Storie e cantari medievali 9788860325006, 9788860325082

Il volume raccoglie alcuni saggi centrati su storie medievali di larga diffusione: la storia di Alessandro Magno, la sto

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Storie e cantari medievali
 9788860325006, 9788860325082

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studi 36

Maria Bendinelli Predelli

Storie e cantari medievali

Soc ietà

Editrice Fiorentina

© 2019 Società Editrice Fiorentina via Aretina, 298 - 50136 Firenze tel. 055 5532924 [email protected] www.sefeditrice.it isbn: 978-88-6032-500-6 ebook isbn: 978-88-6032-508-2 issn: 2035-4363 Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata

Indice

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La Storia di Alessandro Magno nel Palazzo Chiaromonte di Palermo

7 9 12 15 17 21 23 26 28

1. Storie medievali sul soffitto Chiaromonte 2. La storia di Alessandro Magno 3. Modelli iconografici 3.1 Manoscritti bizantini 3.2 Miniature del Roman d’Alexandre en prose 4. Cultura siciliana 5. L’ultima scena 6. Interpretazione complessiva Manoscritti citati

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Tirant lo Blanc e gli affreschi erotici di San Gimignano

31 32 34 37 40 43

1. Pitture profane 2. La parete nord 3. La parete est: la novella di Salabaetto («Decameron» VIII 10) 4. La parete est: «Tirant lo Blanc» 5. Una storia cortese 6. Al di là delle apparenze

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Il Cantare di Madonna Elena

57

Recitazione e mouvance nel Cantare di Madonna Elena

67

La situazione iniziale nel Cantare di Madonna Elena

67 77

1. La gara di vanti 2. L’offesa della coppa

83

Preistoria del Cantare di Madonna Elena o il ciclo romanzesco della scommessa

83 85

1. Introduzione 2. Antecedenti francesi

88 90 94 97 101 103

3. Il «miracolo» di «Guillermus Nivernensis» 4. Il «Cantare di Madonna Elena» 5. Un «Madonna Elena» fra i romanzi del Duecento? 6. Inflessione miracolistica 7. Altre consonanze 8. Conclusioni

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Lettura in filigrana della novella di Zinevra (Decameron II.9)

123

La Storia della dama bolognese che s’innamora sentendo lodare un cavaliere dal marito

135

Fra cortesia, continenza e magnificenza: reinterpretazioni di un motivo erotico

145

Il motivo del Fier Baiser fra letteratura e folklore

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Opere citate

177

Indice delle illustrazioni

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Indice dei nomi

La Storia di Alessandro Magno nel Palazzo Chiaromonte di Palermo*

1. Storie medievali sul soffitto Chiaromonte Le pitture dello splendido soffitto nel Palazzo Chiaromonte di Palermo (alias «lo Steri»), realizzate fra il 1377 e il 1380, sono sempre apparse come una straordinaria enciclopedia dell’immaginario medievale nei suoi registri morale, simbolico e romanzesco. La rapida decadenza della famiglia Chiaromonte, pochi anni dopo la realizzazione del ciclo pittorico, e le conseguenti rifunzionalizzazioni del palazzo («reggia aragonese, residenza ufficiale del Viceré, tribunale del Patrimonio, tribunale dell’Inquisizione, sede degli uffici giudiziari borbonici e dell’Italia sabauda»1 e oggi rettorato dell’Università di Palermo) lasciarono però decadere la fama del soffitto, che incominciò a essere riscoperto e rivalorizzato soltanto alla fine dell’Ottocento2. Da allora, il lavoro di interpretazione iconografica e simbolica delle immagini e delle sequenze pittoriche è continuato fino a oggi, attraverso gli studi principalmente di Ettore Gabrici ed Ezio Levi (1932), Ferdinanto Bologna (1975), Licia Buttà (2013 e 2015), Antonietta Iolanda Lima (2015)3. Levi e Bologna identificarono con sicurezza, per esempio, le storie del ‘Giudizio di Salomone’, della ‘casta Susanna’, di ‘Giuditta e Oloferne’, di ‘Ele* Pubblicato dapprima in «Prospettiva», XLV (1986), pp. 13-21 e, parzialmente, col titolo Un’interpretazione iconografica relativa al soffitto Chiaramonte di Palermo in Letteratura e arti figurative, Atti del XII Convegno AISLLI (Associazione Internazionale per gli Studi di Lingua e Letteratura Italiana), vol. I, Florence, Olschki, 1988, pp. 357-68. 1 F. Bologna 1975, p. 3. 2 G. Di Marzo 1899. 3 Francesco Carapezza ha commentato l’enigma di una delle scritte sul soffitto (F. Carapezza 2011), Andrea Canova ha analizzato attentamente i rapporti fra la storia di Elena di Narbona dipinta sul soffitto e le sue versioni letterarie (A. Canova 2014), Maria Luisa Meneghetti ha incluso il soffitto dello Steri nella sua rassegna di «storie al muro», soffermandosi sulle scene «tristaniane» (M.L. Meneghetti 2015, pp. 150-53).

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1. Veduta della Sala Magna dello Steri verso la parete nord-est

na di Narbona’, episodi della storia di Tristano, lo svolgimento del lungo ciclo troiano (dall’avventura di Giasone alla distruzione di Troia), estratti dell’Apocalisse… Il significato complessivo del ciclo pittorico è invece discusso, e torneremo sulla questione alla fine dell’articolo. Non tutte le storie raffigurate sul soffitto hanno però trovato la loro spiegazione: ancora molte sequenze rimangono indecifrate, o sono interpretate solo dubitativamente. In particolare le facciate delle travi designate nello studio del Bologna come la XI-A-65 e XIB-214 furono interpretate dal Levi l’una come una qualche versione della leggenda del figlio del diavolo, l’altra come la rappresentazione dell’episodio classico di Fineo e le Arpie. Bologna sollevava dubbi sulle interpretazioni proposte dal Levi, rilevando che in entrambe le facciate compare un elemento unificante nella rappresentazione di un drago (e non di un’arpìa); e ipotizzava che le due sequenze facessero parte di un’unica storia, in conformità di quanto si verifica in tutti gli altri casi di travi istoriate sulla medesima facciata da entrambi i lati del soffitto4. Ciononostante il volume di Francesco Vergara Caffarelli (2009), che rendeva disponibili online i rilievi fotogrammetrici avvenuti durante il restauro del soffitto, continuava ad avvalersi, per l’identificazione delle immagini, dell’inventario fornito dal volume del Bologna; avviene così che le immagini dipinte sulle trabeazioni in questione sono ancora definite 4

F. Bologna 1975, pp. 199-200.

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come «Presunta storia di Fineo e le arpìe» e «Presunta storia del figlio del diavolo», anche se si avverte che «molti particolari delle pur bellissime raffigurazioni risultano incongrui se confrontati con la tradizione a noi pervenuta di questi miti e leggende»5. 2. La storia di Alessandro Magno In realtà, la storia dipinta sulle travi XI-A-65 e XI-B-214 va identificata certamente, in maniera unitaria come già intuito dal Bologna, con la parte iniziale della storia di Alessandro Magno, quale era conosciuta nel Medioevo romanzo. Il romanzo di Alessandro ebbe una larghissima diffusione nel Medioevo, e non solo in Europa; capostipite un’opera ellenistica del III secolo d.C., probabilmente di origine alessandrina, attribuita a uno Pseudo-Callistene, che fu tradotta, compendiata e diffusa in innumerevoli redazioni in tutti i paesi europei nonché in larghe zone dell’Africa e dell’Asia6. Ecco la storia, di cui si potrà controllare l’aderenza alle immagini rappresentate sul soffitto dello Steri: Nectanebo, re dell’Egitto ed espertissimo nell’arte magica, normalmente combatteva le flotte nemiche facendo delle navicelle di cera, che poneva in una conca piena d’acqua piovana, e facendovi su degli incanti con una virga ebenea; un giorno però, nel corso di un simile incanto, vide che gli dèi stessi dell’Egitto conducevano le navi nemiche. Perciò si fece radere il capo, si travestì da indovino, e fuggì dall’Egitto, pervenendo in Macedonia. Qui andò a visitare la regina Olimpia, una volta che re Filippo era assente per ragioni di guerra, e nel corso del colloquio si innamorò della regina Olimpia. Ne guadagnò la fiducia indovinando per arte magica il giorno il mese e l’ora della nascita del re Filippo, e le predisse che il potente dio Ammone si sarebbe innamorato di lei, e che da lui avrebbe concepito un figlio che sarebbe stato per sempre il suo difensore. La notte stessa, la regina vide effettivamente in sogno il dio Ammone che, con in capo corna da ariete e una barba da cane andava a far l’amore con lei. Il giorno dopo Nectanebo le disse che, se avesse concesso a lui una camera nel suo palazzo, quello che Olimpia aveva visto in sogno sarebbe avvenuto davvero. Circa autem vigiliam primam noctis – sono le parole di una delle versioni latine della storia – cepit Nectanebus per magicas incantationes transfigurare se in figuram draconis et sibilando cepit ire contra cubiculum Olimpiadis ingressusque cubiculum, ascendens in lectum eius cepit osculari eam et concumbere cum illa […]. Taliter decepta est Olimpiadis concumbens cum homine quasi cum deo7. F. Vergara Caffarelli 2009, p. 27. Cfr. C. Frugoni 1978; G. Cary 1956); D. J. A. Ross 1988, particolarmente le tavole alle pp. 26, 46, 52 e 60. 7 Der altfranzösische Prosa-Alexanderroman, p. 24. 5

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2. Sala Magna dello Steri, soffitto, trave XI B, Arti magiche di Nectanebo davanti a un bacile; Nectanebo davanti a Olimpia; Nectanebo giace con Olimpia; Nascita di Alessandro

Un altro sogno provocato da Nectanebo in Filippo fa sì che il re non ritenga la regina colpevole del frutto che visibilmente cominciava a crescere in lei; e, a rintuzzare definitivamente i sospetti del re, un giorno che Filippo banchettava cum principibus et primis Macedonie una cum Olimpiade uxore sua[,] Nectanebus […] per artem magicam transfiguravit se in formam draconis et per medium triclinium in quo comedebat Philippus transiens ibat sibilando sic terribiliter, ut pavorem mitteret et turbationem his qui convive erant, et appropinquans ad Olimpiadem posuit caput in gremio eius et osculabatur eam.

Si compie intanto il tempo della gestazione e la regina dà alla luce Alessandro. At ubi puer cecidit in terram, statim factus est terremotus et fulgura et tonitrua magna et signa pene per totum mundum. Tunc siquidem dilatata est nox et usque ad plurimam partem diei extendi visa est. Tunc etiam in Italia saxa de nubibus cum grandine mixta ceciderunt8. 8

Ibidem, pp. 27, 28-29.

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3. Sala Magna dello Steri, soffitto, trave XI A, Nectanebo in forma di drago arriva volando nella sala del banchetto di Flippo e Olimpia; Alessandro e Bucefalo; Il giullare davanti a Alessandro

Al vedere i miracolosi sommovimenti della natura, Filippo decide dunque di allevare il fanciullo come se fosse figlio suo. Passa il tempo. A Filippo viene regalato un cavallo meravigliosamente bello, ma tanto feroce (si nutriva di carne umana) che dev’essere tenuto rinchiuso dietro cancelli di ferro. Gli dèi hanno però vaticinato che chi domerà Bucefalo sarà il successore di Filippo. Manco a dirlo, un giorno il quindicenne Alessandro passò davanti alla prigione dell’indomito cavallo, et mittens manum suam per cancellum, statimque extendit collum suum ipse caballus et cepit lambere manum illius atque complicatis pedibus proiecit se in terram erigensque caput respiciebat Alexandrum9.

Se l’ordine degli avvenimenti narrati è indicato generalmente dalla normale lettura da sinistra verso destra si rileverà, nella sequenza dipinta, un’importante eccezione alla regola10. La nascita di Alessandro vi è infatti collocata Ibidem, p. 36. Del resto il caso non è isolato nel soffitto: si veda, nella sequenza della guerra di Troia, il resoconto di Paride collocato prima del banchetto alle nozze di Peleo (cfr. F. Bologna 1975, pp. 195-196). 9

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subito dopo la scena della seduzione, e prima dell’apparizione del drago al banchetto, in contrasto con la concorde testimonianza di tutti i testi letterari su Alessandro. Si potrebbe ricordare che nel romanzo francese la rubrica del capitolo corrispondente collega direttamente la generazione di Alessandro con la seduzione della regina: «Coument Nectanebus se transfigura en forme de dragon et puis jut o la roïne et engenra Alixandre» (Der Altfranzösische Prosa Alexanderroman, p. 24); ma l’incongruenza è meno grave di quanto non appaia a prima vista. Non bisogna dimenticare che ci troviamo di fronte a una pittura di carattere esemplare, a un racconto, cioè, già interpretato; e infatti, sul lato sinistro del soffitto è raccolta la sequenza degli episodi a carattere, per dir così, cronachistico, storico; sul lato destro sono raccolti invece gli episodi che sottolineano l’eccezionalità del destino di Alessandro: l’apparizione del dio Ammone sotto forma di drago (per quanto frutto di artificio) conferma agli occhi di tutti la soprannaturalità del concepimento di Alessandro; il meraviglioso inginocchiarsi del ferocissimo Bucefalo davanti ad Alessandro addita chiaramente la sua predestinazione al trono. Per quanto riguarda il significato dell’ultima scena, poiché presenta qualche difficoltà di interpretazione, preferirei rimandarne la discussione a fra poco; prendiamo soltanto nota che rappresenta un Alessandro ormai incoronato, in una collocazione di netta superiorità e anche nella posizione, secondo la mia interpretazione, di chi rende un giudizio. Ma mi pare intanto che non vi possano essere dubbi sull’identificazione della storia che soggiace a questa sequenza di scene. 3. Modelli iconografici Ma, una volta soddisfatta la curiosità di sapere a quale leggenda queste scene rimandano, sorge il desiderio di restringere lo sconfinato ambito delle possibili versioni a cui l’ideatore del soffitto e il pittore hanno fatto ricorso e di collegare la narrazione dipinta almeno a un filone circoscritto della leggenda, se non proprio a un testo preciso. Tanto per dare grossolanamente i termini del problema: visto che siamo in Sicilia, escludiamo pure in partenza le versioni più esotiche del romanzo dello Pseudo-Callistene, come la traduzione armena, quella siriaca, quella etiopica, quelle balcaniche, quella russa, magari anche quelle tedesche; restano comunque diverse versioni greche – dal romanzo stesso dello Pseudo-Callistene, di cui sono note, peraltro, sei redazioni, al rifacimento greco medioevale (secoli XII-XIII), al poema bizantino (secolo XIV); le versioni latine (il romanzo dello Pseudo-Callistene fu tradotto in latino una prima volta da Julius Valerius, nel IV secolo, poi nel X secolo da un arciprete Leone di Napoli, e queste traduzioni furono poi variamente epitomizzate e/o interpolate; e le versioni volgari, soprattutto quelle francesi, in verso e in prosa, e quelle italiane, ugualmente in verso e in prosa. Senza contare che anche

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le versioni arabe, ebraiche e iberiche avrebbero qualche probabilità di essere presenti nella Sicilia del XIV secolo!11 Ora, se ci rivolgiamo alla lettura del testo, l’unico risultato che otteniamo è quello di escludere le versioni francesi in verso12, dove la nascita di Alessandro è ricondotta nell’alveo della più stretta legittimità, con l’esclusione esplicita della storia raccontata nel nostro soffitto13. A parte queste, tutte le altre versioni che ho consultato riportano gli stessi episodi di base (arti magiche di Nectanebo, incontro con la regina, adulterio, la trasformazione in drago al banchetto, nascita di Alessandro, Bucefalo domato), mentre d’altra parte nessuna presenta un episodio che corrisponda con precisione all’ultima scena. Viene allora in soccorso l’idea che, come avviene generalmente nell’illustrazione delle storie profane, il pittore dovesse trarre ispirazione dalle miniature che apparivano nel o nei manoscritti che riportavano la storia da illustrare, e che perciò si potrebbe restringere la ricerca al campo dei soli manoscritti miniati della Storia di Alessandro14. A questo punto ancor più viene in aiuto lo studio Alexander historiatus di D.J.A. Ross, il quale non solo ha presentato in maniera meravigliosamente ordinata l’intricata vicenda delle varie redazioni e delle varie derivazioni delle Storie di Alessandro, non solo ha indicato accuratamente quali sono i manoscritti

Cfr. D.A.J. Ross 1988. Nonostante l’attestata presenza di queste versioni nell’Italia meridionale, dove hanno dato luogo, per esempio, a uno dei più antichi mosaici della Cattedrale di Otranto, raffigurante l’ascensione di Alessandro al cielo, condotto da due grifoni, a cui Alessandro tiene davanti dei pezzi di carne come esca. Cfr. C. Frugoni 1973. 13 «Dicunt alquant estrobatour / Que·l reys fud filz d’encantatour. / Mentent, fellon losengetour. / Mal en credreyz nec un de lour, / Qu’anz fud de ling d’enperatour / Et filz al rey macedonor» (lassa IV, vv. 27-32): così la versione ottosillabica di Albéric de Besançon che è, come si sa, la capostipite dei rifacimenti francesi in versi. Interessante però osservare come la storia di Nectanebo, evidentemente diffusa da altre fonti, si impone sempre di più al novellatore che nella versione dei mss. di Venezia (Correr, VI 665) e della Bibliothèque de l’Arsenal 3472 deve razionalizzarla e conciliarla con la sua versione della storia: «Quant li .VII. maistre l’orent apris forment, / Un en i ot de plus grant escïent: / Sur toz les autres sot cil d’enchantement, / Neptanebus ot nom, men escïent. / Par lo rëaume o desïent la gent / Que Alix’. ert sis filz veirement; / Plusor o distrent, mas il ne fu nïent: / Li reis Felis l’engendra veirement. (lassa VII) La versione risalente al romanzo greco fu invece accettata dal rifacimento di Thomas Kent (seconda metà XII secolo). Le citazioni sono tolte da The Medieval French «Roman d’Alexandre», vol. I. Text of the Arsenal and Venice Versions, 1965). 14 Già P. Toesca (1951) ricollegava specificamente alla miniatura i dipinti del soffitto dell’aula dello Steri «per la loro somiglianza con le illustrazioni di materia classica, cavalleresca e di bestiari, e per gli ornati» (p. 832-834); il Bologna addita delle «somiglianze strette» fra gli entrelacs vegetali delle travi III-A-17 e IV-B-172 e gli «entrelacs francesanti di f. 123r nello Speculum historiale appartenente alla Badia di Cava dei Tirreni, e infatti miniato a Cava stessa o a Napoli verso il 1320» (p. 71). E anche per la «decorazione figurata», il Bologna attribuisce il modo pittorico del maestro del Giudizio di Salomone a una cultura figurativa vicina a quella delle «miniaturee trecentesche di scuola bolognese; specie di quelle narrative, che ornano i codici di argomento giuridico nel genere del corpus juris civilis della Biblioteca Nazionale di Torino», ricordando che, secondo le ricerche del Bresc (H. Bresc 1971, pp. 26-34) «fra i numerosi mss. di diritto romano, civile e feudale che […] si incontrano [in Sicilia], hanno una incidenza rilevante quelli di origine bolognese» (p. 111). Analoghi collegamenti fra pitture murali e illustrazioni miniatorie sono stati suggeriti per i temi cavallereschi e profani conservati dalla pittura coeva di area veneta: cfr. E. Cozzi 1980, p. 330; L. Coletti 1935, p. 35. 11

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miniati della storia ma ha anche fornito una visione chiara delle relazioni fondamentali fra le versioni che presentano un ciclo di miniature su Alessandro. Secondo il Ross, già fra i primi manoscritti dello Pseudo-Callistene dev’essercene stato uno abbondantement miniato, che ha trasmesso il suo ciclo di illustrazioni, oltre che agli esemplari più tardi dello stesso romanzo, anche a un certo numero dei suoi rifacimenti: in particolare, alla versione armena, a quella serba, al poema bizantino, alla versione latina nota come Historia de preliis J2 e, attraverso questa, al romanzo francese in prosa che ne costituisce la traduzione, nonché ad altre versioni latine e italiane. Tracce di questo ciclo di illustrazioni si troverebbero già nei resti di un pavimento a mosaico in una villa di Soueidié, in Libano, risalente al IV secolo, e in un manoscritto dell’XI secolo dei Cynegetica dello Pseudo-Oppiano15. Fra i romanzi greci dello Pseudo-Callistene che ci sono pervenuti sono illustrati: 1) Oxford, Bodleian, Barrocci 17 (contenente la redazione ε), in cui il miniatore ha realizzato solo 31 dei 130 disegni previsti, e il cui stato di deterioramento li rende spesso indecifrabili; 2) un manoscritto dell’Istituto di Studi Bizantini di Venezia, proveniente dalla Scuola di S. Giorgio dei Greci, rappresentante la redazione γ: manoscritto della prima metà del XIV secolo, realizzato probabilmente per l’imperatore di Trebisonda, miniato in uno stile fondamentalmente bizantino ma contenente numerosi elementi islamici e particolarmente persiani; designato d’ora in poi come ms. D16. Secondo il Ross, una versione del ciclo di miniature ancora più vicino all’originale ci è conservato dalla traduzione armena della redazione α; il più antico manoscritto miniato di questa versioni appartiene al secolo XIV e si trova al convento dei padri Mechitaristi di San Lazzaro, a Venezia (ms. 424). Probabilmente nella prima metà del XIII secolo il ciclo di miniature del romanzo greco fu adottato per illustrare una delle versioni interpolate della Nativitas et victoria Alexandri Magni regis dell’arciprete Leone di Napoli, nota come Historia de preliis J2. Di questa redazione esistono praticamente due manoscritti illustrati, uno per intero (Lipsia, Stadtbibliothek, Repositorium II 4º 143), realizzato nell’Italia meridionale alla fine del XIII secolo, l’altro illustrato solo ai fogli 1-16 e 35-37 (Vaticana, Lat. 7190). Un terzo manoscritto (Parigi, Nationale, Nouv. Acq., Lat. 174) ha solo quattro disegni. È sulla base della redazione J2 dell’Historia de preliis che fu condotta, nel corso del XIII secolo, una versione in prosa francese che ne ereditò, insieme al contenuto testuale, anche il ciclo miniatorio. Ci rimangono ben 11 manoscritti illustrati di questo romanzo in prosa. Inoltre, altri due manoscritti dell’Historia de preliis, ma in una redazione diversa chiamata J1 furono illustrati pren15 Cfr. D. J. A. Ross, Olympias and the Serpent 1963, pp. 1-21; le miniature dei Cynegetica sono quelle del ms Venezia, Marciana. Gr. 479, ff. 8r e 8v, riprodotte in K. Weitzmann 1947, figg. 133-134. Si veda ora lo studio di Maud Perez-Simon 2015. 16 Cfr. L. Gallagher 1979. Le miniature del manoscritto sono riprodotte in A. Xyngopoulos 1966; visibili oggi sul sito web http://eib.xanthi.ilsp.gr/scripts_and_miniatures/

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dendo a modello miniature del romanzo in prosa francese: si tratta dei mss. Parigi, Nationale, Lat. 8501, del sec. XIV in., e Aberystwyth, National Library of Wales, Peniarth 481, del XV secolo. Il manoscritto di Lipsia, il ms Parigi, Nationale, Nouv. Acq., Lat. 174 (Historia del preliis J2), il ms Parigi, Nationale, Lat. 8501 (Historia de preliis J1) e un manoscritto non illustrato del romanzo greco, versione α (Leida, Biblioteca Universitaria, Vulcanius 93, del XV secolo), provengono tutti dall’Italia meridionale. Lo stesso Ross ipotizza che il passaggio del ciclo di illustrazioni dal romanzo greco dello Pseudo-Callistene all’Historia de preliis J2 sia avvenuto proprio nell’Italia meridionale, o in Sicilia, dove ancora nel XIII secolo si parlava il greco ed era plausibile la presenza di manoscritti dello Pseudo-Callistene17. Dunque, tornando al nostro soffitto, poiché le scene della nostra sequenza corrispondono a quelle del ciclo miniatorio in questione, la scelta fra le molteplici versioni della Storia di Alessandro si restringe ale possibilità seguenti: a) un manoscritto miniato dello Pseudo-Callistene; b) un manoscritto miniato dell’Historia de preliis J2; c) un manoscritto miniato del Roman d’Alexandre in prosa francese. 3.1 Manoscritti bizantini Per andare avanti, ora, nel processo di approssimazione alle versioni modello del soffitto, non ci resta che procedere a una comparazione iconografica fra le varie realizzazioni delle prime miniature del ciclo, ed ecco le osservazioni che scaturiscono da questa operazione: 1) Presenza della scena della natività. I manoscritti del romanzo francese di solito omettono questa scena, che è presente invece nel mosaico di Soueidié, nel ms. D, nel ms. armeno di San Lazzaro, nella versione serba e nei due manoscritti illustrati dell’Historia del preliis J2, e doveva quindi appartenere all’originale ciclo di illustrazioni dello Pseudo-Callistene. Tuttavia, il ms. armeno e il ms. D, preservando quella che doveva essere stata l’iconografia originaria, rappresentano la scena della natività secondo il costume egiziano, con la partoriente seduta su uno speciale sgabello18; il ms di Lipsia 17 «It seems reasonable to assume that it [the late antique picture cycle] entered Western Europe from Byzantium through South Italy in the first half of the thirteenth century. This is the more likely as South Italy and Sicily were at that period the principal domain of the Emperor Frederick II whose interest in Byzantine culture was considerable as he laid claim to the imperial crown. It was also the only part of Western Europe, in which Greek was still spoken and therefore the most likely to contain an illustrated Pseudo-Callisthenes manuscript able to serve as model for an illustrated Historia de preliis» (D.J.A. Ross, Alexander historiatus p. 54). 18 Le miniature del ms D sono visibili online sul sito web http://eib.xanthi.ilsp.gr/scripts_and_ miniatures/; la scena del parto di Olimpia del ms. armeno di San Lazzaro è visibile sul sito web http:// www.engramma.it/eOS2/index.php?id_articolo=2242 (consultati il 25 luglio 2017).

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ne presenta un adattamento, con Olimpia in piedi assistita dalle levatrici e il letto sullo sfondo. Le altre rappresentazioni della scena – incluso il mosaico di Soueidié – mostrano invece la partoriente a letto, e il bambino in braccio a un’ancella che si appresta a lavarlo, con la presenza occasionale di altre ancelle. Si tratta di una scena molto comune, ed è possibile che i miniatori dei manoscritti dove compare il tipo ‘normale’ della natività lo abbiano sostituito a quello raffigurante il parto secondo il costume egiziano, influenzati volta per volta da raffigurazioni analoghe (il mosaico di Soueidié potrebbe ripetere il motivo della nascita di Achille, i mss. cristiani quello della natività del Cristo o del Battista). Resta il fatto che la presenza di questa scena colloca il modello del pittore piuttosto nell’ambito che va dal romanzo greco all’Historia de preliis che nell’ambito delle versioni francesi. 2) Concordanze fra la scena del soffitto e quella del ms. D in certi particolari: a) il velo delle ancelle di Olimpia. Lo studioso che ha presentato le miniature del ms. D indica come una delle peculiarità di questo manoscritto la particolare acconciatura delle ancelle (per esempio nella scena della natività di Alessandro) che, pur trovando qualche corrispondenza in certe acconciature bizantine, risulta addirittura identica a quella che compare in miniature persiane del XIV secolo. Ora, le ancelle di Olimpia, tanto nella scena della natività che nella scena dell’incontro con Nectanebo del soffitto, portano esattamente lo stesso tipo di copricapo; un’ulteriore concordanza si ha nella raffigurazione di teste così acconciate che compaiono nei vani delle finestre, come nella scena dell’incontro con Nectanebo del soffitto e la scena del ritorno di Alessandro dai giochi olimpici nel ms. D19. b) La presenza di un tavolo nella scena della conversazione OlimpiaNectanebo. Tra le tante raffigurazioni di questa scena, il ms. D è il solo a concordare con la scena del soffitto in questo particolare (il supporto del piano del tavolo nel ms. D è un solo arco a tutto sesto, è invece un arco trilobato nel soffitto, ma la stessa forma di arco a tutto sesto trilobato si trova nel ms. D nello sgabello della fig. 210, f. 168v [dove appare la regina delle Amazzoni]; e questa particolare forma è indicata dallo Xyngopoulos come uno degli elementi bizantini del codice)20. c) Altre concordanze. Se le due concordanze sopraindicate sono significative, allora potrà non essere ozioso indicare anche altre concordanze che sarebbero, di per sé, meno rilevanti: il cielo della prima scena del soffitto è raffigurato nello stesso modo di quello che compare nel ms. D nella scena della natività di Alessandro (f. 14v); la generale disposizione delle figure nelle due scene della conversazione con Olimpia è molto simile: Nectanebo a sinistra, in piedi davanti alla regina che è seduta in trono, la mano destra protesa verso Nectanebo e l’altra riposante sulle ginocchia, circondata da ancelle; la 19 20

A. Xyngopoulos 1966, fig. 15 (f. 19r). A. Xyngopoulos 1966, fig. 6 (f. 6v).

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decorazione della porta che compare nella stessa scena è uguale a quella che si trova, ad esempio, nelle figure 50 (f. 43r) e 115 (f. 97v) del ms D, come anche nella fig. 81 del ms. armeno di San Lazzaro21; la forma e la decorazione del bacino di Nectanebo sembrano le stesse dei calici che compaiono sulla tavola di Alessandro nella fig. 91 del ms. D (f. 75r) – come anche nel bacino in cui viene lavato Alessandro nel mosaico di Soueidié (e Achille nei frammenti romani)22; il copricapo di Nectanebo della fig. 3 (f. 3r) del manoscritto ha una qualche rassomiglianza con la corona che Nectanebo porta in capo nella prima scena del soffitto; i troni della regina Candace (fig. 194, f. 157v) e di Nectanebo (fig. 59, f. 49v) nel manoscritto sono collocati in alto su degli scalini come il trono di Alessandro nell’ultima scena del soffitto. In conclusione, il ritrovare elementi bizantini e concordanze specifiche con il ms. D di Venezia fanno pensare che il pittore del soffitto dello Steri dovesse aver conosciuto un manoscritto miniato secondo lo stile bizantino, e probabilmente imparentato con il ms. D; dunque un manoscritto del romanzo greco. 3.2 Miniature del Roman d’Alexandre en prose Le altre scene del soffitto presentano però concordanze ancora più importanti con le illustrazioni del romanzo in prosa francese, particolarmente nelle scene della seduzione della regina, del banchetto, e di Bucefalo domato. Analizziamole una per una. a) Seduzione della regina. Al livello del romanzo greco, la forma assunta da Nectanebo è quella di un serpente e non di un drago (si ricorderà che il greco δρακον significa semplicemente serpente e che soltanto quando si passa al latino draco il significato diventa quello di un drago); e infatti nel ms. D si vede la regina Olimpia a letto, il dio Ammon-Nectanebo in aspetto giovanile che le si avvicina e a fianco del letto un serpente che si distende per tutta la lunghezza del letto e protende il muso verso l’alto23. Il ms. armeno di San Lazzaro e l’Historia de preliis J2 del Vat. Lat. 7190 evitano la scabrosità della scena raffigurando semplicemente Olimpia e Nectanebo seduti l’uno accanto all’altro accennanti un abbraccio24. L’Historia de preliis J2 del ms. di Lipsia raffigura invece la regina e il dragone a letto sotto le stesse coperte – Nectanebo fa l’incantesimo25. La maggior parte, invece, dei 21 22 23 24

fig. 8. 25

F. Macler 1928. D.J.A. Ross, Olympias and the Serpent, 1963, figg. 1a e 4b. A. Xyngopoulos 1966, fig. 8 (f. 8v); D.J.A. Ross 1963, fig. 6b. Vat. Lat. 7190, f. 1r; per il ms. di San Lazzaro: D.J.A. Ross 1963, fig. 6c e F. Macler 1928, Lipsia, Stadtbibliothek, Repositorium II 4º 143, f. 42.

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mss. del romanzo francese in prosa – e coerentemente tutti i più antichi – raffigurano la regina con un giovane a letto sotto le stesse coperte, mentre un dragone o è appollaiato in fondo al letto (dietro o sopra la spalliera) o si libra al di sopra dei due amanti. Le illustrazioni più vicine a quella del soffitto sono quelle dei mss. Bruxelles, Bib. Royale, 11040; Berlino, Kupferstichkabinett 78 C I; Stoccolma, Bib. Reale, V. u. 20; Parigi, Nationale, Lat. 8501 (f. 6v) e Londra, Br. Museum, Royal 19 D I (f. 4v). b) Banchetto. Come già avvertito, i mosaici di Soueidié e il ms. armeno di San Lazzaro rappresentano Nectanebo sotto forma di serpente che dal basso striscia sopra Olimpia raggiungendole il volto; Filippo e Olimpia sono soli26. Nel ms. D e nel Vat. Lat. 7190 la scena manca; nel ms. di Lipsia invece (f. 5v) la scena è compiutamente sviluppata con la tavola imbandita alla quale la coppia regale è assisa assieme ai convitati; un grande drago, strisciando sul pavimento da destra arriva alla regina Olimpia, seduta in fondo a sinistra, e solleva la testa verso di lei27. Conservando la posizione di Olimpia all’estremità sinistra del tavolo, un certo numero di manoscritti dispongono il drago a sinistra del tavolo, con le ali spiegate, rivolto verso la regina: così il Parigino, Lat. 8501 (f. 5v), il Berlinese, i mss. British Museum, Royal 19 D I (f. 4v) e Royal 15 E vi (f. 6v)28. L’Harleiano 4979, f. 12v (e il suo derivato, Br. Mus. Royal 20 A V, f. 7r) presentano il re e la regina seduti in mezzo ai loro convitati, con il drago che arriva volando dall’alto, e si china verso il volto della regina. Nel Bruxelles, Royale, 11040, f. 10r invece, il re e la regina appaiono gli ultimi due convitati di destra, e il drago arriva volando orizzontalmente da destra, in corrispondenza esatta con la scena del soffitto dello Steri29. c) Bucefalo domato. Per questa scena due sono le variabili prese in considerazione: 1. le fattezze di Bucefalo, che a volte è rappresentato come un unicorno, a volte ha due corna (o addirittura tre), a volte è un cavallo normale, senza corna; 2. i rispettivi atteggiamenti di Alessandro e del cavallo. Bucefalo è rappresentato come un unicorno già nel Bodleiano Barrocci 17 (primi anni del sec. XIII) e, sempre in questo manoscritto, Bucefalo è rappresentato in una gabbia a sbarre di ferro verticali con Alessandro che mette le mani sulla o dentro la grata (f. 10r)30. Bucefalo come unicorno appare ugualmente al livello dell’Historia de preliis J2 nel ms. di Lipsia (f. 9v) e nel ms. Vat. Lat. 7190 (f. 2v)31. Il Parigino (Nationale, Nouv. Acq. Lat. 174), degli anni 1250-70, ci presenta invece Bucefalo senza corna, con appena qualche protuberanza (in questo più vicino al testo, che legge, nel romanzo latino: seu 26 27 28 29 30 31

D.J.A. Ross 1963, figg. 1a e 2c. Ibidem, fig. 1c e D.J.A. Ross 1971, fig. 379. D.J.A. Ross 1963, figg. 2d, 1d, 1e. Ibidem, fig. 2a e D.J.A. Ross 1971, fig. 380. D.J.A. Ross 1971, fig. 369. Ibidem, figg. 367 e 368.

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quod de fronte eius quedam mine corniculorum protuberabant32), rinchiuso in una gabbia a sbarre diagonali (è notevole che Bucefalo dietro sbarre diagonali si trova anche nel ms di Venezia dei Cynegetica dello Pseudo-Oppiano, dell’XI secolo); Bucefalo, in piedi, lecca la mano di Alessandro. Questo stesso atteggiamento, del cavallo che lecca la mano ad Alessandro, si ha nel ms. di Lipsia, dove mancano le sbarre e Bucefalo accenna a inginocchiarsi33. Se si passa all’osservazione dei romanzi francesi, qui i manoscritti più antichi (Berlino, f. 12r, Bruxelles, f. 10r e Harleian, f. 15r ) ci presentano un Bucefalo con due corna (legge il testo francese: et avoit II cornes comme de tor marin[?]34); tuttavia, essi concordano con la scena del nostro soffitto per la posizione di Bucefalo, che appare completamente inginocchiato, e per l’atteggiamento di Alessandro che, entrando nella gabbia per una porta a sinistra, afferra il cavallo per uno dei corni (dice il testo francese: si mist sa main dedens le trellis por aherdre le ceval par les cornes35). Inoltre, il ms. Parigi, Nat. Lat. 8501, che contiene una Historia de preliis J1, ma che riprende le sue illustrazioni da un ms. del romanzo francese, ha ancora una volta Bucefalo come un unicorno (f. 7r). Anche in questo caso, quindi, l’iconografia più prossima alla scena del soffitto risulta quella di un gruppo di mss. del romanzo francese – salvo il particolare che Bucefalo è presentato con un corno anziché due: il che può rimandare o a un diverso gruppo di mss. del romanzo francese o a un esemplare del romanzo greco che avesse adottato quest’innovazione (si veda il Bodleiano Barrocci 17 e i due mss. dell’Historia de preliis J2). Le relazioni fra le tre scene citate e la tradizione illustrata del romanzo francese appaiono dunque indubitabili36. Si sarà notato che le concordanze più strette si verificano costantemente con un gruppo di manoscritti: il Berlino, Kupferstichkabinett 78 C I, il Bruxelles, Bib. Royale, 11040 e il Londra, British Library, Harley 4979. È il caso a questo punto di avvertire che i tre manoscritti in questione (insieme a un quarto, appartenente a una collezione privata americana) sono già stati riconosciuti come imparentati l’uno con l’altro, tanto dal punto di vista testuale che da quello iconografico, e probabilmente usciti dallo stesso scriptorium. Lasciamo parlare il Ross: A second redaction [del romanzo francese in prosa] was made between 1252, the date of the Speculum Historiale of Vincent of Beauvais, which is mentioned in the prologue on Der altfranzösische Prosa-Alexanderroman, p. 35. La doppia convergenza da un lato con il ms. dei Cynegetica, dell’XI secolo, dall’altro con il ms. di Lipsia (principio del XIII secolo) indica che il Parigino conserva un’iconografia notevolmente antica. 34 Der altfranzösische Prosa-Alexanderroman, p. 35. 35 Ibidem, pp. 35-36. 36 Anche un manoscritto tardo come il Londra British Library, Royal 15 E. VI, realizzato nel 1443-45 (ora disponibile online), conserva ancora una sorprendente concordanza iconografica con la scena della seduzione della regina. 32 33

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the early history of Macedon added to this redaction, and again about 1290, the approximate date of the earliest surviving manuscripts of redaction II […] The three manuscripts of B, Br and H all show the same thirteenth-century Franco-Flemish style and practically the same set of pictures treated in the same way. The Berlin and Brussels manuscripts are very close indeed while Harley contains a number of subjects missing in the other two, but the connection is still clear both stylistically and iconographically. […] All three must be regarded as deriving independently from an earlier model37.

Il soffitto Chiaromonte sembrerebbe a sua volta dover essere avvicinato a questo particolare filone del romanzo francese; il particolare del drago che arriva volando in orizzontale a baciare la regina al banchetto e l’accentuata concordanza che si verifica anche nelle altre scene potrebbero restringere ancor più la gamma dei possibili modelli, circoscrivendoli a un manoscritto strettamente imparentato con il Bruxelles, Royale 11040. Una serie di scene che rivelano relazioni da un lato con una versione bizantina del romanzo greco, e dall’altro con la tradizione miniatoria del romanzo francese si potrebbe far risalire – a fil di logica – a una redazione intermedia fra il romanzo greco e il romanzo francese, e cioè a una Historia de preliis, giusta l’ipotesi del Ross che in Sicilia debba essere avvenuto il passaggio dal ciclo di miniature dello Pseudo-Callistene a una Historia de preliis J2, che a sua volta ha dato luogo alla fioritura delle miniature del romanzo francese. È un’ipotesi attraente, che potrebbe essere corroborata dal fatto che le concordanze con il romanzo francese si verificano con i più antichi manoscritti miniati di quest’ultimo, e che il soffitto di Palermo ci presenta Bucefalo come un unicorno, come due manoscritti dell’Historia de preliis J2. Tuttavia, le relazioni riconosciute del soffitto con manoscritti bizantini da un lato e francesi dall’altro possono spiegarsi ugualmente bene supponendo che il pittore dello Steri abbia avuto sott’occhio, appunto, tanto un manoscritto del romanzo greco che una redazione miniata del romanzo francese. La rappresentazione di Bucefalo domato corrisponde infatti con una certa precisione a un’innovazione, rispetto al testo latino, della traduzione francese. Mentre il testo latino dice: et mittens manum suam per cancellum, statimque extendit collum suum ipse caballum et cepit lambere manus illius, il testo francese ha: si mist sa main dedens le trellis por aherdre le ceval par les cornes. È il testo latino che dà origine all’iconografia dei mss. dell’Historia de preliis (Lipsia e Parigi, Nat., Nouv. Acq., Lat. 174), come è il testo francese che dà ragione dell’iconografia adottata dai manoscritti del romanzo francese, e che si ritrova nel soffitto. Si consideri anche la data tarda del soffitto rispetto al momento in cui dové verificarsi il passaggio dal ciclo miniatorio del romanzo greco al testo latino, e da questo al romanzo francese. A metà del sec. XIV erano abbondantemente disponibili copie miniate del romanzo francese, e già all’inizio del XIV il disegnatore che illustrò il ms. Parigi, 37

D.J.A. Ross 1963, pp. 55 e 56.

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Nationale, Lat. 8501 (versione J1 dell’Historia de preliis) – manoscritto proveniente dall’Italia meridionale – aveva fatto ricorso a un modello contenente il romanzo francese anziché a una copia dell’Historia de preliis J2. 4. Cultura siciliana La presenza di opere francesi aveva una lunga tradizione in Sicilia, favorita dalle circostanze storiche: ancor oggi si trovano nelle biblioteche di Palermo e di Montreale delle Bibbie di mano francese del XIII secolo38. Nella sua recensione degli inventari di biblioteche siciliane dal 1299 al 1499, Henri Bresc sottolinea la presenza di libri francesi, in particolare opere romanzesche: La présence du livre français est, quant à elle, beaucoup plus significative, en raison du fossé même que les Vêpres sont censé avoir creusé entre la Sicile et la «gens gallica». Mais le français est la langue internationale de la culture chevaleresque. La bibliothèque de Giovanni de Cruyllas, sur 19 volumes, compte 14 ouvrages en français […]. Dans les bibliothèques de nobles siciliens, Matteo del Caretto […] et le testateur non identifié, les livres français (8 volumes) restent anonymes et sans titre. On peut identifier un Galehot, mais l’inventaire ne précise pas s’il est français. Il est très probable que ces livres français aient été des romans comme dans les inventaires de Catalogne et de Ferrare, et dans la bibliothèque de Giovanni de Cruyllas39.

Non solo; ma nella tipologia che il Bresc ricava dall’esame di questi inventari, associando il tipo di libri posseduti alla professione e alla collocazione sociale dei proprietari, appare che la letteratura cavalleresca è particolarmente favorita dalle classi aristocratiche. Nessuna meraviglia perciò che la corte di Manfredi possedesse un volume francese del romanzo di Alessandro. Per quanto riguarda poi l’altro esemplare miniato che abbiamo supposto come modello delle nostre pitture, sarà interessante ricordare che «benché nell’età angioina e nella prima età aragonese la Sicilia non sia emersa per un’attività miniatoria comparabile, per originalità e sfarzo, a quella delle epoche [normanna e sveva], pure un’attività ci fu»40; attività nella quale sono identificabili due correnti: una, legata «in unità estetica a quella dell’Italia meridionale», manifesta, insieme a un’«aderenza ancora sensibile ai modelli bizantini», un «consolidamento della parentela con la scuola bolognese», e si esprime in un gruppo di Corali esistenti a Palermo e a Messina; l’altra è caratterizzata da una forte assimilazione delle esperienze bizantine che si stavano verificando in quel periodo, noto come «rinascenza greca», sotto la dinastia dei Paleologhi. Secondo la Daneu-Lattanzi, questo gruppo di codici «appare a prima vista quasi tagliato fuori dal continente, tanto forte ne è il carattere bizantino». 38 39 40

A. Daneu-Lattanzi 1966, p. 52. H. Bresc 1971, p. 58. A. Daneu-Lattanzi 1966, p. 65 e segg.

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Hugo Buchtal ha studiato, tra questi manoscritti, le miniature di un Leggendario di Santi (Torino, Bib. Nazionale, I.II.17) e delle Vitae Patrum (Vat. Lat. 375)41. I due manoscritti sono attribuiti a uno scrittorio palermitano e assegnati alla seconda decade del XIV secolo, all’epoca cioè del re Federico. In entrambi i casi le conclusioni del Buchtal sono che «in addition to the various traditional sources used for the cycles of saints’ lives, the scriptorium also had a very up-to-date, contemporary, Byzantine models, which the illuminators not only copied, but also re-interpreted for their own ends»42. Alla luce di questi esempi paralleli, appaiono ancor più plausibili e spiegabili le concordanze di cui abbiamo parlato fra il nostro soffitto e il manoscritto greco di Venezia, che è, ricordiamolo, della prima metà del XIV secolo e di cui nessuno ha mai proposto né un’origine né un soggiorno siciliani; ma il manoscritto greco modello al soffitto dello Steri poteva precisamente appartenere a questa scuola palermitana particolarmente aperta e informata sulle contemporanee miniature bizantine. Conferma quest’ipotesi una singolare concordanza che si riscontra fra il nostro soffitto e le miniature studiate dal Buchtal. In queste ultime, e in entrambi i manoscritti, compaiono scenes set in interiors which are represented in a fore-shortened setting, either with one side wall seen from the outside and the coffered ceiling receding in parallel lines, or in strictly frontal view, with both side walls seen in perspective from within and the roof beams converging toward the center43.

Questa particolare configurazione, in uso già nella pittura classica romana, e di ascendenza tipicamente italiana, rimanda immediatamente, com’è ovvio, alle scoperte spaziali della pittura italiana del primo Trecento, e infatti l’argomento è utilizzato dal Buchtal precisamente per collocare la datazione di queste miniature non prima della seconda decade del XIV secolo. All’altezza del 1377-80 (data dell’esecuzione del soffitto), nel vedere una camera di Olimpia, una gabbia di Bucefalo, un trono di Alessandro dipinti in prospettiva, la cosa potrebbe non meravigliare nessuno, tanto si è abituati a questo tipo di rappresentazione spaziale; ma quando si legge, nel Buchtal, che, nei due manoscritti «the two types of box-like interior settings are endlessly and indiscriminatly repeated throughout the manuscripts, without the slightest change, as if they were copied mechanically from a pattern book»44; e si nota che fra le stanze raffigurate nei due manoscritti ve ne sono che presentano due porte, una su ciascuna delle pareti laterali, proprio come nel nostro soffitto45; e poi, tornando al soffitto, si riscontra che le tre H. Buchtal 1966, pp. 105-118. Ibidem, p. 111. 43 Ibidem, p. 109. 44 Ibidem, pp. 109-110. 45 Per esempio in Torino, Nazionale, I II 17, fol. 152 e Vat. Lat. 375, fol. 39. H. Buchtal 1966, figg. 28 e 29. 41

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‘stanze’ sono raffigurate precisamente identiche e che anzi, per ripetere quel modulo architettonico, si sbaglia completamente la prospettiva del trono di Alessandro (che è visto obliquamente mentre la parte superiore presenta di nuovo la stessa prospettiva frontale), allora l’ipotesi di una connessione fra le scene rappresentate sul soffitto e quelle delle miniature palermitane della prima metà del ’300 diventa assolutamente convincente. Ecco dunque che, anche per quanto riguarda il manoscritto del romanzo greco utilizzato come modello dal nostro pittore, si è riusciti a circoscrivere con una soddisfacente approssimazione l’ambiente geografico e culturale. A questo punto, diventa quasi commovente incontrare all’Archivio di Stato di Palermo, nei registri del notaio Pellegrino Salerno, la notizia che il 1° aprile 1338 un magister miniator palermitano, Filippo di Nicolò, si impegnava verso Berardo di Ferro, cavaliere residente a Marsala, a disegnare e fare miniare omnia capita et ystorias infrascriptorum quatuor librorum […] scilicet libri alexandri, martiniane, conqueste sicilie et troyani seu ystoriarum troie bene et legaliter in pace, etc46.

5. L’ultima scena Questo excursus su aspetti culturali e artistici della Sicilia del Trecento ci ha portati lontani dal proposito da cui eravamo partiti (cioè l’interpretazione iconografica di una sequenza pittorica del soffito Chiaromonte), e al quale converrà ritornare, visto che ci resta ancora da interpretare l’ultima scena. Il dipinto è, purtroppo, fortemente danneggiato all’estremità destra. Quello che è chiaramente riconoscibile è, comunque, Alessandro in trono e davanti a lui una figura che sembra perorare una qualche causa, con un liuto in mano. Ora, fra le storie di Alessandro che io conosco, ci sono tre episodi in cui compare un suonatore. Uno è l’episodio di Ismenia, che si verifica durante la presa di Tebe: mentre la città veniva messa a ferro e a fuoco, [q]uidem vero homo musicus de eadem civitate cui nomen erat Hysmenia, videns dissipationem patrie sue statimque prostravit se ad pedes Alexandri et cepit lamentare per artem musicam et rogare eum, sperans flectere animum eius, ut tandem aliquantum miseretur civitati…

Ma Alessandro non si lascia commuovere: Quo audito Alexander iratus est valde et iussit a fundamentis evellere murum ipsius civitatis47.

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A. Daneu-Lattanzi 1966, p. 80. Der Altfranzösische Prosa-Alexanderroman 1920, par. 39, p. 83.

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Questo episodio appartiene al romanzo dello Pseudo-Callistene e all’Historia de preliis ma è completamente scomparso dal rifacimento in prosa francese. Fra le miniature che illustrano l’episodio, il ms. armeno di San Lazzaro presenta Alessandro seduto in trono mentre il musicista inginocchiato suona una specie di clarinetto48; il ms. D omette l’episodio; nei mss. di Lipsia (f. 27r) e Vat. Lat. 7190 (f. 10r) Alessandro è in piedi circondato da soldati e il musicista gli è inginocchiato davanti; a fianco, altri soldati abbattono un muro (ms. di Lipsia), o la città è in fiamme (Vat. Lat. 7190). Nel nostro soffitto, notiamo che il musicista non sta affatto suonando il suo strumento, e non vi è alcuna traccia della violenta distruzione di una città. L’identificazione della scena con questo episodio appare dunque molto improbabile. Nel Roman d’Alexandre in versi (redazione compilata da Alexandre de Paris) l’episodio compare modificato. Alessandro ha appena abbattuto la città di Tarso, ed è tornato al suo padiglione a mangiare e a riposarsi, quando gli si avvicina un harperes: Devant le tref le roi s’est li harperre assis Et commença un lai que molt ot bien apris, De la harpe aus fleütes ne fu ainc entrepris; Molt fu bien escoutés d’Alixandre et des Gris. Quant li rois ot mengié, si l’a a reison mis: «Di, va! dist Alixandres, dont es? de quel pais?» Li herperres respont: «Sire, tu as mespris; Je sui uns chevaliers, povres et de bas pris, De cele gaste vile tous estrais et naïs Que tu as hui gastee et le regne conquis; Ier estoie je riches, or sui povres mendis. Et tu dis: ‘De quelle terre?’ Mervelles as enquis». Qant l’entent Alixandres, si a geté un ris. «Par mon chief, dist li rois, a parole m’as pris. Se tu es d’avoir povres, je t’en donrai, amis; Vien avant, sans-demeure, tien, je t’en ravestis De la cité de Trace et de tout la païs; Ja n’en perdras plain pié tant com je soie vis; Ne ne m’en tornerai, de ce soies tous fis, Ains iert ausi peuplee comme iert or a huit dis Et seront redrecié li mur d’araine bis». Devant lui s’agenolle, li rois poësteïs Li a doné la terre par son peliçon gris. (G Text of Branch I, l. 127, vv. 2631-2654)49

F. Macler 1928, p. 22. Version of Alexandre de Paris. Text, a cura di E.C. Armstrong-D.L. Buffum – B. Edwards –L.F.H. Lowe. «The Medieval French Roman d’Alexandre», vol. III, 1937; New York, Kraus Reprint Corporation 1965, p. 218. 48

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Anche stavolta non ci sono elementi stringenti di identificazione, anzi, il musicista afferma di essere «povres et de bas pris», mentre nel dipinto questi appare vestito in modo ostentatamente lussuoso, con tutte le sue bordure di vaio. C’è un terzo episodio che mette in scena un giullare, e che non appartiene ad alcuna versione del ‘romanzo d’Alessandro’ ma alla letteratura esemplare, ed è il racconto III del Novellino50. Qui un ricco giullare ha fatto un patto con un povero cavaliere che andava da Alessandro a chiedergli un dono: il giullare dà al cavaliere «cavallo da cavalcare e somiere e robbe e dispendio condonevile a·rritornare in [sua] terra», e il cavaliere si impegna a passare al giullare il dono di Alessandro. Alessandro regala al cavaliere la signoria della città di Giadres, ma il cavaliere rifiuta e chiede in cambio «oro o argento o robbe». Allora Alexandro sorrise, e comandò che·lli fossero dati duemila marchi d’ariento: – e questo si scrisse per lo minore dono che Alexandro donò mai. Lo cavaliere prese i marchi e donolli al giullare. Il giullare fu dinanzi ad Alexandro, e con grande stanzia addomandava che·lli facesse ragione; e fece tanto, che fece restare lo cavaliere. E la domanda sua si era di cotale maniera, dinanzi ad Alexandro: «Messere, io trovai costui in cammino; domanda’lo ove andava e perché. Dissemi che ad Alexandro andava perché li donasse. Con lui feci patto: dona’li, et elli mi promise di donare ciò che Alexandro li donasse: onde elli hae rotto il patto, c’ha rifiutata la nobile città di Giadres et ha preso li marchi: perch’io dinanzi alla vostra signoria addomando che mi facciate ragione e sodisfare quanto vale più la città che ’marchi». Allora il cavaliere parlò; e primamente confessò i patti, poi disse: «Ragionevole signore, que’ che·mmi domanda è giucolare, et in cuore di giullare non puote discendere signoria di cittade. Il suo pensiero fu d’argento e d’oro, e la sua intenzione fu tale, et io ho pienamente fornita la sua intenzione: onde la tua signoria proveggia nella mia diliveranza, secondo che piace al tuo savio consiglio». Alexandro e ’suoi baroni prosciolsero il cavaliere, e comendarlo di grande sapienzia51.

Io ritengo che il racconto del Novellino sia la giusta chiave interpretativa dell’ultima scena di questa storia d’Alessandro. Innanzitutto per la corrispon50 Il racconto del Novellino contamina l’episodio appena citato del Roman in versi con quello che occorre nella IIa branche: qui un cavaliere persiano chiede un dono ad Alessandro, che gli regala la signoria della città di Araine ma questi, «qui molt ot le cuer bas», rifiuta: «Rois, done me autre chose, or ou argent ou dras. / La cité ne me plaist ne je ne la voil pas / Ne ja de li deffendre n’esterai un jor las». / Alixandres respont: «Se devient droit en as; / Je ne sai qui te tient ne le cuer que tu as, / Mais itel sont li don au roi mascedonas». / Alixandres s’en rist s’apela Filotas, / Sor un paile de fautre s’est assis de Damas. / Del chevalier se rïent et demainent lor gas: / «Qui n’a cuer d’assés prendre mieus aime un don eschars, / Ja malvais hom n’iert riches, qui li donroit Baudas». / […] Au prisonier commande a doner cinq cent mars; / Ce fu li menres dons au roi macedonas» (The Medieval French «Roman d’Alexandre». Vol II. Version of Alexandre de Paris, l. 90, vv. 2121-2135, pp. 120-121). Si veda il commento di Guido Favati, Introduzione, Il Novellino 1970, pp. 94-97. A sua volta l’episodio della IIa branche sembra essere la trasformazione in chiave cortese di un episodio tramandato da Seneca (De beneficiis, II xvi) in cui Alessandro regala magnanimamente una città a un tale e, alle proteste del beneficato di non essere degno di tanta fortuna, Alessandro: Non quaero – inquit- quid te accipere deceat, sed quid me dare. Cfr. C. Cary 1956, pp. 86 e 360-61. Il disprezzo feudale per l’uomo dal cuore vile, evidente nella versione del Roman d’Alexandre, è ripreso e drammatizzato nel Novellino nella contrapposizione fra le due figure emblematiche del cavaliere e del giullare, mentre Alessandro non è più parte in causa, come nell’aneddoto senechiano, ma diviene il simbolo dell’autorità suprema che sancisce il valore della nobiltà d’animo. 51 Il Novellino, a cura di G. Favati 1970, pp. 132-133.

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denza iconografica: il giullare non sta affatto suonando davanti ad Alessandro ma il liuto gli è messo in mano per farci capire immediatamente che si tratta di un giullare; è certamente ricco; ha un atteggiamento che sembra reclamare qualcosa; nella mano levata verso Alessandro sembra tenere qualcosa, forse il sacchetto dei duemila marchi. A destra del trono il dipinto è molto deteriorato, ma vi si intravedono figure, intorno a una colonna (?); vi compariva probabilmente il cavaliere, e le figure potrebbero essere i baroni che deliberano sul caso, o commentano la decisione di Alessandro. Se l’iconografia della scena sembra corrispondere all’aneddoto del Novellino, ancora più giustificata appare questa identificazione se si considera che questa è l’ultima scena della sequenza, in posizione cioè conclusiva. Ora, l’episodio di Ismenia, non si vede perché sarebbe stato scelto a concludere idealmente la vicenda di Alessandro, visto che l’episodio ha un carattere cronachistico, e prelude semmai a un episodio successivo in cui un atleta, vincitore ai giochi presieduti da Alessandro, ottiene il permesso da lui di ricostruire la città di Tebe distrutta. L’episodio del regalo di una città a un arpista avrebbe maggiori ragioni di concludere la storia, perché allude alla liberalità di Alessandro, e questa era un luogo comune nella letteratura morale fin dall’antichità, tanto da essere divenuta proverbiale nel Medioevo; e tutto il Roman d’Alexandre in versi esalta in Alessandro il tipo ideale del monarca che incarna le virtù laiche della cortesia e della liberalità. Ma, a parte la mancanza di indizi iconografici che indichino la donazione di una città, una sottile corrispondenza ideologica con le altre illustrazioni del soffitto mi spinge a preferire l’interpretazione del Novellino52. 6. Interpretazione complessiva Si osservi come nella maggior parte delle storie identificate del soffitto ricorra il motivo del giudizio, a volte esplicito come nel giudizio di Salomone e nella storia della casta Susanna, a volte implicito come nel giudizio di Dio sostenuto da Elena di Narbona; un’altra trave, nell’ambito delle storie di Troia, si conclude con la scena del giudizio di Paride. È vero che la maggior parte delle storie ha come protagonista una donna, e il Bologna pensava infatti di riconoscere il senso complessivo del programma pittorico del soffitto in un dibattito sul valore della donna, culminante nella nota positiva della mulier amicta solis dell’Apocalisse (l’argomento era di attualità: si pensi al De mulieribus claris del Boccaccio, al Contrasto delle donne del Pucci, alle ‘nove eroine’ dipinte nel castello della Manta…). E non sarebbe plausibile che accanto alla messa in evidenza delle 52 Dopo l’avallo della storica dell’arte Licia Buttà 2013, la nozione che nelle travi XI-A-65 e XI-B-214 sia rappresentata la Storia di Alessandro appare diventata di dominio comune: cfr., oltre ai saggi della Buttà (2013, 2015), anche quelli di Antonino Buttitta, «La dimensione antropologica: i ‘cavalier, l’arme, gli onori’ e di Angela Bellia, «la raffigurazione della musica attraverso i suoi strumenti», in Lima 2015, pp. 134-143 e 154-168 (spec. 161-62).

La Storia di Alessandro Magno nel Palazzo Chiaromonte di Palermo

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potenzialità della donna, in negativo e in positivo, vi fosse ugualmente un’allusione all’elemento maschile, caratterizzato – nel rimando specifico alla persona del potente Manfredi III Chiaromonte – dal ruolo di signore, arbitro, giudice? Il soffitto rappresenta anche, con la sua esibizione di stemmi familiari, di cavalli, di scene di guerra, di duello, di caccia, la celebrazione orgogliosa delle qualità della casta nobiliare… e non è significativo il rifiuto del cavaliere: «in cuore di giullare non puote discendere signoria di cittade»? L’aneddoto esemplare suggella il significato della vicenda rappresentata. Come, in un’altra trave, la scena esemplare di Aristotele cavalcato dalla cortigiana conclude la sequenza di episodi tratti dal Roman de Tristan, estraendone e suggellandone il senso (la potenza nefasta della passione amorosa), così la scena esemplare di Alessandro che, rendendo giudizio, rintuzza le pretese di un giucolare suggella il senso della sua vicenda storica: Alessandro archetipo del signore glorioso e paradigma della funzione regale. Allo stesso modo la famiglia Chiaromonte, o piuttosto Manfredi III, che nel 1377 è nominato vicario della quarta parte della Sicilia, e che nello stesso anno eredita anche la contea di Modica, esalta la sua «regalità». Questa interpretazione è stata, in effetti, confermata e anzi estesa fino a farne la chiave di lettura complessiva di tutto il soffitto dalla storica dell’arte Licia Buttà. La studiosa fa giustamente valere l’argomento che le scelte iconografiche medievali aderiscono, di norma, non solo alle esigenze dei committenti ma anche e soprattutto alla «funzione e fruizione degli spazi cui erano destinate», e che «sembra assodato in proposito il fatto che la Sala Magna ebbe all’epoca della realizzazione delle pitture una destinazione ufficiale»53. È dunque poco probabile che le storie raffigurate sul soffitto di una stanza che doveva servire a ricevimenti ufficiali o all’esercizio della giustizia siano da interpretare come destinate a una novella sposa, la cui attività era normalmente considerata di ambito privato. Manfredi, per contro, «amministrava ed esercitava la giustizia cittadina e controllava e deteneva l’uso delle armi: due delle tre prerogative del potere regio. La terza […], la possibilità di coniare moneta, fu presto sotto il suo controllo»54. La Buttà rileva che l’interesse del programma pittorico è chiaramente «rivolto verso aspetti […] che riguardano l’ordine e l’organizzazione sociale, aspetti che sembrano parlare, attraverso le immagini, di giustizia, di guerra, di buono e cattivo governo»55 e propone perciò che destinatario principale dei memento insiti nel programma pittorico del soffitto sia piuttosto il barone Manfredi anziché la moglie Eufemia, «affinché eserciti con correttezza il potere che gli è stato conferito»56. Buttà 2015, p. 118. Buttà 2013, p. 76. 55 Buttà 2015, p. 118. 56 Buttà 2013, p. 81. Si veda, a proposito dell’intento parenetico dei programmi pittorici nel Trecento, anche l’interessante saggio di Hans Belting 1985. 53

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Manoscritti citati57

Pseudo-Callistene 1. Oxford, Bodleian, Barrocci 17 (redazione ε), 31 disegni su 130 previsti, deteriorati

2. Venezia, Istituto di Studi Bizantini (redazione γ), prima metà del XIV: ms. D

proveniente dalla Scuola di S. Giorgio dei Greci; realizzato probabilmente per il principe di Trebisonda, miniato in uno stile fondamentalmente bizantino ma contenente numerosi elementi islamici e particolarmente persiani; http://eib.xanthi.ilsp.gr/scripts_and_miniatures/

3. Venezia, Convento dei padri Mechitaristi di San Lazzato, ms. 424, sec. XIV traduzione armena della redazione α. Il più vicino al ciclo originale58.

4. (Non miniato) Leida, Biblioteca Universitaria, Vulcanius 93, redazione α, sec. XV realizzato nell’Italia meridionale

«Historia de preliis» Historia de preliis J2 1. Lipsia, Stadtbibliothek, Repositorium II 4º 143, sec. XIII ex. miniato per intero, realizzato nell’Italia meridionale http://www.manuscripta-mediaevalia.de/dokumente/html/obj31577796

2. Vaticana, Lat. 7190

illustrato solo ai fogli 1-16 e 35-37. Non digitalizzato

3. Parigi, Nationale, Nouv. Acq., Lat. 174

solo quattro disegni; realizzato nell’Italia meridionale

Historia de preliis J1

I manoscritti prendono a modello miniature del romanzo in prosa francese

57 Per una bibliografia più completa sul romanzo d’ Alessandro cfr. Medieval Alexander Bibliographies dell’Univ. di Rochester: http://www.library.rochester.edu/robbins/medieval-alexander#french 58 Cfr. La storia di Alessandro il Macedone 2003.

La Storia di Alessandro Magno nel Palazzo Chiaromonte di Palermo

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4. Parigi, Nationale, Lat. 8501, sec. XIV in., realizzato nell’Italia meridionale

5. Aberystwyth, National Library of Wales, Peniarth 481, sec. XV.

https://viewer.library.wales/4393138#?c=0&m=0&s=0&cv=79&z=-0.1383%2C0%2C1.276 6%2C1.3156&xywh=-564%2C0%2C4922%2C5105

«Roman d’Alexandre» in prosa 11 manoscritti miniati: 1. Berlino, Kupferstichkabinett 78 C I Non digitalizzato

2. Bruxelles, Bib. Royale, 11040 Non digitalizzato

3. Chantilly, Condé 651 (1470-75) 4. Londra, British Library, Harley 4979 (XIII-XIVin.)

http://www.bl.uk/manuscripts/Viewer.aspx?ref=harley_ms_4979_fs001r

5. Le Mans, Bibliothèque de la Ville, ms. 103 (1410-1430) Ross: Italian; Perez: France

6. Londra, Br. Museum, Royal 19 D I (1333-1337)

http://www.bl.uk/manuscripts/Viewer.aspx?ref=royal_ms_19_d_i_f001r imparentato con the Talbot Shrewsbury Book

7. Londra, Br. Museum, Royal 15 E VI (1443-45)

Noto anche come the Talbot Shrewsbury Book http://blogs.bl.uk/digitisedmanuscripts/2012/07/the-talbot-shrewsbury-book-goes-online.html)

8. Londra, B.L., Royal 20 A V (XIII-XIV in.) 9. Londra, B.L., Royal 20 B xx (1420-1425) 10. Stoccolma, Bib. Reale, French MS 51 (V.u. 20) (mid XIV s.) 11. Private collection (XIII-XIV in.)

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«Roman d’Alexandre» in versi 1. Venezia, Museo Correr, ms. 149359 2. Oxford, Bodley 264

«It is most likely that the Bodley 264 opened with a full page miniature that depicted Alexander’s birth and education. The original frontispice was replaced in the fifteenth century by what is now fol. 2v […], which does not employ any traditional scene of instruction. […] this image depicts in the lower left-hand scene Nectanebus, in the form of a dragon, engendering Alexander, an episode found in the Old French Prose Alexander but not in the Roman d’Alexandre» (M. Cruse 2011, p. 128).

59 Riproduzione in facsimile: Le Roman d’Alexandre. Riproduzione del Ms. Venezia, Biblioteca Museo Correr 1493, a cura di Roberto Benedetti, 1998.

Tirant lo Blanc e gli affreschi erotici di San Gimignano*

1. pitture profane Gli affreschi della «Camera del Podestà» nel Palazzo Comunale di San Gimignano sono ben noti a visitatori e storici dell’arte. Attribuiti da Roberto Longhi a Memmo di Filippuccio, realizzati fra il 1305 e il 1311, gli affreschi coprivano una volta tutt’e quattro le pareti della camera, mentre rimangono ora visibili soltanto su due pareti contigue e, molto frammentariamente, su una terza parete1. «Questi affreschi hanno da sempre attirato grande interesse per la peculiarità del loro soggetto»2: si sottolinea di solito che sono un esempio estremamente precoce di pittura profana e, più che semplicemente profani, sono designati come «affreschi erotici»; definizione certamente giustificata dalle esplicite scene della parete est, dove compare una coppia che fa il bagno nuda in una tinozza e, nella scena successiva, è dipinta in camera da letto, con la donna che giace addormentata e il giovane che si appresta a entrare, seminudo, nello stesso letto. Esempi di pittura profana non sono eccezionali nell’Italia fra Due e Trecento: gli affreschi del castello di Rodengo (Rodenek, Alto Adige) che rappresentano scene dall’Yvain di Chrétien de Troyes risalgono addirittura ai primi decenni del Duecento, ma certo si collocano, geograficamente e culturalmente, ai margini dell’area italiana; ai primi anni del Trecento risalgono invece le scene della Guerra di Troia dipinte nella Loggia dei cavalieri di Treviso, e più * Una prima versione del saggio, meno elaborata, è stata publicata con lo stesso titolo su Filologia e critica, XV (1990), pp. 508-520. 1 Ricoperti da una scialbatura e riscoperti solo nel 1921, sono stati recentemente restaurati. Il frammento sulla terza parete rappresenta uomini e cavalli; il soffitto doveva essere una volta interamente decorato con la raffigurazione di insegne araldiche. 2 Spannocchi 2006, p. 370.

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tardi nella domus comunis di Udine; all’ultimo quarto del XIV secolo sono attribuiti gli affreschi che alludono alla Chanson d’Otinel dipinti nel palazzo Collalto in provincia di Treviso, i fiorentini affreschi del palazzo Davanzati rappresentanti la storia della Dama del Vergiù, la camera Lanzaloti di Frugarolo (Alessandria) e la grande enciclopedia narrativa del soffitto del palazzo Chiaromonte a Palermo3. Al di là delle ovvie differenze, tutti questi dipinti appaiono funzionali a esaltare la vocazione cavalleresca e guerriera e il carattere cortese delle classi nobiliari, per la scelta stessa dei loro soggetti4; i dipinti della Camera del Podestà di San Gimignano appaiono invece fortemente smarcati rispetto all’immaginario che ispira le altre pitture profane. Si consideri l’affresco che si stende sulla parete nord, al di sopra della finestra, e che è stato già interpretato, abbastanza facilmente, come la storia di un giovane che, partito da casa con una grossa somma di denari, è adescato da delle mezzane che lo conducono ad amoreggiare con una fanciulla per poi scacciarlo ignominiosamente e inseguirlo con le loro conocchie: viene subito in mente la novella di Andreuccio da Perugia (Dec. II 5), analogamente ingannato da «femine del corpo bellissime ma nemiche dell’onestà», anche se, naturalmente, la storia a monte dell’affresco non è identificable con precisione e si colloca fra i racconti perduti che dovettero esistere a monte della raccolta fiorentina; resta comunque l’ambientazione francamente mercantile, e non signorile, della vicenda adombrata nella sequenza pittorica. 2. La parete nord Le immagini dipinte nella camera del Podestà dovevano però avere un valore esemplare e non di semplice intrattenimento. Lo confermano i due riquadri ai lati della finestra, che non hanno alcun rapporto con la storia, ma rappresentano scene esemplari dal significato esplicito: una messa in guardia contro la forza della seduzione amorosa, e contemporaneamente contro gli inganni del genere femminino. Se infatti il dipinto del riquadro di sinistra (per chi guarda 3 Cfr. Rasmo 1973 e 1981; Coletti 1935, pp. 32-36, Saxl 1965, pp. 17-34, Buchtal 1971, Cozzi 1979, pp. 44-59; Coletti e Menegazzi 1959, Lejeune 1962, Bombe 1912, settembre 1911 e novembre 1911; Gabrici e Levi 1932, Bologna 1975, Buttà 2013, pp. 69-126 e 2015, pp. 117-133; M.L. Meneghetti 2015. 4 «La storia antica rivissuta come veridica in epoca medievale si propone sia come epopea cavalleresca sia come esempio di virtù e valore attraverso il quale le classi aristocratiche costruivano la propaganda della propria identità» (Buttà 2013, p. 102). La Loggia dei cavalieri di Treviso, ricordata negli Statuti del 1314 come maxima pars pulchritudinis civitatis Trevisii, era stata costruita «per sollacio dei nobili» e «il suo ingresso era interdetto a persone di inferiore condizione sociale, che avevano una corrispondente area pubblica coperta nella loggia populi» (Cozzi 1979, p. 56). Gli affreschi, molto sciupati, sono leggibili soprattutto attraverso le riproduzioni ad acquarello fatte da Antonio Carlini alla fine dell’Ottocento e conservate ora al Museo Civico di Treviso.

«Tirant lo Blanc» e gli affreschi erotici di San Gimignano

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1. Camera del Podestà, Palazzo Comunale, San Gimignano, parete nord

la finestra) non lascia dubbi sull’identificazione della scena (Aristotele cavalcato dalla cortigiana, sotto gli occhi di Alessandro Magno5), meno sicura è l’interpretazione del dipinto di destra. Si è proposto di vedere nelle due figure – un uomo seduto che legge un libro e una donna che guarda lo stesso libro alle sue spalle – la lettura da parte di giovani amanti del «libro galeotto», sotto la suggestione della famosa terzina dantesca «Noi leggiavamo un giorno per diletto…» (Inf., V… ) fino a identificarvi addirittura precisamente Paolo e Francesca6. Maria Luisa Meneghetti ha pensato ad Abelardo ed Eloisa7; io proponCfr. De Cesare 1957; Infurna (Henri d’Andeli, Lai d’Aristote) 2005. «InToscana.it» 01/02/2010: http://www.intoscana.it/site/it/articolo/La-Camera-del-Podestariacquista-la-bellezza-originaria/. Sabina Spannocchi propone di leggervi la «graduale opera di seduzione di Fillide ai danni di Aristotele, prima mentre il filosofo è intento nella lettura di un libro […], e infine, quando completamente vinto dai sensi, viene cavalcato come un ronzino dalla giovane fanciulla» (Spannocchi 2006). Ma, a parte il fatto che i volti delle figure nel riquadro di destra sono andati perduti, gli abiti dei personaggi sono diversi da quelli del riquadro di sinistra, per cui mi sembra difficile vedervi ripetute le figure di Aristotele e Fillide. 7 M.L. Meneghetti 2015, p. 227. 5

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go piuttosto di interpretare le due figure come quelle di Merlino e Viviane, una vicenda che aveva un valore esemplare molto più spesso di quanto non potesse avere nei primissimi anni del ’300 quella della famosa coppia dantesca. La storia del mago Merlino risale a uno dei romanzi della saga nota come «Lancelot-Grail», intitolato Estoire de Merlin. Vi si racconta che il mago s’innamorò di una bellissima fanciulla la quale gli promise il suo amore se lui le avesse insegnato i segreti della sua arte magica. Ma, quando la giovane donna si fu impadronita dei segreti della magia, imprigionò Merlino in una grotta, e non lo fece più uscire finché Merlino morì (ma il suo spirito continuò a risiedere lì dentro e a emettere oracoli a chi andava a interrogarlo). La storia era conosciuta in Italia ed era già stata usata con significato esemplare: un testo che non poteva non esser noto, in quest’epoca e in quest’ambiente, Li livres dou tresor di Brunetto Latini già associava Merlino ad Aristotele in quanto vittime degli inganni femminili: «Neis Aristotles li tres sages philosophes et Merlin furent deceu par feme, selonc ce que les ystores nous racontent»8; Merlino compare inoltre fra gli esempi di uomini traditi da donna in un serventese duecentesco di Lunardo (o Leonardo) del Guallacca: «Se lo scritto non mente, / per femmina treccera / si·ffo Merlin derizo; / e Senson malamente / tradil una leccera»9. Quest’interpretazione appare più consona al generale monito contro la seduzione delle donne, evidente nell’affresco più ampio come nel riquadro di Aristotele e la cortigiana. 3. La parete est: la novella di Salabaetto («Decameron» VIII 10) A mio parere, anche per gli affreschi erotici della parete contigua sarebbe opportuno cercare un significato esemplare piuttosto che vedervi semplicemente «scene di vita familiare, ricche di dolce erotismo: un giovane e la sua compagna che fanno il bagno e poi si mettono a letto, temi non usuali, descritti con realismo e poetica sensibilità», come si legge in «StileArte.it»10. È forse per il suggerimento di Mario Praz, secondo cui «potrebbe trattarsi […] della cerimonia del bagno pubblico degli sposi prima del matrimonio, una usanza ancora corrente in Albania e altrove»11 che questa interpretazione si è diffusa 8 «Li livres dou tresor» de Brunetto Latini, 1948, p. 290. Gli esempi di Aristotele e Merlino concludono il capitolo D’amistié par delit e fanno parte del diffuso topos misogino che raccomanda agli uomini di guardarsi dall’amore elencando gli esempi di Adamo, David, Salomone, Sansone, Troia, ecc. 9 Cfr. Gardner 1971 (1a ed. 1930), pp. 36-37. Il componimento, che si autodefinisce serventese, comincia «Sì come ’l pescio al lasso / ch’è preso in falsa parte, / son quei ch’amar s’adanno» ed è una risposta al lamento d’amore di Galletto Pisano. Merlino compare poi frequentemente nella poesia comico-realistica del Duecento. Cfr. Capelli 2014, pp. 134-136. 10 Cosa significa l’immagine di una donna che cavalca un uomo?, «StileArte.it» http://www.stilearte.it/cosa-significa-limmagine-di-una-donna-che-cavalca-un-uomo/, consultato il 3 agosto 2017. 11 Praz 1981, pp. 77-78.

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nella letteratura di presentazione degli affreschi12, ma nella parete degli affreschi erotici non si vede nessun particolare che faccia pensare a una cerimonia di nozze; e il giovane che farà il bagno con la donna, lungi dall’apparire come il padrone di casa, arriva da fuori, ed è accolto nella casa della donna da una cameriera. A me non pare davvero congruente con la collocazione nella camera del Podestà, e a fianco di affreschi dal chiaro significato esemplare, la definizione di cerimonie matrimoniali o di scene di vita familiare; molto più convincenti le affermazioni del Li Gotti che aveva già interpretato l’intero ciclo di affreschi come la rappresentazione dei perniciosi effetti della seduzione femminile, e aveva assegnato all’intero programma pittorico il significato di un monito civile e parenetico al reggitore della città ch’era il Podestà, incaricato, certo, di presiedere le riunioni del Consiglio Comunale, ma anche di amministrare la giustizia nelle cause civili13. La studiosa canadese Jean Campbell, che ha dedicato al Palazzo Comunale di San Gimignano uno studio lungo e approfondito, ha notato e segnalato la somiglianza fra le scene di questa parete e quelle descritte nella novella boccacciana di Salabaetto, la decima di quella giornata ottava nella quale per l’appunto «si ragiona di quelle beffe che tutto il giorno o donna ad uomo o uomo a donna o l’uno uomo all’altro si fanno»14. Per una volta Dioneo, nel presentare la decima novella, non solo non si allontana dal tema proposto per la giornata, ma raddoppia la dose raccontando prima l’inganno perpetrato da una donna a un uomo poi l’inganno dell’uomo alla donna. La novella è fra quelle collocate più esplicitamente in un ambiente mercantile: un giovane fiorentino, spedito dai suoi superiori a Palermo con una partita di panni da vendere, si lascia irretire dalle arti di una furba siciliana, secondata da «una sua femina la quale ottimamente l’arte sapeva del ruffianesimo», fino a prestarle la somma di cinquecento fiorini, che la donna però non gli restituisce. Accortosi della sua sciocchezza, anche in seguito alla richiesta da parte dei suoi «maestri» di mandar loro le somme dovute, parte per Napoli e chiede consiglio a un conCfr. Vichi Imberciadori, p. 50, Duby, 1985, vol. II, p. 217. Li Gotti 1938, p. 391. H. Belting 1985 fa giustamente notare come, all’inizio del Trecento, si verifica in Italia un’importante trasformazione nella pittura narrativa che, da illustrazione di storie note e perfettamente riconoscibili, come quelle della Bibbia, assume sempre più un significato esemplare, l’intenzione di inculcare nello spettatore una «verità», particolarmente quando queste pitture erano eseguite in un luogo «pubblico»: «Allegory became the new domain. This was conveyed through fictitious narrative, that is, narrative used as a device for carrying out arguments, or narrative as exemplum, to illustrate a point made by a program of an abstract theoretical nature […] Narrative adopted an instrumental scope. It no longer told a story but served other ends: it became a way of arguing, of phrasing topics of general interest, a reading device. (p. 154) 14 Cfr. C. J. Campbell 1997 pp. 147-169. L’interpretazione complessiva degli affreschi della Campbell differisce però da quella del Li Gotti che io qui cerco di precisare. Già il titolo del capitolo relativo legge: «The Chamber: Stories to Delight and Nourish the Body»; la Campbell fa valere l’argomento che elemento integrante della curialitas, requisito essenziale per il Podestà, era anche la jocunditas; la sua ‘camera’ non era necessariamente una camera da letto ma un luogo semi-privato in cui ritirarsi e in ultima analisi doveva essere «a place of pleasure»: le storie narrate dagli affreschi avrebbero avuto insomma un fine d’intrattenimento piuttosto che d’ammonimento. 12

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cittadino. Torna allora a Palermo, consegna ai magazzini di custodia balle di panni e botti da olio pagando la tassa per un valore molto superiore a quello della prima partita, e riprende la tresca con madonna Iancofiore, la quale, informata del valore della nuova partita e sperando di riuscire a estorcergli una somma molto più alta, gli restituisce i suoi cinquecento fiorini. Dopo un poco il fiorentino si mostra disperato a causa della cattura da parte di pirati di una nave su cui, a suo dire, aveva una gran quantità di mercanzia e di una sua temporanea mancanza di liquidità. La donna gli presta i mille fiorini necessari a riscattare la nave dai pirati, ricevendo in pegno la roba custodita nei magazzini. Appena ricevuto il denaro Salabaetto riparte, lasciando che la donna scopra qual era davvero la roba lasciata nei magazzini: «tastate le botti che si credeva che piene d’olio fossero, trovò quelle esser piene d’acqua marina […]; poi, sciogliendo le balle, tutte fuor che due, che panni erano, piene le trovò di capecchio; […] di che Iancofiore tenendosi scornata, lungamente pianse […], spesse volte dicendo: «Chi ha a far con tosco, non vuole esser losco». Messa a parte la sapidità del campanilistico proverbio che chiude la novella, bisogna ammettere che il racconto non è fra i più artisticamente riusciti; nuoce forse in particolare la ripetizione delle situazioni già godute nella novella di Andreuccio; ma per i nostri affreschi è particolarmente interessante la prima parte della novella, dove compare la sequenza bagno-letto: la mezzana infatti invita il giovane a incontrare la sua signora in un bagno; qui, come a lei piacque, ignudi ammenduni se n’entraron nel bagno, e con loro due delle schiave. Quivi, senza lasciargli por mano addosso ad altrui, ella medesima con sapone moscoleato e con garofanato maravigliosamente e bene tutto lavò Salabaetto, ed appresso sé fece e lavare e stropicciare alle sue schiave.

E la sera stessa, «nella camera entratisine […] Egli giacque con grandissimo suo piacere la notte con essolei, sempre più accendendosi». Ora, la sequenza bagno – letto non è esclusiva di questa novella; la si ritrova, nella letteratura francese medievale, per esempio nel lai di Marie de France Equitan e nei favolelli Le preistre teint, Le prestre et Aelison; e anche nei favolelli il bagno ha già la funzione di preludio all’incontro amoroso15. C’è da osservare anche che le scene degli affreschi non corrispondono esattamente al testo narrativo. Negli affreschi la fanciulla sembra uscire da una casa (forse in un giardino) accompagnata da una damigella, e anche il giovane è accompagnato da un amico, che sembra anzi più ardito del protagonista, visto che questi trattiene l’amico per un braccio. Non vi è traccia nella novella di questo gioco 15 Anche nella letteratura italiana del tardo Trecento il topos è diffuso, ed è un ingrediente naturalmente associato a racconti di adulterio, come negli esempi X (De visio lusurie in prelatis) e XI (De vituperio pietatis) del Novelliere di Giovanni Sercambi, pur non comparendo nei prototipi francesi dei racconti raccolti dal Sercambi. Il bagno poi è sempre in una tinozza, in ambiente privato e non in un bagno pubblico.

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di coppia. Il bagno dove si reca Salabaetto è un bagno pubblico, mentre quello della scena affrescata appare chiaramente come un bagno privato, in casa della donna; soprattutto, la novella rappresenta i due amanti recarsi nel letto di comune accordo, e il novellatore non insiste su questo momento più di tanto, mettendo piuttosto l’accento sulla ricchezza delle suppellettili della camera: «nella camera entratisine, sentì quivi maraviglioso odore di legno aloè, e d’uccelletti cipriani vide il letto ricchissimo, e molte belle robe su per le stanghe; le quali cose tutte insieme e ciascuna per sé gli fecero stimare, costei dovere essere una grande e ricca donna…». In questo episodio non compare nessuna «schiava». L’accostamento alla novella di Salabaetto è insomma molto interessante, ma non pare corrispondere perfettamente alla storia che soggiace agli affreschi (come anche la Campbell riconosce). 4. La parete est: «Tirant lo Blanc» Un’impressionante concordanza con la scena della camera da letto si trova invece in un testo, geograficamente e cronologicamente molto lontano dalle novelle del Boccaccio, ma anch’esso discendente in larga misura (come molte delle novelle del Boccaccio), da un patrimonio narrativo di lontana origine francese, naturalmente rifuso e modificato nel corso del tempo. Penso al romanzo Tirant lo blanc, composto dal cavaliere catalano Joanot Martorell fra il 1460 e il 1468, lasciato incompiuto dall’autore, che morì appunto nel 1468, completato da Martí Joan de Galba e pubblicato nel 1490 a Valencia. Tirant è un cavaliere bretone che, compiuto il suo apprendistato cavalleresco in Inghilterra, si trasferisce, passando per la Sicilia, alla corte di Costantinopoli, dove difende valorosamente l’impero dalle invasioni arabe e turche, conquistando il grado di gran capitano e l’amore della bella principessa Carmesina. Una digressione in Nordafrica gli permette di convertire anche una parte di quelle regioni alla fede cristiana, finché l’eroe torna finalmente a Costantinopoli, sposa la principessa amata ed è dichiarato erede dell’Imperatore, solo per essere colpito da un malore che lo porta improvvisamente alla morte, e per lasciare ai personaggi secondari della storia l’eredità dell’Impero bizantino. I critici che si sono occupati del romanzo sono stati colpiti, e spesso anche imbarazzati, dalla licenziosità delle vicende amorose che vi si incontrano. Come osserva Mario Vargas Llosa, los quadros amorosos se suceden hasta constituir una verdadera exposición erótica: fiestas sensuales, fetichismo, lesbianismo, adulterios, amagos de violaciones, un incésto simbólico, «voyeurisme», tecnicas de alcahuetería, juegos erógenos16. 16 Benché Kathleen McKerney trovi «refreshing» il «treatment of sex» nel romanzo (K. McKerney 1983, p. 17), altri critici hanno cercato di spiegare la licenziosità degli episodi o con il ri-

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2. Camera del Podestà, Palazzo Comunale, San Gimignano, parete est

Sono stati proprio alcuni degli episodi amorosi della vicenda di Tirant e Carmesina a farmi tornare in mente gli affreschi di San Gimignano. Si ricorderà che la prima scena della sequenza pittorica mostra due giovani in estatica ammirazione di due fanciulle sontuosamente vestite – una delle due tutta in bianco. Uno dei due giovani si tiene però alle spalle dell’altro, e lo prende per un braccio, quasi a voler trattenere un atteggiamento troppo spavaldo. Nel romanzo i due amici Tirant e Diafebus si innamorano, rispettivamente, della figlia dell’imperatore di Costantinopoli, Carmesina, e di una damigella di corte, Stefanía. La disparità della condizione sociale obbliga entrambe le coppie a mantenere il segreto, ma il loro atteggiamento nei confronti dell’amore si rivela diverso: Tirant, che già nel passato ha esaltato l’«amor timido», è pieno di devozione e di rispetto per la volontà della principessa, e Carmesina dal canto suo, conscia della sua dignità e preoccupata della sua fama, non ammette di perdere la sua verginità. Diafebus è invece più ardito, e Stefanía si lascia possedere da Diafebus, in occasione di un incontro notturno spiato da una damigella che porta un nome dal significato eloquente: Plaerdemivida. Non che Carmesina rifiuti a Tirant ogni consolazione. Plaerdemivida riferisce infatti ferimento a supposte fonti orientali (S. Bosch 1949-50, pp. 25-28) o, più comunemente, col riferimento ai costumi contemporanei. Afferma, per esempio, Martí de Riquer: «Els amors dels dos protagonistes, la immoralitat del quals és un loc comú en tractar del Tirant lo blanc i que ha volgut esser explicada de diverses maneres, és un festeig galant i descarat ensems, amb escenes elegants i lascives, la qual cosa, al capdavall, crec que no és més que una desimbolta i lliure descripció d’una realitat que no hem d’anar a cercar als costums francesos, grecs i musulmans, sinó purament i simple a l’ambient que coneixia el nostre escriptor» (Introduzione a J. Martorell-M. Joan de Galba, «Tirant lo blanc» i altres escrits de Joanot Martorell, a cura di M. De Riquer, 1969, p. 61 [ristampa, senza note, del capitolo dedicato dallo stesso critico al romanzo nella sua Historia de la literatura catalana 1965, vol II, pp. 632-72]).

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alle due fanciulle, fingendo di aver avuto una visione, ma raccontando in realtà quello che ha spiato dal buco della serrratura: «Apres en visió viu com ell vos besava molt sovent; e desfeu vos la clocheta dels pits e que us besava a gran pressa les mamelles» (cap. 163). Ma l’ostinazione a non voler concedere a Tirant «lo terme d’amor» induce Plaerdemivida a preparare tutto un piano: una sera in cui la principessa dovrà fare il bagno, Plaerdemivida introdurrà l’amante nel camerino, lo nasconderà in una cassa e gli permetterà così di godere della vista delle nudità dell’amata (nella tinozza insieme a Carmesina fa il bagno la sua nutrice, la Viuda Reposada). Subito dopo, lasciata addormentare Carmesina, Plaerdemivida condurrà Tirant, al buio, al letto della principessa e, anzi, rimarrà presente per rassicurarla con la sua voce, facendole credere che è lei che l’accarezza. Non c’è dubbio che fra le vicende del romanzo e le scene dipinte a San Gimignano ci siano delle discrepanze: fra il primo incontro e la camera da letto non c’è un bagno degli amanti riuniti nella stessa tinozza ma un incontro notturno con effusioni erotiche e un episodio in cui stanno nella tinozza la donna e una sua damigella mentre l’amante, nascosto, spia da una cassa posta nella stessa stanza17. La trasformazione non sorprende quando si pensa al generale trattamento del tema amoroso nel romanzo. Joanot ha in realtà un atteggiamento di moralismo contorto nei confronti del sesso, raffigura un erotismo sempre represso o acutizzato dalla frustrazione (persino dopo essersi introdotto nel letto di Carmesina Tirant non riuscirà a raggiungere «lo terme d’amor» perché un intervento imprevisto lo costringerà a fuggire). Ma nella scena dipinta la donna ha un aspetto ben diverso da chi attende il suo amante: gli occhi chiusi, l’atteggiamento abbandonato, il fatto che è rivolta dalla parte opposta a quella dell’uomo non lasciano dubbi sul fatto che la donna sia addormentata, e questo isola le versioni del Tirant lo blanc e dell’affresco fra tutte le versioni che io conosca di episodi consimili. Si veda poi il ruolo importante che gli affreschi sembrano dare alla damigella, che accoglie l’amante in casa della donna in occasione del bagno e solleva poi (o abbassa?) le cortine del letto della donna, in un atteggiamento evidentemente favorevole all’intrusione dell’amante. Nel romanzo catalano il vagheggiamento dell’amore prende forza soprattutto dalle inibizioni psicologiche dei protagonisti, ed è necessario l’incitamento e l’intervento attivo della damigella Pla-

17 Il Roman de la Violette conosce già lo stratagemma della servente che permette a un uomo di guardare di nascosto la protagonista mentre fa il bagno da sola (vv. 645-662). Nel particolare dell’uomo introdotto nella stanza privata della donna in una cassa si può agevolmente riconoscere il motivo usato da Boccaccio nella novella di Zinevra (Dec., II 9): si ha cioè la sostituzione di un topos con un topos contiguo, procedimento comune nella trasmissione di racconti tradizionali. Il motivo della cassa si ritrova in un’altra delle realizzazioni del ciclo della scommessa, la novella francese del ’400 «De damoisele Ysmarie de Voisine», designata anche come Nouvelle de Sens. Cfr. Langlois 1889 (il ms. 1716 del fondo della regina Cristina in Vaticano corrisponde oggi a Bib. Nat. Paris: 4º Q. 418).

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erdemivida perché Tirant sia indotto a vincere il suo rispetto e a violare la privacy di Carmesina, come è evidente in questa esortazione: Tirant, Tirant, james en batalla sereu ardit ni temut, si en amar dona o donzella una poqueta de força noy mesclau […]. Puix […] amau donzella valent, anau a la sua cambra e gitau vos en lo lit com ella hi sia nua o en camisa, e feriu valentment, que entre amichs noy cal tovalla. E si axi non feu, no vull esser de vostra batlia. Car yo se que mots cavallers, per tenir les mans prestes e valents, han hagut de ses enamorades honor, gloria e fama. (cap. 229)

Il gioco di coppia, il ruolo della damigella, le strette concordanze nella scena del letto, e la presenza, sia pure modificata, di una scena di bagno, accostano decisamente gli affreschi erotici di San Gimignano e il romanzo, anch’esso a suo modo erotico, di Joanot Martorell. 5. Una storia cortese L’ambientazione del racconto a monte degli affreschi non era mercantile18: le due fanciulle, uscendo da un edificio architettonicamente elaborato, sembrano mettere piede in un giardino costellato di fiori e sono accompagnate da un cagnolino – tipici ingredienti di romanzi cortesi; la damigella in bianco, pur senza corona, appare chiaramente come un donna d’eccezione, visione sublimata dallo sguardo del giovane colpito dalle frecce d’amore: si pensa immediatamente al topos che nei romanzi cortesi offre la descrizione della donna protagonista. C’è anzi da chiedersi se la scena del bagno nella tinozza non illustri precisamente uno dei dettami dell’amore cortese che imponeva agli amanti di accedere gradualmente al compimento dell’amore: «Ab antiquo quatuor sunt gradus in amore constituti distincti. Primus in spei datione consistit, secundus in osculi exhibitione, tertius in amplexus fruitione, quartus in totius personae concessione finitur»19. Ancora più chiaramente in un altro passo: … quod amor quidam est purus, et quidam dicitur esse mixtus. Et purus quidam amor est, qui omnimoda dilectionis affectione duorum amantium corda coniungit. Hic autem in mentis contemplatione cordisque consistit affectu; procedit autem usque ad oris osculum lacertique amplexum et verecundum amantis nudae contactum, extremo praetermisso

18 La Campbell designa questa storia come «the bathhouse romance», tenendo presente la versione della novella boccacciata di Salabaetto; ma la scena del bagno si svolge chiaramente nell’abitazione privata della donna, non in un bagno pubblico. 19 P. G. Walsh, 1982, Loquitur plebeius ad plebeiam, p. 56. Il De amore di Andrea Cappellano era già largamente conosciuto in Italia nel Duecento. Traggo la traduzione dal ms Barberiniano Latino 4086 della Biblioteca Apostolica Vaticana: «Anticamente sono IIII gradi nell’amore: il primo in dare speranza, il secondo in basciare, il terzo d’abracciare, il quarto in darsi tutta la persona» (http:// www.classicitaliani.it/duecento/Cappellano_De%20amore_ita.htm).

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solatio; nam illud pure amare volentibus exercere non licet. Hic quidem amor est quem quilibet, cuius est in amore propositum, omni debet amplecti virtute20.

Il Tirant lo Blanc intendeva senza dubbio illustrare un caso di amore nobilissimo, rifacendosi ai canoni dell’amor cortese: non per niente i dialoghi fra Tirant e Carmesina fanno spesso eco a quelli del De amore di Andrea Cappellano, e si ricordi la condiscendenza di Carmesina nel farsi abbracciare e baciare ma anche la sua intransigenza nel voler conservare la propria verginità. Nell’incontro notturno Carmesina proibisce infatti a Tirant di andare troppo lontano: «Nom denegues lo quet diman, car la mia castedat en la qua yo he viçcut quitia de tot crim es loadora […] E posat cas que volgues les cometre, no seria poch lo dan e congoxa que tum daries; e seria tanta que en tots los dies de ma vida de tu me lamentaria. Car com la virginitat es perduda nos es reparable». (cap. 163)

È molto probabile dunque che la storia adombrata da questi affreschi avesse una ambientazione cortese, a sottolineare che inganno e dissimulazione potevano verificarsi in ogni classe sociale. Si potrebbe obiettare che bagno e incontro nel letto sono motivi largamente diffusi e potrebbero essere stati casualmente ricongiunti indipendentemente da più novellatori. Ma l’esistenza di tre documenti (affreschi di S. Gimignano, novella di Salabaetto, romanzo catalano) che seguono tutti e tre la stessa trama di fondo e tutti e tre debitori alla lontana del patrimonio narrativo di origine francese, rende più logico pensare che sia esistito, a un’altezza ancora duecentesca, un racconto centrato intorno a un inganno (da parte di un uomo a una donna), che doveva essere noto nell’Italia fra Due e Trecento e che fu conosciuto tanto dal Boccaccio che dal Martorell che dal committente degli affreschi21. Si assisterebbe insomma alla diffrazione di un ignoto racconto, di 20 Sottolineatura mia. Walsh 1982, p. 180. La traduzione del Barberiniano Latino 4086: «… amore tal è puro e tal è mescolato. Ma il puro amore è quello, il quale con tutto desiderio d’amore giunge i cuori insieme di duoi amanti. Ma questo amore viene da desiderio de l’amante e del cuore e va infino al basciare e l’abracciare e toccare le vergognose membra de l’amante a gnudo e alla fine non usare insieme, perché nonn è licita cosa di far quello a coloro ch’amano puro. E quest’è quello amore, il quale catuno ch’è proponimento d’amore dé volere con tutta sua forza…». Alla disquisizione del chierico la donna obietta: «Miror enim si in quoquam tanta sit abstinentia carnis inventa, ut unquam voluntatis promeruerit impetum refrenare et corporis motibus obviare. Monstrosum namque iudicatur a cunctis, si quis in igne positus non uratur»: «mi meraviglio se in niuno si potesse trovare tanta astinenza di carne, che essendo nell’opere e commosso nel diletto dell’amore, che sse ne possa ritenere e contrastare al movimento del corpo, perché da tutti è tenura grande meraviglia s’alcuno fosse messo nel fuoco e no ardesse» (http://www.classicitaliani.it/duecento/Cappellano_De%20amore_ita. htm). Il trattato di Andrea Cappellano arriva fino a porre il quesito se sia preferibile il godimento del corpo della donna «dalla cintola in su» o «dalla cintola in giù». (Walsh 1982, pp. 199-200) 21 La lunga lista di fonti riconosciute per il romanzo comprende, oltre a cronache storiche, il poema anglo-normanno Gui de Warwick, conosciuto in una versione inglese, opere catalane come il Libre de l’orde de cavalleria di Ramon Llull, La faula di Guillem de Torroella, i Proverbis di Cerverí de Girona, la Dottrina moral di Pachs, Lo somni di Bernat Metge, la versione catalana delle Históries

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cui si riscontrano lacerti tanto in testi narrativi più tardi che negli affreschi di San Gimignano. Che la narrativa francese, generalmente capostipite delle narrazioni diffuse in Italia, facesse uso dei topoi del bagno e del letto, particolarmente nella produzione fabliolistica, è risaputo. Ma nel Roman de Troie si ha anche la storia di Giasone che, condotto da una nutrice, si accosta al letto di Medea mentre la principessa finge di essere addormentata («Medea le senti venir / Si a fait semblant de dormir, / E cil ne fu pas trop vilain: / Le covertor lieve o ses mains»)22. Anzi, una miniatura del Roman de Troie eseguita a Bologna nel secondo quarto del XIV secolo presenta una sorprendente vicinanza con la scena della camera di San Gimignano: anche lì la donna appare addormentata, nuda, con le mammelle fuori dalle coperte mentre il giovane Giasone (in questo caso vestito di tutto punto) solleva le coperte dall’altra parte del letto; nel testo del romanzo, però, Medea doveva dormire con una chemise, come si ricava dai versi immediatamente successivi: «Une pelice vaire e grise / Vest Medea sor sa chemise» (vv. 1619-20)23. Il motivo doveva essere insomma abbastanza conosciuto nell’ambito della letteratura romanzesca e doveva appartenere al perduto racconto a monte degli affreschi, probabilmente accompagnato anche da miniature. Com’è normale nella trasmissione di nuclei, o sequenze narrative, il racconto viene modificato e adattato al senso fondamentale che di volta in volta il trasmettitore gli vuole conferire, ma sembra plausibile pensare che il motivo fondamentale fosse quello di un inganno da parte di un amante nei confronti di una donna, o piuttosto di un tradimento della fiducia di una fanciulla troppo accondiscendente, che aveva accordato a un innamorato l’intimità del bagno – e nient’altro – e che si trova invece a essere deflorata con la complicità di una serva. Quanto poi agli affreschi sulla parete attigua, di cui rimane solo un frammento, si noterà, solo per curiosità, che vi compaiono cavalli e uomini che hanno l’aspetto più di mercanti che di cavalieri, e si ricorderà che Andreuccio, «cozzone» (sensale) di cavalli, era andato a Napoli perché aveva inteso che vi era troyanes, Los dotze treballs d’Hercules di Enrique de Villena… Per gli episodi della storia d’amore fra Tirant e Carmesina non sono però ancora state rintracciate fonti precise. Se ci poniamo la questione su come il cavaliere catalano sia potuto venire a conoscenza di un racconto circolante in Italia, si può ricordare che il Martorell soggiornò a Napoli alla corte di Alfonso il Magnanimo fra il 1454 al 1455, e forse già nel 1442, e che sono rintracciabili nel romanzo prove della sua conoscenza di autori italiani (Vita Nova, Fiammetta, Decameron). 22 Benoît de Saint-Maure, Roman de Troie, vv. 1585-88. E anche nel romanzo cortese Partonopeus de Blois c’è un episodio in cui un giovane si introduce, al buio, nel letto della principessa – guarda caso – di Costantinopoli (come Carmesina) e la fa sua. 23 San Pietroburgo, Libreria Nazionale, Fr. v XIV n. 3, fol. 10r. Cfr. Campbell, p. 161. Secondo la Campbell anche la scena del primo incontro fra Giasone e Medea (fol. 8r) presenta concordanze con la prima scena degli affreschi di San Gimignano (p. 164).

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buon mercato di cavalli […]; la seguente mattina fu in sul mercato, e molti ne vide ed assai ne gli piacquero e di più e più mercato tenne; né di niuno potendosi accordare, per mostrare che per comperar fosse, sì come rozzo e poco cauto, più volte in presenza di chi andava e di chi veniva trasse fuori questa sua borsa de’ fiorini che aveva.

6. Al di là delle apparenze Il tema dell’inganno perpetrato tramite la seduzione amorosa, declinato in vari modi nelle storie a cui alludono gli affreschi della camera, acquista così il significato esemplare di un monito a guardare oltre le apparenze, nella consapevolezza della presenza costante di inganni e prevaricazioni. Una conferma che questo sia il monito offerto al podestà mi sembra offerta dall’affresco sopra la porta che presenta un gufo al centro con due gazze ai lati, che sembrano assalirlo con le loro grida, significate dal becco aperto, mentre il gufo appare immobile: la gazza appare dunque come simbolo della garrulità, del discorso disordinato e fallace; il gufo, l’animale che vede nel buio, rappresenta invece colui che, impassibile e imparziale, vede oltre il velo dell’inganno e dell’illusione (si ricordi che presso i Greci la civetta era l’animale sacro a Minerva, dea della saggezza)24. È suggestivo ricordare a questo punto due sonetti attribuiti dal ms Vaticano Barneriniano Latino 3953 a Folgore da San Gimignano, un poeta fiorito precisamente nel lasso di tempo in cui Memmo riceveva l’incarico di dipingere il Palazzo comunale. Ammoniscono i due sonetti: Amico caro, non fiorisce ogni erba, né ogni fior che par, frutto non porta; e non è vertudiosa, ogni verba [?], né ha vertù ogni pietra ch’è orta; e tal cosa è matura e pare acerba, e tal se par doler che se conforta; ogni cera che par, non è soperba, cosa è che getta fiamma e che par morta. Però non se convien ad uomo saggio volere adesso far d’ogn’erba fasso, né d’ogni pietra caricarsi ’l dosso, né voler trar d’ogni parola saggio, 24 Anche la Campbell vede nelle gazze una rappresentazione di «garrulous and otherwise seductive ‘women’», citando i versi di una poesia satirica (La pie de costume / Porte penne e plume / De divers colours, E femme se delite / En estrange habite / De divers atours […] Par la jangle de la pie / Un vient à tromperie / De gopyl et de chat; / Femme par parole / Meynt homme afole / E ly rend tot mat.) e ricorda che nella letteratura medievale il gufo rappresenta un personaggio «silent, intransigent, and generally antisocial in character», come nel contrasto inglese The Owl and the Nightingale. (pp. 176-180).

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storie e cantari medievali né con tutta la gente andare a passo: senza ragione a dir ciò non son mosso. Quando la voglia segnoreggia tanto che la ragion non ha poter né loco, ispesse volte ride l’uom di pianto e di grave doglienza mostra gioco; e ben seria di buon savere affranto chi fredda neve giudicasse fòco; simil son que’, che gioi’ mostrano e canto di quel, onde doler devriano un poco. Ma ben si può coralmente dolere chi sommette ragione a voluntade e segue senza freno suo volere; ché non è già sì ricca podestade com’ se medesmo a dritto mantenere, seguire pregio, fùgger vanitade25.

Quello che è davvero interessante negli affreschi di Memmo di Filippuccio è la scelta di storie che si discostano da quelle scelte per illustrare altri edifici pubblici o privati dell’epoca: non amore cortese (come nella Dama del Vergiù del Palazzo Davanzati), non adulterio per amore, (come nelle storie di Troia, di Tristano e di Lancillotto nella Loggia dei cavalieri a Treviso e nel soffitto Chiaromonte a Palermo), non valori religiosi o guerrieri (chanson d’Otinel), non giudizi di Dio (storia della casta Susanna, Storia di madonna Elena nel soffitto Chiaromonte), ma prostitute, furti, violazione di promesse; tutti pericoli avvertiti forse come particolarmente presenti in una società profondamente diversa da quella delle corti signorili. San Gimignano aveva fatto delle attività commerciali e finanziarie il motore della propria prosperità economica, in virtù anche della sua posizione geografica: qui infatti si congiungevano due fra le due più importanti vie commerciali della Toscana, in direzione di Siena: il tratto della via Francigena proveniente da Lucca e la via proveniente da Pisa; a questo si aggiungeva il pregio di due importanti coltivazioni del territorio, lo zafferano e la vite26. Non c’è dubbio che la ricchezza generata dalle operazioni commerciali abbia avuto una parte rilevante nell’affermazione dell’identità comunale della città: il primo Statuto data del 1255 ma è proprio sul volgere del XIII secolo che i consoli decidono la costruzione e contemporaneamente la decorazione del Palazzo Comunale, che fu eseguita fra gli anni

25 http://digilander.libero.it/bepi/biblio2/sonetti2/sonetti.htm. Cfr. anche G. Caravaggi, I Sonetti di Folgore da San Gimignano, a cura di, Torino, Einaudi, 1965. 26 Cfr. Fiumi 1961.

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3. Camera del Podestà, Palazzo Comunale, San Gimignano, architrave della porta

1290 e 131827. Per gli esempi di saggezza nell’amministrazione della giustizia da offrire al Podestà si fece ricorso in questo caso a un genere diverso da quello tradizionale, un genere di tradizione più recente e forse più consono alla classe sociale che animava l’affermazione della città: l’incipiente novellistica è oggi un patrimonio narrativo poco conosciuto perché propagato soprattutto per via orale, ma costituisce senz’altro il retroterra narrativo e culturale del Decameron28. In questo tipo di letteratura anche la tradizionale ambientazione cortese era piegata a significati rivelatori di una sensibilità profondamente diversa, in cui gli ideali che sublimavano il rispecchiamento delle classi signorili avevano perso il loro éclat e conducevano o a fini tragiche (si pensi alla Châtelaine de Vergi, non a caso diventata poi un cantare) o a un borghese rinsavimento (come nella novella di Federigo degli Alberighi), o erano traditi, come nel racconto a monte degli affreschi erotici. Infatti, the figural imagery of the tower room constitutes an early stage in a process of translation of the language and themes of the literature of the medieval courts into an Italian civic C.J. Campbell 1997, p. 13. Cfr. C. J. Campbell 1997, pp. 196-7: «Whereas the decorations of the council halls represented something approaching an ideal court, the tower room frescoes offered up examples of less perfect human relationships. The opposition we find here is something like that found in Boccaccio’s Decameron, where the idyllic courtly world of the storytellers contrasts with the human comedy portrayed in their stories. Like the Decameron, the decorations of San Gimignano’s Communal Palace were conceived in what might be called a vernacular spirit, a spirit that was, by definition, concerned with the experience of life and language in this world». 27 28

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context, a process which is, in many ways, closely allied to contemporary developments in the nascent medium of the prose novella29.

Importante la sottolineatura della Campbell secondo la quale le decorazioni del Palazzo Comunale di San Gimignano sono la più importante sopravvivenza di un genere d’arte «comunale» che non si è conservata nei centri più famosi di Siena e Firenze30. È tempo insomma che anche le guide turistiche smettano di ripetere che gli affreschi rappresentano «scene di vita quotidiana» e mettano in luce l’esemplarità dei dipinti come raro e precoce esempio dell’affermazione di un’identità comunale, distinta dalla cultura delle corti signorili, in piena consonanza con la profonda trasformazione sociale che trova espressione nella nuova letteratura del tardo Medioevo italiano.

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C. J. Campbell, p. 19. C. J. Campbell, p. 13.

Il Cantare di Madonna Elena*

Il Cantare di Madonna Elena è trasmesso da due manoscritti del Quattrocento: il Moreniano Bigazzi 213 della Biblioteca Riccardiana a Firenze1 e il C43 del Biblioteca Augusta di Perugia (vecchia segnatura 160)2. I primi editori del cantare, Ottaviano Targioni Tozzetti e Ezio Levi, scelsero entrambi il Moreniano Bigazzi, preferendolo al perugino perché «ha parecchie lacune ed è scorrettissimo», e per la veste linguistica toscana (più precisamente pisana). Più recentemente entrambe le redazioni sono state pubblicate in edizione critica, in pubblicazioni apparse quasi contemporaneamente: una è la mia, nel quadro di un saggio pubblicato sullo «Yearbook of Italian Studies» (vol. 10, 1993), Il «Cantare di Madonna Elena» e l’elaborazione del poemetto cavalleresco in Italia, l’altra è il volume Cantare di Madonna Elena, edizione critica a cura di Giovanni Fontana, presso l’Accademia della Crusca, 1992. Il Fontana ha fatto conoscere anche una terza redazione, una stampa conservata alla Biblioteca Marciana di Venezia e fino allora erroneamente classificata come «Leggenda di S. Elena» (riferita cioè alla madre di Costantino), che completa il testo con la soscrizione Angelo da Perusia Deo gratias (si tratterà con ogni probabilità non dell’autore ma dell’ultimo rielaboratore)3. I rapporti fra le tre redazioni sono precisate dal Fontana in questo modo: i due manoscritti derivano indipendentemente da un archetipo (responsabile del vistoso errore che identifica l’Elena del cantare con l’imperatrice madre di Costantino), la stampa (veneziana) è * Il saggio abbrevia ed elabora l’articolo Il Cantare di Madonna Elena e l’elaborazione del poemetto cavalleresco in Italia, pubblicato dapprima in «Yearbook of Italian Studies», 10 (1993), pp. 53-107. 1 Descritto da M. Falciani Prunai, pp. 286-288 e, più ampiamente da G. Fontana, pp. xxvixxviii. Secondo M. Catalano 1920 (pp. 167-68) il manoscritto sarebbe stato copiato dopo il 1461. 2 Descritto da A. Bellucci, pp. 88-93 e da G. Fontana, pp. xxviii-xxix. 3 La stampa è compresa nella Bibliografia di A. Segarizzi, 1913, vol. I, p. 312. A. Cioni, 1963 (vol I, p. 136) propone l’ipotesi che la stampa sia stata prodotta da una stamperia veneziana intorno al 1550.

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strettamente imparentata col manoscritto perugino tramite un subarchetipo (le varianti che accomunano la stampa e il manoscritto toscano contro il manoscritto perugino sono infatti di minima entità). Per la lingua del manoscritto perugino, il Fontana cita e verifica l’ipotesi emessa da G. Contini, che citava il manoscritto «come esempio di miscellanea quattrocentesca di area emiliana», proponendo l’area ferrarese come più precisa localizzazione4. Come spesso accade, la verifica sui manoscritti smentisce le affermazioni dei primi editori e il manoscritto perugino, lungi dall’apparire lacunoso e «scorrettissimo», si rivela invece di grande interesse non solo per mettere in evidenza la vicenda rielaborativa del cantare, ma anche per meglio situare la versione italiana in un contesto europeo. L’analisi linguistica e il confronto strettamente filologico fra i due testi non conduce però molto lontano nel tentativo di esplorare la preistoria delle due redazioni. Come già anticipato dal Targioni Tozzetti e dal Levi, il testo toscano porta chiari segni di una pronuncia pisano-lucchese, ma incorpora alcune parole di provenienza settentrionale (bernaggio, scocossato, verghetta); la versione del manoscritto di Perugia d’altra parte si offre in un’ovvia veste settentrionale, ma le grafie del tipo çiorno, çiolia, çiascuno, e la frequenza di forme toscane in fine di verso fanno pensare che il testo padano sia stato esemplato di su una versione toscana. Entrambe le redazioni mostrano insomma un ibridismo linguistico che è fenomeno comune nella trasmissione dei cantari, e rende difficile stabilire immediatamente la provenienza regionale del testo originario5. Un passo avanti nell’impresa di investigare il retroterra delle due versioni si può fare però se ci rivolgiamo al contenuto della storia. Il Cantare di Madonna Elena è infatti una delle realizzazioni del gruppo noto come ciclo della scommessa. Gaston Paris raccolse e classificò sotto il titolo di cycle de la gageure una quarantina di opere che presentano tutte il motivo della donna convinta di adulterio con false prove da un avversario del marito (o fratello), e che riesce poi a far trionfare la sua innocenza con l’assistenza divina6. In Italia una versione particolarmente importante e fortunata della storia è costituita dalla novella II.9 del Decameron, che però appartiene a un filone della tradizione notevolmente diverso da quello a cui si riallaccia il cantare. Per situare quest’ultimo, le opere parallele a cui far riferimento sono prima di tutto alcuni romans d’aventure in versi francesi (il genere a cui fondamentalmente vanno ricollegati i cantari che il Levi definiva «leggendari»): il Comte de Poitiers, il Roman de la Violette e il Roman de la rose, ou G. Contini, Un manoscritto ferrarese, p. 295; G. Fontana, p. xxix. È notevole che nessuna delle forme settentrionali del testo padano, rivelatrici di un radicamento nella tradizione epico-cavalleresca franco-veneta, si ritrovi nel testo toscano; e che nessuno degli elementi settentrionali presenti nel testo toscano compaia nel testo padano, a eccezione di cogoçato, di cui è difficile dire se sia la traduzioe oltreappenninica di scocossato o la forma originariamente derivata da escogossatz. Per un’analisi più dettagliata cfr. M. Bendinelli Predelli 1993, pp. 90-95 e G. Fontana 1992, pp. xxxii-xxxviii e note al testo. 6 G. Paris, 1903. L’articolo fu pubblicato postumo da J. Bédier sulle note che il Paris aveva steso per un ciclo di lezioni al Collège de France. Cfr. anche F. Koenig, 1946-47; G. Almansi, 1976. 4 5

Il «Cantare di Madonna Elena»

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de Guillaume de Dole, tutti del primo terzo del XIII secolo. Eventualmente, saranno da tenere presenti anche alcune realizzazioni prosastiche la cui tradizione s’intreccia con quella di questi romans (il «miracolo» di Guillaume de Nevers, la Nouvelle de Sens, il Roi Flore et la belle Jehane). Collocate su questo sfondo le differenze fra le due redazioni del cantare assumono un maggiore significato. Una vistosa differenza si riscontra già nel lungo antefatto (sette ottave) che ascrive esplicitamente Elena alla schiatta dei Nerbonesi, facendola figliuola di Arnaldo di Gironda e nipote di Amerigo di Narbona nel testo toscano e che manca nel testo padano. Lo stesso antefatto anticipa anche in qualche modo il tradimento del «cattivo» giustificandolo con un suo amore per Elena non corrisposto (VIII.6-8). Di contro sta l’apertura del racconto nel testo padano: dopo una prima ottava d’inizio, qui il racconto ci trasporta immediatamente alla festa di corte dove avvengono il vanto e la scommessa. Allo stesso modo, il Comte de Poitiers e il Roman de la Violette si aprono sulla festa di corte che è l’occasione del vanto del protagonista e della scommessa. Del resto, la scena di corte come situazione iniziale è ricorrente nel roman d’aventure: si ricordino anche, per esempio, l’Yvain, il Lancelot, il Bel Inconnu. L’esordio primaverile è pure un luogo comune del poema cortese. Si veda l’inizio del racconto nel Perceval di Chrétien de Troyes: Ce fu au tans qu’arbres foillissent, Que glai et bois et pre verdissent, Et cil oisel en lor latin Cantent doucement au matin Et tote riens de joie aflamme, Que li fix a la veve feme… (vv. 69-74)7

o si pensi all’introduzione del Partonopeus de Blois: i due poemi hanno influito fortemente sulla tradizione successiva. Insomma, quest’esordio primaverile, e il racconto che si apre su una scena di corte bandita sono talmente consoni con gli esordi tipici dei poemi e poemetti arturiani e d’avventura francesi che la redazione padana ha, secondo me, forti probabilità di riflettere la prima versione della storia diffusasi in Italia. Certo, anche nel manoscritto perugino compare, nell’ultima parte della storia, un Arnaldo di Gironda padre di Elena che vola in soccorso della figlia e che compare all’improvviso, senza alcuna anticipazione, mentre nel testo toscano Elena stessa lo manda a chiamare perché venga in suo aiuto. A ben vedere, l’intervento di Arnaldo non appare strettamente necessario: Madonna Elena ha già sconfitto l’avversario, messer Ruggero è scampato da morte, e la storia potrebbe finire semplicemente con la riconciliazione degli sposi. Abbiamo già detto che linguisticamente la versione padana sembra presupporre un 7

Chétien de Troyes 1959.

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antigrafo toscano, e si potrebbe pensare che il rifacitore avesse incorporato nella sua versione degli elementi della versione toscana. C’è però un interessante riscontro fra l’episodio del cavaliere che vede da lontano «acieso il fuoco e la calura» e vola alla riscossa dell’eroina e un segmento della storia del Roman de la Violette, in cui Euriaut, la fanciulla ingiustamente accusata di turno, sta per essere condannata al rogo per un delitto perfidamente macchinato da un pretendente respinto. L’amico Gerart, cavalcando verso Metz, incontra «par mi une lande pleniere… una grant compaignie / De chevaliers venir ensamble»8. Insieme vedono da lontano, fuori delle mura della città, «alumé un grant fu», preparato per il supplizio di Euriaut. Naturalmente l’amico arriverà in tempo per combattere in duello giudiziario l’accusatore e salvare la sua amica. Il motivo si trova anche nell’Yvain e nel Floire et Blanchefleur (entrambi del XII secolo), e sembra bene che l’autore del Roman de la Violette abbia imitato l’episodio in cui Yvain vola al soccorso di Lunete ingiustamente condannata al rogo; ma il dettaglio che il salvatore, con una compagnia di cavalieri, vede il fuoco da lontano mentre si dirige verso la città isola la concordanza fra il cantare di Madonna Elena e il Roman de la Violette. È probabile dunque che l’estensore della primitiva versione italiana del Madonna Elena abbia utilizzato alcuni particolari dell’episodio riflesso anche nel poema francese, e che l’episodio appartenesse a questa primitiva versione9. È comprensibile però che un rifacitore abbia avvertito l’incongruenza nell’improvviso irrompere nella storia del personaggio narbonese e abbia sentito il bisogno di spiegarlo anticipando la storia della famiglia di Elena. Si ricorderà che tra gli ultimi decenni del Trecento e i primi del Quattrocento Andrea da Barberino traduce in toscano una saga franco-veneta sui Narbonesi e che un cantare intitolato ad Amerigo di Narbona è conservato nel ms. Magl. VII 761)10: la notorietà della leggendaria famiglia avrà facilmente dettato l’affiliazione dell’eroina a tale famiglia, che nella versione primitiva era forse adombrata in modo molto più conciso (nella prima ottava nelle due redazioni, e dunque in una versione italiana antecedente comune, Elena è identificata, con un errore vistoso, con l’imperatrice madre di Costantino). Interessante l’ambientazione carolingia della storia: nelle altre versioni del ciclo della scommessa la corte in cui è ambientata la storia non è quella carolingia, oppure non c’è corte del tutto (come nella versione accolta e rielaborata dal Boccaccio); ma già nel Roman de la Violette il re di Francia si chiamava Looys, e il redattore del Comte de Poitiers, un giullare più a suo agio fra le chansons de geste che fra i romanzi d’amore e d’avventura, ambienta la storia alla corte di Pipino il Breve, introducendo così il suo racconto: Gerbert de Montreuil, Le roman de la Violette ou de Gerart de Nevers, vv. 5113-16. Se pure la storia riflessa nel cantare italiano non sia stata a monte del Roman de la Violette. Il Paris attribuì la storia di Madonna Elena al XII secolo, pur senza fornire argomenti a suffragio dell’ipotesi. 10 Cfr. E. Levi, 1914 p. 141 in nota. 8

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Vous avés maintes fois oï Chanter du lignage Aimeri, de Karlemagne le poissant Et d’Olivier et de Rollant Et de Guillaume Fierebrache Et de Rainouart a le mache, Qui les dis rois conquist as mains Del tot passa Pepins li nains, Qui n’ot que trois piés et demi… (vv. 3-11)11

All’interno di un particolare filone del ciclo della scommessa esisteva insomma già il terreno propizio per un’ambientazione carolingia; da notare però che il testo padano identifica la figura regnante come Alvixe (Luigi), come il Roman de la Violette, mentre una versione toscana gli sostituì (probabilmente) il più noto sovrano delle chansons de geste, Carlomagno. Con il gruppo Comte de Poitiers - Roman de la Violette il testo padano concorda poi in un altro dettaglio ignoto alla redazione toscana: caduta dal balcone nel fiume «ferida fortemente», Madonna Lena è soccorsa, nella redazione padana, da un «cavaliero liale e fino» che la porta in un «castelo che iera li vixino». Nel testo toscano invece Elena è aiutata soltanto da «Yhesu Christo», il quale «dentro in Gironda, davanti a la sua giente / Su nel palasso la fecie tornare». Nei due poemi francesi il marito, stornato nel suo tentativo di uccidere la moglie con la spada da altri incidenti, abbandona la donna in una foresta; qui ella è raccolta da un cavaliere che si trovava a passare di là e condotta in un castello, come nel testo padano. Un’altra importante differenza risiede nelle prove che Guarnieri adduce per convincere la corte dell’avvenuta seduzione. Nella redazione toscana le prove che Guarnieri ha compiuto il suo vanto sono delle «gioie» e uno «scagiale» (cintura portata per ornamento), e così anche nella redazione padana, ma fra le rivelazioni che la damigella di Madonna Elena aveva fatto a Guarnieri compare, nella descrizione della persona di Elena, un neo sulla coscia: e suxo la cosa dalo destro lato tri pili i a biondi e riçoleli; do volte ala cosa intorno se poria dare et ala terça bene se poria agroparre. (XXIV 5-8).

Nonostante il dettato non sia chiarissimo, è evidente che la versione padana conserva una reminiscenza del «segno» corporeo che nella quasi totalità della tradizione europea costituisce la prova più convincente del tradimento. Il «segno» è di natura diversa a seconda delle versioni, ma in molte si tratta proprio di un segno su una coscia: così nel Guillaume de Dole, in due degli 11

Le roman du Comte de Poitiers, 1940 (ms. 3527 de la Bibliothèque de l’Arsenal, Parigi).

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esempi latini, nella Nouvelle de Sens, nel racconto del Roi Flore et de la belle Jehane12. A questo si aggiunga che il racconto del testo padano è condotto in modo più lineare, mentre il testo toscano tende ad annunciare i momenti salienti, e a insistervi attraverso le battute dei personaggi, a mettere in risalto il tono epico del cantare, mentre il padano fa più attenzione allo svolgimento dei fatti13. Si hanno nel toscano notevoli contrazioni nel resoconto degli avvenimenti: per esempio, quando si racconta la furia punitrice di Ruggero, il testo toscano taglia corto: «andò al palasso e uccise i duo lioni, / Tagliò la testa a’ draghi e a’ figliuoli» (42.7-8), mentre sembra verosimile che una versione antecedente contenesse il momento descritto nel testo padano alla strofa 32; la punizione e il salvataggio di Elena sono sbrigati nelle due ottave 43-44, mentre il padano ve ne impiega cinque (33-37). Al momento del duello, il testo padano dedica l’ottava 47 al topos della vestizione dell’armatura, che manca nel toscano ma forse è adombrato nell’inizio dell’ottava 57: «Elena prende l’arme…». Anche la descrizione di Elena e del palazzo è più breve nella redazione toscana: cinque ottave (31-35) contro le sette (20-26) di quella padana. In particolare, il testo padano ha due ottave in più fra quelle che nel toscano sono le ottave 33 e 34. Anche qui il brusco passaggio d’argomento fra le strofe fa propendere per l’ipotesi della lacuna, mentre nel padano il passaggio dalla descrizione della camera (anzi, del letto) a quella della persona di Elena è ben assicurato dall’enunciazione del soggetto: «Madonna Lena si à lo vixo schiarato». La descrizione della bellezza fisica della donna ritorna regolarmente nelle altre versioni del ciclo della scommessa; e in particolare in questo passo si ha la menzione del segno sulla coscia14. Alla luce di queste considerazioni prende consistenza l’ipotesi che il testo padano conservi almeno in parte una fase arcaica della tradizione della leggenda in Italia, e che lo studio dei rapporti fra le due redazioni, se è vero che entrambe risalgono a una fonte comune, vada orientato nel senso del riconoscimento delle operazioni rifacitorie della versione Bigazzi rispetto alla versione padana. Prenderanno rilievo allora certe osservazioni di natura microtestuale, che prese da sole non portavano a nessuna conclusione ma che in una lettura orientata servono a consolidare l’ipotesi che il testo toscano sia rifacimento di un testo simile a quello padano: dato il contesto sostanzialmente identico delle due ottave, a 29.1 del toscano, abandonare è lectio facilior rispetto a desfi12 Per Boccaccio (Decameron II.9) la donna «avea sotto la sinistra poppa un neo dintorno al quale erano alquanti peluzzi biondi come oro»; la collocazioe del segno è analoga a quella del Roman de la Violette ma i «peluzzi biondi come oro» sono un riscontro preciso con la redazione padana, poiché a questa altezza cronologica la novella del Boccaccio e il cantare sono i soli testi a parlare di peli. 13 Si veda in questo stesso volume il saggio «Recitazione e mouvance nel Cantare di Madonna Elena». 14 La scarsa comprensibilità del dettato negli ultimi versi dell’ottava XXIV potrebbe spiegare perché un rifacitore l’avrebbe eliminata.

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dare (18.1); all’ottava 60 (51) il toscano sostituisce l’espressione che comportava l’inammissibile parola rima «fato» con l’espressione «O malenato»; all’ottava 26 (15) può essere stata la morfologia verbale fortemente connotata in senso settentrionale («Chi es-tu cavaliero? / Per quale amore vas-tu armeçando») a determinare le modifiche del toscano: «O bel cavaliere, per cui amore andate voi armeggiando?»; all’ottava 14 (6), poiché era impossibile conservare le parole rima paissi : cortissi : Aluissi, a paezi e cortezi fanno rima dei borghezi (accoppiati a mercatanti), piuttosto improbabili nel contesto della corte imperiale. All’ottava 17 (7) il discorso conciso ma espressivo e sintatticamente corretto del padano: «Misiere, questo me pare gran falimento: /Homo che de sua mualre è cogoçato / A bere con copa del re incoronato», è disteso e spiegato dal testo toscano, preoccupato di chiarire il senso di quello scocossato, ma gli ultimi due versi rimangono allora sintatticamente irrelati. L’espressione inconsueta del padano 8.8 «non l’à dal rixo» è trasformata nel più comune «non parve giuoco», il che comporta però una rima equivoca ai vv. 18.1-3 del toscano15. E si ricordino i casi numerosi in cui alle rime perfette del testo padano corrispondono rime imperfette (particolarmente all’ottava 62 [53]). L’ipotesi ci sembra insomma sostenibile anche a livello di rapporti filologici, pur senza voler identificare «versione» con «testo» e pur ammettendo che a monte del ms. perugino si collochi anche un testo toscano. Con ciò non si esclude naturalmente che anche il testo padano non abbia subito le sue deformazioni nel corso delle trasmissioni, e che il testo toscano non possa essere di qualche utilità nella ricostruzione di una fase anteriore alle due trascrizioni. Rispetto al racconto del padano, il testo toscano presenta alcuni elementi in più: i consigli di Guarnieri con i suoi uomini, simmetricamente disposti prima e dopo l’impresa della seduzione (ottave 24 e 38), la sanzione del supplizio da parte di Carlomagno all’infelice marito (ottava 40), il messaggio mandato da Elena al padre per invitarlo ad andare a Parigi (45-46) e la notizia della fuga di Ruggiero (ottava 64). Quest’ultima trova un qualche riscontro nelle versioni francesi, dove però di norma il marito (o fratello) fugge in seguito al disonore dell’adulterio, e non per il rimorso quando l’innocenza della moglie rifulge. Sarà bene, a questo punto, ricordare che della storia di Madonna Elena esiste un’ulteriore versione, non scritta, ma dipinta sul soffitto del palazzo Chiaramonte di Palermo, e facente parte di un ciclo pittorico iniziato nel 1377 e completato nel 138016. Le scene della storia sono sormontate da iscrizioni in latino che nominano 15 L’espressione aver dal riso corrisponde probabilmente a un’espressione parallela francese. Cfr. «Il unt grant duel, nen unt ne giu ne ris», Chançon Guillalme, v. 694 (Tobler-Lommatzsch, Altfranzösische Wörterbuch, VIII, 1316). Altre voci del testo padano rimandano al vocabolario dei testi cavallereschi franco-veneti o francesi, per esempio insenata (XLIX.1), xmeliata (XXX.2), desparare (XXV.5). 16 Cfr. E. Gabrici e E. Levi 1932; F. Bologna 1975; Lo Steri dei Chiaromonte, a cura di Antonietta Iolanda Lima, 2015; F. Vergara Caffarelli 2009; A Canova 2014.

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i personaggi principali (Karolus magnus, dominus Rogerius, Guarnerius proditor magnus) e identificano le scene cruciali: Colloquium proditionis Helenae, Falsa et iniqua probacio Guarnerii, Nobilis domina Helena interfecit Guarnerium, Nobilis domina Helena decollavit Guarnerium. È chiaro già dall’identificazione della figura regnante che la sequenza narrativa del soffitto Chiaramonte va accostata alla redazione toscana. Se ne ha una conferma nella rappresentazione di due fanciulli che il cattivo Guarnieri presenta all’imperatore, prima di partire per la sua impresa, in corrispondenza della versione toscana: «Messer Guarnieri non trova malevadore: / Tre suoi figluoli stadichi à lassato» (22.3-4), mentre il testo padano dice semplicemente che il re «fe’ fare uno comandamento / Che Guarniero segurtà dovese dare» (13.2). E gli ostaggi sono comunque una particolarità della tradizione italiana, non compaiono nelle altre storie del ciclo. Nel dipinto la storia comincia con la scena in cui Guarnieri si impegna davanti al re ad andare da Elena e riportare le prove della sua seduzione, ma il volume di Gabrici e Levi informa che mancano da quella trave alcune tavolette che avrebbero potuto contenere un antefatto della vicenda17. Nel collegare la sequenza pittorica del soffitto al cantare di Madonna Elena, il Levi (editore non per niente del cantare) identificava senz’altro il testo ispiratore delle pitture col cantare popolare, e si meravigliava «che il pittore, che ha così rudemente interpretato la vigorosa vicenda del cantare plebeo, abbia voluto poi ricorrere proprio al latino per commentarla. Accanto a lui era forse qualche clerico della corte chiaramontana…». Con la prudenza che ormai caratterizza le questioni canterine, noi ci limiteremo a constatare l’esistenza in Italia, prima del 1380, di una storia di Madonna Elena, abbastanza apprezzata dall’ambiente signorile da essere inclusa fra le storie esemplari destinate a celebrare il matrimonio del nobile Manfredi di Chiaromonte. L’ipotesi che la storia presa in considerazione dall’ideatore del soffitto esistesse addirittura in redazione latina non è da scartare, visto che nella rassegna dei racconti del cycle de la gageure il Paris menziona tre «miracoli» in latino, del XIII secolo, e che uno di questi appare come il compendio prosastico di un vero e proprio roman d’aventure18. In conclusione, ci pare di poter affermare che delle due redazioni, quella padana e quella toscana, la padana pare rappresentare la fase più arcaica di un poemetto che, nato presumibilmente in Francia sulla scia di romanzi in versi come il Guillaume de Dole, il Comte de Poitiers, il Roman de la Violette, godette anche in Italia di un notevole favore. Forse qui la storia intensificò i rapporti con le tradizioni carolingie e la protagonista fu associata alla famiglia dei Nerbonesi. Due diramazioni della storia sono identificabili attraverso il nome attribuito alla figura regnante, Carlo Magno o Luigi; la versione con Carlo Magno esisteva sicuramente prima del 1380, forse in una redazione latina. A 17 Al posto dell’anello e della cintura della versione in ottave, le prove addotte da Guarnieri sono indumenti intimi della dama. 18 Cfr. V. F. Koenig, 1948.

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1. Sala Magna dello Steri, soffitto, trave III A, Vanto di Guarnieri; Viaggio verso Gironda; Colloquio con la cameriera di madonna Elena (sopra); trave III B, Guarnieri presenta le prove del suo successo (sotto)

questo stesso filone appartiene la redazione toscana, che rappresenta però una fase più avanzata della tradizione, quando il racconto è piegato da un canterino professionista alle esigenze della presentazione cantata sulle piazze: identificazione esplicita dei protagonisti della storia, con l’indicazione immediata del «cattivo» e l’annuncio del tradimento (v. ottava 8), messa in rilievo di alcune scene fondamentali, insistendo sulle battute dei personaggi per assicurarsi che il pubblico abbia ben capito l’«enjeu», accentuazione del carattere epico della storia. Ma soltanto il confronto fra la redazione toscana e quella padana, più vicina in spirito al racconto disteso che poteva aver luogo in un ambito più raccolto, introduce la dimensione della profondità nella tradizione italiana del poemetto e ci permette di misurarne i livelli di rielaborazione, facendo intravedere una possibile redazione intermedia consegnata a un testo latino e rendendo evidenti le caratteristiche canterine della redazione toscana. Ancora una volta il controllo sui manoscritti porta frutti che vanno ben aldilà della soddisfazione di uno scrupolo filologico e si rivela come uno degli strumenti più preziosi per l’esplorazione della storia letteraria.

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2. Sala Magna dello Steri, soffitto, trave III B, Storia di Elena di Narbona, Ruggero tenta di uccidere Elena con la spada e la getta giù dagli spalti (sopra); duello fra Elena e Guarnieri; Elena taglia la testa a Guarnieri (sotto)

Recitazione e mouvance nel Cantare di Madonna Elena*

Una volta posta l’ipotesi che vede nella redazione ferrarese del Cantare il riflesso di una tradizione antecedente alla redazione toscana, un confronto dettagliato delle due versioni offre l’opportunità di riconoscere meccanismi di elaborazione di un cantare da associare strettamente alla pratica di una recitazione professionale. Mettiamo direttamente a confronto un passo della versione toscana con quello della versione padana: Moreniano Bigazzi 2131 15. Meser Rugeri la prende volentieri e sì ne beve a tutto il suo piacere e Carlo disse: «Gentil cavalieri che di tua donna se’ aùto a vantare, tu se’ sì bello che se tua moglieri è come te tu ti puo’ contentare». Meser Rugeri disse: «Santa corona, egli è vostro l’avere e la persona».

Perugia, Augusta, C43 7. Misiere Urçiero la prese volontiero e si ne beve a tutto el suo talento et in quel’ora se livò Guarniero e sì parlò sença dimoramento: davanti alo re se dise lo suo volere: «Misiere, questo me pare gram falimento: homo che de soa mualre2 è cogoçato a bere con copa del re incoronato».

16. Un cavalieri ch’avea nome Guernieri, che d’oltra mare fu nato e creato, sì come malvagio e falso cavalieri davanti a Carlo im piè si fu levato; e sì parlò e disse e suoi pensieri del tradimento ch’egli à ordinato: * Presentato dapprima come paper al “32nd International Congress on Medieval Studies”, Kalamazoo (Michigan), May 8-11, 1997 e pubblicato in M. Bendinelli Predelli, Cantari e dintorni, 1999, pp. 111-127. 1 Criteri di edizione: aggiungo accenti, apostrofi, maiuscole, punteggiatura; tolgo la i nei nessi cie, gie, gno; inserisco una i nei nessi gu, glu, sce dal suono palatale. 2 Errore per qualcosa di simile a mogliere.

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«Santa corona, un prego vi vo’ fare che mi deggiate mie’ dire ascoltare». 17. Imantenente sì disse Guarnieri: «Santa corona, quest’è gram falimento, la tua corona no ’l dovria soferiri di quel che Rugeri à fatto parlamento, ché la sua donna io agio a’ mie’ voleri e sì n’ò aùto tutto il mio talento: omo da sua donna scocossato3 a ber con copa di re incoronato!» 18. E a meser Rugeri non parve giuoco e disseli: «Guernieri d’oltro [sic| lo mare, dicilo tu per ira over per giuoco, o è il vino che ti fa sì parlare? ché non ci è cavalieri in questo loco che ta’ parole non facessi stornare: de la battaglia ne darò il guanto, perda la testa chi non prova il vanto».

8. Quando misiere Urçiero intese quelo ditto in piè se lieva con gran dubitança et a Guarniero dise tutto xmaritto: «Lo destriero a gabione4 o ’l dis-tu per certança? Dise Guarniero: «Senpre i’ò abuto diletto con quela che li altre pasa e avança, çoè com Lena bela dalo chiaro vixo». Misiere Ruçiero l’alde e nom l’à dal rixo.

19. Meser Guarnieri malvagio e sconoscente, ch’era uzato sempre di mal dire, disse a Rugeri: «Io saccio certamente che più bella donna non si può vedere; però mi vanto e dico infra la gente ch’io n’agio aùto tutto il mio volere e sì la posso avere a mia richiesta; se non è vero io vo’ perder la testa».

9. Dise misiere Ruçiero: «O falso traditore, perché m’ài tu ditto tanta vilania? ché tu ne romagnirai com desonore: più liale dona nom se trovaria. Denançi a ’Luise nostro inperadore adeço io ne metto la testa mia: dela battalia io te apelo al canpo, perda la testa chi no prova el vanto».

20. E Carlo disse alora: «Sansa tinore questa battaglia si vuole aconciare e chi nom prova il vanto per ragione immantenente io lo farò pigliare e sensa mettelo inn altra prigione subitamente il farò dicapare; domenica sarete a la battaglia e chi la perde avrà briga e travaglia».

10. Lo re parlò como savio barone: «Questa battalia se vole començare; chi nom prova el vanto per raxone la mala morte io li faraço fare: io el faraço mettere in tale presone che ala soa vita el nom porà canpare. Domenega seriti ala battaglia; chi perderà averà briga e travaglia».

21. Guarnieri li disse: «Corona di Francia, sansa battaglia lo credo provare, e sensa colpo di spada o di lancia a lui medesmo il farò confessare. Donami tempo ch’io vada a mia ’mansa; con esso lei mi credo sollazzare

11. Disse Guarniero: «O corona di França, sença battalia lo credo provare e sença colpo de spada overo de lança a lui medexmo lo farò confesare. Termine volio d’andare ala mia mança: con eso lie me credo solaçarre,

3 ‘Reso cornuto’: la parola sarà da mettere in relazione con il provenzale escogosset. Cfr. M. Raynouard, Lexique roman, Paris, Silvestre, 1844, s. v. cogul e Il Novellino a cura di G. Favati (Genova, Bozzi, 1970), p. 223. 4 La lezione, certamente erronea, presuppone una frase del tipo « Lo dis-tu a gab(b)o… ».

Recitazione e mouvance nel «Cantare di Madonna Elena» e recherò suo gioia e lo veletto per mantenere in piè ciò ch’io t’ho detto».

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aduròve de le sue çuolie e lo diletto per mantignire in piè quelo che aço ditto».

Nella versione del codice perugino, siamo all’inizio della storia: nella bella stagione del mese di maggio, alla corte di Francia, donzelli e cavalieri si impegnano in una gara di vanti; per ultimo messer Ruggeri si vanta della bellezza della sua donna. Il re ordina poi che venga da bere e «lo suo comandamento fo oservato, / multi donçeli se levono da sedere / con cope d’oro aprexentono lo vino; / diçe el cantare ch’el fo vernançino». Il re si toglie la sete, poi porge la coppa a messer Ruggero. Nell’ottava 7, all’inizio del passo citato, sono concentrati tre momenti: Ruggero prende la coppa e vi beve con soddisfazione; in quel momento insorge improvvisamente un avversario e il suo discorso è un’ingiuria sibillina e velenosa che, dal punto di vista dello stile, chiude perfettamente l’ottava, creando l’aspettativa per ciò che dovrà seguire. Nell’ottava seguente Ruggero, colto di sorpresa e comprensibilmente frastornato chiede spiegazioni a Guarnieri, con una frase costruita retoricamente su un’opposizione semplice e diretta: «ohé, lo dici per gabbo o lo dici sul serio?» Al che segue, nel vv. 5-7, la conferma dell’ingiuria, esplicita questa volta e tagliente: «io sono l’amante di tua moglie». Ancora una volta l’ottava si chiude abilmente con un verso come «messer Ruggero l’ode e non gli par da ridere», che prepara la battuta che riempie tutta l’ottava successiva. Ruggero è colpito nel suo onore e comprensibilmente accusa di falsità l’avversario e lo sfida a duello in modo perentorio e con grande sicurezza: «Denançi a ’Luise nostro inperadore / adeço io ne metto la testa mia: / dela battalia io te apelo al canpo»; e riafferma con forza la posta in gioco»: «perda la testa chi no prova el vanto». Si noti la rima imperfetta campo : vanto che scompare nella redazione toscana. Si ricordi che si era appena usciti da una gara di vanti in cui ciascuno era impegnato a provare il suo vanto: un gioco di società che dalla presenza dell’imperatore acquistava la serietà di un rito che impegnava tutto l’onore di chi proferiva il vanto e tutta l’autorità di chi garantiva le regole del gioco; si capisce perciò che il re (Luigi o Carlomagno a seconda delle versioni, è indifferente) colga al volo la proposta del duello, che assume le caratteristiche di un giudizio di Dio, e minacci di morte colui che la sconfitta avrà dimostrato spergiuro. Si direbbe anzi che è per evitare il duello che Guarnieri propone di dimostrare la verità del suo vanto altrimenti, andando cioè dalla sua «manza» e riportando pegni d’amore. C’è nel passo una progressione ben costruita: i termini della storia sono riferiti in maniera essenziale, senza sbavature, ci sono tutti e sono quelli necessari. Si ha l’impressione di essere davanti a un racconto sintetico ma abile, ben ordinato. Nella redazione toscana, alle ottave 7-10 corrispondono le ottave 15-20: quando Ruggero prende la coppa, si sente rivolgere dal re uno straordinario quanto inaspettato complimento: «Gentil cavalieri / che di tua donna se’ aùto a vantare, / tu se’ sì bello che se tua moglieri / è come te tu ti puo’ contentare».

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Un complimento che, detto in faccia a tutti, potrebbe ben scatenare l’invidia di un rivale. Allora l’avversario si alza, e annuncia al re di avere qualcosa da dirgli. Bisogna avvertire che la versione toscana premette all’azione descritta nella versione padana sette ottave in cui viene presentato come antefatto il lignaggio di Madonna Elena, e si dice anche che «un cavalieri malvagio oltra mizura / si inamorò de la gentil pulzella / ma non ne potea avere alcuno amore / onde pensò una gran tradigione» (8.5-8). Si riconosce evidentemente nel Guernieri dell’ottava 16 il «cavalieri malvagio oltra mizura» annunciato alla strofa 8; ma qui stranamente il personaggio viene presentato come interamente nuovo: «un cavalieri ch’avea nome Guernieri» e addirittura si aggiunge che veniva di là dal mare. Tutta l’ottava 17 è consacrata al discorso di Guarnieri – contro i tre versi della redazione padana. Ma qui la spiegazione dell’ingiuria precede quello che nella versione padana settentrionale si presenta come una pointe sibillina: una frase cioè pregna di significato e collocata in posizione strategica, alla fine del’ottava. Guarnieri dice al re che non dovrebbe tollerare quello che Ruggeri aveva detto prima (il vanto cioè della bellezza della moglie), perché lui è l’amante della donna; e gli ultimi due versi dell’ottava riproducono la pointe della versione settentrionale, ma rimangono sintatticamente del tutto irrelati. Ruggero dunque ha già saputo tutto e non ha bisogno di domandare spiegazioni; ed è interessante che in questa versione si perda anche la contrapposizione «per scherzo o sul serio» del testo perugino, perché le domande di Ruggero sono tutte ipotesi sulle motivazioni di Guarnieri: «lo dici per ira, o per scherzo, o sei ubriaco?» Dunque, mentre si conserva la forma retorica, va persa però la carica semantica della domanda. E perché sa già tutto, Ruggero sfida subito, nella sua prima battuta, l’avversario a duello. Guarnieri replica e riafferma quello che ha detto, e fa eco alle parole di Ruggero «perda la testa chi non prova il vanto» con «se non è vero io vo’ perder la testa». Dunque è conservata la struttura formale: battuta di Guarnieri, domanda di Ruggero, replica di Guarnieri, ma la progressione che impegna l’intelligenza del lettore a seguire la rivelazione dei dati del dramma, e il modo sintetico che fa appello all’immedesimazione del lettore nella situazione per capire i moti psicologici dietro le parole dei personaggi è persa. A vantaggio, certo, di una maggiore chiarezza dei dati della questione: non per niente la redazione toscana ci offre il quadro della famiglia di Elena prima che incominci l’azione e ci avverte anche, perché l’ascoltatore non sia troppo sorpreso, dell’esistenza di un cavaliere malvagio che preparava un tradimento. La prima battuta di Guarnieri non è più sibillina, ma dice esplicitamente: «ché la sua donna io agio a’ mie’ voleri / e sì n’ò aùto tutto il mio talento», anzi è persino annunciata alla fine dell’ottava precedente perché il discorso non corra il rischio di perdersi alle orecchie di un ascoltatore disattento; e il vanto è ripetuto con spostamento semantico minimo nella seconda battuta: «io n’agio aùto tutto il mio volere / e sì la posso avere a mia richiesta». A vantaggio di una contrapposizione for-

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malmente più chiara fra i due avversari, ciascuno dei quali ha diritto a un’intera ottava per la sua battuta (17-17-19), con un gioco addirittura di eco, come abbiamo visto per l’espressione «perdere la testa». A vantaggio anche, direi, di una drammaticità più spettacolare, con un’impennata d’orgoglio da parte di Ruggero quando proclama: «che non ci ha cavalieri in questo loco / che ta’ parole non facessi stornare», e l’altrettanto arrogante e spettacolare ripicca: «però mi vanto e dico infra la gente». Andiamo a controllare un altro passo per verificare se la fenomenologia delineata per il primo episodio si ripete altrove. Siamo verso la fine della storia ed è il momento risolutivo, quando madonna Elena va a corte a confrontare l’accusatore. Moreniano Bigazzi 213

Perugia, Augusta, C43

48. Meser Rugeri quando gìa a la morte Elena bella nella terra è entrata; giunse al palagio e sospignea le porte, davanti a Carlo si fu inginocchiata: «Santa corona, non mi dar la morte ché d’esto fallo non sono incolpata5; meser Rugeri è condannato a torto e proverollo innansi che sia morto.

39. E madona Lena a corte fu arivata, con siego avea gram cavalaria, davanti alo re ela fo apresentata; veçando tutta l’altra baronia dixeva: «Misiere, e’ ne sono sta’ incolpata; çamai io non pensai cotale folia; lo mio signore è condanato a torto e provaròlo avanti ch’el sia morto.

49. Mesere, che Dio vi dia vita e honore, tenetemi ragiom, santa corona, fate venir davanti il traditore, segondo che si dice e si ragiona che ditto à mal di me e misso errore, ch’io v’imprometto e giuro, santa corona, ch’io lo faraggio morir ricredente davanti a voi e tutta vostra gente».

40. Hor fati vignire, misiere, lo traditore che à ditto tanto male de mia persona. Davanti a vui, o franco inperdaore, faròlo dexdire, se Christo me perdona». E lo re fe’ vignire Guarniero in quel’ora e domandò s’elo vide mai questa dona ed elo i dise: «De lie ho avuto mie volentà, com queste çiolie ch’ela m’avea donà».

50. E per meser Guarnieri e’ fu mandato ch’eli venisse a far sua difensione ché Elena bella sì à rapelato e prova e dice ch’ell’à la ragione; e tal si crede aver vinto quel piato che perderà la vita e la quistione, e chi si vanta di que’ che non à fatto perde il senno ed è tenuto matto. 51. Meser Guarnieri a corte fu venuto e da li savi che fu adomandato: «Quella donna, cavalieri arguto vedestila tu mai in nessun lato?» «I’ò aùto di lei ciò ch’i’ ò voluto, 5

‘Non sono colpevole’.

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eco le gioie ch’ela m’à donato». E per meser Rugeri e’ fu mandato e comandò ch’e’ non fosse dicapato. 52 Rispuose Elena: «Se Christo mi vaglia, tu menti per la gola, o traditore. Tu sì m’ài data assai briga e travaglia, e’ miei figliuoli som morti a tua cagione; ma io ti proveragio per battaglia davanti [al re] e ogni suo barone che queste gioie che tu m’ài mostrate veracemente tu me l’ài furate».

41. Elena li respose arditamente: «Tu nom diçe vero, traditore felone, ch’io te ne dese mai al mio vivente, per tempo alcuno né per nexuna staxone, se no mo ch’io ti veço qui presente e çerto tu mi pari um gram ladrone e que’ çiolie che tu m’ài mostrade veraxemente tu me li a’ furade».

53. Meser Guarnieri parlò con felonia e disse: «Madonna, già siete voltata, e sì m’avete ditto vilania, che di tal cosa non eravate uzata: queste gioie mi deste in druderia quando stavamo insieme a la celata. Or vi ricordi del tempo passato quando era insieme con voi abracciato».

42. El felo Guarniero li respoxe im vilania e dise: «Madona Lena, çià no si vui erata? nom si vui quela che la notte e la dia io basava la vostra boca delicata? E queste çiolie me diesti in drudaria quando e’ stava com vui ala çelata; e recordàve del bom tenpo pasato quando io stava con vui nudo abraçato».

54. Elena disse: «Falso traditore! Come puoi dir così gram falimento che non m’aiuti Idio nostro signore, se io ti vidi mai per nessum tempo se none a questo punto, o traditore, ché tu m’ài aposto sì gram tradimento? Però ti dico che non puo’ campare, ch’io som pur ferma di teco giostrare».

43. Elena dise: «Se Christo me vaglia, tu menti per la gola o traditore, che tu m’ài donato cotanta travaglia: ma tu ne6 romagnira’ com desonorre, e sì tel provaraço per battaglia davanti a Luixe nostro inperadore, e quelo ch’ài ditto farottelo dexdire; a mala morte io te farò murirre».

Seguiamo dapprima la redazione settentrionale alle ottave 39-49. Il discorso di Elena incomincia a metà dell’ottava 39 e continua nei primi quattro versi dell’ottava seguente. Sostanzialmente Elena afferma di essere innocente di quello di cui è accusata, che quindi suo marito non deve essere ucciso, e richiede un confronto col traditore, dicendosi sicura di farlo ricredere («faròlo dexdire»). Nella stessa ottava il re fa venire Guarnieri, gli domanda (con discorso indiretto) se avesse mai visto quella donna e Guarnieri impudentemente ripete la sua menzogna: «De lie ho avuto mie volontà, / con queste çiolie ch’ela m’avea donà». Elena è quindi confrontata alla calunnia e risponde, con logica perfettamente appropriata, che lei quell’uomo non l’aveva mai visto, dunque lui mentiva; e che le gioie che mostrava dovevano essere rubate. La replica di Elena occupa tutta l’ottava 41. Guarnieri allora aggiunge all’offesa la beffa, rammentandole supposti momenti d’amore (ottava 42), il che suscita comprensibilmente l’ira di Elena che soltanto allora risponde con 6

Ms.: no.

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violenza e si afferma sicura di far rimangiare le accuse al traditore in un duello giudiziario (o giudizio di Dio): in una prima ottava Elena si rivolge a Guarnieri, in una seconda ottava si rivolge all’imperatore chiedendogli di organizzare il duello. Corrispondentemente, nell’ottava seguente il re comanda a Guarnieri di armarsi e di andare in piazza, e raccomanda a Elena di scegliersi un campione. Ed ecco allora un’altra pointe: in fine d’ottava, in due soli versi, Elena afferma: «Io nom volio canpione: / credo de vinçere perch’io ho raxone»7. Una svolta importante del racconto viene condensata in un’espressione sintetica collocata strategicamente in fine d’ottava, ma l’ottava seguente riprende e spiega il senso della pointe: ai donzelli e cavalieri che si offrono come campioni Elena spiega di volersi vendicare con le sue proprie mani. Segue un’ottava dedicata al topos della vestizione del guerriero. L’ira e la determinazione di Elena si rivelano nella sua allocuzione al traditore in campo immediatamente prima dello scontro. Guarnieri, che sa di essere dalla parte del torto, fa un ultimo tentativo di pacificazione, al quale Elena risponde, in maniera coerente, che il traditore otterrà pace soltanto a condizione di confessare il suo inganno: «se questo falsimento no vuo’ dire, / prendi del canpo ch’io te volio ferire». E nell’ottava seguente, con l’osservazione che «madona Lena sì l’ha desfidato / ché più nol vole intendere né ascoltare», il racconto continua in maniera perfettamente conseguente al fallimento delle trattative dell’ottava 49. Testo toscano. La prima battuta di Elena comincia come nel testo veneto a metà dell’ottava introduttiva (48 in questa redazione) e continua per tutta l’ottava seguente; nella prima parte il discorso di Elena coincide grosso modo con quello del testo padano, col dettaglio che la raccomandazione «non mi dar la morte» appare ingiustificata nel contesto. Nella seconda parte, all’inizio dell’ottava 49, il discorso ricomincia da capo, con un’altra formula di tipo introduttivo: «Mesere, che Dio vi dia vita e onore, / tenetemi ragion, santa corona». Ai due versi «Hor fati vignire, misiere, lo traditore / che à ditto tanto male de mia persona» ne corrispondono tre nel testo toscano a prezzo, come si vede, di un riempitivo: «segondo che si dice e si ragiona»; e, soprattutto, al posto di «faròlo dexdire» si trova «io lo faraggio morir ricredente», con una frase che è del tutto ingiustificata se non si dà già per scontato che Elena è venuta a corte per fare un duello giudiziario con l’accusatore e si dimentica che, nel contesto di un processo, il duello poteva essere autorizzato dal giudice soltanto come ultimo mezzo per scoprire la verità. Al verso «E lo re fe’ vignire Guarniero in quel’ora» corrisponde un’intera ottava, che non porta nessuna informazione nuova: nella prima quartina si ha un’amplificazione che semplicemente rende esplicito ciò che nel testo padano resta implicito: «E per meser Guarnieri e’ fu mandato / ch’eli venisse a far sua difensione 7 È vero che anche prima Elena ha minacciato Guarnieri di morte ma le sue minacce potevano benissimo intendersi nel quadro di un duello in cui si sarebbe fatta rappresentare da un campione.

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/ ché Elena bella sì à rapelato / e prova e dice ch’ella à la ragione»; e nella seconda quartina presenta un intervento d’autore, anticipatorio e moralizzante, perché certo questi propositi non possono essere attribuiti ai messaggeri che vanno a parlare con Guarnieri. Nell’ottava seguente compaiono dei «savi» che finora erano rimasti completamente nell’ombra; gli ultimi due versi «E per meser Rugeri e’ fu mandato / e comandò che non fosse dicapato» non conseguono logicamente allo svolgimento del processo: perché fin qui non c’è stata che una ripetizione dell’accusa e dell’esibizione delle prove che avevano per l’appunto determinato la condanna del marito. Ma l’osservazione, che corrisponde al verso introduttivo dell’ottava 48 («Meser Rugeri quando gìa a la morte») serve certo a conferire drammaticità al racconto, ricordando a chi riceve il testo che qualcosa di irreparabile stava per avvenire mentre Elena difendeva la sua causa davanti al re, e quindi acuendo l’attenzione per il racconto. Nella replica di Elena, il testo padano (ottava 41) fa riferimento alla domanda dell’autorità («e domandò s’elo vide mai questa dona»; nel testo toscano sono i savi che fanno la domanda) e fa rispondere a Elena che lei non aveva mai visto quell’uomo prima di allora. Il testo toscano invece fa esplodere immediatamente Elena nell’invettiva aggressiva che il testo padano colloca, secondo me più opportunamente, soltanto dopo la replica beffarda di Guarniero. Si osservi nel testo padano la progressione fra «Tu non diçe vero» (ottava 41) e «tu menti per la gola», rafforzato dalla formula di giuramento «Se Christo mi vaglia» (ottava 43). Nel testo toscano Elena sa già di essere venuta a far battaglia con Guarnieri, e non fa che ripeterlo a ogni battuta. L’affermazione di Elena di non aver mai visto il cattivo viene spostata alla replica dopo la falsa rievocazione dell’intimità amorosa, con una certa logica; ma la progressione, la calcolata costruzione nello svolgimento del processo che si trovano nel testo padano sono ancora una volta sovvertite dal recitatore toscano a vantaggio di una più spettacolare contrapposizione degli antagonisti, una maggiore violenza nelle loro battute, una maggiore esplicitazione dei significati del racconto. Si veda in particolare l’ultima ottava del passo riportato: mentre nel testo padano Elena propone ancora a Guarnieri un’ultima possibile modalità di composizione della contesa, nel testo toscano la virago – tutta d’un pezzo dl principio alla fine – si sente investita della funzione giustiziera di Dio che non può mancare di punire un tradimento e anzi, se Elena permettesse al cattivo di sfuggire al suo destino, questo sarebbe un peccato nei confronti di Dio e della gente (58.5). Nella maggiore aggressività di Elena è da vedere in realtà un maggiore senso di comunione fra recitatore e pubblico, congiunti nell’indignazione per l’inganno e nella volontà di vedere il tradimento punito. Il testo toscano presenta cioè più evidenti i caratteri tipici della recitazione orale, così come sono stati messi in rilievo dagli studi semiotici sulle situazioni comunicative e soprattutto folkloriche. Afferma, per esempio, Giovanna Cerina, a proposito della fiaba:

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L’accordo e la consonanza di intenzioni tra chi parla e il gruppo umano che ascolta sono condizioni necessarie per garantire, in un rapporto faccia a faccia, in un confronto diretto, un’attività comunicativa che comporta, da una parte la composizione-esecuzione «collettiva» del testo (alla cui costruzione presiede un sistema di regole codificate, memorizzate attraverso il processo di circolazione, orale e scritta, di testi già eseguiti e tramandati), e dall’altra un’esperienza di fruizione dove emergono e vengono soddisfatte attese che mutano col mutare della situazione narrativa8.

E anche l’analisi puntuale di Maria Cristina Cabani sulle modalità retoriche con le quali nei cantari si raggiunge «l’accordo e la consonanza di intenzioni tra chi parla e il gruppo umano che ascolta», condotta soprattutto su cantari quattrocenteschi, ha messo giustamente in rilievo che epiteti, interventi d’autore, iperboli, reticenze, pubblico interno istituiscono un discorso «che ha la funzione specifica di stimolare una continua partecipazione emotiva intorno alla vicenda narrata». Questo tipo di discorso «sostituisce alla rappresentazione oggettiva la valutazione, filtrando ogni dato attraverso l’emotività del narratore che tende a coincidere con quella dell’uditorio» e produce un «tipo di narrazione sempre e comunque emotivamente connotata»9. Ritengo quindi che la diversità delle due versioni dipenda essenzialmente dalla pratica di recitazione che ha alla lunga introdotto nella forma originaria varianti congruenti con la situazione comunicativa tipica della performance canterina. Il che implica, per converso, che la narrazione più «oggettiva», che adotta un atteggiamento più neutrale, più disteso, rispetto alla materia narrativa (anche se ovviamente la narrazione punta comunque allo stesso risultato di contrapporre chiaramente «buoni» e «cattivi») si ponga verosimilmente come punto di partenza dell’elaborazione canterina, perché riesce difficile immaginare il percorso contrario, da una racconto tutto esplicitato, gravitante intorno ad alcune «scene-madri» di carattere teatrale, in cui risalta soprattutto la contrapposizione fra due avversari dalle qualifiche già presupposte, a una stesura elegantemente sintetica in cui si offre alla ricezione la chiave per comprendere la forza delle passioni che agitano il racconto ma senza insistervi e senza dichiararle apertamente. Questo suscita immediatamente la domanda: ma la forma supposément originaria non era anche quella in ottave? dunque non era anche quella nata per la recitazione orale? La domanda si inserisce in una teoria dell’evoluzione del genere che finora mi sembra muoversi nella scia di una tradizione critica che concepiva la trasmissione delle opere epiche e romanzesche francesi attraverso il mezzo essenzialmente orale della recitazione giullaresca affidata alla memoria e che, corrispondentemente, concepisce la genesi dell’ottava nell’ambito di una produzione orale. A proposito della dinamica oralità/scrittura si punta 8 9

G. Cerina 1982, p. 115. M.C. Cabani 1988, pp. 75, 77.

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l’attenzione soprattutto sulla graduale «letterarizzazione» che ha luogo nel Quattrocento, allontanando il genere dall’ambito della recitazione orale e inserendolo sempre più decisamente in quello del poema scritto, come ha osservato giustamente Dionisotti. Una delle poche persone che si sono occupate estesamente di cantari, M. Cristina Cabani, afferma infatti: In questo ambito esiste certamente un’evoluzione che in linea di massima […] conduce ad un uso più sicuro della sintassi che, dalla frammentazione paratattica delle prime esperienze (che produce di regola formule di emistichio), si avvia a costruzioni di più ampio respiro […]. Questo percorso, che ha inizio con la prima ottava narrativa (sia essa boccacciana o canterina), ha termine nella sapiente orchestrazione di ritmo e sintassi che caratterizza l’ottava ariostesca10.

Ma anche la Cabani ammette che «il fenomeno andrebbe valutato caso per caso». Ora sarebbe bene ricordare che il Fiorio e Biancifiore, il primo cantare ufficialmente riconosciuto della nostra tradizione, non offre quelle caratteristiche che sono state additate a proposito dei cantari come corrispondenti alla pratica della recitazione: per esempio, non è suddiviso in canti ma è un solo lungo poemetto di 135 ottave (dunque neanche si presta alla canonica suddivisione in tranches di circa 60 ottave che costituirebbero la lunghezza canonica di una seduta di recitazione), e non ha un’ottava introduttiva di invocazione alla pietà celeste; che il Boccaccio non ha disdegnato di adottare l’ottava per i suoi poemi, intenzionalmente scritti, e scritti d’arte; e che l’Istoria di Re Alessandro, l’altro importante poema in ottave che si colloca in una fase cronologicamente alta della tradizione (1355) è un altro esempio di composizione originariamente scritta (il manoscritto che ci è stato conservato sembra sia l’autografo di Domenico Scolari). E ci sarebbe modo di rimettere in discussione l’affermazione ormai classica di Limentani alla quale allude la Cabani quando parla di frammentazione paratattica, che riconosce nel distico la struttura sintattico-ritmica costitutiva del discorso canterino, perché nei cantari più antichi numerose sarebbero le eccezioni. Voglio insomma arrivare a richiamare l’attenzione sulla possibilità di un processo evolutivo del genere cantare più variegato di quanto non si creda comunemente e che ipotizzerebbe nei cantari più antichi delle traduzioni scritte dei corrispondenti poemetti francesi: si dovrebbe distinguere fra una forma originaria dei cantari, che potrebbero essere nati scritti, anche se destinati alla recitazione, e le forme che le stesse storie assumono in seguito a una pratica di recitazione professionale, che vi accentua, com’è naturale, i caratteri semiotici e formali tipici della comunicazione orale e trasforma il discorso in questa direzione.

10

M. C. Cabani 1988, nota 29, p. 22.

La situazione iniziale nel Cantare di Madonna Elena*

1. La gara di vanti Nella versione presumibimente più antica del cantare il racconto si apre, nella gaia stagione di maggio, a una festa di corte in presenza di un re di Francia (Carlo o Luigi, a seconda delle redazioni), dove i nobili del regno si ingaggiano in una gara di vanti1. Quando messer Ruggero vanta la bellezza della propria moglie, un avversario lo rintuzza affermando di poter avere la donna ai suoi voleri. Messer Ruggero risponde esaltando la castità della moglie e sfidando l’avversario a duello, ma questi declina, affermando che proverà la verità delle sue parole adducendo le prove della sua seduzione; la posta in gioco della scommessa rimane la testa di chi risulterà sconfitto: Disse Guarniero: «Sempre i’ò abuto diletto con quela che li altre pasa e avança, çoè com Lena bela dalo chiaro vixo». Misiere Ruçiero l’alde e non l’à dal rixo. Dise misiere Ruçiero: «O falso traditore, perché m’ài tu dito tanta vilania? che tu ne romagnirai com desonore: più liale dona non se trovaria. Denançi a ’Luise nostro inperadore adeço io ne meto la testa mia:

* Presentato dapprima come comunicazione al convegno annuale della Canadian Society for Italian Studies a Charlottesville, P.E.I. (maggio 1992), il saggio è già stato pubblicato in «Medioevo romanzo», XVIII (1993), pp. 91-103 e in M. Bendinelli Predelli, Cantari e dintorni, pp. 81-94. Il secondo capitolo, «L’offesa della coppa» è interamente rielaborato. 1 Cfr. in questo stesso volume il saggio «Le due versioni del Cantare di Madonna Elena».

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storie e cantari medievali dela battalia io te apelo al canpo, perda la testa chi no prova el vanto»2.

Ora, la posta della testa appare come un tratto narrativo piuttosto singolare: contrario a tutte le regole del buonsenso, mette decisamente in gioco la verosimiglianza del racconto, e appare anche poco consono ai motivi e ai valori consacrati della tradizione cavalleresca. Certo, nei romanzi d’avventura i cavalieri si affrontano allegramente a lancia e spada per difendere la prima damigella indifesa che incontrino, ma in questi casi gli uomini rischiano la vita per la fiducia che hanno in se stessi, nel proprio valore guerriero; il fatto di scommettere la testa sulla castità di una donna, senza il sostegno di un affrontamento con le armi in pugno, appare decisamente insolito. La versione del cantare risulta poi isolata nel contesto dei romans d’aventure in versi antico-francesi che, fra tutte le versioni del ciclo della scommessa, appaiono le più vicine all’ambientazione del cantare3. Tuttavia, una versione della storia con la testa come posta della scommessa doveva esistere molto prima della data attribuibile ai manoscritti, quattrocenteschi, che ci hanno tramandato il cantare. La novella II.9 del Decameron è una seconda importante testimonianza italiana del ciclo. Qui Boccaccio enuncia esplicitamente la possibilità che posta della scommessa sia la testa del marito, sia pure per sostituirvi poi una versione borghese – e, sia detto per inciso, la transizione dall’una all’altra versione è motivo non ultimo della densità del testo boccacciano. La posta della testa pare, insomma, avere una consistenza maggiore di quella di un semplice artificio da narratore dozzinale, trovato in maniera estemporanea per tener sveglia l’attenzione degli ascoltatori con la drammaticità della situazione. Il che stimola la curiosità di una critica che si interessi alla storia interna di un testo, agli ingredienti che entrano a far parte di una narrazione, ai processi mentali che conducono alla costruzione di un episodio. Per capire questo tratto nella situazione iniziale del Madonna Elena bisogna tener presente tutto quanto il ciclo della scommessa, e in particolare l’orizzonte della letteratura romanzesca francese, che costituisce il retroterra immediato dei cantari italiani. Si dà il caso, poi, che questa tradizione romanze2 La citazione è tratta dal ms. di Perugia, Bibl. Augusta, C43 (vecchia segnatura 160). Le due versioni del cantare furono pubblicate contemporaneamente da M. Bendinelli Predelli in «Yearbook of Italian Studies» (1993) e da G. Fontana, Cantare di Madonna Elena, Firenze, 1992. 3 Il motivo della testa messa in gioco per scommessa ricorre nel cantare della Ponzela Gaia, dove Galvano e Troiano impegnano la testa in una gara su chi riporterà alla corte di Artù la più bella preda di caccia (cfr. Ponzela Gaia. Galvano e la donna serpente, 2000). Nella Ponzela Gaia cioè la disparità fra il valore della posta in gioco e la futilità della partita è ancora più grande e rende il motivo ancora più assurdo, rivelandone il carattere derivativo, forse proprio da una versione della storia di Madonna Elena. Un motivo affine si potrebbe forse indicare nel motivo del beheading game che forma il nucleo del romance inglese Gawain and the Green Knight. Ma lo spirito che informa il motivo narrativo del beheading game appare notevolmente diverso da quello operante nel ciclo della scommessa (cfr. G.L. Kittredge 1916, ristampa 1960; il testo del Sir Gawain and the Green Knights è disponbile online sul sito http://www.hti.umich.edu/c/cme/ [consultato il 24 ottobre 2017]).

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sca ci rimandi a sua volta al patrimonio narrativo celtico, che ha fornito un buon numero di motivi e di trame narrative alla letteratura francese. Due racconti fra quelli che appartengono al ciclo della scommessa mi appaiono illuminanti, uno celtico e l’altro greco. Il primo è una leggenda collegata alla vita del celebre bardo gallese Taliesin, conservataci da un erudito gallese che scriveva verso la metà del XVI secolo (Elis Gruffydd), ma probabilmente già nota prima del 12204. Ecco la parte rilevante del racconto, nella traduzione inglese di Patrick Ford: […] at the feast of Christmas, the king [Maelgwn] was holding open court at Deganwy Castle, and all his lords – both spiritual and temporal – were there, with a multitude of knights and squires. Their conversation grew, as they queried one another, saying: «Is there in the entire world a man as powerful as Maelgwn? Or one to whom the Heavenly Father has given as many spiritual gifts as God has given him: beauty, shape, nobility, and strength, besides all the powers of the soul?» And with these gifts, they proclaimed that the Father had given him an excellent gift, one that surpassed all the others, namely, the beauty, appearance, demeanor, wisdom and faithfulness of his queen. In these virtues, she excelled all the ladies and daughters of the nobility in the entire land. Beside that, they asked themselves whose men are more valiant? Whose horses and hounds are swifter and fairer? Whose bards more proficient and wiser than Maelgwn’s?» […] And so after everybody had spoken in praise of the king and his blessings, Elphin happened to say this: «Indeed, no one can compete with a king except another king; but, truly, were he not a king, I would surely say that I had a wife as chaste as any lady in the kingdom. Furthermore, I have a bard who is more proficient than all the king’s bards»5.

Quando le imprudenti parole di Elphin gli vengono riferite, il re imprigiona Elphin e manda il figlio Rhun a tentare la virtù della donna. La versione greca è un canto popolare diffuso in Grecia e raccolto nei primi anni dell’Ottocento. Cito dal riassunto di Gaston Paris: A la cour du roi, Mavrijanos vante sa soeur, que nul, à ce qu’il assure, ne peut séduire. Lo roi prétend y arriver: il gage son royaume contre la tête de Mavrijanos, qu’il met en prison pour la durée de l’épreuve […]6.

Nella storia di Taliesin, come si vede, non si tratta tanto di una scommessa quanto del gesto temerario di un vassallo che incorre nella collera del re perché osa contrapporre a quello del re un suo bene (nel caso specifico, la moglie). La disparità nella condizione dei due contendenti giustifica la durezza del trattamento del vassallo che si è reso colpevole di lesa maestà. Il motivo, nei termini appena enunciati, apparteneva alla tradizione celtica, poiché si ritrova in una 4 Un’ode a «Llywelyn ap Iorwerth, composed probably not later than 1220» faceva già allusione alla liberazione di Elfin per opera di Taliesin. Cfr. The Mabinogion, a cura di Lady C. Guest 1849, vol. III, pp. 394-95. 5 The Mabinogi and Other Medieval Welsh Tales, a cura di P.K. Ford, 1977, pp. 164-69. 6 G. Paris 1903, p. 483.

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leggenda irlandese del XII secolo, il Noínden Ulad: in questa storia è questione di un ricco contadino che aveva per moglie una donna soprannaturale. Ma un giorno nell’Ulaid si tenne una fiera, e tutti vi andarono, uomini e donne, ragazzi e ragazze. Crunniuc vi si recò insieme agli altri, nei suoi abiti migliori e con viso raggiante. «Bada a non dire sciocchezze» gli disse la donna. «Non succederà facilmente» egli rispose. La fiera fu tenuta e, al termine del giorno, scesero sul campo il carro e i cavalli del re, che riportarono la vittoria. La folla disse che nessuno poteva vincere quei cavalli. «Mia moglie è altrettanto veloce» disse Crunniuc. Subito fu condotto dal re, e si mandò a chiamare la moglie. «Mi sarebbe gravoso andare a liberare mio marito ora» ella disse al messaggero «ché ho in grembo un figlio». «Per quanto ti possa essere gravoso» disse il messaggero «dovrai venire, altrimenti egli morirà»7.

La donna gareggia con i cavalli del re e, naturalmente, vince. Si noti la somiglianza, nelle due storie celtiche, della scena in cui i cortigiani si profondono in lodi per i beni del re (i cavalli compaiono in tutt’e due i racconti); il fatto che il protagonista osi soltanto affermare che anche lui ha qualcosa di altrettanto valore è sufficiente a metterlo in pericolo di vita: nella storia gallese si dice soltanto che Elphin viene messo in prigione, ma in quella irlandese è esplicitamente minacciato di morte se la sua imprudente affermazione non verrà provata. Nella versione greca, il re è pronto a impegnare il suo regno, ma per il vassallo torna a essere in gioco la testa. Il motivo celtico della lode al re e a tutto ciò che gli appartiene, a cui un vassallo osa contrapporre un suo bene (particolarmente una donna), ed è per questo costretto a provare la verità della sua affermazione, entra dalla letteratura celtica nella letteratura antico-francese. C’è nel Lai de Graëlent una stranissima scena che ha lasciato perplessi tutti i critici, tanto il costume che vi è descritto appare lontano da quello che si sa della cultura feudale e dalla comune sensibilità cristiano-europea: A pentecoste cascun an semounoit ses barons par ban. Tot cex qui de lui rien tenoient e a sa cort o lui mangeoient, servoient le par grant amor. Quant mengié avoient le jor, la roïne faisoit monter sor un haut banc e deffubler. Puis demandoit a tos ensanble: 7 La traduzione italiana (tratta da La saga irlandese di Cu Chulainn, a cura di G. Agrati e M. L. Magini 1982, pp. 132-133) riproduce la versione più stringata del Libro di Leinster. Una versione più diffusa si trova nella traduzione inglese di T. P. Cross e C. H. Slover, Ancient Irish Tales, Henry Holt and Co., 1936. Nella riedizione, 1969, The Debility of the Ulstermen [Noínden Ulad] è alle pp. 208-20.

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«Segnor baron, que vos en sanble? A sousiel plus bele roïne, pucele, dame ne mescine?» A tox le convenoit loer, e au roi dire e afremer k’il ne sevent nule si bele, mescine, dame, ne pucele.

Anche quella volta, naturalmente, N’i ot un seul ne le prisast e sa biaté ne li loast, fors Graelent qui s’en taisoit: a soi meïsme s’en rioit, en son cuer pensoit a s’amie. (vv. 411-431)8

Graelent non si era unito al coro di lodi perché pensava che la sua amica era molto più bella della regina. Anche qui si ha l’imprudente rivelazione e l’imprigionamento fintantoché non abbia mostrato la sua donna e la sua bellezza sia messa a confronto con quella della regina. Non c’è dubbio, secondo me, che in questa curiosa cerimonia di esibire la moglie e pretendere che tutti la lodino è da vedere un maldestro adattamento del motivo di origine celtica al nuovo contesto francese-feudale per il quale l’autore dell’anonimo autore del Graëlent raccontava la sua storia. Nella storia di Taliesin, o anche nel Noínden Ulad, la lode corale dei beni del re avviene con grande naturalezza, qui invece il re forza le adulazioni dei cortigiani, la scena è goffa, e non per niente ha attirato la curiosità dei critici, ma gli ingredienti e il senso del motivo sono gli stessi9. Per dimostrare la solidità che questo aveva acquistato nella tradizione francese, menzionerò un’altra occorrenza del motivo, la scena iniziale del Voyage de Charlemagne à Jérusalem et à Constantinople, che è una delle più antiche chansons de geste: Un jur fu li reis Karles al Seint-Denis muster: reout prise sa corune, en croiz seignat sun chef, e ad ceinte s’espee dunt li ponz fud d’or mer. Dux i out et demeines e baruns chevalers. Li empereres reguardet la reïne sa muiller: ele fut corunee al plus bel e al meuz. Il la prist par le poin desuz un oliver, de sa pleine parole la prist a reisuner: «Dame, veïstes unkes hume nul desuz ceil P.M. O’Hara Tobin 1976. Mentre nelle storie celtiche l’affermazione del suddito si configura immediatamente come delitto di lesa maestà, e la punizione dell’imprudente appare uno sviluppo naturale della vicenda, nei lais (Graëlent, ma anche Lanval) è necessario l’intervento della regina – che aveva i suoi motivi di malevolenza nei confronti del cavaliere – perché il re intenti un’azione contro il vassallo. 8

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storie e cantari medievali tant ben seïst espee, ne la corone el chef? Uncor cunquerrei jo citez ot mun espet!» Cele ne fud pas sage, folement respondeit: «Emperere – dist ele – trop vus poëz preiser! Uncore en sai jo un ki plus se fait leger quant il porte corune entre ses chevalers; kaunt la met sur sa teste, plus belement lui set!» Quant l’entent li reis Charles mult en est curecez; pur Franceis ki l’oïrent mult en est enbrunchez. «E, dame, u est cil resi? E car le m’enseinez! […] Se vus m’avez mentid, vus le cumperez cher: trencherai vus la teste od m’espee d’acer». (vv. 1-25)10

Dunque anche qui circostanza di particolare solennità, e offesa di lesa maestà nella contrapposizione al compiaciuto sentimento di superiorità del re di una realtà paragonabile alla sua. L’ira del re sbocca nella minaccia della pena di morte (taglio della testa) se l’imprudente affermazione non viene confermata. Anche nel Voyage de Charlemagne l’episodio serve da situazione iniziale che fornisce la molla per il debutto dell’azione nel racconto. È, secondo me, sullo sfondo di questa letteratura e di questi motivi che va interpretata anche la scena iniziale del roman d’aventure francese intitolato il Comte de Poitiers, che appartiene ugualmente al ciclo della scommessa ed è la storia più vicina, come genere, come ambientazione e come svolgimento, al Cantare di Madonna Elena. Il racconto debutta con una corte bandita da re Pipino durante la quale il conte prende a un certo punto la parola: Un jor tint sa cort a Paris […] Tot i vinrent, ço est la some. Li mangier furent cointe et rice. Pepins s’asist et tot li prince; Onques rois ne fu si servis. Adont parla li plus hardis D’aus tous, et li plus envoisiés, Çou fu li biaus quens de Poitiers. Li bers avoit a non Gerars. Si drap valoient cinc cens mars: Rois, tu vaus miex c’Arcedeclins, Car tous cis mons vous est aclins. Plus avés fait k’ainc ne fist nus, Mais jo gis quant je vuel tous nus Avec la plus bele del mont. 10 Il viaggio di Carlomagno in Oriente, a cura di M. Bonafin, 1987. Altre edizioni: Il «Voyage de Charlemagne», a cura di G. Favati, 1965, Le Voyage de Charlemagne à Jérusalem et à Constantinople, a cura di P. Aebischer, 1965, The Journey of Charlemagne to Jerusalem and Constantinople (Le Voyage de Charlemagna à Jérusalem et à Constantinople), a cura di J-L. G. Picherit, 1984.

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[…] Qui tot le monde cerqueroit, Paienie et crestïenté, Ne troveroit on sa biauté, Qu’il n’est rose, tant soit novele, Que sa biautés ne soit plus bele. Ele est ma feme et jou ses sire. […] Por mil fies d’or fin son pois Ne lairoit ele autrui joïr Des menbres don’t j’ai mon plaisir. ]…] Rois Pepins, miex valt sa biautés Que ne face vos roiautés. Par tant sui plus rices de vous, Et si n’en sui mie jalous. (vv. 26-68)11

Anche in questa storia, come nel Madonna Elena e nella maggior parte dei racconti del ciclo, la scommessa avviene fra due uomini di pari dignità sociale, in questo caso due vassalli, il conte di Poitiers e il duca di Normandia, ma è notevole che all’inizio il conte si rivolga direttamente al re, dicendogli esplicitamente: «miex valt sa biautés / Que ne face vos roiautés. / Par tant sui plus rices di vous»; è un po’ come se l’avversario si incaricasse di smentire le affermazioni del marito per rintuzzare la sua temerità nel vantarsi di fronte al re, come nella storia di Taliesin il marito si era reso colpevole di lesa maestà, ma il compito di tentare la virtù della donna era stato affidato a Rhun, il figlio del re, e non al re stesso12. È in questo contesto che si capisce l’enormità della posta in gioco – la testa – nella scommessa del Cantare: è la reminiscenza di una versione in cui il vanto della donna costituiva un delitto di lesa maestà che spiega come mai il marito possa deliberatamente, e inopinatamente, scommettere la propria testa sulla castità della moglie. Una conferma del peso e dell’antichità di una configurazione della situazione iniziale in cui la sconfitta del marito avrebbe comportato una pena di morte ci sembra offerta dalla più antica versione documentata del ciclo della scommessa, il romanzo in versi Guillaume de Dole, dove è questione di un cavaliere tanto valente e cortese da indurre l’imperatore a volerne sposare la sorella. Quando la virtù di quest’ultima è falsamente infamata, un nipote di Guillaume si incarica di andare a punire la donna, e così facendo le porta notizia di ciò che è accaduto a corte: «ge lessai mon oncle en ce / Ou il est morz ou il se muert» (vv. 3946-47); e la sorella, nel comunicaLe roman du Comte de Poitiers a cura di B. Malmberg 1940. Nel suo volume sulla tradizione del Voyage de Charlemagne Massimo Bonafin rintraccia le origini dell’episodio centrale del poema – i vanti dei paladini – in antichi costumi scandinavi, illustrati in particolare nella Saga dei Vichinghi di Jómsborg. Cfr. M. Bonafin 1990, pp. 81-91. 11

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re alla madre la sua intenzione di rendersi a corte riprende: «Onques si prodom com il ere / Ne mourut por si fet domage» (vv. 4036-39)13. Ma in realtà, secondo il racconto, Guillaume non è mai stato in pericolo di morte, era soltanto caduto in una profonda prostrazione, dalla quale l’imperatore stesso aveva cercato di sollevarlo. Le affermazioni del nipote appaiono come un’incongruenza, la spia dell’intrusione di un elemento proveniente da un altro racconto nel quale, evidentemente, il cavaliere temerario doveva essere giustiziato14. Ma nel Madonna Elena il vanto viene presentato, diversamente che nel Comte de Poitiers, nel contesto di un’istituzionalizzata ‘gara di vanti’. Una specie di gioco di società, in cui ciascuno vanta la cosa più bella che ha e poi ha l’obbligo di mostrarla se gli viene richiesto. In una versione relativamente moderna del motivo, che si trova in un racconto popolare derivato dal cantare di Liombruno, è proprio così che la gara di vanti viene descritta: Ti menerà anco nel Casino dei Nobili, che lì fanno anche i giochi di tutti i modi. C’è una stanza, caro Leombruno, che diranno diversi signori: «Signore, che ha di rarità, Lei? – Oh! io ho un bellissimo quartiere! – Oh! io ho una bellissima villa. E la voglion vedere». […]«Io ho una bellissima di quella cosa». – Io ho una bellissima di quell’altra». Il caro Leombruno stava in un angolo, zitto; e non diceva niente. Va diversi signori da lui: «Lei, signore, non ha niente? non dice niente? Non ha voce in capitolo? non ha niente da dirci?» – Rammentandosi sempre della sua legittima sposa, gli vien detto: «Signori, ho una bellissima sposa». – Avete una bellissima sposa? Tempo tre giorni, che la sposa sia portata a il casino. Si vuol vedere»15.

Un gioco di società, dunque tipico della casta nobiliare. Come si è passati dalla temeraria contrapposizione di un proprio bene a quello di un re al gioco di società in cui «çiascuno convignia che si vantasse / E poi l’avanto16 fa mistiero che se proasse»? Osserveremo prima di tutto che la gara di vanti costituisce di per sé un altro motivo delle narrazioni romanzesche antico-francesi. Già il Rajna aveva affermato che si trattava di un vero e proprio costume storico dei popoli germanici e nordeuropei; al livello letterario se ne trovano riflessi, per esempio, nella saga scandinava Jómsvíkinga e in alcune byline russe. Ma era certamente penetrato anche nella letteratura francese17. La seconda parte del Voyage de Charlemagneà Jérusalem et à Constantinople già citato è interamente Le Roman de la rose ou de Guillaume de Dole, a cura di G. Servois, 1893 (ristampa 1965). Il carattere derivativo dell’episodio è rafforzato dalla figura stessa del nipote, di cui non si era mai fatta parola prima, e che compare invece improvvisamente per la necessità di informare la donna dell’accaduto. 15 V. Imbriani, La novellaja fiorentina 1976, pp. 444-447. L’episodio viene dapprima preannunciato dalla sposa a Liombruno, poi raccontato quando effettivamente si verifica. 16 Ms: avanço. 17 Cfr. A. Tobler, Plus a paroles an plain pot de vin, 1880; P. Rajna 1884, pp. 404-405; K. Nyrop, Storia dell’epopea francese, 1889, pp. 119-120; e, più recentemente, M. Bonafin, La tradizione del «Voyage de Charlemagne», 1990, pp. 81-91. 13

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costruita intorno a una gara di vanti, dopo che l’imprudente affermazione della regina, di cui abbiamo parlato poc’anzi, provoca una spedizione di Carlomagno e dei suoi paladini in Oriente, alla corte dell’imperatore di Costantinopoli: qui i Francesi, riscaldati dal vino, cominciano a vantarsi (gabber) di poter fare cose straordinarie. Quasi ritualmente, la chanson passa in rassegna i vanti dell’imperatore e dei dodici paladini, uno dopo l’altro, con l’invito dell’uno all’altro a fare il proprio vanto come formula di passaggio da una lassa all’altra: Carlomagno si vanta di poter sconfiggere qualunque campione l’imperatore di Costantinopoli voglia opporgli; Roland di suonare l’olifante con tanta potenza da scuotere le porte di tutta la città, fossero pure di metallo; l’arcivescovo Turpino di riuscire a saltare su un cavallo lanciato a corsa sfrenata e volteggiare contemporaneamente quattro palle senza mai farne cadere una, e così via. Ma l’imperatore d’Oriente, che aveva mandato una spia ad ascoltarli, si sente oltraggiato dai propositi degli ospiti e, nonostante che Carlo gli spieghi la natura ludica dei vanti («Sire, dist Carlemaines, ersair nus hebergastes; / Del vin et del claret asez nus en donastes; / Si est tel costume en France, a Paris et a Cartres, / Quant Franceis sunt culchiez, que se giuent et gabent, / Et si dient ambure et saver et folage», vv. 652-56), si ripete la situazione del sovrano che impegna un personaggio in posizione di inferiorità a provare il suo vanto, pena la vita: «Par ma fei, – dist li reis – Carles ad feit folie quant il gaba de moi par si grant legerie: […] Si ne sunt aampli li gab cum il le distrent, trancherai lur les testes od ma spee furbie». (vv. 629-632)

Particolarmente interessante il vanto di Olivier, per la scommessa della testa in relazione a un’impresa amorosa: «Prenget li reis sa fille, qui tant ad blod le peil, en sa cambre nus metet en un lit en requeit: si jo ne l’ai anut, tesmonie de lui, cent feiz, demain perde la teste, par covent le otrai». (vv. 486-489)18

Ancora più vicino alla versione del Madonna Elena è l’episodio tramandato dal Novellino (1280-1300) e risalente a un perduto testo francese, in cui un certo cavaliere amava una molto bella donna di Proenza […] e amavala sì celatamente, che neuno lile potea fare palesare. Avenne che ’donzelli del Po si puosero insieme d’ingannarlo e di farlone vantare. Dissero così con certi baroni e cavalieri: «Al primo torneare che si farae, vi 18

Il viaggio di Carlomagno in Oriente, a cura di M. Bonafin, 1987.

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preghiamo che voi stabiliate che la gente si vanti». E pensaro così: «Messer cotale si è prodissimo d’arme; farae bene quel giorno del torneamento e scalderassi d’allegrezza. I cavalieri si vanteranno, et elli non si potrae tenere che non si vanti di sua dama». Così ordinato, così fatto: il torneamento fue fatto; fedìo il cavaliere; ebbe il pregio dell’arme; scaldossi d’allegrezza. Nel riposare, la sera, e ’cavalieri si cominciaro a vantare, in sull’allegrezza loro, chi di bella giostra, chi di bello castello, chi di bello astore, chi di ricca ventura; e ’l cavaliere non si poteo tenere che non si vantasse ch’amava sì bella donna. Ora avenne ch’e’ ritornò per prendere gioia di lei, sì come solea. La donna li donoe commiato19.

Si sarà osservata la straordinaria concordanza di questa versione con quella del Madonna Elena nell’enumerazione dei vanti; e la diffusione e il consolidamento del motivo sono provati dalla ricorrenza nel Cantare di Liombruno, di cui abbiamo citato poc’anzi una derivazione popolare, nonché in episodi più o meno storici come quello tramandato dalle Mémoires d’Olivier de la Marche, maître d’hôtel et capitaine des gardes de Charles le Téméraire20, quando i nobili radunati alla corte del duca di Borgogna Filippo il Buono, nel 1454, fecero voto, uno dietro l’altro, di adottare comportamenti straordinari nell’imminente crociata contro i Turchi, premettendo però opportunamente condizioni che permisero a tutti di non mantenere le promesse senza perdere il loro onore. È chiaro che fra i due tipi di situazione iniziale – contrapposizione di un proprio bene a quello del re / gara di vanti in cui il protagonista loda la bellezza della propria donna – vi è più di un punto di contatto: l’ambientazione cortese, la natura stessa dell’affermazione del malcapitato marito che si configura come un vanto, e la formulazione tradizionale dello scongiuro «se non riesco a fare questa cosa, ch’io perda la testa!». È quindi comprensibile come da un’antica versione della storia, in cui il vanto della propria donna appariva in diretto contrasto con la lode di una regina, e l’imprudente affermazione comportava la drastica condanna del vassallo, si sia arrivati alla sostituzione del primitivo motivo con un altro motivo, quello della gara di vanti, e che della prima versione rimanga come sola spia l’enormità della posta in gioco nella scommessa. La versione che chiameremo «della lesa maestà» e quella che chiameremo «della gara di vanti» costituiscono evidentemente rappresentazioni di rapporti di potere e di strutture sociali diversi: «rapporti di potere primitivi» e non di rado brutali fra un sovrano e i propri sudditi, nel primo caso, società in cui apparivano prominenti i membri della classe aristocratica, rappresentati nell’orgoglio dei propri previlegi e nelle rivalità che li opponevano gli uni agli altri, nel secondo. È comprensibile che un giullare abbia trasformato una vecchia storia immettendovi dati socio-culturali più consoni alla società nella quale si trovava a operare e al pubblico al quale si rivolgeva. È importante 19 20

Novella LXIV, Il Novellino, a cura di G. Favati, 1970, pp. 271-272. Edizione a cura di H. Beaune e J. D’Arbaumont, 1883-1888.

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notare però che in entrambi i casi è fondamentale la mediazione della tradizione narrativa. La trasformazione del racconto cioè non avviene tramite un riferimento diretto ai dati socio-culturali del nuovo contesto, ma trascegliendo dal patrimonio di motivi offerti dalla letteratura precedente quelli che al rifacitore appaiono più appropriati alla nuova realizzazione narrativa. La primitiva versione, che configurava l’affermazione del marito come un delitto di lesa maestà, non era più veramente comprensibile nella cultura feudale francese sul finire del XII secolo: tant’è vero che perfino quando il motivo è trasportato di peso dalla tradizione celtica nella narrazione francese del Lai de Graëlent, Graelent viene imprigionato soltanto perché la regina ha suoi particolari motivi di ostilità nei confronti del cavaliere e interviene presso il re suo marito perché le faccia giustizia. Ecco allora che la nozione di vanto, implicita ma non messa in rilievo nella più antica situazione iniziale, fa scattare nella mente di un rifacitore l’associazione con un altro motivo, quello della gara di vanti, e dalla confluenza di queste due tradizioni scaturisce la versione della situazione iniziale del Madonna Elena. 2. L’offesa della coppa La disputa fra Ruggero e il suo avversario, tuttavia, non prende l’avvio esattamente dalla gara di vanti, come nelle versioni che abbiamo appena indicato come antecedenti della storia di Madonna Elena. Il cantare vi aggiunge infatti un motivo che è un unicum nella tradizione del ciclo della scommessa: finita la fase dei vanti, il re ordina che venga da bere, si serve per primo, poi offre la coppa a Ruggero, ed è allora che Guarnieri interviene con la battuta velenosa: Misiere Urçiero la prese volontiero e sì ne beve a tutto el suo talento; et in quel’ora se livò Guarnierro e sì parlò sença dimoramento, davanti alo re se dise lo suo volere: «Misiere, questo me pare gram falimento: homo che de soa mualre è cogoçato a bere con copa del re incoronato». (redazione padana, ott. 7)

Ora, il motivo della coppa è, a ben vedere, ridondante: nella tradizione francese il controvanto del seduttore insorge immediatamente dopo il vanto del marito, senza che intervenga l’«offesa della coppa» (si veda in particolare il Comte de Poitiers che è l’antecedente più vicino alla versione del Madonna Elena). Si osserva a questo punto che il motivo ricompare, identico, nelle storie italiane di Rinaldo da Montalbano, romanzo di cui esistono due versioni, una in ottave, documentata da un manoscritto del ‘400, e una in prosa, finita di copiare nel 1506. Pio Rajna, che consacrò un’analisi accurata dei rapporti fra

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le due versioni della Storia di Rinaldo da Montalbano, e i loro antecedenti francesi, era già arrivato alla conclusione che i due testi «derivano entrambi, l’uno indipendentemente dall’altro, da un medesimo originale, […] un romanzo composto, o a dir meglio rifatto in Italia», che «altro non poteva essere fuorché un poema franco-italiano»21. Vale forse la pena di investigare un po’ più a fondo il contatto fra la storia di Madonna Elena e quella di Rinaldo. Si noterà subito che il Rinaldo in prosa ci offre un vero e proprio riassunto del cantare: introduce nella situazione iniziale una spiegazione dell’inimicizia fra i due avversari che riproduce gli avvertimenti del Cantare di Madonna Elena nella sua redazione toscana («um cavalieri malvagio oltra mizura / si inamorò de la gentil pulsella; / ma non ne potea avere alcuno amore / onde pensò una gran tradigione», 8.5-8), che Ghinamo di Bajona mostra le prove del supposto adulterio proprio come fa Guarnieri al ritorno da Gironda e al momento del confronto con Elena («I’ ò auto di lei ciò ch’i’ ò voluto, / eco le gioie ch’ela m’à donato» [51.5-6]), mentre «meser Ruggieri cade istrangosciato / per la gram doglia e per li gram pensieri» (39.4-5). Ma vi ricompare anche, inopinatamente, il segno sulla coscia, come nella redazione padana del Cantare («e suxo la cosa dalo destro lato / tre pili i a biondi e riçoleli: / do volte ala cosa intorno se poria dare» 24.5-7), e l’espressione «Gabbate voi, Ghinamo, o dite da dovero?» riproduce esattamente il testo padano (ricostruito): «Los dis-tu a gabbo o ’l dis-tu per certança?» (8.4): Essendo le Re Carlo sulla mastra sala del suo magno e reale palagio, e vedevasi in sedia, e tutta la baronia gli sedeva d’intorno, ed essendo el tempo della primavera, Carlo adomandò da bere e fugli recata la coppa piena, con quella reverenza che a uno Imperadore si conviene. Valeva la coppa mille denari d’oro, e piena di perfecto vino; fatta la credenza, Carlo bevette quello che volse, e poi puose la coppa in mano al duca Amone di Dordona e disse: «Bevete!», ed egli bevette. Ma uno duca di Maganza, chiamato Ghinamo di Bajona, el quale molto odiava el duca Amone, e la cagione dell’odio era questa: per lo tempo passato lo duca Ghinamo amava una gentile damigella della casa di Soave, ch’aveva nome Clarice. El duca Amone la tolse per moglie, e av[e]ane avuti quattro figliuoli maschi, cioè questi: Alardo, Rinaldo, Guicciardo e Ricciardetto; e per questo isdegnio il duca Ghinamo cercava ogni modo e via di far morire la donna e figliuoli, per dispetto del duca Amone. Intanto ch’egli avea per denari fatto corrompere la fede a una cameriera di Clarice, ch’aveva avuto per lettere propiamente tutti i segnali della persona di Claricie. E quando el duca Amone la tolse, ell’avea un neo sulla coscia ritta, con uno capello che le dava volta alla coscia, et avevale quella cameriera toltole uno anello ch’el duca Amone gli donò, e una filza di paternoster. E mandate queste cose a Ghinamo per denari, e portavale addosso, aspettando tempo da vantarsi di lei, e dare questi segni. E quando vide che Amone avea bevuto imprima di lui, si levò ritto in piè, e disse: «Santa Corona, el duca Amone ha molto fallato contro a voi a bere colla vostra coppa, che non si confà a uomo gabbato da sua mogliera». E Amone si volse a lui tenendo la coppa in mano e disse: «Gabbate voi, Ghinamo, o dite da dovero?» Ed egli aggiunse: «Io dico il vero, egli è vent’anni passati che io me l’ho tenuta, ed ecco i segnali; questo è l’anello che tu gli donasti, ed ella il donò a me, ed 21

Pio Rajna 1870, p. 41.

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ecco i suoi paternostri. E sappi che più di te ò tocco il neo ch’ell’ae nella coscia ritta presso al ginocchio, e avolto su quello un capello; e quelli quattro figliuoli, che tu tieni per tuoi, sono miei, e faresti cortesia a rimandarmegli oggimai». Amone di dolore e di vergogna cascò per modo che niente seppe che rispondere, e sospirando domandò licenza al re Carlo, ed egli disse che volea ch’egli sodasse di tornare infra quindici giorni, ed egli pregò el dux Namo che sodasse per lui; e sodò Namo, Orlando, Astolfo, Guicciardo…22

Anche nei Cantari di Rinaldo si ravvisano echi precisi del discorso del Madonna Elena («posevi bocca e bevve a suo talento; /onde un barone in piè si fu levato…» [I 8.4-5]) e, quando Amone chiede a Carlo licenza di tornare a Dordona, e re Carlo pretende una malleveria che assicuri il suo ritorno, chiede espressamente un ostaggio: Cantari di Rinaldo

Madonna Elena (redaz. toscana)

E Carlo gli rispuose: Io son contento, ma stadico mi da’ di ritornare (I 13.1-2)23 tre suoi figluoli stadichi à lassato. (22.1-4)

E Carlo disse: «Dami pagatore di ritornar, dapoi che se’ vantato.» Meser Guarnieri non trova [malevadore: tre suoi figluoli stadichi ha lassato. (XXII. 1-4)

Come notava già il Rajna, l’impegno di Amone a ritornare a Corte è del tutto immotivato. Rajna riteneva anzi che questo episodio iniziale del romanzo non potesse essere invenzione del «periodo franco-italiano», nonostante non ve ne sia rimasta traccia nei romanzi francesi, perché «io non so trovare nei costumi e nelle idee morali proprie della Toscana e dell’Italia settentrionale nel secolo XIV cosa alcuna che valga a far apparire delittuoso l’atto compiuto da Amone, fosse pur vera l’accusa»24. Pare insomma indiscutibile che le versioni italiane della Storia di Rinaldo presuppongano la conoscenza di una Storia di Madonna Elena, forse l’antecedente comune alle due redazioni che ce ne sono rimaste. Il riassunto del Madonna Elena che compare nella versione in prosa, l’accenno agli ‘stadichi’ nei Cantari, il ritorno del ‘segno’ sulla coscia, il fatto che nel proseguimento della storia Amone si ritrovi con la moglie senza alcun ricordo dell’accusa di adulterio, confermano che la direzione del prestito vada dalla Storia di Madonna Elena alla Storia di Rinaldo. E tuttavia, il fatto che l’offesa della coppa non sia affatto necessaria allo svolgimento della storia di Madonna Elena, in quanto realizzazione del ciclo della scommessa, permette il permanere di un dubbio. Si potrebbe anche notare che nella storia di Madonna Elena Guarnieri si vanta di essere già da 22 I primi Quattro capitoli della Storia di Rinaldo da Montalbano in prosa furono pubblicati da Pietro Ferrato, 1870. La citazione è stata controllata sul ms laurenziano Plut. 42.37 consultato online. 23 Cantari di Rinaldo da Monte Albano, 1973. 24 P. Rajna 1870, p. 12.

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storie e cantari medievali

lungo tempo l’amante della donna, così come Ghinamo di Baiona, tanto che i quattro fils Aymon sarebbero addirittura figli suoi. Se ci rivolgiamo alle redazioni francesi della storia di Rinaldo, riconosceremo con Rajna che in tutte le versioni Rinaldo appare sempre già in età da essere creato cavaliere, vi manca quindi l’episodio del’offesa della coppa che apre le versioni italiane; uno dei manoscritti, però (Bib. Nat. 764, non noto al Rajna) presenta un episodio che attira l’attenzione: nel momento in cui i quattro fratelli, banditi e ridotti in povertà nel loro rifugio delle Ardenne vanno a cercare aiuto presso la madre in Dordona, e la madre riconosce a fatica il figlio Rinaldo, quest’ultimo rivolge alla madre parole che sorprendono: «Damme, se dist Regnault, par Diu et par son non, Je sui Regnault vos fieulx de droite extracion, Mais je croy bien qu’ayes eü plus d’un baron, Car le duc de Dordonne m’a appelé corcion. Damme, se dist Regnault qui fu de belle part, Je croy que vo filz sui, et vees ci Alart Et cy l’autre lé le mien frere Guichart Et se povez ossy yssi veoir Richaert. Por Dieu, veuilles nous dire se nous sommes batart, Car Aymes de Dordonne nous a clamés coirart, Bastars nous apella, mont a le cuer escart. […] La n’eust encontre nous ne chasse ne hasart, Il nous a forjuré aussi comme musart. (fol. 14, rº B)25

Sembra di riconoscere qui un parallelo preciso con l’episodio che nella versione italiana avviene subito dopo l’«offesa della coppa», quando Orlando fa recapitare una lettera per informare la moglie di Amone di quel che è successo e Rinaldo, vedendola piangere, la interroga: «Per ver da te, madre, saper vorrei perché il mio padre s’è dato tal vanto; benché difenderlo ancor non potrei, sì voglio il fatto saper tutto quanto. Ed ella disse con turbato core: «Di me s’è vantato un traditore che m’ha avuto a tutta la suo voglia e tutti e quattro v’appella per figli ond’il tuo padre vien qua con gran doglia, e di questo non ho chi mi consigli». (I 19.3-20.4)26

Nel ms. Bib. Nat. 764, del XV secolo, manca tutta la parte relativa al Bue25 26

F. Castets 1974, p. 189. Cantari di Rinaldo, 1973.

La situazione iniziale nel «Cantare di Madonna Elena»

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ves d’Aigremont, come nelle redazioni italiane, e Ferdinand Castets ritiene che questa redazione «parait avoir exercé une influence sur le développement ultérieur de la légende»27. Del resto anche nelle versioni neerlandesi della Storia di Rinaldo «l’on a remarqué justement que la dissimulation de la naissance des enfants de la duchesse Aye fait songer à un épisode du texte italien, où est mise en doute la légitimité de Renaud et de ses frères»28. Ora, il confronto fra Regnault e la madre del ms. 764 sembra presupporre almeno la conoscenza di una versione che includesse l’episodio iniziale che compare nelle redazioni italiane. Non è inverosimile pensare che già in Francia esistesse una redazione, tarda, che includesse l’offesa della coppa29. C’è da chiedersi se nel XIV secolo una società più avanzata non abbia avuto bisogno di una ragione più forte del giuramento di fedeltà all’imperatore per giustificare la durezza di Amone nei confronti dei figli. Non è insomma da escludere del tutto l’ipotesi che, in territorio italiano o già in Francia, un rifacitore della Storia di Rinaldo abbia voluto giustificare l’ingiuria di essere bastardo con un episodio iniziale centrato sul motivo dell’offesa della coppa, e che un antecedente del Cantare di Madonna Elena, notata la somiglianza delle situazioni, abbia reso più intensa e convincente la scommessa fra i due avversari adottando da questa storia il motivo dell’offesa della coppa. Un contatto più tardi notato e ampliato dagli autori delle redazioni toscane della Storia di Montalbano, che ne avrebbero così invertito la direzione.

F. Castets 1974 (1909), p. 180. F. Castets 1974 (1909), p. 259. Ferdinand Castets fa riferimento alla tesi di dottorato di Maria Loke, 1906. Ma già nel ms Bib. Nat. fr. 775 (fine XIII s.) Bertolagi, e anche Carlomagno, chiamano Rinaldo «fil a putain». L’episodio in cui Rinaldo uccide Bertolagi in seguito a una partita a scacchi risente, in alcune versioni, dell’imitazione di un episodio consimile dell’Ogier le Danois, in cui l’accusa a Baudouinet d’essere bastard è comprensibile, visto che il figlio di Ogier era stato concepito fuori del matrimonio, mentre nei Quatre Fils Aymon appare del tutto ingiustificata. 29 Già il Rajna si diceva convinto che il poema franco-italiano fonte dei due Rinaldi italiani fosse fedele a un originale francese, additando dei passi del poema italiano vicinissimi alla redazione francese consultata dal Rajna (presumibilmente l’edizione Michelant). Cfr. P. Rajna 1870, pp. 74-77. 27 28

Preistoria del Cantare di Madonna Elena o il ciclo romanzesco della scommessa

1. Introduzfone Gaston Paris riconobbe per primo l’appartenenza del Cantare di Madonna Elena al ciclo della scommessa1. Fra i quaranta e più racconti appartenenti a questo ciclo, lo studioso francese distingue prima di tutto le versioni che comportano sostituzione e mutilazione della donna, e quindi buona fede del seduttore, da quelle in cui il seduttore perpetra coscientemente l’inganno. Successivamente si distinguono le versioni in cui l’eroina è una sorella da quelle in cui l’eroina è una moglie; poi quelle in cui la moglie ha un ruolo passivo da quelle in cui ha un ruolo attivo; fra queste ultime, quelle in cui il «cattivo» rivela il suo inganno spontaneamente, e quelle in cui viene costretto a confessare la sua colpa. Il cantare italiano si situa fra le versioni caratterizzate a) dall’inganno cosciente del seduttore, b) dal fatto che l’eroina è una moglie, c) dal ruolo attivo della donna; d) dalla confessione forzata del «cattivo». É noto che, se preziosa è l’identificazione e la presentazione dei quaranta e più racconti raccolti dal Paris sotto l’etichetta di «ciclo della scommessa», il travaglio relativo alla classificazione sembrava ancora in fieri al momento della morte del grande studioso, se egli stesso adottava, in un segmento particolare della sistemazione, una classificazione diversa2, e se nel saggio stesso pubblicato dal Bédier si rilevano incertezze e incoerenze3. Il compito di una classificazione «lachmanniana» del ciclo della scommessa in un materiale sottomesso a conG. Parfs, Le cycle de la gageure, 1903. G. Parfs, Le conte de la gageure dans Boccace, 1903. 3 Nel pubblicare l’articolo di Gaston Paris su «Romania», Joseph Bédfer commentava: «L’indécision de G. Paris pour les détails de sa classification se manifeste ici à plusieurs traits, notamment en ce qu’il faisait passer du groupe B4 au groupe B3 Timoneda, Bignon et la Moglie calunniata, et en ce qu’il intervertit l’ordre des groupes B3, B4» (p. 549, in nota). 1

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taminazioni d’ogni sorta, appare in effetti abbastanza aleatorio. Sostituendo infatti agli errori le concordanze, lo «stemma» viene raggiunto soltanto al prezzo di a) scegliere i tratti narrativi discriminanti, con ciò che d’arbitrario questo può comportare e b) interpretare tutte le altre concordanze, per quanto notevoli, come contaminazioni, e ignorare quindi altre possibili trafile di derivazione. Ci è sembrato dunque opportuno, lasciando momentaneamente da parte le preoccupazioni della classificazione, collocarci sul piano storico e affrontare un settore delimitato del ciclo per rilevare i segni di una vicenda di riscrittura e trasformazione nel concreto dei testi che ci sono stati conservati. Poiché il nostro punto di partenza è il Cantare di Madonna Elena, appare naturale voler esplorare prima di tutto la tradizione romanzesca francese che è l’antecedente storico del cantare «leggendario» italiano. E infatti, in uno studio successivo a quello del Paris, il Levi indicava il riscontro fra «la versione poetica italiana della leggenda» e il «grazioso ed elegante romanzo della Violetta, che fu composto nel primo trentennio del sec. XIII4 da Gerbert de Montreuil5. Gli studi sul Roman de la Violette rimandano poi ad altri due poemetti romanzeschi francesi, l’anonimo Comte de Poitiers e il Guillaume de Dôle di Jean Renart come a probabili fonti, sia pure indirette, del poema di Gerbert. Tutti e tre questi poemi sono inclusi, naturalmente, dal Paris nel ciclo della scommessa, ma collocati in zone così distanti dello stemma che è difficile capire quali rapporti possano essere intercorsi fra di loro nella vicenda della trasmissione del nucleo narrativo di base. A me sembra invece metodologicamente corretto tener conto prima di tutto di una tradizione interna al genere letterario, nell’ipotesi che le operazioni di rifacimento e «cross-fertilization» avvenissero nell’ambito del repertorio letterario-giullaresco a cui ogni autore di poema romanzesco si riferiva, nel momento stesso di scegliere il proprio genere di scrittura6. Accessoriamente, si dovrà tener conto delle realizzazioni del motivo E. Levf 1914, p. 143. Nel riassunto, il Levi sovrappone al Roman de la Violette il melodramma di Weber Eurianthe, che ricava in effetti la sua storia dal poema medievale. Il Levi affermava, nel presentare il cantare, che la sua storia «si riconnette con due motivi leggendari assai ricchi e diffusi», quello della «donna calunniata e perseguitata» e quello della «scommessa». In realtà, il motivo della scommessa basta da solo a definire il ciclo a cui appartiene il Madonna Elena, poiché questo appare come una realizzazine particolare del più vasto tema della «donna calunniata e perseguitata». Quest’ultimo trovava una realizzazione diversa in alcune chansons de geste (Doon de la Roche, Macaire, Reine Sebile) e nei racconti con queste imparentati. Il tema della fanciulla perseguitata (figlia, questa volta) ha dato luogo ad ancora un altro ciclo di racconti, collegati al poemetto di Phflfppe de Beaumanofr La Manekine (un’esauriente rassegna delle differenti versioni nell’edizione a cura di H. Suchfer, 1884). Contaminazioni fra i tre diversi tipi di racconti erano inevitabili. 6 I riferimenti letterari identificati dal Buffum nel suo studio del Roman de la Violette appartengono infatti tutti al genere epico-cavalleresco: Roman de la Rose, Yvain, Perceval, Erec, Fierabras, Meraugis de Portlesguez, Tristan, Fergus, Roman de Troie, etc. (Gerbert de Montreufl 1928). Un caso a parte costituiscono naturalmente le canzoni, che Gerbert de Montreuil inframezza al racconto, a imitazione del Guillaume de Dôle. In quest’ultimo, l’introduzione delle canzoni costituisce una novità formale sottolineata espressamente dall’autore: «Cil qui mist cest conte en romans Ou il a fet 4 5

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in altri generi letterari nella misura in cui sia lecito ammettere una relazione di questi con fonti romanzesche. Ripercorreremo dunque in questo articolo le realizzazioni del ciclo della scommessa in ordine cronologico, in un arco di tempo che va dal primo Duecento alla fine del Trecento, nell’intento di ricostruire su indizi concreti la vicenda delle variazioni di un nucleo narrativo, e identificando così sul piano storico i filoni (a volte coincidenti con generi letterari diversi) entro cui si costituiscono le varianti del ciclo. In una tradizione come questa, caratterizzata da continue contaminazioni fra le varianti della stessa storia, la comprensione delle vicende avvenute negli stadi alti della tradizione è poi premessa indispensabile per capire le diramazioni e le contaminazioni avvenute negli stadi più recenti. 2. Antecedentf francesf Lasciando da parte i canti e i racconti popolari, la più antica realizzazione documentata è il poemetto Guillaume de Dole. Pubblicato nel 1893 da G. Servois, e attribuito da Gaston Paris a Jean Renart (l’autore riconosciuto dell’Escoufle e del Lai de l’Ombre), il poemetto è stato accuratamente studiato da Rita Lejeune, e datato fra il 1208 e il 12187. Se la Lejeune insiste con ragione sulla finezza dei procedimenti adottati da Jean Renart nel condurre avanti il suo racconto e sulla qualità delle sue descrizioni psicologiche e di costume8, resta indubbio che il motivo centrale dell’azione, la calunnia della fanciulla innocente sulla base della scoperta del segreto di un segno sul suo corpo è stata ripresa da Jean Renart da una qualche altra storia, nota forse come il «conte de la rose»9. La Lejeune, che pure esclude le ipotesi emesse da Gaston Paris sui possibili debiti del Guillaume de Dole verso il Comte de Poitiers o il Guillaume de Nevers, non può non riconoscerlo: Sans ajouter trop de foi à l’affirmation du premier vers, où il est question d’un «conte» que l’auteur aurait mis en «roman», remarquons qu’à plusieurs reprises, dans son récit, cet auteur paraît faire allusion à un «conte de la rose» qu’il aurait connu. C’est ainsi que dans noter biaus chans Por ramenbrance des chançons, […] Car aussi com l’en met la graine Es dras por avoir los et pris, Ensi a il chans et son mis En cestui romans de la Rose, Qui est une novele chose…» (Le Roman de la Rose ou de Guillaume de Dole, a cura di G. Servofs, 1893, vv. 1-12). 7 R. Lejeune, L’oeuvre de Jean Renart, 1968. 8 Vedi, per esempio, le osservazioni a proposito della madre di Guillaume e Lïénor: «Jean Renart a substitué à un type aussi banal que «littéraire» – celui de la vulgaire entremetteuse – un personnage réel, émouvant, qui détermine da façon malheureuse (…) un incident dont on ne pouvait prévoir les conséquences. Ce drame «bourgeois», ce tragique familier son fort rares à cette époque», p. 44. 9 Il poemetto di Guillaume de Dole comincia: «Cil qui mist cest conte en romans… ». In un suo poema precedente Jean Renart giustifica così il titolo: «Mais c’est drois que li roumans ait Autretel non comme li comtes» (L’Escoufle, vv. 9074-75).

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la scène entre le sénéchal et la mère, voulant exprimer que cette dernière livre le secret de sa fille, Jean Renart écrit: Si li a conté tot l’afaire De la rose desor la cuisse… (v. 3351-52) Or, jusque là, il n’avait pas été question du «signe» de la jeune fille. Cette façon très elliptique d’évoquer «l’affaire de la rose» semble prouver que l’auteur parle ici d’une chose que ses auditeurs comprennent à demi-mot10.

La narrazione di Jean Renart, in effetti, in quanto narrazione presenta incongruenze notevoli. Oltre a questa messa in rilievo dalla Lejeune stessa, G. Paris aveva segnalato l’inopinata apparizione di un nipote Jofroi, mai menzionato prima, che per amore di Guglielmo corre a casa a punire la fanciulla che, secondo la calunnia, avrebbe disonorato la famiglia. L’unica spiegazione poteva trovarsi nella figura corrispondente che, più plausibilmente, si trova nel racconto del Comte de Poitiers e che per l’appunto si chiama Jofroi11. Altri interrogativi si presentano a proposito della visita del sénéchal al castello di Guillaume: sentendo l’imperatore cantare d’amore, il sénéchal indovina, ben sagacemente, le intenzioni dell’imperatore verso la sorella di Guillaume e, per invidia, mette tutto il suo impegno a volerli separare: Il porpensa une folie: Onques nuls hom ne pensa tel Por fere traïson mortel12. (3205-07)

Sembrerebbe dunque che il sénéchal avesse chissà quale piano quando va a visitare il castello di Guillaume. Ma, una volta arrivato, il «cattivo» non fa altro che presentarsi alla madre come grande amico di Guillaume e regalarle un anello prezioso. Mostra di avere una gran fretta di ripartire e rifiuta non soltanto di essere alloggiato per la notte, ma persino di restare a mangiare presso di loro (vv. 3301-3320). Soltanto chiede di vedere la figlia, il che gli viene negato perché «nuls hom ne la puet veoir, Puis que ses freres n’est çaienz» (vv. 332930). Non fosse l’ingenuità della madre che «Lez son cheval qu’en tint au soeil, R. Lejeune 1968, p. 57. Il personaggio viene definito alcune volte un «nipote» (cfr. vv. 3776, 3792, 3822, 3854-55), altre volte un cugino (vv. 3931, 3936, 4078). Quale nipote, se Guglielmo non sembra avere né moglie, né altri fratelli o sorelle all’infuori dell’eroina del romanzo? 12 La locuzione «traïson mortel» si ritrova anche nel Comte de Poitiers (vv. 864, 1096), e arriva fino al Madonna Elena: «onde pensò una gram tradigione» (Moreniano Bigazzi, ott. 8). La connotazione del seduttore come traditore è diffusa anche nelle altre versioni romanzesche del ciclo della scommessa, e il dato può apparire banale. Tuttavia nelle chansons de geste l’accusatore della moglie è esplicitamente definito come appartenente alla razza dei traditori: Il ot ja a Coloigne .j. traitor felon: Cil ot a nom Tomile, oncles fu Guenelon, Doon de la Roche, vv. 118-119; Or entendés del traitor losençer Como vose li rois onir e vergogner, Macaire, vv. 13507-13508. 10 11

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Li ot ele dit a conseil Tot son estre et son covine…» (vv. 3346 ss.) non si vede davvero in che modo il sénéchal potesse sperare di scoprire qualcosa con cui infangare il nome della fanciulla. Anche la Lejeune ammette che dietro la figura della madre dovesse celarsi quella di un’entremetteuse (il dono dell’anello è rivelatore): Ici, comme souvent, Jean Renart a substitué à un type aussi banal que «littéraire» – celui de la vulgaire entremetteuse – un personnage réel, émouvant, qui détermine de façon malheureuse […] un incident dont on ne pouvait prévoir le conséquences. (p. 44)

Un personaggio, cioè, simile a quello che si incontra nel Comte de Poitiers, nel miracolo di Guillaume de Nevers e nel Roman de la Violette, per restare nell’ambito delle versioni più vicine, per cronologia e per genere, al Dole. E ancora, quando la fanciulla si reca a corte decisa a smascherare il colpevole, è singolare ch’ella sia così ben informata dell’amore segreto del sénéchal per una chastelaine de Dijon: «Je sai bien Qu’il l’a proiée longuement; Onques nul acreantement Ne li vout fere de s’amor […] Si li mande la chastelaine Que s’il jamès veut qu’el le voie, Que cest tiessu que li envoie Ceigne a sa char soz sa chemise». (vv. 4299 ss)13

Eppure, convincere il sénéchal a mettersi addosso i gioielli inviatigli dalla sedicente castellana è essenziale per lo stratagemma della sorella di Guillaume. Uno stratagemma che è di una sofisticazione estrema: dapprima, fare in modo che il sénéchal porti su di sé certi oggetti (cintura, borsa, pezzo di stoffa); poi, affermare davanti all’imperatore che il sénéchal 1) l’ha violentata, e 2) le ha rubato quegli oggetti. Il sénéchal è convinto di furto perché gli oggetti sono effettivamente trovati su di lui, e si trova nell’imminenza di essere giustiziato; ottiene però un giudizio di Dio, per il quale giura di non aver mai visto la donna, supera effettivamente la prova, e allora la sorella di Guillaume può rivelarsi, smentire così la calunnia, e finalmente sposare l’imperatore. Non si capisce bene, narrativamente, perché la fanciulla ha orchestrato la scena degli oggetti trovati addosso al «cattivo», dal momento che la punizione del sénéchal lascerebbe assolutamente intatta la sua affermazione di essere stata anche violata. È soltanto perché, inaspettatamente, gli amici del sénéchal ottengono 13

Jean Renart 1965.

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dall’imperatore e dalla donna un «giudizio di Dio»14, e che il sénéchal giura di non averla mai vista, che tutto finisce bene15. La complessità della conclusione nel Guillaume de Dole fa insomma pensare che siamo di fronte a una rielaborazione in senso cortese di un episodio conclusivo preesistente, di cui per ora non sappiamo niente se non che doveva essere diverso da quello del Guillaume de Dole. 3. Il «mfracolo» df «Gufllermus Nfvernensfs» Gaston Paris aveva creduto di riconoscere la possibile fonte del Guillaume de Dole in un racconto trasmessoci come «miracolo» dalla Compilacio singularis exemplorum, una raccolta di exempla della seconda metà del XIII secolo trascritta nel XV secolo sul ms. 468 della Biblioteca di Tours16, e aveva dato al racconto in prosa latina il titolo di Guillaume de Nevers. La tesi fu rifiutata decisamente da Rita Lejeune: … lorsqu’on l’examine dans ses détails, le conte latin apparaît bien moins comme une forme originale de légende que comme le décalque moralisé d’une oeuvre littéraire; et, loin d’être una source de Guillaume de Dole, c’en est plutôt une adaptation17.

Nonostante la ripresa della tesi della derivazione del Guillaume de Dole dal Guillaume de Nevers da parte di Frederic Koenig, che pubblicò nel 1948 il testo del «miracolo», non mi sembra che ci siano ragioni sufficientemente forti da dover affermare la direzione Guillaume de Nevers -> Guillaume de Dole. Il principale argomento del Koenig è che, mentre nel Guillaume de Dole l’imperatore viene a sapere della bellezza e delle virtù della fanciulla prima che il cavaliere venga a corte, il Guillaume de Nevers concorda con tutte le altre versioni (quelle almeno che prevedono la sorella e la «controaccusa» come soluzione dell’intrigo) nel far sì che l’imperatore venga a sapere della fanciulla dal fratello, dopo un po’ di tempo che questi dimora a corte. In realtà, nel miracolo latino il fratello non parla mai della sorella all’imperatore: all’improvviso, compare una battuta dell’imperatore il quale «vocavit suum consilium et cepit laudare Guillermum dicens: “Si consulitis, accipiam in uxorem sororem 14 Il «giudizio di Dio» del Guillaume de Dole pare essere quello dell’«acqua fredda» (cfr. G. Parfs, Le cycle de la gageure, p. 489), e non ha niente a che vedere con un duello giudiziario. 15 Non è sorprendente che tante delle versioni che riprendono il pattern del Guillaume de Dôle (l’eroina sorella, accusa davanti al re di essere stata violentata dal «cattivo») abbiano semplificato le cose: la donna accusa il «cattivo» di averla violata, questi risponde col giuramento di non averla mai vista: la donna si scopre allora per la sorella dell’eroe, dimostrando così la falsità della pretesa seduzione. 16 Cfr. J-T. Welter 1973, pp. 236-244. 17 R. Lejeune, L’oeuvre de Jean Renart, p. 54.

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ejus”»18. Una versione che si spiegherebbe benissimo supponendo che il Guillaume de Dole o una sua rielaborazione fossero a monte del Guillaume de Nevers. Le altre due concordanze del Guillaume de Nevers con altre versioni del gruppo, contro la «lezione singolare» del Guillaume de Dôle, e cioè la figura della vecchia nutrice anziché della madre, e la visita del marescallus alla sorella per incarico dell’imperatore19, potrebbero benissimo spiegarsi come contaminazioni: la prima per la confluenza della storia del Guillaume de Dole con altre versioni del ciclo della scommessa (per esempio, la storia del Comte de Poitiers, cronologicamente molto vicina al Guillaume de Dole); la seconda, ammettendo che il Guillaume de Nevers abbia apportato un’innovazione che ha poi contribuito all’elaborazione di versioni successive come la «nouvelle de Sens» e l’Eufemia di Lope de Rueda. La tesi della Lejeune, che il miracolo latino rappresenti piuttosto una derivazione dal Guillaume de Dole, mi pare dunque del tutto plausibile. Ma il Koenig ha ragione nel sostenere che il miracolo, «Guillermus Nivernensis, reproduces fairly faithfully the content of a lost vernacular romance». Sono evidenti nella rielaborazione documentata dal miracolo gli echi di opere chrétieniane: la situazione che induce la fanciulla ad allontanare il fratello da sé (all’inizio del racconto), per colpa delle malelingue, riconosce il suo prototipo nel famigerato «Mar vos vi» di Enide; l’invito a recarsi a corte, per emulare la carriera del padre, rammenta l’invito del padre a Cligès a recarsi alla corte di Artù; la partenza di Guillermus dalla corte dell’imperatore, dopo che l’imperatore gli ha rimproverato la condotta della sorella, avviene negli stessi modi della partenza di Yvain dalla corte di Artù, quando la damigella mandata da Laudine gli rimprovera la fede mancata. Il Guillaume de Nevers è dunque particolarmente interessante come testimonianza di una delle rielaborazioni a cui il Guillaume de Dole dovette dar luogo, ad opera di poeti-jongleurs professionisti, abili manipolatori del repertorio romanzesco antecedente e contemporaneo. È probabile che una tale rielaborazione sia da collocare cronologicamente molto vicino al poemetto di Jean Renart, se le opere di Chrétien appaiono ancora così stimolanti, e i motivi che ne derivano hanno l’aria di esserne stati ripresi direttamente anziché risalirvi attraverso prestiti di terza o quarta mano. 18 Gaston Paris per primo aveva completato di una sua illazione il riassunto del racconto: «Guillaume de Nevers va servir l’empereur à Rome et se distingue. Il vante tellement sa soeur (le manuscrit omet ce motif ) que l’empereur veut la prendre pour femme» (p. 487). Tanto il Paris che il Koenig si accorgono e ammettono esplicitamente che il particolare non compare nel manoscritto, ma la suggestione del «tipo» di racconto come compare nella maggioranza delle versioni è stata tanto forte da indurre entrambi gli studiosi a forzare i dati documentari. 19 «In Guillaume de Dôle he takes it upon himself to visit the heroine without the emperor’s knowledge, while in Guillaume de Nevers he sets out with a mission from the emperor to discover whether the girl is worthy of being empress. Ysmarie de Voisines and Lope de Rueda’s Eufemia, which form with Guillaume de Dôle and Guillaume de Nevers the oldest subgroup of the counteraccusation tales, concur with Guillaume de Nevers on this; and, if a number of the later versions do not, it is because they have undergone the influence of the wager tales» (F. Koenfg 1948, p. 148).

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Il racconto conosciuto da Jean Renart e in parte utilizzato per la sua trama (il «conte de la rose»?) doveva essere imparentato con il Comte de Poitiers20. Accanto al più grosso indizio, costituito dal nipote Jofroi e messo in rilievo già dal Paris, si potrebbe segnalare che il nome della donna, nel Comte de Poitiers, è per l’appunto Rose (v. 933); che solo nel Guillaume de Dole e nel Comte de Poitiers una delle false prove è, cosa abbastanza singolare, un pezzo di stoffa21; e che fra le versioni che non prevedono «il dito tagliato» soltanto Guillaume de Dole e Comte de Poitiers22 raccontano che il cattivo era stato ospitato a casa della donna. Infine, anche senza voler invocare il problema supplementare del racconto indiano segnalato dal Paris, già Hilka e Söderhjelm avevano osservato giustamente che «the whole character of the wager presupposes that a wife, not a sister, be in question»23. Ma in realtà la questione dei rapporti fra Guillaume de Dole e Comte de Poitiers resterebbe di soluzione incerta se non intervenisse, a complicare ma anche a illuminare il quadro, la testimonianza del Cantare di Madonna Elena. 4. Il «Cantare df madonna Elena» Del Cantare italiano Gaston Paris aveva semplicemente affermato: La plus ancienne sans doute de ces versions est l’histoire d’Elena, encore très voisine de B1 [l’héroine est soeur du parieur; le galant ne l’a pas vue; accusation de viol (et de vol)], où la femme (que le mari a jeté à l’eau) vient elle-même revendiquer son droit à la cour du roi et (habillée en homme?) combat et vainc le traître24.

L’analisi circostanziata dei rapporti fra i rappresentanti del gruppo romanzesco che abbiamo intrapreso conferma l’intuizione del Paris quanto all’antichità della versione conservata dalla tarda testimonianza del cantare italiano. Qui dovremo aprire però una parentesi abbastanza ampia per meglio presen-

20 Rita Lejeune si libera del problema dei rapporti fra Guillaume de Dole e Comte de Poitiers un po’ troppo disinvoltamente: «Mais là, l’héroïne est la femme du héros, il y a “gageure”, «il n’y a pas de signe sur le corps de la femme, le secret du galant est surpris par le mari et c’est lui qui retrouve sa femme et provoque par un duel judiciaire, le châtiment du traître». On voit donc que le Roman du Comte de Poitiers n’a aucun point en commun avec Guillaume de Dole…» (R. Lejeune 1968, p. 53). L’enumerare le differenze fra i due racconti non è rilevante ai fini della dimostrazione: le fabulae di opere distinte sono per definizione diverse; quello che conta nell’analisi dei rapporti fra due opere sono solo le concordanze. 21 «Del bon samit qu’ele ot vestu Trencha un pan del gron devant, Vous le covrisiés d’un besant» (Comte de Poitiers, vv. 300-302); «Vos m’en irez au seneschal; Si porterez cest affichal, Cest tiessu et ceste aumosniere…» (Guillaume de Dole, vv. 4280-82). 22 Anche il Roman de la Violette, ma quest’ultimo dipende dal Comte de Poitiers. 23 Citato da F. Koenfg 1946-47, p. 81. 24 G. Parfs, p. 548.

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tare il Madonna Elena e quindi meglio giudicare della sua posizione nel complesso delle testimonianze romanzesche. Del Madonna Elena esistono due redazioni, notevolmente diverse fra di loro, ma risalenti a uno stesso pre-testo, di cui una rappresenta probabilmente uno stadio più vicino alla fonte francese, l’altro uno stadio che la recitazione canterina ha modificato, introducendovi procedimenti tipici della comunicazione orale e accentuandone il tono epico25. I due manoscritti che ci conservano il Cantare di Madonna Elena sono tutti e due quattrocenteschi. Tuttavia la versione che, indipendentemente dalle varianti redazionali, possiamo chiamare la storia di Madonna Elena, rivela per indizi molto forti di essere ben più antica dell’età dei manoscritti. Intanto, i dipinti sul soffitto del palazzo Chiaramonte a Palermo, che datano del 1377-80, includono la storia di Madonna Elena, identificata senza equivoci dal Levi e corrispondente alla versione da lui pubblicata26. Poi, nella versione borghese del racconto fornitaci dalla novella II.9 del Decameron, sembra di poter rilevare tracce della conoscenza della versione canterina. L’episodio della scommessa fra Bernabò da Genova e Ambrogiuolo da Piacenza è infatti rappresentato come segue: Bernabò, turbato, rispose: – […] Ma poi che tu di’ che tutte sono così pieghevoli e che il tuo ingegno è cotanto, acciò che io ti faccia certo dell’onestà della mia donna, io son disposto che mi sia tagliata la testa se tu mai a cosa che ti piaccia in cotale atto la puoi conducere; e se tu non puoi, io non voglio che tu perda altro che mille fiorin d’oro. – Ambrogiuolo, già in sulla novella riscaldato, rispose: – Bernabò, io non so quello che io mi facessi del tuo sangue, se io vincessi; ma se tu hai voglia di vedere pruova di ciò che io ho già ragionato, metti cinquemila fiorin d’oro de’ tuoi, che meno ti deono essere cari che la testa, contro a mille de’ miei; ecc.

Boccaccio enuncia cioè esplicitamente la possibilità che posta della scommessa sia la testa del marito, sia pure per rinunciarvi, e sostituirvi una versione borghese. Ora, fra le versioni trasmesseci da documenti medievali, la novella del Boccaccio è la più antica a conservare la posta in gioco della testa27. Inoltre, fra i vanti delle virtù della donna fatti dal marito nelle varie versioni del ciclo, Boccaccio è anche il solo ad attribuirle qualità esplicitamente maschili: «Appresso questo, la commendò meglio saper cavalcare un cavallo, tenere uno uccello, leggere e scrivere e fare una ragione che se un mercatante fosse». Si 25 Si veda, per l’edizione e lo studio dei due testi, il mio Cantare di Madonna Elena e l’elaborazione del poemetto cavalleresco in Italia, «Yearbook of Italian Studies», X (1992) e, in questo stesso volume, l’articolo «Le due versioni del Cantare di Madonna Elena». 26 E. Levf, 1925, pp. 133 sgg.; E. Gabrfcf e E. Levf 1932, pp. 87-92. 27 Il tratto secondo cui il presunto adulterio mette in gioco non soltanto l’onore e i beni del marito, ma la sua vita stessa ricompare in alcuni racconti del ciclo il cui carattere arcaico sembra accertato dalla conclusione del «dito tagliato» (anche se documentati in epoca più tarda), come il canto greco di Maurianòs e la celtica storia Hanes Taliesin. Il motivo potrebbe dunque a sua volta essere notevolmente antico. Cfr. in questo stesso volume il saggio «La situazione iniziale nel Cantare di Madonna Elena».

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capisce che il Boccaccio si prepara il terreno per la seconda parte della sua storia, quando la bella Zinevra sarà diventata Sicuran da Finale; ma la suggestione dell’inaspettato comportamento virile di Madonna Elena potrebbe non essere estranea alla particolare trasformazione della donna nella seconda parte della novella. Se quest’ipotesi è accettabile, una versione della storia di Madonna Elena sarebbe esistita nella prima metà del Trecento, prima della compilazione del Decameron. Ma soprattutto, il Cantare presenta concordanze precise con le più antiche testimonianze del ciclo della scommessa, e incorpora inoltre topoi diffusi nella letteratura romanzesca del XIII secolo. Il riferimento più diretto è forse il Comte de Poitiers28: in entrambe le versioni la vicenda è collocata nell’ambito delle leggende carolingie e la scena d’apertura, che chiama in causa due vassalli, ha luogo a Parigi, alla corte del re29; il marito, convinto dell’adulterio della moglie, tenta, senza riuscirci, di ucciderla con la spada; lo stesso marito affronta e uccide un leone e un drago (nel cantare italiano due leoni e due dragoni)30; la donna è soccorsa da un cavaliere che la conduce a un castello vicino; la soluzione finale è affidata a un duello giudiziario, che avviene nella stessa corte, in preparazione del quale il «cattivo» riafferma esplicitamente di avere geü con la donna. Un altro tratto che avvicina le due versioni è forse da vedere nel fatto che il «cattivo» promette alla «cameriera» di Madonna Elena di sposarla, se lei lo aiuterà a procurargli le false prove; nel Comte de Poitiers la nutrice che ha tradito la contessa appare poi accanto al «cattivo» che la chiama «m’amie et ma pole» (v. 815); e altrove si accenna a quello che appare come una promessa di matrimonio alla vecchia: «Et la vielle, cui Dex maudie, Iert a un visconte dounee Mais autrement iert mariee» (vv. 1080-82). Altri tratti narrativi del Madonna Elena che non trovano riscontro nelle versioni romanzesche sono sorprendentemente vicini alla versione di un altro dei miracoli del ms. di Tours (fº 165 vº) citati dal Paris: secondo il riassunto del terzo miracolo, 28 Ovviamente, a causa della «mouvance» tipica di questo genere di letteartura, la «storia» del Comte de Poitiers non si identifica esattamente con la versione conservataci dal ms. 3527 della Bibliothèque de l’Arsenal. L’editore stesso rileva che «le Roman du Comte de Poitiers, tel qu’il nous est conservé, ne peut pas être le modèle de la Violette mais qu’il faut supposer qu’une version plus primitive et essentiellement analogue à la nôtre – notammente en ce qui concerne la première partie du récit – soit la base des deux compositions, dont notre roman n’est qu’une rédaction postérieure, la Violette au contraire une imitation libre et témoignant des ambitions littéraires de son auteur» (B. Malmberg 1940, p. 23). 29 Nella versione del ms. C43, Biblioteca Augusta, Perugia, il re è Luigi (Aluise), come nel Roman de la Violette; nel Comte de Poitiers è Pépin; la versione pubblicata dal Levi nel suo Fiore di Leggende, e le pitture del Palazzo Chiaramonte a Palermo collocano la scena alla corte di Carlo Magno. 30 Il bizzarro costume di tenersi in casa leoni e draghi è un motivo già diffuso in romanzi del Duecento: è precisamente contro due leoni e poi contro due «serpens, felons et fiers, Qui sanc gietent de leus en leus, Et par la boche lor salt feus» che Gauvain deve combattere per conquistare il freno meraviglioso nella Damoisele a la mule, 1911 (vv. 852-854), degli inizi del Duecento; e si veda, nella Tavola Ritonda, al cap. LVIII: ‘«in capo della sala, erano incatenati due lioni e a presso due dragoni» (La Tavola ritonda, a cura di L. F. Polfdorf, 1864, p. 223).

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l’autre, allant au château, ne put entrer, mais il séduisit par fraude une demoiselle de la dame, qui vola et lui remit un anneau que le mari avait donné à sa femme; en outre, elle lui révéla que la dame avait un seing à la cuisse. Et revenant il dit, en donnant ces indices, qu’il avait gagné. Le mari l’entendant, confus et trop crédule, se retira, et ayant conduit sa femme à son manoir, la jeta à l’eau. Elle se sauva, transforma sa robe en vêtement d’homme…31

Particolarmente notevole qui la concordanza nel tratto in cui il marito «la jeta à l’eau», poiché questo motivo ha una tradizione estremamente limitata fra i racconti della scommessa32, la sola altra occorrenza trovandosi in un racconto popolare rumeno, in cui però la storia è stata abbondanemtente contaminata da versioni più tarde. Ma anche nel resto di questo segmento narrativo gli elementi «discreti» coincidono perfettamente con la versione del Madonna Elena: il «cattivo» non può entrare, l’aiutante è una cameriera, le prove sono un anello che il marito ha regalato alla moglie e il segno sulla coscia33. La raccolta di miracoli è comunemente attribuita alla seconda metà del Duecento34. Poiché sembra assodato che il Roman de la Violette derivi da un racconto analogo, ma anche distinto dal Comte de Poitiers35, sarà interessante osservare alcune sporadiche concordanze col Madonna Elena: il re alla cui corte si svolgono i fatti è Luigi – concordanza in opposizione a ogni altra testimonianza – e la vecchia (cameriera) traditrice è punita col fuoco. A questo proposito è anzi da osservare che la concordanza si verifica non tanto con la versione scritta, secondo la quale «La camariera fu presa e ligata,/ a uno gram palo fu arsa e brusata (Perugia, 54), quanto con il dipinto del soffitto di Palermo: i versi che narrano la punizione della serva nel Roman de la Violette servono perfettamente a descrivere il dipinto, con la sola differenza che la donna nel fuoco non appare per niente vecchia, e corrisponde quindi alla cameriera della versione italiana: Plainne caudiere de cendree A fait metre desour un fu; La vielle dedens mise fu. Tant i boilli qu’arse i fu toute La vielle desloiaus estoute. (vv. 6566-6570)36

Un terzo punto di contatto si ha nell’episodio in cui un cavaliere vola alla riscossa dell’eroina vedendo da lontano le fiamme di un rogo, che egli suppone apprestato per lei. Nel Madonna Elena è il padre Arnaldo che, nel segmenG. Parfs 1903, p. 499. Una variante più diffusa prevede l’abbandono in mare, che è un’ evidente contaminazione con altri tipi di racconto. 33 Il segno sulla coscia non compare nella redazione pubblicata dal Levi, ma è presente nella redazione del manoscritto di Perugia. 34 Fu composta fra il 1270-77 e il 1296-97, secondo J-Th. Welter 1927, p. 240. 35 Cfr. B. Malmberg, Introduzione al Comte de Poitiers, 1940. 36 Gerbert de Montreufl 1928. 31

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to finale del cantare, vedendo «acieso il fuoco e la calura» (Moreniano Bigazzi, ottava 65), si affretta a cavalcare a Parigi (ma in realtà il rogo è quello che brucia la cameriera); nel Roman de la Violette l’episodio segna il ritrovamento di Gerars e della sua amica. Naturalmente un episodio simile è un luogo comune (cfr. Floire et Blanchefleur, Yvain); ma il dettaglio che il salvatore, con una compagnia di cavalieri, vede il fuoco da lontano mentre si dirige verso la città isola la concordanza fra il Cantare e il Roman de la Violette. Gli elementi discreti del nucleo narrativo fondamentale accolti dal Cantare di Madonna Elena appaiono dunque tutti ancorati alle versioni più antiche del ciclo. D’altra parte, il dato più vistoso del cantare, e che ne isola clamorosamente la versione, è il duello giudiziario fra l’eroina e l’avversario. Il motivo è particolarmente interessante, sia per la sua rarità, sia perché rappresenta, a mia conoscenza, la prima manifestazione di quella figura di donna guerriera che, destinata a grande fortuna nell’epica del Rinascimento, è considerata una caratteristica della tradizione italiana. Nessuna delle altre versioni del ciclo, romanzesche o no, prevede l’improbabile duello fra una donna e un cavaliere. È da notare tuttavia che il duello giudiziario come mezzo di risolvere l’intrigo costituisce in Francia una tradizione solida: ritorna non soltanto nel Roman de la Violette ma anche nel racconto in prosa Le roi Flore et la belle Jehane e nella sacra rappresentazione di Oton roi d’Espagne. La cosa più notevole è poi che in entrambe queste versioni sia la donna, travestita da uomo e ancora sconosciuta, a chiedere per prima di fare il duello col traditore, e che solo in un secondo momento il marito reclami invece e ottenga per sé il privilegio di affrontare il «cattivo». Non è dunque escluso che il duello fra la donna e il suo accusatore, presentato come un vero e proprio «giudizio di Dio» conservi una versione ancora francese, ancora duecentesca. Un «giudizio di Dio» è invocato, non a caso, nella più antica testimonianza del ciclo, il Guillaume de Dôle. 5. Un «Madonna Elena» fra f romanzf del Duecento? Ci sembra a questo punto che ci siano già giustificazioni sufficienti per chiamare in causa anche un’elaborazione così tarda come il Cantare di Madonna Elena, nel discutere del Guillaume de Dôle e dei primi stadi del ciclo della scommessa. Si possono infatti identificare alcuni elementi che collegano la più antica tradizione francese con quella rappresentata dal Madonna Elena. Quando, nelle versioni francesi, il «cattivo» ha convinto il marito (o fratello) della colpevolezza della donna, un nipote del «marito» corre al castello dove la dama era rimasta: per condurla alla corte del re Pipino nel Comte de Poitiers, per ucciderla nel Guillaume de Dôle. Nel cantare italiano è il marito stesso che torna furioso nella sua città37 e tenta di uccidere la moglie. Ora, la versione del 37

Alla quale città viene attribuito, stranamente, il nome dell’estuario e della regione di Gironde.

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Comte de Poitiers appare la meno plausibile delle tre: il «cattivo» ha già prodotto le prove alla corte del re e ha già convinto il marito della colpevolezza della donna; il far venire la donna a Parigi semplicemente per mostrarle le false prove e confonderla pubblicamente, è un tratto narrativamente piuttosto debole. Madonna Elena e Guillaume de Dôle concordano invece nel rappresentare un uomo che corre al castello della dama invaso da una furia vendicatrice, con la ferma intenzione di ucciderla (anche se poi ovviamente non ci riesce). Si ricordi a questo punto che nel Cantare di Madonna Elena la posta in gioco della scommessa è la testa dei contendenti, non il feudo, come nel Comte de Poitiers. Ora, è interessante che il nipote Jofroi del Guillaume de Dôle (stesso nome e stessa figura del nipote Jofroi del Comte de Poitiers) dimostri la stessa furia vendicatrice del marito del Madonna Elena e che conseguenza della calunnia appaia la morte imminente di Guillaume: Il a trete l’espée nue, Et s’en vet grant pas vers la sale. Dex doint qu’aucuns encontre saille, Qu’il ne face comme desvez! (vv. 3906-3909) «Celi voir que j’ocirrai hui A mes .ij. mains, se ge la truis». (vv. 3932-3933) «…ge lessai mon oncle en ce, Ou il est morz ou il se muert». (vv. 3946-3947) Ele clot les oils, si se pasme Por la destrece de son fil Que il lessa en tel peril Et entre la mort et la vie. (vv. 3982-3985) «Trop le m’a vendu son joel, Se ge pert Guillame mon fil!» (vv. 4014-4015) «Dame, fetes querre chevaus: S’irai a cort veoir mon frere; Onques si prodom com il ere Ne mourut por si fet domage». (vv. 4036-4039)

Fra il Guillaume de Dôle e il Madonna Elena esiste poi una concordanza di fondo (che era probabilmente la ragione principale per la quale Gaston Paris giudicava la versione del cantare tanto antica) che consiste nell’affidare direttamente alla donna la funzione di riscattare la propria innocenza alla corte. Mi pare che questa concordanza debba essere reinterpretata e completata come una somiglianza di strutturazione del racconto: tutti i racconti del ciclo della scommessa possono infatti essere raggruppati in due grandi categorie. Nell’una la struttura del racconto è compatta: la convinzione di adulterio comporta conseguenze altamente drammatiche, per cui la risoluzione della questione

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deve avvenire rapidamente dopo l’accusa ed è di solito spettacolare. Così è in tutte le versioni a soluzione «dito tagliato», e in tutte le versioni che prevedono la sorella al posto della moglie. La seconda categoria prevede invece normalmente la perdita dei beni come la posta in gioco della scommessa; la sconfitta di uno dei due contendenti non è quindi altrettanto drammatica e permette di intercalare peripezie più o meno lunghe fra la falsa convinzione della donna e la soluzione finale. È così che persino nel Comte de Poitiers (la più breve delle versioni romanzesche francesi, con i suoi 1229 versi), il conte diseredato deve prima superare le avventure del leone e del drago, poi recarsi travestito da pellegrino al suo castello e ascoltare senza essere riconosciuto la confessione spontanea dell’avversario, poi ritrovare, per caso, sua moglie proprio il giorno in cui stava per sposare un suo nipote, prima di poter tornare a corte e sfidare l’avversario. Ora, fra le versioni con moglie, il Madonna Elena è l’unica38 che fa seguire immediatamente alla disgrazia la risoluzione (il marito sta per andare a morte, dunque è essenziale che la donna arrivi a corte e riesca a scagionarsi). Il Guillaume de Dôle, per la verità, non prevede la decapitazione del fratello, ma l’intervento della fanciulla segue immediatamente il momento in cui l’imperatore informa Guillaume del fallo della sorella e il nipote Jofroi corre a casa a vendicarlo, rendendo così noto alla sorella quel che è successo alla corte. Come si è visto, poi, il trattamento dell’episodio di Jofroi rende plausibile l’ipotesi che il racconto su cui lavorava Jean Renart prevedesse in realtà, come conseguenza della calunnia, una disgrazia ben più grave. C’è quindi da chiedersi se l’andamento compatto del Madonna Elena, concordante con quello del Guillaume de Dôle, rappresenti la conservazione di un dato primitivo o debba essere interpretato come la degradazione in senso popolare di un racconto più complicato. La solidarietà fra struttura compatta del racconto, la variante che la donna stessa rivendichi la propria innocenza, e l’accusa al cattivo di furto (il Comte de Poitiers dimentica completamente la questione degli oggetti presentati come prove, limitandosi a introdurre i giuramenti cerimoniali prima del duello giudiziario fra il marito e il «cattivo») mi farebbe propendere per la prima ipotesi. A questo si aggiunga la magnanimità dimostrata dalla donna nel perdonare, nel Madonna Elena al marito, nel Guillaume de Dôle al cattivo. E ancora che il «cattivo» non si vanta di riuscire a sedurre la donna in un prossimo futuro ma afferma di aver già goduto i favori della donna; e che egli non riesce nemmeno a vedere la donna (contro le versioni che prevedono invece l’ospitalità). Certo tutti questi tratti si ritrovano anche in altri testimoni del ciclo della scommessa, ma non tutti insieme a questa altezza cronologica39. 38 Il racconto gallese Hanes Taliesin e il canto popolare greco di Maurianòs (in alcune varianti del quale l’eroina è moglie e non sorella del protagonista) presentano un’ambientazione e una strutturazione simili a quelle del Madonna Elena, ma la conclusione è affidata al motivo del dito tagliato. 39 C’è da chiedersi se sia un puro caso che fra tutti i nomi attribuiti all’eroina nelle varie versioni Lena e Lïenor siano i più vicini. Nel Guillaume de Dôle si trova inoltre un’espressione verbale che

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Bisognerà dunque presumere che il racconto tenuto presente dal Guillaume de Dôle avesse caratteristiche che lo imparentavano da un lato al Comte de Poitiers dall’altro al Madonna Elena. L’autore del Guillaume de Dôle, pur utilizzando elementi di questa storia, ha creato una storia diversa, fortemente caratterizzata dal fatto che la donna è sorella e non moglie, che ha dato luogo a una numerosa discendenza, dalla tradizione notevolmente compatta e riconoscibile (l’exemplum di Guillaume de Nevers per primo)40. Le due varianti principali del ciclo della scommessa nella versione «moglie», in ambito romanzesco, sembrano comunque da riconoscere in un Ur-Comte de Poitiers e un Ur-Madonna Elena. Queste due versioni e la versione «sorella» si collocano tutte all’inizio del XIII secolo. 6. Inflessfone mfracolfstfca Si è visto che fin dal XIII secolo le versioni romanzesche sono accompagnate da versioni «miracolistiche». Ben tre racconti della Compilacio singularis exemplorum sono inclusi da Gaston Paris nella sua rassegna del ciclo. Il Guillaume de Nevers è probabilmente rielaborazione di un poemetto romanzesco vicino al Guillaume de Dôle; nel terzo miracolo abbiamo osservato la consonanza, in tutta la prima parte, con il Madonna Elena; il primo miracolo appartiene al gruppo caratterizzato dalla conclusione «dito tagliato», e, come la ballata scozzese The twa knights e il poemetto tedesco Von zwei kaufmänner mantiene a prima vista appare insignificante perché si tratta di una pura formula di cortesia: quando l’imperatore comunica a Guillaume l’intenzione di sposare sua sorella, il cavaliere commosso «Joinctes ses mains li a offertes; Si dit qu’il est a toz jors soeuz » (vv. 3089-90); e anche il «cattivo» quando va a trovare la madre le dice «qu’il ert a toz jors soeus » (v. 3368). La stessa formula si ritrova e nella scena d’apertura del Madonna Elena, quando Carlo dice a Rugieri: «Gentil cavalieri/…/ tu se’ sì bello che se tua moglieri / è come te tu ti può contentare», e questi risponde: «Santa corona, egli è vostro l’avere e la persona » (Moreniano Bigazzi 213, ott. 15); e nel colloquio fra il «cattivo» e la cameriera: «la mia persona è vostra a lo ver dire» (Moreniano-Bigazzi 213, ott. 37). Il Roman de la Violette (che imitava il Guillaume de Dôle) porta ugualmente: «Des ore mais, par saint Thumas, Sui vostre hom» (v. 669-70). E in Doon de la Roche, quando il re Pepino comunica a Doon la decisione di dargli la propria sorella in moglie, il cavaliere risponde: «Mes cuers et mes avoirs vos sont abandoné» (96). La situazione corrisponde a quella in cui l’imperatore comunica a Guillaume di voler sposare la sua sorella. La formula non si ritrova nelle altre versioni della storia. 40 Il Koenig pensa che all’inizio esistessero tre tipi distinti di racconto: uno a soluzione «dito tagliato», uno con la sorella, e uno con la moglie, e che il «ciclo della scommessa» sia il risultato di continue e successive contaminazioni. Ma la vicinanza che abbiamo rilevato fra il Guillaume de Dôle, il Comte de Poitiers, il Madonna Elena e il Doon de la Roche permette di pensare in termini di derivazione almeno del tipo con sorella da quello con moglie. Evidentemente, Jean Renart voleva fare un romanzo cortese, e condurre la sua narrazione in modo da concluderla con un matrimonio, sul modello di tanti altri romanzi cortesi e d’avventura – le altre versioni esistenti a quell’altezza sembrano appartenere piuttosto all’ambito carolingio (e forse al genere dell’exemplum). Per poter concludere il romanzo con un matrimonio è essenziale che i protagonisti della storia non siano marito e moglie. Si ricordi la ibrida soluzione del Roman de la Violette, che si conclude ugualmente con il matrimonio, in cui Euriaut è «l’amie» di Gerars, ma abita già tranquillamente nel castello di lui.

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tutta la storia nell’ambito di una vicenda familiare (non feudale). Ora, la concentrazione di storie del ciclo della scommessa in una compilazione miracolistica induce a riflettere, soprattutto se si presta attenzione a un certo spirito di pietà che si riscontra nel seno stesso delle elaborazioni romanzesche, particolarmente nel Comte de Poitiers e nel Madonna Elena. Più ancora che nelle esplicite affermazioni del Cantare: Ma Yehsu Christo padre onipotente si la sostenne e volsela aiutare, perch’elli sapea bene ciertamente ch’Elena non avea fatto quel male (Moreniano Bigazzi, ott. 44) […] «Falso traditore! Come puoi dir così gram falimento, che non m’aiuti Idio nostro signore se io ti vidi mai per nessum tempo…» (Moreniano Bigazzi, ott. 54) […] «O traditore felone hor te difendi ch’el te fa mistieri: scanpare no puo’ per la toa tradizone». (Perugia, ott. 48),

il carattere miracolistico del racconto si rivela nella soluzione dell’intrigo: la disparità fra gli avversari nel duello giudiziario che conclude la storia è così grande che la vittoria di Elena rivela necessariamente l’intervento divino. Il cantare sottolinea il disagio del «cattivo» stesso nel misurarsi in battaglia con la donna: Messer Guernieri im su la piassa armato schifava molto dello incominciare; (Moreniano Bigazzi, ott. 59),

e l’atteggiamento di Guernieri trova una consonanza nell’atteggiamento del sénéschal del Guillaume de Dôle, quando la sorella di Guillaume lo accusa (falsamente) di un furto che egli non ha commesso: Si resgarde le seneschal Qui tot ce ne prisoit .j. ail, Ainz le tient a borde et a songe, Com ce qui tout estoit mençonge (Ce savoit ele plus que nus). (vv. 4779-4783)

Convinto di furto, il sénéschal chiede allora un «giudizio di Dio», e la donna stessa […] prie Deu, si fetement Com el n’i a deservi perte, Qu’il i face miracle aperte; Par laienz dient tuit Amen. (vv. 4974-77).

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Il carattere eccezionale, da vero e proprio giudizio di Dio, della soluzione è perso nel Comte de Poitiers (vedremo più avanti che la seconda parte del poemetto mostra chiari segni di rifacimento); ma anche qui la donna, messa di fronte alle prove che la convincono di infedeltà, alla corte del re, protesta: S’en trai Nostre Dame a tesmon A cui jou sui ancele lige. (vv. 424-25)

e nell’imminenza di essere ammazzata dal marito si rivolge di nuovo alla Vergine con espressioni più devote di quelle che si incontrano solitamente nelle preghiere dei poemi epico-romanzeschi: Mere Dieu et virge pucele, M’onour, mon cors, m’ame et ma vie Mech hui en vostre avoerie. S’onques amastes casteé Tensés moi viers mon avoé Qui la tient nue cele espee Que jou ne soie desmembree». (vv. 544-550)

Il «cattivo» che si è impadronito del castello di Poitiers, nel rivelare il suo tradimento afferma della contessa: La mere Dieu qu’el servoit tant Li a fait molt povre garant, Car li quens li trencha le chief. (825-827)

Il narratore stesso poi commenta: Segnor, c’est voirs, ensi creons, C’ains ne fu mortex traïsons Tant orible ne tant coverte Que enviers Dieu ne soit aperte. La contesse ot honte et tort, Mais Diex le ramena a port. (vv. 863-868)

Si insinua insomma il sospetto che dietro il Comte de Poitiers si trovasse un’elaborazione clericale da «Miracles de Nostre Dame», sospetto rafforzato dalla inconsueta brevità del poemetto: 1719 versi, di cui la storia compresa nel ciclo della scommessa conta soltanto 1229. Sospetto che rafforzerebbe l’ipotesi emessa precedentemente sul possibile carattere primitivo della versione Madonna Elena col suo miracoloso duello risolutorio41. 41 Secondo Ferdinando Bologna, la storia di Elena di Narbona «sembra costituire in termini puramente romanzi una vera e propria versione incrociata delle storie di Susanna e di Giuditta, con

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Le modifiche del Comte de Poitiers si spiegano con la volontà di adeguare il racconto per l’appunto alle regole del romanzo feudale e laico, che attribuiva normalmente al cavaliere il ruolo di protagonista e un ruolo invece passivo alle donne. Ma che la soluzione finale dovesse avere un carattere da vero e proprio «giudizio di Dio» nella primitiva tradizione romanzesca sembra confermato dall’analogia con un poema che presenta una simile storia di moglie ingiustamente accusata e finalmente riscattata: il Macaire della Geste Francor42, che riprende una chanson de geste francese perduta, nota come la storia della Reine Sebile43. Qui la moglie di Carlomagno respinge le profferte amorose di Macaire e questi per vendicarsi si accorda con un nano che si fa trovare dall’imperatore nel suo letto accanto alla regina addormentata (motivo strettamente corrispondente a quello utilizzato dal Doon de la Roche). La regina, dapprima condannata a essere arsa, viene poi risparmiata perché si trova incinta, ed è esiliata dal regno. L’accompagna il giovane e gentile Albaris. Macario insegue i due e uccide Albaris, poi torna a Parigi. Ma il cane del giovane cavaliere, che veglia il corpo del suo padrone, spinto dalla fame torna alla corte di Carlomagno e, vedendo Macario, gli si avventa al viso. Carlo e i suoi consiglieri seguono il cane, trovano il corpo di Albaris e capiscono che l’uccisore è Macario. Di fronte ai dinieghi di Macario, e poiché nessuno osa affrontarlo in duello, i giudici deliberano di farlo lottare col cane d’Albaris: Q’el se prenda Macario qi n’est calonçé, Et in guarnelo elo sia despoilé, E in man aça un baston d’un braço smesuré E sor la plaça soia fato un astelé. Macario e li can soia dentro mené […] Se li can est vinto, el soia delivré, E se Machario è por lui afolé, Demantenent el soia çuçé Como traites e malvasio renoié. (vv. 14462-14473)

Persino i parenti di Macario sono lieti della decisione: «Nen cuitoit mie le l’innesto dell’episodio relativo al tradimento e alla punizione nelle fiamme della camerista infedele» (F. Bologna 1975, p. 175). 42 La datazione del Macaire è, come si sa, controversa. Aldo Rosellini l’attribuisce ancora al XIII secolo; altri studiosi hanno spostato al XIV secolo la composizione del manoscritto. Cfr. La «Geste Francor» di Venezia, a cura di Aldo Rosellfnf, 1986, pp. 20-23. 43 Della Reine Sebile restano però soltanto frammenti, perciò facciamo riferimento al Macaire franco-italiano. La chanson francese era già nota nella prima metà del Duecento: la si trova riassunta nel Chronicon di Albéric des Trois-Fontaines (morto nel 1252 circa), iniziato nel 1232 e che riporta avvenimenti solo fino al 1241 (nel riassunto compare già l’episodio del duello giudiziario con il cane: « de cane venatico eiusdem Albrici, qui dictum Macharium in presentia Karoli Parisiis duello mirabili devicit »). Cfr. M. Bergo 2014/2015, pp. 12-14. La storia della Reine Sebile ritornerà poi nel Roman des Déduis, trattato di caccia di Gace de la Buigne, composto fra il 1359 e il 1377.

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fato fose si alé Qe por un can fose vinto ni maté (vv. 14480-81). Ma il cane mette invece Macario talmente a malpartito che il traditore invoca l’imperatore: O çentil rois nobele e sovran, No me lasar morir a tel torman; Fa moi venir un qualche çapelan Qe voio conter tot li mon engan». (vv. 14583-85)

Costretto a confessare i suoi misfatti davanti all’imperatore e agli altri consiglieri, Macario è trascinato da cavalli «Par tot Paris e davant e darer», poi bruciato (vv. 14694-14709). Il motivo del cane che, presentandosi a corte, attacca l’assassino del suo padrone e ne provoca la condanna è un motivo di antica origine classica, e noto nel Medioevo44. Il particolare che il cane sbrani la faccia del cattivo di turno potrebbe essere ripreso dal Guillaume de Palerne, ma il motivo dell’impari lotta come «giudizio di Dio» è lo stesso della lotta che conclude l’analoga vicenda del Madonna Elena. L’abate di San Denis che ascolta la confessione del traditore sottolinea la sacralità dell’evento: Qe questo est un miracolo de Dé, Quando un can a un tel homo afolé (vv. 14617-18).

Si direbbe quindi che un motivo simile al duello giudiziario come appare nel Madonna Elena, con quella carica di meraviglia suscitata dal prevalere di un avversario giudicato da tutti sproporzionatamente più debole, sia stato avvertito come appropriato per risolvere un’analoga vicenda di moglie calunniata. Forse l’episodio del duello di Madonna Elena col ‘cattivo’ è una sostituzione del motivo, più plausibile perché più noto, del duello con il cane; ma non sarebbe del tutto assurdo pensare anche alla direzione contraria. Difficile dire se questa innovazione sia avvenuta in area italiana o fosse già presente in un testo francese. 7. Altre consonanze Lo stratagemma usato per perdere la regina collega poi il Macaire (o piuttosto la Reine Sebile) in maniera precisa alla chanson de geste Doon de la Roche, un’altra storia di moglie accusata ingiustamente di adulterio e ingiustamente punita, che fu composta «au plus tard dans les premières années du XIIIe siècle». Anche qui 44 Matteo Bergo cita le testimonianze di Plutarco, dell’Exameron di Ambrogio, dell’Itnerarium Cambriae di Giraldus Cambrensis, e insiste sui valori simbolici attribuiti al cane nella cultura medievale. Cfr. M. Bergo 2014/15, pp. 18-23.

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un cattivo, della razza dei traditori («oncles fu Guenelon» v. 119), dapprima denuncia a Doon la moglie Olive come infedele, poi introduce nel letto della donna, addormentata, un «garçon» e lo mostra al marito. Questi taglia immediatamente la testa al povero giovanotto, ed è trattenuto a stento dai suoi amici dal fare lo stesso alla moglie. Poiché Olive è la sorella del re Pipino, si manda un messo a chiamare il re che venga a giudicare la sorella (si noterà che, invertita, è la stessa situazione che si ha nel Comte de Poitiers quando si manda un messo a cercare la moglie perché venga a corte davanti al re; e si noti anche che la scena si svolge a Colonia, la stessa città dove è posta l’azione del Guillaume de Dôle ). Si ricorderà a questo punto che nel Madonna Elena è il marito stesso che, ottenuta dal re una proroga di pochi giorni, corre a punire la moglie. Atroce poi la circostanza che il cavaliere furibondo tagli la testa addirittura ai suoi due bambini che gli andavano incontro: Madona Lena […] chiamò suo fioli Arnaldo, Çiroldino, incontra al padre li mandò de bom core, çiascuno de loro li fieçe uno belo inchino, misiere Uçiero li disse piem de furore: «Bastardi filii, cui no sidi de mia iesta!» Com la spada a çiascuno taliò la testa. (ms. di Perugia, ott. 32)

Fra i racconti del ciclo della scommessa questo tratto narrativo è un unicum. Ma la variazione del Madonna Elena non è senza riscontro precisamente con la vicenda del Doon de la Roche. Doon aveva avuto dalla moglie un bel bambino, Landri, che egli rinnega nei suoi rimproveri alla moglie: «Mais ne vos amerai ne vostre fil Landri; Par la foi que doi Dieu, onques ne m’apartint, Onques ne l’engendrai ne il n’est pas mes filz». (vv. 238-240)

E quando il traditore, Tomile, prospetta a Doon l’infamia delle corna («Si seras cous clamez, ce dïent li enfant», v. 276), Il issi de la chambre correciez et dolenz Et trova la norrice sus au palais seant Et Landriet son fil dedens le berz plorant. Quant li enfes le voit, si li rit bonement, Et li dus le bota de son pié laidement, Que li berz reversa et l’enfes chied adens: Li viaires li fiert desus le pavement; Bien i parut la plaie jusqu’as armes portant. (vv. 279-286)

Nel Doon de la Roche il figlio non viene ucciso perché la chanson appartiene fondamentalmente al tipo di racconto in cui un figlio, arrivato all’età adulta,

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vendica finalmente la madre ingiustamente perseguitata. Ma una simile realizzazione dell’episodio conferma l’interesse della versione del Madonna Elena. Stabilita la concordanza, si pone il problema della direzione del prestito. Probabilmente è stato l’Ur-Madonna Elena ad attingere dal Doon de la Roche, o da un racconto analogo. Nella versione del cantare appare un’incongruenza, in quanto nessuno spiega alla moglie quello che è successo a corte, e non si capisce perché ella arrivi a corte accusando il cattivo di un furto di cui lei non sapeva nulla. È anche narrativamente poco solido il tratto per cui il marito, già sentenziato a morte e pronto alla decapitazione, ottenga una proroga per andare a punire la moglie. Inoltre, nel Doon de la Roche e nel Macaire l’episodio è collocato in posizione «forte», all’inizio del romanzo (è quello che «fa partire» la storia) e poteva quindi essere facilmente ricordato. Ai primi del Ducento era dunque vivo un motivo che prevedeva una falsa accusa di infedeltà alla moglie di un «eroe» tramite l’intromissione di un uomo nel letto della regina inconsapevole, e in cui la conseguenza della convinzione era l’esilio della donna. Doveva trattarsi di una tradizione distinta e diversa da quella della «scommessa» ma, evidentemente, facilmente contaminabile con quella. E infatti, il Koenig aveva già segnalato l’influenza del Doon de la Roche sulla redazione conservata del Comte de Poitiers; influenza evidente, per esempio, nelle proteste della povera moglie a voler sottomettersi al più terribile «juïse» per provare la propria innocenza, e nell’indifferenza che queste incontrano. È possibile che anche il nome del re Pépin del Comte de Poitiers (Luigi invece nel Madonna Elena e nel Roman de la Violette) derivi dal Doon de la Roche, e magari anche il nome di Jofroi, che nel Doon è uno dei tre amici che intercedono per Olive davanti al marito e al re Pipino: «Adonc parla Moriz, Amauris et Jofroiz; Li .j. est niés Doon, sui cosin sont li doi» (vv. 370-371). Si osservi che Doon de la Roche, Reine Sebile, Poitiers e Madonna Elena appartengono tutti al ciclo carolingio: il Guillaume de Dôle ha dunque anche la responsabilità di aver per primo assunto il motivo nell’ambito del genere romanzesco e cortese. E se ammettiamo che il Doon de la Roche, o un racconto analogo abbia influenzato quella particolare articolazione della storia in cui la moglie doveva essere avvertita della calunnia, ne risulta che il Guillaume de Dôle conservi nella corsa furiosa del nipote-cugino Jofroi la forma che il tratto doveva avere prima di essere stato rielaborato in un Ur-Madonna Elena. 8. Conclusfonf Per tirare le fila della lunga dimostrazione ed esporre ordinatamente lo svolgimento dei «fatti»: tra la fine dell’XII e l’inizio del XIII secolo doveva aver preso consistenza la storia di una donna di cui il marito vanta la virtù in una corte, è inutilmente insidiata da un avversario del marito che si procura false prove e convince il marito della colpevolezza della moglie; la donna

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avvertita si reca a corte e smaschera il colpevole con uno stratagemma spettacolare45. Potremmo chiamare questa storia, sulla scorta del Guillaume de Dôle che è il più antico romanzo ad averne fatto uso, il «conte de la rose». Il Guillaume de Dôle ne conserva la struttura compatta e alcuni tratti narrativi, ma modifica profondamente i dati e il senso della storia, per farne un romanzo cortese. In particolare complica lo stratagemma usato dalla donna per smascherare il colpevole e rovescia la richiesta del giudizio di Dio, introducendo il motivo dell’accusa di violenza e del giuramento «Questa donna, io non l’ho mai vista». Dal «conte de la rose» derivano due versioni: un UrComte de Poitiers e un Ur-Madonna Elena. Il Comte de Poitiers trasforma fondamentalmente il tono della storia in quanto 1) la posta in gioco è il feudo, non la vita dei due contendenti; b) attribuisce al marito, non alla donna, il merito della riscossa; c) trasforma l’incredibile «giudizio di Dio» in un più convenzionale duello giudiziario. In questo modo adegua il racconto ai più consueti moduli del romanzo epico-cavalleresco che prevedono, insieme a una struttura narrativa di fondo, una serie di peripezie e di exploits attribuiti a un cavaliere. Le modifiche ai dati del modello sono condotte sulla scorta del Doon de la Roche, dell’Erec di Chrétien de Troyes e di un racconto del tipo Manekine: è infatti dall’Erec che dipendono il tratto narrativo in cui il marito conduce con sé nella foresta la moglie che lo avverte di un pericolo imminente, e il fatto che il marito ritrovi la moglie proprio il giorno del suo forzato matrimonio con un altro. Del ciclo della Manekine è tipico il tratto secondo cui un cavaliere trova la donna abbandonata nella foresta e la vuole sposare contro il parere dei suoi vassalli che credono la donna di condizione ignobile46. L’Ur-Madonna Elena si lascia a sua volta influenzare dal tipo di racconto che era stato incorporato nel Doon de la Roche, in quanto attribuisce la punizione della donna direttamente al marito; e in questa forma contribuisce a uno degli exempla del ms. di Tours. Conserva tuttavia il dato arcaico che la posta in gioco della contesa sia la vita del marito e il sapore «miracolistico» della conclusione nell’improbabile vittoria della donna. La versione italiana del Cantare colloca l’incidente che «scatena» l’azione nel contesto di una gara di vanti. Non è facile determinare se questo tratto appartenesse già all’Ur-Madonna Elena o sia stato incorporato al racconto in uno stadio successivo, visto che il Miracolo di Tours ha una situazione iniziale differente. Che il motivo esistesse già prima del 1300 è dimostrato da una concordanza quasi testuale con il Novellino:

45 La storia esisteva già precedentemente con una soluzione del tipo «dito tagliato»; si parla quindi di uno stadio «primitivo» rispetto alle versioni romanzesche conosciute ma che si iscrive in realtà in una più lunga vicenda evolutiva. 46 Cfr. vv. 911-12: Grant duel en ont li palasin. La dame quident de bas lin.

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Nel riposare, la sera, e ‘cavalieri si cominciaro a vantare, in sull’allegrezze loro, chi di bella giostra, chi di bello castello, chi di bello astore, chi di ricca ventura; e ’l cavaliere non si poteo tenere che non si vantasse ch’amava sì bella donna47.

La testimonianza del Novellino coincide però in misura ben più estesa con la versione del Liombruno, secondo la quale la gara di vanti ha luogo dopo un torneo, in cui l’eroe è apparso il migliore, e ha come risultato di far rivelare all’eroe il segreto compromettente del suo amore. Non è da escludere quindi che la situazione iniziale del Madonna Elena derivi da una narrazione che presentasse già in maniera evidente il motivo incorporato nel Novellino e nel Liombruno48. Ma anche ammettendo il carattere derivato della gara di vanti nella situazione iniziale resta il fatto che ancora una volta si ripresenta il puzzle di tarde testimonianze italiane che, lungi dal rappresentare il punto di arrivo di una lunga serie di rifacimenti successivi, riproducono «fedelmente» poemi francesi scomparsi di notevole antichità. Al di là delle ipotesi, o delle acquisizioni, sul piano della ricostruzione storico-letteraria, ci pare che l’esplorazione della preistoria dei cantari italiani serva a portare in primo piano e a dare concretezza alla vicenda di trasmissione, conservazione e rifacimento delle composizioni narrative d’intrattenimento che è così tipica della pratica medievale. E mentre ci introduce nell’«officina» mentale dei rifacitori e può servire a sostanziare gli studi sulla narratività medievale, dimostra allo stesso tempo la dipendenza di questa vicenda dalle circostanze della produzione e della comunicazione letteraria medievale, aiutandoci a meglio riconoscere lo straordinario complesso di ragioni ideali e di ragioni storiche che caratterizzano l’attività letteraria in tutti i tempi.

Novellino LXIV, pp. 271-72. Il Levi, segnalando la straordinaria somiglianza del dettato delle strofe che enumerano i vanti, emetteva l’ipotesi che il Liombruno potesse avere imitato il Madonna Elena. Ma la consistenza del motivo dimostrata dalla coincidenza fra Novellino e Liombruno mette in questione l’ipotesi del Levi. 47 48

Lettura in filigrana della novella di Zinevra (Decameron II.9)*

Nell’ormai classica edizione delle opere del Boccaccio a cura di Vittore Branca, la nota iniziale alla novella di Decameron II.9 informa che «gli antecedenti, i paralleli, la fortuna di questa novella sono stati indagati con speciale accanimento data la ripresa illustre nel Cymbeline di Shakespeare»; e fra questi antecedenti e paralleli sono menzionati i poemi romanzeschi francesi Le comte de Poitiers e il Roman de la Violette, il racconto in prosa Dou roi Flore et de la bielle Jehane, il «miracolo» (più precisamente, una specie di sacra rappresentazioone) Oton roi d’Espagne, il Cantare di Madonna Elena, e finalmente «un racconto forse trecentesco», come quelli che il Branca considera più vicini alla cultura del Boccaccio. Ma, pagato questo tributo alle erudite ricerche sulle fonti della novella, il Branca indica come più probabile background della novella lo sfuggente dominio delle comunicazioni orali: «Si ha l’impressione che la novella del Boccaccio riecheggi soprattutto racconti di mercanti italiani provenienti di Francia», insistendo anzi: «È inutile ricordare quanti e quali rapporti abbia avuto il Boccaccio con gli ambienti mercantili italiani di Parigi». Forse sulla base di questo giudizio Alberto Asor Rosa, nella pur interessante disamina delle strutture del Decameron, apparsa nel volume dedicato a Le Opere della Letteratura Italiana Einaudi, include la novella di Zinevra fra quelle per le quali «non è possibile indicare in nessun modo un possibile aggancio con le tradizioni narrative precedenti»1. A me pare che sia possibile, in realtà, riprendere in mano la questione e individuare con un certo grado di plausibilità molti dei materiali narrativi di cui il Boccaccio si è servito nella «confezione» della novella. L’interesse dell’operazione non risiede tanto nella soddisfazione erudita di indicare le «fonti» del Boccaccio quanto, piuttosto, nella pos* 1

Pubblicato dapprima in Da una riva e dall’altra, 1995, pp. 171-188. A. Asor Rosa 1992, p. 564.

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sibilità di renderci meglio conto di «come lavorava» la fantasia del Boccaccio e, ancor più, della sua straordinaria capacità di utilizzare il materiale letterario preesistente rifondendolo in un organismo inconfondibimente suo. Prima di affrontare la questione, bisognerà sgombrare il campo da un ostacolo apparente, rappresentato dall’affermazione che fra gli antecedenti del Boccaccio vada annoverata la novella italiana trecentesca pubblicata prima dal Lami, poi dallo Zambrini e riprodotta nello studio dell’Almansi2. Infatti la novella anonima presenta una somiglianza così precisa, e sostenuta lungo tutto il racconto, con la novella di Zinevra che se dovesse essere riconosciuta come più antica di quest’ultima, non di un semplice antecedente si tratterebbe ma della fonte del Boccaccio, nell’accezione più rigorosa e ristretta. L’ipotesi più plausibile è invece quella contraria, che cioè la novella anonima dipenda servilmente dalla creazione boccacciana. R. Ohle sostenne l’anteriorità della novella anonima perché 1) la situazione iniziale è ambientata nel corso di una «festa», come nelle versioni romanzesche francesi (Poitiers, Violette) e 2) il marito comunica alla moglie la ragione della sua intenzione omicida e le prove che il Cherico aveva portato per convincerlo dell’adulterio: questo rende meglio comprensibile che nella novella del Boccaccio l’improvvisa intuizione della donna che, vedendo i suoi oggetti personali esposti al mercato di Acri, capisce di quale inganno era stata vittima. A questi argomenti si può rispondere che: 1) l’ambientazione nel corso di una festa, appena menzionata di sfuggita sia nella novella che nei poemi francesi, è un luogo talmente comune nelle storie romanzesche che non costituisce di per sé una prova solida; 2) la versione della novella anonima può benissimo rappresentare una razionalizzazione del rifacitore, proprio per rendere meglio comprensibile lo svolgimento delle vicende quali si trovano nel racconto modello3. Vero è, piuttosto, che nella situazione iniziale la progressione nello sviluppo della discussione che conduce alla scommessa, propria al Boccaccio, viene ridotta a una scarna e schematica contrapposizione fra due avversari, e che questo tratto è più vicino, in effetti, alla versione francese e al Cantare di Madonna Elena che alla versione boccacciana. Ma appunto, nel corso del Trecento, circolavano in Italia almeno due versioni della novella: quella del Boccaccio e quella riflessa nel Cantare di Madonna Elena, e non è sorprendente che per qualche tratto il narratore anonimo abbia orecchiato anche la storia diffusa dal cantare. Si vorrebbe attirare l’attenzione, piuttosto, sul fatto che i tratti distintivi della novella anonima (per esempio le chiacchiere del giovane da Genova all’inizio del racconto, gli indugi nelle trattative con la femmina «che faceva servigio alle donne», la tempestosa comunicazione alla moglie delle prove dell’avversario, la cattura dei cristiani alla corte del Gran Cane, ecc.) non hanno nessun riscontro in versioni 2 G. Lami 1756, col. 673-676, 705-708, 737-741, 769-776; D. M. Manni, Appendice 1820, pp. 4-51; F. Zambrini, Due novelle 1859; G. Almansi 1976, pp. 81-90. 3 Cfr. E. Vinaver 1971.

Lettura in filigrana della novella di Zinevra

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della novella della scommessa sicuramente antecedenti alla novella del Boccaccio. Sono però perfettamente comprensibili o come adozione di motivi estremamente diffusi nella narrativa di larga comunicazione come i cantari4, o come sviluppi di tratti distintivi della coppia Boccaccio-novella anonima, per esempio: la posta consistente in una somma di denaro, la progressione nella rivelazione delle prove dell’adulterio, lo stratagemma della cassa. In particolare, vorrei segnalare la descrizione delle doti della donna: nel Boccaccio, le lodi del marito all’inizio del racconto includono qualità diverse da quelle della tradizione (bellezza e fedeltà): niuno scudiero, o famigliare che dir vogliamo, diceva trovarsi il quale meglio né più accortamente servisse ad una tavola d’un signore, che serviva ella […] Appresso questo, la commendò meglio […] leggere e scrivere e fare una ragione che se mercatante fosse.

Nella novella anonima, le lodi all’inizio del racconto tornano a essere quelle tradizionali ed espresse in forma generica («avea la più savia donna di moglie, e la più bella, e la più onesta, che sia in Genova»); ma quando la donna si presenta al padrone della nave, e questo (con una mossa da racconto popolare), le chiede «Che sai tu fare?», la risposta suona: «Messere, io sono buono Ragioniere, e buono Scrittore, e bem so servire a tavola». Un’affermazione che rivela un contatto diretto con la novella di Zinevra. So bene, tuttavia, che i tentativi di stabilire la direzione della relazione fra due racconti sono sempre estremamente aleatori, soprattutto se confinati al raffronto fra due soli testi. Le ragioni per cui mi sembra insostenibile la derivazione della novella di Zinevra dalla novella anonima appariranno più convincenti, spero, alla fine di tutto il percorso che mi accingo a compiere, trascorrendo fra la novella del Boccaccio e le altre versioni medievali del ciclo della scommessa. Partiamo dunque da una ricognizione delle narrazioni appartenenti al ciclo della scommessa, di cui anche la novella di Zinevra fa parte. E bisognerà offrire una panoramica delle versioni del ciclo anteriori o contemporanee al Boccaccio per capire in quale zona del quadro si colloca la novella di Zinevra5. Dal punto di vista della struttura narrativa, i racconti del ciclo della scommessa si possono suddividere in due grandi categorie: nell’una, la convinzione 4 Per esempio, il tratto secondo cui il giovane ha speso tutto quello che aveva in cortesia, non è solo comune alle novelle di Federigo degli Alberighi e di Nastagio degli Onesti, ma si trova anche, e con attinenza più precisa, nel cantare del Bel Gherardino: «e come tutto ciò che egli avìa, / egli l’aveva spesa in cortesia» (I, xxvi.7-8), cfr. «e questi cinquanta migliaia di Fiorini d’oro, ch’i’ ò manchi, ò speso in cortesie e in piacere altrui«. Sempre nel Bel Gherardino compare il motivo dei naufraghi cristiani che vengono fatti prigionieri in un porto saraceno; nell’episodio del riconoscimento finale della femminilità di Sicuran da Finale, la novella anonima tratteggia l’episodio in una forma che ricorda da vicino un episodio corrispondente del cantare di Madonna Lionessa. 5 La mia classificazione si discosta da quella di Gaston Paris in quanto adotta come criteri discriminanti dati relativi alla struttura dei racconti e non dati contenutistici.

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dell’adulterio della donna ha come conseguenza una punizione immediata e irreversibile (la pena di morte). Il che comporta che anche la dimostrazione dell’innocenza della donna avvenga in maniera subitanea, a evitare – in extremis – l’avverarsi di quella punizione; l’episodio della dimostrazione di innocenza si colloca subito dopo quello della convinzione, e il racconto si conclude immediatamente, e naturalmente, dopo questa dimostrazione. Nella seconda categoria, conseguenza della convinzione è non la morte ma la perdita dei beni. Ciò permette al narratore di seguire a lungo le peripezie dei personaggi dopo la cessione dei beni, la conclusione si allontana, spesso il racconto raggiunge la soluzione a tappe (per esempio, riconoscimento dell’innocenza, ritrovamento della moglie, convinzione del colpevole). Ciascuna di queste grandi categorie si suddivide, poi, in due gruppi: nelle versioni «a conclusione immediata», la punizione puo essere comminata alla moglie, o al marito; in quelle «a conclusione differita», la continuazione può essere centrata sulle peripezie della moglie, o su quelle del marito. Ora, i racconti in cui la convinzione d’adulterio comporta la punizione della moglie sono tutti ambientati, per così dire, in famiglia: i personaggi sono il marito, la moglie, l’altro, e il parentado che, alla fine del racconto, deve fare da testimone e da giudice della convinzione d’adulterio e della dimostrazione d’innocenza. Questo gruppo è rappresentato dalla ballata scozzese The twa Knights6, da un miracolo trasmesso dal ms. 468 di Tours7, e dal poemetto tedesco Von zwein Koufmannen, di un Ruprecht von Würzburg (attribuibile agli anni a cavallo tra la fine del XIII e gli inizi del XIV secolo)8. Nel secondo gruppo della prima categoria, lo strano motivo per cui conseguenza dell’adulterio della donna sarà la punizione dell’uomo (marito o fratello) trova ragione nell’ambientazione del racconto: il vanto dell’uomo ha infatti luogo davanti a un re che appare direttamente interessato alla verifica del vanto. Nella gallese Storia di Taliesin il marito contrappone la propria moglie a quella del re, e il suo vanto si configura quindi come una specie di delitto di lesa maestà9; nel canto greco di Maurianòs è il re stesso che fa la scommessa con il fratello di Aretè10; nel roman francese Guillaume de Dole l’imperatore doveva prendere in moglie la donna11; si capisce dunque che la conseguenza della «falsificazione» del vanto si ripercuota in maniera drammatica su chi aveva osato proporlo davanti a un’autorità dispotica12. A questo gruppo andrà attribuito anche il cantare italiano di Madonna Elena, in cui la punizione originariamente minacciata da un re dispotico è The English and Scottish Popular Ballads, 1894, n. 268. Copia quattrocentesca di una raccolta di exempla della fine del XIII secolo, pubblicati da A. Hilka, 1912. 8 F. H. Von der Hagen 1850. Si veda inoltre la tesi di Ch. Gutknecht 1971. 9 Traduzione inglese in The Mabinogion and other Medieval Welsh Tales 1977, pp. 164-169. 10 Eklogai apo ta tragoudia tou Ellenikou Laou, 1969, pp. 111-114. 11 Jean Renart 1893. 12 Il Guillaume de Dole non prevede esplicitamente una pena di morte; tuttavia l’andamento compatto della storia e le allusioni a una morte che aspetterebbe Guillaume, probabilmente spie di 6 7

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diventata l’assurda posta in gioco dei due scommettitori, garantita dall’autorità dell’imperatore. È nei racconti di questo gruppo che si insinua l’ulteriore divaricazione nel rapporto fra l’uomo e la donna: in Hanes Taliesin e nel Madonna Elena la donna è moglie del protagonista; nel Guillaume de Dole e in certe versioni del Maurianòs la donna è sorella. La versione con sorella, col Guillaume de Dole come modello più autorevole dà luogo a una tradizione successiva notevolmente compatta (in cui il motivo della morte dell’uomo è scomparso) che comprende, per questi primi secoli, il miracolo Guillaume de Nevers e una Nouvelle de Sens13. Fra le versioni che prevedono la perdita dei beni, e quindi la continuazione del racconto, i poemetti francesi Le comte de Poitiers e Roman de la Violette, inserendosi nella tradizione dei romanzi cortesi di esaltazione delle imprese di un cavaliere, pongono l’accento sugli exploits del marito: è lui che, travestito, sorprende la confessione del colpevole, che compie imprese cavalleresche, che ritrova la moglie e che, infine, confonde il colpevole in duello14. La moglie è rimasta tutto il tempo in disparte, nel castello di un signore che l’ha raccolta per pietà, finché non viene ritrovata dal marito, già informato della sua innocenza15. In due racconti in prosa, invece, Dou roi Flore et de la belle Jehane e un altro miracolo del ms 468 di Tours (f. 165v), il narratore sposta l’attenzione sulle azioni della donna, anche se le versioni sono fortemente divaricate: la belle Jehane si traveste da scudiero, raggiunge il marito che è partito disperato, lo sovviene dei suoi beni e dei suoi servizi per sette anni e finalmente induce il marito a sfidare il colpevole, provando, con la vittoria nel duello, la mendacia del seduttore16. Nel miracolo di Tours, la donna si traveste da monaco e l’abate del convento lo prende in tanta stima che lo invia al re della regione come elemosiniere; qui la donna ritrova il marito fra i poveri; i due si riconciliano e la donna proverà poi la sua innocenza davanti al re17. Questa rapida ricognizione permette di affermare che, nella costellazione delle versioni del ciclo della scommessa, la novella di Zinevra si colloca senz’alcun dubbio nell’ultimo dei gruppi descritti: i due avversari scommettono delle ricchezze, il racconto prosegue a lungo dopo la convinzione d’adulterio, e la continuazione centra l’attenzione sulle avventure della donna. Se, tuttavia, ci rivolgiamo agli altri racconti due-trecenteschi dello stesso gruppo per cercare concordanze più precise con la novella del Boccaccio, attingiamo magri risultati. Gli unici punti di contatto rilevabili consistono a) nel travestimento della donna in vesti maschili, b) nella progressione secondo la quale la donna si una storia sulla quale lavorava l’autore del Guillaume, includono il poemetto di Jean Renart in questo gruppo. 13 F. Koenig 1948; E. Langlois 1889, pp. 226-229. 14 Le roman du Comte de Poitiers, 1940; Gerbert de Montreuil 1928. 15 Nel Roman de la Violette «amie». 16 In Théâtre français du Moyen Age, 1843, pp. 417-430. 17 Cfr. J-T. Welter 1973.

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pone al servizio di un signore e da questo passa al servizio di un’autorità più alta18. È un po’ poco per ricostruire la fisionomia di una versione che avrebbe fatto da fonte al Boccaccio. Oltretutto, le versioni francesi dell’ultimo gruppo conservano alla vicenda un’ambientazione feudale, mentre già Gaston Paris, seguito da Vittore Branca, sottolineava come caratteristica della novella del Decameron la sua ambientazione borghese: «Les personnages du récit, rois, grands seigneurs ou chevaliers dans toutes les autres versions anciennes, sont devenus ici des simples marchands de Gênes et de Florence»19. Ora, questo non è esatto. Una delle versioni del ciclo sicuramente anteriore al Boccaccio è intitolata addirittura Dei due mercanti, e la sostanza borghese dei protagonisti entra chiaramente a far parte del racconto. Si tratta del poemetto tedesco Von zwin Koufmannen, il quale mostra del resto per chiari segni d’essere il rifacimento di un racconto francese, per cui non è affatto impossibile che il Boccaccio abbia conosciuto la versione francese fonte del poemetto tedesco20. La possibilità si trasforma in probabilità quando si osserva che fra tutte le versioni antiche del ciclo il poemetto di Ruprecht von Würzburg è il solo a presentare una reale concordanza di contenuto con la novella del Boccaccio, nella parte iniziale. In entrambi i racconti infatti il punto culminante della scommessa è preparato attentamente da una scena in cui un gruppo di mercanti, convenuti in una città francese, «avendo […] lietamente cenato», si mettono a parlare delle loro donne, e vengono riferite le opinioni di un primo, di un secondo, di un terzo mercante, prima che il giovane «ingenuo» si metta a lodare la propria moglie. La citazione del testo tedesco permetterà di verificare la sostanziale concordanza di situazione con la novella del Boccaccio: Dö diz allez wart getân, man biez den gast ze tische gân In ein kem(e) nâten wît, diu was al umb in aller sît’ Gesezzet vol rîcher kou man. dô das ezzen wart getân, Der wirt die geste biez gedagen, und bar ir ieglîchen sagen

Quando tutto questo fu sistemato, si chiede all’oste di passare a tavola, in una vasta sala dov’erano seduti tutti attorno molti ricchi mercanti. Alla fine del pranzo, l’oste ha chiesto agli ospiti di restare e di dire ciascuno qualcosa

18 Una progressione simile si ritrova nell’Oton roi d’Espagne, miracolo teatrale attriuito al 1380 circa, dove la donna travestita da scudiero si porta al servizio del re di Granada, viene poi mandata all’imperatore di Roma; qui l’intrigo si risolve col ritrovamento del marito e la confusione del colpevole (in Miracles de Nostre Dame, 1879, pp. 319-388); e in una novella inglese del manoscritto conservato presso la Cattedrale di Worcester, fol. 172 (Cfr. W. H. Hulme 1906 e 1909). La data relativamente tarda e la diffrazione nel racconto delle vicende mi induce a non tener conto di queste versioni nel quadro di questa ricerca sugli antecedenti della novella di Zinevra. 19 G. Paris, Le conte de la gageure dans Boccace, in Miscellanea Graf, Bergamo, 1903, citato da V. Branca nella nota introduttiva alla novella. 20 Il rifacimento tedesco è lungo 946 versi. Il tema della donna che inganna dei pretendenti per restar fedele al marito non è estraneo alla tradizione dei favolelli. E del resto è noto che i confini tra lai, fabliau e poemetto, per dir così, novellistico sono abbastanza sfumati.

Lettura in filigrana della novella di Zinevra Von sînem wîb ein maere, wie sie gemuot waere Und wie sie lebet’ in ir hûs. der êrste sprach: «sô sûsâ, sûs! Diu mîn ist ein unsaelig lîp, sie ist ein tiuvel und niht ein wîp; Und saezen ûf der swellen mîn alle [diu tiuvel], die in der hrlle sin, ir getörste keiner zuo ir komen». der ander sprach: «wir hân vernomen Vil wol, daz dû uns kündest; ich waen’, daz dû dich sündest An dîner hûs vrouwen guot: diu mîn(e) mir niht alsô tuot, Sie ist vrôlîch unde vrum, zo hant sô ich von ir kum’, [über] ir ebenkristen erbarmet sie sich, daz dem suezen Got ist lobelîch: Des ziuch ich zwei gouchelin». der dritte sprach: « daz mak wol sîn, Diu min’ ist bezzer, denne guot, sie hât ouch einem staeten muot; Dâ bî sô kan sie einen list, der oben disen beiden ist, Vil dikke sie getrinket, daz ir diu zunge hinket; Alsus mîn wîp besorgen kan min hûs und allez das ich hân». Der wehsel maer’ sie vil getriben; ir deheiner was al dâ beliben, Er(n) slueg’ sîm’ wîb an ier etwaz; ir selben[s] êren truogens’ haz. Der junge gast her Bertram diz allez in sîn herze nam, Und lobt Got sêre der vil grôzen êre, Die er im hete getân. der wirt in guotlîchen an Sprach: «wie tuot ir, herre, sô daz ir uns niht machet vrô, Mit etlîchen maere schîn von iuwer lieben wirtîn?» Der junglink sprach: «das sol sîn. Ich bân dâ heim ein reinez wîp, der vil minneklîcher lip Mich dikke vrô machet...

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della propria moglie: che cosa pensava, come viveva nella casa. Il primo disse: «Così così! La mia è un cattivo soggetto, è un diavolo e non una moglie; e se fossero seduti sulla mia soglia tutti quelli che sono nell’inferno nessuno avrebbe il coraggio di entrare». Un altro dice: «Abbiamo capito benissimo quello che ci hai raccontato; io credo che tu non ti comporti bene con tua moglie; la mia non fa così con me: è lieta e affettuosa, è presente quando ho bisogno di lei; come una buona cristiana si occupa dei suoi vicini per amor di Dio. Ci scommetto due bastardelli». Il terzo dice: «Può essere; la mia è meglio che buona, ha anche un grande coraggio; ha poi una certa qualità che è meglio di queste due: è capace di bere tanto finché la lingua le zoppica. E soprattutto mia moglie è capace di gestire la mia casa e tutto il resto». Furono fatti insomma molti discorsi, ma non c’era nessuno che non avesse qualcosa da ridire sulla propria moglie, perfino di essere donne d’onore. Il giovane ospite, ser Bertrando, considerava tutto questo nel suo cuore e rendeva grande lode a Dio per la straordinaria grazia che gli aveva fatto21. L’oste con piacevole cera gli chiese: «Come va, signore, che voi non ci fate divertire raccontando qualcosa della vostra cara mogliettina?» Il giovane rispose: «D’accordo». Io ho a casa una moglie onesta che mi ama di vero amore e mi rende felice...

21 Cfr. Decameron, II.9: «Bernabò un poco turbatetto disse che non lo ’mperadore ma Idio, il quale poteva un poco più che lo ’mperadore, gli avea quesa grazia conceduta».

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Il poemetto di Ruprecht appartiene al gruppo di versioni a conclusione immediata, e contiene inoltre tratti particolarmente crudi, di derivazione arcaica22. È singolare che il Boccaccio abbia scelto di servirsi di una versione come questa, quando doveva avere a disposizione versioni dell’ultimo gruppo, a conclusione differita. Dev’essere stata proprio la scena del dialogo fra mercanti – in contrapposizione alle scene di corte delle altre versioni – a stimolare la fantasia del Boccaccio, inducendolo a ricrearla con tutto quel più di vivacità, di approfondimento psicologico, di plausibilità che ne fa una novella tipicamente decameroniana23. Il Boccaccio ha comunque fatto un’operazione cosciente di contaminazione fra diverse versioni. La prova decisiva per la convinzione d’adulterio è, nella maggior parte delle versioni, un «segno» corporeo, un neo in una parte intima della donna. Per le versioni antiche questo segno è sulla coscia della donna; il neo appare collocato sul petto della donna per la prima volta nel Roman de la Violette, un poemetto della prima metà del XIII secolo24. Qui il seduttore, introdotto di nascosto da una vecchia servente nella stanza in cui la donna fa il bagno, … voit sor sa destre mamiele Un vïolete nouviele Inde paroir sor la car blanke. (vv. 648-650)

Che Zinevra avesse il neo «sotto la sinistra poppa» appare una variazione perfettamente comprensibile; ma la concordanza attira l’attenzione perché il Roman de la Violette e la novella di Zinevra sono le uniche versioni a spostare la collocazione del «segno» dalla coscia al seno prima del 1350. Certo l’indizio, così isolato, non permette di affermare che il Boccaccio conoscesse il Roman de la Violette; solo che il motivo, in qualunque modo fosse pervenuto al Bocaccio, aveva molto probabilmente nel Roman il suo archetipo e il suo propulsore. Altre concordanze singolari si verificano fra la novella del Boccaccio e l’altra versione italiana del ciclo, il Cantare di Madonna Elena. Poiché si tratta di un’altra versione italiana, e i rapporti fra Boccaccio e i cantari sono sempre una questione delicata, la discussione delle relazioni fra queste due versioni richiederà un’analisi un po’ più attenta. Prima di tutto, presentiamo i punti di contatto: 22 La prova dell’adulterio consiste nel dito mignolo di una donna che il seduttore ha tagliato la notte in cui l’ha effettivamente posseduta; solo che la donna era una serva e non la moglie dell’avversario. Cfr. G. Paris, Le cycle de la gageure, 1903, p. 483. 23 Cfr. G. Almansi, Lettura della novella di Bernabò e Zinevra, in Il ciclo della scommessa, 1976, pp. 27-44; M. Baratto, Realtà e stile nel Decameron, 1970, pp. 169-170. 24 Il Roman de la Violette appare il risultato della contaminazione di due versioni del racconto della scommessa: quella rappresentata dal Comte de Poitiers e quella rappresentata dal Guillaume de Dole. Cfr. G. Paris, Le cycle de la gageure, pp. 539-540 e D. Labaree Buffum, Introduzione alla sua edizione del Roman de la Violette, 1928, pp. xl ss.

Lettura in filigrana della novella di Zinevra

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1) nel cantare i termini della scommessa consistono, molto esplicitamente, nella messa in gioco della testa; fra le versioni del gruppo a conclusione immediata e punizione comminata all’uomo, è anzi il solo a dichiarare la posta con tanta chiarezza25. Nelle versioni della seconda categoria, la posta è generalmente il feudo degli scommettitori. Ora, è abbastanza singolare che la prima posta proposta da Bernabò sia proprio la testa: Ma poi che tu di’ che tutte sono così pieghevoli e che ’l tuo ingegno è cotanto, acciò che io ti faccia certo della onestà della donna mia, io son disposto che mi sia tagliata la testa se tu mai a cosa che ti piaccia in cotale atto la puoi conducere…

al che Ambrogiuolo, col suo atteggiamento di superiorità, replica – ed è lui dunque che, moderando l’eccesso di Bernabò, mette in primo piano il buonsenso borghese e contiene l’accenno romanzesco nell’ambito del realismo boccacciano: Benabò, io non so quello ch’io mi facessi del tuo sangue, se io vincessi; ma se tu hai voglia di vedere pruova di ciò che io ho già ragionato, metti cinquemilia fiorini d’oro de’ tuoi, che meno ti deono esser cari che la testa, contro a mille de’ miei…

2) il cantare (versione padana) e la novella sono i soli racconti a mettere in rilievo i dipinti nella camera degli sposi; 3) il cantare e la novella sono i soli racconti, a quest’altezza cronologica, ad adornare il neo della donna di «acquanti peluzzi biondi come oro»26. Le concordanze sono, come si vede, dettagli isolati, ma non trascurabili. Si pone immediatamente il problema: è plausibile che il Boccaccio abbia conosciuto il cantare?27 La datazione dei manoscritti che ce ne trasmettono i testi offre a prima vista un argomento decisamente contrario: tanto il ms. Moreniano Bigazzi 213, che riporta la redazione toscana, quanto il ms. di Perugia (Augusta C43), che ci ha conservato una redazione padana (ferrarese), appartengono al Quattrocento. È vero che le due redazioni risalgono a un archetipo comune28, il che fa risalire indietro di qualche tempo l’apparizione in Italia del 25 «de la battaglia ne darò il guanto: / perda la testa chi non prova il vanto»; l’avversario conferma: «e sì la posso avere a mia richiesta; / se non è vero io vo’ perder la testa», e Carlomagno garantisce: «e chi non prova il vanto per ragione […] subitamente il farò dicapare». Nel poemetto tedesco sono posti in gioco tutti i beni degli scommettitori. Cfr. inoltre in questo stesso volume il saggio sulla Situazione iniziale nel «Cantare di Madonna Elena», 1993. 26 Nel cantare il segno sul corpo della donna compare soltanto nella redazione padana: «tri pili i à biondi e riçoleli», xxiv.6. 27 L’ipotesi contraria appare immediatamente meno plausibile: il cantare si inserisce chiaramente in una tradizione di rifacimenti d’ambito romanzesco e, con ogni probabilità, ripeteva, con una capacità di rimaneggiamento minima, una storia francese. 28 Le mie conclusioni a questo proposito coincidono con quelle del contemporaneo editore G. Fontana.

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Cantare. Ma in realtà non abbiamo bisogno di forzare troppo all’indietro la datazione del cantare perché sappiamo che una versione della storia simile a quella trasmessa dal cantare era nota nell’Italia meridionale nella seconda metà del XIV secolo. La storia di Madonna Elena compare infatti inequivocabilmente fra i dipinti del soffitto Chiaramonte, eseguiti fra il 1377 e il 1380, come indicato prima dal Gabrici e dal Levi e poi da Ferdinando Bologna29. Viene in mente che uno dei tre miracoli in latino appartenenti al ciclo della scommessa trasmessici dal ms. 468 di Tours ci presenta una versione estremamente vicina a quella del cantare, fino all’episodio in cui la donna scampa alla vendetta del marito, salvo a modificare pesantemente la seconda parte per fini edificanti. Il ms. 468 – quattrocentesco – copia una raccolta di exempla della fine del XIII secolo. Bisogna quindi ammettere che, tra la fine del Duecento e l’epoca in cui furono eseguiti i dipinti del soffitto Chiaramonte, sia stata in circolazione una particolare versione della storia che noi abbiamo documentata esplicitamente soltanto dal cantare. Impossibile decidere se in Italia questa abbia assunto fin dall’inizio una forma canterina, o se sia circolata in latino (sotto forma di exemplum?)30, o piuttosto in tutt’e due le forme. La conclusione è comunque che il Boccaccio poteva benissimo aver conosciuto una versione simile a quella rappresentata dal Cantare, e la sua memoria gli aveva ripresentato certi dettagli al momento di costruire la sua novella della scommessa. La parte più nuova della versione del Boccaccio, rispetto alle altre occorrenze del ciclo della scommessa, appare quella relativa alle peripezie della donna. Per queste, le versioni del ciclo della scommessa sicuramente anteriori al Decameron non offrono alcun parallelo, se non l’astratto procedimento per cui la donna, travestita da uomo, passa dal servizio di un’autorità a quella di un’autorità più alta. Ma la ricerca può essere più fruttuosa se ci si distacca dal cerchio chiuso delle versioni del ciclo della scommessa e si esplorano i motivi e i procedimenti della novella boccacciana nell’ambito più vasto della narrativa romanzesca. Si individua subito, allora, il motivo della donna innocente che scampa dalle mani di un servo che aveva avuto l’incarico di ucciderla. È molto probabile che, qualunque ne sia stata l’origine più lontana, il motivo debba la sua forza alla straordinaria diffusione della storia di Tristano e Isotta. Si ricordi il momento in cui Isotta vuol fare uccidere la fedele Bringvain e l’affida a due servi perché l’uccidano nel bosco. Il trattamento dell’episodio nel Tristan di Thomas (secondo la ricostruzione del Bédier) è esattamente lo stesE. Gabrici 1923; E. Levi 1925); F. Bologna 1975. I dipinti del soffitto Chiaramonte sono accompagnati da iscrizioni latine (Karolus magnus, dominus Rogerius, Guarnerius proditor magnus, Colloquium proditionis Helenae, Falsa et iniqua probacio Guarnerii, Nobilis domina Helena interfecit Guarnerium, Nobilis domina Helena decollavit Guarnerium), il che tenderebbe a escludere una versione volgare come ispiratrice dei dipinti e farebbe pensare a una versione esemplare. Non era raro però che testi in latino adombrassero narrazioni romanzesche in volgare, com’è il caso, per esempio, del secondo miracolo des ms. di Tours che ha tutta l’aria d’avere come fonte un rifacimento del Guillaume de Dole. Cfr. F. Koenig 1948. 29 30

Lettura in filigrana della novella di Zinevra

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so, incluso il dialogo con cui il servo annuncia alla donna la necessità dell’omicidio, rivela che l’ordine viene dal padrone (o dalla regina), la donna protesta la sua innocenza. Il Tristano riccardiano offre addirittura una consonanza testuale nell’ambientazione del delitto: «e a tanto sì andano in tale maniera che fuerono venuti a una profonda valle nelo diserto…» 31. È interessante però osservare che il Boccaccio adotta il motivo filtrandolo attraverso una variante che doveva aver già allignato in Italia, poiché la incontriamo nel poema franco-veneto di Berta da li pe grandi. Qui è la damigella che ha preso il posto della regina nel letto del re che ordina ai suoi servi di condurre la vera regina nel bosco e di ucciderla: …quela quer piaté, Da[va]nti lor se fu ençenoilé. «A! segnur», fait ella, «merçé, por l’amor Dé Ne me onciés, qe farisi gran peçé. Se vu la vite por Deo me lasé En tal logo andarò, mais novella non oldiré». (vv. 2072-2077)32

La battuta di Berta, cioè, consuona con quella di Zinevra: io ti giuro […] che io mi dileguerò ed andronne in parte che mai né a lui né a te né in queste contrade di me perverrà alcuna novella.

Nella fantasia del Boccaccio la versione originaria del motivo isottiano è venuta dunque a confluire con un’altra versione, variante dello stesso motivo. Ma la vera innovazione del Boccaccio, nel quadro delle versioni del ciclo della scommessa, sembra consistere nell’aver trasportato l’eroina in Oriente, alla corte di un Sultano, e nell’aver affidato a lei la responsabilità di indurre il colpevole alla confessione davanti a un’autorità capace di punirlo33. Ora a me pare che queste innovazioni del Boccaccio si possano spiegare facendo intervenire nel quadro il romanzo in prosa francese La fille du comte de Pontieu34. Anche qui una moglie viene ritenuta ingiustamente colpevole di un crimine contro il marito; il padre stesso la punisce portandola su una nave e abbandonandola in mare in una botte. La botte viene raccolta da una nave di mercanLa leggenda di Tristano 1942, p. 90, che cita dall’edizione Parodi del Tristano riccardiano. La «Geste Francor» di Venezia, 1986. Il poema di Adenet le Roi, Berte aus grans piés, tratta l’episodio diversamente. 33 Nelle altre versioni o il colpevole rivela spontaneamente il suo inganno, ignaro della presenza del marito, o la donna confonde il colpevole inducendolo con uno stratagemma ad affermare di non averla mai veduta. Nelle versioni d’ambientazione feudale, l’autorità che punisce il seduttore è la stessa davanti alla quale era avvenuta la scommessa, con un caratteristico andamento a circolo chiuso; la novella del Boccacciio invece non prevede una corte all’inizio, per cui l’autorità giudicante è collocata in una lontananza avventurosa; la chiusura del circolo avviene col ritorno dei due protagonisti, marito e moglie, al punto da cui entrambi erano partiti. 34 La fille du comte de Pontieu, 1923. 31

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ti saraceni che offrono la donna in dono al Sultano di Aumarie, e quest’ultimo apprezza tanto la donna che la sposa. Dopo qualche anno il marito e il padre, partiti crociati per l’Oriente, sono costreti da una tempesta ad approdare in Aumarie e finiscono prigionieri del Sultano. Qui la donna li riconosce e ottiene di liberarli e di tenerli al suo seguito, senza che essi la riconoscano. Finalmente ella li interroga severamente sulla sorte della rispettiva moglie e figlia e, ottenuta la loro confessione e la sicurezza del loro pentimento, fugge e torna in Europa con loro. Prima ancora di discutere le somiglianze fra la vicenda della Fille di comte de Ponthieu e la continuazione della novella di Zinevra, vorrei indicare un’interessante concordanza fra questo romanzo francese e un’altra opera del Boccaccio, anteriore al Decameron. Si ricorderà che l’episodio iniziale del Filocolo consiste nella decisione del nobile romano Quinto Lelio Africano e di sua moglie di recarsi in pellegrinaggio a San Giacomo di Compostella per impetrare la grazia di avere un figlio. Questo è un luogo comune nella letteratura medievale, e si trova in particolare nelle storie di Fiorio e Blancifiore, che sono per l’appunto l’antecedente del romanzo del Boccaccio. Ma mentre le versioni francesi sorvolano sulle ragioni del viaggio verso San Giacomo, e il cantare italiano afferma rapidamente «A santo Iacopo promise andare / se la moglie potese ingravidare», il Boccaccio si sofferma distesamente sull’episodio del voto e sull’insistenza con cui la moglie chiede e ottiene di accompagnare il marito. Lo stesso trattamento del motivo si riscontra nella Fille du compte de Ponthieu. Anche qui la coppia è rimasta cinque anni senza aver figli; il marito esprime allora in un soliloquio il suo disappunto e il voto, che comunica alla moglie; quand’egli si appresta a partire, la moglie insiste per accompagnarlo e il marito, dopo un tentativo di dissuasione con l’argomento che il viaggio sarebbe stato troppo faticoso per lei, glielo accorda35. Sembra dunque plausibile che il Boccaccio conoscesse questo romanzo, e non apparirà sorprendente che certi tratti di questa storia abbiano influenzato il trattamento delle vicende di Zinevra. Infatti, anche se il gentiluomo catalano che ha raccolto Sicuran da Finale non viene definito esplicitamente mercante, lo vediamo ben presto navigare verso Alessandria «con un suo carico»; e anche lui si sente in dovere di offrire un dono al sultano («e portò certi falconi al soldano, e presentògliele»). In entrambi i racconti la donna ottiene una posizione influente presso il sultano; una volta che il caso ha condotto i suoi uomini presso di lei, se li fa amici senza che essi la riconoscano, e finalmente li interroga severamente sul loro comportamento nei confronti della donna, senza che essi sospettino di trovar35 La fille du comte de Ponthieu, pp. 4-5. Si può avvertire una certa qual consonanza nelle espressioni seguenti, nonosante elaborino un luogo comune: Filocolo: «E così come a niuno, che divotamente giusto dono ti dimanda, il nieghi, così a me la mia dimanda, se è giusta, non negare»; La fille du comte de Ponthieu: «il pensa de monsengneur saint Jake qu’il dona as vrais requerans ço qu’il li demandoient, et premist sa voie».

Lettura in filigrana della novella di Zinevra

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si di fronte a lei. Seguono in entrambi i casi la rivelazione e la riconciliazione. Il punto cruciale dell’interrogatorio rivela un contatto preciso: Ele s’asist devant iaus, si les apela et dist: «Seignour, vous m’avés dit de vostre afaire une partie, or voel jou savoir se çou est voirs ke vous m’avés dit u non […]. Si vous di bien ke vous ne fuites onques si priés de honteuse mort com vous estes ore, se vous verité ne me dites de çou ke je vous demanderai, et bien savrai se vous voir me dites. Vostre fille, ke cist chevaliers ot, ke devint ele?» (p. 34) Il soldano […] con rigido viso ad Ambrogiuol comandò che il vero dicesse come a Bernabò vinti avesse cinquemilia fiorin d’oro: e quivi era presente Sicurano, in cui Ambrogiuolo più avea di fidanza, il quale con viso troppo più turbato gli minacciava gravissimi tormenti se nol dicesse […] E avendo Ambrogiuolo detto, Sicurano, quasi esecutore del soldano, in quello rivoto a Bernabò disse: «E tu che facesti per questa bugia alla tua donna?»

Si potrebbe addirittura osservare che, mentre nel romanzo francese il modo in cui è condotto l’interrogatorio ha una sua chiara giustificazione (la donna può ben affermare «et bien savrai se vous voir me dites»), lo stesso non si può dire dell’interrogatorio boccacciano: non si capisce davvero perché Ambrogiuolo, che aveva più volte raccontato la sua bugia, e sempre con esiti felici («Avea già Sicurano fatta raccontare ad Ambrogiuolo la novella davanti al soldano e fattone al soldano prendere piacere»), questa volta si induce a confessare l’inganno solo perché Sicurano lo invita severamente a dire la verità. Siamo dunque di fronte a uno di quei casi in cui la riproduzione di un motivo appartenente a un racconto diverso produce una discrepanza nel tessuto narrativo del racconto che l’accoglie. Tornando per un attimo alla questione della novella trecentesca anonima, osserviamo che ricompaiono in quella non solo tutti i tratti distintivi della versione del Boccaccio, ma particolarmente quelli che, per avere una fonte identificabile e estranea al ciclo della scommessa, possono essere considerati precisamente innovazioni di una delle versioni italiane. Ora a me sembra molto più plausibile che autore di tali contaminazioni e innovazioni sia stato il Boccaccio, anziché l’ignoto rifacitore della novella, che lo stile pedestre e popolare rivela come non sofisticato e incolto. La ricognizione dei testi da mettere in relazione con la novella di Zinevra non sarebbe completa se non additassimo all’attenzione degli studiosi un’ultima versione, non menzionata finora perché documentata da un manoscritto molto tardo: la novella medioinglese pubblicata da W. H. Hulme di su un manoscritto da lui scoperto nela Biblioteca della Cattedrale di Worcester (fol. 172), composto nell’ultimo quarto del Quattrocento e contenente, fra l’altro, una traduzione inglese della Disciplina clericalis di Pietro Alfonso36. La raccol36

W. H. Hulme 1909. Per la descrizione del manoscritto: W. H. Hulme 1906.

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ta omette otto dei racconti che si trovano nelle versioni complete della Disciplina, ma ne ha in compenso due o tre «that have not been found in any other translation or adaptation». Una di queste attestazioni uniche è quella che allo studioso appare come «the shortest, most simple, and most primitive form of any of the tales of the well-known cycle of ‘The Woman Falsely Accused’», e che è invece, secondo la mia classificazione, una versione appartenente allo stesso gruppo della novella del Decameron. L’ambientazione è, ancora una volta, mercantile («Ther were II marchauntis in Rome»); la donna, scacciata dalla sua città come adultera, perviene ad Alessandria dove acquista la fiducia del re; da lui è poi mandata all’imperatore di Roma. Fra i poveri della città ella ritrova il marito, al quale fa raccontare davanti al seduttore il tradimento di cui era stato vittima. Nel corso di una festa il seduttore confessa la sua colpa – non si capisce come o perché – davanti a tutti ed è condannato a morte: …cam into Alisaunder and covered and hid with strength and kynde of clothis berying hymsilf evene to the kyng in manyfold service, in the friendship of the kyng hym bare as myght be in curtesye most swift and light as admynistratrice of al the Realme. The kynges Rentis wern infinytily multiplied bi his providence. Than themperous of Rome dede. His yong sone whan he Empired in the Empire herd of the sapient wisdam of hym of Alisander [and] sent [for] hym to Rome. [He] peased thempire. Restored soft and easy lawes into the friendship of themperour and the Citezenis and the provynce with his high merites, nat puttying hymsilf any symulacioun or token unto his traitour. Bi hap and fortune [she] fond his husbond among poore folk most porest and dide hym to be nurrisshed. And bifore his traitour dide to be Rehersed his treason before the Citezeyns. That don [he] arraied a feste to the delectacioun, that is to say, of felawship and festers. Than at last he opened an [was] deemed into deth of his owne confessioun. The pore man went his wey and she to his husbond.

Il travestimento in vesti maschili (che sembra di poter arguire nonostante l’oscurità del passaggio), il passaggio dal servizio di un’autorità (il re d’Alessandria) a quello di un’autorità superiore (l’imperatore di Roma), e l’aver ritrovato il marito fra i poveri della città collegano questa versione sia al terzo miracolo di Tours, anteriore al Boccaccio (dove l’intenzione edificante modifica molto probabilmente un dato originario per immettere l’eroina in un ambiente conventuale37), sia all’Oton roi d’Espagne (posteriore al Decameron, ma la cui tradizione appare completamente estranea a quella italiana), dove la donna travestita si alloga al servizio del re di Granada, è da questi mandata come messaggero all’imperatore di Roma e in viaggio fa prigioniero il marito. Ma la 37 «Que evadens et de veste sua vestem virilem faciens, ad abbaciam monachorum declinans, conversum se fecit et optime se habens per abbatem traditus est regi pro elemosinario […]. Tandem elemosinam erogans et maritum qui fugerat inter alios considerans, ad partem trahens recreavit» A. Hilka 1912, p. 16.

Lettura in filigrana della novella di Zinevra

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collocazione geografica del primo re (Alessandria), la posizione di prestigio della donna travestita, la sua lunga simulazione nei confronti del traditore e la conclusione con la pena capitale in seguito a un giudizio (e non a un duello) allontanano la novella medioinglese dalle versioni francesi più antiche per accostarla decisamente a quella della novella di Zinevra. Tuttavia la novella medioinglese non sembra dipendere dal Boccaccio. Vi mancano infatti certi tratti distintivi e importanti della novella, come lo stratagemma della cassa per introdursi nella camera della donna, il motivo di Bringvain, il processo al seduttore e al marito in presenza del Sultano. Posta della scommessa tornano ad essere al their possessioun (come nel poemetto tedesco, con il quale la novella condivide l’ambientazione mercantile), e non grosse somme di denaro. Il seduttore viene in possesso di gioielli e del segreto della donna tramite una damigella, e il neo è sulla coscia e non sul petto della donna. La versione medioinglese, pur poco leggibile per l’evidente stato di corruzione del testo e la sua natura di compendio, appare insomma perfettamente comprensibile nell’ambito delle versioni francesi e non richiede la mediazione della novella del Boccaccio. La versione del Boccaccio, piuttosto, nella parte che costituisce la ‘continuazione’ della storia dopo la falsa convinzione, appare perfettamente spiegabile ammettendo la conoscenza di una versione simile a questa e un intervento boccacciano mirante a riformulare la conclusione della storia sulla falsariga di quella della Fille du compte de Ponthieu. L’editore della novella medioinglese, W. H. Hulme, addita l’interesse della scoperta per gli studiosi di Shakespeare «because it serves to throw a little more light on the difficult question of the ultimate source, or sources, of the plot of Cymbeline». Mi sembra che il testo medioinglese possa essere di ancor maggiore interesse per gli studiosi di Boccaccio. Ma, in mancanza di argomenti probanti, l’ipotesi che una versione vicina a quella della novella medioinglese possa rappresentare la versione che offerse al Boccaccio il canovaccio per la sua storia viene qui offerta con grande circospezione, e soltanto allo scopo di illuminare nel modo più esauriente possibile il co-testo della novella del Boccaccio. Tornando dunque, alla fine del lungo percorso, a porci la domanda fondamentale della genesi della novella di Zinevra, ripeteremo che non è possibile additare con sicurezza, fra le versioni superstiti del ciclo della scommessa, una fonte precisa, seguita dal Boccaccio dall’inizio alla fine. È ragionevole però ammettere che il Boccaccio conoscesse almeno una versione del tipo IIb, perduta, di cui si può avere un’idea attraverso la novella medioinglese. È stato possibile indicare una concordanze precisa con una versione che apparteneva a un altro gruppo, il Von zwein Koufmannen; e per quanto sia ammissibile che l’ambientazione mercantile fosse già penetrata nella fonte principale del Boccaccio, è anche plausibile che il Boccaccio conoscesse più di una versione della storia e che abbia scelto suggerimenti di provenienza diversa per renderli funzionali alla sua versione e al suo trattamento degli episodi. Abbiamo già accennato alla straordinaria sapidità della scena fra mercanti, che giustifica la

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scelta di ricavare un motivo isolato da una versione poco diffusa, e peraltro rifiutata per quanto riguarda lo svolgimento della vicenda nel suo insieme. Se davvero il Boccaccio aveva udito il cantare di Madonna Elena, è assolutamente magistrale quell’accogliere il motivo della posta in gioco della testa per rintuzzarlo subito dopo, trasformando la posta in fiorini: Boccaccio ne fa la pennellata più vivace del ritratto di Bernabò e se ne serve per illustrare la superiore mondanità e il realismo mercantesco di Ambrogiuolo. Più ancora mi sembra importante l’utilizzazione del romanzo La fille du comte de Ponthieu per la costruzione della ‘continuazione’ della novella. Il romanzo deve aver offerto al processo di riabilitazione della donna, esposto presumibilmente in forme scarne e/o favolistiche nella fonte principale, concreti suggerimenti per l’articolazione degli episodi e delle situazioni, e soprattutto il modello di un racconto in cui la riabilitazione e la soluzione finale erano dovuti esclusivamente all’iniziativa e all’abilità della donna – iniziativa e abilità intese come capacità di manovrare pazientemente gli eventi, di saper aspettare e di cogliere l’occasione propizia per passare decisamente all’azione risolutoria – una capacità insomma tutta «mercantesca», come è stato indicato da alcuni critici38. Dalla paziente lettura in filigrana della novella risulta insomma ancora una volta il sostrato tutto letterario dell’attività narrativa del Boccaccio39. Se l’indubbia presenza della narrativa anche orale nel patrimonio di conoscenze del Boccaccio, e dunque nel Decameron, sarà un fatto da non sottovalutare, appare comunque interessante in questo caso l’individuazione di antecedenti, per ciascuna delle articolazioni del racconto, in testi che ci sono stati conservati per iscritto. Alcuni di questi – e sicuramente il romanzo della Fille du compte de Ponthieu – sono testi in prosa, a testimonianza di una predilezione e di una ricerca di modelli che non è stata ancora, forse, messa abbastanza in luce negli studi sul Boccaccio. Ma proprio quando arriviamo a riconoscere narrazioni e modelli di cui il Boccaccio si è nutrito, tanto più sorprendente appare la sua straordinaria capacità di infondere nuova vita in triti motivi tradizionali, di utilizzare in maniera convincente episodi che appartenevano originariamente ad altri racconti, o di sfruttare suggerimenti casuali per funzionalizzarli a uno stile talmente sprizzante di freschezza da permetterci ancora oggi di gustare l’intensa esperienza dell’ascolto e indurci ad abbandonarci alla fascinazione del racconto.

38 Un comportamento di questo tipo sarà attribuito anche a Giletta, la protagonista di Decameron III.9: cfr. P. D. Stewart, How to Get a Happy Ending: «Decameron» III.9 and Shakespeare’s «All’s Well», 1991-92. 39 Cfr. V. Branca, Schemi letterari e schemi autobiografici, pp. 191-249 e Un modello medievale per l’Introduzione, in Boccaccio medievale, pp. 335-341.

La Storia della dama bolognese che s’innamora sentendo lodare un cavaliere dal marito*

Il ms. C43 (già CLX) della Biblioteca Comunale «Augusta» di Perugia è una silloge di testi lirici e narrativi trascritti nel secolo XV con una forte patina linguistica emiliano-orientale1. Oltre al Cantare di Madonna Elena, il manoscritto comprende anche un cantare in sestine intitolato «Storia della dama bolognese che s’innamora sentendo lodare un cavaliere dal marito». La trama è nota anche da altre fonti, italiane e non, e la dama è ‘bolognese’ soltanto nella versione del cantare. La storia era stata infatti consegnata alla scrittura, come exemplum, già alla fine del XII secolo, nella raccolta di varie prose d’intrattenimento De nugis curialium (1182 -1189), di Walter Map2, e nel manuale di pratica e di dottrina a uso del basso clero Gemma ecclesiastica (1196-1199), di Giraldo di Cambria3. Rispunta in Italia due secoli dopo, nella prima storia narrata dal Pecorone di ser Giovanni Fiorentino, in cui il fatto è localizzato a Siena4, e nella ventunesima del Novellino di Masuccio Salernitano, che fa del protagonista un

* Saggio pubblicato come introduzione all’edizione del cantare in Letteratura italiana antica, III (2002), pp. 19-30. 1 Descritto da A. Bellucci, Perugia. Biblioteca Comunale, 1895, pp. 88-93, che intitola il cantare «Storia della dama bolognese (in 47 sestine) che s’innamora sentendo lodare un cavaliere dal marito». Da questa descrizione derivano sostanzialmente quelle di V. Pernicone, 1938, pp. 41-83: 58 e di G. Fontana, 1992, pp. XXVIII-XXIX. A. D’Ancona ricavò da questo manoscritto un’antologia di «Rispetti del secolo XV», pubblicati in La poesia popolare italiana, 1906, pp. 501 sgg. 2 Walter Map, Svaghi di corte, a cura di F. Latella, 1990, pp. 314-315. La storia è la quarta e ultima prosa del breve capitolo (distinctio) III, dove Walter Map afferma di aver raccolto «exempla che destino allegria o servano da edificazione morale» (exempla quibus vel iocunditas excitetur vel edificetur ethica). La raccolta, rimasta incompiuta, fu messa insieme probabilmente da un compilatore dopo la morte di Walter Map. Cfr. J.-T. Welter, 1973, p. 49, e C. N. L. Brooke e R. A. B. Mynors, 1983, pp. xxiv-xxxii. 3 Giraldo di Cambria, Gemma ecclesiastica, cap. XII, in Giraldi Cambrensis Opera, a cura di J. S. Brewer, 1862, pp. 226-28. Per la data di composizione, cfr. Welter, 1973, p. 53. 4 G. Fiorentino, Il Pecorone, a cura di E. Esposito, 1974, pp. 10-17.

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cavaliere al seguito di Carlo d’Angiò5. Il Di Francia, che conosceva le quattro versioni in prosa, ritenne che la diffusione della storia in Italia fosse avvenuta per via orale, giudizio indotto probabilmente dalla notevole diversità che si ritrova fra le versioni del Pecorone e del Novellino6. James Hinton attirò invece l’attenzione sul fatto che almeno una copia della Gemma era sicuramente arrivata in Italia, visto che Giraldo racconta egli stesso, nel De rebus a se gestis, di averla consegnata al papa Innocenzo III, che l’avrebbe tenuta in gran considerazione7, e considerò perciò che fonte delle novelle italiane dovessere essere stato il manuale di Giraldo Cambrense8. La questione è forse più complicata, tenendo conto anche della probabilità di una tradizione mista, scritta e orale, come è comune in tutta la narrativa volgare romanzesca e novellistica. Un confronto fra Pecorone (la più antica delle redazioni italiane), De nugis e Gemma non permette di affermare che la versione diffusa in Italia derivi veramente dall’ exemplum del Gemma. Anzi, l’insistenza sul corteggiamento non corrisposto9, sui motivi cortesi del vedere la donna10 e della servitù al dio d’Amore11, e soprattutto il fatto che le lodi del marito avvengono subito dopo l’incontro e la conversazione della coppia con l’amante in un luogo fuori città, anziché dopo un torneo e in assenza del giovane, fanno pensare al De nugis piuttosto che al Gemma. Anche sul piano testuale alcune espressioni appaiono vicine alla versione di Walter Map. Così la domanda del giovane alla donna amata sul suo subito mutamento, per quanto espresso in discorso diretto come nel Gemma e a differenza del De Nugis, riprende poi dal De nugis le parole con cui la donna anticipa la domanda inespressa dell’amante: Pecorone: «Madonna, io mi meraviglio forte come voi avete stasera mandato per me più che altre volte, avendov’io tanto tempo disiderata e seguita, e voi mai mi volesti vedere né udire». 5 Masuccio Salernitano, Il Novellino, a cura di G. Petrocchi, 1957, pp. 442-58. La novella è dedicata alla «eccellente madonna Antonella d’Aquino, contessa camberlinga». Il Petrocchi, commentando un manoscritto che trasmette alcune novelle del Novellino in una redazione precedente a quella della stampa, argomenta che questa novella fu modificata dopo il 1452, anno in cui la contessa Antonella d’Aquino andò sposa al camarlingo Inico d’Avalos. Cfr. G. Petrocchi 1952, pp. 266-317. 6 L. Di Francia, Novellistica. Vol. 1. Dalle origini al Bandello, p. 458. 7 Lib. III cap. XVIII, in Giraldi Cambrensis Opera, vol. 1, p. 119. 8 J. Hinton 1917, pp. 203-209. 9 Pecorone: «e mai la detta madonna Minoccia el volse mai né udire né vedere», ecc. Cfr. De nugis: «Nec quid sperare habebat; fortissimis enim negativis repulsus secum lacrimosus intente querebat, quid sibi deesset ad meritum amoris». 10 Pecorone: «e non si tenea contento quel giorno ch’elli noll’avesse veduta.[…] faccendo vista d’andare uccellando solo per vedere questa donna […] che almeno avrei veduto colei… » Cfr. De nugis: «et si nonnisi tantum eam videre debeat, idem fecerit». 11 Pecorone: «spesse volte si dolea con Dio d’Amore dicendo:…; si diliberò di portare questo giogo insino ch’a Dio d’Amore piacesse…» Cfr. De nugis: «Exit igitur quocumque magister amor evocat». Si veda anche la contrapposizione retorica fra il comportamento dell’amante e quello della donna: De nugis: «a domesticis curis castratus emollescit, plangit, precatur et plorat. Illa not ut virgo ver virago sed ut vir devovet et spernit…» Cfr. Pecorone: «e sempre s’ingegnava di fare e dire tutte quelle cose ch’egli credesse potere piacere a costei. E ella sempre più dura».

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De nugis: «Miraris forsitan[…] que me tibi tam subito causa post tot tam crudeles dederit negaciones»12.

Persino la riflessione, nell’epilogo, di Saturnina: «E s’io fossi stata in quel caso che fu egli, non so ch’io m’avessi fatto» richiama l’attenzione sulla possibile imitazione del comportamento esemplare del giovane, come il commento dell’epilogo di Walter Map: «Quis non miretur, et non hunc imitetur si possit?». Anche il cantare sembra serbare qualche traccia di una versione simile a quella del De nugis: il giovane è fatto cavaliere (dal marito della donna nel De nugis, dal podestà, subito dopo il torneo, nel cantare); e la risposta della donna all’amante che le chiede la ragione del suo cambiamento d’umore, di cui Giraldus Cambrensis si sbriga rapidamente in un discorso indiretto («Quae cum causas ei, laudes ejus scilicet quas ab ore viri tantas audierat assignasset, respondit ille…»), è invece dettagliata nel cantare e, soprattutto, pare sviluppare i motivi evocati da Walter Map. Questi distribuiva infatti retoricamente le virtù del giovane in un confronto con gli dei che a tali virtù presiedevano: «assercio te Appolline doctiorem, Iove leniorem, Marte leoniorem…»; e, puntualmente, il marito del cantare loda dell’amante le abilità musicali (Diçe che sei somo sonatore/d’arpa, liuto, chiatara o viola… el non è dona che t’oda cantare/ de ti no si conviegnia inamorare, 35), la larghezza e la gentilezza (diçe che çiascuno altro pare avaro/ apreso a ti tanto è la toa largheça,/ ch’el non è cavaliereo né donçelo/più costumado… 34, 3-6), la prodezza guerriera (Diçe che sei el miore çiostradore/che cavaliero che mai munti in sela,/ gaiardo coralioso e trombadore, 36)13. Sorprendente è infine la ripresa, nel testo di Masuccio Salernitano, dell’insistenza sul fatto che il mutamento d’animo della donna dipende totalmente dalla fiducia che questa ripone nel marito – motivo che è scomparso nel Pecorone e nel cantare, che nel Gemma è appena accennato nell’espressione «narrantis pendens uxor ab ore viri» e che è invece fortemente presente nel De nugis: Aliud autem in mente versat, scilicet quod Rollo fidelis et veridicus est, et quod ab aliis audierat ipsius est assercione credendum. Penitet iam ipsum repulisse […] «Rollo causa fuit; nam fame non credideram, sed sua michi, quem veracissimum novi, persuasit assercio […] Credidi, fateor…»

Anche Novellino: «e como cossì de subito fuore d’ogni speranza…» (p. 448). Di contro allo sbrigativo «strenuitate in armis incomparabilis» del Gemma, si potrebbero collocare anche le presentazioni del giovane nel De nugis e nel Cantare: «vicinus puer, forma, genere, diviciis et optima indole omnes illarum parcium excedens pueros»; «Eli era çioven de diçiotto ani / né mai se vitte sì bela criatura; /sempre bene a chavalo e de bie’ pani / era vestito, adorno oltra mixura, / come cului che bene el potea fare/ perché a Bolognia non avea pare» (ottava 3). 12

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Allo stesso modo madonna Fiola […] udendo tante lode dargli dal suo marito, a le parole del quale dava mirabile fede, gli fu accagione la passata durezza in summamente amarlo convertire […] «e questo medesmo amore, che a lui porto, è stato de tale natura e ha avuto in sé tanta forza, da condurme ne le tue amorose bracce. […] de che io, che a lui sono tutta ossequiosa, cognoscendo essergli summamente caro che ognuno te amasse, comprisi che maiormente gli era piacere che le cose sue cordialmente te amassero».

Sembra quindi plausibile l’ipotesi che la trafila delle versioni italiane abbia avuto origine da un racconto, certo proveniente dalla Francia, molto simile alla fonte delle versioni inglesi di Walter Map e di Giraldus Cambrensis14. Questo da solo non basta però a spiegare tutte le versioni italiane. È vero che il cantare sembra in molti punti sviluppare la versione del Pecorone; ma le notevoli concordanze testuali e l’impronta moralistica che uniscono l’exemplum e le due versioni italiane più tarde rendono più plausibile l’ipotesi che alla vecchia favola cortese si sia affiancato l’exemplum del Gemma, presente in Italia fin dai primi anni del secolo XIII, e probabilmente rimesso in circolazione dopo la morte di Innocenzo III. Dal Pecorone, o dalla sua fonte, il Cantare riprende il particolare che attribuisce al giovane l’attività della caccia col falcone (cfr. ottave 21, 5-6 e 42, 3-6); come nel Pecorone, la donna manda all’amante una messaggera per assicurarsi del consenso a un appuntamento amoroso (nel Gemma: «nuntio directo»). E soprattutto nel linguaggio del cantare si avverte un’eco del tessuto verbale del Pecorone: al momento dell’incontro fra i due amanti, per esempio, Pecorone: … con molta riverenzia la salutò; […] la donna […] il prese per mano Cantare: Lui la saluta e porsili la mano/con quelo inchino cha a lie s’aconvene; (30, 1)

e, più tardi, Pecorone: … avendov’io tanto tempo disiderata e seguita […] Che v’ha mosso mo?; Cantare (nel discorso diretto del giovane alla donna): Che t’ha comoso a no farmi penare? […] e mo da te te muovi (31, 4; 32, 5); (nel discorso della messaggera al giovane): che lungo tempo vui l’avì seguita (19, 2).

I due testi attribuiscono al giovane l’attributo di gagliardo (Pecorone, l. 4, Cantare ottava 36,3)15. Nel cantare come nel Pecorone l’episodio della rivelazio-

14 Per gli argomenti che sostengono questa convinzione cfr. il saggio seguente e anche il mio articolo A Courtly Tale Between Exemplum and Novella in The Italian Novella, 2003, pp. 105-118. 15 Così il Novellino: «savio, proveduto e galiardo più che cavaliero» (p. 443).

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ne si attua con la sequenza domanda del giovane – risposta della donna – ulteriore domanda del giovane – conferma della donna – presa di decisione. Ma la presenza del torneo e certe concordanze testuali collegano indubbiamente il cantare al Gemma escludendo il Pecorone. Per esempio, nel descrivere la partecipazione del giovane al torneo, le due versioni sottolineano la paura degli avversari: Cantare: Çiascuno a veder lui pur de paura/ tremava de provare soa armadura (7, 5-6) Gemma: nec impetus ejus aut ictum quisquam ausus est expectare.

(il borghese ser Giovanni elude qualsiasi caratterizzazione guerresca del giovane). Quando il giovane si presenta all’appuntamento, Cantare: ela il receve con lo viso umano/ como a colui che lié volea bene (30, 3). Gemma: Quo gaudenter accepto…

I due testi fanno un riferimento esplicito al ‘fatto’: Cantare: Or siamo a’ fatti dolçe vita mia/ […] / e de la gabia volse trar l’uçelo (39, 1-4) Gemma: prius quam tamen ad actum accederet.

Come nel Gemma, le intenzioni del giovane ravveduto sono espresse al futuro (Cantare: el menarò, 42, 5; serò 42, 6; trattarò 43, 2; Gemma: animum […] mutabo, […] numquam illicite diligam […] in perpetuum abstinebo); la donna tenta invano di trattenerlo (Cantare: ottave 44-45; Gemma: illa renitente plurimum eumque modis omnibus retinere volente…). E finalmente, nella conclusione che presenta la storia come un ‘esempio’ (cha sempio pigly d’esto bologniexe) ritorna il vecchio termine iniuria (Gemma: in iniuriam illius qui eas [le laudes] pronuntiavit…; De nugis: Nunquam a Reso Rolloni pro benignitate retribuetur iniuria; Cantare: Sol per nom fare al çentilomo inçuria (47,6), mentre Pecorone e Novellino useranno il termine villania. Certo, a rigore è possibile che le concordanze col Gemma siano dovute alla presenza di questi elementi nella ‘primitiva’ versione venuta di Francia, ma è molto più plausibile che sulla versione del cantare abbia influito il racconto esemplare rimesso in circolazione in Italia più recentemente. Masuccio poi riprende letteralmente la similitudine che paragona il giovane cavaliere a un falcone: avvenne che un dì messer Corrado e la muglie andando a caccia de sparaveri […] e impensatamente se levorno una brigata de starne, dietro a le quale védero un salvaggio falcone, che in quello istante tutte le disbarattò […] messer Corrado con allegro volto disse che gli parea aver visto a la similitudine del falcone messer Bertramo suo capitano ne la battaglia

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cacciando […] ne la battaglia cacciando ed effugando gli inimici, e per modo tale che, ove lui apparea con la lanza e16 con la spata, niuno de’ suoi aversari ardeva d’aspettarlo; (444)

motivo che, intravedibile confusamente già nel Pecorone17, e dunque presente già nella versione primitiva, riprende però tanto più da vicino, nella versione di Masuccio, il discorso del marito dell’exemplum di Giraldo: «sicut enim ante falconis faciem columbae fugiunt seu monedulae, sic ante Reginaldum milites cuncti, nec impetum ejus aut ictum quisquam ausus est expectare»18.

Anche Masuccio caratterizza il cavaliere principalmente in virtù del valore guerriero; ma egli approfitta dei suggerimenti dell’exemplum ecclesiastico soprattutto per accentuare l’atteggiamento misogino. Se Giraldo si accontentava di introdurre il cedimento della donna, dopo le lodi del marito, con l’inciso «a mulieri natura non degenerans […] quia varium et mutabile semper foemina», Masuccio inserisce a questo punto il lungo discorso di un amico sulla «qualità e costume de le femene, e quello a che loro defettiva natura le ha produtte», che insiste sul fatto che «in niuna di loro» non «se trove fermezza o stabilità alcuna» (pp. 445-446). Un ulteriore contatto verbale pare rivelarsi nel colloquio fra il cavaliere e la donna, alla quale l’amante chiede, nel Gemma: «qualiter nunc miserata es mei desperati penitus et nil tale vel cogitantis jam vel sperantis?»; e nel Novellino: «e como cossì de subito fuore d’ogni speranza…», espressione ripetuta dalla voce narrante all’inizio del racconto: «e como che de tale impresa a lui del tutto fusse fuggita la speranza»19. Il testo di Masuccio rivela dunque una conoscenza precisa dell’exemplum di Girardo; ma vi confluisce anche, e in larghissima misura, la versione del Cantare, particolarmente a partire dal momento del mutamento d’animo della donna. Prima infatti dell’appuntamento notturno, le due versioni quattrocentesche inseriscono un incontro non ravvicinato, che comprende un inchino (Novellino: «al modo solito fece una amorosa inclinata» p. 445; Cantare 27, 3), in cui l’atteggiamento della donna rivela la sua nuova benevolenza; in entrambi i testi l’appuntamento è nel giardino della casa della donna, dove: Novellino: qual […] graciosamente la recevette (p. 447) L’ediz. UTET porta erroneamente a. Nel commentare l’attacco di uno sparviero su una ‘rigagia’, il marito dice: «Quello sparvero ha bene da cui risomigliare, però ch’egli è del più vertudioso giovane che sia in Siena, e ‘l più compiuto». Pecorone, ed. cit., p. 13. 18 La similitudine ha probabilmente origine in un testo ovidiano: «Ut fugiunt aquilas, timidissima turba, columbae,/ Utque fugit visos agna novella lupos/Sic illa timuere viros sine lege ruentes» (Ovidio, Ars amatoria, 118-120). Masuccio aggiunge, al testo già citato: [Bertramo]« non sulo como ’l visto falcone sequendo le fuggite starne, ma como un fiero leone fra vilissime pecore tra ’l fatto d’arme de continuo se dimostrava». 19 Nel Pecorone: «E così più volte, ricordandosi della crudeltà di costei, si voleva disperare» (pp. 11-12). 16 17

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Cantare: ela il receve con lo viso umano (30, 3) Novellino: Ben venga l’anima mia (p. 448) Cantare, Deh, dime anima mia (31, 3) Novellino: sotto un odorifero pomo arangio se posero a sedere (p. 448) Cantare: trovò la donna sotto un pergolare/ e su l’erba se puse siego a parlare, (29, 5-6)

Il giovane è così virtuoso che non solo la protagonista ma tutte le donne ne sono innamorate: Novellino: quante ivi ne eravamo, ognuna pregava Idio per lo tuo felice stato, e tutte devenemmo disiderose de compiacerte. E più, disse che a lui pareva per debito de tue vertù esser obligato amare cui te amava…(p. 449) Cantare: 4, 5-6; 35, 5-6; 36, 5-6.

Nell’annunciarle il suo mutamento d’animo, il cavaliere raccomanda alla donna di restare fedele al marito: Novellino: pensa d’esser più liale a tuo marito che stata non se’ (p. 450) Cantare: 43, 3-4

e lascia alle donna uno o degli oggetti preziosi. La più notevole concordanza fra Cantare e Novellino consiste però nel riferimento che entrambi i testi fanno a una novella del Decameron. È chiaro che l’esempio del Decameron pesa fortemente su tutta la tradizione novellistica successiva, e già ser Giovanni aveva attribuito al suo giovane Galgano certi tratti di Federigo degli Alberighi (V 9) e di messer Ansaldo (X 5): Pecorone: e spesse volte giostrando e armeggiando e faccendo di ricchi mangiari per amore di lei; e mai la detta madonna Minoccia el volse mai né udire né vedere. (pp. 10-11) Decameron V 9: ed acciò che egli l’amor di lei acquistar potesse, giostrava, armeggiava, faceva feste e donava […]: ma ella, non meno onesta che bella, niente di queste cose per lei fatte né di colui si curava che le faceva. Pecorone: Non piaccia a Dio, né voglia che, poi che ’l vostro marito ha fatto […], ch’io facci… (p. 17) Decameron X 5: Madonna, unque a Dio non piaccia, poscia che così è come voi dite, che io sia…

formula ripresa poco dopo, nella stessa novella, dal negromante: «Già Iddio non voglia, poi che io ho veduto […], che io similmente non sia…». Ma la contaminazione con la novella di Madonna Dianora (X 5) si è estesa nelle due versioni quattrocentesche, favorita, evidentemente, dalla somiglianza della si-

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tuazione in cui vengono a trovarsi la donna e il suo amante e della soluzione dell’episodio. La risoluzione del giovane è infatti ormai comunicata attraverso le formule usate da messer Ansaldo, inclusa l’aggiunta di voler trattare il marito della donna come fratello e la donna come sorella: Decameron X 5: Madonna, unque a Dio non piaccia, poscia che così è come voi dite, che io sia guastatore dello onore […]; e per ciò l’esser qui sarà, quanto vi piacerà, non altramente che se mia sorella foste […] al vostro marito di tanta cortesia quanto la sua è stata, quelle grazie renderete che convenevoli crederete, me sempre per lo tempo avvenire avendo per fratello e per servitore. Novellino: Or non piazza a Dio che in cavaliero d’Aquino tal villania casche già mai! […] Cara madonna, toglialo Dio che […] in desonore le possano né poco né multo retornare; anzi sempre da qui davanti ponerò per lui la persona e la facultà, como per proprio fratello e lialissimo amico se deveno ponere e te averò de continuo per sorella. (p. 218) Cantare:

non è rasone ch’ io li faça dexonore […] Ma per la fe[de] ch’io son bom cavaliero, amare intendo lui como fradelo. […] E finalmente ti come sorela trattarò sempremai per lo suo amore (41, 5 - 43, 2).

Le strette concordanze che si riscontrano fra Cantare e novella di Masuccio, nell’ultima parte del racconto, inducono a interrogarsi sulla direzione dell’imitazione: è plausibile che Masuccio abbia conosciuto il cantare, nella forma che ci è stata tramandata o in una redazione parallela, o è più probabile che il cantare abbia riraccontato la novella di Masuccio? Come abbiamo visto, la prima parte della novella di Masuccio è fortemente debitrice della versione esemplare: caratterizzazione guerriera del protagonista, similitudine del falcone, commento misogino; ma l’incontro precedente all’appuntamento notturno, la collocazione dell’incontro in un giardino, l’imitazione del linguaggio della novella di Madonna Dianora e altre concordanze verbali collegano la novella al cantare. Il cantare ignora l’ amico e le sue considerazioni misogine, le riflessioni intime che inducono il protagonista al gesto risolutorio e l’accento posto sulla ‘magnificentia’, o grandezza d’animo, che sono innovazioni e tratti caratteristici del Novellino; conserva invece il torneo, la creazione a cavaliere, il termine iniuria, la definizione della propria storia come ‘esempio’, tratti appartenenti alla fase arcaica della tradizione e scomparsi nel Novellino. Il cantare rappresenta, in altri termini, una fase intermedia fra la fase arcaica della tradizione e la redazione del Novellino. È dunque più attendibile l’ipotesi che Masuccio abbia conosciuto la versione riflessa nel cantare e l’abbia contaminata con un suo preciso ricorso all’exemplum del Gemma. Non fa ostacolo

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all’ipotesi la considerazione che bisogna allora attribuire al Cantare20 (o a una sua eventuale fonte) l’introduzione di precisi riferimenti a una novella del Boccaccio. È nota la popolarità e la diffusione anche negli ambienti canterini delle novelle del Boccaccio, alcune delle quali saranno traformate in cantari nel corso del Quattrocento. Il Cantare rivela anzi un contatto con un’altra novella del Boccaccio che manca del tutto nelle altre versioni italiane. L’accenno a un eventuale comparatico (e s’el t’impregna serò to compare 42, 6) si spiegherà infatti con la reminiscenza della novella X 4 del Decameron, in cui Gentile de’ Carisendi salva dal sepolcro la donna di cui è innamorato, la cura e tiene a battesimo il bambino di cui era incinta: «Lieva su, compare: […] io ti voglio donare questa donna mia comare con questo suo figlioletto, il quale son certo che fu da te generato ed il quale io a battesimo tenni». La tradizione della novella potrà dunque essere configurata in questo modo: una prima versione, provenzale o francese (scomparsa) dà luogo, in Inghilterra, ai racconti del De Nugis e del Gemma, alla fine del XII secolo e, in Italia, a una tradizione che riaffiora nella versione del Pecorone. Entrato in circolazione in Italia anche l’exemplum ecclesiastico del Gemma, la primitiva versione e quella del Gemma si fondono, incorporando inoltre tratti del Decameron, probabilmente in ambito canterino. Nella specifica redazione del cantare qui pubblicato, lo sviluppo del motivo del torneo21 e l’associazione immediata fra prodezza guerriera del giovane e innamoramento della donna fanno sì che vada perduto un tratto importante e caratterizzante della storia, cioè le lodi del marito all’inizio del racconto, e quindi la consapevolezza, da parte dell’ascoltatore, che l’innamoramento della donna era dovuto a quelle lodi. È quindi ovvio che il cantare ha qui rielaborato in modo maldestro i dati del racconto tradizionale, e non è possibile sapere se la versione ‘canterina’ che Masuccio aveva presente era simile a questa o fosse una versione più vicina al racconto tradizionale. Quello che è certo è che Masuccio conosce anche la versione ecclesiastica e che ‘corregge’ la prima parte della versione canterina con un ricorso preciso a quel modello, con un’operazione tanto più intrigante, dal punto di vista testuale, in quanto la versione canterina aveva già per suo conto utiliz20 È ovvio che quando si usa il termine ‘cantare’ si fa riferimento a una tradizione plurima e cangiante, e non a un testo preciso; un insieme insomma di redazioni che consegnano comunque alla tradizione una identificabile versione della storia. 21 L’ampliamento del motivo del torneo, tratto innovativo rispetto alle altre versioni della storia, potrebbe essere stato motivato dal ricordo di recenti eventi di cronaca. Il periodo della signoria di Giovanni II Bentivoglio (1464-1506), fu infatti contrassegnata da frequenti feste, conviti e giostre (celebre tra gli altri il torneo tenuto nel 1470, descritto da Giovanni Sabbadino degli Arienti e dal canterino Francesco Cieco da Firenze). Ma già negli anni ’40 le cronache registrano giostre, per esempio nel 1440 per la festa di S. Ruffillo, nel 1441 e nel 1447 per la festa di S. Petronio, nel 1449 per la nomina a cardinale di Giovanni Poggi, senza contare le giostre burlesche tenute nel tempo di carnevale. Cfr. F. Pezzarossa, «Ad honore et laude del nome Bentivoglio», 1984, con un ‘Catalogo delle manifestazioni festive bolognesi del Quattrocento’ in appendice, pp. 103-113. Il motivo della giostra organizzata da fanciulle da marito sarà invece il topos che trova il suo antecedente più noto nel Lancelot di Chrétien de Troyes.

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zato la versione del Gemma contaminandola, presumibilmente, con una versione della stessa storia appartenente a un filone diverso. Abbiamo qui un ulteriore esempio della complessità delle vicende nella trasmissione di racconti tradizionali, e della corrispondente difficoltà nel districare i rapporti fra le versioni e riconoscere i materiali che confluiscono in ogni particolare redazione. E tuttavia, ogni commento critico sulle varie versioni di una storia non può esercitarsi che tenendo conto dell’impronta individuale apportata da ogni autore ai dati preesistenti e deve presupporre, quindi, per essere corretto, una chiara individuazione delle innovazioni e del materiale tradizionale. Pur con la consapevolezza della difficoltà e della delicatezza del lavoro, riteniamo quindi che l’accertamento dei rapporti fra le versioni rimanga operazione preliminare e ineludibile di ogni tentativo di interpretazione storico-culturale della realizzazione letteraria di una storia. Da Giraldus Cambrensis, Gemma ecclesiastica (1196-1199)22 Sicut autem in monachis, monialibus, et clericis, sic et in militibus laudabilis exempla continentiae proponemus. Fuit in Francia nostris diebus miles egregius, et, ubi tot abundant boni, strenuitate in armis incomparabilis, cui nomen Reginaldus de Pumpuna. Hic viri cujusdam uxorem illicitis cum diu abundasset affectibus, nec affectus effectui mancipare potuisset, vice quadam miles maritus mulieris praedictae reversus a torneamento quod non procul a castro suo fuerat, coepit coram uxore sua super bellici praeludii illius eventibus23, et quis ea die prae caeteris laudem meruerit cum sociis et commilitonibus suis loquendo conferre, qui tandem omnes in militis praedicti, scilicet R. de Pumpuna, singularis et incomparabilis strenuitatis praeconiae consenserunt, dicentes: «Ille nunc vicit qui semper vincere consuevit». Audiens haec autem et narrantis pendens uxor ab ore viri: «Estne», inquit, «tantae probitatis miles ille?». Cui maritus: «Est utique, sicut enim ante falconis faciem columbae fugiunt seu monedulae, sic ante Reginaldum milites cuncti, nec impetum ejus aut ictum quisquam ausus est expectare». Mulier autem his auditis, a mulieris natura non degenerans, licet hactenus invicta, quia “varium et mutabile semper foemina,” fracta statim laudibus istis pravae cupidini victa succubuit, dicens secum et cogitans: «Forsitan huic uni poteram succumbere culpae». Captata quam citius ergo temporis idoneitate et viri absentia, nuntio directo militem illum clam fecit asciri. Quo gaudenter accepto, cum in thoro locatus desideratis jam vacaret amplexibus prius quam tamen ad factum accederet, ait: «Cum tanto tempore te jam dilexerim et incassum, qualiter nunc miserata es mei desperati penitus, et nil tale vel cogitantis jam vel sperantis?» Quae cum causas ei, laudes ejus scilicet quas ab ore viri tantas audierat assignasset, respondit ille: «Quia propter laudes igitur illas animum mutasti, et quem antea non dilexeras, diligere coepisti; et ego proter easdem animum quoque mutabo et dilectam hactenus in injuriam illius qui eas pronuntiavit numquam illicite diligam, et ab amplexibus his tantopere desideratis ob favorem ejusdem in perpetuum abstinebo». Et sic, illa renitente plurimum eumque modis omnibus retinere volente, osculis quoque et amplexibus muliebriter alliciendo ad thori

22 Riproduco e traduco, in quanto più difficilmente accessibile, l’exemplum del Gemma eccleasiastica secondo l’edizione Brewer. Per gli altri testi si vedano indicazioni bibliografiche nelle note relative. 23 Ediz. Brewer: veentibus.

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thalamique delicias ipsum invitante, surgens statim et recedens intra pudicitiae claustra laudabili exemplo se continuit. Come fra i monaci, i religiosi e i chierici, così anche fra i cavalieri proponiamo lodevoli esempi di continenza. C’era in Francia ai giorni nostri un cavaliere ripieno di tutte le virtù e, là dove sono tanti prodi cavalieri, senza paragoni per valore militare, che si chiamava Reginaldo di Pompona. Questo cavaliere amava da lungo tempo la moglie di un certo signore d’illecito affetto, ma non era mai riuscito a ottenere nessun risultato. Una volta il cavaliere marito della donna, tornato da un tornamento che si era svolto non lontano dal suo castello, cominciò a discutere con i suoi uomini e gli altri cavalieri sugli eventi dei combattimenti preliminari al torneo, e su chi in quel giorno avesse meritato le maggiori lodi. Tutti furono d’accordo che quel cavaliere, e cioè Reginaldo di Pompona, era il favorito per la sua fortezza straordinaria e senza paragoni, e dicevano: «Ha vinto oggi quello che vince sempre». Udendo questo la moglie, che ascoltava attentamente il racconto del marito, chiese: «È davvero tanto valoroso quel cavaliere?» E il marito: «Lo è davvero: e come le colombe o i passeri fuggono alla vista del falcone, così [facevano] tutti i cavalieri, e nessuno osava aspettare il suo impeto o il suo colpo». La donna, sentite queste cose, non diversa da tutte le donne (ché “mutevole e capricciosa è la femmina”), benché invitta fino a quel momento, domata improvvisamente da queste lodi, si lasciò vincere dalla lussuria, e disse fra sé, pensierosa: «Forse potrei permettermi questa colpa, questa sola». Colto dunque alla prima occasione il momento opportuno, in assenza del marito, mandatogli un messaggero, fece venire a sé di nascosto quel tale cavaliere. Accolto con grande gioia, egli, mentre già era nel letto e godeva dei sospirati abbracci, prima però di arrivare all’atto, disse: «Io ti ho amata per tanto tempo invano; come mai ti sei ora mossa a misericordia di me che ero quasi disperato, e non avevo nessuna idea, né alcuna speranza di un tale invito?» E avendogli lei spiegato la causa, cioè le grandi lodi che aveva sentito proferire dalla bocca del marito, quegli rispose: «Poiché dunque tu hai mutato animo a causa di quelle lodi, ed hai cominciato ad amare colui che non amavi, così anch’io a causa di quelle stesse lodi muterò animo e te che ho amato finora non amerò mai più illecitamente, in disonore di colui che le pronunziò e, a causa della sua benevolenza, mi asterrò per sempre da questi amplessi tanto desiderati». E immediatamente, mentre lei protestava energicamente e cercava di trattenerlo in tutti i modi, e lo invitava ai piaceri del letto, femminilmente attirandolo anche con baci e abbracci, si alzò e si trincerò nel rifugio della pudicizia, comportandosi in maniera lodevolmente esemplare. (traduzione mia)

Fra cortesia, continenza e magnificenza: reinterpretazioni di un motivo erotico*

Una storia compare in Inghilterra alla fine del dodicesimo secolo e in Italia fra la fine del quattordicesimo e la metà del quindicesimo secolo, ed è sempre la stessa: un cavaliere ama ardentemente una donna, sposata, che non gli presta alcuna attenzione. Ma quando sente il marito esaltare quel cavaliere con grandi lodi, la donna cambia idea e manda a chiamare il cavaliere per un appuntamento amoroso. Già nel caldo degli abbracci, la donna comunica al cavaliere il motivo del suo cambiamento d’umore e il cavaliere, sentendo che il marito di lei lo tiene in così grande stima, decide di non ricambiare villania per cortesia, domina la lussuria e interrompe ogni rapporto amoroso. La storia appare in una raccolta di varie prose moraleggianti, il De nugis curialium di Walter Map, scritto fra il 1182 e il 1189 (De nugis 270-76; Svaghi di corte 395-401)1, in un trattato a uso degli ecclesiastici con raccolta di exempla di Giraldo di Berri (noto anche come Giraldo di Cambria), intitolato Gemma ecclesiastica, scritto fra il 1196 e il 1199 (Gemma 226-28), e poi come prima novella della prima giornata nel Pecorone di Ser Giovanni Fiorentino scritto intorno al 1380 (Pecorone 10-17)2, come ventunesina novella della terza parte del Novellino di Tommaso Guardati (Masuccio Salernitano), scritta intorno al 1450 (Novellino 211-19), e come un cantare in sestine del quindicesimo secolo di cui ho curato l’edizione per Letteratura italiana antica3. Nel saggio prece* Presentato dapprima come paper al convegno «Transitions: Perspectives on Shifts in Italian Literature and Linguistics», presso la Victoria University in the University of Toronto, November 3, 2001 e pubblicato in Transitions. Prospettive di studio sulle trasformazioni letterarie e linguistiche nella cultura italiana, a cura di Kevin B. Reynolds and Dario Brancato. Fiesole: Cadmo, 2004, pp. 91-103. 1 Per la datazione cfr. Introduzione all’edizione a cura di C. N. L. Brooke e A. B. Mynors, pp. xxiv-xxxii e Jean-Thiébaut Welter 1973, p. 49. 2 Pasquale Stoppelli (1977) ha proposto l’identificazione di Ser Giovanni Fiorentino, autore del Pecorone, con un giullare fiorentino attivo presso la corte angioina, Malizia Barattone, autore di sonetti in onore di una donna chiamata Saturnina. 3 Bendinelli Predelli 2002, pp. 31-38.

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dente (che accompagna l’edizione del cantare nella rivista) mi sono occupata dei rapporti fra le diverse versioni, che si possono riassumere rapidamente in questo modo: le due versioni ‘inglesi’ e il Pecorone discendono probabilmente da una medesima fonte, perduta, d’ascendenza provenzale (o francese); le versioni del cantare e del Novellino, che conoscono la stessa storia, si servono però anche in maniera precisa (soprattutto il Novellino) dell’exemplum redatto da Giraldo di Cambria, che era arrivato in Italia con la copia della Gemma ecclesiastica regalata dall’autore al papa Innocenzo III4. Nelle stesse due versioni si nota anche l’intrusione di motivi ripresi dal Decameron, come vedremo meglio fra poco. Messa dunque a posto la preliminare questione filologica, il problema che si pone ora è quello dell’interpretazione critico-letteraria di queste diverse realizzazioni. Se, infatti, la storia rimane fondamentalmente sempre la stessa, come si può verificare l’assunto, specifico dell’interpretazione storicoletteraria, che ogni testo porta in sé i segni del suo tempo e del suo ambiente, incorpora ed esprime i valori della società per cui è scritto e di cui l’autore fa parte, e che ci permettono per l’appunto di entrare in rapporto spirituale con l’universo morale degli uomini del passato? Che questa storia rimanga sempre la stessa, indipendentemente da certi cambiamenti superficiali di circostanze, lo mostra non soltanto l’andamento della narrazione, tutta puntata verso l’eccezionale e sorprendente finale, ma anche i commenti d’autore che esplicitamente interpretano la storia per i lettori e gli ascoltatori: del cavaliere viene infatti esaltata in ogni caso la «laudabilis continentia» (Gemma, p. 226), la «victoria […] forti parata vigilancia» (De nugis, p. 274), la «fermezza» (Pecorone, p. 17), la «singolare vertù» (Novellino, p. 442), la «costanza» (Cantare: «che per costante vinse la lusuria» 47.5), la fortezza insomma dimostrata dal cavaliere nel dominare il proprio desiderio. Altrettanto invariato, sia pure con diversi gradi d’intensità, il giudizio negativo nei confronti della donna: «hec autem in ipso sue fervore libidinis, in ianua Dyones, in precipicio prompte ruine, in desperacione continencie» (ella però [rimase] nella stessa bruciante libidine, alla porta di Dione, nel precipizio di un’imminente rovina, nella disperazione della continenza. Svaghi di corte, pp. 400-01) secondo Walter Map; Giraldo anticipa il giudizio e lo estende a tutto il sesso femminino: «Mulier autem his auditis, a mulieri natura non degenerans […] quia “varium et mutabile semper fœmina” […] pravæ cupidini victa succubuit» (La donna, sentite queste cose, non diversa da tutte le donne, ché “mutevole e capricciosa è la femmina” […] si lasciò vincere dalla viziosa lussuria. Gemma, p. 227, traduzione mia). Anche il Cantare rappresenta la donna non soltanto sconsolata ma stizzita e imprecante: «e sì se volse dar d’un cortelino/ diçendo: “Ahi, traditor vilano e crudo […] e puo’ te parti con çento malani/ e vatten, che ’l dimonio te stranfani!”» (Cantare 44.5- 47.6). Il Novellino 4 Secondo il racconto dello stesso autore: cfr. Giraldo di Cambria, De rebus a se gestis, 1862, p. 119. Si vedano anche gli articoli di James Hinton.

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poi elabora a lungo il tema misogino e conclude: «Si la donna restasse confusa e schernita, facilmente se pò considerare; pur, tirata da loro innata avaricia, strengendo a sé le carissime gioie, a casa se ne ritornò» (Novellino, p. 458). Se dunque, per usare la terminologia di Segre, ‘modello narativo’, ‘fabula’ e ‘intrigo’ rimangono uguali, in che modo si potrà caratterizzare ciascuna realizzazione individuale della storia, riconoscere il passaggio da una mentalità a un’altra, da un secolo all’altro, da una cultura a un’altra, al di là delle superficiali variazioni di contenuto e delle variazioni di genere letterario? Bisognerà attestare la nostra analisi proprio al livello del ‘discorso’, del tessuto stilistico e linguistico nel quale la storia è codificata5. E, se mettiamo a confronto le prime due realizzazioni, che sono le più prossime per altezza cronologica, per ambiente culturale, per lingua e per genere letterario, noteremo subito una differenza che diventa però estremamente significativa quando le due realizzazioni vengono considerate non in coppia isolata ma sullo sfondo di altri tipi di discorso contemporanei. Infatti: mentre Giraldo evoca immediatamente un «miles egregius et […] in armis incomparabilis» (cavaliere egregio e […] senza paragoni per valore militare, Gemma, p. 226, traduzione mia), l’amante di Walter Map è un giovane, che verrebbe voglia di chiamare giovinetto quando leggiamo che lui stesso «Rollonem tandem respicit, militem serenissime fame, se vero puerum intra septa cunarum adhuc morantem nichil egisse, nichil egregium gessisse; iam se merito spretum dicit, et nisi prevaluerit non debere preponi» (Infine mise a confronto Rollone, cavaliere di chiara fama, e se stesso, ragazzo ancora non uscito dalle pareti domestiche, che non aveva ancora fatto nulla, non aveva realizzato nulla di egregio; pensò che era stato giustamente sprezzato e che non meritava di essere preferito all’altro, a meno che non fosse riuscito a superarlo, Svaghi di corte, pp. 394-95). Leggiamo ancora che il giovane diventa valorosissimo proprio perché vuole meritare l’amore della donna, che «et si nonnisi tantum eam videre debeat, idem fecerit» (se non gli fosse stato concesso altro che di vederla, avrebbe affrontato lo stesso ogni cosa, Svaghi di corte, pp. 394-95), che «Exit igitur quocumque ipsum magister amor evocat» (andava dovunque lo chiamasse il suo signore, l’amore, Svaghi di corte, pp. 394-95). Il discorso di Walter Map si dimostra insomma intriso di espressioni che rimandano alla letteratura dell’amore cortese. Ora, senza dilungarmi in un’analisi dettagliata, che ho offerto in altra sede6, ricorderò soltanto che nel trattato De amore di Andrea Cappellano7 ricorrono i motivi del confronto fra un «miles adultus omni probitate iocundus» (cavaliere maturo adorno di ogni virtù) e un «iuvenis […] nulla probitate decorus» (giovane […] non noto per alcuna C. Segre 1977, pp. 25-37. M. Bendinelli Predelli, The Lover Praised by the Husband: A Courtly Tale between Exemplum and Novella, 2003. 7 Cito dall’edizione Andreas Capellanus, On Love, 1982. 5

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virtù, De amore p. 254, traduzione italiana mia), della possibilità che l’amore possa indurre un uomo a ornarsi di virtù (p. 254) e della possibilità della continenza in situazioni di estrema intimità: vi si trova per esempio il bizzarro quesito se sia preferibile il godimento della parte superiore del corpo della donna, o quello della parte inferiore. L’interlocutore del momento, che per l’appunto è un chierico, afferma che è preferibile il godimento della parte superiore, suscitando la reazione prevedibilmente stupita della donna: Miror enim si in quoquam tanta sit abstinentia carnis inventa, ut unquam voluptatis promeruerit impetum refrenare et corporis motibus obviare. Monstrosum namque iudicatur a cunctis, si quis in igne positus non uratur. Si quis tamen in hac fide quam dicitis fuerit amoris puritate repertus et in praefata quam dixistis continentia carnis, huius laudo et plenius confirmo propositum et ipsum censeo omni honore dignissimum. De amore, pp. 180-828.

Un tassello decisivo per iscrivere l’exemplum di Walter Map nell’ambito della tematica dell’amor cortese viene poi offerto dal repertorio poetico di un trovatore provenzale, Gaucelm Faidit, che in una tenzone con un En Rembaut dibatte se una donna debba preferire come amante un cavaliere che sia amico del marito, o un suo nemico9. Gaucelm propende decisamente per il nemico perché in caso contrario l’amante si renderebbe colpevole di uno spregevole tradimento nei confronti dell’amico (marito). Come si vede, il tema della tenzone coincide in pieno col tema dell’exemplum di Walter Map. Si dà poi il caso che questo trovatore frequentasse, intorno al 1186, nella Bretagna francese, la corte di Goffredo II, figlio del re Enrico II; il che accresce le probabilità che la tematica cortese sia penetrata in quel torno di tempo nei circoli della corte anglo-normanna dei Plantageneti. Tutte queste circostanze permettono insomma di intravedere, dietro all’exemplum di Walter Map, un nucleo narrativo simile ai ‘casi’ riferiti dal De amore o da altri testi (e a quelli che racconterà più tardi il Boccaccio nell’episodio delle Questioni d’amore del Filocolo), che doveva preesistere agli exempla latini nell’ambito di una casistica da amore cortese. In quel racconto il comportamente del cavaliere innamorato e continente doveva esser già presentato come esemplare e «omni honore dignissimum», ma non credo che la virtù attribuita al cavaliere avesse lo stesso senso che gli attribuiscono le redazioni di Walter Map e soprattutto quella di Giraldo di Cambria. Il senso originario della storia doveva piuttosto inserirsi nell’ambito della casistica morale elaborata nelle ‘corti d’amore’: è noto che le 8 Mi meraviglio che in un individuo si possa trovare tanta capacità di astinenza da frenare la forza della voluttà e contrastare i moti del suo corpo. A tutti apparirà straordinario che qualcuno posto nel fuoco non bruci. Ma se, come voi asserite in buona fede, esistesse qualcuno capace di amare castamente e di praticare secondo le vostre parole la continenza carnale, lodo il suo proposito e lo sancisco pienamente, considerandolo degno di ogni onore. Traduzione mia. 9 J. Mouzat 1965, pp. 172-178.

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discussioni e le decisioni a proposito dell’amore cortese miravano alla codificazione di una morale aristocratica, più o meno coscientemente alternativa alla morale predicata dagli ecclesiastici, una morale laica in opposizione a quella religiosa. Non è un caso che il terzo libro del De amore di Andrea Cappellano sia un’esplicita palinodia degli atteggiamenti e dei principi sostenuti nei primi due libri:  «Nullus enim posset per aliqua benefacta Deo placere, quousque voluerit amoris inservire ministeriis» (Nessuno potrebbe risultare gradito a Dio per qualunque buona azione fino a tanto che voglia perseverare nei servizi d’amore, De amore, p. 286, traduzione mia). La storia, presumibilmente provenzale o francese, presupposta dagli exempla ‘inglesi’ doveva additare il comportamento del cavaliere in questione come eccellente modello di comportamento cortese: la sua risoluzione si collocava nella linea di quella sublimazione degli istinti naturali che è caratteristica della poesia d’amore provenzale e in accordo con la soluzione proposta da Gaucelm Faidit, per cui il rifiuto di tradire il signore amico viene dato come prova e segno della nobiltà d’animo, ma anche di casta, dell’amante cortese. L’exemplum di Giraldo di Cambria, che include esplicitamente l’episodio fra gli exempla di continentia, titolandolo «De militibus quoque exempla laudabilia» (comportamenti modello offerti anche da cavalieri), dopo aver proposto esempi di continenza fra monaci, religiosi e chierici, trasforma invece il concetto eminentemente aristocratico e laico di ‘cortesia’ in virtù di continenza nell’accezione religiosa del termine; e l’esempio è usato per estendere anche ai laici la raccomandazione di usare una virtù che è considerata di solito appannaggio dei religiosi, ponendosi in ultima analisi come modello proposto all’imitazione di ogni buon cristiano. Da virtù eminentemente cortese, la continenza viene dunque recuperata all’interno del discorso ecclesiastico e il pubblico a cui il modello è proposto viene generalizzato. Arrivata in Italia, la storia si concretizza dapprima nel racconto di ser Giovanni Fiorentino, la cui vicinanza alla versione di Walter Map fa pensare che i due racconti derivino dalla stessa fonte. Rispetto alla versione latina, gli interventi dell’autore del Pecorone si collocano principalmente in due momenti: l’episodio che porta alle lodi del marito, e il dialogo finale dei due amanti; ma, soprattutto, cambia l’ambientazione: nonostante che ai due protagonisti venga attribuita «nobile progenia» e dignità di «cavaliere», il racconto evoca un ambiente chiaramente comunale e borghese («Or avenne che indi a pochi dì messer Stricca fu mandato dal Comune di Siena, cioè da’ Signori, per ambasciadore a Perugia», Pecorone, p. 14). Le variazioni della prima parte sembrano le più significative: anche se è detto che il giovane andava «giostrando e armeggiando […] per amore di lei», la connotazione guerriera del giovane è decisamente soffocata da tutte le altre attività che gli sono attribuite: «sempre vestiva e portava la divisa della detta sua ’manza […] faccendo di ricchi mangiari per amore di lei […] e sempre a feste e a nozze questi l’era dietro […] e più e più volte mandò a lei per interposita persona doni e ambasciate» (Pecorone, pp. 10-

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11). Si orecchia dietro queste espresisoni la novella di Federigo degli Alberighi. La trasformazione dell’ambientazione aristocratico-feudale, ancora sensibile nella versione di Walter Map, appare completa nella scena totalmente borghese che prepara le lodi del marito: qui marito e moglie si trovano in una loro casa di campagna; di lì passa il giovane Galgano che va a caccia d’uccelli solo per avere il pretesto di vedere la sua donna; il marito, messere iStricca il vide e cognobbe, e subito si li fece incontro e dimesticamente il prese per mano, pregandolo che li piacessi d’andare a cena co lui e co la donna sua. Di che il detto Galgano il ringraziò e disse che grandissima merzè, che gli piacesse d’averlo per riscusato, conciosiacosach’egli andava inn-u certo luogo di bisogno. Di che messer Stricca li disse «Passa almeno a bere». Di che il giovane rispose: «Io non voglio, gran merzè, fatevi con Dio, ch’io ho fretta». Di che messer Stricca, veggendo la volontà sua, il lasciò andare. (Pecorone 12-13)10

Le lodi tributate dal marito appaiono però in questa versione del tutto ingiustificate, e difficilmente comprensibile il subito cambiamento d’animo della donna: alla moglie che chiede di chi è lo sparviero capitato nel loro giardino, Il marito rispuose: «Egli è di Galgano che poca d’ora passò quinci, e volsi ch’egli stesse a cena con noi, e non volse. E per certo egli è il più ingraziato giovane e ’l più dabene ch’io vedessi mai». […] Di che la donna notò queste parole e tennesele a mente. (Pecorone, p. 14)

Nonostante la gradevole capacità di mimesi del racconto che nella scena finale, anziché arrivare rapidamente alla questione principale, accompagna i due amanti dal primo saluto, attraverso i baci, i confetti e i piacevoli ragionamenti fino agli allettamenti del letto, sul piano della logica del racconto la sola giustificazione per l’improvviso voltafaccia è fornita da un’opposizione retorica fra i termini ‘cortesia’ e ‘villania’, che inquadra la decisione eroica del giovane in un sistema di valori un po’ diverso da quelli del racconto provenzale. Perché certo, nel nuovo contesto municipale e borghese, ‘cortesia’ non può avere l’antico significato che l’associava alla morale aristocratica, mentre l’accezione negativa del termine ‘villania’ rimanda all’opposizione fra cittadino e villano. Si tratta quindi di valori e disvalori più generici, legati ai comportamenti e alla reputazione di cui ogni cittadino godeva nella chiusa cerchia di rapporti fra abitanti di una stessa città. Il ‘debito d’onore’ dell’amante nei confronti del marito, sottratto al rapporto vassallatico, o di compagnonnage, appare meno cogente e s’inserisce in un quadro assiomatico proprio di una convivenza civile alla cui costruzione avranno senza dubbio contribuito e l’esperienza comunale e l’esempio prepotente del Decameron11. G. Fiorentino, Pecorone, 1974. Per una considerazione della moralità ‘borghese’ del Pecorone si veda l’articolo di Christopher Nissen. 10 11

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La Storia della dama bolognese è la più disordinata fra le realizzazioni della storia; come è del resto ragionevole aspettarsi in un’opera di genere canterino, di carattere popolare e forse passata attraverso più di una redazione. Quella consegnata al manoscritto di Perugia ha infatti una patina linguistica fortemente dialettale, localizzabile nella Bassa Padana, probabilmente intorno a Ferrara, ma vi si intravedono anche forme toscane. Dico disordinata perché il cantare si concentra dapprima sulla presentazione del giovane, poi passa immediatamente ai preparativi dell’appuntamento amoroso, dimenticando di parlare del marito e delle sue lodi. Di queste, e del fatto che esse sono la ragione dell’innamoramento della donna, si viene a sapere soltanto nel corso dell’appuntamento amoroso, con un effetto di sorpresa, certo, ma anche in modo che ancora più sorprendente appare la subita risoluzione dell’amante, qui attribuita a una irrelata e astratta virtù guidata dalla provvidenza divina. Il cantare adatta la sua storia alle esigenze del genere canterino: dà largo spazio alla descrizione di una giostra, e ai dialoghi: fra la donna e la sua cameriera, fra la cameriera e l’amante, di nuovo fra la cameriera e la donna e, naturalmente al dialogo fra l’amante e la donna nel corso del quale viene rivelato anche l’antefatto. L’amante chiede inoltre che la donna gli confermi le sue intenzioni nel corso di un appuntamento intermedio a distanza, nel corso del quale lei gli farà cenno con una cintura: siamo evidentemente in presenza di tecniche dilazionatrici il cui scopo è quello di titillare la sensibilità dell’ascoltatore nell’attesa dell’appuntamento amoroso, e di una retorica tipicamente canterina, come quella che si esprime nel discorso diretto12. Interessante che, in questo caso, l’amante affermi addirittura di non conoscere il marito: «Con tuo signor non ebe mai conteça/ ma pur, como tu di’, me loda asai:/ conviegnio aver la sua dexmestigheça» (41.1-3). Il suo gesto è quindi semplice conseguenza del ragionamento: «non è rasone ch’io li faça dexonore/ se lui mi loda e fami tanto honore» (41.5-6). L’inaspettata conclusione fa appello al senso dell’onore, e si direbbe che anche qui il senso rimandi alla morale di una civile convivenza di stampo borghese13. Tuttavia si tratta di un senso dell’onore ormai generico, sottratto a qualunque determinazione sociale e quindi senza corrispondenza o presa diretta sul reale. Non per niente il testo del cantare lancia messaggi in tutte le direzioni: dal tono romanzesco-romantico all’ammicco malizioso, dal senso morale a quello moralistico, a spia della mancanza di relazione con un ambiente preciso, della necessità, per un’opera di genere canterino, di fare appello a valori diversi e adattarsi a pubblici diversi: tutto questo a prezzo, evidentemente, di una maggiore genericità e superficialità dei valori evocati. Cfr. il mio saggio Dal cantare romanzesco al cantare novellistico, 1983. Alla quale il canterino appende poi la riflessione moralistica ricavata, insieme ad altri motivi narrativi, dall’exemplum di Giraldo di Cambria: «che sempio pigli d’esto bologniexe / […] che per costante vinse la luxuria / sol per nom fare al çentilomo inçuria» (47.2-6). 12 13

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Un aspetto interessante di questo cantare sta però nel fatto che nel discorso della vecchia storia vengono a inserirsi anche suggestioni più recenti e più prestigiose, provenienti dal Decameron. Se il Pecorone concludeva che messer Galgano «a messere iStricca portò sempre singularissimo amore e reverenzia» (Pecorone, p. 17), l’amante bolognese annuncia, già nel suo discorso alla donna: Ma per la fe[de] ch’io son bom cavaliero, amare intendo lui como fradelo. A lui diletta andare a sparaviero ed ancora io me diletto di quelo: io el menarò miego ad uçelare e s’el t’impregna serò to compare. E finalmente ti come sorela trattarò sempremai per lo suo amore. (42; 43, 1-2)

L’autore del cantare si è accorto che la situazione, per così dire, maliziosa di questa storia richiamava da vicino le situazioni di certi racconti del Decameron, e non si è fatto scrupolo a contaminare la sua fonte diretta con espressioni che apparivano perfettamente appropriate in situazioni simili, come quella di madonna Dianora (Decameron X 5), le cui impossibili richieste sono puntualmente soddisfatte dal suo corteggiatore e a cui il marito permette di recarsi dall’amante per mantenere la parola data. Quando l’amante viene a conoscenza della liberalità del marito, a sua volta dà prova di generosità liberando la donna dalla sua promessa, con queste parole: Madonna, unque a Dio non piaccia, poscia che così è come voi dite, che io sia guastatore dello onore di chi ha compassione al mio amore; e per ciò l’esser qui sarà, quanto vi piacerà, non altramente che mia sorella foste; e quando vi sarà a grado, liberamente vi potrete partire, sì veramente che voi al vostro marito di tanta cortesia quanto la sua è stata quelle grazie renderete che convenevoli crederete, me sempre per lo tempo avvenire avendo per fratello e per servitore. (Decameron p. 1154)

Da qui vengono, con ogni probabilità, la protesta di voler considerare il marito come un fratello e la donna come una sorella; mentre la bizzarra anticipazione «e s’el t’impregna, serò to compare» (42, 6) sarà una reminiscenza della novella, sempre della decima giornata, di messer Gentile de’ Garisendi e del suo tenere a battesimo il bambino della donna amata, salvata e restituita al marito. L’utilizzo di tratti narrativi ricavati dalle novelle del Decameron sembra però rimanere, al livello del cantare, espediente puramente esornativo. Tutt’altro rilievo avrà l’eco della voce boccaccesca nel discorso della nostra storia quando essa arriva a conoscenza dell’ultimo rielaboratore della novella, Masuccio Guardati. Va avvertito intanto che il Novellino riutilizza, insieme alla storia tradizionale e al cantare, l’esempio di Giraldo di Cambria in maniera

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precisa e continuata: così Bertramo è prima di tutto un guerriero, un capitano, caratterizzato dalle sue virtù militari, e l’affermazione del marito che paragona Bertramo a un falcone riprende puntualmente una similitudine dell’exemplum. Masuccio è stato attirato soprattutto dall’orientamente misogino dell’exemplum; la sua novella insiste infatti su questo aspetto introducendo una lunga tirata sulla mutevolezza e la malvagità delle donne, messa in bocca a un amico del protagonista. Ma la lezione boccacciana si manifesta soprattutto nel nuovo senso che il gesto di fortezza dell’amante acquista rispetto alle versioni precedenti. Mentre infatti nelle versioni viste finora è il senso dell’onore e dell’amicizia per il marito che determina la decisione dell’amante, nella versione di Masuccio lo sforzo dell’amante si configura quasi come in una gara di magnanimità col marito della donna. Del Boccaccio Masuccio riprende non soltanto delle espressioni verbali (dice infatti Bertramo: «…toglialo Dio che l’amore che me porta el tuo vertuoso marito […] recevano tale vicioso guidardone, de farme in alcuno atto procedere contra le sue più care cose, che in disinore le possano né poco né multo retornare; anzi sempre da qui avanti ponerò per lui la persona e la facultà, como per proprio fratello e lialissimo amico se deveno ponere, e te averò de continuo per sorella…» Novellino, pp. 217-18),

ma la nozione della gara di liberalità fra due uomini. Il tema era stato trattato dal Boccaccio a più riprese nell’ultima giornata, e collegato precisamente al tema dell’amicizia: si ricorderanno le novelle di Tito e Gisippo, o di messer Torello e il Saladino; e del resto lo schema della gara di liberalità è un tema fortunato nella narrativa successiva al Boccaccio, come dimostrano alcune novelle del Sermini14 o la storia di Iroldo e Prasildo nell’Orlando Innamorato del Boiardo. Non a caso Beltramo non raggiunge immediatamente la sua decisione, anzi il processo che porta alla rinuncia è accompagnato da una lunga riflessione, nel corso della quale egli mette a confronto sé stesso col marito, l’amicizia che il marito gli dimostra e il proprio comportamento: «Tu non trovasti al tuo vivente uomo alcuno che de usar cortesie e liberalità te avantaggiasse mai; e in che atto potrai mostrare la integrità de tue vertù più che in questo […] E che questo te sia perfetissimo amico, ultre ogni passata esperienzia, tu lo hai da lei medesma sentito apertamente […] Tu, pigliandolo, che digno merito avera’ del suo verso di te ben volere, e del summamente lodarte in assenzia, come negli veri amici se rechiede?» (Novellino, pp. 217-18).

Gara quindi di amicizia, e gara soprattutto di magnanimità, dove si avverte l’influenza di una concezione informata dalle letture classiche e dalla nozione 14 Cfr., per esempio, la novella XIV «Anselmo Salimbeni e Angelica Montanini» in Gentile Sermini, Novelle, vol. 1, pp. 167-173.

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umanistica di grandezza d’animo. E, tuttavia, è anche possibile avvertire nel discorso di Masuccio un leggero spostamento rispetto a quello del Boccaccio, un tono che lo distacca dalla concezione di grandezza d’animo altissima ma classicamente composta della tradizione umanistica. Un tono più teso, quasi esasperato, che corrisponde alla nuova atmosfera culturale della corte aragonese. Si osservi come venga messo a fuoco proprio lo sforzo del superamento: «Le magnificencie non consistono a demostrarsi a le cose de poca qualità, si non a le alte e quando a se medesimo dispiaceno […] e in che atto potrai mostrare la tua integrità de tue vertù più che in questo, e massimamente avendola in tua balìa, e credendo con lei longo tempo con felicità godere, e con la vertù e ragione vincendo te medsmo, del tuo tanto aspettato desidero te privi?» (Novellino 217-18).

Vengono in mente certe pagine del Tirant lo Blanc, romanzo aragonese per l’appunto dello stesso torno di tempo dove è ugualmente messa a fuoco l’agonia di un lunghissimo amore mai confortato da alcuna soddisfazione carnale. E ancora: l’esaltazione del ‘nobilissimo’ cavaliere d’Aquino è troppo esplicita, troppo basata su una concezione di casta («Or non piazza a Dio che in cavaliero d’Aquino tal villania casche già mai!» Novellino, p. 218) e troppo orientata verso il riconoscimento di una gerarchia (si legga l’ultima frase: La novella dopo alcun tempo fu risaputa; dove fu dato avanto a messer Bertramo, como era sooprano ne l’arme, animuso, discreto e proveduto, cossì de magnificencie, liberalità e somme vertù avanzare ogne altro cavaliero, che dentro e fuori Italia ne la sua età fusse stato già mai. Novellino, p. 219)

per riconoscersi in una cultura di tradizione cittadina (come Firenze, per esempio). La configurazione del discorso corrisponde invece a una mentalità indotta dalle strutture di un regime monarchico e neofeudale che le crisi politiche ed economiche del periodo tendevano a irrigidire. È dunque possibile in realtà caratterizzare ciascuna delle diverse realizzazioni della stessa storia e riconoscerne l’omologia con la cultura corrispondente alle strutture sociali dell’ambiente in cui avvenne la codifica. Solo a patto però non solo di uscire dall’analisi del singolo componimento per mettere a confronto le diverse versioni, ma anche di allargare l’orizzonte ai discorsi letterari contermini e contemporanei. Soltanto la concomitanza di questi ci permette di individuare le corrispondenze con le strutture culturali dell’ambiente storico-sociale. È per la valenza anche metodologica dei procedimenti che si sono rivelati produttivi per la definizione di queste cinque versioni che abbiamo proposto questo esercizio di lettura.

Il motivo del Fier Baiser fra letteratura e folklore*

Il motivo del fier baiser è certo fra i più diffusi nel campo del folklore, come dichiarava già nel 1895 William Schofield nei suoi Studies on «Libeaus Desconus»1. Lo Schofield compilò infatti un elenco di 34 casi in cui si ritrova il motivo, raccogliendo insieme testi letterari e folklorici, medievali e moderni, tra cui romanzi, novelle, opere teatrali, libri di geografia, cronache, ballate, fiabe, e coprendo praticamente tutte le lingue e tutti i paesi europei. Ora, che i romanzi medievali presentino somiglianze strutturali e di contenuto con i prodotti del folklore è risaputo, ma i rapporti fra questi due grandi campi dell’immaginario umano rimangono piuttosto confusi, anche in saggi di critica avvertita. In questo articolo ripercorreremo le occorrenze del motivo del fier baiser nei testi medievali e primo-rinascimentali proprio con l’obiettivo di contribuire a chiarire la difficile questione dei rapporti fra letteratura medievale e folklore. Ci limitiamo qui allo studio dei testi letterari, visto che il campo del folklore è coperto dall’Indice di Aarne Thompson, che suddivide il motivo D735 Disenchantment by a kiss in vari sottotipi. Escludendo dunque canti folklorici e fiabe raccolti nel XIX secolo, il motivo si ritrova in tutti i testi elencati qui sotto, in ordine approssimativamente cronologico: – il poema tedesco Lanzelet, di Ulrich von Zatzikhoven (primo quarto del XIII secolo); * Pubblicato in inglese in Studies for Dante. Essays in honor of Dante Della Terza, a cura di Franco Fido, Rena A. Syska-Lamparska, Pamela D. Stewart, Fiesole: Cadmo, 1998, pp. 467-484. 1 «The idea of the fier baiser is one of the most widely spread in the domain of folk-lore, and in some places is in full force to the present day», W. H. Schofield 1895, p. 199 (Il motivo del bacio tremendo è uno dei più difusi nel campo del folklore e in certi posti è ancora vivo e fiorente ai nostri giorni).

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– il poema cortese francese Bel Inconnu, di Renaud de Beaujeu (primo quarto del XIII secolo); – il cosiddetto Book of Travels di Jean de Mandeville (XIV secolo); – il frammentario poemetto franco-italiano Belris (XIV secolo); – il romance inglese Lybeaus Desconus (XIV-XV secolo); – il cantare italiano di Carduino (XIV-XV secolo); – il cantare italiano Ponzela Gaia (XV secolo); – la Peregrinatio ad Terram Sanctam del notaio italiano Nicola de Martoni (1394-95); – il Liber insularum Archipelagi di Cristoforo Buondelmonti (1420); – la cronaca del nobile napoletano Angelo de Tummulillis intitolata Notabilia temporum (1464); – il romanzo catalano Tirant lo Blanc di Joanot Martorell (1468)2; – l’Orlando Innamorato di Matteo Maria Boiardo (1476-1494); – la raccolta di Comptes amoureux di Jeanne Flore (1510); – un romanzo italiano barocco dal titolo Il principe Sferamundi (1610); e finalmente – un’opera teatrale di Carlo Gozzi intitolata proprio La donna serpente (1762). Il fatto che alcune di queste occorrenze dipendano chiaramente da altre presenti nell’elenco riduce però notevolmente il numero dei testi da prendere in considerazione. Basta infatti leggere i testi per rendersi conto che l’occorrenza nei Comptes amoureux di Jeanne Flore e La donna serpente di Carlo Gozzi derivano dall’Orlando Innamorato; l’episodio incluso nel Tirant lo Blanc trascrive quasi alla lettera la versione di Jean de Mandeville; e a sua volta il romanzo catalano è la fonte dell’avventura del Principe Sferamundi. In ognuna di queste occorrenze, la fonte è dunque sicuramente una testimonianza letteraria (scritta) e può quindi essere esclusa dalla discussione in corso. Raggruppiamo allora le versioni che rimangono in alcuni tipi principali: a) il poema del Bel Inconnu ha due stretti paralleli nel romance medievale inglese Lybeaus Desconus da una parte, e nel cantare italiano di Carduino dall’altra, trasmessi entrambi da manoscritti del Quattrocento, ma da far risalire forse alla fine del XIV secolo. I rapporti fra queste tre versioni non sono ancora del tutto chiarite, ma si potrà far riferimento a questa versione come al tipo del Bello Sconosciuto: nonostante compaia in tre distinte versioni, la storia del Bello Sconosciuto è infatti chiaramente identificabile nel contesto delle altre occorrenze del motivo, e ne rappresenta una delle varianti principali. A questo tipo saranno da associare anche le occorrenza che si verificano nel franco-italiano roman de Belris e nell’Orlando Innamo2 La parte finale del romanzo, dove si trova il motivo del fier baiser, potrebbe però non essere di Joanot.

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rato. Nel roman de Belris il motivo non è più il culmine della quête ma una delle tante prove meravigliose superate dall’eroe; i dettagli però che la dama appaia in un castello incantato e che sia stata trasformata in serpente da un cattivo stregone associano questa versione a quella del Carduino e quindi alla tradizione che riconosce nel Bel Inconnu la sua più notevole realizzazione3. Nell’Orlando Innamorato (Libro II canto 26) è l’eroe, Brandimarte, che bacia il serpente, così come aveva fatto Carduino, mentre nel Bel Inconnu di Renaud de Beaujeu e nel roman de Belris è la «wivre» stessa che bacia il cavaliere4. Tuttavia, il fatto che l’avventura abbia luogo in un castello incantato, l’esitazione di Brandimarte davanti al serpente, la reazione istintitva che lo porta a difendersi con la spada, i tentativi ripetuti di superare il proprio timore sono tutti tratti che inducono ad attribuire anche la versione dell’Orlando Innamorato alla tradizione del Bello Sconosciuto. b) La versione del Book of Travels di Mandeville ha anch’essa paralleli in altri libri di viaggio, che situano la leggenda nell’isola di Lango (Cos): il resoconto di un viaggio in Terrasanta del notaio italiano Nicola De Martoni (1394-95) e il libro di geografia di Cristoforo Buondelmonti, Liber insularum Archipelagi (1420). Di nuovo, date le somiglianze fra queste versioni, si può indicare questa tradizione come il tipo «dei libri di viaggio». c) La versione che si trova nel poema alto-tedesco Lanzelet rimane isolata, con tratti che la avvicinano più alla tradizione dei libri di viaggio che a quella del Bello Sconosciuto. d) Un’ulteriore versione del motivo della donna serpente si trova nel cantare quattrocentesco Ponzela Gaia, e quindi nell’Innamoramento di Galvano di Matteo Fossa, che è una rielaborazione del cantare, e nel poema Innamoramento di Lancillotto e di Ginevra di Niccolò degli Agostini, con la continuazione di Marco Guazzo (XVI secolo). Il motivo appare come una delle avventure di Galvano, e l’associazione con Galvano mi induce a pensare che anche questa occorrenza dipenda in un’ultima analisi dalla tradizione del Bello Sconosciuto: nel Bel Inconnu infatti compare la rivelazione che l’eroe è figlio di Galvano; a quest’altezza cronologica è comunque logico pensare che questa filiazione sia stata contaminata con tratti ricavati da altre varianti. Nei primi due testi è venuto a mancare il tratto del bacio come condizione della trasformazione; nell’Innamoramento di Lancillotto invece ricompare, ma va ricordato che Niccolò degli Agostini è uno dei poeti che si cimentò con la continuazione dell’Orlando Innamorato, ed è quindi probabile che abbia ripreso il tratto da quest’opera. In quest’ultimo tipo comunque la trasformazione del serpente in damigella non appare 3 Jacques Monfrin pubblicò il testo del poemetto franco-italiano su «Romania» nel 1962. Nel commentare il Roman de Belris Jacques Monfrin suggeriva una divaricazione della tradizione del Bello Sconosciuto in Italia in due rami, uno dei quali avrebbe dato luogo al Carduino e l’altro al Roman de Belris (J. Monfrin 1989). 4 Anche nel poema tedesco Lanzelet è l’eroe che bacia il serpente.

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così importante come negli altri. Siamo di fronte ormai a tarde e slavate reminiscenze di un vecchio motivo che ha perso la pregnanza e l’importanza strutturale che aveva nelle opere dei secoli precedenti. Tra la fine del XII e la fine del XIV secolo erano dunque vivi tre tipi del motivo: la storia del Bello Sconosciuto, la leggenda relativa all’isola di Cos, e l’episodio del Lanzelet. Vediamo adesso di esaminare e caratterizzare più attentamente queste varianti. La versione del fier baiser che compare nel Lanzelet è l’episodio culminante del poema di Ulrich: è vero che avviene 1500 versi prima della fine del poema, ma, dopo quest’episodio, tutto quel che rimane da fare a Lanzelet e alla sua donna è di raccogliere i riconoscimenti dovuti alla dimostrazione del loro valore. Qualunque sia l’interpretazione da dare alla collocazione dell’episodio (Lanzelet come cavaliere perfetto non solo per quanto riguarda il valore guerriero ma anche per quanto riguarda la cortesia in amore?), è comunque indubbio che l’episodio mette il tocco finale al ritratto dell’eroe, che il poema intende esplicitamente celebrare come il paragone di ogni virtù cavalleresca: Hie mite was ez bewaeret, dô diu magt alsô genas, daz bî Lanzeletes zîten was dehein rîter alsô guot. Er behabet ân allen widermuot den prîs vor sînen gesellen. (vv. 7972-7977)5 (Qui fu provato, quando la damigella fu restituita alla gioia, che al suo tempo nessun cavaliere fu così valente come Lanzelet. Egli ricevette senza alcuna obiezione il più alto onore sopra tutti i suoi amici.)

Nel poema di Lanzelet, pur se in posizione privilegiata, il motivo resta comunque una delle tante avventure dell’eroe. Nella storia del Bello Sconosciuto invece l’incantesimo e la tensione verso la liberazione costituiscono la ragione strutturale dell’intero racconto. Tutta la sequenza degli avvenimenti, dall’inizio alla fine, è lo sviluppo coerente del motivo di base: una principessa è stata trasformata in serpente da uno stregone cattivo; soltanto un cavaliere dal valore ecezionale sarebbe in grado di liberare la principessa dall’incantesimo; la ricompensa sarà la mano e il regno della principessa. Così, la storia racconta dell’arrivo alla corte di Artù di un cavaliere sconosciuto e apparentemente rozzo, che ottiene dal re il dono della prima avventura disponibile, e dell’arrivo di una damigella che è venuta alla corte di Artù per cercare un cavaliere dal valore straordinario. La sequenza delle avventure incontrate durante il viaggio verso la destinazione, guidato dalla damigella, serve a dimostrare l’eccellenza 5

Ulrich von Zatzikhoven, Lanzelet, a cura di Frederick Norman, 1965.

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del cavaliere e a guadagnare la fiducia della sprezzante damigella. Ovviamente il cavaliere riesce a liberare la principessa dall’incantesimo e dallo stregone e a diventarne lo sposo. In entrambe queste varianti, quella del Lanzelet e quella del Bello Sconosciuto, la disgrazia della fanciulla trasformata in drago, o serpente, è totalmente risolta quando interviene un cavaliere che riesce a liberare la fanciulla. Siamo nell’universo della narrativa romanzesca e il motivo appare come una storia, o un episodio della stessa. Quando rivolgiamo l’attenzione al motivo come compare nei libri di viaggio, vediamo subito che la fisionomia del motivo cambia in quanto la situazione è presentata sempre come aperta: Mais quant il vendra un si hardy qui l’ose aler baisier, il ne mourra mie; ainçois revendra la damoiselle en sa droite fourme, et sera sire du pays6. (Ma quando arriverà uno così ardito che abbia il coraggio di andare a baciarla, non morirà mica; anzi, la damigella tornerà nella sua forma propria, e lui diventerà signore della terra.)

Il modo in cui il motivo è presentato appare certo più consono al mondo della leggenda, alla forma di una credenza tradizionale, e non a caso lo scrittore insiste sull’oralità della sua fonte: Et dist on que en celle ylle de Angho est encore la fille Ypocras, en guise d’un grant dragon […] si comme on le dist; car je ne l’ay mie veu7. (E si dice che in quell’isola di Ango c’è ancora la figlia d’Ippocrate, sotto forma di un grande drago […] secondo quello che si dice; perché io non l’ho mica vista.) de qua quodam mirabile michi fuit narratum et certificatum michi per dictum dominum fratrem Dominicum, dum fui cum eo in civitate Rodi, quod filia Ypocrate…8 (di cui una cosa straordinaria mi fu narrata e confermata dal suddetto signor fra’ Domenico, mentre ero con lui nella città di Rodi, che la figlia d’Ippocrate…) Dicitur etiam et affirmatur quod filia Hippocratis…9 (Si dice infatti e si afferma che la figlia d’Ippocrate…)

Ci si potrà dunque chiedere se è plausibile pensare che le versioni romanzesche abbiano origine da racconti trasmessi oralmente a proposito di una damigella trasformata in drago, nell’attesa di un bacio da parte del miglior cavaliere del mondo. Questa era la tesi di Gaston Paris10 e di Gédéon Huet, e anche recentemente il fier baiser è stato citato da Jean Charles Payen, in un suo articolo molto interessante, come uno degli esempi che rivelano l’«enracinement foklorique du roman arthurien»: lo studioso, che insiste sulle intenzioni della 6 7 8 9 10

Mandeville’s Travels, vol. ii, 1953, p. 241. Mandeville’s Travels, vol. ii, 1953, p. 240. L. Le Grand, Relation du Pélerinage, p. 644. C. Buondelmonti, p. 103, citato da G. Huet, p. 53. G. Paris, Guinglain ou Le Bel Inconnu, 1886.

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classe nobiliare di distanziarsi dalla supremazia del clero, addita «leur souci, plus fréquent qu’on ne le croit, de se prévaloir de traditions diverses dont l’ancienneté garantit la valeur d’auctoritas». Tali «traditions diverses», secondo Payen, erano attinte spesso dal patrimonio folclorico: Folklorique, l’enigme mortelle posé par un géant (je pense à la premiére partie du Tristan en prose). Folklorique, l’intervention de la bête blanche, souvent victime d’un enchantement. Folklorique, le fier baiser consenti à un monstre qui se transforme en princesse, et qui signifie le mariage avec la souveraineté … épisodes, qui constituent pour l’auditoire autant de repères familiers. La façon dont ils sont traités implique toute une oralité latente, toute une familiarité avec des contes qui circulent beaucoup plus largement que dans l’aire restreinte du château11. (Folclorico l’indovinello mortale proposto da un gigante (penso alla prima parte del Tristan en prose). Folclorico l’intervento dell’animale bianco, spesso vittima di un incantesimo. Folclorico il bacio tremendo concesso a un mostro che si trasforma in principessa, e che significa lo sposalizio con la sovranità […] episodi che costituiscono riferimenti familiari per l’uditorio. Il modo in cui sono trattati presuppone tutta un’oralità latente, tutta una familiarità con racconti che circolano molto più largamente che nell’area ristretta del castello.)

Anche se precisa che folklore non vuol dire per lui una «culture populaire au sens étroit», e cioè «une culture plébeienne ou rurale propre aux couches les plus modestes de la population», ma piuttosto una cultura «qui se rattache à un terroir et procède d’une inspiration régionale ou nationale», il Payen ha in mente comunque una cultura «contadina». L’entusiasmo per questo «ensemble obscur et diffus qui appartient authentiquement au folklore» lo porta a sostenere che dovevano esserci contatti e scambi fra la cultura degli aristocratici e quella delle classi inferiori: La culture aristocratique, si fermée soit-elle, communique avec una culture paysanne qui lui est tout proche. Le seigneur ne s’est pas superbement isolé de ses vilains. Il connaît les conteurs qui les fascinent et les invite peut-être, quelquefois, à le distraire à son tour. […] Il fallait un relatif courage, aux poètes romans pour aller puiser leurs trésors dans le monde, pour eux marginal, du moins sur le plan culturel, des vilains et de la rusticité12. (Per quanto chiusa sia la cultura aristocratica, essa comunica con una cultura rurale che le è prossima. Il signore non si è superbamente isolato dai suoi contadini. Conosce J-Ch. Payen 1978, pp. 432-33. J-Ch. Payen 1978, pp. 433, 435. L’affermazione di Payen riecheggia un passo di K. H. Jackson: «before the Renaissance the stories genuinely popular and current among the upper classes had a great deal in common with those popular with the unlettered peasantry, and their plots were very often the same […] Hence there was a constant give and take between the two, a constant process whereby literary men adopted stories from folk sources and folktale tellers made use of materials which they acquired in various ways from literary sources». K. H. Jackson 1961, pp. 3-4 (prima del Rinascimento le storie ben note che avevano corso fra le classi superiori avevano molto in comune con quelle diffuse fra le classi rurali analfabete, le loro trame erano spesso le stesse […] Perciò c’era un continuo scambio fra le due categorie, un movimento costante per cui i letterati accoglievano storie da fonti folcloriche e i contastorie utilizzavano materiali acquisiti in vario modo da fonti letterarie). 11

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i narratori che li affascinano e forse qualche volta li invita a distrarre anche lui. […] Ci voleva un certo coraggio, ai poeti in volgare romanzo, per andare a cercare i loro tesori nel mondo, per loro marginale, almeno sul piano della cultura, dei contadini e della rusticità.

Roger Sherman Loomis, dal canto suo, sostiene invece che la storia del Bello Sconosciuto derivi ultimamente da una tradizione celtica, rintracciabile in diverse storie irlandesi. Una di queste storie racconta del figlio di un re che, pur di procurare dell’acqua ai suoi uomini, accetta di baciare una strega mostruosa; al che, non solo la strega si trasforma in una bellissima fanciulla, ma rivela anche di essere la «sovranità dell’Irlanda», cosicché il giovane viene designato erede del trono. Il motivo viene poi interpretato come il riflesso narrativo di un mito naturalistico che alluderebbe al sole «embracing the bleak, wintry land of Ireland and transforming her by his caresses into a vision of flowery loveliness, clad in a mantle of green»13 (che abbraccia la brulla terra invernale d’Irlanda e la trasforma con le sue carezze in una visione di fiorita leggiadria, avvolta in una mantello di verde). Quello che importa ritenere ai nostri fini è che, nella prospettiva del Loomis, così come della scuola anglosassone in generale, le storie romanzesche francesi presuppongono non un folklore contadino ma una tradizione narrativa patrimonio di poeti e storytellers celtici14. Mi piacerebbe spingere un po’ più a fondo l’esame di queste due posizioni a proposito del motivo del fier baiser. Per quanto riguarda l’ipotesi del mito celtico, è certo che il motivo non fu inventato da Renaut de Beaujeu, che deve aver seguito una precedente storia di un Bello Sconosciuto. Penso anche, come molti altri studiosi anglosassoni moderni, che le storie dei romanzi arturiani trovino la loro origine molto più probabilmente nell’attività di narratori professionisti che nell’ambito di un folklore contadino. Tuttavia non ci sono prove che il motivo del fier baiser appartenesse davvero al patrimonio della narrativa celtica. Le concordanze fra questo motivo e quello della Sovranità dell’Irlanda sono a mio parere piuttosto deboli: la struttura narrativa delle storie irlandesi focalizzate sul motivo della Sovranità dell’Irlanda è molto diversa da quella della storia del Bello Sconosciuto15; che la fanciulla liberata sposi il suo liberatore, e lo associ alla propria regalità, nel suo regno, sono R. Sh. Loomis, The Fier Baiser, 1951, p. 111. Nell’esaminare le varie occorrenze del motivo nei racconti popolari tedeschi, Emma Frank arriva alla conclusione che tutti derivano dalle versioni letterarie del Medioevo. Cfr. E. Frank 1928. 15 In una versione precedente della storia Bello Sconosciuto, l’ « impresa difficile » e punto culminante della storia era forse la liberazione della principessa da un pretendente sgradito, che appiccava le teste dei suoi avversari su una fila di paletti tutt’intorno al castello, versione che è conservata nel Book of Sir Gareth di Thomas Malory e nell’Ipomedon di Hue de Rotelande. Il motivo della fanciulla-drago rappresenterebbe allora una sostituzione alla precedente versione dell’impresa difficile. Il mio Alle origini del Bel Gherardino contiene una bibliografia relativa alla Storia del Bello Sconosciuto (pp. 225-26). 13

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tratti così diffusi nella narrativa popolare di tutto il mondo che, a mio parere, non costituiscono concordanze cogenti; e, soprattutto, una vecchia strega è cosa ben diversa da un drago (o serpente) spaventoso. Non rimango quindi del tutto convinta dell’ipotesi del Loomis. Un’altra ipotesi, secondo la quale il motivo troverebbe origine nel folklore di origine greca, è stata discussa attentamente da Gédéon Huet nella sua analisi del motivo quale appare nei Travels di Jehan de Mandeville. Huet si domanda se la leggenda riportata dal Mandeville possa essere considerata un autentico motivo folklorico, ed espone diverse considerazioni per inficiare la credibilità che il resoconto di Mandeville rappresenti davvero la trascrizione di un racconto orale: on peut affirmer que […] Mandeville n’a pas été lui-même à Cos et, par conséquent, n’a pu y recueillir notre récit. On se rappelle en effet qu’il distingue, au début, entre l’«ille de Cohos» et celle de «Langho» ou «Angho». Or, Lango est tout simplement le nom médiéval de Cos. Un voyageur qui eût été lui-même sur les lieux n’eût jamais commis une confusion aussi ridicule. La narration contient encore un autre détail, qui peut en tout cas nous faire douter qu’elle soit la transcription absolument fidèle d’une légende qui avait cours à Cos parmi le peuple: la transformation de la jeune fille en dragon y est attribué à Diane. Or, le nom d’Artémis, l’équivalent grec de Diane, est aujourd’hui inconnu du peuple en Grèce propre. (Si può tranquillamente affermare che Mandeville non è stato personalmente a Cos, e quindi non può avervi raccolto la nostra storia. Si ricordi in effetti che egli distingue, al principio, l’isola di «Cohos» da quella di «Langho», o «Angho». Ora, Lango è semplicemente il nome medievale di Cos. Un viaggiatore che si fosse recato personalmente sui luoghi non avrebbe mai fatto una confusione tanto assurda. Il racconto contiene poi un altro particolare che potrebbe in ogni caso farci dubitare che si tratti della trascrizione assolutamente fedele di una leggenda diffusa comunemente fra la gente di Cos: la trasformazione della fanciulla in drago vi è attribuita a Diana. Ora, il nome di Artemide, che è l’equivalente greco di Diana, è oggi sconosciuto al popolo greco.)

E inoltre, La versione que Mandeville aurait suivie ne peut être bien ancienne […]: on se rappelle qu’il y est question d’un «chevalier de l’Hospital du chastel de Rodes». On sait que les chavaliers de l’Hôpital ne s’établirent à Rhodes qu’en 131016. (La versione seguita da Mandeville non può essere molto antica […]: ci si ricorderà che vi si parla di un «cavaliere degli Ospitalieri» del castello di Rodi. [Ma] si sa che gli Ospitalieri non si stabilirono a Rodi che nel 1310.)

Huet riconosce poi che «Mandeville pille sans vergogne dans les récits des autres»: «plus on l’a étudié de près, plus son crédit a baissé», tanto che arriva alla definizione dell’autore come di un «habile géographe de chambre»17. La G. Huet 1918, p. Una recente studiosa di Mandeville, Christiane Deluz, è molto meno severa nei riguardi dei meriti del geografo francese. La Deluz ritiene che Mandeville abbia in effetti viaggiato attraverso il 16 17

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sua discussione arriva comunque alla conclusione che la storia possa essere un’autentica leggenda folklorica, ammettendo che possa essere stata «primitivement indépendente d’Hippocrate et rattaché après coup à son nom». Le sue ragioni per credere all’autenticità folklorica del racconto sono 1) l’esistenza di numerose altre leggende legate al nome di Ippocrate, documentate dal Conte del Graal e da una versione catalana dei Sette Saggi, che pare di origine bizantina; 2) l’esistenza di una seconda fonte storica, il Liber insularum Archipelagi (1420), che racconta la storia della figlia di Ippocrate in termini che ne escludono la dipendenza dalla versione di Mandeville. Se Huet fosse stato a conoscenza della Peregrinatio ad Terram Sanctam di Nicola de Martoni, e della sua versione della storia, non avrebbe avuto più dubbi sul fatto che si trattasse di un’autentica credenza popolare, visto che Martoni stesso afferma di aver ricevuto la storia da una fonte orale. La relazione del notaio italiano sul suo viaggio in Terrasanta non è soggetta alle precauzioni che si rendono necessarie a proposito dei Viaggi di Mandeville, anzi egli pare riportare fedelmente le avventure del suo viaggio: [Dal suo racconto] viene fuori il ritratto vivacissimo d’un uomo […] ricco di umanità e animato da uno spirito di curiosa e attenta osservazione […]. Nonostante le difficoltà e i disagi del viaggio e la situazione pericolosa, il Martoni cedette a un suo interesse strettamente culturale nel voler visitare con cura i monumenti della città affidandosi a guide locali («Rogavi quosdam de dicta civitate ut me conducerent ad videndum ipsa hedificia et res antiquas»), dalle quali raccolse notizie e tradizioni leggendarie che poi trascrisse fedelmente nella sua relazione18.

Va notato che le versioni rinvenute nelle tre relazioni di viaggio presentano differenze sensibili fra l’una e l’altra per cui non sono ipotizzabili relazioni dirette fra di loro. Dunque, se si considerano le testimonianze del Mandeville (1366-1370 ca)19, del Martoni (1395) e del Buondelmonti (1420), non si può dubitare che dalla metà del Trecento in poi esistesse una leggenda, collegata all’isola di Cos, intorno a una fanciulla-drago che aspettava di essere liberata Mediterraneo e che abbia raccolto la leggenda della fanciulla-drago sul posto. La studiosa non contesta però gli argomenti dell’Huet; e anche l’affermazione di P. Hamelius, secondo il quale «all but a few pages have been proven to be stolen from some older books» (è stato dimostrato che, ad eccezione di poche pagine, tutte le altre sono ricavate da libri precedenti; P. Hamelius 1923, vol. 2, Introduction and notes, p. 19) è sostanzialmente confermata dalla discussione condotta dalla Deluz sulle fonti di Mandeville. Fra le più importanti di queste si citano le enciclopedie di Vincent de Beauvais e di Brunetto Latini (Speculum naturale, Speculum historiale e Livre dou Tresor), il pellegrinaggio in Terrasanta di Wilhelm von Boldensele, il viaggio in Palestina e in Oriente di fra’ Odorico da Pordenone, il De statu Saracenorum di Guglielmo di Tripoli, le opere storiche di Jacques de Vitry, d’Albert d’Aix, di Hayton, e romanzi in volgare, particolarmente quelli intorno ad Alessandro Magno. Fonti che, come dice la Deluz, sono paragonabili a enciclopedie o Images du Monde (C. Deluz 1988, p. 59). 18 S. Poli di Spilimbergo 1973, pp. 356-57, con riferimento all’articolo di M. Pastore Stocchi 1967, pp. 197-99. 19 C. Deluz tende però ad anticipare i viaggi di Mandeville al 1342.

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dal bacio di un valorosissimo cavaliere, e che la leggenda sia stata trasmessa tanto per via orale che per via scritta. Da notare anche che la leggenda era associata non solo all’isola di Cos ma anche all’Ordine dei Cavalieri Ospedalieri: sia Mandeville che Martoni menzionano infatti il tentativo infelice da parte di un cavaliere dell’Ordine dei Cavalieri di San Giovanni20. Martoni sente parlare della leggenda non a Cos ma a Rodi, da un membro dell’Ordine e a proposito di un membro dell’Ordine. Gli Ospedalieri però dovevano aver trasportato a Rodi i costumi e la letteratura del paese d’origine; è noto che certe credenze leggendarie collegate a certi luoghi dei territori greci nel Medioevo derivavano la loro origine proprio dalla letteratura romanzesca anglonormanna o francese. Già Huet osservava: cette légende [della figlia d’Ippocrate] n’est pas le seul conte de ce genre qui se trouve dans le livre du pseudo-voyageur: on y lit de même la légende du «château de l’Épervier». Or, l’authenticitè de cette histoire, soi-disant arménienne, paraît fort sujette à caution, quand on remarque, avec M. Warner, que “le nom de Castrum de Espervier se lit déjà chez Gervais de Tilbury, rattaché à une toute autre légende, qui ressemble à celle de Mélusine”21. (Questa leggenda [della figlia d’Ippocrate] non è l’unica storia di questo genere che si trovi nel libro dello pseudo-viaggiatore: vi si legge anche la leggenda del «Castello dello Sparviero”. Ora, l’autenticità di questa storia, dichiarata armena, appare molto dubbia quando si osserva, con M. Werner, che “il nome di Castrum de Espervier si legge già in Gervasio da Tilbury, collegato a una leggenda di tutt’altra natura, che assomiglia a quella di Melusina”)

E più recentemente Silvia Poli di Spilimbergo notava nella relazione del Martoni un’altra leggenda locale riferita a un vecchio castello nell’isola di Eubea che veniva chiamato «castrum Fate Morgane, domine Laci, matris Pozelle Gage; in quo castro dicitur fuisse captivum dominum Calvanum»22 (il castello della Fata Morgana, Donna del Lago, madre della Pulzella Gaia; nel quale castello si dice che sia stato prigioniero il signor Galvano). Gli informatori del Martoni furono «certos nobiles de dicta civitate [Negroponte], confratres cujsdam [sic] hospitalis noviter editi in dicta civitate» («certi nobili della città di Negroponte, confratelli di quell’ospedale recentemente stabilito in quella città»; allusione anche qui agli Ospedalieri?). A parte la data evidentemente tarda (posteriore ai poemi cortesi) del riferimento ai Cavalieri Ospedalieri (che si stabilirono a Rodi solo nel 1310), notiamo che requisito necessario per il fier baiser è che il liberatore sia un cavaliere, anzi, il miglior cavaliere del mondo. Questo tratto è talmente coerente con l’ideologia feudale riflessa nella letteratura romanzesca del Medioevo che l’ipotesi che la leggenda rifletta un motivo realmente locale e antico appare sempre meno convincente. Si è indot20 L’ordine dei Cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme nacque attorno a un ospedale fondato a Gerusalemme verso il 1048, da qui l’appellativo di «Ospedalieri». 21 Huet 1918, p. 51. Cfr. anche R. Sh. Loomis 1949, pp. 92-95. 22 S. Poli di Spilimbergo 1973, p. 358.

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ti a questo punto a sospettare che Loomis abbia ragione quando suggerisce che «the tale of Hippocrates’ daughter represents an episode from Arthurian romance, transplanted and localized in the Mediterranean»23 (la storia della figlia d’Ippocrate rappresenti un episodio ricavato da un romanzo arturiano, trapiantato e localizzato nel Mediterraneo). Un’associazione mentale fra le rovine della «gaste cité» del Bello Sconosciuto e le rovine del palazzo d’Ippocrate potrebbe aver fatto scattare l’associazione fra l’isola di Cos e la leggenda della donna-drago24. Si arguisce, insomma che anche se tra la fine del XIV e l’inizio del XV secolo la leggenda raccolta dal Buondelmonti e dal Martoni era di fatto una leggenda trasmessa oralmente, è molto improbabile che riflettesse una leggenda locale, folklorica, risalente all’antichità classica; così come è improbabile che la leggenda di Cos sia all’origine del motivo delle versioni romanzesche del motivo. Inoltre, il fatto che il Martoni abbia raccolto la leggenda dagli Ospedalieri di Rodi nel 1394 non esclude, di per sé, che il Mandeville avesse trovato la leggenda in un qualche testo scritto, e che la leggenda raccolta dal Martoni fosse il risultato, piuttosto che la fonte, della storia rinvenuta nel libro di viaggi del Mandeville. A queste generiche obiezioni a proposito della credibilità che il motivo del fier baiser abbia origine nel folklore greco, aggiungerei alcune osservazioni sull’episodio quale appare nel Lanzelet le quali, se anche non rivelano apertamente la sua origine, sembrano però aprire la strada verso una soluzione possibile. Infatti, concluso l’episodio della fanciulla-drago, l’onnisciente autore del Lanzelet si rivolge direttamente al suo pubblico a fornire ulteriori informazioni sulla damigella incantata: Durch der liute niugerne so entouc mir niht zenberne, ich sage iu daz ze mære, wer diu vrowe wære, diu von dem wurme ein wîp wart. (vv. 7983-87) […] siu hiez schone Elidia, von Thîle eines küneges kint. daz wizzent wol die wîse sint und die die welt hânt erkant, daz Thîle ist ein einlant, ein breit insele in dem mer. R. Sh. Loomis 1951, p. 112. Domus que fuerunt Ypocrate sunt extra terram modo per duos jactus lapidis cum manu […] domus ipse hostendunt magnum fuisse hedificium, sicut unum castrum, cum multis magnis et diversis hedificiis, nun vero sunt dirructe et in ipsarum aliquibus partibus includuntur animalia illorum de terra Langonis. E. Le Grand, Relation du Pélerinage, p. 644 (Le case che furono di Ippocrate sono fuori della città ad appena due tiri di sasso. Dimostrano esse stesse di essere state una grande costruzione, come un castello, con molti grandi e diversi edifici; ora però sono in rovina e in alcune parti di quelle rovine vengono chiusi gli animali di quelli della città di Lango). 23

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storie e cantari medievali dâ ist von wunder manic her, diu nieman kunde geahten. Ein wochen vor Wîhnahten sint sô kurz dâ die tage nâch Rômære buoche sage, dâ manic wunder an stât, daz ein loufer kûme gât vor naht ein halbe mile. Die tage sint ouch ze Thîle ze sumer langer danne hie. Ir envrieschent vremder mære nie dan uns dannen sint geseit. Swelch wîp sich an ir hübscheit werkurke und des gedenke, daz si den beschrenke, der ir dienet umb ir minne, daz kumet ir ze ungewinne. (vv. 7990-8012)

(Per soddisfare la curiosità della gente non mancherò di informarvi su chi era la damigella che fu trasformata da drago in donna. […] Si chiamava Elidia [Clidra] la Bella, figlia di un re di Tule. I saggi, e quelli che conoscono il mondo, sanno bene che Tule è una terra, una grande isola in mezzo al mare. Ci sono laggiù cose meravigliose che nessuno saprebbe immaginare. Una settimana prima di Natale i giorni sono così corti, secondo l’autorevole testimoniaza di libri romani, che descrivono molte meraviglie, che un corridore potrebbe percorrere appena mezzo miglio prima che arrivi la notte. In Tule i giorni d’estate sono più lunghi che qui. Non udireste storie più strane di quelle che si riferiscono a quel luogo. Qualunque donna peccasse contro l’etichetta cortese, e pensasse di ingannare un uomo che la serve per amore, incorrerebbe in una disgrazia.)

Nel brano l’autore tenta chiaramente (sia pure ironicamente) di corroborare la credibilità dell’episodio incredibile appena narrato menzionando altre incredibili meraviglie dell’isola di Tule. È chiaro che, per far ciò, ricava il suo discorso da una fonte che poteva essere un libro di geografia, o un resoconto di viaggi o, ancora più probabilmente, da una di quelle opere che, come la Lettera di Alessandro ad Aristotele, mascheravano la presentazione delle loro mirabilia mundi sotto l’aspetto di un resoconto di viaggio, vero o letterario che fosse25. È interessante che quel discorso penetri direttamente nell’episodio della fanciulla-drago: quando Lanzelet parla per la prima volta alla fanciulladrago, dice infatti: «ich gesach nie tier sô grimme / noch als engeslîch getân / aldes ich ervarn hân 1 wazzer oder an lande» (in nessuno dei miei viaggi, né per terra né per mare, vidi mai una bestia tanto orribile e spaventosa); a cui il drago stesso risponde: «Got hât liut unde lant / von manegem wunder ge25 Loomis ha indicato come una caratteristica della cultura anglo-normanna la fascinazione per i mirabilia, o prodigi naturali, documentata per esempio nell’Itinerarium Cambriae (1191 ca.) di Giraldo da Cambria, che descrive una «palude urlante», un «belvedere crescente» e la «collina della bolla meravigliosa» (Introduzione alla traduzione del Lanzelet di Ulrich von Zatzikhoven, 1951, pp. 7-8).

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maht, / mit sîner tougen bedaht» (Iddio ha creato popoli e terre di tante specie diverse, concepite dal suo miracoloso potere)26. Espressioni di questo genere riflettono un atteggiamento simile a quello che si ritrova, per esempio, nel prologo alla Lettera del Prete Gianni nella versione in versi tramandata dal manoscritto di Yale, University Library, 395: Curteis est Deus ki tut cria, Qui tut governe et tuit fet a. Tuit vait a sun commandement: Ciel e terre e ewe e vent. Quanque ad fet, ki garde em prent, Miracle est tut veraiment […] Mult i a ke nus savum E plus asez ke n’entendum, Mes assez ad de cele gent Que ne creient ke seit niënt Fors sul tant cum il ont veü E par eus meismes entendu. Mes plus i a, ke bien enquiert; Cum plus ira, plus ciert en iert: […] Ne sevent cil de l’Occident Les grant miracles de l’Orient Dunt ci poez alkes aprendre, Si vus volez a moi entendre. (vv. 1-6, 38-44, 47-50)27 (Generoso è Iddio che tutto creò, che tutto governa e tutto ha fatto. Tutto procede secondo il suo comando: cielo e terra e acqua e vento. Tutto quello che Lui ha fatto, se ci si pensa, è una vera meraviglia […] Molte ce ne sono che conosciamo, e ancora di più che non comprendiamo, ma c’è tanta gente che credono che non esista se non quello che loro stessi hanno visto, o di cui hanno loro stessi sentito parlare. Ma altre ce ne sono, se uno cerca bene; quanto più andrà avanti, tanto più ne sarà certo: […] Non sanno quelli dell’Occidente le straordinarie meraviglie dell’Oriente, di cui potrete imparare qualcosa se mi prestate attenzione)

L’ipotesi che il Lanzele risenta di un libro di mirabilia è corroborata dal fatto che l’affermazione sulla lunghezza dei giorni in estate e in inverno è un’informazione spesso ripetuta nei libri medievali di geografia a proposito dell’isola di Tule (identificata normalmente con l’Islanda)28. Plinio il Vecchio, Vv. 7898-7901; 7906-08. Pubblicata da M. Gosman, 1982. Il testo tedesco rimanda esplicitamente all’«autorità di libri latini (romani)», e il modo in cui viene indicata la brevità del giorno (un corridore può percorrere appena mezzo miglio prima che cada la notte) sembra in effetti evocare fonti d’ambiente classico. Il solstizio d’inverno è invece sostituito dalla festa di Natale, il che presuppone una rielaborazione medievale del dato astronomico. Per una discussione sull’identificazione geografica di Thule si veda W. Richter 1934, pp. 70-71. 26 27 28

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per esempio, (seguito da Isidoro, Prisciano, Giulio Solino, Beda, lo storico islandese Are, l’autore dell’Imago mundi [1100 ca.] e dall suo rifacitore anglonormanno) fa riferimento al solstizio d’estate quando, a suo dire, non ci sono notti, e al solstizio d’inverno quando non ci sono giorni: Ultima omnium quae memorantur Thyle, in qua solstitio nullas esse noctes indicavimus, cancri signum sole transeunte, nullosque contra per brumam dies. (Libro IV)29 (L’ultima di tutte quelle che si ricordano [è] Thule, della quale abbiamo detto che nel solstizio [d’estate] non vi sono notti, quando il sole entra nel segno del Cancro, nel solstizio d’inverno invece non vi sono giorni.)

Il Liber de mensura orbis terrae di Dicuil, scritto nell’825, e primo libro a riportare informazioni sull’Islanda fondate sull’esperienza, è più preciso e corregge l’opinione diffusa: Non solum in aestivo solstitio, sed in diebus circa illud in vespertina hora occidens sol abscondit se quasi trans parvulum tumulum […] in medio illius minimi temporis medium noctis fit in medio orbis terrae, et sic puto e contrario hiemali solstitio et in paucis diebus circa illud auroram minimo spacio in Thile apparere, quando meridies fit in medio orbis terrae et idcirco mentientes falluntur, qui […] a vernali aequinoctio usque ad autunnale continuum diem sine nocte atque ab autunnale versa vice usque ad vernale aequinoctium assiduam quidem noctem, dum illi navigantes in naturali tempore magni frigoris eam intrabant ac manentes in ipsa dies noctesque semper praeter solstitii tempus alternatim habebant30. (Non solo al momento del solstizio estivo, ma anche nei giorni vicini a quella data, il sole che tramonta alla sera si nasconde quasi come dietro un monticello […] a metà di quel brevissimo tempo la mezzanotte cade a metà dell’orbita della terra, e così immagino che al contrario nel solstizio invernale e nei giorni immediatamente circostanti l’aurora in Thile appaia per brevissimo spazio, quando il mezzogiorno cade a metà dell’orbita della terra; e perciò si sbagliano quelli che mentendo dicono che dall’equinozio primaverile fino a quello autunnale fa continuamente giorno, senza notte, e che, inversamente, dall’equinozio autunnale a quello primaverile fa continuamente notte, mentre quelli che navigavano nel tempo del gran freddo vi approdavano e, rimanendovi, avevano sempre giorni e notti alternate, fuorché alla data del solstizio.)

Si può quindi pensare che l’episodio del Lanzelet discenda da un testo in cui si parlava di una donna-serpente come di una delle meraviglie del mondo; lo stesso testo, sconosciuto, che avrebbe dato luogo alla versione di Mandeville. Si sarà parlato in questo testo della possibilità di rompere l’incanto con un bacio, o si ha qui una convergenza con la leggenda della Sovranità dell’Irlanda? Il testo associava la meraviglia precisamente con l’isola di Tule, o con qualche altra isola? Quanto di quello che leggiamo oggi nel Lanzelet dipende da questa 29 Attribuita erroneamente a Onorio d’Autun, l’Imago mundi è probabilmente opera di un monaco inglese, poiché vi si dimostra una conoscenza insolitamente precisa delle isole a nord e a ovest dell’Europa. Cfr. P. Duhem 1913-1959, iii, pp. 24 e ss. Ne esisteva un rifacimento anglonormanno in versi, pubblicato da William Hilliard Trethewey, 1967. 30 Dicuil 1970, pp. 42-44.

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fonte (presumibilmente anglonormanna) e quanto dipende dall’intervento di Ulrich? Domande destinate a restare senza risposta. Si può solo presumere che la rottura dell’incanto per mezzo di un bacio fosse già nella fonte di Ulrich, visto che l’associazione fra donna e serpente è ben documentata in ambito anglonormanno fra la fine dell’XI secolo e il principio del XII: al di là della storia del Bello Sconosciuto31, una delle Nugae di Walter Map (1181-1193) racconta che la moglie soprannaturale di Henno si trasformava in drago ogni domenica32; e uno dei sermoni di Geoffroi d’Auxerre Super Apocalypsim, composti fra il 1187 e il 1194, raccontava la storia di un signore che aveva sposato una donna sconosciuta, incontrata in una foresta, che non era altro che una «serpentis […] in specie mulieris». La donna prouvait un plaisir extraordinaire à se baigner et passait le plus clair de son temps à cette occupation. Et elle refusait de se laisser voir nue, même par l’une de ses servantes: quand tout était prêt, elle les renvoyait, restait seule dans la chambre et fermait la porte de l’intérieur. […] Une servante profite d’une fente dans la paroi pour surprendre le secret de sa maîtresse: elle assiste à la métamorphose de la fée et voit “non pas une femme mais un serpent qui déroule ses anneaux dans l’eau du bain”33. (provava un piacere straordinario a fare il bagno, e passava la maggior parte del suo tempo in quest’occupazione. E rifiutava di farsi vedere nuda, persino da una serva: quando tutto era pronto, le mandava via, restava sola nella camera e chiudeva la porta dall’interno. Una serva approfitta di una fessura nella parete per sorprendere il segreto della padrona; assiste alla metamorfosi della fata e vede “non una donna ma un serpente che srotola le spire nell’acqua del bagno”).

Pochi anni dopo Gervasio di Tilbury, che era vissuto a Londra qualche tempo e compose i suoi Otia Imperialia fra il 1209 e il 1213, scriveva: «De serpentibus tradunt vulgares, quod sunt foeminae, quae mutantur in serpentes». Affermazione solo apparentemente attribuita ai «vulgares», perché Gervaso stesso racconta una storia simile a quella di Geoffroi d’Auxerre, attribuendola a Raymond de Château Rousset (Otia Imperialia, I, 15). La familiarità della donna soprannaturale con l’acqua, evocata da Water Map, Geoffroi d’Auxerre e Gervasio di Tilbury, è un tratto ricorrente in queste storie. Allo stesso modo, nell’episodio del Lanzelet, «Zehant vlôch der wurm hin dan / da ein sche wazzer ran, / und badet sînen rûhen lîp. / Er wart daz schnest wîp, / die ieman ie dâ vor gesach» (Immediatamente il drago corse là dove scorreva un bel ruscello, vi bagnò il suo corpo rugoso, e divenne la più

Cfr. W. Schofield 1895, pp. 175-79 Videt eam igitur summo mane die dominica, egresso ad ecclesian Hennone, balneum ingressam et de pulcherrima muliere draconem fieri. Walter Map, De nugis curialium, iv, 9 (Vede infatti che la mattina presto il giorno di domenica, quando Henno era uscito per andare in chiesa, la donna entrava nel bagno e da bellissima donna si trasformava in drago). 33 Super Apocalypsim, xv, a cura di F. Gastaldelli, 1970. Citato da L. Harf-Lancner, Les fées au Moyen Age, Ginevra, Slatkine, 1984, p. 150. 31

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bella donna che nessuno avesse mai visto)34. È dunque plausibile ritenere che il motivo della donna-drago abbia preso consistenza nell’ambiente letterario anglonormanno, aperto al fascino di libri, o storie che riferissero mirabilia mundi. Interessante osservare che nel’ultimo dei libri di viaggio che abbiamo preso in considerazione, quello del Buondelmonti, uno strenuus vir riesce a compiere l’impresa di liberare l’isola dal serpens maximus che divorava le greggi e terrorizzava gli abitanti: come se per la sua stessa natura la leggenda richiedesse una conclusione e, anche senza l’influenza dei romanzi fosse destinata a diventare una ‘storia’. Un’ulteriore testimonianza di come la leggenda della donna drago in attesa abbia trovato la felice conclusione dell’amore fra la fanciulla e il suo liberatore si riscontra nella cronaca di Angelo de Tummulillis da Sant’Elia, notaio del Regno di Napoli al tempo dell’ultima regina degli Angiò e del nuovo sovrano Ferdinando d’Aragona. L’autore stesso fu testimone di molte delle vicende narrate nel suo Memorabilia temporum, una cronaca delle cose notevoli occorse ai suoi tempi, coprendo un periodo che va all’incirca dal 1390 al 1477. L’episodio del fier baiser è riportato come accaduto nel 1464. Questa occorrenza del motivo è stata ritenuta da Mauda Bregoli Russo come prova della presenza in Italia della fonte anglonormanna del Lanzelet (che secondo la Bregoli Russo avrebbe potuto essere un lai)35. Ora, che le fonti del Lanzelet fossero lais musicali, e che questi potessero essere ancora circolanti in Italia nel XV secolo non sembra una tesi molto plausibile; ma certo la storia di Angelo de Tummulillis appare come un ulteriore, tardo, riecheggiamento dello stesso motivo romanzesco. Il particolare che il mostro stesso parli all’eroe «dicens ne aufugeret, quia bonum ei contingeret si timore posposito audere ipsum osculari; quia ex tali osculo ipse serpens deberet converti in spetiosam mulierem» mostra una curiosa concordanza con la versione del Lanzelet: «Neina, helt, daz verbir sprach der grôze serpant: […] Wan lebet nu ritter dehein, der mich kuste an mînen munt! sô wurde ich schne und sâ gesunt. Ich enmohts ab nieman nie erbiten, si envlühen gar mit unsiten, alle die mich ie gesâhen. Doch möhter gerne gâhen, ein ritter, daz er kuste mich: dâ mite bezzer er sich […] Ise mich. Ezn ist niht mîn spot, wan ich will dich manen mêre durch allen vrôwen êre» (vv. 7904-05, 7910-18, 7926-28) 34 35

Vv. 7935-39. M. Bregoli Russo 1981.

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(«No, no, o eroe, non lo fare!» disse l’enorme drago […] Oh, se ci fosse un cavaliere che mi baciasse sulla bocca! Allora io sarei immediatamente trasformata e bella. Ma non sono riuscita a persuadere mai nessuno. Tutti quelli che mi hanno vista sono fuggiti miserevolmente; eppure, se un cavaliere volesse baciarmi, sarebbe subito meglio per lui […]. Liberami! Non t’inganno se ti dico che io migliorerei la tua sorte per l’onore di tutte le donne.)

Al contrario, nelle versioni del Mandeville e del Martoni e, un po’ più confusamente, del Buondelmonti, la figlia di Ippocrate parla al potenziale liberatore nella sua forma umana. I particolari della caverna, del tesoro, della promessa di sposare il liberatore non compaiono nella versione del Lanzelet, ma sono tutti presenti nel racconto del Buondelmonti: c’è stata ovviamente una convergenza e una fusione di versioni diverse, come avviene normalmente nelle storie trasmesse oralmente. Vorrei sottolineare che, mentre Angelo afferma di raccontare quello che ha sentito dire di un certo accadimento, e addirittura trascrive una lettera a testimonianza dello stesso, la sua versione della storia diverge da quella del documento. La comprensione del fatto, da parte di Angelo, è stata cioè influenzata dalla leggenda dell’isola di Cos, che aveva conosciuto da altre fonti. Riporto qui sotto i testi del Martoni e di Angelo de Tummulillis, che sono probabilmente meno conosciuti delle versioni di Mandeville e di quelle dei romanzi. De filia Ypocrate conversa in serpentem et quid accidit cuidam frerio qui promisit ipsam osculari. – Est in domibus ipsis quedam magna et profunda clicta fabricata, de qua quodam mirabile michi fuit narratum et certificatum michi per dictum dominum fratrem Dominicum, dum fui cum eo in civitate Rodi, quod filia Ypocrate reducta fuit in serpentem, que manet in dicta clicta et multotiens exit de dicta clicta et hostendit hominibus in formam pulcerime mulieris et querit semper ut oscularetur a quodam viro, ipsa existente in forma serpentis, propter quod ipsa promittit multa et magna thesaura et divitias multas volenti ipsam in forma serpentis osculari, et ipsum accipere in virum. Quadam die hiis temporibus non longe preteritis quidam frerius Sancti Johannis stabat in terra Langonis, quia est una consuetudo quod omnes frerii Sancti Johannis qui vadunt ad civitatem Rodi debent morari per annum unum in terra Langonis ad serviendum ibi pro defensione illius insule Langonis que est prope Turchiam, vel quod ibi serviant per substitutum, qui frerius, sciens et audiens de dicto serpente qui exiebat de dicta clicta, aliquando ibat illuc causa videndi illum in forma mulieris. Qui quadam die exivit dictus serpens in formam pulcerrime mulieris; que mulier dixit ei, si volebat eam osculari in formam serpentis, quod sibi dabat multa thesaura et magnas divitias. Qui frerius promisit sibi. Mulier dixit sibi: «Vide, quia volo hostendere tibi quomodo ego me tibi demonstrabo. Cogita si eris tanti cordis, venias cras et oscularis me in ore, et si non, dicas michi». Qui dixit ei ut se hostenderet sibi in qua forma erat ventura. Que mulier sic fecit et hostendit se sibi in forma turpissimi ac magni et orribilis serpentis, et postea reducta in forma mulieris, petiit a dicto frerio de sua intentione. Qui sibi respondit quod paratus erat facere, et promisit illuc accedere mane sequenti. Adveniente mane dictus frerius paravit se et illuc accessit eques et invenit dictam mulierem in forma magni et orribilis serpentis; timidus valde, descendit de equo ut iret ad osculandum illum. Serpens hostendit se magis terribilem et turpem, et frerius perterritus timore magno equitavit et aufugit, et serpens sequtus fuit ipsum cum magno rumore usque ad castrum, ita quod vis potuit evadere quo non occideretur a serpente. Dictus fre-

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rius tribus diebus vixit et ex magno timore mortuus fuit. Dicunt illi de Langone quod sepe sepius dictus serpens videtur ante dictam clictam. Insula Langonis girat milearia CL et est multum fertilis victualium. (L. Le Grand, Relation du Pélerinage, pp. 644-45) (Della figlia di Ippocrate trasformata in serpente e quel che successe ad un frate che promise di baciarla. – C’è fra quelle case una cripta (? [il termine clicta non compare nei dizionari]) grande e profonda in muratura, a proposito della quale mi fu detta una cosa straordinaria, e confermata dal detto signor frate Domenico, mentre ero con lui nella città di Rodi, e cioè che la figlia di Ippocrate fu trasformata in un serpente, il quale dimora in quella cripta, e spesso ne esce e si mostra agli uomini sotto l’aspetto di una donna bellissima, e chiede sempre di essere baciata da un uomo mentre è nella sua forma di serpente, per il che ella promette molti grandi tesori e grandi ricchezze a colui che voglia baciarla sotto forma di serpente, e di prenderlo per marito. Un giorno, non molto tempo fa, un frate di San Giovanni si trovava nella terra di Lango, perché è consuetudine che i frati di San Giovanni che vanno alla città di Rodi debbano dimorare per un anno nella terra di Lango, per servire alla difesa di quell’isola di Lango, che è vicina alla Turchia, oppure che facciano lì il loro servizio per sostituzione; questo frate, sapendo e sentendo dire di questo serpente che usciva dalla cripta, ogni tanto andava da quelle parti, per poterlo vedere sotto l’aspetto di donna. E un giorno uscì questo serpente sotto forma di una donna bellissima, la quale gli disse che, se era pronto a baciarla nella sua forma di serpente, gli avrebbe dato grandi tesori e ricchezze. Il frate le promise [che lo avrebbe fatto]. La donna gli disse allora: «Guarda, ti voglio mostrare in che modo mi farò vedere da te. Pensa bene, se avrai tanto coraggio verrai domani e mi bacerai in bocca; altrimenti, dimmelo». Lui le disse di mostrargli in che forma sarebbe venuta. La donna lo fece e gli si mostrò sotto l’aspetto di un orribile serpente, enorme e spaventoso; e poi, tornata in forma di donna, chiese a quel frate che cosa voleva fare. Lui le rispose che era pronto a farlo, e le promise di tornare lì la mattina seguente. Venuto il giorno, il frate si preparò e vi arrivò a cavallo, e trovò quella donna in forma di grande e terribile serpente; tutto timoroso, discese da cavallo per andare a baciarlo. Il serpente si mostrò ancora più brutto e terribile, e il frate preso da una paura incontrollabile, salì a cavallo e fuggì, e il serpente lo inseguì, facendo gran chiasso, fino all’accampamento, di modo che a malapena riuscì a non farsi uccidere dal serpente. Questo frate campò ancora tre giorni, e morì per lo spavento. Gli abitanti di Lango dicono che questo serpente si vede spessissimo davanti a quella cripta. L’isola di Lango ha un perimetro di 150 miglia ed è molto fertile di alimenti.) Sed inter auditas fabulas et non fabulam hiis preteritis diebus undique in nostris partibus divulgatam, adparentibus etiam licteris infrascriptis; quia in ipso anno .m.cccc. lxiiii. de mense ianuarii .xiiii. indictione in partibus Romanis et in pertinentiis magnifice civitatis Cesene, dum quidam pauper homo nomine Johannes Salvalalgly mercenarius cuiusdam divitis ipsius civitatis uno dierum in quodam nemore pasceret porcos suos secus quemdam montem, apparuit belua in modum mangni et mirabilis serpentis, cui pre timore exterrito dictus serpens allocutus est, dicens ne aufugeret, quia bonum ei contingeret si timore postposito auderet ipsum osculari; quia ex tali osculo ipse serpens deberet converti in spetiosam mulierem, quam si dictus Johannes voluisset accipere in consortem et coniugem, spondebat ipsum facere beatum et opulentiorem pre ceteris habendum huius seculi. quo Johanne respondente non posse hoc legitime fieri, eo quod haberet aliam uxorem, ipse serpens replicavit: «vera dicis»; et predixit sibi omnia que de ea futura erant, dicens: «tua uxor est pregnans et in nocte proxime nativitatis domini nostri Jehsu Christi, intellige de [re] preterita, debet parturire et procreare duos infantulos mares, et ipsa mater debet mori in ipso partu cum uno ex dictis filiis». ex quibus verbis dictus Johannes securus osculatum est eum; qui statim conversus in mulierem, ut predixerat, duxit ipsum Johannem in speluncam suam, ubi invenit inextimabilem thesaurum, et celebrato concubito cum ea, promisit illi thesaurum ipsum, et proinde docuit quid facturum esset. de quibus omnibus

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potuit lictera directa per quemdam venerabilem et religiosum virum fratrem de Cesena ad quemdam amicum suum in Perusio, cuius tenor talis est: «Per farve parte delle cose da cqua.mirabili et incredibili ad chy no lle vede, ve adviso come, secuta la morte della moglie de Salvalalglyo, allo termene che da lluy continuo era dicto, nel dì della Nativitate et alle .xx. hore quando li apareo la fata soa et dixe che andasse alla sua cupa la nocte sequente, che era quella de Sancto Stefano, et che il serpe dormia; et dixe che a llui tolzesse quella catenella de oro che avea allo collo et portassela seco, cha nolli porria nocere alcuna cosa, et admaczasse lu serpente, ca lu thesauro serrìa allo sou commando, unde lu dicto Salvalalglyo tolze la dicta catenella et menò seco secte balistreri con secte balestre, li quali disserraro le dicte balestre per forma che lo serpente morì collo ayuto de Salvalalglyo, che li moczò la testa. morto che fu lu serpente fo tanto il venino, che tucti li balestreri morirono de facto, et Salvalalglyo è deventato nella faccia palido como se fosse opilato, cavando della cupa predicta grandissimo thesoro, del quale le monete ne scrivo cqua de socto como so facte. have anche cavata una coracza che non c’è spingarda che li noccya, inseme con una targa d’aczaro all’antica, come se depingono quelli delli paladini, de oro, dove so scolpiti tre chyovi spontati con lictere intorno, quale descriverò de socto, in greco et in latino…» A. De Tummulillis, Notabilia temporum, pp. 124-25). (Ma fra le notizie favolose [ce n’è stata] una, divulgata in questi giorni dappertutto dalle nostre parti, non favolosa, corroborata anche dalle lettere qui sotto riportate; e cioè che nell’anno 1464, nel mese di gennaio, indizione quattordicesima, nello stato della Chiesa, e nella regione della magnifica città di Cesena, ad un poveruomo che si chiamava Giovanni Salvalagli, servo di un ricco signore di quella città, mentre un giorno pasceva i suoi porci in un bosco alle falde di un monte, apparve un mostro in forma di un grosso e terribile serpente, il quale lo apostrofò, mentre era atterrito dallo spavento, dicendogli di non fuggire, perché gli sarebbe accaduto qualcosa di buono se, superato il timore, avesse avuto il coraggio di baciarlo; perché per causa di quel bacio il serpente si sarebbe trasformato in una bellissima donna, e, se il detto Giovanni avesse voluto prenderla per consorte e per moglie, gli prometteva di farlo beato e il più ricco uomo del mondo. Questo Giovanni rispose che non avrebbe potuto farlo legittimamente, perché lui aveva già un’altra moglie, ma il serpente replicò «È vero quello che dici», e gli predisse tutto quello che sarebbe accaduto alla donna, dicendo: «tua moglie è gravida, e nella notte del prossimo Natale di Nostro Signore, capisci da ciò che sarà successo(?), partorirà e genererà due bambini maschi, ma la madre morirà nel parto insieme a uno dei figli». Rassicurato da queste parole il detto Giovanni lo baciò e quello, immediatamente trasformatosi in donna, come aveva predetto, condusse questo Giovanni nella sua grotta, dove trovò un tesoro inestimabile e, celebrata la loro unione, gli promise quel tesoro e gli disse quello che avrebbe dovuto fare. Di tutto questo [parla] una lettera inviata da un venerabile religioso di Cesena ad un suo amico a Perugia, il cui tenore è il seguente)

Come si può verificare agevolmente, la lettera parla di un contadino aiutato da una fata a uccidere un serpente e a raccogliere in questo modo un inestimabile tesoro; il racconto di Angelo parla invece chiaramente di un drago che è una donna e riproduce i tratti principali della leggenda come la si trova nei libri di viaggio. Aggiunge poi anche il particolare della moglie e della sua morte, che ricavava forse da quello che sapeva della vicenda, o dalle voci che gliene arrivavano, quando afferma esplicitamente: «secuta la morte della moglie del Salvalalglyo, etc.»36. La cronaca napoletana è molto interessante in quanto testimo36

Sembra bene che la versione del Tirant lo Blanc dipenda non soltanto dal testo del Mande-

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nia di come, persino quando afferma di render conto di eventi contemporanei (o meglio del racconto che glien’era pervenuto), e della loro diffusa conoscenza («fabulam hiis preteritis diebus undique in nosri partibus divulgatam»), lo scrittore sovraimpone la propria interpretazione dei fatti, al punto da modificare il resoconto di fatti realmente accaduti, interpretandoli secondo un modello leggendario preesistente. In questo caso, il modello leggendario preesistente poteva essere anche un’effettiva leggenda folclorica, trasmessa per via orale, come potrebbe farci credere il racconto del Martoni, ma certamente rafforzata e diffusa anche attraverso testi scritti come i libri di viaggio: una leggenda del folklore trasformata secondo le linee guida di un’altra leggenda di folklore? La vicenda rende evidente la difficoltà dello studio del folclore medievale, nell’assenza di testimonianze autentiche, e di una precisa definizione di ciò che andrebbe considerato folklore o culture populaire: definizione che dovrebbe inoltre tener conto delle differenze nella distribuzione fra classi sociali e nell’organizzazione sociale, che evolvono attraverso tempi e luoghi. Anche se è necessario ammettere, naturalmente, la circolazione di storie e leggende, come quella della figlia di Ippocrate, non c’è dubbio che la trasmissione a distanza e la persistenza di tali storie dipendono dall’autorità di fonti scritte. Per quanto riguarda l’apparizione di uno stesso motivo in romanzi medievali e in racconti di folclore raccolti a secoli di distanza, la spiegazione va cercata, secondo me, altrove che nella confluenza di culture aristocratique e cultura contadina, cultura del seigneur e cultura del vilain. La ricerca sulla narrativa romanzesca dimostrra che è quasi sempre possibile rintracciare i tratti fondamentali di ogni roman (sia a livello di strrutture che di contenuti) in opere precedenti. Certo, la catena di trasmissione è interrotta nel momento in cui le opere scritte presuppongono un’attività di storytelling non consegnata a opere scritte, come quella, ad esempio, dei narratori celtici. Non a caso motivi «folclorici» come amanti soprannaturali, lotte col drago, bacio liberatore, caccia fantastica ecc. sono già presenti nei primissimi romanzi francesi di soggetto bretone. Ci si dovrebbe però domandare se motivi che vengono sbrigativamente classificati come folclorici (associati cioè alle classi subalterne) erano percepiti proprio in questo modo dagli aristocratici ascoltatori del castello. Tali motivi appartenevano molto probabilmente al patrimonio narrativo di una società pre-feudale, e da questo passarono ai fabulatores continentali, e di qui agli scrittori di romanzi cortesi37. Anche il patrimonio narrativo preesistenville, ma anche dalla leggenda che doveva aver corso in Italia nel XV secolo. Come nel Buondelmonti, la terra è devastata, il contesto è rurale e pastorale (non il bosco selvaggio del Lanzelet) e, una volta che il cavaliere Espercius ha avuto il coraggio di baciare il mostro, la donna lo porta nella sua camera da letto, nella caverna, e «celebrat concubitum cum eo», come il protagonista del racconto del De Tummulillis. Anche se sappiamo che la sezione del Tirant in cui si trova l’episodio di Espercius non fu probabilmente scritta da Joanot Martorell, vale la pena segnalare che Joanot era stato in Italia proprio negli anni in cui Angelo de Tummulillis scriveva la sua cronaca. 37 Cfr. C. Bullock-Davies 1966.

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te suppone, però, un pubblico di aristocratici, come indicato in studi recenti sui Mabinogi e altre narrazioni gallesi. Per spiegare la diffusione delle stesse storie e degli stessi motivi fra le classi non nobili, si può pensare alle occasioni in cui signori e domestici, cavalieri e coltivatori erano riuniti insieme negli stessi luoghi e ascoltavano le stesse storie. Nelle società feudali e pre-feudali lo storytelling faceva parte della festa, e la festa era caratterizzata dal radunarsi di più gente possibile: in tali occasioni l’ospitalità era spesso estesa alla comunità, che includeva i poveri e i contadini; alcuni di questi erano forse chiamati a incrementare temporaneamente il numero dei domestici necessari a servire una tale folla di invitati. Venivano così create le condizioni perché anche i non nobili potessero ascoltare le storie dei professionisti della narrazione. Infine, è ben noto che i giullari proponevano il loro spettacolo non solo nelle corti ma più spesso in mezzo alla gente comune. Poiché nelle società a cultura orale le storie sono facilmente memorizzate, è facile spiegare come mai storie tradizionali venissero conosciute e si diffondessero anche fra i contadini. In ultima analisi, l’attività degli storytellers spiega la diffusione di certi motivi in racconti ripetuti da tutti (non necessariamente contadini) senza alcuna intenzione di comporre opere letterarie, come quelli, per esempio, testimoniati da Gervasio di Tilbury. In qualche caso, tali motivi avranno offerto spunti e idee alle narrazioni di narratori professionisti; che però non possono essere considerati uguali ai contadini. Malgrado il disprezzo ostentato da narratori cortesi come Chrétien de Troyes (e più tardi Petrarca e Boccaccio), gli storytellers avevano delle abilità professionali loro proprie, e un’ottima conoscenza del loro materiale narrativo. E testi scritti erano importanti nel processo di formazione e di apprendimento di tali professionisti, e nella trasmissione delle loro storie. Bisognerà dunque interpretare il rapporto fra letteratura e folklore, specialmente nel caso di materiale narrativo, come un rapporto complesso che tiene conto dei mezzi di trasmissione (oralità e scrittura; generi letterari e il loro tipo di pubblico), le circostanze specificamente medievali per la diffusione di materiale tradizionale, e del lasso di tempo necessario perché racconti tradizionali diventino folclore. Questo processo ha come figura cardine il narratore professionale: è lui che ha accesso alla scrittura; che presenta il suo spettacolo davanti ai nobili e contemporaneamente davanti alla gente comune. Non dovrà sorprendere il fatto che le sue storie (o parti delle stesse) diventino rapidamente racconti popolari e acquistino anche una vita propria in quanto autentico folclore.

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Indice delle illustrazioni

La Storia di Alessandro Magno nel Palazzo Chiaromonte di Palermo 1. Veduta della Sala Magna dello Steri verso la parete nord-est foto Fabio Militello, Archivio CRICD

2. Sala Magna dello Steri, soffitto, trave XI B, Arti magiche di Nectanebo davanti a un bacile; Nectanebo davanti a Olimpia; Nectanebo giace con Olimpia; Nascita di Alessandro foto Fabio Militello, Archivio CRICD

3. Sala Magna dello Steri, soffitto, trave XI A, Nectanebo in forma di drago arriva volando nella sala del banchetto di Flippo e Olimpia; Alessandro e Bucefalo; Il giullare davanti a Alessandro foto Fabio Militello, Archivio CRICD

«Tirant lo Blanc» e gli affreschi erotici di San Gimignano 1. Camera del Podestà, Palazzo Comunale, San Gimignano, parete nord su concessione dei Musei Civici di San Gimignano

2. Camera del Podestà, Palazzo Comunale, San Gimignano, parete est su concessione dei Musei Civici di San Gimignano

3. Camera del Podestà, Palazzo Comunale, San Gimignano, architrave della porta su concessione dei Musei Civici di San Gimignano

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Il «Cantare di Madonna Elena» 1. Sala Magna dello Steri, soffitto, trave III A, Vanto di Guarnieri; Viaggio verso Gironda; Colloquio con la cameriera di madonna Elena (sopra); rilievo fotogrammetrico digitale a cura del Dipartimento di Rappresentazione dell’Università degli Studi di Palermo

trave III B, Guarnieri presenta le prove del suo successo (sotto) foto Fabio Militello, Archivio CRICD

2. Sala Magna dello Steri, soffitto, trave III B, Storia di Elena di Narbona, Ruggero tenta di uccidere Elena con la spada e la getta giù dagli spalti (sopra); duello fra Elena e Guarnieri; Elena taglia la testa a Guarnieri (sotto) foto Fabio Militello, Archivio CRICD

Le immagini tratte dal soffitto del Palazzo Chiaromonte di Palermo (alias «lo Steri») provengono dagli Archivi del CRICD, Centro Regionale per l’inventario, la catalogazione e la documentazione dei beni culturali della Regione Siciliana, via dell’Arsenale, 52 - Palermo.

Indice dei nomi

Adenet le Roi 117 n. Aebischer, Paul 72 n. Agrati, Gabriella 70 n. Albéric de Besançon 13 n. Albéric des Trois-Fontaines 100 n. Albert d’Aix 153 n. Alexandre de Paris 24 Alfonso il Magnanimo 42 n. Almansi, Guido 48 n., 108, 114 n. Ambrogio (santo) 101 n. Andrea Cappellano 40 n., 41, 137, 139 Andrea da Barberino 50 Angelo da Perusia 47 Ariès, Philippe 170 Armstrong, Edward C. 24 n. Asor Rosa, Alberto 107 Baratto, Mario 114 n. Beaune, Henri 76 n. Bédier, Joseh 48 n., 83, 116 Bellia, Angela 26 n. Bellucci, Alessandro 47 n., 123 n. Belting, Hans 27 n., 35 n. Bendinelli Predelli, Maria 48 n., 57 n., 67 n., 68 n., 126 n., 135 n., 137 n., 141 n. Benoît de Saint-Maure 42 n. Bentivoglio, Giovanni II 131 n. Berardo di Ferro 23 Bergo, Matteo 100 n., 101 n. Bernat Metge 41 n. Boccaccio, Giovanni 26, 37, 39 n., 41, 45 n., 50, 52 n., 66, 68, 91, 92, 107, 108, 109, 111,

112, 114, 115, 116, 117, 118, 119, 120, 121, 122, 131, 138, 143, 144, 165 Boiardo, Matteo Maria 143, 146 Bologna, Ferdinando 7, 8, 9, 11 n., 13 n., 26, 32 n., 53 n., 99 n., 100 n., 1 Bonafin, Massimo 72 n., 73 n., 74 n., 75 n. Bosch, Sigfried 38 n. Branca, Vittore 107, 112, 122 n. Brancato, Dario 135 n. Bregoli Russo, Mauda 160 Bresc, Henri 13 n., 21 Brewer, John Sherren 123 n., 132 n. Brooke, Christopher Nugent L. 123 n., 135 n. Brunetto Latini 34, 153 n. Buchtal, Hugo 22, 32 n. Bullock-Davis, Constance 164 n. Buondelmonti, Cristoforo 146, 147, 149 n., 153, 155, 160, 161, 164 n. Buttà, Licia 7, 26 n., 27, 32 n. Buttitta, Antonino 26 n. Cabani, Maria Cristina 65, 66 Campbell, Jean 35, 37, 40 n., 42 n., 43 n., 45 n., 46 Canova, Andrea 7 n., 53 n. Capelli, Roberta 34 n. Carapezza, Francesco 7 n. Caravaggi, Giovanni 44 n. Carlini, Antonio 32 n. Cary, George 9 n., 25 n. Castets, Ferdinand 80 n., 81 Catalano, Michele 47 n.

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storie e cantari medievali

Cerina, Giovanna 64, 65 n. Cerverí de Girona 41 n. Charles le Téméraire 76 Child, Francis James 110 n. Chrétien de Troyes 31, 49, 89, 104, 131 n., 165 Cioni, Alfredo 47 n. Coletti, Luigi 13 n., 32 n. Contini, Gianfranco 48 Cozzi, Enrica 13 n., 32 n. Cristina, regina 39 n. Cross, Tom Pete 70 n. Cruse, Mark 30 D’Ancona, Alessandro 123 n. Daneu Lattanzi, Angela 21, 23 n. D’Arbaumont, Jules 76 n. De Galba, Martí Joan 37, 38 n. Degli Agostini, Niccolò 147 Degli Arienti, Giovanni Sabbadino 131 n. De la Marche, Olivier 76 Della Terza, Dante 107 n., 145 n. Deluz, Christiane 152 n., 153 n. De Martoni, Nicola 146, 147, 153, 154, 155, 161, 164 De Riquer, Martí 38 n. De Rueda, Lope 89 De Tummulillis, Angelo 146, 160, 161, 163, 164 n. Dicuil 158 Di Francia, Letterio 124 Di Marzo, Gioacchino 7 n. Duby, Georges 35 n. Duhem, Pierre 158 n. Edwards, Bateman 24 n. Enrico II Plantageneto 138 Enrique de Villena 42 n. Esposito, Enzo 123 n. Falciani Prunai, Maria 47 n. Favati, Guido 25 n., 58 n., 72 n., 76 n., 105 n. Federico, re 22 Ferdinando d’Aragona 160 Ferrato, Pietro 79 n. Fido, Franco 145 n. Filippo di Nicolò, miniatore 23 Filippo il Buono 76 Fiumi, Enrico 44 n. Flore, Jeanne 146 Folgore da San Gimignano 43, 44 n. Fontana, Giovanni 47, 48, 68 n., 115 n.

Ford, Patrick 68, 69 n. Fossa, Matteo 147 Francesco Cieco da Firenze 131 n. Frank, Emma 151 n. Frugoni, Chiara 9 n., 13 n. Gabrici, Ettore 7, 32 n., 53 n., 54, 91 n., 116 Gace de la Buigne 100 n. Gallagher, Liam 14 n. Galletto Pisano 34 n. Gardner, Edmund 34 n. Gastaldelli, Ferruccio 159 n. Gaucelm Faidit 138, 139 Geoffroi d’Auxerre 159 Gerbert de Montreuil 50 n., 84, 93 n., 111 n. Gervasio da Tilbury 154, 159, 165 Giovanni de Cruyllas 21 Giovanni Fiorentino (ser) 123, 135, 139, 140 n. Giovanni Sercambi 36 n. Giraldo di Cambria (Giraldus Cambrensis) 101 n., 123, 124, 125, 126, 128, 132, 135, 136, 137, 138, 139, 141 n., 142, 156 n. Goffredo II di Bretagna 138 Gosman, Martin 157 n. Gozzi, Carlo 146 Gruffydd, Elis 69 Guardati, Tommaso (Masuccio Salernitano) 123, 124 n., 125, 127, 128, 130, 131, 135, 142, 143, 144 Guazzo, Marco 147 Guest, Lady C. 69 n. Guglielmo di Tripoli 153 n. Guillem de Torroella 41 n. Gutknecht, Christoph 110 n. Hamelius, Paul 153 n. Harf-Lancner, Laurence 159 n. Hayton of Korykos 153 n. Hilka, Alfons 90, 110 n., 120 n. Hinton, James 124, 136 n. Hue de Rotelande 151 n. Huet, Gédéon 149, 152, 153, 154 Hulme, William H. 112 n., 119, 121 Imbriani, Vittorio 74 n. Innocenzo III, papa 124, 136 Jackson, Kenneth H. 150 n. Jacques de Vitry 153 n.

indice dei nomi Jean de Mandeville 146, 147, 149 n., 152, 153, 154, 155, 158, 161 Julius Valerius 12 Kittredge, George Lyman 68 n. Koenig, Frederic 48 n., 54 n., 88, 89, 90 n., 97 n., 103, 111 n., 116 n. Labaree Buffum, Douglas 24 n., 84 n., 114 n. Lami, Giovanni 108 Langlois, Ernest 39 n., 111 n. Latella, Fortunata 123 n. Le Grand, Léon 149 n., 155 n., 162 Lejeune, Rita 32 n., 85, 86, 87, 88, 89, 90 n. Leone, arciprete 12, 14 Levi, Ezio 7, 8, 32 n., 47, 48, 50 n., 53 n., 54, 84, 91, 92 n., 93 n., 105 n., 116 Li Gotti, Ettore 35 Lima, Antonietta Iolanda 7, 26 n., 53 n. Limentani, Alberto 66 Llull, Ramon 41 n. Loke, Marie 81 n. Longhi, Roberto 31 Loomis, Roger Sherman 151, 152, 154 n., 155, 156 n. Lowe, L.F.C 24 n. Lunardo (o Leonardo) del Guallacca 34 Macler, Frédéric 17 n., 24 n. Magini, Maria Letizia 70 n. Malizia Barattone 135 n. Malmberg, Bertil 73 n., 92 n., 93 n. Malory, Thomas 151 n. Manfredi III Chiaromonte 21, 27, 54 Manni, Domenico Maria 108 n. Marie de France 36 Martorell, Joanot 37, 40, 41, 42, 146, 164 n. Matteo del Caretto 21 McKerney, Kathleen 37 n. Melli, Elio 79 n., 80 n., 169 Memmo di Filippuccio 31, 43, 44 Menegazzi, Luigi 32 n. Meneghetti, Maria Luisa 7 n., 32 n., 33 Michelant, Henri 81 n. Monfrin, Jacques 147 n. Mouzat, Jean 138 n. Mynors, Roger A. B. 123 n., 135 n. Nissen, Christopher 140 n. Norman, Frederick 148 n. Nyrop, Kristoffer 74 n.

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Odorico da Pordenone 153 n. O’Hara Tobin, Prudence Mary 71 n. Ohle, Rudolf 108 Onorio d’Autun 158 n. Ovidio, Publio Nasone 128 n. Paris, Gaston 48, 50 n., 54, 69, 83, 84, 85, 86, 88, 89 n., 90, 92, 93 n., 95, 97, 109 n., 112, 114 n., 149 Parodi, Ernesto Giacomo, 117 n. Pastore Stocchi, Manlio 153 n. Payen, Jean-Charles 149, 150 Pellegrino Salerno, notaio 23 Perez-Simon, Maud 14 n. Pernicone, Vincenzo 123 n. Petrarca, Francesco 165 Petrocchi, Giorgio 124 n. Pezzarossa, Fulvio, 131 n. Philippe de Beaumanoir 84 n. Pietro Alfonso 119 Plinio il Vecchio 157 Plutarco 101 n. Poggi, Giovanni, cardinale 131 n. Poli di Spilimbergo, Silvia 153 n., 154 Polidori, Luigi Filippo 92 n. Praz, Mario 34 Pseudo-Callistene 9, 12, 14, 15, 20, 24, 28 Pseudo-Oppiano 14, 19 Pucci, Antonio 26 Rajna, Pio 74, 77, 78 n., 79, 80, 81 n. Rasmo, Nicolò, 32 n. Raynouard, François Just Marie 58 n. Renart, Jean 84, 85, 86, 87, 88 n., 89, 90, 96, 97 n., 110 n. Renaud de Beaujeu 146, 147, 151 Reynolds, Kevin B. 135 n. Richter, Werner 157 n. Rosellini, Aldo 100 n. Ross, David John A. 9 n., 13, 14, 15, 17 n., 18 n., 19, 20, 29 Ruprecht von Würzburg 110, 112, 114 Saxl, Fritz 32 n. Schofield, William 145, 159 n. Scolari, Domenico 66 Segarizzi, Arnaldo 47 n. Segre, Cesare 137 Seneca, Lucius Annaeus 25 n. Sermini, Gentile 143 Servois Gustav 74 n., 85

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storie e cantari medievali

Shakespeare, William 107, 121, 122 n. Slover, Clark Harris 70 n. Söderhjelm, Werner 90 Spannocchi, Sabina 31 n., 33 n. Stewart, Pamela D. 122 n., 145 n. Stoppelli, Pasquale 135 n. Suchier, Hermann 84 n. Syska-Lamparska, Rena A. 145 n. Targioni Tozzetti, Ottaviano 47, 48 Thompson, Aarne 145 Tobler, Adolf 74 n. Toesca, Paolo 13 n. Trethewey, William Hilliard 158 n.

Vergara Caffarelli, Francesco 8, 9 n., 53 n. Vichi Imberciadori, Jole 35 n. Vinaver, Eugene 108 n. Vincent de Beauvais 19, 153 n. Von der Hagen, Friedrich Heinrich 110 n. Walsh, Patrick Gerard 40 n., 41 n. Walter Map 123, 124, 125, 126, 135, 136, 137, 138, 139, 140, 159 Weitzmann, Kurt 14 n. Welter, Jean Thiébaut 88 n., 93 n., 111 n., 123 n., 135 n. Wilhelm von Boldensele 153 n. Xingopoulos, Andreas 14 n., 16, 17 n.

Ulrich von Zatzikhoven 145, 148, 156 n., 159 Zambrini, Francesco 108 Vargas Llosa, Mario 37, 173

studi 1. Anton Ranieri Parra, Sei studi in blu. Due mondi letterari (inglese e italiano) a confronto dal Seicento al Novecento, pp. 188, 2007. 2. Gianfranca Lavezzi, Dalla parte dei poeti: da Metastasio a Montale. Dieci saggi di metrica e stilistica tra Settecento e Novecento, pp. 264, 2008. 3. Lettres inédites de la Comtesse d’Albany à ses amis de Sienne, publiées par Léon-G. Pélissier (1797-1802), Ristampa anastatica a cura di Roberta Turchi, pp. xvi-492, 2009. 4. Francesca Savoia, Fra letterati e galantuomini. Notizie e inediti del primo Baretti inglese, pp. 256, 2010. 5. Lettere di Filippo Mazzei a Giovanni Fabbroni (1773-1816), a cura di Silvano Gelli, pp. lxxxvi-226, 2011. 6. Stefano Giovannuzzi, La persistenza della lirica. La poesia italiana nel secondo Novecento da Pavese a Pasolini, pp. xviii-222, 2012.

14. Marco Villoresi, Sacrosante parole. Devozione e letteratura nella Toscana del Rinascimento, pp. xxiv-232, 2014. 15. Manuela Manfredini, Oltre la consuetudine. Studi su Gian Pietro Lucini, pp. xii152, 2014. 16. Rosario Vitale, Mario Luzi. Il tessuto dei legami poetici, pp. 172, 2015. 17. La Struzione della Tavola Ritonda, (I Cantari di Lancillotto), a cura di Maria Bendinelli Predelli, pp. lxxiv-134, 2015. 18. Manzoni, Tommaseo e gli amici di Firenze. Carteggio (1825-1871), a cura di Irene Gambacorti, pp. xl-204, 2015. 19. Simone Fagioli, La struttura dell’argomentazione nella Retorica di Aristotele, pp. 124, 2016. 20. Francesca Castellano, Montale par luimême, pp. 112, 2016. 21. Luca Degl’Innocenti, «Al suon di questa cetra». Ricerche sulla poesia orale del Rinascimento, pp. 160, 2016.

7. Simone Magherini, Avanguardie storiche a Firenze e altri studi tra Otto e Novecento, pp. x-354, 2012.

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8. Gianni Cicali, L’Inventio crucis nel teatro rinascimentale fiorentino. Una leggenda tra spettacolo, antisemitismo e propaganda, pp. 184, 2012.

23. Marino Biondi, Quadri per un’esposizione e frammenti di estetiche contemporanee, pp. 452, 2017.

9. Massimo Fanfani, Vocabolari e vocabolaristi. Sulla Crusca nell’Ottocento, pp. 124, 2012.

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25. Peter Mayo, Paolo Vittoria, Saggi di pedagogia critica oltre il neoliberismo, analizzando educatori, lotte e movimenti sociali, pp. 192, 2017.

11. Giorgio Linguaglossa, Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea, pp. 148, 2013.

26. Antonio Pucci, Cantari della «Guerra di Pisa», edizione critica a cura di Maria Bendinelli Predelli, pp. lxxvi-140, 2017.

12. Arnaldo Di Benedetto, Con e intorno a Vittorio Alfieri, pp. 216, 2013.

27. Leggerezze sostenibili. Saggi d’affetto e di Medioevo per Anna Benvenuti, a cura di Simona Cresti, Isabella Gagliardi, pp.  228, 2017.

13. Giuseppe Aurelio Costanzo, Gli Eroi della soffitta, a cura di Guido Tossani, pp. lvi96, 2013.

28. Manuele Marinoni, D’Annunzio lettore di

psicologia sperimentale. Intrecci culturali: da Bayreuth alla Salpêtrière, pp. 140, 2018. 29. Avventure, itinerari e viaggi letterari. Studi per Roberto Fedi, a cura di Giovanni Capecchi, Toni Marino e Franco Vitelli, pp. x-546, 2018. 30. Mario Pratesi, All’ombra dei cipressi, a cura di Anne Urbancic, pp. lx-100, 2018. 31. Giulia Claudi, Vivere come la spiga accanto alla spiga. Studi e opere di Carlo Lapucci. Con tre interviste, pp. 168, 2018. 32. Marino Biondi, Letteratura giornalismo commenti. Un diario di letture, pp. 512, 2018.

33. Scritture dell’intimo. Confessioni, diari, autoanalisi, a cura di Marco Villoresi, pp. viii-136, 2018. 34. Massimo Fanfani, Un dizionario dell’era fascista, pp. 140, 2018. 35. Femminismo e femminismi nella letteratura italiana dall’Ottocento al XXI secolo, a cura di Sandra Parmegiani, Michela Prevedello, pp. xxxiv-302, 2019. 36. Maria Bendinelli Predelli, Storie e cantari medievali, pp. 188, 2019.