La Madonna di Tindari e le vergini nere medievali 9788882657437

La questione delle "Madonne nere" è stato nell'ultimo secolo uno degli argomenti più dibattuti fra storic

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La Madonna di Tindari e le vergini nere medievali
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La Madonna di Tindari e le Vergini nere medievali

G. fazio - madonna di tindari

ISBN 978-88-8265-743-7

La Madonna di Tindari e le Vergini nere medievali

Giuseppe Fazio, storico dell’arte, si è laureato in Discipline dell’arte della musica e dello spettacolo presso l’Università degli Studi di Palermo e, in seguito, si è specializzato in Storia dell’arte presso la scuola di specializzazione in storia dell’arte e delle arti minori dell’Università degli Studi di Padova. I suoi ambiti di ricerca riguardano soprattutto la scultura siciliana dal XII al XVII secolo in rapporto alle coeve culture europee.

lermArte 7

Giuseppe Fazio

La questione delle “Madonne nere” è stato nell’ultimo secolo uno degli argomenti più dibattuti fra storici e teologi. Il tema è stato spesso affrontato da prospettive contrastanti: da un lato si è cercato di negarne l’esistenza all’origine e dall’altro la loro diffusione è stata legata ai culti ancestrali delle popolazioni precristiane dell’Europa continentale. La prima parte del volume ripercorre le diverse posizioni sull’argomento cercandone una sintesi e proponendosi di riportare la questione all’interno del dibattito teologico fiorito fra i grandi ordini religiosi nella Francia del XII secolo. La seconda parte è dedicata al santuario di Tindari (ME) dove da secoli si venera il simulacro ligneo della Madonna nera, recentemente riportato alle sue forme medievali, cercando di mettere in luce le peculiarità del sito e della statua. Il ricco repertorio di immagini, oltre a illustrare le varie parti del testo, documentano nel dettaglio il complesso iter del restauro della scultura. Grande spazio viene riservato anche alle fonti testuali, alle quali è dedicata un’ampia appendice.

Giuseppe Fazio

«L’ERMA» di BRETSCHNEIDER «L’ERMA» di BRETSCHNEIDER

31/07/2012 11.09.51

lermArte documenti 7

Giuseppe Fazio

LA MADONNA DI TINDARI E LE VERGINI NERE MEDIEVALI prefazione di Giovanna Valenzano

«L’ERMA» di BRETSCHNEIDER

Giuseppe Fazio La Madonna di Tindari

E le vergini nere medievali

© Copyright 2012 «L’ERMA» di BRETSCHNEIDER Via Cassiodoro, 19 - 00193 Roma http://www.lerma.it

Progetto grafico: «L’ERMA» di BRETSCHNEIDER Tutti i diritti riservati. È vietata la riproduzione di testi e illustrazioni senza il permesso scritto dell’Editore.

In copertina: Tindari (ME), Statua lignea della Madonna, particolare.

Giuseppe, Fazio La Madonna di Tindari e le vergini nere medievali / Giuseppe Fazio. - Roma : «L’ERMA» di BRETSCHNEIDER, 2012. - p. 108 di tav. : ill.; 24 cm. - (LermArte ; 7) ISBN 978-88-8265-743-7 CDD: 734 1. Scultura

A Simone e Andrea

INDICE

Presentazione di Sua Ecc. Rev.ma Ignazio Zambito, Vescovo di Patti................................................. pag.

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Prefazione di Giovanna Valenzano........................................................................................................ »

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Introduzione............................................................................................................................................ »

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Parte prima: Il concetto di “Vergine Nera” Capitolo I - Origine e diffusione delle “Vergini Nere”: interpretazione di un fenomeno.............. »

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Capitolo II - Fonti testuali per l’iconografia e l’iconologia delle “Vergini Nere”........................... »

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Parte seconda: La “Vergine Nera” di Tindari Capitolo I - La leggenda e la storia: le fonti..................................................................................... »

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Capitolo II - Un ritrovamento inaspettato: i restauri....................................................................... »

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Capitolo III - Per una lettura stilistica e una proposta di cronologia.............................................. »

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Conclusioni............................................................................................................................................. »

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Apparati Appendice dei testi............................................................................................................................ »

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Bibliografia........................................................................................................................................ »

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Indice dei nomi e dei luoghi............................................................................................................. »

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Indice delle tavole............................................................................................................................. »

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Referenze iconografiche.................................................................................................................... » 103

Illustrazioni............................................................................................................................................. » 105

PREsentazione

Graditissima sorpresa, mi trovo in mano per la gentilezza dell’autore, Dott. G. Fazio, il volume ‘La madonna di Tindari e le vergini nere medievali’, edito da «L’erma» di Bretschneider, Roma. Sorpresa, dico, e graditissima. Venuto a Patti, come vescovo nel 1989, mi resi conto ben presto che il Santuario di Tindari non solo costituisce un autentico biglietto da visita della diocesi pattese, ma è mèta di un significativo numero di pellegrini provenienti dalla Sicilia, dalle regioni limitrofe, dall’Italia e, in numero ovviamente minore, da altre parti d’Europa e del mondo. Elemento da non sottovalutare, il Santuario offre una veduta mozzafiato. Il sottostante Maranello, per il gioco delle correnti e delle maree, offre cangianti sagome di santi e di devoti oranti. Alicudi, Filicudi, Salina, Stromboli, Strombolicchio, Basiluzzo, Panarea, Lipari, Vulcano sembrano muovere, pure loro, in devoto pellegrinaggio, almeno fino a quando Eolo, aperto l’otre, non investe tutto del suo vigore titanico. Da Milazzo, che col suo Capo s’immerge nel mare, a Rometta, Saponara, Venetico, Rapano Roccavaldina, Manforte, fino a fare indovinare, nelle giornate di sereno, Messina e il profilo della costa calabrese. Da Novara, all’Etna poderoso, vivacizzato, di solito, dal pennacchio che procede dalle viscere incandescenti della terra e ornato del camicione di neve candida. All’interno del santuario, l’immagine della Madonna Nera ‘ab immemorabili’ accoglie preghiere, sospiri, ansie e dolori; anima la speranza; propizia la ‘fermata’ per vedere e per vedersi. Ma ecco il punto. L’immagine della Madonna ricca di anni – dal tempo delle Crociate?, dallo scossone inferto alla Cristianità dalle lotte iconoclaste? – risente in modo troppo evidente delle ingiurie del tempo e d’interventi tanto volenterosi quanto sprovveduti e dannosi. Che fare? I consiglieri non mancano certo ma, saggiamente ripartiti tra interventisti e rassegnati, non aiutano più di tanto. Si decide, d’accordo con le autorità competenti, per un intervento che, rispettoso del passato, non perda di vista il futuro. Il lavoro paziente e lungo, alla fine, restituisce ai devoti la Nera ma Bella nel suo splendore originale. Convinto che il restauro avesse detto tutto sull’immagine tindaritana, per la cortesia dell’autore, vengo, ora, a conoscenza dello studio del Dott. Fazio che presenta il risultato del suo appassionato lavoro. Scavando, compulsando, confrontando egli connette la nostra Madonna con le Madonne nere presenti in vari posti, ne valuta analogie e differenze. Dopo avere letto, mi congratulo con il Fazio e, volentieri, ne presento il lavoro. Mi auguro che molti altri si lascino coinvolgere nella scoperta dell’affascinante itinerario che, dal Medio Evo, ha portato a noi, scrigno d’arte e devozione, la Nigra sed Formosa protagonista del biblico Cantico dei Cantici che, per dipingere la leggiadria del suo amato non trova di meglio che rassomigliarlo al capriolo (Ct 2,9) che ha dato il nome alla Sicilia nebroidea che in Tindari ha il suo centro. Tindari, 31 ottobre 2011 Mons. Ignazio Zambito Vescovo di Patti

PREFAZIONE

Il restauro della Madonna di Tindari ha riportato inaspettatamente alla luce una straordinaria scultura medievale, svelata nella sua arcana bellezza, una volta liberata dagli strati di ridipinture. Il recupero della policromia originale, in cui l’attenta e calibrata pulitura ha permesso di non perdere anche il sottile strato di vernice steso per ottenere il colore ambrato della carne, ha fornito lo spunto per ripensare ed esaminare nel suo complesso il fenomeno delle Vergini Nere. Giuseppe Fazio in questo volume, che rielabora uno studio approfondito condotto per la stesura della tesi di Specializzazione in Storia dell’arte e delle arti minori, discussa all’Università degli studi di Padova, indaga con attenzione l’origine e la diffusione del culto delle Madonne Nere, a partire dai celebri esemplari del massiccio centrale dell’Alvernia, alle sculture lignee delle regioni limitrofe, della Borgonga e da lì della Provenza, per seguire le testimonianze di un fenomeno di grande portata europea, che si diffonde al di là dei Pirenei e delle Alpi, come attestano le Vergini catalane tra cui quella di Montserrat e un gruppo di Vergini Nere piemontesi, a partire dalla celebre Madonna d’Oropa, a pochi chilometri da Biella, ancora oggi importante centro di culto mariano, a cui è stato dedicato un convegno questo stesso anno, a riprova dell’attualità del tema. Non sono molte le Madonne Nere fuori da questa area geografica; la riscoperta a Tindari di una scultura appartenente a questo genere, la presenza di un’opera antica apparentemente fuori contesto ha portato l’autore ad una analisi approfondita e aperta a molti campi di indagine. In questo studio, attento e documentato sugli esiti più aggiornati della letteratura scientifica specializzata, sono affrontate diverse questioni, sempre acutamente trattate con osservazioni puntuali e numerosi spunti nuovi. Sono ripercorsi i contributi di recenti restauri, con osservazioni sulle tecniche antiche di doratura, brunitura e le testimonianze offerte dalle fonti sull’uso di patine e di vernici ambrate, con citazioni di analisi recenti e ricettari antichi e testimonianze dei secoli X-XII. Giuseppe Fazio ripercorre la tesi recentemente affermata da Ilene H Forsyth che nega l’esistenza di Vergini Nere di età medievale, sulla base dei dati acquisiti dai restauri alle sculture di Orcival, Turnus e Digione, a cui però si contrappone il recupero del colore ambrato della Madonna di Tindari. La perdita dell’esemplare originale medievale della Virgo Paritura di Chartres o di quella di Notre Dame di Le Puy pone dei limiti nel trovare una soluzione condivisa ad una serie di problematiche che sono state ben trattate in questo volume, il rapporto dell’iconografia mariana con quella pagana, la vera valenza delle immagini di culto per l’uomo medievale, la percezione del colore nelle sculture, il significato del colore, il rapporto tra sculture lignee ricoperte in lamina d’argento e la nascita del culto per la Vergine Nera. Un pregio del libro è senz’altro la serietà e la completezza con cui sono state vagliate e riportate le fonti testuali che testimoniano il culto mariano tra XI e XII secolo e il concetto estetico di negritudo, ben attestato in una pluralità di fonti a partire da una antifona in uso nell’XI secolo. Un libro ricco di riferimenti, prodotto di una ricerca condotta con rigore, in cui la Madonna di Tindari trova poi una sua precisa collocazione cronologica e di fabbricazione, in cui compare non come esemplare unico e isolato di una tradizionale bottega catalana, ma una importante testimonianza di una diffusa prassi esecutiva e della circolazione nel mediterraneo di prodotti specifici pronti a divenire opere di un culto mariano locale in diverse aree meridionali, dalla Puglia alla Sicilia appunto, ma tra loro collegate a fenomeni di pellegrinaggio di più vasto raggio come quello a Compostella, di cui il santuario di Tindari costituiva una importante tappa di partenza via nave.

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Giuseppe Fazio

Giuseppe Fazio, autore di importanti contributi sulla scultura lignea siciliana dal XV al XVII secolo ha saputo intelligentemente applicare ad un periodo più antico e non sempre adeguatamente indagato la metodologia e la precisione con cui si possono confrontare e comparare prodotti su cui esistono maggiori informazioni sia riguardo l’iconografia sia i sistemi di esecuzione all’interno di botteghe specializzate, rintracciando tra le pieghe della storia preziose testimonianze di culto e di vita, in grado di restituire la Madonna di Tindari nel suo preciso contesto storico.

Giovanna Valenzano

INTRODUZIONE

Tra l’ottobre del 1995 e il mese di maggio dell’anno seguente, un lungo e complesso intervento di restauro ha riportato alla luce il simulacro ligneo medievale della Madonna venerata sul promontorio di Tindari, sulla costa nord orientale della Sicilia, rimasto nascosto per secoli sotto una spessa coltre di stuccature e ridipinture che ne avevano travisato del tutto l’aspetto originario. Purtroppo alla sorprendente scoperta non è seguito, come sempre avviene in casi analoghi, quel dibattito fra gli studiosi sull’opera che con indagini storiche, critiche e stilistiche avrebbe dovuto fornire le coordinate temporali e culturali per la giusta collocazione della scultura non tanto in ambito siciliano, nel cui territorio essa rappresenta un unicum, ma in relazione alla coeva statuaria europea. Appare subito chiaro, infatti, che siamo davanti ad una Madonna in trono con il Bambino appartenente all’ampia produzione di questo soggetto condotta fra XII e XIII secolo in gran parte dell’Europa occidentale. Scopo della presente ricerca, che ripropone e integra i risultati già confluiti nella mia tesi di specializzazione, è quello di sopperire per quanto possibile a queste mancanze attraverso una lettura critica delle fonti documentarie e letterarie già note e la comparazione stilistica con manufatti affini al nostro, cercando di delimitare l’ambito geografico, culturale e cronologico di produzione. Infatti la nostra scultura, si mostra fortemente caratterizzata in alcuni suoi aspetti peculiari, tecnici, iconografici e stilistici, che agevolano il compito nel tracciarne un profilo specifico in riferimento alla sua cultura figurativa di provenienza. Preliminarmente, però, si è reso necessario riprendere la complessa questione delle cosiddette “Vergini nere”, un gruppo di Madonne con il Bambino raffigurate in trono o in posizione eretta e caratterizzate dal colore scuro degli incarnati sia della Vergine che del Bambino, con tonalità che vanno dal nero fumo ad un più tenue colore ambrato. La statua di Tindari, anche dopo il restauro, si connota proprio per questo colorito bruno che la inserisce a pieno titolo nell’accesa discussione sull’origine e lo sviluppo di questa iconografia mariana. L’approccio all’argomento è stato affrontato fin qui dagli studiosi da due prospettive diverse e per certi versi contrastanti. Da un lato certa letteratura artistica, confortata da alcuni restauri condotti su alcune statue di Madonne che prima dell’intervento si presentavano come “nere” ma che poi sono risultate essere policrome, propende per considerare il colore bruno delle “Madonne nere” come un’aggiunta posteriore alla realizzazione delle singole opere. Secondo una parte di studiosi il colore di tali immagini non è intenzionale ma piuttosto il risultato della lunga esposizione al fumo di candele e di incenso che reagendo con le vernici date sulle superfici pittoriche ne ha causato l’annerimento. In seguito il fenomeno sarebbe stato equivocato ed enfatizzato da restauratori e copisti. Un altro ramo di studi suggerisce, invece, l’annerimento volontario delle opere con l’intento di sfruttare la capacità che le “Vergini nere” andavano acquistando sempre più nell’attrarre grandi flussi di pellegrini. Il primo che codifica la tesi dell’annerimento casuale è l’architetto e archeologo parigino Charles Rohault de Fleury, che nel 1878 individua l’origine del fenomeno nell’ossidamento, secondo lui non intenzionale, delle placche argentee che ricoprivano alcune statue-reliquiario francesi del XII secolo. Il filone di ricerca che prende le mosse da queste teorie, con le diverse sfaccettature che lo contraddistingue, è oggi quello più accreditato fra gli studiosi. Dall’altro lato c’è chi sostiene l’origine pagana di questa tipologia iconografica mariana, facendola derivare dal culto praticato nell’Europa precristiana verso la Grande Madre o altre divinità femminili, che spesso erano raffigurate con la pelle nera, spostando di conseguenza l’attenzione su temi magico-esoterici, che danno credito a tutta una serie di leggende fiorite attorno a questi simulacri con lo scopo di dare autenticità

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e arcaicità a ciascuno di essi e il cui unico punto di interesse è quello di essere tutte molto simili tra di loro anche a distanza di centinaia di chilometri. Esse comunque esulano dagli studi storico-artistici essendo, tuttalpiù, oggetto di ricerche demo-etno-antropologiche. Capisaldi di questa corrente di pensiero sono gli scritti di Marie Durand-Lefebvre (1937), di Emile Saillens (1945), di Leonard Moss e Stephan Cappanari (1940-1952). Anche queste teorie oggi sono tornate di grande moda. Recentemente, tra il 20 e il 22 maggio del 2010, si è svolto presso i santuari piemontesi di Oropa e Crea un convegno internazionale di studi incentrato sul tema delle Madonne nere, di cui alla data odiena si aspetta ancora la pubblicazione degli atti, ma che sembra aver confermato lo schieramento da un lato su ipotesi negazioniste, portate avanti dagli storici dell’arte, e dall’altro su quelle più possibiliste, sostenute principalmente da teologi. I risultati di questo studio, senza voler giungere a soluzioni definitive, tendono almeno a riaprire la questione, affrontandola da un nuovo punto di vista. Partendo, infatti, dall’espressione del Cantico dei cantici “Nigra sum sed formosa!” (Ct 1, 5), sempre molto trascurata o male interpretata dagli studiosi, si è constatato come quello della Negritudo, riferito dapprima alla Chiesa in senso lato e poi più specificatamente alla Vergine Maria, sia un tema centrale nel dibattito teologico della Francia del XII secolo, soprattutto fra i grandi Ordini Religiosi, che vede una grandissima fioritura di commentari al Cantico biblico, da quello fondamentale di Bernardo di Clairvaux ad Alano di Lilla, da Tommaso Cistercense a Filippo di Harveng, premostratense. Senza considerare che nella liturgia delle ore dei monasteri benedettini del ramo cluniacense l’antifona al secondo salmo dei Secondi Vespri delle feste della Beata Vergine Maria recitava proprio “Nigra sum sed formosa, filiae Jerusalem: ideo dilexit  me rex, et introduxit me in cubiculum suum”. Esiste, allora, un fondamento teologico ed iconologico per l’iconografia delle “Vergini nere” che ne giustifica la creazione come propaggine collaterale e contemporanea alle Madonne in trono “bianche” e non come travisamento successivo di alcune di esse. Tornando alla statua della Madonna di Tindari, l’analisi delle fonti locali, anche se rade, confuse e innestate di eventi leggendari e miracolistici, ha tuttavia permesso di risalire alla probabile committenza dell’opera, individuata proprio in ambito benedettino, così come benedettina è pure la committenza di una delle “Madonne nere” più venerate nel bacino Mediterraneo, la “Morenita” di Montserrat in Catalogna, che non a caso ritengo essere il modello per la nostra scultura. Infatti il monastero benedettino di San Salvatore di Patti aveva impiantato sul promontorio di Tindari un ospizio per i pellegrini siciliani diretti verso le mete più sacre del Cristianesimo medievale, al quale era sicuramente annessa anche una piccola chiesa. Per questa sede deve essere allora stata commissionata la nostra statua. Proficuo è stato anche il confronto con uno dei tre restauratori che ha curato l’iter di recupero della statua, il prof. Gaetano Correnti. I cordiali colloqui con lui intrattenuti e il materiale fotografico in suo possesso gentilmente messo a disposizione si sono rivelati strumenti fondamentali per lo studio dell’opera, visto che la sua esposizione attuale all’interno del nuovo Santuario a Tindari non consente allo studioso nessuna possibilità di approccio diretto. La Madonna di Tindari è, infatti, ancora oggi oggetto di grandissima venerazione da parte di un considerevole numero di pellegrini che giungono qui da ogni parte della Sicilia e anche dalla Calabria. Le conseguenti esigenze di culto e le pratiche devozionali che ne derivano, hanno condizionato notevolmente la fruizione della statua e anche alcune scelte in fase di restauro. La comparazione iconografica e stilistica con le Madonne in trono in generale e con le “Vergini nere” in particolare, nelle accezioni dei vari “stili regionali” europei, ha portato alla collocazione culturale della nostra opera in ambito spagnolo, e in particolare in area catalana, realizzata probabilmente verso la fine del dodicesimo secolo, sfatando così le presunte ascendenze orientali e la datazione all’VIII secolo che ancora oggi resistono nella critica locale. Desidero ringraziare a vario titolo per l’indispensabile collaborazione alla realizzazione di questo lavoro le professoresse Giovanna Valenzano e Francesca Flores D’Arcais, Gaetano Correnti, sua Ecc. Rev. ma Ignazio Zambito, Crispino Valenziano, Antonio Cuccia, Rosario Termotto, Domenico Messina, Nuccio Lo Castro, Beate Fichte, Luca Mor, Maria Stelladoro, dott. Mario D’Agostino, Giuseppe Pedalino, Teo Di Stefano, lo staff della casa editrice.

Parte prima Il concetto di “Vergine nera”

Nigra sum, sed formosa, filiæ Jerusalem, sicut tabernacula Cedar, sicut pelles Salomonis. Nolite me considerare quod fusca sim, quia decoloravit me sol. Vulg., Canticum canticorum 1, 5-6.

Capitolo i

Origine e diffusione delle “Vergini Nere”: interpretazione DI un fenomeno

Studiare il fenomeno delle cosiddette “Vergini Nere” è compito assai arduo soprattutto per lo storico dell’arte, che si trova davanti un ampio ventaglio di considerazioni e di teorie fin qui approntate con lo scopo di risolvere il problema dell’origine di questa specifica iconografia mariana. Oggetto di tali studi è un gruppo di Madonne, eterogenee per stile, tecnica e cronologia, accomunate dal colore bruno o, appunto, nero degli incarnati. Si tratta di dipinti, soprattutto su tavola, e di sculture in legno, dipinte o ricoperte da lamine di metallo prezioso, realizzati in un lungo arco di tempo che va dal XII al XX secolo. Per i limiti e le finalità di questa ricerca verrà qui preso in esame soltanto il filone più significativo delle “Madonne nere”, cioè quelle statue prodotte fra XII e XIII secolo raffiguranti la Vergine in Maestà, seduta su un trono e con in braccio il bambino, secondo la tipologia classificata come Sedes Sapientiae. La distribuzione sul territorio delle opere corrisponde a coordinate geografiche ben individuabili, circoscritte alla zona centro meridionale della Francia, soprattutto nelle regioni che ricadono sul Massiccio Centrale (Tav. I b), come l’Alvernia, il Limosino e la Borgogna. Da qui le “Vergini nere” si sono diffuse in Provenza e in tutta la fascia costiera meridionale e nelle regioni a ridosso dei Pirenei, valicandoli e radicandosi anche in buona parte della penisola iberica1. Rare sono le statue di “Madonne nere” in trono al di fuori di quest’ampia area geografica e forse l’eccezione più rilevante è costituita proprio dalla siciliana Madonna di Tindari, oggetto della seconda parte della presente ricerca. Come si evince dalla letteratura specifica sull’argomento, la diffusione delle “Vergini nere” non è poi così diversa da quella delle più numerose Madonne della stessa tipologia ma con incarnati policromi2 (Tav. I c). Uno dei difetti di gran parte della critica sul fenomeno delle “Madonne nere” è, infatti, quello di considerarle come una produzione autonoma rispetto alle tradizionali Sedes Sapientiae, per cui esse o vengono giustificate con notazioni esotiche ed esoteriche o vengono liquidate come creazioni postume negandone l’esistenza originaria. C’è da dire che lo studio delle “Vergini nere” nel loro complesso è oggi fortemente condizionato dalle perdite di numerosi esemplari di esse. Oltre alle normali dispersioni dovute all’usura del tempo comune ad altri prodotti artistici e in special modo, a causa della fragilità relativa del supporto, alle statue e agli intagli in legno, le Madonne raffigurate con la pelle bruna sono state vittime di vere e proprie campagne di soppressione, soprattutto in Francia e in due diversi momenti storici ben precisi. Nel corso del XVI secolo furono gli Ugonotti a scagliarsi contro le “Madonne brune”, tacciando il culto verso di loro di idolatria e superstizione. Delle circa centonovanta “Vierges Noires” inventariate nella sola Francia all’inizio del Cinquecento (Tav. I a), almeno venticinque furono distrutte durante le guerre di religione seguite alla Riforma protestante. L’altro grande attacco contro le “Madonne nere” fu sferrato dai Giacobini fra il 1793 e il 1794, nel cuore degli anni del Terrore. In quell’anno furono quarantasei le effigi mariane bruciate nei roghi delle pubbliche piazze, fra le quali anche le Madonne più antiche e venerate di Francia, la Virgo Paritura di Chartres e Notre-Dame du Puy. Il secolo dei lumi non poteva accettare le credenze superstiti dell’oscurantismo medievale, di cui le “Vergini nere” erano ritenute una delle massime espressioni. Se numerose statue si sono salvate dalla furia neo-iconoclasta giacobina si deve alla popolazione dei piccoli centri abitati, che riuscivano a nascondere la

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loro “immagine miracolosa” prima che essa potesse essere distrutta. Gran parte delle statue bruciate durante il Terrore fu poi sostituita da copie nel corso del XIX secolo3, importanti per il ripristino dell’antico culto mariano ma pressoché inutili per lo studio sulla sua origine (Tav. V b). Ogni tentativo di ipotesi sul fenomeno in questione deve, dunque, tener conto di questo grave handicap di partenza. Il termine “Madonna nera”, ovvero “Vierge noire”, comincia ad apparire negli studi scientifici sul fenomeno a partire dalla seconda metà del XIX secolo. La prima volta che una Madonna in maestà viene definita con questo epiteto è nel 1876, anno in cui L. Du Broc de Segange pubblica un volume su Notre-Dame de Moulins4 (Tav. V d). Le ricerche successive si sono indirizzate su due strade opposte per cercare di risolvere il problema dell’annerimento di questo gruppo di statue. Da un lato alcuni autori hanno guardato al mondo pagano e alle civiltà precristiane per giustificare anche tutta la letteratura leggendaria sorta attorno alle “Vergini nere”, spostando di conseguenza l’attenzione su tematiche magico-esoteriche; dall’altro la parte più consistente della critica tende a negare l’esistenza di statue di Madonne pensate nere fin dall’origine, trovando varie giustificazioni all’annerimento degli incarnati, casuale secondo alcuni e intenzionale secondo altri. Esiste poi un terzo filone di studi che ha un carattere puramente descrittivo, volto solamente ad accertare la presenza del fenomeno e al massimo a delinearne lo status quaestionis. Il primo testo che basa la sua costruzione sul concetto di continuità tra il culto e l’iconografia delle dee pagane e le “Vergini nere” cristiane è quello pubblicato da Marie Durand-Lefèbvre nel 19375. La studiosa francese redige un elenco delle “Vergini nere”, ma non avendo il suo studio finalità storico-artistiche in esso sono inserite anche stampe e copie recenti di statue famose, così che il numero complessivo degli oggetti in questione risulta gonfiato di molto rispetto allo stato reale e quindi fuorviante. L’idea di base della Durand-Lefèbvre viene raccolta ed ampliata da Emile Saillens nel suo studio pubblicato nel 1945, che contiene un catalogo ragionato di tutte le immagini mariane “nere” di Francia corredato da un prezioso apparato di mappe e cartine6. Nel 1972 una ricerca di Jacques Huynem si concentra più direttamente sugli aspetti esoterici legando l’origine del culto verso le “Madonne nere” al mondo dell’alchimia medievale7. Dedicata al culto delle “Madonne nere” in Italia è, invece, la ricerca di Leonard Moss e Stephan Cappanari, cominciata nel 1942, ma uscita nell’edizione definitiva soltanto nel 1982, nella quale i due psicologi americani passano in rassegna tutti i santuari italiani (Tav. II a), noti e meno noti, che registrano la presenza della nostra iconografia mariana, riportando anche tutte le leggende locali che la riguardano8. Quello dell’inculturazione cristiana nei confronti dei popoli non cristiani è un fenomeno noto e diffuso. Feste, luoghi e riti di particolare importanza per i popoli pagani da convertire venivano spesso a loro volta riconvertiti in senso cristiano9. Famosa in questo senso è una lettera di Gregorio Magno del 601 nella quale il papa fornisce indicazioni per la conversione dei Celti in Francia10. Anche nel caso dell’iconografia, e solo di quella, delle Sedes Sapientiae e, più in generale, delle statuereliquiario medievali potrebbe trattarsi di un fenomeno di inculturazione. Questo aspetto delle Madonne in trono è già stato sottolineato da Louis Rèau, il quale afferma che «Il faut tenir compte dans une certaine mesure pour Marie comme pour les saints des survivances du paganisme. Toutes les religions méditerranéennes antérieures au christianisme adoraient des divinités féminines... Dans la religion chrétienne, la Vierge Marie a hérité de toutes ces divinités détrônées. Elle s’est substituée à l’Égyptienne Isis, à la Syrienne Astarté...»11 per poi proseguire: «Les Vierges Noires adorées dans les cryptes de nos cathèdrales dériverainient des divinités chthoniennes.»12 Ora il problema non è tanto stabilire se la trasmissione dalle immagini pagane a quelle cristiane ci sia stata, perché è probabile che ciò sia realmente accaduto e non è un fatto né nuovo, né inconsueto, né eclatante; il vero problema è stabilire se ciò che avviene per le “Vergini nere” vada studiato separatamente, come fenomeno autonomo, rispetto a ciò che avviene per le Madonne in trono e per le statue-reliquiario in generale o se, invece, i modelli pagani non siano serviti per la nascita dell’iconografia della Madonna in maestà con in braccio il bambino indipendentemente dal colore degli incarnati. All’origine del culto delle “Vergini nere” vengono accostate un gruppo di divinità femminili tutte legate ai riti della terra, della fertilità e dell’oltretomba, Demetra/Cerere, Proserpina/Persefone, Cibele/la Grande Madre (Tav. IV b), Iside con in braccio Horus (Tav. IV a), Astarte e le divinità Ctonie13. Le immagini nere di

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tutte queste divinità rappresentano però una eccezione davvero limitata rispetto alla loro raffigurazione chiara, e comunque il colore nero è riferibile sempre e solo al materiale utilizzato come supporto (basalto, legno d’ebano, bronzo...), quindi all’immagine nel suo complesso come idolo e mai in riferimento al colore della pelle del personaggio rappresentato. Inoltre nel passo sopra riportato di Louis Réau viene fatta una forzatura per confermare l’origine delle “Vergini nere” da queste divinità. Le parole del Réau lasciano intuire, infatti, che tutte le statue di “Madonne nere” di Francia sono collocate in cripte, quindi sottoterra, quindi legate al culto delle divinità Ctonie. In realtà soltanto un esiguo numero di “Madonne nere” è, o è stato, venerato dentro le cripte di Cattedrali e chiese abbaziali o parrocchiali, la maggior parte di esse trova posto, invece, nelle spaziose aule ecclesiali, alla luce del sole. D’altronde le fonti medievali tacciono sul colore della pelle dei soggetti trattati dalle immagini. Esse ci informano, invece, su come era facile scambiare, senza un adeguato indottrinamento dello spettatore-fedele sul contenuto, immagini cristiane con quelle di idoli pagani. In un passo celebre dei Libri Carolini è, infatti, scritto: Sono offerte a chiunque di coloro che adorano le immagini, per esempio, le immagini di due belle donne che mancano di iscrizione, che un tale (...) trascura e permette che giacciano abbandonate in un qualunque luogo. Chi gli dice: “Una di quelle è l’immagine della Santa Madre, e non deve essere trascurata; l’altra invece è di Venere, e deve essere ignorata”, si volge al pittore e gli chiede, poiché sono in tutto molto simili: “Delle due qual’è l’immagine della Madonna e quale quella di Venere?” Quello dà all’una l’iscrizione della Madonna, all’altra quella di Venere. Questa, che ha l’iscrizione della Madre di Dio, viene eretta, onorata, baciata; quella, poiché ha l’iscrizione di Venere, madre di Enea, un profugo qualunque, viene abbattuta, incolpata, esecrata. Entrambi sono di simile figura, i colori sono uguali, i materiali di cui sono composte sono simili: si differenziano soltanto per l’iscrizione14.

Più avanti l’autore avverte che la statua di una bella donna con il bambino in braccio, senza un’adeguata iscrizione, poteva rappresentare la Madre di Dio ma poteva anche essere scambiata per Sara con Isacco o, peggio, con Venere ed Enea o con Alcmene ed Ercole15. Anche se i Libri Carolini non ebbero mai una larga diffusione16, tuttavia queste testimonianze in essi contenute sono preziose perché ci provano gli stretti contatti iconografici fra le Madonne con il bambino e le immagini delle divinità pagane, che quindi nell’VIII secolo dovevano essere ancora molto diffuse17. Caso analogo è quello che porta, all’inizio dell’XI secolo, Bernardo di Angers nel suo Liber miraculorum sanctae Fidis a condannare fortemente, almeno in un primo momento, le statue-reliquiario ricoperte da metalli e pietre preziose molto diffuse in Francia e in particolare la statua-reliquiario di Sainte Foy a Conques (Tav. IV c), trovandola molto simile ad immagini di Venere o di Diana18. L’episodio è interessante anche perché, nel caso del reliquiario di Sainte Foy, si tratta di una statua in legno ricoperta da lamine d’oro, assisa ieraticamente su un trono così come lo saranno le prime rappresentazioni della Sedes Sapientiae. Da questi pochi esempi è chiaro che il rapporto di dipendenza fra immagini di divinità pagane e statuaria cristiana è esistito, ma esso va ricercato nell’iconografia della Vergine seduta sul trono con in braccio il bambino e delle statue-reliquiario della stessa Vergine e dei santi, senza alcun riferimento al colore della pelle e senza che questa dipendenza iconografica implichi anche dipendenze o derivazioni cultuali, infatti l’immagine cristiana mai viene vista come idolo, che per sua natura racchiude in se l’oggetto e il soggetto dell’adorazione, ma essa rappresenta soltanto un tramite per visualizzare le realtà trascendentali. Tuttavia, per evitare confusione nella spiritualità popolare, si rese necessario cercare espedienti per distinguere inequivocabilmente i soggetti cristiani dai precedenti idoli pagani. Nei Libri Carolini come soluzione è indicata l’applicazione alle immagini dei Titula che non solo dava certezza sul personaggio raffigurato ma aveva il compito di condurre il fedele al di là delle apparenze sensibili per portarlo al suo contenuto trascendente19; Bernardo di Angers, invece, riesce ad accettare la statua-reliquiario di Sainte Foy quando capisce che l’importanza dell’oggetto non era data tanto dall’immagine in se ma piuttosto dal suo contenuto, cioè dalle reliquie della santa martire20. I reliquiari antropomorfi, la cui forma esteriore rimanda direttamente al loro contenuto, nascono proprio per favorire meglio il passaggio nei ceti popolari dai culti precristiani al cristianesimo21, religione incentrata sulla presenza di un unico Dio al quale si può giungere tramite la testimonianza e l’intercessione di uomini che in vita sono stati esemplari nella fede, i santi; le reliquie rappresentavano la prova tangibile della loro esistenza terrena e la venerazione di queste era stata caldeggiata dalla Chiesa fin dai primi secoli22. La più antica statua-

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reliquiario che conosciamo è proprio quella di Sainte Foy a Conques, realizzata alla fine del IX secolo e “de integro reformata” nella seconda metà del X secolo23; la prima statua conosciuta raffigurante la Vergine in trono con il bambino risale, invece, al 946 circa; si tratta del reliquiario a statua di Clermont-Ferrand, riprodotta nel famoso disegno all’interno del Manoscritto di Clermont dell’XI secolo24 (Tav. IV d). Realizzata in legno e ricoperta da lamine d’oro, questa statua della Vergine venne eseguita da un certo Adelelmus su commissione del vescovo di Clermont, Etienne II, che contemporaneamente era anche abate di Conques (942-984) e che quindi per la statua della Madonna di Clermont si ispira con molta probabilità al reliquiario di Sainte Foy, il quale dunque a ragione viene considerato come prototipo delle Madonne in maestà di legno25. Chiarito che il rapporto fra le immagini di culto cristiane e gli idoli delle divinità pagane interessa soltanto l’iconografia della Vergine e in particolare quella delle statue-reliquiario della Vergine e dei santi assisi in trono, senza nessuna implicazione di tipo misterico, passiamo adesso in rassegna l’altro filone di studi, quello che su basi positivistiche nega l’intenzionalità all’origine dell’annerimento delle statue della Vergine oggi conosciute come nere. Il primo a sostenere questa ipotesi è stato l’architetto ed archeologo parigino Charles Rohault de Fleury nel 187826. Secondo questi l’origine del colore nero delle nostre statue deriva dall’annerimento dovuto all’età delle lamine d’argento che ricoprivano alcune icone bizantine, ritenuto dai copisti come intenzionale e perciò copiato sulle statue come nero. Secondo questa teoria tutte le “Madonne nere” nascerebbero da questo malinteso. Partendo da questa visione nasce tutta una corrente di pensiero che accetta l’accidentalità del colore nero ma che cerca altre spiegazioni per la sua formazione. Le ipotesi che hanno trovato maggior riscontro fra gli studiosi sono principalmente due, una di natura fisico-chimica e l’altra legata a ragioni di culto. Nel 1909 il gesuita tedesco Stephan Beissel, riferendosi alle “Vergini nere”, riassume così queste due tendenze: «Molti tipi di vernice, specialmente il cinabro e il rosso a base di piombo usati per fare i toni della pelle, come pure l’argento usato in alcuni casi come base, virano in nero con il tempo... Altre immagini di questo tipo furono poste per decenni, a volte per secoli, nel mezzo di innumerevoli candele, il cui fumo le ha annerite.»27 Dal filone “positivista” prende avvio un ramo di ricerca che ha in comune con questo l’idea dell’annerimento posteriore delle statue ma che asserisce l’assoluta intenzionalità della mano umana nel far ciò. L’ipotesi oggi più accreditata fra gli storici dell’arte è, infatti, quella che il colore nero delle Madonne sia nato in epoche tarde rispetto alla realizzazione delle sculture stesse e che la sua origine è legata a motivi ideologici di varia natura connessi al culto mariano. Ilene H. Forsyth, nel suo testo fondamentale per lo studio delle Madonne in trono romaniche, dedica anche un breve paragrafo alle “Black Virgins”28. La studiosa, forte di alcuni restauri che hanno ridato la policromia originaria a Madonne che in precedenza apparivano nere, afferma che nessuna Madonna romanica fu pensata per essere nera ma alcune di esse lo divennero successivamente. Le ragioni di questo annerimento volontario delle immagini ha a che fare con i costumi religiosi delle varie comunità cristiane che ospitano le opere e non vengono ritenuti pertinenti allo scopo della sua ricerca, pertanto non vengono approfondite. Più recentemente la ricercatrice francese Sylvie Vilatte29 giunge alla conclusione che il colore nero sulle statue delle Madonne nasce per spirito di emulazione nei confronti di Notre-Dame du Puy (Tav. V b), la quale a sua volta assume l’aspetto bruno nel corso del XIV secolo per rinvigorire il flusso di pellegrini che stava attraversando un periodo di crisi. Il colore nero dato alla famosa statua aveva lo scopo di attestarne l’antichità del culto congiuntamente alla creazione ad hoc della leggenda che vuole il simulacro scolpito dal profeta Geremia, il quale, secondo questa invenctio, ebbe una visione ante litteram della Vergine e del bambino Gesù. Interessante è anche l’articolo di Monique Scheer30 che affronta il problema da un nuovo punto di vista, quello della percezione del colore nero nelle diverse epoche storiche. Le conclusioni della studiosa americana sono che il colore nero, almeno in Germania, viene propugnato dai Gesuiti e dato alle statue a partire dagli anni immediatamente successivi alla Controriforma per garantire l’antichità del culto mariano in risposta alle accuse mosse dai luterani. Queste sono le principali posizioni sull’argomento che adesso vanno vagliate ed eventualmente confutate per cercare di dare sistematicità e, per quanto possibile, obiettività al fenomeno in questione.

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Un’intuizione brillante è stata quella di aver posto in correlazione l’annerimento delle lamine d’argento con le immagini delle Madonne nere, anche se il de Fleury parla delle coperte argentee delle icone bizantine che in realtà lasciano liberi proprio il volto e le mani facendo affiorare in quei punti la pittura su tavola sottostante. L’attenzione si deve invece spostare sulle statue-reliquiario in argento che dovevano essere molto diffuse in area franco-germanica31. Infatti la prima forma della statuaria mariana in trono, dall’ottavo all’undicesimo secolo, prevedeva un’anima fatta in legno la quale era poi interamente ricoperta da lamine di metallo prezioso, oro o argento. Rare sono le immagini di questo tipo giunte fino a noi. Per la statuaria in oro l’esempio più interessante rimane il reliquiario di Sainte Foy, che come abbiamo visto ha stretti legami con le immagini mariane; per la statuaria in argento, l’unico esemplare che ho potuto rintracciare è la Sedes Sapientiae del tesoro della chiesa abaziale di Saint Pierre a Beaulieu-sur-Dordogne (Tav. V a) nel Limosino, datata alla prima metà del XII secolo32. Altri esempi ci sono noti dalle foni e dai documenti33. Confrontando la statuetta di Beaulieu-sur-Dordogne con quanto sostenuto dal de Fleury sull’annerimento dell’argento, si constata come siano state trattate diversamente le lamine d’argento usate per la realizzazione di vesti, calzature e capelli, che si presentano finemente sbalzate, cesellate e soprattutto dorate, rispetto alle lamine argentee usate per i volti e le mani, che appaiono invece con un modellato uniforme e lineare e con la tipica patina scura dovuta all’esposizione di questo metallo a fonti luminose. Ma davvero dobbiamo ritenere che questa evidente differenza nel trattamento delle superfici sia casuale? Davvero dobbiamo pensare che l’annerimento delle lamine che vanno a costituire gli incarnati, e solo quelle, sia dovuto all’unica azione del tempo senza nessuna implicazione volontaria da parte degli artefici? Questo annerimento non è, piuttosto, da considerare un effetto voluto? D’altronde le tecniche dell’annerimento dell’argento erano già conosciute dagli egizi e il procedimento per ottenere questo effetto è descritto da Plinio il Vecchio per la fabbricazione del niello34. Inoltre i ricettari medievali descrivono la prassi di passare una mano di vernice colorata sui metalli, principalmente bronzo e argento, con lo scopo di creare subito e artificialmente la patina scura che altrimenti si sarebbe formata dopo molti anni35. Così come il reliquiario d’oro di Sainte Foy è da considerare il prototipo delle statue dorate della Vergine in trono, le immagini in argento della Madonna potrebbero, allora, aver giocato davvero un ruolo importante nella codificazione dell’iconografia delle “Vergini nere” in legno dipinto, ma nelle determinazioni che abbiamo sottolineato. Le ipotesi positivistiche sull’annerimento di alcune statue raffiguranti la Madonna con il Bambino dovuto a fattori di ordine chimico lasciano spazio a numerosi interrogativi che ne minano l’attendibilità. Come si può spiegare, ad esempio, che solo una minima parte delle Sedes Sapientiae abbia subito un casuale viramento della policromia verso tonalità brune, anche a parità di condizioni ambientali e microclimatiche? O, al contrario, l’utilizzo di vernici a base di piombo e d’argento per realizzare gli incarnati in alcuni casi specifici non è da considerare consapevole, essendo gli artefici a conoscenza delle caratteristiche fisiche e chimiche di questi metalli? Anche il fumo delle candele o dell’incenso come causa determinante per la nascita delle “Madonne nere” lascia spazio a molti dubbi. Non tutte le statue di “Vergini nere” sono o sono state oggetto di grande venerazione tale da giustificare una grande quantità di ceri accesi ai loro piedi e poi non è spiegabile il solo offuscamento degli incarnati e non della statua nella sua interezza. Dall’altro lato molte statue di Madonne in maestà molto venerate sono rimaste “bianche”. Il fumo delle candele, tuttalpiù, col passare dei decenni ha accentuato la tonalità di un colore già bruno in origine, che poi i restauri successivi hanno enfatizzato ulteriormente. Proprio alcuni importanti restauri sono, invece, alla base degli studi più accreditati avverso le “Vergini nere”. Infatti, su alcuni di quelli che erano considerati fra gli esemplari più interessanti di “Madonne nere” - Marsat, Orcival (Tav. VI a), Molompize, Tournus (Tav. VI c), Digione (Tav. V c) - in seguito ad interventi restaurativi, è emersa una policromia chiara risalente al periodo di realizzazione delle sculture36. Questi episodi, che riguardano un numero abbastanza cospicuo di opere, hanno creato un grande scalpore e la conclusione più logica, come abbiamo visto, è stata quella di negare l’esistenza delle “Vergini nere” e di etichettarle come prodotto posticcio. Anche su queste argomentazioni, che in apparenza sembrano aver chiuso definitivamente la questione, è, però, necessario esprimere alcune considerazioni.

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Come abbiamo già detto, qualsiasi ipotesi sull’origine delle “Madonne nere” deve tenere presente che siamo davanti ad uno stato deficitario per l’avvenuta scomparsa di numerose opere e tra le più importanti, quelle cioè che vengono prese a modello per la realizzazione di altre sculture37. Le Madonne sopra citate interessate da questi interventi di restauro, tranne Notre-Dame-de-Bon-Espoir di Digione (Tav. V c), costituiscono un gruppo omogeneo tutte riferibili se non alla stessa bottega, quantomeno alla stessa area geografica, quella alvernate e, più specificatamente, quella nei pressi dell’importante centro per il culto mariano di Clermont-Ferrand. Questo gruppo di opere presenta, dunque, oltre a similitudini stilistiche anche le stesse tecniche esecutive. Basterebbe un solo restauro di un’opera estranea a quest’area culturale e che dia risultati diversi per mettere in dubbio le conclusioni cui sono giunti diversi studiosi. Questo evento si è verificato con il restauro che nel 1997 ha interessato proprio la Madonna di Tindari, la quale anche dopo la rimozione degli strati pittorici superficiali ha mantenuto il suo colore bruno. Infine una considerazione di carattere tecnico-esecutivo. I restauratori che hanno eseguito gli interventi citati erano probabilmente alla ricerca di uno strato pittorico originario che presentasse pigmenti tendenti al nero o al marrone. Quasi certamente, però, a dare le tonalità brune agli incarnati delle nostre Madonne dovevano essere patine di vernice colorata, enfatizzata poi da successivi restauri con strati pittorici pigmentari e verosimilmente rimosse assieme ad essi a causa dell’alto grado di solubilità delle vernici in genere. L’uso di vernici scure per abbassare i toni dei pigmenti è attestata fin dall’antichità. Famoso è il passo di Plinio il Vecchio in cui è descritta la consuetudine di Apelle di stendere uno strato di vernice nera per scurire i toni troppo chiari e per proteggere dallo sporco la superficie pittorica38. Come detto, vernici scurenti venivano usate anche su bronzi e argenti, per anticipare artificialmente la patina che il tempo avrebbe creato naturalmente39, e su statue di legno, per imitare l’ebano, essenza lignea molto pregiata dal caratteristico colore bruno intenso40. Anche i ricettari medievali trattano delle vernici atte a scurire i colori troppo vivaci, con il risultato finale di una superficie «di tono ambrato o tendente ai bruni»41. Nel nostro caso, poi, l’uso di una vernice scura tende a creare l’aspetto di una pelle che è ambrata perché abbronzata dal sole e non per intenti esotico-razziali, trovando dei fondamenti teologici che esamineremo nel dettaglio nella seconda parte di questa ricerca. A questo proposito lo studio oggi più accreditato che nega l’origine medievale delle Vergini nere esordisce così: «... rien dans le christianisme ne justifie ce noircissement: ni les mentions de Marie dans les Évangiles, ni la théologie, ni la liturgie.»42 E ancora più esplicitamente la stessa autrice, in una conferenza tenuta presso l’Université Blaise-Pascal di Clermont-Ferrand, afferma: «Rien dans le Christianisme ne justifie la couleur noire des statues: ni les mentions de Marie et de Jésus dans les Évangiles, ni les Péres de l’Eglise, ni la thèologie, ni la liturgie, ni les canons du concile de Nicée II en 787 qui réglementent la production et le culte des images. De fait, aucun artiste connu n’a peint ou sculpté une image noire.»43 Queste affermazioni denotano un approccio superficiale all’argomento, in quanto, essendo il colore nero un elemento simbolico nell’iconografia delle nostre Madonne, non si può pretendere di trovarne riscontro nei Vangeli o nelle fonti magisteriali della Chiesa, quali i canoni di un Concilio. La ricerca nelle fonti teologiche sembra essere, invece, la strada giusta per trovare riscontri, ma essa non va condotta, come probabilmente ha fatto la Vilatte, nei testi dei Padri o degli autori dei primi secoli del cristianesimo; essa va condotta in primo luogo nell’ambito cronologico e territoriale della nascita e del diffondersi del fenomeno in questione, e allora i risultati saranno ben diversi, come vedremo ampiamente più avanti. Subito va, invece, approfondito il discorso che riguarda la liturgia. Per affermare che nei testi liturgici non c’è nulla che giustifichi il colore nero riferito a Maria, la Vilatte prende in esame la titolatura mariana delle Laudes regiae, composte nella prima metà del VIII secolo, dove effettivamente non c’è nessun riferimento al colore della pelle della Dei Genitrix44. Con una ricognizione più ampia sui testi liturgici fondamentali si può constatare, però, che l’antifona al secondo salmo dei Secundis Vesperis in Festis B.M. Virginis per annum dell’Antiphonale monasticum (Solesmes 1934) recita così: «Nigra sum, sed formosa filiae Hierusalem: ideo dilexit me Rex, et introduxit me in cubiculum suum.»45 La presenza di questa antifona nelle feste mariane è testimoniata già in un importante manoscritto del X-XI secolo, l’Antifonario di Hartker46; essa è riportata anche come una delle antifone ai Secondi Vespri del giorno dell’Assunzione della Vergine nell’Ordo Farfensis47, scritto dall’abate Guido fra il 1030 e il 1048 per regolamentare la liturgia nelle abazie di Farfa e di San Paolo fuori le mura a Roma. Nel prologo di questo disciplinare l’autore ci riferisce che le due abazie erano sotto la regola benedettina di Cluny48, possiamo allora pensare che l’antifona fosse diffusa quantomeno in tutte le

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comunità monastiche della riforma cluniacense. È, allora, molto probabile che l’idea di una associazione fra il colore nero e la figura della Vergine, essendo già presente in nuce nella liturgia dell’XI secolo, si sia concretizzata nelle immagini scultoree quasi tutte realizzate nel secolo successivo, che riprendono la composizione della Madonna in maestà con in braccio il bambino aggiungendovi soltanto la variante della pelle bruna dei due personaggi (Tav. VI b-d). Ma perchè, allora, stando a quanto affermato dalla Vilatte, non si trova alcuna traccia di immagini mariane dagli incarnati bruni nelle fonti medievali prima della fine del Trecento? A trovare delle risposte ci viene incontro il già citato studio di Monique Scheer49. Come detto, la ricercatrice americana affronta il problema delle “Vergini nere” dal punto di vista della percezione del colore nelle diverse fasi storiche. I risultati più interessanti di questo nuovo approccio all’argomento riguardano proprio alcune importanti precisazioni sul medioevo. L’uomo medievale sembra non interessarsi al colore della pelle dei soggetti raffigurati nelle immagini sacre, ovvero la presenza di immagini mariane dagli incarnati bruni doveva apparire come una cosa così normale che non si sentiva la necessità di sottolinearne la presenza. Non si trova menzione di dettagli di questo tipo né nelle illustrazioni né nelle fonti scritte, ma neanche negli atti di commissione delle opere stesse. È importante rimarcare che come non si trova nessun accenno al colore di statue oggi conosciute come nere così non se ne trova alcuno sul colore di pelle chiaro. Interessante a questo proposito è la citazione riportata dall’autrice tratta dal secondo volume del poderoso studio The Image of the Black in Western Art: «Fino alla fine del quindicesimo secolo la rappresentazione del nero era basato su considerazioni simboliche piuttosto che etnologiche.»50 Fa eccezione la statua di Notre-Dame du Puy, che viene raffigurata nera per la prima volta in una miniatura del Libro d’ore di Margherita d’Austria alla fine del XV secolo51. Tutte le valide argomentazioni di Sylvie Vilatte, che come detto fa risalire l’annerimento della statua di Le Puy alla seconda metà del Trecento, possono allora giustificare non la nascita del colore nero sulla statua in questo periodo ma il cambiamento di percezione nei suoi confronti, avendo la necessità adesso di sottolineare l’antichità del culto verso questo simulacro rispetto ad altri siti francesi. Lo stesso motivo porterà i gesuiti, quasi due secoli dopo, a promuovere una forte campagna divulgativa a favore delle “Vergini nere”. Neanche i gesuiti, infatti, sono da considerare come coloro che rendono nere molte statue di Madonne medievali, ma essi sottolineano e promuovono per la prima volta in maniera sistematica l’esistenza di “Madonne nere” risalenti al Medioevo e, al limite, incentivano la commissione di nuove sculture, infatti proprio dalla seconda metà del Cinquecento, ad esempio, fioriscono in tutta Europa numerose copie della “Madonna nera” di Loreto. Rispetto a Le Puy sono diversi, però, i presupposti: lì si trattava di incrementare i flussi di pellegrini, qui di dare delle risposte convincenti alle critiche sempre crescenti dei riformati luterani sul culto mariano praticato dalla Chiesa Cattolica. Un gesuita, Odo de Gissey, nel 1627 pubblica un volume dedicato alla storia del culto della Madonna di Le Puy e sul frontespizio della sua opera inserisce la famosa espressione tratta dal Cantico dei cantici: «Nigra sum, sed formosa.»52 Ancora un gesuita, Pinus Joannes, appartenente al gruppo dei Bollandiani, a metà del XVII secolo redige la agiografia di San Bernardo per gli Acta Sanctorum, dove descrive in questi termini la statua della Madonna dell’abazia di Afflighem nella regione fiamminga del Brabante, la quale secondo la tradizione avrebbe parlato al grande teologo cistercense nel 1146: «Imago haec beatae Mariae in ulnis Christum gestabat, sculpta ex candido et molliori lapide, arena nigra nonnihil inspersa (quam Brabanti labender-steen nuncupant) longitudine quinque aut amplius pedum, opere et habitu prorsus antiqua. velo ex capite dependente in humeros.»53 Si tratta, evidentemente di una Madonna in pietra bianca ma ricoperta in alcuni punti, non vengono precisati quali, da una “arena nigra” che farebbe pensare proprio ad una “Madonna nera”. Il passo, secondo quanto afferma lo stesso Pinus Joannes, è tratto dal Chronicon Gemblacense54, un manoscritto del XII secolo redatto per mano dell’abate Anselmo di Gemblaux. Il testo originale, uno dei pochi frammenti del manoscritto, è stato pubblicato nel 1848 dal padre benedettino Pitra e recita: «Fuit igitur statua ista, Beatissimam Virginem Mariam puerum suum in ulnis habentem repraesentans, sculpta ex molliori illo et subcandido aut sane huic simillimo lapide, arena nigra nonnihil inspersa (quem Teutones Avenesteen, Brabantes Lavendersteen nuncupant), longitudinis hominis mediocris, hoc est quinque et amplius pedum, opere et habitu prorsus antiquo, velo ex capite defluente in humeros ...»55. Come si nota le concordanze fra i due passi sono notevoli. A provare che la statua descritta già nel XII secolo ritragga proprio una “Madonna nera” sono altri due

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documenti pubblicati dallo stesso padre Pitra. Il primo, del 1580, ci testimonia la distruzione della statua medievale della Vergine da parte dei Calvinisti56, e abbiamo già detto di come la furia iconoclasta di Calvinisti e Ugonotti si rivolse principalmente contro le “Vergini nere”. Con le parti superstiti della statua vennero realizzate, poi, ben due immagini della Vergine nel 1605, i volti della Madonna e del Bambino andarono, però, definitivamente perduti57. Il secondo documento, ancora più esplicito, è un inno del 1657 composto dal monaco Odone Cambier in onore della Madonna di Afflighem, che ad un certo punto recita: Nulla virtutum regio tuarum / Nesciens vivit: mare gratiarum, / Thaumatum summum, populis Maria / Thauma vocaris: // Sive Laureti modo visis aedem / Quam Palaestinis chorus angelorum, / Neu prophanares, Saracene, Sanctum / Transtulit oris; // Sive Serrati juga sacra montis, / Sive Gallorum placeat Lyessa; / Sive Belgarum petit Apricollem; aut / Incolis Hallas; // Multa fumantes tibi plebs ad aras / Diva procumbit tibi; vota, honores / Solvit, et certam recipit petitque58.

I luoghi citati nell’inno come termini di paragone sono dei famosi santuari dove si venerano statue di “Madonne nere”, specialmente Loreto e Montserrat. Con queste conferme, anche se tarde, il passo di Anselmo di Gemblaux diventa una testimonianza fondamentale sull’esistenza di “Madonne nere” già nel XII secolo, non solo in legno ma anche scolpite in pietra. Anche l’ampia campionatura di immagini, copie ed ex voto riferite a famose statue di “Madonne nere” va definita attraverso la percezione del colore nella storia e nei diversi ceti sociali. L’analisi di questo corpus iconografico è stato interpretato, infatti, come prova della tardiva presenza del colore nero su statue medievali59. Come già detto, fino alla seconda metà del XVI secolo non si hanno testimonianze iconografiche di “Vergini nere”, anzi le statue che noi oggi conosciamo come nere fino a quella data sono riprodotte con un incarnato di colore chiaro o, al massimo, indistinto. Come abbiamo anche visto, fa eccezione la Madonna di Le Puy, che è riprodotta come nera già alla fine del XIV secolo. La stessa statua, però, si ripresenta con una carnagione chiara in una incisione del 152360, per poi ritornare ad essere nera nelle raffigurazioni di inizio Seicento61. Un altro caso esemplare sembra essere quello della Madonna di Montserrat (Tav. LXXIX). Alcune recenti indagini scientifiche condotte sul veneratissimo simulacro catalano hanno dimostrato che il colore nero intenso della statua risale ad un restauro eseguito fra il 1823 e il 1824. A questo intervento risale anche la sostituzione del bambino e delle mani della Vergine con quelli attuali. Sotto lo strato di colore superficiale se ne trova poi uno di vernice bruna datato al XVI secolo e, finalmente, l’incarnato chiaro che i tecnici ritengono quello dell’aspetto originario della statua. La teoria ufficiale sulla statua è dunque che il colore chiaro degli incarnati si sia annerito nel corso dei secoli a causa del fumo delle candele e dell’incenso, oltre che per l’ossidazione del bianco di piombo (biacca) utilizzato nella pittura di volti e mani62. La comparazione della statua con le immagini che la riproducono sembra confermare questa teoria. Il culto verso la Madonna di Montserrat, infatti, a partire dal XIV secolo vide una grande diffusione in tutta Europa, specialmente nel bacino del Mediterraneo. Nella sola Palermo nel corso dei secoli si sono succedute quattro chiese e otto cappelle dedicate alla Madonna monserratiana63. Prendendo in esame alcune immagini palermitane che la raffigurano si osserva che in una tavola (Tav. XCII), dipinta da Antonello Crescenzio nel 1528 per la cappella di Calcerando Requinses all’interno della chiesa di Santa Maria degli Angeli, la Madonna e il bambino sono ritratti con carnagioni chiare, così come in un dipinto datato al primo quarto del Seicento del Museo Diocesano di Monreale (Tav. XCIII), mentre una statua della stessa Madonna (Tav. XCIV), recentemente restaurata e oggi esposta nel Museo Diocesano del capoluogo siciliano, collocata cronologicamente fra la fine del Cinquecento e l’inizio del secolo seguente, presenta incarnati neri. Ma se la rappresentazione della Madonna di Montserrat nelle immagini citate corrisponde all’evoluzione reale del colore sulla statua originale, dobbiamo, allora, pensare che il fumo delle candele e l’ossidazione della biacca abbia provocato risultati impercettibili in circa quattrocento anni e che poi, nel giro di qualche decennio, abbia annerito in maniera evidente gli incarnati della statua. E come giustificare, in questo caso, due immagini contemporanee e prodotte nella stessa località che mostrano, una incarnati chiari, mentre l’altra incarnati scuri. Oppure, dall’altro lato, dobbiamo ritenere che una delle statue più venerate d’Europa, meta di migliaia di pellegrini, soltanto perché leggermente scurita dal tempo sia stata verniciata con una tonalità bruna senza suscitare

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alcuna reazione nei fedeli che erano abituati a vederla bianca. Ovviamente nessuna delle due ipotesi può essere considerata verosimile. Le immagini o gli ex voto che raffigurano la Madonna di Montserrat, come pure altre Madonne, vogliono, infatti, rappresentare la Madonna venerata sotto quel titolo e non la statua oggetto di culto. Il colore simbolico del nero comincia a fare la sua comparsa anche sulle copie quando e se, per gli intenti ideologici già citati, diventa opportuno sottolinearlo e non costituisce una prova del cambiamento di colore delle statue medievali. A conferma di ciò prendiamo in esame una successiva raffigurazione della Madonna venerata nel santuario catalano. Si tratta di un dipinto settecentesco conservato a Collesano, piccolo centro del palermitano, dove gli incarnati della Vergine e del bambino sono ritornati ad essere bianchi. Stessa conferma abbiamo dagli ex voto del santuario di Tindari, nei quali ancora nel XIX secolo, quando la statua della Madonna era già sicuramente nera, l’immagine della Vergine con il bambino è raffigurata con incarnati chiari (Tav. XCV a) e la stessa cosa avviene, ancora più paradossalmente, nelle effigi monumentali che riproducono la Madonna su volte e pareti del nuovo santuario, costruito fra il 1957 e il 1979, tranne, evidentemente, dove è chiaro l’intento di rappresentare la statua in quanto tale. Tornando alla statua della Madonna di Monserrat, i risultati delle indagini scientifiche andrebbero, allora, valutati diversamente. L’autore, o gli autori, dell’opera hanno usato in maniera cospicua la biacca come base per la realizzazione degli incarnati probabilmente coscienti del viramento verso i toni bruni che essa avrebbe assunto col tempo; non è altrettanto improbabile che a completamento della superficie pittorica fosse stato applicato uno strato di vernice bruna con lo scopo di anticipare lo scurimento naturale; vernice che deve essere stata poi rimpiazzata nel XVI secolo con quella scoperta sotto l’attuale strato di colore nero. Per completare il panorama degli studi portati avanti sull’origine delle “Madonne nere” bisogna ricordare che esiste un ulteriore ventaglio di ipotesi che affronta il problema con fare epidermico e semplicistico, senza calarsi addentro alla questione, le quali ipotesi hanno trovato poco seguito nella critica scientifica. Alcuni studiosi sostengono che la raffigurazione nera della Madonna nasca dal fatto che Maria era una donna palestinese, etnia che nell’immaginario collettivo medievale era rappresentata con una accentuata pelle olivastra64. La pelle scura legherebbe dunque la Vergine alla sua terra natia e la sua figurazione con queste fattezze doveva attestare al fedele che quella che aveva davanti era la vera icons della Vergine Maria. Associata a questa teoria è la leggenda che vuole le prime immagini di “Madonne nere” portate in Europa dalla Terra Santa ad opera dei crociati. Alla ricerca dell’autentica icone mariana si lega anche la presunta origine delle sculture medievali delle Madonne brune da alcune icone orientali che fonti leggendarie attribuiscono alla mano di San Luca65, l’evangelista, il quale avrebbe ritratto dal vero le fattezze della Vergine. Questo mito nasce probabilmente perché fra gli evangelisti Luca è colui che può essere considerato quasi un agiografo della Vergine, avendo dedicato molto spazio del suo testo ai vangeli dell’infanzia. Le più famose icone mariane attribuite all’evangelista sono la Salus Populi Romani (Tav. VII b) di Santa Maria Maggiore a Roma66 e la Madonna detta, appunto, di San Luca conservata a Bologna (Tav. VII c). Queste icone, però, presentano uno scurimento del colore su tutta la superficie pittorica e non soltanto negli incarnati. A seguito di questa associazione anche molte statue di “Madonne nere” furono attribuite a San Luca e fatte giungere in Occidente durante le lotte iconoclaste, nell’VIII secolo. Un’altra ipotesi riferibile a questa corrente di teorie asserisce che i primi esemplari di “Madonne nere” vengono portati in Europa dalle regioni nordafricane e, quindi, gli artisti che le eseguirono avevano riprodotto in esse i caratteri somatici delle loro donne. Tutti gli esemplari di “Madonne nere” europee presentano, però, soltanto il colore scuro della pelle mentre le fisionomie e gli abiti non si distinguono da quelli all’occidentale del gruppo più ampio delle Sedes Sapientiae di carnagione chiara. L’unica statua che potrebbe dare adito a riflessioni di questo tipo è quella di Notre-dame de Meymac (Tav. VII a), che effettivamente, oltre alla pelle nera, presenta fisionomie africane, copricapo a turbante e abiti orientali. Tutti gli studi fin qui trattati, anche quelli dalle posizioni più antitetiche, concordano su un punto: nel non considerare, cioè, di particolare rilevanza per la formazione dell’iconografia delle “Vergini nere” l’espressione tratta dal Cantico dei cantici «Nigra sum sed formosa...» (Ct 1, 5-6). Soltanto teologi e scrittori ecclesiastici sembrano dare un qualche peso a questo passo dell’Antico Testamento, che comunque rimane

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l’unico riferimento biblico accostabile alla nostra iconografia67. Le motivazioni di questo diniego appaiono poi abbastanza pretestuose, tendenti più a non intralciare la propria teoria di fondo piuttosto che a giustificare con argomentazioni convincenti quanto affermato. Ad esempio la Forsyth, in riferimento a questo, scrive: «It would be difficult to understand why the Christ Child should also have been blackened if this passage were of significant inspiration for the idea.»68 Sylvie Vilatte suppone che il ricorso alle espressioni veterotestamentarie del Cantico nasca dall’esigenza da parte di alcuni scrittori ecclesiastici di fine XIX secolo di contrapporsi alla dilagante posizione positivista contro le “Vergini nere”. La sua posizione è, dunque, che «cette formule de l’A. T. se trouve dans les éditions de l’époque moderne, placée en exergue, au-dessous des images imprimées représentant Notre-Dame du Puy, en adduction au récit tradictionnel de la fin du Moyen Âge.»69 Il riferimento della Vilatte è chiaramente rivolto al frontespizio del testo di Odo De Gissey, cui già abbiamo accennato. Sulla scia della Vilatte, Sophie Cassagnes-Brouquet, autrice di un interessante volume che sintetizza tutte le correnti di pensiero sul fenomeno delle “Vergini nere”, così si esprime: Il est vrai que pour les exégètes des XIIIe et XIVe siècles, seule Marie peut mériter les louanges qui s’adressent a l’épouse du Cantique des cantiques. Elle possède, pour ainsi dire, à l’âge gothique, le monopole de la beauté. Mais la question demeure posée, pourquoi une beauté noire? Le fameux «Nigra sum» n’a jamais réussi à s’imposer totalement et la grande majorité des représentations de la Vierge au Moyen Âge nous la présentent comme blanche et blonde. Ne serait-ce pas en définitive prendre le problème à l’envers que de vouloir trouver dans ce verset l’origine des Vierges Noires? Ne faut-il pas plutôt y voir une interprétation élaborée a posteriori, introduite par l’Église afin de justifier un thème iconographique qui lui échappe, qu’elle ne contrôle pas et auquel l’immense foule des pélegrins est trop attachée pour qu’elle puisse le faire disparaître à jamais? Faisant contre mauvaise fortune bon cœur, elle aurait recherché dans les Écritures une justification chrétienne au plus typique des syncrétismes religieux. Si l’on en revient à la chronologie, on constate, en effet, que le culte des Vierges Noires était déjà bien répandu quand débuta l’interprétation mariale du Cantique des cantiques. Elle ne saurait donc en être la source. Tout au plus a-t-elle pu encourager quelques fidèles à barbouiller de noir la statue de leur village afin de suivre la mode!70

Anche Monique Scheer ritiene che i versetti del Cantico dei cantici furono utilizzati dai chierici a partire dalla metà del XVI secolo per enfatizzare il fenomeno delle Vergini nere che si andava spandendo proprio in quegli anni, riesumando un concetto di Origene, teologo vissuto nel III secolo: The first explicit explanation of the color was the biblical reference offered by clerics. The use of the phrase “nigra sum sed formosa,” however, makes an important shift in emphasis: it is no longer a black image of Mary that is spoken of but an image of a black Mary. If black madonnas were read as depictions of Mary as the bride of the Song of Songs, was she then understood to be depicted as an African woman? We have seen in the eighteenth-century sermon in Teising that the blackness of the bride/Mary is interpreted symbolically. Most commentaries on the “nigra sum” passage also interpreted the bride’s blackness allegorically, as the soul fallen from grace, or as the Gentile Church. This latter interpretation comes from an influential third-century commentary by the theologian Origen, who saw in the bride the queen of Sheba, generally known to be African. But she is not often portrayed with black skin prior to the mid-fifteenth century. When she is, such as in the late twelth-century altar by Nicolas Verdun in Klosterneuburg near Vienna, the color is not complemented by secondary characteristics typical for depictions of Africans, even at that time— in fact, she has long, golden hair, as does the Einsiedeln madonna. It appears that the blackness of the bride only connotes Africanness if she is connected with the queen of Sheba, and even then, the allegorical meanings appear to be primary. The queen of Sheba, though conceived of as African, is primarily seen as representing the Gentiles, like the bride, whom Paul Kaplan describes as “a character largely divorced from ethnic considerations, who represents a facet of religious belief rather than a material segment of the universe of the faithful.”71

Vedremo tra breve come, invece, è proprio nel XII secolo che fiorisco in Francia tutta una serie di commentari al Cantico dei Cantici, alcuni dei quali incentrati interamente sulla figura di Maria, dove trova grande risalto il tema della negritudo tratto proprio dai versetti 5 e 6 del primo capitolo. Questi commentari hanno probabilmente giocato un ruolo fondamentale nella nascita e nel diffondersi delle “Madonne nere”, più di quanto si sia finora creduo.

Origine e diffusione delle “Vergini Nere”: interpretazione di un fenomeno

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Note Cfr. S. Cassagnes-Brouquet, Vierges Noires, Rodez 2000, pp. 16 ss. Cfr. I. H. Forsyth, The Throne of Wisdom. Wood sculptures of the Madonna in romanesque France, Princeton University 1972, pp. 134 ss. 3 Cfr. S. Cassagnes-Brouquet, Vierges cit., pp. 221-237. 4 Cfr. L. Du Broc de Segange, Notre-Dame de Moulins, guide historique, archéologique et iconographique à travers la Cathédrale, les chapelles, les vitraux, les peintures..., Moulins-Paris 1876; citato da S. Vilatte, La question des “Vierges noire”. Faux mystère et vrai problème historique, in La Vierge à l’époque romane. Culte et représentations, in “Revue d’Auvergne”, 112, 1997, pp. 12-36. 5 M. Durande-Lefebvre, Étude sur l’origine des Vierges noires, Paris 1937. 6 E. Saillens, Nos Vierges noires et leurs origines, Paris 1945. 7 J. Huynem, L’enigme des Vierges Noires, Paris 1972. 8 L. Moss e S. Cappanari, In Quest of the Black Virgin: She is Black Because She is Black, in J. Preston (a cura di), Mother Worship: Theme and Variations, Chapel Hill 1982. 9 Note sono, ad esempio, le trasformazioni del 25 dicembre, festa romana del Sole Invitto, nel Natale cristiano o del 29 giugno, festa del dio Quirino, nella quale si ricordava la fondazione di Roma da parte di Romolo e Remo, nella festa dei santi Pietro e Paolo. Nella Cattedrale di Siracusa, invece, dedicata alla Vergine Maria sono ancora visibili le vestigia del tempio greco dedicato ad Atena Niche. Mai però i fenomeni di inculturazione dal mondo pagano a quello cristiano sono stati ricezioni passive, essi sono sempre supportati da solide basi teologiche. 10 Epistola LXXVI, Ad Mellitum Abbatem, J. P. Migne, PL 77, 1215-1217, nella quale il papa così si esprime: «Si dice che gli uomini di questa nazione sono abituati a sacrificare buoi. È necessario trasformare questa tradizione in un rito cristiano. Nel giorno della consacrazione dei templi (pagani), cambiati in chiese e nelle feste dei santi, le cui reliquie saranno conservate là, gli permetterete come in passato di costruire strutture di foglie attorno alle chiese. Essi porteranno alle chiese i loro animali, li ammazzeranno, non offrendoli più al diavolo, ma per un banchetto cristiano nel nome e in onore di Dio, al quale renderanno grazie, dopo essersi saziati. Solo così, conservando per gli uomini alcune delle gioie del mondo, li condurrete più facilmente ad apprezzare le gioie dello spirito.» Sull’argomento si era già espresso anche Sant’Agostino (cfr. Augustinus, Epistolae, Ep. XLVII, J. P. Migne, PL 33, 185). 11 L. Réau, Iconographie de l’art chrétienne, II, 2, Paris 1965, p. 59. 12 Ibidem, p. 59. 13 Per una visione generale del fenomeno dal punto di vista magico-esoterico cfr. E. Begg, The Cult of the Black Virgin, London 1985 (1996); ed. italiana, Il misterioso culto delle Madonne nere, Torino 2006. 14 Libri Carolini, IV, 16. 15 Ibidem, 21. 16 Sui Libri Carolini cfr. A. Bianchi, I Libri Carolini, in “Le parole della filosofia”, II, 1999. 17 I Libri Carolini ci informano, inoltre, sulla diffusione e sulle tipologie di opere d’arte realizzate in epoca carolingia: «Ecco si vede che esistono in gran numero le immagini, delle quali alcune sono composte coi colori, alcune fuse in oro o in argento, alcune scolpite nel legno dallo scalpello dello scultore, alcune incise nel marmo, alcune modellate nel gesso o nell’argilla» (LC I, 2). 18 Cfr. C. Delmas, Le trésor de Conques, du haut Moyen Âge à l’époque romane, in D. Gaborit-Chopin e E. TaburetDelahaye (a cura di), Le trésor de Conque, catalogo della mostra (Paris, Musée du Louvre, 2 novembre 2001-11 marzo 2002), Paris 2001, pp. 14-15. 19 Vedi nota 16. 20 Vedi nota 18. 21 Cfr. M. David e E. Rurali, ad vocem Reliquiario, in R. Cassanelli e E. Guerriero (a crura di), Iconografia e arte cristiana, Dizionari San Paolo, Cinisello Balsamo 2004, pp. 1119-1124. 22 Ibidem. 23 Per le complesse vicende della statua-reliquiario di Saite Foy cfr. D. Gaborit-Chopin, Majesté de sainte Foy, in D. Gaborit-Chopin e E. Taburet-Delahaye (a cura di), Le trésor cit., pp. 18-24. 24 Cfr. I. H. Forsyth, The Throne of Wisdom cit., pp. 90-91. 25 Cfr. C. Delmas, Le trésor de Conques cit., pp. 14-15. 26 C. Rohault de Fleury, La Sainte Vierge dans les Arts, Paris 1878. 27 S. Beissel, Geschichte der Verehrung Marias in Deutschland während des Mittelalters: Ein Beitrag zur Religionswissenschaft und Kunstgeschichte, Freiburg im Breisgau 1909, p. 345; citazione riportata in M. Scheer, From Majesty to Mystery: Change in the Meanings of Black Madonnas from the Sixteenth to Nineteenth Centuries, in “The American Historical Review”, 107, 5. 28 Cfr. I. H. Forsyth, The Throne of Wisdom cit., pp. 20-22. 29 Cfr. S. Vilatte, La question des “Vierges noire” cit., pp. 12-36. 30 Cfr. M. Scheer, From Majesty to Mystery cit. 31 Anche le statue in trono della Vergine nascono come reliquiari nei più famosi luoghi di culto mariano, quali Clemont-Ferrand, Chartres e Le Puy. 32 Esistono altre statue di Madonne ricoperte da lamine d’argento ma limitatamente alle parti che riguardano le vesti (Rocamadour, Marsat, Orcival, Moulins, ...). 33 Cfr. I. H. Forsyth, The Throne of Wisdom cit., pp. 10-15. 34 Cfr. Plinio il Vecchio, Naturalis historia, XXXIII, 46. 1 2

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Cfr. C. Maltese (a cura di), Le tecniche artistiche, Milano 1973, p. 38. Cfr. I. H. Forsyth, The Throne of Wisdom cit., pp. 21-22. 37 Su tutte le statue di Chartres e di Le Puy. 38 Plinio il Vecchio, Naturalis historia, XXXV, 97. Per l’interpretazione di questo passo cfr. E. H. Gombrich, Vernici scure: variazioni su un tema da Plinio, in A. Conti (a cura di), Sul Restauro, Torino 1988, pp. 115-131. 39 Cfr. a proposito O. Kurz, Vernici, vernici colorate e patina, in Ibidem, pp. 133-148; in particolare pp. 138-139: «Nei dipinti dei primitivi e più tardi nelle icone molti particolari erano dipinti su lamine di metallo; per queste parti si usava una vernice speciale colorata. Questo vale per le lamine d’argento e di stagno; nessuna vernice era usata sull’oro. ... Alcuni scultori preferiscono una patina artificiale per i loro bronzi, altri aspettano che si formi quella naturale.» 40 Cfr. Plinio il Vecchio, Naturalis historia, XVI, 213. 41 C. Maltese (a cura di), Preparazione e finitura delle opere pittoriche. Materiali e metodi, Milano 1993, p. 158. 42 S. Vilatte, La question des “Vierges noire” cit., pp. 13-14. 43 Citazione tratta da A. Courtillé, Marie en Auvergne, Bourbonnais et Velay, Riom 1997, p. 43. 44 Cfr. S. Vilatte, La question des “Vierges noire” cit., pp. 14-16. 45 Questo testo era presente nel Breviarun Romanum fino alla riforma liturgica del Concilio Ecumenico Vaticano II (1965) ed è stato, fra l’altro, messo in musica da musicisti del calibro di Pierluigi da Palestrina (1584) e Claudio Monteverdi (1610). 46 St. Gallen, Stiftsbibliothek, 390-391. 47 Cfr. Guido Farfensis Abbas, Disciplina Farefensis Et Monasterii S Pauli Romae, J. P. Migne, PL 150, 1228. 48 Cfr. Ibidem, 1191. 49 M. Scheer, From Majesty to Mystery cit. Anche se le ricerche della Scheer si concentrano specificatamente sulla Germania alcune sue considerazioni si possono generalizzare. 50 J. Devisse e M. Mollat, The Image of the Black in Western Art. Africans in the Christian Ordinance of the World (Fourteenth to the Sixteenth Century), II 2, New York 1979, p. 136. 51 S. Vilatte, La question des “Vierges noire” cit., p. 13. 52 Vedine riprodotto il frontespizio in S. Cassagnes-Brouquet, Vierges cit., p. 158. 53 Pinus Joannes, Acta S. Bernardi, J. P. Migne, PL 185, 496. 54 Cfr. Ibidem. 55 Documents sur un voyage de S. Bernard en Flandres, et sur la culte de Notre-Dame d’Afflighem. Voir Revue catholique de l’université de Louvain, ann. 1848, t. III, p. 400 et 457. Recueillis par le R. P. Dom PITRA, de l’ordre de Saint-Benoît, J. P. Migne, PL 185, 1797-1832; in particolare 1822, doc. II. 56 Cfr. Ibidem, 1829, doc. XXII. 57 Cfr. Ibidem, 1829 a-b, doc. XXIII. 58 Cfr. Ibidem, 1830 b – 1831 b, doc. XXVII. 59 Su queste ipotesi si basano buona parte delle conclusioni della Vilatte (S. Vilatte, La question des “Vierges noire” cit) e della Scheer (M. Scheer, From Majesty to Mystery cit.). 60 Vedila riprodotta in S. Cassagnes-Brouquet, Vierges cit., p. 167. 61 Ibidem, p. 169. 62 Cfr. E. Badia, El abad de Montserrat afirma que ‘La Moreneta’ seguirá siendo negra, in “El Pais”, 26 aprile 2001. 63 Cfr. A. M. Albareda, Historia de Montserrat, Abadia de Montserrat 1977, pp. 259-263. 64 Si tratta della teoria più antica sulle Vergini nere già espressa dal padre gesuita Cornelis Van de Steen (1556-1637), nei suoi Commentaria de la Bible (cfr. S. Cassagnes-Brouquet, Vierges cit., p. 128) 65 Sulla figura di San Luca come ritrattista della Vergine cfr. C. Valenziano, Evangelista e pittore Discepolo e scultore, Comunità di San Leolino 2003, pp. 25-90; M. Bacci, Il pennello dell’evangelista. Storia delle immagini sacre attribuite a san Luca, Pisa 1998. 66 Il primo a mettere in rapporto la Salus populi romani con l’iconografia delle “Vergini nere” è stato ancora C. Van de Steen (vedi nota 65). 67 Ad esempio cfr. G. Ravasi, Il Cantico dei cantici, Bologna 1992, pp. 179-182. 68 I. H. Forsyth, The Throne of Wisdom cit., p. 20 69 Cfr. S. Vilatte, La question des “Vierges noire” cit., p. 25. 70 S. Cassagnes-Brouquet, Vierges cit., pp. 157-158. 71 M. Scheer, From Majesty to Mystery cit. 35 36

Capitolo ii

FONTI TESTUALI PER L’ICONOGRAFIA E L’ICONOLOGIA DELLE “VERGINI NERE”

«L’art du Moyen Âge est d’abord une écriture sacrée dont tout artiste doit apprendre les éléments. Il nous montre une chose et il nous invite à en voir une autre. L’artiste, auraient pu dire les docteurs, doit imiter Dieu, qui a caché un sens profond sous la lettre de l’Écriture et qui a voulu que la nature elle-même fût un enseignement.»1 Secondo questo incisivo assioma di Émile Mâle non può esistere, per la concezione medievale dell’opera d’arte, un prodotto artistico di matrice cristiana che non derivi i suoi elementi figurativi e formali dalle Sacre Scritture e dalla esegesi che di esse ne hanno fatto i Padri della Chiesa e i teologi. L’interpretazione di un’opera d’arte, o di una tipologia di opere, deve dunque necessariamente avviarsi dalla ricerca sulle fonti testuali dei riferimenti che possono essere stati alla base dell’ideazione iconografica. Concludendo il primo capitolo avevamo ricordato che l’unico riferimento delle sacre scritture che può giustificare la nascita di una iconografia della “Madonna Nera” è il celebre passo del Cantico dei cantici: «Nigra sum, sed formosa, filiæ Jerusalem, sicut tabernacula Cedar, sicut pelles Salomonis. Nolite me considerare quod fusca sim, quia decoloravit me sol.» (Ct 1, 5-6), e di come la critica lo abbia sempre trascurato nei diversi tentativi di dare una spiegazione al fenomeno delle “Vergini Nere”2. Eppure il dibattito teologico fra XI, XII e XIII secolo sembra avere proprio nel Cantico dei cantici un cardine nodale di discussione con il fiorire, soprattutto in Francia, di decine di Commenti che hanno per oggetto proprio il poema biblico per eccellenza3. Le cause di questo interesse per il Cantico sono da ricercare probabilmente nella diffusione sempre crescente in quei secoli della poesia trobadorica e cortese, che propinava un ideale d’amore sensuale e carnale, mentre i giullari quasi contemporaneamente andavano diffondendo con un’azione capillare in tutti i piccoli centri, oltre che nelle grandi corti signorili, gli stessi ideali dandovi però forti accenti di oscenità4. È interessante notare che anche la Sicilia ebbe i suoi “trovatori” alla corte palermitana di Federico II di Svevia e che anche il suo territorio era invaso dalla poesia erotica dei giullari, uno su tutti ricordiamo Cielo d’Alcamo e il suo famoso contrasto “Rosa fresca aulentisima”5. La riscoperta e la diffusione del Cantico, da parte soprattutto dei grandi ordini religiosi, potrebbe allora inquadrarsi come una sorta di risposta indiretta ai costumi lascivi sempre più largamente diffusi nella società cavalleresca: ai versi dei poeti trovatori e dei giullari di corte viene dunque contrapposta la più alta poesia di tutti i testi sacri e al modello di donna sensuale ed erotica dalla pelle bianca come il latte e dai capelli fluenti e dorati viene contrapposta la sapiente Sulammita dalla pelle bruna. Quasi sempre nei commentari, che fra breve esamineremo nel dettaglio, quelle “filiæ Jerusalem”, cui sono indirizzate le parole del citato passo del Cantico, sono interpretate con le giovani fanciulle della società contemporanea alle quali si rivolge ora la Chiesa, ora l’anima pura, ora la Vergine Maria, ammonendole di ricercare la bellezza interiore anziché quella del corpo. Ma procediamo con ordine e analizziamo nel particolare i testi reperiti, secondo un percorso logico che ci dovrebbe portare a chiarire il cuore della questione: l’origine dell’iconografia delle “Vergini Nere”. Partiamo nella nostra analisi da un contatto diretto fra l’oggetto d’arte rappresentato e la sua interpretazione teologica. Nella figura della Vergine - sia essa con incarnati chiari o scuri, seduta perlopiù su di una seggiola a quattro o sei piedi e che diventa essa stessa un trono per il suo figlio, assunto ieraticamente in posizione centrale e frontale, proprio appoggiato sul grembo materno - il mondo medievale voleva rappre-

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sentare l’incarnazione della Divina Sapienza attraverso il grembo della Vergine Maria, la quale diventa allora una sorta di Trono-Sedes per il Logos fatto carne. Di questo siamo certi non soltanto per le interpretazioni critiche ed esegetiche che ne hanno dato storici e teologi ma soprattutto perché ne abbiamo almeno due testimonianze dirette. Alla base di due rilievi lignei del XII secolo che raffigurano la Vergine in trono con il Bambino, uno a Beaucaire e l’altro oggi a Berlino ma proveniente da Borgo San Sepolcro (Tav. VII d), troviamo infatti un’iscrizione che esplica il soggetto trattato, rispettivamente: a Beaucaire “IN GREMIO MATRIS: RESIDET SAPIENTIA PATRIS”; a Berlino “IN GREMIO MATRIS, FULGEAT SAPIENTIA PATRIS”6. I piedi della Vergine nella scultura di Berlino poggiano, poi, su una panca suppedanea sorretta da due leoncini, fornendoci un ulteriore elemento iconografico per la comprensione iconologica del gruppo. L’immagine del grembo-trono che accoglie la Divina Sapienza, associato alla figura della Vergine Maria, sembra infatti trarre il suo fondamento primario da un passo biblico che ritroviamo quasi identico sia nel Primo Libro dei Re (10, 18-20): «Fecit etiam rex Salomon thronum de ebore grandem et vestivit eum auro fulvo nimis qui habebat sex gradus et summitas throni rotunda erat in parte posteriori et duae manus hinc atque inde tenentes sedile et duo leones stabant iuxta manus singulas et duodecim leunculi stantes super sex gradus hinc atque inde non est factum tale opus in universis regnis»; sia nel Secondo Libro delle Cronache (9, 17-19): «Fecit quoque rex solium eburneum grande et vestivit illud auro mundissimo sexque gradus quibus ascendebatur ad solium et scabillum aureum et brachiola duo altrinsecus et duos leones stantes iuxta brachiola sed et alios duodecim leunculos stantes super sex gradus ex utraque parte non fuit tale solium in universis regnis.» Da questi brani, dove ritroviamo tra l’altro la presenza dei nostri due leoncini, emerge un nuovo elemento che ci permette di salire un ulteriore gradino nella comprensione dell’iconografia della Vergine in trono. Maria, infatti, che accoglie sulla terra la Divina Sapienza incarnata, non rappresenta un trono qualunque ma raffigura proprio il mitico trono fatto costruire dal re Salomone, colui cioè che nell’Antico Testamento è l’emblema del sapiente per eccellenza, per regnare su Israele e «nel periodo Romanico, l’allusione a Maria come il Trono di Salomone è frequente.»7 Particolarmente efficace ai fini del nostro discorso risulta essere un brano del grande teologo medievale Pier Damiani (1007-1072) che incentra tutto il sermone da lui composto In Nativitate Beatissime Virginis Mariae sulla simbologia del Trono di Salomone e in particolare dice: Hodie nata est illa, per quam omnes renascimur, cujus speciem concupivit Omnipotens, et in qua Deus posuit thronum suum (Psal. XLIV). Ipsa est thronus ille mirabilis, de quo in Regnorum historia legitur in haec verba: “Fecit rex Salomon thronum de ebore grandem, et vestivit eum auro fulvo nimis. ...” Salomon noster, non solum sapiens, sed et sapientia Patris; non solum pasificus, sed et pax nostra, qui fecit utraque unum, fecit thronum, uterum videlicet intemeratae Virginis, in quo sedit illa majestas, quae nutu concutit orbem... Hoc est aurum fulvo nimis, quo thronus est vestitus, quia tali modo Deus Virginem induit et in Virgine indutus est, ut meliori non posset.8

Giustamente questo sermone è stato accostato alla nascita delle prime Maestà in legno rivestite da lamine d’oro, a noi interessa notare però il rapporto che Pier Damiani istituisce fra Salomone e Cristo, che è la Sapienza del Padre e quindi ben più del re ebreo, e l’identificazione fra il trono di Salomone e la Vergine Maria. Ancora più vicino, cronologicamente e geograficamente, alla zona di maggior produzione e diffusione di sculture in legno raffiguranti la Madonna come Sedes Sapientiae è un altro passo di Gilberto di Nogent (10531124), monaco benedettino d’origine franca e abate di Notre Dame de Nogent-sous-Coucy, che nel Liber de Laude Sanctae Mariae, in riferimento al citato passo del Libro dei Re afferma: Thronus est eburneus Salomonis. Haec est thronus quem fecit Salomon de ebore grandem: et vestivit eum auro fulvo nimis (III Reg. X, 19). Sapientia Dei Patris primum, juxta apostolorum, pacifica (Jac. III, 17), ipsa est Salomon, quae thronum de ebore sibi facit, dum sedem in Virgine, qua nil unquam fuit castius, sibi ponit. Elephas enim, cujus ossa sunt ebur, continentis ac mundae naturae est. Porro grandem, nimirum ex Filio coelis, terris, et inferis praesidentem. Hunc auro fulvo nimis vestit, cum eam non virtum scintillis ut alios, sed ipsa substantialiter propria divinitate interius exteriusque infercit.9

Fonti testuali per l’iconografia e l’iconologia delle “Vergini Nere”

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Anche per Gilberto, Maria è quel trono che la Sapienza del Padre, prefigurata da Salomone, si è fatto per abitare sulla terra. Ma l’abate benedettino va ancora oltre e poco più avanti, continuando nell’interpretazione mariologica di tutti gli attributi del trono di Salomone, identifica i due leoni che sorreggono il trono, uno con la gerarchia dei prelati e l’altro con il popolo dei fedeli, che insieme sostengono la Chiesa10 e difatti, nella Laude successiva, chiarisce che: «Ecclesia illustratur Maria – Et terra splendebat a majestate ejus (Ezech. XLIII, 2).»11 Maria è dunque immagine e simbolo della Chiesa e tutto quello che si dice in generale sulla Chiesa, lo si può riferire in particolare alla Vergine12. Sotto questa luce assumono un valore tutto particolare per la comprensione dell’iconografia della Sedes Sapientiae le parole che riportiamo, riferite alla Chiesa da Adamo di San Vittore (m. 1173), tratte dalla sequenza In Dedicatione Ecclesiae: Hic est urna manna plena \ Hic mandata legis dena, \ Sed in arca foederis. \ Hic sunt aedis ornamenta. \ Hic Aron indumenta, \ Quae praecedit poderis. \ Hic Varias viduatur. \ Bersabee sublimatur, \ Sedes consors regiae. \ Haec regi varietate \ Vestis astat deauratae \ Sicut regum filiae. \ Huc venit austri regina, \ Salomonis quam divina \ Condit sapientia. \ Haec est nigra sed formosa, \ Myrrhae et turis fumosa \ Virga pigmentaria. \ Haec futura, quae figur \ Obumbravit, reservavit \ Nobis dies gratiae.13 La Chiesa, e di conseguenza la Vergine Maria, è qui paragonata all’Arca dell’Alleanza costruita da Mosè e ornata d’oro da Aronne, alla regina del Salmo XLIV vestita con preziosi ricami, con frange d’oro e con vesti variopinte, e soprattutto, per quanto ci riguarda, alla regina di Saba che va da Salomone per ascoltarne la Divina Sapienza, la quale è “Nigra sed formosa”. Il cerchio intorno al nostro discorso dunque si chiude: la Vergine Maria, raffigurata seduta con in braccio il bambino Gesù, è una rappresentazione del trono che la Divina Sapienza incarnata si è scelto per abitare sulla terra; quel trono non è però un trono qualunque ma è fatto ad immagine di quello che Salomone, prefigurazione veterotestamentaria della Sapienza del Padre, si costruisce per regnare su Israele; Cristo, Sapienza Divina e nuovo Salomone, ha anche il colore della pelle di quest’ultimo; Maria, e in lei tutta la Chiesa, può dunque essere prefigurata in colei che nel Cantico dei cantici dice di essere «Nigra... sicut pelles Salomonis». Ecco che la rappresentazione della Vergine con incarnati scuri è pienamente giustificata dalla teologia medievale e il detto versetto del Cantico diventa il cuore della questione e non, come vogliono tanti storici, soltanto una nota marginale. Verifichiamo adesso questa ipotesi passando in rassegna alcuni Commentari al Cantico dei cantici di teologi del XII secolo, soprattutto quelli incentrati su interpretazioni mariologiche, soffermandoci in particolare sul commento che essi rivolgono ai versetti 5 e 6 del primo capitolo. Cominciamo da uno dei massimi esponenti della teologia e della spiritualità medievale, il cistercense Bernardo di Clairvaux (1090-1153), che fa del Cantico una delle sue principali fonti d’ispirazione. Il suo scritto fondamentale sul poema biblico sono gli 86 Sermones super Cantica canticorum, scritti a partire dal 1135 e fino al 1153, anno della morte. In realtà Bernardo, pur essendo il maggior diffusore del culto mariano nel medioevo, non interpreta in chiave mariologica la sposa del Cantico ma tende a risolvere la coppia SposoSposa con il parallelismo Cristo-umanità. I Sermones di Bernardo trovano però posto nel nostro discorso perchè essi saranno presi a modello per tutto il secolo, e anche oltre, da tutti quei commentatori che faranno un più diretto riferimento a Maria come sposa del Cantico; ed inoltre Bernardo dedicherà ben quattro sermoni al tema della Negritudo, che secondo chi scrive sarà un pilastro teologico portante per l’iconografia della “Madonne nere”14. I sermoni in cui Bernardo affronta il tema della negritudine sono quelli che vanno dal XXV al XXVIII, anche se la maggior parte del sermone XVI è poi dedicato al compianto per la morte del fratello Gerardo. Il Sermone XXV si apre dando una definizione di chi sono quelle figlie di Gerusalemme che insultano la sposa per la sua negritudine. Esse, pur peccando di presunzione verso la sposa, vengono chiamate figlie di Gerusalemme «sia a causa dei sacramenti della Chiesa – che esse ricevono senza discriminazione, insieme con i buoni -, sia per la comune confessione della stessa fede, sia per l’appartenenza, almeno fisica, alla comunità dei fedeli, sia anche per la speranza della salvezza futura – dalla quale non sono assolutamente

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escluse, fino a quando sono in questa vita – per quanto vivano senza speranza.»15 È facile allora identificare queste figlie di Gerusalemme, cui si rivolge la sposa, con le “fanciulle malevoli e maldicenti”16 che vivevano al tempo di Bernardo e che con i loro cattivi costumi divenivano fonte d’ispirazione per la poesia trobadorica e giullaresca. Continuando, Bernardo definisce il concetto di negritudine: Vediamo ora che cosa s’intenda con le parole: «Bruna sono, ma bella». Non c’è forse contraddizione in queste parole? Per niente. Lo di­co per i semplici, che non sanno distinguere fra forma e colore, poiché la forma si riferisce alla struttura, mentre la negritudine è un colore. Quindi, non tutto quello che è nero è, necessariamente, anche difforme. La negritudine, ad esempio, non è sgradevole in una pupilla, alcune gemme nere sono piacevoli negli ornamenti, e i capelli neri aggiungono bellezza e grazia ai volti molto chiari. Tu stesso puoi notare facilmente che questo accade in numerose situazioni. Del resto, sono innumerevoli le cose che tu puoi trovare alterate nel colore, in superficie, mentre sono belle nella struttura. In tal modo, forse, la sposa – con la bellezza della struttura – può presentare il difetto della negritudine: ma soltanto nel luogo del suo peregrinare. Sarà diverso quando, in patria, lo Sposo del­la gloria la presenterà a se stesso, gloriosa, senza macchia né ruga o al­cunché di simile. Ma se dicesse adesso di non avere negritudine, ingan­nerebbe se stessa e la verità non sarebbe in lei. Non meravigliarti, per­c iò, che abbia detto: «Sono bruna» e, tuttavia, di nuovo si glori della propria bellezza. In che modo, infatti, potrebbe non essere bella colei al­la, quale si dice: «Vieni, mia bella»? Una cui si dice: «Vieni », non era an­c ora arrivata; che nessuno creda che tale parola sia stata detta, non a questa bruna – che ancora si affaticava percorrendo la via –, ma a quel­la beata, che, certamente senza negritudine, già regna in patria.17

Il nome di Maria non è esplicitamente detto ma è chiaro, conoscendo anche il pensiero di San Bernardo, che se queste parole possono riferirsi a tutte le anime pure a maggior ragione lo possono essere alla più pura fra le anime, alla Vergine Maria. E più avanti diventa ancora più chiaro il riferimento: O anima veramente bellissima, che la bellezza celeste non ha disdegnato di accogliere, che la sublimità degli angeli non ha respinto, che lo splendore divino non ha rifiutato, nonostante abitasse in un corpo piccolo e debole! E voi la chiamate scura? È scura ma bella, figlie di Gerusalemme. Scura a vostro giudizio, bella, secondo quello degli angeli e di Dio. Se è scura, lo è all’esterno. A lei, però, importa assai poco di venire giudicata da voi o da quelli che giudicano secondo l’apparenza.18

All’apice della contemplazione di questa bellezza “scura”, Bernardo arriva ad esclamare: «Beata negritudine, che genera il candore della mente, la luce della scienza, la purezza della coscienza.»19 Ciò che dunque agli occhi del mondo appare come elemento negativo, per il cristiano compartecipa alla santità dell’anima e del corpo infatti: «Non è certamente da disprezzare, nei santi, questa negritudine esteriore, che produce il candore interiore e, grazie a questo, prepara la dimora della sapienza.»20 Ma, come abbiamo visto, qual è la dimora della Sapienza se non il grembo di Maria? Dunque anche Maria, insieme ai santi, non deve «gloriarsi solo del candore interiore, ma anche della negritudine esteriore affinché non vada perduto assolutamente nulla, ma tutto concorra al bene»21. Il modello per la glorificazione della negritudine è Cristo stesso, che incarnandosi si è umiliato fino alla morte ed è diventato “scuro”: «È negritudine, ma è forma e somiglianza del Signore... Bello, dunque, in sé, scuro per te»22. Il sermone XVII è interamente dedicato a chiarire che cosa la sposa del Cantico intenda con l’espressione: “Sono bella come le tende di Salomone”. Qui il tema della negritudine viene momentaneamente accantonato per il concentrarsi dell’autore sull’identificazione Cristo-Salomone: Che cosa significano, ora, queste parole: «Sono bella come le ten­de di Salomone»? Qualcosa di grande e mirabile, credo, se però non guardiamo a questo Salomone, ma a colui di cui è detto: «Ecco, più di Salomone c’è qui». Infatti, questo mio Salomone è Salomone a tal pun­to che non solo è chiamato Pacifico – è questo, infatti, il significato del nome Salomone –, ma addirittura «Pace», come attesta Paolo quando afferma che «egli è la nostra pace». Presso questo Salomone non dubi­to che si possa trovare qualcosa che sia paragonabile alla bellezza della sposa. In particolare, per quanto riguarda le tende, pensa al salmo, che dice: «Stende il cielo come una tenda». Certamente non viene detto di quel Salomone, anche se molto sapiente e molto potente, che stende il cielo come una tenda, ma piuttosto di colui che non solo è sapiente, ma è la Sapienza stessa, il

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quale l’ha disteso e creato. A lui, infatti, e non a quello, convengono le parole: «Quando disponeva i cieli – e qui, evi­d entemente, si tratta di Dio Padre –, io ero presente». Era infatti pre­sente, accanto a chi disponeva i cieli, colui che è la sua forza e la sua sa­pienza.23

L’unico riferimento alla negritudine della sposa è in apertura del sermone: In che modo, dunque, era bella come le tende di Salomone, come se Salomone, in tutta la sua gloria, avesse qualcosa che fosse degno della bellezza della sposa e della gloria del suo ornamento? In realtà, se dicessimo che queste tende – come del resto le tende di Cedar – riguardano non tanto la bellezza della sposa, quanto invece una certa sua negritudine, forse anche questo sarebbe appropriato, e non mancherebbero argomenti per attestare che è conveniente, come mostreremo.24

La dimostrazione del suo teorema Bernardo la compie però nel Sermone XVIII, che per la profondità delle riflessioni sul tema della negritudo e l’attinenza con l’argomento qui trattato andrebbe letto per intero25. Qui si vuole soltanto sottolineare alcuni spunti rilevanti ai fini del nostro discorso. Intanto che in questo sermone troviamo l’unico riferimento esplicito a Maria. Parlando infatti di Cristo che assumendo la natura umana si è rivestito di una pelle scura per nascondere la sua gloria, Bernardo afferma che: «A rivestirlo così, però, non fu Rebecca, bensì Maria, ed egli è tanto più degno di ricevere la benedizione, quanto più santa è colei che lo ha partorito.»26 Secondo il grande teologo, per il mondo è difficile riconoscere nell’umiliazione di Cristo che egli è il Figlio di Dio, ma non lo è per la chiesa, la quale imita la sua negritudine per partecipare alla sua gloria. Ed essa non si vergogna di apparire scura né di essere detta bruna, per poter dichiarare al diletto: “gli oltraggi di chi ti insulta sono ricaduti su di me”. Davvero, essa è scura come le tende di Salomone, ma evidentemente solo all’esterno e non dentro: infatti, neppure il mio Salomone è scuro nel suo intimo. Infine, non dice : “Sono bruna come Salomone”, ma: “come le tende di Salomone”, perchè la negritudine del vero pacifico è solo in superficie.27

Tenendo a mente che “Ecclesia illustratur Maria”, possiamo riferire anche queste parole in particolare alla Vergine e con la Chiesa farle esclamare: «Mi ha colorato Cristo, il Sole di giustizia, per amore del quale languisco. E questo languore è come una distruzione del colore»28. L’arrivo della morte nel 1153 interrompe la lettura esegetica del Cantico da parte di Bernardo che si ferma appena all’inizio del terzo capitolo. I primi a fare tesoro della profondità degli scritti bernardiani e a volerne continuare e, per quanto possibile, completare l’opera sul Cantico, furono ovviamente coloro che più da vicino ne avevano recepito gli insegnamenti, appartenenti allo stesso Ordine di Citeaux. Una In Cantica Canticorum Priora Duo Capitis Brevis Commentatio ce lo ha lasciato Guglielmo di SaintThierry (1090-1147), cistercense e amico di Bernardo, il quale dichiara nel proemio della sua opera di essersi ispirato proprio ai Sermones bernardiani29. Il piccolo libretto dell’abate Guglielmo ci appare interessante perché, fra l’atro, vi troviamo un riferimento diretto alla negritudine di Maria. Infatti, dopo aver ulteriormente identificato Cristo con il “vero Salomoni”, egli dice: «Poterat enim dicere Mater Domini Maria, mirantibus de se filiabus Jerusalem: Nigra sum ex natura Adae, sed formosa ex fide, id est, ex pelle Salomonis»30. Anche Goffredo di Auxerre (1115-1187), già segretario di San Bernardo e poi suo successore presso l’abbazia di Clairvaux, medita sui Sermones e utilizza gli spunti di riflessione offerti dagli scritti di Bernardo sul Cantico inserendoli in diverse sue opere. Nelle Declamationes De Colloqio Simonis Cum Jesu, Goffredo dedica il capitolo XLVIII alla “nigredine et decore sponsae”, identificando la sposa con la Chiesa nascente che ha in Maria la sua icona orante31. Concludiamo questi brevi accenni sulla spiritualità cistercense incentrata sul Cantico dei cantici con altri due autori dell’Ordine di Citaux. Si tratta di Tommaso di Vaucelles (XII sec.), detto appunto Cistercense, dell’abbazia di Perseigne; e di Alano di Lilla (m. 1202), professore alla Sorbonne e definito “doctor universalis” per la fama e la larga diffusione che i suoi scritti ebbero in tutta Europa.

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Per quanto riguarda l’opera In Cantica canticorum eruditissimi Commentarii di Tommaso Cistercense alcuni studiosi pensano che essa in realtà sia da attribuire al benedettino Giovanni Algrino di Abbéville (m. 1237), ma i più sostengono che il ruolo di quest’ultimo si sia limitato a delle piccole integrazioni al testo originale di Tommaso, e proprio all’Algrino sembrano potersi riferire le applicazioni mariologiche al poema biblico32. Il passo di nostro riferimento (1, 5-6), nel commento attribuito a Tommaso, legge la negritudine della sposa come la sinagoga che ancora aspetta il Sole di giustizia che la illumini33. Interamente interpretato in chiave mariologica è invece nella postilla attribuita a Giovanni Algrino, dove Maria è definita “Nigra” perchè è stata offuscata dalla morte di Cristo: «Nunc beata Virgo loquitur de dolore quem habuit tempore passionis filii sui: et convertit sermonem suum ad adolescentulas, dicens: Nigra sum animi moerore confecta. Vel sic: Nigra sum, despecta, ofuscata, obscurata, decolorata, quia decoloravit me sol moriens; decolorem me fecit sol obscuratus et offuscatus»34. L’offuscamento del Sole di giustizia ha dunque provocato l’offuscamento di chi quel sole ha partorito: «Ipso igitur sic despecto, despecta est et mater; ipso sic offuscato, offuscata est mater, nec Dei Genitrix reputata est.»35 La negritudine di Maria è però soltanto “in apparentia”, poiché ella pur essendo “Nigra... sicut tabernacula Cedar” è anche “formosa... sicut pelles Salomonis”: Verumtamen ego formosa sum sicut pelles Salomonis. Sicut pelles dedicatae vero Salomoni, Christo vero pacifico. Nam, sicut illae pelles arcam typicam continuerunt, sic ego intra mea viscera veram arcam continui, Christum videlicet, cujus caro significatur per arcam, cujus anima designatur per urnam auream, quae erat in arca, et Deitas designatur in manna: et sicut pelles protegebant totum tabernaculum, sic sub umbra meae defensionis protego totam Ecclesiam.36

Maria, dunque, paragona se stessa all’arca dell’alleanza, immagine che già abbiamo visto riferire alla Chiesa da Adamo di San Vittore37, che custodiva l’urna d’oro contenente la manna del deserto, prefigurazione dell’Eucarestia e dunque di Cristo stesso. Ella, inoltre, come la pelle proteggeva la tenda con l’arca, continua a proteggere tutta la Chiesa. Esplicito già dal titolo del suo scritto, In Cantica canticorum ad laudem Deiparae Virginis Mariae compendiosa elucidatio, è il modo di interpretare il Cantico da parte di Alano di Lilla. La sua è però una visione più allegorica che simbolica, avendo impostato la lettura del Cantico da lui fatta proprio come una allegoria dell’Incarnazione, al pari di quanto aveva già fatto il benedettino Ruperto di Deutz (10751130)38, facendo continui parallelismi fra le espressioni del Cantico ed episodi dei Vangeli dell’infanzia. La sposa del Cantico è allora Maria che appare nera, cioè sofferente, a causa dell’oracolo del vegliardo Simeone che le presagisce la morte di Cristo: «Nigra inquam, sicut tabernacula Cedar. Per tabernacula Cedar, significatur impetus tribulationum, cui exposita fuit Virgo gloriosa; non tantum in se, sed et in filii angustia. Filii enim tribulationes vocabat suas, et ejusdem adversitates a se non faciebat alienas. Unde ad ipsam dictum est: “Et tuam ipsius animam pertransibit gladius” (Luc. II).»39 Le figlie di Gerusalemme, inoltre, mettono in dubbio la purezza di Maria, che è rimasta incinta pur non essendo ancora sposata, e allora la Vergine risponde loro: «Nolite considerare quod fusca sim, id est quod fusca propter gravidationem videor; quia non vir, sed sol justitiae decoloravit me, id est valde coloravit; non colore mali, sed colore mentali. Quia ita me gratia Spiritus sancti gravidavit, quod verginitatem non abstulit; vel ita gravidam me fecit quod me decoloravit, id est extra colorum proprietatem, scilicet naturam aliarum gravidarum me constituit.»40 L’autore che però fornisce il maggior numero di spunti per la comprensione della nostra iconografia rimane Filippo di Harveng (1100 ca.-1183), premostratense e abate di Bonne-Espérance in Belgio, artefice di ben due opere sul Cantico, i Commentaria in Cantica canticorum41 e i Moralites in Cantica canticorum42. I Commentaria, di impostazione tradizionale, analizzano e commentano ordinatamente i versetti del Cantico in chiave ampiamente mariologica. I capitoli dedicati da Filippo ai versetti di nostro riferimento (1, 5-6) sono quelli che vanno dal XVII al XX e già si può cogliere subito un interessante elemento di novità rispetto agli autori fin qui trattati. La negritudine di Maria è riferita anche da Filippo alla sua condizione di sofferenza, non solo, però, a causa della passione e della morte del suo figlio ma anche e

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principalmente per tutti i soprusi che la Chiesa ha dovuto sopportare nel corso dei secoli e per come i contemporanei a lui si prendono gioco della croce, sottolineando quello stato di insofferenza vissuto in quel momento dagli uomini di Chiesa nei confronti della società laica loro contemporanea: Nigra est igitur virgo, cum sentit molestiis temporalibus se affligi, cum eum quem genuit videt ab irrisoribus crucifigi; et quem novit spiritibus angelicis auctorem et Dominum interesse, in sinu Dei Patris aequali gloria Deum esse, in se et ex se carnem factum, potestati videt persequentium jam subesse, impugnatores multos, defensorem ejus neminem praesto esse. Nigra est Mater, cum suam carnem quam non vitio diligit, sed natura, in filio dure premi morte conspicit immatura, cum quidquid ille mali patitur jussu Patris, naturalis fundae circuitu redundat miserabiliter in cor Matris. Nigra est sponsa, cum audit sponsum etiam postquam resurrexit a mortuis a contribulibus blasphemari, cum praedicatores ejus videt apostolos flagellare, cum quidquid de illo vel ipsa novit, vel eloquia sancta dicunt, signum esse considerat, cui rebelles et increduli contradicunt. In quibus cunctis quis penset quo moerore, quo tristitia ejus animus contabescat, quibus rugis contrahatur, quo pallore facies emarcescat: cum eam quae interius mentem gravat et afficit moestitudo, plerumque vultus praeferat, et ostendat carnis extera turpitudo? Quod asserens Salomon ait: «Spiritus tristes exsiccat ossa (Prov. XVII).» Tristitia igitur ossibus exsiccatis denigrat Virginem et deturpat, et gaudio longe facto, primum sibi locum praeripit et usurpat, nec patitur praesens forma gaudeat pulchriore, quam corpus quod corrumpitur fuco tenebrat nigriore.43

Più avanti Filippo mette sulla bocca di Maria queste parole: «Sponsum autem meus, qui et ipse in praesenti sustinuit niger esse, tam mihi quam suis omnibus, eadem nigredinem vult inesse; qui, cum tempus cungruum venerit, auferet hunc colorem, moerorem in gaudium, fucum tranferet in candorem.»44 Finchè, dunque, non ci sarà la seconda venuta di Cristo, sia la Vergine che tutta la schiera dei credenti sono destinati a rimanere nella negritudine, ma in quel giorno, e solo allora, il loro essere nero sarà convertito in candore. Possiamo dunque dedurre che rappresentare la Vergine, i santi e lo stesso Cristo con incarnati scuri doveva essere pienamente legittimo. Fra le righe dei Commentaria ritorna anche il paragone tra il grembo di Maria e il trono di Salomone: «Ecce, inquit, ancilla Domini, fiat mihi secundum verbum tuum (Luc. I). Videtis quia, audito nuntio, secundum verbum ejus, ancilla Domino se addicit, et in nullo plasma plasmatori, testa figulo contradicit, sed Salomonis thronus imperio sudjicitur praesidentis, imo coelum coeli sedes juxta libitum tenditur insidentis.»45 Più innovativo e determinante è il contributo che ci fornisce l’altro scritto di Filippo di Harveng. I Moralites, scritti con intenti educativi ed ascetici, prendono spunto da alcune immagini estrapolate principalmente dal Cantico, allargandosi poi a tutto l’Antico Testamento, e li mettono in relazione ora con Cristo, ora con Maria, ora con la Chiesa o con la natura umana, di cui però la Vergine rappresenta sempre l’espressione più alta. Parlando del trono di Salomone, che in prima istanza viene paragonato a Cristo, l’autore cita una visione del profeta Ezechiele dandone questa interpretazione: Ista igitur aquila venit ad cedrum quae erat in Libano, et medulla ejus sibi assumpsit; quando Verbum de corde Patris eructatum venit ad beatam Mariam, et de virginea ejus carne sacrosantum et intemeratum sibi corpus accepit. Et sicut de illa aquila dicit propheta, quod medullam illam quam de cedro tulerat, in monte sancto et excelso collocavit, sic nimirum Dei Filius, videlicet Verbum Patris, carnem nostram quam de beata Virgine Maria assumpsit, in sede majestatis suae secum ad dexteram sui Patris sublimavit. Quod autem beata Maria cedrus Libani appelletur, ex ecclesiastico usu potius quam ex aquila difficili interpretatione patenter dignoscitur. Sic enim sancta Ecclesia dicit in ejus candidatio interpretatur, non immerito verginitati beatae Mariae comparatur. Sicut enim materialis cedrus in Libano fuit exaltata, sic beata Maria ob singulare privilegium suae virginitatis apud Deum est glorificata et praeelecta.46

Se Cristo è il trono di Salomone, Maria è la stanza che lo racchiude all’interno del tempio, interamente rivestita da tavole di cedro del Libano (1 Re 6, 15) e come le radici del cedro vengono portate su un monte altissimo dall’aquila così Cristo ha innalzato la Vergine Maria alla gloria del Padre. Tenendo presenti i siffatti parallelismi, l’uso di questa essenza arborea per la realizzazione di molte statue mariane medievali gravitanti attorno al bacino mediterraneo, allora, non è da considerare soltanto come scelta pragmatica ma, piuttosto, come un’applicazione teologica consapevole e pregnante.

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Successivamente lo stesso trono di Salomone viene riferito direttamente alla Vergine Maria. L’abate premostratense si rivolge in prima persona alla Vergine e le dice: Tu es ergo thronus ille non quem fecit Salomon rex mortalis, filius scilicet David regis, sed potius ille quem elegit ab aeterno, et praeelegit sibi ad habitandum Deus, Dei Filius videlicet rex immortalis. Tu es ille thronus de quo Psalmista dicit: Thronus tuus, Deus, in saeculum saeculi, virga directionis, virga regni tui (Psal. XLIV). Tu es, inquam, mea Domina, omnibus charissimis charior, thronus de auro coelesti, et ebore spirituali constitutus.47

Più avanti un riferimento alla Sapienza si ricollega direttamente con i rilievi di Beaucaire e di Berlino: «Tu es, inquam, Domina domus quam Sapientia, id est Filius sibi aedificavit (Prov. IX), et in qua septem columnas spirituales ad decorem et gloriam aeterna stabilitate collocavit, scilicet virginitatem, castitatem, continentiam, humilitatem, fidem, spem, charitatem.»48 A conclusione di questa parte dei Moralites il grembo della Vergine è definito come il posto più adatto per accogliere sulla terra il Figlio di Dio: «Non est, inquam, ab initio mundi factum tale opus ut Virgo Mater lactaret Filium Dei virgineis uberibus. Igitur quoniam huic secundo throno, id est volumini ubera Sponsi dederunt exordium, dignum est ut eidem throno ubera Sponsae Virginis et Matris finem tribuant idoneum.»49 Il sesto tomo dei Moralites è dedicato interamente ai versetti 5 e 6 del primo capitolo del Cantico dei Cantici. Secondo Filippo, la sentenza “Nigra sum sed formosa” si può applicare a Cristo, alla nostra natura umana e alla Beata Maria. Maria, appartenente pur sempre alla natura umana, non è paragonata soltanto alla pelle di Salomone ma ella è anche la tenda di Salomone nel suo complesso: «Sicut pellis Salomonis, Ecclesia catholica pro certo tenit et credit, quia beata Maria, quae semper virgo inviolata permansit, de nostra corrupta natura et peccatrice massa originem traxit. Quae beata Virgo non solum pellis, sed etiam tabernaculum Salomonis, id est veri pacifici Christi facta est, quando idem Christus pro salute generis humani de ea nasci dignatus est.»50 Interessante è anche l’allegoria con la quale viene sciolta l’immagine dell’arca dell’alleanza, nella quale Maria è simboleggiata dal bastone-scettro di legno, “virga”, di Aronne: Praeterea bonum est animae nostrae, ut ipsa sit spiritualiter arca Testamenti, quae erat in tabernaculo Dei. Arca enim de lignis imputribilibus in quadrum erat constituta, optimo et pretioso auro deaurata, super duos vectes in quibus portabatur, stabilita (Exod. XXV). Si ergo anima nostra exempla sanctorum (qui sunt ligna imputribilia) imitata fuerit, et quatuor Evangelia (quae per quadraturam arcae significantur) memoriter retinuerit, et sapientiae spirituali quae per aurum designatur, operam dederit, et Vetus et Novum Testamentum, quae per duos vectes figuraliter, spiritualiter intellexerit; tunc anima nostra arca spiritualis in tabernaculo Dei erit. In tabernaculo denique urna continens coeleste manna fuit, et duae tabulae testamenti, et virga Aaron quae fronduit.» Ista ergo nos oportet omnia spiritualiter possidere, ut videlicet habeamus urnam continentem manna coeleste, id est ut credamus, Christum et verum Deum, et verum hominem esse. Per urnam enim humanitas, per manna vero coeleste ejus divinitas intelligitur. Sed et nihilominus duae tabulae Testamenti necessariae nobis sunt, ut postquam de Christo quod verus sit Deus et verus homo, perfecte crediderimus, de Patre et Spiritu sancto, qui per duas tabulas designantur, sanum sensum et catholicum teneamus, credendo quia Pater et Filius et Spiritus sanctus unus sit Deus. Cum ergo sanctam Trinitatem, id est Patrem et Filium et Spiritum sanctum, unum Deum confessi fuerimus, necessarium puto ut de humanitate Christi, quam in beata Maria sumpsit, quae per virgam Aaron demonstratur, catholice sentiamus. Ut videlicet indubitanter credamus, quia sicut eadem virga sine cultura humani auxilii floruit et fructum fecit, sic beata Virgo Maria absque contactu hominis Filium Dei de Spiritu sancto concepit et peperit. Si ergo anima nostra tabernaculum Dei spirituale fuerit, si intra se arcam, urnam, tabulas, virgam Aaron spiritualiter continuerit; tunc veraciter dicere poterit: Formosa sum sicut pellis Salomonis.51

Infine le allusioni diventano ancora più esplicite in riferimento alla negritudine della Vergine: Dicat ergo et ipsa beata Maria: Nigra sum, sed formosa, filiae Hierusalem, id est: ego filia coelestis Hierusalem quae sursum est mater nostra (Gal. IV); nigra sum in praesenti saeculo, hoc est contemptibilis et despecta et moerore confecta, dum video filium meum invidea Judeorum crucifixum, sanguine suo perfusum; nigra, inquam, prae tristitia praesenti sum, quia dolor anxietatis filii mei pertingit usque ad dolorem cordis mei.52

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Ancora una volta Maria dice inequivocabilmente di essere triste, e dunque “nigra”, nel tempo presente a causa delle sofferenze patite dalla Chiesa. Nel XII secolo doveva essere dunque possibile, anzi normale, vedere l’immagine della Madonna con incarnati neri perché essa ricordava al fedele la corruzione del tempo presente ma sapendo per certo che la lode riservata alla Vergine gli sarebbe stata ricompensata nel giorno del giudizio: Nos igitur Judeorum perfidia et impietate depulsa a cordibus nostris, honoremus et magnificemus debita cum laude Matrem nostri Redemptoris. Hoc scientes pro certo, quia honor et laus, et gloria, et magnificentia, quam exibemus ejus genitrici in terris, ipsum nobis benevolum faciet et in coelis, et venientem ad judicium placabilem sua majestate cum angelis et archangelis.53

Sulla base dei commentari fin qui presi in esame è possibile fare delle ulteriori considerazioni. I teologi che hanno trattato del Cantico dandogli accezioni mariologiche più o meno esplicite, appartengono tutti ai grandi Ordini religiosi medievali - cistercensi, benedettini, premostratensi -, quelli cioè che godevano di una più ampia possibilità di divulgazione di idee attraverso la fitta rete delle loro abazie e la loro influenza culturale; l’area geografica in cui ricadono le abazie di appartenenza degli autori citati è quella franco-belga che a grandi linee coincide con l’area di diffusione delle nostre “Vergini Nere”. L’iconografia della “Vergine Nera”, contrariamente a quanto detto da molti studiosi, è dunque pienamente giustificata sia dalle scritture che dalla teologia medievale e questo, ritornando all’enunciato di Émile Mâle citato introducendo queste argomentazioni, è la base imprescindibile per la realizzazione di un’opera d’arte nel Medioevo. Concludiamo questo breve excursus riportando un passo di una lettera scritta dal benedettino Pietro di Celle, abate di Saint-Remi dal 1162 e Vescovo di Chartres dal 1181, che dopo aver fatto allusione alle “figlie di Gerusalemme”, le ragazze madri di allora, le quali venivano accolte con spirito di carità cristiana dai monaci di Clairvaux, giustifica il suo rapporto di amicizia con i cistercensi usando l’immagine della faccia nera della “Aetiopissa” e facendo subito dopo un riferimento alla Vergine, abbigliata con una veste dorata e sedente davanti al Trono di grazia trinitario: Forte dicitis: Quid ad te de Claravallensibus, cum Samaritani non coutantur Judaeis, et nigra Aetiopissae facies et vestis differat ab illa veste et facie, quae apparuit apostolis in transfiguratione Domini? Ad quod ego: Ex multarum facierum personis, regina quae assistit a dextris filii, in vestitu deaurato circumdata varietate, cantat in psalterio dachacordo ante sedentem in throno gratiae, unde procedunt diversa charismata gratiarum, cum sit tamen unus, atque spiritus idem Dominus.54

Note É. Mâle, L’Art religieux du XIIIe siècle en France, Paris 1958, pp. 30. Cfr. supra, pp. 30-32. 3 Per una visione generale sulla fortuna del Cantico dei cantici in epoca medievale cfr. G. Ravasi, Il Cantico cit., pp. 744-761. 4 Sull’amore cortese e l’arte giullaresca cfr. R. Tomasino, Storia del teatro e dello spettacolo, Palermo 2001, pp. 278295. 5 Ibidem, p. 284, dove si dà un’originale interpretazione del nome: «E senz’altro forma drammatica è il contrasto, a tema generalmente amoroso, tra i quali è assai noto per la sua vivacità realistica quello di CIULLO D’ALCAMO, un giullare dal nome probabilmente allusivo di certe sue licenziose imprese o di una sua grottesca maschera comica, dato che Ciullo è a quanto pare il membro maschile. Invano si è per secoli tentato di nobilitarlo in un improbabile Cielo, o Cielo Dal Camo, al fine di farne un poeta della gran corte siciliana incline a popolareggiare.» 6 Già riportate in I. H. Forsyth, The Throne of Wisdom cit., nota 65, pp. 26-27. Per quanto riguarda l’esemplare di Berlino, oggi esposto agli Staatliche Museen, si tratta del famoso rilievo firmato dal “presbitero Martino” nel 1199 (cfr. G. De Francovich, La scultura medievale in legno, Roma 1943, pp. 3-4.) 7 Eadem, p. 24. 8 Petrus Damianus, Sermones Ordine Mense Servato, J. P. Migne, PL 144, 736-740; riportato già in Eadem, nota 62, p. 25. 9 Guibertus De Novigento Abbas,Liber De Laude Sanctae Mariae, J. P. Migne, PL 156, 541-542; riportato già in Eadem, nota 61, p. 25. 1 2

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Ibidem, 542. Ibidem, 543. 12 «Cantatur hic psalmus de festo beatae Mariae Virginis, quia quae de Ecclesia generaliter hic dicuntur, ad Mariam specialiter referri possunt», cfr. Walafridus Strabo Fuldensis, Liber Pslamorum, J. P. Migne, PL 113, 911; «In hoc itaque Assumptionis festo psalmi atque alia generatim diei consueverunt in Dedicatione ecclesiae, speciatim de B. Maria cantatur», cfr. Joannes Belethus, Rationale Divinorum Officiorum, J. P. Migne, PL 202, 150. 13 Adamus S. Victoris, Sequentiae, J. P. Migne, PL 196, 1467-1468. 14 Sul tema della Negritudo vedi inoltre la lettera V di Abelardo ad Eloisa: «Questo colorito nero, determinato dalle tribolazioni materiali, stacca facilmente le anime dei fedeli dall’amore dei beni di questo mondo, li solleva verso il desiderio di una vita eterna e li trascina lontano dal rumore del mondo, nei misteri della vita contemplativa», cfr. Abelardo ed Eloisa, Lettere d’amore, a cura di F. Roncoroni, Milano 1971, p. 205. 15 Bernardus Claraevallensis Abbas, Sermones in Cantica canticorum, J. P. Migne, PL 183, 899; traduzione italiana in F. Gastaldelli (a cura di), Opere di San Bernardo, vol. V, Roma 1984, p. 351, a cui da qui in avanti si farà riferimento. 16 Cfr. Ibidem. 17 Ibidem. 18 Ibidem, p. 353. 19 Ibidem, p. 355. 20 Ibidem. 21 Ibidem, p. 357. 22 Ibidem, pp. 357-359. 23 Ibidem, p. 387. 24 Ibidem, p. 385. 25 Per il testo del Sermo XVIII si rimanda all’appendice testuale, cfr. Infra, pp. 59-87. 26 F. Gastaldelli (a cura di), Opere cit., p. 407. 27 Ibidem, p. 419. 28 Ibidem, p. 423. 29 Cfr. Guillelmus Abbas , In Cantica Canticorum Priora Duo Capitis Brevis Commentatio, J. P. Migne, PL 184, 407. 30 Ibidem, 423. 31 Cfr. Gauffridus Claraevallensis Abbas, Declamationes De Colloquio Simonis Cum Jesu, J. P. Migne, PL 184, 468. 32 Cfr. G. Ravasi, Il Cantico cit., pp. 754-755. 33 Cfr. Thomas Cistercensis e Joannes Algrinus, In Cantica canticorum eruditissimi Commentarii, J. P. Migne, PL 206, 82-84. 34 Ibidem, 84. 35 Ibidem, 85. 36 Ibidem, 85-86. 37 Cfr. Supra, p. 37. 38 Cfr. G. Ravasi, Il Cantico cit, p. 748. 39 Alanus de Insulis, In Cantica canticorum ad laudem Deiparae Virginis Mariae compendiosa elucidatio, J. P. Migne, PL 210, 57. 40 Ibidem. 41 Philippus de Harveng, Commentaria in Cantica canticorum, J. P. Migne, PL 203, 181-490. 42 Idem, Moralites in Cantica canticorum, J. P. Migne, PL 203, 490-584. 43 Idem, Commentaria cit., 225. 44 Ibidem, 226. 45 Ibidem, 228. 46 Idem, Moralites cit., 512-513. 47 Ibidem, 520. 48 Ibidem. 49 Ibidem, 524. 50 Ibidem, 566. 51 Ibidem, 569-570. 52 Ibidem, 571-572. 53 Ibidem, 574. 54 Petrus Cellenus, Epistolae (Epistola LXXXVIII), J. P. Migne, PL 202, 535. 10 11

Parte seconda La “Vergine nera” di Tindari

La città del Tindaro, che fu fabricata da Messenij sopra un Colle, le cui falde sono battute dal Mar Tirreno, era anticamente famosa, e nobile assai, hora giace infino à fondamenti affatto distrutta. Rimane solamente vicino all’antico castello un Tempio, nel quale si adora in una statua di marmo la Regina degli Angioli con somma riverenza, e concorso anche di popoli di molti paesi. Ottavio Caietano, La Santissima Vergine riverita in Sicilia, 1664.

Capitolo i

LA LEGGENDA E LA STORIA: LE FONTI

«Un tempo (non è noto quando) varcava per il mar Tirreno un naviglio, nel quale fra l’altre mercantie, era la statua di che ragioniamo, e costeggiava, in cielo sereno, quei lidi dell’isola vicino al Tindaro, ed ecco, fuori da ogni aspettazione, s’arrestò; e quantunque gli soffiassero prosperissimi venti, non potè in verun modo andare più oltre...»1. Così il dotto gesuita Ottavio Caietano (1566-1620), nel suo fondamentale testo sul culto della Vergine in Sicilia, opera postuma edita in latino nel 1657 e poi in volgare nel 16642, per primo riferisce dell’arrivo del simulacro mariano sulle spiagge sottostanti al promontorio di Tindari. Si tratta chiaramente di una invenctio leggendaria, comune fra l’altro alla grande maggioranza delle immagini mariane venerate lungo i litorali marini almeno dell’Italia meridionale3. La tradizione successiva, che dal Caietano prende avvio, vuole che la statua della “Madonna nera” di Tindari sia di origine orientale e che il suo miracoloso approdo sulle coste siciliane sia legato alle lotte iconoclaste del VIII secolo. Ancora a metà Novecento Angelo Ficarra (1937-1957), vescovo di Patti, sotto la cui giurisdizione ricade il santuario di Tindari, affermava che: «possiamo solo pensare che la venerata icona sia stata portata dall’Oriente in epoca iconoclasta o, meglio, durante il periodo delle crociate, quando le galee delle nostre Repubbliche veleggiavano di continuo verso il mondo orientale e il rito greco fiorì a lungo nella nostra Sicilia.»4 Poichè ancora oggi, anche dopo il recente restauro, resistono questi o simili pensieri sull’origine del simulacro della Madonna di Tindari, conviene avviare la nostra analisi dell’opera proprio da un’attenta rilettura delle fonti e dei documenti che riguardano il sito di Tindari, il santuario mariano lì edificato e, infine, la statua della Vergine. Il racconto del Caietano prosegue con il dettagliato resoconto del trasporto del simulacro sulla cima del promontorio, lì dove erano le vestigia di un tempio «unico avanzo della città di Tindaro»5. Il Santuario sorge infatti sul sito che fu della colonia greca, e poi romana, di Tindaride (Tavv. III b; VIII a-b; IX a), della quale ancora oggi rimangono le imponenti vestigia del teatro (Tav. XVII a), della basilica (Tav. XVII b) e di parte dell’antico centro abitato6. Fondata all’incirca nel 396 a.C. in onore del re della Laconia, Tindaro, padre di Leda e avo dei Dioscuri Castore e Polluce, la città siciliana lega il suo nome alla mitologica nascita della poesia bucolica per opera di Oreste7. Plinio il vecchio, nella sua monumentale Naturalis Historia, ci dà notizia che in un tempo non precisato un violento maremoto avrebbe fatto sparire circa metà della città8. In epoca più recente, con l’avvento del cristianesimo, Tindari è annoverata tra le undici diocesi siciliane. Nel 501 d. C. un certo Severino, vescovo di Tindari, prende parte al Concilio Romano e precisamente alle sessioni IV e VI9. Nell’anno 593, il vescovo Eutichio riceve una missiva di papa Gregorio Magno nella quale il pontefice elogia il prelato tindaritano per il lavoro svolto nella conversione al cristianesimo di molti pagani indigeni10. Qualche anno dopo, nel 599, un’ulteriore lettera di Gregorio Magno è indirizzata a Benenato, anch’egli vescovo di Tindari, esortandolo a consacrare un oratorio fondato da una influente donna di nome Ianuaria in onore dei santi Severino e Giuliana11. L’abbandono della città da parte dei suoi abitanti sembra doversi collocare intorno all’anno 836, quando

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«i Musulmani espugnarono il castello di M.d.nâr»12, toponimo arabo che secondo Michele Amari è da riferire proprio a Tindari13. Dopo questa data le fonti tacciono per quasi tre secoli. Quando Ruggero II d’Altavilla, primo re di Sicilia, nel 1131 provvederà a ripristinare gli antichi vescovadi dell’isola, l’originaria sede tindarea verrà spostata nella vicina fortezza di Patti14, dove nel 1092 il Gran Conte Ruggero I aveva fondato l’importante abbazia di San Salvatore15 (Tav. IX b), che unificata a quella di San Bartolomeo di Lipari (1085) costituiva una sorta di doppia abbazia affidata, secondo la ricostruzione del Garufi, ai monaci benedettini della riforma cluniacense16. In questa fase storica il promontorio di Tindari lega indissolubilmente le sue sorti a quelle dell’abbazia pattense-liparota. Infatti, un privilegio del Conte Ruggero conservato nell’Archivio Capitolare di Patti, meglio noto con il nome di Arca Magna17, attesta che nel 1094 del territorio dove un tempo sorgeva la città di Tindari viene fatto dono ai monaci dell’abazia pattense18. La notizia più interessante è che in questo sito i benedettini fondarono un hospitium sotto il titolo dell’apostolo Bartolomeo, già attivo nel 1142. In quell’anno, infatti, Martino Curator cede all’abate-vescovo di Patti un pezzo di terreno che si trovava nei pressi dell’«hospitali ecclesiae beati bartholomei», a beneficio dello stesso ospedale; e ancora, nel maggio del 1194, fra Pietro ospitaliero dell’ospedale di San Bartolomeo compra una vigna confinante con la vigna dell’ospedale19. Occorre subito precisare che nel XII secolo il termine hospitalia, ovvero hospitium, indicava un luogo di accoglienza e di ristoro soprattutto per i numerosi pellegrini che si recavano verso le mete più sacre della cristianità; soltanto fra XIV e XV secolo con questo termine si passò ad identificare i luoghi di ricovero e di degenza per gli ammalati20. A questo punto diventa davvero illuminante, per la disamina del territorio attorno a Tindari nel Medioevo, il contributo di Giuseppe Arlotta che apre nuovi scenari sulle vie di pellegrinaggio in Sicilia21. L’Arlotta ricostruisce infatti tutto il sistema di vie, di hospitalia e dei toponimi che a partire dal XII secolo accompagnavano il pellegrino siciliano verso il porto di Messina (Tav. III a); da qui si proseguiva via mare alla volta di Roma, di Gerusalemme e di Santiago de Compostela, cioè verso le più importanti mete del pellegrinaggio medievale22. Per i pellegrini che da Palermo si spostavano alla volta di Messina attraverso la Regia Trazzera delle Marine, l’hospitali di Tindari doveva costituire una tappa fondamentale nell’itinerarium peregrinorum, che si snodava lungo una serie di percorsi obbligati che anche in Sicilia prendevano il nome di “Vie Francigene”23. Qui infatti, probabilmente i monaci cluniacensi di Patti24, avevano escogitato tutto un sistema di toponomastica e di strutture che da un lato dovevano dar coraggio a coloro che si accingevano a percorrere un cammino lungo ed estenuante mentre dall’altro dovevano far pregustare al pellegrino la gioia della meta finale. Così come avveniva in Francia lungo le più famose vie di pellegrinaggio, anche in questo lembo di costa siciliana (Tav. X a) viene data allora una toponomastica presa a prestito dalle coraggiose imprese decantate nella Chanson de geste25. Il pellegrino che aveva appena intrapreso il cammino trovava allora nuova determinazione nel portare a termine il suo voto passando per luoghi che evocavano mitici eroi ed epiche imprese, quali il capo intitolato ad Orlando, per giungere poi a quello intitolato ad Oliviero, oggi Capo Tindari, su cui sorgeva l’hospitium. Fra l’uno e l’altro, il monte di Gioiosa, dal nome della mitica spada di Carlo Magno, e il Monte Giove, in francese Monjoi ovvero Monte della gioia, «cioè l’altura da dove il pellegrino poteva scorgere per la prima volta la sacra meta, come si può notare, in particolare, per Gerusalemme, Roma e Santiago.»26 Proprio da qui, infatti, per la prima volta il pellegrino siciliano scorgeva Tindari, che dunque doveva essere qualcosa di più di un semplice punto di ospitalità. Anche la bruna statua della Vergine doveva far parte di questo complesso sistema pensato per incentivare il pellegrinaggio, soprattutto verso la meta spagnola di Santiago27. Essa anzi doveva rappresentare l’apice di questo percorso catartico, prefigurando al pellegrino siciliano, che si accingeva a prendere la via del Marenostrum, ciò che poi avrebbe trovato allo sbarco in terra spagnola. Infatti le navi dei pellegrini diretti a Santiago che solcavano il Mediterraneo, venivano convogliate tutte verso il porto di Barcellona (Tav. II b) e una delle prime tappe alla ripresa del cammino era il monastero, anch’esso benedettino cluniacense, di Montserrat, proprio nei pressi della capitale catalana, dove il pellegrino si trovava davanti alla famosa immagine lignea della Madonna “Moreneta”28. Sorprendente è anche la coincidenza della distanza (circa 60 km) che separa Tindari da Messina e quindi Barcellona da Montserrat. L’esistenza di queste rispondenze fra le due sponde del Mediterraneo mi ha spinto a ritenere plausibile un collegamento anche iconografico che leghi la statua siciliana e la Vergine bruna venerata sulle montagne catalane, ma di questo specifico argomento tratteremo più avanti.

La leggenda e la storia: le fonti

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Tuttavia nelle fonti del XII secolo non si trova alcun cenno né al simulacro della Madonna né al santuario mariano, eppure la sua fondazione deve essere contestuale a quella dell’hospitium. Anzi, supponendo che le attuali strutture alle spalle del nuovo santuario, risalenti nella pianta alla seconda metà del Cinquecento, come ci testimonia il disegno di Tiburzio Spannocchi (Tav. XI) datato al 157829 e il successivo acquerello di Camillo Camilliani (Tav. XII) del 158430, prime fonti iconografiche conosciute sul sito, ricalcano l’impianto medievale della fondazione benedettina, la piccola chiesa che custodiva l’immagine della Vergine doveva rappresentare il cuore dell’intera costruzione, venendosi a trovare sul lato principale della corte interna della fabbrica, nel luogo cioè dove sostavano i pellegrini in attesa di riprendere il loro cammino. La prima attestazione scritta del culto mariano sul promontorio tindareo risale soltanto al 1282, quando Pietro d’Aragona, all’indomani della conquista dell’isola, ammirando la bellezza del luogo, cita la «sedes helene tindaree, ubi virginis hodie sacre domus excolitur»31. Il 31 ottobre del 1319, un documento dell’Arca Magna garantisce al vescovo di Patti il diritto di pescare tonni presso la marina di Santa Maria del Tindaro e, ancora più esplicitamente, un successivo atto del 10 maggio 1348 fa un riferimento al «territorio dicte ecclesie S.te Marie de Tindaro»32. Cogliendone la strategica posizione sul mare, l’hospitium benedettino viene riconvertito dagli Aragonesi, nel corso del XV secolo, in fortezza con punto di avvistamento per la difesa delle coste tirreniche33. Sotto la giurisdizione vescovile rimase probabilmente il solo santuario, e da qui i numerosi contrasti fra il vescovo di Patti e i castellani regi, che si erano insediati nell’antico ospedale insieme ad un manipolo di soldati. Notizie più certe abbiamo a partire dal XVI secolo, infatti, nel 1552 Giovanni de Arnedo, nel corso della sua visita regia in Sicilia, si trova a passare anche da Tindari e riferisce che il Santuario della Madonna era «crollante per vetustà, e quasi abbandonato»34. Da lì a poco il vescovo Bartolomé Sebastiàn de Aroitia (15491567), reduce dall’aver partecipato all’ultima sessione del Concilio di Trento (3-4 dicembre 1563), demolisce l’antica struttura medievale e ne riedifica il santuario con le forme che ancora oggi vediamo35. La gestione del sito fu oggetto di un vero e proprio patteggiamento fra il vescovo Giliberto Isfar y Corillas (1579-1600) e il visitatore regio Francesco del Pozzo, nel 1580. L’accordo stabiliva che il vescovo di Patti aveva facoltà di nominare due sacerdoti per garantire il culto nel santuario ma essi erano chiamati anche a svolgere il servizio di vedetta di giorno e di notte. Questo regime rimase in vigore, anche se a fasi alterne, fino al 1880, ben oltre, quindi, l’unità d’Italia36. Diversi sono i cronisti che fra Cinque e Seicento accennano al santuario di Tindari. Mario Arezzo, siracusano vissuto nel XVI secolo, parlando della città antica, scrive: «Oggi chiamano il luogo Tindaro: attualmente vi è il piccolo santuario della Santa Maria, e vi si celebra una fiera ogni anno, ricordo dell’antichità.»37 Sullo stesso tenore il Fazello nel 1558: «Nel più alto luogo della città, dove anticamente era la rocca, è solamente una chiesa chiamata Santa Maria da Tindaro a cui è restato il nome della città rovinata, è di gran divozione, ed ogni anno agli otto di Settembre vi si fa una bella fiera con gran concorso de’ popoli di Sicilia. E fuor che questa Chiesa non v’è altro di tutta la città, salvo che anticaglie, e campi da seminare.»38 E ancora, Filippo Cluverio nel 1619: «Dopo viene la città di Tindari, la stessa detta anche Tindarium, così come Cefaledi e Cefaledium. Dove è oggi il santuario di Santa Maria, costruito sulle rovine di Tindari, chiamato comunemente dai suoi abitanti “Santa Maria di Tindaro”».39 In nessuna delle fonti e dei documenti più antichi troviamo, però, una menzione diretta del simulacro mariano. Infatti, la prima volta in cui si accenna esplicitamente alla descrizione della statua della Madonna di Tindari è addirittura nel 1657, ad opera del già citato Ottavio Caietano, il quale ci riferisce che all’interno del santuario si trovava un «antiquissimum Virginis simulacrum»40 e che esso, dopo quello della Madonna di Trapani41, era il più venerato dell’intera Sicilia. Egli, però, afferma anche che la statua tindarea era in marmo e non in legno e, soprattutto, non accenna minimamente al colore degli incarnati42. Probabilmente l’esimio gesuita non visitò mai personalmente il santuario di Tindari ma, come egli stesso confessa in conclusione del paragrafo dedicato a “Nostra Signora del Tindaro”, si affidò per la redazione del suo testo alla relazione sul culto mariano in quei luoghi fattasi compilare «da testimonj giurati, e ricevuti con l’autorità del vescovo di Patti»43. L’errore potrebbe allora nascere dal fatto che fra XVI e XVII secolo esistevano nell’area nebrodepeloritana numerose statue della Vergine venerate sotto il titolo di Madonna di Tindari, ma che in realtà erano delle comuni statue in marmo della Madonna con in braccio il bambino44. Il testo del Caietano risulta però fondamentale per lo studio del simulacro tindareo soprattutto perchè è corredato da una incisione

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(Tav. XIX), risalente alla stesura definitiva del testo e quindi al 1664, che rappresenta l’unica fonte iconografica che ci mostra la statua, seppure in forma idealizzata frutto della reinterpretazione dell’opera da parte dell’incisore, nello stato precedente ai pesanti camuffamenti condotti fra Sette e Ottocento45. Particolarmente interessante risulta questa immagine anche perchè in essa ritroviamo tutti gli elementi riaffiorati dopo il risolutivo intervento di recupero: l’alto copricapo cilindrico impostato sul velo, sul quale sembrano però già affissi elementi decorativi non pertinenti; la combinazione delle vesti, soprattutto il manto che scende in lembi paralleli ai due lati della statua e le pieghe a trapezio rovesciato della tunica; le colonnine del sedile, sormontate da un pomo. Anche gli atti delle visite pastorali dei vescovi pattensi al santuario tindareo accennano solamente all’esistenza della statua, senza soffermarsi troppo nella descrizione di essa. Nel 1737 il vescovo Giacomo Bonanno (1735-1753) rileva a Tindari la presenza dell’immagine mariana, “acheropita” secondo le credenze popolari, affermando che all’interno del piccolo santuario «extat simulacrum Deiparae Matris, quod coelitus demissum pia fidelium credulitas tenet, et docet vetustissima et immemorabilis traditio»46. E ancora nel 1774, il vescovo Salvatore Pisano (1772-1781) cita il «simulacrum Beatae Mariae Virginis sub titulo Tyndaride, vetuste insigne»47. Il primo accenno al colore degli incarnati della Vergine di Tindari risale, invece, al 1751, quando l’abate Spitaleri si riferisce alla nostra scultura con queste parole: «Immagine miracolosissima di Maria Santissima con stupendo portento venuta dall’Africa», giungendo a questa conclusione a causa dell’aspetto fisiognomico della Vergine «che in effetto è negrissima»48. Dalle parole dello Spitaleri si può intuire che a questa data l’aspetto della scultura doveva essere già quello travisato e tramandato dall’iconografia degli ultimi due secoli (Tav. XX), prima del decisivo intervento di restauro del 1997; mentre sicuramente con questo aspetto era nel 1882, stando al giudizio severo che, con spirito di purismo classicista ottocentesco, Nicola Giardina dà della statua e della cappella marmorea in cui essa era esposta all’interno del santuario (Tav. XVIII b): Quest’ultima è incrostata di marmi a vario colore di stile indefinibile, grottesco, barocco, dell’epoca della vera corruzione. L’altare porta la data del 1721. l’incrostamento di marmo delle pareti sembra che sia di un’epoca posteriore all’altare. In una conetta, posta sull’altare, anche esso di marmo e di pessimo stile, tra due colonne spirali e sproporzionate è posta l’immagine di Maria Santissima, seduta, tenente sulle ginocchia il suo Bambino Gesù. La statua da per sè non è per nulla attraente, molto più che il colore della pelle della Madonna e del Bambino è nero, lucido, moresco. È stato un gusto, una bizzarria dell’autore che nulla esprime di vero. Certamente colui che l’ha scolpita non si piccava punto di verismo. ...La statua è collocata nella cona, tanto piccola che appena può contenere l’immagine coronata d’argento, con manto a lama d’oro, fregiata di monili ed altri oggetti preziosi...49

Come già ricordato, la Madonna nera di Tindari rimarrà con questo aspetto fino al risolutivo restauro del 1997; prima di affrontare la disamina stilistica dell’opera occorre, dunque, dare un resoconto del difficile intervento di recupero, che ci ha permesso di riscoprire l’immagine medievale quasi nella sua integrità.

Note 1 O. Caietano, Ragguagli delli Ritratti della Santissima Vergine Nostra Signora più celebri che si riveriscono in varie chiese dell’Isola di Sicilia. Aggiuntavi una breve relazione dell’origine e miracoli di quelli, Palermo 1663 [rist. anast. Palermo 1991], pp. 31-32. 2 La prima stesura dell’opera risale però al 1617 (Octavii Caietani Syracusani e Societate Iesu, Idea operis de vitis siculorum sanctorum famaue sanctitatis illustrium Deo volente bonis iuuantibus in lucem prodituri, Panhormi apud Erasmum Simeonem & socios, 1617). 3 Al riguardo cfr. L. Moss e S. Cappanari, In Quest of the Black Virgin cit. 4 Citazione riportata in G. Bonanno (a cura di), Nigra sum sed formosa. Madonna di Tindari: iter di un restauro, Tindari 1996, p. 22. 5 Cfr. nota n. 1. È opinione diffusa nella storiografia locale antica e recente che il santuario mariano di Tindari sia sorto sulle rovine di un tempio pagano dedicato alla dea Cibele e molti cronisti affermano di avere visto alcuni reperti provenienti da questo tempio precristiano proprio nei pressi del santuario, ma attualmente queste affermazioni non sono verificabili (cfr. N. Giardina, L’antica Tindari. Cenni storici, Siena 1882, pp. 181-184). 6 Per una disamina sintetica sull’antica città di Tindari e sugli scavi archeologici cfr. G. Tigano, Tindari, incanto degli occhi e della memoria, in Patti, supplemento a “Kalòs. Arte in Sicilia”, VII, 1 (1995), pp. 15-19.

La leggenda e la storia: le fonti

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7 Cfr. G. C. Sciacca, Fonti per una storia di Tindari e Patti, Roma 2004, pp. 23-26. Gli archeologi identificano i monumentali resti della basilica con il Gimnasium più volte citato da Cicerone nelle Verrine per aver custodito la famosa statua di Mercurio, trafugata da Verre. Tindari fu la prima delle città siciliane a denunciare i soprusi del governatore romano e furono proprio i suoi abitanti a chiamare in loro difesa, come avvocato, Cicerone nel processo davanti al Senato dell’Urbe (cfr. Ibidem, pp. 40-56). 8 Cfr. Plinio il Vecchio, Naturalis historia, II, 93. È questa l’unica fonte che accenna al disastro naturale, non dandone fra l’altro nessun riferimento cronologico; nel XIX secolo, però, l’ufficiale inglese W. H. Smyth, che analizzò a fondo i litorali siciliani (1815-1816), sembra confermare quanto detto da Plinio, infatti scrive che a Tindari ha «trovato sia la sabbia della spiaggia, che quella che ho dragato a quattro braccia di profondità, frammista a numerosi pezzi di mattoni e cemento triturato in piccoli ciotoli.» (cfr. G. C. Sciacca, Fonti per una storia cit., p. 71). 9 Cfr. R. Pirro, Sicilia Sacra, Palermo 1733, p. 493. 10 Cfr. Gregorio Magno, Epistola LXII. Ad Eutychium Episcopum, in Registri Epistolarum, J. P. Migne, PL 77, 659. 11 Idem, Epistola LXXXIV. Ad Benenatum Tundaritanum Episcopo, J. P. Migne, PL 77, 1015. 12 M. Amari, Biblioteca Arabo-Sicula, Torino 1880-81, II, p. 9; ora in G. C. Sciacca, Fonti per una storia cit., p. 69. 13 Ibidem, p. 69. 14 Cfr. V. B. Amico, Dizionario topografico della Sicilia tradotto dal latino ed annotato da Gioacchino di Marzo, Palermo 1855, II, p. 333. 15 Cfr. G. C. Sciacca, Fonti per una storia cit., pp. 91-98. 16 Cfr. C.A. Garufi, Memoratoria, Chartae et Instrumenta divisa in Sicilia nei secoli XI a XV, in “Bollettino dell’Istituto Storico Italiano”, XXXII (1912), p. 80; sulla doppia abbazia di Lipari e Patti cfr. inoltre L.T. White Jr., Latin Monasticism in Norman Sicily, Cambridge Mass. 1938; ed. italiana, Il monachesimo latino nella Sicilia normanna, Catania1984, pp. 77101. 17 Si tratta di uno dei più importanti archivi siciliani, comprendente 530 pergamene dal periodo normanno al XVII secolo (cfr. A. Sidoti, I documenti dell’Arca Magna del Capitolo Cattedrale di Patti, Patti 1987). 18 Cfr. V. Ruffo, Lotte della Città di Patti per la sua libertà e la sua giurisdizione nel secolo XVII, Patti 1991, p. 146. 19 Ibidem, p. 146. 20 Cfr. L. Franchini, ad vocem Ospedale, in R. Cassanelli e E. Guerriero (a crura di), Iconografia e arte cit., pp. 985993. 21 G. Arlotta, Vie Francigene, hospitalia e toponimi carolingi nella Sicilia medievale, in M. Oldoni (a cura di), Tra Roma e Gerusalemme nel Medioevo. Paesaggi umani ed ambientali del pellegrinaggio meridionale, Atti del Congresso Internazionale di Studi (26-29 ottobre 2000), Salerno 2005, pp. 815-886. 22 Ibidem, p. 819. 23 Ibidem, pp. 815-818. 24 L’abbazia di Cluny «nel Medioevo, come sappiamo, fu il maggiore centro di diffusione della pratica del pellegrinaggio.» (Ibidem, pp. 832-833, con ampi riferimenti bibliografici allegati). 25 Ibidem, pp. 823-830. 26 Ibidem, p. 833. 27 La presenza di pellegrini siciliani a Santiago nel XII secolo è attestata nel Liber Sancti Jacobi (cfr. Ibidem, p. 821). 28 Si tratta del cosiddetto “Camino Catalan”, una via di pellegrinaggio minore per raggiungere Compostela, creata appositamente per chi giungeva dall’Italia, dalla Provenza e dell’Europa dell’Est (cfr. J. F. Boada , El Camino de Santiago: da Monserrat a Santiago, Barcelona s.d.). 29 Ingegnere di origine senese, lo Spannocchi venne incaricato nel 1575, dal Vicerè Marcantonio Colonna, di progettare un sistema di difesa organico delle coste siciliane. Il suo carteggio, ricco di numerosi disegni esplicativi, è conservato presso la Biblioteca National de Madrid con il titolo di Descripciòn de las marinas de todo el Reino de Sicilia (cfr. C. Polto (a cura di), La Sicilia di Tiburzio Spannocchi : una cartografia per la conoscenza e il dominio del territorio nel secolo XVI, Firenze 2001). 30 Nel 1583 il Camilliani riceve dal governo viceregio spagnolo l’incarico di una nuova ricognizione completa delle torri costiere di difesa dell’isola. Nello stesso anno iniziava il viaggio lungo la costa, partendo da Palermo verso ponente, ritornando nella capitale alla fine del 1584. Del lungo viaggio di perlustrazione delle coste della Sicilia l’ingegnere fiorentino redasse un’ampia e dettagliata relazione (C. Camilliani, Descrizione dell’isola di Sicilia, in G. Di Marzo, Biblioteca storica e letteraria di Sicilia, VII [1877], 2, pp. 286 ss). 31 Cfr. G. Arlotta, Vie Francigene cit, p. 834. 32 I due documenti sono custoditi nell’Arca Magna di Patti, ora riportati in stralcio da V. Ruffo, Lotte della Città di Patti cit., p. 146. 33 Secondo Vito Amico il territorio di Tindari sotto Federico III apparteneva a Vinciguerra d’Aragona e, successivamente, al figlio Bartolomeo, mentre sotto Martino I il sito era retto da Federico, fratello di Bartolomeo (cfr. V. B. Amico, Dizionario topografico della Sicilia cit., II, p. 599); secondo Nicola Giardina, invece, verso il 1380, il promontorio di Tindari apparteneva a Bartolomeo il Giovane, figlio di Federico III d’Aragona e fratello del re Martino I (cfr. N. Giardina, L’antica Tindari cit., p. 187). 34 Ibidem, p. 185. 35 Ibidem, p. 185. È opinione diffusa tra gli storici locali che il santuario fosse stato saccheggiato e distrutto dal pirata algerino Rais Dragut, detto Barbarossa, nel 1544, ma nessuna delle fonti, che pur trattano dettagliatamente dell’assalto alle abbazie di Lipari e Patti, cita mai Tindari (sulle fonti che trattano dell’episodio cfr. G. C. Sciacca, Fonti per una storia cit., pp. 111-146). 36 Ibidem, pp. 185-187. La notizia è confermata dallo Spannocchi (vedi nota n. 28) che così riferisce sulla gestione della struttura: «Di più lontano un miglio incirca dallo ciafaglione vi sta la chiesa delo Tindaro nella quale vi stanno due

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guardianj tutto l’anno notte et giorno uno pagato dal vescovo di Pattj et l’altro da lo casale de li vrizzi che è pure del vescovato...» (F. Russo, La difesa costiera del Regno di Sicilia dal XVI al XIX secolo, Roma 1994, I, p. 296). Nel 1610 la direzione del santuario viene affidata ai Padri Oratoriani di San Filippo Neri, che vi fondano un loro oratorio; nel 1682 succedono a questi i frati francescani, ma già nel 1687 si ritorna al vecchio regime dei patti stipulati nel 1580 (cfr. N. Giardina, L’antica Tindari cit., pp. 186-187). 37 R. Pirro, Sicilia Sacra cit., p. 796; ora in G. C. Sciacca, Fonti per una storia cit., p. 70. 38 T. Fazello, Della Storia di Sicilia, Palermo 1558 (trad. Italiana R. Fiorentino, Palermo 1817), p. 539; ora in G. C. Sciacca, Fonti per una storia cit., pp. 74-84. 39 F. Cluverio, Sicilia antiqua, Leida 1619, p. 298; ora in G. C. Sciacca, Fonti per una storia cit., pp. 71-73. 40 Cfr. O. Caietano, Ragguagli delli Ritratti cit., p. 31. 41 Si tratta della superba statua marmorea datata al terzo quarto del XIV e attribuita ormai concordemente a Nino Pisano. 42 Sulla scia del Caietano molti altri storici cadono nell’errore, ad esempio Vito Amico (V. B. Amico, Dizionario topografico della Sicilia cit., II, p. 599). 43 O. Caietano, Ragguagli delli Ritratti cit., p. 32. Vicenda simile avviene per la Città di Polizzi Generosa, che diventa un caso emblematico perchè fortunatamente conserva ancora la “Relatione che si fa dal Dottor d. Fran(cesc)o Mistretta al M.R.P. jl Padre Ottauio Gaetano siracusano della Compagnia del Giesus” (cfr. V. Abbate, Inventario Polizzano. Arte e società in un centro demaniale del Cinquecento, Palermo 1992, pp. 61-67). 44 Recentemente e stato rinvenuto, presso l’Archivio Storico della Curia di Patti, un documento del 26 aprile 1658 secondo il quale nel piccolo centro di Castanea, oggi Castell’Umberto, una statua della Madonna di Tindari in marmo doveva essere sostituita da un quadro raffigurante l’Immacolata perche essa risultava troppo pesante da portare in processione (cfr. Patti (Me): ritrovato un carteggio inedito, in “Eco di Sicilia” del 24 aprile 2008). 45 Sui manoscritti del Caietano e la complessa vicenda delle incisioni cfr. M. Stelladoro,  Le “Vitae Sanctorum Siculorum” di Ottavio Gaetani: i manoscritti conservati a Palermo e a Roma, Roma 2006. 46 Cfr. G. Bonanno (a cura di), Nigra sum sed formosa cit., p. 20. 47 Ibidem, p. 20. 48 Ibidem, p. 22. 49 N. Giardina, L’antica Tindari cit., pp. 189-190. Sul dossale dell’altare marmoreo (fig. 46) è inserito uno stemma che dovrebbe essere quello del vescovo Salvatore Pisano (1772-1781).

Capitolo ii

UN RITROVAMENTO INASPETTATO: I RESTAURI

Da poco più di un decennio, l’immagine della Madonna di Tindari che si presenta agli occhi dei numerosi pellegrini che ogni giorno affollano l’aula del moderno santuario mariano, non è più quella che ci ha tramandato l’iconografia popolare dell’ultimo secolo (Tav. XXI). Sul piazzale antistante l’edificio sacro (Tav. IX a) che oggi custodisce il simulacro non è raro, infatti, incontrare fedeli che rimangono delusi dall’incontro con l’immagine della Madre di Dio, poichè in essa non riconoscono più la sacra effigie di cui conservano gelosamente una riproduzione a protezione delle loro case. È questo uno degli aspetti antropologicamente più affascinanti, ma nello stesso tempo più controverso per un serio recupero filologico, che presentano le sculture realizzate in legno. La relativa facilità di intervento sulle opere lignee, sulle superfici pittoriche e perfino sulle strutture formali, ha fatto sì che nel corso dei secoli la gran parte di questi prodotti artistici sia stato manomesso con interventi, a volte pesanti, di adeguamento alle nuove culture e ai nuovi gusti che nel tempo si sono avvicendati; l’immediata comprensione dell’immagine da parte dei ceti popolari, soprattutto nel sud Italia, creano poi un attaccamento quasi morboso al simulacro, nel quale essi vedono rappresentata l’identità unificante della loro comunità; e se questo gode di una grande venerazione da parte degli abitanti di un territorio, particolarmente vasto nel caso della Madonna di Tindari, l’atteggiamento di difesa nei suoi confronti diventa un grosso ostacolo a qualsiasi tipo di intervento conservativo o anche solamente di pulitura. Quasi quindici anni è durato il dibattito fra storici, clero e fedeli su un possibile intervento sul veneratissimo simulacro tindareo1. Nel 1981 il vescovo pro tempore, mons. Carmelo Ferraro (1978-1988), si rivolge alla competente Soprintendenza ai Beni Culturali ed Ambientali di Messina per una prima indagine conoscitiva sul manufatto, in vista di un possibile intervento di restauro. La relazione redatta dai tecnici della Soprintendenza evidenzia la «sovrapposizione sui volti e sulle mani di un colore “nero olivastro” che nasconde un color bruno di antica data» e che il capo è «cinto da una corona orientale, risaltata sullo stesso legno tipo turbante, arabescata a leggerissimo rilievo con disegni dorati...». Alla richiesta, però, di ulteriori indagini più approfondite, alcune delle quali necessariamente invasive, non si trova il coraggio per andare avanti e l’iter di recupero si interrompe, così, bruscamente. Agli inizi degli anni Novanta si capisce, però, che non è più rinviabile un intervento globale sull’opera, provata fra l’altro dal peso del ridondante manto, decorato con spessi girali metallici ricamati, apposto sulle spalle della Vergine, e delle due corone auree che gravavano da decenni sui capi della Madonna e del Bambino. Nell’aprile del 1995 si dà inizio ad una nuova fase di indagini, stavolta più approfondite, che riguardano sia la superficie dell’opera, sia la verifica delle sue strutture. Lo studio preliminare della scultura viene affidato ad una equipe di esperti, nominata dalla Soprintendenza di Messina con l’avallo della Diocesi di Patti, composta da uno storico dell’arte, due teologi e tre restauratori. Tolti gli orpelli che rivestivano perennemente il simulacro, esso si presentava come una massa indistinta di forme da cui emergevano le anatomie di teste e mani, che da sole lasciavano presagire l’antichità del manufatto (Tavv. XXI; XXII; XXIII; XXIV; XXV; XXVI; XXVII). Le cromie erano date a spesse e grossolane campiture uniformi di rosso e di blu, puntinate da approssimative stelle dorate, che insieme al nero intenso di volti e mani rendevano greve l’aspetto della statua.

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Il primo risultato sorprendente si ha ispezionando l’interno della scultura attraverso la consistente fenditura che da decenni era presente sul retro della sacra immagine (Tav. XXVIII). Si verifica, allora, che oltre alla gran quantità di materiale estraneo alla conformazione originaria dell’opera, è presente una struttura lignea concava, il che conferma l’origine antica del manufatto e rivela che probabilmente dell’opera medievale si conserva ben più di quanto creduto fino ad allora. Era opinione diffusa, infatti, che della Madonna di Tindari fossero «scolpiti soltanto il volto, le mani e il Bambino» e che «il resto della statua è costituito di legno informe, sicuramente sostituito nel tempo e le modanature delle immagini sono eseguite attraverso un canovaccio reso rigido da stucco che copre il legno.»2 Nell’ottobre dello stesso anno, il simulacro viene trasferito in un laboratorio nei pressi di Palermo, dove comincia l’intervento vero e proprio, che con il prosieguo dei lavori appare sempre più complesso. I primi saggi riguardano le cromie degli incarnati (Tavv. XXIX; XXX; XXXII; XXXIII; XXXV; XXXVI; XXXVII). Ben cinque risultano essere gli strati di pigmenti e vernici sovrapposte. L’ultimo, di tonalità bruna, sembra essere quello originale. Anche la conformazione degli occhi appare diversa da quella conosciuta. Infatti essi sono rappresentati aperti e ben definiti nella loro articolazione plastica e cromatica (Tavv. XXXII; XXXV; XXXVI; XXXVII) e non indistintamente chiusi, come tramandatoci dalla vecchia iconografia (Tav. XXII). Contestualmente ai saggi sulle superfici cromatiche, si verifica la possibilità di recuperare anche la struttura dell’antica immagine attraverso una serie di tagli praticati sull’involucro di tela, gesso e colla che per intero avvolgeva la statua (Tavv. XXXIV; XXXVIII; XXXIX; XL). Sorprendentemente leggibile appariva l’immagine della Vergine medievale, anche se lacunosa in diverse parti e, in quel che rimaneva, fatiscente per l’attacco degli insetti xilofagi e per il distacco della superficie pittorica (Tavv. XLV; XLVI a-b-c; LIX b). Dopo la rimozione quasi totale dell’imballo posticcio la consistenza degli interventi passati appariva in tutta la sua drammaticità: assi e zeppe di legno, grezzi e pesanti, tenevano in piedi ciò che rimaneva della scultura medievale (Tavv. XLI; XLII; XLIII; XLIV); paglia e segatura riempivano l’incavo ligneo per creare il volume necessario a supportare il canovaccio che la ricopriva (Tavv. XLVII; XLVIII). Le immagini fotografiche3, che raccontano tutto l’iter restaurativo, parlano molto più eloquentemente di qualsiasi discorso si possa fare sull’argomento e testimoniano lo stato disperato della struttura e le enormi problematiche, tecniche ma anche teoriche e culturali, affrontate durante l’intervento. Una volta liberata del tutto la struttura medievale dalle sovrapposizioni posticce, la prima operazione da fare era quella di stabilizzare e mettere in sicurezza quanto di originale si era salvato (Tavv. XLIV; XLV). Dopo il consolidamento delle parti lignee e la saldatura delle varie sconnessioni, la superficie pittorica, che nelle porzioni integre appariva di egregia qualità, è stata trattata con colle naturali, per farla aderire nuovamente al suo supporto. Le numerose parti mancanti sono state ripristinate con la ricostruzione in pasta lignea di quelle più piccole (Tav. LVIII a-b) e con l’integrale rifacimento in legno di tiglio delle zone più estese. Quasi per intero sono stati ricostruiti il fianco destro della Vergine e il piede posteriore sinistro dello sgabello su cui siede la stessa, utilizzando come base comparativa i moduli originali superstiti (Tav. LV). Delle lacune rimane aperto soltanto l’ampio squarcio centrale sul corpo della Vergine (Tav. LIV), occultato poi dalla mole del Bambino, a testimoniare lo stato dell’opera prima dell’intervento. L’alto copricapo “regale” della Vergine, intagliato nello stesso legno della testa, sotto la stratificazione di stucco e pigmenti dorati di porporina, nascondeva in parte l’originale decoro che presenta motivi ad “arabesque” rilevati con lacche sulla superficie lignea (Tav. L; LVI; LIX a), ed è una rarità visto la pressoché totale perdita di questo tipo di decori in opere di così antica fattura. Al contrario di quanto avviene per la Vergine, il Bambino, una volta liberato dalle sovrapposizioni, risulta essere sostanzialmente integro in tutte le sue parti (Tav. LII). Originale è pure la mano sinistra della Vergine, quella che regge il Bambino. La mano destra, invece, dopo la rimozione del gesso e del fildiferro che creavano l’occhiello (Tav. XXVI b) atto a reggere un giglio argenteo, è risultata essere una modellazione interamente più recente, probabilmente seicentesca, che giustamente si è pensato di mantenere nell’assemblaggio finale. Alla fase di ricomposizione strutturale, è seguita quella di rifinitura. Le lacune pittoriche sono state riempite con stucco, per uniformare le superfici antiche con quelle nuove (Tavv. LV; LVII) e infine integrate ad acquerello con la tecnica del “rigatino” (Tavv. LXV; LXVI), cosicché un occhio esperto può sempre differenziarle dalle parti originali.

Fonti testuali per l’iconografia e l’iconologia delle “Vergini Nere”

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Questo, in breve e senza scendere in dettagli troppo tecnici, è il resoconto del percorso di recupero, durato circa sette mesi, che ha portato alla riscoperta di un capolavoro medievale che si credeva ormai definitivamente perduto (Tav. LXI). Occorre però, senza voler sminuire la portata dell’impresa, fare delle precisazioni sull’iter di restauro e sulle metodologie in esso seguite. Come detto, quello della Madonna di Tindari è uno dei simulacri più venerati di Sicilia, se non di tutta l’Italia meridionale. Questa particolare attenzione da parte di migliaia di fedeli, che il più delle volte sono restii ad ogni tipo di innovazione, ha sicuramente condizionato alcune scelte in fase di restauro. Il recupero filologicamente corretto dell’opera ha dovuto trovare, per forza di cose, un compromesso con le esigenze di culto. Infatti, se già era difficile far accettare al fedele un’immagine sostanzialmente diversa da quella tramandatagli dalla tradizione, proviamo a pensare cosa avrebbe significato trovarsi davanti una nuova immagine e per di più mancante di alcune parti o con la caduta di intere zone di superficie pittorica. Pure legata a questi fattori è la scelta dell’esposizione della statua dopo il restauro, collocata in alto sul presbiterio del nuovo santuario, dentro una teca dorata sostenuta da due giganteschi angeli, senza alcun altro accesso se non una scala amovibile (Tav. XCVI). Questo crea agli occhi del fedele una sorta di aura sacrale attorno all’immagine mariana, ma per contro la rende di fatto inavvicinabile agli studiosi. Così come si presenta a restauro ultimato, la statua sembra però appena uscita dalla bottega del suo artefice medievale; ogni minima parte è stata ricostruita, ogni minima lacuna è stata integrata, mentre le immagini a nostra disposizione testimoniano una situazione ben più complessa al momento della prima pulitura. Inoltre, l’incavo posteriore, tipico delle Madonne prodotte nell’ XI e XII secolo fra il Sud della Francia e il Nord della Spagna, è stato occluso da un pannello in legno di tiglio fatto ex novo (Tav. LXIV), operazione questa filologicamente discutibile ma imposta dalla committenza e dalla direzione dei lavori per le sopracennate motivazioni di culto. Tuttavia la professionalità di alto livello dimostrata, in questa come in altre occasioni, dai restauratori ha permesso un recupero che ha davvero del miracoloso. Un contributo fondamentale nella documentazione del restauro è costituita inoltre dagli esami di laboratorio compiuti su alcuni campioni e che ci danno dati fondamentali sulle incrostazioni di superficie, sui tipi di pigmenti, di leganti e di vernici utilizzati, sugli strati di preparazione propedeutici alla loro stesura e, non da ultimo, sul tipo di essenza lignea del supporto materico, che come vedremo svolge un ruolo primario nella lettura iconologica dell’immagine. Ad ulteriori conclusioni si può giungere attraverso l’analisi degli aspetti tecnici e stilistici che contraddistinguono la scultura, così come ci accingiamo a fare, con il supporto anche di questi dati scientificamente certi che sono stati di grande aiuto per lo studio dell’opera.

Note 1 I dati relativi alle varie fasi di preparazione al restauro e all’intervento stesso sono tratti da G. Bonanno (a cura di), Nigra sum sed formosa cit. 2 R. Giordano, Tindari: una stella per la Madre di Dio, Tindari 1987, p. 48. 3 Si ringrazia il maestro Gaetano Correnti, che le ha messe gentilmente a disposizione di questa ricerca.

Capitolo iii

PER UNA LETTURA STILISTICA E UNA PROPOSTA DI CRONOLOGIA

La statua della Madonna nera di Tindari rappresenta un caso unico nel panorama artistico siciliano. In Sicilia, infatti, la grande stagione della scultura in legno si svolgerà tra XVI e XIX secolo e rare sono le opere antecedenti a questo periodo, le quali sono perlopiù databili al XV o, al massimo, al XIV secolo1. Lo studio della scultura tindarea deve quindi necessariamente aprire le sue strade ad ambienti culturali diversi da quello siciliano, confrontando la nostra opera con quanto di simile si è prodotto sulle sponde di quel grande crogiolo di culture in movimento che fu il Mediterraneo. La Vergine di Tindari è chiaramente una rappresentazione simbolica della Sedes Sapientiae, di cui abbiamo già ampiamente trattato, in cui è la Madonna stessa, seduta su un trono “a sedile”, a rappresentare la chiesa intera e a diventare sede per l’incarnazione della Divina Sapienza, raffigurata nel Figlio posto al centro, proprio sul grembo della madre, in posizione rigidamente frontale, così come la Vergine, e con abiti e atteggiamento regali (Tav. LXIII). Con la mano sinistra la Vergine trattiene a sé il bambino mentre con la destra, che ricordiamo non è quella originale, sembra presentare il Figlio al mondo, introducendolo così nella dimensione umana (Tav. LXVIII). Il Figlio tiene il braccio destro vistosamente alzato e con la mano traccia un gesto che non è di benedizione, come spesso interpretato, ma che indica con le tre dita alzate la sua appartenenza al mistero trinitario e con le due dita chiuse la sua doppia natura teandrica. La mano sinistra si aggrappa invece alle dita materne, indicando la totale adesione del Logos al genere umano (Tav. LXX). Soltanto la Vergine porta sul capo una cilindrica corona regale, che come detto conserva ancora parte del decoro originale a leggero rialzo (Tav. LXXI). Lo stesso capo è ricoperto, inoltre, da un corto velo che si adagia sulle spalle e che lascia intravedere appena due ciocche di capelli, che si dispongono simmetricamente sulla fronte (Tav. LXXII). Un manto purpureo, trapuntato con stilizzati fiori cruciformi dorati (Tav. LXXIII), avvolge l’intera massa corporea della Vergine e ricade, parallelamente alle gambe di lei, in due lembi schematicamente ondulati aprendosi sul petto esso forma una sorta di tenda-tabernaculum (Tav. LXVIII) che incornicia la sagoma del Verbo fatto carne - «Et Verbum caro factum est, et habitavit in nobis: et vidimus gloriam eius, gloriam quasi unigeniti a Patre, plenum gratiae et veritatis.» (Ioann I, 14) -. Come una regina, la Theotokos è abbigliata con due vesti sovrapposte, che si accordano in armonia sui due toni di verde acqua e di blu ceruleo, i colori del mare e del cielo; ai piedi, come calzari, ella porta le regali pantofole di porpora (Tav. LXXIV). Interamente avvolto da vesti porporine, con il colore cioè della regalità divina, è il Logos. Egli è l’unico vero Dio e vero Re, la Chiesa - Maria compartecipa di questa divinità perché ne è stata rivestita della grazia divina. Della seggiola su cui siede la Vergine sono visibili soltanto le quattro colonnine (Tavv. LXV; LXVI) a sostegno del pianale di seduta, decorate con un motivo argenteo a gocce che divergono da un quadrilatero dai lati concavi, nell’alternanza di verde e rosso. Esse sembrano addirittura essere fissate direttamente sul manto della Vergine e con esso formare un’unica struttura solidale. Come abbiamo ricordato a più riprese, il vero trono per il Logos è il grembo della madre, e questi aspetti iconografici con cui la nostra immagine è stata pensata non fanno altro che sottolinearlo in maniera evidente.

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Per quanto riguarda il colore degli incarnati, vale per la Madonna nera di Tindari quanto si è ampiamente trattato nella prima parte di questa ricerca, infatti la nostra opera appare pienamente inserita nel dibattito teologico e culturale sul tema della negritudo, svoltosi tra i grandi Ordini religiosi europei nel XII e XIII secolo. Merita invece una ulteriore attenzione la ricca presenza di dettagli appena evidenziati nell’iconografia della Vergine tindarea. Si può pensare, con un certo margine di sicurezza, che l’ideatore dell’opera abbia trovato una particolare fonte di ispirazione per la nostra composizione iconografica in alcuni specifici versetti delle Scritture, e in particolare nel Salmo XLIV, che al versetto 6 recita: «Sedes tua Deus in saeculum saeculi: virga directionis, virga regni tui.» Il Bambino-re, assiso sulla sua “Sedes”, non tiene nulla nelle mani ma, come detto, con la sinistra stringe un dito della Madre, proprio come se fosse il suo scettro per governare sulla terra. Abbiamo, inoltre, visto come nella nostra opera un grande risalto viene dato alle vesti; e infatti proseguendo nello stesso Salmo troviamo scritto: «Astitit regina a dextris tuis in vestitu deaurato: circumdata varietate.» (PSal XLIV, 9b); e ancora: «Omnis gloria eius filiae regis ab intus, in fimbriis aureis circumamicta varietatibus.» (Idem, 13). Anche se, dunque, la bellezza della Regina è tutta interiore, perché all’esterno appare bruna, ella si presenta al Re circondata da abiti variopinti frangiati d’oro, proprio come nella nostra immagine. La corona che la Vergine porta sul capo può essere identificata con quella che la Divina sapienza, incarnata nel suo grembo, offre come dono a chi l’accoglie incondizionatamente, così come enunciato dal Libro dell’Ecclesiastico: «Sapientia enim doctrinae secundum nomen est eius, et non est multis manifesta: quibus autem cognita est, permanet usque ad cospectum Dei... Stolam gloriae induens eam, coronam gratulationis superpones tibi.» (Eccl VI, 23; 32); per questo motivo, nella nostra opera, sul capo del Figlio non è apposta la corona. Anche sul tipo del trono a sedile è possibile trovare un esatto riferimento nelle Scritture, e precisamente in una pericope del Cantico dei Cantici che, tenendo a mente le simbologie che abbiamo imparato a conoscere, recita: «Ferculum fecit sibi rex Salomon de lignis Libani. Columnas eius fecit argenteas, reclinatorium aureum, ascensum purpureum: media charitate constravit propter filias Ierusalem...» (Cant III, 9-10). A parte il riferimento alle colonnine argentee e al colore del manto che funge da schienale per il Logos incarnato, dagli esami di laboratorio è risultato che la nostra statua è intagliata proprio in un tronco di cedro del Libano, essenza lignea molto apprezzata fin dall’antichità perchè fornisce un legno compatto, durevole e aromatico2, e che, in riferimento alla figura della Vergine, si carica di profondi significati teologici. La sua scelta per la nostra statua non può essere considerata, allora, casuale ma inserita pienamente nel piano iconograficosimbolico che caratterizza la semantica dell’opera. L’analisi delle tecniche esecutive con le quali è stata realizzata la statua di Tindari può aiutarci a delimitare l’ambito geografico di realizzazione dell’opera. La nostra scultura è, infatti, intagliata nella sua massa principale in un unico blocco di legno, a cui sono state innestate le parti sporgenti del Bambino, delle mani e delle colonnine, lavorate separatamente. Il compatto corpo centrale della Vergine si presenta sul retro interamente scavato3 (Tav. LX a-b), in modo da ridurre al minimo lo spessore del legno, questo non per rendere il simulacro più agevole nel trasporto ma per risolvere alcune problematiche tecnologiche derivate dalla natura stessa del materiale. Il legno è, infatti, una materia organica, che continua a subire continue sollecitazioni dall’ambiente esterno modificando i suoi parametri vitali anche a distanza di decenni dalla sua separazione dalla pianta. Il fattore più difficile da controllare in questo senso è l’idroscopia, che è il potere del legno di assorbire ed espellere continuamente l’umidità presente nell’aria, causando la dilatazione o il ritiro del suo volume, con la conseguente instabilità delle superfici scolpite4. Queste problematiche erano state trascurate dagli artefici medievali finché le statue, una volta scolpite, venivano ricoperte da lamine di metallo prezioso, che garantivano una certa elasticità nell’assorbimento dei micromovimenti causati dalle variazioni volumetriche. Quando però, fra il secondo quarto dell’XI secolo e gli inizi del seguente, fu abbandonato l’uso delle coperture in metallo, il problema legato alle caratteristiche meccaniche del legno cominciò a porsi con serietà. L’aspetto esteriore delle sculture veniva infatti affidato adesso alla policromia, che prevedeva la stesura di uno o più stati di gesso sulla superficie lignea in preparazione alla rifinitura con l’uso di pigmenti colorati. Il gesso è un materiale inorganico e quindi idroscopicamente insensibile. Le differenze fra i movimenti del legno e la rigidità del gesso erano causa di crepature e di distacco delle superfici dipinte. Gli artisti medievali cercarono una soluzione al problema in due diversi modi, che contraddistinguono altrettante aree geografiche5.

Per una lettura stilistica e una proposta di cronologia

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Nella Francia centro-settentrionale, e da lì in tutti i paesi nordici, le sculture venivano assemblate utilizzando delle tavole di legno dallo spessore ridotto. Le tavole contigue erano disposte in maniera da incrociare la direzione delle fibre, così da bilanciare il movimento in una direzione con uno in direzione opposta. La struttura del legno, infatti, non è omogenea e compatta, ma procede per fasci di fibre paralleli e i movimenti causati dalla variazione di volume avvengono sempre in direzione delle fibre. Quindi, a parità di tasso di umidità, di essenza del legno e di dimensione del taglio del blocco, l’intreccio di fibre che si viene a creare provoca movimenti opposti e contrari che si annullano a vicenda dando stabilità alla superficie. Una tecnica diversa fu utilizzata nel Sud della Francia, nell’Italia Settentrionale e nella Spagna sud pirenaica. Qui il corpo principale della scultura veniva intagliato in un unico tronco di legno, il quale veniva poi svuotato dal di dietro di quanta più massa possibile, in modo tale da lasciare soltanto un sottile spessore dietro la superficie scolpita. I movimenti più ampi e pericolosi del legno avvengono, infatti, nella zona centrale del tronco, quella del midollo; asportare tutta questa parte significava quindi ridurre al minimo anche le sollecitazioni in corrispondenza delle parti scolpite. L’incavo posteriore veniva poi occluso con un pannello dello stesso legno, in modo da restituire la tridimensionalità dell’oggetto. Come abbiamo visto, la statua della Madonna di Tindari è realizzata proprio con la tecnica dello svuotamento del tronco, dandoci così un primo riferimento orientativo su un’ampia zona in cui deve essere collocata la sua realizzazione. Un ulteriore restringimento di campo possiamo farlo attraverso lo studio dell’iconografia che impernia e caratterizza la nostra opera. L’alta corona, massiccia e cilindrica, il corto velo che si adagia sulle spalle e che è separato e differente dal manto, la tipologia del trono a sedile che presenta quattro colonnine con terminazione “a palla” e senza braccioli né dorsale, sono tutti elementi che ci portano verso un’area geografica precisa, cioè quella catalanoaragonese. A differenza delle madonne francesi, che si presentano solitamente con il capo privo di corona, abbigliate con un manto avvolgente dorato o argentato, che forma un tutt’uno con il velo del capo, e che sono rappresentate assise su un trono dalla struttura complessa di cornici e colonnine (Tav. VI a-b-c-d), le madonne della Spagna Nord-orientale presentano quegli accorgimenti iconografici che ritroviamo riproposti nella Madonna di Tindari. Diversi esemplari che possono servire da termine di paragone con la nostra scultura sono oggi esposti sia al “Museu Nacional d’Art de Catalunya” (Tavv. LXXVI; LXXVII) sia al “Museu Frederic Marès” (Tav. LXXX a-b), entrambi a Barcellona6. Particolarmente interessante è l’esame del tipo di copricapo, che nelle Vergini catalane, come nella nostra, è sempre intagliato nello stesso legno con cui è scolpita la testa, ma che troviamo ancora più simile a quello della Madonna tindarea nelle immagini dipinte su tavola o nelle miniature catalane, posto come ornamento di re e regine (Tav. LXXXIII c), oltre che della Vergine stessa (Tav. LXXXIII a-b). Il decoro a leggero rilievo sembra derivare invece le sue linee arabescate dagli ornati utilizzati nella coeva produzione orafa. Anche le notazioni stilistiche concordano con l’ambito culturale appena evidenziato. I volti racchiusi in un ovale allungato, gli sguardi indistintamente fissi e miranti verso l’infinito, la disposizione delle pieghe rigidamente simmetrica – che presentano uno schema radiale di sottili pieghe a canna, originato dalla fibula del manto, sul busto e la distribuzione a larghe falde schiacciate che corrono parallele sulle gambe e terminano in stilizzati risvolti a trapezio rovesciato -, accomunano la scultura siciliana non solo alle statue di uguale soggetto ma anche ai crocifissi catalani di XII secolo, ad esempio la famosa Majestat Batlló (Tav. LXXXI a) del “Museu Nacional d’Art de Catalunya”, datata alla meta del secolo7. L’ambito di produzione della nostra opera sembra essere dunque proprio quello catalano, dando conferma a ciò che avevamo solamente ipotizzato in sede di analisi storica8. Committenti della scultura siciliana devono essere stati, dunque, proprio quei monaci benedettini cluniacensi dell’abbazia di San Salvatore di Patti che, come abbiamo visto, a Tindari impiantarono un hospitium per i pellegrini diretti alla volta, soprattutto, di Santiago de Compostela. Modello per l’immagine siciliana deve essere stato, come detto, il veneratissimo simulacro mariano di Montserrat (Tav. LXXIX), abbazia catalana retta anch’essa da monaci benedettini cluniacensi. Da qui deriverebbero gli incarnati bruni della nostra scultura, oltre alle numerose corrispondenze iconografiche che riscontriamo sulle due opere. Terminus post quem per la datazione della Madonna tindarea può essere considerato il 1142, anno in cui per la prima volta l’hospitium benedettino risulta essere in piena attività, ma l’assimilazione nella nostra opera

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di modelli datati dalla critica alla seconda meta del XII secolo, compresa la stessa statua della Madonna di Montserrat, ci spinge verso una collocazione nell’ultimo quarto del secolo, proprio quando i traffici di pellegrini raggiunsero i massimi livelli. Una delle vie che solcano il Mediterraneo, quella che da Barcellona porta a Messina, è dunque la strada attraverso la quale il singolare simulacro approda ai litorali siciliani. Se però la sua presenza in Sicilia risulta essere, come detto, un caso unico, non lo è altrettanto se si prende in esame l’intero territorio meridionale dell’Italia. La nostra opera, infatti, è raffontabile con un gruppo di Madonne in trono presenti nell’ampia fascia territoriale che corre fra Campania e Puglia, racchiusa dalle sponde del Tirreno e da quelle dell’Adriatico. In particolare nel territorio dell’antica Lucania, che corrisponde all’attuale Basilicata, se ne contano addirittura sei, recentemente pubblicate nel catalogo della mostra sulla “Scultura lignea in Basilicata”9, che sotto il profilo specifico della cultura figurativa presentano diversi aspetti condivisi con la Madonna siciliana. Purtroppo tutte le Madonne lucane sono giunte a noi pesantemente manomesse, addirittura frammentarie nel caso della Madonna di San Martino d’Agrì (Tavv. XC; XCI a-b), della quale si conserva soltanto un lacerto della testa10. Ma anche attraverso le trasformazioni subite e, ancor di più, grazie ai recenti restauri condotti su alcune di queste sculture, possiamo constatare la loro assoluta vicinanza iconografica e stilistica con la Vergine di Tindari. Particolarmente interessante, in questo senso, è il recupero nelle sue forme medievali della statua della Madonna di Armento11 (Tavv. LXXXVIII; LXXXIX), pur con le pesanti mutilazioni dovute ai restauri ottocenteschi, che nella tipologia del manto, nel sistema simmetrico delle pieghe, nella conformazione del trono a sedile sorretto da colonnine terminanti a pigna, in quello che rimane dell’alta corona cilindrica, oltre che nell’impostazione iconografica generale e nella tecnica esecutiva, mostra tutte le sue affinità con la nostra scultura. La statua di Armento ci offre anche un termine di paragone per valutare correttamente il restauro della Madonna di Tindari; qui, infatti, con un intervento filologicamente rigoroso, reso possibile perchè ormai la statua non è più oggetto di particolare devozione, si è ripristinata l’opera medievale nelle sole parti originali, senza aggiungere nulla a quanto è sopravvissuto nel tempo e senza ricostruire niente che potesse falsarla. Molto vicina alla Madonna di Tindari è anche la Vergine in trono di Guardia Perticara (Tav. LXXXVII), ovviamente dopo averla ripulita con un’operazione mentale dalle ridipinture e dai rifacimenti del manto, del velo e dei capelli. Le due sculture presentano la stessa organizzazione compatta, con una posa rannicchiata e rigida delle figure, in cui la linea di contorno racchiude per intero tutti gli elementi figurativi. Gli incarnati bruni e quel poco che rimane della configurazione medievale, accomunano la Madonna del Sacro Monte di Viggiano (Tav. LXXXV), la più venerata di Basilicata, alla nostra scultura siciliana. Purtroppo il totale rifacimento di molte parti e la pesante doratura metallica dell’opera lucana non ci consentono dei raffronti più precisi. Anche questo gruppo di statue è da collocare in ambito più strettamente catalano e non a scultori lucani di cultura catalana12. Cronologicamente esse possono essere racchiuse tra la metà del XII secolo, data compatibile con la Madonna del Convento di Santa Maria d’Orsoleo di sant’Arcangelo (Tav. LXXXIV), e gli inizi del secolo XIII. Il loro arrivo nel Mezzogiorno italiano deve essere avvenuto attraverso l’importante porto di Napoli che, al pari di Messina per la Sicilia, raccoglieva tutte le masse di pellegrini provenienti dall’Italia Meridionale in attesa di imbarcarsi alla volta di Barcellona, per proseguire poi a piedi il “Cammino” verso la Galizia13.

Note 1 Fanno eccezione alcuni intagli di matrice araba conservati a Palermo, nella chiesa di Santa Maria dell’Ammiraglio e nel Museo di Palazzo Abatellis, e un rilievo recentemente ritrovato nel piccolo centro di Tortorici, nel messinese, che rappresenta la Vergine in trono con il Bambino, la quale attende ancora di essere studiata. Per una panoramica generale sulla scultura in legno siciliana dal Medioevo al Rinascimento Cfr. G. Cantelli (a cura di), Le Arti decorative del Quattrocento in Sicilia, catalogo della mostra, Messina 1981; E. Cacioppo Riccobono, Sculture decorative in legno in Sicilia dal XII al XVII secolo, Palermo 1995. 2 Cfr. S. Pignatti, Flora d’Italia, vol. I, Roma 1982, p. 183. 3 G. Bonanno (a cura di), Nigra sum sed formosa. Madonna di Tindari cit., p. 54. 4 Cfr. C. Maltese (a cura di), Le tecniche artistiche, Milano 1973, pp. 11-17.

Per una lettura stilistica e una proposta di cronologia

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5 Cfr. I. H. Forsyth, The Throne of Wisdom. Wood sculptures of the Madonna in romanesque France, Princeton University 1972, pp. 15-20. 6 Cfr. X. Barral i Altet (a cura di), Prefiguratiòn del Museu Nacional d’Art de Catalunya, catalogo della mostra, Barcellona 1992; Ayuntamiento de Barcelona (a cura di), Museo Federico Marés Deulovol, Barcelona 1979. 7 X. Barral i Altet (a cura di), Prefiguratiòn del Museu Nacional cit., pp. 154-156. 8 Cfr. supra, pp. 41 ss. 9 Cfr. P. Leone De Castris, Le origini, dal XII al XIV secolo, in Paolo Venturoli (a cura di), Scultura lignea in Basilicata dalla fine del XII alla prima metà del XVI secolo, catalogo della mostra (Matera, Museo Nazionale d’arte medioevale e moderna della Basilicata di Palazzo Lanfranchi, 1 luglio - 31 ottobre 2004), Torino-Londra-Venezia-New York 2004, pp. 3-15; schede nn. 1-6. 10 Cfr. Ibidem, scheda n. 6, pp. 100-101. 11 Cfr. Ibidem, scheda n. 5, pp. 98-99 12 Cfr. Ibidem, pp. 7-12. 13 Cfr. P. G. Caucci von Saucken, Una nuova acquisizione per la letteratura di pellegrinaggio italiana. Il Viaggio da Napoli à San Giacomo di Galizia di Nicola Albani, in G. Scalia (a cura di), Il pellegrinaggio a Santiago de Compostela e la letteratura jacopea, atti del convegno internazionale (Perugia 23-24-25 settembre 1983), Perugia 1985, pp. 377-427.

cONclusioni

Negli ultimi decenni si sta assistendo ad un rinnovato interesse verso la scultura realizzata in legno, una volta considerata “minore” rispetto alla più nobile scultura lapidea o in bronzo. Si deve al grande medievista Géza de Francovich la prima sistematica attenzione verso questo tipo di manufatti artistici, anche se limitata ad un ristretto gruppo di opere dell’Italia centrale o a particolari tipologie iconografiche, quali il Crocifisso “gotico-doloroso”. Nel 1950, l’importante mostra di Napoli, curata da Ferdinando Bologna e Raffaello Causa, sembrava aprire nuove prospettive per uno studio organico della scultura in legno anche nell’Italia meridionale. A distanza di oltre un cinquantennio essa appare, però, come un caso isolato, non avendo trovato alcun seguito nella storiografia locale. Se infatti l’Italia settentrionale e, soprattutto, centrale ha dato continuità alle innovative intuizioni del De Francovich con gli studi approfonditi di Enzo Carli e, in seguito, di Giovanni Previtali e Alessandro Bagnoli, concentrati soprattutto su Siena e che hanno portato alla realizzazione delle recenti mostre di Lucca (1995) e Pisa (2000), nel Meridione si è proceduto per casi isolati o, al massimo, per ristrette aree territoriali. Colpisce il fatto che anche uno studioso attento come il Carli, nel suo studio onnicomprensivo sulla scultura lignea italiana dal XII al XVI secolo, in pratica finisca per non prendere in considerazione nessuna opera che si trovi al di sotto di Napoli. In questo clima sconfortante, fanno eccezione le recenti mostre tenute in Sardegna (2001) e quella già citata inerente alla Basilicata (2003), che segnano un primo tentativo di studio organico e sistematico delle opere lignee in quelle regioni. Per quanto riguarda la Sicilia, il primo abbozzo di studio per formulare una storia della scultura in legno si deve a Gioacchino di Marzo, che all’interno della sua monumentale pubblicazione sui Gagini e la scultura in Sicilia nei secolo XV e XVI dedica un intero capitolo all’argomento, con intuizioni pioneristiche rispetto al resto d’Italia e allo stesso De Francovich, essendo editata la sua opera addirittura nel 1880. Dopo il Di Marzo, gli studi mirati sulla scultura in legno, anche qui radi e poco organici, si sono concentrati soprattutto su periodi successivi a quello di nostro riferimento. A parte i limitati tentativi dello Scuderi, infatti, per le opere medievali manca anche la basilare schedatura di censimento che ci permetterebbe quantomeno di avere un quadro completo sul patrimonio superstite. Alla luce di quanto emerso nel corso di questo studio, appare sempre più urgente cominciare ad intraprendere un’attività di indagine sui manufatti lignei medievali che interessi l’intera area meridionale della penisola. Infatti, i risultati più interessanti non riguardano tanto l’aver messo nella giusta luce un’opera pregevole quale la Madonna di Tindari, ma soprattutto l’avere aperto uno spiraglio sui rapporti intercorsi fra diverse regioni del Sud Italia e i loro stretti legami con una cultura terza, quale quella catalana, in date molto precoci rispetto a quanto finora prospettato.

appendice dei testi

1. Anselmo di Gembleaux MISCELLANEA Plerumque anecdota DE CULTU B. MARIAE VIRGINIS IN ABBATIA AFFLIGHEMENSI ET DE ITINERE S. BERNARDI PER TRACTUS FLANDRICOS A. D. MCXLVI. I. Venerabili Abbati Clarevallensi Bernardo, Anselmus Gemblacensis, in laudem Claravallis. II. Fuit igitur statua ista, Beatissimam Virginem MARIAM puerum suum in ulnis habentem repraesentans, sculpta ex molliori illo et subcandido aut sane huic simillimo lapide, arena nigra nonnihil inspersa (quem Teutones Avenesteen, Brabantes Lavendersteen nuncupant), longitudinis hominis mediocris, hoc est quinque et amplius pedum, opere et habitu prorsus antiquo, velo ex capite defluente in humeros . . . ; locus autem, quo primitus constituta permansit et honorata fuit centenis aliquot annis, est in claustro sive ambitu monasterii, juxta ostium quo ex illo in dormitorium, ubi et ejusdem basis ipsa modo visitur, eminens ex parte antiquioris ecclesiae, ubi modo constituta est alia D. Virginis statua, cum hac subscriptione: Virginis hancce piae statuam venerare MARIAE Praeteriensque cave ne taceatur Ave. Ex chron. MS. Phalesii. 2. Giovanni Pino DE SANCTO BERNARDO CONFESSORE PRIMO CLARAE-VALLENSI ABBATE, PATRE AC DOCTORE ECCLESIAE IN TERRITORIO LINGONENSI IN GALLIA COMMENTARIUS Auctore Joanne PINIO societatis Jesu presbitero theologo. (Acta sanctorum Bolland., Augusti tom. IV, die 20, p. 101.) XLVII. Salutatio imaginis Deiparae in caenobio Afflighemensi; Jesus cruci affixus, solutis ab ea brachiis Bernardum amplectens. 496. «Cui astipulatur Chronicon Gemblacense, ita dicens: Ante Belgii desolationem, atque in ipso Belgio fidei catholicae labefactationem, in monasterio Afflighemensi Dei Genitricis erat imago, cui valedicens Bernardus, Vale, inquit, alma Maria. At, Bernarde, vale, ait sancta Maria. Imago haec beatae Mariae in ulnis Christum gestabat, sculpta ex candido et molliori lapide, arena nigra nonnihil inspersa (quam Brabanti labender-steen nuncupant) longitudine quinque aut amplius pedum, opere et habitu prorsus antiqua. velo ex capite dependente in humeros. Quae imago hac ultima tempestate a quodam protervo nebulone ex basi dejecta et confracta fuit, putans ligneam esse, ut inde ignem construeret. Ex quibus partibus duae aliae sculptae sunt: quarum una Afflighemii asservatur; alia vero Patribus Societatis Jesu Bruxellensibus a priore donata.» Hisce e Raissio de famosa salutatione illa Deiparae recitatis, audiamus quaenam subjiciat Manricus num. 9. «Certant igitur, inquit, Affligemium, Spiraque de imagine Deiparae, quae Bernardum Parentem

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salutantem resalutaverit, atque utraque monumentis antiquis nixam firmatamque traditionem prae se fert, cui vix erit, qui audeat contra ire; nobis, ut neutra vincatur, vincat utraque, et repetitum favorem, quod solum superest, pia credulitate persuadeat.» Sed, dum ita loquitur Manricus, haeret in cortice, et rei medullam non penetrat. 3. Bernardo di Clairvaux SANCTI BERNARDI ABBATIS CLARAE-VALLENSIS SERMONES IN CANTICA CANTICORUM. SERMO XXV. De nigredine et formositate sponsae, id est Ecclesiae. 1. Ecce quod dixeram in sermone, quia aemulis lacessentibus sponsa respondere cogatur, quae corpore quidem de numero adolescentularum esse videntur, animo autem longe sunt. Ait nempe: Nigra sum, sed formosa, filiae Jerusalem (Cant. I, 4) . Patet quod detraherent ei, nigredinem improperantes. Sed adverte sponsae patientiam ac benignitatem. Non modo enim non reddidit maledictum pro maledicto, sed insuper benedixit, filias Jerusalem vocans, quae magis pro sua nequitia filiae Babylonis, vel filiae Baal, aut si quod aliud nomen improperii occurrisset, appellari meruerant. Sane didicerat a propheta, imo ab ipsa unctione quae docet suavitatem, calamum 1350 quassatum non conterendum, et linum fumigans non exstinguendum (Isa. XLII, 3) . Propterea non putavit amplius irritandas satis commotas per sed nec quidquam addendum stimulis invidiae, qua torquebantur. Magis autem cum his qui oderunt pacem, studuit esse pacifica, sciens se etiam insipientibus debitricem. Maluit ergo ipsas favorabili demulcere vocabulo, quia curae fuit ei infirmarum potius operam dare saluti quam propriae ultioni, 2. Omnibus quidem optanda est ista perfectio; proprie autem optimorum forma est praelatorum. Sciunt quippe boni fidelesque praepositi, languentium sibi creditam animarum curam, non pompam. Cumque internum murmur cujuspiam illarum querulae vocis indicio deprehendunt, etsi in ipsos usque ad convicia et contumelias prorumpentis; medicos se et non dominos agnoscentes, parant confestim adversus phrenesim animae, non vindictam, sed medicinam. Haec igitur ratio cur sponsa filias Jerusalem dicat eas ipsas, quas malevolas sustinet atque maledicas: videlicet ut in blando sermone deliniat murmurantes, commotionem sedet, sanet livorem. Scriptum est enim: Lingua pacifica compescit lites (Prov. XXV, 15) . Alias vero filiae revera Jerusalem quodam modo sunt quae hujusmodi sunt, nec falso ita eas nominat sponsa. Sive enim propter sacramenta Ecclesiae, quae indifferenter quidem cum bonis suscipiunt; sive propter fidei aeque communem confessionem, sive ob fidelium corporalem saltem societatem, seu etiam propter spem futurae salutis, a qua omnino non sunt, quandiu hic vivunt, vel tales desperandae, quantumlibet vivant desperate; non incongrue filiae Jerusalem nominantur. 3. Videamus jam quid illud fuerit dicere: Nigra sum, sed formosa. Nullane in his verbis repugnantia est? Absit! Propter simplices dico, qui inter colorem et formam discernere non noverunt, cum forma ad compositionem pertineat, nigredo color sit. Non omne denique quod nigrum est continuo deforme est. Nigredo, verbi causa, in pupilla non dedecet; et nigri quidam lapilli in ornamentis placent; et nigri capilli candidis vultibus etiam decorem augent et gratiam. Sic tibi quoque facile advertere est in rebus innumeris. Quanquam sine numero sunt, quae in superficie quidem reperies decoloria, in compositione vero decora. Tali fortassis modo potest sponsa, cum pulchritudine utique compositionis, naevo non carere nigredinis; sed sane in loco peregrinationis suae. Alioquin erit cum eam sibi in patria exhibebit sponsus gloriae gloriosam, non habentem maculam, aut rugam, aut aliquid hujusmodi. At vero nunc si diceret, quia nigredinem non haberet, se ipsam seduceret, et veritas in ea non esset. Quamobrem ne mireris quia dixit: Nigra sum, et rursum nihilominus, quia formosa sit, gloriatur. Quomodo enim non formosa cui dicitur: Veni, formosa mea? (Cant. II, 10.) Cui autem dicitur: Veni, nondum pervenerat, ne forte quis putet hoc dictum, non quidem huic nigrae, quae adhuc laborat veniendo in via; sed beatae illi, quae jam prorsus absque nigredine regnat in patria. 4. Sed audi unde nigram et unde formosam se dixerit. An nigram quidem ob tetram conversationem, quam prius habuit sub principe hujus mundi, imaginem terrestris hominis adhuc portans; formosam vero de

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coelesti similitudine, quam postea commutavit, ambulans jam in novitate vitae? Sed si hoc est, cur non magis de praeterito, nigra fui, et non nigra sum, dicit? Si cui tamen placet hic sensus, id quod sequitur, sicut tabernacula Cedar, sicut pelles Salomonis (Cant. I, 4) , sic oportet intelligi, ut de veteri quidem conversatione Cedar, de nova vero Salomonis se dixerit tabernaculum. Hoc enim esse pelles, quod tabernaculum, propheta ostendit dicens: Repente vastata sunt tabernacula mea, sabito pelles meae (Jerem. IV, 20) . Prius igitur 1351 nigra, sicut vilissima tabernacula Cedar: postea formosa, sicut pelles gloriosi regis. 5. Sed videamus quomodo ad statum potius vitae potioris utrumque respiciat. Si consideremus habitum exteriorem sanctorum, eum qui in facie est, quam sit humilis utique et abjectus, et quadam neglectus incuria; cum tamen identidem intus revelata facie gloriam Dei speculantes, in eamdem imaginem transformentur de claritate in claritatem, tanquam a Domini Spiritu (II Cor. III, 18) : nonne una quaelibet talis anima merito nobis videbitur posse respondere exprobrantibus sibi nigredinem: Nigra sum, sed formosa? Vis tibi denique demonstrem animam et nigram pariter, et formosum? Epistolae, inquiunt, graves sunt; sed praesentia corporis infirma, et sermo contemptibilis (II Cor. X, 10) . Paulus hic erat. Itaque Paulum, o filiae Jerusalem, de praesentia corporis aestimatis, et tanquam decolorem deformemque contemnitis, quia cernitis homunculum afflictari in fame et siti, et frigore et nuditate, in laboribus plurimis, in plagis supra modum, in mortibus frequenter? (II Cor. XI, 23, 27.) Haec sunt quae denigrant Paulum. Pro hujusmodi doctor gentium reputatur inglorius, ignobilis, niger, obscurus; tanquam denique peripsema hujus mundi. Enimvero nonne ipse est qui rapitur in paradisum, qui unum alterumque perambulans, usque ad tertium sui puritate penetrat coelum? O vere pulcherrima anima! quam, etsi infirmum inhabitantem corpusculum, pulchritudo coelestis admittere non despexit, angelica sublimitas non rejecit, claritas divina non repulit. Hanc vos dicitis nigram? Nigra est, sed formosa, filiae Jerusalem. Nigra vestro, formosa divino angelicoque judicio. Etsi nigra est, forinsecus est. Sibi autem pro minimo est, ut a vobis judicetur, aut ab his qui secundum faciem judicant. Homo siquidem videt in facie, Deus autem intuetur cor (I Reg. XVI, 7) . Propterea etsi nigra foris, sed intus formosa, ut ei placeat cui se probavit. Non enim vobis: quibus si adhuc placeret. Christi servus non esset. Felix nigredo, quae mentis candorem parit, lumen scientiae, conscientiae puritatem. 6. Audi denique quid per prophetam Deus promittat istiusmodi nigris, quos aut humilitas poenitentiae, aut charitatis zelus, tanquam solis aestus, decolorasse videtur. Si fuerint, ait, peccata vestra ut coccinum, quasi nix dealbabuntur; et si fuerint rubra quasi vermiculus, velut lana alba erunt (Isai. I, 18) . Non plane contemnenda in sanctis ista nigredo extera, quae candorem operatur internum, et sedem proinde praeparat sapientiae. Candor est enim vitae aeternae sapientia, ut Sapiens definit (Sap. VII, 26) : et candidam oportet esse animam, in qua ipsa sedem elegerit. Quod si anima justi sedes est sapientiae, haud dubie dixerim animam justi esse candidam. Et fortassis justitia ipsa candor est. Justus autem erat Paulus, cui reposita fuerat corona justitiae (II Tim. IV, 8) . Candida proinde Pauli anima erat, et sapientia sedebat in ea, ita ut sapientiam loqueretur inter perfectos, sapientiam in mysterio absconditam, quam nemo principum mundi hujus agnovit. Porro hunc in eo sapientiae, justitiaeque candorem nigredo illa exterior de praesentia corporis infirma, de laboribus plurimis, de jejuniis ac vigiliis multis, aut operabatur, aut promerebatur. Ideoque et quod nigrum est Pauli, speciosius est omni ornatu extrinseco, omni etiam regio cultu. Non comparabitur ei quantalibet pulchritudo carnis, non cutis utique nitida et arsura, non facies colorata vicina putredini, non vestis pretiosa obnoxia vetustati, non auri species, splendorve gemmarum, seu quaeque talia, quae omnia sunt ad corruptionem. 7. Merito proinde omnis cura sanctorum, spreto ornatu cultuque superfluo exterioris sui hominis, qui certe corrumpitur, omni se diligentia praebet et occupat excolendo ac decorando interiori illi, qui ad imaginem Dei est, et renovatur de die in diem. Certi sunt enim Deo non posse esse quidquam acceptius imagine sua, si proprio fuerit restituta decori. 1352 Propterea et omnis gloria eorum intus, non foris est; hoc est, non in flore feni, aut in ore vulgi, sed in Domino. Unde et dicunt: Gloria nostra haec est, testimonium conscientiae nostrae (II Cor. I, 12) : quod conscientiae solus sit arbiter Deus, cui soli placere desiderant; et cui placere, sola vera et summa gloria est. Non mediocris plane gloria illa quae intus est, in qua gloriari dignatur et Dominus gloriae, dicente David: Omnis gloria ejus filiae regis ab intus (Psal. XLIV, 14) . Et tutior sua cuique gloria, dum habet eam in semetipso, et non in altero. At non in solo fortassis candore interno, sed in exteriori

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quoque nigredine et exteriore gloriandum, ne quid omnino sanctis depereat, sed omnia cooperantur in bonum. Non solum igitur in spe, sed et gloriari in tribulationibus. Libenter, ait, gloriabor in infirmitatibus meis, ut inhabitet in me virtus Christi. Optanda infirmitas, quae Christi virtute compensatur. Quis dabit mihi non solum infirmari, sed et destitui ac deficere penitus a memetipso, ut Domini virtutum virtute stabiliar? Nam virtus in infirmitate perficitur. Denique ait: Quando infirmor, tunc fortis sum et potens (II Cor. XII, 9, 10) . 8. Quod cum ita sit, pulchre sponsa convertit sibi ad gloriam, quod ei pro opprobrio ab aemulis intorquetur; non modo formosam, sed et nigram esse se glorians. Non enim erubescit nigredinem, quam novit praecessisse et in sponso: cui similari quantae etiam gloriae est? Nil sibi gloriosius proinde putat, quam Christi portare opprobrium. Unde vox illa prorsus exsultationis et salutis: Absit mihi gloriari, nisi in cruce Domini mei Jesu Christi! (Galat. VI, 14.) Grata ignominia crucis ei qui Crucifixo ingratus non est. Nigredo est, sed forma et similitudo Domini. Vade ad sanctum Isaiam, et describet tibi qualem in spiritu illum viderit. Quem namque alium dicit virum doloris, et scientem infirmitatem; et quia non erat ei species neque decor? Et addidit: Nos putavimus eum tanquam leprosum, et percussum a Deo, et humiliatum. Ipse autem vulneratus est propter iniquitates nostras, attritus est propter scelera nostra; et livore ejus sanati sumus (Isai. LIII, 3, 5) . Ecce unde niger. Junge et illud sancti David: Speciosus forma prae filiis hominum (Psal. XLIV, 3) ; et habes totum in sponso, quod sponsa de se hoc in loco testata est. 9. Num tibi recte et ipse videtur secundum ea quae dicta sunt, aemulis posse respondere Judaeis: Niger sum, sed formosus, filii Jerusalem? Niger plane, cui non erat species, neque decor; niger, quia vermis et non homo, opprobrium hominum, et abjectio plebis (Psal. XXI, 7) . Denique se ipsum fecit peccatum (II Cor. V, 21) : et nigrum dicere verear? Intuere sane pannis sordidum, plagis lividum, illitum sputis, pallidum morte; et nigrum vel tunc profecto fatebere. Percunctare etiam apostolos, eumdem ipsum qualem in monte perspexerint; aut certe angelos, in qualem prospicere concupiscant; et nihilominus formosum mirabere. Ergo formosus in se, niger propter te. Quam formosum et in mea forma te agnosco, Domine Jesu! non ob divina tantum quibus effulges miracula, sed et propter veritatem, et mansuetudinem, et justitiam. Beatus qui te in his hominem inter homines conversantem diligenter observans, se ipsum praebet pro viribus imitatorem tui. Hoc jam beatitudinis munus formosa tua primitias suae dotis accepit; nec quod formosum est tui, imitari pigra; nec quod nigrum sustinere confusa. Unde et dicebat: Nigra sum, sed formosa, filiae Jerusalem; et addidit similitudinem: Sicut tabernacula Cedar, sicut pelles Salomonis. At istud obscurum est, nec attingendum omnino fatigatis. Habetis tempus ad pulsandum. Si non dissimulatis, aderit qui revelat mysteria; nec cunctabitur aperire, qui et ad pulsandum invitat. Ipse est enim qui aperit, et nemo claudit (Apoc. III, 7) , sponsus Ecclesiae Jesus Christus Dominus noster, qui est benedictus in saecula saeculorum. Amen. SERMO XXVII. De ornatu sponsae, et qualiter anima sancta in coelum dicatur. 1. Quia debitis humanitatis officiis amicum revertentem in patriam prosecuti sumus, redeo, fratres, ad propositum aedificandi quod intermiseram. Incongruum namque est diu flere laetantem; et sedenti ad epulas lacrymas multas ingerere, importunum. Sed et si nostras defleamus aerumnas, ne id quidem oportet nimis, ne non tam amasse illum, quam nostra quaesisse de illo commoda videamur. Temperet sane dilecti gaudium moestitiam desolatorum; et tolerabilius fiat nobis quod nobiscum non est, quia cum Deo est. Fretus ergo orationibus vestris, volo in lucem, si possum, prodere quidquid illud est, quod opertum illis pellibus sentio, quae in exemplum decoris sponsae productae sunt. Hoc, si recolitis, tactum fuit, sed indiscussum remansit: porro discussum et declaratum, quomodo nigra sit sicut tabernacula Cedar. Quomodo ergo sicut pelles Salomonis formosa (Cant. I, 4) , quasi vero Salomon in omni gloria sua quidquam habuerit condignum decore sponsae, et gloria ornatus ejus? Et quidem si non ad decorem sponsae, sed ad nigredinem potius nescio quas pelles istas, sicut et tabernacula Cedar respicere diceremus, fortassis competeret, nec deesset unde id congruere monstraremus, sicut et monstrabimus. At vero si sponsae claritati quarumcunque decorem pellium comparandum putamus, hic prorsus opus nobis est ejus ad quem pulsastis auxilio, quatenus mysterium hoc digne aperire possimus. Quid namque eorum quae in facie lucent, si internae cujuspiam sanctae animae

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pulchritudini comparetur, non vile ac foedum recto appareat aestimatori? Quid, inquam, tale in se ostendit ea quae praeterit figura hujus mundi, quod aequare speciem animae possit illius, quae exuta terreni hominis vetustatem, ejus qui de coelo est, decorem induit, ornata optimis moribus pro monilibus, ipso purior sicut et excelsior aethere, sole splendidior? Noli ergo respicere ad istum Salomonem, cum indagare cupis cujusmodi se pellibus similem in decore sponsa glorietur. 2. Quid est ergo quod dicit: Formosa sum sicut pelles Salomonis? Magnum et mirabile quiddam, ut ego aestimo: si tamen non hunc, sed illum hic attendamus, de quo dicitur: Ecce plus quam Salomon hic (Matth. XII, 42) . Nam usque adeo is meus Salomon est, ut non modo pacificus (quod quidem Salomon interpretatur), sed et pax ipsa vocetur, Paulo perhibente quia ipse est pax nostra (Ephes. II, 14) . Apud istum Salomonem non dubito posse inveniri quod decori sponsae omnino comparare non dubitem. Et praesertim de pellibus ejus adverte in Psalmo: Extendens, ait, coelum sicut pellem (Psal. CIII, 2) . Non ille profecto Salomon, etsi multum sapiens, multumque potens, extendit coelum sicut pellem; sed is potius qui non tam sapiens quam ipsa Sapientia est, ipse prorsus extendit et condidit. Istius siquidem, et non illius illa vox est: Quando praeparabat coelos, haud dubium quin Deus Pater, ego aderam. Aderat sine dubio praeparanti coelos sua virtus, suaque sapientia. Nec putes astitisse otiosam, et quasi ad spectandum solummodo, quia dixit, aderam, non etiam, praeparabam. Respice paulisper inferius, et invenies aperte subjungentem, quia eram cum eo componens omnia (Prov. VIII, 27-30) . Denique ait: Quaecunque enim Pater facit, haec et Filius similiter facit (Joan. V, 19) . Et ipse itaque extendit coelum sicut pellem. Pulcherrima pellis, quae in modum magni cujusdam tentorii universam operiens faciem terrae, solis, lunae atque stellarum varietate tam spectabili humanos oblectat aspectus. Quid hac pello formosius? quid 1361 ornatius coelo? Minime tamen vel ipsum ullatenus conferendum gloriae et decori sponsae, eo ipso succumbens, quod praeterit et haec figura ipsius, utpote corporea, et corporeis subjacens sensibus. Quae enim videntur, temporalia sunt; quae autem non videntur, aeterna (II Cor. IV, 18) . 3. Sed est rationalis quaedam sponsae species, et spiritualis effigies; ipsaque aeterna, quia imago aeternitatis. Decor ejus, verbi gratia, charitas est, et charitas, sicut legitis, nunquam excidit (I Cor. XIII, 8) . Est certe et justitia: Et justitia ejus, inquit, manet in saeculum saeculi (Psal. CXI, 3) . Est etiam patientia; et legitis nihilominus quia patientia pauperum non peribit in finem (Psal. IX, 19) . Quid voluntaria paupertas? quid humilitas? Nonne altera regnum aeternum (Matth. V, 3) , altera aeque exaltationem promeretur aeternam? (Luc. XIV, 11.) Eo quoque spectat et timor Domini sanctus, permanens in saeculum saeculi (Psal. XVIII, 10) . Sic prudentia, sic temperantia, sic fortitudo, et si quae sunt virtutes aliae, quid nisi margaritae sunt quaedam in sponsae ornatu, splendore perpetuo coruscantes? Perpetuo, inquam, quia sedes et fundamentum perpetuitatis. Nec enim perpetuae beataeque vitae omnino locus in anima est, nisi mediis quidem interjectisque virtutibus. Unde Propheta Deo, qui utique vita beata est: Justitia, inquit, et judicium praeparatio sedis tuae (Psal. LXXXVIII, 15) . Et Apostolus dicit: Christum habitare, non omni modo quidem, sed signanter per fidem in cordibus nostris (Ephes. III, 17) . Domino quoque sessuro super asellum, vestes suas discipuli substraverunt (Matth. XXI, 7, 8) ; significantes Salvatorem seu salutem nequaquam insidere nudae animae, quam non videlicet vestitam invenerit doctrina et moribus apostolorum. Et ideo Ecclesia promissionem habens futurae felicitatis, curat interim praeparare et praeornare se in vestitu deaurato, circumdata varietate (Psal. XLIV, 10) gratiarum atque virtutum, quo digna et capax plenitudinis gratiae inveniatur. 4. Caeterum spirituali huic tam pulchrae varietati, quam de prima interim stola in quadam veste suae sanctificationis accepit, nullo pacto ego comparaverim in decore coelum hoc visibile atque corporeum, quamvis in suo genere quidem siderea varietate pulcherrimum. Sed est coelum coeli, de quo Propheta: Psallite, inquit, Domino, qui ascendit super coelum coeli ad orientem (Psal. LXVII, 33, 34) . Et hoc coelum intellectuale ac spirituale: et qui fecit coelos in intellectu (Psal. CXXXV, 5) , creavit illud et statuit in sempiternum, ipsumque inhabitat. Ne vero putes sponsae devotionem citra illud remanere coelum, in quo scit habitare dilectum: ubi enim thesaurus ejus, ibi et cor ejus (Matth. VI, 21) . Aemulatur sane assistentes vultui ad quem suspirat, et quibus se interim non valet videndo associare, studet conformare vivendo, moribus magis, quam vocibus clamans: Domine, dilexi decorem domus tuae, et locum habitationis gloriae tuae (Psal. XXV, 8) .

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5. Prorsus de hoc coelo minime sibi indignum ducit ducere similitudinem. Hoc extentum sicut pellis, non spatiis tamen locorum, sed affectibus animorum; hoc miris variisque artificis distinctum operibus. Divisiones autem sunt, non colorum, sed beatitudinum. Nam alios quidem posuit angelos; alios autem, archangelos; alios vero, virtutes; alios, dominationes; alios, principatus; alios, potestates; alios, thronos; alios cherubin, atque alios seraphin. Sic stellatum coelum hoc; sic depicta haec pellis. Haec una de pellibus mei Salomonis, et haec praecipua in omni ornatu multiformis gloriae ejus. Habet autem grandis ista pellis quamplurimas in se aeque Salomonis pelles, quoniam unusquisque beatus et sanctus, qui ibi est, pellis est utique Salomonis. Benigni siquidem sunt atque extenti in charitate, pertingentes usque ad nos, quibus gloriam, quam habent, 1362 non invident, sed optant; ita ut ex ipsis hujus rei gratia demorari apud nos non graventur, seduli circa nos, et curam gerentes nostri, omnes administratorii spiritus, missi in ministerium propter eos qui haereditatem capiunt salutis (Hebr. 1, 14) . Quamobrem sicut coelum coeli singulariter dicitur universa illa multitudo collecta beatorum; sic et coeli coelorum propter singulos, qui utique coeli sunt, nominantur, et ad singulos spectat quod dicitur: Extendens coelum sicut pellem (Psal. CIII, 2) . Viderie, credo, quaenam illae pelles, et cujus sint Salomonis, de quarum sponsa similitudine gloriatur. 6. Nunc jam intueamini ejus gloriam, quae et coelo se comparat, et illi coelo, quod tanto est gloriosius, quanto divinius. Nec immerito usurpat inde similitudinem, unde originem ducit. Nam si propter corpus, quod de terra habet, tabernaculis Cedar se assimilat, cur non et propter animam, quae de coelo est, coelo aeque similem se esse glorietur, praesertim cum vita testetur originem, testetur naturae dignitatem et patriae? Unum Deum adorat et colit, quo modo angeli, Christum super omnia amat, quo modo angeli, casta est, quo modo angeli, idque in carne peccati et fragili corpore, quod non angeli, quaerit postremo, et sapit quae apud illos sunt, non quae super terram. Quod evidentius coelestis insigne originis, quam ingenitam, et in regione dissimilitudinis, retinere similitudinem, gloriam vitae caelibis in terra, et ab exsule, usurpari, in corpore denique pene bestiali vivere angelum? Coelestis sunt ista potentiae, non terrenae, et quod vere de coelo sit anima quae haec potest, aperte indicant. Audi tamen apertius: Vidi, inquit, civitatem sanctam Jerusalem novam, descendentem de coelo, a Deo paratam, tanquam sponsam ornatam viro suo; et addidit: Et audivi vocem magnam de throno dicentem: Ecce tubernaculum Dei cum hominibus, et habitabit cum eis (Apoc. XXI, 2, 3) . Ad quid? Credo ut sibi acquirat sponsam de hominibus. Mira res! Ad sponsam veniebat, et absque sponsa non veniebat. Quaerebat sponsam, et sponsa cum ipso erat. An duae erant? Absit! Una est enim, ait, columba mea. Sed sicut de diversis ovium gregibus unum facere voluit, ut sit unum ovile, et unus pastor (Joan. X, 16) , ita cum haberet sponsam inhaerentem sibi a principio multitudinem angelorum, placuit ei et de hominibus convocare Ecclesiam, atque unire illi quae de coelo est, ut sit una sponsa, et sponsus unus. Ergo ex adjecta ista, perfecta est illa, non duplicata, et agnoscit de se dictum: Una est perfecta mea (Cant. VI, 8) . Porro unam conformitas facit, nunc quidem in simili devotione, postea vero et in pari gloria. 7. Habes itaque utrumque de coelo, et sponsum, scilicet Jesum, et sponsam, Jerusalem. Et ille quidem ut videretur, semetipsum exinanivit formam servi accipiens, in similitudinem hominum factus, et habitu inventus ut homo (Philipp. II, 7) . At illam in quanam, putamus, forma seu specie, aut in quo habitu videlicet descendentem vidit ille qui vidit? An forte in frequentia angelorum, quos vidit descendentes et ascendentes super Filium hominis? (Joan. I, 51.) Sed melius dicimus quod sponsam tunc viderit, cum Verbum in carne vidit, agnoscens duos in carne una. Dum enim sanctus ille Emmanuel terris intulit magisterium disciplinae coelestis, dum supernae illius Jerusalem, quae est mater nostra, visibilis quaedam imago et species decoris ejus per ipsum nobis et in ipso expressa innotuit: quid nisi in sponso sponsam perspeximus, unum eumdemque Dominum gloriae admirantes, et sponsum decoratum corona, et sponsam ornatam monilibus suis? Ipse igitur qui descendit, ipse est et qui ascendit, ut nemo ascendat in coelum, nisi qui de coelo descendit, unus idemque Dominus, et sponsus in capite, 1363 et sponsa in corpore. Nec frustra in terris visus est homo coelestis, cum de terrenis coelestes quamplurimos fecerit sibi similes, ut sit quod legitur: Qualis coelestis, tales et coelestes (I Cor. XV, 48) . Extunc igitur in terra vivitur more coelestium, dum instar supernae illius beataeque creaturae, haec quoque, quae a finibus terrae venit audire sapientiam Salomonis, coelesti viro nihilominus casto inhaeret amore, etsi necdum quomodo illa juncta per speciem, tamen sponsata per fidem, juxta promissum Dei dicentis per prophetam: Sponsabo te mihi in misericordia et miserationibus, et sponsabo te mihi in fide (Ose. II, 19) . Unde magis magisque conformari satagit formae, quae de coelo

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venit, discens ab ea verecunda esse et sobria, discens pudica et sancta, discens patiens atque compatiens, postremo discens mitis et humilis corde. Et ideo moribus hujuscemodi contendit et absens placere ei, in quem angeli prospicere concupiscunt, ut dum desiderio fervet angelico, probet se proinde civem sanctorum, et domesticam Dei, probet dilectam, probet sponsam. 8. Ego puto omnem animam talem non modo coelestem esse propter originem, sed et coelum ipsum posse non immerito appellari propter imitationem. Et tunc liquido ostendit quia vere origo ipsius de coelis est, cum conversatio ejus in coelis est. Est ergo coelum sancta aliqua anima, habens solem intellectum, lunam fidem, astra virtutes. Vel certo sol, justitiae zelus aut fervens charitas; et luna continentia. Quomodo enim claritas, ut aiunt, lunae nonnisi a sole est, sic absque charitate seu justitia continentiae meritum nullum est. Hinc denique Sapiens: O quam pulchra est, inquit, casta generatio cum charitate! (Sap. IV, 1.) Porro stellas dixisse virtutes non me poenitet, considerantem congruentiam similitudinis. Quo modo nempe stellae in nocte lucent, in die latent, sic vera virtus, quae saepe in prosperis non apparet, eminet in adversis. Illud sane cautelae est, hoc necessitatis. Ergo virtus est sidus, et homo virtutum, coelum. Nisi quis forte cum Deum, per prophetam dixisse legit: Coelum mihi sedes est (Isa. LXVI, 1) ; coelum hoc volubile visibileque intelligendum existimet, et non potius illud, de quo alibi apertius Scriptura commemorat: Anima, inquiens, justi sedes est sapientiae. Qui autem ex doctrina Salvatoris sapit spiritum esse Deum, atque in spiritu adorandum (Joan. IV, 24) ; etiam sedem ei non ambigit assignare spiritualem. Ego vero fidenter id fecerim, non minus in hominis justi, quam in angelico spiritu. Confirmat me in hoc sensu maxime illa fidelis promissio: Ego et Pater, ait Filius, ad eum, id est ad sanctum hominem, veniemus et mansionem apud eum faciemus (Joan. XIV, 23) . Prophetam quoque non de alio dixisse coelo arbitror: Tu autem in sancto habitas, laus Israel (Psal. XXI, 4) . Manifeste autem Apostolus dicit habitare Christum per fidem in cordibus nostris (Ephes. III, 17) . 9. Nec mirum, si libenter inhabitat coelum hoc Dominus Jesus, quod utique, non quomodo caeteros, dixit tantum ut fieret, sed pugnavit ut acquireret, occubuit ut redimeret. Ideo et post laborem voto potitus, ait: Haec requies mea in saeculum saeculi; hic habitabo, quoniam elegi eam (Psal. CXXXI, 14) . Et beata cui dicitur: Veni, electa mea, et ponam in te thronum meum. Quid tu tristis es nunc, o anima mea, et quare conturbas me? Putasne et tu penes te invenias locum Domino? Et quis nobis locus in nobis huic idoneus gloriae, sufficiens majestati? Utinam vel merear adorare in loco ubi steterunt pedes ejus. Quis dabit mihi saltem vestigiis adhaerere sanctae cujuspiam animae, quam elegit in habitationem sibi? Tamen, si dignetur infundere et meam animam unctione misericordiae suae, atque ita extendere sicut pellem, quae utique cum ungitur dilatatur, quatenus et ego dicere valeam: Viam mandatorum tuorum cucurri, cum dilatasti cor meum (Psal. CXVIII, 32) ; potero etiam ipse fortassis ostendere in me ipso, etsi non coenaculum grande stratum, ubi possit recumbere cum discipulis suis; attamen ubi saltem reclinet caput. A longe suspicio illos certe beatos, de quibus dicitur: Et inhabitabo in eis, et deambulabo in illis (II Cor. VI, 16) . 10. O quanta illi animae latitudo, quanta et meritorum praerogativa, quae divinam in se praesentiam, et digna invenitur suscipere, et sufficiens capere! Quid illa, cui et spatiosa suppetunt deambulatoria, ad opus quidem majestatis? Non est profecto intricata forensibus causis curisve saecularibus, nec certe ventri et luxuriae dedita; sed nec curiosa spectandi, seu cupida omnino dominandi, vel etiam tumida dominatu. Oportet namque primo quidem his omnibus vacuam esse animam, ut coelum fiat atque habitatio Dei. Alioquin quomodo poterit vacare, et videre quoniam ipse est Deus? Sed et odio sive invidiae aut rancori minime prorsus indulgendum, quoniam in malevolam animam non introibit sapientia (Sap. I, 4) . Deinde necesse est eam crescere ac dilatari, ut sit capax Dei. Porro latitudo ejus, dilectio ejus, sicut dicit Apostolus: Dilatamini in charitate (II Cor. VI, 13) . Nam etsi anima minime, cum sit spiritus, quantitatem corpoream recipit; tamen confert illi gratia quod negatum est a natura. Crescit quidem et extenditur, sed spiritualiter; crescit non in substantia, sed in virtute; crescit et in gloria; crescit etiam in templum sanctum in Domino; crescit denique et proficit in virum perfectum, in mensuram aetatis plenitudinis Christi (Ephes. IV, 13) . Ergo quantitas cujusque animae aestimetur de mensura charitatis quam habet, ut verbi gratia, quae multum habet charitatis, magna sit; quae parum, parva; quae vero nihil, nihil, dicente Paulo; Si charitatem non habuero, nihil sum (I Cor. XIII, 3) . Quod si quantulamcunque habere coeperit, ut saltem diligentes se diligere curet, ac salutare vel fratres suos, et eos qui se salutant; jam nonnihil quidem illam animam dixerim, quae in ratione dati

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et accepti socialem saltem retinet charitatem. Verumtamen juxta sermonem Domini, quid amplius facit? (Matth. V, 47.) Nec amplam proinde, nec magnam, sed plane angustam modicamque censuerim animam, quam adeo modicae charitatis esse cognoverim. 11. At si grandescat et proficiat, ita ut transiens limitem angusti obnoxiique amoris hujus, latos fines bonitatis gratuitae tota libertate spiritus apprehendat, quatenus largo quodam gremio bonae voluntatis ad omnem seipsam curet extendere proximum, diligendo unumquemque tanquam seipsam; nunquid jam illi recte dicetur: Quid amplius facis? quippe quae seipsam tam amplam facit. Amplum, inquam, gerit charitatis sinum, quae complectitur universos, etiam quibus nulla se novit carnis necessitudine junctam, nulla spe percipiendi commodi cujusquam illectam, nulla percepti redhibitione obnoxiam, nullo denique omnino astrictam debito, nisi illo sane, de quo dicitur: Nemini quidquam debeatis, nisi ut invicem diligatis (Rom. XIII, 8) . Verum si adjicias etiam usquequaque vim facere regno charitatis, ut usque ad ultimos ejus terminos occupare illud pius invasor praevaleas, dum ne inimicis quidem claudenda viscera pietatis existimes; benefacias his quoque qui te oderunt, ores et pro persequentibus ac calumniantibus te, nec non et cum his qui oderunt pacem esse pacificus studeas: tunc prorsus latitudo coeli, latitudo tuae animae; et altitudo non dispar, sed nec dissimilis pulchritudo; impleturque tunc demum in ea quod dicitur: Extendens coelum sicut pellem (Psal. CIII, 2) : in quo jam mirae latitudinis, altitudinis, ac pulchritudinis coelo summus et immensus atque gloriosus, non modo dignanter habitat, sed et spatiose deambulat. 12. Videsne quales in se habeat Ecclesia coelos, cum sit nihilominus ipsa, in sua quidem universitate, ingens quoddam coelum, extentum a mari usque ad mare, et a flumine usque ad terminos orbis terrarum? Vide etiam consequenter, cui et in hoc ipso assimiles eam, si tamen non tibi excidit illud quod paulo ante memoratum est hujus rei exemplar, de coelo videlicet coeli, et coelis coelorum (Supra num. 9) . Ergo exemplo illius quae sursum est mater nostra, haec quoque quae adhuc peregrinatur, habet coelos suos, homines spirituales, vita et opinione conspicuos, fide puros, spe firmos, latos charitate, contemplatione suspensos. Et hi pluentes pluviam verbi salutarem, tonant increpationibus, coruscant miraculis. Hi enarrant gloriam Dei, hi extenti sicut pelles super omnem terram, legem vitae et disciplinae digito quidem Dei scriptam in semetipsis ostendunt, ad dandam scientiam salutis plebi ejus: ostendunt et Evangelium pacis, quoniam Salomonis sunt pelles. 13. Agnosce jam in his pellibus supernarum illarum imaginem, quae in sponsi ornatu non longe superius describebantur (Supra num. 3) . Agnosce similiter et reginam astantem a dextris ejus, circumamictam similibus ornamentis, non tamen paribus (Psal. XLIV, 10) . Nam etsi huic etiam in loco peregrinationis suae, et in die virtutis suae, in splendoribus sanctorum, non minima claritatis atque decoris est portio; differenter tamen illum coronat integritas et consummatio gloriae beatorum. Quanquam et sponsam dixerim perfectam atque beatam, sed ex parte. Nam ex parte tabernaculum Cedar; formosa tamen, sive in illa portione sui, quae jam beata regnat; sive etiam in illustribus viris, quorum, etiam in hac nocte, sua sapientia atque virtutibus, tanquam coelum suis sideribus, adornatur. Unde propheta: Qui docti, inquit, fuerint, fulgebunt quasi splendor firmamenti; et qui ad justitiam erudiunt multos, quasi stellae in perpetuas aeternitates (Dan. XII, 3) . 14. O humilitas! o sublimitas! Et tabernaculum Cedar, et sanctuarium Dei; et terrenum habitaculum, et coeleste palatium; et domus lutea, et aula regia; et corpus mortis, et templum lucis; et despectio denique superbis, et sponsa Christi. Nigra est, sed formosa, filiae Jerusalem: quam etsi labor et dolor longi exsilii decolorat, species tamen coelestis exornat, exornant pelles Salomonis. Si horretis nigram, miremini et formosam; si despicitis humilem, sublimem suspicite. Hoc ipsum quam cautum, quam plenum consilii, plenum discretionis et congruentiae est, quod in sponsa dejectio ista, et ista celsitudo, secundum tempus quidem, eo moderamine sibi pariter contemperantur, ut inter mundi hujus varietates et sublimitas erigat humilem, ne deficiat in adversis; et sublimem humilitas reprimat, ne evanescat in prosperis? Pulchre omnino ambae res, cum ad invicem contrariae sint, sponsae tamen pariter cooperantur in bonum, subserviunt in salutem. 15. Et haec pro eo quod sponsa videtur de pellibus Salomonis inducere similitudinem. Restat tamen aperiendus ille super eodem capitulo sensus, quem in principio commemoravi et promisi, qualiter videlicet tota ad solam nigredinem similitudo referatur: qua quidem non estis promissione fraudandi. Caeterum id

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differendum in aliud sermonis principium; tum quia hoc jam hujus flagitat longitudo; tum etiam ut praeveniat ex more oratio ea, quae in laudem et gloriam sunt referenda sponsi Ecclesiae Jesu Christi Domini nostri, qui est Deus benedictus in saecula saeculorum. Amen. SERMO XXVIII. De nigredine et formositate sponsi, et quomodo auditus potius quam visus valeat in rebus fidei, et ad notiiam veritatis. 1. Tenetis, credo, cujus et quibus Salomonis pellibus decorem sponsae sentiam comparatum, si tamen ad ostensionem commendationemque referatur decoris data ex his similitudo. At si ad nigredinem magis referenda putetur, sicut et illa de tabernaculis Cedar: non equidem aliunde occurrit mihi quidquam de hujusmodi pellibus Salomonis, nisi quas forte rex in usum tabernaculi soleret assumere, si quando in tentoriis habitare liberet; quas utique, si quae tamen fuerunt, obscuras sine dubio et tetras esse necesse fuit, tanquam quae quotidiano forent expositae soli, et frequentium injuriis pluviarum. Neque id frustra, sed ut is qui intus repositus erat ornatus, nitidior servaretur. Hoc exemplo sponsa non negat nigredinem, sed excusat; nec probro ducit qualemcunque habitum, quem charitas formet, judicium veritatis non improbet. Denique quis infirmatur, cum quo non infirmetur? quis scandalizatur, et non uritur? (II Cor. XI, 29.) Induit se compassionis naevum, ut morbum in altero passionis levet, vel sanet; nigrescit candoris zelo, lucro pulchritudinis. 2. Multos candidos facit unius denigratio, non cum tingitur culpa, sed cum cura afficitur. Expedit, inquit, ut unus moriatur homo pro populo, et non tota gens pereat (Joan. XI, 50) : expedit ut unus pro omnibus denigretur similitudine carnis peccati, et non tota gens nigredine condemnetur peccati: splendor et figura substantiae Dei obnubiletur in forma servi pro vita servi: candor vitae aeternae nigrescat in carne, pro carne purganda: speciosus forma prae filiis hominum, pro filiis hominum illuminandis obscuretur in passione, turpetur in cruce, palleat in morte: ex toto non sit ei species neque decor, ut sibi speciosam atque decoram acquirat sponsam Ecclesiam sine macula et sine ruga. Agnosco pellem Salomonis, imo ipsum in pelle nigra Salomonem amplector. Habet et Salomon nigredinem, sed in pelle; foris niger, in cute niger, non intus: alioquin omnis gloria ejus filiae regis ab intus (Psal. XLIV, 3, 14) . Intus divinitatis candor, decor virtutum, splendor gloriae, innocentiae puritas: sed tegit haec despicabilior infirmitatis color; et quasi absconditus vultus ejus et despectus, dum tentatur per omnia pro similitudine absque peccato. Agnosco denigratae formam naturae; agnosco tunicas illas pelliceas, protoplastorum peccantium habitum (Gen. III, 21) . Denique semetipsum denigravit formam servi accipiens, in similitudinem hominum factus, et habitu inventus ut homo (Philipp. II, 7) . Agnosco sub pelle haedi, qui peccatum significat, et manum quae peccatum non fecit, et collum per quod mali cogitatio non transivit; ideoque non est inventus dolus in ore ejus (Isa. LIII, 9) . Novi quod sis lenis natura, mitis et humilis corde, blandus aspectu, suavis spiritu, et quidem unctus oleo laetitiae prae consortibus tuis (Psal. XLIV, 8) . Unde ergo nunc ad instar Esau pilosus et hispidus? Cujusnam rugosa et tetra imago haec, et unde hi pili? Mei sunt: nam pilosae manus similitudinem exprimunt peccatoris. Meos agnosco hos pilos; et in pelle mea video Deum Salvatorem meum. 3. Non tamen Rebecca sic illum induit, sed Maria; tanto digniorem qui benedictionem acciperet, quanto sanctior quae peperit. Et bene in meo habitu; quia mihi benedictio vindicatur, mihi postulatur haereditas. Siquidem audierat: Postula a me, et dabo tibi gentes haereditatem tuam, et possessionem tuam terminos terrae (Psal. II, 8) . Tuam, inquit, haereditatem, tuamque possessionem dabo tibi. Quomodo dabis ei, si sua est? Et quomodo suam mones ut postulet? aut quomodo sua, si necesse habet ut postulet? Mihi proinde postulat, qui meam ad hoc induit formam, ut suscipiat causam. Quippe disciplina pacis nostrae super eum, dicente propheta, et Dominus in eo posuit iniquitatem omnium nostrum (Isa. LIII, 5, 6) : unde debuit fratribus per omnia similari, sicut ait Apostolus, ut misericors fieret (Hebr. II, 17) . Propterea vox quidem, vox Jacob est; manus autem, manus sunt Esau (Gen. XXVII, 22) . Suum est quod auditur ex eo: quod in eo videtur, nostrum. Quod loquitur, spiritus et vita est: quod apparet, mortale et mors. Aliud cernitur, et aliud creditur. Nigrum sensus renuntiat, fides candidum et formosum probat. Niger est, sed oculis insipientium: nam fidelium mentibus formosus valde: niger est, sed formosus: niger reputatione Herodis, formosus confessione latronis, centurionis fide.

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4. Quam formosum adverterat qui exclamavit: Vere homo hic Filius Dei erat! Sed in quo advertit, advertendum. Si enim attenderet quod apparebat, quomodo formosus, quomodo Filius Dei? Quid nisi deforme et nigrum oculis spectantium occurrebat, cum expansis in cruce manibus medius duorum nequam, risum malignantibus daret, fletum fidelibus? Et solus erat risui, qui solus poterat esse terrori, solus honori debuerat. Unde igitur advertit pulchritudinem Crucifixi, et quod is sit Filius Dei, qui cum iniquis reputatus est? (Isa. LIII, 12.) Respondere aliquid ad id nostrum nec fas, nec opus est; nec enim evangelistae hoc diligentia praeteriit. Sic enim habes: Videns autem centurio qui ex adverso stabat, quia sic clamans exspirasset, ait: Vere hic homo Filius Dei erat (Marc. XV, 39) . Ergo ad vocem credidit, ex voce agnovit Filium Dei, et non ex facie. Erat enim fortasse ex ovibus ejus, de quibus ait: Oves meae vocem meam audiunt (Joan. X, 17). 5. Auditus invenit quod non visus; oculum species fefellit, auri veritas se infudit. Oculus pronun tiabat infirmum, oculus foedum, oculus miserum, oculus morte turpissima condemnatum; auri Dei Filius, auri formosus innotuit; sed non Judaeorum, quia erant incircumcisi auribus. Merito Petrus abscidit auriculam servi, ut viam faceret veritati, et veritas liberaret eum, id est liberum faceret. Erat ille centurio incircumcisus, sed non aure, qui ad unam exspirantis vocem sub tot infirmitatis indiciis Dominum majestatis agnovit. Ideoque non despexit quod vidit, quia credidit quod non vidit. Non autem credidit ex eo quod vidit; sed ex eo procul dubio quod audivit, quia fides ex auditu (Rom. X, 17) . Dignum quidem fuerat per superiores oculorum fenestras veritatem intrare ad animam; sed hoc nobis, o anima, servatur in posterum, cum videbimus facie ad faciem. Nunc autem unde irrepsit morbus, inde remedium intret, et per eadem sequatur vestigia vita mortem, tenebras lux, venenam serpentis antidotum veritatis; et sanet oculum qui turbatus est, ut serenus videat quem turbatus non potest. Auris prima mortis janua, prima aperiatur et vitae; auditus, qui tulit, reparet visum; quoniam nisi crediderimus, non intelligemus. Ergo auditus ad meritum, visus ad praemium. Unde Propheta, Auditui meo, inquit, dabis gaudium et laetitiam (Psal. L, 10) : quod fidelis retributio auditionis beata visio sit, et beatae meritum visionis fidelis auditio. Beati autem mundo corde, quoniam ipsi Deum videbunt (Matth. V, 8) . Porro, fide oportet mundari oculum qui videat Deum, quemadmodum habes: Fide mundans corda eorum (Act. XV, 9) . 6. Interim ergo, dum necdum paratus est visus, auditus excitetur, auditus exercitetur, auditus excipiat veritatem. Felix, cui Veritas attestatur, dicens: In auditu oris obedivit mihi (Psal. XVII, 45). Dignus qui videam, si priusquam videam, obedisse inveniar; securus videbo, ad quem meae obedientiae munus praecesserit. Quam beatus qui ait: Dominus Deus aperuit mihi aurem, et ego non contradico, retrorsum non abii (Isa. L, 5) . Ubi et voluntariae habes obedientiae formam, et longanimitatis exemplum. Qui enim non contradicit, spontaneus est; et qui retro non abiit, perseverat. Utrumque necessarium; 1368 quoniam hilarem datorem diligit Deus (II Cor. IX, 7) , et qui perseveraverit usque in finem, hic salvus erit (Matth. X, 22) . Utinam et mihi aperiat aurem Dominus, intret ad cor meum sermo veritatis, mundet oculum, et laetae praeparet visioni, ut dicam Deo etiam ipse: Praeparationem cordis mei audivit auris tua (Psal. IX, 17) ; ut audiam a Deo, etiam ipse cum caeteris obedientibus: Et vos mundi esti propter sermonem quem locutus sum vobis (Joan. XV, 3) . Nec omnes mundantur qui audiunt, sed qui obediunt: Beati qui audiunt, et custodiunt illud (Luc. XI, 28) . Talem requirit auditum qui mandat dicens: Audi, Israel (Deut. VI, 3) ; talem offert qui ait: Loquere, Domine, quia audit servus tuus (I Reg. III, 9) ; talem spondet qui dicit: Audiam quid loquatur in me Dominus Deus (Psal. LXXXIV, 9) . 7. Et ut scias etiam Spiritum sanctum hunc in animae spirituali profectu ordinem observare, ut videlicet prius formet auditum, quam laetificet visum: Audi, inquit, filia, et vide (Psal. XLIV, 11) . Quid intendis oculum? Aurem para. Videre desideras Christum? Oportet te prius audire eum, audire de eo, ut dicas cum videris: Sicut audivimus, sic vidimus (Psal. XLVII, 9) . Immensa claritas, visus augustus, et non potes ad eam. Potes auditu, sed non aspectu. Clamantem denique Deum: Adam, ubi es? (Gen. III, 9.) , non videbam jam peccator, audiebam tamen. Sed auditus aspectum restituet, si pius, si vigil, si fidelis praecesserit. Fides purgabit quem turbavit impietas; et quem inobedientia clausit, aperiet obedientia. Denique: A mandatis tuis, inquit, intellexi (Psal. CXVIII, 104) : quod intellectum reddat observatio mandatorum, quem tulit transgressio. Adverte adhuc in sancto Isaac quomodo prae caeteris sensibus auditus in jam sene viguerit. Caligant oculi patriarchae, palatum seducitur, fallitur manus, non fallitur auris. Quid mirum, si auris percipit

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veritatem, cum fides ex auditu, auditus per verbum Dei (Rom. X, 17) , verbum Dei veritas sit? Vox, inquit, vox Jacob est. Nihil verius. Manus autem manus sunt Esau (Gen. XXVII, 22) . Nihil falsius. Falleris: manus similitudo decepit te. Nec in gustu veritas, etsi suavitas est. Nam quomodo habet veritatem qui se putat edere venationem, cum domesticis vescatur haedorum carnibus? Multo minus oculus qui nihil videt. Non est veritas in oculo, non sapientia. Vae qui sapientes estis, ait, in oculis vestris! (Isa. V, 21.) Non bona sapientia, cui maledicitur. Mundi est, ac per hoc stultitia apud Deum (I Cor. III, 19). 8. Bona et vera sapientia trahitur de occultis, ut sapit beatus Job (Job XXVIII, 18) . Quid foris eam quaeris in corporis sensu? Sapor in palato, in corde sapientia est. Non quaeras sapientiam in oculo carnis, quia caro et sanguis non revelat eam, sed spiritus (Matth. XVI, 17) . Non in gustu oris: nec enim invenitur in terra suaviter viventium (Job XXVIII, 13) . Non in tactu manus, cum sanctus dicat: Si osculatus sum manum meam ore meo, quod est iniquitas maxima, et negatio in Deum (Job XXXI, 27, 28) . Quod tunc fieri arbitror, cum donum Dei, quod est sapientia, non Deo, sed meritis ascribitur actionum. Sapiens fuit Isaac, sed tamen erravit in sensibus. Solus habet auditus verum, qui percipit verbum. Merito carnem redivivam Verbi tangere prohibetur mulier carnaliter sapiens; plus quippe tribuens oculo quam oraculo, id est carnis sensui quam verbo Dei. Quem enim mortuum vidit, resuscitatum non credidit, cum tamen hoc promiserit ipse. Denique non quievit oculus, usque dum satiatus est visus; quoniam non erat consolatio fidei, nec Dei rata promissio. Nonne coelum et terra, et quidquid omnino carnis oculus attingere potest, ante habent transire et perire, quam iota unum aut unus apex ex omnibus quae locutus est Deus? Et tamen cessavit a fletu in visu oculi, quae noluit consolari in verbo Domini; pluris habens experimentum, quam fidem. At experimentum fallax. 9. Mittitur ergo ad certiorem fidei cognitionem; quae utique apprehendit quod sensus nescit, experimentum non invenit. Noli me tangere, inquit: hoc est: Dissuesce huic seducibili sensui; innitere verbo, fidei assuesce. Fides nescia falli, fides invisibilia comprehendens, sensus penuriam non sentit. denique transgreditur fines etiam rationis humanae, naturae usum, experientiae terminos. Quid interrogas oculum ad quod non sufficit? Et manus quid explorare conatur quod supra ipsam est? Minus est quidquid ille vel illa renuntiet. Sane fides pronuntiet de me, quae majestati nihil minuat. Disce id habere certius, id tutius sequi, quod illa suaserit. Noli me tangere, nondum enim ascendi ad Patrem meum (Joan. XX, 17) . Quasi vero cum jam ascenderit, tunc tangi ab ea velit aut possit. Et utique poterit, sed affectu, non manu; voto, non oculo; fide, non sensibus. Quid tu me, ait, modo tangere quaeris, quae sensu corporis gloriam aestimas resurrectionis? Nescis quod tempore adhuc meae mortalitatis transfigurati ad horam morituri corporis gloriam oculi discipulorum sustinere nequiverint? (Matth. XVII, 6.) Adhuc quidem tuis sensibus gero morem, formam ingerendo servilem, quam de consuetudine recognoscas. Caeterum mirabilis facta et gloria mea ex te, confortata est, et non poteris ad eam. Differ ergo judicium, suspende sententiam, et tantae rei definitionem ne credas sensui, fidei reservato. Illa dignius, illa definiet certius, quae plenius comprehendet. Denique comprehendit suo illo mystico ac profundo sinu, quae sit longitudo, latitudo, sublimitas et profundum. Quod oculus non vidit, nec auris audivit, nec in cor hominis ascendit, illa in se quasi quodam involucro clausum portat, servatque signatum. 10. Illa igitur digne me tanget, quae Patri consedentem suscipiet, non jam in humili habitu, sed in coelesti: carne ipsa, sed altera specie. Quid deformem vis tangere? Exspecta ut formosum tangas. Nam qui deformis modo, tunc formosus; deformis tactui, deformis aspectui; deformis denique deformi tibi, quae sensibus plus inhaeres, fidei minus. Esto formosa, et tange me; esto fidelis, et formosa es. Formosa formosum et dignius tanges, et felicius. Tanges manu fidei, desiderii digito, devotionis amplexu; tanges oculo mentis. At nunquid adhuc nigrum? Absit! Dilectus tuus candidus et rubicundus. Formosus plane quem circundant flores rosarum, et lilia convallium; hoc est, martyrum, virginumque chori: et qui medius resideo, utrique non dissideo choro, virgo et martyr. Quomodo denique candidis non congruo virginum choris, virgo, Virginis filius, virginisque sponsus? Quomodo non roseis martyrum, causa, virtus, fructus et forma martyrii? Talem talis taliterque tange, et dic: Dilectus meus candidus et rubicundus, electus ex milibus (Cant. V, 10) . Millia millium cum dilecto, et decies centena millia circa dilectum, et nemo ad dilectum. Num tibi verendum erit, ne forte in quempiam de multitudine errore incidas, quaerendo quem diligis? Non prorsus ambiges quemnam eligas. Facile occurret electus e millibus, cunctis insignior, et dices: Iste formosus in stola sua, gradiens in multitudine fortitudinis suae (Isa. LXIII, 1) . Non ergo in pelle nigra, quae hactenus sane

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ingerenda fuit oculis persequentium, ut contemnerent occidendum; aut etiam amicorum, et recognoscerent redivivum. Non, inquam, jam in pelle occurret nigra, sed in veste alba, speciosus forma, non modo prae filiis hominum, sed etiam prae vultibus angelorum. Quid me vis tangere in humili habitu, servili forma, specie contemptibili? Tange coelesti decorum specie, gloria et honore coronatum; divina quidem majestate tremendum, sed ingenita serenitate gratum ac placidum. 11. Inter haec advertenda prudentia sponsae, et profunditas sermonum ejus, quae sub figura pellium Salomonis, scilicet in carne, rimata est Deum, in morte vitam; summam gloriae et honoris inter opprobria, et sub nigro denique habitu crucifixi candorem innocentiae, splendoremque virtutum, sicut illae utique pelles, cum essent nigrae atque despectae, pretiosa et praecandida praedivitis regis in se ornamenta servabant. Merito nigredinem non contemnit in pellibus, decorem qui sub pellibus est advertens. Et ideo quidam illam contempserunt, quia hunc minime cognoverunt: si enim cognovissent, nunquam Dominum gloriae crucifixissent (I Cor. II, 8) . Non cognovit Herodes, et idcirco despexit; non cognovit Synagoga, quae nigredinem illi passionis et infirmitatis improperans, Alios, ait, salvos fecit, seipsum non potest salvum facere. Christus rex Israel descendat nunc de cruce, et credimus ei (Matth. XXVII, 42) . Sed cognovit latro de cruce, licet in cruce, qui et innocentiae puritatem confessus est. Hic autem, inquiens, quid mali fecit? et gloriam regiae majestatis simul est protestatus: Memento mei, dicens, dum veneris in regnum tuum (Luc. XXIII, 41, 42) . Cognovit centurio, qui Filium Dei clamat (Matth. XXVII, 54) ; cognoscit Ecclesia, quae et aemulatur nigredinem, ut decorem participet. Non confunditur nigra videri, nigra dici, ut dilecto dicat: Opprobria exprobrantium tibi ceciderunt super me (Psal. LXVIII, 10) . At sane nigra instar pellium Salomonis, foris scilicet, et non intus: neque enim intus nigredinem meus Salomon habet. Denique non ait: Nigra sum sicut Salomon; sed, sicut pelles Salomonis: quod in superficie tantum sit veri nigredo pacifici. Peccati nigredo intus est; et prius interiora culpa commaculat, quam ad oculos prodeat. Denique de corde exeunt cogitationes malae, furta, homicidia, adulteria, blasphemiae: et haec sunt quae coinquinant hominem (Matth. XV, 19, 20) ; sed absit ut Salomonem! Minime prorsus apud verum pacificum istiusmodi inquinamenta reperies. Oportet namque esse sine peccato eum qui tollit peccata mundi, quo ad reconciliandos peccatores inventus idoneus, jure sibi nomen vindicet Salomonis. 12. Sed est nigredo affligentis poenitentiae, cum assumitur lamentatio pro delictis. Hanc fortassis non abhorreat in me Salomon, si sponte tamen induam mihi pro peccatis meis; quia cor contritum et humiliatum Deus non despiciet (Psal. L, 19) . Est et afficientis compassionis, si afflicto condoleas; et fraternum te decoloret incommodum. Nec hanc profecto rejiciendam putat noster pacificus, quippe quam et sibi ipse pro nobis dignanter induit, qui peccata nostra tulit in corpore suo super lignum (I Petr. II, 24) . Est et persecutionis: quae etiam pro summo ornamento habetur, si quidem suscipiatur pro justitia et veritate. Unde est illud: Ibant gaudentes discipuli a conspectu concilii, quoniam digni habiti sunt pro nomine Jesu contumeliam pati (Act. V, 41) ; denique: Beati qui persecutionem patiuntur propter justitiam (Matth. V, 10) . Hac potissimum gloriari Ecclesiam arbitror, hanc libentius imitari de pellibus sponsi. Denique et habet in promissione: Si me persecuti sunt, et vos persequentur (Joan. XV, 20) . 13. Unde et addit sponsa: Nolite me considerare quod fusca sim, quia decoloravit me sol (Cant. I, 5) , hoc est: Nolite me notare quasi deformem, quia cernitis pro ingruente persecutione minus florentem, minus secundum gloriam saeculi coloratam. Quid exprobratis nigredinem, quam fervor persecutionis, non conversationis pudor invexit? Vel solem dicit zelum justitiae, quo ascenditur et accingitur adversus malignantes, dicens Deo: Zelus domus tuae comedit me (Psal. LXVIII, 10) ? et illud: Tabescere me fecit zelus meus, quia obliti sunt verba tua inimici mei; illud quoque: Defectio tenuit me pro peccatoribus derelinquentibus legem tuam (Psal. CXVIII, 139 53) ; item: Nonne qui oderunt te, Domine, oderam, et super inimicos tuos tabescebam? (Psal. CXXXVIII, 21.) Etiam illud Sapientis caute observat: Filiae, ait, tibi sunt? noli ostendere laetum vultum ad ipsas (Eccli. VII, 26) : ut scilicet remissis et mollibus et fugitantibus disciplinam, non candorem serenitatis, sed obscurum severitatis exhibeat. Vel decolorari a sole, est ignescere charitate fraterna, flere cum flentibus, cum infirmitantibus infirmari, uri ad scandala singulorum. Vel sic: Sol justitiae decoloravit me Christus, cujus amore languco. Languor iste, coloris quaedam exterminatio est, et defectus in desiderio animae: unde et dicit: Memor fui Dei, et delectatus sum, et exercitatus sum et defecit spiritus meus (Psal.

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LXXVI, 3) . Ergo, instar urentis solis, desiderii ardor peregrinantem in corpore decolorat, dum vultui gloriae inhiantem, impatientem facit repulsa, et excruciat amantem dilatio. Quis nostrum ita sancto amore ardet, ut desiderio videndi Christum, omnem colorem praesentis gloriae, laetitiaeque fastidiat et deponat, illa ei prophetica voce contestans: Et diem hominis non desideravi, tu scis (Jerem. XVII, 16) ; item cum sancto David: Renuit consolari anima mea (Psal. LXXVI, 7) ; id est, praesentium bonorum inani laetitia despicit colorari? Vel certe decoloravit me sol, sui nimirum comparatione splendoris, dum approprians illi, ex eo me obscuram deprehendo, nigram invenio, foedam despicio. Caeterum alias quidem formosa sum; quid fuscam dicitis, solius solis pulchritudini succumbentem? At sensui priori videntur magis assentire ea quae sequuntur. Adjiciens siquidem: Filii matris meae pugnaverunt contra me; persecutionem passam se esse aperte significat. Sed hinc aliud sermonis principium ordiemur, quoniam sufficere hac vice possunt, quae accepimus de gloria sponsi Ecclesiae Domini nostri Jesu Christi, dono ipsius, qui est Deus benedictus in saecula. Amen. 4. Guglielmo di Saint-Thyerri IN CANTICI CANTICORUM PRIORA DUO CAPITA BREVIS COMMENTATIO EX S. BERNARDI SERMONIBUS CONTEXTA, UBI DE TRIPLICI STATU AMORIS. 19. Recti diligunt te. Sunt jacentes, sunt erecti, sunt curvi, sunt recti. Jacentes nec timent, nec diligunt; curvi timent, non diligunt; recti diligunt. Orat ergo sponsa pro adolescentulis, ut quas adhuc in timere videt curvas, rectas videat in amore sponsi: ac si dicat, Video istas curvas, sed fac rectas, quia recti diligunt te. Aliter: videns sponsa adolescentulas sibi applaudentes, commendans istas, timet aliis; istis exsultantibus, illis invidentibus: ac si dicat, Istae sunt rectae, ideo diligunt te; et si diligunt me, non diligunt nisi in te. Docui enim eas non me diligere, sed te. Videns enim sponsa illarum se benevolentia praegravari, conversa ad sponsum, orat pro eis: Recti diligunt te. Sed de invidentibus quid faciamus? Conversa ad eas, et curam agens pro eis quae de pristina conversatione nonnunquam ei insultabant: Nigra, inquit, sum, sed formosa, filiae Jerusalem. Et nota ordinem charitatis. Cum de amore sponsi agit, tota quodammodo in eo liquescit: cum de adolescentulis, afficitur quadam compassione, et quasi una ex illis efficitur: cum de inimicis toto charitatis zelo pro eis zelatur. Nigra sum, sed formosa, filiae Jerusalem. O filiae Jerusalem, filiae pacis, pacem habete mecum, quae pacem habeo vobiscum. Exprobratio est ista vestra, non compassio. Nigra quidem sum ex pristina conversatione, sed formosa ex pura confessione, et recta intentione. Duo quippe sunt quae faciunt nigram, duo quae formosam. Nigram, mala conversatio, et distorta intentio: formosam, innocens conversatio, et recta intentio. Quae sic sunt in anima, sicut sunt in corpore pulcher color, et bona formae compositio. Quae autem non habuit innocentem conversationem, postquam induit confessionem, et direxit in melius intentionem, fiducialiter dicit, Nigra sum, sed formosa; quia praeterita ejus peccata tegit confessio. Est enim pulchritudo memoriae confessio; et compositio voluntatis, recta intentio. Primum tegit veritas confessionis, secundum format justitia rectae intentionis. Unde dicit: 20. Sicut tabernacula Cedar, id est, tenebrae. Non sum tabernacula Cedar, sed sicut tabernacula Cedar: et si fui tabernaculum, vel sicut tabernaculum Cedar, id est habitatio tenebrarum, tabernaculum fui, non domus mansionis: fuimus enim aliquando tenebrae, nunc autem lux in Domino. Sicut pelles Salomonis. Vivo enim, jam non ego, vivit vero in me Christus; id est, praeteritam nigredinem meam tegit fides Christi. Quae bene dicitur pellis Salomonis, quia ducta de morte Christi, nosque mortificans, tabernaculo Cedar, id est tenebrosae conscientiae, superducta, dignam facit mansionem vero Salomoni. Poterat enim dicere Mater Domini Maria, mirantibus de se filiabus Jerusalem: Nigra sum ex natura Adae, sed formosa ex fide, id est, ex pelle Salomonis. Aliter ad easdem, videns ab aliquibus se contemni propter sobrietatem, qua omnibus omnia facta erat ut omnes lucrifaceret: Nigra sum, inquit, exteriori hac humiliatione, sed formosa pulchritudine intentionis. Omnis enim gloria filiae regis ab intus. Sicut tabernacula Cedar nigra sum exterius, sed intus decora pelle, non mea, sed Salomonis. Aliter ad adolescentulas sibi exsultantes, non insultantes: Quia, inquit, exsultatis in me, et post me curritis, ne attendatis quod nigra sum, id est sobria vobis: vel nigra sum in humilitate et pressuris mundi, quia formosa sum in oculis sponsi, quia decoloravit me sol. In cute corporis color apparet. Intentio sponsae cutis est, color actio. Decoloratur ergo cutis, cum cura proximi

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intentionem ad Deum obfuscat actionibus suis. Nolite itaque, inquit, considerare me quod fusca sum, quia sol, id est amor Dei, me decoloravit (Cantic. I, 3-5) , qui me occupationibus vestrae actionis denigravit. Sed quod decoloratur a sole, cito redit ad colorem naturalem; sic et ego ad propriam formositatem. Sed cutis decolorata est, non autem os interius, quo sponso assidue canto, Non est occultatum os meum a te, quod fecisti in occulto (Psal. CXXXVIII, 15) : id est, amor cordis interior nullam patitur laesionem. 5. Goffredo di Auxerre GAUFRIDI ABBATIS DECLAMATIONES DE COLLOQUIO SIMONIS CUM JESU, Ex S. Bernardi sermonibus collectae. AD HENRICUM SANCTAE ROMANAE ECCLESIAE CARDINALEM. XLVIII. — De nigredine et decore sponsae. 59. Haec nimirum conversatio perfectorum, haec sanctorum vita, haec gratia spiritualis. Denique tanquam tristes, inquiunt, semper autem gaudentes: tanquam nihil habentes, et omnia possidentes: tanquam morientes, et ecce vivimus (II Cor. VI, 10, 9) . Qui videbant me foras, fugerunt a me (Psal. XXX, 12) , dicit et filia regis, ea utique cujus gloria omnis ab intus est. Unde et clamitat in Cantico canticorum adolescentulas revocans, quas exteriori sua incompositione deterritas videt: Nigra sum, sed formosa, filiae Jerusalem, sicut tabernacula Cedar, sicut pelles Salomonis. Nolite me considerare quod fusca sim, quia decoloravit me sol (Cant. I, 4, 5) . Ac si manifeste spiritualis quispiam dicat, teneras et infirmas mentes exhortans: Quid laboriosa quaeque et humilia conversationis nostrae tam sedule numeratis? Saga cilicina sunt, et pelles arietum rubricatae, quibus interior ille splendor et interna tegitur gloria, ut illaesa a pulveris et imbris injuria conservetur. Nolite me considerare quod fusca sim, nolite pavere, nolite mirari. Neque enim tristitiae aut necessitatis est exterior iste neglectus et nigredo forinseca, sed occulti splendoris et exsultationis internae. Decoloravit, inquit, me sol, lux interior exterioris impatiens. Nimirum ignis est, et inania folia non admittit. Alioquin aut exuri folia, aut certe, si praevaluerint, ignem exstingui necesse est. Quod quidem omnino cavendum Apostolus docet: Spiritum, inquiens, nolite exstinguere (I Thess. V, 19) . Magis autem id Christus prohibet, volens eum vehementer accendi (Luc. XII, 49) . Igitur sponsa quidem nigra est, sed formosa: Apostoli tanquam tristes, semper autem gaudentes: ipsi Christo, si Judaicis consideretur oculis, non erat species neque decor. E contra sane alios dealbatis Veritas comparat monumentis, foris quippe splendidos et nitentes, intus sordidos et fetentes. Ambulant enim in stolis, et primas, ut dictum est, cathedras amant, gloriosi, honorati, et magni in oculis hominum: intus autem, ubi Deus videt, pleni avaritia, invidia, ambitione, superbia, luxuria fortasse nonnulli (Matth. XXIII, 5-7, 27, 28) . Quando enim talibus detur pretiosum illud continentiae munus, nisi forte ad judicium et condemnationem, ne quando paveant, et resipiscant, et convertantur a studiis suis, sed obdormiscant in peccatis, et deterius pereant ex ipsa sua irreverentia et securitate? 6. Adamo di San Vittore XIII. IN DEDICATIONE ECCLESIAE PROSA. Hic transitur rubens unda: Aegyptios sub profunda Obruens voragine. Hic est urna manna plena Hic mandata legis dena, Sed in arca foederis. Hic sunt aedis ornamenta. Hic Aaron indumenta, Quae praecedit poderis.

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Hic Varias viduatur. Bersabee sublimatur, Sedis consors regiae. Haec regi varietate Vestis astat deauratae Sicut regum filiae. Huc venit austri regina, Salomonis quam divina Condit sapientia. Haec est nigra sed formosa, Myrrhae et thuris fumosa Virga pigmentaria. Haec futura, quae figur Obumbravit, reseravit Nobis dies gratiae. 7. Filippo di Harveng PHILIPPI AB HARVENG BONAE SPEI ABBATIS COMMENTARIA IN CANTICA CANTICORUM. CAPUT XVII. Nigra sum, sed formosa, filiae Hierusalem, sicut tabernacula Cedar, sicut pellis Salomonis. Nigredo, quae virginis hujus decorem turpat et inficit, vitae est praesentis adversitas, quae invitam gravat et afficit, quae gaudium Spiritus, pacis gratiam inchoatae, perduci non permittit ad portum pulchritudinis consummatae. Ferventi quidem Spiritu, et ad pacem continuam suspiranti, sponsae sponsi intuitu ad perfectam pulchritudinem aspiranti occurrit timor, periculum, molestia noxiae laesionis, tribulatio et angustia, dolor viscerum, gladius passionis, qui ejus faciei, quam nonnunquam spiritualis jucunditas, gratiae lux perfundit, nubem tristitiae, tenebrosam nigredinem superfundit. Nec ipsi enim Virgini pacem dedit continuam, gaudium indeficiens, praesens vita, sed doluit et gemuit, molestiis pluribus lacessita, et in suo dierum numero sic lapillos protulit albescentes, ut tamen inter illos non deessent plurimi nigrescentes. Denique ethnici cum dies suos tristes et prosperos distincte numerent et appendant, ut qui quibus praeponderent certa scientia comprehendant, sicut lapillis candidis dierum seriem prosperorum, sic tristes et adversos signant nigredine lapillorum. Nigra est igitur virgo, cum sentit molestiis temporalibus se affligi, cum eum quem genuit videt ab irrisoribus crucifigi; et quem novit spiritibus angelicis auctorem et Dominum interesse, in sinu Dei Patris aequali gloria Deum esse, in se et ex se carnem factum, potestati videt persequentium jam subesse, impugnatores multos, defensorem ejus neminem praesto esse. Nigra est Mater, cum suam carnem quam non vitio diligit, sed natura, in filio dure premi morte conspicit immatura, cum quidquid ille mali patitur jussu Patris, naturalis fundae circuitu redundat miserabiliter in cor Matris. Nigra est sponsa, cum audit sponsum etiam postquam resurrexit a mortuis a contribulibus blasphemari, cum praedicatores ejus videt apostolos flagellari, cum quidquid de illo vel ipsa novit, vel eloquia sancta dicunt, signum esse considerat, cui rebelles et increduli contradicunt. In quibus cunctis quis penset quo moerore, quo tristitia ejus animus contabescat, quibus rugis contrahatur, quo pallore facies emarcescat: cum eam quae interius mentem gravat et afficit moestitudo, plerumque vultus praeferat, et ostendat carnis extera turpitudo? Quod asserens Salomon ait: «Spiritus tristis exsiccat ossa (Prov. XVII) .» Tristitia igitur ossibus exsiccatis denigrat Virginem et deturpat, et gaudio longe facto, primum sibi locum praeripit et usurpat, nec patitur praesens forma gaudeat pulchriore, quam corpus quod corrumpitur fuco tenebrat nigriore. Nec mirum si nigram et deformem sponsa tristior se fatetur, cum in hoc non infructuose sponso quem diligit similetur, qui pro eo quod gravatur molestiis, dum

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carne corruptibili detinetur, non decorem, non speciem habere Scripturae testimonio perhibetur. «Non est, inquit, ei species neque decor (Isa. LIII) ,» et: «Vidimus eum, et non erat aspectus (ibid.) .» Cui autem non est decor, non species, niger intelligitur et deformis, ut non virgo accusetur, si ei nigredine sit conformis, cum nigredo neutrius assignanda sit ignominiae vel pudori, sed deformes eos reddat praesens vivendi status miseriae deditus et labori. A quibus sufferendis liberum esse Christus se noluit, sed sicut caeteris, sic et sponsae Matri exemplum se praebuit, ut nigra et deformis nec ipsa videri virgo abhorreat, sed in hoc quoque sponso patienter sese conformem exhibeat. Denique infra in hoc epithalamio de ipso sponsa dicit: «Comae ejus nigrae quasi corvus (Cant. V) .» Quia ergo ille velut corvus fuscatur et nigrescit, nigram quoque se fateri Virgo nullatenus erubescit, sed ne ipsam nigredinem quis existimet eo durius quo diutius onerosam, facta ejus mentione Virgo statim asserit se formosam. Nigra sum, ait, sed formosa. Etsi poenas, inquit, patior humanae merito pravitatis , quae in praesenti camino vexatur et purgatur cauterio transitoriae gravitatis, tamen sub hoc gravamine forma latet, nutritur pulchritudo, quam justitia exhilarat, firmat indeficiens longitudo. Corpus quidem mortuum est propter peccatum, spiritus autem vivit propter justitiam (Rom. VIII) . Et si vitam, ait, corporalem primi peccati merito poenarum multimoda mors affligit, et quotidie morientem tanquam gravi patibulo me affigit: ille tamen homo interior ante Deum dives de die in diem renovatur, vivit propter justitiam, virtutum meritis adornatur. Et quo magis exteriorem praesens miseria decolorat, eo illum amplius futurorum dilectio provehit et decorat, cui et inpraesentiarum diligendi superna gratia dat virtutem, et virtute consummata spondet gloriam et salutem. «Domine, ait Propheta, in voluntate tua praestitisti decori meo virtutem (Psal. XXIX) .» Qui prae filiis hominum forma est speciosus, suae privilegio voluntatis, candor lucis aeternae, et speculum divinae majestatis: sua quoque voluntate Matri et Sponsae virtutem impertivit, cujus ipse, qui dederat Rex et Dominus decorem concupivit. Cui et infra loquens, ait: «Ostende mihi faciem tuam, facies tua decora (Cant. II) .» Quae sicut nigra dicitur et deformis, mala temporalia patiendo, sic formosa vel decora, affectuose spiritualia diligendo, quorum decor inaestimabilis sic suum afficit amatorem, ut nigredinem patientis transire faciat in candorem. Ideo Propheta: «Domine, ait, dilexi decorem domus tuae (Psal. XXV) .» Et Dominus in Evangelio diligentibus: «Tristitia, inquit, vestra vertetur in gaudium (Joan. XVI) .» Sicut ergo nigram reddit afflictio, sic eamdem formosam dilectio: et illa quidem praesentis est temporis finem citius habitura, haec vero etsi coepit in tempore, tamen nullo est tempore desitura. Unde et virgo non se recte formosam et nigram, sed nigram et formosam esse perhibuit, quia primum apud eam nigredo locum obtinuit, dum in eam concessa est habenis laxioribus tribulatio desaevire, et suo tam accessu quam recessu venturam pulchritudinem praevenire. De qua Joannes ait: «Mors ultra non erit, neque luctus, neque clamor, neque dolor erit ultra, quae prima abierunt (Apoc. XXI) .» Haec igitur malorum congeries ad cor Virginis prima venit, sed in eo mansionem vel locum stabilem non invenit, imo sicut importuna venturam illius pulchritudinem antevenit, sic abire coacta est, cum illa posterior plenius supervenit. Pulchritudo Virginis est, cum fervente spiritu desiderans vultum Dei, manu tergit sollicita internae maculas faciei, cum declarat oculum, mundat conscientiam, cor serenat, cum severo judicio incursus obstrepentium alienat; cum denique mente pura et agili rapitur in excessum, cum ad thronum majestatis pervenit, tardis et negligentibus inaccessum. De quo subjungit qui sedebat in throno: «Ecce nova facio omnia (Apoc. XXI) .» Nova facit Dominus cum manu misericordiae tergit nostram interioris hominis vetustatem, cum pulsat ignorantiam, sanat conscientiam, dirigit voluntatem; cum, errore terso mendacii, loqui dat cum proximo veritatem, cum ejusdem veritatis infundit lenius voluptatem, cum denique ad confirmandam internae gratiam speciei, a turbore nos hominum abscondit suae in abscondito faciei. Quae ergo exposita trituris et passionibus nigram se reputat et deformem, eadem in absconso divinae faciei abscondita gaudet fieri se conformem; et quam tribulationis caminus sua quadam reddit vel fuligine tenebrosam, contemplationis radius perfusione sua illustrem efficit et formosam. CAPUT XVIII. Sicut tabernacula Cedar, sicut pellis Salomonis.Quia se nigram et formosam dixerat, quomodo nigra et formosa sit ostendit. Nigra, inquit, sicut tabernacula Cedar, formosa sicut pellis Salomonis. Cedar interpretatur tenebrae. Tabernacula, non domus stabiles, sed casae mobiles appellantur, quae vel a pastoribus in pastura, vel in expeditione a militibus collocantur, et ad tempus positae fundamento stabili non firmantur; sed cum fuerit opportunum sine dispendio alias transportantur. Virgo igitur sicut tabernacula Cedar nigram non incongrue

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se fatetur, innuens quia vitae hujus conditio cujus adhuc vinculis detinetur, multo quidem molestiarum fuco vel nubilo tenebrescit, multis passionum aculeis et punctionibus amarescit, cujus tamen odiosa et tenebrosa amaritudo statu mansorio non fundatur, sed ad modum tabernaculi transit, et instar hospitis, non moratur. Quod affirmans Job: «Post tenebras, inquit, spero lucem (Job XVII) .» Et Dominus in Evangelio: «Tristitia, inquit, vertetur in gaudium (Joan. XVI) .» Quod enim Virgo dolet, quod gemit, quod patitur vitae molestias temporalis, praeterit et vertitur in lucem gaudii spiritalis: nec tam conqueritur de praesentia noctis transiturae, quantum gaudet de spe certa lucis diutius permansurae. Cujus spei munere confortata pressuram momentaneam parum curat, dum mentem puram et securam superventurae gloriae configurat: et terso, tanquam gelu vel senio, quo ad horam contrahitur et aegrescit, laeto refloret spiritu, instar aquilae juvenescit. De quo pulchre Salomon: «Animus, inquit, gaudens aetatem floridam facit (Prov. XVII) .» Cujus enim interioris aetas hominis non florescat, cujus non vetustas fracta petrae beneficio juvenescat: in cujus conscientiam fides pura, spes secura, dilectio mansura conveniunt, eae omnes in omnibus soli Deo constanter obediunt? Proinde Virgo formosa recte sicut pellis dicitur Salomonis, quae abjecto carnis sensu quasi nescit molestias transitoriae passionis: cujus conscientiam jugis obedientia, obedientiam hilaris conscientia reddit commendabilem et serenam, ornat vultum, declarat faciem a sorde pulveris alienam. Pellis equidem a mortuo detrahitur animali, separatur a carne, rasorio potius ferreo quam carnali: separata vero, laesiones vel passiones corporis ultra nescit, percussa non dolet, illata molestia non aegrescit. Denique flexibilis, tractabilis, et in usus varios habilis exhibetur, si tamen in ea labor et industria prudentis artificis operetur: et si curam artifex sollicitus diligat impertire, illa promptior invenitur modis innumerabilibus obedire. Sic et Virgo ab his quae sunt carnis illo forti rasorio separatur, quod acutius omni gladio ancipiti (Hebr. IV) usque ad divisionem pertingere spiritus et animae praedicatur, cujus tracta et detracta ferramento, affectiones et afflictiones corporis quasi nesciens, diligit oblivisci, et in his quae supra sunt extenta, eorum praecipue reminisci. Quam summus ille opifex, Salomonis nomine designatus, longe tamen amplioris benevolentiae, sapientiae, potentatus, ab affectu detractam corporeo, spirituali suo beneplacito sic aptavit, sic perunctam oleo gratiae ad omnia quae digna fuerant informavit, ut nulla rebellio, nulla prorsus in ea contrarietas haberetur, sed instar pellis ad obediendum agilis per omnia redderetur. «Ecce, inquit, ancilla Domini, fiat mihi secundum verbum tuum (Luc. I) .» Videtis quia, audito nuntio, secundum verbum ejus, ancilla Domino se addicit, et in nullo plasma plasmatori, testa figulo contradicit, sed Salomonis thronus imperio subjicitur praesidentis, imo coelum coeli sedes juxta libitum tenditur insidentis. Ad hoc enim Deus extendit coelum sicut pellem, ut constet illud propheticum: «Coelum sedes mea (Isa. LXVI) ;» et illud: «Dominus in coelo sedes ejus (Psal. X) .» Quis autem dignius, quis potest coelum convenientius appellari, quam Virgo quae meruit tot virtutum sideribus adornari, quorum fulgor varius molestas mitigat tenebras hujus vitae, dum ad scientiam revocat errores multitudinis imperitae? Ipsa lunam protulit quae nocte caligantibus eluceret, cum Ecclesiam exaltavit, ut se cunctis lucidam exhiberet: cum forma et doctrina sanctos apostolos erudivit, quorum conversatio lumen necessarium terrarum habitationibus impertivit. Ipsa denique Virgo, sive coelum illud majus protulit luminare, quod mundo languescenti remedium plenius contulit salutare: quod quia solus Deus est, nec ei potest alius coaequari, digne Sol appellatus est quodam privilegio singulari. Sola itaque et non alia tantam genuit Virgo prolem, coelum istud mirabile miro modo protulit solum Solem, qui sic vigilantibus diem format, cum sua praesentia nostrum illustrat aerem et perfundit, sic noctem incutit somnolentis, cum interposita mole terrenorum peccaminum se abscondit. Solus autem iste Sol inter omnia, et super 129 omnia luminosus, lumine vultus sui et forma prae filiis hominum speciosus, si terras tanto pondere suo graves sua gratia diligit fecundare, quanto coelum potius donis facit amplioribus abundare? Quod nimirum sicut pellem legitur extendisse, in quo illius agilem videtur obedientiam ostendisse, quia Virgo quae coelo comparabilis, imo supra coelum commendabilis existimatur, in nullo vel ad modicum imperantis beneplacito reluctatur. Ego quidem, ut video, in manu Domini non sum pellis, qui vocanti et jubenti durus invenior et rebellis, qui ad ejus voces et monita non do aures patulas, sed obturo, et si forte audire contigerit, ne auditis obediam, cor obduro. Si vero aliquoties visitatus corde poenitens emollito, mandatis obediens in eisdem perseverantiam repromitto, cum jam me de corrigendis vel meis vel meorum moribus intromitto, ecce ventus irruit, tonat, tentat, destruit, et quae coeperam intermitto. Tentator enim pessimus multa sibi jacula coacervat, quibus inflictis animum vel terret asperius, vel demulcet lenius et enervat: evictumque spiritum in jus proprium caro ducit, et ut totus caro fiam, amor carnalium me seducit. Quis igitur me miserum de mortis hujus corpore liberabit? (Rom. VII 24.) Quis me ab ista carne forti spiritus gladio separabit, ut carnem perimens et

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resignans bestiis et volatilibus Babylonis, sola pellis inveniar, et extendar ad imperium Salomonis? Quod si mihi vel cuilibet simili nondum id muneris est concessum, cui sponsi thalamus et sanctuarium Dei adhuc videtur inaccessum: nostram tamen virginem verus Salomon ea gratia non fraudavit, sed eam instar pellis ad omne suum libitum informavit. Detractam quippe a carnis concupiscentia et affectu noxio pravitatis, manu misericordiae in sublime extulit puritatis: et abrasis cupiditatibus quasi colores varios, stellatamque pulchritudinem superduxit, imo virtutum merita et coelestem gratiam introduxit. Quod nimirum virgo filias Hierusalem voluit non latere, inventam gratiam familiaribus nesciens invidere, ut quas turbare potest nigredo virginis si negligentius attendatur, eis ipsius nigredinis et causa dignior, et mora brevior ostendatur. CAPUT XIX. Nigra sum, sed formosa, filiae Hierusalem. Filias nominat, quas paulo superius adolescentulas nominavit, in quo earum et affectum tenerum, et fervens desiderium designavit; et quia filiae ad audiendum serenius, ad videndum studiosius animatae, attendunt subtilius, amant tenerius laudes pulchritudinis commendatae: Vos, ait, quas ad intelligendum stolida non tenet hebetudo, attendite et videte quam sit mea commendabilis pulchritudo; quas profecto non obscurat confusa caecitas Babylonis, sed oculos vestros illuminat et revelat internae gratia visionis. Unde et signanter filias Hierusalem vos appello, quo nomine ad videndum diligentius vos compello, ut cum tali nomine auditis et attenditis vos vocari, sciatis quia debet nomen non esse vacuum, sed ex re potius derivari. Estis igitur veraciter filiae Hierusalem si videtis, si quod obscure dicitur, intelligibiliter obtinetis, si quod foris dure sonat velut testam vel paleam aestimatis; et quod intus suave et vitale est, ut nucleum, granum, similam affectatis. Denique meipsam, quae ad intelligentiam vos invito, et ignorantia caligare, et errare caligine non permitto: sciatis videndi merito recte Hierusalem appellari, cui constat divina haec mysteria et sacramenta coelestia revelari. Quae cum pariendi more de tenebris ignorantiae vos educo, cum studio et labore ad lucem veritatis et scientiae vos perduco, cum perfectioribus vivendi regulis affectuosa sollicitudine vos informo, quid nisi matris vice meis visceribus vel magis moribus vos conformo? Et quidem uni ex vobis Sponsus dicit: «Ecce mater tua (Joan. XIX) .» Cujus estis filiae benefacientes, non considerantes videlicet nigredinem meam attentione quasi perspicua, cujus causa utilis, et finis prope jam est in janua, ne forte curiositate nimia praesens scandalum incurratis, si tantum id quod nigra sum, justo amplius attendatis. Proinde ait: Nolite, etc. CAPUT XX. Nolite me considerare quod nigra sum, quia decoloravit me sol. Videte, ait, ne carnales oculos meis gravaminibus infigatis, ne vobis offendiculum gignat quassatae adversitas voluntatis, ne ad meas molestias vestra consideratio pueriliter obstupescat, tanquam non sit conveniens ut mea conversatio tribulationibus amarescat. Habete, quaeso, prout decet filias Hierusalem, intellectum, et pensate hujus rei causam potius quam effectum; quod videtur ab omnibus, volo a vobis quasi penitus non videri, et quod latet insipientes, volo vos sapientius intueri. Quod nigra sum, quod moesta sum, quod me circumvolat nebula momentaneae laesionis, quod usque ad animam intrant aquae, pertransit gladius passionis: ille fecit verus Sol, ille ad hoc suo consilio me adduxit, ille faciei meae hujusmodi fucum vel nigredinem superduxit. Ille Sol, quo absente nox incumbit tetrior et deformis, universa rerum varietas invenitur decolor et informis: praesente vero, splendet coelum, terra gaudet, ejus superficies redditur multiformis, ipsa rerum facies formoso quodammodo fit conformis; ille, inquam, Sol qui respectu vultus sui cuncta reficit et decorat, sua quadam absentia me ad modicum decolorat. Ab his enim qui me gravant districto judicio se absentat, mihi vero sufferenti nondum ad osculum se praesentat, forte ut et in pejus illi proficiant mala nequiter inferendo, et econtra ego et melius, patienter molestias sufferendo. Denique virgo prudens ad litteram conservandae vel augendae avida speciei, nonnunquam superponit vittam multipliciter faciei, ut sub velamine pulchritudo proficiat concupita, et gratiae majoris appareat, cum medicinali opertorio fuerit enutrita. Et nimirum amator illius (si tamen ejus probitas non sit talium inexperta) non contemnit virginem cujus est facies cooperta, sciens quia unde ad horam ejus decor superducto velamine tenebrescit, inde sublato eo postmodum complacitius elucescit. Sic et ego nigra sum, cujusdam fuco velaminis obvoluta, et dum in carne vivo, nondum a molestiis penitus absoluta, quia meus ille Sol qui in hujus adhuc noctis gurgustio vult

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me esse, ab ejusdem injuriis prorsus liberam non vult esse. Locus enim et tempus in quorum adhuc medio me videtis, lege quadam insita non sunt pacis plenariae vel quietis, quam in eis nec ipse Sponsus meus potestatis privilegio elegit obtinere, sed, ut vobis notum est, pavere potius voluit et taedere (Marc. XIV) . Et qui multis pressus incommodis, mortem ad ultimum voluit sustinere, me quoque hic positam eisdem vult passionibus non carere, quas in ejus memoria et amore suffero patienter, certa quidem eum, non solum velle, sed et facere consequenter. Qui enim adhuc faciem meam colore plenario non honorat, dilatione sua, eam, ut videre videor, decolorat; et qui me vult denigrari gravamine citius transituro, quod disponit fieri, hoc idem ipsum facere non abjuro. Cum igitur in hoc gymnasio mea patientia plenius agonizet, quaeso ne vos, filiae, horum consideratio scandalizet, nec attendatis quid patiar, ne vestra infirmitas sic offendat, sed quis me velit pati, cujus rei cognitio vos commendat. Nec est dignum scandali quidquid patior propter ipsum, sed major passio est carere passionibus praeter ipsum, quia qui male felix a flagello conceditur hic excludi, dolet miser in posterum electorum numero non includi. Sponsus autem meus, qui et ipse in praesenti sustinuit niger esse, tam mihi quam suis omnibus, eamdem nigredinem vult inesse; qui, cum tempus congruum venerit, auferet hunc colorem, moerorem in gaudium, fucum transferet in candorem. Unde quod dictum est: Decoloravit me sol, pro eo potest accipi, quod est (decolorabit) praeteritum scilicet pro futuro, quia qui fecit quae futura sunt, id in Virgine facturus quidem erat, quod eum jam fecisse virgo certior asseverat: quod enim de sua Virgo futurum gloria jam praenoscit, eo docta quo plena spiritu non praenuntiat, non deposcit, sed complendi secura, gaudet et astruit jam completum, quod fides et spes obtinent, sola res submurmurat inexpletum. Nolite, ait, dignam consideratione meam nigredinem arbitrari, tanquam vel praesens noceat, vel diutius valeat demorari, quia «transivi, et ecce non erat (Psal. XXXVI) ,» nec est ejus vestigium invenire, et vobis jam non erit, si velitis, modo simili pertransire. Sol enim ille verus qui lumen suum contulit huic mundo, qui ad hoc nobis ortus est, ut suos eruat de profundo: fucum meum, sive nigredinem, manu grata citius abolebit, rugam et maculam, dolorem et omnem lacrymam penitus removebit. Imo, ut melius et longe certius loqui videar, jam removit, aegrotantem animum optato remedio jam refovit, quia sua jam gratia ad tantam certitudinem me promovit, ut teneam quasi factum quod fiendum in proximo mea intelligentia praecognovit. Sicut autem eo vobis proposito, qui me suo beneficio consolatur, objectu meae nigredinis vestra digne consideratio non gravatur; sic expedit eos nosse qui sua malitia me perurgent, quod scilicet et iter eorum peribit, et ipsi justorum in consilio non resurgent (Psal. I) . Et quis recte sapiens penset vel consideret gravi cura quidquid illi inferunt, potestas quorum cito est transitura? et non magis tam ipsos quam illatas ab ipsis molestias parvipendat, cum in eis nihil firmum, nihil stabile deprehendat? PHILIPPI DE HARVENG ABBATIS BONAE SPEI 286 IN CANTICA CANTICORUM MORALITATES. RECAPITULATIO A SUPERIORIBUS DE THRONO EBURNEO QUEM FECIT SALOMON, QUOMODO REFERRI DEBEAT AD PERSONAM CHRISTI. Superius praefati sumus quod Dominus Jesus qui in Canticis canticorum appellatur Sponsus, ipse nimirum in libro Regum vocatur oraculum templi, et thronus eburneus. Praeterea hoc addidimus, quod per duo ostia oraculi clementia et misericordia Dei, videlicet ubera Sponsi, debeant intelligi. Subjunximus denique sufficientem rationem, quia sicut ingredientes oraculum per illa ostia ingrediebantur, sic utique per clementiam et misericordiam Dei, qui salvandi sunt, salvabuntur. Superest igitur ut ad thronum ex ebore conditum accedamus, et quemadmodum idem thronus in figura Christi a Salomone sit factus, pro modulo nostro disseramus. Tunc demum necesse erit ut allegorizando spirituali sensu perscrutemur, qualiter illae duae manus de quibus in praecedenti loco loquebamur quae in throno eburneo sedile tenent, figuram clementiae et misericordiae, scilicet uberum Sponsi, spiritualiter teneant. Verumtamen pius considerandum nobis est, utrum in divinis eloquiis alicubi de throno aliquid dicatur, quatenus hoc quod dicere volumus, ex auctoritate sacrorum eloquiorum corroboretur. In Apocalypsi Joannes dicit: De throno procedunt fulgura, et voces, et tonitrua (Apoc. IV) . Ac si dicat: De Christo, qui est thronus aureus, in quo requievit plenitudo divinitatis, prodeunt fulgura, id est, miraculorum insignia, et voces evangelicae praedicationis, tonitrua videlicet terrores futuri judicii et extremae damnationis.

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Praeterea hoc neminem lateat quoniam quidem thronus, de quo loqui satagimus, et quem ad personam Christi spiritualiter referri disponimus, non solum de ebore, verum etiam de auro clarissimo exstitisse describitur. Patet igitur et sub nulla ex hoc redigimur ambiguitate, quia per aurum, divinitatem et per ebur, ejus humanitatem debeamus intelligere. Quod vero aurum significationem divinitatis Christi obtinet, difficili interpretatione non indiget, quia sicut aurum ob pretiositatem sui, omnia metalla antecedit, sic nimirum divinitas Christi, non solum humanitatem ejus, sed etiam omnes creaturas ob excellentiam suae dignitatis praecellit. Unde eleganter Spiritus sanctus, postquam dixit per os historiographi, quod fecerit Salomon thronum de ebore grandem, subsequenter adjunxit: Et vestitvit eum auro fulvo nimis, ut manifestaretur quantum praerogativa divinitatis excelleret assumptam materiam humanitatis. Certum est enim, et nullus ambigit, quia res quae aliam rem vestit, ipsi rei superponitur quam supervestire videtur. Sicut ergo aurum splendidissimum suo splendore et sua claritate thronum, quem vestiebat, decorabat, adornabat et clarificabat; sic procul dubio divinitatis hominem illum quem assumpsit, ad hoc usque suam glorificationem provexit, ut ipse homo participatione divinitatis Deus effectus sit. Multum igitur nostra humanitas profecit, quae ad participationem supernae deitatis in assumptione assumentis divinitatis glorificata ascendit. Denique quanto in primo Adam deterior exstitit ad inferos ejus descensio, tanto in secundo Adam gloriosior et excellentior fuit ejus ad coelos ascensio. Et sicut non erat quo infelicius a diabolo seducta de paradiso praecipitaretur, sic non fuerat quo felicius et gloriosius a Christo sublimaretur. Exaltata est igitur caro nostra in Christo super omnem creaturam et supra se ipsam; supra se ipsam dico, quia nequaquam promeruit illam dignitatem ad quam pervenit. Et hoc est nimirum quod propheta longe, antequam fieret, prophetaverat. Consilium tuum, Domine, antiquum verum fiat (Isa. XXV) . Istud sane consilium ab aeterno, et ante aeternum (si dici fas est!) erat in dispositione summae deitatis, ut nostra caro a Christo assumenda et glorificanda celsificaretur usque ad contemplationem divinae majestatis. De hac utique glorificatione nostrae humanitatis vel assumptione, propheta Ezechiel (cap. XVII) spirituali refectus contemplatione mihi videtur dicere: Aquila magna magno alarum praesidio fulta, et multa varietate plumarum decorata venit ad cedrum quae erat in Libano, et tulit de medulla cedri et asportavit eam, et collocavit eam in monte sancto et excelso. Quae est ergo ista aquila, nisi illa de qua dicit propheta: Sicut aquila provocat ad volandum pullos suos et super eos volitans expandit alas suas, et assumpsit eos, atque portavit in humeris suis? (Deut. XXXII) Et tanquam si aliquis quaereret ab eo, de qua aquila loqueretur, illico quia haec de Deo dixerit manifeste subjunxit; Dominus solus dux ejus fuit (ibid.) . Ista igitur aquila venit ad cedrum quae erat in Libano, et de medulla ejus sibi assumpsit; quando Verbum de corde Patris eructatum venit ad beatam Mariam, et de virginea ejus carne sacrosanctum et intemeratum sibi corpus accepit. Et sicut de illa aquila dicit propheta, quod medullam illam quam de cedro tulerat, in monte sancto et excelso collocavit, sic nimirum Dei Filius, videlicet Verbum Patris, carnem nostram quam de beata Virgine Maria assumpsit, in sede majestatis suae secum ad dexteram sui Patris sublimavit. Quod autem beata Maria cedrus Libani appelletur, ex ecclesiastico usu potius quam ex aliqua difficili interpretatione patenter dignoscitur. Sic enim sancta Ecclesia dicit in ejus quotidiano servitio: Quasi cedrus exaltata sum in Libano (Eccli. XXIV) . Et quia Libanus, candidatio interpretatur, non immerito virginitati beatae Mariae comparatur. Sicut enim materialis cedrus in Libano fuit exaltata, sic beata Maria ob singulare privilegium suae virginitatis apud Deum est glorificata et praeelecta. Sed jam nunc ad thronum aureum et eburneum superius revertamur, et qualiter figuram Dominici corporis tenuerit, spiritualibus oculis intueamur. Fecit, inquit, Salomon thronum de ebore grandem (III Reg. X) . Vere thronus iste admirabili celsitudine exstitit grandis, quia ut Psalmista ait: Magnus Dominus et laudabilis nimis, et magnitudinis ejus non est finis (Psal. CXLIV) . Praeterea paulo ante declaravimus ut quid thronus iste auro pretiosissimo fuerit vestitus, nunc superest ut mens nostra in lucem proferat quare idem thronus sit eburneus, qui Dominici corporis figuram gerebat. Sicut enim ante nos dixerunt qui de naturis rerum prudenti solertia disputaverunt, ebur tam admirabilis virtutis, et frigiditatis est, ut si pannus lineus super ipsum abur mittatur et ipsi panno lineo carbo vivus desuper imponatur, sua virtute ebur pannum qui illi adhaeret illaesum custodit, ne a supraposito carbone vivo consumi penitus aut cremari possit. Qui ergo manifeste non clarescit vel tenuiter scienti, quomodo ista comparatio aptari debeat corpori Christi? Sicut enim ebur naturali virtute superpositum pannum ab ardore ignis inviolatum conservat, sic divinitas quae in corpore Christi adumbrata erat, ipsum corpus ab omni naevo peccati immune custodiebat. Eapropter et beatus Petrus apostolus de Domino Jesu loquens aiebat: Qui peccatum, inquit,

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non fecit, nec inventus est dolus in ore ejus (I Petr. II) . Quod autem sex gradus in throno fuisse referuntur quibus ad sedile throni gradatim ascendebatur, manifesta ratione Historia sacra nos perdocuit quia per sex saeculi labentis aetates Deus Filius se venturum ad suam incarnationem mysticis et occultis modis nobis repromisit. In prima siquidem aetate quae Adam usque Noe exstitit, se venturum spopondit quando mulieri denuntiavit, dicens: Semen tuum conteret caput serpentis (Gen. III) . In secunda vero aetate quae a Noe usque ad Abraham fuit, venturum se indicavit, quando filiis Noe dixit: Crescite et multiplicamini (Gen. VIII) . In tertia autem aetate quae ab Abraham usque ad Moysen decurrit, adfuturum se praefiguravit, quando ejusdem prophetae proli benedixit, dicens: In semine tuo benedicentur omnes gentes (Gen. XXII) . In quarta vero aetate quae erat a Moyse usque ad David, in multiplici sacrificiorum religione adfore se insinuavit. In quinta autem aetate quae erat a David usque ad nativitatem beatae Mariae floruit, quia ipse est Rex regum et sacerdos in aeternum secundum ordinem Melchisedech (Psal. CIX) , in regibus et sacerdotibus figuraliter se venturum esse denuntiavit. Sexta aetas, ipsa est quae nunc agitur ab ortu beatae Mariae Virginis usque ad diem judicii, in qua ad incarnationem suam clementer dignatus est venire Filius Dei, sicut sexto gradu perveniebatur ad illud gloriosum sedile quod erat in medio throni aurei et eburnei (III Reg. X) . Quod autem dicitur quia summitatis throni rotunda sit in posteriori parte, nequaquam cum ignavia a prudenti lectore praetereundum est. Nullus enim fere ignorat qui aliquanto sensu abundat, quia quidquid est rotundum, et omni parte sui, est perfectum. De Christo namque cujus figuram thronus ille tenuit, sancta Ecclesia filiis suis praedicat, dicens: Perfectus Deus, perfectus homo, ex anima rationali et humana carne subsistens. Duae autem manus quae in praefato throno, hinc atque inde sedile tenent, non incongrue clementia et misericordia nostri Salvatoris intelligi debent; quae hoc egerunt, ut pro redemptione generis humani carnem Christus acciperet, et mortem quam penitus ignorabat, ad tempus degustaret. Unde et David propheta dicit: De torrente in via bibet, propterea exaltabit caput (Psal. CIX) . Haec, inquam, sunt spiritualia ubera Sponsi in Canticis canticorum, duae manus quae tenent sedile throni aurei et eburnei in libro Regum, scilicet clementia et misericordia, quae fecerunt ut Deus homo fieret, et nos ad gaudia paradisi, quae per Adam perdidimus, mirabiliter reduceret. Videamus denique quid sit quod superius textus historiae nobis recitavit: Juxta, inquit, singulas manus duo leones stabant (III Reg. X) . Manifesta quippe ratione ex praecedenti sermone intelligimus, quia non amplius ibi erant quam duae manus, et si singulis manibus duo leones deputati erant, pro certo tenemus quia non nisi quatuor leones tantummodo inibi assistebant. Quid ergo quatuor leones, qui juxta singulas manus positi sunt, insinuant, nisi quatuor evangelia quae ubique clementiam et misericordiam Dei praedicant? Sic enim habes in Evangelio scriptum: Qui crediderit et baptizatus fuerit, salvus erit (Marc. XVI) . Et alio in loco: Poenitentiam agite, appropinquavit regnum coelorum (Matth. IV) . Duodecim leunculi quos sacra historia refert super sex gradus exstitisse, plenitudinem et perfectionem donorum spiritualium significant; quae nullus dubitat super Christum requievisse, et mansisse. In Christo, ut Apostolus ait: Habitat omnis plenitudo divinitatis corporaliter (Coloss. II) . Et de plenitudine ejus, inquit Joannes, nos omnes accepimus (Joan. I) . Interim si per septem dona Spiritus sancti, quae Isaias in Christo requievisse narrat, et per virtutes quas sancta Ecclesia praecipue commendat, istos duodecim leunculos volumus intelligere, noster intellectus etiam apud inimicos veritatis, dignus digna judicabitur laude. Sic enim dicit Isaias: Egredietur virga de radice Jesse, et flos de radice ejus ascendet, et requiescet super eum spiritus sapientiae et intellectus, spiritus consilii et fortitudinis, spiritus scientiae et pietatis, et replebit eum spiritus timoris Domini (Isa. XI) . His igitur septem Spiritus sancti donis, si quinque virtutes, scilicet fidem, spem, charitatem, bonum opus, et castitatem adjunxeris, procul dubio duodenarium numerum adimplebis. Septem quippe, et quinque, quando in unum conveniunt, duodenarium numerum indubitanter efficiunt. Isti igitur spirituales leunculi, ut arbitror, melioris et dignioris sunt pretii, quam illi quos Salomon stare fecit super sex gradus in medio throni aurei et eburnei. Post haec, historia quasi sub quadam admiratione refert, quia non est factum tale opus in universis regnis (III Reg. X) . Et bene quidem justeque satis hoc historia retulit. Non est enim factum tale opus in universis regnis, quale est illud quod Verbum caro factum est, et habitavit in nobis (Joan. I). Non est, inquam, tale opus in universis regnis factum, ut Deus, homo efficeretur, et redimeret suo sanguine genus humanum quod perierat. Vere, inquam, non est factum tam gloriosum opus in universis regnis, ut natura nostra, prorsus jam de salute desperata, abstraheretur ab inferis, et in coelo collocaretur ad dexteram Dei Patris.

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RECAPITULATIO A SUPERIORIBUS, DE THRONO EBURNEO ET AUREO, QUALITER SUB ALLEGORICA INTERPRETATIONE REFERRI DEBEAT AD PERSONAM BEATAE, ET GLORIOSAE, ET PERPETUAE SEMPER VIRGINIS MARIAE. Fecit, inquit, Salomon thronum de ebore grandem, et vestivit eum auro clarissimo nimis (ibid.) . Obsecro, Domina mea clarissima, si ego loquar aliquid minus dignum quam mereatur dignitas tua, non mihi hoc proveniat ad animae detrimentum, sed obveniat ad meriti et gloriae coelestis augmentum. Scio enim, scio, quia si omnia membra mea in linguas verterentur, non valerem ut dignum est effari laudes tuas, quas sublimis gloria tuae singularis virginitatis promeretur. Scio, inquam, Domina mea, etiamsi omnia esse mea possent loqui, non tamen invenirent in coelo aut in terra aliquam similem tibi. In coelo autem similis tibi nullus est, quia si de Deo agimus, Deus major te est, et idcirco similis tui non est. Si vero de sanctis, vel de angelis, vel aliquibus creaturis, quamvis a Deo creatis vult aliquid dicere lingua nostra, manifestum est quod omnes creaturas excellit et praecellit dignitas tua, quia sicut scriptum est. Exaltata es super choros angelorum ad coelestia regna. Obsecro iterum mea Domina millies plus quam charissima, servulos tuos qui te libenter honorant, et tibi devote serviunt, et de te quod dignum est decenter loquuntur, precibus et meritis tuis omnes adjuva, et sustenta, conforta ab omni peccato, conserva et perduc illos ad immortalia Filii tui gaudia. Tu es ergo thronus ille non quem fecit Salomon rex mortalis, filius scilicet David regis, sed potius ille quem elegit ab aeterno, et praeelegit sibi ad habitandum Deus, Dei Filius videlicet rex immortalis. Tu es ille thronus de quo Psalmista dicit: Thronus tuus, Deus, in saeculum saeculi, virga directionis, virga regni tui (Psal. XLIV) . Tu es, inquam, mea Domina, omnibus charissimis charior, thronus de auro coelesti, et ebore spirituali constitutus. Per aurum intelligitur Christi Filii tui divinitas, per ebur vero quod frigidae naturae est, sacrosancta tua virginitas. Ex auro ergo divinae majestatis, et ex ebore perpetuae virginitatis es constituta, quia et divinitas Filii tui cooperante Spiritu sancto in te est ineffabiliter adumbrata, et virginitas tua permanet et permansit tibi illibata. Praeterea hoc quod de natura eboris solent dicere inquisitores naturarum, nequaquam reor sub silentio praetereundum. Congruit enim beatae Mariae, dignitati, et ejus auxilii sublimi potestati. Siquidem dicunt quia si ebur dolenti capiti persaepe adhibitum fuerit, virtute naturali omnem dolorem mitigat capitis et expellit. Qui ergo in capite, hoc est in mente, vitiorum telis vulnerati dolent, isti sine dubio necesse est ut auxilium et opem sanctae Dei Genitricis Mariae implorent, et ex intimo affectu cordis dicant: «Sub tuam protectionem confugimus, ubi infirmi acceperunt virtutem, et propter hoc Dei Genitrix virgo tuae dignitati referimus gratiarum actionem.» Tu es, inquam, Domina domus quam Sapientia, id est Filius sibi aedificavit (Prov. IX) , et in qua septem columnas spirituales ad decorem et gloriam aeterna stabilitate collocavit, scilicet virginitatem, castitatem, continentiam, humilitatem, fidem, spem, charitatem. Vere in beata Maria singulare privilegium incomparabilis virginitatis, et fragrantia odoriferae castitatis effulsit, quia nisi virgo et casta exstitisset, nequaquam illam ad habitandum sibi Filius Dei elegisset. Decebat namque ut virgo esset quae mundum redimebat, quia virgo exstitit illa prima parens, quae totum mundum perdiderat. Quia ergo beata Dei Genitrix Maria, virgo fuit, consequenter casta et continens exstitit. Sane de ejus inenarrabili humilitate quid possumus dignum laudibus ejus proferre? Enimvero cum haec sanctissima atque millies beatissima Virgo mater Filii Dei ab Angelo eligeretur, ancillam ejusdem Filii sui humili devotione se fatetur, dicens: Ecce ancilla Domini, fiat mihi secundum verbum tuum (Luc. I) . Fidem vero mater Dei intemeratam habuit, quia quod mater Dei posset fieri Angelo nuntiante credidit. Spes autem in ipsa beatissima Virgine sublimem arcem posuerat, quia quamvis insolitum esset et inauditum retro saeculis et generationibus quod audiebat; tamen sic fieri oportere sicut ab Angelo evangelizabatur, certissima fide sperabat. Charitatis visceribus quomodo mater Dei super abundaverit, nullus incognitum habere potest, qui scientia divinae legis aliquantulum eruditus fuerit. Sicut enim Filius ejus maledictum legis pro redemptione generis humani incurrit. Maledictus nempe, ait Moyses (Deut. XXI) , qui in ligno pendebit, sic et ipsa nimirum maluit cum observatione virginitatis maledicto legis subjacere, quam amissa virginitate, carnales filios in Israel relinquere. Sic denique lex Mosaica aiebat: maledictus, sive maledicta quae non reliquerit semen in Israel. Tu es ergo omni claritate et splendore solis clarior et splendidior, omni lapide pretioso longe incomparabiliter pretiosior, tu super omnem stellarum fulgorem utpote stella maris fulgentior inveniris, candor quippe es aeternae claritatis, et speculum sine naevo divinae majestatis. Tu es haereditas Domini, in te moratus est Flius Dei. Tu potes dicere: Creator omnium qui me creavit, in tabernaculo meo requievit (Eccli XXIV) . Tu es tabernaculum in sole positum, de quo utique tabernaculo Filius Dei processit tanquam sponsus de thalamo suo (Psal. XVIII) . Viscera tua sunt

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lecti argentei in quo malum illud aureum est, de quo Salomon ait: Mala aurea in lectis argenteis verbum prolatum in tempore suo (Prov. XXV) . Non enim potuit digniori et clariori comparatione pronuntiari nativitas specialis unigeniti Filii tui. Malum quippe prolatum in lectis argenteis, Verbum est caro factum in visceribus Virginis. Sex autem gradus qui describuntur fuisse in throno eburneo, sex specialiter gradus humilitatis designant, quos habuit beata Maria in corde suo. Unde bene Spiritus sanctus loquitur in Canticis canticorum: Cum esset rex in accubitu suo, nardus mea dedit odorem suum (Cant. I) . Nardus quippe aromatica, et brevis staturae arbor esse dicitur, per quam congrue humilitas beatae Mariae intelligitur. Quae nimirum virginalis humilitas regi in accubitu suo quiescenti complacuit, quando idem rex Filius scilicet aeterni regis de coelo descendens, carnem sacrosanctam assumpsit in utero beatae Mariae Virginis. Sed jam nunc videamus qui sint sex gradus humilitatis. Primus namque gradus humilitatis est ut homo creatum se de terra fateatur, et ob pravitatis suae meritum in cinerem se reversurum confiteatur. Secundus vero gradus est ut de accepta qualibet gratia homo nunquam superbiat. Tertius, ut de collatis sibi a Domino beneficiis ipsi Creatori suo indesinenter gratias referat. Quartus, ut homo omnibus se aestimet meritis inferiorem. Quintus, ut nulli se arbitretur aequalem. Sextus, ut nullatenus se reputet aliquo potiorem vel superiorem. Isti sunt sex spirituales gradus humilitatis, quibus Deus descendit ad cor sese humiliantis, et per quos ascendit homo ad cognitionem Dei ad se descendentis. Post haec autem nobis historia insinuavit, quod thronus ille rotundus in exteriori parte exstiterit. Superiori vero tractatu dixisse me memini, quia quidquid est rotundum, videtur esse perfectum; quid ergo rotunditas et perfectio throni aurei nobis innuit, nisi quod beata Maria virgo ante partum fuit, et post partum virgo inviolata permansit? Quae siquidem manus quae throni eburnei sedile tenuerunt, duo Testamenta designant quae ubique Christi humanitatem quam in beata Maria assumpsit, praedicaverunt. Quatuor ergo leones qui juxta praedictas manus stant, quatuor sunt Evangelia quae itidem quod duo Testamenta, clamant. Duodecim leunculi qui super sex gradus fuisse dicuntur hinc atque inde, duodecim virtutes sunt, quas constat beatam Mariam pro certo possedisse, scilicet spiritualem vitam, gaudium in Spiritu sancto, longanimitatem, patientiam, bonitatem, benignitatem, mansuetudinem, fidem, incomparabilem modestiam, virginitatem, compassionem, in sancto proposito perseverantiam. Spiritualem siquidem vitam, beata Maria duxit, quia nisi vita ejus plena virtutibus refulsisset, nullatenus Deo placuisset. Gaudium nimirum in Spiritu sancto habuit, quoniam ipsa in hymno suo repleta spirituali jubilatione dixit: Exsultavit spiritus meus in Deo salutari meo (Luc I) . Longanimitas quippe illi non defuit, quia quae ab Angelo audiebat, licet inaudita et insolita essent, tamen ut in se complerentur per longanimitatem exspectabat. Virtute patientiae non modicum exstitit munita, quia contumelias quas Filio suo, imo etiam sibi a perfidis Judaeis inferri vidit, patienti animo toleravit. Bonitatem et benignitatem quis deneget illam habuisse, quam procul dubio fatemur omni abundantia floruisse? Mansuetudo autem in ea locum praecipuum obtinuit, quia nisi mansueta esset, Spiritus sanctus nullatenus illam ad habitandum elegisset. Fides vero incomparabilis, ut supra jam memoravimus, cordis ejus intima perlustravit, quia licet contra humanae naturae jura esset hoc quod Virgo Mater Dei eligebatur, tamen sic fieri nutu Dei posse credidit, ut ab Angelo ei evangelizabatur. Modestiam ipsius, id est religionem quibus praeconiis possumus, ut dignum est attollere, quam scimus pro certo orationi et silentio vacantem ab Angelo repertam esse. Fores vero Virginitatis et insignia integerrimae castitatis ipsius, quibus laudibus, ut decet, praedicabimus, quae in tantum dissueverat perfrui alloquiis hominum, ut etiam ingressum et affatum expavesceret angelicum? Unde Angelus: Ne timeas, inquit, Maria, invenisti gratiam apud Dominum (ibid.) . Cum enim illud ave gloriosum et ineffabile a Deo missum Gabriel Angelus illi evangelizaret, quia illam timentem vidit, illico submonuit ne quidquam timeret. Compassionem vero et dolorem quem Beata Maria sustinuit in morte Filii sui, non valet quisquam ad liquidum infundere humano auditui. Videbat enim Deum et Dei Filium quem de Spiritu sancto Virgo Mater conceperat, ab impiissimis Judaeis crucifixum, et, quasi alicujus facinoris reus esset, cum latronibus praedamnatum. Quomodo autem possent viscera Beatae Mariae Virginis sine doloris experientia remanere, cum ipsa cerneret carnem suam quam Dei Filius in suo utero pro salute generis humani acceperat, in cruce pendere? Perseverantiam in sancto proposito et in bonis operibus quam Beata Maria habuit, facili judicio possumus ostendere, quia illam constat remota omni ambiguitate ab ortu suo usque ad finem hujus mortalis vitae per omnia Deo placuisse. Post haec autem liber Regnum superiorem sententiam tali fine conclusit dicens: Non est factum tale opus in universis regnis (III Reg. X) . O quam admirabilis est ista conclusio! Vere, tale opus in universis regnis factum non fuit, quale est illud quod Virgo de Spiritu sancto concepit, Virgo Dei Filium genuit, Virgo

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inviolata post partum permansit. Non est, inquam, ab initio mundi factum tale opus ut Virgo Mater lactaret Filium Dei virgineis uberibus. Igitur quoniam huic secundo throno, id est volumini ubera Sponsi dederunt exordium, dignum est ut eidem throno ubera Sponsae Virginis et Matris finem tribuant idoneum. RECAPITULATIO A SUPERIORIBUS QUOMODO ISTA SENTENTIA, SCILICET, «NIGRA SUM, SED FORMOSA,» DEBEAT REFERRI ALLEGORICE AD NOSTRAM NATURAM. Puto ergo quod nihil delinquimus, si istam sententiam: Nigra sum, sed formosa, ad nostram naturam allegorice referimus. Spiritualis enim spiritualiter intelligit omnia. Dicat ergo nostra natura, non in eo statu existens in quo a summo Creatore est condita, sed in eo potius in quo remansit a diabolo seducta: Nigra sum propter inobedientiam et peccatum primi Adae patris mei, sed formosa futura sum propter obedientiam et justificationem secundi Adae, scilicet Christi redemptoris mei. Unde Paulus dicit: «Sicut per inobedientiam unius hominis peccatores constituti sunt multi, sic per obedientiam unius justi constituentur multi (Rom. V) .» Sicut tabernacula Cedar, hoc est sicut Cedar quondam factus est instabilis propter persecutionem quam patiebatur a vicinis suis, sic ego amodo instabilis ero et nunquam in eodem statu permanebo propter superbam spem inanis gloriae quam mihi diabolus falso spopondit, quando ad credendum sibi mihi persuasit, dicens: «Si de fructu vetito comederitis, aperientur oculi vestri, et eritis sicut dii (Gen. III) .» Sicut pellis Salomonis. Ecclesia catholica pro certo tenet et credit, quia beata Maria, quae semper virgo inviolata permansit, de nostra corrupta natura et peccatrice massa originem traxit. Quae beata Virgo non solum pellis, sed etiam tabernaculum Salomonis, id est veri pacifici Christi facta est, quando idem Christus pro 330 salute generis humani de ea nasci dignatus est. Dicat ergo natura nostra; Per primum Adam peccatorem nigra facta sum, sed per secundum Adam meum redemptorem formosa futura sum. Nigra sum, quia diabolo magis quam Deo credidi, sed formosa futura sum, quia de me carnem accipiet Filius Dei, et me reducet ad contemplandam divinae majestatis gloriam, ad quam de eo statu in quo creata eram, sine mortis dolore transiissem, nisi a diabolo spe seducta inani miserabiliter cecidissem. Nolite me considerare quod fusca sum, id est nolite me contemplari talem, qualis suadente antiquo hoste effecta sum, sed potius talem contemplamini, qualis a summo Creatore creata sum. Quia decoloravit me sol. Si per solem tentationem accipimus, verum et probatissimum sensum habemus. Dicit enim Dominus in Evangelio de seminibus supra petram seminatis, id est de infidelibus Christianis et perversis haereticis, quia: «Sole orto aruerunt (Luc. VIII) ,» hoc est orta tentatione in fide et operatione defecerunt. Denique in libro Psalmorum scriptum reperitur: «Per diem sol non uret te (Psal. CXX) ,» id est in prosperitate tentatio nulla decipiet te. Dicat ergo nostra natura: quia sol me decoloravit, hoc est tentatio illata a diabolo colorem immortalitatis et innocentiae mihi abstulit, et colore mortis, et nigredine peccati me decoloravit. Filii matris meae pugnaverunt contra me. Mater nostrae et angelicae naturae clementissima gratia est Creatoris Dei, a qua mirabiliter sunt creati homines et angeli, sicut dicitur in Genesi. «In principio creavit Deus coelum et terram (Gen. I) ,» id est in seipso qui est principium omnium creaturarum creavit Deus angelicam et terrenam naturam. A qua videlicet angelica natura illi angeli per superbiam recedentes apostataverunt, qui postea daemones effecti contra nostram naturam in paradiso mediante serpente pugnaverunt. De quibus in hoc loco eadem natura nostra merito conqueritur dicens: Filii matris meae pugnaverunt contra me, ac si dicat: Illi qui mecum a summo Creatore misericorditer creati sunt, ipsi me de paradiso, in quo posita eram, per serpentis suggestionem crudeliter expulerunt. Posuerunt me custodem in vineis; vineam meam non custodivi. Possumus istam sententiam secundum illum sermonem interpretari de quo scribitur in Genesi: «Plantaverat autem Dominus paradisum voluptatis a principio, in quo posuit hominem quem formaverat, ut operaretur et custodiret illud (Gen. II) .» Quasi enim in vineis nostra natura custos posita fuit, quando Deus in paradiso diversi generis arboribus consito primum hominem misit, ut videlicet cogitando et loquendo quod Deo placitum esset, operaretur, et seipsam custodiret, ne a diabolo deciperetur. Quasi vero vineis paradisi nostra natura praelata fuit, quando a Domino audivit: «Ex omni ligno paradisi comede, de ligno vero scientiae boni et mali noli comedere (ibid.) ,» verumtamen quia natura nostra hanc obedientiam minime servavit sed diabolo per inobedientiam se substravit, idcirco et vineas paradisi quibus praelata fuerat, perdidit, et seipsam, hoc est vineam suam, male custodivit.

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RECAPITULATIO A SUPERIORIBUS SECUNDUM MORALITATEM. Igitur quoniam Deo auxiliante triplicem hujus sententiae allegoriam disseruimus, restat nunc ut eodem adjuvante, moralitatem, quae in ea latet, in lucem proferamus, et nobismetipsis, id est animae nostrae, rationabiliter coaptemus. Dicat ergo etiam anima nostra tentationibus diversis et innumerabilibus fatigata, spinis et aculeis, calamitatibus et miseriis suae carnis vallata, putredine et corruptione suae carnis vel corporis aggravata: nigra sum, quia «caro concupiscit adversus spiritum (Galat. V) » et indesinenter me corpus meum trahit ad peccatum (Rom. VI) ; nigra sum, inquit, quia video aliam legem in membris meis repugnantem legi mentis meae et captivum me ducentem in legem peccati. Et modo subjunxit qualiter nigra sit, scilicet, sicut tabernacula Cedar. Hoc est pigra et instabilis sum in bonum, prona vero et labilis sum ad malum. De isto autem Cedar conqueritur Psalmista cum dicit: «Heu mihi! quia habitavi cum habitantibus Cedar (Psal. CXL) .» id est cum his qui tenebras diligunt, et instabiles mente et corpore existunt. Unde Dominus ad Ezechielem loquitur dicens: «Fili hominis, inter scorpiones habitas (Ezech. II) .» Filium autem hominis prophetam suum ideo Dominus appellavit, ne idem propheta inde superbiret, et ad vanam gloriam laberetur, quod ei Deus suus loqueretur. Scorpio autem blandum et mitem vultum habet, sed retro vulnere arcuato cauda percutere solet. Qui sunt ergo isti scorpiones, nisi seductores homines, et daemones, vitia carnis, nostrae concupiscentiae, et voluptates? Ista enim omnia quasi scorpiones blandum et suavissimum vultum nobis ostendunt, quando ad peccatum delectando nos attrahunt; sed postea retro quasi cauda percutiunt, et occidunt, quia pro eo quod eis ad peccandum assensum praebuimus, in extremo die judicii cum his omnibus irremediabiliter inferni tormenta sustinebimus. Et hoc est nimirum scorpiones cauda ferire et occidere. Quos igitur Ezechiel scorpiones vocat, illos David in Psalmis, 331 et Salomon in Canticis Cedar appellat. Sed et tu quicunque in Ecclesia Dei stans oras vel psallis, quotiescunque mente et animo per universum mundum vagaris, et immundis et tetris turpibusque intus cogitationibus devastaris, scito te habitare cum habitantibus Cedar. Sed et hoc quod sequitur in eodem versu, valde timendum est, scilicet: «Multum incola fuit anima mea (Psal. CXL) ,» id est valde diu delectata est anima mea cum habitantibus Cedar, hoc est cum vitiis et concupiscentiis, cum voluptatibus et immundis desideriis, quae omnia Cedar, id est tenebrae sunt, quia hominem tenebrosum faciunt. Unde Paulus dicit: «Fuistis aliquando tenebrae,» id est peccatores; «nunc autem lux,» id est justi, in Domino (Ephes. V) .» Sed formosa sum sicut pellis Salomonis. Paulo superius similitudinem dedit, videlicet tabernacula Cedar, quibus se assimilavit cum dicit: Nigra sum sicut tabernacula Cedar. Modo vero comparationem reddit, scilicet, pellem Salomonis, cui se per formositatem comparavit dicens: Sed formosa sum sicut pellis Salomonis. Per quam pellem Salomonis diximus superius totum tabernaculum designari, quod de pellibus constructum fuit. Sed necesse est ut aliquid de eo secundum moralitatem loquamur: «Tabernaculum fuit constructum de pellibus rubricatis hyacinthinis et de ciliciis (Exod. XXVI) . Per pelles rubricatas intelligimus martyres, qui sanguinem suum pro Deo fuderunt, per hyacinthinas vero pelles, accipimus confessores, qui pro amore coelestis patriae toto vitae suae cursu laboraverunt. Per cilicia vero, peccatores accipimus. Si ergo anima nostra vult esse tabernaculum Dei, habeat in se charitatem martyrum, fidem confessorum, spem peccatorum. Possideat enim necesse est adhuc inter adversa et prospera fortitudinem et patientiam martyrum. In bonis operibus perseverantiam, et longanimitatem confessorum, poenitentiam et confessionem humilem peccatorum. Praeterea bonum est animae nostrae, ut ipsa sit spiritualiter arca Testamenti, quae erat in tabernaculo Dei. Arca enim de lignis imputribilibus in quadrum erat constituta, optimo et pretioso auro deaurata, super duos vectes in quibus portabatur, stabilita (Exod. XXV) . Si ergo anima nostra exempla sanctorum (qui sunt ligna imputribilia) imitata fuerit, et quatuor Evangelia (quae per quadraturam arcae significantur) memoriter retinuerit, et sapientiae spirituali quae per aurum designatur, operam dederit, et Vetus et Novum Testamentum, quae per duos vectes figuraliter, spiritualiter intellexerit; tunc anima nostra arca spiritualis in tabernaculo Dei erit. In tabernaculo denique urna continens coeleste manna fuit, et duae tabulae testamenti, et virga Aaron quae fronduit (III Reg. VIII; Hebr. IX) .» Ista ergo nos oportet omnia spiritualiter possidere, ut videlicet habeamus urnam continentem manna coeleste, id est ut credamus Christum et verum Deum, et verum hominem esse. Per urnam enim humanitas, per manna vero coeleste ejus divinitas intelligitur. Sed et nihilominus duae tabulae Testamenti necessariae nobis sunt, ut postquam de Christo quod verus sit Deus et verus homo, perfecte crediderimus,

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de Patre et Spiritu sancto, qui per duas tabulas designantur, sanum sensum et catholicum teneamus, credendo quia Pater et Filius et Spiritus sanctus unus sit Deus. Cum ergo sanctam Trinitatem, id est Patrem et Filium et Spiritum sanctum, unum Deum confessi fuerimus, necessarium puto ut de humanitate Christi, quam in beata Maria sumpsit, quae per virgam Aaron demonstratur, catholice sentiamus. Ut videlicet indubitanter credamus, quia sicut eadem virga sine cultura humani auxilii floruit et fructum fecit, sic beata Virgo Maria absque contactu hominis Filium Dei de Spiritu sancto concepit et peperit. Si ergo anima nostra tabernaculum Dei spirituale fuerit, si intra se arcam, urnam, tabulas, virgam Aaron spiritualiter continuerit; tunc veraciter dicere poterit: Formosa sum sicut pellis Salomonis. Nolite me considerare quod fusca sum, quia decoloravit me sol. Quando pro amore Dei et pro intentione coelestis patriae Evangelium auditoribus nostris praedicamus, si forte ex ipsa nostra locutione vanam gloriam incurrimus, vel ideo, quia bene loquimur, vel quia libenter a populo audimur, tunc dicere debet anima nostra vanae gloriae contagio fuscata, nolite me considerare quod fusca sum, id est nolite me despicere quia peccavi, quoniam pro amore Christi inanis gloriae lapsum incurri: non quod ei placeat, si in ejus opere deliqui, sed quia nisi pro amore ejus praedicationis officium assumerem, nullatenus ad hanc peccati maculam devenissem. Vel certe, nolite me considerare quod fusca sum, id est nolite me arbitrari esse peccatricem in mea natura, quia a summo Deo sine peccati macula sum creata: et quod peccatrix modo in praesentia appareo, non naturaliter hoc ex me possideo, sed quia hoc soli justitiae, id est Deo placuit qui me ad istam carnem peccatricem secundum suam justam voluntatem transmisit, ex cujus inhabitatione mea natura peccatum contraxit, quae prius sine peccati labe a bono Creatore creata fuit. Sicut enim vinum bonum cum in vasculum corruptum mittitur, statim corrumpitur, non quod ex natura sua hoc habeat ut corrumpatur, sed participatione vasculi corrupti in quo missum est, corrumpitur: sic anima nostra non naturaliter est peccatrix et corrupta, sed participatione corporis corrupti in quo est posita, cum sit naturaliter incorrupta, efficitur accidentaliter corrupta. Sane quomodo hoc eveniat nullus scit, sed quia ita Deo placet, ab initio et placuit, qui in sua sancta dispositione ab aeterno omnia irreprehensibiliter ordinavit. Et hoc est quod sequitur, quia decoloravit me sol. Filii matris meae pugnaverunt contra me. Filii matris animae nostrae possunt allegorice appellari quinque sensus carnis, scilicet visus, auditus, odoratus, gustus et tactus, a quibus humana caro regitur et gubernatur, sicut materia filiis suis sustentatur et adjuvatur. Qui filii carnis, quomodo quotidiano conflictu adversus animam praelientur, experimento satis probabili possumus indicare. Nonne visus pugnat adversus animam quando oculus videt mulierem ad concupiscendam eam? Unde Jeremias ait: «Oculi mei depraedati sunt animam meam (Thren. III) .» Vere etenim infelices oculi miseram animam depraedantur et oppugnant, cum illicita quae exterius vident, intus illi annuntiant et simplicem castitatem, qua Deo anima nostra familiariter conjungitur, illi auferre moliuntur. Pugnam vero quam auditus noster contra animam indesinenter exercet, facile quilibet ostendere potest. Quidquid enim audimus quod peccatum est, et a bono verae religionis discordat, hoc totum sine dubio animam nostram vulnerat. Quid igitur de odoratu referam qui omnia quae exteriori flatu trahit ad se intus, mittit ad animam? Dumque eum exterioribus delectationibus inficit, quasi vulneribus inflictis illam debilitat et occidit. Os vero nostrum quomodo mentiendo animam interficiat, Salomon interrogatus respondeat, sic enim ipse dicit: «Os quod mentitur, occidit animam (Sap. I) .» Quod profecto David testatur, dicens in libro Psalmorum: «Perdes omnes qui loquuntur mendacium (Psal. V) .» Et Dominus in Evangelio: «Ex ore tuo, inquit, justificaberis, et ex ore tuo condemnaberis (Matth. XII) .» Ergo juxta sententiam Domini, os nostrum loquendo, et comedendo illicita, nos condemnat. Si vero comedimus quae nobis necessaria sunt, et loquimur quae Deo placita sunt, tunc os nostrum nos justificat. Quibus vero telis tactus oppugnet animam, noverunt milites Christi, qui quotidie praeliantur spiritualia praelia Domini. Unde et divina Scriptura testatur: «Sicut qui tangit picem ab ipsa inquinatur, sic qui tangit uxorem proximi sui, immundus prorsus efficitur (Eccli. XIII) .» Dicat ergo anima nostra: Filii matris meae pugnaverunt contra me, id est quinque sensus qui in carne regnant, indesinenti bello me impugnant, et quia dum in carne sum, uti me oportet eorum solatio, nullatenus valeo transire, vel solam diei horam absque illorum praelio. Posuerunt me custodem in vineis, vineam neam non custodivi. Manifestum est et nullus religiose vivens dubitat, quia quanto diligentius unusquisque alterius actionibus custodiendis invigilat, tanto minus sollicite aliquando suas actiones observat. Quod autem nostrae actiones vineae appellantur, beatus Gregorius in suis Scripturis testatur. Dicat ergo anima nostra: Posuerunt me custodem in vineis, vineam meam non custodivi. Quod est dicere: Dum proximorum meorum actiones custodire et emendare cupio, meas proprias actiones minus studiose procuro. Siquidem et illi qui temporales hujus saeculi vineas custodiunt, multoties ventorum flantium et imbrium irruentium pericula incurrunt, nec

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timent pro earumdem vinearum observatione proprii corporis jacturam sustinere, dum diligunt praemia temporalia, quae a dominis vinearum arbitrantur se posse recipere. Sic namque, sic faciunt praelati sanctae Ecclesiae. Cum enim per praedicationem colligendis animabus inserviunt, minus quam necesse esset, interdum sui ipsius sollicitudinem gerunt, et nonnunquam pro ipsa sua praedicatione a persecutoribus mortem corporis libenter suscipiunt, quia aeterna praemia quae a Deo exspectant, ante oculos suos proponunt, quod utique apostoli et martyres fecerunt. QUALITER ISTA SENTENTIA, «NIGRA SUM, SED FORMOSA,» ASCRIBATUR BEATAE MARIAE. Igitur, postquam triplicem allegoriam et simplicem moralitatem hujus sententiae Deo opitulante in lucem protulimus, dignum est ut ad beatae Mariae Virginis personam stylum nostrum dirigamus, quia in ejus laudem et sanctae Ecclesiae honorem totum librum istum a Spiritu sancto editum per os Salomonis non dubitamus. Dicat ergo et ipsa beata Maria: Nigra sum, sed formosa, filiae Hierusalem, id est: ego filia coelestis Hierusalem quae sursum est mater nostra (Gal. IV) ; nigra sum in praesenti saeculo, hoc est contemptibilis et despecta et moerore confecta, dum video filium meum invidia Judaeorum crucifixum, sanguine suo perfusum; nigra, inquam, prae tristitia praesenti sum, quia dolor anxietatis filii mei pertingit usque ad dolorem cordis mei. Unde et Simeon ad beatam Mariam dixit: «Et tuam ipsius animam pertransibit gladius (Luc. II) ;» quasi diceret: Dolor passionis et mortis Christi Filii tui pertinget et vulnerabit intima penetralia cordis tui; sicque veram ejus genitricem te esse comprobabis, cum ei in cruce morienti intimo cordis affectu compatieris. Dicat ergo beata Maria: Nigra sum prae dolore et tristitia, quia video filium meum in cruce morientem; sed formosa sum, id est gaudeo et exsulto, quia considero illum a morte jam resurgentem. Sicut tabernacula Cedar nigra sum, sed sicut pellis Salomonis formosa sum. Per tabernacula, quae portando de loco ad locum mutantur, transitoria et mutatoria praesentis vitae tristitia intelligitur; per pellem vero, id est per tabernaculum Salomonis, coelestis gloria quam Deus inhabitat, designatur. Dicat ergo beata Maria: Ego quidem transitoria et temporali tristitia pro morte filii mei modo afficior, sed post paululum illi resurgenti, et ad coelos ascendenti, et in coelesti gloria regnanti, congratulabor. Nolite me considerare quod fusca sum, quia decoloravit me sol, id est nolite me despectui habere, nec contemnere, quia in tribulatione praesenti afflictam cernitis, quoniam quidem, o vos Judaei, propter filium meum, qui est sol justitiae, contribulor, et affligor, quem vos interfecistis. Vel certe nolite me contemplari calamitate et miseria pro morte filii mei denigratam, sed considerate me jam ad dexteram ipsius collocatam, et in aeterna claritate cum ipso regnantem. Filii matris meae pugnaverunt contra me. Spiritualiter autem filii matris beatae et perpetuae Virginis Mariae, Judaei iniqui fuerunt, qui filii Synagogae exstiterunt, et sine misericordia contra eam pugnaverunt, quando ejus filium in cruce peremerunt. A dolore enim et passione quam Filius in cruce sustinuit, nullatenus immunis fuit. Praeterea credendum est quia anxietas mortis Christi in cruce morientis pervenit usque ad viscera piissimae Matris, nec poterat nisi cum magno dolore in cruce pendentem aspicere, quem et verum Deum esse, et de carne sua carnem sciebat veraciter assumpsisse. Posuerunt me custodem in vineis, vineam meam non custodivi. Exsulta et lauda, habitatio Sion (Isa. XII) ,» id est Ecclesia de gentibus congregata, quae a tanta custode custodiris et gubernaris. Laetare, inquam, quia Regina coelorum et Domina angelorum posita est custos tui. Tu es enim spiritualis vinea Domini Sabaoth, id est exercituum: tibi praelata est custos mundi imperatrix, quae exaltata est super choros angelorum. De qua merito dicitur, quia vineam suam non custodivit, et quod propter infidelitatem et superbiam Judaeorum Synagogam deseruit. Quam utique videbatur debuisse carnali affectu custodire, et orationum suarum auxilio fovere, quia de ea dignoscitur carnalem originem duxisse. Verumtamen quoniam ipsa Synagoga, id est perfidi Judaei illam quasi sororem suam spreverunt, et eam honorare noluerunt, justo Dei judicio, in hoc saeculo et in die judicii, ejus intercessione et auxilio carebunt. «Tu ergo Hierusalem, lauda Dominum, et lauda Deum tuum, Sion (Psal. CXLVII) ,» id est Ecclesia gentium, quae ideo Hierusalem et Sion spiritualiter appellaris, quia Deo, qui est pax summa, per fidem et operationem inhaerere comprobaris; et in specula, hoc est in altitudine spiritualis vitae stans, hostes tuos de longe contemplaris. Lauda, inquam, Ecclesia, Deum qui dedit tibi tantam advocatricem, videlicet suam gloriosam genitricem, quam idcirco Judaei despiciunt, quia illam fuisse suam sororem secundum carnem dicunt. Nos igitur Judaeorum perfidia et impietate depulsa a cordibus nostris, honoremus et magnificemus debita cum laude Matrem nostri Redemptoris. Hoc scientes pro certo, quia honor et laus, et gloria, et magnificentia, quam exhibemus ejus genitrici in terris, ipsum nobis benevolum

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faciet et in coelis, et venientem ad judicium placabilem sua majestate cum angelis et archangelis. 8. Tommaso Cistercense e Giovanni Algrino CANTICA CANTICORUM Cum duobus Commentariis plane egregiis, altero venerabilis Patris F. THOMAE Cisterciensis monachi; altero longe reverendi cardinalis M. Joannis HALGRINI ab Abbatisvilla. (Impensis et accuratione Jodoci Badii Ascensii, bibliopolae jurati in inclyta Parisiorum Academia, ad nonas Febr. sub Pascha, 1521, in-fol.) Nigra sum, sed formosa, etc. [CARD.] More prophetae procedit hoc canticum, nam subito mutat personas, subito mutat et tempora. Locuta enim erat paulo ante beata Virgo de gaudio assumptionis suae, et de eodem locuti erant angeli: nunc beata Virgo loquitur de dolore quem habuit tempore passionis filii sui: et convertit sermonem suum ad adolescentulas, dicens: Nigra sum animi moerore confecta. Vel sic: Nigra sum, despecta, offuscata, obscurata, decolorata, quia decoloravit me sol moriens; decolorem me fecit sol obscuratus et offuscatus: de qua solis offuscatione et obscuratione dicit Isaias, loquens de Christi passione: «Non est species neque decor, et vidimus eum, et non erat aspectus, despectum et novissimum virorum, virum dolorum et scientem infirmitatem; et quasi absconditus est vultus ejus, et despectus; unde nec reputavimus cum.» In passione enim in Christo non apparuit species vel decor majestatis, sed quasi leprosus, ob similitudinem carnis peccati reputatus est. Unde Isaias: «Et putavimus eum quasi leprosum,» absconditus enim fuit in eo vultus potentiae divinae, et apparuit in doloribus infirmitas humanae naturae. Unde et habitus est despectus, nec reputatus est Dei Filius. Ipso igitur sic despecto, despecta est et mater; ipso sic offuscato, offuscata est mater, nec Dei Genitrix reputata est. Dicit ergo: Nigra sum in apparentia et in opinione hominum infidelium, sed in veritate formosa sum. Nigra sum in apparentia et despecta tanquam mater leprosi, sed formosa in veritatis existentia, et tanquam veri Dei Genitrix gloriosa. Nigra sum sicut tabernacula Cedar; quia non reputor tabernaculum regis justitiae, sed sicut caeterae matres, quarum ventres tabernacula sunt filiorum moeroris et tenebrarum: sic reputata sunt inter tabernacula Cedar, quod interpretatur tenebrae vel moeror. Verumtamen ego formosa sum sicut pelles Salomonis. Sicut pelles dedicatae vero Salomoni, Christo vero pacifico. Nam, sicut illae pelles arcam typicam continuerunt, sic ego intra mea viscera veram arcam continui, Christum videlicet, cujus caro significatur per arcam, cujus anima designatur per urnam auream, quae erat in arca, et Deitas designatur in manna: et sicut pelles protegebant totum tabernaculum, sic sub umbra meae defensionis protego totam Ecclesiam. Ego quidem similis pelli rubricatae; quia per compassionem doloris tincta sum in passione Filii. Similis quoque pelli hyacinthinae contemplatione coelestium et amore. Nolite ergo considerare, o filiae Hierusalem, quod fusca sum; sed considerate quod formosa sum. Nam ideo fusca sum, quia decoloravit me sol, cui in passione sua «non fuit species neque decor.» Recipiet autem speciem et decorem, et ego cum ipso similiter recipiam. Nam per gloriam resurrectionis credetur ipse Deus; credar et ego Genitrix Dei. De hac autem obfuscatione beatae Virginis in opinione Judaeorum infidelium, subdit ipsa: ... 9. Alano di Lilla ALANI DE INSULIS DOCTORIS CELEBERRIMI, COGNOMENTO UNIVERSALIS, COMPENDIOSA IN CANTICA CANTICORUM AD LAUDEM DEIPARAE VIRGINIS MARIAE ELUCIDATIO. Nigra sum, sed formosa, filiae Jerusalem, quasi tabernacula Cedar, sicut pelles Salomonis. Nigra sum, id est gravida, et ita videor virginitate non esse integra, sed tamen sum formosa, quia virgo mentis et corporis integritate. Unde dirigens sermonem ad reliquas Judaeae virgines, ait: Filiae Jerusalem, quasi nigra videor humana opinione; sed tamen formosa sum, id est Virgo rei veritate. Nigra inquam, sicut tabernacula Cedar. Per tabernacula Cedar, significatur impetus tribulationum, cui exposita fuit Virgo gloriosa; non tantum in se, sed et in filii angustia. Filii enim tribulationes vocabat suas, et ejusdem adversitates a se non faciebat alienas. Unde ad ipsam dictum est: «Et tuam ipsius animam pertransibit gladius (Luc. II) .» Eleganter autem

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per tentoria Cedar tribulationes figurantur. De Cedar enim legitur, quod semper in tabernaculis habitabat; unde et tabernacula ejus variis turbinibus et procellis ventorum et imbrium erant exposita. Unde eleganter per tentoria Cedar Virgo figuratur quae in se et in filio tribulationibus exposita fuisse legitur. Sed formosa sicut pelles Salomonis. Pelles Salomonis erant de coriis mortuorum animalium picturatae varietate colorum. Eleganter ergo Virgo comparatur pellibus Salomonis propter varietatem virtutis, cujus carne vestitus est verus pacificus, id est Jesus Christus. Et quia Joseph maritus Virginis (Matth. I) videns Virginem gravidam obstupuit, et quomodo gravidatio illa facta fuerit ignoravit, potest introduci loquens ad sponsum in hunc modum: Nolite me considerare, quod fusca sim, quia decoloravit me sol. Nolite considerare quod fusca sim, id est quod fusca propter gravidationem videor; quia non vir, sed sol justitiae decoloravit me, id est valde coloravit; non colore mali, sed colore mentali. Quia ita me gratia Spiritus sancti gravidavit, quod virginitatem non abstulit; vel ita gravidam me fecit quod me decoloravit, id est extra colorum proprietatem, scilicet naturam aliarum gravidarum me constituit. Et vere nigra per tribulationes, quia: Filii matris meae pugnaverunt contra me; posuerunt me custodem in vineis. 10. Pietro di Celle PETRI CELLENSIS PRIMUM. DEINDE S. REMIGII REMENSIS ABBATIS, DEMUM CARNOTENSIS EPISCOPI EPISTOLARUM EPISTOLA LXXXVIII. AD EUMDEM. Domino ALBERTO cancellario, PETRUS abbas Sancti Remigii. Pro aliis rogare cogimur, qui pro nobis vix exorare sufficimus. Nec tamen in postulatione haesitamus, quam commendat justitia postulationis, conscientia postulantis, et pietas postulati. Justitia est suum jus unicuique servare; conscientia bona est, dilecto domino pro conservo fideli humiliter supplicare; pietas paterna est, propositum etiam inflexibile anxiato filio benigne remittere Scimus, domine amantissime, potestati apostolicae subesse quod mandare voluerit, et dicere huic: Vade, et vadit, et alio: Veni, et venit; et servo: Fac hoc, et facit (Matth. VIII) . Sed jungatur currus potestatis et pietatis, sublimitatis et mansuetudinis, ut media sternatur charitas propter filias Jerusalem. Certe, ut credo, aut nullas filias in terris habet Ecclesia, quae est mater nostra, aut in Clarevallensi coenobio quotidie parturit, et maternis uberibus alit matrissantes filias. Siquidem Jesu Christi de Virgine nati, in mundo religiose conversati, in cruce sub Pontio Pilato affixi, vera vestigia vestri Clarevallenses sequuntur, caste vivendo, Patri spirituali in omnibus obediendo, carnem suam cum vitiis et concupiscentiis quotidie crucifigendo. Si Deus pro his, quis contra illos? Ecce pulli isti sub alis gallinae, quae se contra milvos spiritalis nequitiae opponit, lambunt sanguinem Dominicae passionis, et dormiunt sub umbra juniperi, labores suos consolantes dilectione protectoris sui. Quanti itaque periculi sit excitare quiescentes sub hac ficu et vinea, non carnali, sed spirituali dulcedine, discernat discretissima moderatio apostolica, et non auferat ab eis desiderabile oculorum suorum. Annon sunt alii praeter istum? imo super numerum multiplicati sunt qui dicunt: Ecce ego, mitte me (Isa. VI) , cum iste dicat: A, a, a, Domine Deus, nescio loqui, quia puer sum (Jer, I) . Forte dicitis: Quid ad te de Clarevallensibus, cum Samaritani non coutantur Judaeis, et nigra Aethiopissae facies et vestis differat ab illa veste et facie, quae apparuit apostolis in transfiguratione Domini? Ad quod ego: Ex multarum facierum personis, regina quae assistit a dextris filii, in vestitu deaurato circumdata varietate, cantat in psalterio decachordo ante sedentem in throno gratiae, unde procedunt diversa charismata gratiarum, cum sit tamen unus, atque idem spiritus idem Dominus.

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indice dei nomi e dei luoghi

Abelardo 38, 89 Adamo di San Vittore 31, 34, 72 Adelelmus 20 Adriatico, mare 54 Afflighem 23, 24, 28, 59 Africa 25, 26, 28, 44 Agostino, Sant’ 27 Alano di Lilla 14, 33, 34, 85 Alcmene 19 Algrino di Abbéville, Giovanni 34, 86 Alvernia 11, 17 Amari, Michele 42, 45 Amico, Vito 45, 46 Anselmo di Gemblaux 23, 24, 59 Apelle 22 Arca Magna 42, 43, 45 Arezzo, Mario 43 Arlotta, Giuseppe 42, 45 Armento 54 Aronne 31, 36 Astarte 18 Bagnoli, Alessandro 57 Barbarossa 45 Barcellona 42, 53, 54, 55 Bartolomé Sebastiàn de Aroitia 43 Bartolomeo d’Aragona 45 Bartolomeo il Giovane 45 Basilicata 54, 55, 57 Beaucaire 30, 36 Beaulieu-sur-Dordogne 21 Beissel, Stephan 20, 27 Belgio 34, 59 Benedettini 14, 37, 42, 53 Benenato 41 Berlino 30, 36, 37 Bernardo di Angers 19

Bernardo di Clairvaux, San 14, 31, 60 Bologna 25 Bologna, Ferdinando 57 Bonanno, Giacomo 44, 48, 49, 54 Bonne-Espérance 34 Borgogna 17 Borgo San Sepolcro 30 Brabante 23, 59 Caietano, Ottavio 41, 43, 44, 46 Calabria 14 Calvinisti 24 Cambier, Odone 24 Camilliani, Camillo 43, 45 Camino Catalan 45 Campania 54 Cantico dei Cantici 9, 14, 23, 25, 26, 28, 29, 31, 33, 36, 37, 52 Capo Tindari 42 Cappanari, Stephan 14, 18, 27, 44 Carli, Enzo 57 Carlo Magno 42 Castanea 46 Castell’Umberto 46 Castore 41 Causa, Raffaello 57 Celti 18 Cerere 18 Chanson de geste 42 Chartres 13, 17, 27, 28, 37 Chiesa Cattolica 23 Cibele 19, 44 Cicerone 45 Cielo d’Alcamo 29 Cistercensi 37, 38 Citeaux 33 Clairvaux 14, 31, 33, 37, 60

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Clermont-Ferrand 20, 22 Cluny 22, 45 Cluverio, Filippo 43, 46 Collesano 25 Colonna, Marcantonio 45 Compostela, Santiago de 42, 45, 53, 55 Concilio di Trento 43 Concilio Romano 41 Conques 19, 20, 27 Controriforma 20 Correnti, Gaetano 14, 49 Crea 14 Crescenzio, Antonello 24 Curator, Martino 42 De Arnedo, Giovanni 43 De Francovich, Géza 37, 57 Del Pozzo, Francesco 43 Demetra 18 Diana 19 Digione 11, 21, 22 Di Marzo, Gioacchino 45, 57 Dioscuri 41 Divina Sapienza 30, 31, 51, 52 Divinità Ctonie 18, 19 Du Broc de Segange, Luc 18, 27 Durand-Lefebvre, Marie 14, 18 Ecclesiastico 35, 52, 78 Eloisa 38 Enea 19 Ercole 19 Etienne II 20 Europa 9, 13, 23, 24, 25, 33, 45 Eutichio 41 Ezechiele 35, 83 Farfa, abazia 22 Fazello, Tommaso 43, 46 Federico II di Svevia 29 Federico III 45 Ferraro, Carmelo 47 Ficarra, Angelo 41 Filippo di Harveng 14, 34, 35, 38, 73, 77 Filippo Neri, San 46 Forsyth, Ilene H. 11, 20, 26, 27, 28, 37, 55 Francia 14, 17, 18, 19, 26, 29, 42, 49, 51 Frederic Marès, Museu 53 Gagini 57 Galizia 54, 55 Garufi, C. A. 42, 45

Giuseppe Fazio

Gerardo 31 Geremia 20 Germania 20, 28 Gerusalemme 31, 32, 34, 37, 42, 45 Gesuiti 20, 23 Giacobini 17 Giardina, Nicola 44, 45, 46 Gilberto di Nogent 30 Gimnasium 45 Gioiosa 42 Giuliana, Santa 41 Goffredo di Auxerre 33, 72 Grande Madre 13, 18 Gregorio Magno, San 18, 41, 45 Guardia Perticara 54 Guglielmo di Saint-Thierry 33 Guido, abate 22, 28 Horus 18 Huynem, Jacques 18, 27 Ianuaria 41 Immacolata 46 Isacco 19 Isfar y Corillas, Giliberto 43 Iside 18 Israele 30, 31 Italia 9, 18, 41, 43, 45, 47, 49, 53, 54, 57 Laconia 41 Leda 41 Le Puy 11, 23, 24, 27, 28 Libano 35, 52, 78 Liber Sancti Jacobi 45 Libri Carolini 19, 27 Limosino 17, 21 Lipari 9, 42, 45 Loreto 23, 24 Luca, San 25, 28 Lucania 54 Lucca 57 Madonna di Trapani 43 Madrid 45 Majestat Batlló 57 Mâle, Émile 29, 37 Marenostrum 42 Margherita d’Austria 23 Marsat 21, 27 Martino I 45 Massiccio Centrale 11, 17 Mediterraneo, mare 11, 14, 24, 35, 42, 51, 54

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Indice dei nomi e dei luoghi

Mercurio 45 Messina 9, 42, 47, 54 Meymac 25 Molompize 21 Monreale 24 Monte Giove 42 Monteverdi, Claudio 28 Montserrat 11, 14, 24, 25, 28, 42, 53, 54 Moreneta 28, 42 Moss, Leonard 14, 18, 27, 44 Moulins 18, 27 Museu Nacional d’Art de Catalunya 53, 55 Musulmani 42 Napoli 54, 55, 57 Nino Pisano 46 Nogent-sous-Coucy 30 Occidente 25 Odo de Gissey 23, 26 Oliviero 42 Oratoriani 46 Orcival 11, 21, 27 Oreste 41 Origene 26 Orlando 42 Oropa 11, 14 Palazzo Abatellis, Museo 54 Palermo 24, 37, 42, 44, 45, 46, 48, 54 Patti 9, 14, 41, 42, 43, 44, 45, 46, 47, 53 Persefone 18 Perseigne 33 Pier Damiani, San 30 Pierluigi da Palestrina 28 Pietro d’Aragona 43 Pietro di Celle 37, 87 Pietro ospitaliero, fra 42 Pinus Joannes 23, 28 Pirenei 11, 17 Pisa 57 Pisano, Salvatore 44, 48 Plinio il Vecchio 21, 22, 27, 28, 41, 45 Polizzi Generosa 46 Polluce 41 Premostratensi 37 Presbitero Martino 37 Previtali, Giovanni 57 Primo Libro dei Re 30 Proserpina 18 Provenza 11, 17, 45 Puglia 11, 54

Rais Dragut 45 Rèau, Louis 18, 19, 27 Rebecca 33, 67 Regia Trazzera delle Marine 42 Regina di Saba 32 Requinses, Calcerando 24 Rohault de Fleury, Charles 13, 20, 27 Roma 9, 22, 25, 27, 28, 37, 38, 42, 45, 46, 54 Ruggero I 42 Ruggero II d’Altavilla 42 Ruperto di Deutz 34 Saillens, Emile 14, 18, 27 Sainte Foy 19, 20, 21, 27 Saint Pierre 21 Saint-Remi 37 Salomone 30, 31, 32, 33, 35, 36, 63, 67, 70, 77 San Bartolomeo, abazia 42 San Bartolomeo, ospedale 42 San Martino d’Agrì 54 San Paolo fuori le mura, abazia 22 San Salvatore, abazia 14, 42, 53 Santa Maria degli Angeli, chiesa 24 Santa Maria dell’Ammiraglio, chiesa 54 Santa Maria d’Orsoleo 54 Santa Maria Maggiore, chiesa 25 Sant’Arcangelo 54 Sara 19 Sardegna 57 Scheer, Monique 20, 23, 26, 27, 28 Scuderi, Vincenzo 57 Secondo Libro delle Cronache 30 Severino 41 Severino, San 41 Sicilia 9, 11, 12, 13, 14, 29, 41, 42, 43, 44, 45, 46, 49, 51, 54, 57 Siena 44, 57 Simeone 34 Siracusa 27 Smyth, W. H. 45 Solesmes 22 Sorbonne 33 Spannocchi, Tiburzio 43, 45 Spitaleri, Nicola abate 44 Sulammita 29 Terra Santa 25 Tindari 9, 11, 12, 13, 14, 17, 22, 25, 41, 42, 43, 44, 45, 46, 47, 48, 49, 51, 52, 53, 54, 57 Tindaride 41 Tindaro 41, 43, 45

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Tirreno, mare 41, 54 Tommaso Cistercense 14, 34, 86 Tommaso di Vaucelles 33 Tortorici 54 Tournus 21 Ugonotti 17, 24 Université Blaise-Pascal 22

Giuseppe Fazio

Van de Steen, Cornelis 28 Venere 79 Verre 45 Verrine 45 Vie Francigene 42, 45 Viggiano 54 Vilatte, Sylvie 20, 22, 23, 26, 27, 28 Vinciguerra d’Aragona 45

indice delle tavole

Tav. I:

a) Distribuzione delle statue delle Vergini nere esistenti in Francia nel 1550. b) Le Vergini nere nel Massiccio Centrale. c) Le Madonne in trono romaniche nel Massiccio Centrale.

Tav. II:

a) Principali santuari italiani dove è attestato il culto di Madonne nere. b) Le vie del pellegrinaggio medievale verso Santiago de Compostela.

Tav. III:

a) Le vie di Pellegrinaggio in Sicilia. b) Carta topografica del promontorio di Tindari.

Tav. IV:

a) Iside che allatta Horus, bronzo, Epoca Tarda, Il Cairo, Egyptian National Museum. b) Cibele efesina, alabastro e bronzo, II sec., Roma, Musei Capitolini. c) Majestè de sainte Foy, oro, argento dorato, smalti, cristallo, pietre preziose, fine del IX secolo-fine del X sec. con aggiunte posteriori, Conques, chiesa abbaziale di sainte Foy. d) La Vierge d’or de la cathédrale de Clermont, disegno (ms. 145, f. 130 r), fine dell’XI sec., Clermont-Ferrand, Bibliotèque Municipale et Interuniversitaire



Tav. V: Tav. VI:

a) Vergine in trono con il Bambino, particolare, legno rivestito da lamine d’argento, prima metà del XII sec., Beaulieu-sur-Dordogne, chiesa di Saint Pierre. b) Notre-Dame du Puy, legno policromo, copia degli inizi del XIX sec., Le Puy-en-Velay, cattedrale di Notre-Dame. c) Notre-Dame-de- Bon-Espoir, legno policromo, terzo quarto del XII sec., Digione, chiesa di Notre-Dame. d) Notre-Dame de Moulins, legno ricoperto da lamine d’argento, seconda metà del XII sec., Moulins, cattedrale di Notre-Dame. a) Notre-Dame d’Orcival, legno policromo e ricoperto da lamine d’argento, seconda metà del XII sec., Orcival, chiesa di Notre-Dame. b) Notre-Dame-de-la-Bonne-Mort, legno policromo e dorato, seconda metà del XII sec., Clermont-Ferrand, cattedrale di Notre-Dame. c) Notre-Dame-la-Brune, legno policromo e dorato, seconda metà del XII sec., Tournus, chiesa di Notre-Dame.

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d) Notre-Dame de Marsat, legno policromo e dorato, seconda metà del XII sec., Marsat, chiesa di Notre-Dame.

Tav. VII:

a) Notre-Dame de Meymac (insieme e particolare), legno policromo parzialmente dorato, seconda metà del XII sec., Memac, chiesa di NotreDame. b) Salus Populi Romani, tempera su tavola, XII sec., Roma, basilica di Santa Maria Maggiore. c) Madonna di San Luca, tempera su tela, fine XII - inizio XIII sec., Bologna, Santuario della Madonna di San Luca. d) Presbitero Martino, Sedes Sapientiae, legno policromo e dorato, 1199, Berlino, Staatliche Museen.

Tav. VIII:

a) Ipotesi di ricostruzione dell’antica città di Tyndaris. b) Restituzione assonometrica della situazione attuale sul promontorio di Tindari.

Tav. IX:

a) Tindari: veduta aerea del promontorio con il complesso del nuovo santuario, 1956-1979. b) Patti, complesso della Cattedrale di San Bartolomeo, già Abbazia di San Salvatore, 1082.

Tav. X:

a) Tiburzio Spannocchi, Veduta di Patti e rilievo della costa fra Capo d’Orlando e Capo Olivieri, acquerello su carta, 1578, Madrid, Biblioteca National. b) Camillo Camilliani, Veduta di Patti, china e acquerello su carta, 1583, Torino, Biblioteca Nazionale Universitaria.

Tav. XI:

Tiburzio Spannocchi, La Chiesa del Tindaro, acquerello su carta, 1578, Madrid, Biblioteca National.

Tav. XII:

Camillo Camilliani, Il promontorio di Tindari, china e acquerello su carta, 1583, Torino, Biblioteca Nazionale Universitaria.

Tav. XIII:

a) Jean Houel, Il Santuario della Madonna nera di Tindari, acquerello su carta, ante 1775. b) Jean Houel, Rovine dell’antica città di Tindari, acquerello su carta, ante 1775.

Tav. XIV:

a) Tindari, complesso del santuario, inizi XX sec. b) Tindari, complesso del santuario,1933.

Tav. XV:

a) Tindari, complesso del santuario, XX sec., prima metà. b) Tindari, complesso del santuario, XX sec., prima metà.

Tav. XVI:

a) Tindari, complesso del santuario, XX sec., prima metà. b) Tindari, complesso del santuario e immagine votiva della Madonna nera, cartolina postale XX sec., prima metà.

Tav. XVII:

a) Tindari, rovine del Teatro greco, fine IV sec. a. C. b) Tindari, rovine della Basilica ovvero il “Gymnasium”, fine IV sec. a. C.

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Indice delle tavole

Tav. XVIII:

a) Tindari, Santuario vecchio, Portale, pietra arenaria, 1598. b) Tindari, Santuario vecchio, Altare della Madonna, marmi mischi e stucco, XVII-XVIII sec.

Tav. XIX:

Giovanni Federico Greuter, Nostra Signora del Tindaro, incisione, 1664.

Tav. XX:

Ignoto scultore catalano, Madonna di Tindari, prima del restauro, legno policromo, ultimo quarto del XII sec., Tindari, Santuario della Madonna.

Tavv. XXI - XXVIII:

Ignoto scultore catalano, Madonna di Tindari, prima del restauro, legno policromo, ultimo quarto del XII sec., Tindari, Santuario della Madonna.

Tavv. XXIX - LX:

Ignoto scultore catalano, Madonna di Tindari, durante il restauro, legno policromo, ultimo quarto del XII sec., Tindari, Santuario della Madonna.

Tavv. LXI - LXXV:

Ignoto scultore catalano, Madonna di Tindari, dopo il restauro, legno policromo, ultimo quarto del XII sec., Tindari, Santuario della Madonna.

Tav. LXXVI:

Ignoto scultore catalano, Madonna in trono con il Bambino, legno policromo, fine del XII sec., Barcellona, Museu Nacional d’Art da Catalunya.

Tav. LXXVII:

Ignoto scultore catalano, Madonna di Ger, legno policromo, seconda metà del XII sec., Barcellona, Museu Nacional d’Art da Catalunya.

Tav. LXXVIII:

Ignoto scultore catalano-aragonese, Madonna di Vico, legno policromo e dorato, seconda metà del XII sec., Arnedo, Logrono.

Tav. LXXIX:

Ignoto scultore catalano, Madonna di Montserrat, legno policromo e dorato, seconda metà del XII sec., Montserrat, chiesa abbaziale.

Tav. LXXX:

a) Ignoto scultore catalano, Madonna in trono con il Bambino, particolare, legno policromo parzialmente dorato, fine del XII sec., Barcellona, Museu Frederic Marés. b) Ignoto scultore catalano, Madonna in trono con il Bambino, particolare, legno policromo, fine del XII sec., Barcellona, Museu Frederic Marés.

Tav. LXXXI:

a) Ignoto scultore catalano, Majestad Batlò, legno policromo, metà del XII sec., Barcellona, Museu Nacional d’Art da Catalunya. b) Ignoto scultore catalano, Cristo Majestad, legno policromo, fine del XII sec., Barcellona, Museu Frederic Marés.

Tav. LXXXII:

Ignoto scultore catalano, Cristo di Mig-aran, legno policromo, seconda metà del XII sec., Viella, Lérida.

Tav. LXXXIII:

a) Ignoto pittore catalano, Antependium d’altare con Madonna in trono con il Bambino e scene della vita di santa Margherita, tempera su tavola, seconda metà del XII sec., Sant Martì Sescorts, Monastero di Santa Margherita. b) Ignoto pittore catalano, Antependium d’altare con i Re Magi, la Vergine in trono con il Bambino, San Giuseppe e Visitazione, tempera su tavola, inizi del XIII sec., Barcellona, Museu Nacional d’Art da Catalunya.



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c) Ignoto miniatore catalano, Scene di un matrimonio regale, particolare, miniatura dal Liber feudorum maior, Barcellona, Archivio de la Corona de Aragon.

Tav. LXXXIV:

Ignoto scultore catalano-aragonese, Madonna in trono con il Bambino, legno policromo, seconda metà del XII sec., Sant’Arcangelo, chiesa del convento di Santa Maria d’Orsoleo.

Tav. LXXXV:

Ignoto scultore catalano, Madonna in trono con il Bambino, legno policromo e dorato, fine del XII sec. e rifacimenti successivi, Viggiano, santuario della Madonna del Sacro Monte.

Tav. LXXXVI:

Ignoto scultore catalano, Madonna in trono con il Bambino, legno policromo, fine del XII sec. e rifacimenti successivi, Banzi, chiesa Madre.

Tav. LXXXVII:

Ignoto scultore catalano, Madonna in trono con il Bambino, legno policromo parzialmente dorato, fine del XII sec. e rifacimenti successivi, Guardia di Perticara, santuario della Madonna del Sauro.

Tavv. LXXXVIII - LXXXIX:

Ignoto scultore catalano, Madonna in trono con il Bambino, legno policromo, fine del XII sec., Armento, cappella di Santa Lucia al Casale.

Tavv. XC - XCI:

Ignoto scultore catalano, Madonna in trono con il bambino, legno in origine policromo, fine del XII sec., San Martino d’Agri, santuario della Madonna della Rupe.

Tav. XCII:

Antonello Crescenzio, Madonna di Monserrato tra le sante Caterina e Agata, olio su tavola, 1528, Palermo, chiesa di Santa Maria degli Angeli alla Gancia.

Tav. XCIII:

Melchiorre Barresi, Madonna di Monserrato, olio su tela, primo quarto del XVII sec., Monreale, Museo Diocesano.

Tav. XCIV:

Ignoto scultore siciliano, Madonna di Monserrato, legno policromo dorato, fine del XVI sec., Palermo, Museo Diocesano.

Tav. XCV:

a) Ignoto siciliano, Ex voto con la Madonna di Tindari, olio su rame, 1819, Tindari, Museo degli Ex voto. b) Ignoto siciliano, Ex voto con la Madonna di Tindari, olio su rame, prima metà del XX sec., Tindari, Museo degli Ex voto.

Tav. XCVI:

Tindari, Santuario nuovo, attuale sistemazione della statua della Madonna.

Referenze Iconografiche

AISA Barcellona, Tav. LXXXIII a-b Aisa-Scala, Tav. LXXVI Archivio Gaetano Correnti, Tavv. XXI-LXXV Archivio Santuario di Tindari, Tavv. XIV a-b, XV a-b, XVI a-b, XX, XCV a-b Arlotta 2005, Tav. III a C. Awreetus, Tav. VII a Bilardo 2000, Tav. XCII Crassagnes-Brouquet 2000, Tavv. I a-b, IV d G. Colombat, Tav. V b F. Comi, Tav. VIII a-b Davì e Mendola 2008, Tav. XCIII Deconnickb, Tav. XCVI Di Natale 2006, Tav. XCIV Facoltà Teologica di Sicilia 1991, Tav. XIX G. Fazio, Tav. VII d, XVIII a-b R. Ferrer Ibànez, Tav. LXXXI a Firofoto, Tav. LXXXII Forsyth 1972, Tav. I c Fotostock, Tav. LXXVIII Fototeca Barcellona, Tav. LXXXIII c A. Garozzo, Tav. IX b T. de Girval, Tav. V c G. Gladman, Tav. LXXIX

M.-F. Guiller, Tav. VI d J. Gumi, Tav. LXXVII Houel 2004, Tav. XIII a-b Husky, Tav. VII c J. Jahnke, Tav. VI a Jorio 2008, Tav. II a Jung Inglessis 2001, Tav. VII b Mangouste35, Tav. V d Museu Marés 1979, Tav. LXXX a-b, LXXXI b R. Payette, Tav. XVII b L. Pedicini, Tavv. LXXXIV-XCI Pincopallo, Tav. IV b Polto 2001, Tav. X a, XI M. Rappazzo, Tav. XVII a Russo 1994, Tav. X b, XII Sabinolembo, Tav. VI c Scala, Firenze, Tav. IV c Sjwells53, Tav. V a Soprintendenza Antichità della Sicilia Orientale, Tav. IX a Tigano 1995, Tav. III b R. Valette, Tav. IV a M. Zentgraf, Tav. II b

Illustrazioni

Tav. I

a. Distribuzione delle statue delle Vergini nere esistenti in Francia nel 1550.

b. Le Vergini nere nel Massiccio Centrale.

c. Le Madonne in trono romaniche nel Massiccio Centrale.

Tav. II

a. Principali santuari italiani dove è attestato il culto di Madonne nere.

b. Le vie del pellegrinaggio medievale verso Santiago de Compostela.

Tav. III

a. Le vie di Pellegrinaggio in Sicilia (da G. Arlotta.

b. Carta topografica del promontorio di Tindari (TCI, servizio cartografico).

Tav. IV

a. Iside che allatta Horus, bronzo, Epoca Tarda, Il Cairo, Egyptian National Museum.

b. Cibele efesina, alabastro e bronzo, II sec., Roma, Musei Capitolini.

c. Majestè de sainte Foy, oro, argento dorato, smalti, cristallo, pietre preziose, fine del IX secolo-fine del X sec. con aggiunte posteriori, Conques, chiesa abbaziale di sainte Foy.

d. La Vierge d’or de la cathédrale de Clermont, disegno (ms. 145, f. 130 r), fine dell’XI sec., Clermont-Ferrand, Bibliotèque Municipale et Interuniversitaire.

Tav. V

a. Vergine in trono con il Bambino, particolare, legno rivestito da lamine d’argento, prima metà del XII sec., Beaulieu-sur-Dordogne, chiesa di Saint Pierre.

b. Notre-Dame du Puy, legno policromo, copia degli inizi del XIX sec., Le Puy-en-Velay, cattedrale di NotreDame.

c. Notre-Dame-de- Bon-Espoir, legno policromo, terzo quarto del XII sec., Digione, chiesa di Notre-Dame.

d. Notre-Dame de Moulins, legno ricoperto da lamine d’argento, seconda metà del XII sec., Moulins, cattedrale di Notre-Dame.

Tav. VI

a. Notre-Dame d’Orcival, legno policromo e ricoperto da lamine d’argento, seconda metà del XII sec., Orcival, chiesa di Notre-Dame.

b. Notre-Dame-de-la-Bonne-Mort, legno policromo e dorato, seconda metà del XII sec., Clermont-Ferrand, cattedrale di Notre-Dame.

c. Notre-Dame-la-Brune, legno policromo e dorato, seconda metà del XII sec., Tournus, chiesa di NotreDame.

d. Notre-Dame de Marsat, legno policromo e dorato, seconda metà del XII sec., Marsat, chiesa di NotreDame.

Tav. VII

a. Notre-Dame de Meymac (insieme e particolare), legno policromo parzialmente dorato, seconda metà del XII sec., Meymac, chiesa di Notre-Dame.

b. Salus Populi Romani, tempera su tavola, XII sec., Roma, basilica di Santa Maria Maggiore.

c. Madonna di San Luca, tempera su tela, fine XII - inizio XIII sec., Bologna, Santuario della Madonna di San Luca.

d. Presbitero Martino, Sedes Sapientiae, legno policromo e dorato, 1199, Berlino, Staatliche Museen.

Tav. VIII

a. Ipotesi di ricostruzione dell’antica città di Tyndaris.

b. Restituzione assonometrica della situazione attuale sul promontorio di Tindari.

Tav. IX

a. Tindari: veduta aerea del promontorio con il complesso del nuovo santuario, 1956-1979.

b. Patti, complesso della Cattedrale di San Bartolomeo, già Abbazia di San Salvatore, 1082.

Tav. X

a. Tiburzio Spannocchi, Veduta di Patti e rilievo della costa fra Capo d’Orlando e Capo Olivieri, acquerello su carta, 1578, Madrid, Biblioteca National.

b. Camillo Camilliani, Veduta di Patti, china e acquerello su carta, 1583, Torino, Biblioteca Nazionale Universitaria.

Tav. XI

Tiburzio Spannocchi, La Chiesa del Tindaro, acquerello su carta, 1578, Madrid, Biblioteca National.

Tav. XII

Camillo Camilliani, Il promontorio di Tindari, china e acquerello su carta, 1583, Torino, Biblioteca Nazionale Universitaria.

Tav. XIII

a. Jean Houel, Il Santuario della Madonna nera di Tindari, acquerello su carta, ante 1775, Sanpietroburgo, Museo dell’Ermitage.

b. Jean Houel, Rovine dell’antica città di Tindari, acquerello su carta, ante 1775, Sanpietroburgo, Museo dell’Ermitage.

Tav. XIV

a. Tindari, complesso del santuario, inizi XX sec.

b. Tindari, complesso del santuario, 1933.

Tav. XV

a. Tindari, complesso del santuario, XX sec., prima metà.

b. Tindari, complesso del santuario, XX sec., prima metà.

Tav. XVI

a. Tindari, complesso del santuario, XX sec., prima metà.

b. Tindari, complesso del santuario e immagine devozionale della Madonna nera, cartolina postale XX sec., prima metà.

Tav. XVII

a. Tindari, rovine del Teatro greco, fine IV sec. a. C.

b. Tindari, rovine della Basilica ovvero il “Gymnasium”, fine IV sec. a. C.

a. Tindari, Santuario vecchio, Portale, pietra arenaria, 1598.

b. Tindari, Santuario vecchio, Altare della Madonna, marmi mischi e stucco, XVIIXVIII sec.

Tav. XVIII

Tav. XIX

Giovanni Federico Greuter, Nostra Signora del Tindaro, incisione, 1664.

Tav. XX

Ignoto scultore catalano, Madonna di Tindari, prima del restauro, legno policromo, ultimo quarto del XII sec., Tindari, Santuario della Madonna.

Tav. XXI

Ignoto scultore catalano, Madonna di Tindari, prima del restauro, legno policromo, ultimo quarto del XII sec., Tindari, Santuario della Madonna.

Tav. XXII

Ignoto scultore catalano, Madonna di Tindari, particolare prima del restauro, legno policromo, ultimo quarto del XII sec., Tindari, Santuario della Madonna.

Tav. XXIII

Ignoto scultore catalano, Madonna di Tindari, prima del restauro, legno policromo, ultimo quarto del XII sec., Tindari, Santuario della Madonna.

Tav. XXIV

Ignoto scultore catalano, Madonna di Tindari, prima del restauro, legno policromo, ultimo quarto del XII sec., Tindari, Santuario della Madonna.

Tav. XXV

Ignoto scultore catalano, Madonna di Tindari, prima del restauro, legno policromo, ultimo quarto del XII sec., Tindari, Santuario della Madonna.

Tav. XXVI

a-b. Ignoto scultore catalano, Madonna di Tindari, particolare prima del restauro, legno policromo, ultimo quarto del XII sc., Tindari, Santuario della Madonna.

Tav. XXVII

Ignoto scultore catalano, Madonna di Tindari, particolare prima del restauro, legno policromo, ultimo quarto del XII sec., Tindari, Santuario della Madonna.

Tav. XXVIII

Ignoto scultore catalano, Madonna di Tindari, prima del restauro, legno policromo, ultimo quarto del XII sec., Tindari, Santuario della Madonna.

Tav. XXIX

Ignoto scultore catalano, Madonna di Tindari, durante il restauro, legno policromo, ultimo quarto del XII sec., Tindari, Santuario della Madonna.

Tav. XXX

Ignoto scultore catalano, Madonna di Tindari, particolare durante il restauro, legno policromo, ultimo quarto del XII sec., Tindari, Santuario della Madonna.

Tav. XXXI

Ignoto scultore catalano, Madonna di Tindari, durante il restauro, legno policromo, ultimo quarto del XII sec., Tindari, Santuario della Madonna.

Tav. XXXII

Ignoto scultore catalano, Madonna di Tindari, particolare durante il restauro, legno policromo, ultimo quarto del XII sec., Tindari, Santuario della Madonna.

Tav. XXXIII

Ignoto scultore catalano, Madonna di Tindari, particolare durante il restauro, legno policromo, ultimo quarto del XII sec., Tindari, Santuario della Madonna.

Tav. XXXIV

Ignoto scultore catalano, Madonna di Tindari, particolare durante il restauro, legno policromo, ultimo quarto del XII sec., Tindari, Santuario della Madonna.

Tav. XXXV

Ignoto scultore catalano, Madonna di Tindari, particolare durante il restauro, legno policromo, ultimo quarto del XII sec., Tindari, Santuario della Madonna.

Tav. XXXVI

Ignoto scultore catalano, Madonna di Tindari, particolare durante il restauro, legno policromo, ultimo quarto del XII sec., Tindari, Santuario della Madonna.

Tav. XXXVII

Ignoto scultore catalano, Madonna di Tindari, particolare durante il restauro, legno policromo, ultimo quarto del XII sec., Tindari, Santuario della Madonna.

Tav. XXXVIII

Ignoto scultore catalano, Madonna di Tindari, particolare durante il restauro, legno policromo, ultimo quarto del XII sec., Tindari, Santuario della Madonna.

Tav. XXXIX

Ignoto scultore catalano, Madonna di Tindari, particolare durante il restauro, legno policromo, ultimo quarto del XII sec., Tindari, Santuario della Madonna.

Tav. XL

Ignoto scultore catalano, Madonna di Tindari, particolare durante il restauro, legno policromo, ultimo quarto del XII sec., Tindari, Santuario della Madonna.

Tav. XLI

Ignoto scultore catalano, Madonna di Tindari, durante il restauro, legno policromo, ultimo quarto del XII sec., Tindari, Santuario della Madonna.

Tav. XLII

Ignoto scultore catalano, Madonna di Tindari, particolare durante il restauro, legno policromo, ultimo quarto del XII sec., Tindari, Santuario della Madonna.

Tav. XLIII

Ignoto scultore catalano, Madonna di Tindari, particolare durante il restauro, legno policromo, ultimo quarto del XII sec., Tindari, Santuario della Madonna.

Tav. XLIV

Ignoto scultore catalano, Madonna di Tindari, durante il restauro, legno policromo, ultimo quarto del XII sec., Tindari, Santuario della Madonna.

Tav. XLV

Ignoto scultore catalano, Madonna di Tindari, durante il restauro, legno policromo, ultimo quarto del XII sec., Tindari, Santuario della Madonna.

Tav. XLVI

a-b-c. Ignoto scultore catalano, Madonna di Tindari, particolari durante il restauro, legno policromo, ultimo quarto del XII sec., Tindari, Santuario della Madonna.

Tav. XLVII

Ignoto scultore catalano, Madonna di Tindari, particolare durante il restauro, legno policromo, ultimo quarto del XII sec., Tindari, Santuario della Madonna.

Tav. XLVIII

Ignoto scultore catalano, Madonna di Tindari, durante il restauro, legno policromo, ultimo quarto del XII sec., Tindari, Santuario della Madonna.

Tav. XLIX

Ignoto scultore catalano, Madonna di Tindari, particolare durante il restauro, legno policromo, ultimo quarto del XII sec., Tindari, Santuario della Madonna.

Tav. L

Ignoto scultore catalano, Madonna di Tindari, particolare durante il restauro, legno policromo, ultimo quarto del XII sec., Tindari, Santuario della Madonna.

Tav. LI

Ignoto scultore catalano, Madonna di Tindari, particolare durante il restauro, legno policromo, ultimo quarto del XII sec., Tindari, Santuario della Madonna.

Tav. LII

Ignoto scultore catalano, Madonna di Tindari, particolare durante il restauro, legno policromo, ultimo quarto del XII sec., Tindari, Santuario della Madonna.

Tav. LIII

Ignoto scultore catalano, Madonna di Tindari, particolare durante il restauro, legno policromo, ultimo quarto del XII sec., Tindari, Santuario della Madonna.

Tav. LIV

Ignoto scultore catalano, Madonna di Tindari, durante il restauro, legno policromo, ultimo quarto del XII sec., Tindari, Santuario della Madonna.

Tav. LV

Ignoto scultore catalano, Madonna di Tindari, durante il restauro, legno policromo, ultimo quarto del XII sec., Tindari, Santuario della Madonna.

Tav. LVI

Ignoto scultore catalano, Madonna di Tindari, particolare durante il restauro, legno policromo, ultimo quarto del XII sec., Tindari, Santuario della Madonna.

Tav. LVII

Ignoto scultore catalano, Madonna di Tindari, particolare durante il restauro, legno policromo, ultimo quarto del XII sec., Tindari, Santuario della Madonna.

Tav. LVIII

a-b. Ignoto scultore catalano, Madonna di Tindari, particolare durante il restauro, legno policromo, ultimo quarto del XII sec., Tindari, Santuario della Madonna.

Tav. LIX

a-b. Ignoto scultore catalano, Madonna di Tindari, particolare durante il restauro, legno policromo, ultimo quarto del XII sec., Tindari, Santuario della Madonna.

Tav. LX

Ignoto scultore catalano, Madonna di Tindari, particolare durante il restauro, legno policromo, ultimo quarto del XII sec., Tindari, Santuario della Madonna.

Tav. LXI

Ignoto scultore catalano, Madonna di Tindari, dopo il restauro, legno policromo, ultimo quarto del XII sec., Tindari, Santuario della Madonna.

Tav. LXII

Ignoto scultore catalano, Madonna di Tindari, dopo il restauro, legno policromo, ultimo quarto del XII sec., Tindari, Santuario della Madonna.

Tav. LXIII

Ignoto scultore catalano, Madonna di Tindari, dopo il restauro, legno policromo, ultimo quarto del XII sec., Tindari, Santuario della Madonna.

Tav. LXIV

Ignoto scultore catalano, Madonna di Tindari, dopo il restauro, legno policromo, ultimo quarto del XII sec., Tindari, Santuario della Madonna.

Tav. LXV

Ignoto scultore catalano, Madonna di Tindari, dopo il restauro, legno policromo, ultimo quarto del XII sec., Tindari, Santuario della Madonna.

Tav. LXVI

Ignoto scultore catalano, Madonna di Tindari, dopo il restauro, legno policromo, ultimo quarto del XII sec., Tindari, Santuario della Madonna.

Tav. LXVII

Ignoto scultore catalano, Madonna di Tindari, particolare dopo il restauro, legno policromo, ultimo quarto del XII sec., Tindari, Santuario della Madonna.

Tav. LXVIII

Ignoto scultore catalano, Madonna di Tindari, particolare dopo il restauro, legno policromo, ultimo quarto del XII sec., Tindari, Santuario della Madonna.

Tav. LXIX

Ignoto scultore catalano, Madonna di Tindari, particolare dopo il restauro, legno policromo, ultimo quarto del XII sec., Tindari, Santuario della Madonna.

Tav. LXX

Ignoto scultore catalano, Madonna di Tindari, particolare dopo il restauro, legno policromo, ultimo quarto del XII sec., Tindari, Santuario della Madonna.

Tav. LXXI

Ignoto scultore catalano, Madonna di Tindari, particolare dopo il restauro, legno policromo, ultimo quarto del XII sec., Tindari, Santuario della Madonna.

Tav. LXXII

Ignoto scultore catalano, Madonna di Tindari, particolare dopo il restauro, legno policromo, ultimo quarto del XII sec., Tindari, Santuario della Madonna.

Tav. LXXIII

Ignoto scultore catalano, Madonna di Tindari, particolare dopo il restauro, legno policromo, ultimo quarto del XII sec., Tindari, Santuario della Madonna.

Tav. LXXIV

Ignoto scultore catalano, Madonna di Tindari, particolare dopo il restauro, legno policromo, ultimo quarto del XII sec., Tindari, Santuario della Madonna.

Tav. LXXV

Ignoto scultore catalano, Madonna di Tindari, particolare dopo il restauro, legno policromo, ultimo quarto del XII sec., Tindari, Santuario della Madonna.

Tav. LXXVI

Ignoto scultore catalano, Madonna in trono con il Bambino, legno policromo, fine del XII sec., Barcellona, Museu Nacional d’Art da Catalunya.

Tav. LXXVII

Ignoto scultore catalano, Madonna di Ger, legno policromo, seconda metà del XII sec., Barcellona, Museu Nacional d’Art da Catalunya.

Tav. LXXVIII

Ignoto scultore catalano-aragonese, Madonna di Vico, legno policromo e dorato, seconda metà del XII sec., Arnedo, Logrono.

Tav. LXXIX

Ignoto scultore catalano, Madonna di Montserrat, legno policromo e dorato, seconda metà del XII sec., Montserrat, chiesa abbaziale.

a. Ignoto scultore catalano, Madonna in trono con il Bambino, particolare, legno policromo parzialmente dorato, fine del XII sec., Barcellona, Museu Frederic Marés.

b. Ignoto scultore catalano, Madonna in trono con il Bambino, particolare, legno policromo, fine del XII sec., Barcellona, Museu Frederic Marés.

Tav. LXXX

a. Ignoto scultore catalano, Majestad Batlò, legno policromo, metà del XII sec., Barcellona, Museu Nacional d’Art da Catalunya.

b. Ignoto scultore catalano, Cristo Majestad, legno policromo, fine del XII sec., Barcellona, Museu Frederic Marés.

Tav. LXXXI

Tav. LXXXII

Ignoto scultore catalano, Cristo di Mig-aran, legno policromo, seconda metà del XII sec., Viella, Lérida.

Tav. LXXXIII

a. Ignoto pittore catalano, Antependium d’altare con Madonna in trono con il Bambino e scene della vita di santa Margherita, tempera su tavola, seconda metà del XII sec., Sant Martì Sescorts, Monastero di Santa Margherita.

b. Ignoto pittore catalano, Antependium d’altare con i Re Magi, la Vergine in trono con il Bambino, San Giuseppe e Visitazione, tempera su tavola, inizi del XIII sec., Barcellona, Museu Nacional d’Art da Catalunya.

c. Ignoto miniatore catalano, Scene di un matrimonio regale, particolare, miniatura dal Liber feudorum maior, Barcellona, Archivio de la Corona de Aragon.

Tav. LXXXIV

Ignoto scultore catalano-aragonese, Madonna in trono con il Bambino, legno policromo, seconda metà del XII sec., Sant’Arcangelo, chiesa del convento di Santa Maria d’Orsoleo.

Tav. LXXXV

Ignoto scultore catalano, Madonna in trono con il Bambino, legno policromo e dorato, fine del XII sec. e rifacimenti successivi, Viggiano, santuario della Madonna del Sacro Monte.

Tav. LXXXVI

Ignoto scultore catalano, Madonna in trono con il Bambino, legno policromo, fine del XII sec. e rifacimenti successivi, Banzi, chiesa Madre.

Tav. LXXXVII

Ignoto scultore catalano, Madonna in trono con il Bambino, legno policromo parzialmente dorato, fine del XII sec. e rifacimenti successivi, Guardia di Perticara, santuario della Madonna del Sauro.

Tav. LXXXVIII

Ignoto scultore catalano, Madonna in trono con il Bambino, legno policromo, fine del XII sec., Armento, cappella di Santa Lucia al Casale.

Tav. LXXXIX

Ignoto scultore catalano, Madonna in trono con il Bambino, particolare, legno policromo, fine del XII sec., Armento, cappella di Santa Lucia al Casale.

Tav. XC

Tav. XC: Ignoto scultore catalano, Madonna in trono con il bambino, frammento, legno in origine policromo, fine del XII sec., San Martino d’Agri, santuario della Madonna della Rupe.

a. Ignoto scultore catalano, Madonna in trono con il bambino, frammenti (testa del Bambino oggi dispersa), legno in origine policromo, fine del XII sec., San Martino d’Agri, santuario della Madonna della Rupe.

b. Ignoti scultori catalani e lucani, Madonna in trono con il bambino, legno policromo e dorato, fine del XII e rifacimenti del XVI e XX secc., San Martino d’Agri, santuario della Madonna della Rupe.

Tav. XCI

Tav. XCII

Antonello Crescenzio, Madonna di Monserrato tra le sante Caterina e Agata, olio su tavola, 1528, Palermo, chiesa di Santa Maria degli Angeli alla Gancia.

Tav. XCIII

Melchiorre Barresi, Madonna di Monserrato, olio su tela, primo quarto del XVII sec., Monreale, Museo Diocesano.

Tav. XCIV

Ignoto scultore siciliano, Madonna di Monserrato, legno policromo dorato, fine del XVI sec., Palermo, Museo Diocesano.

Tav. XCV

a. Ignoto siciliano, Ex voto con la Madonna di Tindari, olio su rame, 1819, Tindari, Museo degli Ex voto.

b. Ignoto siciliano, Ex voto con la Madonna di Tindari, olio su rame, prima metà del XX sec., Tindari, Museo degli Ex voto.

Tav. XCVI

Tindari, Santuario nuovo, attuale sistemazione della statua della Madonna.

Finito di stampare in Roma nel mese di settembre 2012 per conto de «L’ERMA» di BRETSCHNEIDER dalla Tipograf S.r.l. via Costantino Morin, 26/A