Stragi, delitti e misteri. La tragedia di Ustica e il mistero del Mig libico, la morte del generale Mino, la 'Freccia del Sud' e il golpe della 'ndrangheta, il mancato putsch e la superloggia massonica, l’assassinio di Roberta Lanzino 8881017245, 9788881017249

«Stragi, delitti e misteri rimasti senza forma e senza nomi. Si tratta di vicende oscure accadute in Calabria che, a dis

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Stragi, delitti e misteri. La tragedia di Ustica e il mistero del Mig libico, la morte del generale Mino, la 'Freccia del Sud' e il golpe della 'ndrangheta, il mancato putsch e la superloggia massonica, l’assassinio di Roberta Lanzino
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A Mauro De Mauro, il migliore di noi

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collana

Mafie

diretta da Antonio Nicaso

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Arcangelo Badolati

STRAGI, DELITTI E MISTERI La tragedia di Ustica e il mistero del Mig libico La morte del generale Mino La “Freccia del Sud” e il golpe della ’ndrangheta Il mancato putsch e la superloggia massonica L’assassinio di Roberta Lanzino

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Un ringraziamento particolare a Manuela Iatì per i preziosi consigli e la pazienza mostrata nell’esame accurato del testo. Un grazie di cuore per la correzione delle bozze a Maria Teresa Badolati. Fotografie di Franco Arena.

Proprietà letteraria riservata © by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy Stampato in Italia nel mese di febbraio 2011 per conto di Pellegrini Editore Via Camposano, 41 - 87100 Cosenza Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672 Siti internet: www.pellegrinieditore.it www.pellegrinilibri.it E-mail: [email protected]

I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

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Prefazione

La Calabria è una terra di frontiera, in cui s’incrociano poteri criminali e misteri insoluti. È una terra solo apparentemente distante dal resto d’Europa perché da questo lembo di terra sono stati spesso controllati interessi delinquenziali ed economici in molti paesi del mondo. Calabrese era Giacomo Colosimo, detto “Big Jim”, nato a Colosimi, diventato il signore di Chicago prima di Al Capone. Calabresi erano due tra i più famosi gangster che negli anni ’30 del secolo scorso terrorizzarono gli Stati Uniti: Francesco Castiglia, detto Frank Costello, originario di Cassano Ionio, plenipotenziario di Cosa nostra americana e ascoltato “consigliori” di Lucky Luciano; e Albert Anastasia, nato a Parghelia, divenuto capo della spietata “Anonima Omicidi” newyorchese e per un breve periodo capo dei capi delle “famiglie” statunitensi. Calabrese era il più importante contrabbandiere di superalcolici del Canada, Rocco Perri, nato a Platì e trasformatosi nel protagonista quasi assoluto dei palcoscenici mafiosi nordamericani. Origini calabresi avevano anche Robert Timboli, padrone del traffico di stupefacenti a Griffith e Peter Callipari, sospettato di legami con la ’ndrangheta e diventato punto di riferimento dall'altra parte del mondo non solo per i connazionali ma pure per influenti uomini politici australiani. Importante il ruolo assunto negli anni ’60 e ’70 a Montreal da Vic Cotroni e Paul Violi, il primo originario di Mammola, l’altro di Sinopoli, assurti al rango di capi della criminalità organizzata italo-canadese che faceva riferimento alla “famiglia” di Joe Bonanno di New York. 5

STRAGI, DELITTI E MISTERI

La ’ndrangheta non è mai stata insomma solo un’organizzazione isolata, arretrata e barbara ma, al contrario, è riuscita nel tempo a fare affari in tutto il globo attraverso le “cellule” create in molti continenti. Non solo: la mafia calabrese è stata complice di poteri deviati che miravano a sovvertire l’ordine democratico in Italia. Il libro di Arcangelo Badolati lo dimostra ricostruendo i legami intessuti dai boss con i golpisti coinvolti nel progetto ideato nel 1970 dal principe Junio Valerio Borghese. Un progetto che trovò le sue origini nella rivolta di Reggio Calabria, durante la quale, gli ’ndranghetisti strinsero un patto inconfessabile con le organizzazioni eversive di estrema destra. Fu in quel periodo che venne compiuta la strage di Gioia Tauro, tragico effetto d’un ordigno fatto esplodere lungo i binari ferroviari che fece deragliare il treno “Freccia del Sud”. Gli oscuri rapporti con la destra eversiva e le massonerie deviate attive anche in Sicilia, continuarono anche dopo il fallito colpo di stato, con la costituzione di una “superloggia” alla quale aderirono mafiosi, professionisti e il terrorista Franco Freda, imputato e poi assolto per la strage di piazza Fontana. Freda lasciò l’Italia per nascondersi come latitante in Costarica proprio grazie all’aiuto degli “amici” calabresi. Il libro di Badolati testimonia come la Calabria sia stata in parte scenario di un altro grande mistero: la strage di Ustica. Tra i monti della Sila, infatti, il 18 luglio del 1980 venne ritrovato un Mig libico, coinvolto – come sostiene l’autore – nel duello aereo che cagionò l’abbattimento del Dc9 Itavia sui cieli di Ustica. La caduta del velivolo militare africano è ben ricostruita con un incrocio di dati storici davvero significativi. Depistaggi, testimonianze inedite, documenti dei servizi segreti si susseguono nel racconto di Badolati appassionando il lettore. L’autore analizza anche un altra vicenda oscura avvenuta in Calabria e mai adeguatamente approfondita in un saggio: la morte del generale Enrico Mino. Il comandante generale dell'Arma dei carabinieri 6

Prefazione

morì mentre si spostava da Catanzaro a Rosarno a bordo di un elicottero. Il velivolo improvvisamente precipitò, apparentemente a causa del maltempo: la Procura di Catanzaro archiviò l’inchiesta come se si fosse trattato di un incidente, ma Badolati ripercorre la vicenda, anche in questo caso, attraverso documenti e testimonianze di pregevole interesse, alimentando il dubbio che Mino possa essere stato eliminato con un attentato. La storia di questo militare s’inserisce, infatti, in un contesto storico complesso nel quale l’influenza della Loggia P2, i conflitti tra i partiti politici e clamorosi fatti di cronaca condizionarono le vicende della nostra Repubblica. Appassionante la definizione del quadro nazionale e internazionale e la ricostruzione delle fasi della fuga dall’ospedale militare del Celio dell’ex Ss Herbert Kappler. L’evasione dell’ufficiale tedesco indusse il generale Mino a rimuovere molti graduati dell’Arma suscitando contestazioni e divisioni. Questo volume consente al lettore di comprendere quanto la Calabria sia stata da sempre coinvolta nelle vicende criminali non solo mafiose. Ma consente anche di capire quanto questa regione sia stata centrale anche in molti misteri italiani. E di questa va dato atto a Badolati che già in passato aveva dato dimostrazione delle sue qualità di cronista e di narratore con la pubblicazione di numerosi libri sulla ’ndrangheta in Calabria. Nicola Gratteri

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Introduzione

Premessa, di rigore: Arcangelo Badolati è cronista di razza pura. Nato, cresciuto e maturato nella “trincea” di Palmi. Mi legano a lui sentimenti di stima e di affetto profondi. Anch’io cronista – ma dalla “trincea” opposta, quella jonica, di Locri, non meno interessante della sua, la tirrenica – ho avuto modo, leggendolo prima frequentandolo poi, di conoscerlo a fondo, apprezzarlo ed, infine, incoraggiarlo all’unica scelta possibile per diventare giornalisti veri: liberandosi, cioè, dal vincolo della corrispondenza da territori seppur intriganti e dall’“offerta” professionale esaltante (sequestri di persona, omicidi, maxi processi di rilevanza nazionale, per intenderci), ed abbracciare l’esperienza formativa delle redazioni. Pur in epoche diverse, abbiamo intrapreso un “percorso” comune: non sta ovviamente a noi giudicarne i risultati. Badolati, dunque, ha mostrato doti e capacità non indifferenti. Per lui parlano i traguardi raggiunti nel suo giornale, la “Gazzetta del Sud”. E soprattutto i libri. Che sforna con una continuità impressionante. Anche l’ultimo – Stragi, delitti e misteri –, per il quale, gratificandomi, mi ha chiesto una breve introduzione, conferma la sua capacità di scrittura, di analisi e di approfondimento dei fatti di cui si occupa. Con lo scrupolo e il rigore del cronista di razza pura. Mai indulgente. Sempre documentato. Mi ha colpito molto il capitolo dedicato alla studentessa di Rende. Il suo omaggio a Franco e Matilde Lanzino, genitori non rassegnati di Roberta, gli sgorga dal cuore. Solo chi non è padre o madre non può capire. La grande tragedia di Roberta l’ho vissuta agli inizi della mia “avventura” – che dura ancora oggi – in Rai. Ero stato appena assunto e l’assassinio 9

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– un atto di bestialità! – della studentessa 18enne di Rende fu una delle mie prime volte alle prese con i nuovissimi strumenti della tv e della radio del servizio pubblico. Mi stavo “allenando”: alla penna dovevo sostituire il microfono e trasformare in poche righe le abituali due, tre o quattro cartelle dattiloscritte. E non era facile! Sono trascorsi, da allora, quasi 23 anni e su quell’agguato ad una giovane e solare ragazza in motorino, ignara del destino che l’attendeva lungo i tornanti che si affacciano sul mare paolano, restano interrogativi irrisolti. E inquietanti. Due processi – uno in corso –, attori diversi, nessuna verità giudiziaria. Arriverà mai? Franco e Matilde Lanzino continuano la loro battaglia. Tutta l’informazione – Badolati lo ha già fatto, da par suo – dovrebbe affiancarli, nella consapevolezza che l’inchiesta su uno degli episodi più gravi e feroci della storia contemporanea della nostra regione non è stata condotta in modo esemplare, con apparati investigativi superficiali e forse sufficienti, convinti che la prima “pista” fosse la giusta e trascurandone – sbagliando – ogni altra che avrebbe potuto offrire uno squarcio di luce. Altri “errori” non sarebbero più giustificabili. Straordinariamente avvincenti si presentano gli altri capitoli del volume di Badolati. Egli affonda il coltello con efficacia in altre quattro vicende oscure accadute in Calabria. Il mistero del mig libico “caduto” (o abbattuto) a Castelsilano, nell’allora provincia cosentina (oggi crotonese) resta un mistero e nessuno si sforza più di renderlo intellegibile. Al contrario, si “celebra” con tutti gli onori (e corredo di cavalli e magnifiche “giumente” magari da cavalcare…) il supercolonnello Gheddafi che certo non può “non sapere”… Dalle alture della Sila a Monte Covello, nel catanzarese, teatro dell’assurda morte del generale Enrico Mino, l’alto ufficiale alla guida dell’Arma “nei secoli fedele” che nonostante confidasse al leader radicale Marco Pannella il suo timore di viaggiare in elicottero si imbarcò lo stesso lasciandoci la vita in circostanze, anche in questo caso, piuttosto oscure: guasto al motore, disattenzione del pilota, condizionato dal maltempo, oppure sabotaggio? Risposte esaustive 10

Introduzione

ed esaurienti, nemmeno a cercarle con il lanternino. E che dire più di quanto non si sappia, per via ufficiale s’intende, del tentato “golpe” della ’ndrangheta, dei sei morti della “Freccia del sud” (che si trattò non di un deragliamento ma di una bomba collocata sui binari, nel contesto della “strategia della tensione” richiamata nelle sue confessioni anche dal “collaboratore” e malandrino di vaglia Ubaldo Giacomo Lauro, lo si saprà a distanza di 24 anni!), dei quattro anarchici reggini “deceduti” in auto durante il tragitto Roma-Reggio, il mancato “colpo di stato” (con precedenti e riflessi calabresi) del “principe nero” Junio Valerio Borghese, e la superloggia massonica “coperta” a Reggio (ne parla diffusamente Filippo Barreca, “collega” di Lauro, che ospitò durante la sua latitanza Franco Freda…)? Ci sarebbe sì molto da aggiungere, ma a patto che si aprano, finalmente, gli archivi di Stato e si cancelli il “segreto” imposto dai governi che si sono succeduti dal dopoguerra ad oggi. C’è già una “petizione”: l’ho firmata anch’io, perché in un “Paese civile” è assurdo – lo ha ripetuto, nella sua prima visita in Calabria, a Catanzaro, l’ex giudice istruttore di Milano Guido Salvini, che da Piazza Fontana in avanti di servizi segreti, di depistaggi, di inquinamento delle prove se ne intende davvero – che su tante stragi, delitti e misteri, anche quelli riesumati da Arcangelo Badolati, non si archivi mai raggiungendo i colpevoli e consegnando alla storia italiana nomi e cognomi di chi si è macchiato di delitti orrendi. Pietro Melia

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LA STRAGE DI USTICA E IL MISTERO DEL MIG LIBICO 27 Giugno-18 luglio 1980

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I corpi galleggiano sull’acqua quasi fossero bambole di plastica. Nella sala di attesa dell’aeroporto di Punta Raisi decine di persone urlano disperate il loro dolore. Il Dc9 dell’Itavia in volo da Bologna a Palermo è finito in fondo al mare: 81 i morti, tra cui 13 bambini partiti per le vacanze. Nessuno è in grado di fornire delle spiegazioni ai familiari in lacrime. Tutti pronunciano frasi di circostanza… Trent’anni dopo, il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, già ministro dell’Interno e parlamentare per decenni del Partito comunista, in occasione del Giorno della Memoria dedicato alle vittime del terrorismo, pronuncia un’amara verità. Il Capo dello Stato evoca «intrecci eversivi» e parla, in riferimento al caso di Ustica, di «intrighi internazionali, che non possiamo oggi non richiamare insieme con opacità di comportamenti da parte di corpi dello Stato e di inefficienze di apparati e di interventi deputati all’accertamento della verità. L’Italia faccia ogni sforzo anche diplomatico – continua il Presidente – per giungere alla verità sulla tragedia di Ustica. Comprendiamo il tenace invocare, da parte dei familiari delle vittime, ogni sforzo possibile, anche sul piano dei rapporti internazionali, per giungere ad una veritiera ricostruzione di quel che avvenne la notte del 27 giugno 1980». L’ipotesi più accreditata, ma mai definitivamente riscontrata, è che il velivolo civile sia stato abbattuto da un missile lanciato da un “caccia” occidentale spedito sui cieli italiani per cancellare dalla scena politica mondiale Muammar Gheddafi, padrone della Libia e nemico giurato di americani e francesi. Il leader africano doveva essere in viaggio, quella sera, su un aereo di Stato diretto 15

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a Belgrado. L’intelligence straniera lo sapeva ed aveva preparato una trappola mortale. Il sistema Nadge, la rete radar che proteggeva i paesi dell’Alleanza Atlantica, dalla Norvegia alla Turchia, in quegli anni difficili di guerra fredda con l’Urss, presentava delle zone buie. Dei corridoi attraversabili senza essere individuati che non solo i libici, ma pure i palestinesi di Yasser Arafat, utilizzavano per compiere spostamenti segreti al fine di raggiungere Paesi alleati. Spostamenti tollerati dagli italiani che mantenevano all’epoca buoni rapporti sia con Tripoli che con l’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina). Il Tupolev che trasportava lo statista tripolitano doveva essere agganciato, in quella calda sera d’estate, da due aerei militari libici decollati dalla Iugoslavia. Nella nazione guidata col pugno di ferro dal maresciallo Tito i velivoli dell’aeronautica africana venivano spesso trasferiti per compiere le operazioni di manutenzione. Giuseppe Santovito, capo del servizio segreto militare italiano (Sismi), seppe della trappola e avvertì gli “amici” d’oltre Mediterraneo che fecero tornare indietro, all’altezza di Malta, l’aereo di Stato con a bordo il “colonnello” tripolitano. I Mig, nel frattempo partiti da Belgrado, rimasero in volo e tentarono di nascondersi probabilmente dietro la sagoma del Dc9 Itavia. Gli intercettori occidentali incaricati di colpire Gheddafi ingaggiarono a questo punto un duello con i piloti nordafricani, colpendo per sbaglio il velivolo civile e abbattendo uno dei Mig 23 poi ritrovato sulle montagne calabresi della Sila. Uno scenario inquietante ma finora mai riscontrato. Una lunga azione internazionale di depistaggio ha infatti impedito di ricostruirlo compiutamente. Uno scenario del quale ha invece parlato diffusamente il Presidente emerito della Repubblica, Francesco Cossiga, scomparso nell’agosto del 2010. Cossiga che, tra l’altro, nel 1980 era Presidente del Consiglio, ha dichiarato pubblicamente: «Quando ero presidente della Repubblica i nostri servizi segreti mi informarono che a provocare la strage di Ustica furono i francesi utilizzando un aereo della Marina, che lanciò un missile non a impatto, ma a risonanza. Se fosse stato a 16

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impatto non sarebbe rimasto nulla dell’aereo. La tesi è che i francesi sapevano che sarebbe passato l’aereo di Gheddafi. La verità è che Gheddafi si salvò perché il Sismi, il generale Santovito, appresa l’informazione, lo informò quando lui era appena decollato inducendolo a tornare indietro. I francesi questo lo sapevano – ha concluso Cossiga – e videro un aereo dall’altra parte di quello italiano che si nascose dietro per non farsi prendere dai radar, partì un missile e fu la strage». Sul punto concorda anche l’allora giudice istruttore Rosario Priore, autore dell’inchiesta sulla tragedia di Ustica. «Le conclusioni di Cossiga sono le stesse alle quali sono arrivato anch’io con la mia inchiesta. Credo che le sue informazioni siano attendibili, anche se le sue fonti sono diverse dalle mie. Io non ho potuto dare una nazionalità all’aereo militare, anche se poteva essere solo statunitense o francese. La Nato disse che quella sera c’era un forte movimento aereo, che rendeva possibile la presenza di una portaerei. Anche in questo caso le possibilità non erano molte: o la Clemenceau, che però i francesi dissero che si trovava in porto a Tolone, o l’americana Saratoga, a Napoli». Plausibile, per Priore, anche l’ipotesi di un Sismi che allerta Gheddafi: «È una teoria che circolava fin dall’inizio. C’era una frattura nel Sismi: una parte filo-araba guidata da Santovito e un’altra più filo-israeliana». D’accordo nel non sottovalutare le dichiarazioni di Cossiga è sempre stato anche l’avvocato Alessandro Gamberini, legale dei familiari delle vittime di Ustica. «Si sa che quella notte un aereo, giunto all’altezza di Malta tornò indietro. Quelle di Cossiga sono informazioni che vanno coltivate, anche perché la Francia è l’unico paese a non aver risposto alle rogatorie in modo compiuto». L’allora presidente francese, Giscard D’Estaing, ha sempre negato il coinvolgimento della sua nazione nella tragedia di Ustica. Ma non avrebbe potuto fare altrimenti. La Francia, tuttavia, non sopportava il dinamismo di Gheddafi, che fomentava la guerriglia in Ciad contro il governo filo francese in carica a ’Ndjamena e infastidiva sensibilmente e contestualmente l’esecutivo tunisino 17

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schierato apertamente con Parigi. Non solo: il leader libico contrastava il processo di pace avviato dal presidente egiziano Sadat e dal premier israeliano Begin con il trattato di Camp David nel 1977. E, proprio per questo, aveva schierato truppe e costruito fortificazioni lungo il confine egiziano. Pure gli Usa malsopportavano il “colonnello” di Tripoli che rischiava di creare disequilibri in Africa. Disequilibri che l’opinione pubblica americana non mostrava di gradire, soprattutto dopo la batosta subita nel 1979, con la fallita liberazione degli ostaggi tenuti prigionieri dai pasdaran khomeinisti nell’ambasciata di Teheran. Il quadro nazionale e internazionale, in quegli anni, appariva dunque molto articolato. L’Italia era schierata con la Nato che fronteggiava sullo scacchiere europeo l’Unione Sovietica ed i paesi della Cortina di Ferro. In effetti, tuttavia, la nostra politica estera contemplava il mantenimento di rapporti con stati, come la Libia, o organizzazioni, come l’Olp, schierati contro il blocco Usa. La situazione politica interna era invece condizionata dal terrorismo di sinistra e di destra per via della presenza delle Brigate Rosse, Prima Linea e Nap da un alto e, dall’altro, dei Nuclei Armati Rivoluzionari. Nel 1978 era stato assassinato Aldo Moro, sostenitore del compromesso storico tra la Dc e il Pci e inventore del cosiddetto “Lodo Moro”, che consentiva appunto a libici e palestinesi di muoversi nel Belpaese con assoluta libertà, impegnandosi, però, a non compiere sanguinosi attentati sul nostro territorio. Tra le cellule terroristiche sguazzavano i servizi segreti, civile e militare, divisi in cordate e, spesso, responsabili di coperture e patti inconfessabili. La vita dello Stato era ulteriormente influenzata dalla presenza della Loggia Propaganda 2 che annoverava tra i suoi affiliati uomini di governo e delle Istituzioni e poteva contare sul Supersismi, una struttura attiva all’interno dell’intelligence militare che garantiva contatti preferenziali con gli americani e il mondo dell’estrema destra. 18

La strage di Ustica e il mistero del Mig libico

La criminalità organizzata, nel frattempo, regolava nelle regioni meridionali i suoi conti con decine di omicidi compiuti in Campania, Calabria e Sicilia. A Roma dominava la scena delinquenziale la “Banda della Magliana”, più volte inserita negli affari sporchi della Repubblica, mentre persino la Chiesa cattolica era attraversata da sinistri fremiti, generati dagli obliqui rapporti mantenuti dal cardinale Marcinkus e dallo Ior (la Banca Vaticana) con il bancarottiere Michele Sindona e il banchiere Roberto Calvi. Tra le consorterie delinquenziali la mafia siciliana nel 1980 era quella più fortemente infiltrata nella massoneria deviata e maggiormente influente nella vita dei partiti grazie a rappresentativi uomini politici isolani come Vito Ciancimino. Già sindaco ed assessore ai lavori pubblici di Palermo, “Don Vito” era il referente della feroce fazione dei corleonesi nella Democrazia cristiana e appariva particolarmente abile nel tessere trame e organizzare raggiri. Proprio per questo, nel giugno dell’80, venne interpellato dal ministro Attilio Ruffini, democristiano come lui, che gli chiese aiuto per risolvere un problema legato alla strage di Ustica. Così ha raccontato ai giudici Massimo Ciancimino, figlio di Vito, divenuto “dichiarante” dopo aver incassato una condanna penale: «Una sera eravamo a Mondello e stavamo andando a cena al Circolo Lauria, verso le 21.30. A un certo punto fummo raggiunti da un signore che ci disse di essere latore di un messaggio urgente da parte dell’onorevole Attilio Ruffini, fino a qualche settimana prima ministro della Difesa. Il messaggero comunicò a mio padre che Ruffini aveva bisogno di un incontro urgentissimo. Il ministro era suo grande amico e nella Dc siciliana aveva un gran peso. Cosa era accaduto quella sera? La sciagura di Ustica: il Dc9 dell’Itavia disintegrato in volo con 81 persone a bordo. In sostanza mio padre veniva mobilitato per controllare e vigilare affinché non divenisse pubblica la notizia della reale causa di quella sciagura, e cioè che l’aereo era stato abbattuto nel corso di una “operazione di guerra” tra servizi segreti stranieri. Poi si 19

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apprenderà della pista del Mig libico e dei servizi francesi, cosa che mio padre aveva saputo in tempo reale. Ma questa storia ha anche un risvolto privato e riguarda l’ingegnere Roberto Parisi, presidente della Icem – l’impresa che deteneva, anche grazie a mio padre, l’appalto per l’illuminazione pubblica a Palermo –. Su quell’aereo viaggiavano Elvira, la moglie, e Alessandra, sua unica figlia. Ricordo la tristezza che provò mio padre quando si convinse a raccontare all’amico com’erano andate le cose, quella sera, sul cielo di Ustica. Fu sincero, ma anche fermo nell’imporgli di non pensare neppure lontanamente a gesti clamorosi». È difficile valutare la veridicità delle dichiarazioni di Massimo Ciancimino, anche se esse si aggiungono a quelle di Francesco Cossiga e Rosario Priore. E fanno riflettere. Quella stessa estate altri due eventi sconvolsero l’Italia: il 2 agosto una bomba devastò la stazione di Bologna causando decine di morti mentre il 2 settembre scomparvero in Libano i giornalisti Graziella De Palo e Italo Toni. I due reporter uscirono dal loro albergo per un servizio importante su un traffico di armi e uranio e furono rapiti e uccisi. Per l’attentato compiuto nel capoluogo emiliano sono stati condannati all’ergastolo Giusva Fioravanti e Francesca Mambro, terroristi dei Nar che non hanno mai ammesso le loro responsabilità in ordine alla tragedia, pur confessando altri gravi delitti. Per la morte di De Palo e Toni non è stato invece processato nessuno. Anzi, con la desecretazione degli atti disposta nel 2010 dal Governo, s’è scoperto che, dopo la loro scomparsa, i nostri servizi di sicurezza svolsero in Libano un’azione di depistaggio forse per impedire l’individuazione dei colpevoli. Nessun elemento concreto ci consente di collegare la strage di Bologna, l’assassinio dei cronisti e la tragedia di Ustica, eppure è come se un filo invisibile e una impalpabile regia legassero segretamente queste tragiche storie. In quel periodo, infatti, nel nostro Paese poteva accadere di tutto.

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La strage di Ustica e il mistero del Mig libico

La ricostruzione dei fatti e l’inchiesta Ma cosa successe la sera della strage? Questa la cronologia degli accadimenti ricostruita in sede processuale. Alle 20.08 il volo IH870 diretto da Bologna a Palermo parte con due ore di ritardo e si svolge regolarmente, nei tempi e sulla rotta previsti, fino all’ultimo contatto radio tra velivolo e controllore procedurale di “Roma Controllo”, che avviene alle 20.58. Alle 21.04, chiamato per l’autorizzazione di inizio discesa su Palermo, il volo IH870 non risponde. L’operatore di Roma reitera invano le chiamate. Lo fa chiamare, sempre senza ottenere risposta, anche da due voli dell’Air Malta KM153 e KM758 che seguono la stessa rotta, dal radar militare di Marsala e dalla torre di controllo di Palermo. Passa senza notizie anche l’orario di arrivo a destinazione, previsto per le 21.13. Alle 21.25 il comando del Soccorso Aereo di Martina Franca assume la direzione delle operazioni di ricerca e allerta il 15º Stormo a Ciampino, sede degli elicotteri HH-3F del Soccorso Aereo. Alle 21.55 decolla il primo HH-3F e inizia a perlustrare l’area presunta dell’eventuale incidente. L’aereo è ormai disperso. Nella notte numerosi elicotteri, aerei e navi partecipano alle ricerche nella zona. Solo alle prime luci dell’alba viene individuata, da un elicottero HH-3F del Soccorso Aereo, alcune decine di miglia a nord di Ustica, una chiazza oleosa. Poco dopo raggiunge la zona un Breguet Atlantique dell’Aeronautica e vengono avvistati i primi resti e i primi cadaveri. È la conferma che il velivolo è precipitato in quella zona del Tirreno dove la profondità supera i tremila metri. Le vittime del disastro sono ottantuno, ma si ritrovano e recuperano i corpi di sole trentotto persone. Gli esami autoptici svolti sulle salme riscontrano sia “grandi traumatismi” da caduta a livello scheletrico e viscerale, sia lesioni enfisematose polmonari da decompressione: l’aereo si era dunque aperto in volo. Nelle perizie gli esperti spiegheranno che l’instaurarsi degli enfisemi da depressurizzazione aveva preceduto 21

STRAGI, DELITTI E MISTERI

cronologicamente tutte le altre lesioni riscontrate, senza tuttavia causare direttamente il decesso dei passeggeri ma facendo loro perdere solo conoscenza. La morte era sopravvenuta soltanto in seguito a fatali traumi, riconducibili alla presenza di schegge e piccole parti metalliche in alcuni dei corpi e a reiterati urti con la struttura dell’aereo in caduta. Il Flight Data Recorder dell’aereo registra dati di volo assolutamente regolari: prima della sciagura la velocità era di circa 323 nodi, la quota di circa 7630 metri con prua a 178º, l’accelerazione verticale oscillava senza oltrepassare 1,15 g. Il tranquillo dialogo tra il comandante Domenico Gatti e il copilota che si raccontano barzellette, che ci restituisce il Cockpit Voice Recorder (CVR), è interrotto improvvisamente e senza alcun segnale allarmante che preceda la troncatura della registrazione. Questo il dialogo: «Allora siamo a discorsi da fare… […] Va bene i capelli sono bianchi… È logico… Eh, lunedì intendevamo trovarci ben poche volte, se no… Sporca eh! Allora sentite questa… Gua…» La registrazione si ferma tagliando l’ultima parola. Questi particolari indicherebbero – è stato ipotizzato – un’improvvisa interruzione dell’alimentazione elettrica, per cui l’evento causa della caduta del DC-9 sarebbe stato repentino e inavvertito. Le indagini vengono iniziate subito sia dalla Magistratura che dal Ministero dei Trasporti. Aprono un procedimento le procure di Palermo, Roma e Bologna. Dal 1982 l’indagine diviene di fatto di esclusiva competenza della magistratura romana nella persona del giudice Bucarelli. La ricerca delle cause dell’incidente, nei primi anni e senza disporre del relitto, non consente di giungere ad alcuna concreta conclusione. Sui pochi resti disponibili vengono ritrovate tracce di esplosivi TNT e T4 in proporzioni compatibili anche con ordigni militari: secondo alcuni analisti i ritrovamenti sembrerebbero a prima vista compatibili sia con l’ipotesi del missile aria-aria sia con quella della bomba a bordo. 22

La strage di Ustica e il mistero del Mig libico

Nel 1987 il ministro Giuliano Amato mette a disposizione i fondi per il recupero del relitto del DC-9 che giace in fondo al mare. La profondità di 3700 metri alla quale si trova il relitto rende complesse e costose le operazioni di localizzazione e recupero. Sono pochissime le imprese specializzate che dispongono delle attrezzature e dell’esperienza necessarie: la scelta ricadrà sulla ditta francese Ifremer, che si ritiene collegata ai servizi segreti francesi. Buona parte del relitto (il 96 per cento) viene riportato in superficie, mediante due distinte campagne di recupero nel 1987 e nel 1991. In un hangar dell’aeroporto di Pratica di Mare il velivolo viene ricomposto e resta a disposizione della Magistratura per le indagini fino al 5 giugno 2006, quando sarà trasferito e sistemato nel Museo della Memoria, istituito a Bologna. Durante le indagini numerosi elementi portano gli inquirenti ad indagare sull’eventuale presenza di altri aerei coinvolti nel disastro. Viene accertato, infatti, che la zona sud del Tirreno era utilizzata per esercitazioni Nato. Non solo: in quel periodo venivano tollerate penetrazioni dello spazio aereo italiano da parte di aerei militari libici. L’aeronautica tripolitana trasferiva i vari aerei da combattimento da e per la Jugoslavia, nelle cui basi veniva assicurata la manutenzione ai Mig e Sukhoi di fabbricazione sovietica di cui disponeva il colonnello Gheddafi. Il governo italiano, fortemente debitore verso il governo libico dal punto di vista economico – basti pensare che dal 1 dicembre 1976 addirittura la FIAT era parzialmente in mani gheddafiane, con una quota azionaria del 13% detenuta dalla finanziaria libica LAFICO – tollerava gli attraversamenti del nostro spazio aereo e li mascherava con piani di volo autorizzati per non impensierire gli USA. Spesso i “caccia” libici si mimetizzavano nella rete radar disponendosi in coda al traffico aereo civile italiano, riuscendo così a non allertare le difese Nato. 23

STRAGI, DELITTI E MISTERI

Il giudice Rosario Priore ha accertato che dalle 10.30 alle 15.00 del 27 giugno 1980 si svolse l’esercitazione aerea USA “Patricia”. La sera della tragedia, poi, tra le ore 20.00 e le 24.00 locali, l’area tirrenica fu solcata da voli di aerei militari non appartenenti all’Aeronautica Italiana: un quadrireattore E-3A Sentry (più noto come AWACS o aereo radar) che orbitava da oltre due ore a 50 km da Grosseto in direzione nord ovest, un CT-39G Sabreliner, un jet Executive militare e vari P3 Orion (pattugliatori marini) partiti dalla base di Sigonella, un Lockheed C-141 Starlifter (quadrireattore da trasporto strategico) in transito lungo la costa diretto a sud. Inoltre, sembra che alcuni cacciabombardieri F-111 dell’USAF basati a Lakenheath (Suffolk, Gran Bretagna) si stessero trasferendo verso l’Egitto all’aeroporto di Cairo West, con l’appoggio di aerei da trasporto strategico C-141 Starlifter. Gli aerei facevano parte di un ponte aereo in atto da diversi giorni, che aveva lo scopo di stringere una cooperazione degli USA con l’Egitto e ridurre la Libia, con la quale vigeva uno stato di crisi aperta sin dal 1973, a più miti consigli. Di una intensa attività di volo fino a tarda sera, presso la base aerea di Solenzara, in Corsica, che ospitava vari stormi dell’Armée de l’air francesi, parlerà al giudice istruttore romano anche il generale dei Carabinieri Nicolò Bozzo. L’alto ufficiale, in quel caldo e tragico giorno di giugno, era in vacanza nella zona. Ma c’è un altro singolare episodio che lascia senza parole. Quella sera due F-104 del 4º Stormo dell’Aeronautica Militare di ritorno da una missione di addestramento sull’aeroporto di Verona-Villafranca, mentre effettuavano l’avvicinamento alla base aerea di Grosseto si trovarono in prossimità del DC-9 Itavia. Uno era un TF-104G biposto, su cui viaggiavano i piloti Mario Naldini e Ivo Nutarelli. Alle ore 20.24, all’altezza di Firenze-Peretola, il biposto con a bordo Naldini e Nutarelli, mentre era ancora in prossimità dell’aereo civile, emise un segnale di allarme generale alla Difesa 24

La strage di Ustica e il mistero del Mig libico

Aerea (codice 73, che significa emergenza generale e non emergenza velivolo). Naldini e Nutarelli segnalarono un problema di sicurezza aerea e i controllori ottennero conferma della situazione di pericolo. L’aereo ripeté per ben tre volte la procedura di allerta, a conferma inequivocabile dell’emergenza. Né l’Aeronautica Militare né la Nato hanno mai chiarito le ragioni di quell’allarme. E nemmeno Naldini e Nutarelli spiegheranno mai le ragioni del loro gesto, perché pochi giorni prima di essere interrogati dal giudice Rosario Priore moriranno durante una manifestazione di volo acrobatico cui partecipavano a Ramstein, in Germania. Ma ci sono altre morti sospette. Si tratta di decessi di persone occupatesi, direttamente o indirettamente, di vicende legate alla strage. Questo il triste e lungo elenco, aperto dal maresciallo Mario Alberto Dettori, trovato impiccato il 31 marzo 1987 in un modo definito dalla Polizia Scientifica “innaturale”, presso Grosseto. Il sottufficiale era in servizio la sera del 27 giugno 1980 a Poggio Ballone. Mesi prima di morire, preoccupato, aveva rovistato tutta la casa alla ricerca di presunte microspie. La mattina dopo la strage di Ustica aveva invece confidato alla moglie: «Sono molto scosso… Qui è successo un casino… Qui vanno tutti in galera!». Maresciallo Franco Parisi: trovato impiccato il 21 dicembre 1995 nelle campagne di Lecce. Era in servizio la notte del 27 giugno al centro radar di Otranto che è collegato a molti centri radar del Meridione d’Italia. Probabilmente vide lo scenario di guerra. Il giudice Priore l’interrogò nel settembre del 1995 e avrebbe dovuto riascoltarlo il 10 gennaio 1996. Colonnello Pierangelo Tedoldi: incidente stradale sospetto il 3 agosto 1980; avrebbe in seguito dovuto assumere il comando dell’aeroporto di Grosseto. Capitano Maurizio Gari: infarto, 9 maggio 1981; capo controllore di sala operativa della Difesa Aerea presso il 21º CRAM di Poggio Ballone, era in servizio la sera della strage. Dalle registrazioni telefoniche si evince un particolare interessamento del 25

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capitano per la questione del DC-9 e la sua testimonianza sarebbe stata certo di grande utilità all’inchiesta visto il ruolo ricoperto dalla sala sotto il suo comando, nella quale, peraltro, era in servizio il maresciallo Dettori. La morte di Gari, nonostante la giovane età, sarebbe attribuibile a cause naturali. Giovanni Battista Finetti, sindaco di Grosseto: incidente stradale apparentemente casuale avvenuto il 23 gennaio 1983. Era opinione corrente che avesse informazioni su fatti avvenuti la sera dell’incidente del DC-9 all’aeroporto di Grosseto. Maresciallo Ugo Zammarelli: incidente stradale, pure questo non manifestamente sospetto, avvenuto il 14 agosto 1988. Zammarelli era stato in servizio presso il SIOS di Cagliari, non si sa se fosse a conoscenza d’informazioni riguardanti la strage di Ustica, o la caduta del Mig libico. Morì travolto da una moto Honda 600 sul lungomare di Gizzeria Marina, in Calabria. Un suo amico, Gaetano Sconzo, giornalista dell’Ora di Palermo, riportò sul suo giornale alcune confidenze di Zammarelli: «Stava indagando su Ustica, ma temeva per la sua vita». Maresciallo Antonio Muzio: omicidio, 1º febbraio 1991; in servizio alla torre di controllo dell’aeroporto di Lamezia Terme nel 1980, poteva forse essere venuto a conoscenza di notizie riguardanti il Mig libico, ma non ci sono certezze. Nello scalo calabrese erano stati custoditi la scatola nera del velivolo libico e i nastri di registrazione dei voli. Venne assassinato a 39 anni nella sua abitazione di Pizzo Calabro, con tre colpi di pistola al ventre. Tenente colonnello Sandro Marcucci: incidente aereo, 2 febbraio 1992. Non sono emerse connessioni con la tragedia di Ustica, a parte le dichiarazioni di un testimone. Precipitò con il suo Piper antincendio. Maresciallo Antonio Pagliara: incidente stradale avvenuto anch’esso il 2 febbraio 1992. Era in servizio come controllore della Difesa Aerea presso il 32º CRAM di Otranto, dove avrebbe potuto avere informazioni sulla faccenda del Mig. Le indagini propendono per la casualità dell’incidente. 26

La strage di Ustica e il mistero del Mig libico

Generale Roberto Boemio: omicidio, compiuto il 13 gennaio 1993 a Bruxelles. Da precedenti dichiarazioni rilasciate durante l’inchiesta, apparve chiaro che la sua testimonianza sarebbe stata di grande utilità, sia per determinare gli eventi inerenti il DC-9, sia per quelli del Mig libico. La magistratura belga non ha mai risolto il caso. Boemio era in pensione e viveva da tempo in Belgio. Venne ammazzato con una pugnalata sul marciapiede davanti al suo garage in Rue Iean Batiste 68. Nel giugno del 1980 era il comandante della Terza Regione Aerea Meridionale. Maggiore medico Gian Paolo Totaro: fu trovato impiccato ad un’altezza di poco superiore al metro, il 2 novembre 1994 nella sua abitazione di Udine. Le indagini sul decesso scaturirono dalla strana modalità d’impiccagione, tuttavia gl’investigatori conclusero che si trattava di un’azione suicida. Gian Paolo Totaro era in contatto con molti militari collegati agli eventi di Ustica, tra i quali lo stesso Maresciallo Dettori. Non solo: era un ex ufficiale medico delle Frecce Tricolori e conosceva Nutarelli e Naldini. Generale Saverio Rana, morto d’infarto. Era responsabile del Rai (Registro aereonautico italiano) e, pochi giorni dopo la tragedia di Ustica, ipotizzò al ministro dei Trasporti Rino Formica la presenza di un caccia accanto al Dc9 in volo verso Palermo. Il processo e la sentenza Le indagini sulla tragedia di Ustica, condotte dal giudice Priore, si concludono il 31 agosto 1999 con il deposito della sentenzaordinanza. Nel documento giudiziario si legge: «L’incidente al DC9 è occorso a seguito di azione militare di intercettamento, il DC9 è stato abbattuto, è stata spezzata la vita a 81 cittadini innocenti con un’azione, che è stata propriamente atto di guerra, guerra di fatto e non dichiarata, operazione di polizia internazionale coperta contro il nostro Paese, di cui sono stati violati i confini e i diritti.» 27

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I responsabili materiali della strage non vengono però individuati e il magistrato dichiara «il non doversi procedere in ordine al delitto di strage perché ignoti gli autori del reato». Per il comportamento tenuto successivamente al disastro vengono rinviati a giudizio i vertici dell’Aeronautica militare dell’epoca. Sono i generali Bartolucci, Ferri, Melillo e Tascio. Ai quattro alti ufficiali viene contestata l’ipotesi di reato di alto tradimento, per aver impedito, tramite la comunicazione di informazioni errate, l’esercizio delle funzioni del governo. Il processo di primo grado comincia il 28 settembre 2000, nell’aula-bunker di Rebibbia. Dopo 272 udienze, il 30 aprile 2004, la Corte d’assise assolve dall’imputazione di alto tradimento – per aver gli imputati turbato (e non impedito) le funzioni di governo – i generali Corrado Melillo e Zeno Tascio con la formula “per non aver commesso il fatto”. I generali Lamberto Bartolucci e Franco Ferri vengono invece ritenuti colpevoli ma, essendo ormai passati più di 15 anni, il reato viene dichiarato prescritto. La sentenza non soddisfa né gli imputati Bartolucci e Ferri, né la Procura, né le parti civili. Tutti, infatti, presentano ricorso in appello. Il processo davanti alla Corte di Assise d’Appello di Roma comincia il 3 novembre 2005 e si chiude il successivo 15 dicembre con l’assoluzione dei generali Bartolucci e Ferri dalla imputazione loro ascritta, perché “il fatto non sussiste”. La Corte rileva infatti che non vi sono prove a sostegno dell’accusa di “alto tradimento”. La Procura Generale di Roma propone ricorso per Cassazione chiedendo l’annullamento della sentenza della Corte d’Appello del 15 dicembre 2005. Il 10 gennaio 2007 la prima sezione penale della Corte di Cassazione, presieduta da Torquato Gemelli, conferma la sentenza pronunciata nel dicembre del 2005 dalla corte d’Assise d’appello di Roma, dichiarando inammissibile il ricorso presentato dalla 28

La strage di Ustica e il mistero del Mig libico

Procura Generale di Roma e rigettando quello dell’Avvocatura dello Stato, che rappresentava la Presidenza del Consiglio dei ministri e il ministero della Difesa, costituitisi parte civile. Nessun colpevole, dunque. Ma nella sentenza-ordinanza firmata nel 1999 da Rosario Priore viene dedicato anche un ampio spazio al Mig-23 libico ritrovato a Castelsilano e ufficialmente precipitato il 18 luglio 1980. Secondo l’ipotesi del magistrato inquirente alcuni fatti, testimonianze e documenti mettono in dubbio la data della caduta del 18 luglio e fanno invece ipotizzare un collegamento con quella del DC-9 Itavia… Il Mig-23 trovato in Sila Il 18 luglio del 1980 una telefonata allerta i carabinieri di Caccuri della presenza dei resti di un aereo tra le montagne di Castelsilano. Scatta l’allarme. In poche ore confluiscono in località Timpa delle Magare carabinieri, poliziotti, reparti dell’Esercito e dell’Aereonautica. L’intera area interessata dalle operazioni di recupero viene inibita all’accesso di curiosi e giornalisti. Nello spazio di cinque chilometri dal velivolo nessun civile può mettere piede. Racconta Diego Minuti, all’epoca cronista di Gazzetta del Sud: «Arrivammo da Catanzaro nella zona dell’incidente a bordo della mia auto insieme con il fotografo del giornale, Pasquale Rotundo. Una pattuglia dei carabinieri c’impedì, però, di proseguire fino all’area in cui c’era la carcassa del velivolo. “Non potete passare – ci dissero – l’intero settore montano è inibito ai civili”. Tornammo perciò indietro, fingendo di osservare il divieto che c’era stato imposto. Percorso un chilometro, abbandonammo invece la vettura, decidendo d’inoltrarci a piedi per i boschi, con l’intenzione di riuscire a scattare almeno qualche foto. Dopo quasi un’ora di cammino, raggiungemmo un punto da cui si poteva osservare nitidamente il Mig. Il fotografo fece numerosi scatti, io presi 29

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qualche appunto, eppoi lasciammo la scena. Tornati alla mia auto trovammo ad attenderci altri carabinieri che ci condussero, senza tanti complimenti, nella caserma più vicina della Benemerita. Qui, senza capire perché fossimo trattenuti, aspettammo un’ora chiusi in una stanza. Il caldo era asfissiante. A un certo punto si spalancò la porta e fecero ingresso un ufficiale della compagnia di Crotone che conoscevo e un alto ufficiale dell’Aeronautica. I due ci intimarono di consegnare i rullini, cosa che Pasquale Rotundo, contro il mio volere, fece. Poi ci lasciarono andare. Nelle settimane successive riconobbi, dalle immagini pubblicate dai quotidiani, il militare che era in compagnia dell’esponente dell’Arma: si trattava di Zeno Tascio». La testimonianza di questo giornalista ci consente d’insinuarci tra le pieghe d’un giallo internazionale infarcito di contraddizioni, errori di valutazione e risposte mancate. Pressato dall’opinione pubblica, infatti, il ministero della Difesa diffuse dopo poche ore un comunicato ufficiale. Nel documento si riferiva che era stata ritrovata «la carcassa di un Mig 23 monoposto di fabbricazione sovietica, sprovvisto di armamento e serbatoi supplementari, in dotazione alle forze aeree libiche. Nella cabina è stato rinvenuto il cadavere di un pilota, di carnagione scura e dell’apparente età di trent’anni». Stop. Muammar Gheddafi, dall’altra parte del Mediterraneo, rispose con un comunicato ufficiale del suo governo. «Il nostro pilota era in volo d’addestramento e a causa di un improvviso collasso ha perso il controllo dell’aereo, precipitando». Fine. Sul casco dell’aviatore una scritta in arabo: “Ezzeedan Koal”. Qualcuno pensò si trattasse del nome di battesimo della vittima. Ma non era così. Mai nessuno capirà bene cosa significasse. Al pilota, negli anni, verranno attribuiti diversi nomi, tra cui quello più ricorrente di Fadal Al Adin. Gli inquirenti diedero subito la sensazione di voler chiudere in fretta il caso. Il corpo del pilota, inspiegabilmente, senza autopsia, venne ricomposto e sepolto nel piccolo cimitero di Castelsilano. Paradossalmente l’autopsia 30

La strage di Ustica e il mistero del Mig libico

sarà eseguita solo cinque giorni dopo, con la riesumazione del cadavere. Intanto, i primi accertamenti sembrarono smentire il comunicato della Difesa: il Mig era un biposto, utilizzabile sia per l’addestramento che per il combattimento. Da Tripoli, l’agenzia di stampa ufficiale Jana corresse leggermente il tiro rispetto al primo comunicato libico, lasciando intendere che il Mig era precipitato “in circostanze poco chiare”. La situazione, però, presto si appianò. Giunsero in Italia tre esperti del governo tripolitano e il corpo della vittima venne restituito alle autorità d’Oltremare. Con i resti del velivolo. L’esame necroscopico, compiuto in ritardo e svolto dai professori Erasmo Rondanelli e Anselmo Zurlo, fece risalire il decesso del pilota al giorno della presunta caduta. Uno dei due medici-legali, tuttavia, otto anni dopo dichiarò che il 23 luglio del 1980 aveva cambiato opinione sulla data della morte dell’aviere, manifestando in una memoria aggiuntiva la convinzione che il libico fosse spirato almeno 15 giorni prima del ritrovamento. Pure l’ufficiale sanitario di Castelsilano, tra i primi ad accorrere sul posto, aveva descritto la salma come in apparente avanzato stato di decomposizione. Una contadina della zona, tuttavia, riferì di aver udito uno scoppio il 18 luglio, senza però vedere materialmente il “caccia” schiantarsi contro il costone della montagna. Molti abitanti confermarono indirettamente l’assunto. Altri invece parlarono di una prolungata presenza in zona dell’esercito (mai verificata) prima dello schianto. Versioni, dunque, contrastanti. Cui si aggiunse la testimonianza di un avvocato di Catanzaro, Enrico Brogneri, autore poi di un volume sulla strage di Ustica. Il professionista (interrogato, in tempi diversi, dai giudici Bucarelli e Priore) dichiarò di aver visto sul cielo della sua città, la sera del 27 giugno 1980, un aereo da guerra sfrecciare a bassissima quota, sfiorando quasi le case. La circostanza, apparentemente insignificante, consentirà poi, unitamente ad altri 31

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elementi, di ipotizzare un collegamento tra l’abbattimento del Dc9 dell’Itavia avvenuto quello stesso giorno sul cielo di Ustica e il Mig rinvenuto in Sila. Tutte le autorità, nel luglio del 1980, si guardarono bene dall’accreditare uno scenario del genere. Probabilmente, sulla questione non sapremo mai la verità. Gli stessi magistrati romani che hanno celebrato il processo sul caso Ustica ritengono infatti che non sia provabile una caduta dell’aereo da guerra nello stesso giorno della tragedia del Dc9. Ma come aveva fatto un Mig a precipitare a ottocento chilometri di distanza dalle coste libiche, sprovvisto di serbatoi supplementari e violando incredibilmente il nostro spazio aereo controllato da una decina di postazioni radar, senza essere individuato? Il tutto in un periodo storico in cui Gheddafi era il nemico numero uno dell’Alleanza Atlantica? Quesiti rimasti senza risposta. Anche perché, ironia della sorte, la scatola nera del velivolo, rinvenuta il 18 luglio del 1980, era difettosa. Dunque, priva delle registrazioni relative alla rotta seguita. E il “caccia” avvistato da Brogneri a Catanzaro la sera del 27 giugno? Scomparso nel nulla. Come un fantasma. Un’altra testimonianza, però, ripropose inquietanti interrogativi. Un caporale dell’esercito, in servizio a Cosenza, dichiarò agli inquirenti di aver piantonato, insieme con altri commilitoni, la carcassa dell’aereo libico e il cadavere del pilota in un periodo antecedente al 18 luglio, giorno ufficiale della caduta. Il militare lasciò intendere di essere stato di guardia ai resti del velivolo forse addirittura dal 28 giugno del 1980. Dunque nelle ventiquattr’ore successive alla esplosione del Dc9 dell’Itavia. Queste rivelazioni spinsero il giudice Rosario Priore a compiere, alla fine dell’estate del ’90, dei sopralluoghi in Calabria. Si valutò la possibilità che fosse stata posta in essere un’attività di depistaggio. Che qualcuno, insomma, avesse gestito il ritrovamento del Mig. Magari posticipandolo. Oppure, che l’aereo comparso a Castelsilano servisse solo a confondere le acque. 32

La strage di Ustica e il mistero del Mig libico

Tra l’altro, tra il punto di caduta del Jet e le tracce del suo conseguente incendio vi erano 150 metri di distanza. Non solo: sul corpo del misterioso pilota non vennero trovate bruciature. Com’era possibile? Si trattò di una messinscena? Anche un ginecologo di Castrolibero (Cosenza), un funzionario della Conservatoria della città dei bruzi e il tecnico di una radio privata cosentina confermarono successivamente al giudice istruttore di aver assistito, la sera del 27 giugno, all’inseguimento di un aereo che procedeva a bassa quota e senza luci di posizione a ridosso della Sila. Il velivolo era tallonato da due “caccia” da guerra. Il 6 dicembre del 1988, con una nota, il Sisde (servizio segreto civile) riferì di aver appreso da una fonte attendibile, tale Roberto Denes, una serie di elementi che accreditavano l’ipotesi della messinscena. Denes venne compiutamente individuato dal magistrato Rosario Priore, ma non fu possibile interrogarlo perché si era nel frattempo reso irreperibile. Al giudice istruttore romano non fu possibile sentire neppure il maresciallo Franco Parisi, in servizio alla postazione radar di Otranto il 18 luglio del 1980 (data del ritrovamento ufficiale dell’aereo). Il sottufficiale morì, infatti, prematuramente (ufficialmente per cause naturali) il 21 dicembre del ’95, pochi giorni prima dell’audizione a Palazzo di giustizia. Ed allora: da dove proveniva quel Mig? Com’era finito a Castelsilano? Quando era precipitato? Scrive Rosario Priore: «Il Mig 23 cadde in tempo e occasione diversi da quelli prospettati nella versione ufficiale». Chi depistò? E, soprattutto, perché? Mistero. Il due agosto del 1980 l’opinione pubblica italiana venne travolta da una strage. Alla stazione ferroviaria di Bologna esplose una bomba che fece ottanta morti. Del Dc9 Itavia abbattuto sul cielo di Ustica e del Mig caduto in Sila nessuno parlò più per molto tempo. Qualcuno aveva voluto così.

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La ricostruzione di Priore e le altre testimonianze Montagne immense, sentieri appena tracciati, segni di antiche transumanze: è in questi luoghi che si sviluppa la nostra storia. Luoghi affascinanti, sorvegliati silenziosamente da allevatori e contadini abituati a fare i conti con una madre arcigna e generosa, dolce e severa: la natura. Luoghi d’una Calabria nascosta e dimenticata, spesso meta di escursionisti ma mai crocevia di affari militari. La quiete dei boschi silani non fu più la stessa dal 18 luglio del 1980. Da quel caldo giorno d’estate, su quel grappolo di case sfiorato da pini e abeti secolari, prese ad aleggiare lo spettro d’un pilota. Un militare dalla pelle scura, forse di nazionalità africana. Castelsilano divenne il paese legato alla strage di Ustica e ai depistaggi dell’Italia repubblicana. Entrò nell’immaginario collettivo come una località remota e misteriosa del Sud senza futuro. Per tentare di svelare i misteri legati alla caduta e al ritrovamento del Mig libico faremo nostro il filo logico caparbiamente seguito dal giudice Rosario Priore. Partiremo proprio dalle illuminanti considerazioni del magistrato. Eccole: «La vicenda del Mig23 precipitato in agro di Castelsilano è quella che ha sollevato più questioni, contrasti e soluzioni discordi, sul tempo di caduta dell’aeromobile e le ragioni del volo verso l’Italia, sulla sua nazionalità e su quella del pilota, sulla specie del velivolo, sulla descrizione e autopsia del cadavere, sulla presenza di stranieri nelle ricognizioni del relitto, sui rapporti con i libici». Perché tanti dubbi? In questa storia nessun tassello è al suo posto. Qualcuno ha provato a costruire un mosaico variopinto per nascondere la verità e confondere chiunque avesse messo il naso nella vicenda del Dc9 abbattuto sui cieli di Ustica. Un mosaico in cui messinscene, morti sospette, documenti spariti, informative dei servizi di sicurezza, segreti accordi tra stati alleati fanno da inossidabile collante. Un mosaico in cui s’è cercato di collocare il Mig, caduto dopo un’aspra battaglia combattuta contro aerei nemici sul Mediterraneo. 34

La strage di Ustica e il mistero del Mig libico

Il velivolo venne cercato per giorni dai militari del nostro Paese, fu faticosamente ritrovato, silenziosamente sorvegliato e poi ufficialmente “consegnato” all’opinione pubblica il 18 luglio del 1980. L’indagine condotta da Priore consente di rilevare numerosi particolari su questa vicenda sfuggiti alla comprensione degli osservatori più attenti. Di quanti, per lustri, hanno tentato di decodificare un evento apparentemente improvviso e imprevedibile. Particolari che ci consentiranno alla fine del nostro viaggio di ipotizzare un inquietante scenario. Partiamo dal rinvenimento dell’aeromobile. Spiega Rosario Priore: «Esso – quello ufficiale, perché quel velivolo per certo non cadde quel giorno bensì in data precedente e dopo un più che probabile periodo di ricerche, fu di fatto rinvenuto e vigilato prima della data ufficiale – avvenne il venerdì 18 luglio ’80, a tre settimane dal disastro di Ustica in agro di Castelsilano, nella località Colimiti, sulla Timpa delle Magare». Cosa sappiamo della caduta del velivolo? Due testimoni, Addolorata Carchidi e Francesco Marano, interrogati dalla polizia giudiziaria, da ufficiali dell’Aeronautica Militare e da magistrati di Crotone e Roma, offrono una serie di indicazioni. Analizziamole. Addolorata, casalinga, stava come ogni mattina sbrigando faccende domestiche sull’aia della propria fattoria quando, tra le 10.30 e le 11.00 del 18 luglio, scorge un aereo che, provenendo dalla parte di Belvedere di Spinello - Cerenzia Vecchia, procede a quota bassissima. Il velivolo le arriva quasi di fronte, poi scompare dietro un’altura. Addolorata si aspetta di rivederlo dall’altro lato e cioè alla sua sinistra ma, invece, sente uno scoppio e vede levarsi delle fiamme che si propagano con rapidità. Si allarma e decide perciò di raggiungere il paese e chiamare soccorsi. Senza esitare, chiude in fretta e furia la porta di casa e parte a piedi in direzione di Castelsilano. Lungo il tragitto incontra Francesco Marano che sta raggiungendo la zona dove possiede delle terre. All’uomo riferisce subito quanto ha visto e sentito. Poche ore dopo la Carchidi racconterà ai carabinieri che l’aereo era “normale”, cioè non faceva né 35

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fumo né fiamme. Dirà ancora d’avere notato, dopo circa tre quarti d’ora, un secondo aereo che volava in senso contrario rispetto a quello visto in precedenza. Aggiungerà, inoltre, che il primo aereo prima di scomparire “faceva poco rumore”, ovvero meno rumore di quello che udiva di solito al passaggio di altri aerei. La Carchidi, in sostanza, non assiste alla caduta del jet da guerra, ma lo vede solo sparire oltre l’altura e quasi contemporaneamente sente uno scoppio. Dell’ora è sicura, perché usa un orologio da cucina collocato nel vano che dà sull’aia. Marano, invece, mentre sta lavorando in una costruzione da cui si vede la contrada Colimiti, s’accorge che si sta sviluppando un incendio. Siccome vi possiede un fondo, decide immediatamente d’intervenire e durante il percorso incontra la Carchidi che l’informa della caduta del velivolo. L’uomo raggiunge il suo terreno e tenta di spegnere l’incendio che ha attaccato alcuni alberi, ma non riesce, a causa del fuoco, a vedere i resti dell’aereo. «È accaduto tutto intorno alle 11»: anche Marano appare sufficientemente certo dell’orario. I racconti dei due testimoni appaiono perfettamente sovrapponibili. Entrambi i testi, però, non hanno materialmente visto il velivolo schiantarsi al suolo. Sappiamo perciò della presenza di un aereo che nessuno vede tuttavia precipitare. Tutto chiaro? Nient’affatto, perché sulla scena dell’“incidente” appare un terzo testimone. Si tratta del pastore Giuseppe Piccolo che, mentre si trova con il suo gregge sul greto del torrente Lesi, vede sfrecciare un velivolo a bassa quota che sfiora la collina posta a monte di un fondo denominato Ritri in agro di Cerenzia. L’aereo – secondo il teste – vola normalmente sino a quando, per evitare un costone, vira di colpo e poi torna indietro verso Castelsilano. Infine, scompare. Piccolo dirà agli inquirenti che il velivolo era di “piccole dimensioni” ed “aveva il motore in funzione”. Poi specificherà che dopo la scomparsa non ha udito alcun boato né visto fumo e che solo a distanza di tempo, quando è risalito a monte, ha visto del fumo in zona Colimiti. L’orario dell’avvistamento coincide 36

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con i tempi indicati dalla Carchidi e Marano. Il pastore preciserà, infatti, che il fatto è avvenuto “intorno alle 11”, mentre stava portando il gregge ad abbeverarsi. Cosa ha visto Piccolo? Probabilmente un velivolo diverso dal Mig 23, di “piccole dimensioni” e con il motore “funzionante”. Lo vede virare ma non schiantarsi al suolo. Non sente alcuno scoppio e s’incuriosisce solo quando nota un incendio svilupparsi lungo un costone. Che succede dopo? Chi mobilita le forze dell’ordine? Quali sono i tempi d’intervento di magistrati e medici legali? Immaginate, intanto, un tranquillo paesino di montagna, sconvolto dal volo di più aerei e da un improvviso, inspiegabile, scoppio. La voce corre di porta in porta, tutti cominciano a fantasticare e ad allarmarsi. «La notizia – ricostruisce il giudice Priore – corre attraverso i diversi abitanti di Castelsilano: Pietro Amantea, Giovanni Spina, Francesco Durante, Francesco Brisinda sindaco del paese, (che peraltro aveva udito un boato intorno alle 11, ma non vi aveva dato peso, giacché rumori simili si sentivano spesso al passaggio di aerei), e dal sindaco ai Carabinieri. Ed in effetti la notizia perviene all’Arma, secondo quanto risulta dal rapporto del Nucleo Operativo del Reparto Operativo di Catanzaro, alle 14.15. Il sindaco di Castelsilano, Francesco Brisinda, informa telefonicamente l’appuntato Giuseppe Consalvo – comandante interinale della Stazione di Caccuri, territorialmente competente sul luogo dell’evento – che poco prima in una località prossima al centro abitato di Castelsilano si era sviluppato un incendio cagionato dalla caduta di un aereo. L’appuntato, dopo aver immediatamente informato il suo superiore diretto, il maresciallo Gaetano Cottone, comandante interinale della Compagnia di Cirò Marina, s’è recato sul luogo con il Carabiniere Gennaro Ferrara e ha accertato che in località Colimiti era precipitato un aereo e che il relitto si trovava in un profondo burrone. Ha altresì accertato – aggiunge Priore – che sul luogo si era sviluppato un incendio che aveva bruciato sterpaglie 37

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e qualche albero. Ha appreso da alcuni che avevano domato le fiamme ed erano discesi nel burrone e che nei pressi dell’aereo giaceva un cadavere sfigurato e mutilato. Poco dopo erano sopraggiunti il vice pretore onorario della Pretura di Savelli, competente per territorio, l’avvocato Michele Ruggero, e l’ufficiale sanitario di Castelsilano, il dottor Francesco Scalise, che con il maresciallo Salvatore Raimondi, comandante della Squadra di PG di Crotone, che li aveva preceduti, riuscivano a raggiungere, superando le difficoltà poste dalla pendenza del burrone, il luogo ove si trovavano il cadavere e alcuni resti del velivolo. Qui deve notarsi una prima stranezza. Sul luogo come autorità giudiziaria si reca un vice Pretore onorario. Nessuno si premura di avvisare la Procura competente. In effetti, anche a prima vista, si poteva notare che si trattava di incidente a un velivolo militare e se, come si poteva e doveva, si fosse accertato che non v’erano notizie di scomparse di velivoli italiani o alleati, se ne sarebbe potuto dedurre che si trattava di un militare ostile e quindi di una penetrazione nel nostro spazio aereo. Fatto del genere – sottolinea il giudice istruttore – avrebbe certo imposto la presenza della Procura, che a sua volta sarebbe stata assistita da un medico legale, e non come il vice pretore dal medico condotto. Le indagini avrebbero di certo preso altro avvio. In successione erano poi arrivati sul luogo il capitano Vincenzo Inzolia, comandante della Compagnia di Crotone, il maresciallo Cottone già detto, il maggiore Rocco Di Monte, comandante interinale del Gruppo di Catanzaro, oltre che squadre di militari dell’Arma, i Vigili del Fuoco di Crotone ed alcuni ufficiali dell’Aeronautica Militare». Questa la sequenza degli interventi dei rappresentanti delle Istituzioni sul luogo dell’“incidente”. È necessario focalizzare il quadro d’insieme per comprendere cosa accadrà successivamente. Il cadavere verrà mosso e l’esame autoptico disposto con cinque giorni di ritardo, procedendo alla riesumazione della salma ch’era stata, nel frattempo, troppo frettolosamente inumata. 38

La strage di Ustica e il mistero del Mig libico

Il sopralluogo Lamiere contorte, erba bruciata e il corpo di un uomo. Lo scenario apparso ai primi inquirenti accorsi sul posto sembrò quello di una battaglia. In quella zona della Sila non era mai avvenuto niente del genere. Tutto sembrava irreale. «Con il sopralluogo – annota Priore – s’accertava che la zona di caduta dell’aereo era ricompresa tra la Timpa delle Magare e il margine destro della fiumara detta di S. Marco; il margine della fiumara ed il costone della Timpa erano disseminati di rottami; il cadavere, di sesso maschile dall’apparente età di 25-30 anni, era a mezza costa; a circa 60 metri verso la fiumara vi erano tre grossi tronconi di aereo; questo velivolo, secondo ufficiali dell’Aeronautica, era un Mig23 monoposto delle Forze Armate libiche. Nel verbale di sopralluogo si specificava che i tre tronconi erano costituiti rispettivamente dal motore, dalla coda e dal reattore; che sui resti dell’aereo era possibile rilevare la mimetizzazione nei colori verde, marrone e giallo paglierino; che sull’impennaggio di coda era dipinto un rettangolo pieno di colore verde, mentre sull’ala, nella parte medio superiore, v’era un cerchio pieno anch’esso di colore verde; che sulla coda v’era scritto il nr. 6950. Quanto al cadavere esso giaceva supino – ma nel verbale d’ispezione si dirà bocconi – su una pietraia in forte pendenza con la testa a monte, con le cinghie del paracadute legate al corpo. A circa un metro i resti di un apparente seggiolino. Poco più in alto un sasso intriso di sangue misto a materia cerebrale. Non si notavano rilevanti quantità o rigagnoli di sostanze ematiche. Il cadavere, oltre a quanto già descritto in rapporto, appariva di colorito scuro, corporatura robusta, di lunghezza su 1,75, con capelli ondulati e baffi neri; l’iride era di colore castano scuro; il bulbo dell’occhio sinistro era fuori dell’orbita; la testa aveva subito la completa asportazione traumatica della calotta cranica e la frantumazione delle ossa facciali. Indosso aveva una tuta da pilota di colore grigio scuro, lacerata in più parti; non calzava scarpe; non 39

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portava distintivi né altri segni di identificazione. Poco distante da esso sul lato destro in alto – fa notare il giudice istruttore – v’era uno zainetto di tela rigida di colore grigio, rassomigliante ad una cassetta di pronto soccorso; a valle, sempre poco distante dal cadavere, un casco per pilota di colore nero, intriso di sangue». Tutti compresero subito che la situazione era molto grave. E strana. Quello era un aereo da guerra e, per di più, non presentava le insegne italiane. Bisognava, pertanto, capire e indagare. Prima che su quel costone s’accalcassero esponenti dei servizi segreti e militari dell’Aeronautica, l’unico rappresentante – l’avv. Ruggero – dell’autorità giudiziaria locale decise di procedere a una serie di accertamenti di routine. Diede perciò incarico all’ufficiale sanitario presente di procedere all’esame esterno del cadavere. L’iniziativa consentirà successivamente di rilevare delle discrasie tra quanto affermato dai carabinieri nel loro rapporto investigativo sull’accaduto e quanto riportato nell’iniziale descrizione della posizione del cadavere resa dal medico condotto. Approfondiamo. Nel suo verbale l’ufficiale sanitario scrive che «il cadavere di sesso maschile e dell’apparente età di 25 anni, giace bocconi con le braccia aperte e le gambe divaricate, è di colore scuro ma di razza bianca, ha i capelli ondulati neri crespati, corti. Indossa una tuta color avion… scarponi a gambaletto… nonché parte di tela da paracadute…». Aggiunge, ancora, che vi sono «un elmetto da aviatore con scritta in lingua straniera ed un “vetrino” anch’esso con scritta in lingua straniera». Dopo aver descritto lo stato del cadavere – che presenta lo schiacciamento di tutte le ossa craniche con fuoriuscita di materiale cerebrale e fratture varie ed esposte con brandelli di carne in tutte le parti del corpo – il perito afferma che esso si trova «in incipiente stato di decomposizione, tanto da consigliare l’immediato seppellimento». Quindi risponde ai quesiti posti dall’avv. Ruggero, dichiarando che «la morte è da attribuire a frattura cranica conseguente ad urto violento contro corpo contundente duro» e che «la stessa è avvenuta presumibilmente verso le ore 11.30 circa di oggi 18.07.80». 40

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Il giorno dopo, il vice pretore rilascia nulla osta al seppellimento della salma, definendola «allo stato non identificata». Quali sono le discrasie? I carabinieri descriveranno il cadavere supino (e non “bocconi”) e nelle foto allegate al loro rapporto investigativo le braccia del pilota non appariranno aperte, come invece attesta il medico condotto. È evidente che il corpo venne spostato o, quanto meno, mosso. Ma c’è dell’altro. Come detto, nessuno, incredibilmente, pensò di procedere all’esame autoptico. Il corpo venne inumato, prima che qualcuno potesse porsi troppe domande. Probabilmente non si trattò di una precisa strategia d’insabbiamento, ma di scelte operative legate a un contesto semplice e periferico, distante anni luce da depistaggi e spy story. All’autopsia si arriverà, dunque, solo cinque giorni dopo. A bocce ferme. Qualcuno, infatti, comprenderà infine che, almeno formalmente, il caso meritava maggiori accertamenti. Il 22 luglio, il capo di Gabinetto del Ministro della Difesa, il generale di Squadra Aerea Mario De Paolis, chiede alla Legione Carabinieri di Catanzaro di «interessare la locale Procura competente al fine di considerare la possibilità di sottoporre ad autopsia la salma del pilota». La decisione viene presa dopo una serie di riunioni tenute a Roma. La richiesta è trasmessa il giorno stesso al procuratore di Crotone e quell’ufficio, sempre il 22, dispone l’autopsia del cadavere, nominando periti i professori Erasmo Rondanelli, primario patologo, e Anselmo Zurlo, primario di medicina legale e cardiologo, entrambi dell’ospedale civile di Crotone, fissando le operazioni peritali per l’indomani, 23 luglio, nella camera mortuaria del cimitero di Castelsilano. Commenta il giudice Priore: «Appare del tutto inconsueto che un atto di tale rilievo sia stato compiuto su sollecitazione della Forza Armata e non d’iniziativa, specie se si considera che a quel giorno si sapeva con certezza che quel velivolo era libico e quindi incontroversa la penetrazione nei nostri cieli. Come inconsueta appare la celerità nell’adesione alla 41

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“richiesta” e nell’esecuzione della autopsia. Certo è, comunque siano andate le cose, che lo Stato Maggiore aveva bisogno di dati sicuri su quella salma, a partire dalla sua razza e dalla causa di morte, o che comunque apparissero ufficiali. E queste esigenze di certo non potevano essere soddisfatte dalla striminzita ispezione di quella vice Pretura». È a questo punto che, per la prima volta, la vicenda del Mig s’incrocia con la strage di Ustica. Già, perché lo stesso giorno la Procura della Repubblica di Roma chiede alla Procura di Crotone, nell’ambito dell’inchiesta concernente il disastro aviatorio del Dc9 del 27 giugno, ogni utile notizia sulla caduta del Mig23, le conclusioni dei periti in merito all’esame autoptico del pilota, con specifico riferimento alle cause delle lesioni riportate, ed un rapporto dettagliato sulla vicenda. Il particolare non sfugge al giudice istruttore, che sottolinea: «Qui non appare il tramite della notizia dell’autopsia; non si riesce a capire come la Procura di Roma sia venuta a conoscenza in tempo reale della disposta autopsia. Di rilievo invece appare l’interesse a un fatto avvenuto a tre settimane dal disastro del Dc9 Itavia e in zona distante dall’area d’inabissamento del velivolo civile, senza che emergesse in atti alcun dato di collegamento tra i due eventi». L’esame autoptico viene regolarmente compiuto dai consulenti incaricati dalla magistratura inquirente in un’angusta e affollata saletta. L’approfondimento medico-legale, che doveva essere un atto neutro, rivelerà invece delle incongruenze che susciteranno inquietanti interrogativi. Incongruenze che devono essere ritenute fondamentali nel complessivo contesto di questa singolare vicenda. I periti, infatti, apporranno delle correzioni a penna all’originario rapporto stilato e, successivamente, in un supplemento di perizia, lasceranno intendere che il pilota libico potrebbe essere morto prima della data di ritrovamento. Partiamo dal primo dato storico: l’autopsia, svolta il 23 luglio, e le relative originarie conclusioni dei consulenti. 42

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Zurlo e Rondanelli accertano che il cadavere presenta «ampie mutilazioni traumatiche; sfondamento e distruzione del capo e del massiccio facciale; amputazione e distruzione degli arti superiore ed inferiore di sinistra, numerose fratture a carico della colonna vertebrale, del bacino e degli arti inferiori». Verificano, inoltre, che l’encefalo è pressoché totalmente assente e che il prepuzio è circonciso. I due periti poi scrivono che il cadavere si trova in «avanzato stato di decomposizione con necrosi gassosa e presenza di numerosi nidi di vermi». In un momento successivo, probabilmente coincidente con la rilettura e la sottoscrizione del verbale, appongono diverse correzioni a mano. Oltre quelle concernenti errori di dattiloscrittura, due sono significative: l’«avanzato» attribuito allo stato di decomposizione viene corretto in «avanzatissimo»; «vermi» viene corretto in «larve». «Queste correzioni – spiega il giudice Priore – sono significative. I periti sono rimasti colpiti dallo stato di decomposizione. Essi non dovrebbero essere nuovi ad esami di questi stati. Se, come si vedrà, sono periti di fiducia della Procura, spesso saranno stati chiamati ad autopsie di uccisi rinvenuti nelle campagne o di riesumati. Non dovrebbero perciò essere impreparati sul fenomeno della decomposizione. Essi a un primo giudizio già scrivono avanzato – cioè più progredito che nella norma per un corpo a cinque giorni dalla morte –; d’altra parte anche il medico condotto dopo la prima ispezione cadaverica, ad appena sei ore dall’asserito decesso, aveva notato, e s’era ritenuto in dovere di scriverlo, un incipiente stato di decomposizione. La particolare decomposizione – particolare, è ovvio, rispetto alle ore o ai giorni dalla morte – colpisce e viene verbalizzata. Ma nei due periti della Procura – aggiunge il giudice istruttore – avviene addirittura che essi correggano la prima verbalizzazione. La prima stesura, “avanzato”, viene modificata in “avanzatissimo”. I due sono immediatamente ritornati sul loro primo giudizio, perché presi dai dubbi derivanti dalle loro osservazioni e partico43

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larmente impressionati da quello stato di decomposizione. E proprio quello scrupolo e la volontà di adempiere all’incarico della Procura li indurrà a redigere successivamente un supplemento di perizia». Alla fine della prima parte del loro lavoro, però, i consulenti non si sbilanceranno. Ai quattro quesiti, posti dal magistrato inquirente, risponderanno così: «1. Anamnesticamente la morte si può far risalire a cinque giorni prima e cioè al venerdì 18 luglio ’80 e la causa della morte è verosimilmente da attribuirsi alle gravi lesioni traumatiche riportate; 2. Non esistono elementi che possono indurre ad ipotizzare una morte precedente alla caduta dell’aereo; 3. Pur non osservandosi a carico del cuore lesioni di tipo infartuale è da sottolineare le ridotte dimensioni del cuore stesso e il diminuito spessore del miocardio. Per l’assenza dell’encefalo e per le condizioni generali del cadavere non è possibile indagare su lesioni tipo ictus cerebrale, anossia o altra patologia non traumatica; 4. Il cadavere appartiene a soggetto di sesso maschile dell’apparente età di circa 30 anni dell’altezza di circa mt.1,80 di razza bianca con caratteristiche indo-europee, che per caratteri peculiari possono essere riferibili a razza araba mediterranea. Le condizioni generali del cadavere non permettono di dare una valutazione sulle condizioni psico-fisiche generali prima della morte». Precisa il giudice istruttore: «Questa autopsia darà luogo a innumerevoli questioni, e, non di rado, la si criticherà come se fosse stata scritta da incompetenti. A dir il vero le critiche maggiori saranno rivolte a quel supplemento non ritrovato con il quale si retrodatava la morte. Qui si deve dire che essa non fu compiuta da medici generici ma da due primari, l’uno patologo, l’altro medico legale cardiologo, particolarmente esperti perché periti di quella Procura, che, per essere in area ad alta presenza di criminalità organizzata e non, sarà dovuta ricorrere sovente ai loro servizi». La chiave del giallo sembra dunque essere un supplemento di perizia che non verrà mai ritrovato. Una integrazione nella 44

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quale i due consulenti della procura crotonese cambieranno le loro iniziali valutazioni in merito alla data del decesso. Non più individuabile in cinque giorni prima (18 luglio) dell’esecuzione dell’esame necroscopico ma in data ancor più antecedente. La scomparsa dell’annotazione suppletiva non consentirà di provare documentalmente che il pilota morì prima del ritrovamento “ufficiale” della salma. I ricordi dell’ufficiale sanitario Scalise confermeranno, tuttavia, l’ipotesi di un decesso certamente retrodatabile rispetto al 18 luglio. Agli inquirenti il medico condotto rivelerà che «dovettero usare le maschere a causa dell’eccessivo fetore»; che il cadavere era «gonfio, alterato nell’aspetto, in stato di colliquazione»; che presentava «larve di decomposizione visibili ad occhio nudo e raggruppate nella zona degli organi genitali». Il medico condotto ricorderà un altro particolare dell’autopsia a cui assistette: «la pelle delle mani, quando i periti provvidero al prelievo, si sfilò come un guanto». Ma non è finita. Il dottor Scalise, che aveva già notato l’incipiente stato di decomposizione del cadavere al momento del ritrovamento, inserirà poi un altro elemento apparentemente inspiegabile. Dirà, infatti, che il corpo gli era apparso «fresco» e che nei pressi vi erano altre parti, come un «bulbo oculare e un piede» anch’essi «freschi». Come «freschi»? Significa forse che sembravano estratti da un frigorifero? Domanda senza risposta. Possiamo solo fare delle ipotesi basandoci su dati empirici. La casistica medico legale insegna, infatti, che un corpo conservato in stato di semi congelamento, una volta rientrato a contatto con gli agenti atmosferici, si decompone con grande velocità soprattutto se la temperatura a cui è esposto risulta elevata. In Sila a luglio, quell’anno, il barometro segnava valori certamente superiori alla media. Faceva molto caldo…

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La bara del pilota bruciata dopo la riesumazione

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La memoria aggiuntiva scomparsa I consulenti della Procura di Crotone avevano fiutato qualcosa di anomalo. Quel corpo si era decomposto troppo rapidamente. Il pilota non poteva essere morto da 120 ore. Subito dopo la consegna della perizia, i due professori ebbero delle perplessità sull’epoca della morte e discussero della questione anche nel pomeriggio. Alcuni segni tanatologici imponevano di retrodatare il decesso ad epoca più remota. La massa cerebrale, la milza, i polmoni, il fegato, erano stati trovati in stato di colliquazione; i polmoni si erano sfilacciati; il fegato appariva collassato, e la milza ridotta a sacchetto contenente liquame, come liquame era la massa cerebrale; le surrenali e il pancreas erano scomparsi per necrosi colliquativa. Vi erano poi numerose larve non solo nella zona inguinale, ma anche nella zona sottocutanea del torace in coincidenza dell’area delle ferite. I tessuti sottocutanei della cute delle mani erano talmente distrutti da aver consentito lo «sfilacciamento a mo’ di guanto» della pelle. I medici legali, dopo aver consultato anche dei testi specialistici, decisero di redigere un supplemento alla perizia già consegnata nella tarda mattinata. La sera stessa Rondanelli, subito dopo la discussione con Zurlo e dopo che questi aveva lasciato il reparto, scrisse la bozza del supplemento, riservandosi di farla battere a macchina dalla sua segretaria l’indomani mattina e consegnarla alla Procura dopo la firma di Zurlo. «La dattilografia fu compiuta con ogni probabilità – afferma Rosario Priore – dalla segretaria, che ricorda di aver sempre battuto a macchina tutte le relazioni di Rondanelli per la Procura, anche se ella non ricorda in particolare questo supplemento. Questo documento fu letto e firmato da Zurlo nella prima mattinata del 24 luglio e consegnato intorno alle 11 da Rondanelli alla segreteria della Procura, anche se questi non ricorda con esattezza in quale stanza e a quale impiegato. Essa era composta da due fogli e lo scritto occupava una pagina e mezza; aveva come titolo “Me47

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moria aggiuntiva alla perizia autoptica eseguita in data 23 luglio 1980”. Vi veniva puntualizzato che il processo di decomposizione del cadavere segue tappe precise, per cui dapprima sono aggrediti gli organi a più alto contenuto di enzimi – pancreas e milza – e successivamente gli altri, quali i polmoni e i tessuti molli sottocutanei. In conclusione vi si affermava che la morte doveva essere retrodatata ad almeno quindici giorni prima dell’autopsia». La sparizione del documento alimenterà voci calunniose sul conto dei professori Zurlo e Rondanelli. Voci del tutto prive di fondamento che verranno smentite dalle articolate indagini svolte dal giudice istruttore che si è occupato della tragedia di Ustica. I due consulenti, dopo la consegna in Procura del documento, verranno immediatamente interrogati da un ufficiale delle nostre Forze Armate giunto a Crotone in fretta e furia da Roma. Un maggiore che, tra l’altro, li aveva sentiti appena 48 prima. Prima, però, che depositassero il supplemento di perizia. Le conclusioni di Priore sono inequivocabili. «Molto s’è dibattuto su questa memoria aggiuntiva. E non pochi hanno sostenuto che si trattasse di una mera invenzione dei periti. Ci si è chiesti quali potessero essere le ragioni che avrebbero dovuto indurre i due periti a porre in essere tale simulazione e non se ne sono trovate di consistenti. Ma v’è un fatto che deve invece indurre a ritenere che non mentano. Il supplemento è stato redatto e depositato nell’immediatezza. Altrettanto celermente deve essersi diffuso il suo contenuto. Al punto tale da determinare l’altrettanto immediata missione d’un maggiore a Crotone, giacché i periti, affermano, furono convocati a ventiquattr’ore dal deposito del supplemento. Non può esservi altra ragione a questa missione. Il “Ministero”, con ogni probabilità lo stesso ufficiale o personale del suo ufficio, avevano interrogato e dettagliatamente i periti. Ad appena due giorni di distanza una missione speciale, in aereo, di poche ore, per interrogare le stesse persone, d’urgenza, di pomeriggio, con poco tempo a disposizione, per la chiusura al tramonto dell’aeroporto. L’urgenza doveva essere massima. E proprio per 48

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queste ragioni non poteva essersi determinata se non vi fossero state novità rispetto al colloquio del 23 luglio. Non solo: novità di rilievo, perché se ve ne fossero state di poco conto, non vi sarebbe stato motivo di organizzare una missione a tamburo battente, e con mezzo aereo. Novità di rilievo poteva essere solo il supplemento con le nuove conclusioni e cioè che la morte di quel pilota dovesse essere retrodatata di quindici-venti giorni. E che la novità fosse questa è validamente confermata dalle nuove domande del maggiore, che verteranno essenzialmente sulle caratteristiche del sangue riprodotto in fotografie e cioè sulla data della morte». Ma dove è finita la memoria aggiuntiva? Nessuno è stato in grado di fornire una risposta. Del testo non è stata trovata traccia. È come se non fosse mai esistito. Nulla è risultato agli atti e nei registri degli uffici giudiziari crotonesi. La memoria è diventata così un altro inquieto fantasma destinato ad agitare le notti degli investigatori impegnati a far luce sul mistero di Ustica. Notti rimaste agitate fino al 1984, quando notizie del documento scomparso saltarono fuori da un’inchiesta condotta dalla magistratura romana nei confronti di Francesco Pelaia. L’uomo era un ex agente del Sismi, il servizio segreto militare, per il quale aveva lavorato dal 1980 ai primi mesi del 1982 con l’incarico di addetto culturale presso l’Ambasciata d’Italia nel Granducato di Lussemburgo e funzioni informative anche presso il Parlamento europeo di Strasburgo. Nel corso d’una perquisizione compiuta in casa sua vennero rinvenuti diversi documenti con classifica di “segreto” e di “segretissimo”. L’ex agente dichiarò di aver trovato i documenti in una borsa regalatagli dal direttore del Servizio militare, generale Giuseppe Santovito. Il capo del Sismi aveva precisato a Pelaia che erano le ultime carte pervenutegli e gli aveva suggerito di esaminarle e, in caso di brutte sorprese, di distruggerle. Pelaia le stava riportando al generale, quando era venuto a conoscenza che l’alto ufficiale era stato trasferito al Careggi di Firenze in condizioni gravissime, gravi al punto tale che di lì a poco sarebbe morto. 49

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«Tra le carte sequestrate – precisa il giudice Priore – v’erano documenti relativi allo IOR, a Calvi, agli Armeni, all’attentato al Papa, con i nomi di Marcinkus, Piccoli, Craxi ed altri. Per la esecuzione di questa perquisizione e sequestro – decreto del 2 aprile ’84 – la Procura della Repubblica aveva delegato ufficiali di PG del Reparto Operativo dei Carabinieri di Roma che la compirono lo stesso giorno redigendo relativo verbale». C’erano solo quei documenti nella borsa? Forse no. Il 24 novembre 1988 i legali di parte civile delle famiglie dei caduti di Ustica inviarono al giudice istruttore una serie di documenti, loro spediti da un mittente anonimo. Si trattava di: 1. Una lettera datata 4 agosto ’84 su carta intestata “Legione Carabinieri, Reparto Operativo, 1ª Sezione” indirizzata al generale Pietro Musumeci, con firma indecifrabile, nella quale chi scriveva dichiarava di inviare, con altra certificazione, un documento classificato “Riservatissimo” in merito all’incidente dell’aereo civile Itavia abbattuto da un missile delle Forze Aeree USA il 27 giugno ’80; 2. Il processo verbale della perquisizione compiuta in casa di Pelaia; 3. Il processo verbale di interrogatorio reso da Pelaia al PM di Roma il 6 aprile ’84; 4. Le buste contenenti tutti i documenti. Nella lettera, in particolare, il mittente assicurava al destinatario, cioè il generale Pietro Musumeci chiamato Eccellenza, di non aver incluso nel processo verbale di perquisizione il documento classificato “Riservatissimo” inerente all’incidente aereo dell’aereo civile Itavia abbattuto da un missile delle Forze Aeree USA il 27 giugno ’80 nella zona di Ustica e la fotocopia del promemoria in allegato alla perizia autoptica del corpo del pilota libico eseguita il 23 luglio ’80 dal professor Erasmo Rondanelli e dal cardiologo Anselmo Zurlo. Il giorno dopo l’invio della comunicazione dei difensori di parte civile a Priore, cioè il 25 novembre ’88, si presentò spontaneamente al giudice istruttore romano il tenente colonnello Domenico Di Petrillo, dichiarando di aver appreso che i familiari delle vittime del disastro di Ustica, tramite i loro legali, avevano 50

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diffuso una lettera intestata alla 1ª Sezione del Reparto Operativo di cui era responsabile, datata 4 agosto ’84 e diretta al generale Musumeci, verosimilmente sottoscritta da un sottufficiale. Esibitagli la lettera, l’ufficiale riconobbe per propria la sottoscrizione in calce ma contestò di aver mai inviato quello scritto o qualsiasi scritto al generale Musumeci, riconoscendo, peraltro, di aver effettivamente eseguito la perquisizione in casa Pelaia su delega del pm Domenico Sica. Legittimo chiedersi: i documenti finiti nelle mani di Rosario Priore erano attendibili o si trattava di “patacche”? Difficile rispondere in termini di certezza. Singolare appare, tuttavia, che questi documenti siano comparsi improvvisamente nell’ambito di carteggi in cui si faceva riferimento a due generali, Santovito e Musumeci, impegnati professionalmente nei servizi di sicurezza del nostro Paese e spesso coinvolti in misteriose vicende che hanno attraversato la recente storia italiana. Il quadro, come può ben comprendersi, è più fosco di quanto non appaia. E la memoria aggiuntiva redatta dai medici legali crotonesi sulla morte del pilota libico sembra rientrare in un contesto molto complesso e inquietante, oggetto di comunicazioni “riservatissime”. Comunicazioni in cui si fa cenno anche a grandi scandali finanziari di quegli anni. Scandali che coinvolgevano la famigerata Loggia massonica P2. Una loggia potentissima, notoriamente filoatlantica, alla quale avevano aderito i vertici delle forze militari dell’epoca. La restituzione della salma Torniamo in Sila. Il via vai di militari e investigatori incuriosisce i tranquilli abitanti di Castelsilano. Il loro paese è diventato il centro dell’interesse di “pezzi da novanta”. La gente tutt’oggi non fatica a ricordare uomini in divisa, mezzi militari ed eleganti signori impegnati a fare la spola tra la zona in cui era caduto il Mig e il cimitero. Qualcuno sentì parlare delle presenza di un 51

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Il cimitero di Castelsilano: un gruppo di persone trasporta la bara con il corpo del pilota

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“generale” che voleva addirittura interrogare il pastore, Giuseppe Piccolo, che il 18 luglio aveva visto un aereo sorvolare Timpa delle Magare. In effetti in zona arriveranno sia il capo del Sios, generale Zeno Tascio, che il vice capo, Bruno Bomprezzi. La confusione, però, durerà poco. Il 26 luglio, l’Ambasciata di Libia presso il Governo italiano richiese alla Prefettura di Catanzaro, tramite un’impresa funebre romana, il “passaporto mortuario per espatrio di salma” del cittadino libico Fadal Al Din. La Prefettura, a sua volta, richiese alla Procura della Repubblica il nulla osta a fini di giustizia, che quell’ufficio concesse il giorno stesso. Dopo il provvedimento della Prefettura il rappresentante dell’impresa di pompe funebri, Romano Petrocchi, prelevò a Castelsilano la bara del pilota per il trasporto a Roma, da dove sarebbe dovuta partire per la Libia in aereo. Avendo però constatato che il contenitore non era idoneo, Petrocchi dovette trasferire il cadavere in un’altra cassa. Il corpo si presentava in avanzatissimo stato di putrefazione; era «pieno di vermi dappertutto», vermi di oltre cinque centimetri; era ancora vestito e nella cassa c’erano anche una sorta di telo, corde e diversi stracci. Al momento della chiusura, nel timore che potesse scoppiare, il titolare dell’agenzia di pompe funebri fu costretto a lasciare un foro nella testata della bara. «La salma fu portata direttamente a Ciampino, ove era in attesa un velivolo dell’Aeronautica libica. Petrocchi – afferma Priore – parlò con il pilota, che conosceva alcune parole di italiano. Questi rilevò immediatamente il terribile fetore emanato da quella bara e l’impiegato delle pompe funebri gli consigliò di acquistare dei deodoranti, che avrebbero potuto attenuare quel fetore almeno nelle due ore del viaggio da Roma a Tripoli. Le bombolette furono poi acquistate dal principale dello stesso Petrocchi e consegnate ai libici. Queste dichiarazioni sono confermate dal titolare della ditta, il quale ha ricordato che l’autista gli aveva riferito che, durante il 53

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travaso della salma dalla cassa metallica in cui era stata rinchiusa dopo l’autopsia a quella regolamentare per il trasporto, aveva notato un tale stato di decomposizione da far presumere una morte risalente a parecchi giorni prima, e che tale percezione visiva e tattile era convalidata anche olfattivamente “a causa dell’abbondante cattivo odore”. L’autista gli aveva riferito, anche, che all’arrivo a Roma la salma era stata lasciata nei giardini dell’Ambasciata di Libia e che solo il giorno dopo era stata imbarcata, dopo gli onori militari, resi dai militari dell’Aeronautica militare, su un aereo diretto in Libia». Ma chi c’era all’aeroporto? A Ciampino erano presenti diversi ufficiali dell’Aeronautica Militare e dei Carabinieri oltre a funzionari dell’Ambasciata della Jamahirija. Un capitano dei Carabinieri, fermo sulla pista di decollo, chiamò in disparte Romano Petrocchi per chiedergli se i paracadute fossero stati uno o due. L’impresario di pompe funebri non fu in grado di precisarlo, perché nella cassa c’erano un telo e tanti stracci, e l’ammasso di tessuti l’aveva costretto a comprimere con forza tutto il materiale sul cadavere per chiudere il coperchio della bara. Il costo del trasporto fu inserito in un conto di altri trasporti effettuati da quella stessa impresa per l’Ambasciata della Jamahirija. Un conto ammontante a ben 36.000.000 di lire. Quel conto non fu mai pagato dalla Libia. L’impresa riuscì a recuperare solo la metà della somma dal nostro Ministero degli Affari Esteri. Ma perché quella strana domanda sulla presenza di uno o più paracadute? «Il quesito posto dal capitano dei Carabinieri al Petrocchi a Ciampino – chiarisce il giudice Priore – concerneva una questione ancora irrisolta in quel momento e su cui i Carabinieri ancora indagavano. In effetti i Carabinieri in Calabria, quando il Petrocchi si recò per il prelievo della salma, stavano cercando un secondo pilota, perché avevano visto due paracadute». La storia dei due paracadute non troverà alcuna ulteriore conferma. Si trattava, evidentemente, di un’altra circostanza 54

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astutamente introdotta per creare confusione e, nel contempo, accreditare la tesi d’una caduta casuale del velivolo militare. Uno schianto non collegabile al Dc 9 dell’Itavia. Rosario Priore, il 7 marzo del ’91, avanzò formale richiesta, con rogatoria internazionale, alle Autorità della Jamahirija libica per ottenere copia della seconda autopsia compiuta al di là del Mediterraneo sul cadavere del pilota trovato a Castelsilano. Nessuno, però, gli ha mai risposto. Sul relitto dell’aereo, invece, non fu mai posto alcun vincolo di sequestro da parte dell’autorità giudiziaria di Crotone. Il PM richiese l’archiviazione il 29 luglio di quell’anno ed il 31 successivo il giudice istruttore emise relativo decreto, non essendo emerse responsabilità, a titolo di dolo o colpa, a carico di alcuno. A tale data cessò l’interesse della giustizia al caso. Nell’agosto successivo, il 19, la magistratura crotonese rilasciò nulla osta, dietro richiesta del Gabinetto della Difesa, alla rimozione dei resti dell’aereo. Tutto finito dal punto di visto investigativo? Nient’affatto. «Altri organi dello Stato ed anche di altri Paesi – spiega Priore – seguirono il fatto e non persero mai interesse ad esso. L’Arma dei Carabinieri, l’Arma Aeronautica e la Commissione mista costituita per effetto di accordo tra il suo Stato Maggiore e l’Ambasciata libica in Italia, il S.I.S.MI, il Ministero degli Affari Esteri e l’Ambasciata d’Italia in Libia, le Autorità libiche, i Servizi di Paesi alleati ed amici». La nazionalità del pilota La vicenda del Mig riserverà un altro inatteso colpo di scena. Già, perché, dopo poche settimane, non apparirà più certa la nazionalità del pilota trovato cadavere in Calabria. I dubbi verranno insinuati dal servizio segreto militare e da uno strano testimone. La pista investigativa porterà verso un altro paese del Mediterraneo da 55

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sempre al centro di scontri tra 007 e misteri insoluti: la Siria. Gli aerei da guerra utilizzati dall’aviazione di Gheddafi venivano in quegli anni spesso pilotati da quotati ufficiali provenienti da Damasco. I velivoli di fabbricazione sovietica necessitavano di mani esperte. E la nazione guidata col pugno di ferro da Afez Assad disponeva di forze militari d’elite cresciute a pane e guerra negli anni dei furenti scontri ingaggiati con Israele. Ma come si arrivò a sospettare che il corpo rinvenuto in Sila potesse essere di un siriano? L’imbeccata la offrì il servizio d’informazioni guidato dal generale Santovito. Il 30 luglio del 1980 al S.I.S.MI giungono infatti notizie contrastanti sulla nazionalità del pilota. La 2ª Divisione del Servizio informa con il messaggio 2124/274/053 che in ambienti militari libici «circolano insistenti voci secondo cui pilota caduto est di nazionalità siriana et si trovava in Libia per addestramento pilotaggio su aerei russi in base at accordi at suo tempo raggiunti su cooperazione militare tra paesi Fronte Rifiuto». In calce all’appunto c’erano annotazioni di vari ufficiali. La notizia giunge al generale Zeno Tascio e, quindi, al Sios (servizio d’informazione dell’Aeronautica), con missiva della Direzione del Servizio datata 4 agosto 1980 a firma del generale Santovito. Nella stessa missiva Santovito dà atto di avere informato il ministro della Difesa. Sempre dalla 2ª Divisione con messaggio del 1º agosto ’80 giunge conferma della nazionalità siriana del pilota, anche se non si esclude che effettivamente sia nato in Libia. Il messaggio viene trasmesso con nota del Direttore del Servizio al ministro della Difesa ed al generale Tascio. Rosario Priore, molti anni dopo, approfondirà con mirate indagini la pista, tutt’altro che peregrina, indicata dai servizi. Agli atti scriverà: «Un’ulteriore conferma alle voci sulla nazionalità siriana del pilota giunge con altro messaggio dell’addetto militare a Tripoli datato 3 agosto ’80 in cui si legge: “1. Console generale in Bengasi, Petrocelli, in colloquio avuto con ufficiale questa Aeronautica ha tratto convinzione che est siriana nazionalità pi56

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lota Mig-23 precipitato. 2. Questo Navitalia non dispone di alcun elemento valido per confermare predetta nazionalità, tuttavia in incontri con personalità ufficio Relazione Estere non est stato mai evidenziato che nazionalità fosse libica, anzi molto imbarazzo est stato colto tutte le volte che venivano formulate condoglianze. 3. Base di più frequente impiego di piloti siriani sarebbe Bengasi”. Deve essere rilevato che tra gli atti del 2º Reparto dello SMA è stato rinvenuto un messaggio della 3ª Divisione del S.I.S.MI datato 19 agosto ’80, con il quale veniva riferito che, secondo fonte di buona attendibilità, il pilota del Mig23 sarebbe stato siriano e di origine palestinese ed il suo nome sarebbe stato effettivamente Ezzedin Fadah El Khalil. Il messaggio chiudeva con la annotazione “Quanto sopra per eventuale inoltro at competenti Autorità inquirenti”. La notizia, tuttavia, non risulta esser mai stata trasmessa alla competente Autorità Giudiziaria, che in quel momento era quella di Crotone. Con ogni probabilità si voleva evitare una riapertura del processo archiviato da quella Autorità Giudiziaria da pochi giorni, la data di archiviazione è il 31 luglio ’80». Ma fu un testimone occasionale a offrire sulla oscura vicenda della nazionalità del pilota un contributo rilevante. L’uomo, Guido Pomposi, imprenditore nel ramo abbigliamento, intervenne telefonicamente nel corso della trasmissione televisiva “Telefono Giallo” del sei maggio del 1988, condotta da Corrado Augias su Raitre. Il teste riferì di essersi recato nel gennaio del 1981 in Siria per affari. Durante il viaggio, nel corso di una cena nella città di Homs, organizzata dal suo rappresentante locale, Adnan Bacha, conobbe un ufficiale pilota siriano, tale colonnello Monajer, che gli parlò del Mig caduto in Italia, collegandolo all’abbattimento del Dc9 dell’Itavia. Pomposi, dopo l’exploit sul piccolo schermo, venne interrogato dal giudice Priore. Questo il testo integrale della sua deposizione: «Monajer, mortificato, mi disse che era dispiaciuto della caduta dell’aeromobile civile italiano precipitato nel giugno del 1980. In tale occasione, aggiunse, aveva perso un suo carissimo 57

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amico pilota siriano abilitato a condurre i Mig di fabbricazione sovietica ma di proprietà libica, in quanto tutti i velivoli libici venivano guidati da piloti siriani, perché la Libia non aveva all’epoca personale pilota addestrato a condurre tali velivoli. Precisò che il suo amico pilota siriano morì in quell’occasione, non perché era a bordo del velivolo civile precipitato, ma perché aveva partecipato con un Mig ad un combattimento avvenuto sui cieli italiani con forze nemiche, ma non precisò la nazionalità. Non appena il Monajer mi disse queste cose, fu prelevato da due persone in borghese su ordine di un generale. Il mio rappresentante, che conosceva benissimo i commensali, mi disse di stare zitto e di non parlare più di aerei né tanto meno di quanto avevo saputo dal Monajer, altrimenti anch’io potevo essere allontanato ed avere seri problemi. Vorrei precisare che, avendo rapporti frequenti con i paesi medio-orientali, non ho mai avuto problemi nel muovermi nei loro paesi, ma da quell’episodio in poi ho avuto seri problemi. Infatti per prima cosa, non ho ricevuto indietro la mia merce e non fui mai pagato. Sempre successivamente al mio colloquio con il Monajer, ebbi dei seri problemi per il rientro in Italia, in quanto ero sempre sotto stretta sorveglianza da parte di militari siriani in borghese, perché erano convinti che fossi un agente dei Servizi segreti americani o israeliani. Dopo varie peripezie, coinvolgendo l’Ambasciatore italiano a Damasco, riuscii ad arrivare a casa dopo una ventina di giorni; premetto che il mio viaggio di lavoro doveva durare al massimo cinque giorni. Le Autorità siriane fecero severi accertamenti circa la mia vera identità personale». Pomposi, insomma, rischiò grosso. Sembra poco probabile che l’imprenditore possa aver inventato una storia tanto intricata. La sua deposizione, semmai, conferma quanto delicata sia stata sempre considerata anche dai servizi segreti dell’area mediorientale la vicenda del Mig. Un velivolo caduto per un banale incidente meccanico o per un improvviso malore avvertito dal pilota non avrebbe certo suscitato un così preoccupato interesse da parte dell’intelligence nostrana e straniera… 58

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La commissione italo-libica Politicamente l’“incidente” del Mig 23 venne risolto istituendo una commissione militare italo-libica incaricata di far luce sull’accaduto. La sera del 20 luglio 1980, infatti, l’ambasciatore italiano a Tripoli, Alessandro Quaroni, venne convocato nella sede del comando delle forze armate libiche per una riunione. Durante l’incontro, cui presenziò il sottosegretario agli Esteri tripolitano, Abu Freua, gli fu detto che il pilota, colto da un improvviso malore durante una esercitazione, aveva inserito il pilota automatico, allontanandosi dalla rotta prestabilita. A Quaroni fu chiesto di farsi portavoce presso il governo di Roma della richiesta di restituzione della salma. I rapporti tra i due paesi erano buoni. Esistevano relazioni dirette tra il servizio segreto libico e il Sismi. Relazioni mantenute dall’agente Moussa Salem che periodicamente veniva in Italia a incontrare il generale Giuseppe Santovito, capo dell’intelligence militare nostrana. Nell’occasione i libici diedero all’ambasciatore Quaroni la piena disponibilità alla costituzione di una commissione d’inchiesta mista. Del gruppo di lavoro successivamente istituito vennero chiamati a far parte: il colonnello Sandro Ferracuti, del 36º Stormo, in qualità di presidente; il tenente colonnello pilota Enzo Somaini di Stataereo; il tenente colonnello Alberto Grassini di Aerispelog, poi sostituito dal maggiore Massimo Magistrelli, Capo Sezione degli Affari Giuridici e funzionario del 5º ufficio del 5º Reparto dello SMA; il colonnello Ferdinando Monesi, di Ricercaereo; il capitano pilota Pasquale Preziosa del 36º Aerostormo; il capitano del Genio Aeronautico Claudio Scura. Con loro i libici: il tenente colonnello Mahmud Eltuhami, esperto tecnico; il tenente colonnello pilota Ashur Murik, esperto tecnico; il maggiore Faez Abdul Baki, esperto tecnico, il capitano ingegnere Abdul Gialil El Warfalli, esperto tecnico. La commissione effettuò la prima riunione e il sopralluogo nella zona dell’incidente il 24 luglio del 1980. Si riunì poi altre 59

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dieci volte, redigendo alla fine una corposa relazione contenuta in due volumi. I commissari conclusero che:   1) Il pilota ed il velivolo erano idonei al volo.   2) Il volo, regolarmente programmato dall’ufficio OPS di Base, era stato correttamente pianificato dal pilota.   3) Le ottime condizioni meteorologiche sull’intera area, la funzionalità sia delle radio e radar assistenze che dei sistemi di comunicazione, la presenza di un gregario consapevole della situazione anomala, portavano ad escludere la possibilità di un errore di navigazione.   4) La condotta del volo era stata aderente a quanto programmato nella sua fase iniziale. Successivamente si evidenziava un comportamento del pilota via via più anomalo, non in accordo a quanto pianificato ed incoerente, culminato in uno stato di assenza totale di azioni e reazioni a stimoli esterni.   5) Il velivolo, lasciato il territorio libico su rotta 330º circa, era entrato nello spazio aereo italiano, senza contattarne gli Enti di controllo, impattando successivamente al suolo con prua intorno Nord, bassa velocità e basso angolo d’impatto. L’incidente causava la morte del pilota e danni di limitata entità alle colture. L’orario dell’impatto poteva essere fissato, con qualche incertezza, in un’ora non anteriore alle 11.14.   6) La caduta del velivolo era da attribuire allo spegnimento del motore, avvenuto in alta quota e causato dall’esaurimento del combustibile.   7) La configurazione “clean” del velivolo e l’avvenuto “flame out” facevano escludere ogni ipotesi di volo intenzionalmente pianificato fino all’area dell’incidente, con successivo rientro.   8) Dalla configurazione del velivolo al momento dell’impatto si poteva escludere un tentativo di atterraggio fuori campo.   9) Da un esame del seggiolino e del tettuccio eiettabili si poteva escludere l’ipotesi di un tentativo di lancio. 60

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10) Dai risultati dell’autopsia la causa del decesso del pilota era da attribuire all’impatto con il suolo. Veniva escluso il decesso in volo. Non era stato possibile ricavare elementi che potevano ipotizzare o escludere con certezza problemi fisiopsichici insorti durante il volo. 11) Gli esami di laboratorio effettuati su parti dell’impianto ossigeno, stante lo stato dei reperti disponibili, non avevano fornito indicazioni di rilievo. Sulla base di questi undici controversi punti i commissari ipotizzarono uno stato di progressiva perdita di coscienza da parte del pilota, attribuibile a fattori fisio-patologici, non ulteriormente precisabili. Il pilota, impegnato in una esercitazione ad alta quota, aveva gradualmente mostrato un comportamento anomalo interrompendo i contatti radio con la base e inserendo l’autopilota. Il Mig aveva successivamente perso quota e il motore s’era spento per mancanza di carburante. Il volo s’era quindi concluso con lo schianto in Sila. La versione del “malore” e del relativo “incidente” sembrò soddisfare sia gli uomini di Gheddafi che i nostri militari. La tesi sostenuta dalla commissione, molti anni dopo, non convincerà invece Rosario Priore che la bollerà come «poco credibile». Vediamo perché. «In primo luogo quel giorno, il 18 luglio di venerdì, – afferma il magistrato – non si potevano tenere esercitazioni in un Paese musulmano. Questo fatto, che qualunque buon conoscitore di regole e costumi islamici non porrebbe mai in dubbio, è accettato senza alcuna contestazione dalla parte italiana. Ma v’è di più: sono stati sentiti molti piloti dell’ALI, la società che addestrava i militari dell’Aeronautica Militare libica. Tutti hanno confermato che il venerdì ogni attività sui campi di aviazione in Libia era sospesa. Il venerdì è, per la locale religione, giorno festivo e quindi è di rigore la sospensione di ogni attività, in particolare l’attività di addestramento. Altra circostanza – ove si fosse riusciti a superare, ma non 61

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s’immagina come, questa rigorosissima regola religiosa – che rendeva del tutto incredibile quel volo era l’orario in cui esso sarebbe avvenuto. La parte italiana accetta come orario di decollo addirittura qualche minuto alle 10 locali (per l’esattezza h.09.54). Non si riesce a comprendere, e l’esperienza dei piloti ALI conferma anche questa circostanza, come fossero possibili attività a quell’ora, in cui la temperatura raggiunge dei livelli così alti da impedire in pratica qualsiasi attività umana. E in effetti quei piloti italiani che avevano lavorato in Libia hanno attestato che l’attività aviatoria si svolgeva di mattino presto o al tramonto. Non solo: quell’anno il Ramadan copriva proprio quel periodo, cioè quel 18 luglio cadeva nel Ramadan. E durante il Ramadan le capacità fisiche e psichiche, per l’obbligo del totale digiuno, decadono ai minimi. In quel periodo – è sempre l’esperienza dei nostri piloti istruttori in Libia che testimonia le particolari condizioni dei musulmani in quel tempo – l’attività di addestramento si riduce di molto. In effetti i piloti devono osservare precise regole di alimentazione; tra cui quelle di assumere, come s’è detto, una abbondante colazione di tipo anglosassone al mattino per sopportare accelerazioni, affaticamento e mal d’aria. I piloti, in effetti nel Ramadan, si presentano in condizioni fisiche sommamente menomate per il digiuno. Al punto tale che probabilmente, almeno per gli allievi che operano nel pomeriggio, vi sono deroghe al divieto d’ingestione dei liquidi, perché altrimenti alle temperature della Libia non sarebbe assolutamente possibile operare. Già la domenica – continua Priore – appare sacrosanta per gli Occidentali; immaginiamo il venerdì per gli Islamici. Di conseguenza quella esercitazione appare del tutto inattendibile. A quell’ora, di venerdì, nel Ramadan. Non era assolutamente possibile, per ragioni di clima e di religione. Solo chi non ha esperienza di Paesi musulmani poteva crederci. Non si riesce a capire come vi abbia potuto credere la parte italiana di quella 62

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Commissione mista. A meno che, come da più parti risulta, dovesse crederci». Ai ragionamenti del giudice istruttore s’aggiungeranno incontrovertibili dati tecnici forniti da tre consulenti incaricati, tra il ’90 e il ’93, di eseguire un’articolata perizia sull’ipotizzata traiettoria seguita dal velivolo da combattimento libico. Queste le conclusioni dei professori Carlo Casarosa, Enzo Dalla Mese e Manfred Held: «Non appaiono congruenti la traiettoria del Mig 23 ipotizzata dalla Commissione italo-libica e le tracce radar individuate nel sito di Otranto. Il velivolo – spiegano i consulenti – tenendo conto del carburante disponibile all’inizio della missione e della condotta di volo, non avrebbe avuto autonomia sufficiente a percorrere la tratta ipotizzata dalla Commissione». Insomma, quell’aereo non poteva essere partito da Bengasi per attraversare il Canale di Sicilia e finire il suo volo in Calabria. Altro che “malore” del pilota… Quale, dunque, l’ipotesi alternativa? Il console generale dell’epoca a Bengasi, Michele Petrocelli, fornisce degli spunti interessanti. Esaminiamoli. Il diplomatico rivela che in quei giorni, da una sua “fonte” all’interno dell’Aeronautica militare libica, seppe che gli aerei della sorveglianza costiera erano dotati di «carico limitato di carburante» e che a Benina prestavano servizio «circa dieci piloti siriani». Non solo: il console afferma d’aver pure appreso, nel medesimo periodo ma in contesto diverso, che il Mig caduto in Sila doveva far parte della «scorta dell’aereo presidenziale» e che sarebbe dovuto «atterrare a Belgrado». Perché proprio nell’odierna capitale serba? Perché in quel periodo i rapporti tra la Libia e la Jugoslavia erano molto intensi per via di commesse concesse per l’ampliamento e l’ammodernamento di diversi porti della Jamahirija. Degli affari più importanti e dei rapporti con gli altri capi di Stato si occupava personalmente il leader libico. Nel 1980, tuttavia, Muammar Gheddafi era inviso a molte potenze occidentali. Così, i suoi viaggi non erano mai pubbli63

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cizzati. Per ragioni di sicurezza era stata addirittura abrogata la consuetudine di convocare il Corpo diplomatico e consolare per il saluto al Capo dello Stato ai rientri in patria dall’estero. Anche l’addetto militare navale in Libia, l’ammiraglio Vittorio Biasin, ha confermato che il “colonnello” si serviva di Mig per la scorta nei suoi spostamenti aerei. Spostamenti che compiva adoperando Dc9 e Boeing 747 delle Libyan Airlines e C130, Tupolev e Ilyuscin dell’Aeronautica militare. È possibile che il velivolo finito tra i boschi di Castelsilano sia stato abbattuto mentre era impegnato a garantire la sicurezza al jet su cui si trovava Gheddafi? Il giallo del relitto Le indicazioni fornite dai consulenti medico legali che eseguirono l’esame autoptico sul cadavere del pilota, le testimonianze rese dalle tre persone che videro passare (ma non cadere) degli aerei su Castelsilano, i rilievi del medico condotto che svolse i primi accertamenti, i dubbi sulla nazionalità del militare sollevati dalla deposizione dell’imprenditore Pomposi e dalle note del Sismi, le controverse conclusioni della Commissione d’inchiesta italo-libica, lasciano legittimamente pensare a una verità diversa da quella “ufficiale”. Una verità caparbiamente inseguita da Rosario Priore e da tre giornalisti: Andrea Purgatori, del “Corriere della sera”, Pantaleone Sergi, de “La Repubblica” e Tonino Scura del “Messaggero”. Una verità scomoda che contempla un diretto collegamento tra l’abbattimento del Dc 9 Itavia, avvenuto il 27 giugno del 1980, e la scoperta del velivolo militare caduto tra i boschi dell’appennino calabrese. La tesi, che può forse apparire suggestiva, trova invece indiretto riscontro in una serie di rivelazioni. Si tratta dei racconti resi all’autorità giudiziaria da persone estranee a contesti investigativi. Gente che ha deciso di collaborare spontaneamente, 64

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in circostanze e momenti diversi. Partiamo dalla testimonianza di un ex caporale dell’Esercito, in servizio nel luglio del 1980 a Cosenza: Filippo Di Benedetto, scovato da Pantaleone Sergi che ne raccolse le confessioni. Di Benedetto rivela che le forze armate furono impegnate nella vigilanza del relitto del Mig, e da molto tempo prima del suo ritrovamento “ufficiale”. L’uomo aveva infatti prestato servizio nella città calabrese dal primo agosto del 1979 al primo agosto dell’anno successivo presso il 244º Battaglione addestramento reclute. Proprio lui fu uno dei soldati che dall’alba del 28 giugno del 1980 avevano vigilato la carcassa del Mig 23 per tre giorni consecutivi. Dunque, a ridosso dell’abbattimento del Dc9 e quasi tre settimane prima della data a cui si fa risalire ufficialmente il ritrovamento del jet da guerra. La vigilanza in realtà non risulta attestata nei rapporti redatti in quegli anni, ciononostante non sembrano esserci dubbi atteso che diverse fotografie scattate nell’estate del 1980 ritraggono soldati di fanteria in azione in quell’area della Sila. Pure lui ha inventato tutto, come i consulenti Zurlo e Rondanelli nel caso della “memoria aggiuntiva” e il commerciante Pomposi in merito alle indiscrezioni apprese in Siria? Il giudice Rosario Priore è convinto del contrario. Ecco, infatti, come valuta i fatti: «Di Benedetto ha tentato di dimostrare questa sua asserzione mediante una serie di argomentazioni e di restringere il più possibile l’arco dei giorni di quella guardia. Nel giugno del 1980 era candidato alle elezioni amministrative che si tennero nella prima metà di quel mese ed aveva usufruito nella qualità di candidato del permesso di un mese, permesso che cessò subito dopo le votazioni. Sarebbe stato collocato in congedo il 1º agosto immediatamente successivo e, dovendo usufruire ancora di un certo periodo di licenza ordinaria, a luglio era andato al mare a Guardia Piemontese in provincia di Cosenza. Era ritornato pochi giorni prima di congedarsi. Per queste ragioni era sicuro di non essere stato in servizio il 18 luglio. La guardia la aveva montata per tutto un fine settimana, circostanza che ben ricorda perché in genere i 65

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fine settimana li passava in libera uscita presso la propria famiglia a Cosenza. Ha narrato poi le vicende del servizio. Furono chiamati intorno alle 5-5.30, prima della normale ora di adunata. Furono convocati in dodici o quindici. Si mossero con una jeep e un camion, agli ordini di un capitano coadiuvato da un tenente. Furono dotati di fucili, elmetti vari cioè l’equipaggiamento da combattimento. Riuscirono a trovare, a seguito di diversi tentativi, il luogo di destinazione dopo diverse ore, tra le 11 e le 12. Sul posto non c’era nessuno, né altri militari né curiosi. La località era in una gola con fondo pianeggiante, che fu possibile raggiungere a piedi dopo aver lasciato i mezzi a circa un chilometro di distanza. Rimasero due giorni e due notti. Quando rientrarono in caserma a Cosenza, gli ufficiali dissero ai militari che “non avevano visto niente”, cioè ingiunsero di dimenticare ogni cosa. Il velivolo era a mezza altezza della gola; era un monoposto, di piccole dimensioni, con cupolino. Appariva integro, cioè non spaccato in più parti, di colore bianco-azzurro sul chiaro; aveva un’insegna sulla parte destra della carlinga, che sembrò al teste una stella o simbolo similare. I soldati si fermarono in un primo momento sul fondo della gola, mentre gli ufficiali si inerpicarono sul costone in direzione dell’aereo. In un secondo momento, quando gli ufficiali fecero ritorno sul fondo della gola, i militari furono disposti in più punti. Al teste fu assegnata una posizione nella parte superiore, da cui poteva vedere l’aereo nella gola a una cinquantina di metri. Da quel punto riuscì a vedere il pilota, che appariva seduto al posto di guida “accasciato sui comandi … sembrava un fantoccio”. In un turno di riposo – continua Priore – il teste si avvicinò all’aereo e constatò guardando il cadavere – per brevissimo tempo e da un solo lato – che era di carnagione bianca e non aveva tracce di sangue. Il giorno dopo il cadavere non era più sul luogo. Il Di Benedetto chiese informazioni sul fatto agli ufficiali e gli fu risposto di non preoccuparsi “perché era tutto a posto”. Nel 66

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frattempo erano intervenuti altri militari che indossavano divise estive non facilmente distinguibili e che fu detto esser Carabinieri. Erano venuti con macchina militare americana, una Chevrolet targata IFI o AFI, anche altri militari sicuramente americani con divise verde scuro. Il teste, che non aveva mai collegato in precedenza la caduta del Mig con quella del Dc9 Itavia, ha ricordato che del Mig si parlò sulla stampa diversi giorni dopo la loro missione di guardia. Ha ricordato anche che quando arrivarono sul luogo videro a un centinaio di metri dall’aereo un paracadute aperto anche se non espanso completamente. Ha precisato infine che del fatto aveva parlato solamente con un suo amico, tre o quattro giorni prima che uscisse l’articolo. Escusso nuovamente, ha ricordato che l’ultimo periodo di licenza era stato tra il 5 e il 15 luglio 1980 e che il servizio di guardia era avvenuto sicuramente prima di quell’ultima licenza. È sicuro di questa circostanza, perché gli ultimi giorni di servizio militare li passò come “borghese” senza effettuare cioè turni di servizio». L’ex caporale dell’esercito offre una serie di spunti a dir poco interessanti. Il primo: il velivolo precipitato in Sila in data antecedente al 18 luglio era di colore “bianco-azzurro” e presentava come insegna una “stella”. Dunque aveva colori e elementi identificativi militari diversi da quelli dell’aereo fatto ritrovare due settimane più tardi. Qualcuno, pertanto, aveva successivamente sostituito l’aeromobile. Il secondo: il corpo del pilota rimase sul luogo dello schianto poco più di 24 ore, poi venne fatto sparire. A Di Benedetto fu detto di non preoccuparsi perché era “tutto a posto”. Il terzo: in zona arrivarono militari stranieri che il testimone indica come “americani”. Sulla base di questo racconto è inevitabile pensare che il successivo ritrovamento del velivolo e del cadavere del pilota sia stato artatamente “gestito” perché non fosse collegabile alla tragedia di Ustica. Altri testimoni, d’altra parte, riferiranno di strani movimenti sui cieli silani riconducibili al 27 giugno, giorno dell’abbattimento del Dc9 Itavia. Di Benedetto, tra l’altro, parlò per soli fini di giustizia e dopo essersi confidato 67

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con un amico che lo invitò a raccontare tutto al giornalista de “La Repubblica”. Il fidato amico si chiama Antonio Stumpo. L’uomo, escusso dal giudice Priore, ha confermato d’aver ricevuto le confidenze dell’ex caporale fornendo inoltre una serie di particolari che avvalorano l’assoluta genuinità delle dichiarazioni rilasciate da Di Benedetto. Sul punto il giudice istruttore che ha indagato su Ustica è perentorio. «La vicenda denunciata dal Di Benedetto non appare incredibile. In primo luogo non risulta ispirata da alcuno né favorita da alcun ambiente. Prende le mosse per iniziativa dello stesso teste; che più volte prima di renderla pubblica l’aveva riferita in privato. Appare precisa e ben collocata nel tempo, le cui scansioni di quel giugno e luglio il Di Benedetto rammenta con cura e dettagli. I militari erano stati disposti a monte e a valle del punto d’impatto, del luogo dove cioè erano la carcassa del velivolo e il cadavere del pilota. Egli, come i suoi commilitoni, poteva vedere solo a distanza e certo non cogliere dai posti di guardia particolari di rilievo. Egli infatti ne coglie solo quando in un suo momento di riposo e di distrazione, probabilmente di altri, riesce ad avvicinarsi al relitto e vedere così il corpo del pilota “accasciato” sui comandi e a percepire da quelle poche parti della salma scoperte che non era di carnagione scurissima e che non vi erano versamenti di sangue visibili. Una situazione del tutto diversa da quella che appare a coloro che discesero nella zona il 18 luglio, in cui v’è di certo un cadavere fuori dell’abitacolo – non si sa se supino o bocconi – e chiazze di sangue sulla pietraia. Il giorno dopo il cadavere sui comandi non c’è più. Le stranezze di questa vicenda sono tante. Di certo però l’arrivo del Di Benedetto non può collocarsi in quelle poche ore tra il rinvenimento ufficiale e la rimozione della salma, cioè tra il mezzogiorno e le diciotto di quel 18 luglio. Anche perché il Di Benedetto con gli altri soldati di Cosenza muove all’alba dalla caserma e raggiunge i luoghi sempre di mattina. La narrazione del Di Benedetto al riguardo della salma non 68

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appare nemmeno illogica. Perché di certo, se il fatto come il rinvenimento effettivo sono avvenuti qualche tempo prima del rinvenimento ufficiale, s’è posto il problema della salma che non poteva essere lasciata in quel luogo e doveva essere conservata per il tempo sino alla simulata caduta. Di Benedetto poi non è solo in questo suo ricordo, giacché buona parte dei suoi compagni di leva ha ricordato che il fatto avvenne nella prima quindicina di luglio, nei trenta giorni a cavallo tra giugno e luglio, tra fine giugno e i primi di luglio». I soldati in servizio all’epoca nello stesso reparto hanno infatti ricordato la vicenda, collocandola temporalmente in «periodo estivo» e indicando al magistrato inquirente come mesi di riferimento giugno e luglio. Alcuni hanno parlato pure del cambio ottenuto durante la vigilanza al velivolo da altri reparti dei bersaglieri. Un teste ha riferito dell’arrivo nella zona dello schianto di un «ufficiale della Nato» che parlava inglese e viaggiava a bordo di un elicottero. Ma c’è dell’altro. I testimoni militari convocati il 13 febbraio del ’91 nel palazzo di giustizia di Cosenza da Rosario Priore subirono delle velate minacce. L’obiettivo? Ridurli a più miti consigli. La strategia intimidatoria venne posta in essere durante le fasi di attesa precedenti le audizioni. Il fatto è testimoniato da un’articolata relazione di servizio redatta dai carabinieri che sostavano nella sala dove era stato convocato proprio l’ex caporale Di Benedetto. Il supertestimone venne avvicinato da due ufficiali che, fingendo di leggere il giornale, gli dissero con tono inequivocabile: «Ma che vai raccontando, ma che dici? Noi non c’eravamo». L’uomo, visibilmente turbato, venne subito trasferito in un’altra stanza. Gli altri testimoni scomodi Nell’indagine sull’abbattimento del Mig 23 s’incrociano altre importanti testimonianze. Si tratta di racconti che intervengono 69

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nel corso delle indagini per autentico e disinteressato spirito di collaborazione. Qualcuno ha tentato, negli anni, di minimizzare molti contributi accreditando la tesi di supposti casi di mitomania e di parossistico desiderio di protagonismo. Non è assolutamente così. La vicenda del velivolo trovato in Sila non segue la trama d’un “giallo” affollato di egocentrici personaggi, ma prova, semmai, come spesso la realtà possa superare la fantasia. I testimoni sentiti durante le approfondite investigazioni condotte dal giudice istruttore che indagava sulla strage di Ustica sono tutt’altro che matti. Ci sono medici, avvocati, militari, commercianti che hanno svelato particolari inquietanti. Nessuno di loro è mai stato affetto da turbe psichiche o ha sofferto di allucinazioni. Enrico Brogneri, avvocato civilista del foro di Catanzaro, decise nel 1989 di raccontare quanto aveva visto e sentito la sera del 27 giugno del 1980, quando dagli schermi radar scomparve il Dc9 Itavia che volava da Bologna a Palermo. Il professionista ruppe il silenzio dopo aver ascoltato le dichiarazioni rese in Parlamento dal ministro della Giustizia dell’epoca, Mino Martinazzoli. Il rappresentante del Governo, rispondendo a interrogazioni presentate sul caso Ustica, lanciò un appello invitando chiunque avesse notizie utili a far luce sull’abbattimento dell’aereo passeggeri a collaborare. Così, l’avv. Brogneri, mosso da senso civico, rese noto d’aver visto nitidamente la sera della caduta del Dc9, intorno alle 21.30, un aereo sorvolare la città di Catanzaro, a «fari spenti e silenziosamente», quasi planando ad una quota molto bassa. Il legale venne interrogato da Rosario Priore il 20 giugno del ’90. Spiega il giudice istruttore: «Il teste è sicuro della data per due ordini di ragioni. In primo luogo perché in quei giorni i suoi genitori erano impegnati nei preparativi per le vacanze ed egli assiste al fatto mentre lascia la casa paterna per quella dei suoceri. In secondo luogo perché il giorno successivo, ricercando sulla stampa la notizia di quanto aveva visto, lesse invece della caduta del Dc9 in zona completamente diversa da quella ove egli aveva 70

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previsto dovesse essersi abbattuto l’aereo militare notato. Questo velivolo volava a una quota molto bassa, sui 70 metri dal suolo; “appariva in evidente difficoltà perché non aveva le luci accese e planava a bassa velocità”, “senza che da esso provenisse rumore dei motori”. Era, secondo il teste, sicuramente un aereo militare, per le dimensioni, la sagoma, l’attaccatura delle ali alla fusoliera di notevoli dimensioni; il colore della “pancia” e della parte inferiore delle ali era grigio chiaro. La direzione dell’aereo era NordOvest verso Crotone. Il teste voleva riferire il fatto ai Carabinieri ma ne fu dissuaso dalla moglie che sdrammatizzò l’episodio. Che però tornò alla sua mente il giorno che fu rinvenuto il Mig sulla Sila, senza però che ne derivasse una relazione tra i fatti. Solo dopo una trasmissione televisiva, “Telefono Giallo” su Ustica, ebbe modo di riflettere e connetterli. Ne portò a conoscenza suo padre, che gli consigliò di non “intromettersi”. Escusso nuovamente l’8 ottobre dello stesso anno il teste confermava la precedente dichiarazione, precisando alcune circostanze. Egli vide l’aereo mentre si trovava a bordo della sua Renault 5 in viaggio tra le due abitazioni sopra specificate, precisamente in via Jan Palach nel quartiere dello stadio, strada che in quel tratto è in discesa verso piazza dei Martiri di Ungheria. L’aereo è “passato quasi” sulla sua vettura e andava in direzione a Nord di Crotone. Non era ancora scuro, perché “ci si vedeva”, anche se l’illuminazione pubblica era già accesa; “c’era ancora una luce diffusa”. Il velivolo, almeno nella parte inferiore era di colore grigio chiaro; misurava circa 15 metri di lunghezza; le ali erano “molto aperte”. Spiega quindi i tempi delle sue riflessioni, dei consigli del padre e della scelta del giornale, cui destinò per primo la lettera con le sue “rivelazioni”. Specifica infine che nella prima testimonianza non disse, quanto alla direzione dell’aereo, né Nord Ovest né Nord Est, bensì più a sinistra di Crotone verso Nord, tracciando su una carta della Calabria quella direzione. L’8 settembre ’92 il teste invia una lettera all’Ufficio, per rife71

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rire di aver visionato un Mig23 S-Flogger e di aver ricordato che le caratteristiche della sagoma di questo aereo non corrispondono a quelle dell’aereo da lui visto. Sarebbe rimasto fuorviato dall’erroneo convincimento secondo cui gli aerei militari, nel ritrarre le ali a geometria variabile, potessero assumere quella particolare forma triangolare e compatta che lo aveva colpito e che invece è caratteristica dei velivoli a delta. Chiede pertanto di essere nuovamente sentito al fine di contribuire ad accertare: se l’aereo avvistato fosse l’inseguito o l’inseguitore rispetto al Mig e se l’eventuale attività di depistaggio, volta a postdatare l’evento, sia stata preceduta dal preliminare recupero dell’aereo effettivamente caduto e della sua sostituzione con diverso tipo di velivolo. Sentito nuovamente il 25 settembre ’92 il teste ha confermato quanto già dichiarato e quanto scritto nella lettera dell’8 precedente. Ha riferito di aver continuato ricerche personali al fine di determinare il tipo di aereo da lui avvistato la sera del 27 giugno ’80. Ha ribadito che in quella occasione egli vide un aereo dalla forma triangolare, compatta e di dimensioni non grandi, specificando che la forma era quella di un triangolo equilatero. Ha acquistato nel luglio ’92 la video-cassetta con il film “Muro di gomma” e nell’intervista del giornalista Giancarlo Mazzini al collega Andrea Purgatori ha notato sullo sfondo del filmato due aerei a delta durante l’atterraggio sulla portaerei Saratoga. Questi velivoli lo hanno particolarmente colpito per avere una sagoma molto simile a quella dell’aereo della sera del 27 giugno ’80 – “ricordano tantissimo la sagoma dell’aereo avvistato la notte di Ustica”». La deposizione dell’avvocato catanzarese assume grande rilevanza in relazione a un non trascurabile particolare: il velivolo che attraversa la sera del 27 giugno lo spazio aereo del capoluogo calabrese non è un Mig 23 ed è di colore grigio chiaro. Dunque, non può essere l’aereo da guerra poi ritrovato “ufficialmente” il 18 luglio 1980 in Sila. Quell’aereo aveva una struttura e dei colori sulla carlinga completamente diversi. I verbali dei carabinieri 72

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riferiscono infatti di colori da mimetizzazione: «verde, marrone e giallo paglierino». Il «grigio chiaro» di cui parla l’avv. Brogneri è invece il colore approssimativamente indicato dall’ex caporale dell’esercito Di Benedetto che vigilò per tre giorni, dall’alba del 28 giugno ’80, il jet militare schiantatosi tra le montagne. Cosa accadde? Qualcuno sostituì il velivolo precipitato con una carcassa appositamente predisposta per attuare un quasi perfetto piano di depistaggio? Verosimile. A questo punto merita di essere riconsiderata una frase pronunciata dal medico condotto – il dott. Scalise – che per primo esaminò il cadavere del pilota straniero. L’ufficiale sanitario disse che era «fresco». Come se fosse stato in frigorifero. E allora proviamo a ricostruire uno scenario possibile. La sera del 27 giugno 1980 in un duello tra velivoli militari viene colpito per sbaglio il Dc9 dell’Itavia. Uno degli aerei impegnati nella battaglia cerca di sganciarsi dai nemici, che l’inseguono. Il jet, tallonato da due “caccia”, finisce la sua corsa in Sila, abbattuto. Scatta l’allarme: nessuna delle potenze militari occidentali può assumersi – siamo negli anni della guerra fredda – la responsabilità della morte per errore di ottantuno civili che volavano su un aereo di linea. Così qualcuno escogita un infernale stratagemma che contempla l’individuazione e il recupero del relitto colpito e del cadavere del pilota. Il corpo viene infilato in frigorifero e il jet fatto sparire. L’obiettivo? Farlo ritrovare due settimane più tardi in modo che non sia in alcun modo riconducibile all’“incidente” di Ustica. È andata così? Per tentare di abbozzare una risposta occorre esaminare altre deposizioni. Andiamo avanti. Le rivelazioni del ginecologo L’avv. Enrico Brogneri non è il solo disinteressato testimone che fornisce alla magistratura inquirente illuminanti indicazioni sugli inconsueti movimenti di velivoli da combattimento, a ridos73

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so dell’altopiano silano, la sera del 27 giugno 1980. Un medico ginecologo di Cosenza, Alfonso De Marco, il 4 gennaio del ’91 invia una lettera al giudice Priore, nella quale afferma di voler fare alcune dichiarazioni sul caso dell’aereo libico. Il professionista spiega al magistrato d’aver deciso di parlare dopo aver letto un articolo pubblicato sulla “Gazzetta del Sud” del 13 dicembre ’90, dal titolo “Il Mig libico sembra sforacchiato” nel quale si commentava il sopralluogo compiuto dalla Commissione Stragi il giorno prima nell’hangar di Pratica di Mare per la visione del relitto del Dc9 e dei resti del Mig23 che vi erano custoditi. Rendendo testimonianza, De Marco deposita una memoria dal titolo “Note personali avvistamento aerei militari”. Nel documento riferisce delle circostanze più che sufficientemente precise. In un giorno lavorativo – il ginecologo era da poco ritornato dal suo studio medico – nel mese di luglio del 1980, all’imbrunire, mentre si trovava nel giardino che circonda la sua abitazione sita in via Rusoli di Castrolibero, un comune della provincia di Cosenza, la sua attenzione viene attirata da un «qualcosa che scivolava sui monti» di fronte a lui proveniente dalla direzione di Monte Cocuzzo e Mendicino. Quel «qualcosa» procedeva verso la sua abitazione. In un primo momento il ginecologo ritiene che si tratti di un uccello ed essendo cacciatore comincia a scrutare il cielo con maggiore attenzione. Guardando meglio si accorge che non è un uccello bensì un aereo militare, che procede a bassa quota, luci di posizione spente e motori a basso regime, producendo pochissimo rumore. Il velivolo passa davanti a lui a una distanza tra i 120 e i 200 metri. De Marco, allora, si sposta immediatamente in un altro punto, sull’altro lato della casa, per seguire la rotta. Il velivolo scivola in basso verso lo stadio di Cosenza, supera l’autostrada e prosegue nella direzione Rovito-antenna di Monte Scuro. Ha la parte terminale «rotonda». Riesce a seguirlo bene quasi fino all’abitato di Rovito, vola sempre a quota bassa. Subito dopo ritorna nell’originario punto di osservazione. E nota altri due velivoli che provengono dalla stessa direzione del primo e cioè 74

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da un’area compresa tra Domanico e Mendicino. Si tratta questa volta di due jet militari tra loro identici, anch’essi a bassa quota, ma con i motori più sostenuti del primo e luci lampeggianti. Procedono seguendo la stessa rotta del primo, passando leggermente più a valle, a circa 150-200 metri dal punto di osservazione. Ritorna, perciò, di corsa al secondo punto di osservazione da cui può seguire l’ulteriore volo dei due aerei. Anche questi velivoli passano sullo stadio – le luci della città sono ora accese – superano l’autostrada e puntano sulla direttrice Rovito-Monte Scuro. Gli accertamenti svolti da Rosario Priore per verificare l’attendibilità delle dichiarazioni rese dal ginecologo sono puntigliosissimi. «Il De Marco abita in quella villa dal ’75 – afferma il magistrato – ed un fatto del genere non era mai accaduto né prima né dopo quel giorno. Passano nella zona aerei militari, ma a coppia e a quote di gran lunga più alte. Quando, qualche tempo dopo, ha saputo della caduta del Mig libico a Castelsilano, ha ritenuto senza alcun dubbio di essere stato “un fortunato casuale osservatore”, ovviamente del fatto che aveva preceduto quell’evento. Tra il giorno in cui osservò quei tre aerei e il giorno in cui seppe della caduta del Mig sono intercorsi circa venti-trenta giorni. Ribadisce poi che i tre apparecchi erano velivoli militari; che il primo volava a luci spente, gli altri due con le luci accese; che tutti e tre volavano a quota molto bassa. Il fatto era avvenuto all’imbrunire; è sicuro che al secondo passaggio le luci pubbliche erano accese, mentre non aveva notato se lo fossero o meno al passaggio del primo aereo. Ha parlato del fatto solo con la moglie. Nel 1980 non prese ferie e teneva ambulatorio tutti i pomeriggi feriali tranne il sabato, senza però un orario fisso di chiusura. Sentito di nuovo, De Marco dà indicazioni più precise. Il primo velivolo era ad un’altezza di circa 150 metri dal suolo; proveniva da Sud-Sud-Ovest, attraversando i paesi di Domanico e Mendicino, che sono effettivamente in questa direzione rispetto a Castrolibero. All’altezza della sua abitazione aveva effettuato una virata verso destra mostrando all’osservatore il fianco sini75

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stro della fusoliera ad una distanza tale da poter notare il pilota con casco giallo-verde. Il velivolo, ribadisce, non aveva le luci di navigazione accese, era di colore grigio scuro militare. Non ne aveva notato le insegne. Volava a velocità molto bassa; non aveva il carrello estroflesso. Non aveva visto sporgenze rispetto alla struttura, riferibili ad armamento o a serbatoi supplementari. Una volta compiuta la virata il velivolo, mantenendo la medesima quota e velocità, s’è diretto verso il comune di Rovito, sorvolando lo stadio di Cosenza e collimando a distanza con l’antenna di Monte Scuro. Il teste aveva notato l’aereo quando era già all’altezza del comune di Domanico, e cioè a circa 8 km di distanza in linea d’aria, e lo aveva seguito sino a Rovito, ovvero a circa 7 km di distanza sempre in linea d’aria. Il velivolo non sembrava in difficoltà di manovra; non provocava rumore, tanto meno di propulsione; non presentava posteriormente bagliori di combustione. Aveva una struttura di caccia militare con ali triangolari, la parte posteriore della fusoliera arrotondata, un unico ugello di scarico. Dopo circa due minuti aveva notato l’avvicinarsi degli altri due velivoli anch’essi apparentemente militari. Questi due aerei avevano la stessa rotta e la stessa quota del primo e compivano la stessa manovra già da quello effettuata. A differenza di esso però tenevano una velocità superiore, vicina al triplo, producevano rumore di propulsione, mantenevano accese le luci di posizione lampeggianti. Volavano appaiati ad una distanza tra i 50 e i 70 metri. La loro struttura era diversa da quella del primo; erano più grandi e dotati di prese d’aria rettangolari posizionate su entrambi i lati della fusoliera, erano biposto, giacché il teste aveva visto due persone per aereo “posizionate l’una davanti all’altra”. Non aveva invece notato le insegne; il colore era sul grigio scuro, ma diverso da quello del primo. Anche questi due velivoli non presentavano i carrelli in posizione estroflessa né sporgenze riferibili ad armamenti o a serbatoi supplementari. Anche con questo teste si sono compiute ricerche in loco e con il suo ausilio si sono redatte planimetrie in cui sono state ricostruite le rotte». 76

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Il detenuto Ma c’è anche un detenuto di origine cosentina, desideroso di offrire indicazioni sul ritrovamento del Mig a Castelsilano, che conferma alcuni dati sull’inseguimento di un caccia militare avvenuto sui cieli calabresi la sera del 27 giugno 1980. L’uomo si chiama Francesco Medaglia e parla senza l’intenzione di usufruire di alcun beneficio ma solo per spirito di giustizia. Medaglia stava sistemando il ripetitore di una radio su Monte Cocuzzo, nel Cosentino, quando vide sopraggiungere due velivoli militari che dal Tirreno si dirigevano verso la Sila. Potrebbe trattarsi degli stessi aerei visti, la medesima sera, dal ginecologo De Marco a Castrolibero. Il teste riferisce pure di aver successivamente appreso da un carabiniere che anche dei reparti dell’Arma vigilarono un relitto militare nella zona di Castelsilano, dando il cambio a reparti dell’esercito che erano stati precedentemente impegnati in medesime mansioni. Quest’ultima circostanza coinciderebbe con quanto dichiarato dall’ex caporale Di Benedetto. I riscontri investigativi alla deposizione del detenuto e le verifiche sono agli atti dell’inchiesta sul disastro di Ustica. Leggiamo: «Nel corso di un colloquio con il direttore del carcere di Fossombrone tenuto il 5 luglio ’93, il detenuto Medaglia Francesco chiedeva di conferire con il giudice Francesco Di Maggio, vicedirettore generale del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Questi, previa intesa con l’ufficio, visitava il detenuto il 25 luglio seguente a Fossombrone e ne raccoglieva le dichiarazioni concernenti il fatto di Ustica in appunto datato 26 luglio ’93, trasmesso a questa Autorità giudiziaria lo stesso giorno. Il Medaglia, perito elettrotecnico, era nel giugno ’80 amministratore della S.r.l. SOGED (Società Gestioni Editoriali) proprietaria della emittente radiofonica Radio Brutia-Cosenza. La sera del 27 giugno, a seguito del blocco del ripetitore installato su Monte Cocuzzo alla quota di 1550 metri, si era recato, 77

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da solo, in quella località per riparare l’avaria. Era giunto alle 20.30 sul luogo ove si trovavano due vecchi rustici all’interno dei quali erano state montate le apparecchiature ed un generatore di riserva. Intorno alle 21 aveva percepito il rumore di due aerei; fattosi sulla porta aveva notato due aerei militari che provenienti da Sud-Ovest uno dietro l’altro procedevano con direzione Mar Tirreno-Monti della Sila. L’aereo che precedeva era poi scomparso oltre il massiccio della Sila e contemporaneamente era cessato il rumore dei suoi motori. Il secondo velivolo che, dalle fattezze, il Medaglia ritiene di aver identificato (senza esserne certo) in un F14, aveva compiuto una repentina inversione di rotta; perdendo rapidamente quota, era a sua volta scomparso oltre il massiccio, ricomparendo subito dopo in virata in direzione Sud-Sud-Ovest alla volta dell’arcipelago delle Eolie. L’attenzione del Medaglia era stata richiamata dalla circostanza che, giunto sul Tirreno, l’aereo aveva preso a volare a bassissima quota. Nel mese di novembre ’92, trovandosi il detenuto ristretto in Cosenza per presenziare al dibattimento di un processo a suo carico davanti a quel Tribunale, in occasione di una delle traduzioni a Palazzo di Giustizia, si era intrattenuto a conversare con il capo scorta dei Carabinieri, tale appuntato Carioti, all’epoca in servizio presso la stazione di Montalto Uffugo. Del tutto occasionalmente la discussione era caduta sui fatti di Ustica ed il Medaglia aveva appreso che il Carioti, nel giugno ’80 carabiniere in servizio alla stazione di Sersale, la mattina del 28 era stato inviato sul luogo ove era precipitato un aereo militare straniero per sostituire i soldati di stanza a Cosenza, che sin dalla notte prima erano stati comandati di servizio di vigilanza. Gli aveva riferito il Carioti che, nella circostanza, la sua divisa era stata strappata dai rovi ed aveva aggiunto che, a differenza del caporale sentito come teste dal giudice istruttore, nessuno aveva mai ritenuto opportuno interrogarlo. Il Medaglia, richiestogli come avesse potuto conservare memoria tanto precisa sui fatti, spiegava che nella giornata del 28 giugno 1980 aveva letto sul quotidiano locale, la “Gazzetta 78

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del Sud”, la notizia dell’aereo Itavia inabissatosi nelle acque di Ustica ed aveva legato proprio al grande clamore di tale evento il ricordo di quanto personalmente percepito, la sera precedente, sul Monte Cocuzzo. Che tra i due episodi potesse stabilirsi un qualche nesso aveva cominciato a stimarlo all’epoca della lettura dei servizi giornalistici che davano notizia delle perplessità circa il tempo di effettiva caduta sui monti della Sila dell’aereo militare libico. Sostenendosi da parte di taluno che quest’ultimo incidente si sarebbe verificato in epoca successiva ai fatti di Ustica, Medaglia aveva ripescato nella memoria quanto percepito la sera del 27 giugno ’80. Aggiungeva che i servizi giornalistici indicati erano stati da lui letti nel maggio ’92 e che da allora aveva cominciato a riferire le sue riflessioni ai familiari ed al proprio avvocato, Franz Caruso del foro di Cosenza, oltre che al direttore della casa di reclusione di Fossombrone e, da ultimo, qualche giorno prima del colloquio, al magistrato di sorveglianza di Ancona. In ogni caso, una volta intervenuta conferma a seguito della conversazione con l’appuntato Carioti, aveva deciso di riferirne all’autorità giudiziaria. Questo appunto è stato integralmente e specificamente confermato dal Medaglia in esame testimoniale. Oltre a riferire con chi aveva parlato di quella sua vicenda sul Monte Cocuzzo e a descrivere il sito del suo ripetitore, redigendone anche schizzo planimetrico, il teste ha confermato di trovarsi, quando ha percepito il rombo degli aerei, all’interno della sala apparati. È immediatamente uscito sullo spiazzo antistante la porta di quel vano. Questa porta dava di fronte a Cosenza. Gli aerei li ha visti sulla sua destra; provenivano dalla direzione di Amantea; procedevano cioè da Sud-Ovest verso Nord-Est; sono scomparsi dietro i monti della Sila. Erano sicuramente degli aerei militari, ovvero dei caccia. Il secondo aveva doppio impennaggio; ha stimato che avesse due motori, “perché sembrava che avesse due getti di uscita”, quando lo ha osservato dopo che aveva superato il Monte Cocuzzo. Proprio sulla verticale di questo monte il primo ha spento il 79

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motore. Il secondo è riapparso “da dietro la Sila” dopo brevissimo tempo, cioè nel giro di pochi minuti, tra i due e i quattro minuti, non di più perché egli è stato fuori della casamatta sui cinque minuti. È sicuro che si trattasse del secondo, perché era quello con i due impennaggi. Ritiene che il primo fosse di colore più scuro del secondo. Questo era di colore quasi chiaro. Quando ha visto i due aerei la prima volta erano leggermente più in alto del punto in cui egli si trovava e cioè a circa 1500 metri di altezza, giacché la casamatta della radio è a venti-trenta metri al di sotto della cima del monte. Dopo che lo hanno superato i due velivoli “hanno continuato una virata sulla propria sinistra e la discesa in quota”. Il secondo, al ritorno, allorché è riapparso, ha dato l’impressione che stesse salendo; era più o meno all’altezza dell’osservatore. Subito dopo, quando s’è diretto verso il mare, è sceso “di brutto”. Al teste non è sembrato strano che fosse ritornato solo il secondo aereo, giacché del primo ha stimato che fosse atterrato a Crotone, essendo la sua direzione proprio quella di Crotone. Di sicuro, conclude, non era un F104 cioè un aereo italiano. In un nuovo esame dedicato particolarmente a quanto da lui osservato da Monte Cocuzzo, Medaglia conferma le precedenti dichiarazioni, ma specifica sulla base delle sue conoscenze – è appassionato di aeronautica e legge libri e riviste specializzate – che il secondo velivolo era un F14 o Tomcat. Non notò se avesse o meno i serbatoi supplementari. Ricorda del colore, che era più chiaro di quello del primo. Il primo, conferma, non era dell’Aviazione militare, non era cioè un F104. Entrambi erano scomparsi dietro Monte Scuro passando alla sua destra. Quello che è riapparso è ritornato passando alla sinistra del monte, per lui che vedeva da Monte Cocuzzo. Il primo dei due ha avuto il “getto illuminato” per circa metà del tragitto osservato; poi il getto s’è “spento” tra Monte Cocuzzo e il Crati, cioè a metà della valle di Cosenza. Il secondo ha tenuto sempre i getti illuminati. Costui nel corso delle sue deposizioni ha riferito circostanze su Radio Brutia e sul funzionamento del suo ripetitore su Monte Cocuzzo, citando 80

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a sostegno altri soci e dipendenti. Costoro hanno sostanzialmente confermato quelle vicende, per cui il Medaglia su tali punti appare pienamente credibile. Costui ha poi riferito di aver parlato di quello che vide la sera del 27 giugno con altre persone cioè, come s’è detto, alcuni suoi familiari, il suo legale, il capo scorta dei Carabinieri, che in occasione di un’udienza al Tribunale di Cosenza lo tradusse dalle locali carceri al palazzo di giustizia e quel caporale dell’Esercito, appartenente al partito repubblicano, che aveva montato la guardia ai resti del Mig23. Tutti costoro hanno confermato le sue dichiarazioni, compreso il carabiniere identificato in Nicola Carioti, su diverse circostanze dette di lui da Medaglia, come l’aver fatto servizi di traduzione per il Tribunale di Cosenza e servizi di guardia ai rottami del Mig, nel corso del quale effettivamente s’era strappato la divisa, e al cimitero di Castelsilano, quando la salma del pilota fu prelevata per essere trasportata a Roma. Ha ammesso anche una circostanza che potrebbe essere di rilievo e cioè che quando fu mandato nel vallone ov’era caduto l’aereo tra giugno e luglio, a un mese di distanza dall’inizio del servizio a San Severino il 10 giugno, al momento in cui raggiunse il luogo intorno alle 14.30, aveva trovato nella parte superiore del vallone un vero e proprio accampamento, composto da almeno quattro tende di medie dimensioni, costruite da militari dell’Esercito. Ha negato le restanti circostanze». Francesco Medaglia e l’appuntato Carioti vennero successivamente messi a confronto dal giudice istruttore, il 30 settembre del ’93. Queste le battute principali: Medaglia: Mi ricordo il suo viso. Era però in divisa. Ho fatto una sola traduzione con il qui presente militare. Carioti: Non lo ricordo. Medaglia: Confermo di aver sentito i discorsi sull’aereo caduto a Castelsilano dal qui presente. Parlava direttamente con me. Carioti: Non ho parlato con lei. Non ricordo assolutamente di 81

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aver riferito circostanze sul fatto dell’aereo caduto a Castelsilano al qui presente. Medaglia: Non ricorda di aver parlato della questione della divisa strappata? Carioti: No, non ne ho mai parlato con il qui presente. Posso averne parlato durante altre traduzioni con altri detenuti, cioè tra colleghi in presenza di altri detenuti. Medaglia: Il fatto è successo in questo palazzo nelle camere di sicurezza, che sono al pian terreno. Mi disse che rilevò dei militari. Mi disse che si ricordava che il fatto era avvenuto a fine giugno. Carioti: Il fatto è avvenuto o a giugno o a luglio. Avevamo la divisa estiva, che si porta durante tutta la stagione. Medaglia: Il qui presente appuntato mi disse solo che aveva dato il cambio a militari, senza specificare a quale Arma appartenessero. Ho saputo che si trattava di militari dell’Esercito di stanza a Cosenza, leggendolo sui giornali, nell’intervista rilasciata da un caporale dell’Esercito. Avevo saputo il nome del qui presente dallo stesso. L’ho poi ricordato perché cambiando una vocale viene fuori il nome di un grande paese della provincia di Cosenza, e cioè Cariati. Carioti: Escludo di aver mai dato il mio nome a detenuti tradotti. Il nome emerge dai fogli che lasciamo alla matricola del carcere”. Medaglia, esaminato subito dopo questo confronto, dichiarò di non essere mai stato nella matricola del carcere e di essere perciò venuto a sapere del cognome dell’appuntato personalmente da lui. Questi gli aveva anche riferito di non esser mai stato interrogato, ovviamente sul fatto della caduta del Mig. Aveva aggiunto che nella sua caserma c’era l’ordine di servizio con la data del giorno in cui era stato comandato sul luogo di caduta. Aveva anche precisato che si ricordava che era fine giugno, perché in quel periodo si verificava una sua ricorrenza personale. 82

La strage di Ustica e il mistero del Mig libico

Il funzionario delle Finanze Il riscontro più diretto e impressionante alle dichiarazioni rilasciate dal ginecologo De Marco l’ha però offerto Giovanni Cannizzaro, funzionario del Ministero delle Finanze in servizio alla Conservatoria dei Registri immobiliari di Cosenza. Il dipendente pubblico, a fine giugno ’80, era nella sua casa di villeggiatura nella frazione di Torremezzo del comune di Falconara Albanese con la propria famiglia e, in quell’occasione fu testimone d’un episodio a dir poco inconsueto. Notò, mentre era sulla spiaggia, un aereo che, inseguito da altri due velivoli, si dirigeva a grandissima velocità verso le montagne di Paola. Le dichiarazioni rese dall’uomo non hanno bisogno di commento. Eccole: «Io li ho visti “emergere” dal mare. Io ero sulla spiaggia e ho avuto l’impressione che mi venissero addosso…. L’aereo inseguito era più piccolo degli altri due, leggermente più piccolo. Il primo era di colore mimetico… tendente al marrone chiaro…. Gli altri due non ricordo, comunque di colore diverso dal primo…. Gli aerei erano jet. I due di dietro avevano il cupolino leggermente trasparente. Il rombo dei tre aerei era fortissimo e quei velivoli procedevano a una velocità molto forte…. Dopo che i tre aerei mi hanno superato… ho visto dei bagliori, una sorta di lampi in prossimità degli aerei. Ho avuto una gran paura, una paura tale da avere una scarica di diarrea ed essere costretto a raggiungere immediatamente il bagno di casa. Tutto l’episodio mi aveva scosso. Sia perché gli aerei si erano alzati improvvisamente dal mare, sia perché erano a pelo d’acqua, sia perché ad un certo momento mi è sembrato che mi venissero addosso, sia perché ho visto quei bagliori. Io ho visto delle palle di fuoco, delle fiammate a breve distanza dinanzi al muso degli aerei. Queste fiammate le ho viste dinanzi a tutti e tre gli aerei…. Ricordo che dopo aver assistito all’episodio dei tre aerei… ed aver visto dei lampi, in rapida sequenza tra loro, provenire dalle immediate vicinanze dei velivoli ho fatto rientro presso la mia abitazione di Torremezzo impaurito 83

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e turbato al punto da suscitare la curiosità di mia moglie». Cannizzaro ha detto di essere sicuro che fosse l’anno ’80 e un periodo prossimo al disastro di Ustica. Quell’anno la moglie, che è un’insegnante, non lavorava, avendo due figli molto piccoli – rispettivamente di due anni e nove mesi – e pertanto si erano trasferiti verso la seconda metà di giugno nella casa di villeggiatura al mare. Lui li raggiungeva dopo il lavoro, considerata la breve distanza tra Cosenza e Falconara degli Albanesi. Il testimone ha inoltre ricordato che, uno o due giorni dopo lo strano avvistamento, apprese dalla “Gazzetta del Sud” della caduta del Dc9. Commenta Rosario Priore: «La ricostruzione è più che sufficientemente precisa. Gli aerei sono “emersi” dal mare dalla sua sinistra nel momento in cui egli guarda verso il sole che tramonta, e quindi verso Nord-Ovest. Ha avuto l’impressione che si dirigessero verso le montagne, cioè verso Est. Gli aerei hanno poi continuato seguendo il litorale in direzione di Paola. Il teste ha redatto schizzi planimetrici che si riveleranno di grande utilità per la ricostruzione della rotta ed ha preso parte a più ricerche sui luoghi al fine di indicare il suo punto di osservazione e le rotte da lui viste. Egli in effetti segue i tre aerei per breve tratto lungo la costa; all’altezza di S. Lucido, egli li perde di vista perché i velivoli hanno virato verso destra, hanno imboccato uno dei valloni sulla catena costiera, e una volta superata la quale sono scomparsi nella vallata di Cosenza. Il percorso è stato ricostruito dalla polizia giudiziaria con ricognizioni di luoghi. Quanto dichiarato dal Cannizzaro – afferma ancora il giudice istruttore – ha anche trovato puntuale conferma nelle deposizioni della moglie, Angela Tarsitano. Costei ricorda che nel 1980 alla fine di giugno durante il periodo di ferie con il marito a Torremezzo di Falconara Albanese, una sera questi rientrò in casa molto scosso ed agitato e le disse che nel tratto di mare davanti alla spiaggia aveva assistito ad un inseguimento tra aerei, vedendo delle luci al di sotto di quei velivoli. Non potè assisterlo perché presa dai due bambini; il marito dovette immediatamente correre al bagno. 84

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Ribadisce che si trattava del 1980, perché solo in quell’anno essi presero in affitto casa a Torremezzo di Falconara. Ribadisce che si trattava di giugno perché in quella casa ci sono stati due mesi abbondanti. A quel tempo non lavorava e risiedeva stabilmente in quell’abitazione. Il marito la raggiungeva dopo il lavoro. Il fine settimana restavano a Torremezzo». Dunque, nessun dubbio. L’altro avvocato Nell’inchiesta compare anche un altro avvocato: si chiama Giulio Grandinetti ed è di Crotone. Il professionista sostiene di aver visto passare a volo radente un caccia militare con una stella rossa disegnata sulla coda, alcuni giorni prima del ritrovamento del Mig. Il velivolo, secondo il suo racconto, volava così basso che abbattè e bruciacchiò alcuni alberi d’un fondo di sua proprietà denominato “Villa Paradiso”, situato in agro “Bocca di Piazza” alle falde dell’appennino calabrese. L’avvocato crotonese offre così altri spunti che, però, sposterebbero temporalmente la caduta del jet militare, collocandola a «cinque o sei giorni prima» del ritrovamento della carcassa a Castelsilano. Sulla veridicità delle sue dichiarazioni non vi è motivo di dubitare. Potrebbe trattarsi di un aereo diverso, proveniente dal Mar Jonio che, comunque, non cadde quel giorno. O, almeno, che nessuno vide cadere quel giorno. Pure le dichiarazioni dell’avvocato Grandinetti sono state scrupolosamente vagliate dal giudice Priore. Che afferma: «Grandinetti è stato testimone del passaggio di quel velivolo. Il fatto è avvenuto nel fondo di Villa Paradiso, di sua proprietà. È avvenuto mentre questi con l’ausilio di alcuni suoi dipendenti stava provvedendo alla mungitura delle mucche nella stalla costruita in cima ad una collina a monte di Villa Mafalda. Erano con lui tal Luigi “caporale”, e tal Renato, bovaro handicappato mentale. All’improvviso udirono un fortissimo rumore di aereo, uscirono 85

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Priore e gli investigatori a Castelsilano

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immediatamente dalla stalla e videro un aereo da caccia di piccole dimensioni, che volava a quota bassissima e a velocità non eccessiva, cosicché fu possibile, almeno al Grandinetti, che si trovava in un punto collocato ad una maggiore altezza rispetto alla quota tenuta dall’aereo, vedere il pilota alla cloche. Quel caccia sorvolò l’abitazione, con la parte inferiore della fusoliera urtò un albero di faggio spezzandogli la cima e proseguì in direzione di Bocca di Piazza. Il velivolo proveniva dalla destra di lui, che era uscito dalla stalla, e continuò sulla sua sinistra. L’episodio avvenne in luglio, intorno alle 7 del mattino, di sicuro dopo la caduta del Dc9 Itavia, giacché il teste ricorda che era già venuto a conoscenza, dalla stampa e dalla televisione, del disastro di Ustica. Avvenne – precisa – anche qualche giorno prima del ritrovamento dell’aereo libico a Castelsilano. Ricorda con certezza questo evento giacché il giorno in cui si rinvenne il velivolo libico anche lui si recò sul posto per vedere i rottami e ciò accadeva cinque o sei giorni dopo che l’aereo era passato sopra la sua villa. D’altra parte, egli ricorda che anche la gente che era sul luogo asseriva che quell’aereo era caduto pochi giorni prima». Il giudice istruttore ascolterà anche i congiunti del legale che confermeranno d’aver appreso dal loro familiare il singolare episodio del passaggio dell’aereo lo stesso giorno dell’avvistamento. Legittimo chiedersi: ma cosa accadeva sui cieli calabresi in quei caldi mesi estivi del 1980? Quanti velivoli volavano sfiorando le case? Dov’erano diretti, da dove venivano? La valutazione delle cinque testimonianze Cinque testi diversi parlano, dunque, del passaggio di aerei da guerra a bassa quota sui cieli calabresi alla fine di giugno e nei primi dieci giorni di luglio del 1980. Il contesto descritto sembra quello di una nazione impegnata in un conflitto militare. L’Italia, però, non era in guerra con altri Stati. I jet da combattimento non 87

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avevano pertanto alcuna concreta ragione per volare sull’ultima regione dello Stivale. Salvo che l’abbattimento del Dc9 dell’Itavia in volo da Bologna a Palermo non sia stato conseguenza di un’azione bellica compiuta nel nostro spazio aereo da forze militari di altri Paesi. E questo spiegherebbe la vasta mobilitazione di velivoli da “caccia”. Per Rosario Priore le deposizioni rese dai cinque testi «appaiono di immediato rilievo nella ricostruzione dei fatti di Calabria. Non è emersa alcuna ragione per ritenerli inattendibili. Non sono stati portati da alcuno né sono frutto di inchieste particolari. Si sono presentati d’iniziativa per riferire le loro cognizioni. Sono professionisti, piccoli imprenditori, funzionari. Non v’è alcun legame o rapporto tra di loro. Due riferiscono eventi diversi – spiega il magistrato – da quello riferito dai restanti tre. In effetti si può affermare che questi ultimi e cioè De Marco, Medaglia e Cannizzaro parlino di uno stesso fatto e cioè che ciascuno di loro abbia visto un tratto della rotta degli aerei descritti. Le loro descrizioni sostanzialmente coincidono – anche se quella del Medaglia riferisce di due aerei e non di tre, ma l’emozione di quei momenti, peraltro di minima durata, può aver determinato qualche errore nella percezione. Gli orari coincidono, i tratti si congiungono, il fatto di inseguimento è identico. Si può quasi dire che questi tre testimoni abbiano seguito a staffetta quell’unico fatto durato l’ambito di breve tempo ma esteso per decine e decine di miglia. Cannizzaro vede emergere i velivoli dal mare antistante la spiaggia di Falconara su cui si trova quando il sole era sulla linea dell’orizzonte di un giorno prima o al massimo due di quando viene a conoscenza dai giornali del disastro di Ustica. I velivoli seguono poi le montagne della costa per virare improvvisamente sulla loro destra e superare la catena immettendosi conseguentemente nella valle di Cosenza. Anche se egli parla di virata all’altezza di San Lucido, può benissimo, essendo persona inesperta di calcoli di rotte e distanze, collocare questa manovra più a nord del punto in cui essa realmente avvenne. 88

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Giacché, in effetti, Medaglia vede gli aerei su Monte Cocuzzo, che è di qualche chilometro più a Sud. I velivoli provenivano da Amantea, hanno tagliato la valle di Cosenza, sono scomparsi dietro i monti della Sila. Egli aveva raggiunto la sommità del predetto monte intorno alle 20.30 e il fatto è successo qualche tempo dopo mentre era intento alla riparazione di apparati della sua radio. Era il 27 giugno, perché l’indomani 28 giugno aveva letto del disastro di Ustica sulla “Gazzetta del Sud”. De Marco segue il tratto nella valle di Cosenza verso i monti della Sila. Il suo posto di osservazione in Castrolibero è eccezionale. Ha di fronte quei monti tra cui monte Cocuzzo; dalla direzione di monte Cocuzzo e Mendicino vede arrivare i velivoli coinvolti nell’inseguimento. Superata la sua abitazione e l’autostrada li vede proseguire nella direzione Rovito-antenna di monte Scuro. Così come Medaglia. Egli colloca il fatto a luglio in un orario vicino a quello di inizio della illuminazione notturna. L’orario coincide con quello degli altri due testi; il giorno invece differisce, ma di certo si tratta di errore tra fine giugno e il successivo mese. Non è assolutamente credibile che si verifichino a distanza di pochi giorni altri inseguimenti di velivoli sulle medesime rotte e agli stessi orari. Tanto più che lo stesso De Marco afferma che quello fu un episodio unico della sua vita. Queste discordanze, anzi, sono una riprova della buona fede del teste, che ricorda con precisione le circostanze del fatto straordinario che si sono fortemente impresse nella sua memoria, ma non rammenta il particolare della data, particolare che può facilmente sfuggire. Queste discordanze confermano altresì, che, contrariamente a quanto sostenuto da maligne voci, non v’è stato alcun contatto o accordo tra questi testi. Le dichiarazioni degli altri due testi concernono fatti diversi. Di certo quanto riferito da Brogneri si riferisce ad altro velivolo anch’esso levatosi per ricercare un qualcosa. Non si fanno esercitazioni a quell’ora, tanto meno in formazione isolata. Così come il velivolo visto da Grandinetti a breve distanza di tempo dal 89

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Il giudice Rosario Priore mentre esamina una mappa durante il sopralluogo compiuto in Sila

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rinvenimento ufficiale del Mig23. Questo velivolo, che volava a quota particolarmente bassa, di certo era in volo di perlustrazione del territorio, anch’esso alla ricerca di un qualcosa». Il duello aereo e la fusoliera sforacchiata L’ipotesi della battaglia aerea svoltasi mentre il Dc9 Itavia volava sul Tirreno viene rilanciata dalla deposizione resa nel corso delle indagini dal maresciallo Giulio Linguanti, che all’epoca del ritrovamento del jet in Sila prestava servizio al nucleo del Sios (Servizio informazioni dell’Aeronautica) di Bari. Il sottufficiale venne inviato a Castelsilano e assistette al recupero dei rottami del velivolo e agli accertamenti compiuti sul luogo dalle forze inquirenti. Interrogato il 21 dicembre del 1990 dal giudice Priore, il maresciallo Linguanti dichiara: «La fusoliera era tutta sforacchiata, come se fosse stata mitragliata. I fori erano del diametro di circa due centimetri. Erano fori netti, sette o otto, tutti sulla fusoliera. Nella parte di coda, sul lato sinistro. Non ne notai su altre parti. Ritenni che si trattasse di colpi di cannoncino o mitraglia». I fori di cui parla il maresciallo dell’Aeronautica vennero addirittura fotografati dal colonnello Giovanni Battista, che giunse in Sila, nel luglio 1980, insieme con due esperti americani, Warren Walters e Larry Wilson. Battista ammetterà successivamente di aver scattato delle foto ma negherà d’aver notato dei fori da proiettile. Già un altro maresciallo, Roberto Di Donna, in servizio nel 1980 al Centro Sismi di Verona, aveva ricevuto da una “fonte” riservata notizie clamorose sulla vicenda del velivolo libico. Notizie che furono poi riferite al magistrato inquirente da Sergio Cinotti, dipendente, tra il 1975 e il ’93, prima del Sid e poi del Sismi. Di Donna, morto nel 1982, era autore di un “appunto” in cui, in merito alla comparsa del Mig in Calabria, venivano evidenziate lacune nel sistema di difesa aerea nazionale e colle91

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gato l’abbattimento del Dc9 Itavia alla caduta del velivolo libico. La “fonte”, infatti, aveva rivelato al sottufficiale del Sismi che il Mig, per violare lo spazio aereo italiano, aveva sfruttato la copertura della rotta seguita dal Dc9, collocandosi sotto la fusoliera del mezzo di linea. Nella successiva stesura del documento ufficiale prodotto dal Sismi sulla base delle indicazioni fornite da Di Donna, il riferimento al Dc9 venne tuttavia “tagliato”. Il giudice Priore, infatti, non ne ha mai trovato traccia. Dell’ originario appunto di Di Donna si conosce l’esistenza solo grazie alla testimonianza resa negli anni ’90 da Cinotti. C’è, però, un altro importante testimone calabrese che riferisce di un episodio collegabile al velivolo libico. Un episodio che presenta inquietanti analogie con i racconti resi da De Marco, Cannizzaro e Medaglia. Il teste si chiama Sebastiano Stranges e nel 1980 gestiva, a Bovalino Marina, il ristorante “Jol San Nicola” insieme con uno zio. Stranges rivela che tra le 19.30 e le 20 di una sera compresa tra la fine di giugno e l’inizio di luglio del 1980, mentre si trovava sul terrazzino del locale, notò un velivolo militare di colore grigio-verde scuro, proveniente dalla Libia con direzione verso Napoli. Il velivolo viaggiava a bassissima quota e a velocità ridotta, effettuando continue virate sia a destra che a sinistra; sorvolò lo spiazzo adiacente il ristorante circa 6 o 7 volte, dopodiché virò bruscamente verso le montagne, seguendo a bassissima quota la dorsale che sale da Bovalino verso Monte Zomaro fino a scomparire. Dal momento che volava a bassissima quota Stranges notò che i suoi contrassegni erano cancellati da una pittura di colore grigio chiara. Riuscì a vedere anche il volto del pilota, privo della maschera di ossigeno e con gli occhiali da pilota sollevati. Il velivolo aveva un foro davanti e un altro di forma tronco-conica nella parte posteriore. Subito dopo vide altri due velivoli da guerra, somiglianti a quelli della base di Sigonella che spesso pattugliavano la zona, all’inseguimento del primo. Tutti e tre scomparvero poi oltre le montagne. Dopo 92

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circa un’ora i due “caccia” ripassarono sul ristorante dirigendosi verso la Sicilia; dato che volavano ad alta quota, non riuscì però a notarne i contrassegni. Sebastiano Stranges ha reso queste dichiarazioni al giudice istruttore che indagava sulla strage di Ustica il 15 settembre del 1993. Un ulteriore dato testimoniale di rilievo giunge, infine, dal colonnello Enrico Milani, militare in pensione, che riferisce di una sorta di testamento bruciacchiato ritrovato tra gli effetti personali del pilota del Mig 23. Testamento che egli ebbe in visione dopo il ritrovamento del relitto in Sila e che fu incaricato dal Sios di tradurre. Il contenuto del testo gli apparve inquietante, perché recitava: «Io sottoscritto pilota Khalil colpevole dell’abbattimento del velivolo civile italiano e della morte di tanti…». Il resto dello scritto, purtroppo, non era leggibile. Che voleva dire? Non lo sapremo mai. Il documento, infatti, è scomparso. Dichiara Milani al giudice istruttore: «Associai il “velivolo italiano” al Dc9 abbattuto il mese precedente. Il gesto suicida del pilota poteva trovare motivo nell’ossequio ai dettami del Corano…». Il testo sacro caro ai musulmani prevede, infatti, al fine di evitare che una grande colpa come l’uccisione di tante persone ricada sulla famiglia del responsabile, che questi lavi il peccato togliendosi la vita nel Paese dove ha provocato gravi lutti. L’ipotesi che il pilota libico fosse responsabile della caduta dell’aereo dell’Itavia appare, però, suggestiva. Il “testamento” sembra semmai un ulteriore elemento inserito intenzionalmente per creare confusione e addebitare al militare straniero responsabilità forse di altri. Il frettoloso e artigianale depistaggio, tuttavia, rischiò di rivelarsi un boomerang. Alla lunga, infatti, avrebbe potuto trascinare gl’inquirenti sulla pista del duello aereo. Una pista pericolosissima, destinata a provocare effetti devastanti sui fragili equilibri del bacino del Mediterraneo. Qualcuno, pertanto, valutata la situazione, preferì far sparire il “testamento” per sempre. Sull’esistenza del controverso documento, d’altronde, non v’è 93

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motivo di dubitare. Milani, ufficiale di eccelse capacità, protagonista di esemplari azioni d’infiltrazione dietro le linee inglesi durante la Seconda guerra mondiale, non avrebbe avuto motivo di mentire. Non solo. Il giudice Priore, tra i documenti sequestrati al Ministero della Difesa, ha trovato un appunto del generale Mario De Paolis, capo di gabinetto all’epoca dei fatti, che in riferimento al Mig di Castelsilano scrisse: «Documenti molto interessanti: una specie di testamento-dichiarazione». Il riferimento era esplicito e inequivocabile, anche perché l’appunto era contenuto in un fascicolo che custodiva molti atti riferibili al jet da guerra trovato sulle montagne calabresi. Come può agevolmente comprendersi, in questa storia troppe circostanze s’intrecciano, creando una fittissima rete di contraddittorie informazioni. Una “rete” allestita per tenere tutti lontano dalla verità. Il mercenario, il legionario e l’ufficiale di marina Le scene di tutti i misteri collegabili a vicende politiche e militari sono spesso affollate da controversi personaggi. Ufficiali con significative esperienze di guerra, navigati diplomatici, mercenari, agenti segreti. La storia del Mig caduto in Calabria non fa eccezione. Negli anni ’90 irrompono sulla scena delle indagini tre singolari testimoni: non si conoscono tra loro e spiegano ai giornalisti di importanti testate nazionali che il jet trovato in Sila venne coinvolto, nel giugno del 1980, in una battaglia aerea. I testi prospettano uno scenario in cui ricoprono un ruolo determinante le questioni libiche. Qualcuno – spiegano – voleva rovesciare il regime del colonnello di Tripoli. Come? Con degli spettacolari attentati compiuti mediante l’uso di caccia da guerra oppure con l’invio in terra africana di mercenari incaricati di far fuori Gheddafi nell’oasi dove soleva ritirarsi. Le dichiarazioni non troveranno riscontro nelle indagini condotte dal giudice Rosario Priore, ma meritano di essere esaminate con cautela e attenzione. 94

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Cominciamo da Antonio Sciò, ex mercenario, che nel gennaio del 1996 rilascia un’intervista al settimanale “Oggi”. Al giornalista Gennaro De Stefano l’uomo racconta: «Il Dc 9 dell’Itavia fu buttato giù, la sera del 27 giugno 1980, da un missile Atoll lanciato da un Mig 23 libico, dopo che i servizi segreti italiani avevano informato Gheddafi dell’esistenza di un complotto ai suoi danni. Quella sera, su quella rotta e a quell’ora, doveva passare un aereo partito da Londra con dei mercenari diretti a Tel Aviv, da dove poi avrebbero proseguito per l’Egitto, e di lì in Cirenaica, a Bab el Aziza dove, presumibilmente, si trovava il colonnello libico. Il caso volle che quel volo da Londra venisse rinviato e che il Dc 9 Itavia fosse in ritardo di due ore, per cui l’abbattimento fu il risultato di un equivoco mortale. Io queste cose le so perché ero uno di quei mercenari e ho partecipato al complotto contro Gheddafi». Il quadro descritto appare suggestivo e inquietante. Naturalmente non provabile. Sciò nel colloquio con De Stefano aggiunge: «Ad abbattere il Dc 9 fu il Mig 23 trovato sulla Sila e l’azione di inseguimento fu degli italiani, tra cui Mario Naldini e Ivo Nutarelli e non degli F111 americani». I due piloti tirati in ballo dal testimone morirono successivamente a Ramstein, in Germania, durante una dimostrazione della pattuglia acrobatica delle Frecce tricolori di cui facevano parte. Al settimanale, l’ex mercenario rivela: «la sera del 27 giugno, una pattuglia dell’aeronautica militare italiana, composta da sei F104 starfighter, giunse alcuni minuti dopo l’abbattimento sul luogo del disastro, inquadrando nel radar un velivolo sconosciuto (…). Due vettori si lanciarono all’inseguimento del Mig 23 seguendo un percorso che passava all’estremità occidentale della Sicilia. Due Starfighter puntarono invece a Sud in direzione di Tripoli, mentre gli ultimi due velivoli della pattuglia si spostarono prima a est e poi puntarono a sud, sorvolando la Calabria, nel caso il Mig fosse sfuggito agli altri quattro F104. Il Mig libico fu intercettato mentre tentava un atterraggio a Malta. Gli venne segnalato, inutilmente, di scendere su Sigonella e fu in quel momento che, dalla pattuglia italiana, partirono i colpi che 95

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centrarono il velivolo che andò a schiantarsi sui monti della Calabria». Vero o falso? Chissà. Ai giornalisti dell’“Europeo” Daniele Protti, Sandro Provvisionato e Vittorio Scutti, rende invece esplosive dichiarazioni, nel febbraio del 1992, Angelo Demarcus, ufficiale della Marina militare italiana. L’uomo racconta che «Gheddafi voleva mettere mani su Malta per agevolare il posizionamento dei sommergibili russi»; che, ancora, «continuava a fornire armi ai terroristi» e che «stava per costruirsi la bomba atomica». Una situazione, insomma, intollerabile. «Così», spiega il testimone, «venne decisa quella che doveva essere la mossa risolutiva: uccidere Gheddafi». L’ufficiale aggiunge che l’eliminazione doveva avvenire per mano di militari libici, per far credere che fosse collegabile a questioni legate esclusivamente a equilibri interni allo stato africano. «La scelta cadde su alcuni piloti libici che in quel periodo si stavano addestrando segretamente in Italia con i loro Mig e che i servizi però conoscevano come pronti a tradire Gheddafi. L’addestramento avveniva alla base di San Pancrazio Salentino (Lecce) e in quella di San Lorenzo (Sardegna). All’operazione collaboravano ufficiali della Cia, del francese Sdece, del Sismi. Il piano prevedeva di far cadere in trappola Gheddafi, usando appunto uno dei Mig presenti in Italia. Italiani e francesi sapevano che il dittatore libico la sera del 27 giugno 1980 aveva in programma un volo a Varsavia. E si sapeva che il piano di volo prevedeva il passaggio dell’aereo libico nel cielo italiano lungo l’aerovia Ambra 13, un corridoio nel quale normalmente passa il traffico civile. Il Mig killer doveva intercettare l’aereo di Gheddafi nel punto Condor, proprio sopra Ustica (…) Alle 20.24, un Mig 23 U Flogger d’addestramento (bianco e azzurro, biposto, con pilota e secondo, armato di missili) raggiunge il Dc9 e si piazza sotto la sua pancia. Nessun radar, in quella posizione, può individuarlo facilmente. Il Mig era decollato segretamente dall’aeroporto militare di Grosseto, proveniente dalla base di San Pancrazio. Volando alla stessa velocità, Dc 9 e Mig si avvicinano al punto 96

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Condor. Manca poco all’ora X, ma un fatto imprevisto sconvolge il piano. Nei nostri servizi segreti si erano sempre fronteggiate due fazioni, una filoisraeliana e l’altra filoaraba. Da questa parte una soffiata e Gheddafi viene avvertito. Gheddafi si trova sopra Malta e inverte la rotta. Torna a Tripoli. E contemporaneamente ordina la ritorsione, della quale è incaricato il capo dei piloti libici in addestramento al San Lorenzo-Decimomannu, ed è a questo punto che scoppia il guaio. Dalla base sarda si alzano due Mig 23 monoposto color giallo-bruno (…). Uno dei due Mig diciamo lealisti, decollato da San Lorenzo-Decimomannu, spara un missile a testata inerte. La vampata è vista sia dai piloti del Dc9 sia da quelli del Mig killer, quello bianco e azzurro, che volava sotto il Dc 9. Per sfuggire all’impatto con il missile, il Mig killer vira bruscamente, forse anche il Dc 9 tenta una manovra di disimpegno. I due si toccano, ed è un impatto fatale: il Mig perde il timone di coda urtando contro il vano del carrello anteriore del Dc9. Il Mig non è più governabile e va a schiantarsi sulla Sila. Ma non da solo: anche uno dei due Mig che lo segue non riesce a riprendere quota e si schianta anche lui. Nel vallone di Timpa delle Magare finisce il Mig bianco e azzurro; a circa un miglio di distanza quello giallo-bruno. Muore il pilota del Mig inseguitore, mentre i due piloti del Mig bianco e azzurro si salvano con il paracadute. E vengono prelevati da un elicottero e portati in una base militare italiana. Quello fatto trovare ufficialmente il 18 luglio 1980 era il relitto del Mig inseguitore, quello giallo-bruno monoposto. L’altro, quello bianco e azzurro, fu fatto sparire subito, perché poteva creare infiniti problemi: si poteva risalire al punto di decollo». A sostegno delle proprie tesi, Angelo Demarcus cita la deposizione resa dal caporale dell’esercito Filippo Di Benedetto al giudice Priore. Ricordando che il soldato riferì di aver visto in Sila i resti di un aereo bianco e azzurro, privi di identificazione, proprio nelle ore successive all’abbattimento del velivolo dell’Itavia. Nulla di quanto affermato dall’ufficiale della Marina militare è stato provato. 97

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“Panorama”, invece, l’11 novembre del 1990, pubblica la versione sulla tragedia di Ustica fornita da un ex colonnello della Legione straniera, Guglielmo Sinigaglia. L’uomo svela alla giornalista Francesca Oldrini d’aver preso parte a un progetto ideato per eliminare il leader libico. Il racconto del teste riportato dal settimanale parte da un volo compiuto a bordo di un velivolo spia inglese del tipo “Nimrod”. «A un certo punto, siamo in volo sul Mediterraneo, saranno le 18.30 del giorno 27, ci arriva il segnale che aspettavamo: “il passerotto ha messo le ali”. Cioè Gheddafi o Jallud, non sapevamo chi fosse a bordo ma lo intuivamo, erano in volo con un Tupolev o un Antonov (…). L’abbattimento del velivolo doveva essere effettuato da un pilota libico lealista, cioè uno che è sempre stato contro Gheddafi, che opera per la causa dei nazionalisti, per il ristabilimento del potere democratico. Scorgiamo il suo Mig che si alza in volo esattamente cinque minuti dopo la prima comunicazione del decollo avvenuto (…). È subito emerso, però, un grosso problema, quello del carburante. Il pilota libico non era più in grado di abbattere l’aereo dell’eminenza, tra andata e ritorno aveva un tempo di combattimento, credo si chiami così, di soli otto minuti e inoltre l’aereo non poteva essere abbattuto nel canale di Sicilia o nel golfo della Sirte, perché lì il mare è poco profondo e ci sarebbe stato un recupero troppo veloce. Bisognava proprio aspettarlo sul Tirreno, nella zona di mare dove eravamo noi. Al che hanno dato il via all’operazione di rincalzo, già preorganizzata: dalla Corsica si sono alzati in volo tre Mirage francesi dotati di serbatoi supplementari e armati di missili capaci di centrare il bersaglio anche a 90 chilometri di distanza. In parallelo, dalla portaerei francese Foch, sono partiti altri aerei per fare gioco di scorta insieme con degli F104 decollati da Decimomannu. I Mirage della Foch dovevano prima di tutto tenere fuori dai problemi un airbus dell’Air France diretto a Barcellona, volo di cui eravamo a conoscenza. Mentre nessuno ci aveva comunicato che c’era anche un Dc 9 in volo. Dalla portaerei sovietica Kiev, che era nel golfo della Sirte, o dalla terraferma, si alzano un Mig 98

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con i contrassegni libici e non sovietici e uno Yak 36 Stol. A noi viene dato l’ordine di abbattere. Ma proprio in quel momento l’aereo di sua eminenza vira per andare ad atterrare a Malta. Sugli schermi noi abbiamo però due aerei in volo. Uno sappiamo che è l’airbus, l’altro non sappiamo che è il Dc9 Itavia. Io ripeto le cose che ho visto, per quanto ne posso capire di schermi radar, soprattutto quello che ho vissuto sentendo i dialoghi. Noi leggiamo che l’aereo di sua eminenza (Gheddafi o Jallud nda) è un aereo normale che atterra a Malta, mentre il Dc9 sembra proprio quello che aspettiamo. In compenso, però, è già scattato l’ordine di abbattere il Mig e lo Yak, un ordine che non è partito soltanto per i Mirage, gli F104 e gli aerei decollati dalla Foch, ma anche per alcuni sommergibili che si trovavano in zona. Pertanto si è scatenata una sarabanda. Morale: va giù il Dc9 Itavia, va giù un Mirage francese, va giù sulla Sila il Mig…». Anche questo scenario da guerra non trova concreto riscontro. È indubbio tuttavia che Sciò, Demarcus e Sinigaglia forniscano indizi a tratti coincidenti. Indizi degni d’essere incrociati in una spy story cinematografica. Una spy story che potrebbe rivelare significativi agganci con la vita reale… La messinscena Le forze militari per salvaguardare superiori interessi strategici dei loro Paesi hanno spesso attuato soluzioni estreme per celare operazioni “sporche”. Un caso passato alla storia, risalente al lontano 1958, merita di essere ricordato per comprendere come le messinscene facciano parte del “gioco” internazionale. Il 2 settembre del 1958 un velivolo di spionaggio elettronico statunitense, un EC130 con 17 uomini di equipaggio, penetra dalla Turchia nell’Armenia sovietica per alcune decine di miglia. Tre Mig sovietici, allertati da un centro radar militare, decollano da una base nei pressi di Erevan per intercettare il velivolo sta99

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tunitense. L’aereo americano tenta una manovra di evasione per raggiungere di nuovo il confine e il territorio turco, ma i caccia sovietici, più veloci, glielo impediscono. L’EC130 viene abbattuto. Il velivolo stava effettuando una missione per conto della National Security Agency, l’agenzia militare specializzata nello spionaggio con tecnologie avanzate. La missione consisteva, con ogni probabilità, nell’allertamento di quei radar del sistema di difesa sovietico che vengono posti in funzione solo nei momenti di crisi. I segnali radar sarebbero serviti per identificare posizione e potenza dei radar di emergenza. Ma ecco il colpo di scena. Dieci giorni dopo l’abbattimento, cioè il 12 settembre, il Governo sovietico dà la notizia che un aereo americano è caduto nei pressi di Erevan e che sei passeggeri sono morti. L’abbattimento viene presentato come un disastro. Ma non solo dai sovietici, bensì anche dagli americani. A una decina di giorni di distanza, però, l’aviazione militare statunitense rende noti i dettagli della sua inchiesta sull’incidente. Dettagli che non convincono i giornalisti del “New York Times”. Emergevano, infatti, testimonianze di alcuni montanari di Kars, una città turca al confine con l’Armenia sovietica, che avevano notato un aereo provenire dal territorio turco. Al passaggio del velivolo, secondo i testi, era seguita una esplosione. I montanari avevano successivamente visto una colonna di fumo alzarsi da dietro una catena di colline posta oltre la frontiera sovietica. Nessuno di loro aveva, tuttavia, assistito alla materiale caduta del velivolo. I giornalisti capiscono che si trattava di un’abile messinscena. Progettata per nascondere la precedente battaglia aerea costata l’abbattimento del jet statunitense. Il Presidente degli Usa, poche settimane dopo, deve spiegare alla nazione cos’era davvero avvenuto sui cieli dell’Urss. E lo fa facendo ascoltare ai suoi connazionali le drammatiche fasi dello scontro tra l’aereomobile “spia” e i “caccia” nemici, registrate da un centro di ascolto militare attivo in Turchia. 100

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Significativa la valutazione che il giudice Rosario Priore offre sull’episodio. «Le analogie tra la vicenda dell’EC130 in territorio sovietico e quella del Mig23 in territorio italiano – afferma il magistrato – sono impressionanti. Né i montanari turchi né i contadini calabresi hanno visto cadere un velivolo. Sia gli uni che gli altri hanno sentito, dietro una catena di colline e dietro una montagnola, un’esplosione (o un boato). Sia gli uni che gli altri hanno visto in corrispondenza del luogo dell’esplosione una colonna di fumo. La differenza è solo una, e non è da poco. Eisenhower, il Presidente degli USA allora in carica, decide, per pretendere dall’Unione Sovietica spiegazioni e notizie, di rendere pubbliche le registrazioni dell’abbattimento. Registrazioni effettuate da un centro di ascolto statunitense a Trebisonda in Turchia. Registrazioni ovviamente effettuate il 2 settembre e cioè ben dieci giorni prima della simulata caduta dell’EC130. La differenza è quindi questa: che qui in Italia, nessuno Stato Maggiore, nessuna Amministrazione o Governo s’è mai deciso a dire la data esatta di caduta del Mig. E di certo ben si può affermare che simulazioni di caduta di aerei sono facilmente eseguibili e ci si riusciva con buon esito anche oltre vent’anni prima dei fatti della Sila». Ma c’è dell’altro. Esiste un appunto del Sisde (Servizio segreto civile) del dicembre del 1988, nel quale si parla delle notizie fornite da un certo Roberto Denes (fonte riservata dell’intelligence) in merito alla caduta del Dc9 Itavia e alla messinscena del ritrovamento del Mig 23. Denes, identificato da Priore, è tuttavia successivamente scomparso dalla circolazione. Dunque il testimone non ha mai reso formale deposizione davanti all’autorità giudiziaria. Val la pena, però, di analizzare cosa aveva riferito agli uomini del Sisde. La “fonte” sosteneva che esistevano precise testimonianze su: «a) la precipitosa “correzione” del certificato medico stilato al momento del ritrovamento del cadavere del pilota libico; b) il 101

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volo di un elicottero militare (di tipo a doppia pala, stesso modello in dotazione alle forze armate italiane, americane e NATO) che avrebbe sganciato un bidone contenente (presumibilmente) esplosivo, il giorno prima del ritrovamento “ufficiale” del Mig libico; c) la facilità di accesso in territorio italiano di velivoli stranieri, attraverso canali aeronautici non controllati». Queste testimonianze – secondo Denes – potevano essere raccolte direttamente, e avrebbero avuto valore giacché: «a) provavano un coinvolgimento di Servizi di sicurezza, italiani ed alleati, tanto nell’abbattimento del Dc9 italiano quanto nell’abbattimento del Mig libico (coinvolgimento limitato alla copertura del fatto); b) sarebbe stato possibile sfruttare le informazioni per destabilizzare il Governo italiano; inficiare la credibilità dei singoli membri della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla tragedia di Ustica; richiedere, infine, “prove alla mano”, esorbitanti indennizzi». L’appunto del S.I.S.DE. “88 D04.4942 (B.1/4-8), 06.12.88” viene integralmente riportato dal giudice Rosario Priore. Non prova giudiziariamente nulla ma contribuisce a rafforzare l’ipotesi che la vicenda dell’aereo trovato a Castelsilano possa essere stata oggetto di manipolazioni e depistaggi. Lo stesso magistrato inquirente non nasconde le sue perplessità in merito all’atteggiamento tenuto dal Sios e dal Sismi durante le indagini svolte negli anni successivi. Priore lamenta la tardiva consegna di documenti e l’impossibilità di reperirne degli altri di fondamentale importanza. Sembra logico dedurre, però, che i servizi d’informazione non agirono all’epoca dei fatti in assoluta “autonomia”. Non è pensabile, infatti, che le notizie raccolte dagli 007 sull’abbattimento di un aereo civile e sul misterioso ritrovamento d’un Mig straniero sul territorio nazionale non siano mai arrivate all’orecchio dei massimi responsabili del Governo in carica nel 1980. Qualcuno, probabilmente, venne informato. Qualcuno che, però, non ha mai parlato. 102

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L’interesse dei servizi segreti stranieri Il ritrovamento del Mig a Castelsilano non fu una questione di poco conto. L’interesse mostrato alla vicenda dai servizi d’intelligence di altri paesi del blocco occidentale dimostra quanto questa storia fosse considerata misteriosa e controversa. Ufficialmente gli 007 israeliani, tedeschi, francesi e inglesi chiesero notizie precise in merito al tipo di velivolo recuperato e alle sue caratteristiche tecniche. In tempi di grande tensione con l’Urss e le nazioni del Patto di Varsavia, conoscere le capacità operative di aerei nemici poteva rivelarsi di vitale importanza. La Libia, tra l’altro, giocava in quegli anni un ruolo non di secondo piano nel Mediterraneo e manteneva rapporti stabili con molti stati nemici di Israele, baluardo americano in Medioriente. La nostra intelligence, tramite Sios e Sismi, inviò tutti i dati tecnici acquisiti sia agli israeliani che ai tedeschi. I dati riguardavano il sistema automatico di registrazione dei parametri di volo e un apparato di trasmissione di fabbricazione russa, che faceva parte del kit di emergenza del pilota. Agli americani furono invece inviati le mappe geografiche della zona d’impatto, il percorso prepianificato della missione, le carte afferenti le condizioni metereologiche, i risultati delle analisi campione di volo, il grafico dell’andamento delle comunicazioni, il rapporto di visita medica annuale del pilota (fornita dai libici). La sola nazione “amica” che non ricevette ufficialmente documenti e notizie fu la Francia. Perché? Il giudice Priore ipotizza per espresso divieto imposto dai libici impegnati in una guerra in Ciad contro una fazione foraggiata proprio dai francesi. È ovvio che i servizi segreti esteri non si occuparono del Mig solo per acquisire nuovi elementi sugli armamenti di nazioni ostili. Quella fu la ragione «ufficiale» destinata a rimanere agli atti. Tutti vollero probabilmente sapere, semmai, come sarebbe stato risolto il “problema” con Gheddafi e quanto e cosa il colonnello libico avrebbe preteso per chiudere la vicenda. 103

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La Cia (Central intelligence agency) fu senza dubbio l’intelligence più attiva nel luglio del 1980. Numerosi testimoni hanno riferito, infatti, della presenza di americani in Sila nella zona dove venne trovato il relitto del Mig. Dewey Clarridge, detto Duane, era, quell’anno, il capo della stazione Cia di Roma e venne subito informato telefonicamente dell’accaduto dal generale Zeno Tascio, responsabile del Sios italiano. L’alto ufficiale dell’aviazione militare gli sollecitò l’intervento sul luogo di personale statunitense per esaminare il velivolo. Clarridge, finito sott’inchiesta nel ’92 negli Usa per l’affare “Iran-Contra” e poi ritualmente prosciolto, è stato interrogato dal magistrato inquirente con rogatoria il venti maggio del ’94. La telefonata di Tascio – secondo quanto riferito dall’esponente della Cia – avvenne prima che la notizia del ritrovamento del Mig apparisse sui giornali. Lo 007, dopo la comunicazione, non chiese sull’accaduto informazioni al Sismi perché ebbe la netta sensazione che il generale Tascio non gradisse, in quella fase, che il Sismi fosse messo a conoscenza di quanto accaduto. Attenzione a questo delicato passaggio perché l’agente segreto fornisce una indicazione preziosa: le informazioni sull’individuazione della carcassa dell’aereo non erano ancora pubbliche. E non lo divennero neppure quando una squadra di specialisti americani arrivò nella Capitale. Il team era composto da quattro militari: due provenienti dagli States, uno dalla Germania e l’ultimo da Roma. «Quando questo gruppo di lavoro giunse a Roma – ha dichiarato Clarridge – la notizia della caduta del Mig23 non era ancora apparsa sulla stampa. Non lo ricordo direttamente, ma sono sicuro che, se così fosse stato, sapendo che i rappresentanti della stampa sarebbero stati dappertutto, non avrei mai autorizzato il mio personale a recarsi sul luogo». Non è finita: l’uomo della Cia rivela che tra la richiesta d’intervento avanzata dal capo del Sios e l’entrata in azione degli “specialisti” Usa trascorse più di una settimana. Tutto avvenne dunque prima del 18 luglio? Parrebbe proprio di sì. Duane Clarridge sembra certo – e lo ribadisce più 104

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volte al magistrato inquirente – che nulla fosse ancora apparso sui media. Le prime notizie sulla caduta del Mig vennero riportate dai mezzi di comunicazione di massa solo il 19 luglio. Domanda: la Cia fu perciò informata della caduta del Mig una settimana prima del ritrovamento «ufficiale»? Così potrebbe dedursi. Ma andiamo avanti. Gli esperti americani inviati in Sila non videro il cadavere del pilota, ma esaminarono il relitto che aveva insegne libiche, scoprendo che si trattava di una versione dell’aereo destinata all’esportazione e che non portava armi. Siccome allo schianto non era seguito un incendio, il team della Cia dedusse che il velivolo aveva esaurito in volo tutto il suo carburante. Sulla carcassa, inoltre, non vennero rilevati segni di un conflitto a fuoco. Ma che ci faceva, allora, un “caccia” tripolitano sull’appennino calabro? Sulle ragioni della presenza del jet in territorio italiano, Clarridge ha specificato che sia la CIA che il SIOS conclusero che si trattava di un tentativo di diserzione, anche se, secondo la sua Agenzia, un pilota libico non aveva, a quell’epoca, alcuna capacità di volare fuori dal suo spazio aereo. «Non ho conservato carte sui fatti – ha poi spiegato l’agente segreto – perché il mio Servizio non consentiva assolutamente di conservarne». Questa, insomma, la versione “ufficiale” concordata da Sios e Cia. Il responsabile della Central intelligence agency nella nostra Capitale ha parlato con il giudice Rosario Priore pure della uccisione in Italia, nel primo semestre del 1980, di alcuni oppositori di Gheddafi che erano al soldo degli statunitensi. Clarridge ha comunque smentito qualsiasi collegamento tra le azioni degli agenti libici nel nostro Paese e la strage di Ustica. E ha negato qualsiasi punto di contatto tra l’abbattimento del Dc9 e la bomba collocata il 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna. Parlando dell’abbattimento del velivolo Itavia ha ancora specificato: «Non vi erano né sensazioni né informazioni che l’evento di Ustica fosse stato cagionato da un atto terroristico. I Servizi italiani, sia il S.I.S.MI che il S.I.S.DE, non fornivano notizie in questa direzione». Ma di 105

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cosa si occupava precisamente all’epoca l’agente della Cia e perché venne allertato dal capo del Sios italiano? La “Stazione” di Duane Clarridge, dopo la chiusura dell’ambasciata Usa a Tripoli, trattava tutte le questioni riguardanti lo stato africano. «In Italia – ha specificato lo 007 – avevo rapporti con quasi tutte le divisioni del S.I.S.MI, e mantenevo rapporti personali con il Direttore generale Santovito». Tutto qua. Da un esponente del più potente servizio segreto del mondo non si poteva pretendere altro. Quanto affermato da Clarridge – come può ben comprendersi – lascia però ampio spazio a una serie di interpretazioni. La prima: i servizi d’informazione italiani lavoravano in competizione tra loro. La seconda: il Mig cadde prima del 18 luglio. La terza: nel nostro Paese agivano oppositori di Gheddafi protetti dagli americani. La quarta: la Cia sapeva che il Dc9 Itavia non s’era inabissato per colpa di una bomba. L’inganno senza fine La storia del Mig è una storia senza fine. Il caso venne chiuso per «ragioni politiche», come ammetterà un esponente del governo italiano in carica in quel tragico anno. L’Italia, dopo Ustica, venne scossa da un’altra strage, quella di Bologna, segnata da depistaggi e altalenanti decisioni giudiziarie. L’opinione pubblica dimenticò in fretta quel velivolo trovato tra i boschi della Sila. Il jet riapparve come uno spettro molti anni più tardi, quand’era davvero difficile ricostruire com’era finito sull’appennino calabrese. I testimoni scarseggiavano, molti documenti erano spariti, alcuni protagonisti passati a miglior vita. Nessun agente segreto, per quanto abile, è però riuscito a far dimenticare questa storia. L’aereo da combattimento trovato a Castelsilano può infatti essere conservato tra i pezzi pregiati del museo degli orrori dell’Italia repubblicana. Quel jet non poteva essere arrivato in Calabria dalla Libia perché non aveva carburante a sufficienza per attraversare il 106

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Mediterraneo meridionale. L’uomo che lo pilotava non era morto il 18 luglio del 1980 perché il suo cadavere presentava uno stato di putrefazione avanzato: sul corpo c’erano larve e gli organi interni apparivano liquefatti. Non solo: quel Mig era stato inseguito e abbattuto, come si evince dai sinceri e disinteressati racconti resi da numerosi testimoni. Qualcuno, oltre agli esponenti dei servizi di sicurezza, ha sempre saputo la verità ma ha sempre finto di non averla mai conosciuta. Le stesse autorità libiche, che in quel periodo erano in forte contrasto con francesi e americani, hanno sempre preferito tenere la bocca chiusa accontentandosi di chiudere l’“incidente” senza ulteriori conseguenze. Pagando, con la tecnica degli indennizzi, anche il silenzio e la benevolenza degli abitanti di Castelsilano. Tutto come in un film di spionaggio. Con una sola differenza: tra i protagonisti di questa storia ci sono ottantuno persone, morte una sera d’estate senza sapere perché. Ottantuno passeggeri del volo Itavia Bologna-Palermo. Ottantuno vittime e nessun colpevole. In pieno stile italiano… Rosario Priore chiude la sua indagine sul relitto trovato in Calabria con un amaro commento. Che merita di essere integralmente riportato e condiviso. «In conclusione si deve dire – scrive il magistrato – che più sono gli elementi di prova che quel Mig23 cadde in tempo ed occasione diversi da quelli prospettati nella versione ufficiale. Che questa versione fu generata da una obbiettiva coincidenza d’interessi di tutte le parti, soggetti attivi e passivi dell’operazione, spettatori e manovratori. Tutti, chi per un verso chi per l’altro, avevano interesse a coprire la realtà dei fatti. Fu da noi accettata per considerazioni puramente politiche e non d’altro genere. Non è affatto sostenibile, come pure s’è sostenuto, che il differimento della scoperta ufficiale derivasse da esigenze di intelligence per favorire l’alleato maggiore. Gli Stati Uniti erano già in possesso di esemplari di quella macchina che forse poteva interessare solo qualche alleato minore. Certo un interesse di carattere tecnico – come in tal senso hanno mostrato – poteva esserci negli ame107

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ricani, per accertare se vi fossero o meno delle innovazioni in quell’esemplare. Essi infatti ritirano soltanto i liquidi e qualche parte da comparare con quanto già posseggono. Al più ci danno spiegazioni per smontare e disinnescare. Certo vi era pure un interesse a comprendere – nella improbabile ipotesi, sempre da tenere in conto però, che non fossero a conoscenza dell’occasione che aveva dato luogo a quella caduta, che ha tutti i caratteri, lo si ribadisce, di un abbattimento – come potesse essere avvenuta quella penetrazione e nella più probabile ipotesi che ne fossero a conoscenza, a comprendere precedenti e conseguenze del fatto. Esigenze di intelligence, sulle quali quand’anche fossero esistite nei termini che alcuni vorrebbero, non sarebbero mai state decise dal solo livello di una forza armata. Ben altro deve essere il livello che decide di dare parti del velivolo per esigenze di quella natura a Servizi di alcuni Paesi, e negarle ad altri. Giacché con quei comportamenti, forse non lo si è compreso a pieno, si instaurerebbero e si manterrebbero – ma forse è proprio così – circuiti diretti tra Servizi, senza alcuna informazione dei responsabili politici. E che altri fossero i livelli lo si intuisce dalle parole del ministro Lelio Lagorio il quale in termini di intelligenza e lealtà politica – giacché se avesse affermato il contrario, avrebbe reso torto sia al suo ruolo che alle capacità a alle aspettative di chi persegue e s’attende la verità – ammette che il caso fu chiuso per ragioni politiche. Non si capisce però perché non emerga che esso nacque anche per cause politiche e, cosa più importante, che fu gestito secondo direttive politiche, perché di certo su scelte e decisioni che implicavano un altro Paese e in particolare la Libia appare assurdo un mancato coinvolgimento del livello politico. Castelsilano è come Ustica. I militari negano addirittura l’essenza dei fatti; asseriscono di conseguenza – non potrebbero altrimenti – di non aver riferito, perché non v’era nulla da riferire ai politici. I politici affermano – e non potrebbero altrimenti, se le cose così stanno – di non aver saputo nulla. Questa è la situazione probatoria e sulla base di essa si deve giudicare. E così apparendo la realtà, non ne 108

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può discendere, così come ne è disceso, che l’accusa contestata. Ma se la realtà fosse diversa, non si potrebbe che ribadire quanto concluso in altra parte e cioè che un senso di fedeltà ancor più che malinteso a principi estranei all’ordinamento e un conseguente spirito di supposto sacrificio in pro di coloro che così si sono salvati dall’accusa di aver saputo ed avallato, avrebbero indotto gli imputati ad altrettanto gravi condotte. Sul fatto, di fronte a una tale massa di prove, molte delle quali oggettive – le poche restanti di origine soggettiva provengono da persone del tutto immuni da sospetti, spontaneamente presentatesi, dei più disparati ambienti e luoghi, senza alcun contatto tra di loro, e pienamente concordi – si supera ogni ragionevole dubbio e si giunge alla certezza che esso non si è verificato il giorno che s’è voluto accreditare – con una messinscena quasi perfetta – è accaduto molto tempo prima, e per più versi si può anche presumere che sia capitato in quelle medesime circostanze in cui precipitò il Dc9 Itavia. Non solo: è caduto in conseguenza di abbattimento e probabilmente anche per mancanza di carburante, perché inseguito da altri velivoli da caccia, e quindi per effetto di un vero e proprio duello aereo, un episodio di natura bellica, avvenuto sul nostro territorio, ad opera di velivoli stranieri – non è assolutamente sostenibile, e non v’è alcuna prova in tal senso, che vi sia stato un intervento italiano – e quindi senza, o almeno così appare, che la nostra Difesa s’avvedesse di alcunché. Una volta escluso che il differimento della data di caduta sia stato determinato da esigenze di intelligence, nostra o di alleati, se ne deve desumere che altra fosse la ragione di questa scelta. Quello che più impressiona in questa vicenda, è l’interesse di tutte le parti – salve le dichiarazioni di accusa contro Stati Uniti da parte del leader della Jamahirija, cui però non consegue la rivelazione dei fatti e delle loro prove – a tacere. E tale interesse fortissimo e mai intaccato deve essere pari alla gravità dei fatti nascosti. Di modo che da esso ben può dedursi conforto alle ipotesi che sul 109

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piano tecnico prevalgono. L’“aggressore” non rivendica l’azione. E anche qui coloro, le Aeronautiche, che potevano porla in essere sono poco più di una. E un’azione di tal genere, se non avesse contesti innominabili, non vi sarebbe pudore a rivelarla. Giacché si verserebbe in quell’ambito che sempre più si estende delle cd. operazioni di polizia internazionale, di interventi a fini umanitari o meno, di progetti di tirannicidio, di cui si fan carico le superpotenze, che in tal modo non ricorrono più alla tradizionale guerra solenne. I rapporti tra gli Stati si modificano con rapidità, e il diritto internazionale non riesce ad adeguarsi con sollecitudine. Lo stesso è a dire della “vittima” che sul piano ufficiale concorda sulla data che è nata dalla coincidenza di interessi e sulla spiegazione dei fatti che essa stessa contribuisce ad erigere. Sul piano politico il suo leader di tanto in tanto rammenta un’altra verità e non la prova, se ne serve, senza dubbio, per lanciare messaggi ad amici, nemici e manutengoli. Noi per parte nostra, abbiamo aderito alla tesi ufficiale, ammettiamo che si tratta di una scelta politica, ma non tiriamo fuori dalla memoria – perché dagli archivi già tante circostanze sono emerse – nemmeno mezza verità. Mentre con ogni probabilità di quell’aereo conosciamo vita, morte e miracoli. Ché se poi l’innominabile fosse l’esser stato quel velivolo nel contesto della sera di quel 27 giugno 80, si spiegherebbero allora i silenzi dell’inseguitore, le grida dell’inseguito, le congetture di chi sa, e sapeva, e ha dato, mezzano per vocazione o necessità, un colpo alla botte e l’altro al cerchio».

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LA MORTE DEL GENERALE ENRICO MINO 31 ottobre 1977

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La Juventus di Giovanni Trapattoni conquista lo scudetto dopo un testa a testa durato per tutto il campionato con il Torino dei “gemelli del gol” Paolo Pulici e Ciccio Graziani. Nessuno, quell’anno, avrebbe scommesso sulla “vecchia signora” indebolita dalla cessione di Fabio Capello e Pietro Anastasi. I ragazzi del “Trap” si aggiudicano pure la Coppa Uefa, sconfiggendo un battagliero Atletico Bilbao ed i granata sono costretti ad accontentarsi solo dell’affermazione di Graziani come capocannoniere. Finiscono in serie B, invece, il Cesena, la Sampdoria e il Catanzaro. Il mondo del calcio durante la stagione ha dovuto fare i conti con due gravi lutti: Tommaso Maestrelli, mitico allenatore della Lazio campione d’Italia, muore infatti a Roma per un male incurabile il 2 dicembre 1976, mentre il simpatico centrocampista biancazzurro Luciano Re Cecconi viene ucciso da un colpo di pistola esploso da un suo amico gioielliere il 18 gennaio del 1977. Il calciatore aveva organizzato uno scherzo fatale: fingendosi rapinatore aveva fatto irruzione nell’esercizio commerciale mai immaginando d’innescare l’istintiva reazione del titolare. Nel ciclismo, Francesco Moser si laurea campione del mondo a San Cristobal (Venezuela). In televisione comincia una nuova era con la cancellazione dai palinsesti della Rai di “Carosello” e l’avvento dei moderni spot. Nascono, intanto, le prime emittenti private: Antenna 3 Lombardia, Teleradio Milano 2, Tivuesse Telesecolo. Enzo Tortora presenta sulle reti nazionali la fortunatissima trasmissione “Portobello” che riscuoterà un successo senza precedenti, mentre al cinema spopola il primo episodio della saga di “Guerre stellari”. Il mondo dello spettacolo è segnato, tuttavia, 113

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dalla morte prematura di tre star: Maria Callas, che si spegne a Parigi, Elvis Presley, che scompare a Memphis, e Charlie Chaplin, che passa a miglior vita in Svizzera dove s’era trasferito da tempo. La vita politica è segnata dagli effetti delle elezioni celebrate il 20 giugno del 1976, caratterizzate da una forte avanzata del Partito comunista, guidato da Enrico Berlinguer, dalla sostanziale tenuta della Democrazia cristiana e del Partito socialista, dal secco arretramento del Movimento sociale, che subirà la scissione di Democrazia nazionale, e dal netto calo del Partito socialdemocratico e dei Liberali. In Parlamento approdano, per la prima volta, esponenti di Democrazia proletaria e del Partito Radicale. Alla Presidenza del Consiglio c’è Giulio Andreotti, a capo di un esecutivo monocolore democristiano che conta sull’astensione di Psi, Psdi, Pli e Pri. Le Camere fanno pure i conti con lo scandalo Lockheed e il rinvio a giudizio degli ex ministri Luigi Gui e Mario Tanassi, accusati di corruzione aggravata in danno dello Stato per aver ricevuto tangenti al fine di favorire la fornitura di aerei da parte della nota fabbrica di velivoli statunitense. Per la stessa vicenda i radicali sollecitano l’imputazione del Presidente della Repubblica, Giovanni Leone. A Roma, all’università “La Sapienza”, il segretario generale della Cgil, Luciano Lama, viene duramente contestato da gruppi di autonomi e indiani metropolitani ed è costretto a interrompere un comizio. La situazione dell’ordine pubblico è segnata dall’invasiva presenza del terrorismo: mentre a Catanzaro è in corso il processo per la strage di Piazza Fontana, nel Paese vengono compiuti agguati e attentati. A Torino, le Brigate rosse ammazzano Fulvio Croce, presidente dell’Ordine degli avvocati, incaricato di designare i difensori di Renato Curcio. Il processo al leader storico delle Br viene rinviato perché i giudici popolari, per paura, rifiutano l’incarico. E sempre nel capoluogo piemontese le Br uccidono Carlo Casalegno, vicedirettore de “La Stampa”, mentre a Roma gambizzano l’esponente democristiano Pubblio Fiori e il 114

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direttore del Tg1 Emilio Rossi. Identica sorte, a Milano, tocca a Indro Montanelli, direttore de “Il Giornale”. A Napoli, invece, viene rapito Guido De Martino, figlio di Francesco De  Martino, ex segretario del Psi, che sarà successivamente rilasciato (la dinamica del rapimento non verrà mai completamente chiarita). Le forze dell’ordine, nel frattempo, assicurano alla giustizia i due più pericolosi banditi milanesi: Renato Vallanzasca e Francis Turatello, a capo di bande rivali. Il Parlamento, visto lo stato di emergenza in cui versa la Penisola, vota la riforma dei servizi segreti: vengono istituiti il Sismi e il Sisde posti sotto il controllo del Comitato esecutivo per i servizi d’informazione e sicurezza (Cesis). Ad aggravare il già complesso quadro s’aggiunge, poi, la clamorosa evasione dall’ospedale militare del Celio di Roma, di Herbert Kappler, criminale di guerra nazista e responsabile dell’eccidio delle Fosse Ardeatine. L’ex colonnello delle Ss, nel 1944, come rappresaglia per l’attentato di via Rasella costato la vita a numerosi militari tedeschi, aveva fatto giustiziare 335 prigionieri italiani in una cava adiacente la via Ardeatina. Condannato all’ergastolo dopo la guerra, aveva ottenuto di essere ricoverato al Celio perché ammalato di cancro. Kappler, al momento dell’evasione, ha settant’anni. Per trent’anni è rimasto rinchiuso nel carcere militare di Gaeta insieme con Walter Reder, ex maggiore dell’esercito tedesco, a sua volta giudicato responsabile della strage di Marzabotto. Durante la lunga detenzione ha ricevuto lettere da molti connazionali e da una donna in particolare: Annelise Wegner. Con lei stabilisce un rapporto affettivo-epistolare, tanto che la donna, il 19 aprile 1972, si presenta al penitenziario laziale con tutti i documenti necessari e sposa il recluso cominciando a visitarlo frequentemente. Quando l’uomo viene trasferito nel nosocomio militare la sua presenza si fa sempre più assidua. La mattina del 15 agosto 1977 l’agenzia Ansa batte per prima la notizia della fuga dell’ex ufficiale. La sera prima, la signora Kappler è arrivata a Roma con una valigia spiegando ai carabinieri di guardia davanti 115

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alla stanza del coniuge che serve per portar via degli indumenti. Dopo qualche ora si allontana, apponendo sulla porta della stanza un cartello con cui invita il personale a non disturbare il marito sino alle dieci del mattino. Annelise Wegner lascia la Capitale a bordo di una Fiat 132 di colore rosso. Il 16 agosto, il giorno dopo la rocambolesca fuga, la stampa tedesca scrive che Kappler è già a casa sua. Cosa sia accaduto quella notte, lo si scoprirà molti anni più tardi. Inizialmente, infatti, la moglie dell’evaso racconterà d’averlo fatto scappare aiutandolo a calarsi da una finestra. Non è così. L’ergastolano è uscito camminando lentamente, avvolto in una coperta di lana, senza che nessuno intervenisse. Da mesi ormai le autorità germaniche ne sollecitavano la scarcerazione per «motivi umanitari». Il cancelliere socialdemocratico, Helmut Schmidt, ne aveva personalmente parlato al presidente del Consiglio, Andreotti, e quattrocento deputati del Bundestag avevano scritto al Governo nostrano chiedendo che fosse autorizzato il ritorno nella patria di origine del detenuto perché «gravemente malato». Kappler, tuttavia, non poteva essere liberato, così venne inventata una soluzione all’italiana. Fu lasciato andare via nel quadro di un accordo, mai ufficialmente confermato, concluso tra i servizi di sicurezza dei due paesi. Rivelerà Annelise nel 2007: «Avvolsi il colonnello in una coperta e lentamente ci avviammo per le scale, scendendo un gradino alla volta, senza fare il minimo rumore. Giunti in macchina, distesi mio marito sul sedile posteriore e lo coprii con la coperta. Era quasi l’una di notte e io sapevo di poter contare su almeno sette ore di vantaggio: fino al controllo mattutino del prigioniero». Decisivo per il successo della fuga sarebbe stato l’ordine, dato ai carabinieri di guardia, di allentare la vigilanza. Preciserà, infatti, la donna: «Riferii di averlo calato dalla finestra perché non volevo che qualcuno fosse incolpato. Proprio per quella grave malattia, sia il Presidente della Repubblica, Giovanni Leone, che il ministro, Arnaldo Forlani, si resero conto che si trattava di un caso umanitario. Se mio marito fosse morto in carcere in Italia, il governo italiano si sarebbe trovato in 116

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grande imbarazzo con il governo tedesco dell’epoca». La fuga, però, suscita furibonde reazioni in tutti gli ambienti. E costa la poltrona al ministro della Difesa, Vito Lattanzio, agnello sacrificale immolato sull’altare della ragion di stato. Il comandante generale dell’Arma, Enrico Mino, rimuove invece tutti i comandanti della Benemerita sulla piazza di Roma: quello della VI Brigata, della Legione, del I Gruppo e della Compagnia Celio. Herbert Kappler morirà l’otto febbraio 1978 in Germania, divorato dal cancro. Il generale Mino chiuderà, invece, la sua vita terrena il 31 ottobre 1977 mentre è in visita in Calabria e sta spostandosi a bordo di un elicottero. Il velivolo si schianterà contro le pendici del monte Covello, in provincia di Catanzaro. Il contesto calabrese, l’omicidio dei carabinieri e i sequestri di persona La Calabria è un inferno. Gli equilibri criminali sono in piena evoluzione: il superboss Antonio Macrì è stato assassinato nel 1975 a Siderno, mentre il suo sodale Mico Tripodo è caduto l’anno dopo sotto le coltellate di due camorristi nell’infermeria del carcere napoletano di Poggioreale. La vecchia ’ndrangheta è stata messa da parte in ragione dei lucrosi affari che il traffico di droga e la gestione degli appalti pubblici garantiscono alla nuova mafia imprenditrice. Una mafia pronta ad uccidere anche esponenti delle forze dell’ordine per tutelare i propri interessi. A Razzà, zona rurale di Taurianova, il primo aprile vengono assassinati due carabinieri che hanno fatto irruzione in un casolare dove sono riuniti i capi delle cosche locali, interessati ai lavori della superstrada destinata a collegare l’area tirrenica del Reggino con quella ionica, ai sequestri di persona, al controllo del racket delle estorsioni. L’appuntato Salvatore Condello, 46 anni, di Palmi, è sposato con Grazia Incornovaglia, ha due figlie, Elisabetta e Rosanna, 117

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rispettivamente di 16 e 12 anni, e sta operando in compagnia del carabiniere Vincenzo Caruso, 27 anni, di Niscemi, sposato con Maria Teresa De Salvo, 19, al quinto mese di gravidanza. Con loro, sulla “Gazzella” del Nucleo radiomobile di Taurianova, c’è il carabiniere Pasquale Giacoppo, 24 anni, originario di Gesso, piccolo centro del Messinese. I militari notano in una vallata una Fiat 126 di proprietà d’un pregiudicato e decidono di compiere una verifica. Giacoppo rimane di guardia all’autoradio, Condello e Caruso si avviano verso un aranceto, dove è in corso un summit di ’ndrangheta: intorno ad una tavola imbandita ci sono undici noti malavitosi ed alcuni “ospiti” importanti. Alla vista dei carabinieri i mafiosi aprono il fuoco. Lo scambio di colpi lascia sul terreno Condello e Caruso, il sorvegliato speciale Rocco Avignone, 35 anni, e il nipote di questi, Vincenzo, 20 anni. Giacoppo, uditi i colpi, corre in soccorso dei colleghi e spara all’impazzata. Il suo intervento costringe la comitiva di criminali ad allontanarsi precipitosamente, abbandonando però sulla scena della sparatoria autovetture e documenti. L’esame autoptico eseguito sui cadaveri dei carabinieri, per ordine del Procuratore della Repubblica di Palmi, Gennaro Varriale, rivelerà che sono stati finiti con dei colpi alla testa. Non solo: gli assassini si sono pure impossessati delle loro armi d’ordinanza e dei tesserini di riconoscimento. Il comandante generale dell’Arma, Enrico Mino, giunto personalmente in Calabria dopo la tragedia, dice all’esperto cronista di Gazzetta del Sud, Luigi Malafarina: «Condello e Caruso sono stati forse più eroici di quanti li hanno preceduti sulla strada del sacrificio poiché hanno affrontato una forza di gran lunga superiore, almeno una decina di uomini, senza esitazione; perfettamente consapevoli di andare incontro alla morte. Sono caduti non senza avere abbattuto prima due delinquenti. Non si va a morire consapevolmente soltanto in odio alla criminalità o per ubbidire al regolamento, che chiede anche il sacrificio della vita se il dovere l’impone. Io credo che la morte di questi carabinieri possa essere dettata soltanto da un sentimento che sovrasta tutti gli altri. 118

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Si può rinunciare alla vita se si è mossi da infinito amore verso la propria gente». Il generale Mino poi aggiunge: «Nei quattro anni del mio comando ho accompagnato 82 carabinieri al cimitero. Sono tanti per un Paese come il nostro che si vanta maestro di civiltà. Dobbiamo dimostrare con i fatti e non con le parole che questi due militari non sono morti invano». Il procuratore Varriale e gl’investigatori della Benemerita e della Polizia di Stato si lanciano in indagini serratissime con una caparbietà senza eguali. Nei mesi a seguire la dinamica della strage viene ricostruita in tutti i suoi agghiaccianti particolari e finiscono con l’essere identificati gran parte dei partecipanti al summit di Razzà. Il territorio regionale, tuttavia, è scosso quotidianamente da crimini d’ogni genere. Il fenomeno più preoccupante è quello dei sequestri di persona. L’estate si rivela, in questo senso, caldissima. Tra il 29 giugno e il 30 agosto vengono rapite otto persone. Franco De Cicco, 27 anni, a Sinopoli; Antonio Abenavoli, 54, a San Lorenzo; Francesco Falletti, 20, a Guardavalle; Domenico Clemente, 61 a Delianuova; Armando Lanzetta, 52, a Caulonia; Mariangela Passiatore Paoletti, 43, di Cinisello Balsamo, a Brancaleone, dove si trova in vacanza; Gino Mantegna, 53, a Siderno; Giuseppe Luppino, 21, a Cosoleto. Il vicequestore vicario di Reggio Calabria, Letterio Giorgianni, afferma pubblicamente: «Ogni cittadino che gode di un discreto reddito corre il pericolo di venire sequestrato. Si rapisce una persona per cinquanta o sessanta milioni di lire. Non si rispettano neanche i forestieri. È necessario che tutti i calabresi collaborino per arginare questa ondata di sequestri che si è abbattuta sulla regione». La situazione esplosiva induce il Governo nazionale ad inviare tre contingenti di militari in Calabria (poliziotti e carabinieri) per formare squadre speciali antisequestro. L’iniziativa viene annunciata dal comandante della Legione dei carabinieri di Catanzaro, colonnello Francesco Friscia. Lo stesso generale Enrico Mino decide di tornare in Calabria per rendersi ancora una volta 119

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conto di persona di quanto sta avvenendo e di che esito stia avendo l’azione di contrasto condotta contro la ’ndrangheta e contro l’anonima sequestri. La visita viene fissata per il 31 ottobre. L’alto ufficiale si sposterà in elicottero per incontrare i responsabili dei vari reparti operanti. Ma chi è Enrico Mino? Il comandante generale dell’Arma è un militare all’antica. L’otto febbraio 1973 ha assunto l’incarico di guidare la Benemerita su proposta del Governo, dopo aver condotto una carriera di tutto rispetto. Nato a Lario, in provincia di Como, il 10 aprile del 1915, è diventato sottotenente del Genio militare nel 1936 partecipando, in pieno regime fascista, alla campagna d’Africa voluta da Benito Mussolini per dare all’Italia l’impero. Durante la seconda guerra mondiale, per il coraggio mostrato in azione, viene promosso maggiore per meriti speciali. Finito il conflitto frequenta l’accademia militare e, poi, la Scuola di guerra di Civitavecchia, la Scuola d’applicazione di artiglieria e genio e il noto “Defenser college” della Nato. Nel 1958 viene nominato comandante del Terzo corpo d’armata e, l’anno successivo, mandato nella Spagna di Francisco Franco come addetto militare, dove rimane sino al 1961. Dal 1963 al ’65 è a capo del Primo reparto dello stato maggiore dell’Esercito. Nel 1967 diventa comandante della leggendaria divisione “Folgore”, mentre nel settennato in cui il socialdemocratico Giuseppe Saragat riveste la carica di Presidente della Repubblica, diviene suo addetto militare. Enrico Mino, dopo aver successivamente assunto la guida dei carabinieri, è costretto ad affrontare con i suoi uomini l’emergenza terroristica nelle aree centrali e settentrionali della Penisola e quella mafiosa in Meridione. Non solo: in quegli anni l’Italia subisce la nefasta influenza della Loggia “Propaganda 2” del gran maestro Licio Gelli che condiziona la vita istituzionale e, spesso, determina la 120

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nomina degli alti vertici delle forze armate. Alla P2 sono iscritti cinquantasei alti ufficiali della Benemerita, otto ammiragli, ventidue generali dell’Esercito, cinque generali della Finanza e quattro dell’Aeronautica, esponenti di rilievo dei servizi segreti, potenti giornalisti, temuti uomini politici e spregiudicati banchieri. Mino deve fare i conti con Gelli, con il quale mantiene ottimi rapporti sebbene il suo nome non risulterà poi tra quelli degli affiliati alla Loggia. Nel Paese si respira pure aria di golpe: dopo il fallito progetto autoritario di Junio  Valerio Borghese, altre scure nubi s’affollano sui cieli della nostra democrazia. Nel luglio del 1974, il ministro della Difesa, Giulio Andreotti, ordina al generale Vito Miceli, capo del Sid (Servizio informazioni della Difesa) di allertare polizia e carabinieri dell’imminenza di un putsch. E di trasmettere il rapporto con cui i servizi di sicurezza annunciano una possibile «svolta istituzionale» con «un’azione di forza in direzione del Quirinale dove potrebbe essere imposto al presidente Giovanni Leone di procedere a profonde ristrutturazioni delle istituzioni statali e alla formazione contestuale di un governo di tecnici con a capo Randolfo Panciardi». Ricevuta la comunicazione, Enrico Mino non si tira indietro e, con due diverse disposizioni interne, ordina l’attuazione di dispositivi di vigilanza, da rafforzare ulteriormente nei giorni prefestivi e festivi e durante le ore notturne. Il piano eversivo non verrà attuato ma il comandante generale dell’Arma dimostrerà, in quell’occasione, l’assoluta fedeltà alla Repubblica. Le grane, però, non sono finite. Già, perché l’anno dopo monsignor Giovanni Benelli, sostituto alla Segreteria di stato vaticana, chiede al generale Mino un rapporto sulla eventuale appartenenza di prelati della Curia romana alla Massoneria. A due mesi di distanza dalla ricezione del delicato incarico, il comandante della Benemerita consegna il suo dossier dai contenuti scottanti. Nel documento, infatti, indica come presunti affiliati all’obbedienza massonica i cardinali Sebastiano Baggio, Jean Villot, Ugo Poletti (vicario di Roma), Paul Marcinkus, deus ex 121

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machina dello Ior (Istituto opere religiose), Agostino Casaroli e altre decine di religiosi. Se le circostanze riferite da Mino fossero vere non è mai stato compiutamente provato. Certo qualche effetto lo provocano: il vescovo Annibale Bugnini, protagonista della riforma liturgica, in odore di porpora cardinalizia, non solo non riceve l’ambita promozione, ma finisce esiliato nella nunziatura di Teheran. Nell’estate del 1977 l’ultraconservatore cardinale Giuseppe Siri chiede al generale di svolgere una seconda inchiesta sulle infiltrazioni massoniche nella chiesa romana. Inchiesta che, però, l’ufficiale non può concludere perché muore precocemente. L’episodio che più di qualsiasi altro mette tuttavia a dura prova Enrico Mino è l’evasione di Herbert Kappler, dopo la quale, come detto, il generale rimuove tutti i comandanti della piazza di Roma offrendo poi al governo le sue dimissioni. Che vengono respinte. Ai giornalisti, qualche settimana più tardi, dirà: «Sono provvedimenti che ho preso logicamente a malincuore, ma che riprenderei anche subito. Le negligenze sono state molto serie. Non potevo perdonare coloro che non hanno fatto i necessari controlli su come andava la vigilanza. Presentata la mia relazione ho poi chiesto al ministro della Difesa di accettare le mie dimissioni». Il gesto ne rafforzerà, al contrario, la posizione. Enrico Mino avrebbe dovuto lasciare l’incarico di comandante dell’Arma nel marzo 1978. Qualcosa sembrava però agitarlo: all’interno del Corpo, infatti, era partita la gara alla successione. I conflitti tra pretendenti apparivano accentuati e le “influenze esterne” crescevano vistosamente. C’era poi uno strano suicidio che l’aveva particolarmente turbato: quello del generale Antonino Anzà, uno dei concorrenti alla carica di capo di stato maggiore dell’Esercito, avvenuto il 12 agosto del ’77. Anzà viene trovato morto nella sua casa romana: ha un colpo di pistola in corpo. La versione ufficiale parla di suicidio ma i dati di fatto depongono in altra direzione. La vittima si è sparata dopo aver fatto una rapida colazione ed aver cucinato il pranzo. C’è un altro problema: non 122

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ha mai mostrato segni di depressione. Pochi giorni prima, in Sicilia, un suo diretto collaboratore, il colonnello Carmine Giansante, comandante dei carabinieri a Messina, si è anch’egli tolto la vita. Mino, conscio che occorra cambiare registro, presenta due piani di riforma della Benemerita. Il primo riguarda l’operazione di ammodernamento e anche di ricambio dei quadri dirigenti dell’Arma; l’altro, una sua possibile smilitarizzazione. Nel primo caso il generale esprime al Governo il suo parere favorevole; per l’attuazione della seconda ipotesi si mostra, invece, perplesso. A settembre il comandante incontra Marco Pannella, leader radicale e antimilitarista per eccellenza. Pannella sta conducendo una battaglia per far luce sulla uccisione di Giorgiana Masi, avvenuta il 12 maggio in piazza Gioacchino Belli, durante una manifestazione promossa a Roma dai radicali per celebrare il terzo anniversario della vittoria nel referendum sul divorzio. In strada, quel giorno, ci sono 5.000 agenti delle forze dell’ordine, alcuni dei quali infiltrati tra i dimostranti. All’improvviso partono dei colpi che raggiungono un carabiniere, Francesco Ruggieri, che rimane ferito ad una mano, una ragazza, Elena Ascione, colpita ad una gamba, e Giorgiana Masi, che ci rimette la pelle. Il magistrato che si occupa dell’inchiesta sull’accaduto, Claudio D’Angelo, scrive: «Mistificatori, provocatori e sciacalli, dopo aver provocato i tutori delle forze dell’ordine ferendo il sottufficiale Ruggeri, hanno atteso il momento in cui è stato deciso di sbaraccare le costituite barricate e disperdere i dimostranti, per affondare i vili e insensati colpi mortali, sparando indiscriminatamente contro i manifestanti e i tutori dell’ordine». Qualcuno, insomma, compie un’azione mirata per creare scompiglio e riproporre la mai tramontata strategia della tensione. Di questo e di altro parlano Enrico Mino e Marco Pannella. È il comandante dei carabinieri a voler incontrare l’esponente politico. Questo il racconto di Pannella: «Mino mi disse: “Sono venuto a supplicarla, onorevole, di accettare immediatamente una scorta e una scorta di carabinieri… Senta, lei lo deve fare. Non 123

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posso dirle molto di più… Io la capisco, la conosco però – vede – ieri ho giurato a me stesso e ho dato anche ordini e disposizioni che non userò più l’elicottero per qualsiasi ragione… È per dirle che se io prendo per me una decisione di questo genere, per gli stessi motivi le chiedo di accettare la scorta. Io l’ho fatto, lo faccia anche lei. Le voglio poi dire altre cose poiché ci siamo visti. Innanzi tutto ho presentato al Ministro – posso dirlo non è un segreto – due proposte di riforma dell’Arma: una con il mio parere favorevole, un’altra, succinta, con il mio parere rispettosamente sfavorevole. Ho presentato anche questa, però con un parere sfavorevole perché riteniamo che non si possa fare… Guardi, onorevole, se le dico di prendere la scorta mi deve ascoltare. In più ci rivedremo tra due settimane, perché purtroppo nella questione relativa a Giorgiana Masi ho dovuto constatare che lei ha e ha avuto ragione… Sulla scorta non mi dica di no. Io devo tornare al comando, non ho nemmeno detto che sono venuto qui. Guardi, comunque tutti quelli a novembre vanno via”. Mi disse – spiega Pannella – “tutti quelli” come se io li avessi ben presenti; è chiaro che tendeva a presentare se stesso come un generale repubblicano, un generale fedele e leale. Questo avveniva il 15 o il 18 settembre. Com’è noto il generale Mino muore il 31 ottobre, quindi 45 giorni dopo, durante un volo in elicottero. Io, appena lo venni a sapere, presi subito la parola e raccontai questo episodio». Il leader radicale, infine, aggiunge: «Ho sempre parlato dell’assassinio del comandante generale dell’Arma dei carabinieri…» Il viaggio in elicottero «Voglio che di me si dica che sono stato il comandante che maggiormente ha vissuto tra i carabinieri. Ho stretto le mani a migliaia di carabinieri. Sono stato nei posti più sperduti della Sicilia e della Sardegna. Il comandante dell’Arma non deve vivere nella sede del comando generale. Deve farsi vedere, deve sentire i pro124

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blemi dei militari in un momento così difficile per la Nazione». Enrico Mino non pensa di morire e ha ancora tanta voglia di stare accanto ai suoi uomini. Ama la vita e l’Italia. Ma compie un errore: continua a spostarsi in elicottero, non mantenendo fede all’impegno preso con Marco Pannella. La mattina del 31 ottobre 1977, alle 9.30, un velivolo Augusta “Bell 205” parte da Bari diretto a Catanzaro. A bordo ci sono il generale Mino, il tenente colonnello Francesco Sirimarco, comandante del Centro elicotteri dei carabinieri di Pratica di Mare, il tenente colonnello Luigi Vilardo, aiutante di campo del comandante generale dell’Arma, il brigadiere motorista Costantino Di Fede. Alle 12 l’elicottero atterra nel capoluogo calabrese: l’alto ufficiale ed i suoi uomini vengono accolti dal comandante della Legione, colonnello Francesco Friscia e dai suoi ufficiali. Con loro c’è pure il tenente colonnello Giuseppe Montanaro, comandante del Gruppo di Reggio Calabria. Alle 12.30 i militari pranzano al circolo ufficiali. Due ore dopo, il tenente colonnello Montanaro, a bordo di un elicottero pilotato dal capitano Clemente Gasparri, lascia il generale Mino per precederlo a Rosarno, dove alle 15 è prevista la visita ai reparti del Reggino. L’elicottero raggiunge Taurianova nei tempi previsti e atterra all’interno del campo sportivo. Alle 14.45 dal cortile della caserma “Bellamena” di Catanzaro l’Augusta “Bell 205” decolla pilotato dal tenente colonnello Sirimarco, ritenuto il migliore pilota della Benemerita e che da quattro anni accompagna in tutti i suoi spostamenti il comandante generale dell’Arma. All’equipaggio iniziale giunto da Bari s’aggiungono il colonnello Friscia e il tenente Francesco Cerasoli, in servizio al gruppo elicotteri di Vibo Valentia, che conosce a menadito la rotta. Alle 15.30 il velivolo che trasporta Enrico Mino non arriva a Taurianova e il ritardo preoccupa il comandante Montanaro che telefona alla Legione di Catanzaro per avere notizie. Alle 15.50 si decide di far partire le prime ricerche: il capitano Gasparri decolla dalla cittadina della Piana di Gioia Tau125

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ro e compie il percorso aereo a ritroso raggiungendo Catanzaro poco dopo. L’iniziativa non sortisce effetti: di Mino e degli altri componenti dell’equipaggio non c’è traccia. Alle 16.15 scatta il dispositivo di allarme generale. Il generale Mino viene dato per disperso. Gasparri segnala d’essere stato colto due ore prima, nel viaggio compiuto con Montanaro verso Taurianova, da un temporale con fulmini e tuoni nella zona delle Serre. Perfetto conoscitore della rotta, tuttavia, il capitano Gasparri spiega di aver schivato le nubi tempestose deviando il percorso. Un nubifragio aveva investito nel pomeriggio la provincia di Catanzaro. Alle 18, quattrocento carabinieri cominciano una gigantesca battuta partendo da Soriano e Laureana di Borrello alla ricerca dell’elicottero di Mino. Alle 20.30 le ricerche continuano con l’ausilio delle cellule fotoelettriche. Si ispezionano soprattutto le aree di Gerocarne, Soriano, Sorianello, Arena e Serra San Bruno. I risultati appaiono però sconfortanti: il “Bell 205” sembra essersi volatilizzato. Da Catania partono due elicotteri della Marina militare “Sh3”, specializzati nella caccia ai sommergibili che hanno il vantaggio di poter volare di notte anche in condizioni metereologiche difficili. Il temporale, infatti, continua a tormentare incessantemente il Catanzarese. Poco dopo l’una del mattino i rottami dell’Augusta vengono individuati sul pianoro di “Fossa del Lupo”, in contrada San Floro di Girifalco, alle pendici del Monte Covello. Una mano lunga e affusolata con la fede nuziale all’anulare, un orologio fermo alle ore 15, un tesserino di ufficiale superiore, un torace contro un arbusto, un casco, ferri contorti dappertutto. Una massa carbonizzata dalla quale emerge uno stivaletto da parà, membra umane disseminate nel raggio di una cinquantina di metri. È questo lo spettacolo agghiacciante presentatosi ai soccorritori. L’elicottero s’è schiantato alla velocità di 120 chilometri orari alle 15 e 12 secondi, come segna l’orologio di bordo, ritrovato tra i rottami. Molto probabilmente – pensano tutti i presenti – un banco di nebbia ha ostacolato la manovra del tenente colonnello Sirimarco. Il generale Mino ha lasciato la base di “Bellamena” 126

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quindici minuti dopo la partenza del primo elicottero dell’Arma, pilotato dal capitano Gasparri, che ha riferito di aver incontrato proprio all’inizio delle Serre un banco di nebbia e una perturbazione atmosferica con lampi e tuoni che l’hanno indotto a deviare la rotta su Lamezia Terme e puntare da lì su Taurianova. Fiutato il pericolo, Gasparri non ha voluto rischiare di attraversare la perturbazione abbassandosi sulle Serre per sfruttare un corridoio di visibilità. A un’altezza di cinquanta metri dalle vette delle colline, infatti, la visibilità per gli elicotteri è buona. Ma cosa è accaduto invece al “Bell 205”? Perché nessuno ha allertato via radio il velivolo con a bordo il comandante generale del pericolo che incombeva? Mistero. La prima ipotesi è che, ignaro delle avverse condizioni metereologiche, il tenente colonnello Sirimarco si sia venuto a trovare all’improvviso in mezzo alla nebbia ed abbia cercato d’individuare un corridoio per uscire dalla trappola, schiantandosi poi sul pianoro. Nel tragico impatto con il terreno l’elicottero è rimbalzato, andando a disintegrarsi ad una ventina di metri di distanza. Il secondo urto ha provocato l’immediata esplosione dei serbatoi ancora pieni di cherosene, squassando la cabina di volo e parte della carlinga, proiettando i corpi dei sei occupanti del velivolo nel raggio di decine di metri. Determinanti appaiono subito le testimonianze di due contadini: Antonio De Vito, 46 anni, e la moglie, Rosa Belisario, 43, di Amaroni. I due coniugi, al momento dell’impatto del “Bell 205” con il suolo, si trovano in un appezzamento di terreno di loro proprietà, a circa cinquecento metri di distanza. I testi vedono distintamente l’elicottero che vira – andando cioè contro rotta – finendo in un banco di nebbia. Poco dopo sentono un boato. Solo a tarda sera, De Vito, sceso in paese, apprende della scomparsa dell’elicottero del generale Mino e delle battute compiute dai carabinieri sulle Serre. Così si presenta ai carabinieri guidandoli fino al luogo del disastro. Ma è stato solo un incidente dovuto al maltempo? Oppure c’è stato un guasto al motore? Mistero. Altri testimoni, ritenuti non attendibili, dichiarano di aver 127

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Enrico Mino

Francesco Friscia

Francesco Sirimarco

Luigi Vilardo

Francesco Cerasoli

Costantino Di Fede

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visto girare il velivolo ben due volte sul pianoro di Fossa del Lupo come se il pilota fosse in difficoltà. Quando un elicottero è in difficoltà scatta il segnale di emergenza e viene previsto un atterraggio di fortuna grazie al sistema dell’autorotazione che permette al pilota di governare ancora, sia pure in condizioni di comprensibile impaccio, il proprio mezzo. Ma se il motore si blocca allora si può verificare che l’elicottero precipiti di colpo. Dunque, incidente o attentato? L’inchiesta Il procuratore capo di Catanzaro, Fabriano Cinque, ed i sostituti Fernando Maria Bova e Mariano Lombardi gettano le prime basi dell’inchiesta alle 3.15 del mattino, appena messo piede nella zona del disastro. La coda dell’elicottero ed i resti della carlinga sono bruciacchiati ed il primo impatto con le sei vittime è dato da un corpo completamente carbonizzato. Dalla piastrina viene identificato per quello del tenente Cerasoli, un veterano dei voli in Calabria, sposato e padre di un bimbo di soli 22 mesi. È anche riconosciuto attraverso uno stivaletto da elicotterista con il tradizionale pugnaletto da combattimento. Si raccolgono gli altri resti umani. I tre magistrati sono assistiti dal professore Corrado Docimo, primario di anatomia a Catanzaro. I resti del generale Mino vengono riconosciuti dalla giacca di colore kaki – era l’unico ad indossare la divisa di questo colore – anzi da un pezzo di giacca trovato su di un arbusto con alla base una massa sanguinolenta. Un tesserino militare, una mano con un anello all’anulare, brandelli di divisa nera indicano il colonnello Francesco Friscia. Il tenente colonnello Vilardo è riconosciuto dalle stellette con torre e dai cordoncini di aiutante di campo del generale Mino. Il brigadiere Di Fede ha invece una parte del viso intatta e viene riconosciuto anche dalle scarpe di cuoio a stivaletto tipo parà. Il tenente colonnello Siri129

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marco, invece, dai brandelli della tenuta di volo. La strisciata sul pianoro della morte– ci sono tracce abbastanza chiare, anzi un solco tracciato dall’elicottero – escluderebbe la tesi del guasto meccanico. I magistrati si chiedono immediatamente se possa esistere la possibilità di un attentato compiuto per eliminare il comandante generale dell’Arma, magari attuato facendo esplodere in volo una bomba ad orologeria. L’ipotesi, tuttavia, appare perdere subito consistenza considerata la chiarezza degli elementi acquisiti in prima battuta agli atti d’inchiesta. Determinante quanto riferito dal capitano Gasparri circa le condizioni metereologiche, ma non solo: se l’elicottero fosse esploso in volo, i resti dei sei occupanti sarebbero stati proiettati in un raggio molto più ampio e sarebbero stati piccoli brandelli, non dei tronconi come quelli raccolti a venti, cinquanta, settanta metri dal velivolo. Non ci sarebbe stato inoltre l’incendio dei serbatoi ed il corpo del povero tenente Cerasoli non sarebbe stato completamente carbonizzato. Per non parlare poi dei sistemi di sicurezza dell’Arma. L’elicottero è partito da Bari ed è atterrato nel cortile della caserma di Catanzaro, dal quale s’è levato in volto alle 14.45 senza mai essere perso di vista dal personale di sorveglianza. La decisione di decollare dal capoluogo calabrese è stata, tra l’altro, tanto improvvisa che i due elicotteristi, Di Fede e Cerasoli, si sono portati dietro la colazione – pane e prosciutto – bottiglie di acqua minerale e bicchieri di carta, tutti poi rinvenuti accanto ai rottami. I magistrati cominciano dunque a convincersi che non si sia trattato di un’azione di sabotaggio ma di un incidente dovuto alla nebbia ed al temporale. E se qualcuno avesse abilmente manomesso gli strumentari di bordo? È difficile pensare, infatti, che un pilota così esperto come il tenente colonnello Sirimarco possa aver compiuto un errore tanto grossolano da far finire l’elicottero contro il pianoro di Fossa del Lupo. Semmai, proprio perché c’era un banco di nebbia e occorreva a tutti i costi salvaguardare la propria vita e quella del 130

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Comandante generale, l’ufficiale avrebbe dovuto rinunciare, per logica, a soluzioni improvvisate. A bordo, tra l’altro, Sirimarco poteva contare sull’esperienza ed i suggerimenti del tenente Cerasoli, profondo conoscitore delle rotte calabresi. Il co-pilota poteva consigliargli una deviazione di rotta, da attuare in tempi rapidissimi, indicando lo stesso percorso scelto dal velivolo pilotato dal capitano Gasparri. Oppure Sirimarco avrebbe potuto attivare il cosiddetto “volo strumentale”, previsto in condizioni di difficoltà, e attuato attraverso l’apparecchiatura in dotazione, rimanendo però in costante collegamento radio con i centri di controllo. L’orizzonte artificiale, l’altimetro, il variometro e il virosbandometro sono infatti gli strumenti principali impiegati per avere rispettivamente indicazioni di riferimento al suolo, all’altitudine e al rollio; così come la bussola e la radiobussola, l’indicatore di velocità verticale, e l’indicatore di velocità relativa (in avanzamento) servono per l’orientamento. E invece… muoiono tutti. Il leader radicale, Marco Pannella, appresa la notizia del decesso di Mino, chiede al Presidente della Camera e al Presidente della Commissione Difesa la convocazione della stessa Commissione per «prendere in considerazione la situazione determinatasi con la scomparsa del generale Mino. Il gruppo radicale chiede che il Parlamento sia immediatamente informato delle candidature alla successione. Se anche Mino non fosse stato assassinato ieri, c’era stato chi aveva tentato di farlo moralmente e politicamente, in ogni modo, a lungo, nei mesi scorsi». Il giornale “Lotta Continua” nel suo editoriale di prima pagina scrive: «La versione ufficiosa del disastro aereo in cui è morto il generale Mino è quella dell’incidente, forse di un fulmine che ha colpito l’elicottero durante il temporale che investiva la Calabria. Resta il quadro in cui si colloca questa morte. Ed è il quadro di un’aspra lotta in seno alle gerarchie militari, alla Dc, alle forze annidate nei corpi armati di questo Stato, che ha per posta il comando della repressione in Italia. Qualunque sia la causa della morte è assolutamente chiaro che la sua fine politica era stata preparata da 131

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tempo, dal momento – primavera scorsa – in cui era scattata sulla stampa di destra una campagna per le sue dimissioni». Durissimo il “Manifesto”: «La morte di Mino suscita gli stessi interrogativi sorti in casi analoghi accaduti in questi ultimi anni. Anche qualora non emergessero elementi che possano far pensare a un incidente predisposto ad arte, la storia del nostro Paese ci induce a non accontentarci delle versioni ufficiali. La morte del comandante generale dei carabinieri provoca, e ha già provocato, l’acutizzarsi delle violente faide interne al vertice dell’Arma. È dall’estate che si parla della lotta per la successione e in questi mesi abbiamo assistito a molti avvenimenti oscuri: prima le dimissioni fantasma di Mino, poi il suicidio del generale Anzà, la fuga di Kappler, le querele, le dichiarazioni di guerra tra generali». Nonostante il rincorrersi per settimane di voci e sospetti, sia la perizia disposta dalla magistratura di Catanzaro che l’inchiesta condotta dalla Commissione ministeriale concludono per la casualità della tragedia. Il sabotaggio viene escluso senza timori di smentita. Il posto del generale Enrico Mino viene assegnato al generale Pietro Corsini, comandante della Scuola di guerra di Civitavecchia. Alle vittime verrà dedicato un sacrario nella zona del disastro. Il comandante generale della Benemerita sarà sepolto nel cimitero di Esino Lario (Como), suo luogo d’origine. Le testimonianze Il generale Gianadelio Maletti, nel marzo 1997, viene ascoltato a Johannesburg dalla Commissione d’inchiesta sulle stragi e il terrorismo, presieduta dal senatore Giovanni Pellegrino. Maletti si è rifiugiato in Sudafrica per sfuggire alla giustizia italiana. Indicato come membro della Loggia Propaganda 2 – circostanza che ha sempre negato – l’ex ufficiale dell’Esercito è stato, dal 1971 al ’75, capo del Reparto “D” del Sid (il servizio segreto 133

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italiano) divenendo poi, con il grado di generale, il numero due della nostra intelligence. Memorabili i suoi contrasti con il capo del Sid, il generale Vito Miceli, che era assolutamente filo arabo mentre lui era legatissimo alla Cia statunitense ed al Mossad israeliano. Maletti – indicato dal pentito siciliano Francesco Di Carlo come mandante dell’omicidio del giornalista Mauro De Mauro, soppresso, a suo dire, perché aveva scoperto l’esistenza del “Golpe Borghese” – rivela che la Cia voleva creare, negli anni ’70, in Italia, attraverso la rinascita di un nazionalismo esasperato e, con il contributo dell’estrema destra, condizioni capaci d’impedire lo scivolamento a sinistra del nostro Paese. In questo senso l’ex alto funzionario del Sid spiega che la strage di piazza Fontana era stata voluta dalla Central Intelligence agency con l’intento di creare un clima di paura che portasse ad una svolta autoritaria e anticomunista. Alla Commissione parlamentare d’inchiesta parla del generale Enrico Mino, indicandolo come referente militare di Aldo Moro. La sua deposizione non offre tuttavia elementi determinanti per far luce sulla tragica fine del comandante generale dell’Arma. Ma ecco cosa dichiara Gianadelio Maletti: «Io conoscevo personalmente il generale Mino, ero suo amico. Se ci sono stati dei dubbi – credo che sussistano – sulla strana morte del generale Mino, avvenuta in un terreno non particolarmente difficile, la cosa non è mai stata chiarita. È sembrato strano che l’elicottero sia esploso, sia caduto in quelle condizioni tragiche. Non potrei però esprimermi in merito perché, tra l’altro, nel 1978 non ero più nel servizio e non ho seguito questa vicenda con interesse professionale». Nessuno, tuttavia, può offrirci una visione più chiara di cosa avvenne il 31 ottobre 1977 dei giornalisti che si occuparono della vicenda. Diego Minuti ed Enzo Cosentino furono i primi giornalisti ad arrivare sul luogo della tragedia. Racconta Minuti, all’epoca alla Gazzetta del Sud e oggi all’Ansa: «Quella sera stavo seguendo un consiglio comunale a Catanzaro, uscii a tarda ora, passai davanti alla caserma dei carabinieri e vidi scendere il ca134

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pitano Stefano Orlando, non in divisa, teso, che quasi piangendo mi disse: “Li hanno trovati, tutti morti, sono a Monte Covello”. Tornai in redazione e mi misi in macchina con Enzo Cosentino. Con la mia Autobianchi A112 andammo verso monte Covello, seguendo una strada tortuosa in cui la visibilità era scarsissima per via della nebbia. Non fu facile raggiungerlo. Ci fermarono i carabinieri davanti al luogo del disastro: pure il pianoro di Fossa del Lupo era avvolto da una cappa di nebbia. Rimanemmo lì per due giorni. Il primo magistrato ad arrivare fu Fernando Bova, sostituto della Procura. Un ottimo magistrato, scrupoloso, lontano da giochi di potere e interessi oscuri. L’inchiesta che condusse non rilevò alcuna responsabilità specifica se non un errore umano dovuto alla nebbia. L’elicottero non aveva fiancheggiato il costone ma gli era finito contro. Io stesso, visto il tempo che c’era quel giorno, ritengo più che plausibile l’ipotesi dell’incidente: la nebbia era molto fitta, noi stessi avevamo avuto difficoltà a salire. C’era tantissima umidità. I due piloti che erano alla guida dell’elicottero erano esperti, ma le condizioni perché potessero compiere un errore c’erano tutte. In quella zona i banchi di nebbia si formano improvvisamente. Insomma, le condizioni atmosferiche erano confacenti al tipo d’incidente. L’elicottero non esplose in volo perché le parti del velivolo erano rimaste di grandi dimensioni, così come i resti dei corpi. E non furono rilevate tracce di esplosivo. Escluderei, dunque, un attentato compiuto con una bomba. Certo non mi sento di escludere il sabotaggio del velivolo. Queste le mie impressioni tornando con la memoria a quei giorni lontani». Esclusa l’esplosione in volo, si trattò d’un sabotaggio? Non lo sapremo forse mai…

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LA FRECCIA DEL SUD E IL GOLPE DELLA ’NDRANGHETA 22 luglio 1970

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Il 21 aprile del 1967, i colonnelli greci, guidati da Georgio Papadopulos, prendono il potere nella terra di Socrate e Platone e la loro ascesa viene salutata con entusiasmo e soddisfazione dalla destra italiana. In Europa più di uno Stato è retto da regimi: in Portogallo governa il dittatore Antonio Salazar, mentre in Spagna il caudillo Francisco Franco è saldo al potere. L’Italia potrebbe perciò presto trasformarsi in una nuova potenza fascista mediterranea. Eliminando i comunisti e abbattendo il sistema partitocratico. Non sarà così, anche se Junio Valerio Borghese, ufficiale di Marina pluridecorato e capo della disciolta Decima Flottiglia Mas, lavorerà concretamente a un progetto golpista da attuare nel dicembre del 1970. Per favorire l’iniziativa eversiva verrà così attuata la cosiddetta “strategia della tensione”. Nel secondo semestre del 1969 saranno compiuti ventidue attentati di matrice terroristica. Il 15 aprile, a Padova, viene fatta esplodere una carica di esplosivo nello studio del rettore dell’ateneo, Guido Opocher. Il 25 aprile, anniversario della Liberazione, una bomba scoppia alla Fiera di Milano, distruggendo lo stand della Fiat e ferendo venti persone. Poche ore dopo, un altro ordigno deflagra alla stazione centrale danneggiando gli uffici della Banca Nazionale delle Comunicazioni. Il successivo 8 agosto vengono fatte esplodere otto bombe su vari convogli ferroviari, mentre attentati dinamitardi vengono portati a termine contro gli uffici giudiziari di Milano e Torino. Negli ambienti investigativi viene accreditata la pista anarchica e svalutata quella che porterebbe verso ambienti neofascisti. A dicembre gli strateghi del terrore completano la loro opera piazzando una bomba in un’agenzia bancaria di piazza Fontana a Milano. 139

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L’Italia è nel caos, il senso d’insicurezza diffuso. L’obiettivo è proprio quello di creare uno scenario che giustifichi l’avvento di una dittatura militare in grado di riportare l’ordine. Il colpo di stato previsto per il dicembre del 1970 prevede pure l’intervento della ’ndrangheta e della mafia siciliana. I padrini delle consorterie criminali sono chiamati a fornire manovalanza per neutralizzare eventuali sacche di resistenza. E a quanto pare sono ben lieti di farlo: dall’instaurazione d’un regime totalitario, infatti, i mafiosi calabresi e siciliani guadagnerebbero l’annullamento di tutte le condanne incassate negli anni precedenti e, dunque, un nuovo ruolo sociale apparentemente “pulito”. Al progetto, secondo quanto riferito da Giacomo Lauro, mafioso di rango di Reggio Calabria, aderiscono i fratelli De Stefano, capi dell’omonima consorteria e destinati lentamente a scalzare i vecchi capibastone Antonio Macrì di Siderno e Mico Tripodo di Sambatello. I De Stefano s’infiltrano con i loro uomini nella rivolta scoppiata in riva allo Stretto fomentando disordini e favorendo la realizzazione di attentati, attuando così le indicazioni di un piano preciso di destabilizzazione esteso a tutto il Paese. Racconta Lauro: «Anche i De Stefano avevano dato il loro parere favorevole a quel famoso colpo di stato di Junio  Valerio Borghese che poi scese pure a Reggio dove tenne un comizio». Il pentito riferisce della presenza nella città dello Stretto di Pierluigi Concutelli e Stefano Delle Chiaie, anche se non fornisce notizie utili per meglio comprendere il livello del legame all’epoca stretto tra l’eversione nera e le cosche reggine in relazione al mancato putsch. Lauro nel corso della sua collaborazione rivela anche inquietanti particolari sull’unica strage compiuta in Calabria in quel periodo, quella causata dal deragliamento del treno “Freccia del Sud”. Strage intimamente collegata – come detto – ai moti scoppiati a Reggio e sfruttati dai golpisti per alimentare ancor di più il clima di latente instabilità nella Penisola. L’ex boss dice ai giudici: «Ho sentito il dovere di parlare di queste cose proprio per mettere una parola di verità sulla strage di Gioia Tauro, perché potevo fare 140

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benissimo, potevo non dir nulla tanto ormai era quasi acquisito che era stato un disastro dovuto a due persone che guidavano il treno… Ho maturato lentamente… Ho maturato lentamente perché uno quando fa un passo deve essere consapevole e cosciente… Io le sono sincero: se avessi saputo che questo esplosivo doveva creare la strage del treno non glielo avrei mai dato…». I golpisti, la mafia e la ’ndrangheta Del progetto di golpe ideato da Borghese non parla però solo il pentito “infame” di Reggio Calabria, ma pure un mammasantissima. Il 16 aprile del 1986, nell’aula bunker dell’Ucciardone, è il capo dei corleonesi, Luciano Liggio, a riferire ai giudici di Corte d’assise impegnati nel processo contro mandanti ed esecutori dell’omicidio del giudice Cesare Terranova, quello che sa: «Nel 1970 i politici volevano portare il Paese sull’orlo dell’irreparabile. Avevano chiesto uomini e armi e gli fu detto che io ci stavo. E mi promisero la libertà. Ma quando vennero a trovarmi a Catania non li ricevetti. Non mi sono lasciato comprare. Non ho voluto portare l’Italia sotto un regime di dittatura». Prima di lui Masino Buscetta aveva confessato a Antonino Caponetto e Giovanni Falcone che quell’anno (il 1970) era stato contattato a New York da Salvatore Greco, che viveva in Perù, perché dovevano urgentemente tornare a Palermo per discutere di una questione importantissima. I due partirono dalle due diverse aree dell’America con passaporti falsi e s’incontrarono a Zurigo. Dalla città svizzera si diressero in macchina verso Catania dove li aspettava proprio “Lucianeddhu” e in un palazzo di via Etnea parteciparono a un summit. C’erano Pippo Calderone, Liggio, Giuseppe di Cristina, Totò Greco, Gaetano Badalamenti e tanti altri. L’ordine del giorno della riunione riguardava la possibilità di partecipare a un rovesciamento dello stato democratico a beneficio di un governo «forte». Il piano, ordito dal principe Junio Valerio Borghese, prevedeva l’impegno 141

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per Cosa nostra di duemila uomini con la prospettiva di ottenere, in cambio, una revisione benevola delle sentenze emesse contro tutti i mafiosi. Primo fra tutti doveva essere «aggiustato» il processo conclusosi con la condanna all’ergastolo di Vincenzo Rimi, rispettato patriarca di Alcamo, e del figlio Filippo. I boss decisero di offrire la loro disponibilità ma chiesero un incontro a Roma con Borghese. L’ideatore del golpe glielo accordò e, quando se li ritrovò di fronte, stabilì le cosiddette “regole d’ingaggio”. I picciotti avrebbero appoggiato con la loro forza militare i golpisti siciliani ottenendo, alla fine, dal nuovo governo l’agognata revisione dei procedimenti. Il Principe però, prima di sigillare lo scellerato patto volle precisare: «S’intende però che se quando noi saremo al governo avverranno altri omicidi, polizia e giudici non potranno stare a guardare». Come dire: vi grazieremo, ma non dovrete abusarne. Pure la ’ndrangheta calabrese venne chiamata alle armi. A Reggio, in occasione dei moti, erano confluiti esponenti di primo piano della eversione nera. Ospite fisso nella città dello Stretto era persino Pierluigi Concutelli, che passerà poi alla storia come lo spietato assassino del giudice Vittorio Occorsio. I rapporti tra i movimenti extraparlamentari e il gruppo guidato da Paolo De Stefano furono immediati e andarono sempre più consolidandosi. Così, quando fu il momento di preparare l’esercito della rivolta vennero stretti accordi precisi: i padrini calabresi avrebbero dovuto offrire da 1500 a 4000 soldati. È Vincenzo Vinciguerra, un tempo coordinatore di Ordine Nuovo nel Veneto, a rivelarlo al giudice istruttore milanese Guido Salvini. «Quando fu tentato il golpe Borghese – racconta – un gruppo di uomini calabresi venne mobilitato, armato e tenuto a disposizione per raggiungere determinati obiettivi, che poi vennero abbandonati a seguito di un contrordine. I calabresi vennero convocati da due boss della ’ndrangheta. Ho ricevuto conferma di questo scenario all’interno del carcere da una persona che vi era stata personalmente interessata. La mobilitazione avvenne nella provincia di 142

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Reggio Calabria e si trattava di un gran numero di uomini armati. In Calabria venne fatto riferimento alla possibilità di mobilitare fino a 4000 uomini, sempre appartenenti alla ’ndrangheta, ove la situazione politica lo avesse richiesto. Ciò avvenne contro quella che era stata la realtà storica, e cioè una certa azione di contrasto nei confronti dei gruppi mafiosi attuata durante il regime fascista. Insomma, il neofascismo si trovò, ad un certo punto, vicino alle organizzazioni storiche della criminalità italiana, in nome di un esasperato anticomunismo e della salvaguardia di tradizioni e valori, che queste organizzazioni sembravano voler difendere e talvolta incarnavano». L’interesse di organizzazioni di vario genere all’attuazione del colpo di Stato è stata confermata successivamente anche da Carmine Dominici, esponente in quegli anni della estrema destra reggina. «Anche a Reggio Calabria», ha dichiarato Dominici al giudice Salvini, «nel dicembre del 1970 eravamo in piedi tutti pronti per dare il nostro contributo. Venimmo informati che erano arrivate delle divise da carabiniere e che saremmo intervenuti in pattuglia con loro, anche in relazione alla necessità di arrestare avversari politici che facevano parte di certe liste che erano state preparate. Restammo mobilitati fin quasi alle due di notte, ma poi Felice Genoese Zerbi ci disse di andare tutti a casa». Guido Salvini, autore di una elefantiaca inchiesta sugli anni della strategia della tensione e il terrorismo nero, nella sua istruttoria scrive: «Era garantito l’appoggio in forze delle organizzazioni storiche della criminalità organizzata, mafia e ’ndrangheta, incaricate a Roma come in Calabria dei lavori più sporchi, quali l’eliminazione di alte personalità istituzionali, come il capo della polizia Angelo Vicari, evidentemente non allineato alla congiura e la cattura degli esponenti dell’opposizione. Non si può certo continuare a sostenere che quanto è avvenuto quella notte nel nostro Paese, sia stato solo il sogno di qualche ufficiale in pensione, o un tentativo buono solo per la sceneggiatura di qualche film di costume». 143

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Anatomia d’una tragedia «Chiudere gli sportelli, chiudere gli sportelliii»: la voce del controllare rimbomba tra i vagoni della “Freccia del Sud”. Bisogna partire, raggiungere in fretta il Continente, per mantenere la tabella di marcia e indovinare quello strano gioco di scambi e snodi che caratterizzano la linea ferrata nazionale. Il treno deve risalire lentamente la Penisola, attraversando terre povere di ricchezze economiche ma gonfie di bellezze naturali. L’ultima tappa è Torino, antica capitale sabauda e icona dell’Italia industriale, la prima Siracusa, città greca del tiranno Dioniso e patria dell’immortale isola d’Ortigia. Gli scompartimenti trasudano d’umanità: il caldo asfissiante fa mancare il respiro e i passeggeri cercano di farsi largo tra i bagagli stipati ovunque. Il sole brilla alto mentre un leggero vento di scirocco sembra, solo a tratti, introdursi tra i corridoi delle carrozze, attraverso i vetri destinati a rimanere spalancati pure di notte. Chi prende quel treno diretto al Nord sa di dover affrontare quasi una traversata nel deserto. I termos preparati a casa serviranno ad alleviare le fatiche e le sofferenze di un viaggio che sembra interminabile. Quell’estate, però, è diversa. Pure i siciliani appaiono più fieri del solito: la magica notte di Città del Messico, la storica sconfitta inflitta alla Germania, rimbomba nella testa di tutti. Che notte quella notte, raccontata dalla voce inconfondibile di Nando Martellini, telecronista della Rai chiamato a narrare, minuto per minuto, agli increduli italiani il riscatto dell’Italia, sbeffeggiata, quattro anni prima, in Inghilterra. “Boninsegna ha saltato giusto… passaggio… Rivera… rete! Rivera! 4 a 3! 4 a 3… gol di Rivera! Che meravigliosa partita… ascoltatori italiani! Non ringrazieremo mai abbastanza i nostri giocatori per queste emozioni che ci offrono. Guardate Rivera… la finta che sbilancia Maier. 4 a 3 per l’Italia… ha segnato Rivera! Siamo al sesto minuto…”. Era andata così: avevamo conquistato la finale contro il Brasile di Pelè. Una finale che avremmo perso 4 a 1, ma ne era valsa la 144

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pena. La vita era bella anche per questo, perché si poteva segnare e sognare senza perderci nulla. Guardare una partita in televisione significava riunirsi con i propri cari e gli amici, riassaporare quel gusto della festa che si prova solo la notte di Natale. I diciotto vagoni della “Freccia del Sud” lasciano la stazione di Palermo in orario, alle 10.05, cominciando la loro corsa verso Siracusa e poi Messina. L’atmosfera, tra i viaggiatori, è allegra, si respira ottimismo soprattutto tra i cinquantaquattro isolani diretti a Lourdes in pellegrinaggio. La visita alla cittadina francese, teatro di un’apparizione mariana, suscita speranze e suggestioni. Dopo la prima ora di viaggio i pellegrini decidono di recitare il Rosario. È frate Placido, direttore del pellegrinaggio, a suggerire l’idea per ingannare il tempo e rinforzare la fede. Lui, d’altronde, è abituato: nel suo convento di via Alloro a Palermo snocciolava i misteri almeno cinque volte al giorno. Liborio Rivelli – questo il suo vero nome – era entrato nella famiglia di Cristo per vocazione e non per convenienza. Al contrario di molti sacerdoti, spinti verso Santa Romana Chiesa più per avere un comodo posto di lavoro che per illuminazione divina, spendeva tutte le sue energie vitali al servizio del prossimo. Indossava il saio e osservava la penitenza, invocava il buon Dio e i santi protettori non per se stesso ma per gli altri. Quelli a Palermo erano anni difficili: s’affacciava la nuova mafia corleonese abituata a guadagnare spazi a colpi di mitra, che puntava a fare sindaco il democristiano Vito Ciancimino, mentre boss del calibro di Gerlando Alberti, Tano Badalamenti e Paolino Bontate andavano a braccetto con gli uomini più influenti di Palazzo dei Normanni. I politici pensavano molto a se stessi e poco alla gente comune. A quella gente alla quale lui, invece, serbava attenzione e offriva conforto. In uno scompartimento del nono vagone, Maria Vassallo, 22 anni, maestra di Agrigento, chiacchiera amabilmente con Letizia Palumbo, quarantottenne casalinga di Casteltermini, della nuova star televisiva del momento: Raffaella Carrà. La soubrette aveva conquistato il pubblico italiano con il programma “Io Agata e tu”, 145

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condotto da Nino Ferrer, e s’apprestava a spopolare con il popolarissimo “Tuca Tuca”. A Letizia piace molto anche Jim Hendrix, il chitarrista maledetto che con la sua Fender Stratocaster sta ipnotizzando l’intera Europa. Andrea Cangemi, 60 anni, ex direttore di banca, discute invece pochi metri più avanti, nel corridoio della carrozza, con Rosario D’Agostini, residente a Druento, in provincia di Torino, dello scudetto vinto meritatamente dal Cagliari, trascinato alla vittoria finale da “rombo di tuono”, quel Gigi Riva poi incontrastato protagonista dei mondiali messicani. La squadra sarda è guidata da Manlio Scopigno, mentre vera autorità in campo è Pierluigi Cera. Il team ha conquistato il tricolore in una memorabile partita disputata allo stadio “Amsicora” il 12 aprile, battendo il Bari per due reti a zero. A Rita Cacia, 38 anni, di Bagheria, affacciata al finestrino del portellone d’ingresso della carrozza, piacciono tanto Lucio Battisti e Adriano Celentano. Il primo miete successi con quella canzone sui fiori di pesco. Fa così: “Fiori rosa fiori di pesco c’eri tu… Fiori nuovi, stasera esco, ho un anno in più…”. Il ritornello è assolutamente orecchiabile e Rita lo canticchia a mezza voce. Del “molleggiato”, invece, l’ha colpita la canzone sul lavoro e l’amore. Il testo è semplice semplice, facile da mandare a memoria: “Chi non lavora non fa l’amore! Questo mi ha detto ieri mia moglie! A casa stanco ieri ritornai mi sono seduto… niente c’era in tavola arrabbiata lei mi grida che ho scioperato due giorni su tre…”. Quel brano l’inorgoglisce perché sembra restituire forza e un pizzico d’importanza alle donne per troppo tempo messe da parte, relegate a far da comparsa nella vita degli uomini. A Nicolina Mazzocchio, 70 anni, di Casteltermini, accomodata sullo scomodo sedile dell’angolo forse più affollato dell’intero convoglio – perché occupato da una coppia siciliana in viaggio con i suoi sei vispissimi figli – suscitano emozioni due interpreti melodici: Nicola Di Bari e Domenico Modugno. Il primo l’ascolta ogni giorno alla radio con la gettonatissima “La prima cosa bella”; l’altro, invece, la commuove con “La lonta146

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nanza”, una canzone che le ricorda la giovinezza e tante persone passate ormai a miglior vita. Quando il treno arriva alla stazione di Messina, le carrozze sfilano accanto ai grandi cartelloni cinematografici e i duecento passeggeri si voltano istintivamente a guardarli. Sono belli, colorati. Su uno sfondo rosso compaiono un uomo e una donna abbracciati, sotto figurano i nomi degli attori, Tony Musante e Florinda Bolkan, poi il titolo del film: “Anonimo veneziano”. A fianco, su un manifesto arancione, se ne sta sdraiato un cow boy, trascinato da un cavallo, che poggia i piedi sul titolo del film: “Lo chiamavano Trinità”. È un western interpretato da Terence Hill e Bud Spencer, due attori simpatici, specializzati nelle scazzottate. Il terzo cartellone appare più triste e inquietante: c’è uno sfondo nero e, in mezzo agli occhi gialli di un felino, compare il volto di una donna con due mani strette al collo. Il titolo del lungometraggio, scritto a lettere rosse, è “Il gatto a nove code”, un giallo diretto da Dario Argento. Infine, con le mani legate dietro la schiena, nell’ultimo manifesto pubblicitario di colore giallo intenso, compare una indiana protagonista di una pellicola intitolata “Soldato blu”. Racconta degli indiani e delle atrocità che avevano subito. Quelle stampe mettono voglia di andare al cinema e molti tra i viaggiatori pensano di farlo non appena avranno raggiunto le località desiderate. Ormeggiata alla banchina, intanto, si dondola nelle calme acque del porto peloritano la traghetto “Igina”, su cui le carrozze devono essere imbarcate. La nave è imponente e reca il nome, scritto con vernice blu, lungo le due fiancate. Appoggiati alle ringhiere esterne del ponte di comando ci sono il primo ufficiale e il suo secondo, intenti ad aspirare avidamente la nicotina di due sigarette appena accese. In basso, all’entrata semovente della stiva, sostano con aria stanca il mozzo e tre marinai che hanno il compito di seguire le operazioni di caricamento dei vagoni. Quella è la fase più lunga e seccante del traghettamento. Una fase che i viaggiatori decidono di sopportare salendo nei saloni dell’“Igina”. Le navi in servizio nello Stretto offrono, peraltro, ottimi prodotti di 147

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ristorazione. E molti ne approfittano addentando fragranti arancini al pomodoro innaffiati da una bibita fresca. L’approdo a Villa San Giovanni avviene mezzora dopo, senza intoppi. La “Freccia del Sud” viene posizionata sui binari in tempi relativamente rapidi. Negli scompartimenti, in attesa della partenza, i viaggiatori combattono la noia scambiandosi le riviste popolari. Piene di fotografie e curiosità, sembrano fatte apposta per essere lette sui treni. Ampi servizi sono dedicati a Solvi Stubing, la bionda del carosello Peroni che reclamizza sensualmente la birra italiana. “Chiamami Peroni, sarò la tua birra”, dice l’attrice straniera avvinghiata a una bottiglia di Nastro Azzurro. La sua interpretazione pubblicitaria che tanto piace agli uomini è, invece, contestatissima dalle femministe che protestano definendo l’interprete una «donna oggetto». Pure la Chiesa non digerisce lo spot che giudica troppo esplicito a causa di quello strano abbraccio alla bottiglia fatto dalla protagonista con un ciuffo di capelli calato sull’occhio destro. Sulle pagine patinate ampia attenzione è riservata pure al tenebroso attore Gian Maria Volontè, protagonista del film “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”, vincitore del premio Oscar come migliore pellicola straniera. Volontè è parecchio discusso per le simpatie mostrate verso il mondo della sinistra extraparlamentare e la sua love story con l’attrice Carla Gravina. Gli inserti della cultura sono invece dedicati a Giuseppe Ungaretti, poeta sensibile, morto a 82 anni il due giugno. *** La stazione di Villa è piena di poliziotti e carabinieri. Sembra in stato d’assedio. A Reggio Calabria, il quattordici luglio, sono scoppiati i moti dopo un comizio tenuto dal sindaco, Pietro Battaglia. Il bigliettaio del treno lo spiega a frate Placido, incuriosito e preoccupato dalla presenza di tanta gente in armi. Battaglia aveva annunciato ai reggini che il capoluogo della regione non sarebbe stata la città dello Stretto ma Catanzaro. Per il fiero popolo locale, 149

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che si vantava d’aver abitato nell’ultimo centro che s’era arreso ai romani durante la conquista dell’Italia meridionale, d’essere stato protagonista della resistenza agli angioini, di aver combattuto contro i turchi, di essersi opposto sull’Aspromonte ai mille “liberatori” in camicia rossa ferendo persino Giuseppe Garibaldi e, durante la Seconda guerra mondiale, d’aver tentato di arginare tra le montagne dello Zilastro, insieme con un battaglione di paracadutisti della “Nembo”, l’avanzata degli anglo-americani, una offesa del genere, un sopruso di questa fatta non può andare giù come se fosse acqua minerale. Il sindaco, che aveva svolto intensa attività politica nel consiglio comunale e nel sindacato, veste la giubba democristiana ma appare in posizione di contrasto con gli uomini politici che determinano le fortune e le sfortune della Calabria: Giacomo Mancini del Psi e Riccardo Misasi della Dc. Battaglia, dopo il rapporto fatto ai suoi concittadini, è diventato il leader della rivolta che, man mano che i giorni passano, coinvolge sempre più gente. Lo Scudocrociato e tutti gli altri partiti dell’arco costituzionale considerano l’amministratore reggino un elemento ambizioso, tanto ambizioso da rischiare di compromettere l’equilibrio esistente e le condizioni di stabilità amministrativa. Persino il Movimento sociale italiano ha assunto una posizione critica contro gli iscritti e i simpatizzanti che hanno aderito alle prime manifestazioni di protesta. I movimenti della sinistra extraparlamentare appaiono invece indifferenti, mentre la destra extraparlamentare segue con interesse e trasporto gli avvenimenti. Già l’anno prima, il 25 ottobre del 1969, il comandante Junio Valerio Borghese, capo del Fronte Nazionale, aveva tentato di tenere un comizio in piazza del Popolo, a Reggio, per contestare le scelte capestro assunte dal governo rispetto alla Calabria, ma gli era stato impedito. E la circostanza aveva scatenato dei furibondi scontri con le forze dell’ordine culminati nel ferimento di ottanta persone, tra poliziotti e manifestanti, e nell’arresto di altre sei. Nel mancato capoluogo regionale, accanto a Battaglia, s’è schierato Ciccio Franco, sindacalista della Cisnal, con un 150

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passato di consigliere comunale e di giornalista, più volte entrato e uscito dall’Msi e simpatizzante di Avanguardia Nazionale e del Fronte. In quegli afosi giorni di luglio le cose sulla punta dello Stivale stavano velocemente precipitando. La polizia era stata costretta a sgomberare la stazione ferroviaria reggina occupata dai contestatori e, subito dopo, c’erano stati violentissimi scontri in piazza Italia culminati nella morte di Bruno Labate, ferroviere e rappresentante sindacale della Cgil. Più giorni passavano, più la rabbia cresceva a dismisura, coinvolgendo fette sempre più larghe di popolazione. Una serie di azioni dimostrative, di attentati anche alle vie di comunicazione, miravano a far salire la tensione e attirare l’attenzione dell’opinione pubblica nazionale sulle rivendicazioni dei rivoltosi. Per Avanguardia Nazionale quella di Reggio era una «rivolta di popolo» che nessuno aveva il diritto di «caratterizzare in modo diverso». Nei principali quartieri cittadini erano state alzate le barricate per impedire l’accesso alle forze di polizia. A Santa Caterina, a Sbarre, si viveva un clima da cinque giornate di Milano. Per strada, su via De Nava e in via Marina, si sparava e si combatteva come in una guerra civile. Il principe Borghese, ai giornalisti che l’intervistavano, dichiarava senza timori di smentita: «A Reggio è successo un fenomeno quanto mai interessante. E direi che la popolazione, per virtù di uomini del Fronte, ma più che altro per moto proprio, ha creato il Fronte Nazionale… La colpa di tanta violenza non è della popolazione di Reggio, bensì di coloro che hanno creduto che certe idee si possano combattere con la polizia, e con la polizia non si combattono le idee… La popolazione di Reggio ha smascherato gli uomini politici, l’inganno dei vari partiti politici… I reggini sono diventati del Fronte Nazionale perché hanno rifiutato, hanno rigettato, è stata una vera e propria opera di rigetto di tutti i partiti politici. Hanno rifiutato qualsiasi partito politico e qualsiasi sindacato dicendo: fino ad oggi siamo stati ingannati, fate che noi possiamo agire con le mani nostre, che possiamo difenderci da noi! Direi che quel mio mancato comizio a Reggio è stato un passo assai 151

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improvvido delle autorità di governo, che mi hanno impedito di parlare». Più le settimane trascorrevano, minore era il ruolo del sindaco Piero Battaglia. Aumentava, al contrario, la rabbia collettiva e si sentivano, in forma sempre maggiore, le spinte della destra extraparlamentare. La “Freccia del Sud”, quel pomeriggio del 22 luglio, è pronta a riprendere la sua marcia verso il Settentrione. «In carrozza, in carrozzaa!»: è il solito grido del controllore a segnalare il momento della partenza. I diciotto vagoni avrebbero nella prossima ora attraversato le stazioni di Scilla, Bagnara, Palmi e Gioia Tauro. La linea ferrata scorre, tra una galleria e l’altra, lungo la costa, garantendo ai viaggiatori panorami mozzafiato. Allungando lo sguardo oltre i finestrini è possibile scorgere le sagome austere di Lipari e Vulcano, sorvegliate a distanza dagli scogli di Capo Vaticano. A Gioia è prevista una brevissima fermata per far salire i passeggeri – che solitamente sono numerosi – provenienti dai centri della Piana. Nella cittadina lambita dal fiume Petrace, un anno prima c’era stato un assaggio dei moti poi scoppiati nel capoluogo. Gli agricoltori, infatti, erano scesi in piazza per manifestare contro il ritardo nella erogazione dei contributi della Comunità economica europea. Al termine di una concitata manifestazione, svolta all’interno del cinema locale, cui avevano preso parte i sindaci di molti paesi, il segretario regionale della Cgil, Francesco Catanzariti, Ciccio Franco per la Cisnal, il senatore comunista Emilio Argiroffi, il marchese Felice Genoese Zerbi, possidente terriero ed esponente della destra extraparlamentare e Ciccio Ligato, di Avanguardia Nazionale, centinaia di contestatori avevano tentato di occupare la stazione. L’iniziativa s’era conclusa con una carica della polizia sui dimostranti e l’arresto di cinquanta persone. Il treno diretto a Torino ricomincia il suo viaggio senza intoppi, insinuandosi velocemente tra la vegetazione mediterranea, proprio mentre il sole del pomeriggio tende ad abbassarsi verso il filo dell’orizzonte che s’allunga a ponente. I raggi filtrano negli scompartimenti solo a tratti, quando il convoglio esce dalle 152

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gallerie scavate nelle viscere delle colline. Le alture di quell’area della Calabria sprofondano nel mare viola trasformandosi, negli abissi, in scogli aguzzi abitati da cernie maestose. Guardando le acque piatte e limpide davanti a Bagnara, i passeggeri s’accorgono della presenza di singolari barche, che hanno montati sulla prua uno stretto ponte metallico e, al centro, sopra il vano motore, una torretta alta più di dieci metri, al cui apice sta seduto un marinaio. Sono le spadare impegnate, tra aprile e luglio, nella pesca del pescespada. La natura in quell’angolo di costa è particolarmente florida: gli alberi di fico, i peschi selvatici, i fichi d’india, i prugni sorgono ovunque, pure in mezzo alle piante di pomodori messe a dimora dai contadini sui terrazzamenti che digradano armonicamente verso il mare. I vagoni lasciano l’ultima galleria a Taureana, piccola frazione di Palmi che, in tempi antichi, era stata sede vescovile. Gioia è a pochi chilometri. Le carrozze, trascinate dal locomotore, sfilano sull’alto ponte in ferro costruito sul fiume Petrace pronte a far ingresso in stazione, quando s’avverte un rumore assordante, seguito da un crescente traballamento dei vagoni. Nessuno comprende quanto sta accadendo. D’improvviso il convoglio ondeggia come una nave in mezzo alla tempesta ed è l’inferno. Urla di terrore s’accompagnano a un fragore assordante, mentre una strana pioggia di vetri e pietrisco invade i quattro vagoni di centro. Nicolina Mazzocchio e Rita Cacia vengono come risucchiate dal ferro e dal legno del loro scompartimento, mentre Andrea Cangemi viene sbalzato fuori con la violenza d’un uragano. Maria Vassallo e Letizia Palumbo rimangono prigioniere della ferraglia accartocciata, che ne ha straziato i corpi. Rosa Fazzari, 68 anni, di Catania, finisce sotto il carrello dell’ottava carrozza con gli occhi sbarrati. L’imprevisto arrivo della morte la sorprende mentre sta leggendo un libro. Il macchinista di prima classe, Giovanni Bilardi, 41 anni, di Gallico, scende dal locomotore per prestare soccorso, insieme con Salvatore Picciotto, addetto alla ristorazione. I due ferrovieri si ritrovano di fronte uno scenario catastrofico. Decine di persone 153

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stanno abbandonando i vagoni con i vestiti insanguinati e i volti tumefatti, mentre altri passeggeri sono già sdraiati e si lamentano a pochi metri dalle rotaie. L’aria è resa irrespirabile dalla polvere. Frate Placido, che perde copiosamente liquido ematico da un braccio, è fermo accanto a Joele Maiorana, 59 anni, di Druento, Antonia Di Stefano, 54, di Messina, Francesca Di Marte, 52, pure lei messinese, e Caterina Benedetto, 40, di Bagheria. Le quattro donne hanno riportato contusioni in varie parti del corpo. Il frate cerca di consolarle, sebbene non riesca quasi a parlare a causa del dolore. Dalla stazione, intanto, un gruppo di soccorritori si sta dirigendo di corsa verso il convoglio. Le conclusioni della Polfer Poliziotti e ferrovieri s’accalcano intorno ai cadaveri delle donne rimaste incastrate nello scompartimento sventrato dall’impatto con il terreno. Poco più avanti, a cinque o sei passi dall’ottavo vagone, ci sono altre due salme smembrate e irriconoscibili. Le ambulanze e le volanti cominciano a fare la spola con i nosocomi più vicini, quelli di Palmi e Taurianova, presi letteralmente d’assalto. I medici di turno, guidati da Silvestro Zampogna e Giuseppe Luppino, danno punti di sutura e ricompongono fratture come se fossero su un teatro di guerra. Il numero dei feriti aumenta, infatti, con il passare dei minuti. La dinamica della tragedia viene ricostruita faticosamente nelle ore successive. Tutti escludono subito l’ipotesi dell’attentato. Nessuno ha, infatti, sentito esplosioni. La prima notizia del deragliamento viene diffusa, con linguaggio asfittico e burocratico, dal dirigente compartimentale della Polfer di Reggio Calabria. Questo il testo: «Seguito segnalazione telefonica odierna, comunicasi che oggi 22 luglio 1970, at ore 17.10, prossimità Gioia Tauro, lato Reggio Calabria, verificavasi deragliamento dodici vetture e bagagliaio treno direttissimo viaggiatori “PT”, proveniente 154

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dalla Sicilia et diretto Torino composto numero 18 veicoli trainati da locomotore 646.102. Nell’occorso decedevano sei viaggiatori di cui cinque donne et un uomo non ancora identificati. Altri 47 viaggiatori rimanevano feriti di cui 37 ricoverati presso ospedali di Palmi e Taurianova, mentre rimanenti, dopo sommarie medicazioni, proseguivano viaggio. Ingenti danni subivano materiale rotabile, armamento et linea aerea elettrica contatto viaggiatori rimasti illesi proseguivano viaggio con altri convogli in partenza da Gioia Tauro. Circolazione treni tra stazione di Palmi et Gioia Tauro rimasta impedita su entrambi binari per cui Amministrazione ferroviaria habet organizzato trasbordi con autopulman tra Palmi et Rosarno. Indagini in corso da parte di personale Polfer…». I poliziotti, incaricati di svolgere gli accertamenti investigativi, puntano immediatamente a dimostrare che non si tratta di un deragliamento collegabile ad un’azione terroristica. La soluzione tiene lontana la grande stampa, tranquillizza i vertici delle forze dell’ordine e quindi il governo, già alle prese con la rivolta di Reggio. Il questore Emilio Santillo, il comandante provinciale dell’Arma, Antonio Ippolito, il prefetto Giorgio De Rossi sposano subito la tesi dell’incidente. Tesi confermata pure dal responsabile dell’Ufficio affari riservati del ministero dell’Interno, Elvio Catenacci, giunto personalmente sul luogo della tragedia. Catenacci è il primo ad attribuire la responsabilità dell’accaduto a un presunto «errore» compiuto dai conduttori del convoglio. I successivi rapporti stilati dalla Polizia di Stato di Reggio Calabria, del 28 agosto 1970 e del 9 settembre 1971, ascrivono il fatto a ragioni tecniche, con ipotesi di responsabilità colpose a carico di personale delle Ferrovie dello Stato ed escludono esplicitamente la natura dolosa dell’incidente riconducibile all’uso di esplosivi. Bisogna chiudere il caso prima possibile e senza conseguenze. Gli investigatori sottolineano che «le alterazioni alle rotaie appaiono collegarsi ai punti di deragliamento» e che sono state eseguite due ispezioni per verificare se, a seguito delle manifestazioni di protesta inscenate a Reggio e Villa San Giovanni, sia ipotizzabile l’origine 155

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dolosa del disastro ferroviario. «Dalle ispezioni eseguite e dalle dichiarazioni a verbale non sono emersi – scrivono i poliziotti – elementi che convalidino questa ipotesi; anzi, le risultanze stesse portano alla esclusione di un’azione criminosa». Per sgombrare il campo da dubbi e sospetti viene ancora precisato, nel documento inviato alla magistratura inquirente, che «dalle ispezioni eseguite con l’apporto di un gruppo di ingegneri delle Fs è emerso che su un tratto delle rotaie sono presenti tracce di sfregamento lasciate, probabilmente, da un oggetto metallico sporgente oltre la normale sagoma dei veicoli in transito, e più precisamente da qualcheduno di quelli componenti il treno PT, che ne avrebbe causato lo svio». Successivamente viene pure individuato il colpevole. Lo strano “svio” è stato causato da una «macchina che aveva eseguito i lavori di livellamento dei binari anche in tratti posti più avanti rispetto al luogo del disastro». Cosa chiedere di più? Due testimonianze. Quella resa da Salvatore Picciotto, addetto al servizio ristoro del treno, che «subito prima del deragliamento» ha avvertito un «rumore anormale proveniente dalla ruota del carrello del sesto scompartimento» dove si trovava, e quella fatta ai poliziotti dal macchinista del convoglio, Antonio Bilardi, il quale ha sentito un «botto meccanico, concretizzatosi in sobbalzi e strappi subiti dal locomotore, come se al mezzo di trazione fosse venuta meno qualcosa sotto». Nessuno degli altri passeggeri, secondo la Polfer, ha notato o sentito nulla di anormale, così come nulla di strano ha notato il ferroviere Francesco Crea che più volte, tra le 13 e le 17 di quel maledetto giorno di luglio, aveva ispezionato a piedi quel segmento di linea ferrata. Il primo rapporto viene chiuso con la certezza che possono essere escluse «cause dolose o colpe del servizio movimento o del personale del treno» e che resta come unica causa del disastro quella di natura tecnica «da ricercarsi nel materiale rotabile o in quello d’armamento». *** 157

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Il tentativo di archiviare velocemente il caso non va però a buon fine. I periti nominati dalla Procura della Repubblica di Palmi, infatti, giungono a conclusioni diametralmente opposte, imponendo agli investigatori un inatteso supplemento di lavoro. I consulenti, rispondendo ai quesiti posti dal magistrato inquirente, scrivono nella loro relazione tecnica che la tragedia è stata determinata da una «causa estranea all’esercizio ferroviario e più concretamente dallo scoppio di una carica esplosiva dolosamente posta nei pressi del binario». Ai poliziotti non rimane altro da fare che rimboccarsi le maniche e smontare le scomode tesi prospettate. Nel rapporto del settembre 1971 si superano. «Passando ora alla ipotizzata carica di esplosivo» scrivono «si consideri che delle numerose persone che si trovavano a viaggiare sul treno PT o che erano nelle vicinanze del luogo del disastro, nessuna di esse percepì la detonazione ipotizzata, come risulta dalle loro dichiarazioni, e si deve perciò escludere che la detonazione ebbe luogo. E se non vi fu detonazione non potè esservi attentato dinamitardo…». Ad adiuvandum aggiungono: «La ipotizzata carica esplosiva, dai periti localizzata nei pressi del binario (non sotto o accanto a una rotaia), doveva essere di tale potenza da determinare, oltre ad una grande buca nella massicciata, il tranciamento, o, quantomeno, l’aggobbimento della rotaia mentre nessun avvallamento del terreno era stato rilevato». Il botto meccanico, infine, viene attribuito ad un «urto delle strutture inferiori del locomotore». Tuttavia, questa volta, i poliziotti ritengono di rilevare aspetti di colpa nei comportamenti tenuti da quattro dipendenti delle Ferrovie: il caposquadra Emilio Carrera, il sorvegliante Giuseppe Iannelli, il capostazione Emanuele Guido e l’operaio Francesco Crea. Sono loro quattro a fungere da capro espiatorio per tacitare i familiari delle vittime e l’opinione pubblica. Nei confronti degli indiziati, il pubblico ministero formalizza, l’undici settembre di quell’anno, le accuse. Intanto, però, lo stesso magistrato chiama a testimoniare i giornalisti delle testate nazionali che, nell’immediatezza, hanno scritto che poteva trattarsi di un attentato dina158

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mitardo. I cronisti, le cui dichiarazioni finiscono comunque agli atti del processo, riferiscono di essersi basati su «informazioni generiche» apprese sul luogo del disastro. La perizia dirompente I quattro ferrovieri non avevano alcuna responsabilità. La “Freccia del Sud” era finita fuori dai binari a causa di un ordigno. Quella gente era morta per via dell’esplosione di una bomba rudimentale innescata con esplosivo da cava. I primi a capirlo furono i consulenti nominati dalla Procura di Palmi. La loro perizia è molto complessa e difficilmente illustrabile in senso discorsivo. I punti salienti appaiono però illuminanti. E tali dovettero apparire pure al pubblico ministero dell’epoca, Paolo Scopelliti che, sollecitando al giudice istruttore il 30 maggio del 1974 l’assoluzione del dipendenti delle Ferrovie, affermò: «Per quanto vi è da rimanere perplessi sul fatto che il pomeriggio del 20 luglio da nessuna persona furono udite delle esplosioni nella zona interessata, tuttavia deve ritenersi attendibile la spiegazione data dai periti al disastro causato dall’esplosione di un ordigno che determinò lo strappo della suola del binario, la distruzione di tre traversine e la deformazione di una piastrina, come risulta dimostrato dalle relazioni di perizia balistica, nella quale è detto che il distacco di suola di rotaia fu provocato da una carica esplosiva, così come altri reperti riscontrati in quel medesimo punto a circa 20 metri dalla travata metallica…». Il magistrato, dunque, comprese che dietro la tragedia si celava un attentato. Ma chi l’aveva compiuto? E perché? Nessuno in quegli anni bui aprì bocca o fu in grado d’indirizzare gl’inquirenti sulla giusta pista. Non c’erano pentiti e, soprattutto, regnava la legge dell’omertà imposta dalla ’ndrangheta. Una parte delle cosche reggine era, tra l’altro, pienamente coinvolta nei moti scoppiati nella città capoluogo. 159

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Il giudice istruttore dichiarò il non doversi procedere nei confronti dei quattro dipendenti pubblici «per non aver commesso il fatto». Tuttavia liquidò la pista dell’attentato come un fatto destinato a rimanere nel «limbo delle congetture». Ma cosa individuarono i periti di tanto importante? Leggiamo: «Si notano chiaramente le avarie della rotaia, nonché l’esistenza di piccoli frammenti di traverse all’interno delle rotaie divaricate; mentre all’esterno della rotaia, lato monte, si vede qualche spezzone di traversa con gli organi di attacco mancanti o danneggiati. Si nota altresì come la massicciata sia particolarmente sconvolta e vi sia in essa una buca. Le piastre appaiono deformate in corrispondenza di questo tratto di rotaia. Si osserva, inoltre, che sul parapetto in calcestruzzo, lato mare, costruito sul muro andatore del ponte in ferro vi sono tracce di colpi di recente formazione e viene altresì rilevato che il tratto di parapetto così colpito è esattamente prospiciente al tratto di binario sopradescritto». La perizia segnalava dunque l’esistenza di una buca, dei danni alle rotaie e delle tracce di colpi sul parapetto che il treno non aveva potuto cagionare. Erano, infatti, la conseguenza della deflagrazione. La bomba produsse la buca, distrusse tre traversine, distaccò un tratto di suola della rotaia e proiettò violentemente contro il parapetto pietre e frammenti di traversine. A proposito dei frammenti, poi, non si può fare a meno di considerare la loro piccola massa in confronto a quella delle pietre, per cui solo un fenomeno violento qual è quello dell’esplosione avrebbe potuto proiettarle contro il parapetto. I consulenti esaminarono successivamente una serie di possibili cause dello svio e, cioè, l’errore di guida, di scambi, il difetto del materiale rotabile e le avarie imputabili all’armamento. Escludendo, in particolare, che l’asportazione della suola interna del binario potesse essere effetto e non causa dello svio, evidenziarono la necessità di ricollegare tale asportazione, e lo svio, a cause dolose. Ma c’è dell’altro: anche l’indagine amministrativa, i cui risultati furono depositati il primo luglio del 1971, aveva 160

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concluso per l’ipotesi dell’attentato. Questo il documento redatto dai tecnici delle Fs: «La commissione inquirente, esaminate tutte le possibili ipotesi in base agli elementi di giudizio raccolti nel corso delle indagini, non è in grado di indicare con assoluta certezza la causa dell’incidente verificatosi il giorno 22/7/1970 in prossimità della stazione di Gioia Tauro e che determinò lo svio di tredici vetture del treno PT con sei morti e 139 feriti e danni per complessivi 267.570.000 di lire al materiale e all’armamento. Dagli elementi raccolti dalle indagini esperite e dagli esami di laboratorio effettuati la commissione può peraltro dichiarare: 1) che non esiste nessun elemento concreto, né alcun indizio che induca a far sospettare che causa dello svio possa essere stata una deficienza imputabile alle attrezzature della stazione, al materiale rotabile e all’armamento; 2) che non sussistono responsabilità a carico del personale ferroviario, di stazione, di macchina, di scorta e della linea; 3) che fra le ipotesi esaminate la più congrua è quella che fa risalire la causa dell’incidente ad un fatto anomalo e doloso, connesso con i disordini che all’epoca turbarono la città e la provincia di Reggio Calabria». Tutti, insomma, eccetto la Polfer, sembravano aver compreso la matrice del disastro. Nessuno, però, era in grado di provarla. A parte, forse, cinque anarchici che per mesi lavorarono per venire a capo del caso. I cinque ragazzi morirono in un misterioso incidente stradale accaduto alle porte di Roma, proprio quando stavano per consegnare a qualcuno tutto il materiale di grande interesse investigativo che avevano faticosamente raccolto. Si chiamavano Gianni Aricò, Angelo Casile, Franco Scordo, Luigi Lo Celso e Annelise Borth. I primi tre erano di Reggio, il quarto di Cosenza, l’ultima tedesca. Avevano messo insieme molti elementi, lavorando giorno e notte in una vecchia casa che fungeva da loro sede operativa e che chiamavano “la Baracca”. Gianni studiava Legge, Angelo, leggermente claudicante, dipingeva, Franco suonava il pianoforte e amava la scherma, Annelise era la sua fidanzata, Luigi un loro amico. Il sei settembre del 1970 Gianni telefonò a 161

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Roma, agli anarchici della Capitale, avvertendoli che l’inchiesta di “controinformazione” sul deragliamento aveva rivelato scenari agghiaccianti. Per posta mandò a un compagno una copia del rapporto redatto, che però non arrivò mai a destinazione. Alla madre, sempre Gianni, aveva confessato d’aver scoperto cose che «faranno tremare l’Italia». Alla fine non tremerà nessuno, perché i ragazzi della “Baracca” moriranno prematuramente il 27 settembre del 1970, investiti da un camion, prima di poter raccontare ad altri le loro scoperte. Il caso verrà velocemente archiviato come un «tragico incidente». Il 17 maggio del 1973 il gruppo anarchico salernitano “Bielli” diffonde un volantino per denunciare il comportamento delle forze inquirenti impegnate a far luce sul deragliamento di Gioia Tauro. Nel testo viene contestato agli investigatori di «voler nascondere la natura fascista della strage di Gioia». Gli anarchici segnalano pure che alle sei vittime della “Freccia del Sud” vanno aggiunti i loro cinque compagni morti il 27 settembre del 1970. L’«incidente» in cui erano periti – scrivono – è un vero e proprio «omicidio plurimo». Il documento del “Bielli” sarà allegato agli atti dell’inchiesta istruita dalla procura di Palmi. I cinque ragazzi della “baracca” non troveranno però giustizia. Le vittime del disastro, invece, per averla dovranno aspettare ventiquattro anni. Carmine Dominici, esponente storico di Avanguardia Nazionale a Reggio Calabria, nel 1993, rivelerà al giudice istruttore di Milano, Guido Salvini: «Personalmente ritengo che quello dei cinque ragazzi non sia stato un incidente ma un omicidio. E tale opinione è condivisa anche da altri militanti avanguardisti. Non sono assolutamente in grado di indicare chi potrebbe aver preso parte alla presunta azione omicidiaria e, peraltro, era illogico che ci si rivolgesse a militanti calabresi in quanto ciò avrebbe comportato un pericoloso spostamento geografico».

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La verità ventiquattro anni dopo Eleganza da padrino di Cosa nostra, esperienza da boss della ’ndrangheta: Giacomo Ubaldo Lauro ha trascorso la sua vita in mezzo alle tempeste. È stato un temuto uomo di rispetto, è uscito indenne dalle piogge di piombo che hanno insanguinato Reggio Calabria per un ventennio, ha conosciuto le ferree logiche della vecchia e della nuova picciotteria, ha stretto le mani di influenti uomini politici e di potenti imprenditori. Fino al 1992. Nell’anno in cui l’Italia viene travolta dal ciclone di “Mani pulite”, decide di cambiare fronte, scegliendo di collaborare con la giustizia. È stanco di vivere col fiato della morte sul collo, di barattare i piccoli lussi di quella esistenza infame con il ricatto e la violenza. Il suo si rivela subito un pentimento “scomodo”. Complicato da gestire, difficile da far ingoiare ad una opinione pubblica restia ad accettare inimmaginabili verità. Lauro, con strana pacatezza e fredda determinazione, svela ai magistrati della Procura antimafia scenari inquietanti. Comincia a parlare dei rapporti obliqui mantenuti dal mondo imprenditoriale con le consorterie mafiose, dei patti stretti da alcuni settori della politica con i “mammasantissima”, dei traffici miliardari che i clan gestivano ormai in tutta la Penisola. Parla dell’assassinio di Vico Ligato, già presidente delle Ferrovie dello Stato, avvenuto nel 1989 all’ingresso di una elegante villa di Bocale, riferisce dei ripetuti tentativi fatti dai padrini per infiltrarsi nella massoneria, descrive il fosco quadro entro cui si erano sviluppati i moti di Reggio. Per la prima volta conferma giudiziariamente la tesi secondo cui durante la rivolta dei “Boia chi molla” anche la ’ndrangheta ebbe un ruolo. Non fondamentale ma l’ebbe. Nella città dello Stretto fu la gente a scendere in piazza perché si sentiva per l’ennesima volta tradita da scelte prese a vantaggio di Catanzaro e Cosenza. Qualcuno aveva preferito come capoluogo di regione Catanzaro e la decisione mortificava e marginalizzava ulteriormente la culla della Fata Morgana. Fu l’orgoglio a motiva163

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re migliaia di uomini e donne, il desiderio di cambiare, almeno per una volta con i propri mezzi, il corso delle cose, a spingere casalinghe, professori, intellettuali, ragazzi a manifestare in piazza. Aitanti picciotti e aspiranti boss cercarono di approfittarne, siglando inconfessabili accordi con una parte minoritaria di rivoltosi. Contrario allo strano patto si era subito mostrato Mico Tripodo, temuto e riverito capobastone di Sambatello. E sulla sua stessa diffidente posizione si era collocato pure Antonio Macrì, il “boss dei due mondi”, signore incontrastato di Siderno e Locri. A loro questa storia della rivolta non piaceva affatto, perché attirava sulla Calabria l’attenzione di tutto il Paese. Aumentavano i controlli di polizia, s’irrigidivano i politici, si complicavano, inevitabilmente, i procedimenti giudiziari. Sul finire degli anni ’60, la ’ndrangheta comprendeva ormai che poteva lucrare enormi quantità di denaro dal cemento. Sull’ultimo lembo dello Stivale stavano per piovere i miliardi destinati all’ammodernamento della rete viaria e alla costruzione dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria. Abbondanti guadagni arrivavano pure dall’industria dei sequestri di persona e dal contrabbando di sigarette. Nel traffico delle “bionde” erano, peraltro, già ampiamente coinvolti i “compari” di Cosa nostra siciliana. I tempi ormai maturi meritavano una svolta epocale: la criminalità organizzata doveva cambiare pelle, specializzandosi nella gestione dei subappalti, nel riciclaggio del denaro sporco ottenuto con il pagamento dei riscatti e la vendita dei tabacchi lavorati. Tripodo e Macrì, padrini all’antica ma con la mente aperta, erano decisi a unificare gl’interessi di tutte le ’ndrine del Reggino. Non sapevano, però, che qualcuno stava tramando nell’ombra: i fratelli Giorgio, Giovanni e Paolo De Stefano di Archi, gli stessi aitanti “picciotti” decisi a intrufolarsi tra il popolo dei moti. La fine del decennio era stata caratterizzata da due eventi di grande significato: la strage di Locri (1967) e il summit di Montalto (1969). Il questore di Reggio era, in quegli anni, Emilio Santillo. I poliziotti lo chiamavano “lo sceriffo” perché non mostrava 164

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eguali nel tiro a distanza con la pistola d’ordinanza. Tra siciliani e calabresi, in quel periodo, era stato stretto una sorta di patto d’acciaio: sulla costa tirrenica e ionica venivano fatti sbarcare i carichi di sigarette provenienti dall’estero. Carichi che finivano poi sul mercato clandestino calabrese, campano e isolano. Qualcuno tuttavia, a un certo punto, mancò di rispetto, impossessandosi di un carico. E il 23 giugno del 1967 scoppiò l’inferno. Un commando di sicari giunto in piazza Mercato a Locri a bordo di una “Giulia” Alfa Romeo aprì il fuoco con mitra e pistole su un gruppetto di persone intente a discutere. Caddero crivellati dalle pallottole Domenico Cordì, Vincenzo Saracini e Carmelo Siciliano, mentre rimasero gravemente feriti Salvatore Suraci e Giovanni Recupero. Obiettivo dei killer era in effetti il solo Cordì, le altre furono solo vittime accidentali. Per la sparatoria vennero incriminate sette persone, poi assolte per insufficienza di prove: Bruno Marafioti di Locri, Salvatore Scriva di Locri, Giuseppe Nirta di San Luca, Giuseppe Morabito di Bova, Tommaso Scaduto di Bagheria, Antonio Macrì di Siderno e Antonio Di Cristina di Palermo. La guerra delle sigarette fece due anni dopo altre vittime: nel gennaio 1969 furono infatti assassinati a colpi di pistola, sempre nella cittadina ionica calabrese, Giuseppe e Domenico Marafioti. Per sanare i contrasti e creare una “commissione” unica tra le cosche, incaricata di gestire la divisione degli utili derivanti dalle nuove attività, Macrì e Tripodo convocarono un summit tra i rappresentanti delle più importanti consorterie. La presidenza della riunione, tenuta tra i boschi di Montalto, venne affidata a Giuseppe Zappia, uomo d’onore di San Martino di Taurianova e rappresentante nella Piana di Gioia Tauro dell’asse Tripodo-Macrì. Furono in tanti ad arrivare lassù, seguendo i viottoli che salivano fino alle vette aspromontane. Prima di sedersi intorno a un grande masso, si spogliarono di “ferri” e “bastoni”, riposero le coppole nelle tasche e poi presero posto in cerchio per ascoltare. Qualcuno, tuttavia, aveva soffiato agli “sbirri” che in Aspromonte ci sarebbe stato un importante “convegno” mafioso e i vertici delle squadre 165

STRAGI, DELITTI E MISTERI

investigative del capoluogo decisero d’inviare in zona un gruppo di “specialisti”. Poliziotti e carabinieri irruppero sulla scena mentre Zappia stava parlando. Molti ’ndranghetisti riuscirono a fuggire, altri vennero bloccati. Alla fine il blitz portò all’incriminazione di settantaquattro persone per associazione a delinquere. Le rivelazioni del Buscetta calabrese Parla senza emozione Giacomo Ubaldo Lauro. Ha già raccontato tante cose quando viene interrogato dai magistrati della Procura antimafia il 16 novembre del 1994. La giornata è fredda, piove e un vento gelido spazza il cortile antistante la stanza dove il pentito calabrese è rinchiuso. «Signor giudice, io per la verità avevo cancellato dalla mia memoria questi ricordi perché non sono stati gratificanti per me. Io sono stato arrestato nel settembre del 1970 proprio in rapporto ai moti di Reggio Calabria. Assieme a me quella sera finì in manette anche Vito Silverini, soprannominato “Ciccio il biondo”. Eravamo nei pressi del teatro comunale, o meglio la traversa del teatro comunale che porta al palazzo del Governo, e stavamo verificando la possibilità di fare un attentato contro quella struttura… Io non facevo parte dei “boia chi molla”… No, io facevo parte, anzi mi vergogno di dirlo perché sono stato poi preso in questa morsa in quanto “battezzato” e ma… io ero iscritto alla Federazione Giovani Comunisti Italiani, con tanto di tessera. Mio padre è sempre stato un comunista, i miei zii comunisti e socialisti tanto è vero che il vecchio, l’anziano Antonino che vive ancora all’età di 9 anni, ebbe una medaglia d’oro del Partito socialista italiano, quindi pensate quanta vergogna io oggi possa provare a raccontare queste cose… All’epoca io fui costretto diciamo ad aderire a questo patto tra la destra eversiva e la mafia perché nella mia posizione di malandrino non mi potevo permettere di dire di no. Rammento che Antonio Macrì e Domenico Tripodo erano contrari a questo discorso, tanto è vero che quando scoppiarono i moti 166

La “Freccia del Sud” e il golpe della ’ndrangheta

i De Stefano non operarono assieme a Tripodo ed agli altri, operarono da soli…». Dopo lo sfogo legato ai problemi di coscienza cagionati dalla sua estrazione politica d’origine, Lauro indica agli inquirenti i componenti del braccio armato della rivolta che agiva nella città dello Stretto. «Era composto», spiega «da Carmine Dominici, Vito Silverini che era con me, Vincenzo Caracciolo di Catona e Giovanni Moro di Cardeto. Questa era la cellula… diciamo così che metteva le bombe e faceva azioni di guerriglia… Dominici era un uomo d’onore, affiliato con Mico Martino e quindi era malandrino; Silverini, quando lo hanno fatto malandrino io ancora dovevo nascere; Caracciolo si era fatto ventisei anni di carcere e Moro era appartenente alla ’ndrangheta di Cardeto sotto i Serraino… L’esplosivo usato per l’attentato purtroppo l’ho procurato io nella quantità di 50 chilogrammi in una cava di Bagnara… Lo andai a chiedere io perché mi era stato chiesto personalmente sia da Vito Silverini che da Vincenzo Caracciolo perché dovevano fare un attentato a dei piloni ed al treno e poi volevano mettere delle bombe anche sui traghetti… Noi abbiamo avuto l’ordine di metterci a disposizione di questi signori dell’eversione nera. Io non potevo dire, signor giudice, guardate io sono comunista, non lo posso fare, perché nella ’ndrangheta un solo giuramento era consentito all’epoca… che poi gli altri ’ndranghetisti sono diventati massoni o hanno fatto altri mille giuramenti questo è un altro discorso… Io però mi riferisco a ventiquattro anni fa quando era consentito solo che un malandrino giurasse eterna fedeltà all’albero della saggezza, cioè alla ’ndrangheta o alla mamma come si diceva… La mamma ordina e il figlio fà. Quindi tutta la ’ndrangheta o almeno quella che era stata sollecitata, che aveva degli interessi, si è unita all’eversione nera… Domenico Tripodo era contrario a questa partecipazione della ’ndrangheta… I De Stefano andarono contro la sua volontà… Cerco di rendere un concetto più preciso. I De Stefano non si erano allontanati ancora da Domenico Tripodo, perché non avevano la forza di allontanarsi, però avevano iniziato assieme ad altre cosche a gestire un traffico enorme di sigarette 167

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nel territorio campano, crotonese e reggino. E allora loro avevano chiesto a Tripodo se potevano fare il traffico, mettendo però dentro il paniere della società a Domenico Codispoti, suo vecchio amico, e Ciccio Canale amico fraterno suo… Quando poi con le sigarette si sono arricchiti ed hanno stretto alleanze ancora maggiori, sentendosi forti nella provincia per le alleanze con i pianoti e si sono sentiti forti delle alleanze con quelli della ionica si sono staccati… Tornando ai moti Giorgio De  Stefano diceva che era ora che si cambiassero le istituzioni e che bisognava aiutare la destra eversiva in quanto i comunisti ed i socialisti erano contro la ’ndrangheta. Io credo che loro, i De Stefano, si erano portati vicini alla posizione eversiva per interessi più che per ideologia, perché difficilmente lo ’ndranghetista ha una ideologia, lo ’ndranghetista è un tornacontista…». Il pentito poi riferisce particolari sul disastro ferroviario. «Appena giunse la notizia del disastro partimmo tutti in macchina, verso Gioia Tauro. Eravamo al Roof Garden… Io però, a un certo punto, invertii la marcia e tornai indietro. La bomba è stata messa da Vito Silverini e Vincenzo Caracciolo. Non so se ha partecipato anche Giovanni Moro, ma so che sono andati con una moto Ape che a Caracciolo serviva per portare frutta e verdura ai mercati generali e che dava meno all’occhio, perché devo essere onesto li ho mandati anch’io a mettere bombe e andavano sempre con l’Ape…». Lauro precisa inoltre di aver personalmente partecipato ad altre azioni nel periodo dei moti reggini. «Per esempio signor giudice quando ci fu la famosa manifestazione durante la quale si sparò contro un corteo da una traversa del teatro Comunale e precisamente all’altezza dell’Istituto della suore di San Gaetano, sparai io… avevo una Cz Skorpion 7,65 e sparai a raffica… Tenevo l’arma nascosta sotto un impermeabile che avevo al braccio… Quando tirai non lo feci, però, ad altezza d’uomo, sparai per la verità un poco più alto, perché altrimenti tutti i venti colpi sarebbero stati venti centri…». L’ex boss, come un fiume in piena, racconta anche d’essersi procurato quei maledetti cinquan168

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ta chilogrammi di esplosivo non solo per danneggiare i binari a Gioia Tauro, ma pure «per mettere bombe ai piloni dell’alta tensione ed in altre occasioni a Reggio Calabria… Ci furono altri attentati ai treni, anche quelli nel ’73 se non rammento male signor giudice, contro quei treni che trasportavano sindacalisti… Le dico di più, si dovevano fare attentati anche a dei traghetti, ma non mentre erano in movimento, fermi nei porti, per farli affondare proprio dentro i porti… gli attentati dovevano servire a isolare la Sicilia dalla Calabria, sia da un punto di vista elettrico che della viabilità». Lauro precisa che sia Caracciolo che Silverini, in merito alla tragedia della “Freccia del Sud”, gli confessarono che non avevano intenzione di mettere la bomba sui binari per provocare vittime. «Mi dissero che non era loro intenzione far saltare il treno ma far saltare i binari e che per pura fatalità successe il disastro… Ci rimasero male perché era un treno passeggeri… Ci furono in quel periodo una serie di attentati che dovevano servire a creare panico, cioè a creare in Italia, soprattutto al Sud da dove sarebbe dovuta partire questa manovra, un periodo di terrore in modo che poi chi poteva ne usufruiva per prendere il comando, almeno questo era quello che si diceva… Per quello che ne so io si cercava di rendere ufficiale all’interno del corpo di ’ndrangheta la notizia che la ’ndrangheta si era alleata o si voleva alleare con questa parte eversiva dello Stato, ma credo che non portò, se non per alcune cosche, a risultati favorevoli… Si parlò anche di non fare sequestri e di non fare attentati alle forze dell’ordine perché allora viveva la buonanima di Antonio Macrì…». Il collaboratore ripeterà per la prima volta la sua versione dei fatti in un’aula giudiziaria, quando verrà convocato nella veste d’imputato davanti alla Corte d’assise di Palmi. Al presidente, Salvatore Mastroeni, che gli chiederà che cos’è la ’ndrangheta, risponderà: «Non è un babà… Io le posso dire che cos’era fino al 1992, anno in cui io, autonomamente e con sofferta decisione e riflessione, trovandomi detenuto all’estero, ho deciso di collaborare. La ’ndrangheta era una organizzazione criminale composta 169

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da varie famiglie e da vari locali ricadenti tutti, almeno per quel che concerne la provincia di Reggio, nei comuni della stessa provincia, nessuno escluso. Se c’era qualche comune escluso era perché era stato chiuso il locale o per infamità o perché gli aderenti a questa associazione si erano dimostrati indegni… A noi giovani quando eravamo appena diciottenni, nel rimpiazzo, ci fu detta tutta una storiografia che poi con l’età abbiamo capito che erano baggianate, che erano scemenze che colpiscono o hanno colpito noi giovani che magari avevamo ancora meno esperienza dei giovani di diciotto anni di adesso… Ci hanno detto che era nata come un’associazione per fare del bene e aiutare i poveri. Veda un po’, signor presidente, che cosa ne hanno fatto se effettivamente era nata per affermare questi principi…». Lauro, che appare in dibattimento disilluso e rassegnato, sempre su domanda posta dal magistrato svela l’organizzazione gerarchica delle cosche. «C’è un capo società e un capo locale, il più delle volte non è necessario che il capo locale sia identico al capo società, ma siccome la ’ndrangheta è una struttura formata e affiliata soprattutto in famiglia consanguinea, generalmente un fratello è capo società; il capo società e il capo locale sono due pilastri: il capo società è il capo della società del crimine, quindi ha i soldati a disposizione… il capo del locale gestisce invece gli affari, le estorsioni, i lavori, il traffico delle sigarette… Fino al ’92 nella prima decade del mese di settembre si incontravano al Santuario di Polsi dove c’era la famosa riunione e si discuteva delle varie questioni che durante l’arco dell’anno precedente avevano interessato le varie famiglie… La ’ndrangheta non è come Cosa nostra, la peculiarità della ’ndrangheta è che ogni famiglia, ogni appartenente di un certo grado ha un figlio, un nipote, tende a farlo studiare, tende a farlo acculturare e tende a fargli avere dei posti di responsabilità tali da potere essere un aiuto e un garante alla stessa organizzazione… Se uno era un avvocato e non era malandrino non poteva assistere alle riunioni… Alle riunioni non poteva partecipare, né poteva interloquire, perché un contrasto non può in nessun caso, 170

La “Freccia del Sud” e il golpe della ’ndrangheta

può essere anche il figlio di Al Capone tanto per dire, non può assistere o interloquire in discorsi di ’ndrangheta…». La sentenza della Corte di assise di Palmi Salvatore Mastroeni è un magistrato esperto e puntiglioso. Da presidente della Corte di assise di Palmi ha celebrato decine di processi contro le più potenti e pericolose cosche della ’ndrangheta reggina. Quello che vedeva imputato Giacomo Ubaldo Lauro era, tuttavia, un dibattimento diverso. Attraversava gli anni più difficili del Dopoguerra, segnati dalle trame eversive disegnate da organizzazioni nazionali e internazionali, e faceva i conti con una criminalità organizzata ormai superata dai tempi. Mico Tripodo e Antonio Macrì non c’erano più, Paolo, Giovanni e Giorgio De Stefano erano stati assassinati durante i regolamenti di conti che puntualmente avevano scandito i tempi di evoluzione della mafia calabrese. Ricostruire i contesti in cui si svilupparono i moti di Reggio Calabria non era compito agevole. Proprio per questo il giudice volle studiare quante più carte possibile e spremere come un limone quel boss pentito che non rinunciava ad usare, a volte, il gergo malavitoso. La strage di Gioia Tauro – comprese subito – non era un fatto isolato ma si collocava in uno scenario più ampio che comprendeva una rivolta di popolo, gli interessi nascosti di golpisti in cerca di gloria e gli obiettivi inconfessabili di scalpitanti aspiranti boss desiderosi di fare carriera e chiudere le loro pendenze giudiziarie. Dopo interminabili ore di audizioni e l’attesa testimonianza del “Buscetta calabrese”, Salvatore Mastroeni raccolse tutti gli elementi necessari per valutare quei fatti lontani. In aula non si scompose mai, né tradì segni di nervosismo o impazienza. Riuscire a scrivere una sentenza su quelle vicende significava ricucire storie ed esistenze personali, sommarle a dati tecnici e incanalarle verso una possibile soluzione interpretativa legata al codice penale. Il 20 aprile del 2001 depositò in cancel171

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leria le motivazioni della sentenza. In centosedici pagine spiegò alla pubblica accusa, rappresentata da Giuseppe Verzera, e alla difesa, sostenuta da Maria Claudia Conidi, perché aveva deciso di assolvere Lauro con la formula «perché il fatto non costituisce reato per mancanza dell’elemento soggettivo». L’assoluzione di Lauro Val la pena di ripercorrere il cammino seguito da questo magistrato per giungere alla decisione finale. «Ritiene questo giudice, tramite il vaglio di quelle medesime risultanze del primo processo (quello celebrato nel 1974 contro i quattro ferrovieri originariamente incriminati, nda), con il solo arricchimento delle dichiarazioni del Lauro, che, come concluse il Pm dell’epoca, il fatto andava collegato alla collocazione di un ordigno esplosivo. In tal senso depongono, in modo univoco, tutte le perizie espletate in quel processo, i copiosi elementi in esse posti in evidenza, in particolare quella percezione di un addetto al servizio sul treno del botto e del deragliamento, la sua localizzazione nel punto in cui risulta tranciata la suola interna del binario e le traversine, dove peraltro sono stati rilevati una buca e pietrisco alla massicciata, le analogie con una serie di episodi analoghi, la circostanza che in quel contesto spaziale e temporale attentati simili si erano verificati copiosamente, il dato indiscusso che il deragliamento successivo era in grado di spiegare la mancanza di precise tracce dell’esplosivo e la circostanza che anche in altri casi, di sicura matrice dolosa e con uso di esplosivo, non si erano parimenti trovate tracce e, da ultimo, la circostanza che l’esigenza assoluta del botto, avvertita nelle indagini come ragione di esclusione dell’ipotesi dolosa, appare errata. Ciò da un verso per il profilo della non considerazione del fatto che il limitato incidere sul binario, pur tale da determinare poi lo sconvolgente deragliamento, dimostra già che non vi era stata una carica tale da far saltare in aria un treno ma solo da dan172

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neggiare un piccolo tratto di binario e parzialmente e d’altro verso, ma in consonanza, che la ricostruzione sistematica degli attentati dell’epoca e del luogo (ricostruibili dalle perizie ma anche da processi allegati) comprovano in ampia parte il carattere sempre gravissimo ma anche dimostrativo, intimidatorio-propagandistico degli attentati, realizzati con modalità tali da consentire tempestivi accertamenti ed interventi e quindi evitare stragi. Circostanza questa che, anch’essa, tornerà nelle dichiarazioni di Lauro, che narra dello sgomento dell’esecutore materiale per la strage, che non volevano e cui non erano preparati, e che ricollegava alla probabile circostanza che i macchinisti non avessero notato lo stato dei binari per il sole negli occhi, restando in anticipazione e in più punti suffragata la sua “confessione” ma che qui rileva per evidenziare proprio come quella mira abituale, di realizzare un mero danneggiamento, ben giustifica l’utilizzazione di carica esplosiva relativamente modesta, già emergente per i limitati danni al binario, e, quindi, l’omessa percezione della deflagrazione. La ricostruzione così compiuta, resa necessaria da indagini, e anche esami tecnici sui reperti che non appaiono certamente avvalersi di tecniche sopraffine, appare comunque verosimile e univoca. Le risultanze peritali, che si fondano su un approfondimento tecnico di superiore valenza rispetto alle pur laboriose primitive indagini della Ps, e gli altri elementi consonanti esposti, non solo consentono, quindi, di individuare, in accettabili termini di certezza, la matrice dolosa del disastro ferroviario, e il mezzo all’uopo utilizzato, ma danno, in anticipo, una conferma alla ricostruzione del fatto operata, nelle sue confessioni e chiamate di correo, dal Lauro. Resta appurato, così e innanzitutto, che si è trattato di un disastro causato dalla collocazione, sulla linea ferrata o nelle sue immediate adiacenze, di materiale esplosivo e, quindi, che si è consumato un attentato eversivo, risoltosi in una strage». Il presidente della Corte d’assise trova dunque la verità sul disastro della “Freccia del Sud” già negli atti di quel primo, lontano processo. Salvatore Mastroeni ritiene il racconto reso dall’ex boss 173

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pentito pienamente credibile. Vediamo perché. «Le prove – scrive – sulla sussistenza dell’attentato appaiono acquisite e, per il resto, non emerge una sola ragione per cui il Lauro, in un contesto di dichiarazioni risultate di rilevante rilievo, avesse una qualche ragione per inventarsi un reato e, soprattutto, per accusarsene. Vi è peraltro la evidenza di una specifica conoscenza dei fatti, e il racconto risulta al riguardo ricco, dettagliato, logico, spontaneo e genuino. Emerge, cioè, la coerenza e credibilità intrinseca e verosimiglianza delle dichiarazioni in generale. L’attentato non solo viene collegato in un contesto, i moti di Reggio Calabria, che lo rende verosimile, ma esso risulta compatibile e concordante con tutte le emergenze processuali sul ripetuto “uso” di attentati nell’ambito di quei moti, e peraltro attentati di pari matrice e analoghe modalità, vi è inoltre un’ampia ricostruzione, che appalesa una reale conoscenza dall’interno, sulla struttura, uomini ed opere della ’ndrangheta e il riconoscimento, non certo processualmente favorevole, della sua appartenenza ad essa; vi è una ricostruzione verosimile, atteso il notorio potere sul territorio delle cosche e la possibilità di convergenza di fini, sul rapporto e la collaborazione fra la ’ndrangheta e i moti eversivi, con una ricostruzione di alto interesse e che scrive una pagina non edificante, purtroppo fra le tante di vario genere, della storia della Repubblica ma con un rilievo ed interesse giudiziario ed oggi anche storico; vi è una consegna dell’esplosivo che in questo contesto diventa logica; vi è una verosimiglianza oggettiva sulla destinazione ed utilizzazione, anche sulle ragioni della non rivendicazione che conferma la non volontarietà del fatto; vi è una spiegazione logica delle ragioni per le quali il Silverini, per un umano moto di orgoglio, si confida con i suoi compagni di cella rivelando che si era trattato di un attentato e, anche, dal suo punto di vista, di una tragedia. Vi è, in conclusione, la ricostruzione di uno scenario preciso dei responsabili dei moti e del fatto, una confessione che appare pertanto credibile e, in buona parte, anche riscontrata». Giacomo Ubaldo Lauro ha convinto il magistrato che, seguen174

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do i fili di un ragionamento per nulla tortuoso, chiarisce perché il pentito non avrebbe avuto alcun interesse a riferire circostanze e particolari destinati a danneggiarlo. «Non risulta», precisa in sentenza Mastroeni, «che il Lauro abbia avuto interesse o vantaggio nel riferire del fatto o anche ne avesse necessità, per accrescere lo spessore del suo contributo, nell’ambito di una collaborazione che risulta peraltro ricca e abbondante, certamente tale da non richiedere una grave calunnia nei confronti di numerose persone e la confessione di un delitto non sussistente e non commesso. Invece di mentire sulla conoscenza della destinazione dell’esplosivo, Lauro avrebbe avuto la comoda strada di non parlarne affatto. (…) Emerge poi che effettivamente vi sono stati una serie di attentati tutti risultati di carattere dimostrativo ed è estremamente significativo, come indice di non volontarietà, che altri danneggiamenti ai binari siano stati rivendicati con “cartelli”, mentre tanto non si fece per la strage di Gioia Tauro. Pur con il potenziale della ’ndrangheta non si fecero sparatorie mortali a dimostrazione che effettivamente la strategia era eversiva e volta ad attentati ma, per quanto constatato, con meri danneggiamenti volti a destabilizzare ma non a determinare la morte di persone e quindi appare confermato e fondato il suo convincimento di non fornire mezzi per una strage. Il Lauro, quindi, anche ove si ritenga essere poco credibile sulla mancata conoscenza dell’uso dell’esplosivo, appare credibile nel dire che mai e in nessun modo vi era stato l’obiettivo di fare morti innocenti, che addirittura ove lo avesse saputo non avrebbe fornito l’esplosivo, che anche per “loro”, il reale gruppo degli attentatori, fu una tragedia. Potrà sembrare una verità comoda ma da soggetto che non emerge aver cercato dichiarazioni “comode”, che poteva tacere, che si è danneggiato parlando, trattasi di collaboratore che già per molti altri casi si era inguaiato giudiziariamente di suo, di sua volontà e con le sue dichiarazioni, e che non avrebbe avuto ulteriori particolari effetti negativi (riferisce di avere condanne per cento anni!) ad ammettere una sua consapevolezza delle finalità cui era destinato l’esplosivo. Vi è una convincente postulazione 175

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con riferimento alla non destinazione stragista, perché emerge l’interesse e gli accordi a non fare morti e a maggior ragione a non commettere stragi, e ciò con il riscontro che si registra un solo morto per infarto o di soggetti caricati dai celerini e, per gli altri casi di attentati modalità che hanno sempre consentito di evitare disastri. Come detto, non vi era nessuna logica necessità che Lauro ne parlasse, essendo il fatto ben “archiviato” come incidente, non ne ha alcun utile, lo dice nel contesto di dichiarazioni che determinano rilevanti effetti sulla criminalità organizzata reggina, senza certo la necessità, anche per ogni utile nel trattamento, di aggiungere tali dichiarazioni, nessuna emergenza di volontà calunniosa, la verosimiglianza di una esigenza, nel contesto di un “pentimento” di dire tutto e di fare luce su quei morti che gli ripugnano perché estremamente innocenti». Salvatore Mastroeni conclude il suo ragionamento escludendo la responsabilità nella strage dell’ex boss: «Lauro si accusa, ma non sufficientemente per risponderne e, pertanto, bisogna prendere atto della sua versione, dell’unicità e contestualità dell’autoaccusa con l’autodiscolpa, con la conseguente statuizione di insussistenza dell’elemento soggettivo». La sentenza della Corte di assise di Palmi, emessa il 27 febbraio del 2001, venne confermata il 17 marzo del 2003 dalla Corte di assise di appello di Reggio Calabria, nonostante il procuratore generale, Fulvio Rizzo, avesse chiesto la condanna di Lauro a 24 anni di reclusione. Dopo l’accoglimento da parte della Corte di Cassazione del ricorso della Procura generale, un’altra sezione dell’Assise reggina, nel gennaio del 2006, chiuse definitivamente la vicenda giudiziaria. I giudici, accogliendo le tesi del Pg Ada Merlino, stabilirono che Giacomo Ubaldo Lauro si era reso responsabile del delitto di concorso anomalo in omicidio plurimo. Delitto che, però, doveva essere ormai ritenuto estinto per prescrizione. Contro il verdetto l’avv. Conidi propose un nuovo ricorso davanti alla Corte di legittimità. Ricorso rigettato il sei giugno del 2007. 176

IL MANCATO PUTSCH E LA SUPERLOGGIA MASSONICA 8 dicembre 1970

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Dopo la strage di Gioia Tauro il piano golpista va avanti. La sera del sette dicembre del 1970, in una Roma flagellata dalla pioggia, tutto è pronto: i congiurati si vanno lentamente radunando in attesa degli ordini del loro comandante, Junio Valerio Borghese. È lui l’ispiratore dell’operazione “Tora Tora”, chiamata così in ricordo dell’attacco scatenato a sorpresa dai giapponesi, il 7 dicembre del 1941, contro la base statunitense di Pearl Harbor. Il Principe ha sempre ammirato molto il coraggio mostrato dai nipponici non solo in quell’occasione ma durante tutto il secondo conflitto mondiale. Nella sede del Fronte Nazionale, in via Sant’Angela Merici, Borghese pianifica la demolizione della democrazia. L’Italia è scossa dagli scontri di piazza, dagli attentati, mentre all’orizzonte compare pure lo spettro minaccioso delle Brigate rosse. In primavera, nel quartiere Lorenteggio di Milano, sono apparsi i primi volantini con la stella a cinque punte, mentre nell’ultima settimana di agosto all’interno dello stabilimento della Sit-Siemens è stato trovato un pacco di ciclostilati. Nel testo s’inveisce contro i «capireparto aguzzini» e i «dirigenti bastardi». Il 17 settembre, invece, in via Moretto da Brescia, tranquilla strada residenziale della città studi, sono stati fatti esplodere due bidoni di benzina contro il box di Giuseppe Leoni, direttore centrale del personale della Sit-Siemens. Sulla porta del garage compare la scritta Brigate rosse. L’Italia, per il fondatore della Decima Mas e i suoi numerosissimi sostenitori annidati all’interno e all’esterno delle istituzioni, ha bisogno di una svolta autoritaria. Occorre ristabilire l’ordine. Nel comando operativo del Fronte, a Monte Sacro, quella sera sono già pronti i bracciali per gli uomini 179

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e i contrassegni per le auto, da usare subito dopo il successo del putsch. Un altro gruppo di congiurati è in attesa di agire all’interno della palestra messa a disposizione dall’Associazione paracadutisti d’Italia, al comando dell’ex tenente parà Sandro Saccucci, che diverrà negli anni successivi deputato del Movimento sociale italiano e successivamente sarà espulso dal partito guidato da Giorgio Almirante per aver organizzato, nel 1976, il raid di Sezze Romano nel corso del quale morirà un giovane comunista. Ma nella Capitale ci sono pure i picciotti di cosa nostra, guidati da Natale Rimi, figlio del capobastone di Alcamo di cui i boss sollecitano, a golpe avvenuto, l’immediata scarcerazione. Sono disarmati e agiscono in veste di osservatori. Qualcuno affiderà loro dei mitra. Il piano scatta alle 20.30, quando degli incursori, con l’aiuto di un basista, s’introducono nell’armeria del Viminale impossessandosi di duecento fucili mitragliatori. Le armi sono destinate agli insorti che attendono in vari punti di raccolta. Intanto, una colonna di 14 automezzi provenienti da Cittaducale, con a bordo 197 guardie forestali guidate dal colonnello Luciano Berti, arriva a poche decine di metri dal centro di produzione Tv in via Teulada. Sembra fatta, ma arriva un contrordine. Borghese impone improvvisamente la ritirata, la Forestale torna in caserma e i paracadutisti di Saccucci fanno dietrofront. Nessuno capirà chi o cosa abbia fatto desistere il “Comandante”. Gli italiani, per settimane, non sapranno nulla di quanto stava per avvenire. Il discorso alla Nazione preparato dal Principe non verrà mai letto. Il testo era questo: «Italiani, l’auspicata svolta politica, il lungamente atteso colpo di Stato, ha avuto luogo. La formula politica che per un venticinquennio ci ha governato e ha portato l’Italia sull’orlo dello sfacelo economico e morale ha cessato di esistere. Nelle prossime ore, con successivi bollettini, vi verranno indicati i provvedimenti più immediati e idonei a fronteggiare gli attuali squilibri della Nazione. Le Forze armate, le Forze dell’ordine, gli uomini più competenti e rappresentativi della Nazione sono con noi, mentre, d’altro canto, possiamo assicurarvi che gli avversari 180

Il mancato putsch e la superloggia massonica

più pericolosi, quelli per intenderci che volevano asservire la Patria allo straniero, sono stati resi inoffensivi. Soldati di terra, di mare e dell’aria, Forze dell’ordine, a voi affidiamo la difesa della Patria e il ristabilimento dell’ordine interno. Nel riconsegnare nelle vostre mani il glorioso Tricolore, vi invitiamo a gridare il nostro prorompente inno d’amore: Italia, Italia! Viva l’Italia!». Il comandante Borghese, costretto dopo il fallimento del golpe ad espatriare per evitare l’arresto, rivendicherà alla televisione svizzera, nel 1971, la paternità del colpo di stato. Ai giornalisti elvetici dirà: «Oggi combatto contro degli italiani, oggi parlo contro degli italiani quando le dico che i nostri nemici più pericolosi in Italia sono i comunisti, quindi degli italiani, e non mi disturba affatto dirle che sono nemici e se potessimo sterminarli sarei molto contento perché libereremmo il nostro Paese da nemici che vivono insieme a noi e che costituiscono un eterno pericolo. A un certo momento bisogna scegliere e impegnarsi. Vuol dire occupare il proprio posto di combattimento; e combattere significa lottare, e lottare anche fino alla morte. Naturalmente la cosa è diversa se non si vuol combattere. Io non sono un filosofo, non sono un metafisico, sono un uomo d’azione, un uomo di combattimento. Occupo il mio posto di combattimento da cinquat’anni e continuerò sulla stessa strada. Oggi combatto con il Fronte Nazionale, occupo un posto di combattimento alla testa di questo movimento, di questa associazione di italiani che hanno una consegna di lotta molto chiara. Sono contro il caos, contro il disordine, contro l’antinazione e contro il comunismo». Fin qui il “Comandante”. E i mafiosi? Dopo la notte di “Tora Tora” torneranno in Sicilia confusi. Ma non sconfitti. Per loro non cambierà nulla: riprenderanno a flirtare, come sempre, con larga parte del ceto politico. Così come faranno i picciotti di mamma ’ndrangheta, pronti a lanciarsi come voraci belve sui soldi e gli appalti del “Pacchetto Colombo”.

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La superloggia I legami con la destra eversiva dopo le giornate dei “Boia chi molla” e il fallito golpe non s’interrompono, ma si trasformano. I boss non si muovono più approfittando della rivolta popolare, ma in assoluta segretezza, cercando di centrare i loro obiettivi attraverso una mefistofelica rete di rapporti trasversali. Per fare soldi, aggiustare processi, evitare nuovi guai giudiziari, gestire lucrosi affari scelgono di muoversi nel limbo della cosiddetta “zona grigia”, in cui si ritrovano, famelici come verdesche, imprenditori senza scrupoli, faccendieri, manager, politici. È per questo che viene creato un grado particolare nella gerarchia della ’ndrangheta: la “santa”. Un grado che consente ai boss di aderire a logge deviate e di vincolarsi a organizzazioni diverse da quelle mafiose. Un tempo non sarebbe stato possibile: chi giurava fedeltà alla ’ndrangheta era obbligato a rimanere per tutta la vita legato al solo “locale” di appartenenza. La trasformazione è lucidamente raccontata da Filippo Barreca, uomo di rispetto di Pellaro, periferia sud di Reggio Calabria, diventato “santista” nel 1979. «Ottenni il massimo grado» rivela il padrino pentito «entrando a far parte dell’elite della ’ndrangheta allorché venni fatto santista. Questo grado segreto mi dava la possibilità di avere rapporti con esponenti della massoneria. In Calabria esisteva, già in quel periodo, una loggia massonica coperta a cui appartenevano professionisti, rappresentanti delle Istituzioni, politici e ’ndranghetisti. Questa loggia aveva legami strettissimi con la mafia di Palermo, a cui doveva rendere conto. La loggia si costituì quasi contemporaneamente alla mia investitura a santista in occasione della latitanza a Reggio Calabria di Franco Freda. Anzi, fu proprio Franco Freda a formare questa loggia, cui uno dei principali fini istituzionali era l’eversione dell’ordine democratico. Freda mi disse che altra loggia analoga era costituita nella città di Catania. Va comunque sottolineato come una struttura di fatto costituita da personaggi eccellenti con la salda intesa di una mutua assistenza esisteva già 182

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da prima, e Freda si limitò a formalizzarla nel contesto di quel più ampio progetto nazionale che alla realtà reggina improvvisamente attribuì un ruolo di ben più ampio significato e spessore. La “Santa” invece esisteva già da tempo». Barreca, che certo sa di non avere la caratura delinquenziale dell’americano Carlo Gambino o del siciliano Pippo Calò, s’affretta subito a spiegare: «Le mie conoscenze discendono direttamente da Franco Freda, l’organizzatore della loggia, il quale ha trascorso alcuni mesi di latitanza presso la mia abitazione. Al proposito sono prontissimo a sostenere in qualunque momento un confronto con Freda se dovesse fare dichiarazioni difformi dalle mie. Devo peraltro far presente che le mie conoscenze discendono anche da altri personaggi della ’ndrangheta come Santo Araniti e Paolo De Stefano. Le competenze della loggia si fondavano su di una base eversiva. Prevalentemente la loggia mirava ad assicurarsi il controllo di tutte le principali attività economiche – compresi gli appalti – della provincia di Reggio Calabria; il controllo delle istituzioni al cui capo venivano collocate persone di gradimento e facilmente avvicinabili; l’aggiustamento di tutti i processi a carico di appartenenti alla struttura; l’eliminazione, anche fisica, di persone scomode e non soltanto in ambito locale. In sostanza si era creato un gruppo di potere che gestiva tutto l’andamento della vita pubblica ed economica in sintonia con altri gruppi costituitisi in altre città italiane. Dopo l’arresto di Freda la loggia continuò a operare a pieno regime, sotto la direzione di Paolo De Stefano. Cosa nostra era rappresentata nella loggia da Stefano Bontade: questo collegamento con i palermitani era necessario perché il progetto non avrebbe avuto modo di svilupparsi in pieno in assenza d’una “fratellanza” con i vertici della mafia siciliana». In effetti dell’esistenza, nello stesso periodo, di scenari altrettanto foschi pure nell’isola di Trinacria hanno parlato i pentiti Antonino Calderone, Leonardo Messina e Rosario Spatola. Certo, viene difficile immaginare che tutta Reggio Calabria potesse essere finita, nei primi anni ’80, nelle grinfie di una cupola capace di 183

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condizionare ogni settore dell’economia. La realtà, però, può a volte superare la fantasia… Franco Freda si sottrasse al soggiorno obbligato, cui era sottoposto a Catanzaro, dove si stava svolgendo il processo per la strage di piazza Fontana, tra la fine di settembre e i primi giorni di ottobre del 1978. Rimase alla macchia quasi un anno e venne arrestato, alla fine di agosto del 1979, in Costarica grazie alle indagini svolte dalla Mobile di Reggio Calabria. Prima di espatriare all’estero fu dunque ospite della ’ndrangheta reggina che, poi, ne coprì la fuga via Ventimiglia e la Francia fino al Paese centroamericano. Racconta ancora Barreca: «Più volte Freda mi disse che se non fosse riuscito a uscire dal processo di piazza Fontana avrebbe fatto “saltare l’Italia” intendendo dire che avrebbe fatto rivelazioni sconvolgenti sul ruolo di apparati dello Stato che non so meglio specificare. Quando fu mio ospite avemmo occasione di parlare della rivolta di Reggio, da cui secondo lui, “doveva partire una rivolta armata estesa a tutta l’Italia”. A casa mia sovente vennero a trovarlo Giorgio De Stefano e Paolo Romeo». L’ex boss pentito rivela pure che fu lui a consentire alla polizia l’arresto del latitante di estrema destra. «Sono stato io a fare da confidente al dottore Mario Canale Parola, all’epoca dirigente della squadra mobile, rivelandogli che Freda era stato nascosto a casa mia per alcuni mesi, prima di espatriare in Costarica. Prima di andare via da casa mia Freda mi lasciò una lettera scritta di suo pugno, indirizzata a Paolo De Stefano, all’epoca detenuto, con la quale lo ringraziava dell’ospitalità ricevuta a Reggio e si impegnava ad interessarsi per la sua scarcerazione. Ricordo benissimo che consegnai questa lettera al dottor Canale come prova inoppugnabile della presenza del ricercato nella mia abitazione, in modo da consentire la comparazione della scrittura. La missiva era firmata “Giorgio” che era il suo secondo nome. Una ulteriore prova documentale della sua presenza a casa Barreca è costituita dal mio numero di telefono ritrovato sull’agenda che gli venne sequestrata quando venne arrestato». Il questore Mario 184

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Canale Parola ha confermato le circostanze riferite dal pentito ai magistrati della Dda di Reggio Calabria, precisando che fece effettuare una perizia calligrafica comparativa sulla lettera. Perizia che diede esito positivo. «Ponemmo così sotto controllo le utenze telefoniche dell’avv. Paolo Romeo – ha specificato l’alto funzionario di polizia – ed avemmo conferma che il latitante si trovava in Costarica, dove venne ammanettato». Giacomo Ubaldo Lauro fu invece contattato in quei mesi per procurare alla “primula nera” dei documenti falsi. «Mi venne chiesto», ha precisato il collaboratore di giustizia, «se conoscevo un bravo falsario per sostituire una fotografia su un passaporto, nonché per integrare il nome che appariva sul passaporto. Mi dissero che tale lavoro di falsificazione serviva per un documento in favore di Franco Freda. Io li indirizzai da un falsario di Roma che aveva la fama di essere molto bravo e che era stato imputato con me in un processo nella Capitale per dollari falsi». A incastrare definitivamente l’esponente di Ordine nuovo fu un versamento di 50.000 dollari effettuato il sei agosto del 1979 sul conto numero 130, acceso presso la Banca di Credito Agricolo di Cartago a San Josè di Costarica. Versamento che venne individuato dagli investigatori grazie alla collaborazione dell’Interpol. Freda e Piazza Fontana Franco Freda è stato a lungo sospettato d’essere l’ideatore della strage di Piazza Fontana. Uno dei fatti di sangue più oscuri della storia della Repubblica. Un atto criminoso rimasto impunito. Per ricostruire la vicenda occorre partire da una borsa di pelle nera con la fibbia di metallo. È una Mosbach & Gruber, comprata in un negozio di Padova e lasciata sotto il tavolo centrale della sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura di piazza Fontana, a Milano. Dentro c’è una bomba ad alto potenziale. È venerdì: l’ordigno innescato con un congegno a tempo, scoppia alle 16.37. 185

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Il neonazista Franco Freda in aula per il processo sulla strage di Piazza Fontana

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L’onda d’urto investe un centinaio di persone, 16 moriranno. Le ambulanze attraverseranno Milano per ore, soccorrendo complessivamente 87 feriti. Alle 16.25 di quello stesso giorno, un commesso della Banca commerciale di piazza della Scala, in un corridoio a pianterreno, nota un’altra borsa Mosbach & Gruber. È stata dimenticata lì, accanto all’ascensore, da qualcuno. Così, pensa di consegnarla a un funzionario dell’istituto di credito che la apre e vi trova una carica esplosiva. Verrà disinnescata dagli artificieri. A Roma ci sono altre borse uguali cariche di gelignite che esplodono nella sede della Banca Nazionale del Lavoro di via Veneto e in due distinti punti, davanti all’Altare della Patria. Per fortuna nessuno rimarrà ferito. Nel capoluogo lombardo, nel frattempo, gl’investigatori tentano di dare un volto agli attentatori di piazza Fontana. Il prefetto di Milano, Libero Mazza, invia un fonogramma al presidente del Consiglio, Mariano Rumor, paventando che la strage sia opera di «gruppi anarcoidi». Nulla di più sbagliato. Le indagini puntano sul circolo anarchico di Ponte della Ghisolfa. La polizia porta in questura decine di persone, tra queste c’è Giuseppe Pinelli. L’uomo viene trattenuto negli uffici investigativi per tre, interminabili, giorni. La notte tra il 15 e il 16 dicembre vola da una finestra della Questura e finisce la sua vita contro un’aiuola. Viene soccorso e trasportato in ospedale, ma non ci sarà nulla da fare. La polizia sosterrà, nelle ore successive, che si è suicidato. Tutte le persone che l’avevano sottoposto a interrogatorio verranno prosciolte. Tra queste c’è il commissario Luigi Calabresi, all’epoca vice dirigente dell’Ufficio politico. Il poliziotto verrà assassinato a colpi di pistola il 17 maggio di due anni dopo. La sua morte sarà la risposta alla tragica fine di Pinelli. Ma torniamo alla strage. Dopo aver vagliato la posizione di decine di indiziati, l’attenzione degli inquirenti si concentra su Pietro Valpreda, ballerino, che dopo aver frequentato il gruppo milanese di Ponte della Ghisolfa s’è spostato a Roma dove partecipa attivamente alle iniziative del circolo anarchico “22 marzo”. Nella struttura operano degli infiltrati: si tratta di un poliziotto, 187

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Salvatore Ippolito, e di un estremista di destra, Mario Merlino, il quale sostiene di essere anarchico ma è, in effetti, in contatto con esponenti della sua originaria area culturale. Gli “infiltrati”, con le loro imbeccate, rafforzano negli investigatori la convinzione che il ballerino sia coinvolto nell’attentato costato la vita a sedici innocenti. La posizione di Valpreda s’aggrava con la deposizione resa da un tassista che assume di riconoscerlo come l’uomo trasportato fino a piazza Fontana il giorno della strage. Un uomo entrato in banca con una borsa scura e uscitone senza. Tra i pochi a non essere convinti della pista anarchica c’è un grande giornalista: Indro Montanelli, che non riconosce nelle modalità d’azione la mano anarcoide. «Loro usano la violenza», spiega «ma non sparano nel mucchio». La contestuale collocazione di più bombe a Milano e Roma è opera di qualcun altro. Ma lo si capirà dopo. La tesi anarchica veniva, infatti, accreditata da tempo. Da prima della strage. L’Ufficio affari riservati aveva addebitato a quell’area culturale e politica la responsabilità degli attentati compiuti la sera dell’otto agosto del 1969 in danno dei treni. E lo avevo fatto attraverso un’accurata analisi, elaborata da Federico Umberto D’Amato, dei congegni adoperati per danneggiare i vagoni ferroviari. La parziale svolta nelle indagini arriverà nei mesi successivi, quando un prezioso testimone chiederà di essere sentito dai magistrati di Treviso, Giancarlo Stiz e Pietro Calogero. Si chiama Guido Lorenzon e decide di parlare per una «questione di coscienza». Il teste è un insegnante e mantiene da tempo rapporti di amicizia con Giovanni Ventura, piccolo editore trevigiano che pubblica volumi di ispirazione neonazista e dirige la rivista “Reazione”. A lui Ventura ha confidato di far parte di una organizzazione terroristica piramidale che si occupa di creare il terrore, mettendo bombe in varie città italiane con lo scopo di provocare una svolta autoritaria e di favorire un colpo di stato. I magistrati ritengono Lorenzon credibile e aprono un’indagine. I primi accertamenti rivelano la effettiva esistenza di un gruppo del quale fa parte pure il titolare di una libreria padovana: Franco 188

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Freda. È un procuratore legale che fin dal liceo ha fatto parte della gioventù missina e, successivamente, ha presieduto il Fuan locale. Freda, però, è entrato in rotta di collisione con l’Msi di Giorgio Almirante ed ha aderito ad Ordine Nuovo. Il suo mito è Heirich Himmler, comandante delle Ss e sostenitore della supremazia della razza ariana. L’inchiesta dei giudici Stiz e Calogero non si ferma e arriva presto a un altro personaggio, Marco Pozzan, custode di un istituto per ciechi di Padova. L’uomo, interrogato dai togati, riferisce di numerosi incontri durante i quali sarebbero stati pianificati gli attentati compiuti nell’aprile del 1969 alla Fiera campionaria e alla stazione centrale di Milano, nell’agosto dello stesso anno in danno dei treni e in dicembre in piazza Fontana. I due magistrati decidono, perciò, di trasferire tutti gli atti ai colleghi meneghini. Il giudice istruttore Gerardo D’Ambrosio e i pm Luigi Fiasconaro e Emilio Alessandrini, che ereditano l’inchiesta, scoprono subito che tutti gli attentati su cui sono chiamati ad indagare hanno in comune una borsa Mosbach & Gruber. Contattando i rivenditori italiani della nota marca, s’imbattono nel titolare di una valigeria padovana che subito dichiara: «Nei giorni successivi alla strage di piazza Fontana ho detto a due funzionari dell’Ufficio politico della questura che un signore giovane e di bell’aspetto aveva comprato una serie di borse dello stesso tipo nel mio negozio». Stessa cosa l’esercente aveva successivamente confermato a un investigatore dell’Ufficio affari riservati di Roma ch’era andato a interrogarlo. Ai magistrati veneti e lombardi, però, la circostanza, per nulla trascurabile, non era mai stata riferita. Continuando nel loro lavoro, D’Ambrosio, Fiasconaro e Alessandrini arrivano a Guido Giannettini, giornalista romano, di cui trovano traccia in un’agenda sequestrata a Ventura. L’uomo è in forza al Sid, fa parte, insomma, dei servizi segreti. Nessuno, però, l’ammetterà ufficialmente. Alle numerose richieste di chiarimenti avanzate in tal senso dagli inquirenti, sia il governo che i massimi dirigenti del Sid opporranno il segreto di stato. L’inchie189

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sta si conclude con la formale incriminazione di Franco Freda, Giovanni Ventura, Guido Giannettini, Marco Pozzan ( gli ultimi due aiutati a fuggire all’estero dal Sid) e altre trentadue persone. Tra gli imputati, che compariranno davanti alla Corte di assise di Catanzaro, dove il processo sulla strage di piazza Fontana è stato nel frattempo trasferito per legittima suspicione, figurano pure Gianadelio Maletti, direttore del Sid, il capitano Antonio Labruna e il maresciallo Gaetano Tanzilli, anche loro del Sid, accusati di depistaggi e coperture. Pista nera e pista anarchica, però, si sovrappongono incredibilmente. Tra i rinviati a giudizio, per associazione sovversiva e strage, ci sono pure, infatti, Pietro Valpreda e Mario Merlino. Il 23 febbraio del 1979 la prima sentenza. La Corte catanzarese, presieduta da Pietro Scuteri, accoglie le richieste del pubblico ministero, Mariano Lombardi e condanna all’ergastolo Freda, Ventura, Giannettini e Pozzan; infligge due anni a Labruna e quattro a Maletti per falsità ideologica e favoreggiamento; un anno a Tanzilli per falsa testimonianza; quattro anni e sei mesi a Valpreda e Merlino, assolti però dall’accusa di strage. L’Assise dispone, infine, l’invio degli atti al Tribunale dei ministri perchè valuti le posizioni di Giulio Andreotti, Mariano Rumor e Mario Tanassi che, nella loro veste di componenti del governo, hanno apposto il segreto di stato sul caso Giannettini. La Corte d’assise di appello di Catanzaro (presidente Giuseppe Gambardella; procuratore generale Domenico Porcelli) il 20 marzo del 1981 ribalta, tuttavia, il verdetto mandando assolti per il delitto di strage Giannettini, Freda e Ventura con la formula dell’«insufficienza di prove»; assolve Maletti e Labruna dal reato di falso, riducendo loro la pena per l’ipotizzato favoreggiamento; e assolve Merlino, Valpreda, Tanzilli e Pozzan. Quindici anni, ma solo per associazione sovversiva, vengono inflitti a Freda e Ventura. Il dieci giugno del 1982, la Corte di Cassazione (presidente Gennaro Fasani; procuratore generale Antonino Scopelliti) annulla la sentenza di secondo grado, disponendo un nuovo processo per tutti (tranne che per Giannettini) davanti all’Assise di appello 190

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di Bari. Nel capoluogo pugliese tutti gli imputati verranno assolti dall’accusa di strage. È il primo agosto del 1985. Saranno confermate solo le condanne per associazione sovversiva emesse nei confronti di Freda e Ventura e ridotte invece ulteriormente quelle per favoreggiamento inflitte a Labruna e Maletti. Il verdetto passerà in giudicato il 27 gennaio del 1987 quando la Cassazione (presidente Corrado Carnevale; procuratore generale Carmine Cecere) respingerà i ricorsi delle parti. Franco Freda e Giovanni Ventura saranno definitivamente giudicati responsabili di associazione sovversiva per i tragici fatti del 1969. Pietro Valpreda, dopo venticinque anni, sarà finalmente un uomo libero. I successivi processi sulla strage di piazza Fontana istruiti contro Massimiliano Fachini e Stefano Delle  Chiaie prima, e Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi e Giancarlo Rognoni dopo, si concluderanno con sentenze assolutorie passate in giudicato, rispettivamente, nel 1991 e nel 2005. Le nuove istruttorie si basavano sulle rivelazioni di alcuni ex estremisti di destra: Vincenzo Vinciguerra, condannato all’ergastolo per l’eccidio di Peteano in cui persero la vita tre carabinieri; Martino Siciliano, già militante di Ordine Nuovo, coinvolto in attentati dinamitardi e arrestato a Parigi; Carlo Digilio, ordinovista, esperto in esplosivi, informatore dei servizi segreti, ammanettato a Santo Domingo; e Edgardo Bonazzi, in prigione per aver ammazzato nel 1972 un militante di Lotta continua. I processi celebrati, tra il 2000 e il 2005, accrediteranno solo parzialmente le tesi sostenute dai pentiti, anche se acclareranno, in modo indiscutibile, la responsabilità dell’estrema destra nella cosiddetta strategia della tensione. Le conclusioni e il pensiero di Henry Kissinger Riesaminando le vicende degli anni del terrore e dei piani sovversivi significativa appare una dichiarazione fatta da Henry Kissinger, segretario di stato ai tempi della presidenza del re191

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pubblicano Richard Nixon. Parlando con un giornalista dell’uso della Cia nelle operazioni clandestine, Kissinger spiegò che nei consueti rapporti fra nazioni, tra la normale attività diplomatica e l’uso della forza, c’è sempre una «zona grigia» dove si può presentare la necessità di operazioni al di fuori della legalità. Accadde probabilmente questo nel nostro Paese tra il 1960 e il 1976. E accadde all’ombra di patti inconfessabili sanciti tra i servizi italiani, quelli americani e le logge nelle quali operavano alti ufficiali delle Forze armate. Illuminante quanto riferì al giudice istruttore di Milano, Guido Salvini, l’ex agente del Sid Antonio Labruna. L’ufficiale, affetto da un male incurabile e prossimo alla fine, rivelò molti particolari sugli inquietanti scenari di quegli anni, spingendosi ad affermare: «La deviazione non era più un’eccezione, ma una costante nella politica del Servizio informazioni della difesa…». A questo contesto vanno dunque ascritte anche le trame ordite in terra calabra. La “Superloggia massonica” di Reggio, il provocato deragliamento della “Freccia del Sud” a Gioia Tauro, l’ingerenza dell’estremismo di destra nei Moti reggini, gli accordi sanciti tra la ’Ndrangheta e i golpisti di Junio Valerio Borghese, vanno ad aggiungersi di diritto agli “scheletri” custoditi nel museo dei misteri e degli orrori repubblicani. La Calabria, in quegli anni, era tutt’altro che una regione lontana dai centri di potere ed estranea ai progetti di stragisti, massoni deviati, agenti segreti “infedeli” e spietati mafiosi. Il Male era largamente padrone di vaste aree della Magna Grecia e allignava con successo grazie a una serie di colpevoli sottovalutazioni. La democrazia era in serissimo pericolo ma larga parte della classe dirigente fingeva di non accorgersene. Tanti uomini politici sembravano sordi, muti e ciechi...

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L’ASSASSINIO DI ROBERTA LANZINO 26 Luglio 1988

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Il sole brilla nel cielo terso della Penisola. E la gente richiusa negli uffici combatte con la canicola, tenendo i condizionatori accesi e le finestre sbarrate. Le spiagge delle località marine sono affollate di vacanzieri: luglio sta finendo e chi deve tornare a lavoro vuol godersi intensamente gli ultimi giorni di mare. Il traffico nelle città è più caotico del solito. L’afa ha reso gli automobilisti impazienti e lo strombazzamento dei clacson fa da cornice al lento incedere delle ore. L’estate del 1988 è caldissima. Ciriaco De Mita guida il governo nazionale dal 13 aprile: il pentapartito ha preteso la testa del suo predecessore, Giovanni Goria, pure lui democristiano, rimasto in carica solo per pochi mesi. Accanto a De Mita siede, nella veste strategica di sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Riccardo Misasi, più volte ministro della Repubblica e potente ispiratore della linea politica della cosiddetta corrente della “sinistra democristiana”. Il parlamentare cosentino è probabilmente l’uomo più potente della regione. La Calabria è governata da una giunta presieduta dal catanzarese socialista Rosario Olivo che, da poco più di un anno, ha sostituito nel medesimo ruolo il rendese Francesco Principe. Le reti Rai e Fininvest ripropongono in replica le trasmissioni di successo della stagione appena conclusa. Una stagione segnata dai record di spettatori incassati da “Domenica in” di Gianni Boncompagni, condotta da Lino Banfi, dalla trasmissione cult “Indietro Tutta” di Renzo Arbore, da “Telemike” il gioco più ricco della televisione italiana, presentato da Mike Bongiorno, da “Il pranzo è servito” condotto da Corrado che si ripropone poi, in versione estiva, pure con “La corrida”. Le radio trasmettono invece a tamburo battente 195

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“Tell me” di Nick Kamen, “Every Girl and Boy” di Spagna, “Hey bionda” di Gianna Nannini, mentre spopolano in fatto di vendite i long playing di Tracy Chapman, Jovanotti, Lucio Dalla e Gianni Morandi. Michael Jackson è impegnato nel suo tour europeo, partito da Roma il 23 maggio, che coinvolgerà complessivamente 42 città e centinaia di migliaia di fans. Gli appassionati di calcio leggono con slancio e curiosità i quotidiani sportivi per conoscere i segreti del calciomercato e il futuro dei loro campioni. Il campionato europeo in Germania s’è concluso il 25 giugno con la vittoria dell’Olanda di Van Basten, Gullit, Koeman e Rij-kaard sulla temuta Unione Sovietica, guidata dal mitico ct. Valerij Lobanovs’kyj. L’Italia, reduce dalla pessima figura rimediata ai Mondiali del Messico del 1986, s’è presentata in terra tedesca con una Nazionale animata dai nuovi talenti provenienti dall’Under 21. Tra gli Azzurri, allenati da Azeglio Vicini, ci sono Gianluca Vialli e Roberto Mancini. L’avventura della formazione nostrana si conclude tuttavia alle semifinali con l’eliminazione ad opera dell’Urss. Nell’area settentrionale della Calabria regna la pax mafiosa con la tregua sancita due anni prima tra le cosche entrate in guerra nel 1977 dopo l’omicidio di Luigi Palermo, vecchio carismatico boss di Cosenza, da tutti conosciuto come “U Zorru”. Nella Sibaritide, Giuseppe Cirillo, il camorrista che guida il “locale” di ’ndrangheta più forte della zona ionica, è insidiato tuttavia sotterraneamente dai coriglianesi di Santo Carelli che cercano spazio, autonomia e visibilità. E che nel ’90 lo spodesteranno. La gente si prepara alla pausa agostana: si riaprono le case estive mentre si riaccendono le luci delle discoteche costiere. Roberta Lanzino, 19 anni, studentessa al primo anno della Facoltà di Scienze Economiche e Sociali dell’Università della Calabria, non vede l’ora di andare al mare. A Rende, dove vive insieme con i fratelli, il padre Franco, funzionario della Cassa di Risparmio, e la madre Matilde, insegnante di Lettere, la calura è soffocante. Roberta vuol raggiungere la residenza estiva, in località Miccisi di San Lucido, al confine con Torremezzo di 196

L’assassinio di Roberta Lanzino

Falconara, sul litorale tirrenico cosentino. È il pomeriggio del 26 luglio 1988 quando, in sella al motorino del fratello Luca, un “Si” di colore blu, parte in direzione della costa. Il piano di viaggio prevede che imbocchi la superstrada 107 da Rende sino al bivio di San Fili e qui svolti per la Provinciale che, attraversando il territorio di Falconara Albanese, conduce poi verso San Lucido. Non si muoverà in solitudine: i genitori la seguiranno a breve distanza a bordo della “Giulietta” di famiglia. La scelta di non procedere solo lungo la 107, secondo un itinerario molto più lineare, è legata a ragioni di sicurezza: ci sono troppe gallerie e i mezzi in transito filano veloci come schegge. Per chi si sposta in motorino può essere dunque pericolosissimo. Roberta fa il pieno di miscela al “Si”, fa controllare le gomme e si mette in movimento. Indossa jeans di colore blu, una maglietta rosa salmone e porta gli occhiali da sole. Franco e Matilde partono dall’abitazione di via Ciro Menotti, a Commenda di Rende, pochi minuti dopo. Si fermano ad Arcavacata a comprare un cocomero e poi alla fontana del bivio di San Fili, per fare scorta di acqua. Non perdono molto tempo e sono convinti di poter raggiungere la figlia lungo il tragitto. Ma non sarà così. Tra le colline di Falconara vivono due “belve”, due uomini che presidiano il territorio come cani da guardia. Quella è la loro zona. Controllano tutto: chi transita, chi lavora, chi pascola le greggi. Roberta viaggia tranquilla, canticchiando uno dei suoi motivetti preferiti. È il modo che ha trovato per farsi compagnia. I due stanno chiacchierando ai bordi d’un campo coltivato quando passa il motorino. L’inaspettata presenza femminile li eccita. Una ragazza sola, su un mezzo a due ruote, non passa ogni giorno. Forse non passa mai. Vedendola, innocente e spensierata, illuminata dal sole del pomeriggio, si trasformano in bestie. In animali predatori: istintivi, aggressivi, feroci. Si scambiano uno sguardo d’intesa e di diabolica complicità. L’occasione è unica e decidono di pedinare la studentessa per un breve tratto. Salgono su una Fiat 131 “Mirafiori” e cominciano a sbavare, lerci nell’animo e nel corpo. Roberta s’accorge della 197

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berlina ma non s’impaurisce: è ancora giorno e sa che i genitori percorreranno lo stesso tragitto. Stanno arrivando, non c’è problema. Non immagina che gente infernale s’è messa alle calcagne. Loro, i suoi due assassini, aspettano il momento più propizio per fermarla. Che arriva quando lei sbaglia strada, imboccando la lingua d’asfalto compresa tra il bivio di Falconara-San Lucido e Torremezzo. Non c’è nessuno, solo dei pastori impegnati in lontananza a governare il bestiame. Roberta chiede informazioni agli occupanti di un furgone bianco che incrocia casualmente. Dentro ci sono i fratelli Tonnera: tre uomini e una donna, che le forniscono delle indicazioni. Così riparte. Percorre un breve tratto di strada e poi si ferma, perché sospetta di non aver preso la direzione giusta. Chiede perciò conferma a un manovale, Luigi Frangella, impegnato a irrigare le zolle arse dal sole in un campo che lambisce la sede stradale. Ottiene una risposta rassicurante e riprende il cammino. Gli assassini osservano la scena a distanza e la bloccano poco dopo, con la scusa di guidarla nella direzione desiderata. Sembrano gentili, è come se la conoscessero. Lei, però, non si fida. Risponde con garbo ma declina l’invito. Vuole continuare da sola. Sa che lasciando le colline comunque s’avvicinerà alla Statale 18 e, quindi, a casa. Perciò riparte, quasi infastidita dalla presenza di quei due strani personaggi. Si è innervosita e volge lo sguardo indietro per vedere se arrivano i genitori. La “Giulietta” guidata da Franco Lanzino però non si vede. Così, gira la manopola dell’acceleratore e dà gas. Vuole allontanarsi il più velocemente possibile dagli uomini rimasti a bordo dell’auto che hanno improvvisamente cambiato espressione. Hanno uno sguardo strano, difficile da descrivere. È solo una sensazione, ma Roberta l’avverte con forza. Non sorridono più. E non parlano. Che sta succedendo? La diciannovenne è scossa da un brivido che le percorre la schiena. È tuttavia troppo ingenua per comprendere le bassezze ed i turbamenti di due adulti infoiati. Loro hanno già deciso di possederla. Se lo sono detto con un gesto della mano e con qualche frase smozzicata. Bruciano dentro, come l’inferno in 198

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cui sarebbero degni di finire. Quando la ragazza guadagna qualche metro in sella al ciclomotore, l’uomo alla guida ingrana la marcia, lascia la frizione e pigia sul pedale per avviare la “131”. La vettura affianca il motorino e poi gli sbarra la strada. Roberta frena di colpo, perdendo quasi l’equilibrio. Ora ha paura. Il cuore pulsa impazzito e lei urla: “cosa state facendo!”. Ma non ottiene risposte. Le “belve” le saltano addosso, la strattonano, la colpiscono con degli schiaffi, trascinandola poi verso il bordo stradale. La diciannovenne cerca di liberarsi, ma è bloccata: uno la tiene ferma da dietro comprimendole le braccia contro il corpo, l’altro le immobilizza le gambe. Roberta griderà, griderà, griderà… fino allo stremo. Le bestie le strapperanno i vestiti, la violenteranno, colpendola senza pietà al collo con un coltello, conficcandole poi in gola una spallina per strozzare le urla lancinanti. Infine, lanciato il motorino in una scarpata, spariranno come fantasmi. Passa una notte intera senza avere notizie di lei. Il cadavere, dopo le disperate ricerche condotte ininterrottamente dal suo papà Franco e dalle forze dell’ordine, verrà ritrovato alle 6.30 del mattino. Qualche ora prima, a settanta metri di distanza, era stato rinvenuto il motorino. La ragazza è seminuda: ha la maglietta sollevata sul torace, mentre accanto ci sono i jeans tagliati lungo le gambe e gli slip lacerati. La vegetazione sino alla strada è calpestata in modo insistente: traccia del passaggio delle bestie che l’hanno ammazzata. Roberta è stata ferita al collo da due coltellate, presenta tagli anche sul cuoio capelluto, un vasto ematoma in faccia provocato da un pugno ed è morta per asfissia, soffocata da quella spallina usata dai due, perché gridava troppo anche dopo i fendenti inferti alla carotide. La commozione attraversa tutta la Penisola e la notizia della tragedia viene messa tra i titoli di tutti i telegiornali. Eseguita l’autopsia la giovane vittima verrà sepolta nel cimitero di Celico, nella cappella dei Lanzino che sono originari del centro presilano. Ai funerali parteciperanno migliaia di persone.

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Migliaia di persone commosse partecipano ai funerali di Roberta Lanzino

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Le indagini e il processo Partono le indagini. Grazie alla testimonianze offerte da un agricoltore della zona, Olindo De Bartolo, e dai fratelli Francesco, Mario, Domenico e Concetta Tonnera, viene ricostruita una parte del percorso seguito dalla vittima. I Tonnera (in particolare Concetta che subirà poi pesanti e oscure minacce) riferiranno che Roberta aveva perso l’orientamento e li aveva fermati per chiedere indicazioni. Dopo aver ottenuto i chiarimenti sollecitati era ripartita seguita a distanza da una Fiat 131. Un’auto di cui parla agli inquirenti anche un altro testimone, Michelangelo Riggio. L’ultimo a vederla in vita è però Luigi Frangella, manovale della zona, al quale aveva chiesto: «È questa la strada per Torremezzo?», prima di proseguire dopo la risposta positiva dell’uomo. «Nell’immediatezza, subito dopo – preciserà Frangella agli investigatori – passa mio cugino Giuseppe con il suo furgone, poi nessun altro». Un chilometro più avanti verranno trovati prima il motorino e poi il cadavere. Luigi Frangella, celibe, ha un fratello più grande d’età, Rosario, affetto da disturbi psichici, che si dedica al pascolo ed al lavoro nei campi. Pure lui, come d’altronde il cugino Giuseppe, non è sposato. L’inesistenza di una vita affettivo-sentimentale sarà una delle circostanze destinate a giocare processualmente a sfavore dei tre Frangella. Non hanno normali rapporti con il gentil sesso e, quindi, – questo il ragionamento indiziario – potrebbero essersi lasciati andare a gesti inconsulti per soddisfare i loro istinti. Giuseppe finirà, nel breve volgere di qualche giorno, in manette. Offrirà al magistrato inquirente, Domenico Fiordalisi, dati discordanti sui suoi reali spostamenti il pomeriggio del delitto. L’uomo racconterà inoltre al pubblico ministero di Paola, di aver visto quel giorno il cugino Rosario correre agitato con una roncola in mano e, poco più avanti, d’aver notato l’altro cugino, Luigi. Successivamente, preciserà meglio però che le affermazioni rilasciate non sono accuse contro i congiunti, aggiungendo pure 201

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di aver udito, quel pomeriggio, una voce di incerta provenienza. Una sorta di grido lanciato da qualcuno rimasto spaventato per qualcosa. Parlerà inoltre di «un’ombra alta» che asserisce d’aver notato, senza però spiegare di cosa o di chi si trattasse. Luigi e Rosario, sulla base di questa incerta testimonianza, diventeranno i principali indiziati del crimine e saranno arrestati con l’accusa di omicidio e violenza carnale. Giuseppe, invece, finirà incriminato per favoreggiamento. Su Rosario peserà la sua storia clinica: gl’investigatori scopriranno che l’uomo è stato ricoverato, pochi mesi prima, in una casa di cura per malattie nervose dove gli sono stati diagnosticati disturbi mentali. Il pastore è pericoloso, tanto che i sanitari della clinica privata raccomandano ai familiari di evitare di contraddirlo in occasione di banali discussioni, perché potrebbe esplodere la sua indole violenta. Durante il tragitto percorso verso il carcere, Rosario Frangella, stimolato dagli agenti di scorta, dirà che ad uccidere la ragazza è stato il fratello Luigi e che lui l’ha solo aiutato. Poi pronuncerà altre frasi prive di senso logico e, infine, si chiuderà in un ostinato silenzio. Tutto chiaro? Nient’affatto. L’otto agosto il magistrato inquirente trasmette gli atti al giudice istruttore (allora vigeva il vecchio codice di procedura penale) che dispone una serie di perizie scientifiche: esami tricologici per comparare i capelli degli indiziati con quelli trovati nelle mani di Roberta e l’esame del Dna per confrontare il codice genetico degli imputati con quello ricavabile dal liquido seminale e dal sangue prelevati dal corpo della vittima. Non si attendono, tuttavia, i risultati delle perizie per una prima decisione sui Frangella: la settimana successiva, infatti, il Tribunale della libertà di Cosenza ne dispone la scarcerazione. L’organo del Riesame giudicherà «inconcludenti» gli elementi d’accusa raccolti contro gl’indiziati ritenendo le dichiarazioni rilasciate da Rosario nei confronti del fratello Luigi come inutilizzabili perché provenienti da una persona incapace d’intendere e perché raccolte senza i canoni di una formale verbalizzazione. Le frasi del pastore erano 202

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state infatti sintetizzate in una relazione di servizio stilata dagli agenti che l’avevano in custodia. Quanto, poi, al racconto reso da Giuseppe circa lo stato di agitazione dei cugini notato il pomeriggio del delitto, i giudici appaiono categorici: l’incontro tra Rosario e Luigi è avvenuto alle 17.50 ed a quell’ora Roberta Lanzino era ancora viva. La decisione del TdL sarà poi confermata dalla Corte di Cassazione. Nelle settimane successive verrà acclarato che Rosario Frangella, nel frattempo sottoposto a perizia psichiatrica, è affetto da schizofrenia da innesto e quindi totalmente incapace d’intendere e di volere. I giorni intanto passano senza che l’inchiesta faccia particolari passi in avanti. Il due dicembre del 1988, il capitano dei carabinieri Luciano Garofano (che diventerà famoso alla fine degli anni ’90 come comandante del Ris di Parma) consegna il risultato degli accertamenti comparativi sul Dna. La perizia, svolta appoggiandosi anche a specialisti inglesi, si rivela un fallimento. L’esame che avrebbe potuto inchiodare o scagionare i tre indiziati non offre risultati: i tempi e le modalità di conservazione dei reperti hanno infatti determinato la degradazione del codice genetico. Le comparazioni sui capelli accertano, invece, che quelli trovati tra le dita di Roberta non appartengono ai Frangella. Il giudice istruttore, a questo punto, tenta l’impossibile disponendo una perizia bis sul Dna che affida ai professori De Stefano e Canale dell’università di Genova e al prof. Palmieri dell’ateneo di Napoli. Il 24 giugno del 1989 i nuovi consulenti finiscono i loro accertamenti confermando che la degradazione dei campioni non permette l’esecuzione dell’esame comparativo. La prova regina è stata incredibilmente dispersa. Ma c’è dell’altro: sono pure spariti alcuni indumenti di Roberta, quelli repertati sulla scena del crimine, che vengono ritrovati solo grazie alla collaborazione offerta da un dipendente ospedaliero di Paola alla trasmissione televisiva “Telefono Giallo” che si occupa del caso su Rai 3. Il pm Fiordalisi, vista la situazione, chiede al giudice istrut203

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tore Alfonso D’Avino il proscioglimento dei Frangella. È il 16 agosto 1989. Il magistrato, tuttavia, non accoglie la richiesta e, il 30 novembre, firma l’ordinanza di rinvio a giudizio nei confronti dei tre indiziati. D’Avino contesta le conclusioni del TdL e rivaluta gli indizi raccolti a carico dei Frangella ritenendo priva di fondamento qualsiasi pista alternativa al loro coinvolgimento nel crimine. Scrive D’Avino: «Gli elementi a loro carico sono la scena descritta, a mo’ di messaggio, da Giuseppe che dice di aver visto i cugini con gli sguardi inusuali e dispersi; l’accertata predisposizione di Rosario ad uccidere in quel modo; la sua sostanziale ammissione, agli agenti della polizia che lo portano in carcere, di aver solo aiutato il fratello che aveva ucciso la ragazza (…) A ciò si aggiunga il brevissimo spazio di tempo che intercorre tra il momento in cui Luigi dice di aver visto la ragazza ed il momento in cui verrà uccisa; il breve tratto di strada che separa il luogo dove Luigi dice di avere visto Roberta e quello dove verrà trovato il cadavere; il fatto che per quell’ora nessuna altra presenza è segnalata sulla strada oltre a quella degli imputati; e il fallimento di tutte le indagini parallele». Il giudice istruttore ritiene, infine, che si sia trattato di un delitto occasionale. Il processo a carico dei Frangella comincerà il primo ottobre del 1991 davanti alla Corte d’assise di Cosenza. Il dibattimento si rivelerà ricco di colpi di scena. Gl’imputati verranno assistiti dagli avvocati Ernesto d’Ippolito, Pierluigi Pugliese e Antonio Ciacco, la pubblica accusa sarà rappresentata da Mario Spagnuolo e la parte civile patrocinata dagli avvocati Luigi Gullo, Enzo Lo Giudice, Giuseppe Mazzotta e Tommaso Sorrentino. Durante il dibattimento qualcuno tenterà di accreditare, attraverso telefonate e lettere anonime, l’esistenza di una pista alternativa legata all’azione di rampolli della “Cosenza-bene” che avrebbero ucciso la studentessa dopo aver fissato, prima che lei partisse da Commenda, un incontro lungo la strada che porta a Torremezzo. I “figli di papà” saranno introdotti sulla scena investigativa gradualmente. Prima, infatti, vengono spedite delle missive anonime 204

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a padre Fedele Bisceglia, istrionico frate francescano, molto popolare tra i cosentini per le iniziative assunte in favore dei poveri e famoso per essere il leader degli ultras del Cosenza calcio, e all’avv. Antonio Ciacco. Nelle lettere un misterioso personaggio asserisce di conoscere il nome del colpevole del delitto. Lo strano informatore chiede di comunicare telefonicamente con l’avv. Ciacco. Si stabilisce, perciò, di fornire l’utenza del legale attraverso una inserzione civetta pubblicata dalla “Gazzetta del Sud”. Il pm Fiordalisi autorizza l’operazione e fa mettere sotto controllo il telefono del penalista. Nel corso dei colloqui l’anonimo interlocutore parla della Fiat 131 affermando che a bordo viaggiava il figlio di un noto professionista cosentino che villeggiava a Torremezzo e che aveva fatto salire a bordo la vittima per poi ucciderla. Padre Fedele tenta di stanare il “telefonista” fissando, senza successo, un appuntamento. Alla fine le indicazioni fornite via cavo si rivelano palesemente false. Già, perché lo strano informatore riferisce di aver visto tutta la scena dell’omicidio e di essere poi tornato sulla scena del crimine alle 22, individuando grazie ai fari della sua auto, il cadavere della studentessa. La circostanza risulta priva di fondamento perché a quell’ora, in quella tragica sera di luglio, tutta la zona era ormai abbondantemente presidiata e battuta palmo a palmo. Con altre lettere senza firma, inviate questa volta alla magistratura inquirente, viene nelle fasi successive riproposta la tesi del coinvolgimento dei “figli di papà”, azzardando addirittura nomi e cognomi dei protagonisti. Si tratta, purtroppo, dell’ennesima e ben congegnata messinscena. Nel gennaio del 1989 telefonate anonime giungono pure alla redazione del “Giornale di Calabria”. Al giornalista Dino Gardi viene detto di non occuparsi più del caso Lanzino perché è «meglio per tutti». Il senso del messaggio è di non scavare a fondo perché altrimenti emergerebbero scomode verità e segreti inconfessabili. Nulla di più falso. L’ultimo tentativo d’intorbidire le acque è infine posto in essere attraverso un altro finto confidente che racconta a un espo205

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Le forze dell’ordine sul luogo dove è stato commesso il barbaro l’omicidio

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nente delle forze dell’ordine d’aver visto Roberta Lanzino in sella al motorino mentre veniva trainata da una Fiat 131 di colore rosso e con targa straniera. I depistaggi alimenteranno un clima che certo non favorirà la possibilità di fare chiarezza sulla tragedia. La storia dei rampolli di ricche famiglie coinvolti nel crimine aleggerà sull’intera vicenda per anni. Sporcando la figura di Roberta e alimentando voci e sospetti infondati. Luigi, Rosario e Giuseppe Frangella verranno assolti in primo e secondo grado di giudizio. La sentenza della Corte d’assise di appello di Catanzaro sarà poi confermata dalla Cassazione. Astuti inganni e depistaggi L’attività di disinformazione e di depistaggio è stata posta in essere, a dire il vero, già nell’immediatezza della morte di Roberta, attraverso raffinate “tecniche” d’inquinamento probatorio adottate per tenere gl’investigatori lontani dalla verità. Oscure manovre sono state compiute durante tutto il corso delle indagini preliminari. Chi sapeva ha taciuto per omertà e per paura; chi indagava è stato frastornato da una immensa mole d’informazioni sbagliate; chi ha ucciso s’è nascosto dietro l’impalpabile nebbia che ha avvolto l’oltraggiato cadavere della diciannovenne. Al magistrato che caparbiamente indagava si sono opposte forze mai ben individuate di cui si avrà solo successivamente piena consapevolezza. I depistaggi, i finti confidenti e le minacce ai testimoni avevano una comune, precisa, matrice. La conferma giungerà da una serie di testimonianze quando, nel 2007, l’inchiesta sul delitto verrà riaperta. Testimonianze offerte da servitori dello Stato e semplici cittadini. I tre cugini Frangella ingiustamente incolpati nel 1988 dell’omicidio, è probabile che conoscano da sempre particolari che non hanno mai voluto rivelare. Particolari di cui solo uno di loro aveva parlato all’epo207

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ca del delitto, accennando alla presenza di «un’ombra» e ad uno strano sibilo che gli era sembrato un «urlo». La procura di Paola, riavviando le indagini sull’omicidio, ricostruirà la rete attraverso la quale vennero all’epoca artatamente indirizzate le investigazioni, prima in direzione di persone sbagliate (come nel caso del possessore a Montalto di una Fiat 131) e poi verso i cosiddetti “figli di papà”. Al proprietario di una berlina Fiat uguale a quella vista seguire la ragazza nel pomeriggio del delitto, gl’investigatori arrivarono grazie alle mirate e fittizie “soffiate” d’un falso confidente. La “fonte” prima asserì di aver visto l’automobile seguire la vittima e poi riconobbe in foto l’autista Pasquale Volpintesta, originario di Montalto Uffugo, che per sua fortuna risultò essere a lavoro in un cantiere di Cosenza, il pomeriggio del 26 luglio 1988. L’uomo possedeva una berlina che fu fatta visionare anche a Concetta Tonnera, la donna che meglio e più di tutti aveva riferito agli inquirenti particolari sulla 131. L’esame del mezzo diede esito negativo: la testimone, infatti, non riconobbe l’auto, precisando che quella di Volpintesta era marrone, mentre quella che seguiva la studentessa uccisa aveva la carrozzeria color senape. Concetta Tonnera, tra l’altro, dopo aver parlato al magistrato inquirente della presenza della vettura sulla scena del crimine, subì gravi intimidazioni. La prima il 5 agosto del 1988, pochi giorni dopo la sua deposizione, quando qualcuno le disse anonimamente al telefono: «Hai parlato e adesso devi morire»; l’altra nel gennaio 1989, quando furono esplosi numerosi colpi di pistola contro le finestre dell’abitazione del padre. Chi c’era davvero su quell’auto? Nessuno è mai riuscito a stabilirlo con certezza. Il maresciallo dei carabinieri, Cosimo Saponangelo, all’epoca comandante della stazione di Cerisano, confermerà con un’apposita relazione di servizio redatta nel 2007 che, tra gli “informatori” utilizzati per cercare d’individuare gli assassini di Roberta Lanzino, c’era all’epoca Alfredo Sansone, patriarca dell’omonima famiglia e coinvolto, come vedremo, nelle uccisioni del 208

L’assassinio di Roberta Lanzino

maresciallo della polizia penitenziaria Francesco Sansone e nella sparizione dell’allevatore Luigi Carbone. La scomparsa di Luigi Carbone Le azioni di disturbo condotte in occasione del processo istruito per far luce sull’omicidio della studentessa, non hanno rappresentato, però, un caso isolato nella storia giudiziaria locale. La stessa opera di depistaggio è stata architettata dopo la sparizione dell’allevatore Luigi Carbone, avvenuta nel novembre del 1989. Carbone frequentava assiduamente la zona compresa tra Falconara Albanese, Marano Marchesato e Cerisano, teatro, tra il 1988 e il ’90, di cinque omicidi. Si tratta, oltre che della uccisione della diciannovenne rendese, delle morti violente del maresciallo Francesco Sansone, dei pastori paolani Libero Sansone e Pietro Calabria e della casalinga di Falconara Rosaria Genovese. L’allevatore scomparso manteneva all’epoca rapporti stabili con Franco Sansone, l’imprenditore agricolo di Cerisano che, come vedremo, finirà a giudizio nel 2009 proprio per l’uccisione di Roberta Lanzino. Luigi Carbone tra l’altro, quando venne ingoiato dalla lupara bianca, risultava imputato insieme con l’imprenditore e con il padre di lui Alfredo, per l’assassinio dell’omonimo sottufficiale della polizia carceraria trucidato a colpi di lupara. Delitto per il quale sarà poi condannato in contumacia a trent’anni di reclusione. All’epoca della celebrazione del processo (1991), tuttavia, come già era accaduto durante il dibattimento celebrato contro i tre cugini Frangella, sono state poste in essere, con medesimo inquietante “stile”, delle mirate azioni tese a confondere magistrati e investigatori. Qualcuno, infatti, ha tentato ripetutamente di far credere alla Corte che Carbone fosse vivo e vegeto. Quand’era già sottoterra, è stata dapprima fatta circolare la voce, anche attraverso telefonate anonime, che fosse nascosto nelle campagne di Falconara Albanese e girasse camuffandosi con una parrucca bionda. Poi, 209

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uno strano testimone ha riferito ai carabinieri d’aver ricevuto telefonate dallo scomparso con le quali comunicava d’essersi trasferito negli Stati Uniti. Si trattava – s’è appreso successivamente  – di precise operazioni di disinformazione… Il nuovo processo In questo complesso contesto in cui s’incrociano delitti, amicizie pericolose e depistaggi, la chiave in grado di far riaprire le indagini sull’assassinio di Roberta Lanzino è rimasta custodita gelosamente per vent’anni. Rinchiusa nelle segrete della coscienza di due uomini. L’uno fratello d’una donna strangolata, l’altro padre d’una vittima della lupara bianca. Tutti e due uniti dal dolore e dal desiderio di verità. Entrambi intenzionati a rimettere ordine tra le ansie, i ricordi e il rimorso. Sono loro i testimoni che hanno consentito al pm Domenico Fiordalisi di riavviare, nel 2007, l’inchiesta-bis sull’omicidio della studentessa di Rende e di procedere giudiziariamente per tentare di far luce sulla sparizione dell’allevatore di Marano, Luigi Carbone. Sono loro ad avere definitivamente convinto il pubblico ministero che Francesco Sansone, 46 anni, imprenditore agricolo di Cerisano, fosse l’esecutore materiale del delitto Lanzino. Sansone – secondo la ricostruzione del magistrato inquirente – agì con la complicità di Luigi Carbone, «colpendo la ragazza più volte alla gola e alla nuca con un’arma da taglio – così recita il capo d’imputazione contestato nell’aprile 2008 al principale sospettato – e soffocandola con una spallina dopo averla sequestrata e violentata». E proprio Carbone venne successivamente fatto sparire perché non rivelasse gli agghiaccianti segreti di cui era a conoscenza. Per la sua morte con lupara bianca sono stati formalmente incriminati sia il presunto assassino di Roberta Lanzino che il padre, Alfredo, 72 anni, e il fratello, Remo, 45. L’allevatore di Marano, il cui cadavere non è mai stato ritrovato, venne mandato 210

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al creatore perché c’era il rischio che parlasse del coinvolgimento di Franco Sansone nel delitto Lanzino e che svelasse particolari sull’agguato costato la vita, nel 1989, al maresciallo Francesco Sansone (per diabolica ironia della sorte omonimo del presunto omicida). Il sottufficiale svolgeva, all’epoca dei fatti, le mansioni di comandante della polizia penitenziaria di Cosenza e gestiva un terreno in agro di Cerisano dove – a parere del pm Fiordalisi – agiva un’associazione per delinquere dedita ai furti di bestiame, alle estorsioni, al pascolo abusivo e alle espropriazioni private, sotto la direzione del patriarca Alfredo Sansone. Una presunta associazione della quale faceva parte a pieno titolo anche Carbone e che aveva come obiettivo precipuo quello di lucrare denaro e di ottenere la cessione dei fondi rustici a prezzi irrisori. Un gruppo che il sottufficiale delle forze dell’ordine osteggiava a viso aperto e al quale non intendeva piegarsi. E proprio per questo venne ammazzato. Chi metteva infatti piede tra pianori, contrafforti, boschi e colline doveva fare i conti con questa misteriosa ed efficiente consorteria capace d’imporsi con la forza e d’infliggere ai “ribelli” esemplari punizioni. Mettere il naso in questo singolare mondo agro-pastorale, convincere dei testimoni a parlare, non s’è rivelato perciò facile per gl’inquirenti. La ricostruzione del presunto scenario criminale è frutto d’un lungo lavoro investigativo compiuto dai poliziotti della Terza sezione omicidi della Mobile di Cosenza, diretti prima dal vicequestore Stefano Dodaro e, poi, dal parigrado Fabio Ciccimarra. Un lavoro complesso, cominciato dopo le dichiarazioni rese nel 1999 dall’ex capobastone di Cosenza, Franco Pino. Fu il boss, oggi pentito, a indicare per primo in Sansone e Carbone i presunti autori dello stupro e dell’uccisione della studentessa di Rende. Pino rivelò d’aver appreso i retroscena del barbaro crimine, nel 1995, mentre si trovava recluso, nel supercarcere di Catanzaro, insieme con Romeo e Marcello Calvano, “uomini di rispetto” di San Lucido ai quali Luigi Carbone era legato. Romeo Calvano non ha però mai confermato la circostanza, mentre il 211

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cugino, Marcello, non potrà più farlo perché è stato ammazzato nell’agosto del 1999. Ma ecco cosa dice Pino: «Prima venne ucciso il maresciallo Sansone della polizia penitenziaria, poi due pastori di nome Calabria e Sansone, mentre nel frattempo era stata assassinata Roberta Lanzino. Poiché quest’ultimo fatto avvenne nella stessa zona e poiché vi era coinvolto Luigi Carbone mi trovai a parlare di questo episodio con i cugini Calvano con i quali avevo antichi rapporti di amicizia e comparaggio. Tanto Marcello Calvano quanto Romeo mi precisarono che sia il duplice omicidio Calabria-Sansone che l’assassinio del maresciallo Sansone erano stati compiuti dai Sansone di Falconara per motivi legati a interessi patrimoniali. Di ciò i Calvano avevano cognizione diretta in quanto ad entrambi gli agguati aveva partecipato proprio Carbone che era un loro affiliato. Inoltre appresi che erano stati sempre i Sansone a far scomparire Luigi Carbone nel 1989. I Calvano mi dissero pure che a compiere la violenza sessuale e l’omicidio di Roberta Lanzino erano stati Carbone e Sansone. Per quanto riguarda le modalità di questo delitto posso solo dire che fu un fatto casuale. La ragazza si stava infatti recando al mare con il motorino quando, improvvisamente, si trovò in contatto con Carbone e Franco Sansone, probabilmente perché caduta dal motorino o perché doveva chiedere un’informazione. Non so poi cosa sia scattato nella testa dei due autori, fatto sta che commisero l’omicidio. Romeo Calvano, quando c’incontrammo in carcere nel 1995, aggiunse pure che collegato all’assassinio della Lanzino c’era la eliminazione di una signora, facente di cognome Genovese, che era a conoscenza di particolari sull’uccisione della studentessa. La morte di questa signora e di Carbone era da addebitare, a detta di Calvano, al timore da parte dei Sansone che entrambi potessero parlare con le forze dell’ordine dell’accaduto. Io, peraltro, incontrai più volte Luigi Carbone, prima che fosse ammazzato, in un terreno dei Sansone a Falconara. Si trattava di un fondo precedentemente di proprietà di alcuni commercianti di 212

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mobili di Cosenza». Tutto qua. Poco per imbastire un processo, ma abbastanza per seguire un invisibile filo che poteva essere lentamente riavvolto. La mancanza di riscontri diretti alle confessioni del collaboratore di giustizia, la circostanza di non essere riusciti a ritrovare i resti dell’allevatore-complice fatto sparire per lupara bianca, non hanno scoraggiato né il pm Fiordalisi, né gli uomini della Polizia guidati prima dall’ispettore superiore Tonino Pastore e, poi, da Giuseppe Mirabelli. Uomini che, faticosamente, sono riusciti a collegare fatti di sangue apparentemente scollegati ed a convincere testimoni fondamentali a dire, finalmente, tutto quello che sapevano. Alla tragica fine di Roberta Lanzino, dunque, sarebbe connesso, oltre alla sparizione di Carbone, anche lo strangolamento di Rosaria Genovese, la casalinga di Falconara Albanese trovata cadavere, nell’aprile ’90, in un vecchio pozzo nelle campagne di San Lucido, di cui abbiamo già accennato. La donna venne fatta probabilmente fuori perché sapeva del coinvolgimento di Carbone e Franco Sansone sia nell’agguato costato la vita al maresciallo della polizia penitenziaria sia nell’assassinio della studentessa di Rende. A rivelarlo al magistrato inquirente, diciotto anni dopo, è stato il fratello, Gennaro, al quale la Genovese aveva confidato i segreti che le sarebbero poi costati la vita. Segreti che confessò di aver appreso direttamente dagli ipotizzati esecutori dei crimini. «Ne parlò con me e con mio padre, oggi defunto – ha raccontato il testimone – e stabilimmo che non se ne sarebbe dovuto fare cenno con nessuno perché era molto pericoloso». E così, per più di tre lustri, l’uomo non ha aperto bocca. Alla fine del 2007 la svolta, dopo l’incontro con il pubblico ministero Fiordalisi. Lo stesso togato che nel 1988 non era riuscito a far luce sul crimine. Svela Gennaro Genovese: «Mia sorella veniva spesso da me, abitavamo a quattro chilometri di distanza e, di tanto in tanto, scendeva allo Scalo di Falconara. Quando, prima di morire, mi ha detto come erano andati i fatti c’era la buonanima di mio padre che le ha consigliato di non par213

STRAGI, DELITTI E MISTERI

lare di queste cose, di lasciare perdere perché quelli erano delinquenti… Lei diceva che del fatto della Lanzino le avevano parlato sia Luigi Carbone che Franco Sansone. Quest’ultimo bazzicava pure una donna che abitava vicino a mia sorella…». Carmine Carbone, invece, padre di Luigi, pure lui deciso a rompere ogni indugio ed a vincere i timori, ha svelato agli investigatori quanto il figlio fosse soggiogato da Franco Sansone, tanto soggiogato da commettere con lui qualsiasi tipo di reato. Non solo: l’anziano e addolorato genitore ha raccontato che nel suo ultimo giorno di vita terrena il figlio aveva proprio un appuntamento con Sansone. Ed ha aggiunto che, dopo la scomparsa, incaricò Rosaria Genovese di chiedere notizie del congiunto all’imprenditore ora incriminato. Quando la casalinga tornò per riferire la risposta ottenuta, lui l’avvisò che avrebbero ucciso pure lei. La donna, infatti, era stata risoluta con Sansone al quale aveva detto: «Se non fate uscire Luigi me la canto». Qualche giorno dopo la donna sparì. L’ultima a vedere in vita l’allevatore scomparso era stata la moglie, Anna Amendola – anche lei sentita dai poliziotti nella nuova inchiesta – che l’aveva accompagnato il 27 novembre del 1989 in località “Peschiera” sulle montagne di Falconara. Luogo da cui non fece più ritorno. «Quel giorno Luigi – ha raccontato la donna – rientrò a casa verso le 17 e mi disse: “Preparami un paio di stivali, un altro giubbino e quel passamontagna grigio per stasera”. Lo vedevo nervoso. Di solito non stava a casa… Non era del solito umore. Dopo cena mi ha detto: “vieni…” e ha guidato fino a Cramaiola dove c’era una casetta di campagna. Lì è sceso dall’auto con una lampadina. È rimasto dentro la casetta per cinque minuti. Sono sicura che ha preso qualcosa, aveva armi ma non a casa. Aveva un rigonfiamento sulla pancia che faceva pensare a un’arma. Mi fece fermare in uno spiazzo, in località Peschiera. Poi scese dalla vettura dicendomi: “Stasera non aspettare, non preoccuparti… Se non rientro stasera… Però domani verso le 20.30 sono a casa”. Non era in lui, aveva qualcos’altro per la testa». 214

L’assassinio di Roberta Lanzino

Dopo la scomparsa del marito e la morte di Rosaria Genovese, la donna incontrò Franco Sansone e gli chiese notizie del marito ottenendo una risposta sibillina: «Sappiamo dove è andato? Se rientra la Genovese rientra pure Luigi, se non rientra la Genovese non rientra nemmeno Luigi». La testimone ha raccontato questo particolare al pm Fiordalisi e le sue dichiarazioni fanno ora parte del fascicolo processuale. Un fascicolo nel quale l’imputato dei delitti Lanzino e Carbone compare anche grazie alle carte del vecchio processo celebrato contro i Frangella. Gl’investigatori hanno scoperto, infatti, che, durante le indagini compiute nel 1988, Sansone aveva riferito alle forze dell’ordine di aver visto Roberta Lanzino in sella al suo motorino nel pomeriggio in cui era stata assassinata, precisando di aver notato che aveva le gambe scoperte. Ecco cosa dichiarò: «Mentre alla guida della mia Fiat 127 stavo effettuando una manovra di svolta a destra, per imboccare una stradina di montagna, incrociai il ciclomotore con a bordo una ragazza in un rettilineo. Ricordo bene che rimasi meravigliato nel vedere questa ragazza che circolava sul suo ciclomotore con le cosce da fuori in una zona di montagna; tant’è vero che commentai l’episodio con mia moglie che era seduta a fianco a bordo della mia stessa autovettura. Non so se la predetta ragazza indossasse pantaloncini corti o minigonna, ricordo che era con le cosce di fuori». La circostanza apparve all’epoca priva di fondamento perché Roberta indossava i pantaloni e non una gonna. La datata testimonianza e il dato non veritiero riferito all’abbigliamento della vittima sono stati tuttavia rivalutati nella nuova indagine perché dimostrerebbero comunque la presenza dell’imputato – per sua stessa ammissione – sulla scena del crimine. Pure sulla famigerata Fiat 131 che seguiva la diciannovenne, il magistrato inquirente è riuscito a raccogliere indizi interessanti. Un poliziotto, Franco Cipolla, all’epoca in servizio a Reggio Calabria, ma proprietario di un appezzamento di terreno nella zona dell’omicidio, ha raccontato al pubblico ministero di ricordare nitidamente che una 215

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vettura dello stesso tipo era in uso, nel 1988, alla famiglia Sansone. Cipolla spiega che «transitando per la Provinciale notavo, parcheggiate nello spiazzo che immette nel terreno di Alfredo Sansone, un’autovettura Fiat 131 di colore marrone di cui non ricordo la targa, una Fiat 127 di colore bianco ed un camioncino. Alla guida dei mezzi vedevo a volte Franco ed a volte Remo Sansone e, in altre occasioni, persone che non conoscevo». Il dato riferito alla 131, però, è rimasto privo di riscontri: tutti gli accertamenti compiuti presso il Pubblico registro delle automobili hanno fornito esito negativo. Ai Sansone non risulta essere stata mai intestata una vettura di quel tipo. Se l’autore o gli autori del crimine s’erano spostati a bordo della berlina Fiat, è evidente che dopo le dichiarazioni rese da Concetta Tonnera nel 1988, se ne erano sbarazzati immediatamente. Riannodati i fili sciolti di queste oscure vicende, messo ordine tra le carte dei vecchi processi, riesaminati i verbali degli interrogatori resi dai testimoni, la Procura di Paola ha chiesto e ottenuto, nel 2009, il rinvio a giudizio di Francesco, Alfredo e Remo Sansone. Il primo, già condannato con sentenza definitiva a trent’anni di reclusione per la morte del maresciallo Francesco Sansone e della casalinga Rosaria Genovese, è accusato di aver ucciso sia Roberta Lanzino che Luigi Carbone; gli altri due rispondono del solo delitto Carbone. I tre imputati, difesi dagli avvocati Armando Veneto e Enzo Belvedere, si protestano innocenti e tali dovranno essere considerati fino alla definizione della vicenda. Una vicenda che già aveva registrato una formale riapertura delle indagini nel 2000, per iniziativa del procuratore di Paola, Luciano D’Emmanuele. L’inchiesta, però, era stata poi archiviata per l’impossibilità di compiere, al fine di riscontrare le originarie dichiarazioni del boss Franco Pino, specifici accertamenti scientifici sui pochi reperti rimasti. Fino, come visto, alla ulteriore riapertura del caso nel 2007, che tuttavia, secondo l’avvocato Belvedere, non ha assicurato la raccolta di indizi univoci e concordanti in danno degli imputati. Spiega il penalista: «Indizi, effimeri e discordanti, per la gran 216

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parte valutati in un precedente provvedimento di archiviazione dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Paola, su conforme richiesta del pubblico ministero, uniti a nuovi, strani ricordi “ad orologeria” di un nucleo familiare, quello dei Carbone, che serba antico ed eterno rancore verso Francesco Sansone, hanno determinato l’incipit di questo nuovo processo. Ricordo, ormai quattro lustri or sono, di aver partecipato, quale praticante di Studio, alla celebrazione di tre gradi di giudizio, due di merito ed uno di legittimità, sempre per lo stesso triste fatto, durante i quali gli indizi, che attingevano altri imputati, tali Frangella, erano di ben altro spessore e consistenza. Eppure, le sentenze di assoluzione furono perentorie. Auspico che adesso si decida con la stessa serenità e forza d’animo, da parte dei Giudici e non si cerchi, con la complicità di tristi figuri, di dar corpo a quell’effimero!». Il rinnovato dolore di Franco e Matilde Lanzino Franco e Matilde sono due persone ferite. Il dolore l’ha investiti in un giorno d’estate cambiandoli per sempre. Il Male, tuttavia, non è riuscito ad avere la meglio: resistendo alle pulsioni distruttive che una vicenda come quella di Roberta può naturalmente scatenare, hanno scelto di dedicare le loro energie al Bene. In questi anni hanno combattuto con forza le violenze esercitate contro le donne: sono andati nelle scuole, hanno istituito una Fondazione e costruito una casa destinata ad ospitare mamme, figlie e sorelle in difficoltà. Nessuno, meglio di loro, sembra incarnare il miracolo che le energie positive possono compiere sempre e dovunque. Volto rotondo incorniciato da una ragnatela di rughe e occhi scintillanti che trasmettono entusiasmo, Franco è un uomo provato, ma forte. La ferita che ha nell’animo brucia in silenzio, rimanendo garbatamente nascosta. Le parole, le idee, il dinamismo, 217

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l’amore verso il prossimo la tengono confinata nel buio personalissimo che nessuno può scrutare. Sguardo candido, proprio di tutte le mamme, Matilde parla pesando ogni sillaba con un tono di voce che trasmette serenità. Il pianto è ancora nei suoi occhi. Prima vivaci e poi d’improvviso tristi. Sembra una vite sottile ma con radici possenti. Il fascio di nervi che la compone rivela una forza nascosta. Una forza benigna e vitale comune agli uomini e alle donne che hanno sopportato una pena insopportabile. La pena di chi ha perso un figlio e sa che mai più nulla sarà come prima. Non ci saranno Natali ed estati, gioia assoluta e felicità vera. Roberta vive con lei. Ora e per sempre. In nome dell’amore puro che solo un genitore sa dare alle sue creature. Nessun sentimento è tanto potente in tutto l’Universo. Franco e Matilde vivono a Rende e si sono costituiti parte civile nel processo bis cominciato il 6 ottobre del 2010 davanti alla Corte di Assise di Cosenza, presieduta da Antonia Gallo. Nel nuovo dibattimento sono assistiti da un collegio di avvocati composto da Ornella Nucci, Francesco Cribari, Elena Coccia e Marina Pasqua. «Abbiamo sempre chiesto la riapertura delle indagini – raccontano – e abbiamo visto con favore l’inizio di questo nuovo processo. A distanza di tempo e con l’attività sociale che stiamo svolgendo (in questi anni abbiamo incontrato quasi ventimila studenti) il processo non è solo una questione personale, ma rappresenta un accompagnamento alla nostra azione sociale, perché dimostra che la giustizia non vuole fare cadere nel vuoto uno stupro e un omicidio. Il nostro impegno è di promuovere un cambiamento di rotta nella mentalità maschile e femminile. Vogliamo che la gente possa essere libera e trovare il coraggio di denunciare. Troppa gente, per motivi culturali, d’onore o familiari, sopporta angherie e soprusi. Noi vogliamo che si abbia invece autostima e rispetto di se stessi. Per noi quello istruito dalla procura di Paola è un processo importante perché dà risposte alla paura che c’era nel dibattimento celebrato negli anni ’90. Una paura che 218

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non si capiva da dove venisse. Il senso civile – più in generale – di un processo è di rispondere alle istanze della gente. Per noi è importante perché sappiamo di non essere soli, perché c’è anche la Giustizia che vuol offrire delle soluzioni. E questo processo deve dare risposte anche in relazione al dibattimento di appello celebrato negli anni ’90 a Catanzaro. In sentenza si parlava infatti d’insipienza e di incapacità investigative. La celebrazione di un nuovo processo significa che c’è anche una Giustizia che non ha paura di riconoscere di aver fatto degli errori e questa è una cosa importante». Non è facile per loro tornare in aula, rivivere senza filtri la tragedia che li ha investiti. «Ci vuole molta forza per andare in Assise. Io andrò – dice Matilde – perché mia figlia non la lascio sola… là. Voglio andare a sentire… e stare con lei. Speriamo che tutto si svolga in un’atmosfera serena. Questo processo è un completamento del primo. Non è un secondo processo. E serve perché chiude un racconto. Dopo quello che ci è accaduto siamo riusciti a canalizzare le nostre energie verso il Bene. Ci è capitata all’improvviso una cosa così al di fuori di ogni immaginazione e abbiamo capito che se non ci fossimo mossi sarebbe rimasto un omicidio come un altro. Roberta era di una semplicità… non era maligna, era una fanciulla. Semplice, tanto semplice rispetto agli eventi della vita. Con la sua morte è scoppiato il problema della violenza sulle donne in Calabria. Abbiamo voluto che la sua vicenda uscisse dalla episodicità e che desse la forza per fare una battaglia. Speriamo, adesso, che nessuno, quando parliamo ci risponda: “Noi comprendiamo il dolore di due genitori”. La nostra voce non è solo la voce del dolore, perché il dolore è un fatto personale».

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Roberta Lanzino

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Verbale d’arresto di Piromalli Giuseppe, Condello Pasquale e De Stefano Paolo redatto dalla polizia di stato di Roma il 18 ottobre del 1975. Verbale d’interrogatorio del pentito Cesare Polifroni reso a Dda di Torino del 9 marzo 1994. Verbale d’interrogatorio del pentito Cesare Polifroni reso a Dda di Reggio Calabria del 15 aprile 1994. Verbale d’interrogatorio del pentito Cesare Polifroni reso a Dda di Reggio Calabria del 28 aprile 1994. Verbale d’interrogatorio del pentito Mario Inzaghi reso a Dda di Milano del 7 febbraio 1994. Verbale d’interrogatorio del pentito Filippo Barreca reso a Dda Reggio Calabria l’11 novembre 1992. Verbale d’interrogatorio del pentito Filippo Barreca reso a Dda di Reggio Calabria del 18 maggio 1993. Verbale d’interrogatorio del pentito Filippo Barreca reso a Dda di Reggio Calabria del 16 giugno 1994. Verbale d’interrogatorio del pentito Filippo Barreca reso a Dda di Reggio calabria del 8 novembre 1994. Verbali di trascrizione del confronto esperito tra Giacomo Ubaldo Lauro e Roberto Zamboni da Dda di Reggio Calabria del 13 ottobre 1994. Deposizione resa a Pm Reggio Calabria dal questore Mario Canale Parola il 12 novembre 1994. Ordinanza di custodia cautelare “Nord-Sud” Gip di Milano 1993 contenente le dichiarazioni del pentito Saverio Morabito e le osservazioni del pm Alberto Nobili. Sentenza emessa dalla Corte di assise di appello di Reggio Calabria contro Vincenzo Romeo il 26 febbraio del 1953. Richiesta di rinvio a giudizio della procura di Paola nei confronti di Franco, Alfredo e Remo Sansone, 2009. Rapporto finale della Squadra Mobile di Cosenza sull’omicidio di Roberta Lanzino, 2008.

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Indice dei nomi

Indice dei nomi

Abdul Gialil El Warfalli, 59 Abenavoli, Antonio, 119 Abu Freua, 59 Adnan Bacha, 57 Alberti, Gerlando, 145 Alessandrini, Emilio, 189 Almirante, Giorgio, 180, 189 Amantea, Pietro, 37 Amato, Giuliano, 23 Amendola, Anna, 214 Anastasia, Albert, 5 Anastasi, Pietro, 113 Andreotti, Giulio, 114, 116, 121, 190 Anzà, Antonino, 122, 133 Arafat, Yasser, 16 Araniti, Santo, 183 Arbore, Renzo, 195 Argento, Dario, 147 Argiroffi, Emilio, 152 Aricò, Gianni, 161 Ascione, Elena, 123 Ashur Murik, 59 Assad, Afez, 56 Augias, Corrado, 57 Avignone, Rocco, 118 Avignone, Vincenzo, 118 Badalamenti, Gaetano (Tano), 141, 145

Baggio, Sebastiano, 121 Banfi, Lino, 195 Barreca, Filippo, 11, 182, 183, 184 Bartolucci, Lamberto, 28 Battaglia, Piero (Pietro), 149, 150, 152 Battista, Giovanni, 91 Battisti, Lucio, 146 Begin, 18 Belisario, Rosa, 127 Belvedere, Enzo, 216 Benedetto, Caterina, 154 Benelli, Giovanni, 121 Berlinguer, Enrico, 114 Berti, Luciano, 180 Biasin, Vittorio, 64 Bilardi, Antonio, 157 Bilardi, Giovanni, 153 Bisceglia, Fedele, 205 Boemio, Roberto, 27 Bolkan, Florinda, 147 Bomprezzi, Bruno, 53 Bonanno, Joe, 5 Bonazzi, Edgardo, 191 Boncompagni, Gianni, 195 Bongiorno, Mike, 195 Bontade, Stefano, 183 Bontate, Paolino, 145 Borghese, Junio Valerio, 6, 225

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11, 121, 139, 140, 141, 150, 151, 179, 180, 181, 192 Borth, Annelise, 161 Bova, Fernando Maria, 129, 135 Bozzo, Nicolò, 24 Brisinda, Francesco, 37 Brogneri, Enrico, 31, 32, 70, 73, 89 Bucarelli, giudice, 22, 31 Bugnini, Annibale, 122 Buscetta, Masino, 141 Cacia, Rita, 146, 153 Calabresi, Luigi, 187 Calabria, Pietro, 209, 212 Calderone, Antonino, 183 Calderone, Pippo, 141 Callas, Maria, 114 Calogero, Pietro, 188, 189 Calvi, Roberto, 19, 50 Canale Parola, Mario, 184, 203 Cangemi, Andrea, 146, 153 Cannizzaro, Giovanni, 83, 84, 88, 92 Capello, Fabio, 113 Capone, Al, 5, 171 Caponetto, Antonino, 141 Caracciolo, Vincenzo, 167, 168, 169 Carbone, Carmine, 214 Carbone, famiglia, 217 Carbone, Luigi, 209, 210, 211, 212, 213, 214, 215, 216 Carchidi, Addolorata, 35, 36, 37 226

Carioti, Nicola, 78, 79, 81, 82 Carnevale, Corrado, 191 Carrà, Raffaella, 145 Carrera, Emilio, 158 Caruso, Franz, 79 Caruso, Vincenzo, 118 Casalegno, Carlo, 114 Casaroli, Agostino, 122 Casarosa, Carlo, 63 Casile, Angelo, 161 Castiglia, Francesco detto Frank Costello, 5 Catanzariti, Francesco, 152 Catenacci, Elvio, 155 Cecere, Carmine, 191 Celentano, Adriano, 146 Cera, Pierluigi, 146 Cerasoli, Francesco, 125, 129, 130, 131 Chaplin, Charlie, 114 Chapman, Tracy, 196 Ciacco, Antonio, 204, 205 Ciancimino, Massimo, 19, 20 Ciancimino, Vito, 19, 145 Cinotti, Sergio, 91, 92 Cinque, Fabriano, 129 Cipolla, Franco, 215, 216 Callipari, Peter, 5 Calò, Pippo, 183 Calvano, Marcello, 211, 212 Calvano, Romeo, 211, 212 Canale, Ciccio, 168 Carelli, Santo, 196 Ciccimarra, Fabio, 211 Cirillo, Giuseppe, 196

Indice dei nomi

Clarridge, Dewey detto Duane, 104, 105, 106 Clemente, Domenico, 119 Coccia, Elena, 218 Codispoti, Domenico, 168 Colosimo, Giacomo detto “Big Jim”, 5 Concutelli, Pierluigi, 140, 142 Condello, Elisabetta, 117 Condello, Rosanna, 117 Condello, Salvatore, 117, 118 Conidi, Maria Claudia, 172, 176 Consalvo, Giuseppe, 37 Cordì, Domenico, 165 Corrado, 195 Corsini, Pietro, 133 Cosentino, Enzo, 134, 135 Cossiga, Francesco, 16, 17, 20 Cotroni, Vic, 5 Cottone, Gaetano, 37, 38 Craxi, 50 Crea, Francesco, 157, 158 Cribari, Francesco, 218 Croce, Fulvio, 114 Curcio, Renato, 114 D’Agostini, Rosario, 146 Dalla, Lucio, 196 Dalla Mese, Enzo, 63 D’Amato, Federico Umberto, 188 D’Ambrosio, Gerardo, 189 D’Angelo, Claudio, 123

D’Avino, Alfonso, 204 De Bartolo, Olindo, 201 De Cicco, Franco, 119 Delle Chiaie, Stefano, 140, 191 De Marco, Alfonso, 74, 75, 77, 83, 88, 89, 92 Demarcus, Angelo, 96, 97, 99 De Martino, Francesco, 115 De Martino, Guido, 115 De Mauro, Mauro, 134 De Mita, Ciriaco, 195 D’Emmanuele, Luciano, 216 Denes, Roberto, 33, 101, 102 De Palo, Graziella, 20 De Paolis, Mario, 41, 94 De Rossi, Giorgio, 155 De Salvo, Maria Teresa, 118 D’Estaing, Giscard, 17 De Stefano, fratelli, 140, 167 De Stefano, Gennaro, 95 De Stefano, Giorgio, 164, 168, 171, 184 De Stefano, Giovanni, 164, 171 De Stefano, Paolo, 142, 164, 171, 183, 184 De Stefano, professore, 203 Dettori, Mario Alberto, 25, 26, 27 De Vito, Antonio, 127 Di Bari, Nicola, 146 Di Benedetto, Filippo, 65, 66, 67, 68, 69, 73, 77, 97 Di Carlo, Francesco, 134 227

STRAGI, DELITTI E MISTERI

Ezzedin Fadah El Khalil, 57

203, 205, 210, 211, 213, 215 Fiori, Pubblio, 114 Forlani, Arnaldo, 116 Formica, Rino, 27 Franco, Ciccio, 150, 152 Franco, Francisco, 120, 139 Frangella, cugini, 209, 215, 217 Frangella, Giuseppe, 201, 202, 203, 204, 207 Frangella, Luigi, 198, 201, 202, 203, 204, 207 Frangella, Rosario, 201, 202, 203, 204, 207 Freda, Franco, 6, 11, 182, 183, 184, 185, 188, 190, 191 Friscia, Francesco, 119, 125, 129

Fachini, Massimiliano, 191 Fadal Al Adin, 30 Fadal Al Din, 53 Faez Abdul Baki, 59 Falcone, Giovanni, 141 Falletti, Francesco, 119 Fasani, Gennaro, 190 Fazzari, Rosa, 153 Ferracuti, Sandro, 59 Ferrara, Gennaro, 37 Ferrer, Nino, 146 Ferri, Franco, 28 Fiasconaro, Luigi, 189 Finetti, Giovanni Battista, 26 Fioravanti, Giusva, 20 Fiordalisi, Domenico, 201,

Gallo, Antonia, 218 Gambardella, Giuseppe, 190 Gamberini, Alessandro, 17 Gambino, Carlo, 183 Gardi, Dino, 205 Garibaldi, Giuseppe, 150 Gari, Maurizio, 25, 26 Garofano, Luciano, 203 Gasparri, Clemente, 125, 126, 127, 130, 131 Gatti, Domenico, 22 Gelli, Licio, 120, 121 Gemelli, Torquato, 28 Genoese Zerbi, Felice, 143, 152 Genovese, Gennaro, 213

Di Cristina, Antonio, 165 di Cristina, Giuseppe, 141 Di Donna, Roberto, 91, 92 Di Fede, Costantino, 125, 129, 130 Digilio, Carlo, 191 Di Maggio, Francesco, 77 Di Marte, Francesca, 154 Di Monte, Rocco, 38 Dioniso, 144 Di Petrillo, Domenico, 50 d’Ippolito, Ernesto, 204 Di Stefano, Antonia, 154 Docimo, Corrado, 129 Dodaro, Stefano, 211 Dominici, Carmine, 143, 162, 167 Durante, Francesco, 37

228

Indice dei nomi

Genovese, Rosaria, 209, 212, 213, 214, 215, 216 Gheddafi, Muammar, 10, 15, 16, 17, 23, 30, 32, 56, 61, 63, 64, 94, 95, 96, 97, 98, 99, 103, 105, 106 Giacoppo, Pasquale, 118 Giannettini, Guido, 189, 190 Giansante, Carmine, 123 Giorgianni, Letterio, 119 Goria, Giovanni, 195 Grandinetti, Giulio, 85, 87, 89 Grassini, Alberto, 59 Gravina, Carla, 149 Graziani, Ciccio, 113 Greco, Salvatore, 141 Greco, Totò, 141 Guido, Emanuele, 158 Gui, Luigi, 114 Gullit, 196 Gullo, Luigi, 204 Held, Manfred, 63 Hendrix, Jim, 146 Hill, Terence, 147 Himmler, Heirich, 189 Iannelli, Giuseppe, 158 Incornovaglia, Grazia, 117 Inzolia, Vincenzo, 38 Ippolito, Antonio, 155 Ippolito, Salvatore, 188 Jackson, Michael, 196 Jallud, 98, 99

Jovanotti, 196 Kamen, Nick, 196 Kappler, Herbert, 7, 115, 116, 117, 122, 133 Khalil, pilota, 93 Kissinger, Henry, 191, 192 Koeman, 196 Labate, Bruno, 151 Labruna, Antonio, 190, 191, 192 Lagorio, Lelio, 108 Lama, Luciano, 114 Lanzetta, Armando, 119 Lanzino, Franco, 9, 10, 196, 197, 198, 199, 217 Lanzino, Luca, 197 Lanzino, Matilde, 9, 10, 196, 197, 217, 218, 219 Lanzino, Roberta, 9, 196, 197, 198, 199, 201, 202, 203, 204, 207, 208, 209, 210, 212, 213, 214, 215, 216, 217, 218, 219 Lattanzio, Vito, 117 Lauro, Antonino, 166 Lauro, Ubaldo Giacomo, 11, 140, 163, 166, 167, 168, 170, 171, 172, 173, 174, 175, 176, 185 Leone, Giovanni, 114, 116, 121 Leoni, Giuseppe, 179 Ligato, Ciccio, 152 Ligato, Vico, 163 Liggio, Luciano, 141 229

STRAGI, DELITTI E MISTERI

Linguanti, Giulio, 91 Lobanovs’kyj, Valerij, 196 Lo Celso, Luigi, 161 Lo Giudice, Enzo, 204 Lombardi, Mariano, 129, 190 Lorenzon, Guido, 188 Luciano, Lucky, 5 Luigi, “caporale”, 85 Luppino, Giuseppe, 119, 154 Macrì, Antonio, 117, 140, 164, 165, 166, 169, 171 Maestrelli, Tommaso, 113 Maggi, Carlo Maria, 191 Magistrelli, Massimo, 59 Mahmud Eltuhami, 59 Maiorana, Joele, 154 Malafarina, Luigi, 118 Maletti, Gianadelio, 133, 134, 190, 191 Mambro, Francesca, 20 Mancini, Giacomo, 150 Mancini, Roberto, 196 Mantegna, Gino, 119 Marafioti, Bruno, 165 Marafioti, Domenico, 165 Marafioti, Giuseppe, 165 Marano, Francesco, 35, 36, 37 Marcinkus, Paul, 19, 50, 121 Marcucci, Sandro, 26 Martellini, Nando, 144 Martinazzoli, Mino, 70 Martino, Mico, 167 Masi, Giorgiana, 123, 124 Mastroeni, Salvatore, 169, 171, 173, 175, 176 230

Mazza, Libero, 187 Mazzini, Giancarlo, 72 Mazzocchio, Nicolina, 146, 153 Mazzotta, Giuseppe, 204 Medaglia, Francesco, 77, 78, 79, 80, 81, 82, 88, 89, 92 Melillo, Corrado, 28 Merlino, Ada, 176 Merlino, Mario, 188, 190 Messina, Leonardo, 183 Miceli, Vito, 121, 134 Milani, Enrico, 93, 94 Mino, Enrico, 6, 7, 10, 117, 118, 119, 120, 121, 122, 123, 125, 126, 127, 129, 131, 133, 134 Minuti, Diego, 29, 134 Mirabelli, Giuseppe, 213 Misasi, Riccardo, 150, 195 Modugno, Domenico, 146 Monajer, colonnello, 57, 58 Monesi, Ferdinando, 59 Montanaro, Giuseppe, 125, 126 Montanelli, Indro, 115, 188 Morabito, Giuseppe, 165 Morandi, Gianni, 196 Moro, Aldo, 18, 134 Moro, Giovanni, 167, 168 Moser, Francesco, 113 Moussa Salem, 59 Musante, Tony, 147 Mussolini, Benito, 120 Musumeci, Pietro, 50, 51 Muzio, Antonio, 26

Indice dei nomi

Naldini, Mario, 24, 25, 27, 95 Nannini, Gianna, 196 Napolitano, Giorgio, 15 Nirta, Giuseppe, 165 Nixon, Richard, 192 Nucci, Ornella, 218 Nutarelli, Ivo, 24, 25, 27, 95 Occorsio, Vittorio, 142 Oldrini, Francesca, 98 Olivo, Rosario, 195 Opocher, Guido, 139 Orlando, Stefano, 135 Pagliara, Antonio, 26 Palermo, Luigi, 196 Palmieri, professore, 203 Palumbo, Letizia, 145, 146, 153 Panciardi, Randolfo, 121 Pannella, Marco, 10, 123, 125, 131 Papadopulos, Georgio, 139 Parisi, Alessandra, 20 Parisi, Elvira, 20 Parisi, Franco, 25, 33 Parisi, Roberto, 20 Pasqua, Marina, 218 Passiatore Paoletti, Mariangela, 119 Pastore, Tonino, 213 Pelaia, Francesco, 49, 50 Pellegrino, Giovanni, 133 Perri, Rocco, 5 Petrocchi, Romano, 53, 54 Petrocelli, Michele, 56, 63

Picciotto, Salvatore, 153, 157 Piccoli, 50 Piccolo, 37 Piccolo, Giuseppe, 36, 53 Pinelli, Giuseppe, 187 Pino, Franco, 211, 212, 216 Placido, frate, 145, 149, 154 Platone, 139 Poletti, Ugo, 121 Pomposi, Guido, 57, 58, 64, 65 Porcelli, Domenico, 190 Pozzan, Marco, 189, 190 Presley, Elvis, 114 Preziosa, Pasquale, 59 Principe, Francesco, 195 Priore, Rosario, 17, 20, 24, 25, 27, 29, 31, 32, 33, 34, 35, 37, 39, 41, 43, 47, 48, 50, 51, 53, 54, 55, 56, 57, 61, 62, 64, 65, 66, 68, 69, 70, 74, 75, 84, 85, 88, 91, 92, 94, 97, 101, 102, 103, 105, 107 Protti, Daniele, 96 Provvisionato, Sandro, 96 Pugliese, Pierluigi, 204 Pulici, Paolo, 113 Purgatori, Andrea, 64, 72 Quaroni, Alessandro, 59 Raimondi, Salvatore, 38 Rana, Saverio, 27 Re Cecconi, Luciano, 113 231

STRAGI, DELITTI E MISTERI

Recupero, Giovanni, 165 Reder, Walter, 115 Renato, bovaro, 85 Riggio, Michelangelo, 201 Rijkaard, 196 Rimi, Filippo, 142 Rimi, Natale, 180 Rimi, Vincenzo, 142 Riva, Gigi, 146 Rivelli, Liborio, 145 Rizzo, Fulvio, 176 Rognoni, Giancarlo, 191 Romeo, Paolo, 184, 185 Rondanelli, Erasmo, 31, 41, 43, 47, 48, 50, 65 Rossi, Emilio, 115 Rotundo, Pasquale, 29, 30 Ruffini, Attilio, 19 Ruggero, Michele, 38, 40 Ruggieri, Francesco, 123 Rumor, Mariano, 187, 190 Saccucci, Sandro, 180 Sadat, 18 Salazar, Antonio, 139 Salvini, Guido, 11, 142, 143, 162, 192 Sansone, Alfredo, 208, 209, 210, 211, 212, 216 Sansone, famiglia, 216 Sansone, Francesco, 210, 216, 217 Sansone, Francesco maresciallo, 209, 211, 212, 216 Sansone, Franco, 209, 211, 212, 213, 214, 215, 216 Sansone, Libero, 209 232

Sansone, pastore, 212 Sansone, Remo, 210, 216 Santillo, Emilio, 155, 164 Santovito, Giuseppe, 16, 17, 49, 51, 56, 59, 106 Saponangelo, Cosimo, 208 Saracini, Vincenzo, 165 Saragat, Giuseppe, 120 Scaduto, Tommaso, 165 Scalise, Francesco, 38, 45, 73 Schmidt, Helmut, 116 Sciò, Antonio, 95, 99 Sconzo, Gaetano, 26 Scopelliti, Antonino, 190 Scopelliti, Paolo, 159 Scopigno, Manlio, 146 Scordo, Franco, 161 Scriva, Salvatore, 165 Scura, Claudio, 59 Scura, Tonino, 64 Scuteri, Pietro, 190 Scutti, Vittorio, 96 Sergi, Pantaleone, 64, 65 Serraino, 167 Sica, Domenico, 51 Siciliano, Carmelo, 165 Siciliano, Martino, 191 Silverini, Vito, 166, 167, 168, 169, 174 Sindona, Michele, 19 Sinigaglia, Guglielmo, 98, 99 Siri, Giuseppe, 122 Sirimarco, Francesco, 125, 126, 127, 129, 130, 131 Socrate, 139 Somaini, Enzo, 59

Indice dei nomi

Sorrentino, Tommaso, 204 Spagna, 196 Spagnuolo, Mario, 204 Spatola, Rosario, 183 Spencer, Bud, 147 Spina, Giovanni, 37 Stiz, Giancarlo, 188, 189 Stranges, Sebastiano, 92, 93 Stubing, Solvi, 149 Stumpo, Antonio, 68 Suraci, Salvatore, 165 Tanassi, Mario, 114, 190 Tanzilli, Gaetano, 190 Tarsitano, Angela, 84 Tascio, Zeno, 28, 30, 53, 56, 104 Tedoldi, Pierangelo, 25 Terranova, Cesare, 141 Timboli, Robert, 5 Tito, maresciallo, 16 Toni, Italo, 20 Tonnera, Concetta, 201, 208, 216 Tonnera, Domenico, 201 Tonnera, Francesco, 201 Tonnera, fratelli, 198 Tonnera, Mario, 201 Tortora, Enzo, 113 Totaro, Gian Paolo, 27 Trapattoni, Giovanni, 113 Tripodo, Domenico (Mico), 117, 140, 164, 165, 166, 167, 171

Turatello, Francis, 115 Ungaretti, Giuseppe, 149 Vallanzasca, Renato, 115 Valpreda, Pietro, 187, 188, 190, 191 Van Basten, 196 Varriale, Gennaro, 118, 119 Vassallo, Maria, 145, 153 Veneto, Armando, 216 Ventura, Giovanni, 188, 189, 190, 191 Verzera, Giuseppe, 172 Vialli, Gianluca, 196 Vicari, Angelo, 143 Vicini, Azeglio, 196 Vilardo, Luigi, 125, 129 Villot, Jean, 121 Vinciguerra, Vincenzo, 142,

191 Violi, Paul, 5 Volontè, Gian Maria, 149 Volpintesta, Pasquale, 208

Walters, Warren, 91 Wegner, Annelise, 115, 116 Wilson, Larry, 91 Zammarelli, Ugo, 26 Zampogna, Silvestro, 154 Zappia, Giuseppe, 165, 166 Zorzi, Delfo, 191 Zurlo, Anselmo, 31, 41, 43, 47, 48, 50, 65

233

STRAGI, DELITTI E MISTERI

234

INDICE

Prefazione.................................................................... pag. 5 Introduzione................................................................. » 9 LA STRAGE DI USTICA E IL MISTERO DEL MIG LIBICO 27 Giugno-18 luglio 1980............................................ » 13 La ricostruzione dei fatti e l’inchiesta..................... » 21 Il processo e la sentenza.......................................... » 27 Il Mig-23 trovato in Sila.......................................... » 29 La ricostruzione di Priore e le altre testimonianze.. » 34 Il sopralluogo.......................................................... » 39 La memoria aggiuntiva scomparsa.......................... » 47 La restituzione della salma...................................... » 51 La nazionalità del pilota.......................................... » 55 La commissione italo-libica.................................... » 59 Il giallo del relitto.................................................... » 64 Gli altri testimoni scomodi...................................... » 69 Le rivelazioni del ginecologo.................................. » 73 Il detenuto................................................................ » 77 Il funzionario delle Finanze.................................... » 83 L’altro avvocato....................................................... » 85 La valutazione delle cinque testimonianze............. » 87 Il duello aereo e la fusoliera sforacchiata................ » 91 Il mercenario, il legionario e l’ufficiale di marina.. » 94 235

La messinscena........................................................ pag. 99 L’interesse dei servizi segreti stranieri.................... » 103 L’inganno senza fine ............................................... » 106 LA MORTE DEL GENERALE ENRICO MINO 31 ottobre 1977............................................................ Il contesto calabrese, l’omicidio dei carabinieri   e i sequestri di persona........................................ Ma chi è Enrico Mino?............................................ Il viaggio in elicottero............................................. L’inchiesta............................................................... Le testimonianze.....................................................

» 111 » 117 » 120 » 124 » 129 » 133

LA FRECCIA DEL SUD E IL GOLPE DELLA ’NDRANGHETA 22 luglio 1970.............................................................. I golpisti, la mafia e la ’ndrangheta......................... Anatomia d’una tragedia......................................... Le conclusioni della Polfer...................................... La perizia dirompente............................................. La verità ventiquattro anni dopo............................. Le rivelazioni del Buscetta calabrese...................... La sentenza della Corte di assise di Palmi.............. L’assoluzione di Lauro............................................

» 137 » 141 » 144 » 154 » 159 » 163 » 166 » 171 » 172

IL MANCATO PUTSCH E LA SUPERLOGGIA MASSONICA 8 dicembre 1970........................................................... La superloggia......................................................... Freda e Piazza Fontana............................................ Le conclusioni e il pensiero di Henry Kissinger ....

» 177 » 182 » 185 » 191

236

L’ASSASSINIO DI ROBERTA LANZINO 26 Luglio 1988............................................................. pag. 193 Le indagini e il processo......................................... » 201 Astuti inganni e depistaggi...................................... » 207 La scomparsa di Luigi Carbone.............................. » 209 Il nuovo processo.................................................... » 210 Il rinnovato dolore di Franco e Matilde Lanzino.... » 217 Bibliografia.................................................................. » 221 Indice dei nomi............................................................ » 225

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Stampato da

Ragusa Grafica Moderna - Bari per conto di

Pellegrini editore - Cosenza

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