Europa. L’ambiguità ovvero la doppiezza, che pareva fisiologica, della vecchia Germania, nasce dal fatto che lo jus sanguinis, originariamente basato sulle aree linguistiche, talvolta etnico-tribali, non fissa una volta per tutte dei confini territoriali precisi e riconosciuti, ma invece penetra nello spa­ zio esterno, soprattutto orientale, con sporgenze e rientranze, che deli­ mitano le rispettive zone o anche le isole linguistiche, che neppure la «pulizia etnica» del secondo dopoguerra ha davvero risolto. Dall’altra parte diventa altresì difficile identificare con precisione la «germanicità» nella mescolanza etnica, ma soprattutto culturale, che ad Oriente si è realizzata fin dall’Alto Medioevo fra Germani, Slavi e Scandinavi, fram­ mentati in centinaia di etnie e tribù che solo nei secoli successivi si trasfor­ merà in sostanziale egemonia culturale tedesca. È infatti qui che loyùs sanguinis diventa cultura, simbolo d’identificazione, e poi Geist, spirito della Germania, conferendo alla grossolanità originaria del­ l’alternativa, o della commistione, fra sangue e terra, la nobiltà della grande cultura tedesca e la sua capacità di influenzare in modo naturale altri popoli attraverso quella formula di presenza-distanza che alcuni chiamano, in alter­ nativa al Modello autoritario di dominio, il Modello egemonico. Questa incertezza originaria della frontiera orientale dell’Europa, e quindi della Germania, è stata molto duratura, anche se le ultime incur­ sioni devastatrici dell’Europa (Unni, Slavi, Ungari, Mongoli) obbligarono gradualmente i Tedeschi a identificarsi, anche spazialmente, ancor prima della loro unificazione politica nell'area che ancor oggi popolano. È a questo punto della Storia che si collocano le origini stesse dell’Occidente, inteso in senso moderno, come culla e motore della civiltà mondiale.

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Si tratta cioè di quel processo di «germanizzazione» dell’Europa Cen­ trale, sulla direttrice Ovest-Est che, in modo graduale, dopo la lunga fase della transizione dovuta al crollo dell’impero Romano d’Occidente e alle invasioni barbariche, sostituirà l’antico processo di «romanizzazione» a struttura circolare, comunque orientato da Sud a Nord e poi a Sud-Est. La nascita dell’occidente medievale franco-germanico si può misurare, infatti, sulla base della torsione geopolitica, avvenuta a cavallo dei secoli V e IX, del «centro» d’irradiazione e di dominio sul continente europeo. La «perdita del centro», localizzato a Roma dalla metà del V secolo in poi fino alla sua ricostituzione seminomadica con lo stabilimento provvisorio della sede imperiale di Carlo Magno ad Aquisgrana, è la premessa concettuale della trasposizione delTimperium dell’area mediterranea all’area dell’Europa Occi­ dentale renana. Di qui la torsione verso Nord del sistema di controllo romano­ germanico e la diversa concezione della relazione con l’Est e il Sud-Est di cui le guerre di Carlo contro i Sassoni costituiscono il fenomeno iniziale, e le Cro­ ciate, incluse quelle Baltiche, l’episodio più significativo. La concezione stessa della renovatio imperii, o meglio della traslatio imperii franco-germanica, e poi solo germanica, basata sull’idea del «pro­ getto» definito come opus imperiale, il cui fine era il dominio del mondo per continuare l’opera di Dio, resta, nonostante tutto, il cuore del Geist occidentale, dal Baltico al Mediterraneo, che proprio nella Germania medievale, e poi nella sua arbitraria restaurazione romantica, si è iden­ tificato, sia pure con modalità costantemente incompiute, nella Germa­ nia moderna. Esso si è ripresentato in varie forme durante gli ultimi cinque-sei secoli, sotto le specie delle grandi ambizioni all’egemonia espresse in succes­ sione dalle maggiori Potenze europee. Dal declino politico e ideale del Sacro Romano Impero di Nazione Tedesca, non casualmente, germina quasi spontaneamente il disegno di dominio mondiale e imperiale degli Asburgo, gli eredi della corona imperiale, prima con Carlo V, poi con i suoi eredi spagnoli e austriaci. Dal contrasto verso questa strategia neo-imperiale scaturiscono le altre ipotesi di egemonia, da quella francese a quella alternativa e marittima inglese, finché l'unificazione tedesca, sotto la guida di Bismarck, non torna a proporre all’Europa quella formula rivestita, detta del Secondo Reich.

23. Se questa lettura per grandi comparti storici è accettabile, allora anche i grandi conflitti interni all’Europa che hanno contrassegnato la vita del continente, non vanno letti solo come scontro anarchico fra Grandi Potenze, ma invece come una consapevole lotta per l’eredità di Carlo-

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magno, di cui Napoleone prima e Hitler poi sono stati, sia pure per brevi anni, gli aspiranti più vicini alla rifondazione dell'impero europeo unificato. L’impero germanico medievale, quindi, era infatti diventato per tutti il vero sinonimo dell'occidente, nucleo spirituale solido e imprendibile, diverso e anzi «altro» rispetto all’Oriente, nonostante la comune origine indoeuropea, nonostante la contiguità territoriale eurasiatica. Forma suprema e riconosciuta da Dio della riconciliazione fra autorità politica e libertà, l’impero tedesco diventava il simulacro dell'ordine divino in terra, e al tempo stesso attribuiva ai suoi modelli politici un valore asso­ luto, e quindi la sacralità del suo essere fonte prima del diritto. Un modello che ritroviamo nella tradizione occidentale medievale in tutti i pensatori politici fino a Dante Alighieri (De Monarchia) e poi nella dottrina del diritto pubblico europeo del Concerto delle Potenze e, final­ mente, nel federalismo istituzionalista e neofunzionale dell’Unione Euro­ pea di Bruxelles. Ovviamente non si è trattato di una vicenda priva di ostacoli e di oppo­ sizione. Non tanto per la legittimità della «posizione» imperiale rispetto ad ogni altro attore occidentale e cristiano, quanto per i vincoli interni che il SRI di Nazione Germanica era stato costretto a subire nel corso della sua evoluzione. La relazione fra l’imperatore e il Papa, ovvero fra il «Dom» e il «Burg», e poi fra il trono, l'altare e le comunità autonome (come i Comuni ita­ liani o le città anseatiche), ovvero fra missione apostolica e forza poli­ tico-militare, diventa gradualmente il connubio necessario a dare corpo e anima al concetto di Occidente. Tuttavia la superiorità della Kaisertum rispetto al Reich, cioè del princi­ pio ideale della «ragion di Stato» e della dignità imperiale, su quello della territorialità dell’impero, non riesce a estrinsecarsi (e quindi ad imporsi), al di là dei vincoli che si manifestano in uno spazio dotato di frontiere territo­ riali, e quindi di limiti di potenza operativi. Si può quindi concludere che l’Occidente è nato insieme all’idea di Europa, che anzi ne definisce i contorni, come impianto spaziale deri­ vato dalla torsione territoriale dellTmpero Romano d'Occidente, dapprima nella Renovatio Imperii franco-teutonica, poi nel Sacro Romano Impero di Nazione Germanica e dalla «distanza-differenza» con l'Oriente. È un territorio vasto, multietnico, dai confini incerti, sottoposto ad una idea imperiale (Kaisertum) il cui peso spirituale è stato, ed è tuttora, molto più grande di quello politico-militare, anche se trova nelle comete politiche di Federico I Barbarossa e Federico II Hohenstaufen, la sua più alta rappresentazione e il migliore modello ideale di funzionamento. A Sud confina e si difende dal mondo arabo-musulmano, mentre a Nord

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continua l’evangelizzazione e la colonizzazione del Baltico e del mondo Slavo. Ad Est si contrasta con la dispersione dinamica del sangue ger­ manico, mentre ad Ovest fa i conti con la diaspora imperiale carolingia che, da Verdun (843) in poi, tende alla frammentazione interna dell’oc­ cidente. Resta però la sua ineliminabile diversità radicale con l'Oriente, anche se nella prima fase di formazione dell'occidente moderno, l'iden­ tità era davvero molto forte sul piano sacrale e mistico, cioè in termini di Geist, mentre era ancora molto incerta sul piano territoriale. Ed è con questa doppia tradizione che l’odierna «ricostruzione dell’Eu­ ropa» dovrà fare i conti, superando sia il concetto di Oceania che quello, più ristretto, di Atlantide, legando insieme pragmaticamente il modello ocea­ nico degli Stati Uniti a quello continentalista della Germania e della Fran­ cia, agganciando per via anche il modello «misto» dell'Italia.

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La nuova geopolitica europea

Se mettiamo da parte l’opinione comune secondo cui l’integrazione euro­ pea dovrebbe avere come fine ultimo quello dell’unione politica di tipo fede­ rale vediamo che l’unico pivot di potenza abbastanza forte da assumersi un ruolo egemone oggettivo in Europa - nonostante i vecchi timori - è proprio la Germania Il mezzo secolo di guerra fredda ha fatto dimenticare la tradizionale conformazione geopolitica, unitaria e interattiva, del continente europeo, che solo artificialmente era stato diviso in due parti contrapposte dal braccio di ferro bipolare. La spaccatura del continente ha dato luogo alla costruzione intellettuale di ipotesi di aggregazione di tipo istituzionale che, per forza di cose, seguivano le linee della divisione politica e ideo­ logica del Continente. Non potevano che derivarne delle strutture di coalizione e/o di integra­ zione la cui esistenza reale era calibrata sulla struttura e sulla dinamica bipolare. In Europa occidentale questo processo segnò sia l’organizzazione che la funzionalità della NATO, cioè il carattere dei rapporti euro-ameri­ cani, sia quella dell’integrazione economica europea occidentale in senso stretto, cioè la costruzione graduale e i meccanismi di allargamento della CEE. Il carattere essenzialmente occidentale delle istituzioni europee s'im­ presse quindi profondamente anche nella filosofia politica delle dottrine federaliste che non prevedevano, in tempi politici, la dissoluzione del polo orientale e quindi la riunificazione, anche concettuale, oltre che economica e politica del Continente europeo in quanto tale. In particolare, la nascita del sistema di opposizione speculare fra Stati Uniti e Unione Sovietica, aveva cancellato anche lo Schwerpunkt dell’Eu­ ropa continentale sul cui asse aveva ruotato, per oltre un secolo, il sistema eurocentrico, vale a dire la Germania. La visibilità, anche territoriale, dell’incontro-scontro fra gli alleati (anglo-americani e sovietici), avvenuta sul­ l’Elba ai primi di maggio del 1945, aveva liquidato nei fatti l’unità con­ cettuale dell’Europa basata sul peso germanico prevalente, nonché sui contrappesi rappresentati dalle grandi potenze europee bilanciate, dopo

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Westfalia (1648), dopo Vienna (1815) e ancora Versailles (1919), all’in­ terno del gioco dell’equilibrio di potenza. Nei cinquant’anni del dopoguerra, cioè nel tempo di quella che pos­ siamo ormai definire come la Terza guerra mondiale, o Guerra Fredda, da poco conclusa, parve così che il destino dell’Europa degli Stati-nazione, sia unitari che multietnici, fosse segnato una volta per tutte da una irre­ versibile divisione che comportava scelte di campo politiche, economi­ che e anche istituzionali. E che con l'irruzione delle due superpotenze extra-europee in funzione imperiale sul Vecchio continente (Stati Uniti e URSS), oltre all’emergenza di grandi potenze asiatiche, come il Giappone e la Cina, si fosse determinato il definitivo esaurirsi del ciclo egemonico dell’Europa, che era iniziato con le grandi scoperte geografiche, circa 500 anni prima, e si era poi consolidato con i trattati di Westfalia del 1648.

Lo strappo La crisi del 1989 ha rimesso in gioco per intero questo schema inter­ pretativo basato sulla permanenza della divisione verticale dell'Europa fra Est e Ovest, nonché sull’esistenza di due Europe speculari della sicurezza/difesa (NATO/Patto di Varsavia) e di due Europe, assai meno spe­ culari, dell’economia (CEE/COMECON). Lo strappo vero e proprio che ha subito messo in evidenza la fragilità e la debolezza del sistema di ege­ monia e controllo sovietici, è però avvenuto l’anno successivo quando, senza tener alcun conto delle possibili implicazioni a medio e lungo ter­ mine, le quattro grandi potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale, e l’URSS di Gorbaciov in particolare, hanno accettato di buon grado la riunificazione della Germania. Questo fatto, di per sé, ha rappresentato una frattura storica e strut­ turale radicale nell’assetto del mondo perché, con la riunificazione tede­ sca del 1990, il Sistema Politico Intemazionale ha perduto il pegno con­ creto e la garanzia territoriale, oltre che la giustificazione storica, del­ l’intera architettura postbellica. Nel contempo, però, ha messo anche in moto il processo di dissoluzione dell’assetto europeo e, implicitamente, ha riconosciuto alla Germania il diritto di tornare ad essere una grande potenza legittimata da tutti. Lo conferma chiaramente il fatto che la riunificazione tedesca, nel 1990, non prese la forma di una fusione istituzionale, simmetrica e pari­ taria, fra le due Germanie, ma fu invece il risultato della vera e propria annessione della Repubblica democratica tedesca da parte della Repub­

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blica federale di Germania. L'unità tedesca, infine, rappresentò la prima e la più clamorosa violazione, avallata dai suoi garanti, del consacrato principio dell’inviolabilità delle frontiere dell’Europa, che mai prima nel mezzo secolo postbellico, era stato messo in discussione. Questa successione di eventi minò alla radice la credibilità esterna di una concezione imperiale basata sulla capacità di controllo perma­ nente e sulla dinamica, costantemente espansiva, della potenza politica, militare e territoriale dell’Unione Sovietica, così come, già prima del 1917, di quella della Russia zarista. In questo senso la riunificazione germanica rappresentò una sconfitta decisiva per Gorbaciov perché, da un lato dimostrava l’insostenibilità dei costi di superpotenza globale che l’URSS si era fino a quel momento addossata, mentre dall’altro lato ammetteva la superiorità globale degli Stati Uniti che ne uscivano indub­ biamente rafforzati.

Frammentazione La disgregazione dell'Europa bipolare ha però messo in crisi, al tempo stesso, anche quelle possibili e troppo facili letture geopolitiche che riman­ dano all’idea che lo stato attuale del sistema intemazionale possa in qual­ che modo corrispondere alle modalità operative e funzionali del Sistema Politico Internazionale ottocentesco, detto dell’equilibrio di potenza. Il sistema dell’equilibrio, infatti, non aveva alcun orientamento di marcia predeterminato e unidirezionale, che muovesse ad esempio dalla diffu­ sione verso la concentrazione di potenza, ovvero dalla concentrazione alla diffusione di potenza. Era invece - fintanto che fu in grado di funzionare - un sistema di tipo cibernetico, fondato su processi di feedback o retroa­ zione. Procedeva, in sostanza, a continui autoaggiustamenti diretti pro­ prio ad evitare che il sistema assumesse un trend unidirezionale tale da squilibrarne strutturalmente la stabilità. Non è però questo il meccanismo regolatore del sistema internazio­ nale in cui stiamo vivendo ora, ma anzi il suo contrario. Alla minaccia della graduale totalizzazione della politica intemazionale, concentrata attorno ai due poli di potenza USA/URSS, è andato sostituendosi infatti il rischio, grave e inatteso, della frammentazione micronazionale e subna­ zionale che sfiora l’anarchia intemazionale, della rinascita etnica esa­ sperata e intollerante, della proliferazione di forme di autorganizzazione politica che, in molti casi, trasforma barriere amministrative in confini di Stato.

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L’illusione che la fine del bipolarismo lasciasse in eredità al mondo un «nuovo ordine mondiale», o almeno regionale (se non la «fine della sto­ ria») e soprattutto una consapevolezza aggregativa o confederale fra attori nazionali diversi, inclusa l'integrazione politica dell’Europa occidentale, dilatata fino ad assorbire gradualmente l’Europa centrale e orientale, si è ridimensionata con la dissoluzione della Jugoslavia e dell'URSS.

Estremo promontorio dell’Asia La novità geopolitica primaria, che non ha precedenti comparabili nella situazione esistente durante l’età del sistema dell’equilibrio, fra Westfalia e Sarajevo, consiste essenzialmente nel fatto, inaudito, della dissoluzione dell’URSS. Tale circostanza ha provocato un terremoto geopolitico strutturale che né la Prima né la Seconda guerra mondiale, né la rivoluzione bolsce­ vica, erano riuscite a provocare, perché ha sgretolato anche l’impero russo, il cui processo di formazione era durato oltre quattro secoli. Questa straordinaria tempesta ha travolto i parametri analitici tradi­ zionali del Continente europeo, a partire da quelli istituzionali, aprendo la strada a nuove considerazioni sulle frontiere dell’Europa, nonché sulle rela­ zioni fra questa e il resto del Continente antico (Asia + Africa) e , in parti­ colare, sui caratteri strutturali della Landmass eurasiatica. Torna infatti allo scoperto quell’idea, affiorata fra la fine del secolo scorso e i primi decenni del nostro, secondo la quale l'Europa non è altro che una penisola dell’A­ sia occidentale, e come tale parte integrante del Continente asiatico. L’ampiezza dello «spazio europeo», inteso come struttura politica, eco­ nomica, religiosa, etnica e culturale, nonché la sua delimitazione con­ cettuale, in effetti, è variata nel tempo: da quello strettamente geografico che per assai deboli ragioni logiche e storiche, estende teoricamente il Continente fino agli Urali a quella, politico-culturale, che ha confinato lo spazio etnico-regionale europeo sulla linea che corrispondeva, grosso modo, alla componente occidentale dello spartiacque dellTmpero Romano, da Diocleziano in poi, cioè a quella che, più tardi, sarà la res publica Christiana medievale. L'Europa nasce, quindi, politicamente quasi come una forzatura cultu­ rale che, per distinguersi, deve organizzarsi anzitutto come Modello isti­ tuzionale, allo scopo di difendere la propria specificità rispetto all’Asia. L'i­ dea e la nozione di Europa, in altri termini, emerge gradualmente dall’in­ distinto Continente antico come un Modello politico-istituzionale che si propone di innalzare una muraglia concettuale, religiosa e di strutture eco­

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nomiche contro la minaccia, permanente e periodicamente rinnovata, pro­ veniente da Est. La stessa «fuga nel mare» dei popoli dell’Europa occidentale, quindi, e la loro trasformazione in potenze navali o oceaniche, dal Mediterraneo delle Repubbliche Marinare Italiane (Amalfi, Pisa, Genova, Venezia) alle spiagge atlantiche del Mare del Nord e a quelle del Baltico (Hansa, Olanda, Inghil­ terra), può essere letta come un’alternativa, risultata poi vincente, contro le maree terrestri nomadiche ricorrenti che battevano alle frontiere, sul limes della Fortezza Europea. In questo senso il destino attuale della Rus­ sia, che più di una volta nel passato non venne riconosciuta come terra europea, stretta ora, ancora una volta all’interno di una soffocante cintura di Paesi nuovi che l’hanno esclusa dal contatto territoriale con l’Europa centrale, non potrà non risentire della sua crescente eurasiaticità. Bisogna prendere atto, quindi, che l’Europa, dopo il crollo sovietico e la dislocazione jugoslava (un microcosmo conflittuale che, anticipatamente e su scala molto inferiore, riproduce i rischi di conflitto insiti nel crogiolo ex sovietico) non è più quella progettata da trattati di Roma e neppure da quelli di Maastricht. Ma non è neppure quella che sembrava fino al 1991, quando pareva che l'URSS potesse superare la prova della fine del comuniSmo. Essa ha ormai dei confini ben diversi, sia rispetto a quelli geografici tradizionali, sia rispetto a quelli politico-istituzionali, in quanto potrebbe, a buon diritto, includere la Turchia, mentre dovrebbe chiaramente escludere il Turkestan ex sovietico e l’Azerbaigian, lasciando in forse la «europeità» della Georgia e dell’Armenia. Nelle sedi istituzionali, dalla NATO alla CEE, alla UEO, e in particolare nella CSCE, dove tutte le ex Repubbliche Sovietiche sono state accolte come membri a parte intera, questa verifica geopolitica delle mutazioni di quadro non è stata ancora fatta. Eppure il fenomeno meriterebbe un’a­ nalisi approfondita perché la polverizzazione degli Stati-nazione, a est e a sud-est di Berlino (che sono già oggi da 16 a 18, se si tiene conto anche della secessione della Slovacchia, nonché del riconoscimento della Mace­ donia e della Bosnia-Erzegovina), dopo una prima fase disgregativa, ha gettato le basi per la nascita di nuovi processi di aggregazione, prima eco­ nomica e poi politica, di cui potrebbero essere oggetto, oltre ai cinque paesi dell’ex «Impero esterno» sovietico, e alla diaspora jugoslava, anche diverse repubbliche dell’ex «impero interno», come i tre baltici, la Bielo­ russia, l’Ucraina, la Moldavia, e perfino la Georgia e l’Armenia.

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Nuove certezze Questo complesso quadro di trasformazione geopolitica, che qui può essere solo abbozzato, comporta tutta una serie di conseguenze, ciascuna delle quali implica una revisione radicale delle certezze acquisite.

a) Prima fra tutte la liquidazione, perlomeno temporanea, del rischio di Einkreisung (accerchiamento) percepito storicamente dalla Germania, che aveva condizionato, oltre alla sua politica estera, l’intero assetto delle relazioni intemazionali, in Europa e nel mondo, dal 1871 in poi, dando luogo ad occasioni di guerra, sia nel 1914 che nel 1939, dissolto solo ora con la provvisoria scomparsa della minaccia proveniente da Est. b) Il nuovo scenario Est-europeo apre inoltre la strada alla rinascita dei processi d’influenza dell’occidente nei confronti della poussière d’états nell'Est e nel Sud-est europeo. Ciò comporterà, quanto prima, l’insorgere di fenomeni competitivi fra Paesi occidentali che potrebbero contrassegnare le politiche «orientali» delle maggiori potenze europee e degli Stati Uniti, con riflessi sulla coesione interna delle relazioni euro-atlantiche. c) Ciò rende incerta la relazione, e soprattutto la necessità storica della relazione, fra Europa occidentale e Stati Uniti, le cui tendenze neoisolazio­ nistiche si accompagnano a problemi di declino economico. Tutto questo rischia di mettere in forse - come è già evidente - i processi d’integrazione e d’istituzionalizzazione delle relazioni fra attori di comparabile sviluppo politico ed economico in Europa occidentale, di cui la NATO e la CEE sono gli esempi più strutturati. d) Accresce, inoltre, la minaccia di guerre convenzionali, e perfino nucleari limitate favorite dalla proliferazione delle armi di distruzione di massa, di conflitti civili e/o intemazionali, sia bilaterali che di area, nei Balcani, e in diverse zone dell’ex URSS, dovute anche alla crescente con­ vinzione della Russia che sarà necessario proteggere, anche con le armi, i diritti delle cosiddette «minoranze imperiali», vale a dire lo status dei russi dislocati nei territori ex sovietici. e) Il processo che ha scardinato il sistema orientale e l’URSS potrebbe sca­ tenare, poi, per effetto d’imitazione, una serie di spinte centrifughe in molte aree del Terzo mondo, dove 1’affrettata decolonizzazione degli imperi euro­ pei e l’incompetente gestione dei governi indigeni hanno accentuato, invece che risolto, le questioni etniche ed etnico-nazionali. Ne deriverebbero delle esplosioni indipendentistiche da parte di etnie e/o Nazioni senza Stato, come nel caso etiopico e somalo, in vaste zone del mondo oggi apparentemente esterne al focolaio nazionalista europeo, a cominciare dal Medio Oriente fino all’Africa nera, all’Asia meridionale e orientale, e perfino in America Latina.

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f) Da ultimo, il nuovo quadro geopolitico potrebbe scatenare reazioni difensive di tipo nazionalistico e protezionistico perfino in Europa occi­ dentale e Canada, mettendo a repentaglio non solo il processo di costru­ zione dell’Unità Europea, dall’Atto unico al trattato di Maastricht, che appare sempre più astratto e normativo invece che coerente e politico, ma anche stimolare le spinte subnazionali all’autonomia, già esistenti, orientandole all'acquisizione della sovranità e dell’indipendenza totale. g) Ciò può accadere non solo attraverso la secessione di aree etnica­ mente definite (Paesi Baschi, Irlanda del Nord, Alto Adige, Corsica, Sco­ zia, ecc.), ma anche attraverso la separazione consensuale (fiamminghi e valloni, cechi e slovacchi), ovvero mediante il distacco di parti impor­ tanti del territorio statale attraverso quello che viene definito come una forma di nazionalismo regionale, basato sull’allentarsi progressivo dei legami costituzionali, e sulla critica radicale del regime politico interno, attaccando le forme residue di centralismo statale per appropriarsi del controllo politico e sociale delle aree a più alto sviluppo (leghe).

Nuovo modello Ne deriva che, a conti fatti, l’unico pivot di potenza, ovvero l’unica grande potenza che è davvero contigua a questo sottosistema centro-orientale, di cui fanno parte i cinque paesi ex satelliti dell’URSS, più le sei ex repubbliche sovietiche (Baltici, Bielorussia, Ucraina, Moldavia), oltre alle repubbliche caucasiche e alla diaspora ex Jugoslavia e balcanica, e che, al tempo stesso, pare abbastanza forte da assumersi un ruolo egemone oggettivo è, nonostante i vecchi timori e le nuove controindicazioni, proprio la Germania. L’ipotesi da cui muoviamo presuppone ovviamente una modifica con­ siderevole dell’opinione comune secondo la quale l’integrazione europea dovrebbe avere, come fine ultimo, quello dell'unione politica di tipo fede­ rale. La centralità tedesca, infatti, mette oggettivamente in crisi qualsiasi Modello politico di tipo a-centrato (o a-centrico), cioè simmetrico e mul­ tilaterale, per sostituirlo con uno o più Modelli di tipo stellare, cioè asim­ metrico ed egemonico, quindi multi-bilaterale, con al centro dei raggi una grande potenza leader. Il Modello a-centrato è caratterizzato dalla graduale delega di sovra­ nità nazionale ad organi sovranazionali e presuppone la sostanziale simmetricità delle interdipendenze e dei ruoli degli attori, o Stati membri, che ne fanno parte. In altre parole il Modello a-centrato si struttura sulla base di un delicato equilibrio di interazioni multilaterali senza la pre-

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senza di un leader di potenza. In questo senso il Modello originariamente previsto dai trattati di Maastricht costituisce un esempio evidente di Modello a-centrato a Dodici, che è al tempo stesso democratico e burocratico-normativo. Ovviamente le regole del gioco e i vincoli premio/punizione previsti da Maastricht sono difficili da realizzare per gli stessi Dodici Stati membri - come dimostrano i recenti avvenimenti - e quasi impossibili per even­ tuali altri partner aggiuntivi. Il problema, da gran tempo in discussione negli ambienti europei, del trade-off fra il deepening e il widening della CEE, cioè fra l’approfondimento dei processi d’integrazione e l’allarga­ mento della Comunità ad altri soggetti, resta infatti un quesito irrisolto che tende a risolversi da sé nel senso che il deepening sembra, tutto som­ mato, rinviato a data da destinarsi, mentre il widening - se e quando avverrà - accentuerà il carattere stellare e germanocentrico della CEE, attraverso l’ingresso degli attori dell’ex EFTA. Per di più il Modello a-centrato, per funzionare adeguatamente, ha biso­ gno di operare all’intemo di un ambiente del tutto stabile, come era quello del sistema bipolare, cioè in un contesto sistemico globale dove non sussi­ stano dinamiche esplosive o disgregative. Il Modello stellare, invece, per le sue caratteristiche di Modello asimmetrico, non predeterminato istituzio­ nalmente, satellitare o centrato su un pilastro di potenza oggettivo, com­ porta una minore rigidità nello schema e nell’attuazione, e una maggiore adattabilità in un contesto fortemente dinamico come l'attuale. Tale paradigma provoca inoltre tutta una serie di conseguenze derivanti dal fatto che si tratta di un Modello operativo che trova fondamento nei rapporti di forza reali, sintetizzabili con il concetto di egemonia, cioè in una struttura multi-bilaterale dove la relazione principale, quella fra paese egemone e singoli attori satelliti, è garantita dalla superiorità del primo sui secondi, esattamente come accadeva nella formula funzionale fra i mem­ bri del Patto di Varsavia e l’Unione Sovietica, ovvero in quella fra i paesi della NATO e gli Stati Uniti. La differenza fra l’attuale Modello di germanizzazione (Modello-G) e i precedenti modelli asimmetrici ed egemonici istituzionali (NATO e Patto) risiederebbe proprio nel fatto che la Germania stabilirebbe delle relazioni d’influenza sui diversi attori europei e quasi-europei, senza costruire una rete d’interazione di tipo istituzionalizzato. Salvo nel caso di quella che chiameremo la variante Maastricht (variante-M) del Modello-G, cioè nel caso in cui la Germania utilizzi la CEE e i trattati di Maastricht come strumento indiretto di trasferimento di potenza dall’occidente verso 1’0riente europeo, servendosi delle regole del gioco CEE per coprire i rischi politici e fornire strumenti di mediazione diplomatica ad un proprio pro-

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getto egemonico che sarebbe di difficile e pericolosa attuabilità, se libe­ ramente governato in prima persona da Bonn. In questo caso l’uso improprio, e quindi la trasformazione del progetto Maastricht da architettura a-centrata in architettura stellare sotto direzione tedesca, potrebbe avere perfino degli effetti positivi per la CEE in quanto tale, nonché per la maggioranza dei suoi Stati membri. Potrebbe favorire infatti la comunicazione Est-Ovest dell’intero gruppo dei paesi dell’Europa occidentale, conferendo al tempo stesso una simbolica unità d’interni alla CEE, che le attuali esitazioni e incertezze giuridico-istituzionali non assi­ curano certamente.

Germanizzazione Sulla base di queste considerazioni d’ordine generale che legano insieme la dislocazione dell’Europa postbellica e la redistribuzione dei paesi di potenza nelle aree centro-orientali del continente, l’ipotesi che qui affac­ ciamo, cioè quella di una germanizzazione, graduale e inevitabile, di vasti spazi dell'oriente eurasiatico, non è del tutto abusiva. La teoria della germanizzazione non è comunque nuova. Essa risale alla prima metà del secolo scorso quando Friedrich List (1972), l’ideatore dello Zollverein fra gli Stati tedeschi, ipotizzò la creazione di un grande continuum economico-spaziale autosufficiente, in grado di contrastare la superiorità commerciale britannica. Scriveva List, già nel 1842, che la Germania, insieme ai Paesi del Basso Danubio e del Mar Nero, avrebbe potuto avere «un hinterland analogo a quello di cui dispongono gli Stati Uniti con il Far West». Ha preso nomi e definizioni diversi, da allora in poi, fino ad assumere dapprima i tratti confederali delle varie teorie sulla Mitteleuropa austriaca, poi quelli più inquietanti della Weltpolitik guglielmina, e finalmente quelli davvero minacciosi deìLebensraum e della Grossdeutschland. hitleriana. Nella sostanza, però, si trattava dell’aspirazione mai realizzata alla renovatio impe­ rii, cioè alla ricentralizzazione dell'Europa attorno ad un fuoco continentale di cui il corpo etnico-culturale germanico sarebbe stato il centro. La filosofia politica che la anima è certo discutibile. Tuttavia non si può negare che essa si fonda sull’analisi reale dei caratteri geopolitici e geostra­ tegici del continente europeo, e in particolare dell'area ad Est di Berlino. È certo vero che il differenziale economico fra la Germania e suoi part­ ner nella CEE è ampio e crescente e che, all’interno della stessa Comunità a Dodici, nonostante le buone intenzioni, si stanno creando almeno due

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aree economico-monetarie che, anche al di là dei confini della CEE, vanno progressivamente distanziandosi, quella del marco e dell'economia tede­ sca (la serie A), che marcia a velocità sostenuta, e quella delle monete e delle economie meno forti, che stanno cedendo terreno (la serie B). Tut­ tavia, l’azione della politica estera tedesca verso l’Occidente è, tutto som­ mato, ancora di basso profilo, strettamente ancorata (con l’eccezione della politica monetaria) alle regole del gioco precedente, cioè ai due pilastri della costruzione europea regolata dai meccanismi a tappe della CEE e, aU’intemo di questa, dall’alleanza bilaterale franco-tedesca che ne ha costi­ tuito la spina dorsale fin dalla creazione della CECA nel 1951. In altri termini la Germania di oggi, e la sua classe dirigente, si sfor­ zano di non spaventare gli alleati occidentali con la propria «potenza potenziale» , mentre oggettivamente ne condizionano l’azione con la loro «potenza effettiva». Tutto questo presuppone che il sistema politico e la classe politica tedeschi mantengano le proporzioni attuali e non avven­ gano sostituzioni radicali nei gruppi dirigenti. In particolare che l’attuale equilibrio politico-parlamentare non si dissolva a favore di movimenti o gruppi più estremi. Altrimenti il rischio che la graduale germanizzazione potrebbe compor­ tare sarebbe quello di avviare il riorientamento complessivo, non solo delle relazioni geopolitiche in Europa, ma anche la trasformazione radicale, per effetto di feedback, dei sistemi politici in molti paesi del Continente.

Quattro aree A Oriente invece, le cose vanno in un modo ben diverso. Lo svuotamento improvviso della potenza sovietica ha infatti aperto il varco ad opportunità e rischi molto consistenti che la Germania, con comportamento essenzial­ mente autonomo, svincolato cioè dal condizionamento delle regole del gioco CEE, che non prevedono nulla - o quasi - per evenienze di questo tipo, ha cominciato, faticosamente e spesso controvoglia, ad affrontare. Per comodità di esposizione possiamo identificare ad est e a sud-est di Berlino almeno quattro grandi aree geopolitiche e geostrategiche che possono, per esigenze analitiche, essere tenute distinte fra loro. Si tratta di aree o regioni geopolitiche i cui caratteri differenziali scaturiscono dal­ l’interazione di due criteri metodologici che operano congiuntamente: a) la scalarità discendente dello sviluppo politico ed economico; e b) la con­ tiguità, ovvero la distanza geografica e culturale, di ciascuna di esse da Berlino e/o da Mosca.

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Questo tipo di analisi del Modello-G o di germanizzazione non pre­ suppone affatto la necessaria dissoluzione della complessa rete di inte­ razioni politiche, economiche e istituzionali attualmente esistenti. Nel senso che non esclude in nessun modo la permanenza, anche nel futuro, del sistema di cooperazione e di integrazione politico-economica di ori­ gine occidentale di cui la NATO e la CEE sono gli esempi più strutturali. Il problema non è infatti quello della disgregazione formale e ufficiale delle alleanze o delle organizzazioni (si pensi che la Società delle Nazioni è sopravvissuta, prima della nascita dell’ONU, alla Seconda guerra mon­ diale), quanto quello del loro oggettivo svuotamento operativo e proget­ tuale. Il rischio, in altri termini, è quello della invisibile trasformazione del Modello a-centrato federale in un Modello stellare a guida tedesca, ovvero della edulcorazione sempre più cospicua del Modello dell’inte­ grazione europea occidentale, nella sua versione politica più recente, di cui Maastricht e la filosofia che la anima sono un'evidente testimonianza, in una struttura dipendente e, tutto sommato, marginale, di quella rior­ ganizzazione geopolitica graduale dell'Europa ad Est di Berlino su para­ metri di cui il Modello-G è un’immagine simulata verosimile. Le aree di germanizzazione potenziale sono le seguenti:

1. Mitteleuropa

Fanno parte di quest’area, che potremmo definire più culturale che non strettamente politica, quegli Stati-nazione o aree subnazionali economica­ mente integrate, complementari o satelliti dell’economia tedesca che, per ragioni storiche o d’interesse, hanno condiviso e condividono, in parte o in tutto, le vicende di quel mondo, sia ad ovest che ad est di Berlino, e che oggi sono in certa misura attratti dalla nuova entità germanica. A nord e ad ovest possiamo prendere in considerazione il Benelux e la Scandinavia. Ad est, invece, possiamo includere la prima fascia territoriale di contiguità, geografica, economica e storico-culturale, che circonda la Ger­ mania con una catena di Stati cuscinetto. Da nord a sud questa fascia com­ prende la Polonia, la Repubblica Ceca e la Slovacchia, l’Ungheria, l’Austria, la Svizzera, l’Italia, o la sua componente centro-settentrionale, la Slovenia e la Croazia, vale a dire i territori dell’ex Sacro Romano Impero. 2. Balcani

Fanno parte di questa fascia, che rappresenta, nel processo di ger­ manizzazione potenziale, una zona d’influenza derivata dalla Mitteleu­ ropa, anche se più distante geograficamente e difficilmente controlla­

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bile, dato l'alto livello di conflittualità ivi esistente, gli Stati sorti dalla diaspora della ex Jugoslavia, e in particolare la Bosnia-Erzegovina, l’Al­ bania, la Macedonia, la Serbia-Montenegro, nonché le province inquiete dell’area serba (Kossovo, Vojvodina, Sangiaccato di Novi Pazar), oltre alla Romania-Moldavia, Bulgaria, Grecia e Turchia. Questa vasta area a sud-est della Germania è stata più volte negli ultimi secoli e in particolare negli ultimi cento anni, oggetto di contese fra le grandi potenze per l’esercizio di un’influenza dominante. In particolare il confronto fra il mondo Austro-Tedesco e quello Ottomano prima, fra quello Austro-Tedesco e quello d’influenza russa successivamente. La solu­ zione al quesito dell’influenza prevalente è stata storicamente data in modi diversi, a seconda della congiuntura temporale e di forza che si è verifi­ cata nell’area. Dapprima attraverso un confronto Austro-Turco durato più di due secoli, poi attraverso un'alleanza asimmetrica Germano-Turca fino alla Prima guerra mondiale. Finalmente mediante la prevalenza Russo-Sovie­ tica nell’area dopo la Seconda guerra mondiale. Oggi, con il crollo del polo sovietico, uno spazio vuoto di potere è nuovamente aperto, senza veri ostacoli, all'influenza germanica. I limiti dell’influenza tedesca, soprattutto in Serbia-Montenegro, Gre­ cia, Albania e Macedonia, ma anche in Polonia e Cecoslovacchia, sono soprattutto di ordine psicologico e culturale, non politico o strategico. Essi sono essenzialmente dovuti alle memorie storiche dell’occupazione bellica nazista (e fascista), anche se nei paesi ex comunisti il ricordo della presenza tedesca è stato addolcito dalla comparazione con i comporta­ menti sovietici.

3. Ex URSS europea È questa la terza fascia di attori sui quali la potenza tedesca comincia ad esercitare la sua influenza nei territori occidentali europei dell’ex Unione Sovietica, e in particolare nei paesi Baltici, in Bielorussia, in Ucraina e in Moldavia. In quest’ultimo caso si verifica una sovrapposizione geografica con la fascia che abbiamo detto balcanica, in quanto la Moldavia è ormai una provincia rumena, anche se ufficialmente continua a dichiararsi Repub­ blica indipendente. Quest’area si distingue dalla fascia dei paesi della Mitteleuropa e dalla sezione balcanica essenzialmente per la sua struttura socio-economica, per il più basso livello di sviluppo economico e produttivo, nonché per la sua contiguità territoriale, tranne che nel caso moldavo, con la Federa­ zione russa. Nonostante questo, però, si tratta di una regione che ha una

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forte propensione a collegarsi e a stabilire delle relazioni di interdipen­ denza, sia pure asimmetrica, con la Germania, ovviamente per motivi economici, ma anche per ragioni di sicurezza nei confronti della minac­ cia russa, dato che non ha neppure molte di quelle prevenzioni storiche e culturali antitedesche che sono, per converso, frequenti nelle zone di contiguità territoriale con la Repubblica federale di Germania. L'Ucraina, in particolare, rappresenta un caso emblematico. Essa ha infatti molteplici motivazioni per aspirare ad una stretta interdipendenza e forse, nel futuro, anche all'integrazione con la Germania, rivitalizzando una consolidata aspirazione che si è già manifestata più volte nel pas­ sato, sia nella prima che nella Seconda guerra mondiale. La comple­ mentarità economica e produttiva tedesco-ucraina è strutturale e morfo­ logica ed è sempre stata così evidente ad entrambi gli attori che solo una Russia forte ed espansiva potrebbe tentare di impedirla.

4. Caucaso e Asia centrale

Meno evidente, in questa fase, sembra essere invece il raccordo fra la Germania e quell’Eurasia anteriore, incerta e marginale, di cui fanno parte le ex repubbliche sovietiche Transcaucasiche: Georgia, Armenia e Azer­ baigian. Il tramite geopolitico, fra la Germania e i paesi caucasici, inclusi quelli islamici dell’Asia centrale, pur nella sua ambiguità di Stato laico e musul­ mano, nazionalista ed ex imperiale, potrebbe diventare ancora una volta la Turchia. Questo paese, la cui marcia verso la modernizzazione politica ed economica rischia seriamente di essere interrotta dalle spinte fonda­ mentaliste dell’islamismo troverà forse, nel recupero delle aspirazioni e forse anche delle funzioni egemoniche proprie del vecchio Impero Otto­ mano, le ragioni politiche per evitare un avvitamento negativo di matrice teologico fondamentalista, e quindi il suo allontanamento dall’Europa. L’occasione è fornita dallo sfascio dell’ex Impero Russo il cui vuoto di potere legittima molte rinnovate aspirazioni all’egemonia da parte della Turchia. Ad Est, la sua zona d’influenza naturale è localizzata nell'area cau­ casia e dell’ex Turkestan russo (Azerbaigian e Caucaso del Nord, al di qua del Mar Caspio, nonché Uzbekistan, Turkmenistan, Kazakistan, Tagikistan e Kirghizistan, al di là), fino ai confini con la Cina dove peraltro esiste un'ampia etnia turca di oltre trenta milioni di persone (Turkestan cinese). Mentre ad Ovest potrebbe perfino preludere ad un possibile ritorno della Turchia nell'Europa balcanica (Bosnia, Kossovo, Macedonia, Albania, Sangiaccato), approfittando della dissoluzione della Jugoslavia e della diffusa reazione contraria alle eccessive aspirazioni panserbe.

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In questa chiave la Turchia potrebbe diventare la longa manus della Germania per la penetrazione economica nei territori islamici del Cau­ caso e del Turkestan ex russo, in modo tale da poter giocare poi, in pro­ prio e in prima persona, la carta politica, etnica e culturale, di cui le cor­ renti panturaniche e panturchiche, oggi rinascenti ad Ankara, sono un interessante segnale.

La rinascita tedesca Ma al di là delle forme che potrebbe assumere il processo di germa­ nizzazione nelle sue due varianti, quella integrale e quella moderata di gestione dell’area CEE come struttura di governo dell’ovest per l’espan­ sione dell'influenza ad Est, che qui abbiamo per grandi linee indicato, ci sembra utile azzardare qualche considerazione di ordine più generale relativa alla forma che, date queste premesse, potrebbe assumere il Sistema Politico Internazionale post-bipolare, soprattutto in Europa. Il significato politico del ruolo che la Germania unita, intesa non solo come protagonista dello spazio economico centrale ma anche come grande potenza politica, si accinge ad esercitare sul continente è, para­ dossalmente, quello di infondere nuova vita all’idea di Europa, fin qui tenuta in piedi a stento dall’interminabile e astratto processo normativoistituzionale della CEE. È ormai evidente che l’Europa, immaginata a Maastricht pochi mesi or sono, nei fatti - e nonostante l’esito dei voti di ratifica dei diversi paesi - non è più realizzabile come tale, ma che sarà invece necessario rinego­ ziare molti aspetti del trattato alla luce delle profonde mutazioni struttu­ rali in atto e in particolare il pilastro essenziale, quello della unione eco­ nomica e monetaria. Sfumano, inoltre, in una incerta lontananza tempo­ rale gli obiettivi politici veri e propri, quelli dell’unione politica e in par­ ticolare, dopo i fallimentari esempi della Jugoslavia e del Golfo, quelli della politica estera e della politica della difesa comuni, di cui l’UEO è ben misero surrogato. Di fronte a questa incerta marcia verso l'Europa, di tipo istituzionalfederale e di stampo ideologico neofunzionalista, minacciata ora dalla crisi del Sistema monetario europeo e dallo sgretolamento dell’idea stessa del federalismo in diverse parti del mondo, la rinascita della Germania, piaccia o non piaccia, appare come la sola alternativa credibile. E ciò per diverse ragioni. Anzitutto perché è l’unico processo sponta­ neo che prende in considerazione, non solo l’Europa dei Dodici, ma anche

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i nuovi attori dell’ex URSS, senza precondizioni politico-giuridiche, e quindi senza un programma di regole dettagliate generalmente inappli­ cabili, di procedure rigide immodificabili, ovvero di petizioni di princi­ pio non vincolanti. In secondo luogo perché corrisponde alla necessità di abolire defini­ tivamente la divisione-spartizione immaginaria dell’Europa, creata dalla Guerra Fredda, e tuttora presente nella filosofia politica di gran parte delle élites politiche occidentali. La Germania, infatti, sul cui corpo ter­ ritoriale si era organizzato il sistema bipolare, è oggi le unica potenza in grado di ergersi al centro del continente senza poter essere accusata di favorire gli interessi di una delle due ex superpotenze. In terzo luogo perché la germanizzazione avrebbe l'effetto di ampliare la cornice della sicurezza europea, e quindi anche di quella dell’occidente, agganciando ad una potenza centrale europea molti Paesi di recente sovra­ nità e indipendenza il cui sistema di sicurezza, sia interno che esterno, è del tutto inconsistente dopo il collasso del sistema sovietico. Infine perché, attraverso il legame con la Turchia, la Germania potrebbe impedire, insieme con gli Stati Uniti, che però in Medio Oriente sono considerati una potenza esterna all’area e per definizione imperialista, l’aggravarsi della contrapposizione politico-religiosa fra i diversi attori dell’area medio-orientale e l’espandersi del fondamentalismo islamico. In altre parole, il disegno della germanizzazione, per quanto depurato dei suoi tratti imperiali o espansivi, soprattutto nella variante istituzio­ nale CEE, si propone di conferire all’Europa, spogliata del suo ruolo sto­ rico con la fine del secondo conflitto mondiale e la spartizione fra Stati Uniti e Unione Sovietica un pilastro di aggregazione possibile, che tenga conto dei rischi e dei vantaggi per gli attori del continente, derivanti dal recupero di identità (attraverso la Germania), sia nei confronti della mag­ giore potenza navale (gli Stati Uniti), sia nei confronti della massima potenza terrestre (l’Unione Sovietica).

I costi da pagare Questo scenario di germanizzazione potenziale delle quattro aree ha però notevoli controindicazioni. Potrebbe infatti sollecitare il risveglio di sentimenti anti-tedeschi in varie parti d’Europa, rendere inoltre compe­ titivi, fino all’ostilità, gli Stati Uniti, che potrebbero temere di essere gra­ dualmente estromessi dal Continente europeo, preoccupare la Francia, 1’1-

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Il Sistema Politico Internazionale

talia, la Spagna e il Regno Unito che, anche per ragioni di ordine econo­ mico, entrerebbero a far parte della fascia meno forte della CEE, quella che potremmo definire - con Mackinder (1919-1942) - delle Rimlands che guardano di più al Mediterraneo e all’Atlantico, rispetto allo Hertland euro­ peo, costituito dall’area del marco tedesco e dalla fascia mitteleuropea, che è, come sempre, calamitata dalla Russia eurasiatica. Ma non basta, perché a questa opposizione, che si potrebbe definire «occidentalista», potrebbe ben presto aggiungersi proprio quella «orien­ talista», molto più pericolosa, della nuova Russia, la cui estrema debo­ lezza economica e fragilità politica, non escludono l’assunzione improv­ visa della bandiera nazionalista e autoritaria, per ora ancora allo stato latente, in difesa degli oltre venticinque milioni di cittadini di etnia russa che, dopo essere stati la «razza padrona», ovvero «le minoranze impe­ riali» sono oggi diventati una minoranza, spesso delegittimata, in molte Repubbliche ex sovietiche. In questo contesto generale, che modifica radicalmente il tradizionale scenario interpretativo del Sistema Internazionale postbellico, il ruolo assegnato all’Italia è del tutto marginale. Non solo e non tanto per la dif­ ficile situazione interna, sia politica che economico-sociale, quanto per i limiti oggettivi che la collocazione geopolitica del paese impone. L’am­ bivalenza strutturale dell'Italia, divisa in due aree distinte (Centro-nord e Sud-isole), mai superata in centotrenta anni di unità politica del Paese, è oggi paradossalmente accentuata della nuova centralità che sta assu­ mendo la Germania nel continente. Le regole del gioco politico europeo stanno rapidamente mutando. Nel passato, infatti, l’essenzialità dei singoli attori nazionali, all’interno del vecchio sistema dell'Europa occidentale (NATO e CEE), e quindi la loro indispensabilità nel contesto del confronto bipolare, era scontata in par­ tenza, quali che fossero le condizioni del loro regime politico ed econo­ mico. La loro presenza e l'inviolabilità delle loro frontiere costituiva un dato di fatto immutabile. Ne derivava che il loro comportamento politico e le loro performances economiche, per quanto importanti fossero, non potevano comunque incidere sulla struttura del sistema europeo poiché il criterio di valutazione generale dei ruoli e dei pesi di potenza ruotava attorno al grado di fedeltà ideologica all’alleanza, non sulla qualità del loro regime politico interno. Oggi non è più così. I partner della Germania in Europa occidentale, se vogliono essere considerati degli alleati alla pari, devono infatti rispet­ tare i vincoli e le procedure dettate dalla potenza egemone, altrimenti vengono lasciati indietro.

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La ricostruzione dell’Europa

1. La fine del Novecento sta ricucendo i fili di un antico sogno che era stato interrotto dalle tre Guerre Mondiali (due calde e una fredda) del Ventesimo secolo, quello dell’idea, se non del progetto, di Europa. Lo sbancamento del sistema bipolare è stato l’evento originario che ha pre­ parato il terreno per la «ricostruzione» dell’Europa, intesa come «cuore» e quindi Ursprung dell’occidente, dopo la sua «distruzione» e divisione avvenuta nel 1945 ’. Per ricostruire l’Europa è però necessario passare attraverso la iden­ tificazione dei suoi «contorni», non tanto geografici quanto politici e cul­ turali, sia in termini simbolici che virtuali. La questione dell’Europa è, quindi, ancora una volta un problema di confini, di frontiere, di limiti, veri o immaginari, reali o percepiti12. La distruzione dell'Europa era stata la conseguenza diretta della «guer­ ra civile europea» del Novecento, iniziata nel 1914 e conclusasi nel 19903. La sua ricostruzione passerà attraverso la unificazione politica ed eco­ nomica, ma soprattutto culturale, altrimenti non passerà. Tuttavia non basta ipotizzare un’area integrata di tipo tecno-mercantile come quella prevista dai Trattati di Roma, e neppure un reticolo istituzionale e nor­ mativo come a Maastricht, per avere il blueprint dell’Europa del futuro. Ci sono infatti molti errori possibili nell’interpretazione del progetto europeo che sono di diverso ordine e dimensione. Sarebbe ad esempio un errore quello di credere che i processi multila­ terali di unificazione europea di tipo normativo e funzional-istituzionale (le politiche comuni, per intenderci, e gli organi di governo), potranno so­ stituire le aggregazioni (o alleanze) politiche fra attori nazionali. Altrettanto sbagliato sarebbe immaginarsi che il progetto globalista

1 Hillgruber, 1988.

2 Coudenove-Kalergi, 1929. 3 Schmitt, 1974, 1991; Nolte, 1987, 1988.

La ricostruzione dell’Europa

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deU’«ordine mondiale» (ONU, ecc.), vada nella stessa direzione della ri­ costruzione effettiva dell’Europa post-bipolare. Ma sarebbe soprattutto illogico non definire i confini di quell’Europa ricostruita, stabilendone gli spazi e fissandone i vincoli. Da ultimo sarebbe ingenuo illudersi che l’Occidente europeo non sia in conflitto strutturale con l’Eurasia, e che l’Oceania, cioè il mondo atlan­ tico, sia ormai un’entità «integrata» con l’Europa, e non invece solo «in­ terdipendente ». Nonostante queste avvertenze è un dato di fatto che la fine del Nove­ cento ha comunque aperto la strada alla possibile riconquista dell’Europa e in particolare dell'Eurocentrismo occidentalista4 inteso come valore car­ dine centrale, capace di sciogliere le incompatibilità europee, e quindi le conflittualità etnonazionali in un’operazione di libera associazione fra po­ poli diversi, uniti da comuni valori. Quello che potremmo chiamare lo Zollverein comunitario, cioè il pro­ cesso di integrazione economica in atto a Bruxelles, è certamente un pri­ mo passo in quella direzione, ma rappresenta solo una precondizione par­ ziale rispetto all’unificazione reale. Tuttavia, esattamente come lo Zollve­ rein tedesco del 1834, ispirato da Friedrich List (1972), anche il mercato unico europeo e le successive proposte di integrazione hanno un carat­ tere protezionistico e presuppongono una distinzione netta, e potenzial­ mente antagonistica, fra Europa e non-Europa, fra noi e gli altri. Questo è un punto di sostanza. L’Europa si ricostruisce solo a patto che abbia una coscienza della sua diversità. In altri termini l’Europa è un’or­ ganizzazione aperta che però conosce i propri limiti spaziali e culturali. Questa necessità spiegherebbe perché l'Europa di Bruxelles non può esse­ re altro che un primo passo senza avvenire, una specie di «mostro» messo insieme dal Dott. Frankenstein, una collezione di organi e parti di un si­ stema senza vita, che tale resterà se non verrà animato dalla «distinzione» fra sé e gli altri. L’Unione Europea di oggi è infatti poco più di un trade bloc che esclu­ de i terzi, ovvero li dispone in ordine gerarchico di avvicinamento con tappe normative intermedie, dall’Associazione alle Convenzioni colletti­ ve (tipo Lomé), che stabilisce le modalità procedurali e le «tasse» di ac­ cesso, che unifica i suoi membri dividendoli dagli altri con il metodo quantitativo dell’accumulazione legislativa e tecnica. Questa forma della ricostruzione europea era viziata sin dall’origine da due vincoli insormontabili: 1) la matrice euroatlantica dell’operazio­

4 Spengler, 1918, 1957.

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Il Sistema Politico Internazionale

ne e il clima della guerra fredda che ne aveva facilitato la nascita; e 2) l’i­ deologia neofunzionale, graduale e linearista, che prevedeva una cresci­ ta programmabile dell’«Europeità» dell'organizzazione. Questa Europa è oggi in fase di stallo, e comunque è istradata su un binario morto dell'evoluzione, perché manca di un principio ispiratore e di un principio organizzatore, che vada al di là della normativa istitu­ zionale e della progettualità tecno-mercantile5. L’Europa delle «istituzioni» e delle «politiche» economiche, ma anche quella dei «cittadini», non è sufficiente a stimolare la crescita spontanea di un «sentimento» sopranazionale comune, quella sorta di mythomoteur emotivo e culturale che solo è in grado di mobilitare le coscienze6. In al­ tre parole l’Europa tecno-mercantile non possiede il «carattere origina­ rio» europeo che solo potrebbe orientare e stimolare la «Europeità». Per ottenere questo risultato sarebbe invece necessario ricondurre l’Eu­ ropa e gli Europei alla consapevolezza degli unici fattori comuni, di cul­ tura e di civilizzazione, sulla base dei quali l’unità dell’Europa potrebbe essere immaginata. Questi elementi profondi, i cardini della coscienza europea, sono sostanzialmente basati sul principio che l’Europa è il cuo­ re dell’occidente, e che l’Europa si è distinta dall’Asia, «inventando» l’Occidente attraverso la lotta permanente contro l’Oriente. In altri termini l’Europa per dare vita al «mostro» dell’unificazione impossibile di tipo tecno-mercantile dovrà ritrovare la fonte e il senso della propria occi­ dentali tà che proprio nella lotta contro l’Oriente si è forgiata e temprata. Muovendo da queste aporie la relazione prende le mosse da una serie di assunti concettuali che ne costituiscono la struttura intellettuale.

a) l’Europa, come «spazio organizzato» 7, è più un concetto e quasi una «realtà virtuale» che non un territorio geograficamente definito; b) l’Europa è il risultato di uno scontro permanente tra Oriente e Oc­ cidente; c) l’Europa «è» l’Occidente: la sua eredità e identità culturale sono il risultato dell’eterna lotta contro l’Est, uno spazio organizzato più vasto e più forte che ha rappresentato sempre una minaccia per l’Ovest. In base a queste premesse, per reagire ad una minaccia esterna e per poter sopravvivere, l’Europa è stata costretta a trasformarsi in una «for­ tezza» assediata. La sensazione di vivere all’interno della «Fortezza Eu­

5 Monnet, 1976, 1978, 1988. 6 Smith, 1986, 1992.

7 F. Ratzel, 1897.

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ropa» è diventata così, fin dall’inizio, un fattore costante dell’identità eu­ ropea. L’unica porta verso il mondo esterno è stata, fin dal XV secolo, il suo «cancello» occidentale spalancato Sull’Oceano Atlantico, mentre la frontiera orientale è sempre stata chiusa da un limes politico e culturale che tuttora separa l'Europa dall’Asia. Gli europei quindi sono stati spinti a viaggiare, scoprire e conquista­ re più «per mare» che «per terra», dato che era più facile scoprire il mon­ do «occidentale» (le Americhe, ma anche l’Africa e il Sud-Est asiatico) per via marittima che «conquistare» l'Eurasia per via terrestre. Mentre l’Ovest non ha confini ad occidente (a parte la «linea dell’inimicizia» di antica memoria8, la linea di frontiera con l’Est è sempre stata una stri­ scia di terra non più larga di trecento chilometri, che va dal Mar Bianco al Mar Nero. È in questo contesto storico e geopolitico che possono essere delinea­ te delle analogie tra l’«Unione europea» odierna e la «Fortezza Europa» tradizionale. La sua debolezza politica deriva daU’ambiguo processo de­ cisionale all'intemo deH’Unione, mentre la sua forza deriva dalle barrie­ re economiche e commerciali che ha creato di fronte al mondo esterno. La crescente integrazione e coesione fra gli Stati membri dell’Unione im­ pedisce automaticamente agli attori extraeuropei di entrare a far parte dell'organizzazione. In altre parole, in virtù della sua forza l’Unione in­ debolisce l’identità nazionale dei suoi Stati membri, ma allo stesso tem­ po ne aumenta la coesione interna verso l’esterno. L’Europa, come «continente concettuale», ha quindi un «nucleo», ov­ vero un «centro» il quale è poi uno Schwerpimkt, che costituisce anche la prima linea di difesa della «Fortezza Europa» 9. Questo nucleo è in­ centrato sulla Germania. Infatti, fin dal Medio Evo (il Sacro Romano Im­ pero di nazione tedesca) il suo ruolo è stato quello di difendere l’Ovest dall’Est. Lo stesso concetto di Festung Europa è una formula politica te­ desca basata proprio su di un’idea difensivo-controffensiva dell’Europa10. La stessa idea di «Nazione Tedesca», fondata sul principio del Blut und Boden, illumina il ruolo-guida che la Germania deve svolgere all’intemo della Festung Europa 11. Questo spiega perché la divisione della Germa­ nia, nel 1945 e durante la Guerra Fredda, ha portato alla divisione del-

8 C. Schmitt, 1974, 1991.

9 R. Arnheim, 1982, 1984. 10 K. Haushofer, 1924; K. Haushofer, 1925; K. Haushofer, 1934. 11 M. Korinman, 1990; A. Hillgruber, 1988.

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l’Europa Occidentale e, così facendo, ha evidenziato l'impotenza politi­ ca, ovvero la «distruzione», dell’unità continentale. L'unificazione della Germania nel 1990 ha reso possibile l’unificazione dell’Europa Occiden­ tale ed ha riconfermato il ruolo geograficamente e politicamente emi­ nente della Germania come prima linea di difesa dell’Europa contro l’Est, e forse anche verso l’Estremo Occidente.

2. Partendo da questa serie di considerazioni, che costituiscono le fon­ damenta strutturali della Nuova Europa, è possibile analizzare anche il crescente trade-off tra unificazione dell’Europa e sua frammentazione. Se il significato più profondo di Europa è quello di essere un simbo­ lo dell’occidente che difende la propria identità dalla minaccia dell’Oriente, allora la fine della Guerra Fredda, anche se ha ridotto i rischi di un attacco proveniente da Est, non ha risolto le innate contraddizioni che hanno caratterizzato tutta la storia del Continente. L’antagonismo tra Oriente e Occidente non è tramontato e non può essere dissolto facil­ mente. La situazione attuale di vuoto e di incertezza politica nell’ex Im­ pero sovietico può certo rappresentare un’opportunità per spostare la li­ nea di confine dell’ovest ancora più ad Est, estendendo il territorio del­ la «Fortezza Europa» ed il suo spazio-cuscinetto di sicurezza, ma non è sicuramente il modo per sbarazzarsi, una volta per tutte, del conflitto ori­ ginario tra Est ed Ovest, che è alla base della sua stessa identità. La fine della Guerra Fredda può quindi offrire all’Europa due alter­ native incompatibili fra di loro:

a) l’Ovest aumenterà la propria influenza ad Est, assorbendo nel suo «spazio» gli Stati dell’Europa Centro-Orientale (associandoli cioè alla Unione Europea e/o alla NATO), accelerando per questa via la possibile frammentazione dello spazio eurasiatico in seguito all’ulteriore sfalda­ mento della Federazione Russa; oppure b) l’Est riprenderà l’iniziativa nel tentativo di imporre le proprie con­ cezioni «eurasiatiche», riducendo l’identità occidentale dell’Europa, spin­ gendo verso Ovest per contagio il processo di frammentazione che ha già dissolto l’Unione Sovietica, la Jugoslavia e la Cecoslovacchia. In altre pa­ role, il pericolo che proviene attualmente da Est potrebbe essere quello di un’interferenza con il processo di unificazione europea, che verrebbe infettato con l’inoculazione dei germi del subnazionalismo, dell’etnopolitica, delle migrazioni e, in definitiva, dell’autodeterminazione. Fra questi due estremi è comunque possibile prevedere una serie di opzioni intermedie. Fra di esse vi è l’ipotesi di un ruolo egemonico svol­

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to dalla Germania nel centro dell’Europa, che freni il processo di fram­ mentazione in atto12. Come «nucleo» dell’Europa, situato al centro di quest’area (Mitteleuropa), la Germania potrebbe diventare un agente at­ tivo di riorganizzazione dell'area che potrebbe allontanare il rischio di scontro tra l’Est e l’Ovest attraverso lo sviluppo e/o il controllo di un va­ sto spazio territoriale, direttamente o indirettamente influenzato dalla sua superiorità politica ed economica, tanto ad Ovest come ad Est e a Sud-Est. In questo caso, la Germania potrebbe diventare il «fronte», an­ ziché il «confine», tra l’Est e l’Ovest, riducendo la divisione e i pericoli che minacciano la Fortezza Europa, ampliando l’area di stabilità al cen­ tro del continente.

3. In termini geopolitici, comunque, il vero significato di «Occidente» non si collega ad un conglomerato territoriale di diversi Stati-nazione, definiti da frontiere ben delineate. Non è neppure l’esito di un’elaborata concettualizzazione (Begriff) formatasi attraverso una profonda riflessio­ ne ed esperienza. Il vero significato geopolitico di «Occidente» è quello sviluppato dall’Ammiraglio Mahan alla fine del secolo scorso, basato sul­ l’idea che il «Potere Marittimo» 13 sia il vincitore naturale nella lotta con il potere terrestre14. La teoria del «Potere Marittimo» di Mahan è diven­ tata in un certo senso l'interpretazione simbolica e geopolitica di tutta la storia moderna dell’occidente15. Il concetto di «Est» (descritto anche come Eurasia), era stato invece analizzato teoricamente da Sir Halford Mackinder all’inizio di questo se­ colo 16. I concetti di World Island e di Heartland - che costituisce il cuo­ re dell’Eurasia, o il «perno geografico della storia» - sono gradualmente diventati nel corso del Novecento delle formule geopolitiche standardiz­ zate che, al di là di ogni dubbio, hanno contribuito molto alla resurre­ zione intellettuale della vecchia idea che l'Asia e l’Europa non siano solo collegate fisicamente, ma siano intrecciate anche culturalmente e politi­ camente17.

12 H. Schulze, 1984. 13 A.T. Mahan, 1890, 1957. 14 O. Spengler, 1918, 1957.

15 G. Modelski, 1987; G. Modelski (a cura di), 1987; G. Modelski-W.R. Thompson, 1988. 16 H.J. Mackinder, 1919.

17 C. Schmitt, 1941; C. Schmitt, 1942, 1986.

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Pertanto, il rischio di perdere quella fragile identità europea messa pe­ rennemente a repentaglio dalle invasioni provenienti da Oriente, in seguito alla diffusione della dottrina dell'«Eurasia», che per secoli è stata tanto un mito culturale quanto un obiettivo politico, specialmente nella Russia mo­ derna e contemporanea, è diventata una possibilità piuttosto concreta. Que­ sto concetto, la convinzione cioè che l’Europa non debba essere considera­ ta un continente geograficamente e politicamente autonomo, ma piuttosto come un gruppo di paesi situati territorialmente nella parte occidentale del­ l’Asia, estesasi in seguito aU’ininterrotta espansione territoriale dell’impero russo nel XIX e nel XX secolo, o viceversa, della Weltmacht della Germania imperiale e nazista, può essere interpretata sia come un Modello politico che come un programma strategico. Il Patto tedesco-sovietico dell’agosto del 1939, e le argomentazioni russofile del Generale Haushofer negli anni Trenta, sono gli esempi più recenti di queste prescrizioni «Eurasiatiche» 18. Non è un caso che nella Russia odierna le dottrine eurasiatiche siano ancora molto popolari, specialmente fra i militari e fra molti intellettua­ li nazionalisti19. Ma anche il vecchio progetto eurasiatico, impostato ne­ gli anni Venti dal Principe Trubeckoj20, può essere considerato come un mascheramento geopolitico della vecchia strategia imperiale russa, sia degli Zar che dei Comunisti21. Di recente molti osservatori hanno creduto che l’apparente «occidenta­ lizzazione» della Russia, iniziata con Pietro il Grande e Caterina II, conti­ nuata poi con la Rivoluzione bolscevica, non fosse più un processo rever­ sibile e che avesse ormai superato il punto di non ritorno. Poiché il solo «Modello» culturale imitabile era quello europeo-occidentale, il processo di «modernizzazione» in corso in Russia avrebbe trasformato l’Est in un partner minore dell'Ovest. Tuttavia, il collasso del sistema internazionale dell’«equilibrio di po­ tenza» (il sistema europeo per eccellenza), ed in particolare lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, furono i punti di partenza di un lungo pe­ riodo di transizione durante il quale il ruolo dell’Europa, come luogo di nascita dell’occidente, venne drasticamente ridimensionato. Invece di continuare ad essere il «soggetto» attivo della storia, l'Europa si trasformò gradualmente in un «oggetto» passivo, ed il suo territorio è diventato un campo di battaglia dominato da potenze non europee.

18 K. Haushofer, 1932.

19 A. Dughin, 1991. 20 N. Trubeckoj, 1920, 1982. 21 E. Luttwak, 1983, 1984.

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Che il ruolo politico dell’Europa fosse drasticamente ridimensionato venne confermato ideologicamente dal predominio delle due principali ideologie politiche del XX secolo: il Capitalismo e il ComuniSmo. Entrambe queste Weltanschauungen sono di taglio «internazionalista», o «globalista», per definizione. Nate in Europa, hanno infatti trovato la patria da cui diffondersi nel resto del mondo nelle due grandi entità po­ litiche organizzate non europee che hanno finito per dominare il Vecchio Continente: gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. L'evidente finis Europae, intesa come sistema politico multipolare ed egemone di potenza, venne raggiunta nel 1945 come conseguenza della finis Germaniae, quando la guerra si concluse sull’Elba, dividendo ap­ punto la Germania e tutto il continente in due parti separate dalla «Cor­ tina di Ferro»22 . Il periodo della Guerra Fredda e della divisione dell'Europa in due può quindi essere considerato come un ulteriore episodio del perenne scontro tra Oriente e Occidente, basato sulle visioni contrastanti di coloro che so­ stengono che l’Europa è solo un’appendice peninsulare dell’Asia, e coloro che invece difendono l’identità dell'Europa come struttura indipendente.

4. Questa antitesi storica e culturale fra le due concezioni risale al­ l’antichità. L’identità europea, individuabile nel mythomoteur23 naziona­ le, ebbe origine dal fallito tentativo del Gran Re di Persia di invadere la Grecia nel V secolo a.C. e venne rimodellata molte volte attraverso il li­ mes dell’impero romano, il Sacro Romano Impero di Nazione Tedesca del Medio Evo, nelle Crociate contro gli Arabi24, nella difesa contro i Tur­ chi, fino alla deterrenza nucleare contro la minaccia sovietica. La sua esi­ stenza andava continuamente confermata in opposizione, cioè «contro» qualcuno, ovvero difendendosi da qualcuno! È quindi più che legittimo riconoscere che, geograficamente, l’Euro­ pa non è un vero Continente. E che possa perciò essere considerata co­ me un'appendice dell’Asia, dato che non esistono confini geografici tra le due aree, come fiumi, montagne o mari, bensì solo paesaggi rurali che, muovendosi verso Est, diventano sempre più somiglianti fra loro. Gli an­ tichi collocavano i confini dell'Europa, cioè del mondo conosciuto, al fiu-

22 A. Hillgruber, 1986, 1990. 23 A.D. Smith, 1986, 1992. 24 M. Lombard, 1971, 1980; Housley, 1992; Riley-Smith, 1987 e 1991; Lewis, 1982, 1991.

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me Don. Nel Medio Evo questa linea ideale si spostò verso Est, oppure verso Ovest, a seconda della direzione di marcia delle invasioni25. Sarebbe quindi meglio parlare di «Oriente e Occidente» piuttosto che di «Asia e Europa»26, dove l’Europa rappresenta l’Ovest mentre l’Asia rap­ presenta l'Est. Il significato di questa bipolarità è ovviamente assai più culturale e storico che non antropologico o geografico. Tuttavia la sua in­ cidenza neH’immaginario collettivo degli Europei è molto consistente. Infatti, per gli Europei è sempre stato molto difficile resistere ai ten­ tativi di essere annessi con la forza ad un Impero eurasiatico. Il rischio è sempre esistito, non solo perché la minaccia «Orientale» o «Meridio­ nale» era rilevante e si ripresentava periodicamente, ma anche perché il melting pot europeo era profondamente diviso al suo interno, sia politi­ camente che culturalmente. La coscienza che la «guerra civile europea» del Novecento non sia una novità del «Moderno» è ben radicata in Eu­ ropa. Dalle guerre di religione in poi, l’Europa ha sempre alternato mo­ menti di equilibrio a crisi conflittuali generali. Ma anche prima di allo­ ra, quando l’Europa non aveva ancora omogeneizzato i propri Sistemi politici, talché coesistevano modi d’interazione propri di Sistemi diversi, come quello «frammentato» del Sistema dei Comuni e poi degli Stati re­ gionali italiani, o delle Città anseatiche del Mare del Nord e del Baltico, quello delle «monarchie feudali» come in Inghilterra, Francia, Borgogna, quello imperiale nel Sacro Romano Impero di nazione tedesca e quelle semitribali e semibarbariche nei Regni e Principati dell’Europa Orienta­ le, la guerra civile europea si manifestava in modi più o meno violenti27. Tuttavia la guerra civile europea raramente si discostava dalla gene­ rale consapevolezza che la Res Publica Christiana faceva aggio nei con­ flitti interni e che la minaccia da Est e da Sud (Arabi, Mongoli, Turchi, Unni, Avari, ecc.) era la più pericolosa per tutti28. E questo il motivo per cui le grandi istituzioni politiche europee (Impe­ ri, Regni feudali, Monarchie assolute. Stati nazionali) sono state costrette a concepire l’Europa come una fortezza. La «Fortezza Europa» è diventata il solo modo per conservare un territorio autonomo entro cui costruire una cultura e una civiltà comune. E questo il motivo per cui la questione delle «dimensioni» e dei «con­ fini» dell’Europa è sempre stato un problema di teoria politica, anziché una tecnica delle partizioni geografiche.

25 Cahen, 1983, 1986. 26 O. Spengler, 1918; C. Schmitt, 1942, 1986; C. Jiinger E.-Schmitt, 1953, 1987.

27 Trevor-Roper, 1965, 1994; Daniel, 1981.

28 Alphandéry-Dupont, 1954, 1974; Jones, 1981, 1984.

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In altre parole, l’Europa (ed il concetto di Europa) è sempre stata il prodotto della cultura e deH'immaginazione politica occidentale. L’Ovest è diventato uno stile di vita, di lotta, di lavoro, una competizione fra Si­ stemi politici, una teoria e una prassi di edificazione di Imperi coloniali oltremare. Questo modello culturale ha creato due principali scuole di pensiero, spesso in antitesi fra loro: quella della cultura Orientale e quel­ la della civiltà Occidentale. Al loro interno coesistono sub-culture diver­ se e originali, sia in ambito occidentale che orientale, che dividono e ar­ ricchiscono il Modello iniziale. La conseguenza di questa diversità è che le «frontiere dell’Europa» (verso l’Est e verso il Sud) sono sempre state il prodotto combinatorio di cultura, guerra e potere. L'Occidente, inteso come sinonimo di Europa, è stato minacciato, attac­ cato, e spesso invaso dall’Est per molte volte nel corso della storia. Vienna venne assediata dai Turchi per ben due volte, l’ultima nel 1683, e i Russi hanno occupato Berlino nel 1945. Dopo il 1989 l’Est è stato ancora una vol­ ta spinto indietro e si è ritirato fino al Niemen, esattamente dove si trova­ va due secoli fa, o ancora nel 1918 dopo la pace di Brest-Litovsk. Ne consegue che anche i confini dell’occidente si sono spostati in avan­ ti e indietro molte volte. Le «mura» attuali della «Fortezza Europa» pog­ giano oggi su di una fascia territoriale verticale orientata da Nord a Sud che inizia nella Germania Centrale, passa per la Polonia fino a raggiun­ gere la Finlandia, i Paesi Baltici, la Bielorussia e l'Ucraina, attraversa la Boemia e l’Ungheria attraversa gli Slavi del Sud poi la Romania e la Mol­ davia per finire nel Mar Nero. Questa linea immaginaria Nord-Sud rap­ presenta lo stato attuale dei rapporti fra Europa e Asia, ovvero fra Occi­ dente e Oriente. È una linea di divisione recente che testimonia della sto­ rica tendenza dell’Europa a guardarsi dall’Est perché mentre l’atteggia­ mento dell’oriente eurasiatico verso l’Europa è sempre stato «offensivo», la posizione dell’Europa verso l’Est è stata, nella maggioranza dei casi, «difensiva», anche in occasione dei falliti tentativi di invadere la Russia nel 1812, nel 1915 e nel 1941 o di respingere i Turchi fino in Anatolia. È questo il motivo principale per il quale l’Europa, come sinonimo di Oc­ cidente, è diventata la «Fortezza Europa». Le frontiere meridionali dell’Europa si trovano invece sul mare. Ma anche il bacino mediterraneo è storicamente e culturalmente diviso da un’immaginaria linea orizzontale che separa la costa settentrionale da quella meridionale, ovvero l’Europa dall'Africa e dall’Asia, vale a dire l’Occidente dall’oriente29. L’unica area europea dove sembrava fosse possi­

29 Braudel 1966, 1976; Matvejevic 1987, 1993; C.M. Santoro, 1994.

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bile l’interazione fra culture e sistemi politici diversi è stata la Penisola bal­ canica, ovvero la regione sud-orientale della «Fortezza Europa», dove le circostanze hanno creato una situazione estremamente mista, sia religio­ samente che etnicamente. Comunque anche nei Balcani la situazione sta radicalmente cambiando. L’attuale guerra nella ex Jugoslavia, ed in parti­ colare in Bosnia, può essere interpretata a ragione come un tentativo piut­ tosto drammatico di separare con la spada l’Occidente dall’oriente. Il «pro­ montorio» bosniaco all’interno dell’arco croato della Militaergrenze si è di­ sgregato, liberandosi nei suoi elementi primari inconciliabili, favorendo per questa via, e per responsabilità serba, la nascita e l’identità di un futuro Stato nazionale musulmano di 16-18 milioni di abitanti, vera spina nel fian­ co dell’occidente europeo. La liquidazione della parte europea dell’impe­ ro ottomano, completata nel corso delle due guerre balcaniche del 19121913 e considerata estinta per sempre, viene oggi rivitalizzata dalla con­ trapposizione triangolare dei tre principali gruppi etnici dell’ex Jugoslavia che minaccia l’esplosione di una quarta guerra balcanica. Ma è stato solo con l’ascesa della serie di Grandi Potenze marittime (Portogallo, Spagna, Olanda, Inghilterra), tutte nate in Europa Occiden­ tale a partire dal XV secolo, che l’idea di Occidente si è davvero consoli­ data. Questo è stato lo strumento attraverso il quale gli europei hanno confermato la loro percezione di essere occidentali e, al tempo stesso, hanno cercato di sfuggire alla minaccia proveniente sia da Est (Slavi, Mongoli, Russi) che da Sud-Est, dove Genova e Venezia oltre a Bisanzio, erano state sconfitte nella loro interminabile lotta contro i Turchi. «Buscar el Levante para el Poniente», scriveva Cristoforo Colombo pri­ ma di partire da Palos nel 1492. Formula magica dell’Europa delle sco­ perte, il principio dell’accerchiamento della Landmass eurasiatica ha da­ to vita, nel tempo, a quella globale contrapposizione fra «Oceania» ed «Eurasia» che ha caratterizzato l’intera storia dell’Europa e del mondo moderno, fino all'idea della comunità euroatlantica30. Non è un caso infatti che il grande ciclo delle scoperte geografiche ab­ bia inizio subito dopo, o in concomitanza con la caduta di Costantino­ poli per mano di Mehmet. Questa forma di estrema «occidentalizzazio­ ne» dell’ovest, quasi obbligata dai fatti, ha portato alla scoperta dell’A­ merica (l’Emisfero Occidentale), all'aggiramento dell’Africa e dell’Asia, al­ l'esplorazione dell’Oceano Pacifico, e alla profonda penetrazione nei ma­ ri meridionali dell'india, della Cina e del Giappone31.

30 Bennassar-Bennassar, 1991, 1992; Greenblatt, 1991, 1994; Hanbury-Tenison, 1993.

31 P. Padfield, 1979, 1982.

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5. Da queste premesse storiche scaturiscono alcune conseguenze politi­ che. L’attuale processo di unificazione del Continente europeo, che sembra il risultato di una moderna filosofìa politica di tipo utopico-funzionalista, completata da strutture, principi, norme, regole e procedure istituzionali, progetto di «ordine» intemazionale continentale dell’Europa, potrebbe es­ sere molto meglio analizzato qualora fosse comparato proprio a questo pas­ sato politico e culturale32. In altri termini si potrebbe dire che il Federalismo europeo contem­ poraneo non è solo una formula per scongiurare democraticamente il pe­ ricolo della rinascita del Nazionalismo autoritario europeo che ha por­ tato alle due Guerre Mondiali. È invece anche una versione aggiornata della vecchia tendenza diretta a edificare una «Fortezza Europa» orga­ nizzata istituzionalmente come un corpo unificato, abbastanza forte da resistere alla minaccia proveniente da Est e da Sud. Le regole del Trattato di Roma, e poi quelle del Trattato di Maastricht, tappe essenziali del processo di unificazione, stanno alimentando un cre­ scente divario economico, sociale e giuridico tra l’Unione europea (UE) ed il resto dell'Europa33. Tale tendenza, vista dall’esterno, potrebbe esse­ re definita come una sorta di «neo-nazionalismo comunitario europeo» che ricorda, per lo meno in termini di comparazione concettuale, la teo­ ria nazista del «Nuovo Ordine europeo». Naturalmente esistono delle grosse differenze strutturali fra questi due modelli. Tuttavia, se esaminiamo i «fondamenti» storici e culturali delle «utopie» europee, diventa possibile affermare che esistono parecchie al­ larmanti analogie tra l’Unione Europea e il Nuovo Ordine europeo, non tanto per ciò che riguarda il processo di integrazione «interna» - basato su principi radicalmente diversi (la democrazia liberale ed il libero mer­ cato contro l’egemonia, il totalitarismo e l'autoritarismo) - ma soprat­ tutto per la percezione che di questo progetto riceve il mondo al di fuo­ ri dell’UE. Una siffatta spiegazione razionale va ben oltre la retorica dell'Europeismo cooperativo e dell’«integrazionismo» economico ed è quindi piut­ tosto comprensibile che la maggioranza dei Paesi non-membri abbiano l’impressione, non senza qualche ragione, di essere discriminati dalle re­ gole del gioco strettamente protezionistiche imposte dall'Unione. L’approccio protezionista, sia in agricoltura che nelle tariffe doganali, i potenti filtri interposti tra la Comunità e i Paesi non-membri, gli ob-

32 A.J. Toynbee, 1934.

33 Brittan, 1994.

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blighi imposti ai nuovi membri o ai Paesi associati, il normativismo ob­ bligato delle direttive, assumono l’aspetto di nuove forme di nazionali­ smo regionale o di «blocco commerciale». In altre parole, le due forme della vecchia identità europea, basate sul nazionalismo «civico» (sovranità, territorio e popolo) o su quello «etnico» {Blut und Boden), vengono ricomposte all’interno della sensazione genera­ le di essere «Europei», basata sulle leggi della democrazia e del capitali­ smo, poste sotto la tutela dei principali valori del mondo occidentale.

6. Questa indiscussa «occidentalizzazione» dell’Europa incontra co­ munque dei grossi ostacoli. Il principio «ecumenico» che tutti gli Stati europei entreranno un giorno a far parte dell'UE, estendendo il territorio dell’Unione fino alla Russia, alla Turchia ed anche al Marocco, presenta molti gravi difetti. ^ampliamento dell’Unione si scontrerà infatti con il parallelo approfon­ dimento del processo di integrazione. Di fronte a un processo così contrad­ dittorio, nessuno fra gli ex Paesi comunisti potrebbe aspirare, entro un fu­ turo prevedibile, ad essere accettato come membro a pieno titolo dell’UE. Per converso, se il processo di ampliamento dovesse essere spinto troppo lontano, finirà con l’annacquare le procedure funzionali di integrazione fra gli attuali membri dell’Unione. Inoltre, il rischio di essere coinvolti nella rinascita di faide nazionalisti­ che o sub-nazionalistiche sarà tanto più grande quanto più l’Unione dila­ terà il proprio territorio. Differenze e tensioni avranno il sopravvento su ana­ logie ed affinità. L’Unione, che non è ancora «evoluta» in una Comunità Fe­ derale di Stati integrati, ne risentirebbe e il «tasso di Europeismo», invece di crescere, potrebbe ridursi. La regione balcanica è l’area dove i limiti e i vincoli dell’Unione euro­ pea sono diventati macroscopicamente evidenti. La «Fortezza» è infatti molto forte quando si difende, ma rivela un’impotenza senza speranza quando si trova di fronte a crisi intemazionali o a conflitti esterni. Inca­ pace di organizzare un impianto decisionale in grado di generare una co­ mune volontà politica, l’Unione ha dimostrato tutta la propria inettitu­ dine non solo operativa ma anche concettuale, nel tentativo di porre fi­ ne alla guerra in Bosnia. Inoltre, la stessa UE è minacciata da tendenze separatiste all’interno dei suoi Stati membri. La «Fortezza Europa», infatti, non è del tutto al riparo dal virus «etnonazionalista»34, una teoria politica e sociologica che 34 J. Rothschild, 1981, 1984; J. Breuilly, 1982; E. Gellner, 1983, 1985; EJ. Hobsbawm, 1989; D. Horowitz, 1985.

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può essere considerata come la versione aggiornata della tradizione e del­ le dottrine nazionaliste del XIX secolo. Questo diffuso movimento eser­ cita ancora un forte richiamo verso molti popoli senza voce che risiedo­ no all’interno dell’Unione (Baschi, Irlandesi, Corsi, Sudtirolesi, Fiam­ minghi, ecc.). Il Trattato di Maastricht, che stabilisce le linee di condot­ ta per una «Politica Estera e di Difesa Comuni», ha già mostrato i limiti di una filosofia politica che prevede la graduale evoluzione dell’Unione verso l'unificazione politica ispirata alla teoria dello Stato-nazione, sen­ za prendere in considerazione i fattori di crisi etnonazionalista che già esistono all’interno dell’Unione33. L'idea di edificare in alternativa alla federazione degli Stati membri, co­ sì come sono, delle «macro-regioni» all’interno dello spazio europeo per fa­ re fronte alle forze centrifughe dell'etnonazionalismo, non può essere la so­ luzione più convincente. Le macro-regioni sono più dei sottosistemi eco­ nomici che delle aree socio-politiche ed etnoculturali omogenee. La loro coesione è quindi limitata perché basata sulla «razionalità» e sugli «inte­ ressi», anziché su elementi «emotivi» e «culturali», che rappresentano i ve­ ri fattori di vincolo del processo di edificazione nazionale35 36. La nostra conclusione quindi è che il telaio istituzionale e funzionale dell’Unione europea costituisca un impianto molto delicato che può es­ sere protetto, o rafforzato, soltanto se si salvaguarderà la sua coerenza «occidentale». L’approccio «tecnocratico» o «economico», quello che vie­ ne definito come tecnomercantile, non è sufficiente a realizzare un soli­ do processo di unificazione. L’identità della «Nuova Europa» dovrebbe quindi poggiare sulla consapevolezza degli attori che essi costituiscono il «nucleo» inalterabile dell’occidente.

7. L’Occidente è stato il laboratorio di molti esperimenti politici, com­ presa la formazione degli Stati e delle Nazioni moderne, che hanno stimo­ lato il nazionalismo civico ed il patriottismo (una forma addomesticata di nazionalismo Stato-territoriale). Anche se oggi l’Occidente è minacciato dall’etnonazionalismo, un fenomeno questo che va ben oltre i limiti dello Sta­ to-nazione e del suo telaio istituzionale. Per comprendere però il significato complesso di tale concetto è neces­ sario stabilire alcuni punti fermi relativi alle diversità storiche delle identità degli attori europei. In particolare si tratta di riconoscere le disparità, do-

35 Wolf E.R., 1982, 1990. 36 A.D.Smith, 1986, 1992; Huntington, 1993.

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vute alle tradizioni giuridiche e storiche, fra le principali etnie del Conti­ nente Europa. Tali differenze hanno assunto caratteri distinti perfino nella «localizzazione» spaziale dei popoli rispetto ai loro «ordinamenti» (Ortung vs. Ordnung)37. Il ruolo ambivalente della Germania al centro dell’Europa, ad esempio, è dovuto al fatto che, diversamente da Francia, Gran Bretagna, Spagna e Italia, la Germania ha fondato il suo processo di edificazione na­ zionale38 più sul «sangue» che sulla «terra» (Blut und Boden). In un certo senso, la Germania (si vedano le mappe sulla presenza tedesca in Europa Orientale prima della Seconda Guerra Mondiale) ha dovuto affidarsi al Blut piuttosto che al Boden per ragioni derivanti dall’esigenza di distinguere l’Occidente dall’oriente. In altre parole, essendo la Germania la frontiera mo­ bile tra l’Occidente e l’Oriente, la sua funzione è finita per essere quella di erigere una barriera etnica per impedire l'infiltrazione degli slavi o di altri popoli provenienti da Est39. Questo approccio all’edificazione nazionale è l’esatto contrario di quello fondato sulla conquista del territorio adottato dai Russi fin dal XVI secolo. L’espansione territoriale dello Stato russo, iniziata con Ivan il Terribile, si è trasformata gradualmente in un’utopia «imperiale», poi in una dottrina nazional-imperiale della «Grande Russia», ed infine ha dato vita all’attuale dot­ trina «Eurasista» 40. Questa teoria geopolitica non distingue tra popoli di­ versi, culture contrapposte, religioni conflittuali o civilizzazioni divergenti. Lo scopo degli «Eurasisti» è strettamente geopolitico e consiste nel tentati­ vo di unificare l’impero in un Grossraum il più vasto possibile. Essere rus­ si significa, quindi, essere territorialmente sovra-estesi. In altri termini, sen­ za l’impero, la nazione russa non esiste. Ma l’impero può sopravvivere so­ lo se il suo «spazio» è costantemente in espansione. È questa una conse­ guenza dell’approccio «patrimoniale» 41 alla teoria dello Stato che ha ca­ ratterizzato tutta la storia russa fin dal Medio Evo. La contrapposizione concettuale tra le due auto-percezioni dell’«identità nazionale», quella te­ desca e quella russa, rappresenta quindi un'altra profonda differenza, teo­ rica e politica, tra l’Ovest e l’Est.

37 C. Schmitt, 1974, 1991.

38 C. Tilly (a cura di), 1975. 39 Hillgruber, 1988; Schulze, 1984, 1990.

40 Ahrweiler, 1975; 1991 Ferrari, 1994; Giusti, 1993. 41 R.Pipes, 1974.

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8. La Nuova Europa concepita come Modello futuribile di unificazione continentale è minacciata, quindi, da una coppia di rischi permanenti: a) quello di essere frammentata dal virus dell’etnonazionalismo; op­ pure b) quello di diventare un'area chiusa e protetta che si difende dalla mi­ naccia «eurasista» proveniente dalla Russia. In entrambi i casi siamo di fronte a rischi di involuzione che vanno nella direzione contraria a quella dell’ipotesi dell’europeismo «acentra­ to», democratico ed espansivo quale emerge dai testi del Trattato di Maa­ stricht. Tuttavia, nel primo caso l’ipotesi di frammentazione degli Statinazione dell’Europa Occidentale, per contiguità o irraggiamento delle ten­ denze presenti nell’Est, mette a repentaglio l’unità, e soprattutto la di­ fendibilità dell’occidente. Nel secondo caso, invece la Festung Europa mantiene intatta la sua forza, accentua il suo cemento intorno e può quin­ di proporsi verso l’esterno con soluzioni aperte ma gerarchicamente dif­ ferenziate. La nostra tesi, quindi, è ben diversa da quelle che, con il metodo del­ la proiezione lineare, sostengono come la fine del bipolarismo (e della Guerra Fredda) abbiano aumentato le possibilità di unificare tutto il Con­ tinente europeo, e che non considerano l’esistenza delle divisioni strut­ turali e culturali che separano l’Ovest dall’Est come fattori di destabiliz­ zazione potenziale42. L’errata convinzione che il violento antagonismo tra l’Ovest e l’Est du­ rante la Guerra Fredda sia stato semplicemente la conseguenza di mo­ derne ideologie politiche, senza alcun riferimento alla storia e alla cul­ tura, ha creato l’illusione che il processo di détente ed un sistema di linka­ ges fra Est ed Ovest fino allo stabilimento di un qualche meccanismo di sicurezza collettiva dall’Atlantico agli Urali, potessero essere l’esito natu­ rale del collasso del blocco sovietico. Di qui ha origine la sensazione che, dopo il 1989, il difficile processo di «democratizzazione» all’interno dei Paesi dell’ex Impero sovietico potesse essere interpretato come una for­ ma di «sviluppo politico» che avrebbe portato ad un simultaneo miglio­ ramento delle relazioni fra le due aree senza bisogno di un collante idea­ le che avesse radici profonde nell’immaginario collettivo degli Europei. Questo approccio occidentale al post-bipolarismo, rivolto a masche­ rare la profonda diversità fra l’Europa Occidentale e Orientale, non è riu­ scito ad aggirare i fattori strutturali che dividono il Continente. Ha inol­

42 Woolf, 1994.

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tre trascurato il fatto che la nuova politica estera russa, basata sulla di­ stinzione politica e concettuale tra i cosiddetti «estero vicino» ed «este­ ro lontano» (ovvero tra l’ex Blocco sovietico ed il resto del mondo), an­ che se condotta con cautela, nasconde una pericolosa tendenza verso la restaurazione deH’Impero Russo. Concludendo, la nostra tesi è che le due aree non siano soltanto incom­ patibili in termini culturali, politici, sociologici ed economici, ma che la for­ mazione concettuale della stessa idea di Europa sia stata provocata dalla difesa attiva e dall’ostilità costante dell'occidente contro la minaccia orien­ tale dell’Eurasia. Le due parti del Continente non possono quindi essere uni­ ficate o trasformate in un insieme coerente dato che il processo di unifica­ zione rappresenterebbe la fine dell’Europa e la vittoria dell'Asia. Infatti l’Eu­ ropa Occidentale si prolunga verso Ovest fino a San Francisco, mentre l’Eu­ ropa Orientale non s’interrompe fino a Vladivostock. Qualora l'Europa Oc­ cidentale e quella Orientale dovessero unificarsi si ripresenterebbe l’incubo, appena dissolto, di un’Europa controllata, come nel sistema bipolare, da due potenze extraeuropee, gli Stati Uniti e la Russia. La linea di confine non è quindi tra le due Europe ma è invece quella fra Europa e Asia. Tale frat­ tura avviene nella regione dove vivono i tedeschi43. Il modello operaziona­ le della «Fortezza Europa», con i suoi limes orientale e meridionale, rap­ presenta quindi l’unica struttura politica in grado di salvaguardare l’esistenza e il vero significato dell'Europa come Occidente senza per questo impedir­ ne l'unificazione.

43 AA.W., 1994.

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Le istituzioni della sicurezza nell’età postbipolare

Il mondo delle Istituzioni Intemazionali, incluse quelle relative alla si­ curezza, è solo un aspetto del fenomeno di decomposizione e ricompo­ sizione ben più vasto che è in corso nell’universo intemazionale. I pro­ cessi internazionali, infatti, investono un ambito pluridimensionale che non viene determinato solo dall’architettura istituzionale, né dalle norme interne di funzionamento che ne regolano il comportamento, né dalla lo­ gica istituzionalista e artificiale che le ha prodotte. Ma anzi, è da sottolineare il fatto che il mondo delle Istituzioni Inter­ nazionali tende esclusivamente a regolare l’esistente. Ha per obiettivo quello di ordinare i dati di fatto e gli equilibri spaziali prodotti dai sommovimenti intemazionali precedenti come le guerre, - che sono la fonte primaria degli assetti internazionali - con l’ambizione di prolungarne l’ef­ ficacia nel tempo. Il che ovviamente contrasta con le trasformazioni, lente o accelerate, che il tempo e la dinamica delle forze in gioco generano. Accade allora che le Istituzioni, invece di provocarlo1 oppure di adeguarvisi, finiscano per ostacolare il cambiamento, non rispondano più alle esigenze e si mu­ tino esse stesse in strutture conservatrici e paralizzanti che impediscono l’adattamento delle forme sistemiche alla nuova dinamica delle forze ope­ ranti sul teatro intemazionale. Nel caso attuale, ad esempio, il crollo inatteso del Sistema Bipolare ha colto impreparate le Istituzioni e gli uomini che le governano, perfi­ no sul terreno dei concetti, con il risultato di rallentare il libero gioco del­ le spinte e controspinte derivanti dal rapido succedersi di eventi che han­ no messo in luce, con la dislocazione del Sistema Internazionale, anche l’enorme carica di energia che si manifesta esplosivamente nei processi di frammentazione-ricomposizione geopolitica del mondo e dell’Europa in particolare. Partiamo da alcune premesse concettuali.

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Il Sistema Politico Internazionale

1. In primo luogo dalla constatazione che il Sistema delle Istituzioni della sicurezza, in Europa come altrove, ha un’evidente limitazione spa­ zio-temporale dovuta alla sua stessa origine e natura. Si tratta, infatti, di elaborati intellettuali nati alla fine della Seconda Guerra mondiale (ONU) e prodotti o dalle circostanze politiche e storiche della guerra fredda (NA­ TO, CEE, UEO), ovvero dal clima della distensione che ha caratterizzato l’ultima fase del sistema bipolare (CSCE). In secondo luogo, dalla verifica evidente che l’intero Sistema delle Isti­ tuzioni della sicurezza è entrato in una grave crisi, sia ideologica che fun­ zionale, e che il suo destino è incerto, oltreché minacciato, perché le pre­ messe politiche generali, vale a dire lo stesso Sistema Politico Interna­ zionale che lo aveva generato, non è più in grado di operare come tale. Da queste premesse è possibile tirare una prima conclusione provvi­ soria. La crisi delle organizzazioni multilaterali, dall’ONU alla NATO, al­ la Unione Europea, alla CSCE, è una conseguenza strutturale della fine del bipolarismo. Le istituzioni hanno, come tutti i sistemi viventi un lo­ ro «ciclo di vita» organizzato secondo parametri funzionali molto preci­ si (nascita, ascesa, maturità, decadenza, morte). Quando hanno compiu­ to tutte le fasi del ciclo, e quindi giungono al termine della propria «ef­ ficienza» operativa, debbono essere riconvertite, sostituite, o più sempli­ cemente dissolte. D’altra parte anche gli attori nazionali principali del precedente Si­ stema Internazionale Bipolare, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, si so­ no nel frattempo drasticamente trasformati. Nel caso dell’URSS si è avuta addirittura la scomparsa dell’attore, che si è dissolto in quindici entità diverse, lasciando alla Federazione Russa il ruolo ambiguo di Stato successore. Nel caso degli Stati Uniti, invece, la vittoria nella Guerra Fredda non gli ha automaticamente attribuito funzioni «unipolari» riconosciute e, so­ prattutto, accettate dalla stessa società americana che oscilla, come pe­ riodicamente ha fatto nella sua storia, fra espansionismo e isolazionismo12. La formula politica escogitata dalle ultime due Amministrazioni (Bush e Clinton), anche se differenziata sia politicamente che terminologicamente, è stata infatti quella che potremmo definire dell’unilateralismo, un con­ cetto che esprime bene sia le contraddizioni che la tradizione della poli­ tica estera statunitense3.

1 Miller, Living Systems, 1978.

2 Huntington, The Promise of Disharmony, 1981.

3 Williams (1959); LaFeber (1963).

Le istituzioni della sicurezza nell’età postbipolare

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In entrambi i casi, comunque, sia in quello sovietico che in quello ame­ ricano, si sono definitivamente inaridite le fonti di legittimazione stori­ ca del Sistema Bipolare che proprio dai due maggiori attori, e soprattutto dal loro sistema d’interazione conflittuale-cooperativo, costituito nelle Conferenze di Yalta e di Potsdam, promanavano. Per quel che riguarda l’Europa questa trasformazione, apparentemente invisibile, sta modificando nei fatti quella relazione fra Stati Uniti ed Eu­ ropa Occidentale formatasi durante e dopo la Seconda Guerra mondiale, che aveva dato vita alla dottrina politica della «Comunità euroatlantica»4. Gli Stati Uniti, infatti, hanno cambiato linea, anche nei confronti de­ gli alleati tradizionali, abbandonando silenziosamente il «coupling» com­ pleto con l’Europa occidentale in seno alla NATO (e anche all’esterno di essa), recuperando così in buona parte la propria autonomia operativa nella sfera intemazionale. Perfino nelle operazioni di «peace-keeping» del­ le Nazioni Unite, sempre sponsorizzate dagli Stati Uniti, la partecipazio­ ne americana è stata del tutto indipendente, non assoggettata quindi al­ la direzione politica e operativa del Segretario Generale dell’ONU. A questo punto sono in gioco, non solo Inefficacia» postbipolare del multilateralismo postbellico, ma anche l’intero Sistema delle istituzioni della sicurezza, e perfino i principi generali della dottrina del multilate­ ralismo nel loro complesso. Gli Stati Uniti, che pure sono stati i padri fondatori del sistema delle isti­ tuzioni multilaterali, da essi inventato e imposto agli Europei fin dal 1919, e che hanno gradualmente imposto a quasi tutto il mondo, sembrano ora tirarsi lentamente indietro, con un procedimento politico singolare che, da un lato si orienta al recupero dell’indipendenza di manovra in nome di una riacquistata libertà di movimento, e quindi fondato su un atteggiamento di spavalda sicurezza, mentre dall’altro lato inclina a timorosi ripiegamenti e a fugaci impegni, presto ribaltati in veloci disimpegni, come in Somalia, che sanno più di «neoisolazionismo» che non di «unipolarismo». In altre parole gli Americani, e il loro divided government tendono ad oscillare ancora una volta fra unilateralismo e isolazionismo, rinverden­ do quell’antica tradizione di ambivalenza in politica estera che fa parte della loro storia nazionale, dal Farewell Address di George Washington nel 1796 alla Dottrina Monroe e alla missione del Manifest Destiny degli anni '30 e '40 del secolo scorso.

4 Chace & Ravenal eds., Atlantis Lost, New York U.P., New York, 1976; Richard­ son, Germany and the Atlantic Alliance, Harvard U.R, Harvard, 1966; Dallek, The Ame­ rican Style of Foreign Policy, Knopf, 1983.

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Il Sistema Politico Internazionale

L’idealismo interventista wilsoniano fino al globalismo di Bush, sono così diventati, con Clinton, un intreccio di istituzionalismo formale e di multilateralismo verbale, che, nella lettura del governo democratico, è or­ mai diventata la forma modernizzata, anomala e criptica, del nuovo iso­ lazionismo americano.

2. Cadute le premesse strutturali del Sistema delle Relazioni multila­ terali che poggiavano sulle fonti di legittimazione bipolare, l’istituziona­ lismo postbipolare ha acquisito sempre più un carattere paralizzante la cui impotenza operativa si manifesta nel connotato, tutto formale e re­ torico, che cerca di sovrapporre alla dinamica del reale inconcludente una griglia verbale di affermazioni dirette a contrastare il fiume in pie­ na della Rivoluzione Sistemica Intemazionale. Il rinvio continuo alla filosofia politica del multilateralismo copre dun­ que sempre meno il vuoto operativo delle Istituzioni e, soprattutto, le cre­ pe che si sono aperte nelle loro strutture portanti. Diventa così inutile, se non una perdita di tempo analitico, inseguire la evanescente logica di Pro­ getti e Modelli Istituzionali irrealizzabili o inefficaci, ovvero le piccole va­ riazioni e gli adattamenti funzionali con i quali si cerca da più parti di ma­ scherare cosmeticamente l’impraticabilità del disegno complessivo. Se seguissimo le tracce di questo percorso rischieremmo di perderci nel­ le sottili quanto inutili disquisizioni circa la opportunità o meno di tra­ sformare la normativa vigente in materia di Diritto Intemazionale multi­ laterale, di farci affascinare dalle bolle di sapone, incastrate l’una nell’al­ tra, dei disegni istituzionali inventati a tavolino in sostituzione di decisio­ ni politiche troppo difficili da prendere. La distanza siderale, e crescente, fra la dottrina delle istituzioni mul­ tilaterali e sua implementazione politica, è così imponente da indurci a scegliere un approccio inusuale, anche nello studio dell’Alleanza e delle sue logiche interne, che è quello geopolitico e geostrategico, invece di quello programmatico e normativo. In effetti la relazione fra Ideologia e Istituzioni è molto più stretta di quanto non sembri. Le Istituzioni, infatti, sono un prodotto storico del­ l’ideologia, o degli Ideali. Sono quindi sempre un progetto sovrapposto alla realtà che, nel caso delle istituzioni intemazionali in particolare, ha delle radici culturali precise. I due progetti «globali» del Novecento sono stati quello anglosassone, e oceanico, di Woodrow Wilson e quello eurasiatico, e continentalista, di Vladimir Ilic Lenin e del comuniSmo internazionale. Le Istituzioni In­ ternazionali sono figlie di questi due progetti complessivi che, nel con­

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fronto politico-militare e socioeconomico, si sono storicamente contrap­ posti fino alle soglie della guerra nucleare, ma che nella filosofia «uni­ versalista» istituzionale hanno spesso avuto dei punti di convergenza. Entrambi questi progetti si sono retti su Istituzioni animate da un cre­ do e da una passione politica (il comuniSmo e/o l’individualismo liberaldemocratico) sorrette da un progetto economico di crescita e/o di svi­ luppo (il piano e/o il mercato) che, nel corso del tempo (e in relazione al­ l’evoluzione delle Istituzioni), si sono via via trasformati in Ideologia, va­ le a dire in forme interpretative cristallizzate, e spesso intolleranti, della complessità del reale. Dall’Intemazionale Comunista (1919-1943) e dalla Lega delle Nazioni (1919-1946) si è passati così alla formula compromissoria delle Nazioni Uni­ te che stabilivano le regole e le procedure operative di un Modello «globa­ le» basato su Ideologie contrapposte, e quindi destinato a non funzionare. Tuttavia le Organizzazioni Intemazionali «regionali», da quelle della sicurezza a quelle economiche, ebbero la possibilità di produrre qualche effetto reale proprio perché risultarono molto più efficienti nella difesa o nel perseguimento di interessi concreti (difesa, sviluppo, ecc.), solo par­ zialmente mascherati dalla retorica ideologica. La fragilità immanente di queste Istituzioni, dal Patto di Varsavia al CO­ MECON, dalla NATO all'Unione Europea, risiedeva però nella distanza con­ cettuale fra «ideali» proclamati e «istituzioni» operative, quello che Samuel Huntington, riferendosi al sistema politico americano, aveva molti anni orsono definito come lo «Ivi gap»5. In effetti si trattava di macchine organizzative del potere statuale e na­ zionale e, nel caso delle alleanze di sicurezza (NATO e Patto), di struttu­ re istituzionali gerarchiche e autoritarie, travestite da organismi multila­ terali, la cui credibilità era esclusivamente affidata, al di là delle procla­ mate utopie, agli interessi nazionali che tutelavano o garantivano. Conclusa questa fase di collegamento razionale fra «interessi» (più che ideali) e «istituzioni», l'ipocrisia delle ideologie di superficie si è sma­ scherata da sola, dissolvendo le Istituzioni dell’Est, che sono crollate co­ me castelli di carta ancor prima che si disfacessero gli Stati che avevano dato loro la vita, e paralizzando quelle dell’ovest, che hanno perduto il senso del loro orientamento e della loro necessità.

5 Huntington si riferiva in particolare alla contraddizione inerente al sistema po­ litico americano. Quello che egli chiamava il «paradosso del potere» consisteva ap­ punto nell’«ipocrisia» del sistema politico che, per seguire criteri di libertà, demo­ crazia, individualismo, è costretto a mentire a sé e agli altri sulla vera natura del po­ tere politico. Huntington, op. cit., 1981, p. 75 ss.

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3. Il richiamo alla «geopolitica», quindi, inteso come strumento inter­ pretativo possibile nei confronti di un’alleanza politico-militare come quel­ la atlantica, che è spazialmente definita in modo preciso, (tanto è vero che ogni intervento all’estemo del territorio dei Paesi membri è detto «out-ofarea»), dovrebbe essere di rigore e non sollevare problema alcuno. Non è stato così invece per quasi mezzo secolo, quando il ricorso agli argomenti dell’ideologia nascondeva la logica «spaziale» della contrapposizione, e tuttora solleva immediate obiezioni, perché la natura costi­ tutiva dell’Alleanza conserva ancora una valenza simbolica molto forte, determinata dal confronto epocale fra le due concezioni «universaliste» del mondo, quella «leninista» e quella «wilsoniana», che impedivano qual­ siasi ufficializzazione della Realpolitik, sia nella situazione di partenza che in quella di arrivo. La caduta del bipolarismo ha però portato con sé anche la fine delle ideologie globaliste, da quella del «movimento comunista internazionale», ormai confinato con funzioni residuali di autosopravvivenza di classi diri­ genti obsolete in alcuni Paesi del terzo mondo e in Cina, a quella dell’«ame­ ricanismo imperiale» e dell’«occidentalismo» della Guerra Fredda. Ne è discesa la graduale «svestizione» delle istituzioni che si stanno spo­ gliando dei loro orpelli simbolici e virtuali e la loro «riduzione» ad aggre­ gati plurinazionali di alleanza o di associazione per fini sovradimensiona­ ti, privi di strumenti operativi efficienti (ONU, CSCE), ovvero per obiettivi che sono ormai senza bersaglio definito (NATO, UEO).

4. Partendo da questo tipo di considerazioni diventa allora più facile le­ gare il destino delle Istituzioni della sicurezza alle ragioni fondamentali che sono alla base della loro costituzione. Il loro ciclo di vita, infatti, è geneti­ camente racchiuso all’interno della propria causa fondante, e quindi in­ terno alla propria logica costituente. La NATO, la CEE e l’UEO, ad esempio, sono state considerate come si­ nonimi dell’occidente fin dal loro sorgere, nel clima teso e quasi dispe­ rato del primo decennio postbellico, quando pareva che l’Eurasia, sotto le spoglie dell’impero sovietico, stesse per inghiottire anche la fascia oc­ cidentale dell’Europa. Le Istituzioni del dopoguerra diventarono così la rappresentazione, an­ che simbolica, dell’occidente, senza esserlo veramente. Non a caso, infatti, la NATO si trasformò per la propaganda sovietica e comunista europea nel bersaglio di tutti gli attacchi, non solo perché era il braccio armato degli Americani in Europa, ma anche perché si rappresentava come il simbolo stesso del nuovo Occidente «globale» fondato sulla Comunità euroatlantica.

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Lo stesso dicasi per la Comunità Economica Europea, e per la sua inu­ tile appendice militare (l’UEO), definita fin dalle origini dai sovietici e dai comunisti come «l'Europa del capitale» ovvero «l'Europa dei monopoli», proprio per le stesse ragioni per le quali era stata stigmatizzata la pre­ sunta aggressività della NATO. Si trattava quindi di forme primarie dell'Occidente contemporaneo che col tempo finirono per essere identifica­ te con l’idea stessa di Occidente. Di qui la centralità concettuale della saldatura (il «coupling» appun­ to) fra le due sponde dell’Atlantico in funzione difensiva contro la mi­ naccia da Est, ma anche come ricomposizione e adattamento della for­ mula occidentale alle necessità del dopoguerra. Ne derivò una filosofia politica, che ancora in parte sopravvive nella coscienza e nella memoria degli Europei e degli Americani, secondo la quale la «Comunità euroatlantica» era da considerare ormai come il cuo­ re dell’occidente, anzi come l’Occidente tout court. Un Occidente così concepito era però certamente diverso dall'Occidente di cui parlavano i maestri della «filosofia della crisi» 6, ovvero di quell’ «Untergang des Abendlandes» di cui aveva scritto Oswald Spengler7, in contrapposizione a quell'oriente, di cui avevano già detto fin dal se­ colo scorso, sia De Maistre che Gustine8. Ma ora che la minaccia da Est si è (provvisoriamente) dissolta, anche la consistenza e la ragione della Comunità euroatlantica entrano per for­ za di cose in crisi. Il collante difensivo che la teneva in piedi si è disseccato con la «scom­ parsa del nemico» 9 ma, al di là di questo, si sono allentati anche i vin­ coli interatlantici la cui funzione operativa era essenzialmente quella di garantire all’Europa una presunta intercambiabilità dei targets nucleari «countervalue» e «counterforce» fra gli Stati Uniti e l’Europa Occidenta­ le 10, alla quale andava aggiunta anche la funzione di linkage marittimo per «sostenere» il Fronte Centrale europeo e intertedesco.

6 K.D. Bracher (1982), Ze.it der Ideologien, Deutsche Verlag Anstalt, Stuttgart, 1984. Vedi i capp. 4 e 5 della Seconda Parte.

7 Spengler, op. cit. 8 Joseph De Maistre, Napoleone, la Russia e l'Europa: dispacci da Pietroburgo 18111813, Donzelli, Roma, 1994; Gustine Astolphe, Lettere dalla Russia, Fogola, Torino, 1977. 9 A. Colombo, La solitudine dell'occidente, Il Saggiatore, Milano, 1994.

10 T.C. Schelling, The Strategy of Conflict, Cambridge U.P., Cambridge, 1960; L. Freed­ man, The Evolution of Nuclear Strategy, St. Martin’s Press, New York, 1981.

6. C.M. Santoro: Studi di geopolitica

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5. Orbene tutto questo non esiste più, anche se le potenzialità «preemp­ tive» e/o reattive dell'arsenale nucleare russo sono sempre molto elevate. Ne deriva che la Comunità euroatlantica in quanto tale perde di signifi­ cato politico e ideale restituendo alla spazialità «naturale» - per così di­ re - della geopolitica il compito di valutare gli ambiti e i grandi spazi or­ ganizzati che hanno ancora ragione d’esistere. Ma si dissolverà per queste ragioni anche l'idea stessa di Occidente? È questo un interrogativo che scaturisce quasi automaticamente dal­ la constatazione che i dati di fondo della sicurezza sono radicalmente cambiati. Tuttavia la necessità della revisione concettuale scaturisce da qualcosa di più profondo e radicato nella cultura collettiva dei popoli del­ l’Europa, che non dalla contingenza postbipolare. Una prima risposta, che, peraltro, si è già rivelata del tutto insuffi­ ciente, tesa a dare una risposta credibile alla crisi sistemica del bipolari­ smo, è stata quella fornita negli anni scorsi, da Bush prima e da Clinton poi, con l'avallo e il sostegno formale degli Europei, basata sull’ingenua convinzione che fosse possibile sostituire un «Sistema di alleanze» di­ fensivo con un «Sistema di sicurezza collettiva», istituzionale e multila­ terale, che coinvolgesse tutti all’interno di quello che venne allora defi­ nito, con un termine «leninista-wilsoniano», l’Ordine mondiale. Ma dopo l’irripetibile esperienza della guerra del Golfo, ultima scena dello spettacolo bipolare al tramonto, l'utopia dell’ordine mondiale, che aveva dato luogo anche ad elaborazioni poco plausibili ma molto pub­ blicizzate 11, si è dissolta dando luogo invece alla frammentazione politi­ ca, alle crisi di sistema e, per la prima volta dopo il 1945, anche a con­ flitti armati aH’interno dello stesso Continente europeo. Le Istituzioni multilaterali del dopoguerra, dalle Nazioni Unite alla NA­ TO, fino alla CSCE, all’Unione Europea e alla UEO, hanno subito il con­ traccolpo di questa mutazione genetica del Sistema Intemazionale, e in particolare della formula della sicurezza in Europa. In verità però, dietro alle ripetute manifestazioni di impotenza delle organizzazioni multilaterali di fronte alla crisi nella ex Jugoslavia, in Rus­ sia, e nelle Repubbliche ex sovietiche, ciò che è davvero a rischio non sono solo o tanto le istituzioni, quanto i valori che le hanno create e sorrette per mezzo secolo. In particolare il concetto stesso di Occidente la cui defini­ zione è oggi da rivedere alle radici. In effetti la relazione fra la NATO, intesa come alleanza politico-mili­ tare e ideologica fra Europei occidentali e Stati Uniti, e l’Occidente, in­

11 E Fukuyama, La fine della storia e l'ultimo uomo, Rizzoli, Milano, 1992.

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teso più come concetto culturale, che trascende le vicende della politica con­ temporanea che non come sistema politico e socioeconomico multilatera­ le, si è sostanzialmente basata su un equivoco semantico importante. L’Occidente, infatti, concepito come «pensiero definito e idealmente configurato, esauriente e insostituibile, formulabile ed utilizzabile sul pia­ no intuitivo, logico e pratico» 12 non poteva essere legittimamente iden­ tificato nella Comunità euroatlantica, né tanto meno nella Comunità de­ gli stati «modernizzati» e tecnologicamente sviluppati, quelli, per fare un esempio, del Gruppo dei paesi dell’OCSE, come invece è stato fatto du­ rante tutto il periodo bipolare. L’identificazione del concetto di Occidente con quello di Comunità eu­ roatlantica era infatti strumentale rispetto alla realtà della situazione in­ ternazionale. Nel senso che l’Occidente era diventato, dopo il 1945, un termine dietro il quale si nascondeva l’egemonia degli Stati Uniti in uno dei due emisferi bipolari. Al punto che vennero dichiarati occidentali an­ che paesi lontani dell’Estremo Oriente, di cultura e formazione diversis­ sima, come il Giappone. È evidente che questo modo di concepire l’Occidente non era altro che una formula linguistica per dire «modernizzazione», oppure per inten­ dere «sviluppo», oppure per sottolineare che erano parte dell'occidente tutti gli attori nazionali che facevano parte di un alleanza insieme agli Stati Uniti. Si trattava dunque di un concetto che non aveva nulla a che fare con il significato che, storicamente e culturalmente, deve essere at­ tribuito all’idea di Occidente, che è invece una categoria culturale di ma­ trice squisitamente europea. La dilatazione dell’occidente fino a comprendere la sponda pacifica del Continente americano, l’Australia e il Giappone, anche se comprensibile da un punto di vista politico-ideologico, e perfino socioeconomico, non è as­ solutamente valida se considerata sotto il profilo culturale, cioè come «com­ plesso delle manifestazioni della vita culturale e spirituale di un popolo, in relazione alle varie fasi di un processo evolutivo o ai diversi periodi stori­ ci o alle condizioni ambientali»13 che lo caratterizzano. In effetti, anche nel caso della Comunità euroatlantica, quest’errore semantico si è manifestato clamorosamente proprio attraverso l’autoattribuzione abusiva che essa si è data del titolo di «Occidente», mentre sa­ rebbe stato molto più opportuno definirsi con un altro concetto geopoli­ tico, quello di «Oceania».

12 Devoto-Oli, 1967, p. 542. 13 Ibidem, p. 637.

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6. Il lemma Occidente, infatti, se non viene inteso nel suo banale con­ notato geofisico o astronomico, come «parte dell’orizzonte dietro la qua­ le tramonta il sole» 14, è essenzialmente un concetto geopolitico e cultu­ rale, antico e preciso, che nasce e si afferma in Europa. Esso designa pro­ prio l'Europa in quanto tale, «dividendola» dall’Asia, o meglio dall’oriente. Non è quindi un concetto inclusivo bensì esclusivo, di delimitazione e di separazione. Non è neppure estendibile a volontà al di là del mare, sia pure verso Ovest, perché l’Occidente si è definito culturalmente intorno a focolai etnici e storici ben determinati e definibili15. Per comprender­ lo bene e viverne le implicazioni, in quanto Europei moderni, è necessa­ rio riannodare pazientemente il filo d’Arianna che, a ritroso, ci ricon­ giunge alle fonti della nostra cultura occidentale. A differenza delle Istituzioni, fragili costruzioni di carta e parole, che minacciano di cadere ad ogni mutamento, le radici culturali sono molto più solide e i codici di valore e di riconoscimento, come sono quelli di Occidente, rinviano sempre ai caratteri costituenti, spesso sepolti nel pas­ sato e dimenticati, ma solidamente contenuti all’interno dei nostri ar­ chetipi collettivi. È certamente proficuo quindi cercare la natura dell’occidente nella simbolica rappresentazione di quella concezione «dualistica» del mondo che risale alla divisione fra «greci» e «barbari» del V Secolo a.C. che poi si ripresenta col fallimento del grandioso progetto di unificazione speri­ mentato da Alessandro Magno, e che finalmente si consolida nella defi­ nitiva divisione dell’impero Romano in due parti stabilita da Dioclezia­ no nel 284 d.C. La «pars occidentis» si separò dalla «pars orientisi in quel­ la data, per non più ricongiungersi. Il confine amministrativo, e poi mi­ litare, di allora resta il confine di oggi. La prima forma assunta dallo spazio definibile come Ovest-Occidente, in fase di formazione alla fine del mondo antico basata proprio sulla logi­ ca della «separazione», fu infatti quella militare. Il territorio dell’impero, sottoposto a crescenti pressioni provenienti da Est, per mantenere la pro­ pria identità dovette gradualmente militarizzarsi16. La prevalenza dell'organizzazione militare su quella economica ob­ bligò così l’impero a compartimentarsi, a suddividersi in città e campa­

14 Dizionario di storia, B. Mondadori, Milano, 1993, p. 908.

15 S. Mazzarino, Fra Oriente e Occidente, Rizzoli, Milano, 1947, 1989; Jiìnger-Schmitt, Il nodo di Gordio, Il Mulino, Bologna, 1987. 16 J. Le Goff (1964), La civiltà dell'occidente medievale, Einaudi, Torino, 1981, pp. 15-68.

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gna. Le invasioni da Est comportarono la necessità di adottare, a parti­ re dal III secolo, una strategia difensiva flessibile, di stabilire delle ge­ rarchie di importanza territoriale, e la distribuzione dei punti logistici e sistemi di comando e controllo in quartieri generali distribuiti lungo le frontiere. Di qui la progressiva de-identificazione della centralità mediterranea con lo spostamento della capitale da Roma, la moltiplicazione delle ca­ pitali (da 1 a 4) e la loro fissazione in zone più vicine alle frontiere, sia al Nord che all’Ovest da una parte, ovvero verso l’Est e il Sud, dall'altra. Lo sgretolamento dell’impero avvenne per invasione da parte dei barba­ ri, ma anche per implosione interna, quando le strutture socioeconomiche, e perfino culturali, che l’avevano creato e tenuto in vita entrarono in crisi.

7. Caddero così, in successione, anzitutto la «centralità» di Roma, per­ no simbolico della «grande ruota» imperiale attorno al Mediterraneo. Poi l'unità delle provincie occidentali e orientali. Infine il sistema di comu­ nicazione logistico e delle informazioni, cioè l’unità culturale, andò in pezzi sotto la pressione dei barbari. L’Occidente, come concetto fondante della nuova Europa, nasce così, senza un centro, senza unità culturale, ma anzi dalla combinazione di culture diverse normanno-barbariche, per «separazione» però, nei con­ fronti dell’oriente. Non si tradusse nella costruzione di un «limes» sostitutivo di quello romano, continuo e coerente, inclusivo del «noi» ed esclusivo degli «al­ tri». Ebbe invece un carattere difensivo casuale, frammentato e «scatte­ red», isole sparse di un arcipelago in formazione, sparpagliate attraverso lo spazio embrionale del nuovo Occidente e della nuova Europa. Strutturato sulla base di un sistema di fortezze rurali, simboli del coa­ gulo del potere nomadico in modelli di sedentarizzazione (come le cittàfortezza visigote in Spagna, al confine con il Sud), le fortezze curtensi e i castelli diventano la forma primaria dell’occidentalizzazione, e al tem­ po stesso, un segnale importante di trasformazione delle regole e delle forme della guerra. La cavalleria barbarica sostituisce la fanteria pesante legionaria sem­ plificando le regole del gioco, senza macchine ossidionali, né tattiche d’at­ trito e di logoramento,7.

17 V. Fumagalli, L’alba del Medioevo, Il Mulino, Bologna, 1993; J. Delumeau, La paura in Occidente, Sei, Torino, 1978, ed. it. 1979; E. Perroy (a cura di), Il Medioevo.

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L'Occidente europeo alle sue origini è quindi potenzialmente un ridotto difensivo localizzato nel territorio meno colpito dalle invasioni. Resta in qual­ che modo a parte. Si protende verso il mare con le sue braccia di terra (Nor­ mandia, Bretagna, Asturie) per sfuggire all’oriente: si raccorda con le isole della Britannia per dieci secoli. ^.«English Channel» non è ancora la Mani­ ca: per ora unisce invece di dividere. Per converso, l'identificazione, comune alla fine del mondo antico, del collasso deU’Impero Romano d’Occidente con la venuta deU’«Anticristo», ripropone ancora una volta il problema dell’identità culturale europea minacciata appunto da Est. Il secolo VI, quando la coscienza dell'identità romana è davvero per­ duta per sempre, può essere considerato come il punto di svolta inferio­ re del ciclo dell’occidente, stritolato e disfatto dall’Est invasore. Il mi­ raggio del compromesso, sempre ricorrente, sotto forme diverse, dall’e­ quilibrio alla stabilità, alla composizione di conflitti culturali ed etnici, al mito dell’Eurasia, e la sua drammatica irrealizzabilità, si manifestano tutte insieme nel VI secolo quando risulta evidente a tutti che l’impero non è più in grado di conservare neppure il suo guscio esteriore, divora­ to dalle energie vitali barbariche. La combinazione dei Regni Romano-Barbarici sono quindi altra cosa rispetto all’impero che ingloba e trasforma le ondate degli invasori, ro­ manizzandoli. È quello che Le Goff chiama il tentativo dell’«organizzazione germanica» dell’Europa18. Nuove idee e culture s’innestano sul cep­ po tagliato della cultura imperiale. Da questo humus nasce l’Occidente come «categoria» localizzata nell'idea di Europa. La controprova di questa originalità dell’occidente romano-barbarico è data dal graduale logoramento della relazione fra il nuovo Ovest (Chie­ sa più Barbari) e il vecchio Est (Bisanzio come Impero residuale che si batte contro l’Est). La distanza, anche culturale, fra la Pars Occidentis e la Pars Orientis si allarga. Il greco e il latino diventano mondi chiusi ed esclusivi. L’Occidente misura sul rapporto fra il latino e le lingue germa­ niche il proprio sforzo di omogeneizzazione, mentre a Bisanzio il greco regna incontrastato imponendosi alla lunga perfino sullo slavo. Per verità Bisanzio cercherà a lungo di essere la «Seconda Roma» e di recuperare l’Occidente perduto. Giustiniano è sul punto di riuscirci. L'espansione dell'oriente e la nascita della civiltà occidentale, Sansoni, Firenze, 1955, ed. it. 1977; M. Bloch, La société féodale, 1949, Le Goff, Paris; cit., cap. Il; H. Delbriick, History of the Art of War, vol. II: The Germans, Westport, Greenwood Press, 1921, ed. ingl. 1980; S. Mazzarino, La fine del mondo antico, Rizzoli, Milano, 1988.

18 Le Goff, op. cit., p. 48 ss.

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anche se per pochi anni. Tuttavia i Bizantini sono percepiti ormai come stranieri, sempre più diversi. Il legame si fa astratto, ma intellettualmente confliggente, e neppure più di comunanza religiosa. Già prima del Gran­ de Scisma del 1054 il confine linguistico e amministrativo, collocato da Diocleziano alle Porte di Traiano nell’attuale Bosnia, spesso travolto dai barbari, Germani o Slavi che fossero, era diventato una divisione cultu­ rale incolmabile. Col risultato che, nonostante il fatto che Costantinopo­ li continuasse ad essere l’erede di Roma e, al tempo stesso, rappresen­ tasse il ferro di lancia dell’occidente verso l’Est, contro la duplice pres­ sione dei barbari, Germani o Slavi, da Nord-Est, dei Persiani Sassanidi e poi degli Arabi da Sud-Est, la loro funzione era ormai diventata, per così dire, confinaria. Nessuna affinità li legava più ai territori invasi dell’Occidente che, per ragioni anche socioeconomiche, erano ormai da con­ siderare come indipendenti e frammentati. Per di più Costantinopoli viene schiacciata nella sua stessa identità da questa funzione di antemurale contro l’Est e il Sud, e quasi scompare in es­ sa, o comunque si isola. Si orientalizza ancora di più. La Seconda Roma si allontana, va alla deriva verso Est, sopraffatta dal suo stesso ruolo19. Di qui il legato di ambiguità lasciato dai Bizantini nei Balcani, prima ancora che i Turchi, gli Austriaci o i Russi si affacciassero alla penisola, e la protervia ingiustificata dei Greci moderni nei confronti della Mace­ donia e dell’Albania, sono una indubbia testimonianza storica.

8. L’Occidente, in effetti, si riconosce come tale solo in quanto «rico­ lonizzatore» dell’Europa disfatta dalla fine del mondo antico. L’Europa, «localizzazione» e «patria» dell’occidente (Ortung und Heimat), scaturi­ sce come la forma concreta della graduale ricolonizzazione dello spazio rurale perduto, della suddivisione del territorio indiviso (siepi, recinti, pa­ lizzate, fossi, cancelli), come è ben visibile ancora oggi nella struttura del paesaggio urbano-rurale della Valle del Po. La sostituzione dell’impero Romano d’Occidente con l’Occidente tout court è quindi una vera e propria traslazione spaziale, ovvero una torsio­ ne cartografica dovuta a motivazioni di ordine essenzialmente difensivo. «Posta da Romolo sotto il segno delle mure, la storia romana, perfino nei suoi successi, è soltanto la storia di una grandiosa chiusura» 20. In al-

19 G. Ostrogorsky, Storia dell'impero bizantino, Einaudi, Torino, 1963, ed. it. 1968, p. 59 ss.

20 Le Goff, op. cit., p. 15.

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tre parole l’Occidente, sia esso la «pars accidentis » dell'impero Romano, sia esso l’impero Sacro e Romano di Carlo Magno, si caratterizza per il principio di differenza stabilito «dal solco dell’aratro di Romolo», e per la definizione stanziale, quindi antinomadica, dello spazio occupato. Gran parte dei territori dell’Est e del Sud europeo dell’ex Impero Ro­ mano d'Occidente sono stati troppo a lungo esposti e minacciati. Il ba­ cino mediterraneo si è spezzato in due parti con le invasioni gota e vandala prima, araba poi. Il recupero bizantino di Giustiniano, parziale e provvisorio, è vissuto come estraneo e ostile dalle popolazioni romano­ barbariche dell’Italia e del Nordafrica. La stessa Roma, da «centro» dell’impero, carico di tutti i simboli che la sua centralità le assegnava21, diventa un avamposto geostrategico sempre a rischio, soprattutto dopo le occupazioni del 410 e del 476. La sua periferizzazione politica non è compensata dalla sua centralità religiosa, in quanto sede del Pontefice, che non è ancora definitivamente acquisita. Il «Vescovo di Roma» diventa il capo spirituale della Res Publica Christiana solo dopo che gli Arabi distruggono «le rivali di Roma», cioè le grandi arcidiocesi di Antiochia, Cartagine, Alessandria, Ippona, e della Spagna. Ma nel VI secolo anche il potere «sacrale» di Roma e del Papa era mol­ to meno evidente, se è vero che Giustiniano considerava il Vescovo di Ro­ ma meno importante del Vescovo di Ravenna22. La concessione della citta­ dinanza romana a tutti gli abitanti dell’impero, con l’Editto di Caracalla del 212, aveva già decentralizzato la compagine imperiale. Il tentativo degli Im­ peratori illirici, da Diocleziano a Costantino, di fissare due-quattro «centri» politico-militari dell’impero non fu in grado di restituire, né a Roma né al­ le altre capitali, il ruolo di «centro» che Roma aveva assolto nel passato.

9. Il secondo Occidente, e l’Europa, nasceranno quindi senza un «cen­ tro». Non lo saranno né Aachen con Carlo Magno, né Augsburg, Worms o Regensburg, modeste sedi del Reichstag imperiale nei secoli successivi23. L’Occidente e l’Europa prendono così forma senza un centro politico-mi­

21 R. Arnheim, The Power of the Center, University of California Press, Los Ange­ les, 1982 e Einaudi, Torino, 1984; M. Eliade (1965), Il sacro e il profano, Boringhieri, Torino, 1984; E. Shils, Center and Periphery, in Essays in Macrosociology, The Uni­ versity of Chicago Press, Chicago, 1975.

22 H. Trevor Roper (1965), L’ascesa dell’Europa cristiana, Rusconi, Milano, 1994, pp. 111 e sgg.

23 E.H. Kantorowicz (1957), I due corpi del Re, Einaudi, Torino, 1989.

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litare, istituzionale e sacrale. Sono un «sistema a-centrato», spesso conflit­ tuale, un «labirinto» fatto di incroci e di corridoi. «L’"a-centrismo” è una specificità della società delle formiche e delle società umane spontanee, en­ trambe ignare dello "schedario centrale”, o capaci di vomitarlo quando di­ venta una minaccia», scriveva Pierre Rosenstiehl nel 197824, rappresentan­ do bene il fenomeno sistemico dell’insorgenza non gerarchica di un’entità comune, di un’identità embrionale, un «hapax collettivo»25, ovvero una «re­ te labirintica», interconnessa ma anarchica, come nel sistema informatico Internet. Roma infatti non riuscirà a diventare una capitale spirituale ricono­ sciuta altro che molti secoli dopo quando il grande fenomeno delle Cro­ ciate, nel secolo XI, segnerà la fase iniziale della riscossa europea e oc­ cidentale contro l’Oriente, avviando quel processo ciclico della «Fortez­ za Europa», basato sull’alternanza di fasi difensive, seguite (o precedu­ te) da fasi controffensive (o offensive)26. Questa Europa ruralizzata dell’Alto Medioevo non ha alcun bisogno di un centro, ma invece di una cultura comune (o affine) che sarà poi quella dell’occidente cristiano. Per queste ragioni le capitali europee, da Roma a quelle imperiali del Sacro Romano Impero, fino all’emergenza dei capoluoghi delle Monarchie feudali, saranno solamente delle ipotesi astratte, centri virtuali, fantasmi del passato, in un territorio di cui la na­ tura si è riappropriata con centri urbani svuotati o deserti, in rovina e in­ vasi dalla vegetazione. Si stabilisce però una rete sistemica di affinità, dai monasteri ai ca­ stelli, fonti dell’identità, fino alle nuove città costruite sulle rovine di quel­ le romane, centri di scambio «leggero» sulle fondamenta «pesanti» del­ l’economia curtense e feudale27. La «Romanità», simbolo antico di potenza e civiltà, si cristianizza dun­ que e al tempo stesso si materializza nell’idea di Roma, centro della Cri­ stianità. È una realtà «virtuale», peraltro, spogliata di potere effettivo fin da quando le funzioni di capitale imperiale erano state suddivise e tra­ sferite (in Italia) a Milano (284-402) e poi a Ravenna (402-476). La sua virtualità è però significativa perché alimenta, nella frammen­

24 P. Rosenstiehl et al. (1984), La metafora del labirinto, Comune di Reggio Emi­ lia, Reggio Emilia, p. 33 ss. 25 Rosenstiehl, op. cit., p. 31.

26 C. Cahen (1983), Oriente e Occidente ai tempi delle Crociate, Il Mulino, Bologna, 1986. 27 B.H. Slicher van Bath (1960), Storia agraria dell’Europa occidentale (500-1850), Einaudi, Torino, 1972.

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tazione dei Regni barbarici e anche nelle Monarchie feudali, un «labirin­ to» appunto, ovvero un network di comunicazione culturale e spirituale, in un’area che comprende gli Stati dell’Europa occidentale odierna, gettando le basi dell'idea di Occidente in senso proprio, attraverso l’azione missio­ naria del monacheSimo e quella ascetica del romitaggio. Da queste fonti nascerà, alcuni secoli dopo, l'idea di Crociata, prima manifestazione ester­ na all'area occidentale della missione dell’Europa nel mondo. Si tratta di fenomeni spontanei ma collegati, frutto della combinazio­ ne di stanzialità barbarica e di cristianizzazione, che si accendono con­ temporaneamente in varie parti del Continente, ma sono lanciati, in una prima fase, da Roma e dall’Italia (san Benedetto da Norcia) verso il NordOvest, e anche verso l'Est.

10. L’Occidente, dunque, si sviluppa e si definisce come una struttura «leggera» e rarefatta, come doppia rete interconnessa di castelli barbari­ ci e di monasteri in una prima forma della Res Publica Christiana che di­ venterà poi l’Europa medievale e finalmente, con l’età delle scoperte geo­ grafiche, l’idea e la prassi dell’occidente in tutto il mondo28. In Italia, ad esempio, l’Occidente nasce dal confronto fra tre popoli barbari, i Goti, nelle due nazioni Visigota e Ostrogota, i Longobardi che hanno sconfitto i Bizantini, e i Franchi, che si sono battuti contro gli Ara­ bi a Poitier nel 72229. Questi tre popoli, insieme ai Vandali e ai Burgun­ di, stabiliscono, in successione, le prime linee di difesa elastica dell’Occidente, inteso come «categoria dello spirito», e poi come strumento del­ l’identità europea. Dapprima i Goti, nelle due ali Visigota e Ostrogota, che percorrono in poche decine di anni prima di sedentarizzarsi, l’intero Continente fis­ sando le dimensioni possibili dell’Europa occidentale. Poi i Longobardi in Italia (e gli Anglosassoni in Inghilterra), che fronteggiano sia gli Ostro­ goti che i Bizantini. Finalmente i Franchi che, da Clodoveo a Carlo Ma­ gno, trasformano l'Europa della dissoluzione imperiale e delle invasioni barbariche in progetto magistrale di «.hapax»30.

28 Le Goff, op. cit., pp. 68-120. 29 Gregorio di Tours, Historia Francorum; Jordanes, De Getarum sive Gothorum origine et rebus gestis, Tea, Milano, 1991; Paolo Diacono, Historia Langobardorum, Mondadori, Milano, 1992.

30 Fichtenau H. von (1949), L’impero carolingio, Laterza, Bari, 1972, pp. 59-112.

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Con Carlo Magno quindi l’Occidente in senso moderno è già costitui­ to. Il suo nucleo centrale consiste nei territori che Carlo era stato in gra­ do di inglobare: un grande progetto di accorpamento spaziale per il qua­ le non esistevano né le premesse tecniche né le capacità amministrative. Tuttavia, anche dopo il Trattato di Verdun (843) che divide l'impero in tre parti (Francia, Germania e Lotaringia), l’idea della «renovatio impe­ rii» non scomparirà più dalla fantasia degli Europei che in quella for­ mula ritroveranno il mito dell’identità perduta. Verrà anzi ripresa più vol­ te nel corso dei secoli, da Federico II all’utopia unificatrice di Carlo V e di «Astrea»31, come idea stessa dell’occidente e, al tempo stesso, come immagine dell’Europa. Per una singolare forma di contraddizione l’utopia della «hapax» rap­ presenta, ancora oggi, una coppia di concetti in opposizione fra loro. Da un lato, infatti, si colloca l’aspirazione all’unificazione del Continente, sul­ la base delle affinità che si fanno identità nel concetto di Europa (e quin­ di di Occidente, che ne rappresenta il rovescio uguale e contrario), men­ tre dall’altro lato si moltiplica il carattere frammentato, o meglio del «la­ birinto» europeo, fitto di specificità e di storie diverse, di lingue e cultu­ re della contrapposizione e della divisione. Questa coppia di concetti in opposizione, «unità» e «frammentazione», sono l’asse d'equilibrio su cui si giocano i destini del Continente, compre­ si quelli dalla sua identificazione spaziale. L’Europa infatti è laddove esi­ ste l’Occidente, nato dall'evoluzione dei concetti teologici e filosofici della politica, dalla caduta dell’impero Romano d’Occidente ad oggi. La «centralità» dell’occidente che, per significato traslato, è diventa­ to sinonimo di «modernizzazione» e di «sviluppo», nasce quindi in Eu­ ropa come fenomeno storico di longue durée basato sulla mancanza di un «centro». La «hapax», infatti, è stata un'aspirazione fallita, mentre la diversità culturale ha prevalso. Ogni tentativo di predominio continenta­ le è stato abbattuto nel sangue. Gli Europei hanno perfino inventato un Sistema Politico Internazionale multipolare (Balance of Power) per legit­ timare le difficoltà delibasse di equilibrio», su cui, acrobaticamente, gli Europei occidentali cercavano di sviluppare e conservare il proprio «Mo­ dello» collettivo di Sistema politico-culturale. Eppure la «nostalgia imperiale» non si dissolve col tempo. Essa ac­ compagna ad intervalli regolari la storia del Continente, come negli ulti­ mi cinquanta anni, con il processo istituzionale di formazione dell’Unio­

31 F.A. Yates (1975), Astrea: l’idea di Impero nel Cinquecento, Einaudi, Torino, 1990, pp. 6-38 e 49-71; E. Kantorovicz, Federico II imperatore, Garzanti, Milano, 1976, p. 526 ss.

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ne Europea, che è il prodotto delle vicende del Novecento ma «restaura­ zione» dell’età dell'oro imperiale e della «pax europaea». L’ipotesi di un grande «spazio organizzato» nasce però da esigenze di­ verse e spesso contrapposte. La spinta alla frammentazione è funzione del grado di rischio che lo spazio europeo occidentale corre in relazione al­ la difendibilità dei suoi limes orientale e meridionale. In altri termini, la nostalgia d’impero si manifesta sempre in relazione all’aumento della pressione da Est e da Sud, mentre la sua coesione potenziale si riduce quando quelle minacce si indeboliscono o si allontanano. Anche per queste ragioni, dunque, l’Europa, intesa come sinonimo di Occidente, non potrà non avere dei connotati «nordici» e «occidentali». Tutte le aree al di fuori dell'area centrale (Europa carolingia o lotaringica o Mitteleuropa che dir si voglia) sia a Sud-Ovest (Penisola Iberica), sia a Nord-Ovest (Inghilterra, Scozia e Irlanda), sia a Sud-Est (Balcani) come a Nord (Scandinavia) e a Sud (Italia meridionale), non riusciranno mai a to­ gliersi di dosso il marchio della perifericità rispetto all’idea centrale di Eu­ ropa e di Occidente.

11. La distinzione fra le due parti del vecchio Impero Romano è quin­ di estremamente importante, non solo perché è la premessa necessaria all’identificazione dell’occidente con l’Europa, ma soprattutto perché ha escluso dall’occidente la «non-Europa». Il problema successivo diventa allora quello di identificare lo «spazio europeo», e quindi di fissare i confini dell’Europa, sia verso Est che ver­ so Sud e, per certi aspetti, anche verso Ovest. La necessità di questa considerazione apparentemente formale, deriva dal fatto che l’Occidente, inteso come Europa, è radicalmente diverso dall’Occidente, inteso come Comunità euroatlantica. Si tratta infatti di due rap­ presentazioni geopolitiche diverse. L’Occidente-Europa nasce dalla combi­ nazione di culture interattive diverse, ma territorialmente localizzate. L’«Ortung» dell’Occidente-Europa si è quindi gradualmente trasformato in «Ordnung», che è il frutto della storia stessa dell’Europa, dalle ininterrotte guer­ re contro l’Oriente fino a quelle di Religione, interne al Continente, e all’af­ fermazione dello jus publicum europaeum nel 164832. Tale presunta costi­ tuzione europea (Grotius, Bodin, Pufendorff) escludeva non solo l’Oriente dal suo territorio applicativo, ma anche il resto del mondo, quindi anche I’America che era appunto «beyond the line» della civiltà occidentale.

32 C. Schmitt, Il nomos della terra, Adelphi, Milano (1991).

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Ovviamente questa interpretazione rigorosa dell’occidente vale solo come background intellettuale nell’analisi della situazione attuale. Ed è più che evidente che la lettura «occidentalista» della Comunità euroa­ tlantica non contraddice affatto la specificità europea dell’occidente. La distinzione è invece utile per comprendere le differenze concettuali e ope­ rative che, in materia di sicurezza, le due letture possono comportare in una fase di transizione da un sistema internazionale ad un altro. La lettura atlantista dell’occidente, infatti, si distingue da quella eu­ ropea per ragioni geopolitiche profonde. Nel senso che mentre quella atlantista si concentra, per forza di cose, su una filosofia che potremmo definire «marittima», quella europeista si focalizza su una duplice filo­ sofia geopolitica, che potremmo definire «anfibia», ovvero parzialmente continentalista e ossidionale, non disgiunta da un raccordo navalista e quindi marittimo. In altri termini, la filosofia atlantista classica è la filosofia di «Oceania», fondata su una teoria marittima di accerchiamento dell’«Eurasia» di tradi­ zione anglosassone, mentre la filosofia europeista è basata sulla logica del­ le teste ponte, cioè delle «rimlands» difensive-offensive di cui la tradizione militare francese, tedesca e spagnola sono gli esempi più significativi. In effetti la relazione fra NATO e Occidente, la sua arbitraria sinonimia, si è basata più sul concetto di Oceania che non su quello di Europa. Anzi, l’Europa, divisa in due parti, aveva spostato il baricentro dell’occidente nel mezzo della «fossa» atlantica. C’è stato perfino qualche momento in cui lo Schwerpunkt della Comunità euroatlantica si è occidentalizzato all’estremo fino a collocarsi sul Continente americano. ILOrtung dell'occidente, spo­ standosi in America, implicitamente lasciava all’Europa occidentale solo uno spazio residuale, di frontiera limite, di «forward battle area-» dell’occidente.

12. Tutte le istituzioni create durante la Guerra Fredda risentirono di questa condizione estrema, del clima politico strategico dell’Europa con­ cepita come prima linea di difesa di un Occidente, inteso come Western Hemisphere33 allargato verso Est. Quell’Europa divisa, perciò, non pote­ va aspirare ad essere YUrsprung dell'occidente: rappresentava invece so­ lo un pegno, ovvero un progetto incompiuto d'impero eurasiatico, e per­ ciò era una permanente spina nel fianco, e insieme un ostaggio, nelle ma­ ni dell'Eurasia sovietica.

33 C.M. Santoro, Diffidence and Ambition, Boulder (CO), Westview Press, 1992; CFR, War and Peace Studies, 1939-45, New York; A. Hillgruber, La distruzione del­ l’Europa, Il Mulino, Bologna, 1991.

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La sua marginalità era sottolineata ulteriormente dalla spartizione del­ la Germania in tre parti (Repubblica Federale, Repubblica Democratica, Territori tedeschi annessi). Le Istituzioni di tipo «oceanico», quindi, co­ me la NATO, e il suo corollario continentale, la Comunità Economica Eu­ ropea, il Consiglio d’Europa, e l’UEO, impoverivano il contenuto occi­ dentale dell’Europa invece di rafforzarlo, perché ne escludevano la cen­ tralità geopolitica. D’altra parte, l’idea che il cuore dell’occidente si fos­ se spostato a Ovest, nell'Oceano e negli Stati Uniti, comportava una as­ surda lettura del concetto stesso di Occidente. Spengler, all’inizio del 11 Tramonto dell'occidente, enuncia esplicita­ mente questo problema, senza peraltro rispondere all’esigenza di distin­ guere le due localizzazioni dell’occidente, che è però sempre implicita nel suo testo. «In questo libro viene tentata per la prima volta una pro­ gnosi della storia. Ci si è proposti di predire il destino di una civiltà (Kultur) e, propriamente, dell'unica civiltà che oggi stia realizzandosi sul no­ stro pianeta, la civiltà euro-occidentale e americana nei suoi stadi futu­ ri» 34. Non v’è dubbio infatti che nella mente di Spengler la civiltà ame­ ricana, per quanto affine a quella europea, non potrà mai essere defini­ ta come identica alla civiltà euro-occidentale. Il Western Hemisphere, infatti, non è l’Occidente, ma solo il suo Far West, dato che l’Europa è il vero cuore tradizionale dell’occidente che si è forgiato in quasi duemila anni di lotta, non sempre vittoriosa, contro l’Eurasia. Gli Stati Uniti, infatti, non sono solo occidentali. Il loro ruolo geopolitico è strutturalmente ambivalente. Fuor di dubbio sono invece la potenza oceanica centrale che ha assunto nel Novecento il ruolo di cas­ saforte dei valori occidentali, a cavallo fra i due oceani, Atlantico e Paci­ fico, a picco sull'isola americana (che include anche il Centro e il Sud America), ma bilanciata fra Far West e Far East. In effetti il ruolo degli Stati Uniti e del Western Hemisphere è sempre stato quello di potenza guida dell’Oceania, un’entità concettuale globale, equamente divisa fra Comunità euroatlantica e Bacino del Pacifico. La sua doppia leadership in entrambi i bacini è certamente un fattore chia­ ve per la sua «globalità» geopolitica, ma è sempre a rischio perché sem­ pre minacciata, almeno potenzialmente, di accerchiamento. La sua sicu­ rezza, un tempo assoluta, quando l’attraversamento in forze degli Ocea­ ni maggiori era impossibile, è ormai messa a repentaglio dalla missili­ stica nucleare. L’invulnerabilità che aveva procreato le teorie wilsoniane, figlie a loro volta del Manifest Destiny e della «Gerusalemme Celeste», è

34 Spengler (1922), Il tramonto dell’occidente, Longanesi, Milano, 1957, p. 13.

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ormai scomparsa35. Questa schizofrenia geopolitica si è tradotta, in dop­ piezza e incertezza politiche ricorrenti nella cultura politica americana e ineliminabili, a partire dai primordi della stessa espansione continenta­ le statunitense, particolarmente evidenti dopo che gli Stati Uniti hanno assunto un ruolo politico globale nel Novecento36. L’espansione nel Pa­ cifico, a partire dal 1898 (ma, prima ancora, con la conquista degli avam­ posti delle Hawaii e delle Samoa), costituisce il primo spunto di de-europeizzazione degli Stati Uniti, al termine della conquista definitiva del­ la «frontiera» mobile continentale verso Ovest37. Il problema geopolitico dell’ambivalenza oceanica si ripresenterà perio­ dicamente, anche se venne in parte risolto, almeno in termini strettamente strategici, con il taglio del Canale di Panama. La concentrazione (ovvero la divisione) delle flotte, quella Atlantica e quella del Pacifico, fra i due bacini oceanici è stato comunque alla base del problema delle priorità strategiche americane fino alla guerra 1941-45 quando l’alternativa venne risolta con la decisione di considerare Germany First and Japan Second3*. Tuttavia essa si riproduce oggi nella Grand Strategy politica e nella dot­ trina militare americana, e quindi, per conseguenza, anche nella pianifi­ cazione operativa relativa ai due teatri, quello del Pacifico e quello dell'Atlantico39. Storicamente essa si è manifestata in molte occasioni, nel­ la diversità concettuale della conduzione della guerra contro il Giappo­ ne, nella «sinofilia» dell’immediato dopoguerra, nella relazione «specia­ le» con il Giappone, nelle guerre peninsulari Corea-Vietnam. L'attenzione americana all'Europa è sempre stata bilanciata da una co­ stante, anche se diversa, attenzione all’Asia. La specularità rigida delle forze contrapposte sul fronte europeo garantiva libertà di manovra in Asia. Anche se gli Europei non se ne rendevano ben conto, l’«occidentalità» dell'America non è mai stata davvero totale. Al contrario, al di là del­ l’impegno nucleare e finanziario, gli Stati Uniti hanno beneficiato della presenza europea più di quanto non possa sembrare a prima vista. La

35 Vedi E.S. Miller, War Plan Orange, Naval Institute Press, Annapolis, 1991; H.H. Herwig, Politics of Frustration: the US in German Naval Planning, Little, Brown, Bo­ ston, 1976; P.M. Kennedy, The War Plans of the Great Powers, 1880-1914, Allen & Unwin, London, 1979.

36 Williams (1959, 1978, 1982), LaFeber (1963), Merck (1963). 37 F.J. Turner (1893), La frontiera nella storia americana, Il Mulino, Bologna, 1968; B. Adams (1900), America’s Economie Supremacy, Harper, New York, 1947. 38 V. lettera di Th. Roosevelt a Taft nel 1909 e a Mahan. 39 V. «Blue Black Pian, ecc.» in US Army in World War 2, e Santoro, op. cit., 1992.

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gran parte degli investimenti di uomini e risorse, infatti, nel mezzo se­ colo bipolare, è stato diretto soprattutto verso l’Asia, dove gli Stati Uniti hanno combattuto due guerre ad alta intensità in meno di un quarto di secolo, e molto meno verso l'Europa la cui stabilità solo in questi anni viene per la prima volta messa alla prova.

13. La diversità fra Asia ed Europa, nella concezione politica ameri­ cana, è quindi molto radicata. Lo si vede perfino nella logica diplomati­ ca che presiede alla dottrina della NATO, che è un’alleanza multilaterale, anche se egemonizzata dagli Stati Uniti, e come tale dotata di organi di concertazione e decisione di tipo multilaterale, mentre nella sua dottri­ na asiatica il governo americano ha perseguito quasi costantemente una politica molto più tradizionale basata su una combinazione di accordi bi­ laterali e di libertà d’azione, creando così una griglia strategica molto me­ no strutturata e di tipo stellare. In sintesi è possibile sostenere che la visione geopolitica americana non è strettamente occidentalista, ma invece di tipo misto. Il fatto che l'Europa si affidasse alla filosofia politica dell'occidentalismo integrale e oceanico degli Stati Uniti aveva quindi un senso solo nel quadro strate­ gico della Guerra Fredda e della divisione del Continente in due grandi spazi organizzati contrapposti. Oggi però diventa un rischio perché potrebbe ostacolare senza costrutto il processo in corso di «ricostruzione» potenziale dell’Europa occidentale e della sua identità, sia verso Est che verso Sud, cioè nei confronti delle due anime dell'oriente, annacquando l'identità europea in un generico ecume­ nismo «ordinista», di tipo essenzialmente verbale e non operativo, di cui so­ no un esempio lampante, sia le operazioni di «peace-keeping» delle Nazioni Unite, ovvero la mobilitazione della NATO e dell’UEO per la guerra in Bosnia. In effetti la prosecuzione del Modello «oceanico» di tradizione anglo­ sassone ad egemonia statunitense, con il suo corredo ideologico di «uni­ versalismo» umanitario e missionario, basato sulle teorie wilsoniane dell’«ordine mondiale», normativo e istituzionale, impedirebbe la ricostru­ zione del Modello occidentale europeo che ha invece bisogno di recupe­ rare i valori tradizionali della «divisione» e della «differenza», tipici del­ la tradizione continentalista, frammentata e/o regionale. Tale criterio ana­ litico della tradizione marittima degli anglosassoni, fondato sul principio della «libertà dei mari», e quindi sulla regola della interoperabilità ocea­ nica delle potenze navali, non può essere presente nel processo di «rico­ struzione» dell’Europa che proprio sulla distinzione fra Occidente e Orien­ te si è identificata come tale.

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14. È infatti proprio nel concetto di «limes», chiusura, soglia, separa­ zione, che l'Occidente europeo può ancora una volta trovare la sua iden­ tità anche spirituale, evitando la polverizzazione subnazionale ovvero l’egemonismo imperiale extraeuropeo che ne minacciano da sempre la in­ dividualità. Il pericolo, in sostanza, di questa continuità dottrinale fra dottrina bi­ polare e postbipolare è quello di diluire i valori dell’Europa occidentale, costruiti nel tempo sulle fondamenta originarie della Res Publica Chri­ stiana e sul Sacro Romano Impero, nell’ecumenismo globalista, ovvero nell'altemanza di attenzione fra Europa e Asia che caratterizza e carat­ terizzerà sempre più la politica statunitense40. Gli Stati Uniti non hanno infatti nei confronti dell’Eurasia quella con­ cezione difensivo-offensiva che è tipica dell’identità europea. L’Europa si distingue dall’oriente proprio attraverso la sua «anima» culturale, rin­ tracciabile nel concetto di Occidente. La Festung Europa si difende sto­ ricamente contro la minaccia proveniente da Est e da Sud utilizzando la forza che le deriva dalla sua complessa «occidentalità». Niente di tutto questo esiste nella tradizione della cultura politica de­ gli Stati Uniti. Anche nella dottrina geopolitica ogni minaccia eurasiati­ ca viene infatti percepita dagli Americani alternativamente, o come dot­ trina strategica dell’accerchiamento via mare delle Rimlands (Spykman, 1942), diretta a «contenere»41 la World Island e VHeartland (Mackinder, 1919) nella gabbia, possibilmente stretta, dei suoi confini non conqui­ stabili, ovvero come un pericolo da controbattere con il potere aereo e nucleare, sostitutivo e integrativo del potere marittimo42. Questa diversità di orizzonte, e di «punto di vista», diventa quindi es­ senziale per capire la contraddizione inevitabile del concetto-progetto eu­ roatlantico. La questione, in effetti, va al di là della evidente «scomparsa del nemico» 43, caduto sul campo della Guerra Fredda bipolare, perché esistono due logiche divaricanti anche all’intemo dell’occidente atlanti­ co, quella americana, che è piuttosto una filosofia della centralità ocea­

40 H. Trevor-Roper (1965), L’ascesa dell’Europa cristiana, Rusconi, Milano, 1994; V. Fumagalli, L’alba del Medioevo, Il Mulino, Bologna, 1993.

41 J.L. Gaddis, Strategies of Containment, New York U.P., New York, 1982. 42 A.T. Mahan, The Influence of Sea-Power upon History, 1890; ed. it., Roma, Uffi­ cio Storico, 1994, MM; A. De Severski, Victory Through Air Power, Simon & Schuster, New York, 1942; N.J. Spykman (1942), America’s Strategy in World Politics, Hartcomt, Brace and Co. New Yok; H. Mackinder (1919, 1942), Democratic Ideals and Reality, Constable and Company Ltd., London.

43 A. Colombo, La solitudine dell'occidente, Il Saggiatore, Milano, 1994.

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nica, e quella europea che è fondata su una filosofia difensiva dell’Occidente contro l’Oriente. Di qui l’incomunicabilità crescente fra il polo europeo e il polo ameri­ cano della NATO. Il suo cemento strutturale era infatti fornito non solo dal­ la minaccia sovietica, ma anche, e soprattutto, dalla distruzione e sparti­ zione dell’Europa, che si è finalmente conclusa.

15. In un certo senso era stata proprio la fine dell’Europa nel 1945 a gettare le basi dell’alleanza permanente fra gli Europei occidentali e gli Stati Uniti. La conclusione della Guerra Fredda e la riunificazione della Germania hanno aperto la strada alla ricostruzione dell’occidente attra­ verso la «ricostruzione» della sua specificità europea. Per «ricostruire l’Europa», e al tempo stesso per rivitalizzare le istitu­ zioni della sicurezza collettiva e di alleanza sul continente è, quindi, ne­ cessario operare questa rivisitazione del concetto di Occidente, che è or­ mai una precondizione concettuale primaria, antecedente sia alla distin­ zione fra Europa e America, così come a quella del rapporto fra Europa ed Eurasia. La possibile saldatura teorica fra i due concetti geopolitici classici di Oceania e di Eurasia, che sono oggettivamente incomunicabili, può av­ venire solo attraverso la «ricostruzione» dell’Europa, intesa come cuore dell’occidente, nella sua identità storica, culturale, virtuale e simbolica. L’ipotesi quindi di un collegamento fra la «marittimità», della cui fi­ losofia politica gli Stati Uniti sono oggi la potenza protagonista, come è dimostrato anche dalla recente dottrina strategica navale americana «From the Sea» 44, e la «continentalità», di cui la Russia è, nonostante tutto (ma potenzialmente insieme con la Cina e l’india), la debole potenza centrale, come è confermato anche dalla dottrina militare russa dell’«estero vicino» e del «peace-keeping», è possibile attraverso il recupero della centralità occidentale dell’Europa, penisola asiatica ma anche struttura spaziale immersa nel mare. Il compito della nuova Europa potrebbe essere quello di calibrare gli eccessi e le astrazioni della oceanicità americana, nonché di frenare le ambizioni troppo concrete di egemonia del continentalismo russo. Ov­ viamente questo progetto-processo di ricostruzione non può essere im­ maginato utilizzando, altro che limitatamente, gli attrezzi istituzionali e multilaterali lasciati in eredità al mondo futuro dal secolo passato, cioè

44 V. Proceedings of the US Naval Institute, 1992-94.

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dal Novecento. Le istituzioni e le strutture d’ordine intemazionale di stam­ po wilsoniano, nate dal disfacimento del sistema europeo del «diritto» e dell'«equilibrio» politico ottocentesco, sono infatti del tutto inidonee a ri­ solvere il problema della ricostruzione dell’Europa e dell'occidente, in quanto si tratta di prodotti dell’ingegneria genetica del diritto extraeuro­ peo e del funzionalismo meccanicistico americano. Le architetture istituzionali, regionali o universali, di sicurezza collet­ tiva, così come quelle di integrazione economica o di armonizzazione giu­ ridica, di cui l’Unione Europea è l’esempio più efficace e complesso, so­ no come i muri perimetrali sopravvissuti ad un crollo catastrofico che, insieme al sistema bipolare, ha travolto anche le regole del gioco del­ l’antica divisione fra Est e Ovest che aveva annullato l’Europa attraver­ sandola lungo la ferita sanguinosa della Germania divisa come la spada della vendetta del mondo «beyond, the line», delle forze al di fuori del­ l'Europa, provenienti dall’Eurasia e dall’estremo Ovest per soffocare il cuore dell’occidente.

16. Anche le teorie geopolitiche del Novecento, da quelle di Mackinder a Mahan a Haushofer (1934), hanno .subito questo influsso negativo. La geopolitica, nata al tempo del riordino coloniale, dello «Scramble for Afri­ ca» e delle aspirazioni alla «Weltmacht», è tornata infatti a campeggiare nel­ l’analisi della politica intemazionale del secondo dopoguerra, travestendo­ si però da Istituzionalismo Bipolare. Dotata di un’anima «globalista», frutto della evoluzione delle tecnolo­ gie di trasporto e dei sistemi di comunicazione, la dimensione spaziale della politica si è nascosta per decenni dietro le ideologie mentre nei fat­ ti restava il metro di misura dell’interazione politica fra attori operanti nel Sistema Internazionale. Anche se la questione dello «spazio» e dei «confini» non godeva di una «ricevibilità» ufficiale molto frequente nella cultura collettiva postbelli­ ca, sia dell’occidente che dell’oriente e del Sud del mondo che, invece, preferivano crogiolarsi nelle utopie architettoniche istituzionali e nor­ mative delle organizzazioni intemazionali, la geopolitica «globale» ope­ rava lo stesso e profondamente, sia in America che nell’URSS, depoten­ ziando l’Europa divisa e impotente. Sorte come teorie esplicative del sistema intemazionale dell’equilibrio prima del 1914, e, successivamente, come teorie «giusnaturalistiche» dell’«ordine mondiale», determinista e geografico, la geopolitica globali­ sta tendeva a rappresentare il mondo come un oggetto, confuso ma or­ dinabile, secondo paradigmi analitici sostanzialmente extraeuropei. La

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rivoluzione industriale, iniziata in Inghilterra, ma poi portata alle estre­ me conseguenze nell’America del Nord, le trasformazioni nei sistemi di trasporto, la formazione degli Imperi coloniali, davano alle teorie geo­ politiche una globalità tutto sommato antieuropea che, nella sostanza, tendeva a esemplificare il mondo aggregandolo nelle due grandi catego­ rie di Eurasia e Oceania45. Questa ipersemplificazione del dilemma «terra-mare» 46 nei fatti sti­ molava l’esigenza delle Grandi Potenze, europee in primo luogo, ad al­ lontanarsi daH’Equilibrio del Sistema, fatto di pesi e contrappesi, per aspi­ rare, in quell’ottica geopolitica alla «Weltmacht oder Niedergang». Le due ipotesi contrapposte, di cui Mahan e Mackinder sono stati gli an­ tesignani, di Eurasia contro Oceania, in realtà contribuirono alla dissolu­ zione dell’Europa contemporanea e, al tempo stesso, alla diluizione fino al­ la perdita di coscienza dell’Europa come cuore dell’occidente. In questa chiave mondialista di «ordine anarchico» geopolitico, all'Europa non resta­ va che tornare ad essere quello che aveva sempre cercato di non essere, va­ le a dire un’appendice dell’Asia. In questa chiave il gen. Karl Haushofer può essere considerato come il precursore moderno delle teorie dell’Eurasia ter­ restre contro l’Oceania marittima. C’era però, nelle teorie della scuola tede­ sca fra le due guerre, una implicita accettazione dell’Alleanza russo-tedesca e giapponese, e quindi la constatazione della ineluttabilità della inimicizia permanente con le potenze anglosassoni47. Per certi aspetti Haushofer aveva tentato, muovendo dalla teoria gene­ rale elaborata da Mackinder fin dal 1904, di costruire un modello di fun­ zionamento globale del mondo di tipo continentalista, egemonizzato, se pos­ sibile, dalla Germania in alleanza con la Russia, prolungabile fino al Paci­ fico con l’inclusione del Giappone48. 45 Mahan, op. cit.; Mackinder, op. cit.; Spykman, op. cit.

46 C. Schmitt (1942), Terra e mare, Giuffrè, Milano, 1986. 47 K. Haushofer (1924), Geopolitik des Pazifischen Ozeans. Studie uber die Wechselbezieungen, Berlin (3a ed. 1938), Vorwinckel; K. Haushofer, Der ost-eurasiatische Zukunftsblock, in Zeitschrift fur Geopolitik, 1925, pp. 81-87; K. Haushofer, Weltpolitik von Heute, Zeitgeschichte Verlag, Berlin, 1934; K. Haushofer, Il Giappone costruisce il suo impero, Sansoni, Firenze, 1942; K. Haushofer-E. Obst-H. Lautensach-O. Maull, Bausteine zur Geopolitik, Vowinckel, Berlin, 1928.

48 K. Haushofer, Geopolitik der Panideen, Zentral-Verlag, Berlin, 1931; K. Hausho­ Welt-Geopolitik, Berlin, Juencker und Duempschaupt; K. Haushofer-Maull O. Hassinger-E. Obst, Die Grossmachte vor und nach dem Weltkriege, Teubner, Berlin, 1930; K. Haushofer, Deutsche kulturpolitik im indopazifischen Raum. Mit einem biographischen Anhang von Dr. Hans Roemer M.A., Hoffmann und Campe Verlag, Ham­ burg, 1939. fer (1932),

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Una Eurasia dunque che avrebbe risolto l’eterno confronto fra Occi­ dente e Oriente in una sintesi superiore, paragonabile per certi versi al fallito tentativo di Alessandro il Macedone prima e degli imperatori ro­ mani del secondo e terzo secolo poi. Ma anche il progetto «eurasista» di Haushofer aveva il limite di ne­ gare la tradizione occidentale europea che, proprio nella fissazione di un confine a Est e a Sud, aveva trovato la propria identità originaria. In altri termini Haushofer è certamente stato l’anti-Tirpitz, così come og­ gi sarebbe stato l’anti-Gorshkov. I due padri del navalismo, tedesco e sovie­ tico, cercarono infatti di trasformare il lupo germanico prima e l’orso rus­ so poi, in animali anfibi, distogliendoli, senza successo, dal loro destino dra­ sticamente continentalista. Il risultato è stato - come noto - fallimentare in entrambi i casi, come spesso accade quando si vuol cambiare natura senza rinunziare all’egemonia.

17. La versione opposta ad Eurasia nel Novecento, quindi, fu quella marittima di Oceania, di cui Mahan (1994) (più che Corbett), e in parte Spykman (1942) - due americani quindi - sono stati gli esponenti più si­ gnificativi49. Ma così come le teorie eurasiatiche (anche quelle ad ege­ monia tedesca) minacciavano l'identità occidentale dell’Europa, anche la versione marittima di Oceania, in questo contesto culturale e geopoliti­ co, lasciava ben poco spazio all’Europa. Troppo poco insulare per essere sicura (come il Western Hemisphere, ba­ stione di invulnerabilità), troppo piccola e periferica per essere egemone sul continente eurasiatico, l’Europa è stata rappresentata geopoliticamente, tan­ to nella teoria di Mackinder (1919) come in quella di Mahan e Spykman, solo come una Rimland, ovvero come una combinazione di Inner e/o Outer Crescent della Landmass eurasiatica, senza prospettiva alcuna se non quel­ la di essere spartita, oppure inglobata, fra i due maggiori contendenti, pa­ droni della terra e del mare. Non le restava che giocare il ruolo di «testa di ponte» del Far West americano sulla massa terrestre eurasiatica, troppo poco per essere cen­ trale e troppo per essere al sicuro dalle pressioni provenienti da Est. Se si aggiunge che la gara per l’acquisizione della Weltmacht euro­ centrica delle potenze, iniziata alla fine del secolo XIX, si risolse con la tragedia della Seconda Guerra mondiale, e che con questa operazione suicida l'Europa pose fine al suo predominio mondiale, il progetto di «ri­ 49 J.S. Corbett (1911), Some Principles of Maritime Strategy, Naval Institute Press, Annapolis, 1988.

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costruzione» dell’Europa, oggi embrionalmente in corso, per avere un motore forte e convincente non potrà non passare attraverso la ricon­ quista dì un’idea centrale intorno alla quale far gravitare non solo l’area geopolitica tradizionale, mediante l’unificazione commerciale, economi­ ca e istituzionale, ma anche l’immaginazione collettiva dei suoi popoli. La simbolicità dell'Europa, intesa come cuore storico e culturale dell'Occidente, potrebbe restituire a quell’area sia l’identità perduta, sia i suoi contorni-confini, sia la consapevolezza collettiva dell’idea-forza che la anima da sempre: la distinzione e la lotta contro l’Oriente, misteriosa entità geopolitica, minacciosa e seducente al tempo stesso in tutte le sue forme e rappresentazioni. Per questa via si restituirebbe all’Europa il patrimonio di energia vi­ tale perduto con le tre guerre mondiali del Novecento, in un momento in cui la minaccia eurasiatica è debole e l’influenza oceanica è minore che nel passato. E al tempo stesso si potrebbe ricostruire su nuove basi più consone alle necessità di entrambe le sponde dell’Atlantico, nella diver­ sità delle posizioni, la relazione istituzionale della sicurezza collettiva che nell'alleanza euroatlantica aveva trovato il suo fondamento.

18. Certo, il progetto di «ricostruzione» non passerà per i solchi trac­ ciati dall’«Europeismo» della Guerra Fredda, né per il sentiero dello ZolIverein tecnomercantile. Senza un'idea-forza è molto improbabile trova­ re infatti la capacità di ricostruire un continente che proprio nel clash di idee-forza contrapposte, dal bolscevismo al fascismo, al nazismo, al de­ mocraticismo, si è disgregato, pagando lo scotto di tre guerre mondiali. La Terza Guerra mondiale, quella Fredda, è stata però vinta, dopo due guerre mondiali perdute, proprio dall’Europa, insieme agli Stati Uniti, per­ ché sono stati questi due fulcri di potenza quelli che hanno impostato una strategia basata sui due principi essenziali della vicenda storica del conti­ nente: a) la difensività e b) la occidentalità. La «difensività» è una delle due facce compresenti nella grande tradi­ zione europea che si può far risalire alla concezione imperiale romana in cui la guerra, strumento principe di gestione dei rapporti politici ex­ trasistemici, è sempre guerra difensiva50, e la concezione spaziale del­ l’impero è sempre basata sulla separazione territoriale attraverso la co­ struzione del limes terrestre, fortificato o murato, ovvero fluviale e ma­ rittimo, pattugliato dalla flotta. 50 Le Goff, op. cit., p. 16; E.N. Luttwak (1976), La grande strategia dell’impero Ro­ mano, 1981.

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La seconda faccia della tradizione europea è quella dell’«occidentalità» che consiste nella teoria strategica della «controffensiva» che si ac­ coppia a quella della «difensiva»51. Questi due bastioni concettuali sono stati, da sempre, la struttura por­ tante della «Fortezza Europa». Su questi due pilastri si è formata l'idea stessa di Europa. Difendendosi contro I’Oriente, e identificandosi in un corpo di valori strettamente occidentali, il continente si è gradualmente definito, sia culturalmente che politicamente, proprio attraverso la di­ stinzione e la differenza rispetto all’Est e al Sud. Si è organizzato con le spalle al mare. Ha stabilito frontiere verso l’Oriente, che sono confini in­ visibili ma tenaci, molto radicate neH'immaginario collettivo degli Euro­ pei. Le loro dimensioni sono elastiche, ma non senza limiti individuati. L'Europa e l’Occidente terminano infatti ad Est là dove i Tedeschi abita­ no 52, oppure dove hanno imposto o influenzato la civiltà, mentre a Sud l’Europa e l’Occidente si arrestano sulla latitudine dell’incontro-scontro con il mondo arabo-musulmano, cioè sulla linea immaginaria che va da Gibilterra a Cipro, passando per Malta e Creta53. È stata quindi questa coscienza dell'occidente, costruita attraverso la sto­ ria e la lotta contro l’altro, l’Oriente in tutte le sue forme, quella che ha se­ gnato anche i confini dell’espansione terrestre europea verso l’Est, nonché il limes marittimo medi terraneo verso Sud.

51 Sui concetti di «guerra difensiva» e di «controffensiva» si rinvia anzitutto a C. Clausewitz (1832), Vom Kriege (On War), Princeton UP, Princeton, 1976, pp. 357-577. 52 C.M. Santoro, La ricostruzione dell’Europa, manoscritto, 1995.

53 C.M. Santoro, Geopolitica e sicurezza del Mediterraneo, in Rivista Marittima, a. 127, n. 10, 1994b, pp. 6-15.

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Parte Seconda I Sottosistemi

Geopolitica e strategia del «Sistema Sud»

1. Il tema La presa di coscienza da parte italiana dell’esistenza di un fattore di rischio da Sud per la sicurezza nazionale è recente, e ancora relativa­ mente limitata, anche se, nell'ultimo decennio, una serie ininterrotta di eventi, ai quali hanno fatto seguito spesso delle missioni e spedizioni mili­ tari, dal Libano a Lampedusa, al Golfo, alla Somalia, hanno messo in rilievo la frequenza, l’ampiezza e la profondità dei pericoli potenziali. Tale graduale consapevolezza si è tradotta, tardivamente e solo par­ zialmente, nella crescente attenzione al teatro Sud-Mediterraneo (ma non al Golfo e al Corno), fin dalla pubblicazione del Libro Bianco delle Difesa 1985, che diede luogo, in quegli anni, ad un limitato rischieramento del dispositivo militare da Nord-Est verso Sud. Tuttavia finora la risposta a questa classe di rischi, non è stata né tempestiva né commisurata all’en­ tità del pericolo. Inoltre, nelle più recenti versioni del Modello di difesa nazionale (Rognoni, 1991; Andò, 1992; Fabbri, 1993; Previti, 1994; Corcione, 1995; Andreatta, 1996), la drastica riduzione del bilancio e correlatamente la trasformazione in corso del dispositivo militare, nonché la radicale ristrut­ turazione, nel sistema di reclutamento, della proporzione fra personale di leva e professionisti, hanno ulteriormente ridotto, almeno in questa prima fase, sia le disponibilità di personale che i meccanismi di reazione e di intervento, nonostante che l’impiego all’estero delle forze sia, per forza di cose, costantemente crescente. In realtà, dietro questa disattenzione politica, e quindi insufficienza ope­ rativa, si cela una filosofia della sicurezza molto incerta, anche sulla que­ stione dottrinale, e in particolare sulle premesse concettuali del nuovo Modello di difesa, che sono notevolmente imprecise e sovente contraddittorie. È stata fra l’altro del tutto trascurata l’analisi dei concetti strategici, e molto poco è stato chiarito dei possibili significati e dei contenuti di for­ mule quali «interesse nazionale», «sufficienza strategica», «sicurezza» o

7. C.M. Santoro: Studi di geopolitica

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«intervento» nelle loro diverse accezioni. In particolare non sono state mai analizzate in modo convincente le considerevoli differenze esistenti fra i due concetti di «minaccia» e di «rischio».

2. La minaccia Con il termine «minaccia» nell’ambito della filosofia politica bipolare, soprattutto nell’accezione di scuola occidentale, s’intendeva la concreta presenza di una realtà geopolitica e geostrategica organizzata in modo antagonistico, inconciliabile, diretta a rappresentare l’ipotesi possibile e probabile di conflitto o di attacco, generalizzato o parziale, da parte di una coalizione (o alleanza) di attori nazionali raggruppati gerarchica­ mente attorno a un leader di blocco contro una corrispondente alleanza di blocco definita come potenzialmente avversaria (l’Urss, il Patto, il ComuniSmo, contro gli Usa, la Nato, l’imperialismo). In questa chiave l’elaborazione del concetto di minaccia, era stata una conseguenza diretta del lessico di scuola idealista e istituzionalista la cui traduzione normativa è distintamente riconoscibile nella lezione del Covenant della Società delle Nazioni, e successivamente nello Statuto delle Nazioni Unite che parlano espressamente di «minacce alla pace» (v. Capitoli VI e VII dello Statuto). Alcune definizioni elementari di «minaccia» possono ulteriormente contribuire a chiarire questo concetto: «tentativo d’imporre la propria volontà incutendo il timore di un imminente danno o pericolo» (DevotoOli, 1971, p. 1419); «atto compiuto per incutere timore o discorso fatto per spaventare» (Zingarelli, 1983, p. 1161); «indication of something impending; an expression of intention to inflict evil, injury or damage» (Webster, 1978, p. 1215). Il lemma «minaccia», dunque, indicava, nella sua versione postbellica l’intenzione o l’atto di incutere timore e quindi di mettere a repentaglio la stabilità del Sistema Politico Intemazionale (SPI) nel suo complesso, e perfino la sua stessa sopravvivenza, al fine di imporre la propria volontà. Il discorso o l’atto minaccioso doveva essere esplicito e grave, e l’immi­ nenza, o meglio ^impending, del pericolo globale doveva essere evidente. La minaccia, inoltre, doveva essere chiaramente indirizzata da A verso B (ed eventualmente viceversa), attraverso la costituzione stabile di parole, atti o - nel caso geostrategico - dispositivi e/o schieramenti ad hoc la cui manifesta presenza aveva il preciso scopo politico di disarticolare il SPI - se attuata - o almeno di condizionarlo politicamente, se utilizzata come strumento di pressione politica e/o militare.

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La minaccia quindi poteva essere intesa come la ragione causante e nota di una guerra generale possibile (Levy, 1985; Santoro, 1988). Occor­ reva, quindi, che fosse unica nella sua ideazione, anche se poteva mani­ festarsi concretamente sotto le forme di guerra limitata (convenzionale o nucleare) o di teatro (es.: Corea, Vietnam, Afganistan, ecc.). Andava quindi identificata e valutata per quello che intendeva essere, vale a dire come un attentato potenziale alla stabilità dello SPI, anche se poteva essere delimitata temporalmente e spazialmente, sia negli obiettivi che negli strumenti (Hermann, 1977;Brecher, 1979,1986; Lebow, 1981; Jervis, 1976; Snyder-Diesing, 1977).

3. Il rischio La definizione di «rischio», invece, non ha questa valenza ideologica e onnicomprensiva, riconducibile sempre al «motore primo» dello scontro bipo­ lare o comunque della stabilità del SPI nel suo insieme. Ne deriva che lo stu­ dio del concetto di «rischio» non può essere altro che di natura comparativa; in particolare, rispetto alla definizione di «minaccia» così come è stata posta al centro del dibattito strategico nell’età bipolare, e in particolare dalla dot­ trina atlantica (Freedman, 1981). La identificazione del rischio comporta invece una flessibilità interpretativa che è connaturata all’attuale fluidità del Sistema Intemazionale, quello post-bipolare oggi in via di strutturazione. Il rischio nelle attuali condizioni di transizione da uno SPI ad un altro ancora magmatico e indefinito, è infatti il prodotto, non solo della fine del ciclo bipolare globale, ma anche della disgregazione dell’intera gerarchia dei sistemi regionali complessi di cui il Sistema Bipolare era cornice. È il risultato, cioè, della fine della Guerra Fredda e della dissoluzione delll’URSS ma anche della riunificazione tedesca. In altri termini è la fase terminale di quel processo di «diffusione di potenza» iniziato fin dagli anni sessanta, ma esploso nel 1989, che ha frammentato sia il quadro sistemico delle grandi alleanze di blocco, sia i complessi multinazionali di tipo imperiale e perfino le federazioni, dele­ gittimando non solo le egemonie e le influenze ma in molti casi anche gli Stati-nazione. Il «rischio» è, quindi, un’insidia di carattere polivalente ai meccani­ smi di sicurezza tipici di un sistema complesso ma non organizzato di tipo frammentato, mentre la «minaccia» è la forma che assume l’insidia alla sicurezza nei sistemi più organizzati ma semplici nella loro struttura rigida e centralizzata.

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Per «rischio» comunque si può intendere, in modo meno vincolante, una minaccia generica, cioè indefinita e allo stato latente, non esplicitata ma potenziale, spesso già nota e comunque prevedibile. Il «rischio», peral­ tro, in molti casi può riguardare anche una potenziale minaccia a sor­ presa e quindi ignota, proveniente da direzioni imprevedibili per la quale non esistano misure specifiche di prevenzione o repressione. Il «rischio» può essere altresì definito come una sorta di precondi­ zione, ovvero come il contesto critico di una «crisi internazionale» (Brecher et al., 1988), ovvero come la «percezione/mispercezione» (Jervis, 1976) di una minaccia astratta, la cui effettività è incerta sia nell’esecu­ zione, sia nei modi che nei tempi. Il «rischio» così rappresentato, oltre ad essere ipotetico, è teoricamente indecifrabile a priori. Può tuttavia essere, sia pure parzialmente, valutato e quantificato qualora lo si metta in relazione con una triade concettuale di indicatori che potrebbero fornire un ancoraggio teorico ed empirico relativamente forte e che possiamo definire come il sistema interattivo «politica/sicurezza/forza». Sotto questo profilo il «rischio» diventerebbe la risultante, perennemente instabile e mutevole, ovvero la sommatoria dell’interazione (posi­ tiva e/o negativa) fra i tre concetti sopra enunciati, la cui sinergia, in alcuni casi, può costituire la massa critica perché si verifichi l’emersione allo sco­ perto di una «crisi» internazionale ovvero l’esplosione di un «conflitto» vero e proprio (Haas, 1974; Waltz, 1979-1987, Luard, 1986). A differenza della «minaccia», però, il «rischio» non presuppone sem­ pre la costante presenza di un atteggiamento ostile fino all’aggressività, organizzato, permanente e di vaste proporzioni, strutturato secondo para­ metri politici e di forza ad hoc, diretto cioè a preparare (o a prevenire con la deterrenza) un conflitto di cui si conoscono già gli alleati e gli avversari, le modalità strategiche se non le linee tattiche, come, grosso modo, è accaduto sia nel 1914 che nel 1939, e più ancora nel periodo classico del sistema bipolare Est-Ovest, fra il 1945 e il 1990. Il «rischio», in altre parole è un fenomeno conflittuale potenziale e latente, allo stato di semplice tensione che non ha ancora raggiunto nep­ pure la soglia della crisi intemazionale, ma che, in potenza, potrebbe tra­ sformarsi in conflitto aperto, limitato o generale, sovente catalitico o acci­ dentale, ma essenzialmente finalizzato a scopi politici reali o presunti, misurabili secondo le linee della expected utility function. (OrganskyKugler, 1980; Bueno de Mesquita, 1985; Ward, 1985; Haas, 1974). Tale condizione è tipica di un mondo caratterizzato da un sistema poli­ tico intemazionale, o da sistemi regionali, di tipo semi-anarchico o «acentrato». In questi sistemi non esistono delle regole di gioco comuni e

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riconosciute da tutti, oppure si tratta solo di regole di gioco a somma zero, e nel caso di giochi di coordinazione, cioè a somma variabile o diversa da zero, si è in presenza di episodi provvisori e di situazioni insta­ bili. (Schelling, 1960, 1966; Brams, 1985) In sostanza i Modelli «a-centrati» che producono rischi sono relativa­ mente simmetrici: l’esatto contrario dei Modelli di tipo egemonico o gerar­ chico (Stabilità egemonica: Keohane, 1984) ovvero dei Sistemi «stellari», come sono quelli delle coalizioni o alleanze contrapposte di tipo asim­ metrico o satellitare, ovvero dei poli di potenza, bipolare o multipolare (Liska, 1962; Walt, 1985; Triska, 1986) Il «rischio» tipico, o ideal-tipico, in questa definizione è spesso il by­ product dello «stato di natura» hobbesiano delle relazioni internazionali con caratteri di endemicità, e cioè di una situazione di potenziale con­ flittualità di tutti (o quasi tutti) contro tutti, caratteristico dei Sistemi o sottosistemi internazionali di tipo semi-anarchico o disordinato perché in fase di transizione da una forma di sistema ad altra. In altre parole il «rischio» nasce piuttosto dalla mancanza di regole vincolanti, che non dalla violazione di regole comuni, tacite o esplicite. Nel senso che scaturisce da un contesto internazionale «irregolare», carat­ teristico delle fasi di transizione da un modello di ordine sistemico ad un altro, ovvero nella fase di disgregazione e/o frammentazione di quello nei diversi ambiti regionali. Si sviluppa, però, in quanto tale, (cioè come rischio percepibile o pre­ sunto) solo quando l’interazione fra i tre concetti (politica/sicurezza/forza) raggiunga un certo livello di tensione critica e la sommatoria dell’intera­ zione e dei flussi di comunicazione fra di loro sia fortemente positiva (dati PIL, Military Balance, ecc.).

4. Confronti La «minaccia» è per definizione sempre relativamente sopravvalutata per­ ché essendo unica e globale diventa più facilmente individuabile. Ne deriva che, secondo i meccanismi del cosidetto «dilemma della sicurezza» (Snyder, 1984-1986), essa può essere generalmente percepita come più immediata nel tempo e più pericolosa nello spazio di quanto non lo sia nella realtà: in par­ ticolare nel caso in cui ci si trovi (come nel secondo dopoguerra) all’interno di una struttura sistemica bipolare (worst-case analysis) che, per definizione, restringe il campo delle opzioni ad una matrice 2x2, ovvero ai termini sem­ plificati di un gioco a somma zero a due giocatori (Brams, 1985 p. 13).

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Nel bipolarismo, infatti, la «minaccia» era unidirezionale, anche se poteva avere delle manifestazioni diverse, era diretta cioè esclusivamente, e specularmente, solo verso l’altro polo. Di qui l’attenzione esasperata alla dinamica degli armamenti da cui conseguiva sempre la spirale inelutta­ bile della corsa agli armamenti, (v. anche la matrice del riarmo navale anglo-tedesco fra il 1898 e il 1914). Nel caso del «rischio», invece, accade esattamente il contrario. È molto più frequente, infatti, la situazione in cui il pericolo potenziale viene tra­ scurato o sottovalutato in quanto si tratta di ipotesi dimostrabili né testate prima che l'evento aggressivo si manifesti, e inoltre perché può assumere una indefinita molteplicità di forme e opzioni, può dar luogo a combi­ nazioni di attori non previsto, presuppone infine un numero di attori a rischio molto elevato, o comunque superiore rispetto alla minaccia con­ centrata su due coalizioni stellari contrapposte. Ne deriva che, in presenza di situazioni a rischio, indefinito nei modi e nei tempi, l’approntamento dei dispositivi di sicurezza sia politica, che diplomatica, sia economica, che militare da parte dei singoli attori inte­ ressati, è molto meno efficace che non nel caso di una minaccia chiara­ mente identificata, anche quando la probabilità del rischio sia potenzial­ mente superiore a quella della minaccia. Questa apparente contraddizione fra l’entità della «minaccia» (maggiore) e quella del «rischio» (minore), e invece la più alta capacità di prevenire o deterrere la minaccia che non il rischio, è spiegabile in diversi modi. Oltre che attraverso la differenza strutturale (quanto-qualitativa) fra le due categorie di pericolo (la «minaccia» è nota e delimitabile, mentre il «rischio» è ignoto o incerto) tale contraddizione è riscontrabile anche in forza del fatto che la visibilità accertata della minaccia consente la messa in opera di strumenti e procedure di prevenzione a priori (deter­ renza), mentre l'incertezza e l’imprevedibilità della dimensione del rischio consentono solo l’azione a posteriori, cioè la repressione (compellenza). La differenza fra le due modalità di risposta alla minaccia o al rischio è essenziale. La «deterrenza», infatti, nelle due forme di deterrenza «by denial» e «by punishment», consente la predisposizione (sia pure sopravvalutata, per quanto si è detto) delle contromisure di difesa e di contrattacco. Classico, in questo senso, è stato il meccanismo logico della dottrina strategica sta­ tunitense nei confronti dell’Unione Sovietica durante l'età bipolare, sia quella, più primitiva (e quindi, cessate alcune condizioni di base come la sicurezza assoluta del territorio continentale americano, meno efficace) della Massive Retaliation che quella, più sofisticata, della Mutual Assured Destruction, integrata (e parzialmente contraddetta) dalle teorie sulla Guerra Limitata Nucleare (Osgood, 1957-1979; Clark, 1982; Freedmann, 1981).

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Gli scenari della terza guerra mondiale (Kahn, 1965), infatti, erano perfettamente prevedibili nel dettaglio del loro possibile svolgimento dato il numero limitato delle variabili indipendenti, fino al punto da poter essere determinati in anticipo, al 90-95%, sia nelle dottrine che nelle forme assunte dalle teorie strategiche che nel dispositivo, nelle tecnologie e nella lista dei targets (vedi la Presidential Directive-59, o PD-59). Ben diversa invece è la condizione di Compellenza tipica delle situa­ zioni a rischio. In questo caso infatti si ha uno scenario in cui la deter­ renza fallisce (Mearsheimer, 1983; Lebow-Stein, 1994; Miller, 1978) e la risposta deve essere decisa dopo la violazione delle regole, ovvero dopo che l’aggressione alla sicurezza si è consumata, come nel caso della Polonia nel 1939, della Grecia nel 1940, dell’URSS nel 1941, e finalmente della Corea del Sud nel 1950, del Kuwait nel 1990 e della Croazia nel 1991. Nel caso della «Compellenza» infatti la predeterminazione delle rispo­ sta è, in genere, impossibile. Solo nel caso in cui si sia decisa la preven­ tiva organizzazione di una risposta possibile, di tipo generico e poliva­ lente (o multiruolo), rispetto a rischi incerti e imprevisti, sarà possibile utilizzare strumenti parzialmente adeguati. Un esempio importante di questa condizione particolare è dato dall’isti­ tuzione del Centcom USA nel 1978-1980 contro la minaccia sovietica nell’Area del Golfo e dell'«arco di instabilità», e quindi contro il rischio Iran. La pianificazione strategica e operativa del Centcom, elaborata per fron­ teggiare anzitutto la minaccia URSS e, in seconda battuta, il rischio Iran è stata utilizzata, con qualche modifica, nella guerra contro l’Iraq del 1991. La comparazione fra le due forme di risposta alla minaccia (deter­ renza) e al rischio (compellenza) dimostra dunque che, in linea di mas­ sima, la deterrenza contro la minaccia esige un impegno quantificabile e pianificabile generalmente inferiore anche se la posta in gioco è molto più alta, mentre la compellenza contro il rischio comporta un onere incerto, spesso superiore al primo, anche se la posta in gioco è più bassa. Di qui il ribaltamento concettuale nella valutazione delle misure di risposta dove a rischi minori debbono tuttavia corrispondere esigenze e «capabilities» maggiori (défense tout azimouth), mentre a minacce mag­ giori corrispondono risposte preventive meno onerose e più facilmente pianificabili (dispositivo orientato e commisurato). Infatti il dispositivo di sicurezza che una situazione di rischio tende a mettere in opera non può essere altro che essenzialmente difensivo e inde­ terminato (non specializzato), con la conseguenza che i meccanismi di prevenzione, cioè quelli di deterrenza, non possono non essere insuffi­ cienti a coprire tutte le ipotesi di rischio, mentre la risposta effettiva alla trasformazione del rischio in minaccia vera e propria, e perfino in crisi

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aperta e/o conflitto, sopravviene sempre in ritardo, e spesso è solo di tipo reattivo. Col risultato di costringere l’attore a rischio a compiere obbligatoria­ mente una scelta alternativa fra la passività diplomatica ed eventuali inter­ venti di compellenza, anche militare, che sono sempre politicamente dif­ ficili e in genere molto onerosi (vedi: guerre britanniche vittoriane). Ciò comporta la necessità di affrontare situazioni di crisi/conflitto con un dispositivo politico-militare molto meno attrezzato, perché troppo costoso politicamente e finanziariamente rispetto alla probabilità e all’en­ tità potenziale del rischio, qualora il pericolo sia quello di essere coin­ volti, come nel caso delle Guerre coloniali in conflitti a bassa o media intensità. Ancora più pericolosa e lacunosa risulta poi essere la risposta qualora la situazione si trovi difronte a scale di rischio a medio-alta e alta intensità, che prevedano cioè anche il possibile impiego di armi di distru­ zione di massa (chimiche, biologiche, nucleari). In questo caso la spro­ porzione fra entità del pericolo e preparazione ad affrontarlo è evidente­ mente molto più macroscopica. Nella pianificazione della sicurezza futura va quindi tenuto ben presente che la classe di rischi ad alta intensità, e quindi la probabilità di escalation qualitativa dei conflitti possibili, anche di quelli locali, si moltiplicheranno proprio per la rapida diffusione di sistemi d’arma di distruzione di massa, missilistica balistica, armi chimiche e nucleari, sia nei paesi dell’Europa che nei paesi del Terzo Mondo. In questo caso, l’impiego di forze coalizzate (sotto le insegne dell’Onu, o altro) in funzione preventiva,preemptiva o repressiva, e quindi l'orga­ nizzazione effettiva di strutture difensive e offensive efficienti in tempo di pace, diventerà un’esigenza politica e di sicurezza preventiva irrinuncia­ bile, anche se di difficile e complessa attuazione, sia a livello dei singoli attori di media potenza come l’Italia, sia nelle istanze istituzionali come la Nato, l'Ueo, la Csce. L'esperienza della crisi/guerra del Golfo (1990-91), così come anche quelle nell’ex-Jugoslavia e in Somalia, sono in questo senso, particolar­ mente significative. Tipici conflitti a rischio alto, medio e basso, appa­ rentemente di peace-keeping, ma in realtà di peace-making e peace-enfor­ cing quindi di «compellenza» e non solo di «deterrenza», esse hanno reso necessaria, nel caso del Golfo, la presenza di oltre un milione di uomini e l’impegno pieno delle tecnologie più avanzate, nonché la diretta parte­ cipazione di oltre la metà delle forze impiegabili contemporaneamente dagli Stati Uniti in qualsiasi altro teatro di guerra potenziale, con il rischio permanente di un attacco chimico da parte dell’Iraq contro Israele e le basi alleate in Arabia Saudita (Blackwell, 1990; Haffa Jr., 1984).

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Lo stesso dicasi, in termini rovesciati, per il conflitto nell’ex-Jugoslavia dove né l’Europa, né gli Stati Uniti, per non parlare delle Nazioni Unite, hanno finora avuto la possibilità né dimostrato la volontà poli­ tica di intervenire in modo compulsivo dopo aver trascurato di preve­ nire il conflitto con una politica di deterrenza esplicita. Questa considerazione sottintende quindi che il concetto di «rischio», nei prossimi anni, non contemplerà solo situazioni conflittuali possibili a bassa o media intensità, ma invece si dovrà misurare sempre più con conflitti probabili a medio-alta e alta intensità, inclusivi di pericoli di coinvolgimento in guerre nucleari limitate e guerre ad alta tecnologia (missilistica) con l'uso di altri mezzi di distruzione di massa (armi chi­ miche, batteriologiche, ecc.). Ciò elimina una volta per sempre l’illusione che la fine della minaccia abbia ridotto l’incidenza del pericolo e che i rischi siano da considerare, tutto sommato, come delle minacce di livello inferiore, quindi meno pericolose. Tale perniciosa illusione è alla base di quella diffusissima «dissonanza cognitiva» secondo la quale l’Italia, che per quasi mezzo secolo durante l’età della deterrenza bipolare, aveva delegato sovranità e indipendenza in cambio di sicurezza e protezione, potrà anche nel futuro continuare ad affidarsi agli Stati Uniti, o ai maggiori paesi europei, per evitare le proprie crescenti responsabilità di intervento armato, con funzioni di peace-keeping, nei casi più semplici, ma soprattutto di peace-enforcing, nelle innumerevoli aree a rischio, sia ad Est che a Sud. In questa prospettiva preoccupante l’analisi dei «rischi da Sud» e quindi l’analisi del «Sistema Sud» diventa una precondizione indispensabile per l’articolazione del futuro Modello di difesa italiano e la predisposizione degli opportuni meccanismi di sicurezza e d'intervento, sia in ambito nazionale che alleato.

5. Il Sistema Sud L'analisi del Sistema Sud comporta anzitutto una premessa di ordine definitorio e concettuale diretta ad inquadrare geopoliticamente l’area in questione. In termini generali possiamo considerare come «Sistema Sud» quella fascia territoriale che si estende dalle coste africane dell’Oceano Atlantico, alle coste africane dell’Oceano Indiano e a quelle asiatiche del Mare Arabico. Questa vasta area non ha di per sé quella che potrebbe chiamarsi una

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vera e propria «autonomia spaziale» o geografica. Al contrario la sua com­ posizione, sia geografica che strutturale, è molto differenziata. Ciò che rende ammissibile la sua aggregazione in quello che abbiamo definito come «Sistema Sud» è però solo il suo ruolo funzionale rispetto al quesito che la ricerca si propone, cioè l’analisi dei rischi per la sicurezza dell’Italia e dell'Europa provenienti dalla sponda meridionale e orientale del Mediterraneo e delle sue aree di rispetto. All'intemo di questo framework concettuale il «Sistema Sud» può essere considerato come l’appendice meridionale del «Sistema Eurasia» (Duby, 1992 Atlante storico), ovvero come una Rimland (Mackinder1904; Kjellen, 1917; Spengler, 1918-22, 1957; Spykman, 1942; Haushofer, 1934), meridio­ nale del sistema eurasiatico (Sloan S.R., 1988). In altri termini, se geograficamente l'Europa è un'appendice dell'Asia, e quindi fa parte del macrosistema Eurasia, allora il «Sistema Sud» costitui­ sce il naturale completamento meridionale del «Sistema Eurasia», attra­ verso il Mediterraneo, il Mar Rosso e il Golfo. Nella sua ossatura portante il macrosistema Eurasia, con la sua appen­ dice occidentale (Europa) e quella meridionale (Sistema Sud), comprende la gran parte del Vecchio Tricontinente, quindi la landmass terrestre della World Island (Asia, Europa, Africa). Si tratta cioè della più ampia contiguità territoriale ininterrotta esi­ stente sul pianeta, la cui unità simbolica ha rappresentato sempre l'obbiettivo irraggiungibile di tutte le principali ambizioni e utopie, religiose, ideologiche o politiche della storia. Volta a volta, la potenziale unità della landmass ha dato luogo alle maggiori civiltà e civilizzazioni, nomadi e/o stanziali, dall'antichità ad oggi, alla costruzione dei massimi imperi territoriali, da quello cinese a quello persiano, fino a quello macedone e poi romano, alla creazione rapida e fragile degli imperi continentali senza occupazione permanente, come quelli mongoli o turcheschi, alla permanenza storica, al di là delle partizioni nazionali, di linee di comunicazione terrestri come la Via della Seta che per millenni hanno integrato e/o sostituito egregiamente le rotte marittime fra Ovest ed Est. In una più limitata e contemporanea accezione, tuttavia, il «Sistema Sud» può essere enucleato dal macrosistema eurasiatico (al quale è però collegato da una serie di istmi) e definito nella sua composizione dalla fascia di paesi che, muovendo da Ovest verso Est, includono via via il Maghreb, il Sahel, il Mashrek, il Corno d’Africa, il Golfo. L’approccio analitico allo studio politico-militare di questa area può essere di tre tipi:

a) geografico;

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b) etnico-politico; c) geostrategico.

Con questa tripartizione s’intende sottolineare il fatto che, a seconda del «punto di vista» (Max Weber, 1922, 1974) l'area in questione e le sue diverse compartimentazioni possono essere studiate utilizzando dei criteri stabiliti dalle caratteristiche strettamente geografiche, ovvero etnopolitici (Rothschild, 1981), o finalmente secondo parametri di analisi storico-spa­ ziale (Sloan, 1988), cioè di marca geopolitica o meglio geostrategica. a) Geografico

Lo «spazio Sud», così come l’abbiamo geograficamente delimitato, è costituito da trenta paesi raggruppabili in sei sub-aree o sottosistemi, la cui differenziazione politica e culturale, la cui precarietà sociale dovuta anche ai dislivelli delle rispettive economie, le crisi potenziali o in atto, interne o esterne, i conflitti politico-militari latenti e aperti e le contro­ versie religiose, hanno ormai varcato le frontiere nazionali dei singoli attori e anche i confini dei raggruppamenti regionali dell’area, trasfor­ mandosi gradualmente in «rischi da Sud» verso l’esterno sia per il nostro Paese che per alcuni dei suoi principali alleati. In termini strettamente geografici, quindi, l’area in questione può essere analizzata suddividendo il «Sistema Sud» in sezioni o gruppi di attori che, per certi aspetti potrebbero definirsi anche come dei veri e propri sottosistemi: 1. Maghreb (Mauritania,Marocco, Algeria, Tunisia, Libia); 2. Sahel (Senegai, Mali, Burkina Faso, Niger, Ciad, Centroafrica); 3. Mashrek (Egitto, Sudan, Giordania, Libano, Siria, Iraq); 4. Corno d’Africa (Etiopia, Somalia, Gibuti); 5. Golfo Persico (Arabia Saudita, Yemen, Oman, Kuwait, Bahrein, EAU, Qatar); 6. Altri (Turchia, Israele, Iran).

I primi cinque sottosistemi corrispondono, grosso modo, ad aree geo­ grafiche ben definite, mentre il sesto si presenta come una sorta di gruppo residuale, vale a dire senza caratteristiche sistemiche evidenti, che, per ragioni storiche, culturali, religiose od altro, rappresenta potenzialmente un elemento di raccordo del «Sistema Sud» con l’esterno. Si pensi, per fare solo qualche esempio dell’essenzialità funzionale di questo gruppo non omogeneo dal punto di vista geografico o etnico, all’am­ bivalente relazione della Turchia con l'Europa CEE e al tempo stesso con l’Asia Centrale e il Caucaso ex-sovietici; ovvero all'Iran e alla sua influenza

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vera e propria «autonomia spaziale» o geografica. Al contrario la sua com­ posizione, sia geografica che strutturale, è molto differenziata. Ciò che rende ammissibile la sua aggregazione in quello che abbiamo definito come «Sistema Sud» è però solo il suo ruolo funzionale rispetto al quesito che la ricerca si propone, cioè l’analisi dei rischi per la sicurezza dell’Italia e dell’Europa provenienti dalla sponda meridionale e orientale del Mediterraneo e delle sue aree di rispetto. All'intemo di questo framework concettuale il «Sistema Sud» può essere considerato come l’appendice meridionale del «Sistema Eurasia» (Duby, 1992 Atlante storico), ovvero come una Rimland (Mackinder1904; Kjellen, 1917; Spengler, 1918-22, 1957; Spykman, 1942; Haushofer, 1934), meridio­ nale del sistema eurasiatico (Sloan S.R., 1988). In altri termini, se geograficamente l'Europa è un’appendice dell’Asia, e quindi fa parte del macrosistema Eurasia, allora il «Sistema Sud» costitui­ sce il naturale completamento meridionale del «Sistema Eurasia», attra­ verso il Mediterraneo, il Mar Rosso e il Golfo. Nella sua ossatura portante il macrosistema Eurasia, con la sua appen­ dice occidentale (Europa) e quella meridionale (Sistema Sud), comprende la gran parte del Vecchio Tricontinente, quindi la landmass terrestre della World Island (Asia, Europa, Africa). Si tratta cioè della più ampia contiguità territoriale ininterrotta esi­ stente sul pianeta, la cui unità simbolica ha rappresentato sempre l'obbiettivo irraggiungibile di tutte le principali ambizioni e utopie, religiose, ideologiche o politiche della storia. Volta a volta, la potenziale unità della landmass ha dato luogo alle maggiori civiltà e civilizzazioni, nomadi e/o stanziali, dall’antichità ad oggi, alla costruzione dei massimi imperi territoriali, da quello cinese a quello persiano, fino a quello macedone e poi romano, alla creazione rapida e fragile degli imperi continentali senza occupazione permanente, come quelli mongoli o turcheschi, alla permanenza storica, al di là delle partizioni nazionali, di linee di comunicazione terrestri come la Via della Seta che per millenni hanno integrato e/o sostituito egregiamente le rotte marittime fra Ovest ed Est. In una più limitata e contemporanea accezione, tuttavia, il «Sistema Sud» può essere enucleato dal macrosistema eurasiatico (al quale è però collegato da una serie di istmi) e definito nella sua composizione dalla fascia di paesi che, muovendo da Ovest verso Est, includono via via il Maghreb, il Sahel, il Mashrek, il Como d’Africa, il Golfo. L’approccio analitico allo studio politico-militare di questa area può essere di tre tipi:

a) geografico;

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b) etnico-politico; c) geostrategico. Con questa tripartizione s’intende sottolineare il fatto che, a seconda del «punto di vista» (Max Weber, 1922, 1974) l’area in questione e le sue diverse compartimentazioni possono essere studiate utilizzando dei criteri stabiliti dalle caratteristiche strettamente geografiche, ovvero etnopolitici (Rothschild, 1981), o finalmente secondo parametri di analisi storico-spa­ ziale (Sloan, 1988), cioè di marca geopolitica o meglio geostrategica. a) Geografico

Lo «spazio Sud», così come l’abbiamo geograficamente delimitato, è costituito da trenta paesi raggruppabili in sei sub-aree o sottosistemi, la cui differenziazione politica e culturale, la cui precarietà sociale dovuta anche ai dislivelli delle rispettive economie, le crisi potenziali o in atto, interne o esterne, i conflitti politico-militari latenti e aperti e le contro­ versie religiose, hanno ormai varcato le frontiere nazionali dei singoli attori e anche i confini dei raggruppamenti regionali dell'area, trasfor­ mandosi gradualmente in «rischi da Sud» verso l’esterno sia per il nostro Paese che per alcuni dei suoi principali alleati. In termini strettamente geografici, quindi, l’area in questione può essere analizzata suddividendo il «Sistema Sud» in sezioni o gruppi di attori che, per certi aspetti potrebbero definirsi anche come dei veri e propri sottosistemi: 1. Maghreb (Mauritania,Marocco, Algeria, Tunisia, Libia); 2. Sahel (Senegai, Mali, Burkina Faso, Niger, Ciad, Centroafrica); 3. Mashrek (Egitto, Sudan, Giordania, Libano, Siria, Iraq); 4. Corno d'Africa (Etiopia, Somalia, Gibuti); 5. Golfo Persico (Arabia Saudita, Yemen, Oman, Kuwait, Bahrein, EAU, Qatar); 6. Altri (Turchia, Israele, Iran).

I primi cinque sottosistemi corrispondono, grosso modo, ad aree geo­ grafiche ben definite, mentre il sesto si presenta come una sorta di gruppo residuale, vale a dire senza caratteristiche sistemiche evidenti, che, per ragioni storiche, culturali, religiose od altro, rappresenta potenzialmente un elemento di raccordo del «Sistema Sud» con l’esterno. Si pensi, per fare solo qualche esempio dell’essenzialità funzionale di questo gruppo non omogeneo dal punto di vista geografico o etnico, all’am­ bivalente relazione della Turchia con l’Europa CEE e al tempo stesso con l’Asia Centrale e il Caucaso ex-sovietici; ovvero all’Iran e alla sua influenza

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sul mondo islamico sciita, e finalmente ad Israele il cui network d’inte­ razione con la diaspora ebraica ne moltiplica il peso politico, economico e d'influenza. b) Etnopolitico

Tuttavia, al di là dell'approccio geografico, che è soprattutto descrit­ tivo e che non soddisfa quindi le nostre esigenze di interpretazione e di previsione delle dinamiche interne al sistema relativamente ai rischi pos­ sibili, l'analisi del «Sistema Sud» può essere affrontata anche a partire da una lettura generale del contesto etnopolitico dell’area alla fine della Guerra Fredda, nel momento cioè in cui il Sistema Globale Bipolare si disgrega definitivamente. Lo studio delle componenti etnico-politiche (Rothschild), cioè delle componenti culturali, ideologiche e quindi metapolitiche (il «mytomoteur» di A.D. Smith (1986-1992), degli attori nazionali e delle famiglie etniche o religiose subnazionali) è diventato ormai necessario per iden­ tificare le linee di tendenza generale del Sistema nel suo complesso, e quelle degli attori maggiori in particolare. L’analisi etnopolitica, tuttavia, non si limita alla ricognizione e alla classificazione della composizione etnica e delle caratteristiche nazionali o subnazionali dei diversi gruppi, poiché l’accelerazione delle tendenze impedisce una definizione statica del campo d’indagine sufficientemente chiara e stabile. Essa invece si propone di studiare il processo dinamico di «politicizzazione dell'etnicità», ovvero l’analisi del fenomeno etnico come forma di prepolitica che si trasforma, con la sua «nazionalizza­ zione» in politica tout court. Si tratta in sostanza di un processo di «politicai development» (Huntington, 1968) che crea e traduce al tempo stesso le forme culturali della tradizione etnica in parametri di mobilitazione politica, di opposi­ zione in una prima fase, e di governo successivamente (Gellner, 1983, 1985; Hobsbawm, 1990; Breuilly, 1982). In effetti, la fase attuale di trasformazione rapida delle strutture nazio­ nali degli attori statuali, non solo in Europa ma anche, per effetto d’imi­ tazione, nell’area Sud, già tradizionalmente instabile, rischia ormai di diventare caotica. Tale situazione che potrebbe altresì essere definita come la crisi di legittimità degli Stati-nazione, invece di semplificare, rende sempre più difficile l’intelligibilità del quadro generale, qualora non si tenga contemporaneamente conto anche delle evoluzioni di regimi poli­ tici nazionali, delle percezioni (o misperceptions') di sicurezza dei singoli attori in relazione agli altri attori del sistema; e finalmente della dina­

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mica della distribuzione delle risorse e quindi dei rapporti di forza ogget­ tivi fra i diversi attori, sia all’interno dell'area che nella relazione con i principali Sistemi limitrofi e, in primis con l’Europa. In ogni caso, se vengano previlegiati i criteri analitici di tipo etnicopolitico o culturale non potrà sfuggire il fatto che il perno etnico centrale dell'intera area consiste nella presenza dominante del cosidetto mondo «arabo-islamico». Tale gruppo di attori che, nella sola componente araba, si estende per oltre 5.000 km da Ovest (Mauritania) ad Est (Oman) e che, a partire dalla rinascita del nazionalismo pan-arabo, alla fine del sec. XIX, (Fromkin, 1989, 1992; Khalidi, 1982 et al.) ha rappresentato, dopo il 1914, l’ipotesi cardinale di riorganizzazione egemonica di tutta l’area, e dovrebbe, almeno in linea di principio, costituire l’oggetto primario del­ l’indagine sul «Sistema Sud». L'area araba, infatti, che della componente arabo-islamica rappresenta la sezione più cospicua nel «Sistema Sud» (Lapidus, 1988), nel periodo successivo alla Seconda Guerra mondiale ha focalizzato l’attenzione degli osservatori esterni proprio in forza del fatto che le aspirazioni pan-nazio­ naliste arabe hanno svolto la duplice funzione simbolica e politica di ideo­ logia della liberazione anticoloniale e di strumento della dinamica modernizzatrice nell’area Sud (Khalidi, 1982), e che entro certi limiti si propo­ neva di satellizzare, o espungere dal gioco, gli attori non arabi. Tuttavia i limiti di un'analisi di questa natura, basata cioè sullo studio della componente etnopolitica del nazionalismo arabo, sono notevoli. Essi sono essenzialmente di due ordini: a) da un lato si corre il pericolo di accentuare delle linee di tendenza essenzialmente ideologiche che a prima vista sono apparse più innovative esagerandone quindi la portata, men­ tre, b) dall’altro lato si sottovaluta il fatto che alcuni attori (ovvero Statinazione) del «Sistema Sud» - come è accaduto negli ultimi anni per molti attori del «Sistema Est» - potrebbero improvvisamente decomporsi e fran­ tumarsi (ovvero riaccorparsi) sotto la pressione del terremoto strutturale in corso nella politica internazionale dovuto alla fine del Sistema Bipolare che nel passato aveva salvaguardato il principio del riconoscimento degli Stati così come si formavano al momento della liquidazione degli Imperi coloniali europei, statuendo l’inviolabilità delle frontiere e quindi stabi­ lendo delle regole di funzionamento implicite, ma molto precise e vin­ colanti per tutti, che oggi risultano essere non più valide. In particolare, anche in assenza di un processo radicale quale sarebbe quello della dislocazione di Stati-nazione compositi e dalle frontiere (geo­ metriche, naturali o antropo-geografiche) improbabili sarà sufficiente tener conto del crollo verticale delle ideologie universaliste, federative o d’inte­ grazione (dal comuniSmo al pan-nazionalismo arabo, all’unità europea) per

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rendersi conto come un approccio strettamente etnopolitico non sia ormai più sufficiente, proprio perché venato di incrostazioni ideologiche superate, quindi costellato di dottrine spuntate e popolato di classi politiche delegit­ timate a spiegare i caratteri strutturali e la dinamica del Sistema Sud. Questa serie di obiezioni concettuali all’uso indiscriminato degli approcci geografico ed etnopolitico, nonostante l’apparente immobilità delle frontiere del «Sistema Sud» e la rinascita esplosiva dei nazionali­ smi, sub-nazionalismi e movimenti etnocentrici in tante parti d’Europa e del «Sistema Eurasia» si fonda, in ultima istanza, proprio sulla labilità potenziale di qualsiasi analisi che poggi su criteri, oggettivi ma modifi­ cabili, quali sono quelli della «geografia etnica e politica», nonché su quelli, ancora più logori, delle filosofie politiche del passato.

c) Geostrategico

La scelta dell’analisi geostrategica, invece che etnopolitica si deve quindi al fatto, apparentemente paradossale, che in un mondo come l’at­ tuale dove il nazionalismo di frammentazione tende a riacquistare un rilievo politico crescente e talvolta irresistibile, i vecchi supernazionalismi di aggregazione (federale o ideologica), come è stato per quasi 100 anni il nazionalismo arabo, tendono per converso a perdere di mordente e terreno lasciando ampio spazio alle spinte disgregative subnazionali (Kurdi e Sciiti), e perfino sub-regionali (Federazione Russa) che, in entrambi i casi (supernazionale e subnazionale) nella sostanza, mettono in crisi l’idea e la concezione stessa dello Stato-nazione. Il nazionalismo arabo in particolare, che aveva cercato di coprire le manchevolezze evidenti e crescenti delle strutture degli Stati-nazione nati dal processo di dislocazione dell’impero Ottomano prima, e dalla deco­ lonizzazione occidentale poi, annunciando a tutte lettere un disegno regio­ nale federale e un progetto di modernizzazione della Nazione Araba, è clamorosamente fallito. Il tentativo, più volte ripetuto, di concentrare la potenza unificante del mondo arabo nella figura di un Rais (da Nasser a Saddam), simbolo cari­ smatico e personificazione stessa della mitica unità araba, sta ormai lasciando il posto a forme di fondamentalismo islamico che vanno ben al di là del mondo arabo e che, quindi, per la loro estensione spaziale e la loro valenza politico-ideologica, esulano dal ristretto ambito del «Sistema Sud» rafforzandone, per certi versi, la struttura nelle sue com­ ponenti rivoluzionarie e alternative, ma al tempo stesso indebolendone la compattezza e minandone la coerenza politica. (Khalidi, 1982 et al.; Hourani, 1980; Lapidus, 1988; Balta, 1986)

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Non resta dunque che il terzo approccio, quello che abbiamo chiamato «geostrategico» il quale cerca di leggere il «Sistema Sud» in chiave di cor­ relazione fra cause storiche e vocazioni geopolitiche, utilizzando però degli indicatori empiricamente più facili da valutare. Si tratta di indica­ tori che scaturiscono dalla messa in relazione di una triade di concetti facilmente individuabili quali sono quelli di «politica», di «sicurezza» e di «forza», la cui quantificazione è relativamente semplice. Per «politica» s’intende qui il corpo di principi, norme, istituzioni, per­ sonale, idee, obiettivi, azioni e decisioni sulla base dei quali si organizza il sistema politico interno (ovvero il regime) degli attori dell’area che eser­ citano, o potrebbero esercitare, una influenza determinante sulle rela­ zioni internazionali, sia intrasistemiche che intersistemiche. Per «sicurezza» s’intende invece il meccanismo d’interazione, perce­ pito o reale, che caratterizza i rapporti di forza fra i diversi attori e il sistema nel loro complesso: quindi i caratteri strutturali, le asimmetrie nelle capabilities, le relazioni di alleanza, le crisi potenziali o reali, i con­ flitti latenti o aperti, le misure per garantirsi le diverse forme di sicurezza, da quella interna a quella nazionale, fino a quella bilaterale, multilate­ rale o collettiva, per finire con gli organismi di sicurezza istituzionali di tipo universale (Onu, Csce, Ueo, Lega Araba, ecc.). Per «forza», infine, s'intende la traduzione della potenza e della capa­ cità in azioni e fatti, vale a dire la dinamica operativa del cosidetto «dilemma della sicurezza», espresso di volta in volta in termini di poli­ tica estera, di politica economica, di politica della difesa, di procedure, di approntamento del dispositivo militare, nonché di valutazione e intel­ ligence dei rischi e delle minacce intrarea, già in essere o potenziali. Il meccanismo d'interazione triangolare fra questi tre concetti costi­ tuisce quindi la chiave di volta esplicativa dell’approccio geostrategico e ne rappresenta il sistema operativo, virtuale e/o reale, sul quale fondare anche la classificazione dei rischi provenienti da Sud per l'Italia e l’Europa meridionale in genere. Nel caso del «Sistema Sud» va subito detto che il triangolo «politica/sicurezza/forza» si è notevolmente modificato nel corso degli ultimi anni, e in particolare a partire dal 1989. I rischi derivanti dall’azione della «politica» sono infatti relativamente diminuiti, dopo aver raggiunto l’acme nella seconda metà del 1990 e nei primi mesi del 1991 con la Guerra del Golfo, in quanto la fine della Guerra Fredda e la disgregazione dell'impero sovietico comunista hanno sman­ tellato gran parte delle ideologie politiche radicali di stampo marxista, ma anche terzomondista, riducendo per questa via l’appetibilità e la cre­ dibilità politico-ideale del precedente Modello teorico Nord-Sud.

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Tutto questo ha prodotto una serie di crisi di legittimazione nei Sistemi Politici di molti attori dell’area e anche, in qualche caso, il tentativo di sosti­ tuire classi dirigenti, la classe politica, il personale amministrativo (come è accaduto fin dal 1979 in Iran) filosofie della politica e perfino modalità di comportamento nella gestione della politica economica (v. dati). I pericoli derivanti dalle esigenze di «sicurezza», e dalle minacce alla sicurezza, da parte degli attori dell’area verso l’esterno sembrano essere anch’essi in fase calante, anzitutto nell’azione esterna rispetto al «Sistema Sud» (verso l’Occidente in particolare: terrorismo, minacce verbali, ecc.), ma anche all’interno del sistema delle relazioni intrarea e fra sottosistemi con l’eccezione, peraltro, sanguinosa dell’aggressività del regime irakeno di Saddam Hussein che va contro il trend generale. Sono invece in una fase di rapido incremento i rischi che conseguono dalla dinamica della «forza», soprattutto a causa del rapido impossessa­ mento di tecnologie avanzate da parte di molti attori dell’area, nonché per la facoltà di accesso al mercato degli armamenti ex-sovietico che sta letteralmente svendendo anche la produzione militare più aggiornata e sofisticata, oltre ad esportare tecnici, scienziati e mercenari (Politi, Grimaldi, Graziola in Santoro, 1996). Qualora si metta in evidenza, soprattutto la dimensione spaziale e geo­ politica rispetto a quella strettamente geografica o etnopolitica, non va dimenticato che, oltre all’area araba divisa a sua volta in più di un sot­ tosistema (Maghreb, Mashrek, Golfo), esistono ben altri tre sottosistemi operanti all’intemo del «Sistema Sud», nonché alcuni attori «diversi», in quanto non arabi, ma di grande rilievo (Israele, Turchia e Iran), che eser­ citano delle funzioni del tutto indipendenti, e in qualche caso conflittuali rispetto al complesso dei Paesi arabi. Il perno di manovra dell’intero «Sistema Sud», in questa chiave di let­ tura geopolitica ruota quindi, come nel sistema multipolare dell’Equilibrio di Potenza (BoP) ottocentesco, attorno ad un mix internazionale di potenze eterogenee che potrebbe essere definito come «sistema medio­ rientale» i cui punti di riferimento principali sono sia i Paesi arabi che quelli non arabi, sia della fascia mediterranea che di quella che si affac­ cia sul Golfo Persico. Il «Sistema Mediorientale», può essere organizzato come una strut­ tura interattiva multipolare basata su sette attori nazionali essenziali (M.A. Kaplan, 1957) e sui tre sottosistemi che abbiamo descritto, ad essa col­ legati, soprattutto oggi che sempre più rilevante diventa il ruolo dei Paesi non-arabi nel «sistema Sud», in particolare quello di Israele, che è in una fase di transizione politica ed etnica, della Turchia (col suo potenziale

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sottosistema d’influenza Caucaso-Turchestan) e quello dell'Iran (col suo impero virtuale sciita). Una concezione.di questo tipo, basata sui vettori di forza politica, eco­ nomica e militare degli attori principali dell’area, nonché sulle forme della loro interazione, assume una capacità analitica molto più convincente. Il sistema d’interazione geopolitica detto «mediorientale» si può quindi definire, per fini interpretativi, come un sistema politico regionale ete­ rogeneo di tipo multipolare (trenta attori nazionali), composto di sette potenze maggiori interne all’area (gli attori essenziali), di cui quattro arabe (Siria, Iraq, Arabia Saudita, Egitto) e tre non arabe (Israele, Turchia, Iran), nonché di un certo numero di potenze minori (Libano, Giordania, EAU, Oman, Kuwait, Qatar, Sudan, Yemen, Bahrein), integrato da tre sottosi­ stemi esterni all’area (Maghreb, Sahel, Como), relativamente autonomi, ma tutti gravitanti e interattivi con quello centrale mediorientale.

6. L’Italia e il Sistema Sud Il quadro generale che abbiamo qui rappresentato individua il conte­ sto geostrategico all’interno del quale si generano i più significativi rischi da Sud per l’Italia nella fase attuale. Ovviamente, le categorie di rischio da classificare sono di livello dif­ ferenziato e provengono da aree geografiche diverse. Pur considerando come area centrale del Sistema Sud quella che abbiamo definito come «Sistema Mediorientale», localizzata fra i due mari (Mediterraneo Orientale e Golfo Persico), dal punto di vista italiano la pericolosità del rischio può essere valutata secondo criteri di misurazione di distanza. Nel senso che il sottosistema maghrebino, nonostante possa essere con­ siderato come un’area periferica rispetto al cuore politico del Sistema, data la vicinanza geografica con l’Italia, tende a diventare una regione a rischio più elevato rispetto ad eventi critici che avvenissero in aree più lontane, anche se strategicamente più significative. Un esempio molto evidente di questa apparente contraddizione nella valutazione geografica del rischio è dato dalla diversa percezione che il governo italiano e anche l’opinione pubblica hanno avuto nei confronti di rischi o minacce provenienti dalla Libia ovvero dall’Iraq. Nel primo caso si tratta, anche nel peggiore dei casi, di un rischio per­ fettamente controllabile e, tutto sommato, salvo nel caso dell’impiego di armi di distruzione di massa e di missili balistici per il loro trasporto, collocabile nella graduatoria dei rischi di media intensità. Non così invece

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nel caso dell’Iraq che, occupando il Kuwait nel 1990, aveva messo a rischio la sicurezza generale e il controllo dell’intera area petrolifera del Golfo, esercitando, anche per l’Italia oltre che per molti altri Paesi, una minac­ cia strategica ad alta intensità. Eppure la disponibilità italiana all'assunzione di contromisure mili­ tari è di gran lunga più alta nei confronti di un rischio proveniente dalla Libia che non rispetto a una minaccia proveniente dall’Iraq. Crisi del sistema politico interno degli attori dell’area, guerre civili, dislocazioni territoriali, smembramenti o accorpamenti di Stati, per non dire di guerre interetniche, faide religiose o conflitti intemazionali, di eventi anomali crescenti come le migrazioni, il terrorismo e l’impatto demografico, costituiscono un elenco incompleto dei rischi ai quali l'Italia potrebbe essere sottoposta. Il Sistema Sud, nelle sue strutture gerarchi­ camente orientate alla centralità del Sistema mediorientale, è, in questo senso, una polveriera. Difronte a questa serie di opzioni le contromisure possibili sono di due ordini: a) politico-economiche; e b) politico-strategiche e militari.

a) Nel primo caso la relazione fra l’Italia (ma anche l’Europa CEE e il mondo sviluppato in generale) da una parte, e il Sistema Sud dall’altra è passata attraverso diverse fasi contrassegnate da momenti di sviluppo positivo dell'interazione e periodi più lunghi di contrasto e di interazione negativa. Senza tornare alle modalità di relazione esistenti nel periodo coloniale e precoloniale, durante il quale vennero peraltro avviati degli importanti pro­ cessi di modernizzazione economica e culturale, se non politica, e, limi­ tandosi alla fase postbellica, non si può non riconoscere che il processo di modernizzazione politica e sociale di origine europea ha fatto esplodere molte delle antiche contraddizioni interne alla struttura del Sistema Sud, soprattutto nei Paesi poco dotati di risorse strategiche e di materie prime. (Grilli, Daveri, 1991 ecc.) In particolare la forbice fra la produzione del reddito e lo sviluppo demo­ grafico ha messo in luce le difficoltà, anche culturali, di un mondo che si appropria dei benefici della tecnica, fino ad impiegarla negativamente nella moltiplicazione della conflittualità e delle ambizioni con la corsa agli arma­ menti, il sistema informativo e la propaganda, e un livello dello sviluppo politico e culturale in cui permangono antiche incrostazioni di primitivi­ smo, di mancanza di controllo, di ideologie mutuate dall'occidente e «orien­ talizzate» (nazionalismo, comuniSmo, tecnocrazia totalitaria). Quando addirittura la tecnologia e i benefici della modernità non diven­ tano l’occasione per risvegliare reazioni antimoderne, giustificate in ter­

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mini alti ma vissute invece in termini di revanchismo antioccidentale e di autocompiacimento culturale negativo per i valori di un passato medie­ vale e premodemo (fondamentalismo islamico, ma anche ebraico, cri­ stiano-ortodosso, cristiano-maronita), che molto sovente sono delle cari­ cature semplificate dei valori spirituali e religiosi cui invece formalmente si ispirano. Le contromisure possibili di carattere politico-economico per contra­ stare questa tendenza aU’allargamento della forbice fra sviluppo a Nord e sottosviluppo (o meglio insufficiente sviluppo) a Sud esulano dai com­ piti della nostra analisi. Basterà però dire che la strada della crescita non passa né attraverso gli aiuti né attraverso la creazione di settori assistiti, né attraverso la mol­ tiplicazione dell'esodo migratorio da Sud a Nord. Il solo percorso praticabile è quello della creazione di un sistema eco­ nomico relativamente integrato, specializzato e che si fondi sulle voca­ zioni locali utilizzando i fattori abbondanti. A questa premessa di svi­ luppo autonomo dovrebbe far corona la liberalizzazione delle opportu­ nità e la garanzia politica o militare degli investimenti e dei ritorni di capitale, sotto la guida del Fondo Monetario (FMI) o di altri paesi dona­ tori o prestatori. Si tratta certo di esigenze molto difficili da realizzare, ma prive di alter­ native credibili soprattutto dopo il fallimento evidente dei megaprogetti statali, delle politiche di aiuto e dono dell’occidente, la incapacità di pia­ nificazione demografica e la inettitudine corrotta della classe politica e burocratica. Nel caso delle contromisure di carattere politico-militare, invece, la realizzabilità dell’obbiettivo è relativamente più facile e meno onerosa. Il fallimento della modernizzazione, intesa illuministicamente come strumento politico-tecnico per l’eguaglianza futura delle Nazioni sotto­ sviluppate e di quelle sviluppate, è dovuto a molte ragioni, ma in parti­ colare all’illusione, di matrice coloniale rovesciata, della «missione» o

«fardello» dell’uomo bianco, trasformato nell'età post-coloniale in «obbligo» e «risarcimento» del mondo sviluppato nei confronti del Terzo Mondo. Questo intreccio di ideologie negative e false è oggi da annove­ rare fra le cause della crescente conflittualità esistente fra le due sponde del Mediterraneo. Tale doppio equivoco, che è il frutto della cattiva coscienza dell’Occidente e delle pretese ingiustificate dell’oriente, ha impedito, anche nelle misure di politica economica e sociale introdotte nella maggioranza dei Paesi del Sistema Sud, la nascita di processi di sviluppo autogene­ rato, con tutte le conseguenze del caso, ma ha prodotto soprattutto una

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classe politica e una burocrazia che, da sola, si impossessa per mille vie di quote ingenti di reddito. Ne è derivato un grave malessere che oggi trova uno sbocco nella rivolta collettiva e al tempo stesso nella rimozione di massa da parte delle popo­ lazioni locali nel Sistema Sud che oscillano fra lo scimmiottamento dei comportamenti occidentali e la loro fanatica repulsione. Nel primo caso si tratta di strati sociali che beneficiano, spesso abusivamente, dei bene­ fici della modernità e della relazione con l’Occidente (come gli sceicchi del petrolio), e che comunque dell’occidente hanno imitato solo gli aspetti vistosamente consumistici dimenticando di apprendere anche la lezione della democrazia, della libertà e della complessità, ma invece continuando a importare Modelli autoritari, quando non totalitari, come in Iraq e Siria, oppure mascherando antichi costumi politici di clan sotto le spoglie di modernizzazioni politiche inesistenti. Nel secondo caso si tratta invece dei larghi strati di popolo cultural­ mente arretrato e disperso nelle trame incerte e nelle trappole invisibili di nazioni inesistenti, di sistemi politici corrotti e inefficienti, di ideolo­ gie confuse ma appassionate, che nell’occidente e nella sua presunta poli­ tica coloniale, hanno trovato il responsabile collettivo e globale del pro­ prio fallimento come Stati e come società. Il ripescamento del fonda­ mentalismo religioso, islamico in particolare, s’innesta bene in questo quadro di riferimento per le sue caratteristiche di ibrido teocratico e moderno nell’uso degli strumenti di propaganda, d’informazione e di con­ trollo sociale, e nel richiamo abusivo ai canoni coranici. Ha tutte le stig­ mate di una rivolta antimodemista apparentemente giustificata che ha davanti a sé due alternative: quella di spegnersi gradualmente attraverso la messa in opera di riforme, ovvero di scontrarsi apertamente, dapprima con il proprio sistema interno di potere (come in Iran nel 1978 e in Egitto, Algeria, Tunisia, ecc., forse, tra breve), e poi con i Paesi occidentali. Nel primo caso la soluzione sarà di lungo periodo durante il quale comunque vi saranno spesso episodi anche importanti di crisi e di con­ flitto. Nel secondo caso, invece, il rischio davvero grave, che potrebbe tra­ sformarsi in minaccia, potrebbe essere quello di una conglomerazione delle posizioni fondamentaliste in una vera Jihad antioccidentale. In entrambi i casi, il rischio per l’Italia sarà molto elevato. La rispo­ sta a questo tipo di perìcoli non potrà non essere anche di tipo politico­ militare. Una riflessione attenta di questa necessità non è ancora stata fatta in Italia, né a livello politico, né a livello culturale e neppure a livello operativo, in quanto dovrebbe ribaltare tutta una serie di concetti, dot­ trine, programmi e budgets che nessuno per ora intende affrontare.

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Geopolitica e sicurezza del Mediterraneo

La grande tradizione geopolitica che divide il mondo in «terra e mare», da Karl Schmitt all’Ammiraglio Mahan al Capitano Corbett, fino al grande affresco di Sir Halford Mackinder, aveva in comune una sola riflessione, quella della riconosciuta diversità concettuale e politica degli Stati «continentalisti» da quelli «marittimi». Al centro della questione geopolitica stava quindi la differenza, anche teorica e culturale, fra «Grandi Spazi» (Grofiraum) terrestri e vaste distese oceaniche, per ciascuno dei quali valgono regole diverse. Sulla base di questa distinzione esemplificata da mille casi studio tratti dalla storia, fin da quella antica (Sparta vs. Atene; Roma vs. Cartagine; ecc.) a quella più recente (Usa vs. URSS), l'alternativa analitica nello studio della politica intemazionale si basava sulla forte contrapposizione strutturale di macroaggregati regionali, e in particolare fra il dominio dell’«orso» eura­ siatico sulla landmass, da qualsivoglia attore venisse impersonato (Russia, Germania, Cina), ovvero il controllo dello spazio oceanico da parte della «balena» anglosassone. La diversità era tale che raramente si davano attori terrestri divenuti marittimi o viceversa. Il che spiega come fosse stata possibile la secolare coesistenza, relativamente poco coiiflittuale, se non ai bordi dei due sistemi, fra Imperi continentali come la Russia e Imperi marittimi come l’Inghilterra. Questa netta contrapposizione di terra e di mare non vale, o vale molto meno, per i bacini chiusi e ristretti le cui coste sono ripartite fra 19 paesi diversi, come è il caso del Mediterraneo, oppure del Baltico, che è un Medi­ terraneo del Nord, dei Caraibi, o del Mar del Giappone. Le differenze etniche, in questo tipo di ambiente geopolitico misto, si sovrappongono a quelle culturali trasformando il quadro politico, econo­ mico e sociale nello spazio di poche decine di chilometri. La sicurezza di un bacino marittimo chiuso e limitato diventa quindi, in linea teorica e sotto il profilo strategico, un problema relativamente più semplice e al tempo stesso più complicato perché non consente l’uso

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di categorie assolute, terrestri o navali, per le quali esistano procedure operative sperimentate. I Grandi Spazi, infatti, ipotizzano grandi orizzonti strategici prevedi­ bili, mentre i bacini chiusi sono atipici e pieni di svolte improvvise. Sarà allora relativamente più facile stabilire un sistema di controllo costiero difensivo, mentre sarà meno facile pretendere di esercitare un'influenza permanente o generalizzata che si estenda dalla costa al retroterra. L’aveva ben capito l'Inghilterra che, a partire dalla metà del Settecento e fino alla prima metà di questo secolo, per proteggere le linee di comu­ nicazione imperiali fra la madrepatria, l’india e l’Estremo Oriente, si era assicurata il controllo di Gibilterra a Ovest, di Malta al centro e di Suez a Est, dopo aver neutralizzato diplomaticamente gli Stretti per bloccare il Mar Nero. Durante questo lungo periodo si ebbe così il paradosso di un mare interno controllato da una Grande Potenza non rivierasca. Lo stesso si può dire per il mezzo secolo della Guerra Fredda, appena concluso, durante il quale il controllo del Mediterraneo venne affidato agli Stati Uniti e in particolare alla Sesta Flotta. Tuttavia il problema della sicurezza di un bacino ristretto non è solo una questione di controllo del mare, delle vie d’accesso, delle linee di comunicazione e di traffico. Si tratta infatti di una logica geopolitica del tutto diversa che risente assai meno di quanto non si creda della sua spe­ cificità «marittima». I bacini chiusi, infatti, sono dominati, nella gran parte dei casi, dalle concezioni politiche e culturali dei Paesi rivieraschi. Sono quindi molto influenzati dal sistema di relazioni storiche, economiche e di regime poli­ tico che la vicinanza geografica e la facilità tecnica dell'attraversamento, in una direzione o nell’altra, comportano. Fin dall’antichità il Mediterraneo era considerato come un prolunga­ mento, ovvero una proiezione di forza, della potenza terrestre degli attori dell’area. Durante la guerra del Peloponneso fra Atene e Sparta, per fare un esempio, l’Egeo prima, che è una sorta di miniatura del Mediterraneo, e poi anche lo Ionio, diventarono campo dazione bellica, non tanto per ragioni di «sea-control» quanto per garantire il flusso di uomini e di rifor­ nimenti agli eserciti di terra operanti nei diversi scacchieri, dall’Asia Minore alla Sicilia. In altri termini la guerra veniva condotta essenzialmente a terra e le battaglie navali avevano lo scopo, relativamente secondario, di assicurare la libertà di trasferimento delle forze. Non accadeva cioè che le vittorie o le sconfitte navali fossero decisive in un quadrante strategico, peraltro quasi per intero marittimo, come era quello della guerra bipolare fra le due «Leghe», Delia e Lacedemonia.

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Tanto è vero che la larga e quasi costante superiorità ateniese in mare si risolse alla fine nella sua sconfitta, mentre le difficoltà spartane in campo navale si saldarono con la vittoria finale. Questa sottolineatura della «terrestrità» dei bacini chiusi, raggiunse l’apogeo nella concezione imperiale romana fra il I secolo a.C. e il V secolo d.C., allorché la sicurezza del mare, raggiunta quasi subito con l’elimi­ nazione dei pirati, diventò la semplificazione di un problema logistico, quello dell’accelerazione del sistema di trasferimento, in caso di neces­ sità,delle legioni da Ovest a Est, ovvero da Nord a Sud. Le flotte romane ebbero così una funzione secondaria, di pattugliamento e di polizia piuttosto che di proiezione di potenza sulle diverse rive. Ovviamente questa eccezionalità di Roma imperiale nell’utilizzo del Mediterraneo dipendeva dal fatto che l’intera struttura imperiale terre­ stre ruotava, per così dire, intorno al Mediterraneo di cui l’Italia era il fulcro centrale. Con la caduta dell’impero Romano, però, il Mediterraneo cessò di rap­ presentare un bacino interno e omogeneo. «Il Mediterraneo - scriveva Braudel - è quale lo fanno gli uomini». E gli uomini lo hanno diviso più che unito. L’analisi geopolitica e geostrategica del Mediterraneo tende infatti a descrivere morfologicamente il bacino come un «insieme» collegato solo dalla contiguità geografica, piuttosto che come un «sistema» politico-cul­ turale interattivo La sottile fascia litoranea del Mediterraneo, da Venezia a Malaga, da Alessandretta a Tangeri, da Ragusa a Salonicco a Smirne, da Napoli a Tunisi, la sua apparente affinità, climatica e culturale, è solo una facciata. Dietro di essa, incombenti sulle sue acque, ci sono le masse terrestri del­ l’Europa Centrale e dell’Europa del Nord, il gigantesco deserto del Sahara, dal Marocco alla Siria e all’Arabia, nonché le steppe sarmatiche dell'Asia tartara. Popoli distanti anni luce gli uni dagli altri che, dietro il velo delle somiglianze costiere, ne condizionano la vita. La concettualizzazione della sicurezza nel Mediterraneo deve tener conto di questa realtà. Il Mare Interno non è un ponte fra Nord e Sud, né la cerniera di tre Continenti. La letteratura fantastica sulla presunta unità mediterranea, come nel troppo elogiato libro di Matvejevic, confonde le idee più che chiarirle. Esiste invece una immaginaria linea orizzontale che spezza in due parti il Mediterraneo. È una linea di divisione culturale e religiosa (Islam e Cri­ stianesimo), linguistica (arabo, romanzo, slavo), etnica (arabi, turchi, slavi, neolatini) politica (autoritarismo e democrazia). Il bacino si mantiene in equilibrio precario sulla contrapposizione delle

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tensioni intorno a questa linea. Per la prima volta da molti secoli questa linea «naturale» e «artificiale» insieme, è davvero diventata un confine fra Nord e Sud, incerto ma riconosciuto da tutti. Si è conclusa infatti la lunga fase della penetrazione del Nord verso il Sud, iniziata nel 1830 con la conquista francese di Algeri, così come si era conclusa, molto tempo prima, la penetrazione del Sud verso il Nord contrassegnata dalla battaglia di Lepanto (1571). È un equilibrio che forse non durerà a lungo perché piccole minacce e grandi rischi sono in agguato dietro l’attuale fase di stallo, daH’immigrazione al fonda­ mentalismo. Tuttavia la sicurezza del Mediterraneo è, per ora, assicu­ rata proprio dalla condivisa accettazione della linea orizzontale di divi­ sione, e non già dalle sue presunte affinità. L’unica regione dove la linea rischia di interrompersi sono i Balcani. Territorio anomalo di confine delle tre civilizzazioni (Latino-Germanica, Slavo-Ortodossa, Islamico-Ottomana) i Balcani sono la sola area di so­ vrapposizione e di intreccio, anche etnico, fra le due sponde del bacino. Le vicende della ex Jugoslavia, infatti, e in particolare quelle della Bosnia che è al centro di una geometria complessa, sono una lezione da non trascurare. Anche perché, a partire dal 1991, la divisione fra il Nord e il Sud del Mediterraneo attraversa in modo brutale anche delle aree che fino a qualche anno prima sembravano un modello di convivenza etnica e religiosa. Forse c’era qualche illusione di troppo nell’idea della pacifica coesistenza di popolazioni sottomesse al giogo turco prima e al comuniSmo dopo. Tut­ tavia, questa illusione è presto svanita. La Bosnia è diventata un triangolo che fonde e spezza al tempo stesso i Balcani nelle sue tre componenti etnonazionali: Croati, Serbi e Musulmani. È infatti il luogo trigonometrico di una penisola che per alcuni secoli è stata il punto di contatto, e automati­ camente anche il campo di battaglia, fra Occidente e Oriente. La sicurezza del Mediterraneo, al di là della retorica, va dunque letta in questa chiave interpretativa. Essa deriva intuitivamente dall’incrocio di tre diverse variabili:

a) la divisione orizzontale Nord-Sud; b) la sovrapposizione balcanica, il cui prolungamento è nel Medio Oriente; c) i sistemi di «protezione/obbedienza», ovvero di sicurezza collettiva e di alleanza, esistenti nel presente o possibili nel futuro. Le tre variabili sono emerse nitidamente alla luce solo recentemente. Esse costituiscono un'intelaiatura strutturale e al tempo stesso un insieme di vincoli ai quali la ipersemplificazione bipolare della Guerra Fredda aveva per mezzo secolo tolto importanza. Oggi, però, che il quadro di

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contesto si è nuovamente complicato, il loro intreccio torna ad essere prioritario. Di qui l’insufficienza euristica di ogni precedente, dalla Nato tradi­ zionale alle ipotesi integrative dell’Unione Europea, fino alle verbalizzazioni inconsistenti della CSCE (Conferenza per Sicurezza e la Coopera­ zione in Europa), o della ormai defunta ipotesi di CSCM (Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione nel Medi terraneo). In effetti, nel Mediterraneo, dopo la decolonizzazione inglese e fran­ cese, non c’è stata mai una vera ipotesi di sicurezza collettiva. Anzi, fino al 1989, la sponda Sud si è collocata spesso in posizione ostile verso quella Nord assumendo posizioni filo-sovietiche del tutto contrastanti con quelle filo-americane della sponda Nord. L'Italia, in questo ambito, per la sua collocazione geografica, non è stata quindi un ponte fra Nord e Sud del bacino, ma invece uno spartiacque fra Mediterraneo Occidentale e Orientale. Il Canale di Sicilia è un chocke-point sia verso Ovest che verso Est, ma è anche un raccordo ideale delle tre peni­ sole europee nel Mare Interno, balcanica, italiana e iberica, una sorta di spartitraffico e di controllo della linea di divisione orizzontale. Nei mari ristretti non basta il controllo del mare. Si tende sempre a influenzare e/o a dominare la costa opposta per evitare gli attacchi di sor­ presa (si pensi alla geopolitica giapponese nel Mar del Giappone o nel Mar di Okhotsk), e perfino a oltrepassare le coste per guardarsi dall’interno ignoto e minaccioso. In tal senso le imponenti rovine del «limes» romano in Tunisia e in Algeria sono una chiara testimonianza di questa consape­ volezza strategica. La sicurezza dei bacini chiusi, infatti, si basa sulla relazione fra terre contigue. Anzitutto le penisole protese nel mare a creare passaggi obbli­ gati, che sollevano sempre dei problemi di contatto fra le sponde, sia di tipo positivo che negativo, sia di tipo marittimo che continentale. Si pensi alla Crimea nel Mar Nero, oppure al ruolo particolare svolto nel lontano passato da un choke-point fra Africa e Iberia come Gibilterra, o nel passato più recente di fortezza e cerniera (con Suez) fra Atlantico e Oceano Indiano. Ovvero alla funzione dei Dardanelli in relazione alle due continentalità contrapposte, Europea e Asiatica, ovvero Russa e Ottomana. Con le tecnologie militari più innovative, dai missili balistici conven­ zionali alle armi di distruzione di massa non nucleari, questa necessità di difendersi direttamente in loco dalle minacce dell'altra sponda, è aumen­ tata notevolmente. Per questo i problemi strutturali della sicurezza nel Mediterraneo non sono di ordine «costiero», né di sea-control, come durante la Guerra Fredda, ma invece di gestione dell’entroterra, come è accaduto nel 1991 con la guerra del Golfo.

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La descrizione dei fattori potenziali di insicurezza dovrà perciò guar­ dare alle coordinate strutturali. Quindi, le direttrici strategiche della sicu­ rezza mediterranea per l’Italia e l'Europa, non potranno più concentrarsi sulle teorie navaliste ottocentesche, come quella della Riskflotte di tradi­ zione tedesca (Tirpitz), il cui ultimo esempio medi terraneo è stata la V Eskadra navale sovietica della flotta del Mar Nero che, a partire dagli anni Sessanta e fino alla fine degli anni Ottanta, ha rappresentato una minaccia potenziale alla VI flotta statunitense, e quindi al controllo navale della Nato nel bacino. Né potrà più indulgere alla dottrina britannica della «fleet in being», tanto amata dagli ammiragli, il cui ruolo primario era quello di dissua­ dere l'avversario potenziale, senza combattere, come è stata la politica navale italiana verso la Francia negli anni fra le due Guerre Mondiali. Il problema concreto e attuale della sicurezza nel Mediterraneo è invece quello di difendere la «linea» orizzontale, evitando che si travalichi quella frontiera ideale, che non si vada «beyond the line», costruendo una serie di avamposti e linee difensiva di garanzia, sia di tipo militare che diplomatico. Per fare un esempio, è da ritenere che l’isola di Cipro, nonostante la sua divisione (orizzontale) fra Turchi e Greci, debba essere ancora con­ siderata, come al tempo di Venezia, un antemurale europeo nel Mediter­ raneo Orientale e una copertura avanzata del sistema delle isole egee. L’analisi dettagliata del problema porta poi alla individuazione di alcuni «corridoi» strategici della sicurezza mediterranea. Essi si basano su due direttrici essenziali, una di penetrazione o di attraversamento, e una di difesa permanente. La direttrice di penetrazione-attraversamento si articola a sua volta su due linee vettoriali: a) la linea Adriatico-Jonio-Egeo-Suez-Mar Rosso-Oceano IndianoGolfo; b) la linea Tirreno-Canale di Sicilia-Gibilterra-Atlantico. La direttrice difensiva permanente orizzontale è invece quella che dall’Andalusia si prolunga attraverso la Sardegna, la Sicilia, Malta, Creta, Cipro, fino al Mar di Marinara e all’Anatolia. Ma il vero punto interrogativo, e al tempo stesso il punto debole, di que­ sta strategia di sicurezza risiede nella imprevedibilità degli attori della peni­ sola balcanica e soprattutto nella sua crescente interrelazione con il Sistema mediorientale attraverso l’incognita turca. La relazione fra i due Sistemi, bal­ canico e mediorientale è sempre più stretta, anche se estremamente instabile. Il Sistema balcanico, anche in questa fase di grande mobilità, può essere infatti analizzato sulla base di quattro nodi di concentrazione:

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1. l’Occidente balcanico (Slovenia, Croazia e la Militàrgrenze); 2. l’Oriente ortodosso (Serbia, Montenegro, Krajine serbe in Croazia e Bosnia, Romania e Bulgaria); 3. il Sottosistema greco-egeo; 4. l’Oriente islamico-ottomano (Kossovo, Albania, Sangiaccato, Ma­ cedonia, Turchia).

Il Sistema mediorientale è invece composto di due gruppi di attori inconciliabili fra loro: 1. il Sistema arabo (Siria, Irak, Arabia Saudita, Egitto); 2. Gli attori non arabi (Turchia, Israele, Iran).

Come si vede, in questa doppia struttura l’unico attore che partecipa di entrambi i Sistemi (balcanico e mediorientale) è la Turchia che, peral­ tro tende ormai a giocare un ruolo autonomo crescente anche nel nuovo Sistema per ora in fase di costruzione, definibile come dell’Asia Centrale, ad etnia maggioritaria «turchica»e fortemente influenzato da Ankara. Questa centralità turca nel grande triangolo strategico balcano-mediorientale e dell’Asia Centrale è il vero interrogativo strategico del Mediterra­ neo. Si tratta di un problema del tutto nuovo che potrebbe avere dei riflessi importanti anche sulla sua sicurezza futura. Potrebbe ripresentarsi uno scenario che sembrava scomparso per sem­ pre, basato sul vettore strategico della saldatura fra il Sistema dell’Europa Centrale, d’impronta germanica, e il Sistema balcano-turco, e poi medio­ rientale, fino all’Asia Centrale, d’impronta ottomana. E un’ipotesi di riag­ gregazione strategica ancora in fieri, ma che nel passato ebbe un conside­ revole peso nel determinare il destino dei Balcani e del Medio Oriente. Per ora si tratta di un progetto embrionale non condiviso da tutti, molto difficile da realizzare per le reazioni politiche che potrebbe immediata­ mente sollevare, scatenando sia l'opposizione russa che quella araba, e pro­ babilmente anche quella di parte dell’Europa occidentale. Tuttavia esiste come ipotesi politica in quanto rappresenta una costante geopolitica e stra­ tegica che fino al 1914 aveva funzionato piuttosto bene nel contenere la Russia zarista e l’Inghilterra, la cui durata e saldatura ideale venne inter­ rotta solo dalla fine dell’equilibrio europeo con la sconfitta tedesca e otto­ mana del 1918. Tale ipotesi geostrategica, se prendesse davvero corpo, potrebbe con­ tribuire alla stabilizzazione di una fascia territoriale di Nazioni ed etnie in fermento, imponendo un’alleanza egemonica difensiva e di controllo turco-tedesca, con funzioni di garanzia e anche di sviluppo economico dell'intera area regionale. Ma al di là di questi scenari virtuali forse troppo in anticipo rispetto

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I Sottosistemi

alla realtà politica, la sicurezza attuale del Mediterraneo, deve risolvere alcuni problemi strategici immediati e prioritari. In particolare deve scio­ gliere gli interrogativi relativi alla strategia «aeronavale» della Nato che tuttora rappresenta il corpo dottrinale più articolato dell'intero bacino. I difetti di quella strategia erano già evidenti al tempo della Guerra Fredda. Oggi lo sono ancora di più. La dottrina Nato verso il «Fianco Sud» è in contraddizione con il resto della dottrina dell’Alleanza. Mentre sul Fronte Centrale e Settentrionale prevaleva una dottrina di taglio ter­ restre e continentalista, dato che lo scontro avrebbe dovuto aver luogo in Germania, per il Fianco Sud, la dottrina aveva, per ovvie ragioni, una logica aeronavale. La marginalità del Fianco Sud era evidente, perfino nella sua deno­ minazione. I fronti terrestri erano separati (Soglia di Gorizia, Tracia Orien­ tale, Caucaso turco) mentre il raccordo veniva esercitato dalla VI Flotta americana che svolgeva due funzioni diverse, e per certi aspetti incom­ patibili, l’una in quanto parte integrante della Nato e l’altra come stru­ mento di guerra degli Stati Uniti nella sua veste di Superpotenza. La fine della Guerra Fredda ha però spogliato la VI Flotta di molte delle sue prerogative, riducendone l’entità navale, limitando il personale da sbarco, e soprattutto liquidando la sua principale missione che era quella di controllare (ed eventualmente distruggere) la V Eskadra sovie­ tica, oltre alla Flotta del Mar Nero. Ne è derivata una ridondanza delle funzioni strategiche tradizionali in un contesto radicalmente modificato. È evidente che oggi il ruolo più significativo dovrà essere svolto dalle Marine minori, come quelle ita­ liana, francese o spagnola, che potranno esercitare il «sea-control» della linea orizzontale di confine, con continuità e strumenti di intervento a terra. Ma i limiti operativi e finanziari delle Marine militari dei paesi Nato sono ben noti al punto che sempre più frequenti sono ormai gli interventi di supporto in Mediterraneo delle navi di alleati non rivieraschi, dalla Germania all’olanda e al Belgio, alla Gran Bretagna, che hanno visto annullarsi per «scomparsa del nemico» gran parte dei propri compiti ope­ rativi nel Baltico e nel Mare del Nord. Ma anche questo tipo di sicurezza strategica è insufficiente. La difesa della sola linea sul mare non è in grado di fermare né l’immigrazione clandestina di uomini (o terroristi) dal Maghreb, dal Medio Oriente o dai Balcani, ma neppure di garantire l’afflusso delle materie prime energeti­ che (petrolio e gas) se non si potrà anche esercitare una qualche forma di controllo sul territorio dei Paesi della sponda Sud. Tale opzione, in caso di crisi o di conflitto interno a quei Paesi, è di difficile esercizio perché le Marine militari e le Forze di pronto intervento

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sono limitate e del tutto insufficienti qualora si trattasse di intraprendere delle operazioni prolungate e impegnative come è oggi il caso della Bosnia e domani chissà. Il controllo delle acque non è il controllo delle terre e del retroterra. La dottrina aeronavale, sulla quale si fonda il nostro sistema di sicurezza nell’area mediterranea, è quindi insufficiente se non si costituiscono delle «expedition forces», basate su pacchetti operativi interforze, per inter­ venti rapidi, efficaci, al di là del confine e del mare. Sul piano strettamente difensivo, d’altronde, è praticamente impossibile garantire un controllo costiero totale, così come è per il momento impos­ sibile prevenire attacchi lanciati con vettori balistici convenzionali o chi­ mici contro il territorio nazionale o dell’alleanza, per i quali non esistono ancora, tranne che nell’arsenale statunitense, mezzi di reazione efficaci. Di fronte a questa serie di nodi irrisolti la sicurezza del Mediterraneo potrà essere impostata nelle sue linee generali assumendo alcuni principi che dovrebbero gradualmente trasformarsi in dottrina e regole di con­ dotta permanenti: 1. la sicurezza è un bene che può essere ottenuto in vari modi, acqui­ standola, negoziandola, isolando i focolai e favorendo l’integrazione del­ l'Europa nel Sud Mediterraneo. Si tratta di un processo lungo, interval­ lato da momenti di forza e di diplomazia, ma non impossibile. 2. Nel frattempo sarà però necessario mantenere un cordone sanita­ rio stretto e solidale fra paesi Nato e del Nord, spingendo il Sud Medi­ terraneo a interagire con se stesso, aprendo le contraddizioni del mondo arabo, sia nei confronti della Turchia che dell’Africa Nera. 3. L’area più precaria resta naturalmente quella del triangolo balca­ nico dove è impossibile pensare nel tempo breve ad una soluzione paci­ fica. L'alternativa è semplice e sarà quella di accettare una «pace senza giustizia» imposta dai Serbi, ovvero imporre una «pace con giustizia» prima che la componente islamica si rafforzi troppo e i Serbi aprano il fuoco trascinando nel conflitto almeno altri cinque stati (Albania, Gre­ cia, Bulgaria, Macedonia, Turchia), col rischio di resuscitare antiche illu­ sioni russe e quindi tedesche sul controllo dell’area. Le prospettive della sicurezza collettiva e occidentale del Mediterraneo sono quindi strette fra queste due ipotesi:

a) linea di confine invalicabile nella prima fase; b) lenta integrazione economico-sociale e poi politico-culturale delle due sponde nel lungo periodo.

Spetterà però ai principali Paesi rivieraschi della sponda Nord, e ai

8. C.M. Santoro: Studi di geopolitica

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loro principali alleati, trovare una soluzione che non si trascini fra inter­ minabili negoziati astratti per la formazione di ipotetiche strutture isti­ tuzionali, come era stato il piccolo miraggio della CSCM, né che si basi su una politica reattiva e tardiva, fondata sull'egoismo miope delle buone intenzioni e dell’assenza di idee.

Il caso Italia

Le istituzioni della sicurezza hanno disegnato la geografia del dopo­ guerra in Europa secondo gli assi di divisione militare prima e politico­ ideologica poi, determinati dall'esito della Seconda Guerra mondiale. La politica delle alleanze tradizionali con la Germania al centro dello scacchiere - come era stato fin dal 1871 - si traduce in un Sistema di si­ curezza bipolare contrapposto, avente i caratteri di un duello. La semplificazione della politica alla forma-duello riduce la comples­ sità delle relazioni fra alleati e quella fra avversari alla doppia formula dei giochi a somma zero (gioco degli avversari) o dei giochi a somma non zero (o di cooperazione) nel gioco degli alleati. Nel caso del gioco degli avversari l’analisi delle relazioni bipolari è sta­ ta lucidamente descritta dal celebre studioso di Harvard Th. Schelling, fin dal 1960 in «Strategy of Conflict» e «Arms and Influence» (1962), e poi da Kahn (1960). Nel caso del gioco degli alleati, invece, il gioco a som­ ma non zero non è stato molto approfondito. Non si è andati al di là del­ la coppia di opposizione «soffocamento/abbandono». Poco o nulla è stato scritto sulle alleanze «asimmetriche», (Colombo, 1992), nonché sui rischi di marginalizzazione degli attori minori. In parti­ colare non sono state studiate le relazioni di sicurezza in termini di diffe­ renza fra rischi e/o delle minacce, in termini di divaricazione delle dottri­ ne strategiche (es. Fronte Centrale e Fianco Sud), in termini di relazioni esterne all’alleanza con gli attori periferici dell’alleanza contrapposta. Nell'alleanza Atlantica, intesa come Modello bipolare di alleanza asim­ metrica, difensiva e militare, gli attori minori hanno trovato un ruolo spe­ cifico nel sistema di sicurezza mediante lo scambio protezione-ubbi­ dienza. Nei sistemi-duello, infatti, i processi di omologazione delle vo­ lontà sono più incisivi nelle fasi di tensione, meno in quelle di distensio­ ne. È sufficiente che vengano salvaguardati gli interessi primari e di so­ pravvivenza per garantire la solidità dell’alleanza. Nel caso dell’Italia il procedimento di adesione al sistema atlantico avvenne per gradi fra il 1943 e il 1948. Il problema principale non era tanto quello di contratta­

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I Sottosistemi

re i ruoli e le funzioni dell’Italia nella comunità euroatlantica, quanto quello di essere accettati. Uscita sconfitta - e quindi «deidentificata» nel ruolo di Grande Potenza - dalla 2a Guerra Mondiale, l'Italia non ha avu­ to alcuna possibilità di ritagliarsi una parte attiva nell’alleanza. Va inol­ tre aggiunto che l’Italia entrò a far parte della Nato fin dal 1949, primo fra i sette paesi «nemici» della guerra, sei anni prima di entrare a far par­ te delle Nazioni Unite. La peculiarità, quindi, della posizione italiana nella Nato è da attri­ buirsi alle modalità del suo ingresso nell’alleanza. È stato anche detto che l’ingresso italiano nella Nato può essere pa­ ragonato all’inserimento meccanico di uno spazio territoriale, quello ita­ liano appunto, all'interno del più grande spazio egemonizzato dagli Sta­ ti Uniti, esclusivamente per ragioni geopolitiche e geostrategiche di con­ trasto nei confronti delle tendenze espansive dell’altro blocco. Si sarebbe trattato di una funzione, quindi, di garanzia dei conflitti del blocco occidentale e di «territorio d’uso» per il dispositivo militare di­ fensivo americano in Europa Meridionale e nel Medi terraneo. Fra il 1949 e il 1990 la struttura dell’alleanza non si modificò mai. Il Fian­ co Sud mantenne il suo carattere geostrategico basato sulla logica «aero­ navale» del sea-control e del potere marittimo. I tre teatri separati (Gorizia, Tracia, Caucaso), legati concettualmente e operativamente insieme dal linka­ ge della Flotta statunitense, mantennero il loro carattere periferico, anche rispetto alla dottrina dominante sul Fronte Centrale, che era essenzialmen­ te «aeroterrestre». La logica strategica della Nato era infatti three-fold: ae­ roterrestre sul fronte intertedesco; aeronavale e «-From-the-Sea» nei fianchi Nord e Sud; marittima e quindi di «sea control» in Atlantico, mare del Nord e Canale. Il crollo del Sistema Est nel 1990 e l'unificazione della Germania, non­ ché la riconcettualizzazione della dottrina Nato nel 1991, hanno messo in luce per la prima volta non solo la necessità di rivedere i cardini poli­ tici e militari dell’alleanza in quanto tale, ma anche la fragilità della fi­ losofia Nato di alcuni attori minori, a cominciare dall’Italia. L’Italia, che non ha ancora fatto alcuna riflessione approfondita sul proprio ruolo na­ zionale, deve ora fare ciò che De Gaulle e la Francia hanno fatto provo­ cando scandalo: e cioè evitare sia il «soffocamento» che l’«abbandono» registrando cioè il tiro nel ruolo da svolgere nell’alleanza, identificando gli interessi nazionali della sicurezza in relazione a quelli di blocco. La dottrina centrale della Nato assegnava infatti all’Italia un ruolo geo­ strategico che possiamo definire come «misto», di base operativa e di rifornimento, e quindi logistico e al tempo stesso di fronte difensivo in­ terconnesso mediante le forze navali e da sbarco della 6a Flotta USA.

Il caso Italia

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Dal punto di vista geopolitico l’Italia era quindi «protetta» a Sud dal controllo navale del Mediterraneo e ad Est dalla fascia dei paesi neutra­ li sulla frontiera orientale (Austria, Jugoslavia). La funzione geopolitica dell'Italia era quindi secondaria dal punto di vista operativo, ma primaria dal punto di vista logistico. In ogni caso con­ sisteva nella utilizzazione del territorio nazionale italiano per scopi es­ senzialmente geopolitici, strutturali quindi e non di congiuntura. Lo «spa­ zio organizzato» italiano non veniva associato dunque all’alleanza in quan­ to rappresentazione territoriale di un attore politico indipendente, ma so­ lo in quanto spazio definito, relativamente autonomo. Di qui quindi l'assenza di una elaborazione concettuale dei termini del­ la sovranità nazionale italiana, che doveva invece ricollegarsi sempre più, per essere individuato, alla filosofia generale dell'alleanza. Si può perfino aggiungere che la strutturazione originaria, e l’evoluzione periodica del mo­ dello di difesa italiano, della sua politica militare e della sicurezza, sia sta­ ta sempre una derivazione e un adattamento residuale della strategia e del­ la tattica della Nato. Ne è derivato che l’alleanza atlantica non ha trovato nell’Italia un in­ terlocutore cui potesse essere applicato agevolmente il «gioco degli al­ leati». Nel gioco degli alleati, infatti, la differenza tra interessi «genera­ li», comuni a tutti i membri dell’alleanza e che sono la ragione prima del­ la formazione dell’alleanza, e interessi «particolari» che possono config­ gere anche fra alleati, caratterizza il modo in cui l'alleanza si costituisce e, soprattutto, continua ad operare. Nel caso dell’adesione italiana alla Nato, e poi nel suo lungo percorso di quasi mezzo secolo, la diversità fra interessi generali e particolari non è praticamente esistita. Al contrario, la ridotta statura della sovranità italiana ha fatto sì che gli interessi «par­ ticolari» italiani non emergessero, e soprattutto non configgessero con quelli dell'attore leader di blocco, gli Stati Uniti. È stato solo con l’accrescersi dei fenomeni di «diffusione di potenza», che hanno gradualmente logorato la tenuta interna dei due blocchi ed aumentato le spinte centrifughe rispetto a quelle centripete, che la di­ versità e il contrasto sono venuti parzialmente affiorando. Ci si riferisce qui ad alcuni «casi» dimostrativi, come quello dell’Achille Lauro e di Sigonella (1985) e pochi altri. Tuttavia la sproporzione di forza e di ruolo fra l’attore maggiore e l’I­ talia era pur sempre così ampia da impedire sia una resistenza attiva, neppure necessaria, sia l’opzione di una sottoalleanza di alcuni attori eu­ ropei nei confronti del leader di blocco. Il dilemma «secondario» delle alleanze, quindi, non si è mai presen­ tato all’Italia come una realtà. Di qui la sua possibile definizione come

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regione autonoma della Nato, piuttosto che come attore nazionale dav­ vero indipendente. Queste le ragioni genetiche della carenza di strategia tout azimouth che l’Italia, come tutti gli altri attori dell’Alleanza Atlantica, avrebbe po­ tuto (o dovuto) avere. Perfino attori secondari e minori, come il Porto­ gallo e il Belgio, hanno avuto una strategia della sicurezza - al di là di quella loro imposta dall’adesione alla Nato - che denotava un carattere strettamente nazionale (si pensi alla politica atlantica e africana del Por­ togallo, ovvero alla politica congolese del Belgio). È poi sorprendente in modo particolare il fatto che l’Italia, localizzata nel mezzo del Mediter­ raneo, non abbia neppure imbastito una struttura navale e aeronavale nei confronti dei dirimpettai della Sponda Sud o del Mediterraneo orientale ed Egeo, al di fuori di quella imposta dalla dottrina Nato. Né lo ha fatto verso la Jugoslavia e l'Austria, attori esterni alla pianificazione Nato, ma limitrofi a noi. Letta in questa chiave la collocazione dell’Italia all'interno di un si­ stema di alleanze permanenti, asimmetrica e stellare nel caso della Na­ to, acentrica e paritaria nel caso della CEE, e quindi in seno a istituzio­ ni della sicurezza predeterminate e definite, invece di trasformarsi in una valorizzazione delle capacità e potenzialità del paese, si è tradotta in ri­ nuncia alla presenza politica attiva e all’iniziativa originale. Se questo contesto geostrategico fosse durato indefinitamente, i van­ taggi che si traevano dalle istituzioni della sicurezza in termini di prote­ zione e di economizzazione delle risorse sarebbero stati probabilmente maggiori dei costi pagati in termini di obbedienza e di riduzione del ruo­ lo intemazionale. Ma poiché la fine del criterio bipolare ha fatto saltare gli equilibri pre­ cedenti, aprendo ima fase nuova in cui vengono riclassifìcate sia le relazio­ ni che i pesi relativi e si tenta di stabilire un equilibrio (si pensi alla dimi­ nuzione del ruolo americano e alla crescita di quello tedesco), l’evanescen­ za italiana diventa a questo punto un problema di primaria importanza. Il collasso del sistema Est ha infatti aperto una serie di opportunità-ri­ schio nell’area danubiano-balcanica per i quali non esiste alcuna predispo­ sizione concettuale. In Italia questa occorrenza inaspettata ha provocato una tanto affannosa quanto casuale risposta delle autorità di governo nel mezzo di una crisi politico-istituzionale interna che non consente la rifles­ sione collettiva sul ruolo dell’Italia nel suo contesto regionale. Lo stesso dicasi per l'estrema fragilità del sistema Sud, in preda a vio­ lente contrazioni interne di tipo ideologico e religioso, nonché all’evi­ denza esplosiva del fenomeno demografico e migratorio. In entrambi i teatri (Est e Sud) il molo dell’Italia non può essere al­

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tro che crescente, e necessariamente più rilevante. Questo sia in termini di riconcettualizzazione e definizione dell’ambito geostrategico del pae­ se, sia in termini di evoluzione della struttura delle alleanze multilatera­ li (NATO, UEO, Unione Europea, ecc.), sia nel quadro di una «specializ­ zazione» bilaterale dei rapporti con gli alleati e la identificazione, preci­ sa e sinergica, degli interessi comuni, anche con la Germania, riguardo l'asse danubiano-balcanico-adriatico, ovvero con la Francia e la Spagna per la sicurezza del Mediterraneo centrale e Occidentale. La punta più estrema, anzi il vero angolo d'incidenza Sudorientale del­ l'Europa Occidentale è l’Italia Meridionale. In particolare la Puglia, la Ca­ labria Jonica e la Sicilia. In questa sua oggettiva e geografica posizione di cuneo angolare fra Est e Sud la collocazione spaziale dell'Italia meridionale è, di per sé, ga­ ranzia della sua funzione strategica crescente. L’operazione «Sharp Guard», non a caso, può essere considerata co­ me la prova generale, e al tempo stesso la dimostrazione, di questa fun­ zione potenziale. La penisola balcanica, infatti, pur essendo parte dell'Europa, rischia di perdere i suoi connotati nella guerra di Bosnia. Albania e Macedonia sono dei caposaldi indeboliti, mentre Grecia e Turchia sono sempre più divise dalla emergenza di opposizioni culturali e religiose inconciliabili. La Serbia sta gettando involontariamente le basi di uno Stato musulma­ no balcanico, asse di penetrazione dell’IsIam verso l’Europa Centrale. I Balcani, quindi, tendono a diventare sempre meno Europa. Il prolungamento dei Balcani in Anatolia, Caucaso e Asia Centrale si raddoppia nel prolungamento verso il sistema arabo-musulmano a Sud (Medio Oriente e Maghreb), che sta costruendo la cerniera di blocco del Mediterraneo. L’accerchiamento a tenaglia dell’occidente è stato avviato ed è quasi completo. Il ruolo dell’Italia nel Mediterraneo diventa, quindi, centrale, non so­ lo rispetto alle minacce e ai rischi crescenti provenienti da Est e Sud, ma anche come punta avanzata dell’Europa verso le aree più calde. Altret­ tanto importante è l’Italia per il controllo dell’ex Jugoslavia attraverso la funzione di base logistica e retrovia di qualsiasi azione verso la cerniera fra Balcani e area Danubiana. L’evidenza di questo ruolo è dato dall’es­ senzialità delle basi settentrionali italiane nell'operazione «Deny Flight». Di rilievo è inoltre il fatto che mentre l’area Est-Sud è oggettivamen­ te a rischio, l’area Est è per ora in una fase di transizione, relativamente pacifica, di cui la evoluzione della «Partnership For Peace» è un esempio tutto sommato tranquillizzante. L’Italia, quindi, nelle sue due versioni geografiche (peninsulare e con-

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tinentale), può essere ormai considerata come la base più avanzata del­ l’Europa Occidentale e Centrale verso le zone a maggior rischio. Questa consapevolezza non ha però ancora trovato spazio nella concezione stra­ tegica delle istituzioni multilaterali (NATO, UEO), se non per via oggetti­ vamente operativa. Politicamente, infatti, il tema non è ancora stato affrontato, né in Italia né all’estero, perché va contro il paradigma strategico europeo tradizionale ed euroamericano basato sulle dottrine terrestri (aeroterrestri), e quindi continentaliste, di cui anche l’Eurocorps (Franco-Tedesco allargato) è un esem­ pio simbolicamente rilevante. Ma a che serve un Eurocorps centro-occi­ dentale quando le necessità di sicurezza europea si sono tutte spostate ver­ so la frontiera orientale e meridionale del continente? Il problema allora, in questa chiave, consiste nel rovesciare l'imposta­ zione aeroterrestre in aeronavale e «from the Sea». Tale conversione di mar­ cia implicherebbe, però, la necessità di rivedere alle radici la strategia NA­ TO, dal 1949 in poi. Ma costringerebbe anche a riesaminare il ruolo «occi­ dentale» dei Balcani, col rischio di rifiutarlo, mettendo così in discussione anche la «occidentalità» di Grecia e Turchia che, fintanto che la Russia eser­ citava una forte pressione da Est, era certamente indiscussa, ma che ora, con la logica conflittuale balcanica, è perlomeno discutibile. A meno che non ci si proponga di «scegliere» fra le parti in lotta nei Bal­ cani, cioè fra i Serbi e i Musulmani, optando per questi ultimi. Solo così si potrebbe immaginare una continuità strategica difensiva del «limes» orien­ tale e anche Meridionale dell’Europa, attraverso l’associazione della Turchia alla Germania e alla sua area, inclusa la Croazia e la Slovenia. In ogni caso, la funzione dellltalia come penisola orientale dell’Euro­ pa Occidentale verrebbe accentuata, e la relazione italo-tedesca, diretta a «meridionalizzare» e «navalizzare» la dottrina continentalista della NA­ TO e dell’UEO, diventerebbe un asse strategico di primaria importanza per la sicurezza della nuova Europa. D’altronde il braccio di mare mediterraneo, a Est (Adriatico e Ionio) come a Sud (Mediterraneo Centrale e Occidentale), non ha le caratteri­ stiche marittime tipiche dei bacini oceanici. Lago fra le terre dei tre con­ tinenti del mondo antico, il Mediterraneo conserva tracce della sua am­ bivalenza terrestre e navale di cui la peninsularità italiana è il simbolo concreto. Quindi la riconversione politico-strategica e geopolitica degli alleati europei, a cominciare dalla Germania, non dovrebbe comportare un ribaltamento concettuale integrale, ma anzi potrebbe legare insieme, in un quadro di cooperazione interforze più aggiornato, le diverse com­ petenze e specificità sia aeroterrestri che aeronavali. In conclusione, l'Italia è gradualmente diventata il perno di forza po­

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tenziale e al tempo stesso l'angolo d’incidenza geopolitico, stabile bastione difensivo verso rischi e minacce provenienti sia da Est che da Sud. L’Italia può quindi essere considerata come l’antemurale naturale eu­ ropeo rispetto ai Balcani e al Mediterraneo Orientale. Verso il Sud, invece, stabilita e verificata la necessità di rinforzare la linea di separazione delle due sponde del Mediterraneo, l'interesse co­ mune dell’Italia con la Germania deriva dalla comune posizione dei due paesi, che costituiscono una continuità territoriale e che quindi rappre­ sentano sia il cuore culturale dell’Europa sia la divisione geografica fra Europa Occidentale e Europa Orientale. La relazione fra Germania e Ita­ lia secondo questa lettura potrebbe diventare, ancora una volta, la misu­ ra attuale della relazione fra Asia ed Europa.

Nazionalismo e sviluppo politico nell’ex URSS

1. Il problema I due concetti che sono compresi nel titolo di questo capitolo e del­ l'intera ricerca che abbiamo svolto, quello di «nazionalismo» e quello di «sviluppo politico», sono deliberatamente giustapposti. A prima vista si potrebbe dire che il nazionalismo è un fenomeno del tutto distinto dallo sviluppo politico il quale, per definizione, presuppone una razionalità e complessità della politica, e quindi una teoria della modernizzazione, che il nazionalismo, soprattutto nella lettura fin qui accettata dai più, non possiederebbe, ma anzi se ne discosterebbe radicalmente. Il pensiero convenzionale sostiene infatti che tanto più l’orientamento politico nazionalista diventa prevalente, tanto più si riduce la razionalità della politica, la quale verrebbe invece affidata a valori indimostrabili e a complessi mito-simbolici poco strutturati o differenziati1. Ne deriverebbe quindi una forma della politica di tipo semplificato nel quadro di un pro­ cesso crescente di omogeneizzazione delle affinità, e al tempo stesso di discriminazione delle diversità. Traendo le logiche conseguenze da queste premesse, si avrebbe allora un’incompatibilità evidente fra le due formule che renderebbe euristicamente invalida, e quindi inutile, ogni ricerca sul link esistente fra i due concetti generali. La nostra ipotesi interpretativa, che fa da sfondo a questo lavoro, è invece proprio di segno contrario. Vale a dire che l'analisi ravvicinata delle forme tradizionali e contemporanee del «nazionalismo», non solo ci autorizza a metterlo in relazione con la teoria dello «sviluppo politico», ma anzi che questa relazione acquisisce un valore esplicativo particolarmente signifi­ cativo per la conoscenza dell’intero fenomeno dell’evoluzione dei sistemi

1 Smith, 1991.

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politici. In particolare, le insorgenze nazionaliste o etnopolitiche2 di cui siamo testimoni oggi in Europa centro orientale e nell’ex URSS sembrano conferire un valore dimostrativo eccezionale alla tesi dell’indissolubile legame interat­ tivo fra «nazionalismo» e «sviluppo politico» che, nel passato, poteva appa­ rire meno evidente. E ciò anche se a ben guardare, per molti nuovi attori nazionali emersi nel Terzo mondo dalla dissoluzione degli imperi coloniali europei, l’adozione delle categorie del nazionalismo, inteso come teoria e strumento della modernizzazione aveva già avuto il suo banco di prova e si era spesso tradotto in procedure di differenziazione e/o di omogenizzazione di sistemi politici primitivi, molto divisi al loro interno, nonché fra culture e tradizioni prepolitiche che prefiguravano, se non anticipavano il Modello che oggi abbiamo sotto gli occhi nel mondo postcomunista. In altri termini, l’ipotesi da cui muoviamo per analizzare il fenomeno dell'agire politico nell’Europa ex sovietica, e più in generale nell’ex URSS si basa sull'assunto che la nazionalizzazione della politica, nelle due forme della «etnicizzazione» e/o della «regionalizzazione», può contribuire ovvero farsi strumento dello sviluppo politico di quell’area. Il nostro scopo è quindi quello di verificare se e fino a che punto l’at­ tuale fase di turbolenza e di riorganizzazione geopolitica e sistemica dell’Est sia marcata dall'intreccio fra nazionalismo e sviluppo politico, assumendo che questo processo possa diventare il percorso, ovvero il canale obbligato, attraverso il quale i fenomeni politici, la rappresentanza, la transizione o - se si vuole - la «democratizzazione», saranno costretti a passare. Ovviamente, il discorso «evoluzionistico» della cultura e dei sistemi politici muove da un assunto, tutto sommato indimostrabile, che pre­ suppone una gerarchia della «modernizzazione», o come si diceva un tempo, della «civilizzazione» e delle «fasi» o «forme» dello sviluppo poli­ tico3. D’altra parte, però, anche le più recenti teorie non «eurocentriche», né «eccentriche», come quelle della molteplicità dei poli della «civiltàcivilizzazione», dell’autonomia e del parallelismo dei cicli evoluti della cultura, e quindi anche da un punto di vista strettamente «tecnico», le forme del «relativismo» culturale, ovvero i punti di vista «extraeuropei» e non «romano germanici»4, hanno subito molti rovesci a seguito del crollo del comuniSmo asiatico o latinoamericano e del drastico ridimen­ sionamento della illusione progressista.

2 Rothschild, 1981. 3 Spengler, 1918-22; Toynbee, 1957, 1985.

4 Trubeckoj, 1920, 1982.

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È del tutto evidente comunque che questa scala decrescente della «civiltà» politica, e quindi dello «sviluppo» politico, sarebbe del tutto arbi­ traria se fosse solo la rappresentazione di un sistema di valori che orga­ nizza la civiltà a partire dall’Europa romano-germanica. Diventa però più accettabile se la si spoglia di questo ordine interno di valori e acquisisce invece una valenza neutrale basata sulla semplice osser­ vazione empirica dei processi di differenziazione delle funzioni, di costru­ zione di arene politiche per una pluralità di soggetti politici, di regole del gioco, di istituzioni legittimate. In questo senso, dunque, senza alcun richiamo a giudizi di valore, sarà allora possibile utilizzare la giustapposizione fra nazionalismo e sviluppo politico, intesa come una relazione interattiva fra movimenti emergenti e sofisticazione del campo di gioco. La nostra tesi risulta dunque essere la seguente: la nascita e il conso­ lidamento dei movimenti nazionalisti nelle diverse aree della vasta regione che ad Est di Berlino giunge fino a Vladivostok, originariamente orien­ tati all'acquisizione di una maggiore autonomia amministrativa e cultu­ rale, successivamente volte alla conquista della sovranità giuridica e poli­ tica, fino all’ottenimento della vera e propria indipendenza nazionale, che solo successivamente si sono trasformati in partiti veri e propri, sia pure di tipo primitivo, ha messo in moto un meccanismo di politicizza­ zione, originaria e spontanea, che presenta quasi tutti i tratti dell’inte­ razione politica di tipo moderno fra attori diversi (èlites e masse). Tale proce^ò di formazione si è manifestato nelle forme della politicizzazione class/ca, sollecitando oppositori di segno diverso, creando istituzioni pub­

bliche, ma anche canali di elaborazione della domanda e del consenso, organizzando cioè la forma-partito e sistemi di partito che trasformano il «diffuso e disarticolato sentire del nazionalismo in ciò che si potrebbe chiamare lo «spirito di cittadinanza»5. E quindi avviando dei processi di sviluppo politico moderno rispetto alla cristallizzazione, paralizzante e premoderna, delle strutture totalitarie indifferenziate e amministrative dei precedenti regimi comunisti.

2. Il nazionalismo Per comprendere le modalità di questo fenomeno innovativo, fondato non già sull’astrazione di una teoria politica sovrapposta agli attori, ma 5 Pye, 443 in Sartori, 1970.

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invece sul basamento politico-culturale dell'idea etnopolitica, ovvero del nazionalismo territoriale, è però necessario anzitutto chiarire il senso dei due concetti principali, quello di nazionalismo e quello di sviluppo politico. Il revival del nazionalismo, etnico o civico, è un fenomeno che solo di recente ha ritrovato una certa credibilità scientifica presso gli studiosi di scienza politica, in quanto ha dimostrato fattualmente di essere ancora una volta un fattore decisivo nella dissoluzione strutturale e spaziale e/o nella riorganizzazione dei sistemi politici, anche all’interno di quegli Stati europei la cui storia postbellica aveva fatto pensare che ne fossero ormai del tutto immuni6. In effetti, durante questo mezzo secolo, i fenomeni di tipo nazionali­ stico parevano essere confinati aH’intemo della dinamica politica di molti attori extra-europei, e in particolare del Terzo Mondo afro-asiatico, dove le spinte nazionaliste avevano, in molti casi, assunto i tratti dei movi­ menti di liberazione anticoloniale, e antimperialista, di stampo marxista, nelle versioni terzomondiste del socialismo autoritario, ovvero le forme ambigue della ricerca di identità nazionali incerte e conflittuali7. Per quanto riguarda l’Europa del dopoguerra, invece, le teorie del nazionali­ smo furono generalmente considerate come fasi superate del processo di evoluzione politica e, quindi, obsolete rispetto alle ben più sofisticate e convincenti teorie cosmopolite e universaliste di tipo democratico-istitu­ zionale, normativo-funzionalista o radicali-rivoluzionarie che, per decenni, hanno occupato l’intero spazio ideologico della teoria politica all’intemo del sistema bipolare. In particolare, le diverse forme di nazionalismo vennero etichettate in blocco con il marchio negativo del fascismo, del nazismo o del militarismo, seguendo in questo le linee tradizionali di quell’interpretazione politica e storiografica, già emersa durante il ventennio fra le due guerre mondiali, e soprattutto in conseguenza dell’esito del secondo conflitto globale, che appiattiva ogni forma di nazionalismo sull’esperienza estrema dell’ipernazionalismo hitleriano8. Nell’Unione Sovietica, staliniana e post-staliniana, questo principio di arbitraria equiparazione fra nazionalismo e nazifascismo, diventò un luogo comune della propaganda politica della sinistra marxista e della dottrina operativa di conduzione di uno stato multietnico totalitario.

6 Gellner, 1983; Breuilly, 1982; Hobsbawm, 1990; Deutsch, 1953; Greenfeld, 1992; Mayall, 1990; Rothschild, 1981; Smith-Seton-Watson, 1977; Snyder, 1990; Kohn, 1957.

7 Horowitz, 1985.

8 Mosse, 1968; Neumann, 1981; Deutsch, 1953; Hobsbawm, 1990.

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Il nazionalismo venne quindi considerato, in Europa Occidentale, come un fenomeno residuale e negativo, portatore di disvalore politico, così che anche il generale De Gaulle, il quale sottolineava il significato politico posi­ tivo della sovranità nazionale francese, venne tacciato di passatismo e con­ trapposto per anni sia al federalismo europeista sia all'atlantismo euro-ame­ ricano. D’altra parte, ogni forma di nazionalismo etnico venne costantemente interpretata come una minaccia grave all’integrità dello stato fede­ rale, in Jugoslavia come in URSS e in tutto il sistema satellitare comunista sovietico, quindi come un’ideologia piccolo-borghese da condannare senza appello, mentre per converso veniva esaltato come un fattore progressista e positivo nel caso in cui l’ideologia nazionalista scaturisse dai movimenti di liberazione negli imperi coloniali ancora soggetti alle potenze europee. La contraddizione logica fra queste due valutazioni del fenomeno nazionalista non era immediatamente evidente, anche se, in molti casi, il collegamento oggettivo e soggettivo fra il nazionalismo etnico europeo, basco, irlandese o corso, e il nazionalismo territoriale extraeuropeo, pale­ stinese, algerino, libico o angolano, che era un fatto concreto e spesso operativo, diventò successivamente un ostacolo concettuale e quindi un elemento di conflitto, anche teorico, circa la definizione del concetto di nazionalismo, sia in Europa Occidentale che Orientale. Solo dopo la crisi finale del sistema comunista e la dissoluzione delle federazioni jugoslava e sovietica, a seguito dell’insorgere di movimenti e partiti nazionalisti o etnopolitici in varie parti della regione, si è riaperto il problema di identificare le coordinate politiche del nazionalismo con­ temporaneo, inteso quale forma moderna della politica9. In realtà fra le molte definizioni possibili del nazionalismo, in termini strettamente politologici1011 , quella che più ci sembra rispecchiare in modo sintetico e neutrale le dimensioni e i caratteri del fenomeno, è probabil­ mente quella di Ernest Gellner che sostiene, fra l’altro, come «il nazio­ nalismo sia una teoria della legittimità politica che esige che i confini etnici non siano violati da quelli politici» ". Ben diversa quindi dalle più comuni accezioni del nazionalismo inteso come «ideologia nazionale di una formazione politica determinata la quale si sovrappone alle ideolo­ gie dei partiti e tende ad assorbirle» che generalizza un'esperienza sto­ rica determinata, come quella fascista, attribuendole valore esemplare12.

9 Breuilly-Rothschild, op. cit.

10 Snyder, op. cit.

11 Gellner, 1983, ed. it. 1985, p. 4. 12 M. Albertini in Lucio Levi, voce «Nazionalismo», in Dizionario di politica, p. 689 ss.

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Ovviamente, la definizione di Gellner, che pure comprende al suo interno le due anime primigenie del nazionalismo, quella basata sullo «jus sanguinis» (etnia) e quella basata sullo «jus soli» (territorio), non è del tutto sufficiente, né onnicomprensiva, anche se ricomprende al suo interno sia la questione dell’etnopolitica sia quella dello Stato-nazione, sia quella del suo uso strumentale nei processi di nation-building, di statebuilding e di sviluppo di un sistema politico modernizzato,3. In effetti un’altra definizione che può integrare, arricchendola, quella di Gellner13 14, è quella che troviamo in Rothschild15 quando sostiene come il processo di «politicizzazione dell’etnicità» sia alla base del fenomeno nazionalista e abbia come orizzonte quello della trasformazione, attra­ verso la formazione di «imprenditori della etnicità politicizzata», dei gruppi etnici in «gruppi di conflitto politico operanti nell’arena politica moderna» (p. 3). Hetnicità, quindi, forma originaria del nazionalismo è il punto di par­ tenza di un percorso di modernizzazione che ne valorizza il processo, non solo in termini strettamente razionali e illuministici, ma anche per­ ché risponde a necessità non politiche, pre-politiche, o solo incipienti politiche, come sono quelle emotive, culturali e morali, dando perciò un senso compiuto, e in sostanza una giustificazione legittimata, al processo di razionalità tecnocratica della modernizzazione politica (p. 5). Questa interpretazione dell’etnopolitica, intesa come motore e stimolo della modernizzazione politica, realizzata nelle varie forme di comples­ sità del nazionalismo e dei sistemi politici contemporanei, risponde bene alla nostra esigenza di trovare una griglia metodologica sulla quale veri­ ficare le dinamiche dei sistemi politici dell'ex URSS. Fornisce inoltre una risposta alla domanda iniziale circa la relazione fra nazionalismo e svi­ luppo politico.

3. Lo sviluppo politico Anche la teoria dello sviluppo politico, nata nel dopoguerra sulla scorta dell'analisi comparata della politica, e in particolare dal tenta­ tivo di notevole successo scientifico esposto nella teoria degli «stadi 13 Tilly, 1975; Rokkan, 1970; Kemp, 1967, 1969.

14 Gellner, 1983.

15 Rothschild, 1981.

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dello sviluppo» l6, cioè nella dottrina delle fasi della modernizzazione, e quindi dello sviluppo politico nelle società tradizionali e «transizionali», ha subito nel corso del tempo notevoli traversie17.Questa teoria sosteneva infatti, nelle sue diverse accezioni, l’esistenza di un trend irre­ versibile dalle società tradizionali e religiose, cioè semplici, alle società modernizzate, secolarizzate e quindi complesse, il cui punto d’arrivo finale avrebbe dovuto sempre essere quello della democrazia liberale. Secondo questa ottimistica tesi la rivoluzione scientifica e tecnica, met­ teva in movimento dei processi di trasformazione i cui indicatori stan­ dard (dalla riduzione dei tassi di mortalità all'aumento di quelli di alfa­ betizzazione, all’aumento dei livelli di reddito, comunicazione, e infor­ mazione, ecc.), avrebbero quasi automaticamente creato le premesse per la formazione dei requisiti standard della politica, estensibili spazialmente a tutti gli stati «moderni», ai quali questi sistemi di governo si sarebbero naturalmente adattati. Dopo un periodo di notevole successo scientifico, durante i decenni ’50 e ’60, quando pareva, soprattutto alla scienza poli­ tica americana, che il problema della politica fosse essenzialmente quello della transizione, lineare e gradualistica, dai modelli primitivi del sistema politico operanti nei paesi a regime politico tradizionale, o comunque non anglosassoni, a modelli di razionalità politica e di differenziazione funzionale, tipici della democrazia d'ispirazione liberale, si è avuto un costante declino di credibilità e di applicabilità1819 . L’illusione che si potessero adeguare i sistemi politici alla presunta modernità politica attraverso l’adozione di strutture costituzionali e sistemi elettorali mutuati dall'esperienza occidentale, e statunitense in particolare, calandoli dall’alto delle politiche di aiuti vincolati al mante­ nimento, o allo stabilimento, della democrazia formale e parlamentare basata su libere elezioni, si ribaltò in frustrazione quando l’esperienza del Vietnam, del Cile e di altri paesi del Terzo Mondo dimostrarono che lo sviluppo politico non era né unilineare né irreversibile e, soprattutto, non era esportabile per quella via,9. Porsi quindi il problema dello sviluppo politico, in URSS e poi in Russia, in termini di analisi della transizione e della democratizzazione20, ma anche

16 Rostow, 1993. 17 Pye, 1965, Almond-Coleman; Ward e Ruston, Deutsch-Foltz, Almond-Verba, Huntington, 1991.

18 Pye in Sartori, pp. 444-449 e Huntington, pp. 451-460; Deutsch, 1953, pp. 461474; Alter, pp. 483-492. 19 Huntington, pp. 457-460. 20 Transizione alla democrazia: Huntington, 1991 : The Third Wave.

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la teoria della «decadenza politica» contrapposta a quella dello «sviluppo», ovvero a quella delle «onde», significa affrontare una tematica complessa e mutevole in modo ambiguo e schematico. In questa chiave infatti il feno­ meno della transizione tende a essere letto come un processo quasi ine­ luttabile di evoluzione pressoché fisiologica dei sistemi politici21 dall’autoritarismo, talvolta dal totalitarismo, a qualche forma di democrazia liberal-parlamentare22. In realtà, le categorie sin qui applicate alla transizione democratica in Europa Meridionale negli anni ’70, e in America Latina negli anni ’80, sono molto discutibili se applicate al caso dell’ex URSS e dei paesi a controllo sovietico. Questa vasta area, ha infatti, caratteristiche strutturali sue proprie e deve essere analizzata in modo molto diverso da come sono stati studiati i processi di transizione dei decenni precedenti in altre regioni del mondo23. Nei casi sopra menzionati si trattava, infatti, di sistemi politici auto­ ritari, ma non totalitari, dotati quindi di spazi di autonomia e di strut­ ture economiche di mercato, sia pure primitive e segmentate, capaci per­ ciò, sia pure in modo incerto e faticoso, di mettere in moto degli auto­ matismi e dei feedback di risposta agli stimoli crescenti provenienti dal­ l’economia e dalla società. Non così in URSS, e ora in Russia, o nelle altre repubbliche ex sovieti­ che, dove i meccanismi di formazione, di controllo e di distribuzione delle risorse erano tutti nelle mani di uno Stato-partito, centralizzato e altamente gerarchico, che assegnava le risorse senza l’ausilio del mercato e in assenza di basi oggettive per il calcolo economico e la fissazione dei prezzi. Si trattava, inoltre, di regimi politici in cui, alla estrema semplifica­ zione dei meccanismi di formazione delle decisioni, basate su una catena di comando-controllo di tipo gerarchico-piramidale e, talvolta, di tipo militare, corrispondeva una mancanza di regole per la selezione dei deci­ sori, al di là delle incertezze della cooptazione informale, e in particolare non esisteva alcuna procedura riconosciuta per i meccanismi di succes­ sione dei leaders e delle èlites24. Ne derivava un sistema, semplice ma rigido, che concentrava nell’au­ torità governativo-partitica e nelle loro interazioni burocratico-corporative, i processi politico-decisionali, apparentemente senza alcun bargai­ ning con la società civile, disorganizzata e immatura. 21 SISP, Cotta, Almond, Powell e Sartori.

22 Moriino, Come cambiano i regimi politici, Milano, 1980. 23 Linz; Moriino. 24 Bialer, 1980.

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4. La formazione del sistema politico La questione dell’ibrido Stato-partito, specifico degli ex regimi comu­ nisti, e con esso il problema più generale della differenziazione sociale e politica, la classificazione e lo studio degli interessi, delle classi, dei ceti, dei gruppi, nonché le forme della loro interazione, sono un problema «genetico» basilare per qualsiasi sistema politico25, Essa si riconnette altresì alla nascita e alla formazione storica dei sistemi di partito26, ma è anche un problema più complesso e strutturato, in qualche misura col­ legato allo stesso processo di formazione dello stato. Tuttavia, nella tipologia dei sistemi politici di Almond27 e Powell28, basata sulla teoria dello sviluppo politico (fig. 4, p. 118), e per converso anche nella elaborazione di Lijphart29, la Russia contemporanea può essere inse­ rita come un caso a sé, che non rientra in nessuno dei diversi livelli di complessità previsti dalla matrice, ma che invece li attraversa diagonal­ mente tutti, dal primo (sistemi primitivi) al quinto (sistemi moderni pene­ trativi), perché di tutti in un modo o nell’altro porta le tracce. Il carattere principale e permanente del sistema politico russo, fin dalla sua fondazione effettiva sotto lo zar Ivan IV II Terribile, è stato infatti sempre quello di essere dotato di una limitatissima «autonomia dei sot­ tosistemi», vale a dire di una assai ridotta capacità di interazione fra le diverse componenti, e quindi di una scarsa funzionalità dei meccanismi di feedback ovvero di check and balance, interni al sistema istituzionale. È quindi da premesse strutturali di questo tipo che bisogna partire per verificare se, e fino a che punto, le forme attuali del nazionalismo post­ comunista possono essere innestate nel processo evolutivo del sistema politico, proprio per il loro carattere specifico di motore potenziale del­ l’accrescimento, da un lato dell’autonomia dei sottosistemi, e dall'altro della corrispondente differenziazione socio-politica. In effetti, nel caso russo-sovietico, il processo di autonomia dei sotto­ sistemi, sempre intersecato da fratture o cleavages30 storici e politici, anti­ chi e recenti, resta tuttora una questione irrisolta, sia dal punto di vista territoriale che funzionale. Ne deriva che il nazionalismo, in tutte le sue

25 Bartolini, p. 234 ss.; Tilly, 1975.

26 Duverger, 1951; Panebianco, 1982. 27 Almond.

28 Powell. 29 Lijphart, 1968, cit. in Moriino, 1992, p. 92.

30 Rokkan e Lipset.

Nazionalismo e sviluppo politico nell’ex URSS

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forme, etnica o civica, finisce per diventare uno strumento largamente utilizzabile nell’analisi delle diverse forme assunte dallo sviluppo politico fondato sulla dinamicità del continuo « semplicità/complessità», ovvero «omogeneità/differenziazione» dei sistemi politici. In questa chiave di lettura anche il classico schema di Rokkan31 delle «quattro fratture» può essere, almeno parzialmente, impiegato a spiegare i tratti generali dell’attuale forma-stato russo-sovietica. In particolare va presa in esame la frattura «centro-periferia», che è stata indubbiamente fondamentale, come in tutte le formazioni politiche di tipo imperiale, e che ha fatto esplodere, dopo molti tentativi infrut­ tuosi, l'intero corpo dello stato russo-sovietico. L’esplosione è avvenuta gradualmente, e per fasi successive. Prima si è decomposto il Patto di Varsavia, e con esso l’impero «esterno», basato su meccanismi di influenza e di controllo che erano il frutto delle con­ quiste passate e dell’egemonia raggiunta dopo la seconda guerra mon­ diale. Poi si sono aperte delle falle crescenti nell’impero «interno», fon­ dato su strutture centralizzate, anche se formalmente federali, con la dislocazione della stessa URSS che ha segnato anche la fine della tradi­ zionale formazione politica zarista, costruita per accumulazione nei secoli e, finalmente, con un processo che è ancora in atto, si è concretizzato il rischio di decomposizione della stessa Federazione russa, la cui fragilità interna e disunione etnico-regionale è sempre più evidente. Si pensi che alle 21 Repubbliche con titolarità nazionale di cui la Federazione è composta vanno aggiunte le 69 Regioni (Oblast), territori autonomi (Krajs) e città federali, quasi sempre di etnia o sub etnia russa (vedi Assemblea Costituzionale 5 giugno-12 luglio 1993) che aspirano, nella loro grande maggioranza, ad ottenere una autonomia crescente e che, per ciò stesso, si pongono in contrasto con molte delle 21 Repubbliche, etnicamente non russe, oltre che con il governo federale moscovita. Ma anche la seconda frattura di Rokkan32, quella fra «città-campa­ gna», ha svolto, e sta tuttora svolgendo, un ruolo decisivo nei processi di compartimentazione/ separazione e di differenziazione della società in Russia, forse in modo ancora più rilevante di quanto non sia stato quello delle altre fratture storiche, come quella del «conflitto religioso» (tipico dell’Europa occidentale e centrale dell’età moderna, e oggi riemergente nelle relazioni fra Nord e Sud del mondo), e ormai anche quella del con­ flitto «capitale-lavoro», la cui oggettiva marginalità nello scontro sociale

31 Rokkan, 1970, ecc. 32 Rokkan, op. cit.

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I Sotiosistemi

e politico deriva dal fatto, apparentemente paradossale, che nel mondo ex sovietico il comuniSmo aveva appiattito prima, e poi eliminato, gran parte delle differenze di ruolo e socioeconomiche riducendo al minimo la diversità dei processi di formazione del reddito, individuale o fami­ liare, con la conseguenza di semplificare al massimo il range fra i diversi strati sociali e settori, ceti e gruppi di popolazione, liquidando per que­ sta via il conflitto di classe nella sua forma storica di confronto fra poteri pubblici e privati, fra capitale privato e lavoro. Il sistema politico negli Stati successori della ex Unione Sovietica, e nella Federazione russa in particolare, si caratterizza, dunque, nei suoi termini generali, come una relazione spazio-temporale fra centro-periferia e cittàcampagna da un lato, ma al tempo stesso come un processo di differenzia­ zione strutturale alTintemo dei quei due cleavages, diretto a sostituire i mec­ canismi semplificati dell’ibrido stato-partito con la complessità di sistemi pluralisti di partito che sono ancora in una fase embrionale33. La difficoltà evidente nella creazione dei partiti politici, sia dal punto di vista organizzativo che politico, sia dal punto di vista della loro capacità di rappresentanza elettorale, che si manifesta in quasi tutte le ex repubbliche sovietiche ma in particolare nella Federazione russa, è dovuta a ragioni evi­ denti di «primitività» del sistema politico, e di difficoltà tipiche dei sistemi rivoluzionari senza partito-guida. Tuttavia, la diversità marcata che si è già manifestata nel comporta­ mento politico dei sistemi politici non-russi rispetto a quelli russi, e in particolare le difficoltà che si incontrano in Russia nel tentativo di costruire un qualche sistema di partito, segnala un problema specifico che non ritroviamo nelle altre repubbliche ex sovietiche. Neppure il Presidente, eletto e confermato dal referendum, è stato finora in grado di creare un partito politico radicato nel paese e dotato della capacità di rappresentare interessi precisi o almeno di funzionare come comitato elettorale permanente di candidati eleggibili democraticamente. La nostra ipotesi è che questa distanza politica della Russia nella formazione di un sistema di partito, sia essenzialmente dovuta ad una condizione partico­ lare, quella della incertezza sull'identità nazionale russa.

33 Michels-Duverger, 1951; Panebianco, 1982; Kovler, 1995.

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5. Il problema dell’identità nazionale In termini generali la questione dell'«identità nazionale», di uno statonazione o di un’etnia intesa come una variabile di formazione e al tempo stesso come un meccanismo funzionale di sopravvivenza del sistema poli­ tico, ha un duplice carattere: intemazionale e al tempo stesso interno. Agisce cioè come un modulo d’interazione fra il sistema esterno e il sistema domestico, come un «confine» concettuale oltre che politico e/o geopoli­ tico, ed è diventato il problema centrale della Russia contemporanea nella fase di transizione dal sistema totalitario comunista (Arendt, 1965, 1977) alla frammentazione politica e subnazionale o subimperiale postcomu­ nista. Nel senso che è stata proprio l’implosione dell'impero, e quindi il crollo dell’identità russo- imperiale (o russo-sovietica), ad aprire la crisi di credibilità nazionale che ha investito soprattutto la Russia. Del tutto diversa è invece la questione nella gran parte delle ex repub­ bliche sovietiche, che hanno individuato, per differenza e per necessità, le coordinate della loro identità nazionale in funzione essenzialmente antirussa e che quindi non si pongono mai per davvero un problema di identità nazionale, ma solo questioni di rapporto con le minoranze russe o etnicamente allogene che risiedono all’interno dei confini.34 La «transizione alla democrazia», cioè il passaggio in Russia ad un regime politico la cui fondazione e il cui consolidamento si fondi su un sistema politico basato su libere elezioni, su un sottosistema partitico, e quant’altro, secondo la classica definizione di Dahl35, è perciò oggi ulteriormente com­ plicata, non solo dall’assenza di una cultura e di un’esperienza politica demo­ cratiche, ma anche dall’incertezza territoriale ed etnica, cioè dalla indeter­ minatezza dei confini sistemici fra interno ed esterno, quindi dall’ambiguità dei concetti e delle modalità della politica interna e della politica estera, i cui rispettivi ambiti non possono essere chiaramente tracciati. Questa indeterminatezza fra «interno» ed «esterno» non è una que­ stione puramente concettuale o teorica. Al contrario, essa interviene a tutti i livelli della vita associata e della decisione politica. Si pensi, per fare un esempio, agli effetti «esterni» delle decisioni del governo di Mosca in materia di politica monetaria (riconversione del rublo), ovvero di poli­ tica della sicurezza (truppe russe nel Baltico, Caucaso e Asia Centrale). Oppure si ponga mente agli effetti «interni» delle leggi elettorali delle repubbliche ex sovietiche sul trattamento delle minoranze russe (Baltici).

34 Nahaylo-Swoboda, 1990; Vassileva, 1995.

35 Dahl, in Moriino, 1989, p. 83.

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I Sottosistemi

La causa prima di questa incertezza è data dal fatto che, tutto sommato, la Russia non è mai stata una «nazione», e neppure «uno stato-nazione» in senso stretto, vale a dire in senso moderno e occidentale36, ma solo uno «stato» o meglio uno «stato-impero» che si è costituito, e poi esteso nel tempo, sotto una guida centralizzata e autoritaria37. Anche le forme storiche del suo «nazionalismo» culturale risentono, fin dal XVIII secolo, di questo equivoco in cui i concetti di «patria» e di «nazione» apparivano come termini intercambiabili, ovvero come prin­ cipi del tutto indistinguibili e simbiotici. La confusione fra la forma del «servizio», nobiliare o popolare, alla «patria» e il sentimento della «na­ zione», intesa come unione di popolo, territorio e sovranità, si protrasse nel tempo, senza chiarirsi, nell’ambiguità irrisolta fra l’autocrazia occi­ dentalizzante e protonazionalista, con Pietro il Grande e Caterina II, con il suo codazzo di riformatori nazionalisti, da un lato e il populismo sla­ vofilo38, ovvero ortodosso autocratico e perfino bizantinista39 o eurasiatista, dall'altro40. Due grandi filoni di pensiero politico e di azione ope­ rativa che erano basati entrambi sulla «cultura del risentimento»41 e, tutto sommato, sull’estraneità della Russia da se stessa. Non si può quindi dire che sia mai esistito in Russia un consistente feno­ meno «nazionalista», né di tipo liberal-democratico, cioè «civico» e «terri­ toriale», né di tipo germanico, cioè fondato sullo jus sanguinis e quindi etnico, fatta eccezione per quello detto «Grande Russo», che era anzitutto imperiale e poi sovietico, intriso quindi di ideologie universaliste e globalizzanti. Tale status di denazionalizzazione, o meglio, di «a-nazionalità» della Russia, non si è radicalmente modificato neppure con le invenzioni dell’età comunista, come le recenti elaborazioni della teoria egemonica del russo «fratello maggiore» dei popoli assoggettati, ovvero quella ancora più recente, e presto fallita, dell’«Homo Sovieticus», fino alla riscoperta dei miti più lontani, da quello della Terza Roma bizantina42 o slavofila43 o eurasiatista44. Il problema in realtà, era sempre quello dell'inesistenza di un’iden-

36 Greenfeld, 1992. 37 Pipes, 1974, ecc.

38 Venturi, 1972, Constine, 1842. 39 Leomicv, 1987. 40 Groth, 1961; Trubeckoj, op. cit. 41 Greenfeld, 1992; pp. 223, 265 op. cit.

42 Riasanovsky, 1984; Brodsky, 1986-1987, Leontief-Herzen, 1996, Dostoevskij. 43 Agursky, 1987; Venturi, 1970.

44 Trubeckoj-Ferrari, 1994.

Nazionalismo e sviluppo politico nell'ex URSS

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tità nazionale, di cui restano però le tracce oggettive nella presenza di oltre 25 milioni di russi che vivono tuttora all'estero, nelle ex repubbliche dell'URSS, e nei 25 milioni di non-russi che, per converso, vivono aH’interno della stessa Federazione russa. L'intreccio etnico e territoriale della Russia «interna» (25 milioni di non-russi) ed «esterna» (25 milioni di russi) non rappresenta dunque solo un problema politico economico, demografico e sociale di enormi pro­ porzioni. Esso dimostra anche che l’identificazione della «russità» resta un quesito irrisolto. La differenza di status, e al tempo stesso l'ambiguità della condizione nazionale, divisa fra territorio ed etnia, si manifesta, perfino linguisticamente, nella differenza e talvolta nell’uso alterno, dei due aggettivi che defi­ niscono appunto la «russità», quello di «ruskij» e quello di «rossiskij»45. I due termini corrispondono molto chiaramente all’indeterminatezza fat­ tuale dell’identità nazionale del paese. «Russkij» è tutto ciò che etnica­ mente, storicamente o culturalmente può essere definito come russo, men­ tre il termine «Rossiskij» indica tutto ciò che veniva compreso fisicamente aH’interno dell’impero russo, o dello stato russo-sovietico. Il che spiega perché le altre repubbliche ex sovietiche, e parzialmente anche molte repubbliche della federazione russa, (e perfino molti Oblast) abbiano iden­ tificato, ritrovato, o prescelto, una loro identità nazionale, originale, sto­ rica ovvero autopercepita (sono cioè «nazionalità titolari», etnicamente e, parzialmente, anche territorialmente), e, di conseguenza, aspirino alla sovranità, mentre la Russia, in quanto tale, non è mai diventata una «nazione», e neppure uno «stato-nazione» nel senso moderno e occiden­ tale del termine, ma si è invece identificata sempre e solo attraverso la propria egemonia culturale di tipo imperiale su regioni ed etnie non russe, ovvero su territori annessi. Si potrebbe quindi sostenere con una certa sicurezza che la Russia di oggi non è ancora definibile, né geograficamente né tantomeno concet­ tualmente. L’odierna Federazione russa non è infatti identificabile né con la Russia etnica, che è dispersa ben al di là delle frontiere ufficiali, né con la Russia territoriale o civica, la cui unità formale è contestata sem­ pre più vivacemente. Si tratta infatti solo di una regione distinta in modo politico-amministrativo, sulla base dei confini geografici della ex Repubblica Sovietica Federativa Socialista Russa (RSFSR), che era magna pars dell’ex URSS. Al suo interno le 21 repubbliche i 6 Krajs, i 10 terri­ tori autonomi e le 52 Oblast, in tutto 89 soggetti, tendono tutti ad innal­ zare il proprio livello di «autonomia» fino alla conquista della piena 45 Vitale, 1994.

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I Sottosistemi

«sovranità», e quindi, prima o poi, della vera e propria «indipendenza» statale, attraverso le crescenti rivendicazioni di poteri sempre più ampi anche in materie, come la tassazione, la sicurezza e le relazioni esterne, fin qui di stretta competenza del governo federale. Al di fuori dei confini formali di questa indefinibile entità politico­ amministrativa, cui è stato dato il nome di Russia o di Federazione russa, esiste poi la cosiddetta «Russia esterna» che comprende le aree dove i russi, di lingua ed etnia russe, sono in maggioranza, come nell’ucraina orientale, nel Kazakhstan settentrionale e occidentale, in alcune zone dei paesi Baltici, (Narva, ecc.), ovvero dove costituiscono una larga mino­ ranza della popolazione, spesso urbana e industriale, dispersa nel terri­ torio ovvero concentrata in regioni determinate. Si tratta di un problema di rilevanza interna e internazionale la cui soluzione, se non fosse condotta in modo graduale ed equilibrato, potrebbe innescare la miccia di una guerra civile e intemazionale di proporzioni enormi al cui confronto i conflitti nel Caucaso e in Moldavia apparireb­ bero del tutto marginali. L’identità nazionale potenziale della nuova Russia si potrebbe scon­ trare, infatti, con questioni d’ordine territoriale, come nella Crimea oggi Ucraina, oppure etnico, come nella Transnistria o in Georgia-Abkhazia, oppure a Narva in Estonia, con conseguenze molto gravi per la stabilità dell’intera fascia di nuovi paesi che formano un’intercapedine fra l’Europa e la Russia stessa. In un certo senso, quelle che vengono definite come le «minoranze imperiali»46 sono delle mine potenziali per la stabilità dei confini fra le repubbliche ex sovietiche, nonché per l’equilibrio generale fra gli Stati dell’ex URSS. Se si aggiunge a tutto ciò la considerazione che in molte repubbliche ex sovietiche stazionano ancora grandi unità militari russe (come la 14° Armata in Moldavia/Transnistria, o in Georgia) le quali svolgono compiti di controllo delle frontiere meridionali dell’ex URSS (come in Asia Centrale), oppure intervengono nei conflitti locali (Caucaso, Moldavia), secondo regole e modalità spesso decise autono­ mamente dai comandanti militari, la complessità del problema si fa quasi inestricabile. D’altra parte è stata proprio l’assenza, o comunque la scarsa credibilità politica, normativa e di legittimità, della carta costituzionale federale (la Costituzione attualmente in vigore, è del 1978 e ha subito oltre 300 emen­ damenti successivi), le cui innumerevoli stesure, variazioni, modifiche sono ancora in discussione, e degli altri organi istituzionali fondanti delle strut46 Pain.

Nazionalismo e sviluppo politico nell’ex URSS

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ture federali (dal Patto Federale del 1992 all’Assemblea Costituzionale del giugno-luglio 1993), a rendere quasi irreversibile il processo di indeter­ minatezza dei confini interni della Federazione. Il conflitto ancora in corso a Mosca fra organi politico-istituzionali, che sono solo parzialmente legittimati (come il Congresso del Popolo eletto nel 1990), ovvero che non sono mai stati legittimati (come la Corte Costituzionale), contribuisce all’equivoco sulle regole del gioco perché crea un doppio o triplo potere e fa agire contemporaneamente, in un’arena poli­ tica ancora spoglia e inesperta, sia degli organi eletti dal paese a suffragio universale, e poi riconfermati da un referendum (come la Presidenza), sia degli organi non eletti, ovvero eletti sulla base di un sistema elettorale non democratico. Il rischio è quello della crescente parcellizzazione del paese, che si afferma ben al di là della suddivisione ufficiale in Repubbliche, Oblast e Okrugs, investendo la struttura delle ventuno repubbliche che potrebbero sfaldarsi anch’esse lasciando spazio alla costituzione di nuove unità poli­ tico-territoriali minori, forme spurie e improvvisate di regionalismo, subetnico e territoriale, (Volga-Urali, Siberia Occidentale, Comunità cosacche, Estremo Oriente), distinte fra loro non già per reali o presunte differenze nazionali, in quanto si tratta di subetnie russe, ma invece per una sorta di «nazionalismo regionale» territoriale47. La logica di separazione e di aggregazione che dinamizza oggi, in modo molto vivace, queste unità territoriali potenziali risiede nell'opportunità che si presenta di unificare le aree minori, omogenee in termini geografici o economici (miniere, zone industriali, ecc.), attribuendo loro un’autonomia pressoché totale, fino alla «nazionalizzazione» del municipalismo cittadino dei centri urbani maggiori, da San Pietroburgo a Mosca a Ekaterinburg, fino a Krasnojarsk e a Irkutsk48. Si invertirebbe, cioè, quel processo di accorpamento delle Russie, ini­ ziato nei secoli XIV e XV dai Principi di Mosca, ancora sotto suzéraineté tartaro-mongolo, all’interno della Russia Centrale durante il lungo periodo della «Russia degli appannaggi»49. Nata infatti come asse patrimoniale del Principe (poi Gran Principe) dove persistevano, almeno fino al XVI secolo, delle norme pre-feudali, dove si praticava l’allodio invece del vassallaggio, l’appannaggio invece del feudo, dove il contratto non era riconosciuto giuridicamente, la Rus

47 Vedi Atti Conferenza costituzionale e Dragunskij, 1995; Pain, 1995; Popov, 1995.

48 Dragunskij e altri.

49 Pipes, 1974; Riasanovski, 1984.

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di Mosca venne ampliandosi con l’occupazione e l’annessione dei princi­ pati e delle città vicine, (Tver, Riazan, Novgorod), facendosi le ossa, come l’antica Roma, contro nemici russi quindi prima ancora che non russi, in una fase iniziale sotto l’egida mongolo-tartara, poi contro gli antichi padroni, identificandosi gradualmente come russi solo per differenza, cioè attraverso la lotta costante per la propria difesa/sicurezza, più che per la propria identità, sia contro l’Ovest (Teutonici, Polacchi, Lituani, Svedesi), contro il Sud (Ottomani e Turkestani), e contro l’Est (Mongolo-Tartari, e tribù siberiane). Dopo l'occupazione di Kazan (1554) e quella di Astrakhan (1557) l’e­ spansione imperiale si fa ininterrotta. Basterà tenere a mente un solo dato, cioè che «tra la metà del XVI e la fine del XVII secolo, Mosca con­ quista in media 35.000 kmq - una superficie pari a quella dell’odierna Olanda - ogni anno per 150 anni consecutivi»50. Successivamente lo stato patrimoniale si modernizza e si occidenta­ lizza, anche se solo in superficie, con Pietro I e Caterina II, e si riorga­ nizza, anche amministrativamente, con gli ukaz degli zar occidentalisti che tentano di «civilizzare» i propri servi lasciandoli tuttavia nella con­ dizione di servi. La Russia non perderà quindi mai del tutto il suo connotato originario di stato patrimoniale, che ancora oggi la caratterizza sia nella tradizione staliniana sia nella difficile successione post-comunista, in cui si manife­ stano tendenze alla spartizione, anche territoriale, dell’eredità sovietica, fra repubbliche, etnie e capi politici o manager statali, con procedure molto simili alle controversie per l'eredità del defunto Principe o Gran Principe nell’antica Russia degli appannaggi. In effetti, questa concezione patrimoniale dello Stato che non distin­ gue il pubblico dal privato, 1’imperium dal dominium, che è altresì un segno della primitività e della scarsa differenziazione dei ruoli e delle fun­ zioni politiche del suo sistema politico, continua ad essere fondamentale, in assenza di regole stabilite per la successione degli autocrati51, e soprat­ tutto in assenza di una tradizione giuridico-costituzionale, riconosciuta e legittima, che garantisca i fondamenti della «certitudo juris». Tale sistema politico acquisì le forme, apparentemente moderne, di stato «patriottico» (Rodina = patria) in senso stretto, solo con l’invasione francese del 1812, e poi ancora nel 1914 con la Grande Guerra52, e ancora

50 Pipes, p. 120.

51 Pipes, 1974 p. 87. 52 Soljenitzin, 1972.

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una volta nel 1941 con la «Grande Guerra Patriottica», ma non cesserà mai di essere uno stato essenzialmente patrimoniale, centralizzato ma multinazionale, autocratico e burocratico insieme, né riuscirà soprattutto mai a diventare uno stato-nazione in cui il contratto viene stipulato con il popolo la cui sovranità è riconosciuta e consensualmente rispettata fino a rappresentare il fondamento della sovranità53. Oscillerà invece fra diverse ideologie, tutte costruite a supporto della dottrina statalista, come è quella di un impero multietnico e multiterritoriale d’ispirazione orientale (bizan­ tinismo54, slavofilia55, Terza Roma56, ecc.), oppure d'ispirazione occiden­ tale (Pietro, Caterina II, Stolypin, Lenin)57. Ma la «patria» (Heimat, Fatherland, Rodina) non è, né sarà mai, la «nazione». Manca il legante basilare, quello fra popolo e territorio. Manca inoltre il rapporto di sovranità del popolo delegata al monarca. Manca in sostanza la soluzione del rapporto re/popolo58. Tanto che l’impero può assumere, indifferentemente, versioni diverse, sia quella occidentale sia quella orientale, proprio perché il concetto di patria è, tutto sommato, un concetto statuale e territoriale, solo indiret­ tamente culturale, non etnico, né personale, né giuridico-formale o isti­ tuzionale. Ne deriva che l’impero russo, grande compagine continentale euro-asiatica, abbia dato alla luce ogni sorta di agiografi e teorici poli­ tici, dai sostenitori della «europeità» e dell’occidentalità della Russia, che da Pietro il Grande si sono presentati a intervalli regolari sul mercato politico europeo59, a quelli della sua specificità tipica, cioè quella dell’«eurasiaticità», che, da un lato ne estende l’area potenziale d’influenza verso il Pacifico e la Cina, ma che, al tempo stesso, ne restringe le oppor­ tunità verso Ovest («eccentricità» contro «eurocentrismo») e tende a iso­ lare l’impero dalla comunicazione con l’Occidente60.

53 Greenfeld, op. cit. 54 Leontiev, op. cit.

55 Trubeckoj, op. cit.

56 Stalin. 57 Agursky-Ferrari-Groth, op. cit.

58 Bendix, 1978, 1980. 59 Groh, op. cit.

60 Trubeckoj, op. cit.

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6. Il nazionalismo come forma della politica In assenza dunque di identità nazionale definita è necessario doman­ darsi come e perché nella Russia contemporanea, così come in quella ottocentesca e novecentesca, siano sempre esistiti, e tuttora esistano, ten­ denze culturali e movimenti politici di ispirazione nazionalista, che tro­ vano cioè nel nazionalismo, o meglio nel nazional-patriottismo, il loro punto di collegamento unitario. Nelle loro versioni più estreme61 il nazionalismo russo si identifica con varie forme abnormi della cultura e della politica, tipiche della destra radi­ cale, mentre nelle sue forme più moderate è composto di veri e propri rag­ gruppamenti politici, di movimenti o istituzioni, ovvero di coalizioni politi­ che che assumono (o tendono ad assumere) anche la forma partito62.

a) Per concludere, quindi, è possibile formulare una prima ipotesi inter­ pretativa di questo singolare fenomeno. E cioè che il nazionalismo in Russia, separato dal patriottismo ufficiale e/o ideologico, non può essere conside­ rato altro che come una «forma della politica»63, e talvolta anche come una modalità specifica, sostitutiva o integrativa, dello «sviluppo politico» di un’entità territoriale ed etnica, indefinibile nei suoi confini geografici, divisa nelle sue molteplici etnie, separata e distratta nel suo complesso mito-sim­ bolico64, e nella sua identità politico-statuale residua, ex sovietica e russa65. Tuttavia la novità di queste formazioni politiche, che tentano di sosti­ tuire con un campo ideologico nazional-patriottico talvolta nazional-bolscevico66 spesso eurasiatista, il vecchio campo ideologico del marxismoleninismo, è data dal fatto che anche quelle che si raffigurano con la mag­ giore coerenza ideologica, sia essa selettiva che onnicomprensiva, degli argomenti tradizionali della cultura sciovinista o razzista «grande russa», non hanno ancora, e probabilmente non avranno mai, la capacità di rami­ ficarsi ad ogni livello geografico, né quella di radicarsi socialmente all’interno della Federazione russa in quanto tale. In altri termini non hanno le strutture per trasformarsi in veri e propri partiti nazionali. Nel senso che rappresentano, almeno per il momento, solo dei movi­

61 Yanov, 1978; Ustrialov, 1925; Dunlop, 1983; Torshin, 1995; Bremmer, 1993.

62 Vitale-Torscin, op. cit., 1925. 63 Breuilly, 1982.

64 Smith, 1986 e 1991.

65 Popov, 1995. 66 Ustrialov, op. cit.

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menti limitati con ambizioni nazionaliste, patriottiche generali e astratte, la cui consistenza numerica e organizzativa67 è però ristretta ad alcuni centri urbani, spesso in conflitto/competizione con altri gruppi di natura affine, che pescano nello stesso vivaio politico, senza alcuna capillarità organizzativa, ovvero capacità di penetrazione e diffusione, né dotati di una militanza generalizzata. Ne deriva che le potenzialità politiche di questi movimenti sono ancora incerte e, soprattutto, che la loro pressione sul governo e sullo stato tende ad essere confinata alla propaganda nei media, ovvero a manifestazioni di massa relativamente ristrette nella capitale, o in qualche città maggiore. La forma politica del nazionalismo russo non riesce quindi, per il momento, a trasformarsi in movimento nazionale, né partito politico, ma invece si comporta come una costellazione di gruppi che operano ad un livello prepolitico per il fatto di non riuscire a misurarsi nelle arene poli­ tiche del nuovo sistema politico in fase di faticosa formazione. La dimensione reale del fenomeno politico nazionalista in Russia potrà quindi essere misurata concretamente solo nel momento in cui la nuova Costituzione e le elezioni politiche a livello della Federazione ricostrui­ ranno delle arene politiche costituzionalmente credibili e, forse, facilite­ ranno la formazione dei partiti politici. Solo in quel caso, quindi, sarà possibile valutare la consistenza del fenomeno nazional-patriottico, il cri­ terio della sua identità politica, unitaria o di coalizione, il peso numerico e le forme del radicamento geografico del nazionalismo in Russia. Al contrario, invece, la gran parte dei movimenti nazionalisti «grandi russi» che operano all’esterno dei confini della Federazione, nelle ex repub­ bliche sovietiche, in quelle aree in cui vivono quelle che sono definite come le «minoranze imperiali»68, dimostrano una compattezza e una dif­ fusione, spesso anche clandestina, sotto le specie di organizzazioni aperte, ma anche di sette, società segrete, associazioni di categoria o corpora­ tive, che deriva la loro legittimazione e il loro carisma politico dalla con­ dizione di etnia minoritaria, e talvolta discriminata (come nel Baltico), in cui si trovano ad operare. Si tratta ovviamente di fenomeni politici d’i­ spirazione revanscista e imperiale che solo nel riaccorpamento impro­ babile dell'impero ritengono di poter legittimamente soddisfare le loro aspirazioni politiche nazionaliste. Ben più attivi sono, infine, i movimenti nazionalisti ed etnopolitici non russi, ovvero più recentemente quelli del nazionalismo subetnico russo

67 V. ancora Torscin.

68 Pain, op. cit.

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regionale, all’interno della Federazione russa, che dimostrano una capa­ cità di aggregazione e di mobilitazione molto più intensa e generalizzata nelle loro aree, contrastando quindi ogni forma di nazionalismo «grande russo» di tipo classico e perfino molte forme di nazionalismo etnico delle «nazionalità titolari» repubblicane. Ne deriva che il nazionalismo politico, inteso come forma della poli­ tica, cioè come percorso dello sviluppo politico, quindi come protoforma di un sistema partitico differenziato, stenta a decollare in Russia anche come rappresentazione immaginaria di una identità nazionale, immagi­ naria a sua volta e quindi strumento d’azione nelle arene politiche della competizione degli interessi nazionali, proprio perché la Federazione russa è ancora un’entità politico-territoriale indefinita nei confini e nei poteri, divisa nelle etnie e nella percezione residuale delle precedenti iden­ tità, quella imperiale e quella sovietica. L’«etnopolitica» 69, quindi, ovvero il nazionalismo «civico» 70 della Federazione Russa può essere studiato solo in quanto forma accessoria dello sviluppo politico e della «transizione» alla democrazia di un sistema politico primitivo e poco differenziato come quello postcomunista71. Nel senso che, a livello di stato, la sua forza di coercizione e di consenso è piuttosto limitata, se non inefficace, proprio perché, a livello substatale, essa è crescente e sempre più organizzata. Si pensi, per fare qualche esem­ pio, alla dinamica di autocoscienza nazionale, etnica o subnazionale in atto nel Caucaso del Nord72, nell'area Volga-Urali, in Siberia Occidentale o nell’estremo oriente russo73.

b) Possiamo, a questo punto, formulare una seconda ipotesi interpre­ tativa della relazione fra nazionalismo e sviluppo politico. A livello fede­ rale, si può dire che il discorso dello sviluppo politico in Russia dovrebbe passare attraverso canali diversi da quelli della formazione di un conflitto protopolitico, e certamente predemocratico, fra gruppi istituzionali non legittimati altro che dalla mancanza di alternative legittime, ovvero legit­ timati solo da elezioni e referendum, i cui poteri sono incerti e non defi­ niti da documenti istituzionali approvati dal popolo. La dimensione poli­ tica in senso moderno è, quindi, ancora tutta da costruire. Né può, per

69 Rothschild-Smith, op. cit.

70 Gellner, Hobsbawm, Breuilly, Mayall, ecc., op. cit. 71 M. Cotta e SISP-Siena. 72 Kaplanov, 1995, Popov, op. cit.

73 Grusherskij, 1995.

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ora, sostituirsi a questa carenza politico-istituzionale, un sistema parti­ tico basato sul confronto di forze nazionaliste e/o democratiche, la cui organizzazione e il cui radicamento sono ancora emozionali74. Accade invece, a livello subfederale, che le diverse componenti repub­ blicane, comunitarie o regionali, della Federazione russa, proprio in quanto si tratta di organismi tendenzialmente alternativi rispetto al potere centrale, contribuiscano a stimolare la crescita di un sistema d’intera­ zione «centro-periferia», di cui la «conferenza costituzionale» del 1993 è stata un esempio, che, se non esploderà - com’è certo possibile - in mille frammenti, potrebbe avere il risultato di plasmare una relazione politica semi-moderna, nelle forme dello «scambio politico», della differenzia­ zione e della moltiplicazione dei soggetti politici, della concessione di autonomie in cambio di consenso, che potrebbe preludere ad una forma aggiornata e vitale, di neofederalismo. In altri termini però questa nuova relazione fra centro e periferia potrebbe assumere anche i tratti di una forma moderna di «rifeudalizzazione», ovvero la struttura di un network di alleanze mutevoli fra potentati locali di diversa natura, per obiettivi limitati e parziali con esiti autoritari o conflittuali. I caratteri di questa transizione dal totalitarismo comunista ad un sistema politico più moderno, anche se non necessariamente democra­ tico, sono quindi difficili da decifrare. Né una lettura «transizionista» in senso stretto sarebbe sufficiente a illuminare il senso di questo processo complesso.

c) Ci sembra invece più utile formulare qui una terza ipotesi interpre­ tativa della relazione fra nazionalismo e sviluppo politico nell’ex URSS e in Russia, adottando un tipo di lettura premodema e transmodema, ovvero «laterale», del sistema politico russo che discende da una possi­ bile identificazione delle costanti metapolitiche della politica russa le quali ancora oggi sostituiscono o integrano, almeno parzialmente, le carenze del sistema politico e istituzionale, nonché l’assenza dei partiti. Si tratta, in altre parole, di concetti e strumenti politici permanenti, che hanno fatto parte cioè della tradizione politica tanto della Russia zari­ sta quanto dell’URSS comunista, sui quali poggia ancora tanta parte della forma-politica di quell’ampio coacervo di nazioni.

Si tratta di tre principi operativi sintetizzabili in tre parole-chiave: ideo­ logia, forza e propaganda.

74 Kovler, op. cit.

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L’ideologia rappresenta il complesso delle credenze comuni, religiose o politiche, ma anche le strutture del complesso mito-simbolico (rnythomoteur) della Russia tradizionale che ha costituito il background della dimensione politico-imperativa e decisionale. Esso si è via via tradotto in simboli, da quello dell'ortodossia e dell’autocrazia a quello dello slaviSmo e/o del bizantinismo della Terza Roma, fino alla formula marxista-leni­ nista della sovietizzazione. Oggi questo strumento è in profonda crisi, la sua capacità di influenzare il comportamento politico delle élites e delle masse è minimale. In un certo senso il crollo del sistema comunista era prevedibile proprio perché era stato anticipato da anni dall’evidente smot­ tamento della dottrina marxista-leninista un segnale importante dello sfal­ damento delle basi consensuali del potere politico. Resta tuttavia, e resterà ancora per anni, in assenza di un’ideologia alternativa a quella che si è dissolta, una tendenza a far sopravvivere brandelli culturali tratti dalla vecchia ideologia che potranno facilmente sovrapporsi alle forme politi­ che nuove, inquinandone il significato e deformandone le procedure. Per questa ragione la forza e la debolezza al tempo stesso del nazionalismo russo risiede proprio nella sua alterità strutturale e culturale rispetto alle forme nazional-bolsceviche che oggi cercano un difficile sincretismo fra i due principi75, nella rinascita di posizioni antioccidentali e perfino eurasiatiste76.

La forza rappresenta invece lo strumento operativo classico dell’zmperio e del dominio, entrambi unificati sotto le specie del potere autocratico-ortodosso, oppure del comuniSmo, internazionalista a parole e grande russo nei fatti. La forza è sempre stata la scorciatoia dei processi politici di modernizzazione forzata, da Ivan IV a Pietro I a Caterina II a Stalin. Ma è stata anche la garanzia del controllo politico e militare imperiale sul territorio, l’attrezzo della sicurezza contro i nemici esterni, ma soprat­ tutto lo strumento della repressione contro i nemici interni (nazionali­ smo, dissenso, polizia, segreto). Nella fase di transizione che il sistema politico dell’ex URSS sta attra­ versando, l’uso politico della forza è perciò sempre in agguato. Non solo e non tanto perché si tratta del tradizionale strumento del potere in Russia, ma anche perché la decomposizione dell’impero è per sua natura conflit­ tuale e la relativa assenza di gestione politica del conflitto lascia poco spa­ zio alla mediazione e/o alla trattativa. Tuttavia la forza non è, fortunata­ mente, oggi uno strumento unificato e centralizzato perché le diverse com­ 75 Ferrari, op. cit.

76 Torscin, op. cit.

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ponenti di egemonia della forza del precedente sistema politico si sono decomposte in strutture e corporazioni settoriali, ovvero in decentraliz­ zazione geopolitica e strategica. La forza, quindi, non può essere ancora usata come una scorciatoia per ristabilire l'ordine o reprimere il dibattito politico proprio perché otterrebbe l’effetto opposto cioè quello di molti­ plicare i conflitti, invece di sedarli, fino alla guerra civile.

La propaganda infine è il contraltare della forza. Essa si serviva della disinformazione, della penetrazione capillare, della comunicazione di massa e dell’organizzazione politica per aggregare il consenso, tacitare il dissenso, formare l'opinione e conformarla alle direttive politiche. La propaganda, in questa chiave, era il prodotto della intellettualizza­ zione tecnologica della società totalitaria. Sostituiva in blocco l’informa­ zione, e anzi ne determinava la quantità, il tipo e lo stile. Il collasso della propaganda comunista è stato il prodotto della successione di eventi cul­ minati con la disgregazione dell’URSS, ma iniziati appunto con la glasnost gorbacioviana cha ha aperto la strada all'autodissoluzione del sistema sovietico. Il comuniSmo - è stato scritto - non è potuto sopravvivere alla conoscenza generalizzata dei suoi delitti che la glasnost appunto aveva gradualmente fatto conoscere e pubblicizzato fra i cittadini sovietici77. Più ancora della libertà di stampa è stata però la crisi del sistema infor­ mativo e del segreto del potere che ha innestato il processo che lo stesso Gorbaciov ha tentato invano alla fine, e maldestramente, di arrestare. Ciò è accaduto perché l’ideologia, trave portante del sistema dei valori e del metodo culturale, si era già dissolta con la sua trasformazione in giaculatoria esteriore, mentre la propaganda, che potrebbe altresì essere definita come una sorta di «censura espansiva», continuava a determi­ nare le regole di comportamento quotidiano, nuotando però come in una piscina senz’acqua per l’assenza di valenze ideologiche credibili. Nel momento in cui la propaganda, secondo pilastro della triade, viene demolita, anche il monopolio della forza viene intaccato al punto tale che, nel momento del bisogno, cioè durante il fallito golpe dell'agosto 1991, essa dimostra tutta la sua debolezza ed è ormai in via di dissoluzione. Perfino le Forze Armate, la Polizia e il KGB sono divisi al loro interno, mentre il PCUS, cervello collettivo della élite dominante, rivela la sua vuo­ tezza politica nel momento in cui l’ideologia è senza contenuto e la pro­ paganda totalitaria viene allentata e messa in discussione. La forza, quindi, non può che sbriciolarsi in un campo complesso di

77 David Remmick, Lenin's Tomb, 1993, Random House, New York.

9. C.M. Santoro: Studi di geopolitica

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forze contrapposte o concorrenti, alla ricerca di un’ideologia, o di più ideologie, da sorreggere con nuove dimensioni della propaganda. I tre strumenti metapolitici del sistema politico russo-sovietico si sono dunque trovati insieme in una situazione di paralisi. Quello che è rima­ sto del vecchio impero si è ancora una volta trovato allo storico bivio cul­ turale e politico della storia russa, quello della incertezza o contrapposi­ zione fra Occidente ed Oriente78, fra Europa e Eurasia, fra modernizza­ zione occidentale (democrazia inclusa) e specificità eurasiatica (autori­ tarismo incluso). Il nazionalismo, inteso come teoria politica della modernità e dello sviluppo politico, può quindi giovare alla crescita delle comunità e dei soggetti non russi, o delle subetnie russe in fase di emancipazione. Non può certo essere utile alla Federazione russa e al suo governo che sono ancora alla ricerca della legittimità prima ancora dell’identità.

78 Schmitt, 1950; Junger-Spengler, op. cit.

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Russia: un sistema politico in cerca di identità

Nel tentativo di trasformare uno Stato centralizzato e totalitario in una società civile differenziata e interattiva la Russia ha davanti a sé due strade: quella difficile dello sviluppo politico, cioè della transizione alla democrazia pluralista e all’economia di mercato e quella, relativamente più agevole, della restaurazione dello Stato tradizionale secondo un modello democratico-autoritario. Ma anche in questo secondo caso gli ostacoli abbondano.

Il problema centrale della Russia postcomunista è quello di trasfor­ mare uno Stato centralizzato e totalitario, sorretto da un regime mono­ partitico assoluto, in una società civile embrionale, differenziata e inte­ rattiva, conflittuale e competitiva, dalla quale possa gradualmente scatu­ rire un sistema politico basato su istituzioni, regole, arene e partiti. Per ottenere questo risultato le strade da battere sono più di una. La più difficile è senz'altro quella dello sviluppo politico, cioè della transi­ zione alla democrazia pluralista e all’economia di mercato, da attuare attraverso riforme economiche accompagnate da iniziative politiche e da decisioni drastiche e irreversibili, dirette alla creazione di una società moderna e autopropulsiva. Le difficoltà insite in questo percorso sono evidenti: a) scarsa diffe­ renziazione sociale per ceti, classi, interessi; b) eccessiva dipendenza eco­ nomica dallo Stato; c) limitata cultura politica dei soggetti; d) fragilità e ambiguità funzionale delle istituzioni: e) assenza di un corpo giuridico riconosciuto e legittimo. I rischi più gravi sono quelli di precostituire le premesse di un golpe da parte dei settori organizzati (forze armate, KGB, gruppi nazional-comunisti), ovvero di alimentare la crescita abnorme e pericolosa di formazione estreme di destra (Zhirinovxky) o di sinistra­ destra (come l’ex Fronte patriottico), obbligando così il presidente a inter­ venire violando il quadro di legalità (come è accaduto il 21 settembre 1993, con lo scioglimento forzato del Congresso dei deputati del popolo) che esso stesso aveva in un primo tempo avallato e di fatto accettato.

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I Sottosistemi

La più facile, in termini relativi, è invece quella della restaurazione dello Stato tradizionale, dopo il crollo del meccanismo stato-partito, nella forma di un organismo strutturato secondo un modello democratico-autoritario, retto dalle regole accettate della nuova costituzione presidenzialista che, nel quadro di una cornice istituzionale prepolitica, possa consentire la for­ mazione e quindi il consolidamento di partiti politici in senso stretto. Anche su questo cammino, tuttavia, vi sono molti ostacoli. Primo fra tutti quello che deriva dalla necessità di organizzare la complessità cre­ scente della società civile, di impedire che gli interessi lesi si coalizzino contro la legittimità dello Stato, evitando inoltre che la fragile «autorità» acquisita dal presidente, suffragata prima dalle elezioni del 1991, riba­ dita poi con il referendum dell’aprile 1993 e finalmente riconfermata, anche se acrobaticamente, con la risicata approvazione della costituzione il 12 dicembre scorso, sbocchi in autoritarismo esplicito. Scriveva peraltro Carl J. Friedrich negli anni ’50, in alcune pagine memorabili sulla distinzione fra potere e autorità, che «ogni società deve essere in qualche modo autoritaria, ogni società deve possedere perso­ nalità autorevoli, ogni società deve pretendere obbedienze per l’autorità.» Il che non comporta né autoritarismo né tantomeno totalitarismo, in quanto una «personalità autorevole» è necessaria ad una società libera perché la vera autorità viene distrutta dal dispotismo che è, in sostanza, una forma di potere senza autorità. Ma anche questa ipotesi di modernizzazione gradualista della Russia non è molto agevole da realizzare. La Federazione è infatti governata essen­ zialmente dallo Stato. Non solo e non tanto perché oltre i tre quarti dell’e­ conomia, della produzione del reddito, dell’occupazione e degli investimenti proviene dallo stato, quanto perché il meccanismo d'interazione politica fra soggetti in Russia avviene essenzialmente per il tramite dello stato. In altri termini, la Russia è dotata di un sistema politico di tipo gerar­ chico verticale e non a griglia interattiva orizzontale. Alla Russia, cioè, non possono essere applicati gli schemi di David Easton di rappresenta­ zione del sistema politico come modello di input-output analysis. Gli input societari, espressi nella forma di «domande» e di «sostegno», che costi­ tuiscono la materia prima del Sistema politico nelle società occidentali, il cui ruolo è tutto sommato quello di smaltire le domande attraverso il governo, e poi fornire decisioni e azioni che operino politicamente nella società, non sono ancora disponibili nel Sistema russo attuale. In questo contesto, infatti, il principio attivo del sistema politico, ovvero il motore di esso, che si definisce come l’«autorità» o il «governo», si estende a dismisura, allargando e sovrapponendosi all'intero meccanismo socio-eco­ nomico produttore di domande e di risorse.

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In Russia si ha quindi una sorta di identificazione fra società e Stato che non consente, nell’attuale situazione, di individuare una separazione netta fra i due ruoli e funzioni. Lo Stato è la società così come è vero anche il contrario. Ne deriva che ogni tentativo di accrescere le prestazioni dello Stato, ovvero di valorizzare la società in quanto matrice di domande, risorse, informazione e consenso, si confonde in una indistinta commistione dei ruoli e delle funzioni, con risultati molto deludenti in termini di performance delle istituzioni. Questa confusione dei compiti o sovrapposizione dello Stato sulla società è un fenomeno storico che risale probabilmente alle origini «patrimoniali» dello Stato russo e poi sovietico (Pipes), ma che oggi è fortunatamente in via di logoramento. Tuttavia questa concezione tradizionale della politica non è morta. Essa resta infatti alla base della cultura politica generale delle masse e delle élites politiche, professionali o intellettuali. La Russia, quindi, è governata anche come società civile dal suo Stato sia attraverso i suoi padroni (autocrate, dittatore, segretario generale, pre­ sidente), sia dai suoi funzionari proposti ad una burocrazia sterminata che, ancora oggi, non ha alternative reali di occupazione. Non è un caso infatti che, nonostante le drastiche riforme economiche imposte dal governo Gaidar nel 1992 e poi tutto sommato mantenute in vita da Cernomirdin nel 1993, l’occupazione sia ancora altissima e il tasso ufficiale di disoccupazione sia inferiore al 2% della forza lavoro. Secondo la tradizione, quando lo Stato egemonizza, per ragioni di emer­ genza o altro, la società civile e l'economia, come accade nello stato di «guerra totale», si hanno due fenomeni paralleli e contraddittori: da un lato l’inflazione monetaria galoppa mentre dall'altro lato l’occupazione è quasi al massimo. Il fatto che i riformatori in Russia, da Gorbaciov a Eltsin, da Gaidar a Cemomirdin, siano stati disposti a sopportare l’impopolarità azze­ rando con l’inflazione e la liberalizzazione dei prezzi i redditi di oltre i tre quarti della popolazione, ma non abbiano avuto la forza di ridurre l’occu­ pazione in settori e imprese statali decotte e improduttive, testimonia di questa centralità, anzi unicità, della Russia sotto l'egida dello Stato, e al tempo stesso, di una condizione tipica delle economie di guerra. Ma non basta. L’assimilazione della società e dell’economia sovietiche alle condizioni della «guerra totale», cioè della mobilizzazione di tutte le risorse materiali ed umane per far fronte a un conflitto generale (Guerra Fredda o calda), è confermata dalle caratteristiche dei processi socioe­ conomici e politici diretti alla produzione delle risorse e alla formazione del reddito nel periodo sovietico. La unicità dello Stato e la sua centra­ lità venivano esaltate dalla programmazione pressoché totale delle risorse, dalla pianificazione degli investimenti, nonché dalla fissazione ammini-

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strativa dei prezzi. Il crollo del sistema sovietico ha destrutturato questo sistema di controllo e pianificazione con conseguenze gravi sul terreno del funzionamento dell'economia e quindi della società. Il sistema della «guerra totale», caratteristico dell'intera esperienza comunista, derivato dalle concezioni lenin-stalinista dell'isolamento e del­ l’accerchiamento imperialista, è quindi andato in pezzi, senza peraltro dar vita ad un meccanismo di mercato diffuso e operativo. I frammenti del sistema di «guerra totale» continuando a operare come le membra di un corpo al quale sia stato spiccato il capo, quindi la pianificazione e il controllo. Di qui il paradosso dell'inflazione che si accompagna alla piena occupazione, alla caduta verticale della produzione di merci inutili e fuori mercato, quindi all'impiego perverso delle risorse, al crollo dei redditi fissi, vale a dire oltre i 5/6 della forza lavoro. In effetti, la disoccupazione in Russia avrebbe creato (e certo creerà se si avvierà un serio programma di privatizzazione industriale) per molti anni a venire solo una massa di vagabondi che si collocherebbero all’estemo del circuito centrale dello Stato, ma anche al di fuori del mercato privato che non potrebbe assorbirne più di una certa cifra. Si troverebbero quindi nella drammatica condizione di non aver più alcun ruolo sociale, sarebbero quasi delle non-persone assai poco garantite dal sistema della sicurezza sociale e delle pensioni. Sulla base di questa ipotesi, cioè che in Russia non esista quasi nulla al di fuori dello Stato, è possibile spiegarsi perché un sistema politico, inteso in senso occidentale, tardi a formarsi e che anzi i partiti della nostalgia e/o della reazione (dai comunisti agli agrari ai liberaldemocratici), trovino tanta udienza. Così come è del tutto evidente che i segnali autoritari che pro­ vengono dal Cremlino non siano altro che il tentativo di controllare lo Stato fintanto che una società civile e un sistema politico moderni non siano in grado di muovere da soli i primi passi. Per ora quindi il sistema politico russo, per quanto si sforzi di autonomizzarsi rispetto allo Stato, non si struttura ancora in un sottosistema partitico che convoglia gli interessi e interagisce con la società civile per governarli. Gli «interessi» ci sono e si organizzano, ma non sono rilevabili politicamente altro che come gruppi corporativi (Partito agrario, Unione civica) o di pressione (Donne della Rus­ sia, Dignità e carità). Altrimenti sono valutabili solo statisticamente, in via egualitaria sulla base dei diritti-doveri, oppure per capacità di corruzione delle strutture dello Stato, o ancora per ragioni etniche, infine per rivolta o ribellione (come i minatori del Donbass), oppure anche per caso sulla base di referenti culturali emozionali veicolati dai media. Ma anche queste embrionali forme di coalizione degli interessi si mani­ festano in modo ambiguo a livello corporativo oppure a livello ideologico.

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Nel primo caso, infatti, i partiti di tipo corporativo, come gli agrari e l’Unione civica, per loro natura sono meno portati a darsi delle regole di gioco valide per l’intera società politica, poiché sviluppano solo quei prin­ cipi programmatici che salvaguardano la propria area esclusiva d’inte­ resse, senza curarsi troppo degli interessi generali. Si tratta cioè di for­ mazioni solide, in quanto legate da oggettive ragioni di unità, ma che non hanno la capacità di diventare partiti nazionali nel senso compiuto del termine. Nel secondo caso, invece, cioè nelle formazioni di tipo nazionale dotate di un pacchetto di valori ideali riconosciuti, come è il caso dei tre partiti che, in linea di principio, dovrebbero rappresentare meglio degli altri, sia la destra (Zhirinovsky), che il centro (Gaidar) o la sinistra (Zhuganov), cioè i democratici di Scelta per la Russia, i comunisti e i liberaldemocratici, l’ambivalenza dei contenuti programmatici rispetto alle sigle è generale. Si tratta infatti di organizzazioni che inglobano interi territori della politica tradizionale ma che al tempo stesso sono penetrati nelle regioni inesplorate della politica moderna, sulla base però della condivi­ sione di pochi principi o idee, spesso di pregiudizi o rancori, nostalgie ed odii. Siamo di fronte in questo caso a partiti che potremmo definire come «ideologici», o meglio pseudo-ideologici, con scarsa organizzazione spon­ tanea, ma con un forte radicamento nelle strutture dello Stato, con pro­ grammi semplificati ma tratteggiati retoricamente, basati sulla restaura­ zione promessa del bel tempo andato, ovvero sulla speranza di una indi­ pendenza salvifica o di una «nazionalizzazione» liberatrice che costrui­ sca la comunità e allontani il conflitto, ma che alimenti anche il dibat­ tito pluralista e tenda ad escludere le differenze per valorizzare acritica­ mente le affinità ideali. L’embrionalità politica di queste formazioni è dovuta a molte ragioni. Alcune sono d’ordine strutturale, come quelle che derivano dalla giovi­ nezza o meglio dall’infanzia politica del sistema democratico. Altre sono invece di ordine congiunturale, come quelle che derivano dalla fretta con cui si sono organizzate le elezioni e si è preparato il referendum sulla costituzione dopo i cruenti avvenimenti del 3-4 ottobre 1993. Tale incertezza si rivela perfino nella semantica politica, cioè nei signi­ ficati che sono attribuibili alle definizioni del linguaggio politico russo rispetto a quello di altri paesi europei. Ad esempio, il continuum destra­ sinistra che, nella tradizione dell’analisi politologica euroamericana costi­ tuisce uno strumento essenziale di comprensione dei sistemi politici occi­ dentali e delle loro forme-partito, in Russia ha una valenza del tutto diversa, se non opposta. Basti pensare che mentre comunisti e affiliati si collocano normalmente sulla sinistra del continuum, in Russia sono col­

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locati alla destra dello schieramento, quindi fra i conservatori, mentre i democratici alla Gaidar o alla Shakraj, invece di essere al centro, si col­ locano alla sinistra e sono generalmente considerati come radicali. Questa inversione dei significati ha conseguenze politiche immediate, nel senso che facilita la nascita di coalizioni apparentemente paradossali fra comunisti e nazionalisti o fascisti, come è stata quella, incendiaria, del Fronte di salvezza nazionale che aveva tentato 1’insurrezione il 3 otto­ bre scorso, mentre ha ridotto le potenzialità di attrazione dei democra­ tici e dei riformisti più accesi, la cui collocazione politica è vissuta dal­ l'opinione pubblica come una posizione estremista di sinistra, e come tale da non appoggiare. Questo pregiudizio nominalista si traduce infine nelle difficoltà che i democratici incontrano sempre (anche con il vecchio Congresso del popolo) nel mobilitare forze politiche diverse attorno al proprio pro­ gramma politico. D’altro canto, i centristi veri, come è il caso di Travkin e di altri piccoli movimenti o di leader secondari o locali, non possono che finire ogni volta nelle braccia dei conservatori, comunisti e/o nazio­ nalisti, in quanto rappresentano interessi gradualisti che non tollerano la velocità di marcia delle riforme rivoluzionarie di Gaider o dello stesso Eltsin. I centristi, in altri termini, si distinguono dai comunisti e dai con­ servatori tout court, solo per la loro adesione formale al metodo demo­ cratico, ma alla prova dei fatti, cioè di fronte ai provvedimenti legislativi e ai decreti di trasformazione del sistema socioeconomico, non possono non reagire in modo negativo. Paradossalmente, quindi, rischia di diventare più credibile la destra ufficiale, non tanto quella di Zhirinovsky che, per quanto quantitativa­ mente forte, tende ad autoeliminarsi in termini di credibilità per gli eccessi verbali del suo leader, quanto quella dei nazionalisti alla Baburin, che è stato eletto col sistema maggioritario a Saratov, ma al quale era stato impedito di presentare la sua lista di partito nonostante avesse fin dal­ l’estate scorsa preso le distanze dal Fronte nazional-patriottico golpista, del quale peraltro era stato uno dei soci fondatori. Baburin ed altri esponenti del nazionalismo grande-russo, e perfino eurasiatista, potrebbero potenzialmente diventare alleati di Eltsin se solo il presidente prenderà qualche misura più rigorosa in termini di salvaguardia dei diritti delle minoranze russe nelle ex repubbliche sovietiche (oltre 25 milioni) e un atteggiamento più fermo relativamente alla vexata quaestio della «zona d’influenza» russa in Europa orientale, nel Caucaso e in Asia centrale. In altri termini, la politica russa potrà entrare in una fase di stabilità solo a patto che prosegua sulla strada della modernizza­ zione politica ed economica senza trascurare le componenti costitutive

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della sua tradizione e cultura politica. Liberarsi del comuniSmo fino in fondo non vuol dire infatti liberarsi della tradizione nazionale e eurasiatista di cui l’intellettualità russa è imbevuta da un secolo e mezzo. Per evitare di vivere una terza stagione imperiale, con tutto il suo cor­ teggio di sangue e di guerre civili, la Russia non potrà perciò limitarsi a seguire il percorso dell’occidentalizzazione senza freni. Il pericolo di que­ sta scelta è infatti quello di perseguire il Modello di una «dittatura dello sviluppo» senza sviluppo, imposta con la forza ad un sistema politico statualizzato, senza radici di mercato e quindi senza la necessaria flessibi­ lità per crescere sulle spalle della coercizione. Sarà costretta a venire a patti con alcune forze tradizionali. Se queste forze fossero i comunisti l’intero meccanismo che si è messo in movi­ mento faticoso e destabilizzante alla fine degli anni '80, verrebbe bloc­ cato dall’impotenza economica e dall’emorragia inflattiva dei sussidi al sistema statale e all'occupazione forzata. Se si accordasse invece con le forze della tradizione nazionalista (senza Zhirinovsky) che non hanno preclusioni antiliberiste ma solo patriottiche, la nuova Russia potrebbe incamminarsi più facilmente per la strada della trasformazione. I nazionalisti russi, in realtà, sono sempre stati una forza consistente, molto potente in certe occasioni, ma debole e inconcludente nella mag­ gioranza dei casi. Il loro problema è quello, irrisolto, dell’identità nazio­ nale russa. Nessun russo sarà in grado di definirla in termini convincenti perché essa è sempre stata il portato di ideologie sovrapposte ad un Impero in espansione. Lo Stato russo imperiale ha dato vita alla concezione nazio­ nale grande-russa, e poi panslava, solo nella seconda metà del secolo XIX, sovrapponendosi come un’etichetta nuova ad una bottiglia di vino vec­ chio. La fine dell’impero nel 1917 e poi ancora nel 1991 ha infranto quella bottiglia lasciando l’etichetta a sventolare come un foglio senza signifi­ cato e valore. Le frontiere della Russia odierna sono come i frammenti, per quanto giganteschi, di quella bottiglia infranta, di cui i nazionalisti sentono tutta l’incompiutezza e assurdità. Il loro ruolo, quindi, non è necessariamente negativo. Essi potrebbero un giorno rappresentare il vero Partito conservatore legittimato dal sistema in una Russia modernizzante e occidentalizzante. La loro esistenza è tutto sommato una specie di garan­ zia di legittimità di uno Stato che, attualmente è mutilato e incompleto, sia nei suoi confini geografici sia nella rappresentatività del suo governo. A differenza dei comunisti che sono incompatibili con il sistema poli­ tico democratico russo e dovranno gradualmente scomparire, i naziona­ listi rappresentano oggi l'alter ego di una realtà profonda del paese. I comunisti, che sono stati, in ordine di tempo, gli ultimi occidentalisti modemizzatori, dotati di un’ideologia politica che nei fatti ha fallito eia-

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morosamente i suoi obiettivi, sono stati oggi sostituiti dai democratici, che tentano ancora una volta la carta dell’occidentalizzazione, come già nel passato avevano fatto Ivan IV il Terribile, Pietro I il Grande e Cate­ rina II, Lenin e Stalin. Ma i nazionalisti, che rappresentano ancora oggi quella Russia interna e profonda, eurasiatica e guerriera, nomade e rurale, bizantina e barbarica, non possono essere tenuti fuori della portata senza che si prepari una reazione inarrestabile. Le elezioni del 12 dicembre 1993 e poi quelle del 1996 hanno individuato nel voto per Zhirinovsky una di queste anime, stravolta nello sberleffo e nella minaccia, segnali tutti da non sottovalutare. Sarebbe un errore perciò scartare l’episodio quasi fosse un incidente elettorale imprevisto presto rimediabile. Qual­ siasi sarà il governo della Russia nei prossimi anni, il confronto con le forze della sua tradizione di destra diventerà inevitabile. Il successo di Zhirinovsky ha invece un altro significato. Su un gradino intermedio ed esterno rispetto a queste strutture infatti vi sono quelle formepartito legate a particolari figure politiche che rappresentano dei leader carismatici. In genere si tratta di leader potenziali, spesso improvvisati, la cui popolarità deriva dall’estremizzazione delle proposte politiche in un paese come la Russia dove il diverso, l’originale, l’eccessivo, era stato negato dall’ottuso grigiore censorio del regime e dai luoghi comuni della fraseo­ logia comunista. La lingua libera di dire e contraddire, di auspicare la forza, l'anarchia o l’apocalisse, di rassicurare i passatisti e stimolare i deboli e i frustrati, di cui Zhirinovsky è l’interprete più vistoso, ma di cui Zhuganov è il vate organizzativo, sollecitando l’amor di patria della Grande Russia più che non il nazionalismo dell’identità etnica, esaltando piuttosto la grandezza perduta dello Stato imperiale che non il sangue della nazione, ha uno spazio certo e talvolta sovradimensionato in un sistema politico basato sullo Stato unico, Modello di funzionamento conosciuto, subito di mala­ voglia ma anche accettato. Una recente analisi disaggregata degli elettori di Zhirinovsky - secondo l’All-Russian Center for Public Opinion and Market Research, diretto da Yuri A. Levadam - ha rivelato infatti che, al di là delle categorie professionali più vicine al demagogo russo, come i militari e gli apparati di sicurezza, la com­ posizione sociologica dei votanti è costituita da due tipi di elettorato. Anzi­ tutto quello dei lavoratori maschi di livello medio-basso delle industrie di Stato provenienti da città inferiori ai 100.000 abitanti (a differenza dei comu­ nisti di Zhuganov che ha pescato molto fra gli anziani, i pensionati e i marginalizzati dall’inflazione), e poi quello dei giovani al di sotto dei 25 anni della fascia urbana e metropolitana, con educazione medio-alta, non poli­ ticizzati, ma amanti dell’azione e della forza.

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Ma per comprendere meglio il fenomeno Zhirinovsky nonché la sua presa emotiva su di un elettorato incerto e inesperto delle regole del gioco democratico, va sottolineato il fatto che almeno un terzo dei suoi elettori avrebbero deciso di votare per lui nella stessa giornata delle elezioni. D’al­ tronde sarà sufficiente dare uno sguardo ai risultati delle elezioni del 12 dicembre 1993 per rendersi conto di quanto evidente sia questa anoma­ lia (nei paesi comunisti dell’ex impero sovietico, non dappertutto le cose stanno in questo modo) che caratterizza la situazione politica russa. Come noto, la Duma di Stato, cioè la Camera bassa (la Camera alta si chiama Consiglio federale, è composta di 176 membri eletti con un sistema diverso, due per soggetto) si compone di 450 deputati eletti con metodo misto: 225 col metodo proporzionale e 225 col sistema uninominale mag­ gioritario a solo turno. È una legge elettorale che in un paese come la Rus­ sia, così esteso e differenziato, rivela molto sullo stato di salute, ovvero sul livello di avanzamento del suo sistema politico e partitico. Dei 225 seggi assegnati col sistema proporzionale i partiti democra­ tici filo-Eltsin hanno avuto circa 100 seggi (Scelta per la Russia, 40; Jabloko, 20; Unità e intesa, 14) mentre la vecchia sinistra ne ha ottenuti 67 (comunisti, 32; agrari, 21; democratici di Travkin, 14), ai quali dovreb­ bero essere aggiunti almeno 10-12 seggi del Partito delle donne di Rus­ sia che ne ha ottenuti complessivamente 21, mentre la destra di Zhiri­ novsky ha avuto 59 seggi. Con l’eccezione del gruppo di pressione fem­ minile si tratta di partiti tutto sommato ideologici che, con il sistema pro­ porzionale, hanno beneficiato della vecchia concezione della politica basata su programmi retorici, liste preselezionate di candidati e talvolta di leader carismatici. 1225 seggi assegnati col sistema maggioritario, invece, hanno mostrato un andamento molto diverso. Alcuni partiti, come quello di Zhirinovsky, hanno conquistato un numero esiguo di seggi (11), mentre altre forma­ zioni o singoli candidati hanno ottenuto seggi e voti sulla base esclusiva deìì’appeal personale, come è stato il caso dell’Unione civica di Volsky che non ha superato lo sbarramento del 5% dei voti necessari all'entrata in lizza per l’assegnazione di seggi con la proporzionale, mentre ha ottenuto ben 18 seggi nella quota votata con l’uninominale secca. In questo ambito la prevalenza degli indipendenti (30 seggi) si accompagna alla messe rac­ colta dai candidati del presidente (56) che hanno raddrizzato parzial­ mente l’evidente sconfitta subita, in termini di voti, rispetto a Zhirinov­ sky (15,38% rispetto al 22,79%). In termini strettamente numerici i 450 deputati alla Duma di Stato possono essere, grosso modo, raggruppabili in tre fasce di circa 133 voti conservatori (comunisti, agrari e democratici di Travkin), di 160 voti rifor­

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misti (Scelta della Russia, Partito delle riforme, Unità e intesa) e di circa 70 voti nazionalisti (liberaldemocratici), con gli altri 87 seggi sommaria­ mente ripartiti fra i tre gruppi principali. Il risultato elettorale è stato comunque molto deludente per il presi­ dente. La speranza che animava, infatti, gli uomini vicini a Eltsin, cioè quella di costruire un forte blocco riformista al centro dello schieramento politico che reclutasse sulla destra e sulla sinistra e fornisse di volta in volta l’appoggio alla politica di trasformazione in atto, è andata delusa. In linea teorica il Modello di funzionamento del Parlamento, basato su tre raggruppamenti principali, dovrebbe essere il più instabile fra quelli possibili. Una sorta di tripolarismo zoppo, infatti, che si fonda sul rischio permanente dell’alleanza di due componenti contro la terza. Sia che si tratti di una coalizione fra Gaidar e Zuganov, ovvero di un'intesa, ben più pericolosa, fra comunisti e liberaldemocratici sulla pelle dei democratici, l'ingovernabilità del paese sarebbe in ogni caso assicurata. Meno proba­ bile è invece un accordo fra i democratici e la destra di Zhirinovsky che incontrerebbe comunque l’opposizione dell’opinione pubblica interna­ zionale. Eppure le cose non andranno necessariamente in questo modo. Il Modello tripolare presuppone infatti una forte strutturazione partitica o delle coali­ zioni elettorali che nei fatti non esiste ancora, data la fretta con cui si è andati al voto e l’assenza di organizzazione della maggior parte delle forze politiche rappresentate nella Duma di stato. Al di là del Partito comunista di Zhirinovsky, che attinge la sua forza fra i fondi di magazzino del vecchio PCUS, e di Scelta per la Russia di Gaidar, che si serve largamente degli strumenti statali e governativi di controllo, influerìza e informazione, le altre forze politiche, per le ragioni già dette, non sono in grado di garantire la disciplina di voto dei propri eletti. Per non parlare dell’alto numero di eletti con il sistema maggiori­ tario (225), di cui oltre 30 sono del tutto indipendenti. Ma anche quelli eletti sotto le insegne dei partiti politici, se eletti col metodo maggiorita­ rio, avranno un'autonomia politica e decisionale molto più alta di quelli eletti con la proporzionale e il voto di lista. Questa eterogenea composizione dei deputati da un lato impedirà la formazione di gruppi di maggioranza stabili e sicuri, ma dall’altro lato potrebbe consentire la formazione di maggioranze ad hoc sui singoli prov­ vedimenti da approvare, senza necessariamente creare una cronica con­ trapposizione fra legislativo ed esecutivo, come era accaduto con il disciolto Congresso del popolo. Ma le differenze nel voto, e quindi anche quelle relative alla distribu­ zione politica dei deputati alla Duma di stato, non è solo dovuta al dua­

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lismo dei metodi elettorali utilizzati. Essa è anche la conseguenza di una crescente divaricazione fra modalità politiche operanti al centro e quelle in vigore nella periferia, cioè fra trend federale che accompagna fin dal­ l’inizio questi anni difficili di riconversione della politica russa. In termini generali si può dire che esiste un'ulteriore distinzione che rende difficile la lettura unitaria e improbabili le previsioni sul futuro del sistema politico russo, cioè la sua spaccatura territoriale ed elettorale fra un nord pro-Eltsin e un sud anti-Eltsin. Un recente studio compiuto da tre ricercatori russi (Sobyanin, Gelman e Kayunov) ha infatti dimostrato che il 55° parallelo costituisce un vero e proprio spartiacque politico-elettorale. Sulla scorta dell’analisi dei dati delle elezioni presidenziali del 1991, del referendum dell’aprile 1993, e ora anche sui dati delle elezioni del dicem­ bre 1993, è possibile sostenere che si sta definendo una sorta di dualismo geografico elettorale russo abbastanza caratterizzato fra Nord e Sud del paese. Le regioni economiche della Russia in cui Eltsin ha ottenuto il minor numero di consensi sono state sette, tutte collocate a sud del 55°-58° parallelo. Dagli oblast meridionali della Regione centrale (Bryansk, Kaluga, Orel, Ryazan, Tula) alla regione Volga-Viatka (Nishni-Novgorod e le tre repubbliche dei Ciuvasci, dei Mari e della Mordovia), dalle Terre nere centrali (Belgorod, Kursk, Lipetsk, Tambov e Voronez) alla Regione del Volga (Volgograd, Penza, Samara, Sararov e Ulianovsk) al Caucaso del nord (Repubbliche degli Ingusci, Daghestan, Karachaevo-Cerkassia, Kabardino-Balkaria, e Adygeya), fino agli Urali meridionali (Kurgan, Orenburg, Veliabinsk e la repubblica del Bashkortostan) e alla Siberia occi­ dentale (Novosibirsk). Questa singolare geopolitica del voto russo indica quindi una linea di demarcazione che segue i contorni del divario economico e sociale fra le diverse aree del paese, ma anche una probabile linea di divisione inte­ retnica che si riallaccia all'altro grande tema politico della Russia odierna, quello di dare un senso al processo di trasformazione politica, oltre che nella costruzione di un sistema politico moderno, anche alla soluzione dell’irrisolto problema delle relazioni fra centro e periferia, fra nord e sud, fra governo centrale e singoli soggetti della federazione. La linea di demarcazione interetnica principale, ora che le ex repubbliche sovietiche dell'URSS sono diventate degli Stati indipendenti, è sempre di più quella fra russi e non-russi, cioè fra veri russi (russkif) e russificati (rossiskij), cioè non-russi. Se le regioni che abbiamo ricordato fossero studiate solo sotto il pro­ filo degli interessi o delle vocazioni economico-sociali, come è il caso della ricerca di Sobyanin e soci, probabilmente l’analisi elettorale avrebbe

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un senso riduttivo rispetto alla sua vera natura che è invece quella di essere una manifestazione di ostilità legata tanto a motivazioni d’ordine socioeconomico quanto a cause di tipo politico ed etnico. In questa chiave la linea del 55°-58° parallelo potrebbe diventare la chiave interpretativa di molti problemi e difficoltà, ma anche un notevole strumento di con­ trollo del nuovo sistema politico della Federazione russa. Attraverso la formazione di partiti russi, di partiti agrari o territoriali di regione, ovvero attraverso la costituzione di partiti etnici non russi, di partiti dell'industria di Stato, di quella privata, dei centri minerari, di par­ titi metropolitani (a Mosca, Pietroburgo e altrove nei grandi centri), di partiti di campagna, e altro, la società civile potrebbe imboccare la strada della sua crescita e differenziazione senza per questo cadere nell’anar­ chia della frammentazione politica oppure nella falsa unità della retorica e delle ideologie. Questo punto di analisi del sistema politico ci conduce infine alla nuova carta costituzionale approvata il 12 dicembre 1993. In questo documento basilare del nuovo Stato russo le questioni principali sono sostanzial­ mente due: a) quella delle relazioni fra i poteri dello Stato, che è una tematica squisitamente nazionale e b) quella dello statuto federale dello stato che coinvolge invece le relazioni con la periferia. La questione prin­ cipale, a nostro parere, è proprio quella dell’assetto federale. Com’è noto le costituzioni federali non sempre attribuiscono ai diversi territori federati poteri e diritti dello stesso tipo. Mentre negli Stati Uniti i cinquanta Stati beneficiano degli stessi diritti e sono soggetti agli stessi doveri rispetto alla costituzione e al governo federale, nella tradizione della Federazione russa, e precedentemente nell’era sovietica, esisteva una complessa e asimmetrica struttura gerarchica di attribuzione di ruoli, funzioni e poteri (repubbliche, oblast, kraj e okrug) complicata ulterior­ mente dal fatto che si trattava di criteri di selezione anch'essi di dubbia interpretazione. A cominciare dalla distinzione fra repubbliche dotate di nazionalità «titolare», di oblast titolati di nazionalità etnica ovvero di oblast territoriali o accorpati per ragioni economiche, di aree metropolitane, di distretti, ecc. I problemi del conflitto fra centro e periferia sono quindi antichi e difficili da risolvere soprattutto ora che la catena gerarchica si è spez­ zata e le mediazioni ufficiali di regime sono entrate in crisi con l'inter­ ruzione del canale privilegiato costituito dal Partito comunista. A questa carenza funzionale si aggiunge il fatto che la caduta, spesso verticale, della produzione e del reddito ha ridotto sia le funzioni di estrazione che quelle di erogazione delle risorse dalla periferia verso il centro e vice­ versa. In questo clima surriscaldato dove alla trasformazione dei gruppi

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dirigenti politici in periferia fa riscontro una minore disponibilità di risorse, gli antichi divari di trattamento diventano o sono percepiti come iniquità e ingiustizie da riparare. La più stridente fra le disparità di trattamento era sempre stata quella del divario nell’erogazione dei sussidi centrali alle repubbliche, prima autonome, che rappresentano solo il 15% della popolazione della Fede­ razione, e agli oblast territoriali che pagano di più e ricevono meno, pur essendo i principali produttori di risorse sotto forma di tributi. La prima scelta generalizzata da parte dei diversi soggetti della Federazione, cui la costituzione attuale cerca di porre freno, è stata quella, iniziata dalle repubbliche, di perseguire una crescente autonomia fino alla sovranità (che nel linguaggio politico russo significa uno stato intermedio rispetto all’indipendenza) e l’indipendenza vera e propria, come rivendicano ormai da tempo il Tatarstan e la Cecenia. La seconda richiesta è stata quella di una parificazione di trattamento fra repubbliche e oblast, cioè fra istituti di diverso ordine e rango costituzionale. La costituzione eltsiniana ha definitivamente sancito questa egua­ glianza di diritti dei diversi soggetti (88) della Federazione. All’articolo 5, primo comma del testo si legge infatti che «la Federazione russa è costi­ tuita da repubbliche, regioni, province, città di rilevanza federale, di provincie autonome, di circondari autonomi, che sono tutti soggetti di pari diritto della Federazione Russa (FR)». E al quarto comma soggiunge che «nelle interazioni con gli organi del potere federale tutti i soggetti della Federazione hanno pari diritti». L’affermazione di questo principio della parità di diritti fra i soggetti della Federazione è un punto importante che ha probabilmente trovato riscon­ tro anche nei risultati elettorali. Nella costituzione infatti, la concessione della parità è stata il frutto di un compromesso fra il presidente e i soggetti minori. A questi, in particolare oblast, kraj, okrug, eccetera sono stati con­ cessi diritti pari a quelli delle repubbliche, ma nel contempo tutti i soggetti hanno aderito al secondo comma dell'articolo 4 che recita «La costituzione della FR e le leggi federali hanno la supremazia su tutto il territorio della FR» e al terzo comma che «la FR difende l’integrità e l’inviolabilità del suo territorio». È certo vero peraltro che al terzo comma dell’articolo 5 si dice che «la struttura federale della FR è fondata sulla sua integrità statale, sull’unità del sistema del potere statale ... Nonché sul pari diritto e l’autodetermi­ nazione dei popoli della FR», ma il termine «autodeterminazione», per quanto importante, sostituisce la formula, ben più potente che prevedeva il «diritto di secessione» come nella costituzione brezhneviana del 1978. In realtà, la politica continua a funzionare attraverso e per il tramite

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dello Stato, invece che attraverso il sistema politico e l’autonomia dei par­ titi, intesi come associazioni libere di fatto. Lo Stato quindi conserva quasi intatta la sua capacità operativa. Ne discende che il federalismo dello Stato non può andare oltre il decentramento amministrativo, linguistico, culturale e talvolta economico. Dal punto di vista politico e della sicu­ rezza, il controllo centrale deve per necessità essere esercitato con rigore e al tempo stesso flessibilità, pena la dissoluzione dell’unità statale. La disgregazione del Partito comunista e dell’unione Sovietica hanno dissolto la macchina di controllo superstatale del partito, ma hanno sal­ vaguardato, salvo qualche modifica che neppure la costituzione di Eltsin sarà in grado per adesso di accentuare, la struttura dello stato burocra­ tico con le sue abitudinarie funzioni di raccolta delle risorse, di eroga­ zione e di filtro-controllo attraverso la normativa regolamentare e le pro­ cedure amministrative. L’esecutivo centrale con Eltsin, a partire dal 1991, ha cercato di ricondurre al centro il controllo e l’esercizio della decisione, cioè della sovranità, attraverso l’uso dei poteri di eccezione con la nomina dei governatori provinciali (negli oblast) che hanno generalmente intera­ gito con i soviet locali e la nomenklatura ex comunista. Si è così ripro­ dotto, sia pure in sedicesimo, nelle provincie quello che è accaduto al centro dove la paralisi operativa dovuta al duro confronto fra esecutivo e legislativo è stata risolta bruscamente con lo scioglimento del parla­ mento il 21 settembre 1993. Nelle repubbliche, già definite «autonome» ma oggi senza aggettivo, le cose sono andate diversamente perché non esiste la figura di governatore che fronteggia gli organi elettivi repubblicani, ma negli oblast, nei kraj, negli okrug e nei soggetti minori, lo scontro fra il governatore e il soviet ha assunto forme diverse da quelle di Mosca fra Eltsin e Khasbulatov. La distribuzione geografica del potere locale è quindi ormai molto varia e si dispone sul territorio a macchia di leopardo. In alcuni casi le regioni hanno visto lo scontro fra centro e soggetti locali, in altre c’è stata invece una alleanza fra i due alle spalle del centro, in altri infine ha prevalso il potere locale. Il potere dei governatori si è rivelato oscillante, sia rispetto alla fedeltà verso Eltsin, spesso rinnegata nei momenti cruciali come dopo il 21 settembre o il 3 ottobre 1993, talvolta concessa con difficoltà. Su questa realtà incerta si sono innestati i decreti del presidente emessi dopo il 4 ottobre 1993, le elezioni di dicembre e l’entrata in vigore della nuova costituzione che assegna poteri forti al presidente anche nelle regioni. Concludendo si può quindi dire che il processo di destatalizzazione della società russa, paradossalmente passa ancora una volta per il tra­ mite dello Stato centrale. La costituzione e i decreti del presidente, infatti,

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avevano l'obiettivo di togliere alcuni poteri di tipo politico-operativo dalle mani del parlamento e dei soviet locali per separare le due funzioni, quella esecutiva e quella legislativa. Le elezioni locali, del giugno 1994, hanno confermato questo trend che nella sostanza si propone di destabilizzare le provincie favorendo la privatizzazione della politica e dell’economia, senza per questo interrompere il ciclo interattivo di trasmissione dal cen­ tro della tradizione statalista. I pericoli insiti in questa prospettiva sono ovviamente molti. A partire da quelli che derivano dal fatto che buona parte delle frontiere interrepubblicane, interregionali, ecc. sono state fissate in altri tempi e per moti­ vazioni diverse da quelle etniche o territoriali. Nonostante questo e gli altri problemi che abbiamo preso in esame, non si può non constatare che la grande ruota della politica russa è ormai in movimento e che sarà molto difficile arrestarne il cammino.

La politica estera e strategica russa

Seppur diminuita di statura e ridotta nei suoi confini la Russia è tut­ tora inespugnabile sul piano militare e resta ancora il paese più grande del mondo. Geopoliticamente però è come un orso in gabbia guardato a vista da una muta di mastini generalmente ostili che si aggirano indiffe­ rentemente dentro e fuori. Ridotta nelle sue dimensioni geografiche dalla frantumazione dell’Unione Sovietica, e più ancora ridimensionata politicamente dalla perdita dell’impero «esterno» (l’ex Patto di Varsavia) e poi da quello «interno», la Federazione russa è oggi minacciata perfino nella sua unità nazionale da tensioni secessionistiche di tipo etnico e regionale che pro­ vengono dalla maggioranza dei soggetti federali (Repubbliche e Regioni). Sembra quasi la rappresentazione fisica del modello geopolitico di sir Halford Mackinder elaborato agli inizi del secolo. Si tratta cioè di un ter­ ritorio sterminato e bicontinentale, isolato al centro dell’«isola mondiale» (la World Island appunto), a cavallo fra Europa e Asia, quasi senza sboc­ chi al mare, relegato nell’area subartica e artica, gigante ghiacciato lontano dai centri della civilizzazione moderna. I segni più evidenti di questa condizione restrittiva sono i seguenti: a) la Russia è oggi geograficamente separata dall’Europa da una bar­ riera di stati che, in quanto ex satelliti o colonie dell’ex impero, non le sono certo politicamente favorevoli, dai Baltici all’Ucraina, per non dire di Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca; b) ha perduto quasi tutti i porti sul Baltico, con l’eccezione di Pietroburgo e di Kaliningrad, che è peraltro un'enclave fisicamente sepa­ rata dalla Lituania e dalla Belarus dal territorio nazionale russo; c) ha perduto le principali basi navali del Mar Nero che sono ora sotto controllo dell’ucraina; d) sta gradualmente perdendo il controllo delle provincie dell’Estremo Oriente ex sovietico, che sempre più si stanno legando al Giappone e agli altri paesi sviluppati dello scacchiere Asia-Pacifico.

La politica estera e strategica russa

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Da secoli non si verificava una situazione comparabile a questa. Possiamo andare indietro nel tempo alla fine del secolo XVII, prima che si affacciasse sulla scena russa lo Zar Pietro I il Grande per trovare una Russia così poco europea. Non sorprende quindi che in questa fase della sua storia torni a galla l’antica nostalgia «eurasista» che assegna alla Russia la funzione di Stato centrale del Continente antico, egemone potenziale dell’intera «landmass» fra il Baltico e il Mar del Giappone. Così come non sorprende che anche sul piano della politica interna i neo­ comunisti e i nazionalisti più accesi trovino delle aree politiche d'incontro nell'avversione comune all’occidentalismo di Eltsin e dei riformatori. D’altra parte, lo stesso governo presidenziale di Eltsin, per quanto debole e senza una base elettorale consistente, si vede costretto ad assu­ mere in politica estera, sia pure in modo oscillatorio e periodico, delle posizioni contraddittorie che ora vanno nella direzione di stringere accordi più saldi con l’Occidente, l’Europa e gli Stati Uniti, per avviare la ripresa economica e la modernizzazione tecnologica, ora invece minac­ ciano ritorsioni e incutono timore ai paesi vicini insospettendo tutti gli altri sulle loro vere intenzioni. Sarebbe un errore da parte occidentale ritenere che queste ambiva­ lenze di segno politico opposto che vediamo emergere dalle dichiarazioni ufficiali, ovvero dalle dichiarazioni dei leader, siano solo il segno di con­ flitti interni all'amministrazione, oppure una conseguenza della debolezza dell’Esecutivo. Le ragioni sono molto più profonde e radicate nella concezione stessa della Russia in quanto entità etnico-nazionale. Come noto la Russia è stata, durante tutta la sua storia, una struttura composita. La sua appa­ rente monoliticità era solo il risultato dell'accentramento del potere, nel­ l’autocrazia zarista prima e nel totalitarismo comunista successivamente. La sua ricomposizione unitaria è stato un processo molto lungo, durato centinaia di anni. Le fasi storiche attraversate sono state almeno quattro. La prima fase è quella più antica quando la “RUS” era ancora una col­ lezione di unità indipendenti, Principati e città libere, uniti da vincoli commerciali e culturali, ma non da obbligazioni politiche. È in questo periodo che si costituisce la ragione d'essere delle con­ traddizioni che ancora oggi si manifestano nella Russia contemporanea. È questo il tempo della formazione del Granducato e poi del Gran Principato di Moscovia. Esso si prolunga, con alterne vicende, fino alla seconda metà del Quattrocento quando il Gran Principe di Mosca, uscendo dal «giogo tartaro» riesce a domare gli altri Principi della Russia Centrale e a diventare Zar.

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Questa fase, detta della «Russia degli appannaggi», si concluse poi verso la metà del Cinquecento, con l’incoronazione al titolo di Zar di Ivan IV il Terribile. L'assolutismo aveva sconfitto il particolarismo dei principi e delle città indipendenti, mai del tutto spento però, che ancora oggi influenza e differenzia i comportamenti politici delle diverse regioni e città russe. In un certo senso si può dire che l’identità nazionale russa, fonda­ mento e salvaguardia della «russità» russa, non è affatto scontata. E che il vero problema della Russia contemporanea, che da un lato favorisce le soluzioni spicce e antidemocratiche come i golpe militari o i governi auto­ ritari, è dall’altra parte quello di riconoscersi a fatica in una «naziona­ lità» che tutto sommato non esiste. Gli abitanti del cuore della Russia, cioè della Russia Centrale, fra il Volga e Pskov, delle città dell’Anello d’Oro fino a Novgorod a Ovest e Riazan a Est, sono certamente russi, anche se con minoranze e ascen­ denze non russe, ma hanno spesso una fedeltà più cittadina o locale che non moscovita. Tver e Vladimir, Rostov e Mosca erano Principati indi­ pendenti, tutti equivalenti per forza militare e territorio che tuttora con­ servano un orgoglio e un'autonomia culturale notevoli. La seconda fase è quella durante la quale viene creato e consolidato l'im­ pero russo. Essa dura almeno un secolo e mezzo durante il quale i Russi proiettati verso la tajga siberiana conquistavano ogni anno tanta terra quanta ce n’è oggi in tutta l’Olanda. Il quasi vuoto siberiano consentì l’e­ stensione ininterrotta della «frontiera» russa verso Est fino al Pacifico. È durante questa fase che si conclude, con l’avvento dello Zar Ivan IV, che i diversi Principati della Russia Centrale, sotto la guida dello Zar moscovita, diventano «russi» tout court. E quindi la loro espansione che ne definisce il carattere nazionale. Non erano russi moscoviti a Tver, Novgorod, Vladimir, ma erano Russi e basta quando si liberavano dai Tartari dell’Orda d’Oro occupando Kazan e poi Astrakhan, ovvero quando, proseguendo nello slancio, invadevano il grande mare di terra siberiano con i cacciatori di pellicce e i soldati. La nazionalità russa dunque si forgia in questa operazione politico­ militare e la Moscovia diventa Russia in quanto potenza imperiale e espan­ siva. Come Moscovia non avrebbe potuto domare le città vicine molto a lungo. Come Russia imperiale sembrò unificarle tutte in nome dello Zar. La terza fase è stata quella «pettina» di Pietro I e poi di Caterina II la Grande e quindi di Alessandro I, il vincitore di Napoleone. È la fase questa della prima «europeizzazione» della Russia e del dibattito intellettuale euro­ peo che ne seguì, da Voltaire a De Gustine, che precede o nasconde quella della sua tentata, e forse mai riuscita, «occidentalizzazione».

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Esattamente come oggi, anche allora la Russia oscillava fra una forte volontà di «occidentalizzazione» integrale e una altrettanto strenua ten­ denza a farsi inghiottire dal suo territorio che è geograficamente sbilan­ ciato verso l’Asia. Gli «occidentalisti» come Pietro I, i Bolscevichi e Eltsin, sono sempre stati sul punto di vincere, per poi ricadere sempre all’indietro. Gli Zar dell’europeizzazione avevano tentato di costruire una identità europea dei russi, mentre erano riusciti solo a creare uno stato basato sul «patriottismo» imperiale, invece che sul «nazionalismo» etnico, come era accaduto nel resto d’Europa. Il patriottismo (la Rodina russa) è infatti un succedaneo insoddisfa­ cente del nazionalismo perché ne accoglie solo gli aspetti civici e terri­ toriali, ma non quelli etnici e culturali. È sovrapposto al territorio dello Stato mentre il nazionalismo segue la nazione ovunque essa vada. Nel caso russo questo carattere patriottico si risvegliava solo durante le invasioni straniere della Russia, e più blandamente durante le fasi di occupazione coloniale di nuovi territori da aggregare all’impero. La quarta fase della vicenda russa è quella più vicina a noi, che tut­ tora stiamo vivendo. I Bolscevichi prendendo il potere cercarono di «nazio­ nalizzare» l’impero zarista attraverso il totalitarismo politico che sosti­ tuiva l'autocrazia, ma soprattutto mediante l’internazionalismo proleta­ rio e il patriottismo ideologico. I due concetti erano apparentemente in contraddizione. In realtà sono complementari perché il patriottismo ideologico serviva a omologare l'impero zarista, mentre I'internazionalismo proletario guidato dal Modello sovietico, serviva a continuare l’espansione eurasiatica (e oltre­ mare) dell’impero petrino. Oggi la situazione è completamente cambiata. Per la seconda volta in tre quarti di secolo l’impero va in frantumi. La prima volta è stato nel 1917-21, la seconda dopo il 1989-91. Anche nel 1917 e in particolare nell’estate-autunno del 1919 il cuore rosso-bolscevico della Russia era ridotto a un sesto di quanto è oggi rima­ sto alla Russia di Eltsin. La sola vecchia Russia Centrale era ancora nelle mani della Guardia Rossa. Con la differenza però che allora era in corso una guerra civile che prima o poi si sarebbe conclusa con la vittoria dei Rossi o dei Bianchi, e che coloro che volevano scalzare i Rossi erano a loro volta per la gran parte dei Russi. Per di più il fenomeno della disso­ luzione imperiale era stato la conseguenza diretta di una Guerra Mondiale e di una rivoluzione, cosicché la guerra civile parve imo strascico della Guerra Mondiale e la ricomposizione forzata dell’impero con Lenin, Trotzky e Stalin, diventò tutto sommato la logica conclusione della guerra e la vittoria della rivoluzione.

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Questa volta però, con qualche eccezione ai confini meridionali, non c'è stata una rivoluzione dal basso e neppure una guerra civile. È quindi più facile immaginare che la frammentazione dell’impero sarà definitiva, almeno per qualche decina di anni perché è avvenuta quasi necessaria­ mente e senza forzature. Se poi dovesse accelerarsi quel movimento cen­ trifugo che interessa ora le repubbliche e le regioni interne alla Federazione russa, allora il problema geopolitico dell'isolamento russo fra i ghiacci eurasiatici potrebbe trasformarsi in qualcosa di assolutamente nuovo, cioè nella decomposizione del nocciolo centrale eurasia­ tico, dello Heartland mackinderiano che negli ultimi quattro secoli non si era mai dislocato. La fine dell’unità centrale eurasiatica sarebbe un fenomeno epocale dalle conseguenze inimmaginabili per la stabilità del mondo. Per la prima volta nella storia la prevalenza degli imperi marit­ timi su quello centrale eurasiatico, fosse quello sarmatico-scita, mongolo, tartaro o russo-sovietico, diventerebbe strutturale. Le «Rimlands» peri­ feriche, cioè i mastini che l'accerchiano, diventerebbero per la prima volta in modo geopoliticamente giustificato, lo Schwerpunkt della potenza mon­ diale aprendo così la stagione di caccia per la conquista e la spartizione delle spoglie dell'impero russo. Non siamo ancora a questo. Esistono però le condizioni di base per­ ché tutto questo possa verificarsi un giorno non lontano. È anche per queste ragioni che il governo presidenziale di Eltsin, e anche il dibattito nel Parlamento russo, si concentra ora sulla necessità complessa di riconcettualizzare la politica estera e quella della sicurezza. In Occidente le cognizioni sulle correnti profonde della politica russa sono assai limitate anche perché l’unico vero successo del comuniSmo reale è stato quello di vincere la battaglia della disinformazione. Per cui gli Occidentali (e anche molti russi) hanno creduto davvero alle cose che venivano proclamate ufficialmente in Unione Sovietica durante 74 anni. In primo luogo alla sconnessa tesi secondo la quale le cento naziona­ lità esistenti all’interno dell’Urss erano più che soddisfatte di essere state integrate nella assurda formula dell’«homo sovieticus». Gli stessi sovie­ tologi occidentali hanno detto e scritto innumerevoli volte che il problema dei sovietici era la libertà e l’economia, non la nazionalità o l'etnicismo. Lo stesso Gorbaciov era convinto delle cose che diceva al punto tale da sottovalutare in modo clamoroso il problema nazionale che lo ha poi poli­ ticamente sconfitto. La soluzione provvisoria escogitata dal governo attuale è stata quella di aver diviso il territorio delle relazioni con l’estero in due campi geo­ politici separati, per ciascuno dei quali la politica da seguire procederà lungo strade diverse.

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Da una parte ci sono le relazioni con l’Occidente, ovvero con i grandi paesi dell’Asia Orientale e il resto del mondo. Con costoro la politica estera russa si muove in modo equilibrato, senza forzature e con molta mode­ razione. Segue le linee ufficiali delle teorie istituzionaliste e normative dirette a costruire un «nuovo ordine mondiale» basato sulla cooperazione e sull’interazione diplomatica fra amici o alleati. Le tesi russe sono quelle della graduale interdipendenza economica e della negoziazione politica, nonché della partecipazione ai lavori di tutte le organizzazioni intema­ zionali multilaterali di cui la Russia è parte nonché attraverso la domanda di associazione a quegli enti di cui non fa ancora parte, come la Unione Europea e perfino la Nato. Dall’altra parte, invece, ci sono le relazioni con le fasce di paesi che face­ vano parte dell'ex impero sovietico, sia di quello interno (l’Urss) sia di quello esterno (paesi dell’ex Patto di Varsavia). Nei confronti di questi attori nazio­ nali ormai indipendenti e sovrani, la Russia tende ad esercitare un’influenza pesante o moderata, quasi che le spettasse ancora di diritto una certa ege­ monia in quanto territori di sua pertinenza o interesse strategico. Sono in particolare oggetto di questa interessata attenzione le ex repub­ bliche federate dell’Urss, e fra queste le repubbliche dell’Asia Centrale, la Belarus, la Moldavia e la Georgia. Esiste addirittura una definizione uffi­ ciale escogitata per separare le due forme assunte dalla politica estera. La politica estera nel caso dei paesi limitrofi si chiama dell’«estero vicino», mentre quella verso il resto del mondo viene detta dell’«estero lontano». Sull’estero «vicino» si possono esercitare pressioni e anche minacce, al di fuori di ogni logica di relazione diplomatica fra Stati, con l’argomentazione che nelle repubbliche di recente indipendenza ex sovie­ tiche vi sarebbero ancora venticinque milioni di russi. Dimenticando peraltro che anche all’interno della Federazione russa ci sono oltre ven­ ticinque milioni di non russi nei confronti dei quali però gli Stati vicini non hanno modo di intervenire. È una relazione asimmetrica questa, statuita per decreto presidenziale e praticata costantemente che sembra puntare alla ricomposizione infor­ male dell’ex impero, ora che l'annessione formale non è più possibile. Basterà guardare al modo come procedono le relazioni fra la Russia ed alcuni paesi Baltici, in particolare l’Estonia e la Lettonia, per compren­ dere come questa politica di serie B verso i paesi limitrofi venga condotta attraverso pressioni e minacce. In alcuni casi, come in Tagikistan e in Georgia, le truppe russe parte­ cipano direttamente ai combattimenti contro i ribelli di qualsiasi sorta che contestano l’autorità del governo repubblicano locale travestiti da forze d’intervento in funzione di peace-keeping o .peace-enforcing.

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In altri invece, come in Moldova, reparti dell’esercito russo (la 14° Armata) sostengono la causa separatista della sedicente repubblica di Transnistria formata da russi e ucraini in opposizione al governo moldavo di Kishinev. In tutte le repubbliche dell’Asia Centrale, infine, i soldati russi presidiano il confine meridionale di quegli Stati quasi che l’Urss fosse ancora in piedi e il compito di protezione dei confini esterni della Comunità degli Stati Indipendenti, finzione giuridica senza contenuti, spettasse per definizione ai Russi. Questa politica verso l’estero «vicino» quindi è un mélange di minacce e di blandizie. Da una parte si sostengono le rivendicazione dei cittadini russi residenti nelle ex Repubbliche sovietiche, minacciando la secessione di larghe parti del territorio, come nell'ucraina Orientale e nella Crimea ucraina, ovvero nel Kazakstan settentrionale, o a Narva nell’Estonia orien­ tale, mentre dall’altra parte si insiste sulla necessità che Stati sovrani come la Polonia, l'Ungheria o la Repubblica Ceca non aderiscano alla Nato. Questa politica estera è ancora poco studiata in Occidente perché le tracce di una consolidata abitudine culturale, secondo la quale alla Russia non si può negare un ruolo, sia pure ridotto rispetto al passato, di tipo imperiale, è una' tradizione di pensiero dura a morire, anche se fondata suH'implicito riconoscimento dei rapporti di forza e sulla legittimazione abusiva delle violazioni del diritto. Per questa ragione anche la Nato, nella sua proposta diretta a risol­ vere la questione della richiesta di associazione più o meno formale all’Alleanza, presentata da alcuni Paesi già facenti parte dell’orbita sovie­ tica, ha ridimensionato l'offerta nei termini della «partnership for peace», un surrogato dell'adesione piena, per non dispiacere alla Russia. Ma non basta perché la Nato ha fatto anche di più prendendo in con­ siderazione la proposta russa di aderire a quel progetto quasi che la sicu­ rezza dei paesi dell'Europa Orientale fosse rafforzata dalla partecipazione russa alla stessa alleanza. La contraddizione è evidente. Non è immaginabile infatti avere come alleati gli stessi da cui ci si vorrebbe contemporaneamente difendere per­ ché la minaccia è legittimamente percepita come proveniente proprio da quella parte. In realtà la politica estera e della sicurezza della Russia odierna non si discosta radicalmente da quella della tradizione zarista prima e comu­ nista poi. Vive cioè della insanabile ambivalenza originaria che è alla base della sua fondazione come Stato, ed è basata sull’equazione della cosid­ detta «russità imperiale». In altri termini essere russo, nella cultura politica di quel paese, vuol dire esercitare funzioni imperiali. Se queste funzioni sono impedite o

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diminuite, allora anche l'autopercezione della «russità» viene perduta. Ne deriva una sorta di perdita d’identità nazionale che può essere recupe­ rata solo attraverso l’espansione territoriale. Che tutto questo avvenga a danno di qualcun altro è del tutto secondario o marginale.

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Se la firma dello storico accordo israelo-palestinese del 13 settembre 1993, avvenuta sotto l’occhio benedicente del Presidente Clinton può essere considerata come il simbolo dell’indiscussa funzione imperiale svolta dagli Stati Uniti nel mondo, bisogna subito aggiungere che con tutta probabilità si tratta di un Impero in declino, qualcosa come Roma nella prima metà del III secolo d.C. E ciò anche se quell’episodio e quelle immagini riprese sul prato anti­ stante la Casa Bianca, dove Rabin e Arafat si sono stretti la mano davanti a un parterre di uomini illustri provenienti da tutte le parti del mondo, dove sventolava la bandiera della Pax Americana, sembrerebbero con­ traddire quest'affermazione. In effetti nei confronti dell'esterno, cioè agli occhi del mondo, gli Stati Uniti sono oggi una superpotenza all’apogeo, senza più rivali di compa­ rabile grandezza, per cui anche il Ministro degli Esteri russo, Kozyrev, che rappresentava l’ex nemico sconfitto e poi associato in modo subal­ terno al nuovo ordine, si è prestato a figurare da comparsa a Washington, insieme al codazzo di Stati satelliti ovvero di asimmetrici alleati. Ma a ben guardare sorge il dubbio che si tratti di una grandezza pre­ sunta, e tutto sommato fittizia, derivata agli Stati Uniti dal loro rispec­ chiarsi nel fallimento dell’alter ego sovietico e nella disgregazione improv­ visa del Sistema Intemazionale Bipolare. Difficile situazione questa della subitanea «evaporazione» del sistema internazionale perché, mentre da un lato ha fatto balenare lo specchietto dell’«unipolarismo» americano, dall’altro lato si è presentata come una ere­ dità gravata di debiti da pagare con l’aumento delle responsabilità e la necessità di avere una costosa prontezza strategica e operativa, tale da poter intervenire nelle aree calde del pianeta, proprio nel momento in cui si fanno più vincolanti i limiti di spesa per gli aiuti all’estero e per la difesa. Ancora meno rosee sono le prospettive sul fronte interno, vero banco di prova della politica e dei governi, dove la recessione più grave dell’ul­ timo quarantennio si accoppia a problemi strutturali, come la produtti­ vità, lo stato delle grandi infrastrutture, dalle autostrade alle città agli

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aeroporti e alle ferrovie, dalle procedure e l’efficienza della pubblica ammi­ nistrazione, fino al sistema sanitario e del welfare. Qui non si tratta però solo di conti da pagare, di imposte da aumen­ tare, ovvero di programmi da inventare a tavolino. Le difficoltà dell’America contemporanea, infatti, sono anche di un altro ordine, più politico-cultu­ rale che non finanziarie o tecniche. Di fronte a questi risvolti incerti della grandezza, il quesito che si pongono gli Americani è quindi ambivalente. Delle due l’una: o gli Stati Uniti - come risulterebbe da mille sondaggi, non­ ché da libri recenti di successo, fra i quali quelli di Paul Kennedy (1987 e 1993) ed altri - sono entrati in una lenta ma costante fase di declino strut­ turale, ripercorrendo la tradizionale via del cosiddetto «ciclo di vita degli imperi» e delle grandi potenze, oppure è proprio vero che si trovano sulla cima della montagna del potere mondiale dopo la scomparsa dell’Urss e la vittoria nella Guerra Fredda. La risposta a questo dilemma non può essere univoca. In entrambi i casi però il futuro non è rassicurante. Se infatti la strada intrapresa dagli Stati Uniti è quella del declino strut­ turale in cui cadono non solo i valori della produttività o dell’efficienza, ma s’incrina anche il collante politico e ideale che cementa una grande comunità nazionale «inventata», come è quella statunitense (Huntington, 1981), allora è evidente che i rischi possono diventare enormi. Ma anche se fosse vera la tesi dell’apogeo planetario, si tratterebbe di un percorso che non potrebbe essere altro che in discesa dopo che la cima è stata già scalata. Le alternative infatti si ridurrebbero alla pericolosa altalena fra «difensività» e «overextension» degli impegni politici, eco­ nomici e militari. Entrambe le soluzioni avrebbero il risultato di allar­ gare le lame della forbice fra costi crescenti del ruolo e riduzione dei suoi vantaggi effettivi. Le due opzioni però non sono necessariamente in contraddizione. Anche all’inizio del III secolo d.C. l’impero romano finiva di attraversare la gloriosa «età argentea», iniziata con Nerva e conclusa con i Severi, una lunga sequenza di luminoso meriggio senza competitori certo, ma anche senza prospettive, forte ai confini ma senza una strategia fuorché quella della conservazione e, tutto sommato, alle soglie di una disgregazione interna che si manifestò poco più tardi con il periodo detto dell’«anarchia militare», concluso da Diocleziano, le cui radici sono state indivi­ duate da molti storici antichisti proprio nell’estensione della cittadinanza romana a tutto l’impero concessa da Caracalla nel 212 d.C. Il dilemma che travaglia oggi la società civile e quella politica americana, in un certo senso, è dello stesso tipo. Che possono fare gli Stati Uniti per sostenere il peso dell’unipolarità, anche attraverso il miraggio del ruolo

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attivo delle Nazioni Unite teleguidate da Washington, mentre i pilastri strut­ turali della comunità americana, da quello dell’educazione a quello della coesione etnica e razziale, a quello della «nazionalizzazione» della politica interna, fino a quello delle diverse economie coesistenti all’interno del paese, sono in crisi di credibilità? Il paradosso della politica americana nel mondo, infatti, così come quello della sua inefficacia all’interno, risiede probabilmente nella sua dissonanza culturale. Se si pensa che metà della campagna elettorale di Clinton nel 1992, e metà del primo anno di presidenza democratica sono stati in parte non trascurabile dedicati al problema della legge per l'ac­ cettazione dei gays nella Forze Armate, diventa allora evidente quanto sproporzionato sia ormai diventato il peso degli elementi simbolici ovvero di gruppo, e quindi il fattore culturale, rispetto ai temi politici ed eco­ nomici dello sviluppo e della finanza pubblica. Il contrastatissimo varo del provvedimento, negoziato tenacemente dallo stesso Presidente, ha comportato un incredibile dibattito politico-parla­ mentare, sulla stampa e alla televisione, all’interno dell’Esecutivo e fra i generali, ed è certamente stato di gran lunga più difficile e più complesso delle riflessioni sulle nuove concezioni strategiche e sul nuovo Modello di difesa postbipolare degli Stati Uniti. Lo schiacciamento della politica sulla cultura sta infatti diventando negli Stati Uniti la novità più rilevante dell’ultimo decennio, e in parti­ colare durante questo ultimo anno quando, dopo dodici anni un demo­ cratico della generazione del Vietnam e della contestazione è salito alla Casa Bianca, sollevando speranze e illusioni che non potevano non essere almeno parzialmente deluse. Le difficoltà, ovviamente, vanno attribuite anche alle situazioni di fatto che condizionano i comportamenti, ma anche alla constatazione crescente che Clinton, finora, sembra mancare di una strategia definita e soprat­ tutto di leadership. Diceva già Babbitt nel 1924 (cit. da Arthur Schlesinger, 1986, p. 582) che «le maggioranze numeriche non sono un risultato della leadership» e che «la democrazia diventa una minaccia per la civiltà quando cerca di eludere questa verità». Non siamo ancora a questo. E Clinton, per verità, non aveva una mag­ gioranza numerica quando ha vinto le presidenziali di novembre così come non, ha un tasso di gradimento molto alto nei sondaggi d’opinione più recenti. Resta però il fatto che la carenza di leadership di Clinton, che fa seguito alla carenza di leadership di Bush, (McGregor Burns, 1978) rischia di diventare un problema nel momento in cui la comunità americana è sot­

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toposta a pressioni profonde provenienti dal suo interno, in parte dovute alle recenti ondate migratorie di massa provenienti dall’America Latina, dall’Asia e dall’Africa, che accentua la tendenza alla crescente comparti­ mentazione fra segmenti sociali, etnici, territoriali, urbani. Gli Americani, inoltre, risentono, anche culturalmente, della fine della Guerra Fredda. Dapprima hanno reagito con sollievo alla tensione di 50 anni, poi hanno cominciato a preoccuparsi di riorganizzare la propria società godendosi i frutti della pace, finalmente realizzando che la vittoria sui Sovietici non riduceva le disuguaglianze sociali e di reddito, ma invece valorizzava quelle culturali, di genere, regionali, di razza. Trascinati da spinte e aspirazioni diverse, spesso contrastanti, che vanno da quelle dirette all’autoriflessione e quindi a favore del ripiega­ mento su se stessi, molto frequenti nella storia degli Stati Uniti spesso culminanti in nuove forme di isolazionismo (Eric A; Nordlinger, 1995) a quelle che per converso mettono in evidenza gli attesi vantaggi del con­ trollo egemonico del pianeta, definito anche come «nuovo ordine mon­ diale», gli Americani sono costretti a riesaminare i fondamenti culturali tanto della loro politica estera, quanto di quella interna. Il confine fra «esterno» e «interno» diventa così meno rigido nel momento in cui cade il Muro di Berlino e si sfaldano Imperi come l’Urss e federazioni come la Jugoslavia o la Cecoslovacchia, ovvero quando Panie, cittadino americano di origine serba diventa sia pure per qualche mese primo ministro della piccola Jugoslavia serbo-montenegrina, ovvero molti americani diventano ministri o candidati presidenziali in Polonia o nelle repubbliche baltiche. La permeabilità delle barriere esterno-interno può però essere sostituita dalla creazione di nuove artificiali barriere, interne agli stessi Stati Uniti, create dalla «etnicizzazione» dell'educazione, pre­ messa della spartizione culturale verticale e orizzontale del paese, anti­ cipatrice della disgregazione politica e territoriale della nazione. Il «melting pot» americano potrebbe ribaltare la sua funzione, tra­ sformandosi da crogiolo di lingue, culture, etnie diverse unite dall’«americanità», in luogo della divisione e della ricostituzione dei suoi compo­ nenti originali. Non a caso nel corso degli ultimi anni non si contano gli articoli e i libri scritti sull'argomento. Il cuore del problema torna ad essere ancora una volta quello dell’«education» che, nella definizione di Kirsch diventa quello della «cultural literacy» degli Americani. È questo un problema che va ben al di là dell'analfabetismo di ritorno, ma che diventa lo spartiacque per la capacità di vivere e operare in una società avanzata. La cultural literacy è anche il solo percorso adatto a con­ trastare i pericoli della compartimentazione delle culture etniche.

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Anche se proprio dall’interpretazione della «cultural literacy» come strumento coloniale della cultura anglosassone e «Wasp», i sostenitori della poliarchia etnica e quindi dello studio esclusivo delle storie e delle culture etniche, a discapito della cultura comune di stampo inglese, hanno tratto argomenti per le loro tesi. Il fatto che gli Americani stentino a ren­ dersi conto che aver trascurato la «cultural literacy» nei programmi edu­ cativi significa compromettere alla lunga anche le ragioni dello stare insieme rispetto a quelle del vivere separati. Il potere dirompente di que­ sta tendenza centrifuga è aggravato dal fatto che la già evidente carenza formativa della scuola primaria e secondaria trova un riscontro, secondo alcuni autori (Bloom, Page Smith, Kammen A. Schlesinger Kammen), nella separatezza e specializzazione crescente dell’insegnamento univer­ sitario e postuniversitario a tutto discapito della formazione generale che unisce le nozioni primarie di una società tecnologica alla tradizione dei «classics» e delle «humanities». In effetti, come scriveva Warren «to be an American is not... a matter of blood; it is a matter of an idea - and history is the image of that idea» (Robert Penn Warren, in Kammen, p. 11). Qualora questa «idea» che è alla radice della nazione americana (Huntington, 1981) venga messa in dubbio dalla prevalenza della componente etnico e culturale o linguistica minoritaria o parziale, il rischio del dissolvimento nazionale diventa più forte. Non biso­ gna dimenticare che gli Stati Uniti sono nati da uno straordinario incontro e accordo intellettuale fra i cosiddetti «Padri Fondatori» della Rivoluzione americana, ma che per cementare la propria unità nazionale cè stato biso­ gno di una guerra civile, sanguinosa e mai del tutto dimenticata. Questa frammentazione culturale si rivela perfino nella relazione esi­ stente fra i «beliefs» politici degli Americani nel campo apparentemente più lontano dalle radici interne della società domestica, cioè nel conte­ sto delle idee e degli atti della politica estera (Holsti e Rosenau). Nonostante che si tratti di leaders e che il 98% del campione sia dotato di un titolo universitario e che quindi si tratti di una élite molto minori­ taria nell’universo della popolazione americana, la prevalenza delle rispo­ ste a favore dell’internazionalismo «cooperativo» piuttosto che di quello «militante» spiega perché oggi per gli Stati Uniti è più facile andare in Somalia con funzioni di peacekeeping che non in Bosnia con funzioni di peace-enforcing. In realtà, al di là delle nuove tendenze disgregatrici all’interno, anche l’effetto di trascinamento della crisi dell’Est e del collasso dell’Urss ha lasciato delle tracce evidenti sulla cultura politica nazionale degli Stati Uniti, le cui principali scuole non sono più in grado di fornire delle inter­ pretazioni e delle previsioni coerenti.

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In particolare la scomparsa del «nemico» è stato un trauma culturale che ha messo in luce sia la crisi ormai storica del pensiero «liberal» e progressista tradizionale, sia i pilastri del pensiero «conservatore» e neo­ conservatore reaganiano. L’imbarazzo culturale e l'obsolescenza concettuale del rapporto fra poli­ tica e cultura negli Stati Uniti si è visto anche durante la campagna eletto­ rale del 1992.1 conservatori, la cui maggioranza, raccolta attorno a Reagan nel 1980 si era andata gradualmente sfaldando su temi di politica interna ed economica, nonostante gli inaspettati successi in politica estera (il collasso sovietico e la vittoria della guerra del Golfo) avevano infatti rivelato, con Bush ma anche con Baker e gli altri, un’impotenza concettuale e ima mancanza di percezione della dinamica e della mutazione dei valori della società ame­ ricana postbipolare che, al momento della resa dei conti, li ha sconfitti. Si addusse a pretesto di questa disfatta inattesa l’ipotesi che i Repubblicani non avrebbero potuto fare di più perché avevano un «governo diviso», vale a dire un Congresso a maggioranza democratica che regolarmente vanifi­ cava gli sforzi del Presidente e dell’Esecutivo repubblicano. La reazione «liberal», impersonata da Clinton, paradossalmente non sembra avere una sorte migliore. Eppure l’assenza dalla Presidenza per tre mandati, l'esperienza di contatto con la base del paese, il controllo delle Camere, la recessione economica e la politica reaganiana di appog­ gio alle classi medio-alte e di riduzione della spesa sociale, avrebbero dovuto fornire ai Democratici delle armi politiche inattaccabili. In realtà le cose sono andate in modo diverso. Divisi fra loro in modo ancora più vistoso dei Repubblicani, in quanto rappresentanti dell’America delle minoranze e dei generi, delle razze e delle comunità urbane, i Democratici hanno fatto fatica a ricostruire quella che, nelle apparenze, avrebbe dovuto essere una riedizione della «coalizione rooseveltiana» dei bei tempi andati fino a Truman, Kennedy, Johnson e, per l’«espace d'un matin», Carter. Che si trattasse di una vittoria risicata (44 milioni contro 38 di Bush e quasi 20 del terzo candidato) era stato subito chiaro. Tuttavia una mag­ gioranza elettorale dei votanti (meno di un terzo degli aventi diritto) non corrisponde necessariamente al sentimento collettivo del paese, né ad una pubblica opinione compatta. Al contrario, il messaggio implicito di Clinton, nonostante la sua mode­ razione, riecheggia, almeno in modo formale, la tradizione democratica «liberal», basata sulla relazione imposte/spesa pubblica, su programmi di razionalizzazione del welfare e della sanità. Si tratta cioè di una proiezione culturale del keynesismo rinnovato, venato, come nella scuola americana, di echi neoclassici che, tutto som-

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mato, evita accuratamente di predisporre le condizioni per la società ame­ ricana del 2000. In altre parole Clinton, col suo linguaggio dei buoni sentimenti e del solidarismo sociale interetnico e intergenere, non tocca il nodo strutturale dell’apparato produttivo, della produttività, delle infrastrutture, che sono invece il lato debole dell'America contemporanea. D'altra parte la «nazionalizzazione» della politica americana, cioè la centralizzazione delle funzioni decisionali principali sia dell’Esecutivo che del Legislativo, a Washington, non ha certo eliminato le differenze regio­ nali o statali. Ha solo accentuato i dislivelli culturali e ridotto al minimo il tema comune della società americana come nazione. «Big Government» e pensiero «liberal» sono tornati ad essere al cen­ tro dell'attenzione. Ma si trattava, anche in questo caso, di fumi del pas­ sato, localizzato sulle due Coste, ristretto a strati sociali e classi di età media, reduci del '68 e del Vietnam, che avevano l’impressione di poter tradurre in atti politici quello che, più di 20 anni prima, sembrava il lin­ guaggio dell’opposizione e della protesta. Ma non sta funzionando perché, paradossalmente, sono arrivati troppo tardi. Il pensiero liberal, infatti, dopo un decennio abbondante di domi­ nanza conservatrice, esce dal frigorifero del tempo, avendo nel frattempo perduto buona parte del suo profumo e del suo sapore. Non valgono più, altro che per i padri di famiglia di mezza età e pochi strati giovanili, le battaglie verbali e le dimostrazioni per i diritti, ovvero quelle per l’integrazione e l’eguaglianza etnica. Non hanno più presa quei programmi che pensano di risolvere delle storture strutturali ovvero di eliminare le conseguenze di alcune illuministiche catastrofi, come nell’e­ ducazione o nella sanità o nelle politiche urbane, attraverso l’iniezione di spesa pubblica tutto a discapito dell'accumulazione, dell’innovazione, degli investimenti di ristrutturazione o sul futuro. Le due culture della politica, in sostanza, risentono ancora del mondo bipolare di cui si sono nutrite per difendere o contestare una realtà che ormai è scomparsa. Entrambe si sono rivelate obsolete. Il declino possibile deH’America dipende anche dalla mancanza di «purposes» convincenti. Né l'«ordine mondiale» di Bush, governato indirettamente dagli Stati Uniti, né le oscillazioni presenzialiste o neoisolazioniste di Clinton, né la speranza di ricompattare la società riordinando il welfare o allargando l'assistenza sanitaria, saranno in grado di mobilitare la gente che, all’in­ terno del paese, tende invece sempre più a dividersi secondo linee che non hanno nulla a che vedere con le direttrici politiche dei partiti tradi­ zionali e di cui l’estemporanea quanto sintomatica candidatura di Ross Perot nel 1992 (20 milioni di voti) è stata un esempio.

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Ma il declino dell’America, che sembrò interrotto fra il 1989 e il 1992, con il crollo del polo Est, quasi per differenza anzi apparendo come una vittoria storica della Guerra Fredda, è un male oscuro e profondo che col­ pisce il basamento stesso della società americana, a partire dall’educa­ zione fino al bilinguismo e all’insegnamento esclusivo delle culture etni­ che o razziali.

Cooperazione e sviluppo: sei innovazioni possibili

Se non si modificheranno la filosofia, le modalità e le politiche della cooperazione, i risultati, già scarsi, diventeranno ancora più esigui. La com­ petizione fra Est e Sud per l’acquisizione della massima quota possibile di risorse è già in atto e diventerà causa di tensioni e di crisi gravi che l’Occidente farà fatica a gestire e controllare. Due fattori hanno drasticamente modificato il quadro generale entro cui si muove la politica della cooperazione allo sviluppo: da una parte, la crisi del Modello sistemico bipolare che ha provocato la trasformazione strutturale delle regole di funzionamento della politica internazionale, incluse quelle che riguardano le forme dell’aiuto allo sviluppo; dall'altra, la politica della cooperazione che, così come è stata impostata nel mezzo secolo successivo alla Seconda Guerra mondiale, dalla decolonizzazione alla Guerra Fredda, ha dimostrato ampiamente di essere uno strumento molto inefficiente, talvolta controproducente, per l’esiguità e/o l’irrazio­ nalità degli impieghi, ovvero per gli effetti perversi delle erogazioni di risorse. La situazione, che pure offre straordinarie opportunità innovative ma al tempo stesso presenta anche pericoli consistenti, impone di rivisitare l’intero problema alla luce delle mutazioni di sistema oggi in corso nelle Relazioni Intemazionali, e dei risultati del ventaglio delle politiche di coo­ perazione, così come sono attuate dai Paesi sviluppati del Nord industriale, da quelli ricchi dell’area petrolifera, o da quelli rigidamente politicizzati, come i Paesi ex comunisti. In sostanza, occorre cercare d’individuare soprattutto le gravi carenze di base, dovute a ragioni che potremmo definire di «filosofia», o per lo meno concettuali ed epistemologiche, che hanno inficiato l’azione della cooperazione fin dalle sue origini. In effetti gli approcci, le scuole, le ideo­ logie contrapposte che hanno animato, esplicitamente o implicitamente, la politica della cooperazione, sia bilaterale che multilaterale, sia dell'aiuto

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pubblico allo sviluppo (APS) che del settore privato o volontario, si sono rivelati tutti sostanzialmente al di sotto delle aspettative. E ciò per diversi motivi. Anzitutto perché generalmente risentivano o erano culturalmente legati all’esperienza storica dell’industrializzazione e dello sviluppo capitalistico dei paesi avanzati dell’occidente (teorie liberali/liberiste), ovvero prendevano a modello l’illusione ideologica dello svi­ luppo pianificato di tipo sovietico (teorie marxiste classiche), o infine erano influenzati da quell’altra dottrina politica ed economica di tipo monofattoriale, che attribuisce esclusivamente alle potenze coloniali, e ai loro eredi, cioè alle grandi compagnie multinazionali e al capitale finan­ ziario, la causa storica del sottosviluppo (teorie della dipendenza). L’at­ tuale frattura dell’ordine internazionale bipolare, la crisi del comuniSmo e dello statalismo, così come il ritorno del nazionalismo, del mercato e dell’iniziativa capitalistica, accettata ormai da tutti come il solo Modello di sviluppo possibile, hanno eroso gran parte dei pilastri concettuali, e soprattutto ideologici, che facevano da presupposto alla politica della coo­ perazione. A questo si aggiunga la crisi grave in cui versano anche le più impor­ tanti organizzazioni internazionali a questo scopo parzialmente o total­ mente deputate, le cui origini e funzioni sono legate alla vicenda storica del dopoguerra, e in particolare alla logica della Guerra Fredda, sia ad Est come ad Ovest. Per non dire della crisi dell’idea federale, intesa come fon­ damento dell’unità politica e dell’integrazione economica, che non ha investito ancora in modo clamoroso la Comunità europea perché, tutto sommato, si tratta di un ente internazionale che è ancora in una fase embrionale di unificazione politica, ma che ha invece colpito al cuore alcuni grandi Stati nazionali d’impianto federale, di costituzione non recente e apparentemente sedimentata, come l’Unione Sovietica, la Jugo­ slavia e l’Etiopia, minacciando d’estendersi anche altrove (Cina, Africa, e probabilmente altri attori europei). La stessa CEE, d’altra parte, si troverà ben presto di fronte al bivio in cui dovrà scegliere fra due strade opposte e contraddittorie, quella del­ l'approfondimento dell'integrazione economica e monetaria a quindici, iniziata nel 1993, e quella dell’allargamento ad altri attori che aspirano a far parte della Comunità già all’ordine del giorno con le domande d’ade­ sione di molti stati europei, e perfino extra-europei. Se dovesse scegliere la via dell’approfondimento, il divario fra sviluppo e sottosviluppo in Europa si farebbe anche incolmabile, mentre se dovesse privilegiare quella dell’allargamento, sia pure con gradualità, allora il miracolo dell'unifica­ zione politica, ma anche di quella economica e monetaria, verrebbe rin­ viato sine die.

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Alla crisi del federalismo e dei processi d’integrazione politica, che non sono certo bilanciati dalla crescente tendenza a rendere più operative le coalizioni e/o le alleanze, di stampo classico o moderno, fra attori e gruppi di attori diversi in cerca della sicurezza perduta (dalla CSCE alla NATO, alle Nazioni Unite, alle intese bilaterali o multilaterali), si contrappone infine, e molto pericolosamente, il revival neo-nazionalistico, etnico o religioso, sia in Europa che nel Terzo mondo. Tale fenomeno, del tutto nuovo in Europa nel periodo postbellico, che sembra incardinare sempre più la spinta alla diffusione di potenza che la crisi del bipolarismo ha generato, con­ traddice in modo rilevante sia le profezie avveniristiche di tipo universali­ stico, sia quelle relative alla costruzione di un ordine mondiale, basato sul­ l’armonia fra sicurezza e cooperazione. Questi nuovi fattori di rischio incidono peraltro fin da ora sugli orien­ tamenti della politica di cooperazione (la Germania, ad esempio, nel 1990, ha ridotto del 71% i suoi aiuti allo sviluppo rispetto al 1989, dirottandoli verso i suoi Lander orientali) e sempre più incideranno nel futuro perché il nazionalismo esasperato e anarcoide, la «libanizzazione» di aree impor­ tanti dell’ex mondo comunista, la incertezza sul ruolo delle élites e dei governi, l’assenza di una classe politica consolidata e sperimentata, ten­ dono a polverizzare e delegittimare le strutture dell'aiuto rendendo più difficile ai Paesi donatori ogni decisione sul tipo e sulle forme di eroga­ zione, sulla scelta dei beneficiari, sui principi ideali e sugli scopi politici da perseguire. Il pericolo, cioè, è quello di non sapere dove indirizzare gli aiuti, come stabilire le verifiche e i controlli, in assenza d’un referente, nel Paese rice­ vente, che sia stabile o legittimo. Unica eccezione in controtendenza è stato il processo di riunificazione della Germania che, nei fatti, è consistito nella pura e semplice annessione dell’ex RDT da parte della RFG. Tale evento ha avuto l’effetto di concentrare l’impiego delle risorse della RFG sui territori dell’Est, con piena libertà di scelta e di decisione, poiché il controllo è sal­ damente nelle mani del personale politico e amministrativo di Bonn. In un certo senso la Germania è un caso limite, ma rivelatore, da cui trarre degli insegnamenti proficui. Esso dimostra che per favorire la crescita d’un Paese relativamente sottosviluppato, come l’ex RDT, sono necessarie tre cose:

a) anzitutto una notevole concentrazione di risorse da investire su un'a­ rea ristretta; b) poi la volontà e la capacità di liquidare tutto quanto del vecchio sistema si opponga allo sviluppo; c) infine un controllo politico, economico e amministrativo pressoché totale sull’esecuzione da parte del paese donatore.

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La politica della cooperazione allo sviluppo, in questo contesto stra­ volto, non può non risentire significativamente del nuovo clima della poli­ tica internazionale, sia in ambito bilaterale che multilaterale. E ciò per due ragioni di fondo. La prima è dovuta al fatto nuovo che il cosiddetto Terzo mondo, fin qui limitato geograficamente e ufficialmente, alle aree del tricontinente Asia, Africa, America Latina, si è ormai esteso all’interna Europa centro-orientale e all’ex Unione Sovietica. In altri termini, la dissoluzione del sistema orientale ha cancellato la separazione politico-ideologica, ed economica, fra Primo mondo svilup­ pato (di cui ufficialmente faceva parte, fino a qualche tempo fa, anche il Secondo mondo, quello comunista, che pur essendo meno ricco dell’oc­ cidente era almeno formalmente autosufficiente) e il Terzo mondo sot­ tosviluppato. Si sono così improvvisamente ampliate le aree del Terzo Mondo dal momento che il Secondo Mondo vale a dire l'ex URSS, e i suoi ex satelliti, sono entrati a vele spiegate nell'area del sottosviluppo, assu­ mendone automaticamente la logica d’aiuto e di cooperazione. La seconda ragione di fondo è data dal fatto che a questo incremento quantitativo del Terzo mondo non ha fatto riscontro un incremento com­ parabile delle risorse disponibili da parte del gruppo dei Paesi avanzati da erogare nei territori del sottosviluppo. Ciò significa che, se non si modificheranno la filosofia, le modalità e le politiche della cooperazione, a livello bilaterale come a livello multila­ terale, i risultati, già scarsi, diventeranno ancora più esigui. La competi­ zione fra Est e Sud per l'acquisizione della massima quota possibile di risorse è già in atto e diventerà causa di tensioni e di crisi gravi che l'Occidente farà fatica a gestire e controllare. La distribuzione geografica dell’aiuto spiega chiaramente quale sia stata, nei diversi Paesi donatori, la logica geopolitica ed economica che li ha mossi e ne ha giustificato i comportamenti nel periodo 1975-89. Per queste motivazioni che sono di carattere strutturale, oltre che di congiuntura, è diventato allora necessario trovare il coraggio di scegliere una linea d’intervento, sia in sede bilaterale che in ambito multilaterale, che privilegi delle scelte innovative e, soprattutto, che eviti d’indulgere nella coltivazione dei residui ideologici che hanno ridotto nel passato l’efficacia della cooperazione, e che oggi sono, politicamente e scientificamente impre­ sentabili o irrilevanti. La prima innovazione dovrebbe essere di tipo politico-culturale. Si tratta, in altre parole, d’avere realisticamente ben presente in qualsiasi occasione che la politica di cooperazione è anzitutto una forma specifica di politica estera, sia quando essa è svolta da un singolo attore nazionale, sia quando si tratti di un gruppo di attori o di Enti regionali o universali.

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Ciò significa che gli aspetti economici, così come gli aspetti solidaristici o umanitari della cooperazione dovranno sempre, per forza di cose, essere subordinati alla logica politica, cioè agli interessi nazionali dei Paesi dona­ tori e a quella dei Paesi riceventi, quindi ai loro bisogni essenziali, a patto che però entrambi si conformino a regole e comportamenti diretti allo sviluppo politico e alla crescita economica dei destinatari dell'aiuto, evi­ tando la meno impegnativa forma di erogazione di tipo assistenziale, che è fonte, alla lunga, di effetti perversi e di reciproca corruzione. In altri termini, dovrà essere ben chiaro che la cooperazione è un'arma politica di primaria grandezza, non neutrale, il cui uso razionale e/o sui bisogni, può produrre effetti benefici o perversi, al di là degli aspetti mercantili o umanitari che spesso sembra perseguire. Per tradurre in fatti questa dichiarazione di principio, la seconda inno­ vazione dovrebbe essere quella di assumere come punto di riferimento specifico sia da parte dei governi dei Paesi donatori che di quelli rice­ venti, la regola del «vantaggio reciproco», cioè l'acquisizione del concetto e della pratica della interdipendenza come un valore a somma superiore a zero. Che si tratti poi d’interdipendenza simmetrica o asimmetrica diventa un fattore secondario purché il risultato finale sia quello del van­ taggio reciproco, e quindi dello sviluppo. Per ottenere questo effetto diventa perciò essenziale evitare di praticare una politica di cooperazione basata sulla casualità e sull’assistenza che alimenta nel paese ricevente una cultura da società del benessere parassitaria, finanziata dall’esterno, che certamente non stimola l’autogenerazione dello sviluppo, ma anzi crea o alimenta la formazione e il rafforzamento di classi e ceti dipen­ denti, che sopravvivono ovvero si sopraffanno l’un l’altro per l'acquisi­ zione e la spartizione di questo reddito abusivo ed arbitrario. La terza innovazione si riferisce alle modalità di erogazione delle risorse per lo sviluppo. In questo campo diventa essenziale una radicale trasfor­ mazione dei meccanismi e delle procedure. Si dovrà infatti perseguire un’e­ strema concentrazione degli interventi in settori ed aree molto limitate, scelti secondo criteri di priorità molto precisi, legati alle reali prospettive di svi­ luppo dei Paesi riceventi e agli interessi geopolitici dei Paesi donatori. In primo luogo si dovrà provvedere alla individuazione selettiva della geogra­ fia dell’aiuto, che dovrà essere rivista rispetto al passato, stabilendo una limi­ tata fascia di aree regionali o di singoli Stati verso i quali indirizzare prio­ ritariamente le risorse. Ciascuna forma d’intervento o di erogazione dovrà perciò essere selezionata in relazione agli interessi nazionali, economici e politici, del paese donatore e ai bisogni più rilevanti, ai fini della sopravvi­ venza, dello sviluppo e della sicurezza, anche militare, del paese ricevente. Non si dovrà più distribuire a pioggia, e senza un quadro definito degli

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interessi di area o di settore, le scarse risorse a disposizione, ma si dovrà invece intervenire selettivamente e chirurgicamente, solo nelle situazioni suscettibili di buoni risultati ovvero in quelle d’interesse geostrategico pri­ mario per la sicurezza nazionale, regionale o globale degli attori in gioco, affidando ad interventi d’emergenza e di tamponamento, mirati e prov­ visori, il sostegno di quelle situazioni che venissero giudicate intrattabili, o d'impossibile soluzione nel breve-medio periodo, per l’assoluta assenza di risorse umane, economiche e tecniche in loco. La quarta innovazione dovrebbe essere quella di verificare attenta­ mente la corrispondenza fra obiettivi e risultati, imponendo a questo scopo dei vincoli politici ed economici ai Paesi riceventi, con veri e pro­ pri interventi da parte degli enti o dei Paesi donatori, sul territorio di que­ gli attori, diretti al razionale impiego delle risorse, come peraltro è già sovente accaduto negli interventi, anche militari di peace-keeping e di peace-enforcing, contemplati dallo statuto delle Nazioni Unite. Questo tipo d'ingerenza negli affari interni di un altro Stato sarebbero giustificati dalla necessità di controllare che gli aiuti giungano effettiva­ mente a destinazione per mettere costantemente a punto le forme e le modalità di erogazione, alla luce del calcolo-benefici di ciascune opera­ zione di aiuto. Si potrebbe, in altri termini, considerare il sottosviluppo, e quindi la politica di cooperazione, come un equivalente morale della guerra. Il che renderebbe comprensibile l’impiego di misure d’intervento eccezionali e le procedure d’impiego che, come in guerra, richiedono cri­ teri di prontezza operativa, efficacia; organizzazione, controllo e finalità chiare, lo scavalcamento di norme e procedure e, talvolta, anche la vio­ lazione della sovranità nazionale. Ciò è più che giustificato dalle prospettive che abbiamo di fronte. Gli anni '90, infatti, non presentano uno scenario particolarmente favorevole per larga parte di paesi in via di sviluppo (PVS). Con l’eccezione dell’Est asiatico, le prospettive di crescita restano moderate. Alti sono i rischi di un ulteriore aggravarsi del problema del circolo vizioso della povertà, par­ ticolarmente in aree come l’Africa subsahariana. Un puro aumento quan­ titativo delle risorse che i Paesi ricchi destinano ad aiuti, peraltro poco probabile nonostante ripetuti appelli, non fornisce alcuna garanzia di affrontare seriamente i nodi sottostanti tali prospettive sfavorevoli. In assenza di condizioni istituzionali e strutturali più attente ai meccanismi di mercato, da parte dei PVS riceventi ma anche da parte dei Paesi ric­ chi donatori, il trasferimento di risorse rischia non solo di non ottenere gli effetti desiderati, ma addirittura di nuocere alle prospettive di sviluppo degli stessi PVS, a causa di profonde distorsioni nell’uso delle risorse e di accresciuti ritardi nell’adozione delle necessarie politiche d’aggiusta­

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mento. Molto aiuto pubblico allo sviluppo (APS) bilaterale, che peraltro pesa più di due terzi sul totale dell’aiuto pubblico dei paesi presi in con­ siderazione dal Development Assistance Committee (DAC), presenta que­ sti rischi di cattiva qualità dell’aiuto. Una rilettura storica delle modalità di erogazione del Piano Marshall nell’Europa del 1947-50 suggerisce spunti ancora oggi utili ai governanti. Attualmente il problema non è tanto una scarsità globale di capitale o la difficoltà d’accesso al credito, bensì la scarsità di situazioni nelle quali l’aiuto pubblico allo sviluppo fornisce un credibile quadro di policy com­ mitment coerente con gli attesi effetti benefici dell’aiuto. Guardando a diversi indicatori dell’APS, emergono fra i Paesi donatori svariati modelli più o meno riconducibili alla logica dell’interesse del donatore (con moti­ vazioni strategiche ed economiche) o dei bisogni del ricevente. All’Italia, come al Regno Unito, si applica un modello misto o ibrido. La quinta innovazione, quindi, dovrebbe essere quella dell’adozione, in quanto Paesi donatori, di misure di liberalizzazione dei settori economici più sensibili e d’interesse generale a favore dei Paesi riceventi. Per fare qualche esempio, bisognerebbe anzitutto indirizzare le politiche com­ merciali dei paesi sviluppati nel senso di favorire lo sviluppo delle espor­ tazioni di prodotti industriali da parte dei PVS. In particolare, operando sulle strutture tariffarie relative ai prodotti agricoli e a quelle che provo­ cano un’irrazionale lavorazione delle materie prime, stabilizzando i prezzi dei prodotti di base, gestendo insieme alcuni beni comuni globali, come la vita marina, e la qualità dell'ambiente atmosferico e oceanico. La CEE peraltro continua a praticare politiche di dazi e barriere non tariffarie rela­ tivamente discriminatorie rispetto alle potenziali esportazioni dei PVS, generando così una contraddizione fra l’effetto atteso dei propri aiuti e gli effetti dannosi di tali politiche del commercio estero. Sul trade not aid vi è ancora molta strada da percorrere, anche alla luce del nuovo quadro geo-politico nell’Europa dell’Est. Crediti misti ed aiuti legati rappresentano un comodo ma pericoloso strumento di sostegno alle esportazioni dei Paesi ricchi: pericoloso sia dal lato di paesi beneficiari, sia dal lato dell’industria del paese donatore. È augurabile un maggiore sforzo di coordinamento dell’APS bilaterale dei Paesi membri, come pure una mag­ giore quota di APS multilaterale gestita dalla CEE in armonia con la poli­ tica di dialogo stimolata dal Fondo monetario intemazionale e dalla Banca mondiale. Maggiori sforzi vanno anche fatti, particolarmente in Italia con rife­ rimento all’art. 7 della legge n. 49 del 1987, per stimolare, guidare e assi­ stere da vicino le ancora fragili esperienze d’investimento diretto e «joint venture» con partner locali nei paesi PVS riceventi l'aiuto. La pura mobi­

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litazione di risorse finanziarie, scisse da un coinvolgimento di capacità manageriali, tecnologiche e organizzative, ha prospettive assai povere di riuscire nel proprio intento. Tutto ciò vuol dire mettere a certo rischio importanti attori e gruppi d’interesse costituiti in molti paesi donatori, la cui reazione frenante potrebbe diventare decisiva. Tuttavia si tratterà di trovare delle formule che, sulla base del vantaggio reciproco, riescano a comporre esigenze a prima vista incompatibili. La sesta, e forse la più ambiziosa fra le innovazioni che qui si pro­ pongono, è quella che si riferisce alla sistematica relazione che, nella poli­ tica di cooperazione si dovrebbe stabilire fra aiuto e natura del sistema politico, ora che il crollo del totalitarismo comunista ha aperto la strada a processi di democratizzazione di ampie proporzioni in diverse aree del mondo. Sarebbe infatti necessario che questa tendenza allo sviluppo poli­ tico venisse consolidata, e anche imposta, attraverso la predisposizione di una serie di regole di condotta da imporre ai paesi riceventi. Si trat­ terebbe in sostanza di definire una specie di ticket d’accesso all’aiuto, in termini di rispetto delle regole di comportamento democratico e di libertà politica, oltre che di salvaguardia dei diritti umani, all’interno dei paesi riceventi, prescelti per il trattamento cooperativo. Questa condizione irrinunciabile, che fa giustizia delle teorie giustificazioniste dei regimi autoritari e totalitari basate sul principio del «rela­ tivismo» storico-culturale del Terzo mondo, non avrebbe solo l’effetto di ridurre il «rischio-paese» per l’aiuto pubblico e gli investimenti diretti pri­ vati, ma diventerebbe uno strumento di modernizzazione politica dei sistemi interni di molti Paesi e al tempo stesso un percorso d’omoge­ neizzazione e armonizzazione del sistema politico internazionale. Questi attori e governi verrebbero così indotti a scegliere, ove possibile, un sistema politico meno primitivo e/o autoritario di quello che generalmente hanno adottato. In alcuni casi, come in Medio Oriente, in Europa centro-orientale e nel­ l’ex URSS, questo vincolo non è solo un atto simbolico di tipo ideologico, ovvero un ukase di tipo imperialista o neocoloniale, ma diventa invece una modalità essenziale di sviluppo politico che può diventare premessa impor­ tante, se non indispensabile, per la crescita economica e sociale di paesi che hanno superato il livello minimo di organizzazione tribale.

Finito di stampare nel mese di febbraio 1997 nella Stamparne s.a.s. di Torino, Via Bologna 220