Storia parecchio alternativa della letteratura italiana. Dalle sbornie di Dante alle amanti di Foscolo, dalla sorella di Pascoli alla costola di D'Annunzio 8804578602, 9788804578604

A dispetto di quanto ci raccontano le antologie scolastiche, Dante rideva eccome. E bisbocciava mezzo ubriaco in osteria

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Storia parecchio alternativa della letteratura italiana. Dalle sbornie di Dante alle amanti di Foscolo, dalla sorella di Pascoli alla costola di D'Annunzio
 8804578602, 9788804578604

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"Boccaccio aveva una passione incontenibile per la ciccia delle donne. Ma il bello, poi, era che non se ne pentiva mai. Non faceva come Petrarca ('l'amo', 'non l'amo', Tamo', 'non l'amo'): lui amava. Senza riserve, senza misura, senza controllo, senza ritegno. Di pan­ cia. Di brutto."

ISBN 978-88-04-57860-4

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A dispetto di quanto ci raccontano le antologie scolastiche, Dante rideva eccome. E bisboccia­ va mezzo ubriaco in osteria sfidando gli amici con rime poco ortodosse ispirate alle loro mo­ gli. Petrarca, saputello e sempre roso dall'invi­ dia, era amico di quel simpatico sporcaccione di Boccaccio, che amava le donne carnose e carnali e a loro dedicava le sue novelle. Ama­ va le donne, soprattutto se sposate, anche Fo­ scolo, che con quella sua aria imbronciata e irrisolta le conquistava una dopo l'altra. E se in molti sogghignano anche solo a sentir par­ lare del rapporto fra Pascoli e la sorella, forse pochi sanno che il "fanciullino" Giovanni si trasformò in un detective da fiction televisiva per risolvere il giallo della cavallina storna. E, infine, il dubbio che ha tormentato generazio­ ni di studenti: d'Annunzio, poi, quella costola se la tolse davvero? In queste pagine ci sono tutti i big della storia della letteratura italiana, più qualche gruppo nelle Nuove proposte, come i Comico-realisti, i Futuristi, gli Scapigliati. E Carducci? No, Carducci si salta.

Uno dopo l'altro, i grandi autori studiati a scuola vengono raccontati nei loro aspetti più insoliti e quotidiani, tirati giù per la giacchetta dal piedistallo e messi in mutande, fino a farli sembrare magnificamente simili a noi. Antonella Landi, professoressa di Lettere e amati�sima divulgatrice radiofonica, riesce a renderli umani senza ridicolizzarli, a supera­ re brillantemente il linguaggio polveroso della critica per metterei faccia a faccia con la po­ tenza e la bellezza delle loro opere. E fra un aneddoto e una battuta, la passione per la let­ teratura finisce per travolgere il lettore pro­ prio nel bel mezzo di una risata.

In copertina: Illustrazione di Beppe del Greco

Antonella Landi insegna Lettere in una scuo­ la di Firenze e vive tra il capoluogo toscano e la Maremma. Autrice di un blog che ha rag­ giunto più di due milioni di visite in tre anni (laprofepuntoit.splinder.com), cura una ru­ brica settimanale sulle pagine fiorentine del "Corriere della Sera". Per Mondadori ha pub­ blicato La Profe. Diario di un'insegnante con gli anfibi (2007).

ART DIRECTOR: GIACOMO CALLO PROGETTO GRAFICO: SEPPE DEL GRECO

Antonella Landi

STORI della LETTER�

RA

ITALIANA dalle sbornie di Dante alle amanti di Foscolo dalla sorella di Pascoli alla costola di dJ4nnunzio

.MONDADORI

Dello stesso autore in edizione Mondadori La

Profe. Diario di un'insegnante con gli a1tfibi

www.l i br i m o ndadori.it

� «Storia (parecchio alternativa) della letteratura italiana» di Antonella Landi

ISBN 978-88-04-57860-4

© 2008 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano I edizione giugno 2008

Indice

9 11

Prennessa

Le origini. Laletteraturareligiosa Di quando diventammo volgari, 11 - In principio fu un p ove­ raccio (San Francesco d'Assisi), 1 4- Per colpa di un cilicio Ga­ copone da Todi), 1 7

21

La poesia del Duecento Stupor mundi (I Siciliani), 21 - TI giorno e la notte (Stilnovisti e Comicorealisti), 25

31

Dante Alighieri

Il non plus ultra, 31 - Greatest hits, 42

69

Francesco Petrarca

81

Giovanni Boccaccio

Tutta invidia, 69- Dal produttore al consumatore, 74 Quel simpatico sporcaccione, 81 -Le più belle del reame, 87

99

Umanesimo e Rinascimento

Chi vuoi esser lieto sia (Lorenzo de' Medici) , 99 - L 'a rm e e gli

amori (Ludovico Ariosto), 1 15 -Il fine (non)

giustifica

i mezzi

(Niccolò Machiavelli), 126

133

La Controriforma e la letteraturabarocca

Elogio della follia {Torquato Tasso), 133- Sotto l'etereo padiglion (Galileo Galilei), 1 44- L'arte di far inarcar le ciglia (Giovan Bat­

tista Marino), 1 46

151

n Settecento E la luce fu (Giuseppe Parini),

151

-

Invito a teatro (Carlo Gol­

doni), 160

169

L'Ottocen to Quello spirto guerrier (Ugo Foscolo), 169- Ai posteri l'ardua sen­ E 'l naufragar m'è dolce in tenza (Alessandro Manzoni), 181 questo mare (Giacotno Leopardi), 1 95 -

209 211

Liber tà di scelta Gli Scapigliati e

il Verismo

Abbasso Manzoni! (Gli Scapigliati), 211

-

Tutta la

verità,

nientialtro che la verità (Giovanni Verga), 216

221

TraOttocen to e No vecento Versini e versacci (Giovanni Pascoli), 221- Lasdamoli diverti­ re

(I Futuristi), 229- La costola di d'Annunzio (Gabriele d'An­

nunzio), 236

251

Attrezzi dalavoro Principali tipi di figure retoriche, 254 mento in versi, 261

-

Abbiccì del componi­

STO R. l della L.ETTE R. i\. . .R.1\ IT1\LIANi\ .

A tutti gli studenti che ho avuto la fortuna di incontrare e a Francesco,

studente di domani

Premessa

'

E dai tempi del liceo che mi porto dietro questa abitudine: spogliare gli scrittori, lll e ttere i poeti in lll utande, osser­ varli in quell'umanità che non traspare dai torni delle an­ tologie, impegnate a confezionare per gli studenti un qua­ dretto in cui tutto (biografia, pensiero, stile) torni alla perfezione. E invece, quando da ragazzina li incontravo nei libri di testo, cercavo testarda di scovare l'uo111o, dietro l'autore. Mi piaceva indagare e indugiare tra le pieghe di esistenze che selllb rano prevedibili, pianificate a tavolino. Mi piace­ va ficcare il naso tra i singoli episodi, chiedermi il perché di quel matrim.onio, di quel trasferimento in altri luoghi, di quella nidiata di figlioli, di quella vocazione alla solitu­ dine, di quella tendenza naturale alla follia. Mi perdevo con l'inunaginazione dietro la quotidianità di un uo111 o che della scrittura avev� fatto il suo mestier-e, chiedendo111 i cosa 111 angiasse, di cosa parlasse a tavola con i suoi cari, in quale stanza si chiudesse per cotnporre, qua­ li fossero le sue m.anie, i suoi tic, i gesti scaratnantici che ri­ peteva quando dava inizio alla stesura di un'opera nuova. Ma più di tutto mi sono sempre domandata che tipi fos­ sero, questi autori. Indagando, ho sempre trovato notizie che mi lll u ovevano al sorriso. E studiandoli, mi sono sern9

pre affezionata a loro, senza eccezione. Anche i più pesan­ ti, anche i tneno allegri, quelli tnusoni o presuntuosi, tutti mi hanno regalato ore di piacere puro e la mia vita, accan­ to alla loro, tni è sem.brata più ricca e più cotnpleta. Gli autori antichi, quelli che a scuola ci haru1o insegnato a chiam.are classici e a guardare da lontano, con rispetto reverenziale, con ossequiosa am.tnirazione, hanno ancora lllolto da dire, oggi con1e allora. Anzi, oggi più di allora. Mai più di adesso c'è stata fatne inconsapevole di poesia. Mai più di adesso l'equazione poesia uguale noia meri­ ta di essere sbugiardata. Coi poeti si cresce bene, si viene su sani, s'ingrassa e si gode. Non solo. Coi poeti si può sorridere, con gli scrittori ci si può divertire: essi si fanno strapazzare, stanno al nostro gioco, acconsentono all'ironia e (selllb ra incredibile, ma è così) non si offendono mai. E cotne se la storia che li separa da noi li proteggesse con un velo invisibile di tolleranza e, se noi li prendia111 o in giro, essi sentono com.unque che sotto lo sberleffo c'è l'amore. Ho amato e am.o tnolto tutti gli autori presenti nelle prossillle pagine e sento che posso perm.etterrni di scher­ zare con loro, anche se scrivono di quanto l'atnore faccia soffrire, di quanto la politica deluda, di quanto la vita sia dura da gestire. Intenzionalmente mi sono fer111a ta a d'Annunzio. Dopo di lui, il velo protettivo tessuto dal tetnpo mi è setnbrato ancora poco spesso e ho avuto paura, con le mie parole, di svillaneggiare qualcuno pur senza volerlo. Magari, chissà, verrà un giorno anche per gli altri. '

10

Le origini- La letteratura religiosa

Di quando diventantnto volgari C'è stato un tempo in cui la nostra lingua era il latino. Alle cene, i convitati berciavano: ); incontrandosi per la strada, gli alll i ci si dicevano (); alle giovani generazioni i filo­ sofi consigliavano (>), (> dice­ vano ad Assisi.

Lui però non s'offendeva, era setnpre sereno, allegro, beato (e di lì a poco addirittura santo). S'allontanò dal centro e si ritirò a vivere in una chiesina diroccata, per­ ché diceva che Dio (proprio lui), una notte, in sogno, gli era apparso e gli aveva detto: . Lui credette subito che Dio parlasse della pieve di San Dalll iano e, racimolata una spatola e fatta un po' di calci­ na, colllinciò a intonacare. Quando capì che quel burlone s'era espresso per llle ­ tafora, non perse tetnpo: con i suoi piedini scalzi prese e partì per Roma a ullli liare, pur senza volerlo, il papa, che giustalllente sentì di essere in difetto, di fronte a un esem­ pio così fulgido di grandezza umana. Zitto, non ci rimase tnai. Prima di lll o rire, parlò e scrisse. Poche parole. Parole setnplici, autentiche, dirette, colll ' era stata la sua vita e corrt'era stato lui. Parole che ancora oggi si cantano nelle chiese, che si studiano nelle scuolè. Parole che hanno se­ gnato la fine del latino e l'inizio di una nuova lingua. Apparentemente banale (Laudato sie mi' Signore cum tue­ te le tue creature,/ spetialmen te messer lo frate Sole,/ lo qual' è iorno, et allumini rzoi per lui . ), In a straordinariamente utnano (Laudato si' mi Signore, per sora nostra morte corpora­ le,/ da la quale nullu horrlo vivente pò skappare . ), il Cantico di Frate Sole è amato anche da chi (come Ine) in chiesa non ci va e da coloro per i quali Francesco non è tanto un santo, .

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16

.

e intenzionale scrittore in volgare. Un poeta folle e delicato che parlò e scrisse in una lingua che ortnai era quasi identica alla nostra. quanto un cosciente

Per colpa di un cilicio Parlare di Francesco d'Assisi senza far riferitnento a Jaco­ pone da Todi, tuttavia, sarebbe come fare un dispetto al­ l'Umbria, oltre che saltare un altro paragrafo importante della nostra cultura linguistica. lo, se da giovane 111' avessero legato al piede uno come Jacopone, 111 i sarei segata via tutta la gamba. Si dice che fosse un bagordane da paura, un perditempo patentato, un gozzovigliante acuto e anche un fedifrago vigliacco. Con sua lll o glie, poverina, non ci stava quasi mai. I soldi ce li aveva (apparteneva alla nobile famiglia dei Benedet­ ti), la cultura non gli lll a ncava (gli era stata impartita una solida forlll a zione) e lavorare lavorava (era procuratore legale e notaio), però, quando tornava a casa, non c'era verso: si voleva divertire e il fatto di avere dei figlioli e una consorte, non per cattiveria, ma gli passava di mente addirittura . annunciava con ancora l'ultimo boccone della cena in bocca. dolll a ndava afflitta sua lll oglie. Andava alle feste, ballava, sbevazzava e si guardava - con1e si suoi dire con un eufemismo - abbastanza intor­ no . Tacchinava insomma e, anche se mancano testimo­ nianze attendibili circa un qualche tradimento della sua donna, francamente lll i sento di darlo per scontato. Una sera, però, successe la tragedia. C'era una festa a Todi e lui ci andò. «Vengo anch'io! » disse sua moglie. Ma sarebbe stato meglio se fosse rimasta a casa: a metà 17

serata il solaio della stanza ove si svolgev ano le danze venne giù e lei ci lasciò la pelle. Morta. Secca. Stecchita. Non vi dico Jacopone. Ci rimase corne un bitorzolo. E non era ancora niente. n bello venne quando, tolti i vestiti alla signora, le fu trova­ to addosso un bel cilicio ruvido e rnassacrante. Dicesi "cili­ cio" (rna anche "cilizio") una cintura di corda spessa e costel­ lata di nodi grossolani, che a quei tempi alcuni timorati di Dio si legavano attorno alla vita, sulla nuda carne, co111e pe­ nitenza. La convivenza quotidiana con lo stnnnento di tortu­ ra provocava infatti delle piaghe per nulla simpatiche, che non si rinlarginavano perché il cinturone non veniva 111a i ri­ tnosso da chi lo indossava per scelta. Jacopone, nel constatare che sua rnoglie chiedeva per­ dono a Dio per peccati che non aveva rnai cotnrnesso, llla che sem.tnai aveva conunesso lui, ci riinase così m.ale che rigirò la sua vita come un calzino: abbandonò i figlioli, re­ galò tutti i suoi averi ai ·poveri, aderì alla corrente france­ scana degli Spirituali (integralisti rispetto ai più blandi Conventuali) e si dedicò a dieci anni di figuracce clainoro­ se, grazie alle quali intendeva ulll i liarsi davanti agli uiUa­ ni per riqualificarsi davanti al divino, con cui fino a quel Inomento se l'era detta poco. Si narrano aneddoti da paura. Il prim.o. Un giorno si presentò al m.atrirnonio del fratel­ lo del tutto privo di vestiti (se ne deduce che a quei tetnpi dovesse andar di m.oda sculettare col pisello all'aria), ma integralm.ente itnpomatato di una pece appiccicosa, sulla quale con pazienza certosina erano state apposte pium.e di pollo e di gallina. Il secondo. Pare che un altro giorno si sia tnesso a quat­ tro zampe, si sia fatto sistetnare un traino sul groppone e si sia sostituito nel lavoro dei calllp i a un colllune ciuchino. Veri o no, questi fatti lasciano basiti e fanno intuire facil­ lllente come questo pover 'uomo stesse male. La sua con­ versione, del tutto diversa da quella di Francesco, era av18

venuta per mezzo di uno shock, tipo una mattonata in pie­ no m.uso, e Jacopone non riuscì più a essere sereno. C'è un abisso tra la felicità pazzoide di Francesco, che lo portava a cantare beato lodi al Signore in tutti gli angoli d'Assisi, e il senso di annientam.ento che torlll enta i versi dell'ex notaio di Todi, che diventò polem.ico, aggu�rrito e intollerante col genere umano in generale e con il papa Bonifacio VIII in particolare (e qui gli do ragione), tanto da finire nella prigione di un convento come tutti quelli che avevano appoggiato i cardinali Pietro e Iaçopo Colonna nella firma del Manifesto di Lunghezza, per invalidare l'e­ lezione di quel pontefice corrotto. Tutto è strazio nella vita e nell'opera di Jacopone, per­ ché costui non seppe mai concedersi quello che invece tut­ ti noi non ci dovrenuno mai negare. Il perdono.

19

La poesia del Duecento

Stupor mundi

Prendete un illlp eratore sbucato fuori da un curioso incro­ cio di razze strane, dategli un babbo tedesco, una tnarruna nor111 a nna (che a essere sinceri voleva far la suora, n1a che - attelllp ata, per i tem.pi - fu costretta a farsi ingr· a vidare) e fatelo regnare ancora lll o lto giovane, assistito dal solito pontefice i111p iccione. Voglio dire: se lo chialll arono stupor mundi, un 111otivo ci sarà stato. Federico II di Svevia, discendente dalla dinastia degli Hohenstaufen, stupì il Inondo perché riuscì a trovare il telll p o per farne più di quelle che arrivava a progettare. Prima di tutto, a quattordici anni, annunciò: «Ragazzi, ho deciso che da oggi sono lll a ggiorenne>> e si scelse un posticino tattico da cui regnare. «In çerlll a t1ia all' addiac­ cio stateci voi», disse ai suoi increduli parenti, e partì per la Sicilia. A Palerlll o, fece costruire una reggia da perderei il capo. ordinò, «anche un grup­ petto di donnine orientali a ballarlll i la danza del ventre. » Ma anche la fissa di circondarsi di cervelloni, pensatori e artisti fu costante in Federico. «Oggi mi sento mecenate» disse un giorno a voce alta ai 21

gnificativi intellet­ tuali in circolazione: darò loro vitto, alloggio, stipendio e runicizia. Si lavorerà insieme all'organizzazione di questo popò di regno che mi sono ritrovato tra le mani e, a tempo avanzato, si scriveranno le più belle poesie della storia. Se ne ricorderanno tutti, ci studieranno nelle scuole superio­ ri! Certo>> anunise, dissero i suoi colleghi, un po' invidiosi,

> Il sonetto nacque in questo Inodo,· in uno splendido tnattino di primavera siciliana, Ill entre gli aranceti erano in fiore e su quell'isola lll i tologica aleggiava il profun1o che non c'è altro che lì. Intanto, tra Palierntno e Tciàpani (ad Alca111 o per la pre­ cisione), un probabile giullare, sicuratnente colto, iscritto all'anagrafe come Vincenzo, vezzeggiato in Vincenzullo, ridotto dagli allli ci in Ciullo (epiteto simpatico nel suono, scandaloso nel significato), edulcorato per le scttole in Cielo, si conquista l'immortalità poetica grazie a un corz­ trasto passato alla storia e noto ai più. Dicesi contrasto (il nome stesso lo lascia intuire facilmen­ te) un componi111 ento all'interno del quale ci sono due persone (in genere un uomo affamato di sesso e ur1a don­ na che finge invece di non esserlo) che discutono animata­ tnente di qualcosa (in genere dell'assai attraente orifizio genitale femlll inile) . Lui passa tutta la poesia a dire qual­ cosa che potrebbe essere brevemente condensato nel sin­ tagma: "Me la dai o no / Me la dai sì o no?" . Lei inserisce nei versi netti rifiuti che, rnan lll ano, si fanno però sen1pre più deboli e meno credibili. Nel finale, gliela dà regolar­ Ill ente. Nel caso specifico di Rosa fresca aulen tissima, il corteg­ giatore è (come l'autore) un giullare intraprenliente e an­ che abbastanza spiritoso. La corteggiata è una contadina. Ciò non induca tuttavia a pensare che si tratti di ttn testo 24

nazional-popolare: Vincenzullo, anzi, ne avrebbe ricopiato pari pari il modello, i protagonisti e l'intonazione dal con­ trasto bilingue di Rambaldo di Vaqueiras, letteratone arci­ noto all'epoca. Trentadue strofe di cinque versi, tre dei quali alessan­ drini (o doppi settenari) Inonorim.i e due endecasillabi: tutta questa fatica spende il giullare per convincere la ra­ gazza ad andare a letto insieme a lui. Erano proprio altri tetnpi. Il

giorno e la notte

Mentre in Urnbria itnperversava la poesia religiosa e in Si­ cil i a si rirnandavano le Crociate per abbandonarsi a ll 'en­ decasillabo rimato, anche la Toscana com.inciò a darsi da fare. Si preparava il terreno per una degna accoglienza dei tre geni della letteratura, la triade eterna che avrebbe rivo­ luzionato il futuro culturale e che sarebbe divenuta il mo­ dello incontestabile con cui tutti gli altri autori avrebbero dovuto fare i conti, prirna o poi. Sono due le correnti che, conternporaneam.ente, sorgo­ no, s'incontrano e si scontrano a pochi chilometri di di­ stanza. E non poteva essere altro che così, visto che si par­ la di Dolce stil novo e di Scuola comicorealista. Già i nomi si guardano in cagnesco. Lo zucchero e il sale. Il velluto e la carta vetrata. Il giorno e la notte. A livello cronologico, a fare il p ritno capolino sul pano­ rama poetico furono gli stilnovisti. Giovani, sensibili, so­ gnatori, critici nei confronti della tradizione e supportati da un progranuna che (lo dice il nome stesso) inneggiava alla novità, oltre che alla dolcezza.

L'aretino Guittnne, è vero, era il poeta che a quei tempi sbaraccava. Le sue rime, un esetnpio di poesia civile, pia­ cevano parecchio e incontravano i favori del pubblico. > esclarnava ester­ refatto Cavalcanti. >

>

sputava quell'arpia. > Presente Benigni? Uguale. Però senza telecatnere punta­ te e DVD nei negozi. Sarebbe bellissim.o ripercorrere uno a uno i cento canti che cotnpongono il poe111 a , riflettere di volta in volta sul tem.a di base, incontrare l'ospite d'onore e intrattenersi in­ sielll e a lui, conoscere la sua vicenda u111 a na, ascoltare quello che ha da dirci. Ma co111 e si fa? Co111e nella vita, ci m.anca il telllp o. L'unica è ripiegare su un 111 e dley, una compilation, un greatest hits, di quelli che i cantanti o i gruppi 111u sicali mettono insielll e a lll età o fine carriera, per ricordare i lll O­ tnenti più eclatanti di un percorso e rilll a sticare rime e passi arcinoti in cotnpagnia dei fan. Andiaino allora a cotninciare, si aprano le danze: largo alla citazione. ·

Nel mezzo del cammin di nostra vita Va be', questo lo conoscono anche i cani. Ma bisogna per forza cominciare dal primo verso del primo canto, se si vogliono fare le cose a tnodino. Sicco111e la durata tnedia della vita u111 ana, nel Medioe­ vo, si aggirava intorno ai settant'anni, Dante afferma di averne avuti trentacinque, quando si smarrisce in una sel­ va oscura. Magari "selva" è un po' troppo, poteva essere un boschetto, una pinetina, una macchia mediterranea, 43

fatto sta che lui si perde, non vede un tubo per il buio e ha una paura fottuta. Se ci ripensa, anche a distanza di anni, se la fa addosso. Ha voglia di raccontarci tutti i dettagli del caso, lll a con­ fessa di aver difficoltà a ricostruire la location di un' avven­ tura tanto orrenda. Addirittura (non sapendo più a cosa appellarsi) tira in ballo una botta di sonno di dimensioni faraoniche per giustificare certe lacune tra i particolari del­ la storia. Tra i fun1i della din1enticanza, tuttavia, spunta a un trat­ to il ricordo di un'altura, le cui spalle sono illun1inate dal sole. Inizia a risalire il colle tra u� firulì firulà e l'altro, quando una lonza gli si pone di fronte. Non che sia particolarmen­ te minacciosa, però insomma, un po' di noia gliela dà. «Sciò, sciò! Via, brutta gattaccia ! » pare dica Dante aiu­ tandosi con una frasca. Sicuramente appartenente alla fa­ Ill i glia dei felini, la lonza sarebbe infatti riconducibile - considerato il pel maculato di cui era coverta e la fisicità leggera e presta molto - a una lince comune. Una volta superata questa fiera, però, gli se ne pianta davanti un'altra, assai più inquietante. Un leone. Uguale identico a quelli dei cartoni animati: sguardo altero e cri­ niera cotonata. Ma, molto più di Mufasa (che è un bonac­ cione) e di Scar (che è un infame vero, però alla fine per­ de), il leone di Dante è terrificante, anche perché seinbra andare proprio verso (contro) di lui con una fame rabbio­ sa, tanto che anche l'aria pare tre111a rne. E non c'è hakuna matata che tenga: Dante ha paura, an­ che se non ha ancora visto tutto. Perché, dietro il leone, compare una lupa anoressica intenzionata a farsi una scorpacciata di carne umana. Ma come Dante è sul punto di fare dietrofront, ecco il 111 i racolo. La salvezza si lll a terializza nelle selllb ianze di un uomo 44

serio e silenzioso, che sta lì e lo guarda senza proferire verbo. «Aiutami ti prego, chiunque tu sia, un uomo vero o un fantasma! » bercia sgraziato Dante, per un attimo dimenti­ co della sua dignità artistica. «Non sono più un uomo, ma lo sono stato» inizia a par­ lare l'ombra «e i miei genitori furono lombardi, entrambi mantovani. Nacqui sotto Giulio Cesare quand'egli era già in là con gli anni, e vissi a Roma al tempO della religione pagana. Fui poeta e scrissi una pappardella sul figlio di Anchise, che fuggi da Troia lllessa a ferro e fuoco dai Greci. Indovina chi sono! >> Dante, fatti i dovuti ''due più due'', capisce l'identità dell'individuo che gli sta davanti e va colllp letalllente fuo­ ri di cervello. > incalza Virgilio. >

> Ma Dante, anche di fronte alla pallida prospettiva di una probabile salvazione ultraterrena, non regge all'emo­ zione e, nel mom.ento in cui un brutto terremoto scuote la terra schiaffeggiata da una luce verm.iglia (vai con gli ef­ fetti speciali! ), cade a terra svenuto. Bella figura, sì. Amor ch'a nullo amato amar perdona

Da quando Venditti e Jovanotti hanno rispolverato que­ sto verso per metterlo in due loro canzoni, a scuola non si calllp a ptu. «Ma di preciso, cosa vuole dire?» chiedono i ragazzi, a cui una frase a effetto da rifilare a un'am.ichetta fa sempre colll o do, nei momenti di tacchinaggio pomeridiano in centro. «Bisogna rifarsi a una teoria ritenuta valida nel Medioevo, stando alla quale la potenza dell'amore sarebbe così inarrestabile da indurre anche il più insensibile, il più sor.

'

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do ai richiami di Venere e Cupido a perdere la testa per chi lo atna con tanta convinzione>> rispondono i professori. Dante, per diffondere e avvalorare l'affascinante cre­ denza, sceglie di raccontarci la più bella storia d 'amore che circolava ai suoi tempi. Si dice infatti che, colll e usava una volta, anche per la splendida Francesca da Polenta, una giovine nobile nativa di Ravenna, fosse stato scelto un tnarito dai suoi genitori. L'uotno che, una volta grandicella, avrebbe dovuto spo­ sare si chialllava Gianciotto ed era brutto cotne un dispiace­ re in famiglia. La stampa dell'epoca lo ritrae affetto da una evidente deviazione della colonna vertebrale, ipovedente e claudicante, cioè gobbo, orbo e zoppo. Peggio di così. E siccome - come si dice - al peggio ·non c'è tnai fine'', madre natura, falllo sa per i suoi scherzetti di cattivo gu­ sto, gli mise accanto per fratello un certo Paolo, bello collle una vincita all'Enalotto. Francesca, vittim.a di plateali conati di vomito quando si trovava al cospetto del pro111 e sso sposo, non tentò nean­ che col pensiero di opporsi alle odiose nozze, tanto sapeva bene che non avrebbe avuto alcuna chance. Lasciò che Gianciotto la impalmasse e la portasse a vivere a casa sua, a Rimini. Erano altri tempi e gli stabilimenti balneari, i locali per l'aperitivo e le discoteche stile Cocoricò non erano ancora stati inventati, sicché la disgraziata "trascorreva le giornate in casa, a pesticciare per le stanze con le ciabatte ai piedi, guardare fuori dalla finestra e sospirare. Fortuna volle che, spesso e volentieri, Gianciotto si le­ vasse di torno per dedicarsi a certi affari. Sfortuna volle che, intorno, rimanesse invece suo fratel­ lo, il figaccione. Paolo e Francesca, accomunati dalla medesitna passione per la lettura (voci maligne sostengono che a lui leggere facesse schifo e che fingesse di amare i libri solo per stare accanto a lei), trascorrevano gran parte delle ore del giorIl

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no insieme, seduti su

comodo sofà imbottito e reclina­ un pulsante, li aiutava persino ad

un

bile che, schiacciandogli alzarsi senza fatica alcuna. Per ammazzare il tempo (pri­ ma che qualcun altro ammazzasse loro) (uh! M'è scappa­ to! Va be', ormai l'ho scritto) non facevano altro che legge­ re, leggere e leggere. Fatta fuori la collana Harmony, ripassati tutti i gialli di Agatha Christie, esaurito addirittura lo scaffale dei ricettari capitanato da Oggi cucino io di Antonella Clerici, si but tarono sui classiconi e, tra i primi, scelsero la storia di Lan­ cillotto e Ginevra, un evergreen. La vicenda li acchiappava come da setnpre acchiappano le corna ( altrui). Regolarmente coniugata con re Artù, di­ fatti, la bella regina caliente non esitò a perdersi tra le braccia del pritno cavaliere del marito e si fece volentieri cavalcare da lui. Cominciò però con calma, dall'inizio: dai bacini. Un bacino sulla guancia, uno sul collo, un altro sul lato destro della bocca, un altro ancora su quello sinistro. Quando si sentì pronta per ammollargliene uno cosid­ detto ''col rifrullo", anche Paolo (che intanto leggeva) si convinse di poter condividere la medesima avventura e, tutto tremante, baciò Francesca. Dante non va oltre, ma io credo che i due an1anti l'abbiano fatto. E impensabile che Gianciotto li abbia eliminati beccandoli semplicemente a potniciare. Penso si possa dare per scontata la consumazione di un coitus rimasto (ahimè) interruptus. La vicenda di Paolo e Francesca, che è innegabilmente la vicenda di due fedifraghi, passa però alla storia come uno dei più strazianti casi d'amore e neanche Dante, che pure un po' moralista intransigente era, può dare a questa relazione una definizione infamante e offensiva. Parla di lussuria, è vero. Ma è una lussuria ampiamente introdotta, protetta e giustificata dall'amore, di fronte al quale non si può arretrare, non si può fingere, di fronte al quale è inevitabile soccombere. 4.

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In

questa ottica, poco divina rna irntnensatnente utnana, il poeta concede ai due amanti di condividere la terribile pena che la legge dell'Inferno ha stabilito per loro: volare in coppia (unici, tra un'infinita linea di ani111 e in fila india­ na), trascinati da una bufera inarrestabile di vento, attra­ verso il secondo cerchio. Spirito dolente in Ille zzo a 111 ille altri spiriti dolenti. Co­ me Didone, che sulla tomba del marito Sicheo aveva giura­ to eterna fedeltà e lutto imperituro, e poi non le era parso vero smutandarsi per concedersi a Enea; o come Selll irarni­ de, la sconcia regina degli Assiri, che invece le mutande se le levò per il figliolo, non prirna di aver promulgato una legge che rendeva legale l'incesto; o come Cleopatra, regi­ na egizia mirabilmente riportata in vita da Liz Taylor nel 1963; o come Elena, a causa della quale due popoli si fecero una guerra decennale che prese il nome proprio da lei. E poi ancora Achille, Paride, Tristano, e via, e via, e via, tutti sbatacchiati qua e là dal vento. Difficile mantenersi saldi e distanti, durante la lettura del canto quinto. Nemmeno Dante vi riesce. «Senti . . . scusa, Francesca . . . potresti . . . ecco . . . se non sono indiscreto . . . potresti . . . se ti va, eh . . . raccontarn1i nel dettaglio cosa accadde quel doloroso pomeriggio . . . quan­ do Gianciotto vi infilzò alla stregua di due spiedini d'arro­ sto misto?» chiede ineditamente indelicato. Ma Francesca non si offende. Anzi. Generosa di atti e di parole, mentre il suo compagno piange per centoquaran­ tadue endecasillabi senza mai soffiarsi neanche il naso, scende nel dettaglio, indugia sul particolare, cerca di spie­ gare cosa fu a condurli verso quella che solo chi non l'ha rnai provata chiama perdizione e chi invece l'ha vissuta sulla propria pelle chiama la più bella esperienza della vi­ ta: l'amore. 52

Uomini fummo, e or siam fatti sterpi Ci sono dei passi nel poema, invece, leggendo i quali ri­ dere è impossibile. Se i temi trattati toccano l 'amicizia tradita, la dispera­ zione dell'isolamento e la tragedia del suicidio, c'è poco da sdramm.atizzare. Il tredicesim.o canto è da selllp re il 111 i o preferito. Mi tra­ volge a livello sia elll o tivo che stilistico perché Dante, in questa sede, sapendo bene di confrontarsi con un collega, intende dare il lll e glio di sé anche nella forma e allora ab­ bonda in figure retoriche: infila chiasmi, incastra onoma­ topee, fa giochi di prestigio con assonanze e allitterazioni, non risparlll i a latinisrni, perifrasi, allegorie e paronoma­ sie. Un minestrone arlll onioso di trucchi del m.estiere dove tutto è necessario e nulla :mai di troppo. Un altro bosco apre questo canto: ancora lll e no acco­ gliente, ancora p iù tenebroso e inquietante della selva oscura in cui si era slll a rrito il poeta all'inizio di questo calll m. ino che (s'era detto?) dura una settilnana. Come i rapporti ulll ani quando si inaridiscono e lenta­ :mente tnuoiono, gli alberi di questa seconda foresta ap­ paiono curvi, sofferenti, agonizzanti. Più che altro strani, innaturali. Privi di foglie, fiori e frutti, non mostrano che spine, nervature e ferite aperte. Colpa delle Arpie, i lllo stri mito­ logici metà donna e metà rapace, che vi nidificano sopra lacerando i rami con gli artigli nell'atto di spiccare il volo o di atterrare . «Sgrana gli occhi» dice subito Virgilio «perché nel secondo girone di questo settimo cerchio vedrai qualcosa che da solo non potresti arrivare nemmeno a immaginarti.» Ma occorre innanzitutto drizzare le orecchie, perché i suoni diffusi in questo spicchio d'Inferno sono sconcertan­ ti. Eppure finora di lamenti ne abbiamo sentiti così tanti, cosa potrebbe spaventarci oltre? 53

Dante realizza presto: non capire, lo spaventa. Da che parte vengano i suoni e chi sia a produrli. «Prova a spezzare uno di quei rametti» gli suggerisce il rnaestro > rispondeva lui. Filavano lisci coine l'olio e si volevano un bene da fratelli. chiedeva Federico. prom.etteva Piero. Ma (si diceva) ecco, un giorno, la puttana. Vestita coi panni degli altri abitanti della reggia, d egli altri am.ici (m.olto lll eno intim.i) dell'imperatore, l'invidia un giorno si fece vicina a Herr Hohenstaufen e gli sibilò al­ l'orecchio: > «Ma abbiamo le ancelle che gli fanno ombra con le foglie di ficus domesticus, dài Ulisse, vorrei abbronzarmi il décol­ leté per mettermi il vestito scollato che ho comprato a Za­ cinto: bianca così paio una mozzarella di bufala campana. » '

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si arrendeva lenta­ mente Ulisse. Sì, perché alla fine l'accontentava sempre, quella donna giovane e bella che aveva scelto tra tutte le ragazze che popolavano le terre emerse limitrofe alla Grecia. >

> sbottarono gli ainici. > ritirò quello. Quelle parole seppero colllp iere il lll i racolo. I co111 p agni di Ulisse, sebbene vecchi e tardi, sfavati e disillusi, ingranarono il turbo e ripartirono a tnille. Volta la poppa verso Oriente, dei rellli fecero ali e si lanciarono in un folle volo. Cinque tnesi erano passati dal giorno in cui si erano av­ venturati in alto ITiare, quando si rnaterializzò davanti a loro una 111 ontagna spaventosa. annunciò ai cotnpagni buttando fuori la poca voce che gli era rillla sta in corpo. urlarono anche loro, travol­ ti dalla gioia. Non sapevano che, di lì a poco, a travolgerli sarebbe sta­ to un turbine d'acqua che avrebbe puntato contro di loro percuotendo l' i111b arcazione e facendola ruotare per tre volte in aria, sollevata dai flutti. Al quarto giro, la poppa si issò verso il cielo, la prora guardò l'abisso 111 a rino e vi si inoltrò, portandosi dietro un equipaggio di uomini curiosi, assetati di novità, di co•

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noscenza, incapaci di subire l'esistenza ma vogli osi di vi­

vere la vita. Il mare si richiuse su di loro perché cosi piacque a Qual­ cuno. E ora lacrime, perché i brividi non bastano più.

Poscia, più che 'l dolor poté 'l digiuno Dante, sceso ormai dove l'imbuto infei-n al e si fa più stretto, precisatnente nella seconda zona del nono cerchio, l ' Antenora, incontra di persona il conte Ugolino della Gl1erardesca. Questi tiene la testa sopra la testa di un altro e gliela ro­ sicchia nella parte posteriore, proprio dove è ubicato il cervelletto.

esclam. a il poeta, Il peccatore solleva la bocca da quel pasto bestiale, pu­ lendosela dai capelli del capo m.angiucchiato. Poi comin­ cia a parlare. Sono parole forti, quelle che pronuncia. Perché il conte Ugolino è probabilm.ente il personaggio più incazzato di tutta la Divina Commedia. Nessuno odia come lui. Nessuno cotne lui sogna vendette atroci, Ill acchina rivincite terribili e accarezza Illentalmente ritorsioni raffinate. Ma tutto è inutile. Perché il suo nelllico num.ero uno è m.orto. Cosa era accaduto esattam.ente, quando entrambi erano ancora in vita? Nato nella pri01a 01età del Duecento, il conte Ugolino fu signore di numerosi castelli della Maremma toscana e di possedimenti in Sardegna. Pur provenendo da una fami­ glia ghibellina, parteggiava per i guelfi e nel 1274 li aiutò a impadronirsi della repubblica di Pisa. Nel 1288 Pisa con­ cluse la pace con Genova e l'arcivescovo Ruggieri degli 63

Ubaldini, capo della parte ghibellina ·che stava p olitica­ mente risorgendo, prima simulò amicizia con il conte aiu­ tandolo a cacciare da Pisa il nipote Nino Visconti e poi, quando il conte stesso fu eliminato dal governo e lasciò la città, lo invitò a tornare per accordarsi con lui. Invece lo fece imprigionare nella torre dei Gualandi, det­ ta della Muda perché vi si ponevano le aquile del comune appunto per la muda, la 111 uta, cioè il cambio delle penne, llla detta anche della Fame, per motivi altrettanto intuibili. Con lui, furono chiusi anche quattro giovani creature: Gaddo e Uguccione, figli del conte, e Lapo e Anselmuccio detto il Brigata, suoi nipoti. Stipati tutti e cinque in quell'ambiente angusto e buio, i prìgionieri potevano seguire l'alternarsi dei giorni prima, delle settimane poi, dei mesi alla fine, soltanto da un per­ tugio chiuso da sbarre, da cui filtrava la luce della Illu te­ vole luna. «Erano trascorsi già diversi mesi di prigionia » dice il conte a Dante, > �isse a se stesso con la solita modestia. Dante, oltretutto, era tnorto da vent'anni e non costitui­ va più una minaccia per lui.

direbbe anche ora, se potesse parlare. «lo l'Alighieri me lo Inangiavo intero, non c'era storia, damm.i retta. Vuoi mette­ re le mie opere in latino con quel suo volgare da bottegaio?» Petrarca si vergognava a scrivere in volgare. Ecco per­ ché partorì tutte quelle opere in latino. Il latino era per lui l'unica lingua adatta alla trasmissione del sapere, che ar­ ricchiva la materia e non la sininuiva, come invece faceva 72

il lessico elaborato dal volgo, dal popolino, da lui profon­ dam.ente disprezzato. Era polem.ico da 111 o rire. Pesante, a volte. Qualcuno lo scansava addirittura, incontrandolo per strada. Sincera­ m.ente, l'avrei scansato anch'io. Siccome, incoronandolo, ebbero la pessima idea di pro­ clamarlo magnus poeta et historicus e conferirgli il privilegium laureae, dopo non si teneva più. «Eh! Eh ! Eh! » ridacchiava odiosamente passeggiando per la strada con l'andatura di un tacchino. «O quello chi l'è? ! » si domandavano gli illetterati. >. Non doveva essere facile stargli accanto. E se Giovanni Boccaccio resisté fino alla fine, fu solo perché si limitava a scrivergli da lontano, ma non lo fre­ quentò lll a i fisicam.ente. ·

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Negli ultimi anni della sua vita, Petrarca rimase per Io

più in Italia. Nel 1353, per cominciare, andò a vivere a Mila­ no, ospite di Giovanni Visconti. Poi a Venezia, dove inizial­ mente fu accolto collle alllico e poi infa111a to come sempre. «Ora basta» disse un giorno, oltremodo stanco di pere­ grinare in giro per il mondo, «da qui non mi muovo più.» Era ad Arquà, presso i Colli Euganei, quando pronunciò questa frase, tenendovi fede fino alla notte in cui lll o rì, colpito da una sincope, nel caldo estivo in cui il 18 si stelll­ perava nel 19 luglio dell'anno 1374. Il 5 aprile di seicentotrenta anni dopo, condotte delle analisi sui resti di un teschio lllezzo s111angiucchiato rinve­ nuto nella tolllba del poeta, ad Arquà, saltò fuori che quel­ la testa era stata di una donna. Incredibile quello che elller­ se dall'analisi dello scheletro allegato, che invece risultò di un uomo, nove su dieci proprio Petrarca perché era ancora visibile la frattura di certe costole riconducibili al pedatone che gli aveva am.lll ollato una cavalla i111b izzarrita. Altra storia, invece, quella del suo gatto. Pare che l'auto­ re amasse un felino ancora più di Laura stessa e che l'aves­ se fatto rrtum.111 i ficare dopo che fu lll o rto, per tenerselo setnpre vicino, dormirci insieme (come faccio io con i llli ei co111pagni della notte Bubu, un cane di pezza, e Cencino, lo straccetto con cui asciugavo le zampe al mio cane Nello quando rientravamo da una passeggiata) e infilarlo in vali­ gia prima di ogni spostamento. Grande delusione si è dif­ fusa nel mondo dei rrticiofili quando altre analisi sul DNA hanno dirnostrato che quello lllU lll in ificato non era altro che un gattaccio di strada vissuto intorno al Cinquecento. Dal produttore al consulll a tore

Cotne consulll a trice delle opere petrarchesche, devo am.­ mettere che leggere la produzione del poeta aiuta a riap­ pacificarsi anche con l'uomo, il quale - a causa di certe di74

quanto indisponenti - non si fa imme­ diatatnente benvolere. Iperproduttivo tanto nella prosa quanto nella poesia, Francesco Petrarca ha lasciato ai contemporanei che così schifava e ai posteri su cui ben poco scommetteva capola­ vori letterari che hanno condizionato la letteratura dei se­ coli seguenti. Insomma, va detto: l'impronta di questo autore sul viot­ tolo della letteratura italiana è forte, profonda e fonda­ tnentale. Quello che stupisce (e fa anche un po' sorridere) è che tutte quelle aspettative nutrite da Petrarca intorno alle sue opere in latino si siano dimostrate eccessivainente alte e che invece siano state le opere in volgare a dargli la· notorietà. Petrarca ha una visione aristocratica del sapere. La cul­ tura secondo lui era per pochi, per gli àristoi, i Inigliori. Inutile e dannosa era l'operazione di democratizzazione svolta da chi abbandonava l'uso del latino per Illettersi a scrivere in volgare. Lui (tanto per capire che tipo fosse) nascondeva le liriche co111 p oste in italiano e quando alla fine le raccolse, scelse per loro un titolo altisonante e borioso, in latino: Francisci Petrarchae laureati poetae rerum vulgarium Jragmenta. >. Uno però è quello che ha llle sso in lui radici più profon­ de e ha attecchito tenacelll e nte, am.lll a zzandolo dentro giorno dopo giorno. Quella che nel Medioevo chialll a vano " accidia" . Quella che gli antichi un tempo chiamavano aegritudo. Quella che noi oggi chiam.iam.o "depressione" . «Vedi Francesco» gli dice il santo delle Co11jessioni, un ....

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esperto (checché ne dica adesso il Vaticano) in fatto di :ma­ rachelle giovanili, «quello che ti colpisce è il peccato del­ l' accidia. >> > Si lasciava andare, Petrarca, a quello stato di malinconia torpida, apparentemente sine causa, che lo immobilizzava mentalmente per giorni e giorni portandolo a condividere (chiaramente senza saperlo) gli istinti più distruttivi della modernità, il sospetto dell'inutilità del vivere, dell'impos­ sibilità di dare un senso all'esistenza. 77

Leggere le sue riflessioni aiuta. Cap iamo, a distanza di sette secoli, che non sialll o soli, che Inolti p rilll a di noi hanno tentato quello che tentiamo noi: una p acifica convi­ venza con la nostra vita. «A parte il fatto che poi, un giorno, ti si p ara davanti una sgnàcchera da urlo e anche quel brandello di periodi­ ca serenità va a farsi benedire>> ci slll onta subito Petrarca. lo rilll p rovera Agostino. s'infuria il poeta.

> gli annunciò un giorno.

Credo che, più negata per la Illa tetnatica di lui, al mon­ do esista solo io. Il ragazzino si ritrovò in viaggio verso un luogo a lui del tutto sconosciuto, dove si parlava una lingua astrusa ( "Ué, guaglio', cca nisciun'è fess' " gli disse subito un signore quando Giovanni fece per lll o llare lì il cavallo fingendo d'ignorare il parcheggiatore abusivo) e dove pullulava una quantità industriale di esseri u111 a ni. Venuti da ogni dove, essi sapevano di poter trovare in quella città portuale tutto e il contr�rio di tutto. Boccaccio spalancò due occhi così e co111 inciò inunediatarnente a pi­ gliare appunti. Lo colpiva la 111 u ltietnicità di quel luogo, dove ciascuno era più colorato e chiassoso degli altri. Lo affascinava l'apparente libertà di costu111 i che notava an­ che nelle donne. Lo catturava il sogno di poter pensare un po' a se stesso in santa pace, lontano dal controllo di quel­ l'uotno che, sì, riconoscendolo legallllente lo aveva salvato da un penoso status di figlio di enne enne, m.a ora preten­ deva di condizionare il suo futuro scegliendo al posto suo. si disse. E colll inciò a frequentare l'alta società del luogo. Feste, cocktail-party, aperitivi, brunch: era tutto un libare. «Da' retta, Giovanni: llla che studi o pensi solo a bere?>> gli 111 andava a chiedere il suo babbo. > le diceva lui strizzandole le braccia là dove esse si fanno più cicciot­ te, vicino all'attaccatura con le spalle. >. > «Davvero? ! >> trasecolò Elissa, che qualche ideuccia stra­ na invece se l'era fatta. «Via, non letichiamo>> s'intromisero gli altri. L'idea piacque, e così si colllinciò. Boccaccio ci racconta tutto questo in una splendida "cornice", un lungo passo introduttivo che ci accom.pagna all'interno di una situazione assai particolare. Non era da tutti i giorni, effettivamente, che una decina di ragazzi si ritirassero in una villa di ca111p agna, così, senza altro lll oti­ vo che quello di ca111b iare aria. Ma quelli non erano i tetn­ pi di setnpre. L'autore coglie anche l'occasione per dichiarare il desti­ natario dell'opera che va a iniziare. Tanto per non smentir­ si, egli dedica il Decameron alle donne, alle donne innam.o­ rate, a quelle che per amore soffrono e che, a causa di una vita uggiosa da relegate doinestiche, si vedono preclusa anche la possibilità di trovar conforto nello sca111b io, nella conversazione con la gente, nello svago del Inondo. Un uomo che soffriva, ai tempi, aveva lll i lle occasioni per trovare sollievo: darsi al commercio, viaggiare, andare a caccia, all'osteria. Ma una donna? Per una donna il inon90

do finiva con l'ago, il fuso e l'arcolaio. E Boccaccio così pretese di consolarle, di star loro vicino, di fornire loro un po' di conforto, di farle sorridere. «Sempre a pensare alle donne eh! » gli rimproveravano però i critici dell'epoca, «occomemmai tu ragioni solo di femmine? Ma cosa c'hai, la fissazione?! Perché non pensi un po' di più alle Muse?>> si difendeva l'autore mandandoli tra i denti a quel paese. insistevano.

E allora andiéllllo a raccontarla, qualche novella, e gustia­ lll ocela fino in fondo, alla faccia di tutti quelli (fortunata­ tnente pochi) che sostengono che il riso, con l'arte, non va poi così d'accordo. Mettiallloci cotnodi, oh!, del resto, stia­ tno per cominciare a leggere il Decameron di Giovanni Boc­ caccio. Rilassia111oci. Raccoglia111 oci. Allontaniatno da noi ogni altro pensiero, lascialllo che il lllondo che ci circonda sftuni nell'indistinto. Insonuna, quella roba lì che ci dice di fare ltaio Calvino in Se una notte d'inverno un viaggiatore. Intenzionallllente ho optato per tre novelle tra loro assai diverse: una in cui si parla solo di sesso, una in cui si parla di sesso e atnore, una in cui si parla solo d'alllore. Solo la terza è arcinota perché rientra regolartnente nei progratn­ lll i lll i nisteriali e viene propinata a tutti gli studenti. Co­ lll incialll o dalla llleno diffusa, cioè dalla più sporca. La giornata del Decameron che, nelle scuole italiane, vie­ ne saltata a pie' pari è la terza. Qui l'argomento del giorno, fissato da Neifile, riguarda il raggiungimento dell'oggetto del desiderio (un organo genitale, maschile o femminile) attraverso l'ingegno. C'è di tutto: da un certo Masetto da Latnporecchio che si finge muto per andare a servizio di un convento di mo­ nachine e ripassarsele tutte a un certo don Felice che inse91

gna a un certo frate Puccio come fare penitenza e, mentre costui la fa, il prilll o si fa la donna sua. In quella che racconteremo in questa sede, nàrrasi la cu­ riosa storia della giovane Alibech, che si reca nel deserto alla ricerca del inodo in cui soddisfare il Signore. Luci. ***

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Si dice che, nella città di Capsa in Barberia, vivesse un uo­ lll O ricco sfondato, che insieine a parecchi figli aveva an­ che una ragazzina, quattordici anni o giù di lì, bella com.e un fiore. La tipina, che non era di fede cristiana, sentiva però spesso parlare certi cristiani che, passando per la sua città, raccontavano coine fosse bello servire il Signore. > . In effetti, però, colll e dargli torto. Passavano i giorni e quei due non facevano che infilare il Diavolo all'Inferno, leva e Inetti, leva e metti, leva e lll e t­ ti, dalla tnattina alla sera. «Ma quante volte ci va 111esso? ! >> dotnandò l'ingenua ra­ gazza. «Finché non abbassa la testa e la fa finita di atteggiarsi a sottuttìo!» rispose l' eretnita. Venne dunque il rnotnento in cui il povero Diavolo, stre­ mato, abbassò il capino e disse: ''Se non vi dispiace, Ini ri­ tirerei". Ma l'adolescente, a quel punto, c'aveva preso gusto e tornò più e più volte a pretendere la sua incarcerazione, tacciandolo di essere arrogante, presuntuoso, tracotante, illl p ertinente, sprezzante e burbanzoso, sebbene costui avesse preso a com.portarsi corne un dainerino. Rustico credeva di morire d'iperventilazione e solo in 94

quel momento capì che il vero demonio era quella ragaz· zina ninfolll ane e petulante. Fortuna volle che la casa di lei prendesse fuoco, tutti i suoi cari lll orissero e lei, rintracciata da un certo Neerbale, giovane spiantato in cerca di facile dote, abbandonasse per sempre il povero eremita e diventasse moglie di co­ stui, scoprendo con stupore che di Diavoli da rinserrare nell'Inferno, è (fortunatamente) pieno il inondo. Sipario. ***

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Sicuramente meno torbida, ma anzi, più leggera e frescoli· na, è invece la novella dall' e111b letnatico titolo Caterina e l'usignolo. Siamo tutti adulti e vaccinati, non c'è bisogno che stia a dire di che usignolo si andrà presto a parlare. Ma tutto si può dire a Boccaccio, fuorché prevedibile. Perché anche laddove la trallla e l'epilogo sono di facile intuizio­ ne, resta cotnunque il gusto di sapere come procedettero gli eventi e cotne fecero a condurci fino all'applauso finale. Una certa Caterina, giovane e innocente com.e la fanciul­ la della novella appena proposta, non aveva in vita sua rrtai visto un uccello e probabiltnente desiderava 111olto far­ lo, altneno a quel livello che Freud chiatnava inconscio. Non si spiega altritnenti cotne avesse potuto acconsentire all'ignobile proposta fattale da quel furbacchione di Ricciar­ do, il solito figlio di papà in cerca di facili conquiste, che lei alllava e di cui sperava di diventare presto vergine sposa. > si misero a berciare il babbo e la mamtna di costei, udita la richiesta. , che la sera dopo il padrone di casa disse: > so­ spiravano i suoi sudditi. Volle tnettere la bocca addirittura nelle questioni ''na­ zionali" - diciatno così per fare prillla - tanto che si gua­ dagnò il nomignolo di "ago della bilancia": li faceva rigare tutti dritti e soprattutto li faceva stare tutti zitti. Perché lui ci sapeva fare, con le parole. Si presentava a casa tua, tranquillo, calmo, sereno e ras­ serenante, senza ombra di aggressione veruna in volto, col suo bel nasone guasto (il Magnifico infatti, per un limite g enetico, non possedeva il senso dell'olfatto) e ti coinvol.,.

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geva in una chiacchierata apparentemente informale ma effettiva:mente impegnativa. > ebbe a dire Caterina Sforza quando seppe della lll o rte di Loren­ zo. Proprio lui, quello che usciva Inano nella lll a no insie­ lll e a me nei llliei sogni di balllb ina. Cosa non avrei dato per goderllli in diretta la vita quoti­ diana ai telllp i della signoria. dei Medici. Per vestirlll i con quegli abiti, rnangiare quegli ali:menti, partecipare a quelle feste. Per abitare in quei palazzi. Nasce nel Quattrocento la sensibilità agli �rredi e all'ab­ bellimento delle stanze della casa. Prim.a, nel Medioevo, le abitazioni erano spoglie e brulle, da depressione. Nel­ l' età um.anistico-rinascim.entale, l' alllb iente deve essere ar­ :monioso e ogni singolo elemento deve essere in sintonia con gli altri. ,



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Un altissimo grado di dignità artistica ad esempio viene attribuito al cassone, finemente decorato da artisti di gran fama. Scrive Giorgio Vasari: Niuno era che i detti cassoni non facesse dipingere. L'oggetto, nei traslochi, viene portato a braccio affinché tutti lo possano guardare (e schiantare d all'invidia), immaginandoselo pieno di donora, ossia il corredo. Com.incia poi a farsi strada il tavolo fisso: si stnette di rrtangiare dove capita, allestendo a seconda dei gusti rno­ rrtentanei una m.ensa qua o là. Si apparecchia per benino, si curano le tovaglie, si fa attenzione ai piatti e ai bicchieri. Va molto di tnoda il vetro di Empoli e a Poggibonsi si fab­ bricano fiaschi da distribuire (vuoti) in Chianti per poi far­ li circolare (pieni) tra la gente. Vasi, piatti, boccali, bacinelle, brocche, anfore, lll a ioli­ che, tazze, m.esciacqua: tutto si produce (anche diretta­ lll ente nelle dim.ore medicee, che dispongono di forni ap­ positi e assum.ono esperti ad abbellire il prodotto finale) perché di tutto si ha bisogno e di tutto si riconosce l'illl­ portanza per un'elevata qualità della vita. Imperversano le sedie e in particolare sbaraccano quelle di lll o dello ''Savonarola'', rielaborate sul faldistorio, lo sgabello pieghevole tipico del Medioevo. Ma si fanno costruire anche scaffalature per i libri (sem­ pre più diffttsi da quando Giovanni Gutenberg ebbe quel­ la genialata della stampa a caratteri .mobili), attaccapanni, cornici, specchi, quadri. E i tappeti? Un culto. Che poi, mica venivano messi in terra e pesticciati come si fa noi. Alle pareti, sopra i tavoli, sugli scrittoi, sui cassoni, sui letti. Dappertutto, tranne che a coprire il pavimento. Io sinceramente rni ci sarei persa, in tutto questo bendiddìo. li rnio amico onirico Lorenzo fu educato con tutte le cure e le attenzioni. I migliori umanisti gli insegnarono il latino e il greco, la filosofia, la teologia, la storia e la matematica. 105

Perché ormai s'è detto e ridetto, ma ripetiamolo (che non fa mai male): a quei te1npi la cultura si pensava che valesse. "Mi voglio dare alla poesia! " decise un giorno. E subito fu fatto chiam.are l'ecclesiastico Gentile Becchi, a tenergli un corso rapido di scrittura creativa. nti confidava quan­ do c'incontravatno in sogno. gli svelavo. Scrisse diverse opere, tnica solo l'arcinoto Trionfo di Bac­ co e Arianna. gli dicevo in sogno, reci­ tandogli a tnetnoria il ritornello che anche chi non ha 111 a i studiato la letteratura conosce a tnenadito: Quant'è bella giovinezza,/ che si fugge tuttavia!/ Chi vuoi esser lieto, sia: di doman non c'è certezza. mi diceva allora lui, e mi declalll a va in versi una lista dei più celebri alcolizzati di Firenze. > Ma lui ne avrebbe avute cento altre, perché quello che gli mancava non era certo la fantasia. Nella sua breve vita scrisse delle opere neoplatoniche (Selve d'amore e Alterca­ zione), opere di stalllp o cotnico-edonistico (Caccia col falco­ ne, Uccellagione di starne, la Nencia da Barberino, Corinto e diversi Canti carnascialeschi) e persino opere d'ispirazione religiosa (Capitoli, Laude e Sacra rappresentazione dei santi Giovanni e Paolo, che io non ho 111 ai letto ma che hanno tut­ ta l'aria di essere delle palle colossali) . Un criticone inacidito come Voltaire stimava il Magnifi­ co a dis111i sura. Gli piaceva di Lorenzo il fatto che fosse eclettico e poliedrico, che non si trincerasse dietro il suo nome altisonante, che non facesse il magnifico a tutti i co­ sti, ma che senza esitazioni fosse capace di prendersi cura di tutte le sue cose, da quelle alte e prestigiose a quelle Ulllili e più basse. 106

Per non parlare poi del fatto che c'aveva da pensare an­ che ai suoi figli: sette ne concepì, con Clarice Orsini, più altri due, morti però appena nati. Ma trovò il tempo anche per loro, a vantaggio della cui educazione incaricò il solito suo amico, Angelo Poliziano. Circolavano certi testi a quei tempi che facevano im­ pressione a partire dalla copertina e dall'intestazione: esi­ steva gente come i già citati Poggio BraCciolini, Leonardo Bruni, Pico della Mirandola, Leon Battista Alberti, gente colll e Lorenzo Valla, Paolo Cortese, Giannozzo Manetti, Marsilio Ficino, Cristoforo Landino, Nicola Cusano. Esisteva Leonardo da Vinci. Proprio lui, in carne, ossa e barba, l'uomo-embletna del Rinascim.ento, l'artista a tutto tondo, lo scienziato più completo perché Ineno ottuso e più accogliente, la mente più aperta. Il genio. Nasce il ceto intellettuale in senso rnoderno, l'università perde il suo ruolo centrale ed esclusivo di diffusione della cultura, la cultura si sposta altrove, si espande, arriva a più soggetti. La cultura è ricerca e la ricerca parte in prim.a istanza dalla filologia, dallo studio amoroso delle parole. Cambiano il punto di vista, le aspettative e lo stato d'ani111 0 con cui si apre un volullle . Per questo io sarei voluta nascere a cavallo tra quei due secoli lì. Poi anche per i vestiti che andavano di rnoda, devo essere smcera. Chi non vede nella moda altro che la moda, è uno sciocco avrebbe scritto Honoré de Balzac, nell'Ottocento. Antonel­ la Landi, nel Duemilaotto, gli avrebbe dato ragione. Subito dopo il discorso della dote, nella valutazione di una ragazza di quei tempi là, veniva quello dell'estetica. «Allora, com'è questa Clarice Orsini?» chiesero i fami­ liari a Lucrezia Tornabuoni quando rientrò da Roma, dove si era recata esplicitamente per vedere in faccia la sua futura nuora. > rispose lei. •

107

«Come mh?!» trasalirono quelli. «Se l'è brutta, come si fa a convincere Lorenzo?>> chiarì Lucrezia, > insisteva il babbo di Lorenzo, rnentre Lorenzo era in cam.erina sua, perso nella pennica post-prandiale. s'innervosì sua rno­ glie, >

esclam.ò Piero, a m.età tra lo sbigottito e lo schifato. Si scopre in questo Illodo che, nel Quattrocento, non colo­ rarsi i capelli (chiaramente di biondo) era quasi una vergo­ gna_ Coine se tutta l'austerità che aveva dominato nel Me­ dioevo dovesse essere diinenticata e superata da uno sfoggio sfacciato dell'avvenenza sia fenuninile che maschile. Erano lontani i teinpi in cui quel becerone di San Ber­ nardino, dai pulpiti di Siena, urlava sul m.uso dei fedeli: «Saprestimi tu dire quale è la più bella e la più utile cosa 108

che sia in una casa ? Sai qual è? Qual è? È avere una bella donna, grande, buona, sa via, onesta, temperata e facci de' figlioli !�>.

Le d onne dell'Umanesimo

e

d el Ri nascitnento andava­

no ben oltre. Farci dei figlioli va bene, Ill a anche tenerle b en e e fi n anz i a rle nel tru cc o nel parrucco, nei p ro fu m i nei balocchi e nei ma ri tozzi. D'al tra parte, le perle e le ma d reperle a Firenze veniva­ no indossate anche dagli uotnini. Il mio magnifico a111 ico Lorenzo, per esetn pio, in occasione di tornei, feste e ceri­ Inonie faceva s foggi o di abiti ornati di pietre preziose, an­ che se tutto di lui si può dire, ma non che fosse vanitoso. Nel c e l e berr i m o ritra tto pittorico che di lui ha lasciato Giorgio Vasari, Lorenzo seinbra più bello di quanto non lo fosse in realtà : il naso tneno lungo del suo solito, il mento p rogna tico ma non sfacciato, le mani lunghe e affusolate, i capell i ben curati. Che dire poi di quel bellissimo guarnac­ cione fod erato di pelliccia di lince? ll lll i o arrtico era Ina­ gnifico pur nella sua n ota semplicità. C'erano certi uomini, invece, che s i m.b rigl ia v a n o peg­ gio della Mad onna d i POlllpei, con un anello per ogni dito, e perle appese al collo. Le donne a v e v a no p iù chance a ncora per fare le civette : i l o ro vestiti erano fluenti, con la vita molto alta per mette­ re in risalto il seno e i fianchi e con una scollatura generosa seppur non troppo a ppa riscen te Occhio v igi le sui colori, che non tu tte si potevano per­ mettere: il verde sm.eraldo, per esetn p io, era riservato alle nobildonne, poi c ' era il morell o (un rosso cupo molto pro­ vocante), il lionato (un giallo fulvo più serioso), il bertino (un grigino scuro perfetto pe r le su d i done perché non si sporcava mai) e l 'alessandrino (un azzurro screziato assai ,

,

'

.

e

legan te) . �Questa è

un' era di follia ! ,> esclamav ano i più critici, vedendo tutto q u e l luccichio di colori e di trabiccol i per

strada. 109

Io dico che doveva essere uno spettacolo da restare sen­ za

fiato. I tessuti usati erano pregiatis simi : damaschi, allucciolati, taffettà e velluti genovesi. Nacque e si diffuse poi il cul­ to del bottone. «Basta con queste vanità!» tuonava il frate domenicano Girola111o Savonarola. > convenivano i fiorentini. E infatti a quei te111p i (che soddisfazione) doveva essere tutto uno sbottonìo di bottoni e bottoncini. «Le 111utande sono indice di tnollezza ! >> rincarava la dose il frate. >

All'epoca tutti andavano a letto co111e bachi. Ma l'apoteosi si raggiungeva con l'acconciatura dei ca­ pelli. Era uso tra le giovani 111 a donne fiorentine incastrare tra le ciocche fiori freschi. I capelli venivano se111 p re rac­ colti in trecce eleganti e 111 i nuziose. Per qualche te111 p o andò di lll o da anche lo stile "scorticatoio", che prevedeva la rasatura di lllezza calotta cranica per fare finta di averci la fronte altissilll a e poter sostenere la tesi di un'evidente intelligenza. Gli uo111 i ni invece spesso i capelli se li nascondevano con copricapi elaborati. Il più trendy era il "budèllo" (pro­ nunciato alla livornese, con la "e" non aperta: spalancata), lll a anche il "carnauro" (un cappuccio di lana) andava be­ ne, co111e andava bene la "berretta a tozzo" in feltro oppu1 10

re il "mazzocchino" in lana, che da lontano pareva un co­ pertone d'automobile. «O icché c'ha sul capo oggi Messer Lapo, una ciambella fritta?! >> rideva uno indicando un altro con il dito. Chi ce li aveva, sfoggiava capelli lunghi e spesso tinti di biondo. chiedeva Mes­ ser Lapo a quello che l'aveva indicato con il dito.

berciò Isabella d'Este, > le dis­ se lui. La relazione extraconiugale tra i due atnanti funzionava che era una tneraviglia: lui, che era restio al lll atritnonio, trovava in quella condizione uno status ideale, perché prendeva dall' atnata solo il tneglio, salvandosi per esem­ pio dalla discutibile esclusiva di vederla in giro per casa di prima tnattina, senza trucco e con l'alito putente. disse però · un giorno Aie a Ludo,

disse Ludo ad Aie, Ci pensarono un po' insiellle, poi decisero di sposarsi in gran segreto, alla chetichella.

aveva iniziato a dire Ludovico. lo aveva inter­ rotto il cardinale. «Mi hanno detto che in Ungheria fa mOlto freddo» mor­ m.orò Ludovico.



> '

'



1 19



«Madonna quanto la fai lunga! >> aveva esclam.ato a que­ sto punto il cardinale. «Non ti facevo così uggioso! >>

«Lo vedi anche te che non 111 i piego bene con la schiena.>> «Ma cosa 111e ne frega, cardinale! Io sono un poeta ! Un poeta, capisce? Uno scrittore! Un artista ! » Alla fine Ippolito si convinse: partì da solo e lasciò Lu­ dovico a posar le poltre membra, ad abitar la sua contrada, a godersi la sua quiete, a dedicarsi al suo studio, l'unico in grado di dar pastura - se non al corpo - al111 eno alla men'

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te, l'unico capace di rendere sopportabile la povertà, la fa­ me. L'unico a dare un senso compiuto all'esistenza. «Mi sento riavere! » disse Ludovico ad Alessandra guar­ dando dalla finestra la carrozza del cardinale che diventa­ va piccina picciò. «Ora finalmente potrò riprendere in ma­ no il tnio capolavoro.>> > si dotnanda. Poi m.ette a fuoco m.eglio e legge: ANGELICA LOVES MEDO­ RO. E, più in là: MEOORO LOVES ANGELICA . Quindi due o tre alberi più avanti: MEOORO, TE QUIERO MUCHO. E ancora ol­ tre_, là, verso il fiu111e : ANGELICA, MI VIDA . E non finiva m.ica lì: ICH LIEBE DICH, MEOORO. E accanto: J ' AlME ANGELICA TOUT LE JOUR.

"Questi devono essere due pischelli freschi di vacanze­ studio all'estero che ora giocano a fare sfoggio di cultura poliglotta" pensò Orlando sulle prime. Ma procedendo tra le frasche, lesse altro, ben scolpito nella crosta di un nocciolo: RESPIRI PIANO PER NON FAR RU­ MORE, TI ADDORMENTI DI SERA, TI RISVEGLI COL SOLE, SEI CHIA-

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ma la circonferenza del nocciolo era finita e la frase era ri111a sta a 111 e zzo . . . . L' ALBA ci aggiunse sotto Orlando, col suo coltellino a serratnanico, poi si disse: "Questo dev'essere davvero in­ nall1orato: bellino questo inizio, ci verrebbe bene una can­ zoncina''. C'era qualcosa di strano che lo inquietava, lll a si sforzò di pensare ad altro e riprese a carnlll i nare. Quei narni, però, uno in particolare (Angelica), gli rirnbotnbavano nel­ la testa. Si chiatnava proprio in questo modo la ragazza che gli aveva strappato via il cuore dal petto. Una stango­ na bionda con le gambe lunghe come un fenicottero rosa, aggraziata e sinuosa, se01plice e naturalrnente sensuale, con quei due occhioni da cerbiatta, con quelle labbra rosa e carnose, quel nasino ritto e delicato, quelle spalle ben de­ lineate ed eleganti, quel collo Jungo. E poi quelle due bor­ racc . . . ehlll , quei due seni ben rigonfi, quel petto generoso avvolto in veli bianchi, avvalorato dal taglio dei vestiti candidi e leggeri che colei sempre indossava. si chiese Orlando. si interrogò ancora. > Nacquero in questo modo le /storie fiorentine. L'opera piacque Inolto anche a Francesco Guicciardini, che Machiavelli aveva conosciuto a Carpi e di cui divenne grande amico. Ma allo scrittore vivere d_i gloria letteraria interessava fino a un certo punto: quello a cui egli mirava era la gloria politica e non essere stato del tutto riabilitato lo rendeva triste e apatico. Un giorno accadde qualcosa che gli risvegliò lo spirito e lo fece tornare ra gazzino: era il 6 mag gio 1527. Dopo il sacco di Roma, il regime Ille diceo era ca d uto di nuovo. > disse a un certo pun­ to Alfonso. «Dopo tutto quello che ho fatto per te, ti ripre­ senti a casa mia solo per offenderm.i?» «Tutto quello che hai fatto per lll e ? ! » trasalì Torquato. «Ma se 111i hai fatto rinserrare in un convento! >> «Per forza ! In corte non ti sopportava più nessuno! » «Siete una corte d'incolllp etenti! Vi farò causa! Io vi de­ nunzio! Siete tutti incapaci d'intendere e di volere! Pazzi! Ecco cosa siete! Siete solo una lll a nica di pazzi ! >> diceva Tasso. «Senti chi parla ! >> rise Alfonso; poi, rivolto alla sposina illl p allll a ta di fresco, «Cara, chiama la Neuro, che se lo vengano a portare via, io questo soggetto intorno non ce lo voglio più.>> Gli misero la ca:micia di forza e lo trascinarono nel rna­ nicoinio di Sant'Anna. urlava Tasso da quando si svegliava a quando tornava a coricarsi. >. «Quale Gerusalemme liberata?! Di che opera state parlan­ do? Io non ho dato l' okay per pubblicare nulla di mio e co­ desto titolo non l'ho mai sentito! Chi l'ha inventato? Ladri! Mi avete rubato il poem.a e avete corretto le bozze a modo vostro! Mi fate schifo! Appena esco di qua vi denunzio tutti! >> Ma, in manicomio, Tasso restò sette lunghi anni . Quando fu rimesso in libertà, della questione del titolo e delle bozze corrette abusivam.ente da un editor che lui non conosceva non se ne ricordava più e, secondo la sua indole, riprese subito a viaggiare. Lo videro a Mantova, a Bergamo, a Rom.a, a Napoli. Fe­ ce una puntatina anche a Sorrento. disse un pizzaiolo e, d'accordo con i suoi clienti, per il m.ero gusto di fargli un dispetto prese a cantare: > disse il satiro. Seguì una breve colluttazione, durante la quale Silvia ne approfittò per svignarsela. "Brutta stronza, non m'ha nenuneno detto grazie'' pen­ sò Am.inta, e ci rin1ase m.ale. Ci rimase ancora peggio quando gli andarono a dire che, nella fuga, Silvia era stata prima raggiunta e poi sbra­ nata da un lupo, come ingannevolmente testimoniava il suo velo insanguinato ritrovato nel bosco. Dilaniato dal dolore, decise di buttarsi giù da una rupe. 141

«Buttato giù da una rupe?!» trasecolò Silvia, quando lo seppe. E, come spesso accade agli esseri umani, s'accorse di amare quella persona quando prese coscienza di non avere più la possibilità di essere contraccam.biata.

«Sì, e poi?>> la interruppe Dafne. . e poi avrelll lll O 111 e sso al Ill o ndo dei bambini, sa­ reill lll O andati al lll u ltisala la doinenica polll e riggio e a Marina di Bibbona per le vacanze estive.>> la interruppe nuova­ m.ente l'arnica. In quel lllornento giunsero altri pastori che, eccitatissimi e sudati per la corsa appena fatta, dissero a Silvia che, no!, Atninta non era lll orto, che, sì!, si era salvato, che, pensa!, un cespuglio aveva attutito la sua caduta dalla rupe e che, davvero!, a parte qualche graffio (ma nulla di grave), sta­ va proprio bene e la lll andava a salutare. esclalll ò Dafne. >

«Come faccio a stare zitto? Vieni qua, guarda tu stesso, ec­ co, avvicinati, qua, vicino alla finestra, metti l'occhio qui.>> Ci credeva ferrnam.ente, lo scienziato nato a Pisa nel 1564, in quello che diceva. E quel che è peggio (o meglio, dipende dai punti di vista) lo scriveva, senza tante mezze n1isure, platealmente, mettendo in bocca le teorie più ridi­ cole e superate a un certo Simplicio (il cui nome è tutto un programma) e lasciando pronunciare le grandi verità a Giovan Francesco Sagredo e a Filippo Salviati, in forma dialogica e in lingua volgare, perché - corne avrebbe scrit­ to Parini - d'altro più non si cura che d'essere inteso. Invece dovette curarsi anche di lll e ttere in salvo la pelle, perché a Roma, dove venne convocato il 13 febbraio del 144

1 633, gli fu detto chiaro e tondo: «Abiura, o ti si prepara illllll e diatalll ente un rogo personale>> .

>

«Meno calcoli, più abiure! >> «Ma avete letto attentamente quel passo della lll i a opera fam. o sa in cui sostengo . . . >> «Le tue opere ci fanno schifo: abiura e ti perdonerelll o .>> «Ma l'ha detto anche Copernico . . . >>

>

«Bada a come parli: sono tuo padre!»

(Diceva parolacce che io, solo per amor di cronaca, sono costretta a trascriyere fedelmente.) «Devi smettere di fare lo scapestrato: metti la testa a posto e datti da fare per perpetuare la tnia carriera di avvocato.»

E se ne andò, sbattendo la porta per setnpre Cotninciò a gironzolare in diverse città, lavorando per ese111 p io a servizio del cardinale Aldobrandini e contem­ poraneatnente componendo le sue prime ritne. Soggiornò a Torino, dove venne a contatto coi Savoia, Carlo Etnanuele in particolare, a cui leccava i piedi senza alcun pudore, colll e testilll onia il poemetto Ritratto del se­ renissimo don Carlo Emanuele duca di Savoia, un'indigeribile 111 a ppazza. Nella parte finale della sua vita lo trovialll o in Francia, alla corte di Luigi XIII. diceva, presentandosi ai cortigiani. All 'inizio il sovrano non lo poteva nemtnen sentire no­ lll i nare (> Egli pensò che si trattasse di letteratura erotica e di filtnini porno, e li seguì tutto ingrifato. Ora. Va bene. Va bene tutto. Ma cinquem.ilatrentatré ot­ tave ci volevano? Quarantacinquemila versi erano neces­ sari, per raccontare una storiella di queste dimensioni? Eppure piacque. A parte alla Chiesa, che lo inserì subito nel libro nero dei testi da bruciare per un surplus imper­ donabile di lussuria, piacque veramente a tanta gente. «Hai visto, 'o pazzariello di Marino? Chi l'avrebbe mai detto?>> si chiedevano a Napoli, la sua città natale. La sua fama svolazzò un po' dappertutto e i suoi fan si fecero più numerosi di settimana in settimana. Se ci fosse stato Internet, Marino (esibizionista com'era) avrebbe aper­ to un blog e il computo delle visite giornaliere avrebbe di­ rrtostrato quanti gradivano quel suo concettoso ed esube­ rante stile di scrittura solo in apparenza privo di significato. Perché guardando bene, scavando a fondo, andando ol­ tre la perla ovale (barrueco in portoghese) elevata a simbo­ lo di questo movimento artistico, in Marino è possibile trovare gli elementi tradizionali che accomunano i nostri più grandi autori e l'essere umano in · generale. Marino indugia sul neo della sua donna, sul suo solco in mezzo al seno (quel dolce sentier tra mamma e mamma), sul­ le sue chiome, sui suoi occhi, ci parla di femmine non solo bionde e belle, n1a anche brune, rosse, e soprattutto brutte, zoppe, balbuzienti; incentra i suoi componimenti su temi mai battuti prima che a un primo ascolto ci suonano va­ cui, inutili, fini a se stessi. Ma dall'apparizione di segnali strani nelle sue composi­ zioni (orologi che scandiscono le ore, donne che si fanno rugose, funerali che si celebrano, stagioni che si rincorro·

149

no) noi capiatno che anche lui, che pure gioca a fare il leg­ gerino e il superficialone, prova stnarrirrtento davanti al­ l' esistenza, telll e la corsa forsennata a cui ci costringe il teillp o e ha una paura fottuta della morte. Proprio come noi.

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Il Settecento

E la luce fu

Dio (o chi per lui) volle che a un periodaccio come il Sei­ cento dovesse seguire un'epoca di grande illuminazione intellettuale. Tutto cambiò repentinamente, nell'epoca dei lumi: la piega presa dalla storia, la condizione della gente in generale e quella dell'intellettuale in particolare. Che non dovette più fare il servo ai cardinali e ai duchi delle corti, m.a poté pensare ai fatti suoi e sentirsi libero di anda­ re dove più gli confaceva e più gli conveniva. Tipo, al caffè. si dicevano i letterati.

Guai infatti a chiam.arli con questa denominazione, quel­ li che nel Settecento avevano studiato. Se la prendevano a morte ed erano capaci di darti una rispostaccia. Essere ''letterato" per loro era un'offesa. Perché i letterati erano quelli che, per secoli, erano stati a servizio di qualcu­ no, subordinati a un potere dominante che vestiva abiti no­ bili o talari. Era gente costretta a dire sem.pre sì e a piegare la testa, a darsi da fare per far infilare un piede in una scarpa e un corpo in un cappotto. Servi, prima ancora che scrittori. 151

«Letterati. . . puah ! » si schifavano gli illuministi. «Se vo­ gliono che ci voltiamo, ci devono chiamare filosofi. » Erano convinti che il nome contribuisse a fare la diffe­ renza. E la faceva. Perché il filosofo illuminista partecipa direttamente ai grandi mutam.enti della società, non ne è passivo spettatore. Il filosofo, nel Settecento, determina, non contempla. Agisce, non perde tempo a guardare, scri­ vendo due frasine in croce. Del resto, non erano più tempi di discorsi a tavolino: bi­ sognava fare, e in tanti stavano già facendo. Una rivolu­ zione dopo l'altra, per esempio: americana, industriale, francese. Ma anche opere letterarie mai vtste prima, come l ' Encyclopédie. «Ragazzi, dividiamoci il lavoro>> disse Denis Diderot agli altri collaboratori. «Cosa c'è da fare?» chiese Jean-Baptiste Le Rond D'A­ lembert. > disse lui, elll ozionato. Da quel momento in poi, la produzione letteraria dello scrittore mutò radical111 e nte. Tanto per cotninciare, rin­ negò il poelll e tto Urania, scritto in gioventù ("Chi, io? ! Nonò, io non ho 111 ai scritto nulla con quel titolo" dichiarò a un giornalista che lo intervistava), e decise che mai più e tnai poi avrebbe scritto d'altro che di religione. All'inizio l'entusiasmo neofita della sua conversione lo travolse. Dio invase i suoi pensieri e l'autore, vestiti i panni del versificatore, pianificò, avviò, m.a (fortunatam.ente) non concluse gli Inni sacri. Nella sua Illente, doveva trattarsi di dodici poesie dedicate alle dodici festività più significative del calendario cattolico. Dio volle che quell'invasato si ar­ restasse dopo La Risurrezione, Il Nome di Maria, Il Natale, La Passione, La Pentecoste e un fram.mento di Ognissanti. «Dio c'è» disse Enricttetta quando il m.arito le coinunicò che l'avrebbe finita lì e si sarebbe dedicato ad altro. Il periodo compreso tra il 1820 e il 1827 è fecondo e iper­ produttivo: Manzoni, oltre alle due tragedie Il conte di Car­ magnola e l'Adelchi, compone due odi storico-civili, diverse opere teoriche com.e la Lettre à Monsieur Chauvet sur l 'unité de temps et de lieu dans la tragédie e la Lettera sul Romantici186

smo al Marchese Cesare D'Azeglio,

e

inizia a mettere mano al

suo capolavoro, I promessi sposi.

spiegava Manzoni a Enrichetta.

spie­ gava Manzoni a sua llloglie, che lo ascoltava assorta. >

«Non mi rispondo: lascio aperta la domanda, risponderanno i posteri, se ne avranno voglia. » «Una vera trovata ! Magari un po' da paraculo, ma geniale! >> 4

187

Procedevano così, le serate in casa Manzoni, riscaldate dalle parole affettuose dei due coniugi e dal lieto romore dei fanciulli in giro per l'appartamento ("Sputa l'osso! Le due parole in corsivo sono mie ! " ) (chiedo scusa un'altra volta, è sempre Leopardi, che sta lì a fare il puntiglioso). Sfruttando la serenità della falll i glia, Manzoni cornpose le sue opere migliori e, finalmente, cominciò la lunga, de­ licata e tormentata stesura del Romanzo per antonornasia. «Ho già in mente tutta la storia» spiegava la sera a cena a moglie e figli. «Uffa papà, cheppalle con codesta roba, sempre i soliti discorsi, possibile che in questa casa non si parli mai d'al­ tro? ! » si lamentava la prole. «Ragazzi, portate rispetto a vostro padre! » ordinava Enrichetta. «l figli dei miei amici pagherebbero per avere un papà che raccontasse loro tutte le storie che vi racconto io! >> ri­ vendicava Manzoni. «Ma cosa dici, papi? ! Mai una favola, mai una fiaba, una filastrocca, un indovinello, una barzelletta: storia, storia, storia, sempre storia! » «Ogni opera d'arte deve avere . . . >> « . . . il vero per oggetto, l'utile per scopo e l'interessante per mezzo! Si sa papino, si sa ! Cheppalle però! » Enrichetta allora mandava i bal)lbini a giocare in carne­ retta e si accoccolava tra le gainbe del suo uon1o, col plaid sulle spalle e le pantofole col pelo ai piedi. Lui le accarez­ zava i capelli e le faceva il Bignami del Romanzo. «lnsomrna, avrei intenzione di raccontare la storia d'a­ Inore di una coppia di Lecco, un certo Fermo Spolino e una certa Lucia Zarella . . . » «Madonna che noini brutti ! » esclamava lei ridendo.

«Macché finito, Enrichetta! Sono appena al primo capi­ tolo: secondo i tniei calcoli ne mancherebbero ancora tren­ tasette! >> > > «E dove vanno?! » >

' «Che domande fai, Enrichetta? ! Certo che morirà qual­ cuno! La peste se ne porterà via un bel po' ! Ho già in lllen te tutto, sarà un successo, vedrai! >> Lavorò indefessalll e nte al suo rotnanzo per due anni, dal 1821 al '23. Una sera, verso le sette e llle zzo, tnentre sua llloglie annunciava: > supplicava lo scrittore. Ma la prim.a edizione, nonché seconda stesura, dei Pro­ messi sposi andò in stampa nel 1827 e, per questo, fu detta "edizione ventisettana". seguitava a brontolare Manzoni ca�nminando avanti e indietro per le stanze del suo appartamento, col suo bel libro in m.ano, in brossura.

gli dicevano i suoi figli. > si chiesero moglie e figli, rimbatnbiti dal sonno. « È quel pirla di papà, dormiamo.» Manzoni, nel frattempo, al chiuso del suo studio, per la gioia saltava come una cavalletta dal tavolo al sofà, dal sofà alla libreria, dalla libreria alla poltrona. «Enrichetta! Ragazzi! >> annunciò quindi la mattina dopo a colazione. gli fu risposto tra gli sbadigli.

«A fare che? ! Ma cosa dici? ! Papi, tu stai male . . . >> berciava dopo una settimana appena lo scrittore, inserito a meraviglia nel contesto viola. «Bisogna aver pazienza» diceva Enrichetta ai suoi figlioli. 193

Un giorno gli fu presentato un signore, un ricciolone coi capelli rossi e le basette incolte. «Dottor Manzoni, permetta che le presenti Ugo Foscolo.» > lo avvertiva però sua llloglie. «La censura? ! Me ne infischio! Senti cosa ho escogitato, dilllllli se non è il piano di una faina: fingerò di a\rer tro­ vato un dilavato e graffiato autografo scritto da un anoni­ tno e fingerò di averlo selllp licemente riadattato nella lin­ gua. In questo tnodo, otterrò un doppio risultato: da una parte con la storia del ritrovamento del manoscritto pon­ go un alone di tnistero intorno alla storia . Dall'altra mi copro le spalle da ogni eventuale accusa di tipo politico.>> gli sussurrò Enrichetta prilll a di baciarlo di e aspettare il sonno sotto le cope.rte, accanto a lui. chiese ancora, con fare suadente.

Ma Enrichetta, stremata da una giornata consumata tra pulizie domestiche, code alla posta e spesa all'Esselunga, aveva ceduto a Morfeo ed era crollata. > dice­ va Teresa al cocchiere di casa Leopardi. > gli disse un giorno Teresa Carnian Malvezzi, una ragazza che Leopardi aveva conosciuto una volta trasferitosi a Bologna e di cui si era folle111 ente innalllorato, anche stavolta a senso unico. Finalinente trovò un po' di pace a Firenze. Nella città to­ scana strinse una sincera e generosa amicizia con tutto il gruppo di letterati che facevano parte del Circolo Viesseux. «Piacere, Gino Capponi.>> «Molto lieto, Niccolò Tolll m aseo. >> «Benvenuto a Firenze, tni chia111o Giovanni Battista Nic­ colini. >> > «Ecco, a proposito di C ollette» esclamò Leopardi inter­ rompendo questa processione di intellettuali, «non è che qualcuno di voi avrebbe da prestarmi qualche spicciolo? Sono completamente al verde e quel negriero di mio pa­ dre mi ha tagliato i viveri. Lui crede in questo modo sub­ dolo di costringermi a tornare a Recanati per avermi tutto 205

per sé e per potemti controllare, ma io gliel'ho detto chia­ ro e tondo: stacci te, in codesto paese di tnorti!>> esclatnò uno che non si era ancora presentato. Era Manzoni. «Maestro! Cosa ci fa lei, a Firenze? ! >> escla111 ò Leopardi. rispose quello, sganasciandosi in una risata grassa. Ma ancora tneglio che a Firenze stava a Pisa.

Purtroppo Recanati lo attendeva. Il suo corpo lo co­ strinse all'im.tnobilità assistita e Monaldo, egoista per atnore cotne la lll a ggior parte dei genitori, fu felice di ria­ verlo a casa. Giacolll o invece era così depresso e disillu­ so, che se la prese con tutto e con tutti, anche con la natu­ ra, che adesso vedeva cotne una tnatrigna crudele e spietata, perennemente itnpegnata a tormentare le sue stesse creature. A me la vita è male lll ortnorava, quasi del tutto cieco. lo consolava Monaldo, il quale in realtà pregava affinché suo figlio non guarisse mai e restasse per sempre a casa insieme al resto della falll iglia. È funesto a chi nasce, il dì natale ribatteva il poeta, che aveva capito benissilll o come sta.v ano le cose e che orlll a i da vivere gli restava poco. Per la fortuna dei posteri, egli riuscì a trovare il telllp o di comporre i suoi canti più famosi: Il passero solitario, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio, il Canto nottur­ no di un pastore erran te dell'Asia. gli chiese­ ro gli amici fiorentini dopo che, grazie alla colletta messa insieme da Colletta, riuscirono a farlo tornare n.el capoluo­ go toscano. > disse Verga ad Arrigo. «?!>> gli rispose quello, assai perplesso. > seguitava a borbottare tra sé l'autore si­ ciliano. Lui non lo sapeva, ma quella che l'aveva colpito era un'autentica crisi creativa. E come Manzoni si era convertito al cattolicesimo, Verga si convertì a un nuovo credo letterario che proprio in que­ gli anni stava imponendosi: il Realislllo . puntualizzava Elllile Zola, direttainente da Parigi. specificava Verga. Entrambi i Inoviinenti erano figli naturali della corrente filosofica che li aveva ispirati, il Positivislllo . Crollata la fi­ ducia nel sentimento, rirnontava l'importanza della ragio­ ne, supportata questa volta dagli sviluppi della scienza e dalle speranze da essa alimentate. "Come nel regno animale,. anche tra gli umani vige una spietata legge della sopravvivenza, che dà origine a una selezione naturale a cui è inutile tentare di opporre resi­ stenza" capì Verga dopo aver letto Darwin, di gran moda a quei teinpi. Contemporaneamente, gli nacque in testa la storia ter­ ribile di un ragazzino, un pre-adolescente che, estraneo alla scuola e all'educazione consigliata alla sua età, fre­ quentava suo malgrado le miniere dì rena, rossa come i suoi capelli. "E siccome ha i capelli rossi perché è un ragazzo mali­ zioso e cattivo che promette di riuscire un fior di birbone, lo chiamerò Malpelo, Rosso Malpelo" decise lo scrittore mettendo lll ano alla novella che avrebbe segnato la svolta della sua produzione letteraria. Era il 1878. Da quell'anno, Verga non sarebbe stato più lo stesso. ;Il

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Già un quadriennio prima aveva abbozzato qualcosa in odor di 111utamento: Nedda narrava la vicenda di una ra­ gazza che definire sfortunata è una barzelletta. Costei, am­ morbata dalla miseria e costretta da una realtà zoolll orfa a vivere collle un aniinale, per lavoro raccoglie le olive, per alll ore s'incasina con Janu, per cattiva sorte resta incinta, per malnutrizione perde la figlia e per dindirindina si ve­ de portare via anche l'uo111o dalla Ill orte. Ma quello, appunto, era un bozzetto. Rosso Malpelo è un capolavoro dell'angoscia. Verga ha già capito come deve muoversi, da lì in poi. Non deve più cercare lontano i soggetti dei suoi libri: ba­ sta tornare a casa con la testa, basta ripescare a fondo nella rnemoria, ricercare le inunagini con cui era cresciuto, pe­ scatori che ritirano le reti, contadini curvi sulla terra bassa, rninatori che penetrano nel ventre della terra. Per dipinge­ re lo sfondo su cui far lll u overe questa ulll anità di disgra­ ziati, basta intingere il pennello nei colori di una Sicilia rnessa in ginocchio da un'unità italiana di cui lei manco s'era accorta: le terre bianche, bruciate da un sole spietato, il m.are azzurro che si porta via le barche inghiottendole in una notte di te111pesta, gli agrum.eti gialli e arancioni, che si possono solo guardare da lontano perché sono roba di un altro. Su questo quadro fedele alla realtà di tutti i gior­ ni, una folla anonitna di gente rnalata di Inalaria, col viso di cadavere su cui spiccano però occhi neri e labbra rosse e carnose. Saranno ribelli, sfruttati, lll a ledetti e puttane, i perso­ naggi di Giovanni Verga. E saranno anche rassegnati, co­ raggiosi, dignitosi e onesti. Un 111 ondo intero protagonista di due raccolte di novelle straordinarie, che non seppe mai di esserlo perché l' analfabetisrno glielo irnpedì. s'irnpose Ver­ ga un giorno . > No, Giovanni Pascoli non fu niente di tutto questo, è ve­ ro. Però, a suo 111 odo, egli rappresentò la voce italiana del Decadentismo, la corrente che corse parallela e fu contra­ ria all'interpretazione naturalistica del mondo. Pascoli, da una prima occhiata alle sue foto d'epoca, pa­ re un trichecone rilassato sulla spiaggia a prendere il sole e inglobarne passivo il calore. Baffuto, cicciottello, panzu­ to, gaudente e pacioccone. Sembra fatto e messo lì. Uno che non si pone dornande, che non cerca risposte. Mangia­ re, bere e dormire sernbrano i suoi interessi principali. Uno alla ricerca del "quieto vivere" sul Inod ello del don Abbondio rnanzoniano, che non voleva rogne, che scansa­ va i sassi più grossi sulla strada perché non voleva intoppi e grane. Al paese lo chiamavano "Mangeddortni" e lui se la prendeva a rnorte. > Questa del babbo, è inutile, non riusciva a !asciarsela al­ le spalle. Cominciò a fare l'insegnante di liceo, Ina quell'alone di tristezza sul volto non gli si cancellava tnai. >

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> > gli di­ ceva timida. tagliava corto lui, che nel frattetnpo cominciò ad avvertire strani dolori al fegato. "Cirrosi epatica" scrisse infatti sul referto medico il dot­ tore di fa111iglia. Il fatto è che in un (più o tneno) leggero stato d'ebbrezza riusciva a coinporre con Inaggiore facilità. Del tutto isola­ to nella grande casa di campagna in Garfagnana, accudito solo da Maria che ormai non sperava neanche più in un 226

matrimonio che la salvasse da quella prigionia fraterna, Pascoli si lasciava andare e componeva. n suo personale contributo alla poesia italiana, checché se ne dica, fu notevole. Egli, pur nella puntuale conoscenza e nel rigoroso rispetto delle regole metriche e retoriche, lavorò intenzionalinente per scardinarle. Mantenne l'endecasilla­ bo, ma gli affiancò il quinario, il settenario e il novenario. Ri­ spolverò la strofa saffica. Ripescò il madrigale. Rivalutò la ballata. Introdusse nel lessico parole quotidiane, settoriali, specialistiche, e inventò la poesia delle piccole cose. Ma più di ogni altra novità, dette voce alla natura. Con l'introduzione massiccia dell'ono111a topea, Pascoli tacque e lasciò che fossero gli ele111 e nti naturali a espri­ tnersi per lui. Fu com.e l'accordarsi e quindi l'esibirsi di un'orchestra: assiuoli che lanciavano chiù . . . raganelle che tiravano gre gre . . cam.pane che echeggiavano don don . . . E poi ancora inediti bubbolii, strani fruscii, ricorrenti crepi­ tii, solllm. essi bisbigli, silenziosi sussurri, graziosi pigolii. Un fonosim.bolislllo inquietante. Un inquinalllento acusti­ co da paura.

diceva Pascoli cercando di coinvolgere la sorella in un'iin­ probabile analisi del testo a cui ella rispondeva con scarso ardore. bisbigliava infatti, priina di cambiare stanza. la tan1pinava lui. Lei, a sentir ragionare di tirar fuori roba strana, trasaliva per l'iinbarazzo. «Sai Mariù» le spiegava il fratellone, «tutti noi abbiamo un fanciullino dentro, che finché siamo bambini si espri­ me liberamente perché sente di essere accettato. Poi, man tnano che ci facciamo adulti, distratti e trasformati dagli iinpegni della vita, ci dimentichiamo gradualmente di lui, .

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e lo confiniamo sempre più in un ang olino, dal quale alla fine egli smette di parlare, e resta zitto, tace, m.uore. >> E allora?>> chiedeva Maria, che era dolce, tna anche un tantino dura di comprendonio. E allora il segreto per vivere bene, e soprattutto per es­ sere poeti, è andare a recuperare il fanciullino, riportarlo in vita e metterlo nelle condizioni di parlare: solo chi fa esprimere il fanciullino che ha in sé può sperare di essere felice>> spiegava paziente Pascoli. «Allora il tuo è morto e sepolto ! >> scherzava Maria fa­ cendo riferimento all'eterna rnalinconia in cui versava suo fratello. Ma chissà come sarebbe stata la vita di questo poeta, se nemmeno il fanciullino in lui avesse parlato, se neanche grazie alla parte più infantile e i111rn acolata della sua esi­ stenza egli avesse potuto riscattarsi da un dolore lancinan­ te che non lo abbandonava mai. Non a caso, Pascoli è stato per decenni il poeta più sotn­ tninistrato alle scuole elementari: un fa11ciullino tra i fan­ ciullini. Fino al giorno in cui qualche critico rnalizioso colse nelle sue liriche apparentemente innocenti degli eclatanti segni erotico-sessuali. Un eseinpio per tutti: Il gelsom ino notturno. Cosa credete che si celi dietro quel fiore chiuso di giorno, ma aperto di notte? A cosa vi fanno pensare quei petali un poco gualciti del tnattino seguente? Cosa credete che sia quell'urna molle e segreta dove si cova non so che felicità nuova? I . b runbini avevano irnparato a rnernoria e recitato da\rartti ai genitori un'apparente poesiola su un fiorellino dal cornportarnento originale senza sapere che stavano parlando dell'utero felll nlinile, che al m.attino si chiude dopo aver ricevuto il sem.e m.aschile in una nottata di tafferugli fantasiosi da cui le lenzuola sono uscite con delle grinze imbarazzanti. Quando, un ventennio fa, fu rinvenuto il carteggio di lettere scritte da Pascoli a Mariù, molti aspetti di questo poeta furono irnprovvisam.ente più chiari. annunciava Filippo Tolll229

maso Marinetti, fondatore del movimento sorto nel primo Novecento, ai suoi soci. «Cosa ci prepari?» s'informavano quelli. Bella dotnanda. Alle cene dei futuristi il cibo non era m.ai solo l'occasione per riunirsi, stare insie111 e qualche ora, bere un bicchiere di vino, fare una battuta e andare a casa. Il cibo era il protagonista in assoluto, il re della tavo­ la, il fulcro stesso del ritrovo. cotninciava Marinetti,

Il cibo tattile consisteva in una particolare disposizione delle pietanze: con la rnano destra si dovevano lllangiare la frutta e la verdura, con la m.ano sinistra si accarezzava nel fratternpo una tavola di carta vetrata, di velluto, di se­ ta. Tutto questo per suscitare impressioni di movimento ed esaltare la llla nualità dei cibi. > «V'aspetto alle otto e mezzo. E ricordatevi, ragazzi : abo­ lite la retorica e la politica, quando si 111 angia ! ammoniva Marinetti.

Da gente che tnangiava questa roba, in campo artistico cosa ci si potrebbe aspettare, se non il delirio puro? Poliedrici e interdisciplinari, i futuristi vollero sputare contro tutto quello che non aveva addosso quell'odore di nuovo che hanno le automobili appena ritirate dal concesSIOnariO. Vagamente paragonabile alla Scapigliatura pe r l'anti­ conforlllismo sbandierato, il Futurismo riuscì però ad an­ dare molto oltre, tanto che suonerebbe avanguardista an­ che ai nostri giorni. Esso nacque per far guerra alla tranquillità quotidiana di Guido Gozzano e del suo Crepuscolarisn1o, che celebra­ va i pomeriggi oziosi di certe donnine atte111p ate e disillu­ se (si capisce che non 111 i garba?), e s'impose non appena il già citato Filippo To111 m aso Mar � netti ne compì l'atto co­ stituente pubblicando, nel 1909, il Man ifesto sul giornale francese "Le Figaro" . In questo documento anti-accademico, anti-convenzio­ nale, anti-professorale e anti-statico si dichiara di voler cantare l'amor del pericolo, l'abitudine all'energia e alla temerità. Si sostiene che il coraggio, l'audacia. , la ribellio­ ne saranno gli elelll e nti importanti di un nuovo modo di fare poesia. Si ricorda che la letteratura aveva esaltato fi­ no a quel, momento l 'immobilità penosa, l'estasi e il sonno, ma che questa nuova corrente avrebbe esaltato il movi»



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mento aggressivo, l 'insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo e il pugno. "La Inagnificenza del .In ondo si è arricchita di una bel­ lezza nuova : la velocità" scriveva Marinetti, che non esita­ va a ricorrere a sirnbologie maschili e vagamente falliche quando aggiungeva : "Noi vogliamo inneggiare all' uomo che tiene il volante, la cui asta attraversa la Terra, lanciata a corsa, essa pure, sul circuito della sua orbita " . Contro tutto e contro tutti, i futuristi sputavano sui mu­ sei, sulle biblioteche, le accademie d'ogni specie, su ogni Inanifestazione di femmin ismo, moralismo e viltà opportuni­

stica o utilitaria. Al contrario, celebravano la guerra, sola igiene del mondo, e anche il n1ilitarismo, il patriottismo e il gesto distruttore. Cantavano le locomotive dall'ampio petto e il volo scivo­ lante degli aeroplani. Se tutto quello che avete letto fino a ora vi ha inquietato, vi terrorizzeranno le proposte di questa manica di scape­ strati per la letteratura e la sintassi.

In aeroplano, seduto sul cilindro della benzina, scaldato il ventre· dalla testa dell 'aviatore, io sentii l 'inan ità ridicola della vecchia sintassi ereditata da Omero. Bisogno furioso di liberare le parole, traendole fuori dalla prigione del periodo latino! si disse Marinetti durante uno spostamento aereo da Parigi a Milano. «Ragazzi, bisogna distruggere la sintassi» vociò ai suoi colleghi. « Hai ragione: via tutto ! » risposero quelli, che gli andavano dietro con1e pecore. « Bisogna mettere i sostantivi a caso, come nascono» rincarò la dose lui. « È vero ! Ogni cosa a caso ! Sì ! » si esaltarono loro.

Il verbo poi va usato all 'infin ito, perché si adatti elasticamente al sostantivo.

« Bravo ! Tu avere ragione ! Noi da adesso parlare sempre così, sentire come suonare bene! >> 233

Si deve abolire l'aggettivo perché il sostantivo nudo conservi il suo colore essenziale. L'aggettivo avendo in sé un carattere di sfu­ matura, è incompatibile con la nostra visione dinamica, poiché suppone una sosta, una meditazione. «Giusto! Anzi, giusto no, è un aggettivo . . . Perfetto! No, aspetta, anche perfetto è un aggettivo . . . Bellissimo! No, cavolo, anche bellissirno non va bene, corne si fa senza l'aggettivo, non è facile però . . . >> Si deve abolire l'avverbio, vecchia fibbia che tiene unite l 'una all'altra le parole. L'avverbio conserva alla frase una fastidiosa unità di tono.

Ogni sostantivo deve avere il suo doppio, cioè il sostantivo deve essere segu ìto, senza congiunzione, dal sostantivo a cui è lega to per analogia . . Esempio: uomo- torpedin iera, don na­ golfo, folla-risacca, piazza-imbu to, porta-rubinetto.

Abolire anche la punteggiatura. Essendo soppressi gli aggetti­ vi, gli avverbi e le congiunzioni, la punteggiatura è naturalmen­ te annullata. Per accentuare certi movimenti e indicare le loro di­ rezioni, s 'impiegheranno i segni della matematica: + - x : > > fece eco Antonio Sant'Elia. > In italiano (orale e scritto), d'Annunzio aveva quattro cronico.

Un quotidiano toscano, qualche anno fa, rese pubbliche le vergognose pagelle del poeta abruzzese. > •







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Fece in modo che trapelasse la tragica notizia di una sua

caduta fatale da cavallo e pubblicò l'opera. Il mondo intel­ lettuale dell' ep oca gridò al genio e tutti acquistarono quel libro. Completò gli studi superiori al liceo di Chieti e poi, per frequentare la facoltà universitaria di Lettere, decise di trasferirsi a Ro111a . > Lei era Elvira Natalia Fraternali Leoni, donna colta, av­ venente, intelligente e separata. Con questa donna d'An­ nunzio, nonostante le difficoltà create dall'ex lll a rito, sa­ rebbe ri111a sto cinque anni. Maria soffriva, ma seguitava a ingoiare. Tentò di riavvi­ cinare a sé il poeta dandogli un terzo figlio (Veniero, com­ plimenti per il nome), ma questo non fece altro che velo­ cizzare il suo allontanallle nto. Conternporanea111 ente, la nuova amante lo travolgeva. Ella, chiamata Barbara (ma 239

anche Barbarella) da d'Annunzio, trasfortnatasi in breve da donna pudica a femmina affamata tanto da vedersi ri­ toccare l'epiteto in Vaccarella, non solo raggiunse il mae­ stro in abilità erotiche, lll a lo superò alla grande, diventan­ dogli sessualllle nte e artisticallle nte indispensabile.

Perché d 'Annunzio, con una p restazione generosa, lo colll p ravi. Egli era sensibilissimo alla coinunicazione sen­ soriale, che poneva alla stregua di quella verbale, ma con cui si divertiva molto di più. Delle donne amava la bellez­ za esteriore e quella interiore e Elvira-Barbara-Barbarella­ Vaccarella le possedeva entralllb e. Orllla i (anche grazie a questi casini in cui si lasciava vo­ lentieri intortare) lo conoscevano tutti e tutti parlavano di lui. Tutto quello che scriveva e dava alle stalll p e godeva preventivalllente di un successo annunciato perché il poe­ ta aveva il proprio pubblico, un pubblico d i lll a ssa, che non l'avrebbe lll a i tradito. Sono d i questi anni le raccolte di rillle Canto novo, Inter­ mezzo di rime, Elegie ro·mane, Poema paradisiaco, i racconti di Terra vergine e il conosciutissiino roinanzo Il piacere. Orinai stanco della giovane Inoglie, che in quanto a di­ gnità aveva toccato il fondo tentando il suicidio pur di far­ gli pena, Ill a anche dell'ultima amante, d 'Annunzio levò le tende e si mise dietro alla gonnella di una nuova donna, una sicilianona passionale e calorosa già moglie del conte Anguissola di San Damiano e madre di quattro figli: Ma­ ria Gravina Cruyllas di Ramacca . > D'Ann unzio rideva ogni volta che ripensava ai loro pri­ nri incontri, quando (a Napoli, dove si era trasferito) lui le penetrava in casa alla zitta e poi la penetrava alla grande. Rise 111 eno sernllla i quel giorno in cui il conte tornò con un paio d'ore d 'anticipo e li beccò in flagranza di adulte­ rio, denunciandoli. Ma il poeta non 111o llò. Anzi, seguitando a ridere, conti240

nuò anche a penetrare quella bella femmina caliente che di gemiti se ne sparava molti, ma di scrupoli se ne faceva po­ chi . Riuscirono a scampare la galera solo grazie a un'amni­ stia regia e, innamorati e contenti, ripresero a consumare. La donna gli dette prima una figlia, Renata, poi un fi­ glio, che però d 'Annunzio non volle riconoscere. «Una volta va bene, due no. >> La bedda sicula non godeva di una reputazione imma­ colata e tra le priorità di d 'Annunzio non c'era certo quel­ la di mantenere i probabili figli di un altro. Ma c'era anche dell'altro, a essere sinceri. Nel 1 89 1 il va te aveva incontrato una delle donne più si­ gnificative della sua carriera di latin-lover, artista e selll ­ plice uoino. Una donna piena di fascino e di fama, ma an­ che di sensibilità e di generosità . > Clatnoroso esetnpio di poeta-soldato, d' Annunzio fece di tutto per farsi notare. Sembrò che avesse scalllb iato la guerra per una performance teatrale in cui rivestire il ruo­ lo di protagonista. Riportò alcune ferite, Ill a per fare il du­ ro trascurava le cure e il riposo necessario.

Costretto a un atterraggio d'emergenza, infatti, aveva battuto l'arcata sopracciliare contro la mitragliatrice aerea e perso l'uso di un occhio. La figlia Renata gli restò vicino e lo aiutò a stendere il Notturno preparando per lui delle striscioline di carta che egli seguiva al tatto e su cui scrive­ va mantenendosi diritto. Ma il recupero completo della vi­ sta non fu Inai possibile e d'Annunzio divenne un orbo. «Però veggente! » La fine del conflitto lo lasciò insoddisfatto. Tanta fatica per poi sedere al tavolo coi vincitori a farsi dare una l11 anciata di briciole.

Anche lì non perse l'occasione di rimettere in moto quella rete di liaisons (più o meno dangereuses) tutte al fem­ tninile, andando ora a riciclare vecchie fianune, ora a con­ quistarne delle nuove. Così, accanto alla governante fran­ cese che si era portato dietro e insieme a molte altre donne occasionali, l'uomo più chiacchierato della poesia italiana ospitò al Vittoriale la pianista Luisa Baccara, che gli sareb­ be ritnasta fedele fino in fondo e nonostante tutto. «Nonostante quella storia (eheheh) con Jolanda! » La Baccara durò sempre tanta fatica a perdonargli le scappatelle, i tradimenti, a passare sopra alle menzogne, a non far caso agli inganni. Si dice addirittura che un gior­ no, all'apice dello stress, vedendo come quel furbetto ci provava spudoratamente con sua sorella, lo abbia afferracome un maniaco sessuale consumato, si spalancò

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to per le gambe e lanciato giù dalla finestra affinché bat­ tesse una meritata boccata sul ghiaino.