Stanza 411 9788858429075

È la voce di lei - scarnificata, precisa, sincera - a raccontare una storia d'amore che è anche la storia delle nos

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Stanza 411
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Table of contents :
Frontespizio......Page 3
Il libro......Page 94
L’autrice......Page 95
Esergo......Page 5
Questo scritto ti dispiacerà da subito......Page 6
Questa è una stanza d’hotel......Page 7

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Simona Vinci

Stanza 411

Stanza 411

a V. T.

Fin dove è possibile conciliarli, il pudore va unito all’amore; ciò che ebbi pudore a dire, l’amore mi ingiunse di scriverlo. E quello che amore comanda non è prudente spregiarlo; egli regna e ha potere sugli dèi sovrani. OVIDIO ,

Lettere di eroine, Fedra a Ippolito.

Che male ti potrà fare la lettura di una lettera? Ci può essere in essa qualcosa che piaccia anche a te. Per mezzo della scrittura si trasmettono segreti per terra e per mare; anche il nemico legge gli scritti inviatigli dal nemico. OVIDIO ,

Lettere di eroine, Fedra a Ippolito.

Questo scritto ti dispiacerà da subito. Dall’inizio, provocherà in te irritazione. Ti disturberà. Dovrai leggerlo fino in fondo lo stesso. Perché dice la verità. Certo, è una verità che appartiene a me, ma in un certo senso ogni verità singola appartiene a chiunque, una volta pronunciata. Ti irriterà, ma questo non è grave: che male potrà mai farti la lettura di una lettera?

Questa è una stanza d’hotel. Albergo Nazionale, piazza di Montecitorio, Roma. Il numero della stanza è 411. E questo è il mio corpo, riflesso dentro uno specchio. Uno specchio diverso da quello dentro il quale mi osservo ogni giorno: lo specchio lungo e stretto dell’anta di un armadio a muro. Questo è largo, un’intera porta che racchiude anche l’eco di un’altra superficie riflettente. La luce mi illumina da dietro e del mio corpo vedo solo i contorni. Quella che vedo è una donna. Semplicemente una donna. È bella? Oppure è brutta? Cerco uno sguardo neutro – se mai è possibile trovare uno sguardo neutro per osservare sé stessi –, lo pulisco, lo mondo dai residui, dalle domande, dalle incertezze, dai complessi che come chiunque altro mi porto dietro dall’adolescenza – piú indietro ancora, dall’infanzia. Questo che vedo dentro lo specchio del bagno della camera d’albergo di un hotel a quattro stelle è un corpo di donna. A osservarlo cosí, nella luce che sfuma i dettagli e permette una visione chiara soltanto della sagoma, mi sembra un corpo minuto. Gambe slanciate, cosce sottili che non si toccano in mezzo. Quando ero bambina, per un periodo è successo e d’estate era un inferno: sudavo, e tra le cosce che sfregavano una contro l’altra si formava una chiazza rossa. Bruciava. E io odiavo le mie cosce. Cosí come odiavo la mia pancia, grassa e bianca sotto le mutande di cotone rigato che mi segavano l’ombelico con l’elastico. Sono stata una bambina magrissima. Nelle foto vedo una bambina ragno, con la pancia rotonda e le braccia e le gambe secche, le clavicole sporgenti, le costole tutte in evidenza. Un giorno, di colpo, mi sono tramutata in un’adolescente sovrappeso. Adesso, la testa mi sembra troppo grande per questo corpo rattrappito, minuscolo, asciugato ma sempre imperfetto. Lo stomaco è piatto, la pancia ha una leggera curva, un’onda morbida di pelle sotto la quale letteralmente scoppiano le ossa del bacino. Certi giorni, queste ossa mi sembrano spaventose, altri le sfioro di

nascosto sotto i vestiti e mi dà sicurezza sentire che sono lí, esposte, pronte a ferire in un abbraccio troppo stretto. Il seno è né grande né piccolo. Le areole larghe e rosa, i capezzoli troppo grossi. Il seno è la cosa piú brutta di questo corpo. La cosa che ho odiato dal primo giorno. Ricordo un altro specchio, la luce arriva da sinistra, è la luce di un pomeriggio d’estate. Ho tredici anni e osservo con disprezzo la mia immagine riflessa nello specchio rotondo del bagno blu di mia madre. Mi guardo davanti, dietro, di sbieco, di profilo. Due escrescenze estranee sono comparse di colpo a dividermi in due il petto, a deformarlo. Prima di quel giorno, credo di non aver mai desiderato il seno come invece fanno moltissime bambine. Credo di non averci neanche mai pensato, che mi sarebbe cresciuto. E invece è arrivato: un dono non richiesto, un sacco di carbone schifoso al posto dei cioccolatini e delle caramelle, dei regali. Sei stata una bambina cattiva, dice lo specchio, e questo è il risultato. Da quel giorno, imparo a occultare il segreto immondo che mi porto cucito addosso, imparo a stringerlo, appiattirlo, celarlo sotto strati di vestiti in modo che gli altri non sappiano. Mi illudo. Gli altri lo sanno: non c’è modo di nascondersi. Non c’è mai modo di nascondersi, ma questo l’ho imparato soltanto adesso. Stanza 411. Albergo Nazionale. Roma. Fuori della finestra spalancata sopra la piazza di Montecitorio deserta a quest’ora di notte, a parte le guardie armate e qualche passante occasionale, soprattutto turisti ubriachi, splende una luna fredda. Luna di febbraio. Io sono qui, e ti aspetto. Il mio corpo è fatto di ossa. Muscoli. Tendini. Ci sono le vene azzurre, un reticolato di fiumi che mi attraversano. Le vene grigie, dossi di materiale vischioso, in rilievo. È un arazzo segreto che puoi contemplare solo da vicino, dopo aver tolto i vestiti. Dentro le vene, il sangue. Ancora piú a fondo – immagina la lama del chirurgo che fende gli strati, li lacera uno alla volta con perizia – ci sono gli organi. Sotto il seno sinistro, appena piú grande – e dunque piú odiato – del destro, c’è il cuore. Sotto lo sterno, c’è lo stomaco. A sinistra la milza, a destra il fegato e la cistifellea, e piú sotto l’intestino, l’utero, le ovaie. C’è ancora tutto. Niente è stato toccato. Sono ancora intera. A mia madre hanno tolto la cistifellea, poi l’utero. A una donna che conosco, un seno. A un’altra tutti e due. A un ragazzo, hanno tagliato mezzo polmone. A un altro, un rene. A un altro ancora, un tratto di intestino.

Sull’inserto di un quotidiano, qualche mese fa ho visto la fotografia di una donna con una sola mammella. L’altra, diceva l’articolo che accompagnava la fotografia, le era stata asportata per un tumore. Ho staccato la pagina per conservarla. Lo scatto è in bianco e nero e la donna non sorride con le labbra, ma con gli occhi sí. Una donna di cinquant’anni, ancora molto attraente: capelli chiari, labbra piene, un volto bellissimo. Al posto della mammella asportata, la metà del petto segnata da una lunga e spessa cicatrice semicircolare, e sopra e attorno a quel taglio, il tatuaggio di un ramo fiorito. La fierezza in quegli occhi: sono viva, posso ancora amare e essere amata. I segni della battaglia, come per gli antichi guerrieri, sono gli ornamenti piú preziosi: ho sfidato la morte, mi sono buttato in bocca al nemico, e sono tornato. Sono ancora qui. I corpi sopravvivono anche mutilati. Mutilati dal di dentro. Mutilati fuori. Il cuore continua a battere. Le funzioni essenziali a compiersi. Senza qualcosa, senza molto, senza moltissimo, lo stesso si può sopravvivere. Non sono sola, in questa stanza. C’è un uomo. Si muove leggero al di là di questa porta chiusa che sfioro con un dito. Posso sentire il suono dei suoi passi all’interno di quel perimetro in cui i percorsi sono percorsi obbligati: dall’armadio al letto, dal letto alla scrivania, dalla scrivania alla finestra. Il frusciare delle pagine di un libro tra le sue mani. Lo scatto secco dell’accendino. Non so niente di lui. Di te. Ignoro il nome di tua madre, la forma del tuo sesso, l’odore della tua pelle sotto i vestiti, non so come fai l’amore, se sei buono o cattivo, se ti piace il mare oppure la montagna, se sai tenere le posate a tavola e conosci le regole della cavalleria – aprire e chiudere lo sportello della macchina, entrare in un ristorante prima della donna, versare il vino tenendo la bottiglia dal fondo e ruotando il polso alla fine con un gesto breve per non rovesciarne neanche una goccia –, non so neanche cosa c’è dentro il piccolo zaino nero che ti porti sempre dietro. Quell’uomo sei tu. Questa frase, mi sembra, raccoglie in sé ogni altra frase possibile, qualsiasi definizione diversa si dissolverebbe davanti a questa evidenza. Dentro il bagno bianco e scintillante di luci della mia stanza d’hotel, mi appresto a compiere i gesti che mi iscrivono a pieno diritto in questa

categoria: Donna. Una catena inscindibile di movimenti che hanno a che fare con la miglioria e la manutenzione. Mi prendo cura del mio corpo con una lucidità astratta che non ha niente a che vedere con la tenerezza, con la partecipazione, piuttosto, con la perizia di un cuoco che inietta la panna con la siringa dentro un bignè o capovolge con una torsione secca della mano uno sformato sopra un piatto da portata. Ispeziono ogni centimetro di pelle. Mi lavo i denti insistendo sulla zona posteriore, strofino persino la lingua, non prima di averla contemplata stirata davanti allo specchio. Strappo con una pinzetta qualche pelo invisibile dalle sopracciglia. Mi lavo con cura, strofino tra gli interstizi, spalmo la crema su tutto il corpo, deodoro le ascelle, spruzzo due gocce di profumo tra le pieghe dell’inguine, ripasso lo smalto trasparente sulle unghie dei piedi e attendo che si asciughi. Ora il mio corpo è a posto: plastificato e imbellettato come un cadavere della morgue. Prima, c’è stata la depilazione di gambe braccia ascelle labbro superiore e sopracciglia, la maschera all’acido glicolico al viso, pedicure e manicure, parrucchiere, doccia abbronzante. Senza uno solo di questi dettagli non sarei stata capace di arrivare fino qui. Eppure lo so – lo sappiamo tutte – che gli uomini non sono poi cosí attenti a queste cose. Siamo noi donne a osservare il nostro corpo con questo sguardo da macellaio, a suddividerlo mentalmente in pezzi: spallacoscia-stinco-pancetta-salsicce. Mi guardo un’ultima volta nello specchio. Il cuore batte violento sotto le costole. Ora dovrò uscire da questo bagno ed espormi al tuo sguardo. Cercare di essere disinvolta, di non sembrare troppo nervosa e neppure troppo sicura. Sono una donna, perdonami. Dentro la stanza 411 ci sono poche cose. Una valigia. La mia. Il tuo zaino nero. Gli abiti che indossavamo oggi appesi nell’armadio e sulla spalliera di una sedia. Siamo in due. Tu sei un uomo. E io sono una donna. È la prima volta che lo penso. Degli altri, quelli che sono venuti prima di te, pensavo: ragazzi. Di me davanti a loro, pensavo: bambina. Hai gli occhi chiari. Un colore bellissimo. Il cielo di marzo quando è limpido, ma ancora freddo. Giornate strane, che potrebbero di colpo diventare di neve. Azzurro. Ma anche grigio. Sono trasparenti. A volte fanno paura. Non si scaldano mai.

Dentro la stanza 411 ci sono due letti accostati. Lenzuola color crema e pistacchio. Tappezzeria negli stessi toni. Sul soffitto, stucchi verde pallido e avorio. Una scrivania. Un grande specchio. Molto spazio. Una finestra che dà su una piazza. La piazza è enorme. Delimitata da posti di blocco. La città è Roma. Poco oltre, c’è il Pantheon. Questa è una città nella quale vengo esclusivamente per impegni di lavoro. Mi ci perdo lo stesso, anche se i miei percorsi sono sempre identici. Arranco tra i turisti, lo sguardo basso, insensibile ai monumenti, alla Storia, ai miti. Salgo e scendo dai taxi, dai tram, dalle automobili e dai motorini di chi mi offre un passaggio. Attraverso le strade, urto i corpi di quelli che si fermano a guardare le vetrine. Scappo da questa città non appena ho finito di fare quello che devo fare: troppi turisti, appunto, troppi monumenti, troppa Storia, troppi miti. Troppo rumore e troppa luce. Da anni ormai, corro lungo via Nazionale verso la Stazione Termini con la borsa stretta al petto nella speranza di prendere al volo il primo autobus che mi avvicini a un treno, un Eurostar che in due ore e quarantacinque mi riporterà alla calma piatta, alla nebbia, al silenzio, al gelo micidiale o al caldo soffocante del posto di pianura dal quale vengo, che detesto e che non riesco a lasciare. Se fossi io a dover scegliere, di sicuro non sceglierei un albergo come questo perché amo il verde degli alberi, e i posti decentrati, e invece qui sono proprio al centro della città – il centro esatto a giudicare dalla cartina –, assediata da questa metropoli che si estende attorno a me all’infinito, con i suoi quasi tre milioni di abitanti e le migliaia di turisti in transito, di automobili, tram, motorini, palazzi, ville, chiese, negozi, vie, viali, slarghi, sottopassaggi, parchi, piazze piccole e piazze grandi, scalinate, alberi, aiuole, cemento armato, vetro, mattoni, asfalto, fili elettrici, tubature, fogne, ratti, spazzatura, fibre ottiche, e ho paura. Me la sento premere addosso, questa quantità infinita di cose che si muovono, brulicano sottoterra, si innalzano verso il cielo e frusciano, raschiano, grattano, mangiano, si decompongono, fanno rumore. Solo all’interno del Pantheon mi sento in salvo, al sicuro, come se mi trovassi nell’occhio del ciclone, nel punto preciso dove le forze contrastanti si annullano, e infine si disperdono. Il Pantheon, con le sedici colonne grigie e rosse del suo pronao maestoso che incute paura. Otto monoliti di granito grigio e altri otto, quattro in seconda fila e quattro nella terza, di granito rosso egiziano. In realtà, la

differenza di colore è appena percepibile, sembrano tutte uguali, e testardamente, a dispetto di quel che dice la guida, cerco ogni volta di convincermi che si sono sbagliati tutti, è solo il modo in cui le avvolge la luce a farne apparire alcune come appena un po’ sbiadite. Eccola l’enorme porta di bronzo, una delle tre antiche porte di Roma, un’entrata sobria e solenne, attraversata la quale si fanno pochi passi e si è già all’interno del tempio. È istantaneo, ogni volta che entro nel Pantheon, perdo la voce, le parole. Sollevo la testa verso l’alto, gli occhi feriti dalla luce che entra dall’occhio del tempio, e guardo il cielo. Immobile, al centro di quel cerchio magico, socchiudo le palpebre e i turisti spariscono, tutto sparisce, non sento piú niente, né il frusciare delle loro sportine di plastica, né i passi, le voci, i commenti, non sento le urla dei bambini, il clic o i beep beep delle macchine fotografiche. Tutto smette di accadere. Giapponesi e tedeschi, coreani, francesi, americani, tutti a bocca spalancata, la testa ribaltata all’indietro, la fronte battezzata da un fascio di luce lattea che acceca e intimidisce.

Non so perché ti sto scrivendo di questo. Di un monumento. Un tempio. Un luogo. Uno di quei posti carichi di energie alle quali siamo incapaci – almeno, io lo sono – di dare un nome preciso, una definizione. Forse si tratta solo di bellezza. Pura e semplice estetica. Genialità architettonica, e ingegneristica. O forse, è anche che l’amore somiglia a un tempio: è la prima volta che mi trovo al suo interno. Sono proprio sotto il suo occhio ciclopico attraverso il quale entra la luce del mondo.

All’inizio della sua storia, il Pantheon era stato consacrato a tutti gli dèi, e tra tutti gli dèi, Venere e Marte erano il re e la regina. Venere-Afrodite, la dea dell’Amore, nata dal contatto tra le onde e i testicoli recisi di Urano che caddero nel mare: una nascita di sangue e acqua marina. Venere l’Urania, protettrice dei giardini, dell’amore, della fecondità, dei figli, delle vigne, del mare tranquillo, del desiderio. Fu sposa di Vulcano, lo zoppo, ma il suo vero amore fu Marte. Marte o Ares, il dio della guerra, protettore della primavera e della giovinezza. Due forze contrastanti e complementari: «Come in amore, cosí in guerra». Dagli amplessi di Venere e Marte, com’è giusto, del tutto ragionevole se ci pensi, nacquero cinque figli, cinque come le dita di una mano o di un piede, cinque come i sensi: Amore, Antero (cioè l’altro, l’opposto, l’Ombra), poi Paura, Terrore e Armonia. Non ti sembra che siano proprio queste le declinazioni possibili dell’incontro tra un uomo e una donna?

Una luna consumata, ma ancora brillante, splende nel cielo, dritto davanti a questa finestra socchiusa. Immagino cosa dev’essere trovarsi in questo istante preciso al centro del Pantheon. Di notte, in una solitudine totale, finalmente muta, sparita, dissolta l’orda dei turisti. Lí, al buio, in piedi sotto l’occhio del tempio, a guardare la luna. È la prima volta che siamo soli dentro una stanza. Insieme, abbiamo solo camminato. C’era la città intorno, c’erano le strade. Due fiumi. La città non era questa. Tu mi hai tenuto la mano attraversando la strada. Abbiamo camminato a lungo, per due volte. Due pomeriggi, cinque ore in tutto. Adesso, con i muri intorno, ho cosí tanta paura che forse preferirei che tu sparissi. Subito e per sempre. Sono sei anni che faccio l’amore con lo stesso uomo, ti dico. Non è la verità, ma quasi. C’è stato un altro. C’è stato, è passato. Ma adesso è diverso. Ancora, sempre diverso. Tutte le volte è diverso. Ma stavolta, lo è ancora di piú. Stavolta è diverso, perché prima di conoscere te, ho conosciuto le tue parole. Ci scriviamo lettere da due mesi. Era dicembre, quando ti ho scritto la prima volta, o forse la fine di novembre. Ti ho scritto e tu mi hai risposto. Eri lontano allora. Stavi facendo un viaggio, stavi scappando, o forse cercando qualcosa, o qualcuno, non me lo hai mai detto con chiarezza. La tua prima lettera via e-mail mi è arrivata una mattina di dicembre. Stavo per partire anch’io, un viaggio di lavoro, e avevo paura, come sempre: paura dell’aereo, della solitudine, di una città nella quale non ero mai stata, di tutti gli sconosciuti con i quali avrei dovuto parlare, pranzare, cenare, andare in giro, ma adesso avevo te, quell’e-mail stampata su un foglio di carta riciclato. Uno sconosciuto – tu – mi aveva risposto e parlava la mia stessa lingua. Ho immaginato il tuo volto ancora prima di vederlo. Ho immaginato la tua voce, il tuo sguardo, il tuo sesso. Ho immaginato una stanza. Non questa. Ho immaginato una bottiglia stappata, i bicchieri, le mani che cercano le

sigarette, il colore dei tuoi occhi. Ho leccato le pagine delle tue lettere come fossero la tua pelle. Li ho maltrattati quei fogli, li ho riempiti di segni, di asterischi, di ovali di grafite, di piccole orecchie ripiegate. Ci sono cadute sopra alcune lacrime. Gocce di vino. Cenere di sigaretta. Fumo troppo. E anche tu, l’avevo già capito da quello che scrivevi e ne ho avuta la conferma dopo, quando ti ho conosciuto.

C’è una luna enorme, sopra la piazza. Dalla finestra socchiusa del bagno riesco a vederne solo l’alone. Infilo la testa nella fessura tra il vetro e lo stipite, non si riesce ad aprirla piú di cosí. Mi sollevo sulla punta dei piedi, sento i muscoli tendersi, una corsa che parte dal tallone e sale lungo i polpacci, le cosce, i glutei. Un fiotto caldo e improvviso che mi riempie la pancia. È questo pensiero: tu sei lí, dietro quella porta chiusa, forse affacciato alla finestra a guardare la piazza, o disteso sul letto a fissare il soffitto. Il tuo corpo sopra o sotto le lenzuola. Nudo oppure vestito. Il tuo corpo che non conosco ancora.

Ti ho abbracciato due volte. È successo nella tua città. La prima volta nel parco di un santuario tutto bianco e gonfio come una meringa alla panna in cima alla salita di un colle. Eravamo appena usciti da un bar dove due signore anziane, molto eleganti, sedute di fianco a noi, avevano continuato a guardarci per tutto il tempo mentre sorseggiavano una cioccolata in tazza. Forse ricordavano la loro giovinezza, i primi appuntamenti con uomini ormai sbiaditi nella memoria, e cercavano un appiglio, un pomeriggio, una frase, un gesto. O forse eravamo davvero noi a essere molto buffi: imbarazzati, tesi, le guance arrossate per il freddo. Abbiamo bevuto un caffè. Nel bar non si poteva fumare, cosí siamo rimasti lí senza sapere dove mettere le mani. Avevi in tasca un libro di poesie di Philip Larkin quel pomeriggio, un’edizione diversa dalla mia, che è tutta bianca e in copertina riporta una poesia che inizia cosí: Man hands on misery to man. «L’uomo passa all’uomo la pena». E finisce con questi due versi fulminanti: Get out as early as you can, | and don’t have any kids yourself. «Togliti dai piedi prima che puoi, | e non avere bambini tuoi». Dall’alto della collina, con i gomiti puntati sul davanzale di un’ampia balconata sospesa sulla città, mi hai mostrato le passeggiate, le ville famose, indicandomele con un gesto fermo del braccio, della mano. Io ho guardato il verde spento delle macchie boscose di alberi che non sapevo riconoscere, le ville isolate che spuntavano rosa e bianche in mezzo a tutto quel verde, le inferriate pesanti, le tapparelle abbassate, gli scuri sbarrati: una silenziosa città di morti viventi. Ho guardato il cielo pallido, velato di foschia, e ho pensato che questa città ti somigliava moltissimo, che come te era calma e gentile, ma anche segreta, e che probabilmente nascondeva un’anima violenta. Quando siamo usciti dal bar, ti ho tagliato la strada, mi sono girata di scatto verso di te e ti ho baciato all’improvviso. Tu mi hai lasciato fare, ma non hai fatto niente. Sembravi imbarazzato. E io mi sono sentita molto

piccola, molto stupida. E coraggiosa. Non ti avrei lasciato scappare per niente al mondo. Niente mi avrebbe impedito di farlo. Di baciarti. Se tu me lo avessi chiesto, sarei venuta a letto con te immediatamente. Se tu solo mi avessi sfiorata, avrei potuto lasciarmi prendere lí, in quel parco, in quella giornata di freddo terribile. Febbraio. Dieci giorni fa. Ti ho solo abbracciato. E l’ho fatto di nuovo, in stazione, prima di salire sul treno che mi avrebbe riportata alla mia vita, lontana da te. C’erano i cappotti, i maglioni, le magliette. Attraverso tutti quegli strati ho sentito solo che sei magro, ma solido. Nient’altro. Della pelle non so ancora niente. Della consistenza, del calore, della densità, dell’odore. Non so come le altre donne scelgano gli uomini. Non so come decidano che a lui quello sí, e all’altro invece no. Alcune scelgono in base a puri e semplici criteri estetici. Altre scelgono per la simpatia. Ho sentito tantissime ragazze, tantissime donne dire di un uomo: mi fa ridere. E non ho mai capito cosa ci fosse di bello in un uomo che ti fa ridere. Come potessero poi, dopo aver tanto riso, riuscire a trovare la nota tragica che è essenziale perché si possa amare qualcuno. Ma ogni donna è diversa, come ogni uomo. Anche a me piace ridere. Dopo. Io gli uomini li ho sempre scelti per il loro sesso. Doveva essere giusto. Della misura giusta, della forma giusta, della consistenza giusta. E dovevano saper scopare. Dovevano essere potenti e poco portati ai giochini erotici preliminari che non mi sono mai piaciuti. Inutili giri di parole servirebbero solo a confonderti. Ti sto dicendo la verità. Quella nuda, quella ruvida, fastidiosa. Mi sono sempre stupita quando uomini con i quali avevo avuto un’avventura e poi avevo scartato perché non avevano i requisiti, trovavano una donna e sembravano felici insieme a lei. Le guardavo, queste donne, e cercavo di scoprire il loro segreto, di individuare quale fosse il punto, del corpo o della testa, che quell’uomo che a me era sembrato cosí scarso e insignificante era riuscito a toccare in loro. La prima volta che mi sono innamorata avevo sedici anni. Non sapevo niente a sedici anni. La prima volta che me l’ha infilato in bocca credevo che sarei morta soffocata. Per il piacere. Il dolore. La dolcezza. In lui c’erano sempre due movimenti inversi, alternati: tenerezza e rifiuto, desiderio e

violenza: era identico a me, forse per questo non mi poteva amare. Dopo, ho deciso che tutti gli uomini che avrei avuto li avrei scelti solo per essermi schiavi. La cosa importante era che fossero macchine potenti e inclini a essere manipolate secondo le mie esigenze. E dovevano essere vuoti. Contenitori perfetti da riempire con le mie parole, le mie fantasie, i gesti che non sapevano fare ma che io gli avrei insegnato. Nessuno mi avrebbe fatta soffrire, mai piú. Ed è stato esattamente cosí. Ho voluto bene ad altri uomini, ho passato molto tempo con loro – sono una donna che non può stare del tutto senza uomini, questo l’ho capito abbastanza presto – e con loro ho fatto l’amore, viaggi, ho condiviso molte cose, ma non li ho mai amati, né mi sono mai illusa su questa assenza d’amore. L’amore non c’era piú, nella mia vita. L’avevo conosciuto e perso per sempre. Non avrei permesso a niente e a nessuno di toccarmi cosí in profondità. La mia ferita era suturata, una cicatrice orrenda che mi correva dentro, dalla testa ai piedi. Ero una bambola di pezza rattoppata dall’interno. Nessuno ha mai visto quella ferita. Nessuno l’ha mai neppure sfiorata. Tutte queste parole che ho appena scritto, sono vere, e allo stesso tempo sono bugie: l’amore sa travestirsi, convincerti di essere qualcos’altro. Si rivela a distanza di anni, in gesti che credevi di avere rimosso, in lacrime che ti sembravano poco sincere, in volti che hai creduto di poter dimenticare. E ogni volta, ci si reinventa una prima volta.

Adesso, la mano appoggiata a questa porta a specchio, osservo la mia faccia riflessa. Vedo la piccola ruga incisa tra le sopracciglia, la bocca socchiusa, le ginocchia ossute che spuntano dal foulard annodato sui fianchi. Il mio tempo è finito. Ora devo uscire. Entrare. È questo il momento piú terrificante di ogni incontro d’amore. Che duri una sola notte oppure anni, l’inizio è sempre spaventoso. Il momento in cui tutto sta per accadere, in cui si sta per abbandonarsi, per scoprire qualcosa – tutto – l’uno dell’altra. Ma ancora non si sa niente. Levarsi i vestiti, toccarsi. Affrontare la possibilità del piacere, ma anche quella del disgusto, o peggio, della disillusione. Entro nella stanza. Le luci sono tutte spente, l’unica zona illuminata è quella davanti alla finestra, la luce della luna che entra e inonda la moquette, un quadrato bianco latte, al centro del quale tu sei seduto, l’accappatoio bianco dell’albergo addosso, una sigaretta in bocca. Davanti a quella finestra aperta, al centro esatto del quadrato di luce disegnato dalla luna sulla moquette giallo pallido della stanza, siamo seduti uno di fronte all’altra. Beviamo gin tonic e fumiamo, in silenzio. Osservo le tue mani. Sono belle mani, lisce, le unghie sono curate – non so ancora niente della tua ossessione per i tagliaunghie, deve esserne anche rimasto uno dentro una scatola, a casa mia, insieme a una quantità imprecisata di custodie di cartine rosse verdi e nere marca Ottoman che spuntano fuori di tanto in tanto da un quaderno, un libro, che ricompaiono sotto cumuli di posta inevasa. L’anello che porti al dito indice è l’anello di tuo padre. E tuo padre è morto. Ogni volta che parti per un viaggio, infili al dito quell’anello perché ti protegga. Una volta, mi racconti, durante un lungo viaggio in moto in solitaria, ti sei avventurato in una foresta, in un bosco. Volevi vedere qualcosa, un lago

forse, questo non lo ricordo. Hai lasciato la moto ai margini del bosco e ti sei incamminato. Il lago, se di un lago si trattava, splendeva placido ai tuoi piedi, di colpo il panorama si apriva e la foresta digradava nell’acqua. Sei rimasto lí a guardare, sicuramente hai tirato fuori dalla tasca del giaccone tabacco e cartine e hai fumato una sigaretta, con calma. Poi sei tornato indietro, e a metà percorso, ti sei accorto che al dito indice della mano destra l’anello non c’era piú. Ti sei agitato, sei tornato indietro scrutando ogni sasso sul terreno, ogni radice che scoppiava dalla terra, ogni orma di animale. In mezzo al sentiero, a un certo punto hai visto un uccello. Il corpo rattrappito di un volatile che prima non avevi assolutamente notato. Un uccello morto. L’hai spostato con la punta di un anfibio per essere certo che davvero fosse morto e non, magari, ferito. Sotto il corpo irrigidito del piccione, c’era l’anello di tuo padre. A un certo punto, agli inizi di una storia d’amore che duri un po’ di piú di una notte, ci si racconta dei propri padri e delle proprie madri, dei fratelli e delle sorelle. Accade sempre. È inevitabile. Poi arriva anche il momento delle fotografie, studiate con accanimento, a caccia di ogni minimo dettaglio: la somiglianza, la differenza, quel particolare taglio di occhi, quella piega di fianco alle labbra, la bocca. Il carattere di famiglia. I nonni, gli antenati, indietro fin dove si riesce a risalire. Chinati su fotografie consunte, gli amanti scrutano il tempo. Il tempo passato – remotissimo – dell’altro. Le sue origini. Il nulla nero dal quale questo essere misterioso che ci è davanti e per il quale proviamo un sentimento incomprensibile e lancinante, pieno di contraddizioni, e che siamo abituati – che ci hanno insegnato – a chiamare amore, è arrivato. Prima di lui, o di lei, c’erano questi volti sfocati, quelle pose ridicole, quelle facce con l’espressione classica da ritratto. Schiere di parenti morti che nel sangue portano lo stesso sangue, e gli amanti si domandano: chi era quello pazzo della famiglia, quello strano, quello diverso, quello al quale – o alla quale – tu somigli?

Mando giú l’ultimo sorso di gin tonic, osservo controluce il fondo appiccicoso del bicchiere e penso che stavolta non voglio farmi domande: siamo due. Un uomo e una donna chiusi dentro una stanza che non è la loro, in una città che non è la loro. Siamo due che non si conoscono, che non hanno niente in comune. Siamo liberi. Può accadere qualunque cosa. È l’inizio della storia. C’era una volta. Ma questa, non è una storia che si possa raccontare cosí. È una storia che ancora non è accaduta. E allora, torno indietro. Nel buio vedo solo il bianco del tuo accappatoio, non riesco a leggere il tuo sguardo. Penso che potresti farmi molto male. Ma anche che potresti farmi molto bene. E ancora, penso che quello che puoi fare, quello che devi fare, arrivati a questo punto, è usarmi. Usami. Sono forte abbastanza. Posso essere tutto quello che vuoi. Le ho pensate, queste parole, ma non ho detto niente, ho continuato a fumare la mia sigaretta e a stringermi l’accappatoio bianco sulla pelle nuda, in attesa di un tuo gesto, di un avvicinamento, di una parola. E tutto questo è arrivato. Un gesto, un avvicinamento, una parola. Se non ti amassi, mi hai detto, ti avrei già scopata. Questo mi hai detto, in un orecchio, mentre io tremavo e non sapevo cosa fare, come muovermi, se chiudere gli occhi o aprirli, se parlare o restare muta. Se non ti amassi. L’amore. Eccolo. Un’ora fa, ho attraversato la porta girevole della hall di questo albergo e tu eri lí ad aspettarmi. Ero in ritardo, affannata, con un trucco troppo pesante che forse mi invecchiava. Mi sono guardata dentro gli specchi dorati che coprivano le pareti, ho sorriso a quell’estranea con gli occhi scintillanti che

stava per posare il collo sul ceppo del boia. È esattamente questa l’immagine che mi è esplosa davanti agli occhi quando tu mi hai chiesto: vuoi che resti? Mi sono seduta di fianco a te. Credo di non averti risposto, di averti guardato e basta, in silenzio. Di aver sorriso. E di aver inclinato impercettibilmente il collo, scostando i capelli. Quando mi hanno consegnato la chiave della stanza ho stretto tra le mani la pesante targhetta di ottone con il numero. 411.

Serro le palpebre e lascio che la tua bocca si chiuda sulla mia, che le tue mani si muovano leggere sopra la mia pelle. Che sfilino i vestiti, anche se odio restare nuda del tutto davanti a qualcuno. Sei dolce, ma deciso, e io non trovo la forza di protestare. Pietrificata, assecondo i movimenti del tuo corpo, lascio che sia tu a guidarmi, tu a decidere. Nessun gesto troppo veloce, nessun errore. La tua mano, precisa, allarga con gentilezza le grandi labbra del mio sesso e trova subito il punto sul quale concentrarsi. Devo allontanarla, questa mano, per non venire subito, troppo presto. Ancora troppo presto. Ecco, anche io ti stringo tra le dita adesso, un sorriso muto sulla tua spalla, le labbra che si tendono contro la tua pelle. A un certo punto ci siamo fermati. Siamo rimasti lí immobili, distesi su quelle lenzuola stropicciate a guardare la luna fuori dalla finestra. Quanto tempo poteva essere passato? Due, forse tre ore. E ancora non lo avevamo fatto. Ci eravamo solo abituati l’uno alla pelle dell’altra come animali: sospettosi, cauti. Ho fame, ti ho detto, oggi non ho quasi mangiato niente, non ho avuto tempo. Anche tu avevi fame, e cosí ci siamo rivestiti e siamo usciti. Non ricordo cosa abbiamo mangiato, e dove, solo che era un posto vicino all’albergo e che ti ho convinto a bere un calice di vino rosso che io ho scelto per te. Camminavamo come due ubriachi e non avevamo bevuto poi cosí tanto. Il tuo fianco contro il mio fianco, la tua spalla contro la mia spalla, la tua mano dentro la mia mano. Guardavo la città attorno a noi, il grigio rosato dei monumenti, i morsi del tempo sulle pietre, la luce blu. Quella città era come la stanza 411 dell’albergo che ci attendeva. La stessa cosa. Due spazi che ci contenevano nudi, che non avevano memoria di noi, e non ne avrebbero avuta mai. Una città come una stanza d’albergo. E noi, al centro di questi spazi, nudi, senza nome, senza storia. Un uomo e una donna. Identici a milioni di altri. Ciascuna – la stanza, e la città – un limbo che somigliava a un assoluto. Quando siamo rientrati in albergo lo abbiamo fatto sul serio. Ci siamo avvicinati come un uomo e una donna, non come due adolescenti innamorati. Tu mi hai presa e io mi sono lasciata prendere. Usami, ti ho detto

inginocchiandomi sul letto, la faccia affondata in un cuscino, le braccia dietro di me, i polsi incrociati sulla curva della schiena. Usami. Dimentica chi sono, dimentica le mie parole, le mie lettere, il mio nome, dimentica tutto. Questo è un corpo di donna, puoi prenderlo, usarlo, farne ciò che vuoi. È questo il sesso: uno spazio vuoto, una stanza impersonale in una città sconosciuta. Una pagina bianca. Un segno in un alfabeto che nessuno conosce fino in fondo. Era quasi l’alba quando ci siamo imboccati un Tavor a vicenda e abbiamo dormito. Abbracciati. Una cosa che ho sempre odiato e che invece quella prima notte è stata semplicissima, una specie di miracolo.

In una delle prime e-mail ti avevo scritto che sarebbe stato bellissimo potersi incontrare senza vedersi. Uno che arriva e l’altra che lo aspetta in una stanza buia. Avremmo potuto toccarci come fanno i ciechi, annusarci come cani, e solo dopo accendere la luce. Poi però, chissà perché, non lo abbiamo fatto, ci siamo incontrati come si incontrano tutti, sono scesa da un treno e tu eri lí ad aspettarmi, appoggiato contro una colonna, e mentre il treno frenava, ho incrociato il tuo sguardo attraverso il vetro del finestrino e ho subito saputo che eri tu, anche se non ti avevo mai visto prima.

Sono ancora dentro questo bagno sconosciuto. Oltre la porta, dentro la stanza, non c’è niente, nessuno. Neanche una striscia di luce filtra da sotto la porta, nessun rumore, nessun fruscio. Mi osservo dentro lo specchio, ancora una volta, e penso alle donne scolpite nel bronzo di Giacometti. C’è una frase, nell’Atelier di Alberto Giacometti, di Jean Genet, un libro che abbiamo comprato insieme, nella mia città, in una mattina di primavera. La frase, l’immagine è questa: … donne con i piedi scolpiti in un grosso blocco, poi il corpo sottilissimo che si slanciava verso l’alto ma senza perdere quella saldezza, quell’ancoraggio alla terra. Donne che non si staccano mai dal peso del fango: a sera, scivolano giú per una ripa affogata nell’ombra.

Le ho viste: esilissime e grigie, con gli occhi ciechi, le gambe magre, i piccoli seni appuntiti, la forza nella schiena segnata di nodi e ossa, forza nelle mani, in quei grossi piedi bitorzoluti, da contadine abituate ad andare in giro scalze. Le ho viste: erano mia nonna, mia madre, erano le mie sorelle, le zie, le prozie, le antenate. Ero io. Eccomi. Cosí fragile, eppure con i piedi piantati nel fango: una donna.

La maniglia rotonda di ceramica bianca ruota docile tra le mie dita. La stanza è vuota. La mia valigia azzurra in un angolo. Gli stivali buttati sulla moquette. Il mazzo piegato dei giornali di oggi, non ancora sfogliati, lanciati sul letto insieme alla grossa chiave con la targhetta d’ottone attaccata. Una bottiglia di acqua minerale rotolata in fondo alla stanza. La finestra chiusa, le tende tirate. Oltre quelle tende, e quei vetri, c’è la stessa piazza, la stessa città, ci sono il Parlamento, le guardie armate, i turisti giapponesi, i dimostranti, i sampietrini, la libreria antiquaria, l’obelisco egizio di Heliopolis, la città del sole, che adesso segna un’ora sbagliata – dicono che forse sia perché il terreno ha ceduto, o perché il corso del sole nei secoli è mutato, ancora perché tutta la Terra si è spostata in rapporto al suo centro e una risposta precisa e definitiva non c’è – e mi dà una certa inquietudine guardare quell’ombra che si allunga sulla piazza e sapere che è sfasata, che non dice la verità. Ma del Tempo poi, si può mai affermare che sia Vero? Guardo ancora questa piazza fuori dalla finestra, Montecitorio, l’obelisco, e oltre – anche se non posso vederlo da qui, lo stesso avverto la sua presenza – c’è il Pantheon, immobile al centro della città. Il tempio silenzioso con l’occhio del cielo. C’è tutto. Ma non tu. Mi siedo per terra, al buio, e mi stringo le ginocchia contro il petto. Sono al centro di una stanza. Al centro di una città. Al centro esatto di una solitudine immensa. Sono una donna seduta sulla moquette giallo chiaro di un albergo a quattro stelle. Sono libera.

Nessun altro posto al mondo fa sentire liberi quanto una stanza d’albergo. Uno spazio nudo, sempre identico a sé stesso. Entri in una stanza d’albergo e ti spogli di tutto. Sei ridotto all’osso. Pura essenza di te stesso. Chi sei, quindi? Sei un uomo o una donna in viaggio. Sei una valigia. Uno spazzolino da denti. Un nécessaire da bagno. Un letto. Un televisore inchiodato al muro che trasmette gli stessi programmi in tutte le lingue del mondo. Sei un cuscino, una coperta marrone. Lo stesso, abiti la stanza. I pochi oggetti essenziali della tua vita sono qui con te. Un orologio. Un anello. Quaderni. Il libro che stai leggendo. Penne. Una matita spuntata. Un flacone di Lexotan o Xanax in gocce, una confezione di Tavor in pasticche da 1.0 mg, supposte di glicerina per adulti, dischetti di cotone, lozione per togliere il trucco. Oppure rasoio e schiuma da barba. Mutande, calze. Assorbenti. Un tagliaunghie. Una lima di cartone. Molte di queste cose resteranno dentro la valigia, riposte in ordine negli scomparti segreti, e te ne dimenticherai fino al prossimo viaggio. In questo luogo anonimo cerchi le tracce di quelli che ti hanno preceduto. Evochi i loro fantasmi. Una bruciatura di sigaretta sulla moquette, un pelo lungo e sottile sulla ceramica pallida della vasca da bagno, un segno di matita sulla superficie del tavolo. Su questo stesso letto sopra il quale ti lanci esausto, quante coppie avranno fatto l’amore? Quante si saranno amate per la prima volta, confessate un tradimento, lasciate? Quanti suoni diversi saranno stati prodotti nel corso del tempo nello spazio sonoro di queste quattro pareti? Ti domandi se qualcuno avrà avuto la tentazione di gettarsi da questa finestra al quarto piano, se qualcun altro avrà versato lacrime feroci sul cuscino sopra il quale ti addormenti a bocca aperta lasciando l’impronta di una goccia rotonda di saliva. Giorno dopo giorno, nuovi oggetti si depositano nella stanza, una stratificazione di materiali diversi che puntualmente una cameriera addetta ai piani raccoglie, spolvera, sposta, rimuove. Ogni mattina, la stanza torna neutra e impersonale. Il tuo passaggio è ridotto ai pochi oggetti ammonticchiati su un comodino, ai due vestiti appesi dentro l’armadio. E tu torni a incrostarla di movimenti, scontrini del bar, sacchetti di plastica,

briciole. È uguale in fondo, questa stanza, a tutte le altre stanze d’albergo che hai abitato in precedenza, che fossero stanze di un hotel a cinque stelle con i cestini di frutta e le pantofole usa e getta o stanze senza bagno di un ostello non fa poi molta differenza. È comunque uno spazio nel quale non appena varcata la soglia ti tramuti in una comparsa, l’archetipo di una storia. Eppure, in questo luogo di libertà, e di assenza di tutto, io cerco le tracce del nostro passaggio. La testa sulle ginocchia, le ginocchia contro il cuore, al centro di questa stanza che è stata la prima di tante. Perché la nostra storia, come tutte le storie, è anche una storia di stanze. Stanze di case in affitto, stanze prestate, stanze di famiglia, stanze d’albergo piú che altro. E io le ricordo tutte. Forse, non è un caso che la nostra storia si sia svolta quasi tutta su questo palcoscenico di stanze in affitto, luoghi instabili che non sono vere case, luoghi dove ci siamo ritrovati senza difese, senza storia. Nude presenze. Maschere da commedia dell’arte che abbiamo tentato come potevamo di riempire con i nostri gesti, i nostri corpi, le nostre parole.

Questa non è una stanza d’albergo, ma è come se lo fosse, perché il proprietario della casa non c’è. Ti ha lasciato le chiavi, un gatto nevrotico da accudire e due coinquilini rumeni – o albanesi? Non riesco in nessun modo a ricordarlo – che vivono nella parte opposta della casa e che nelle ventiquattr’ore che ci resto non incontro mai, anche se da fruscii quasi impercettibili posso dirmi sicura che ci siano, da qualche parte, forse nascosti dentro un’intercapedine, come scarafaggi, ratti o fili del telefono. Possiamo usare una stanza con un soppalco, la cucina e un bagno. In questa casa, qualche anno fa ci hanno girato un film, e nel film si vede la stanza dove dormiamo noi però messa diversamente e un’altra stanza, il soggiorno con le pareti dipinte di rosso. In quel film ci sono un uomo e una donna che costruiscono un enorme mappamondo di cartapesta, ma sono pigri e lentissimi, anche se i soldi di quel lavoro servono a tutti e due. Nonostante la lentezza con la quale procedono, il mappamondo viene bellissimo, ci sono disegnati tutti i mari e si vedono in rilievo i profili delle montagne, ma a lavoro terminato, i due si rendono conto che il mappamondo a uscire dalla porta di quella casa non ci pensa neanche. È troppo grande. Per farlo uscire devono spingerlo, prenderlo a calci e dunque rovinarlo, ammaccarlo, distruggere il lavoro di settimane. Quando sono arrivata in questa casa era luglio, dall’asfalto salivano vampate bollenti, il sole era nascosto dietro una cappa bianca e impenetrabile, una specie di scudo di vapore denso, violentissimo; sui giornali c’era scritto che si trattava dell’estate piú calda che Roma ricordasse dal 1756. Nella casa non c’era l’aria condizionata, e nemmeno un ventilatore. Tu eri lí già da un po’ ed eri nervoso. Forse era il caldo, o forse ero io a essere ipersensibile perché le città, d’estate, mi riempiono di sconforto, e non appena ero arrivata e avevo messo piede in quella casa-fornace avevo provato l’impulso violentissimo di ripartire. Non bastava la tua presenza a farmi sopportare quell’afa. Piazza Vittorio urlava là sotto con i suoi tram, i passanti, i motorini, e io mi sentivo stretta in una morsa. Eravamo al bancone della cucina, seduti davanti a due bicchieri di acqua

ghiacciata, tu avevi addosso solo un pareo a righe rosa e grigio e ti tremavano le mani quando mi hai detto a bassa voce: non abbandonarmi. Ho riso, ho cercato di cambiare discorso, c’erano i croccantini del gatto in una ciotola per terra e ti ho chiesto: gli dài tu da mangiare? Davvero ti ricordi di darglielo? Ma tu non avevi nessuna intenzione di cambiare argomento. Resta qui, hai insistito, te lo chiedo per favore, di restare, di non lasciarmi solo. Adesso tremavo anch’io, e tremavo di rabbia. Vado due giorni al mare, ti ho detto, ci sono piú di quaranta gradi qui, e ho solo due giorni liberi, vado a trovare mia madre, se vuoi puoi venire insieme a me. Ma tu eri arrabbiatissimo adesso, e tremavi ancora di piú, cosí ti ho detto: non lo so, vediamo. Mi hai portata a letto e mi hai scopata senza quasi baciarmi, senza accarezzarmi, e nessuno dei due ne aveva voglia davvero in quel momento. C’era una specie di rabbia muta nei nostri gesti, nei miei occhi spalancati dentro i tuoi senza abbandono, nell’apatia del mio corpo che assecondava i tuoi movimenti senza il minimo slancio. Buttata su quel letto, con le gocce di sudore che ti scivolavano giú dal petto e dalla fronte e mi cadevano addosso una dopo l’altra e il frastuono dei tram che andavano avanti e indietro sotto le finestre, riuscivo a provare soltanto fastidio. La mia testa andava avanti nel tempo e immaginava già la tavola piatta e blu del mare che si apriva mentre mi immergevo un passo dopo l’altro e mi risucchiava nella sua frescura. Quando alla fine sono partita, ho pensato che il nostro amore, come ogni amore, era esattamente come il mappamondo di quel film: troppo grande per passare attraverso una porta e vivere dentro la vita delle cose normali. Troppo fragile per sopportare calci e spinte. Troppo assurdo per poter essere portato in giro e sottoposto agli sguardi degli altri.

Oggi pomeriggio ho percorso il Pantheon per tutto il suo perimetro, lentamente, un piccolo passo dopo l’altro. E intanto che camminavo, pensavo al movimento circolare della sua pianta, perfetto, immutabile, senza inizio né fine, né variazione, identico al movimento del tempo, delle stagioni, del cielo cosmico e del ciclo annuale dello zodiaco. Ho alzato la testa a guardare la cupola, quel simbolo della volta celeste, l’immagine stessa del mondo. Ho fissato la luce bianca che cadeva dall’oculus e mi è venuta in mente l’antica leggenda che racconta di come il fossato che circonda il tempio sia stato scavato dal Diavolo. La storia è questa: un mago di nome Baialardo ottiene da Satana, in cambio dell’anima, il Libro del Comando Supremo, manuale segreto di arti malefiche. Però, pentito per quel patto, attraverso le arti apprese dal libro vola in pellegrinaggio fino a Gerusalemme e subito torna a Roma. Ma quando arriva al Pantheon, Satana è lí che lo aspetta per reclamare la sua anima dato che quelli erano gli accordi. Il mago non si dà per vinto, e visto che conosce la passione dei diavoli per le noci, gliene offre qualche gheriglio. Satana si distrae e Baialardo si salva rifugiandosi dentro il tempio, dove si mette a pregare sinceramente pentito. Il diavolo, inferocito per essersi fatto ingannare in quel modo cosí stupido, comincia a girare furiosamente intorno alla rotonda, scavando il fossato con gli zoccoli. Anche l’oculus centrale, narra la leggenda, fu creato dai diavoli. Sette diavoli, come le sette divinità pagane che avevano in origine abitato il tempio. Erano rimasti rinchiusi dentro, e quando i prelati cattolici entrarono nel Pantheon per la cerimonia di consacrazione a Santa Maria dei Martiri, i diavoli si misero a correre in cerchio, come impazziti, senza trovare una via d’uscita, finché il diavolo piú grosso di tutti, a colpi di corna, non riuscí a far saltare via la pigna dorata che chiudeva il foro e di lí scapparono tutti, sfiatati via come gas venefici. Forse, anche noi facciamo la stessa cosa: corriamo come pazzi e scaviamo fossati intorno a un tempio. Siamo dentro quel tempio, proprio al centro, e allo stesso tempo ne siamo fuori, e corriamo, in cerca di una via di fuga. Vogliamo restare e allo stesso tempo vogliamo scappare il piú lontano

possibile. C’è una scultura di Alberto Giacometti intitolata Piccola figura in una scatola tra due scatole che sono due case. Vorrei che tu potessi vederla. Prova almeno a immaginarla: c’è una donna piccola piccola con gambe lunghissime e grossi piedi che cammina tutta protesa in avanti. Il suo è un passo immobile – è pur sempre una figuretta di bronzo – ma l’impressione del movimento c’è. Guarda quel tallone sollevato, la morbidezza degli avambracci che ciondolano, il baricentro spostato in avanti. Una piccola donna chiusa in una teca di plexiglas e bronzo. Le due case sono due cubetti vuoti, senza porte, senza finestre. La donna va in una direzione, ma potrebbe benissimo andare nell’altra. Niente differenzia le due case, le due vite, il suo muoversi è puro pretesto. Lei tenta di cambiare, ma muoversi non significa cambiare niente. Neppure prospettiva. Identico paesaggio, identico vuoto, identico silenzio. Questa scultura assomiglia alla mia vita. E chissà, forse anche alla tua, e a quella di tutti. Prendiamo treni, e aerei, facciamo traslochi, cambiamo amori, letti, finestre, strade, e siamo sempre nello stesso identico punto. Prigionieri in movimento continuo. Diavoli in cerca di un foro attraverso il quale finalmente sgusciare via.

Mentre cercavo di addormentarmi raggomitolata nella tua parte di letto, ho sentito dei suoni provenire dalla stanza di fianco. Improvvisa, la voce di una donna nel silenzio dell’albergo. Erano le due di notte. E la notte erano i suoni dell’ascensore, i plin plin ai piani, il ronzio continuo del generatore di elettricità, le raffiche di pioggia e vento contro i vetri della finestra, il fruscio secco delle lenzuola inamidate contro il mio corpo nudo. Dentro questi suoni ne è emerso un altro, sempre piú distinto, e nitido. Era un gemito ritmato che cresceva d’intensità e si accompagnava a un cigolio costante. Ho chiuso gli occhi piú stretti che potevo. Mi sono rannicchiata sotto le lenzuola. Poi ho riaperto gli occhi, ho stirato gambe e braccia e coperto tutto lo spazio. Tante volte sono stata dall’altra parte di quel muro, e ogni volta mi sono domandata se qualcuno potesse sentire, se ci fosse qualcuno lí fermo nel buio ad ascoltare. Mi sono riaddormentata, credo, poi mi sono risvegliata di soprassalto. Dall’altra parte del muro, un suono piú alto. La mia mano è scivolata veloce sotto le lenzuola. È stato molto rapido. Uno scatto violento che è arrivato in sincrono a quello dei due dall’altra parte del muro. Ci siamo addormentati tutti, cosí credo, nel silenzio di nuovo pacificato di questa casa temporanea che a tutto somiglia fuorché a una casa vera. Anche la pioggia ha smesso di cadere.

La prima volta che ci siamo visti, abbiamo camminato. Due ore in tutto. Quasi mai gli occhi negli occhi, piuttosto, occhi rivolti alla città, la tua, per me del tutto nuova e incomprensibilmente familiare. Ci siamo sfiorati con le maniche dei giubbotti – faceva molto freddo e non ricordo con precisione come fossi vestita, quel giorno, e come fossi vestito tu, so solo che eravamo protetti da strati di lana, piumini, calze, sciarpe. Quella prima volta mi hai detto – e non ricordo come il discorso sia nato, forse mi avevi parlato della tua separazione, del dolore per la fine di quell’amore, dell’astio e delle ripicche e della violenza: adesso voglio una storia normale. E io ho guardato i palazzi della strada nella quale stavamo svoltando – un corso pieno di negozi e di gente a passeggio, soprattutto coppie giovani che spingevano carrozzine o passeggini e si tiravano dietro cani obesi al guinzaglio – ho infilato le mani in tasca e ho fatto un respiro profondo, e io, ti ho detto, io invece adesso voglio essere libera. Dal primo momento, ci siamo detti la verità. Ed è precisamente su questi due punti inconciliabili che la nostra storia ha avuto il suo inizio. Inizio che conteneva in germe la sua fine. Forse ce ne siamo accorti subito, immediatamente, lí, quel pomeriggio, su quel corso pieno di gente, o forse abbiamo fatto finta di non capire e abbiamo riposto quel barlume in un luogo nascosto della coscienza perché di guardarlo, in quel momento, non ne avevamo nessuna voglia. Certo è, che per tutto il tempo che è durata la nostra storia sempre lí siamo tornati a battere il martello, ciascuno ripetendo la sua verità, inconciliabile con quella dell’altro. Gli inizi raccontano già tutto, a saperli, e volerli, guardare.

La seconda volta ci siamo seduti sulle panchine di un parco pubblico desolato. Era tardo pomeriggio, faceva un freddo terribile, avevo il naso rosso e le mani ghiacciate, il mio treno sarebbe partito dopo poco, e tu mi hai detto: non ho niente da offrire a una donna. Io ti ho risposto: e allora? Va bene cosí. È esattamente quello che aspettavo, qualcuno che non avesse niente da offrire a parte sé stesso. E tu hai detto ancora: la mia situazione in questo momento è incerta, perché di fare i lavori pesanti che finora mi hanno dato da mangiare, non ho piú la forza, intendo proprio la forza fisica, non ho piú l’età, e soprattutto non ho piú la testa, per farli, e non ho una casa, solo una stanza in affitto, non posso darti niente, non posso dare niente a nessuno. Bene, ti ho risposto, perché è questo che cerco, e cioè niente, noi siamo uguali, ti ho detto ancora – ma forse erano parole dentro la mia testa che non sono mai arrivate alle labbra – proprio la stessa cosa, e tu hai detto: non voglio sbagliare, non un’altra volta. Di che sbaglio parli? Ti ho chiesto stupita, tanto si sbaglia di continuo, non si fa altro che sbagliare, vivere è sbagliare, ogni passo è un passo falso, ogni gesto è una traiettoria mancata, ma si può sempre tornare indietro. No, hai detto tu, secco questa volta, indietro non si torna. Io ti aspettavo, ti ho detto, cosí, niente di diverso, niente di meno e niente di piú, i tuoi occhi sono quelli che ho visto dentro la testa per anni, senza ancora conoscerti. Queste sono le prime parole che ci siamo dette. Siamo due che diventeranno amanti. È evidente. E gli amanti vorrebbero slanciarsi l’uno nella braccia dell’altra, sparire carne nella carne, pensieri dentro pensieri, e invece ergono muri, vorrebbero farsi liquidi e diventano di sasso. E questi muri che abbiamo costruito partendo da lí, da quella panchina, in quel parco deprimente davanti alla stazione, in quel giorno di febbraio gelato, sono cresciuti rapidi come palazzi in un quartiere periferico di una città, palazzi orrendi, appartamenti come alveari che nascondono alla vista tutto quello che c’era prima: alberi, prati, altre case, le persone che passano lungo le strade. Restano solo queste facciate orribili, punteggiate di finestre tutte chiuse come bocche serrate, dipinte di albicocca o giallo pallido, posti cosí brutti dove non

si capisce come la gente possa sopportare di vivere – e forse non lo sopporta infatti, semplicemente è costretta a farlo. Ma gli amanti no, loro non sono costretti a contemplare quei muri, possono sempre girarsi e cominciare a camminare senza voltarsi indietro mai piú.

Ma qui, dentro questa stanza con il numero 411 tatuato sul dorso, non è certo a questo che abbiamo pensato. Abbiamo passato due giorni e due notti a toccarci, a parlare, a respirare l’uno la pelle dell’altra, bocca contro bocca. E quando abbiamo dovuto lasciarla, questa stanza, certo non ci siamo voltati indietro, mentre ci chiudevamo la porta alle spalle, a guardare le lenzuola disfatte, le bucce di banana abbandonate nel cestino, né il vassoio d’argento con i resti di una colazione sontuosa: eravamo troppo impegnati a cominciare una storia d’amore, e guardavamo avanti, e non indietro, e c’erano speranze, e la promessa di tutti i giorni che sarebbero venuti dopo quello.

Alla Stazione Termini ci siamo baciati e toccati per tutto il tempo in cui abbiamo aspettato i nostri treni, due treni diversi, diretti in due città diverse. E quando sono salita sul mio, tu te ne eri già andato, senza voltarti una volta, come poi avresti sempre fatto, perché anche tu, come me, detesti gli addii. Io ho sorriso alla tua sagoma che vista cosí, da dietro, e da lontano, mi faceva battere il cuore. Lí, mentre camminavi lungo quel binario affollato di gente che andava nella direzione opposta alla tua, ho pensato: ecco, quello è un uomo. Potrebbe essere un uomo qualsiasi, uno che non conosco e che non conoscerò mai, uno sconosciuto in mezzo alla folla di una stazione grandissima, uno sul quale mi è caduto lo sguardo forse perché cammina in un modo che mi piace, perché sembra un uomo molto solo, o perché nella curva delle sue spalle e nel modo che ha di strizzare gli occhi e inclinare leggermente la testa mentre fa un tiro dalla sua sigaretta, ho colto qualcosa che mi ha colpita. Un estraneo, un numero in mezzo a mille numeri, una figura che passa veloce all’angolo dello sguardo e che non coglierai mai piú. E invece, eri tu. Proprio tu. E io ti conoscevo. E sapevo com’era dolce la pelle del tuo corpo, e che avevi soffici peli castano chiaro sul petto e una cicatrice pallida sulla schiena, e amavo le tue parole, il modo che avevi di costruire le frasi, la tua voce, e anche questa cosa sapevo: che ci eravamo incontrati perché dovevamo assolutamente incontrarci, e la nostra pelle, nonostante la paura che aveva preceduto il primo incontro, aveva subito saputo che non c’era niente di sbagliato. E mentre ti guardavo diventare sempre piú piccolo fino a scomparire, mi è venuta in mente una poesia di Wisława Szymborska che dice cosí: Sono entrambi convinti che un sentimento improvviso li uní. È bella una tale certezza ma l’incertezza è piú bella. Non conoscendosi prima, credono che non sia mai successo nulla tra loro.

Ma che ne pensano le strade, le scale, i corridoi dove da tempo potevano incrociarsi? Vorrei chiedere loro se non ricordino – una volta un faccia a faccia forse in una porta girevole? uno «scusi» nella ressa? un «ha sbagliato numero» nella cornetta? – ma conosco la risposta. No, non ricordano. Li stupirebbe molto sapere che già da parecchio il caso stava giocando con loro. Non ancora del tutto pronto a mutarsi per loro in destino, li avvicinava, li allontanava, gli tagliava la strada e soffocando un risolino si scansava con un salto. Vi furono segni, segnali, che importa se indecifrabili. Forse tre anni fa o il martedí scorso una fogliolina volò via da una spalla a un’altra? Qualcosa fu perduto e qualcosa raccolto. Chissà, era forse la palla tra i cespugli dell’infanzia? Vi furono maniglie e campanelli su cui anzitempo un tocco si posava sopra un tocco. Valigie accostate nel deposito bagagli. Una notte, forse, lo stesso sogno, subito confuso al risveglio. Ogni inizio infatti è solo un seguito e il libro degli eventi

è sempre aperto a metà.

Sono salita sul mio treno ripetendomi a mezza voce il finale di quella poesia, e di colpo, sulla lingua ho avvertito un retrogusto amaro: il libro degli eventi è sempre aperto a metà. Allora ho scosso la testa, ho tirato fuori dalla borsa una rivista, l’ho aperta, e con la tempia appoggiata contro il vetro gelato del finestrino ho cominciato a leggere, senza guardare Roma che si allontanava e senza pensare che un libro aperto a metà può contenere molti finali diversi. Poi è arrivata la primavera, e l’unico finale che avevo in mente era una casa tutta bianca dentro e fuori, un paesaggio invernale che ci avrebbe contenuti nel suo silenzio di neve. Avremmo lavorato fianco a fianco, seduti allo stesso tavolo, la caffettiera fumante davanti e musica in sottofondo, ciascuno chino sul suo portatile. Un giorno, avremmo vissuto nella stessa casa, e avremmo dormito nello stesso letto, e magari avremmo anche avuto un bambino. Un bambino con i tuoi occhi e il mio sorriso. Pensieri dolcissimi e vaghi, in totale contrasto con la ragionevolezza, visto che io odio da sempre dormire nello stesso letto con qualcuno e non ho mai desiderato un bambino. Ma è di pensieri irrazionali come questi – non lo credi anche tu? – che si nutre ingordo l’amore. E tutti quei treni che prendevo per raggiungerti, e quelli che tu prendevi per raggiungere me, erano movimenti nel tempo, avanti verso la vita nuova, indietro verso la vita di prima, ma quella che per te era la vita nuova per me era la vecchia vita e viceversa. Io respiravo nella tua città e tu volevi scappare, tu riposavi nella mia casa e io ci soffocavo dentro.

Nella stanza di fianco sono in due: anche se non si parlano tra loro è chiaramente percepibile dai rumori che contemporaneamente provengono dal bagno e da un angolo della stanza. E c’è un bambino. Un bambino molto piccolo che ogni tanto piange. Un pianto monotono che subito si placa. Immagino la madre che estrae un seno dalla camicetta e infila il capezzolo tra le labbra del bambino, lo culla molto lentamente, gli sussurra qualcosa accarezzandogli la testa. Lui, il padre, è disteso a letto che guarda la Tv. Voci, jingle pubblicitari, resoconti di partite di calcio, telegiornali, varietà. Passa da un canale all’altro, senza tregua. Steso sul letto, forse in mutande, i piedi nudi puntati contro il soffitto. La voce del bambino che piange e il mormorio della donna sono un sottofondo simile a quello della televisione: indifferenti, vacui come il motore di un’automobile in fondo alla strada che presto riparte, si allontana. Chi sono queste persone che si muovono nella stanza di fianco alla mia dalle quali mi separa solo una sottile parete in cartongesso? Com’è possibile che siamo tanto vicini, contigui, quasi pelle contro pelle e non sappiamo nulla gli uni degli altri e che mai ne sapremo nulla? Condivido con questi sconosciuti la mia intimità, posso sentirli mentre vanno in bagno, parlano, mangiano, fanno l’amore, e non so nemmeno come si chiamino. Cosa facciano nella vita. Chi siano. Conosco le loro abitudini, ma non conosco loro. Mi domando se anche loro possano sentire me. Se in qualche momento restino lí immobili, il respiro trattenuto, a cercare di decifrare i miei movimenti dentro la stanza. Il tragitto dal letto al bagno, lo scatto ripetuto dell’accendino quasi a secco, il ticchettare delle ciabattine infradito di gomma sul pavimento. Che sono sola, dev’essere evidente anche a loro. Forse, anche che sono una donna. I movimenti di una donna dentro una stanza sono diversi da quelli di un uomo. Io almeno, saprei riconoscerli. I giorni passano e dietro quella parete si ripetono uguali, per quel che mi è dato capire. Comincio a inventarmi delle storie. Non li ho mai incontrati sul pianerottolo, la porta non si è mai aperta o chiusa, e tutte le volte che rientro in albergo i rumori, e dunque loro, sono lí, dietro la parete. Rumore di

stoviglie all’ora di pranzo. La televisione accesa di continuo. Il bambino che piange. La madre che canta una ninna nanna. Poi, ieri notte ho sentito la voce dell’uomo. Mi ha sorpresa, come uno sparo nel silenzio. Una voce cupa, che parlava in un dialetto del Sud, molto veloce. Ogni tanto faceva delle pause, poi riprendeva. Non ho capito niente, neanche una parola. Era una cascata di suoni indecifrabili: solo un colore, un’atmosfera. Ho immaginato un uomo nascosto in una stanza d’albergo con la sua famiglia. Un permesso premio da un carcere con l’impegno di non uscire da quella stanza per tutta la sua durata. O una fuga. Certo. Quell’uomo è un latitante. Pochi giorni per fingersi una vita normale con la sua donna e il suo bambino. Ricreare in una stanza d’albergo una vita familiare scandita dai pasti, i programmi televisivi, le poppate del neonato. Quella notte della telefonata, i due hanno fatto l’amore e il bambino non ha pianto. Li ho ascoltati per un po’, poi a un certo punto mi sono messa i tappi per le orecchie e sono sprofondata nel sonno. Il giorno dopo, quando sono uscita, la porta della loro stanza era aperta, la cameriera stava piegata sul letto per tendere il lenzuolo. Il carrello con le scope, lo spazzolone e i detersivi intralciava la porta, ma lo stesso sono riuscita a vedere che nella stanza non c’era nessun effetto personale, solo il letto con il coprimaterasso coperto di aloni di sangue sbiadito, il tavolino accostato al muro, le sedie, una tenda a rombi gialli e verdi identica a quella della mia stanza. Erano già partiti, dileguati, svaniti nel nulla, e io non avrei mai saputo che faccia avevano.

La seconda volta che abbiamo camminato insieme e mi hai detto, non ho niente da offrire a una donna, eravamo nel parco davanti alla stazione della tua città, quel parco dove per decreto comunale non si può mangiare, dove continuano a mangiare lo stesso, li abbiamo visti. Uomini e donne che parlano lingue diverse, tirano fuori panini avvolti nella carta stagnola, si passano lattine di birra e si scambiano informazioni: posti di lavoro, letti in affitto, un’opportunità qualunque, che metta in movimento la giornata, la vita. Mi hai mentito, quel giorno. C’è un elenco infinito di cose che mi hai offerto nei mesi che sono seguiti. Tante volte, ci siamo affacciati a fumare sul piccolo balcone della casa in cui abitavi, stavo seduta per terra, la schiena appoggiata contro le tue gambe, la tua mano che scendeva ad accarezzarmi il collo. Guardavamo la notte diventare sempre piú buia, le rare luci spegnersi una a una. Un fiato umido si adagiava sulla nostra pelle e ci faceva tremare. È una notte fresca, dev’essere marzo. Abbiamo appena finito di fare l’amore e forse tra poco ricominceremo, la mia pelle scotta come se avessi la febbre, sono stanca. Tu ti chini davanti a me su quel terrazzino, indossi solo un pareo annodato in vita, e mi sorridi senza parlare. Non ho mai amato nessuno come amo te, non ho mai desiderato nessuno come desidero te. Te l’ho detto girando la testa dall’altra parte, per mettere in ombra il mio viso e nasconderti gli occhi.

Questo che sto per raccontarti è l’inizio di Tre camere a Manhattan di Georges Simenon, uno dei suoi romanzi piú intimi, non so se lo hai letto anche tu. Un uomo e una donna si incontrano al bancone di un bar, è notte e sono soli tutti e due, e tutti e due sono tristi, e hanno un passato ingombrante da dimenticare. Potrebbe essere un quadro di Hopper, questo primo incontro: profili immobili, sguardi abbassati su un bancone sporco di macchie appiccicaticce e ditate. La donna porta un cappellino bizzaro, l’uomo un abito un po’ sgualcito. Lui ha quarantotto anni e lei ha passato i trenta. Lui si chiama Combe, e lei si chiama Kay. Bevono insieme. Poi escono da quel bar e cominciano a camminare per la città, una camminata infinita, simile alle nostre – tante volte abbiamo camminato cosí, per ore, uno di fianco all’altra, in silenzio oppure raccontandoci delle storie, perdendoci in zone sconosciute della tua e della mia città, entrambi affascinati dal ritmo dei passi, dalle case in rovina, dai luoghi disabitati, dalle storie che balzano fuori da una crepa in un muro. Combe non sa ancora se questa donna gli piace oppure no, ma c’è qualcosa in lei che lo attrae, qualcosa cui non sa ancora dare un nome. Dopo avergli raccontato la storia della sua vita e dei suoi amori, Kay gli dice: ci sono stati molti uomini prima di te, forse ce ne sono stati troppi, ma io non ho mai amato nessuno prima di incontrarti. Anch’io ho trent’anni passati, e ho avuto molti uomini, avventure di una notte e lunghe storie, ho conosciuto nomi, e parenti, ho imparato a memoria dettagli, gusti e differenze, ma non ho mai amato nessuno finché non sei arrivato tu. Perché? Perché mi sono innamorata di te, esattamente di te e non di qualsiasi altro? Questa domanda devono farsela tutti gli innamorati. All’improvviso, alla certezza spensierata delle prime settimane, dei primi mesi, questa domanda compare. Ed è un momento pericoloso. Perché proprio lei – o lui –, quale gesto, sguardo, movimento, quale parola, quale assonanza, eco? Forse, mi sono innamorata di te perché sono io ad averti inventato.

Come scrive José Ortega y Gasset, è dall’amore, non dal soggetto amato, che si può conoscere l’amante. Ogni persona ama con la pienezza del proprio spirito, con forza sufficiente per conferire all’amato tutte le delicatezze e raffinatezze di cui ha bisogno l’anima dell’amante (ossia, la propria anima).

Qualche tempo dopo, mi hai detto di aver avuto questa visione: io, che avanzavo verso di te portando per mano un altro te stesso. Io che ti riportavo a te. Tu mi hai ridato me stesso, vivevo come un morto, mi hai detto, camminavo come camminano i morti, poi sei arrivata tu. Anche per me è stata la stessa cosa. Forse, è sempre di questo che ci si innamora: di qualcuno che ci viene incontro portando per mano noi stessi. Che ci riconsegna noi stessi. Di qualcuno che pare farci nascere di nuovo.

Poi, come doveva succedere, come succede sempre, mi hai portata a conoscere la tua famiglia. Tua madre, soprattutto. Quel giorno avevo addosso un maglione che mi piaceva moltissimo e che mi faceva sentire al sicuro, color arancio, caldo e morbido, ma lo stesso ero nervosa. Ho visto il paese della tua infanzia: case piccole a due piani, cubi di cemento con i giardinetti delimitati da ringhiere e fiori coltivati. Piccoli giardini di una tristezza devastante, una periferia povera di gente che lavora duro, case con l’intonaco grigio, giallino, rosa pallido, dondoli sotto le verande, finestre con i serramenti in alluminio anodizzato, vetri lustri e tendine di pizzo cucite a mano. Tua madre era lí, ferma sulla soglia, una donna anziana, magra e diritta, risucchiata, con un viso ancora molto bello, fierissima. Dura. Duri gli occhi, la piega delle labbra, dure le dita che si sono strette attorno alle mie. Ho immaginato uno schiaffo dato di taglio sul tuo viso di bambino. Quelle dita lunghe e ossute, crudeli come righelli di ferro. Lei mi ha guardata negli occhi, e ha accennato un sorriso solo quando le ho detto: belli, li coltiva lei? Indicando i fiori piantati nel giardino e i vasi colmi di piante rigogliose. Il suo sguardo, posandosi su quei prodigi, si è ammorbidito, ma è durato pochissimo. Sembravi un bambino, quel giorno. E sembrava che fossi cosí orgoglioso: di me, del fatto che io fossi lí, che mangiassi seduta a quella tavola e che fossi sorridente e gentile, mi hai stretto la mano sul tavolo, davanti a tutti, e tua madre ci guardava. A dire la verità, guardava piú me. Mi hai fatto vedere la tua stanza di quando eri ragazzo. Fuori da quelle finestre, la distesa di cubi di cemento con il giardino, le statue piantate nell’erba, i cani, le antenne paraboliche sui tetti, i gerani, le tendine. Mi sono sentita soffocare, e mi sono avvicinata a te, per rassicurarti e rassicurare me stessa: non è in un posto del genere che avremmo vissuto, né tu, né io, non era a quella vita che eravamo destinati, noi due. A quella lenta morte quotidiana, con il contagocce. Quando ci siamo decisi ad andare, tua madre è venuta a salutarci; per la

seconda volta, ho stretto quella mano asciutta e dura, e l’ho guardata negli occhi: a presto, allora, le ho detto. Lei ha aspettato una frazione di secondo eterna, senza distogliere gli occhi dai miei. Speriamo. Mi ha detto. Mi si è gelato il sangue. Mi è venuta voglia di scappare, di correre a nascondermi da qualche parte, di sparire per sempre. Lo aveva detto scandendo bene le sillabe, gli occhi fermi. Una specie di sfida le era brillata per un istante all’angolo dell’occhio destro, poi era svanita per lasciare di nuovo posto a quello sguardo duro, una superficie inscalfibile, una lamina di ferro. In macchina, lungo la strada del ritorno, non hai detto una parola. Eri cupo. Cosí ho girato la testa e ho visto le strade scorrere dietro il finestrino. Le strade, i capannoni, i campi, quel paesaggio micidiale che solo a guardarlo ti riempie l’anima e i polmoni di polveri e piombo. Davanti ai genitori, alla madre soprattutto, torniamo tutti bambini, anche a quarant’anni. Da un luogo buio nascosto dentro tornano di colpo alla luce frammenti che tagliano le dita. Il ricordo di certi timori, dei castighi, la paura che smettessero di amarci, che ci abbandonassero. La paura di essere diversi da quelli che loro avrebbero voluto. Torna tutto, e ci esplode dentro, piccole bombe disseminate nella memoria del corpo, a scoppio ritardato. Ho provato pena per te. Pena per quel bambino chiuso dentro un giardinetto spelacchiato di tre metri per tre con l’ordine categorico di non oltrepassare il cancello, quel bambino con il triciclo di una vecchia foto in bianco e nero che mi hai regalato e che ancora conservo. Un bambino che non sorride. Un bambino con un’espressione dura già a quattro anni: il figlio di sua madre. Chissà se quel giorno avevi colto delusione negli occhi di tua madre, o se ero stata io a deluderti, io che non avevo saputo essere abbastanza brillante, abbastanza convincente nel ruolo della fidanzata perfetta dopo anni di fidanzate sbagliate, io che non avevo indovinato il tono, i movimenti, i tempi giusti nel ringraziare mentre mi passavano un piatto da portata o nel ridere a una battuta. O ancora, forse io non c’entravo proprio niente in quella cupezza improvvisa che ti aveva rapito e portato lontanissimo da noi, dall’abitacolo di quella vecchia macchina che lentamente riattraversava la campagna devastata che separa il tuo paese d’origine dalla città nella quale vivi. Eri solo, schiacciato da un te stesso che cercavi di allontanare: ogni volta che si torna nella casa dei genitori lo si reincontra, quel fantasma del passato che ha i nostri tratti, ma piú giovani, e che prende possesso di noi, ci invade, parla con

la sua voce, che non è piú la nostra e ci toglie ogni possibilità di reazione. Dentro gridiamo: vattene, lasciami stare, tu non sei me. Ma lui, quel fantasma che siamo stati, abita la parte in ombra delle nostre cellule ed è precisamente lí, nella casa dei genitori, quella che un tempo chiamavamo casa mia – che a volte continuiamo a chiamare casa mia per tutta la vita – che può prendere di nuovo possesso con violenza del nostro corpo e vivere al posto nostro. È per questo che ci costringe ogni volta a scappare. Quando siamo arrivati a casa tua, quella che adesso chiamavi il mio posto, eravamo esausti. E non ricordo piú cosa abbiamo fatto, se abbiamo fatto davvero qualcosa o se semplicemente io ho ripreso il mio treno e me ne sono andata, lasciandoti solo con il tuo fantasma.

Ho appena fatto un lungo bagno, candele accese, schiuma al profumo di muschio. Mentre scivolavo dentro l’acqua ho contemplato il mio corpo: le ginocchia, le cosce, le caviglie. Ho rovesciato la testa all’indietro, ho lasciato che l’acqua mi entrasse nelle orecchie, nel naso, in bocca. Davanti alla specchiera illuminata di questo bagno tutto bianco, mi trucco alla perfezione: correttore fondotinta cipria fard ombretto scuro sulla palpebra inferiore chiaro su quella superiore matita nera nell’angolo interno degli occhi mascara matita per le labbra rosso fuoco e il rossetto piú acceso che ho. Sono vestita di rosso e di nero, questa sera, le sopracciglia ben disegnate, gli occhi brillanti. Le lacrime cominciano a scendere. Un liquido incrostato di minuscoli calcoli che perforano le palpebre. Sono io che piango, e allo stesso tempo no, la donna dentro lo specchio è un’altra donna. Ma chi? E perché ha fatto tutta questa fatica? Non c’è nessuno, qui. Nessuno in questa stanza, in questo albergo, in questa città, nessuno in tutto il mondo che possa vedere questa donna che aspetta un uomo che non arriverà mai piú. Mi sono versata un bicchiere di vino bianco, ho acceso una sigaretta, ancora una volta ho guardato le mie caviglie arcuarsi leggermente dall’alto di queste scarpe nere con i tacchi a spada, ho ondeggiato davanti allo specchio, avanti e indietro, mi sono contemplata da ogni lato, la curva dei fianchi, la pancia piatta, i seni gonfi, il collo palpitante di vene azzurre. A meno che tu non l’abbia spiata dal buco della serratura, non hai mai visto una donna da sola dentro una stanza da bagno, non hai mai potuto seguire quell’infinita, sempre identica sequenza di movimenti, i suoi gesti carichi di speranza, di attesa, il modo in cui si spruzza il profumo alla base del collo, sui polsi, tra le scapole. Non sai niente di quella bolla resistente e gelatinosa che si forma attorno a una donna che si sta preparando per un uomo e che la separa da tutto il resto, anche da sé stessa. Non sai niente del

dolore che la attraversa nel momento in cui la bolla scoppia e la lascia sola davanti a uno specchio che le restituisce l’immagine di una sconosciuta che avrebbe acquistato senso solo negli occhi di un uomo che non c’è.

La prima volta che sei venuto a casa mia, sei arrivato con una grossa borsa da viaggio in mano. L’ho guardata, era una valigia di pelle color cuoio, e mi sono domandata cosa contenesse, per quanti giorni l’avessi preparata visto che di questo non avevamo assolutamente parlato, nessuno dei due. Vederti entrare dalla porta è stato strano: qui, avevo abitato con un altro uomo, con lui avevo progettato le stanze, scelto la disposizione dei mobili, il colore delle pareti, avevo trascorso stagioni, accatastato la legna per l’inverno, passeggiato nel parco, guardato la neve che cadeva sopra il tetto, che copriva lentamente, fino a farli sparire, la siepe di bambú e il grande campo da calcio dall’altra parte della strada. C’eri tu, ma c’era anche l’altra vita, per me. Mi hai chiesto di liberarti un cassetto per metterci le tue cose e io non ti ho risposto subito, ho provato un moto d’irritazione che ho cercato di controllare: quanto puoi fermarti, ti ho chiesto, evitando con cura il «pensi» che avrebbe fatto suonare la frase in tutt’altro modo. Forse una settimana, mi hai risposto. Non ho detto niente. Ho liberato il cassetto con il cuore che mi pompava in gola, una specie di pallina da tennis in mezzo alle tonsille. Non lo sapevo se ero pronta per questo. Una casa non è una stanza d’albergo. I gatti ti giravano attorno circospetti. Non si fidavano di te. E in effetti, per tutto il tempo che sei andato e venuto da questa casa, non ti hanno mai amato, e credo la cosa fosse reciproca. Gli animali vanno trattati da animali, mi hai detto la prima sera, mentre ci sedevamo al tavolo per mangiare e loro continuavano a saltare sulla tovaglia e a spingere il muso verso i nostri piatti. Li ho scacciati. L’ho fatto io, per non dover sentire un’altra volta la tua voce che si alterava e diventava cattiva. Credo di aver pensato che se potevi usare quel tono con degli animali avresti benissimo potuto usarlo con me e io non l’avrei sopportato. Neanche per un secondo. Ho sempre detestato la gente che dà ordini, fin da quando ero una bambina. Poi non ci ho piú pensato. Mi bastava guardare la tua bocca, le tue mani, per rimuovere tutto. Aspettavo il suono della tua voce come si aspetta l’acqua

davanti a un pozzo rimasto secco troppo a lungo. Con venerazione, allungavo la lingua verso di te e bevevo ogni sillaba, ogni goccia del tuo sperma, ogni stilla di sudore. La testa appoggiata al tuo petto dentro il caldo del letto prodotto dai nostri corpi, chiudevo gli occhi e ascoltavo la tua voce rimbombare dentro la cassa toracica mentre leggevi ad alta voce l’inizio di un libro, ti osservavo mentre scivolavi fuori dalle lenzuola per andare a prendere tabacco e cartine e mi stringevo il tuo cuscino contro la bocca, sazia di una felicità che non avevo mai neanche immaginato di poter provare di fianco a un uomo. Quel letto era un’isola, e noi due naufraghi al riparo.

Ero seduta sul piccolo balcone di casa tua a leggere e fumavo una sigaretta. C’era una luce arancione rosato che avvolgeva tutta la strada, e i palazzi di fronte. Tu mi hai sorriso, hai preso la giacca, gli occhiali da sole, il tabacco e le chiavi e sei uscito senza dirmi dove andavi. Io ho continuato a leggere. È difficile amare cosí disinteressatamente da sostenere l’amore senza esserne sostenuti. È difficile sorreggere l’amore cosí che non lo si debba vedere come una partita perduta quando va male, ma si possa dire: ero preparato a questo e va bene anche cosí. Si potebbe dire, se tu non monti a cavallo, se non ti affidi completamente a esso, certamente non potrai mai essere disarcionato, ma neppure sperare poi di cavalcare. E dunque non resta che dire: tu devi dedicarti interamente al cavallo, ed essere tuttavia pronto a poter essere disarcionato in qualsiasi momento. Ho alzato gli occhi dal libro – era uno dei tuoi, i diari di Ludwig Wittgenstein – e ho acceso un’altra sigaretta. Su un balcone del palazzo di fronte, una signora anziana parlava con il suo gatto persiano, l’ho salutata con la mano e lei ha ricambiato il saluto. Ma è davvero possibile, ho pensato, affidarsi interamente al cavallo, e quindi all’amore, sapendo che potrebbe buttarti giú in qualsiasi momento? Forse no. Non ho mai conosciuto nessuno che lo sapesse fare davvero. Tutti quanti passiamo il tempo a tenere un registro con le entrate e le uscite e non siamo mai soddisfatti, ci sentiamo sempre in credito: io ti ho dato questo, tu non mi hai dato l’altro, io per te ho fatto questo, tu non hai fatto niente, se tu mi amassi, faresti-saresti-dovresti. È questo che ho sempre odiato – senza peraltro riuscire a sottrarmene – dell’amore: la sua mentalità da bottegaio. Nel momento in cui ho sentito la porta di casa chiudersi con uno scatto secco ho fatto un respiro profondo e ho provato una sensazione di libertà, di leggerezza. Certo, saresti tornato, e io ero contenta, ma adesso ero sola, e anche di questo ero contenta. Forse è cosí per tutti, solo che non lo accettano, non vogliono accettarlo. La gente si sposa e vive gomito a gomito per decenni, mangia alla stessa ora, dorme nello stesso letto, guarda gli stessi

programmi alla televisione, si asciuga la faccia nello stesso asciugamano, dice le stesse cose, pensa le stesse cose, quando parla usa il plurale. Io lo trovo intollerabile. L’ho sempre trovato intollerabile, fin da bambina. Ed è da troppo poco tempo che sono di nuovo libera da quel ricatto, troppo poco tempo che cerco di immaginare la mia vita senza una presenza costante, senza dover pensare a me stessa come una persona «in coppia». Devo dirglielo, ho pensato, dirglielo prima che sia troppo tardi. E te l’ho detto. Te l’ho detto con gentilezza e cercando di sorridere, te l’ho detto dieci, venti, cento volte, ma tu non volevi mai ascoltarmi, e ogni volta che ti dicevo: no, domani è meglio se non ci vediamo, ho bisogno di stare da sola, tu mi rispondevi che due che si amano devono stare insieme, come e quando possono, e io domani posso e anche tu puoi visto che non devi lavorare, sí, ti rispondevo, posso, ma non voglio, e tu niente, e cosí una volta te l’ho detto a voce troppo alta, con troppo sarcasmo e troppa rabbia e non eravamo neanche soli. Tu hai battuto un pugno sul tavolo e mi hai urlato di smetterla, di finirla. Che queste frasi che dicevo erano cose che ferivano, erano cose brutte. Che facevano diventare tutto cosí squallido, che non potevi sopportarlo. Io e l’amico che era con noi ci siamo guardati con terrore. Muti. Quando siamo rimasti soli, ho afferrato la bottiglia di vodka gelata e ne ho bevuto un sorso, mi sono seduta sul davanzale della finestra e ti ho attirato verso di me. Faceva molto caldo, quella sera, e i fili di saliva che la tua lingua lasciava sulla mia pelle si mescolavano al sudore, stavo seduta sul davanzale della finestra, la testa ribaltata all’indietro, le gambe avvolte attorno ai tuoi fianchi. La rabbia per il momento se n’era andata, se n’era andato tutto, eccetto i nostri corpi, uno dentro l’altro, uno contro l’altro.

Le prime volte che sei venuto a casa mia abbiamo camminato a lungo, ti ho portato a vedere posti dove ero stata bambina, quelli dove andavo a giocare, quelli dove andavo a nascondermi: il cimitero, la villa abbandonata, la piazza segreta con l’ospizio dei vecchi, la strada provinciale intasata di camion che quando ero piccola era solo una strada bianca di campagna che segnava il confine tra il mio mondo e l’ignoto. Ci siamo seduti a cavalcioni sul ponte del fiume vicino al campo nomadi e abbiamo guardato l’acqua marrone che trascinava lenta detriti. Abbiamo contemplato una fioritura di viole lungo il bordo di una strada. Abbiamo bevuto il cappuccino ai tavoli di un caffè dove non ero mai entrata prima. Poi, inaspettata, a fine marzo è arrivata la neve, e abbiamo camminato sotto fiocchi candidi e larghi, io con i moonboot e tu con due sacchetti di plastica legati attorno agli anfibi, proprio nel mezzo della strada provinciale per una volta senza traffico, deserta sotto quel manto bianco. Ho tirato fuori la lingua, la testa rovesciata all’indietro, per bere quella neve, mangiarmela. Ti guardavo camminare davanti a me con i sacchetti della Coop legati attorno agli anfibi e ridevo: eri cosí buffo, e la neve era cosí bella e bello era anche vivere. Era bello perché c’eri tu. Tu. Nessun altro avrebbe potuto condividere questo istante con me. Avremmo fatto un po’ di spesa per la cena e ce ne saremmo tornati a casa, avremmo acceso il fuoco nel camino e avremmo parlato a lungo, forse fino all’alba. Ma quando ti sei voltato verso di me, il sorriso che mi ero aspettata di vedere sulla tua faccia non c’era. Al suo posto, una smorfia di fastidio indecifrabile. Mi sono messa le mani in tasca e ti ho detto: torno da quella parte, faccio un giro da sola. Quando sono rientrata in casa eri seduto al mio tavolo, sulla mia sedia, e scrivevi qualcosa su un taccuino. Non hai detto una parola, non hai neanche alzato la testa per guardarmi. Ecco: un istante penso che tu sia il mio amico migliore, l’istante dopo, che tu sia il mio peggior nemico. In fondo, di te non so niente. Non si sa mai niente di nessuno. E meno ancora si sa di quelli che si amano. E ho cominciato a vacillare. Ricordo di aver generato con terrore limpido

questo pensiero una volta che mi pesavo, in camera da letto: cosa sta succedendo al mio corpo? Cosa gli succede sotto le tue mani, sotto il peso della tua carne, sotto il peso delle tue parole, del tuo sguardo? Il mio corpo si trasforma, è plastilina che si modella giorno dopo giorno, istante dopo istante, e tra me e lui non c’è piú nessuna unità, c’è solo una battaglia che infuria tra le cellule del cervello e quelle di tutto il resto. Il mio corpo non mi appartiene piú, esiste solo in funzione del tuo desiderio. Respira per potersi accordare al tuo respiro, si muove per assecondare la tua volontà di movimento, resta immobile quando tu lo vuoi immobile. Mi stringi le caviglie con le mani, blocchi le mie cosce sotto le ginocchia. Sono un sesso di femmina che si apre non per accoglierti ma per subire i tuoi affondi. Guardami: non sono piú la ragazza che ero prima di incontrarti. E non sono ancora la donna che vorresti. Che cosa sono allora? Niente. Ancora non sono niente. Le tue parole: un cartamodello da sovrapporre alla mia carne. Le tue mani: forbici che tagliano e scelgono la foggia. La mia pelle è un abito. Ma io non lo indosso. È lí, appoggiato alla spalliera di una sedia. Un vecchio soprabito, una gonna troppo stretta, un maglione infeltrito. È cosí che mi è venuto da pensare a questa cosa che non avevo mai preso in considerazione: non ci sono mai provviste nel tuo frigorifero. Solo latte. Qualche biscotto. Un uovo. Vecchi rimasugli ammuffiti. Quando sono io a raggiungerti nella tua città, se ceniamo lo facciamo al ristorante. Io mangio poco, quel tanto che basta a far smettere lo stomaco di gorgogliare. Vivevo nel terrore del tuo sguardo sulla mia bocca che si apriva per mordere, masticare, inghiottire. Mi vergognavo delle mie labbra, delle mie papille gustative, della lingua, dei denti, dell’esofago, dello stomaco, dell’intestino. Stavo tentando di trasformarmi in una bambola di gomma senza bisogni cosí volgari e fuori luogo come il cibo o gli escrementi. Eppure, tu non mi hai mai chiesto niente. Non me lo hai mai detto chiaramente, ma io lo so che detesti il sovrappeso, anche su te stesso. Tu non mangi, ti nutri. A volte, all’improvviso ti abbuffi e subito dopo diventi scostante, violento. Sei furioso con te stesso. Molti uomini alla tua età hanno la pancia, le maniglie dell’amore, qualche rotolino di troppo. Il tuo corpo è il corpo di un adolescente. Incavato, teso. A volte ti spiavo mentre ti spogliavi o

ti rivestivi, socchiudevo gli occhi, dimenticavo che hai il viso segnato da una ragnatela di piccole rughe: la tua sagoma era quella di un ragazzino, i glutei piccoli e sodi, i pettorali gonfi, la pancia piatta. Versavo un bicchiere di vino con un’ansia che mi faceva tremare le mani: non ti piaceva vedermi bere. Non ti piace in generale la gente che beve. A me invece il vino piace e mi piace tutto, bianco, rosso, fermo, secco, fruttato, amabile, aromatico, mi piacciono gli aperitivi e i superalcolici, i gin tonic e i margarita, il whisky scozzese e il rhum cubano, mi piace l’ebbrezza iniziale che si accompagna a una visione appena alterata della superficie delle cose, quando sembra che gli oggetti riflettano piú luce. E allora mandavo giú un piccolo sorso, poi un altro. Il tuo sguardo seguiva la traiettoria della mia mano che afferrava il bicchiere, lo portava alle labbra e tornava a posarlo sul tavolo. Insistevo. Ti sfidavo. Una volta, ti ho domandato se avevi mai conosciuto qualcuno che bevesse sul serio, un alcolizzato. Tu mi hai risposto di sí, e allora ho provato a indagare: tuo padre? Non mi hai risposto in modo chiaro. Un po’ beveva, mi hai detto. Poi non hai voluto a nessun costo continuare questa discussione. Ti sei trincerato dietro un mutismo rabbioso e io ho lasciato perdere. Il punto in realtà non era il vino. Come non lo era il cibo. Come non lo era mia madre, che hai detestato con tutte le tue forze dalla prima volta che te ne ho parlato, senza ancora averla mai incontrata. Il punto, era il controllo. Era scattata tra noi quella trappola micidiale che presto o tardi scatta in tutte le coppie: il tentativo di fondersi, di annullarsi l’uno nell’altra, e di fronte alla resistenza che ciascuno nutre per il dissolversi della propria corazza, il conseguente tentativo di disintegrare quella dell’altro, raderlo al suolo, mangiarselo, farlo fuori a morsi, per meglio inglobarlo dentro di sé e renderlo infine inoffensivo. Non ho ancora conosciuto una sola coppia, in tutta la mia vita, che non abbia combattuto – quasi sempre perdendola – questa battaglia. Bere da soli è tristissimo, cosí bevevo mezzo bicchiere, lasciavo che tu finissi tutte le porzioni dai piatti da portata. Restavo immobile ad aspettare che avessi spazzato via ogni briciola, poi mi alzavo e cominciavo a sparecchiare. A volte mi aiutavi, portavi un vassoio in cucina. Ti brillavano gli occhi la prima volta che mi hai vista con il grembiule legato addosso e una spugna in mano. E a me faceva piacere fare delle cose per te. Mi piaceva portarti un bicchiere di latte freddo mentre stavi semisdraiato sul divano,

aprirti il pacco dei biscotti, guardarti mentre prendevi tutto dalle mie mani come farebbe un bambino. Strofinavo le piastrelle, mettevo i piatti nella lavastoviglie, preparavo le tovagliette per la colazione della mattina dopo. Mi faceva piacere. Poi una sera, mentre asciugavo gli ultimi due bicchieri e li riponevo sopra lo scaffale, mi è caduto l’occhio sul divano che intravedevo dalla porta aperta della cucina. Tu eri lí stravaccato, un bicchiere di latte in mano e il televisore sintonizzato su un programma di commenti sportivi, doveva essere una domenica sera. Avevi appena acceso una sigaretta e una nuvola di fumo si stava ingrossando al centro della stanza. Ero esausta. Mi ero svegliata alle otto e avevo dormito malissimo e per tutto il giorno non avevo fatto altro che assecondarti: colazione, passeggiata, musica, sesso, merenda, di nuovo sesso, cena. Ero stanca. La testa mi girava e sapevo che adesso avresti finito di fumare, poi mi avresti fatto un mezzo sorriso e avresti allungato una mano a stringermi il culo e io non avrei potuto dirti di no. Dietro la felicità di tutti quei gesti che avevo fatto per te e che mi era sembrato di fare con una devozione infinita, un’ombra malevola si è affacciata sogghignando. Poi è scomparsa, e ancora è riapparsa. Ho posato le mani sui miei fianchi smagriti, sulle ossa del bacino che spingevano in fuori le tasche del grembiule da cucina e ho pensato: mi sto trasformando insieme al mio corpo. Perdo peso. Mi riduco. Sono una macchina adatta a rigovernare una casa, a indossare tacchi a spillo e minigonna. Sono perfetta come una lavastoviglie, igienica come un detersivo biodegradabile, funzionale come una lavatrice modello sussurro, essenziale come un frigorifero di ultima generazione, economica come un microonde comprato all’Ipercoop, seducente come una tovaglia ricamata a mano dalla nonna. Sono il tuo affare migliore e lavoro duro per convincerti: sto a dieta, faccio ginnastica, mi depilo in continuazione, cambio le lenzuola del letto, accendo incensi e candele, ti preparo la vasca con la schiuma, farcisco arrosti di maiale laccati, vado a fare la spesa per farti trovare le cose che ti piacciono, pulisco la casa, lucido i vetri, mi faccio la messa in piega, sorrido, giro attorno al tuo sesso cullandolo tra le labbra, le mani, lo faccio scivolare sulla pelle, tra i capelli, lo trattengo dentro di me poi lo lascio andare, ancora, e ancora, per ore. Sono tua moglie, la tua domestica, la tua amica del cuore, la tua bambina e la tua prostituta preferita. Tu prendi tutto. Ingurgiti, ingoi, la tua bocca, come la bocca di un neonato, si spalanca in una O perfetta, mi si serra attorno a un capezzolo e mi

svuota, mi spreme, mi prosciuga. Questa è quella cosa che la gente chiama amore. E certo, ero stata io a dirtelo, ricordi? Usami, ti avevo detto quella prima notte, poi tutte le altre notti che sono venute dopo quella. Usami. È questo. Puoi farlo, usarmi. Prendermi come se fossi una qualunque, una della quale non ti importa niente. Una puttana raccolta su una strada provinciale, allo svincolo di un’autostrada. Una di loro. Una delle tante. Queste tante che accompagnano le tue notti, sempre diverse, sempre uguali, sempre la stessa donna. Non importa se bianca, nera, bionda o bruna, giovane o vecchia. Come faccio a saperlo? Non lo so. Eppure lo so. Io so che sei un uomo cosí, l’ho saputo da subito. Dalla prima volta che ti ho visto ho saputo che eri un uomo da puttane, da bordelli, da caccia notturna in strada. Un uomo che paga, che estrae il portafogli e non ha paura o vergogna di chiedere quello che vuole. Uno che conosce i posti, gli orari, le tariffe, le cose che si possono o non si possono chiedere, le specialità. E ho saputo da subito che quest’abitudine faceva a tal punto parte di te che nemmeno lo avresti considerato un tradimento se la tua donna lo avesse scoperto. Anche tu lo sai, che io lo so. È evidente. Eppure, giriamo attorno a questo argomento come si gira attorno alla bocca di un vulcano, ci sporgiamo per guardare la lava e immediatamente ce ne ritraiamo, terrorizzati. Gli uomini non riescono a parlare di queste cose con le donne, o almeno, non con le loro. Pensano che le donne non possano capirli. E infatti no, forse non li capiscono. Ma io sí, io ho sempre capito. Ho strappato confidenze a quasi tutti gli uomini che conosco. Non credo esista un argomento con la stessa potenza esplosiva per le donne, qualcosa di cosí difficile da confidare, qualcosa che si nasconda anche a noi stesse, qualcosa che è impossibile verbalizzare per paura di morire di vergogna. Quelli che ne parlano in modo tranquillo sono pochi, e anche loro comunque in qualche modo se ne vergognano. Hanno paura di quell’urgenza che li spinge fuori delle case, la notte, in strada, a caccia di un corpo da marchiare per un istante e poi dimenticare. Un corpo da possedere, da comprare. Si vergognano di questo, io credo, piú di tutto: del disprezzo che accompagna il gesto di estrarre banconote da un portafogli. Un lavoro va pagato. E meglio il lavoro è fatto, piú volentieri lo si paga. Tu potresti rispondermi cosí. Lo so. Un lavoro.

Ecco, io penso comunque che nel gesto di essere pagati per qualcosa che si è fatto ci sia sempre dell’osceno. Essere pagati. Pagare. È osceno: in un mondo giusto, ciascuno darebbe ciò che sa fare, e lo darebbe cosí, senza chiedere in cambio niente di specifico. E allo stesso modo prenderebbe dagli altri. In un mondo giusto. Ma questo non è un mondo giusto. E paghiamo tutto, e lo paghiamo con disprezzo. Mia madre è stata mantenuta da mio padre per tutta la vita. Casalinga. Dunque non mantenuta, ma pagata per prestare un servizio senza limite orario e non garantito da nessun sindacato: domestica, cuoca, segretaria, assistente, tata, badante, stiratrice, puttana. Queste – e quante altre? – le mansioni di una casalinga. Ancora adesso, la mattina, quando scende al piano di sotto ed entra in cucina per fare il caffè, il primo sguardo di mia madre è per la mensola sopra la quale mio padre prima di uscire lascia, infilate sotto una tazzina, le banconote che devono servire per la spesa. Mentalmente, fa un rapido calcolo delle cose che deve comprare, e già sa che non avanzerà quasi niente. Ogni spesa per sé, dalla crema per il viso a un paio di mutande, è soggetta a contrattazione. Non è mai stata libera, mia madre, di uscire di casa e comprarsi un vestito senza dover rendere conto a mio padre. Gli mostrava i suoi acquisti come una bambina, dopo cena, con l’ansia che lui li trovasse sbagliati, troppo cari, inutili. Vedevo il rossore allargarsi sul suo petto, sul collo, sulle guance, mentre con parole timide cercava di convincerlo che stavolta aveva fatto un vero affare, che quel cappotto, quei pantaloni, quelle scarpe, sarebbero durati molto di piú di una stagione. I soldi, tra mia madre e mio padre, sono sempre stati il centro attorno al quale far ruotare i litigi. L’arma che, se impugnata dal verso giusto, poteva lacerare la carne dell’altro e far vincere la battaglia. Spendi troppi soldi. Chi li porta i soldi in questa casa? Il denaro. I soldi. La pilla. I baiocc. Gli sghei. I ghell. I danee. La grana. Non c’è niente che mi faccia piú orrore dei soldi. Toccarli. Parlarne. Pensarci. Li odio. Li odio perché fin da quando sono nata so che cosa sono i soldi: il diritto di disporre di un altro essere umano, di asservirlo, dominarlo, umiliarlo. E l’amore e il denaro, non possono andare insieme. Le prime volte che siamo usciti, hai pagato quasi sempre tu. Poi ho cominciato a pagare anch’io. A volte, facevamo metà per uno, senza farci troppo caso. Però i soldi sono entrati nei nostri discorsi lo stesso, lo hanno

fatto in modo subdolo, strisciante, poi si sono installati nella nostra vita e non ne sono piú usciti. Mia moglie, mi dicevi, in un mese spendeva dall’estetista quello che io nello stesso mese guadagnavo rompendomi la schiena. Ma lei era ricca, è ricca, ed è stata lei, un giorno, a dirmi che dovevo smettere di fare quei lavori che mi rovinavano e dovevo seguire i miei desideri, cosí mi ha detto: pagherò io per te e tu starai a casa, e farai le tue cose senza preoccuparti piú di niente, sono io che lo voglio, e io ci sono stato, non vedo perché avrei dovuto rifiutare visto che poteva permetterselo. Sí, certo, ricordo di averti risposto, però io non mi farei mai mantenere da nessuno. Mai. È una cosa che non potrei sopportare. Perché, dicevi tu, e ti agitavi, se io avessi bisogno di soldi tu non me li daresti? Se tu avessi bisogno, e io li avessi, te li darei e mi offenderei a morte se tu non li accettassi. Non lo so, ti dicevo, cambiamo discorso, parliamo d’altro, perché proprio di soldi? Tu non sai cosa vuol dire non averne, mi urlavi, non sai cosa vuol dire lavorare davvero, fare dei lavori umili, tu hai fatto l’università, poi le cose ti sono andate tutte per il verso giusto. E io non volevo parlarne, di questo, perché tu non sapevi niente, niente della storia della mia vita, niente della mia famiglia, e anche se quello che dicevi era vero, era vero anche che i soldi mi avevano lo stesso rovinato la vita, perché avevano rovinato la vita dei miei genitori che l’avevano passata appunto, la vita, a rinfacciarsi i soldi che non avevano portato in dote, e quelli che avevano speso male, e quelli che non avrebbero mai avuto e quelli che avevano perso e quelli per i quali si erano indebitati e che non sarebbero mai riusciti a restituire. Tu non sapevi niente. E io non avevo voglia di raccontartelo. Ancora una volta, il tema dei soldi entrava nella mia vita e mi riempiva di schifo. E d’altra parte, la meschinità ormai mi aveva contagiata, e non potevo fare a meno di pensare, ogni volta che capitava che fossi io a pagare una cena, o il cinema, o a fare la spesa per tutti e due, che quei soldi non avrei dovuto spenderli io. Che le donne non dovrebbero mai pagare, visto che gli uomini poi vanno a puttane e le pagano, e dunque, perché mai una puttana dovrebbe essere pagata e io no? Pensieri orribili, disgustosi, che mi avvelenavano il sangue e si legavano morbosi alla gelosia: vedevo la tua mano che estraeva soldi dal portafogli e li depositava sul palmo di una donna sconosciuta. Cercavo di immaginare il viso di quella donna, il suo corpo, e non ci riuscivo. La mia visione si fermava all’altezza di quelle due mani unite

in un gesto che mi dava la nausea: pagare, ed essere pagati. Una volta ti ho chiesto se mi avresti permesso di guardarti mentre facevi l’amore con un’altra. È stato all’inizio, era da poco che ci conoscevamo. Eravamo seduti su un muretto davanti a un bar. In mano avevo un bicchiere brinato di mojito pieno di foglie verde acceso. Doveva essere maggio, forse giugno, questo non lo ricordo, ricordo solo che era una serata tiepida e si sentiva il profumo dei tigli. C’era un sacco di gente attorno a noi con i bicchieri e le sigarette in mano. Probabilmente, un venerdí sera. Venerdí sera in un città di provincia. Tutti a bere, fumare, annoiarsi. Tu mi hai guardata senza dire niente per un po’. Stavi soppesando le parole. Hai bevuto tutto il tuo mojito succhiando dalla cannuccia. Avevi gli occhi lucidi, non sei abituato a bere. Stavi cercando di capire cosa nascondessi dietro quella domanda fatta con tono innocente, un’espressione appena imbarazzata. Se vuoi, mi hai detto alla fine, se vuoi, sí. Poi abbiamo smesso di parlare. È stata quella la notte che ci siamo inseguiti per la città, che abbiamo cominciato a farlo lungo un affaccio sul fiume di un vecchio quartiere popolare poi siamo corsi a casa, in silenzio, con la fretta di spogliarci del tutto. Questa richiesta ha spalancato una porta. Molto tempo dopo, mi sono resa conto che non l’avevi davvero compresa, che avevi pensato che io volessi farmi del male, che il mio desiderio fosse quello di essere umiliata, di provare dolore nel vederti disteso su un altro corpo. Cosa volessi davvero forse in quel momento non lo sapevo con esattezza. Proverò a dirtelo adesso, adesso che sei lontano e che posso parlarti senza la paura di essere fraintesa, e subito mutilata. Volevo due cose diverse: dimostrarti che un amore profondo come quello che provavo per te non poteva essere turbato nemmeno da questo, da un’altra presenza, un altro corpo. Essere con te, di piú: essere te. E volevo vedermi. Vedere me. Come una donna sconosciuta, un corpo sconosciuto, un corpo qualunque che avrebbe potuto essere il mio. Vedermi da fuori, per comprendermi. Riversarmi nella pelle di un’altra, riempirla con le mie sensazioni, fare della sua pelle la mia, del suo sesso, il mio. Allontanandomi da me, finalmente sapere qualcosa di me. Le ho immaginate tutte, queste donne, le ho viste. Conosco la consistenza e il sapore della loro pelle, la forma delle labbra, quella delle unghie, so tutto di loro, so come parlavano mentre le prendevi, come si muovevano, conosco il colore dei loro occhi, quello dei capelli. So tutto.

Non so niente. Immagini mentali che mi ossessionano. Usami, ho detto quella prima notte mentre mi scivolavi dentro con forza, la guancia schiacciata su un cuscino e le dita strette alle lenzuola. Usami. Ma tu non hai capito. Era di sesso che parlavo, di questo. Qui. Il tuo cazzo che si gonfia e che deve svuotarsi. Sangue che affluisce e defluisce. Di questo parlavo e tu hai capito la vita, tutto quanto, prendi e usa tutto quello che ti serve, ma no, non è cosí che si fa, non è certo questo che ti offrivo. Questo non si può offrire mai a nessuno, e ricordati che anche quando lo si fa, perché tutti lo facciamo, è sempre una bugia, detta sottovoce, detta anche a sé stessi.

Questa è una delle stanze peggiori che mi siano capitate negli ultimi tempi, un albergo per rappresentanti e camionisti affacciato sulla tangenziale e piantato come un assurdo fungo di vetro e neon su un viale periferico dove le auto non smettono mai di scorrere. Da questa finestra posso vederle tutte le sere: le vedo quando arrivano, quando partono, quando tornano e ripartono ancora, fino all’alba. Un andirivieni incessante, con intervalli eterni, certe notti. Sono in tre, e quando una macchina accosta al distributore e l’occupante è inequivocabilmente un uomo, e un uomo solo, si muovono in sincrono, prima ancora che lui abbia sganciato la cintura di sicurezza, addirittura prima che si sia accorto di loro e della manovra che stanno mettendo in atto, hanno circondato l’automobile. La prima – non è la piú bella, ma è quella con il sorriso piú largo, e probabilmente anche quella che parla meglio l’italiano – si china piegando la schiena verso il finestrino dal lato del guidatore, quel sorriso bianchissimo che esplode dalle grosse labbra nere, il culo spinto verso l’alto disegna una curva vertiginosa, una spina dorsale flessibile come un tubo di gomma – la seconda ha allargato sul cofano le braccia coperte di pelliccia zebrata, le mani dalle dita ossute, unghie dipinte di viola, si distendono sulla vernice fredda e tamburellano leggere, e la terza, quella piú timida – dev’essere anche la piú giovane, ed è la piú bella – rimane dalla parte destra dell’automobile, il volto accostato al finestrino, gli occhi enormi che fissano con un misto strano di timore e sfrontatezza l’uomo seduto, accerchiato, che adesso si guarda attorno con imbarazzo e non sa cosa deve fare. Certo, deve scendere a fare benzina, ma lo sa cosa accadrà non appena aprirà lo sportello, e forse ha paura. È in quel momento teso di indecisione che la prima gli fa segno di abbassare il finestrino e non si stanca di insistere, sempre con quel sorriso largo aperto sulla faccia, la schiena incurvata, le gambe che si muovono sinuose da una parte all’altra per scuoterlo bene, quel culo, che lui riesca almeno a immaginarlo. La seconda si porta le mani alla pelliccia zebrata e la spalanca sul petto, sotto non porta altro che un reggiseno azzurro, di pizzo, due taglie piú piccolo della sua misura, e resta cosí, con l’aria fredda che le morde la carne, a sorridere a

quell’uomo nascosto dietro un parabrezza impolverato. La terza resta immobile a guardare, i grandi occhi imperscrutabili da divinità bambina. Ogni sera, ogni notte, a ogni automobile che si ferma, la scena si ripete identica. Poi, a volte, una sale sull’automobile e sparisce per un po’. Quando torna, ha il trucco disfatto, e si lamenta a voce alta di qualcosa. Le sue parole sembrano tutte attaccate, senza pause, senza respiro. Non lo so da dove vengono, queste ragazze, da che parte di Africa, Nigeria o forse Camerun, hanno la pelle spessa e nera, le natiche prominenti e labbra enormi. Sono bellissime. E io le invidio. Invidio quella sicurezza nel portamento, quell’alterigia, quella strafottenza. Una di queste sere, rientrando sono passata davanti al distributore, avevo sete e sapevo che nel frigorifero non c’era rimasto niente, era tardi e il bar dell’albergo sicuramente era già chiuso, cosí mi sono avvicinata al distributore di bibite sotto la pensilina per prendere una bottiglietta di acqua minerale. Seduta di fianco al distributore c’era la ragazza con il sorriso largo, quella che attacca sempre bottone per prima. Mi ha squadrata dall’alto in basso, senza smettere di massaggiarsi i piedi. Aveva delle ciabatte di spugna arancione posate davanti a sé. I piedi erano inguainati dentro calze di nylon tutte smagliate, e ho notato che aveva le unghie dipinte di azzurro metallizzato. Non smetteva di guardarmi. Ho infilato la moneta dentro la fessura e ho pigiato il tasto dell’acqua, allora lei mi ha puntato un dito contro un fianco e mi ha detto: anch’io sete, comprami Fanta, Fanta, capito, aranciata. Aveva un tono perentorio. Siccome non rispondevo, ha continuato a pigiarmi il dito nella carne, attraverso lo strato imbottito del piumino sentivo comunque l’unghia affilata e dura del suo dito che premeva. Ho aspettato che la lattina mi rotolasse in mano poi gliel’ho allungata. Siamo rimaste lí ferme, io a bere dalla mia bottiglietta di acqua gassata e lei dalla lattina di Fanta. Faceva schiocchi rumorosi con le labbra a ogni sorso, chiudeva gli occhi per deglutire poi mi guardava con una malizia strana negli occhi. Quando ha finito di bere, si è alzata, ha infilato i piedi nelle ciabatte di spugna e si è allontanata verso il retro del distributore, e quando era quasi sparita nell’ombra, ho sentito la sua voce rauca che diceva: grazie, ciao. Quale di queste tre ragazze somiglia alle donne che tu vai a cercare la notte? La timida, la sfrontata o l’espansiva? Forse tutt’e tre. Quale sceglieresti, tra loro? Cosa pensano queste donne di noi? Di me, che passo di qui con i miei vestiti da impiegata e la ventiquattrore di pelle in mano, di te, e

di tutti gli uomini come te che si fermano e per pochi euro si fanno succhiare il cazzo a un angolo di strada o cercano di scoparle senza preservativo? Credi che ci disprezzino? O che abbiano pietà di noi? Oppure che ci vedano semplicemente come mezzi per raggiungere piú in fretta i loro obiettivi: saldare un debito e sperare di tornare a casa piú in fretta possibile, oppure racimolare abbastanza denaro da mandare a una famiglia lontana che lotta per sopravvivere tra guerre, carestie, Aids? Che cosa passa nella testa di queste ragazze altere che sembrano non aver paura di niente? Eppure, sono lí per la strada, una notte dopo l’altra, a gelare nella nebbia, infagottate in piumini e pellicce sintetiche che sono costrette ad aprire e richiudere per mostrare la mercanzia ai potenziali clienti. Cosa sognano la notte? Si ricordano di noi, nei loro pomeriggi liberi, o quando prendono un autobus, o un treno per raggiungere l’appartamento di una qualche periferia e andare a riposare? Si domandano se il mio sesso sia diverso dal loro, se la mia pelle sia piú morbida e la mia bocca piú piccola, si ricordano la sensazione del tuo sesso dentro di loro, le smorfie che ti deformano il viso quando vieni? Si ricordano i nostri nomi? E le parole che hanno scambiato con noi? Le guardo dalla finestra fino all’alba, in queste notti in cui non riesco a dormire, e penso che forse tu adesso sei in un’altra città dove soffia lo stesso vento freddo che odora di neve e guidi lentamente lungo viali simili a questi, contemplando le loro gambe nude e la curva sinuosa delle loro schiene, sei a caccia, in solitudine, un uomo identico a centinaia di altri uomini, con una sigaretta tra le labbra, il portafogli che scivola fuori dalla tasca dei pantaloni, la radio accesa e una solitudine dentro il cuore che nessuna casa è in grado di scaldare. In balia di quell’appendice di carne che si gonfia di sangue correte per le strade, di notte, a caccia di puttane. Mentre noi stiamo dentro le case, dentro le stanze, a mettere a posto cassetti, ad appaiare calzini, a scrivere pagine di diario, a prenderci cura dei vostri bambini adorati. Noi siamo qui, ad aspettarvi. Non c’è niente che cambi, niente che possa cambiare. È sempre stato cosí, sarà sempre cosí. Un gatto che va in giro nella notte a urlare il suo desiderio, libero, senza vergogna, nudo, e porta il suo desiderio scarnificato nel mondo. Le gatte, chiuse dentro le case, sui terrazzi, nei giardini, aspettano. Non mettono la vita a rischio delle ruote dei camion, delle automobili, non attraversano le strade, non spariscono per settimane, attendono pazienti nel loro angolo di mondo quell’unico bastardo vittorioso che saprà battersi a sangue e dimostrare la sua

virilità, quello che le morderà alla nuca e le metterà incinte per poi sparire e non tornare mai piú. Forse, la mia attrazione sessuale per te deriva proprio da questo: tu sei un uomo che ha avuto molte donne. Le sento sulle tue mani, queste altre, sui polpastrelli, sulla lingua, sulla punta del tuo cazzo. Sei un uomo abituato a scopare puttane, a pagare per farlo. Il sesso per te è merce di scambio. È lavoro, una cosa che si compra. Ti ecciti con il disprezzo. E a me piace questo gioco. Mi piace osservare la vena azzurra sulla tua tempia che si carica di sangue quando mi sei sopra, le braccia puntate sul letto. Il mio corpo un materasso di carne indifferente, che sia io o un’altra non cambia molto. Il tuo sguardo è concentrato nel punto preciso in cui i nostri sessi si incontrano. Non mi guardi mai negli occhi e questo mi piace. Anche tu per me non sei niente. Ti sto usando, allo stesso modo in cui tu stai usando me. La differenza, credo, sta nel fatto che tu non lo sai. Mentre mi sei sopra io ti guardo e penso che sei ridicolo. Tutti gli uomini sono ridicoli. Vi prendete troppo sul serio. Quel fondamentale afflusso di sangue in quella porzione cosí piccola del vostro corpo vi riempie di orgoglio e concentrazione, siete talmente presi che l’autoironia vi abbandona. Per funzionare dovete concentrarvi, e questa concentrazione annulla temporaneamente il vostro intelletto. È in questi momenti che possiamo prenderci gioco di voi, ridere di voi. Nel momento preciso in cui siete convinti di essere piú potenti, proprio in quell’istante lo siete di meno.

Una sera, eravamo in macchina e stavamo tornando a casa mia – guidavi tu – non so come né perché, mi hai enunciato questa teoria: un uomo, dovrebbe sempre avere tre donne. Tre è il numero giusto per non annoiarsi. Un po’ una, un po’ l’altra, poi l’altra ancora. Ovviamente, fuori dal conto ci stanno le occasionali, le scopate di una volta, le puttane. E per una donna, quanti uomini ci vogliono per una donna? Ti ho chiesto. Per una donna è diverso, mi hai risposto. E l’argomento è stato chiuso. Molto piú tardi ho scoperto – no, scoperto non è esatto, ho avuto modo di formulare un ragionevole sospetto, questo è meglio – che per tutto il tempo che era durata la nostra storia avevi continuato a mantenere una relazione con la ragazza che avevi prima di incontrarmi. Probabilmente, nemmeno lei sapeva di me. E tutt’e due, non sapevamo della terza, che chissà chi era, chissà chi è. È importante, questa cosa? Lo è davvero, intendo? Anche io ho continuato a vedere, di tanto in tanto, l’uomo che avevo prima di te. Spesso, quando facevamo l’amore, chiudevo gli occhi e immaginavo lui, ricordavo la consistenza della sua pelle, il sapore della sua bocca, le sue mani. E facevo confronti. Forse è cosí per tutti, se solo avessimo la certezza di non essere scoperti, e quella di non dover provare sensi di colpa lancinanti, lasceremmo molte strade aperte, non ci faremmo chiudere in nessun recinto. Come scriveva Chateaubriand al termine della sua vita a una donna sconosciuta: … Vedi, non sono sicuro che domani ti amerò. Non credo a me stesso. Non mi conosco. La passione mi divora e io sono pronto a pugnalarmi o a ridere. Ti adoro, ma tra un momento, piú di te amerò il rumore del vento tra queste rocce, una nuvola in cielo, una foglia che cade.

L’alternanza potrebbe salvarci tutti. Avere tre vite di ricambio, vivere un po’ qui e un po’ là, scordarsi una pelle per indossarne un’altra, vivere nella possibilità. Ma su ogni amore incombe il desiderio di assoluto, di un tempo unico, coincidente.

Qual è il vero tempo in cui si vive? È il presente? Sono queste cose sotto le dita, queste cose che posso toccare, come il copriletto di cretonne a larghi fiori gialli e bianchi, il bicchiere zigrinato sul cui fondo galleggia una sostanza vitrea e gelatinosa – il resto dell’acqua con le gocce di sonnifero – la mia pelle, calda dove è coperta dall’accappatoio, fresca nei punti esposti all’aria? Il presente: adesso, oggi, domani. Il tempo che mi sta attorno, le settimane, quelle subito prima l’adesso e quelle subito dopo, questo tempo del quale posso con certezza matematica dire che tu non ci sei piú, né ci sarai. Oppure è il passato il vero tempo? Ondate violente di ricordi, detriti, pezzi di legno, una massa compatta trasportata da un’acqua invisibile che viene a depositarsi attorno alle mie gambe e ferisce, taglia, mutila. Cose già avvenute e che continuano a ripetersi dentro la mia testa. Oppure, ancora, è il futuro, il tempo vero? Quella cosa informe, soffusa di una luce violenta, una foto sovraesposta dove esseri umani e alberi e cose appaiono come ectoplasmi? Qual è il vero tempo? Tu sai dirmelo? Sai dirmi se è questo in cui dormo sola, nel tuo lato del letto, con le coperte tirate fin sopra la testa e uno scudo di libri aperti a faccia in giú a proteggermi un fianco? O invece è quello in cui ho una guancia appoggiata alla tua spalla nuda e guardo strisce di fumo disfarsi nell’aria azzurro cupo di un tardo pomeriggio d’inverno?

Dovrò riuscire ad addormentarmi prima della luce dell’alba: alle sette e mezzo devo svegliarmi per andare a lavorare. Ma dormire è difficile. Appoggio la testa al cuscino, da una parte poi dall’altra. Gli occhi restano aperti. Allungo un braccio alla mia sinistra, e lo lascio lí, steso sull’altro cuscino. Vuoto, e freddo. Quindici gocce di Lexotan versate direttamente sotto la lingua, un sorso d’acqua. Quel sapore di caramella chimica che si diffonde sul palato. Penso alle centinaia e migliaia e milioni di persone nel mondo che stanno facendo lo stesso identico gesto: nelle loro stanze, o in stanze d’albergo, da soli, o di fianco a qualcuno che sperano di dimenticare nel giro di qualche minuto, milioni di infelici che domattina si sveglieranno con un retrogusto di lampone avariato in bocca e faranno la doccia e correranno in un ufficio, una fabbrica, un negozio, davanti a un monitor, un registratore di cassa, un bancone di supermercato. E non ricorderanno di aver fatto nessun sogno. Questa stanza è atroce. Un letto singolo rigido e stretto come una bara. Le lenzuola sembrano di carta, le tubature ronzano, ci sono gomitoli di polvere nera incastrati negli angoli. Fuori dalla finestra, una porzione di cortile grigio e sporco, panni stesi che sbattono forte, piú oltre la strada. Un viale largo, senza alberi, tutto saracinesche abbassate e cartacce per terra. C’è molto vento, un vento che fa odore di mare, e una luna strana, mezza mangiata. Ci sono un uomo e una donna che litigano. Hanno dei sacchetti del supermercato appesi agli avambracci e gridano fortissimo pur parlandosi faccia contro faccia, le bocche spalancate come quelle di due ragni intenzionati a mangiarsi la testa l’un l’altro. All’inizio, è solo il tono di voce, piú alto del normale, convulso, le sillabe che si accavallano. Mi affaccio alla finestra ma da qui sento solo le voci. Una voce femminile, stridula, lamentosa, e una maschile che si difende, che arretra. Cerco di sporgermi, ma da questa posizione non riesco a vedere altro che il guinzaglio di un cane che si allontana lungo il marciapiede e strattona il filo. È un cucciolo giallo con le orecchie lunghe da lupo, ha le zampe grosse su garretti ancora troppo sottili. Accendo una sigaretta, riempio il bicchiere di vino, appoggio i gomiti al davanzale, eccoli,

adesso riesco a vederli. La ragazza ha i capelli ricci e scuri raccolti sulla nuca con una grossa pinza arancione, una canottiera nera che lascia scoperte le spalle, pantaloni verde militare, gli anfibi, e lui indossa una felpa rossa, i capelli corti davanti e lunghi dietro. Lei gli si butta addosso e lui perde l’equilibrio, ondeggia sugli anfibi slacciati, i sacchetti di plastica appesi agli avambracci oscillano avanti e indietro. A un certo punto, l’uomo colpisce la ragazza, uno schiaffo tremendo, in pieno viso, che risuona violentissimo nell’aria. Lei vola per terra, sbatte la testa contro un gradino del marciapiede. Urlo, uno scatto di tutto il corpo che mi slancia in avanti come se davvero fossi in grado di volare fuori dalla finestra e raggiungerli lí dove stanno, per portare pace, aiutarli. Soffoco l’urlo con una mano. Resto a guardare: lei si è rialzata, si è messa a posto i capelli lisciandoli con il palmo delle mani, lui ha sistemato sugli avambracci le sportine del supermercato, tastandole per controllare che il contenuto sia ancora tutto intero. Si guardano a lungo negli occhi, l’uomo e la donna, poi vanno via a braccetto, insieme ai loro sacchetti e al cane giallo che li segue contento. Il batticuore non mi lascia. Sono furiosa, furiosa con la donna che gli ha permesso di picchiarla in quel modo, furiosa perché la gente che passava lungo il viale ha fatto finta di non vederli, quei due. Li ha lasciati da soli. Poi mi domando, ma non è precisamente questo quello che volevano: essere lasciati soli al loro delirio amoroso? Neanche il Lexotan funzionerà, stanotte. Rimarrò con gli occhi sbarrati nel buio a contare le pecore, a ricordare ogni dettaglio. Stamattina, quando mi sono svegliata pioveva. Era una pioggia sottile, e le strade facevano odore di ruggine. Loro erano lí, davanti alla saracinesca del cinema, abbracciati, e dormivano. La ragazza si stringeva al corpo di lui e il cane stava raggomitolato al loro fianco. I sacchetti erano impilati in un angolo della serranda e la bottiglia di plastica piena di vino era lí appoggiata. Sembravano tranquilli. Come se dormissero su un futon giapponese dell’Ikea nella stanza di un appartamento. Ho camminato a lungo, ho quasi attraversato la città per arrivare qui, al Tempio della Fortuna del Giorno Presente. È questo il posto dove ci siamo rincontrati dopo mesi di silenzio. Quando sono arrivata, non ti ho visto subito, eri nascosto dietro le cabine del telefono e io ho guardato giú, il regno di ruderi dove una colonia di gatti vive placidamente indifferente al rumore degli autobus, dei taxi, delle macchine che invadono largo Argentina a ogni

ora del giorno e della notte. Li ho invidiati, come invidio sempre gli animali, la loro quieta indifferenza. Sono rimasta ferma per un po’ a guardare quella distesa di manti al sole, un sole pallido, invernale, poi ti ho visto, avevi un’espressione tirata e mi sei sembrato mortalmente stanco, le occhiaie, le piccole rughe attorno agli occhi piú nette. Indossavi un maglione che ti avevo regalato io, un grosso maglione di lana norvegese, ruvido, troppo grande, che ti cadeva un po’ dalle spalle. Io avevo i capelli raccolti quel giorno, il collo esposto – una specie di segnale di resa, a ripensarci adesso. Mi sei venuto incontro senza sorridere. Tremavamo entrambi e non ci siamo nemmeno sfiorati. Siamo entrati nel primo bar e abbiamo aspettato che ci portassero un caffè prima di cominciare a parlare, tu guardavi le mie mani, io le tue, e a un certo punto ti ho toccato. È cosí che è ricominciato tutto. Le parole, il desiderio, l’amore. Mi è bastato sfiorare le vene blu in rilievo sulla tua mano, stringere tra le dita il tuo polso e sentire quel battito denso, regolare. Molto tempo dopo, mi hai detto che mentre mi aspettavi, quel giorno a Roma, avevi scritto sul tuo taccuino questa frase: ci amiamo, malgrado tutto. Malgrado tutto, a dispetto di tutto. E davvero forse l’amore è proprio questo. Qualcosa che va contro ogni logica, contro ogni convenienza, ogni riflessione, ogni senso, ogni buon senso. È il pulsare rapido di una vena sotto le dita. Un tono di voce che nessun altro saprebbe interpretare. Abbiamo camminato. A lungo, senza quasi parlare. Le nuvole di uccelli si infittivano mano a mano che ci avvicinavamo a Termini. Di nuovo, avevo la sensazione che nessuna persona al mondo fosse mai stata tanto vicina al mio nucleo, una sensazione di ineluttabilità, di destino, e allo stesso tempo, uno strappo continuo che mi faceva sanguinare. Tu eri la mano che entrava dentro di me come sembrano fare le mani dei guaritori filippini, senza bisogno di bisturi, soltanto facendo pressione sulla carne, ma eri anche incapace di gestire quel potere, tanto quanto io ero impotente di fronte all’avanzare delle tue dita dentro i miei tessuti: se ti avessi lasciato continuare sarei morta dissanguata. Meglio vivere cosí, come vivo ora, come ho sempre vissuto, senza squarci, senza niente di troppo vicino agli organi vitali, oppure morire dissanguati? Non lo so, è per questo che ho scelto la via di mezzo: lasciarti avanzare di un millimetro poi allontanarmi. Ma naturalmente non è servito, all’amore ripugnano le vie di mezzo. Vuole bruciare. Vuole tutto e subito,

anche a rischio di estinguersi.

La luna ormai è davvero scomparsa. All’improvviso, dopo la fase calante, tutte le volte è come se non ci fosse mai stata. Non ci si accorge piú che è lí, da qualche parte, dietro gli alberi, i tetti delle case. Non viene neanche piú in mente di sporgersi dalla finestra a cercarla. Ci si rassegna. Si aspetta quella nuova, la piccola falce brillante e fredda. Quella bianca. Dovrò fare cosí. Smettere di cercare le tue tracce in questo letto d’albergo. Non è rimasto niente. Un caricabatterie del telefonino. La busta verde rossa nera delle cartine. Un preservativo usato. Il collutorio verde. Un bagnoschiuma capovolto, finito. C’è una frase di Josif Brodskij che dice che «dopotutto, un oggetto è ciò che rende privato l’infinito». Forse ogni storia d’amore, e quindi anche la nostra, potrebbe essere raccontata attraverso degli oggetti, oggetti regalati, oggetti passati di mano in mano, oggetti casualmente entrati dentro la vita di due persone, la nostra, poi installatisi lí per sempre o solo per un po’. Oggetti che sono rimasti muti, impassibili come lari, a osservare l’andirivieni dentro una casa, i litigi, le riappacificazioni, oppure oggetti attivi, che hanno segnato momenti importanti, gesti d’amore, oggetti scagliati contro un muro in un impeto di rabbia, oggetti riposti in uno scatolone per non doverli piú vedere una volta che la storia fosse finita, oggetti posati sul lato vuoto del letto, per far compagnia a quello dei due che sia rimasto solo. Un orologio blu, un grosso maglione di lana grigia, un foulard giallo e nero, un tagliaunghie di acciaio inossidabile, le custodie delle cartine, un’agenda, qualche disco, qualche libro. Un ciondolo d’ambra spezzato. Un sasso. Un orologio rosso regalato a un’altra donna. Una fotografia strappata poi rimessa in un cassetto. Se la nostra storia finisse oggi – o fosse già finita – queste sarebbero le cose che le sopravvivrebbero. Nient’altro. Nient’altro. Tutto il resto. Uscirò da questa stanza nella quale tu mi hai raggiunta e poi lasciata, e andrò nel mondo a fare quello che devo fare. La cameriera entrerà e si muoverà sicura, raccattando, spolverando, ammucchiando e reimpilando. E

quando tornerò, non sarà rimasto niente.

Quand’è stato il momento preciso nel quale ho cominciato a odiarti? Il momento preciso nel quale, di fianco all’amore, è comparso il doppio, la sua ombra segreta? Non riesco a ricordarlo. Non c’è un momento preciso, è uno stillicidio di momenti. Uno sguardo gelato che ha tramutato di colpo la tua espressione. Ecco, ora ricordo. Ne ricordo uno, di quei primi momenti. Eravamo a letto e io ero sopra di te, i miei capelli ti ricadevano sul viso, sulle spalle, li hai scostati con un gesto infastidito, hai cercato di raccogliermeli dietro la nuca, di annodarli. Ho continuato a muovermi sopra di te. Tu mi hai afferrato i fianchi e ti sei mosso piú velocemente, ho riso, mi sono staccata da te, scusami, devo fare pipí, ti ho detto. È stato in quel momento che il tuo sguardo è cambiato. Sei diventato scostante, la rabbia ti faceva tremare la voce. Cosí, senza nessun motivo. Almeno, io il motivo non l’ho visto, non ho sentito niente, solo una distanza terribile che si apriva tra di noi, una voragine assurda, terra spaccata da un terremoto, una crepa cosí profonda che a sporgersi in avanti, e a guardarci dentro, non si riusciva a vedere altro che nero, buio. Dev’essere stato il giorno prima, la notte prima forse, che mi avevi letto una frase da un libro di Fassbinder – libro che era mio poi è diventato tuo poi di nuovo mio e infine ha ritrovato la strada verso Berlino, la città nella quale presumibilmente erano state scritte quelle pagine, grazie all’amica alla quale l’ho regalato per liberarmene, perché i tuoi segni a matita e le tue considerazioni a stampatello, in inglese, mi facevano stare male solo a pensarci, solo a vedere la copertina o il dorso rosato in mezzo allo scaffale mi sentivo soffocare. E fu cosí che dalla prima divergenza d’opinioni insignificante non ci fu piú un noi. Profetica quella frase che avevi segnato a matita. Un noi infatti non c’è stato piú. Abbiamo cominciato a sondare quella crepa che si era aperta, a valutarne l’ampiezza e le possibilità di distruzione future: come per ogni coppia di amanti era arrivato il momento inevitabile in cui di colpo nel volto dell’altro non si riconosce piú l’oggetto del nostro amore. Un mistero quello

che ci ha condotti qui, in questa stanza che ora ci appare odiosa, con questo sconosciuto che ci riempie le dita di rabbia e ci fa battere il cuore di paura, di disperazione. Com’è stato possibile sbagliarsi cosí? Da cosa siamo stati distratti, incantati? Qualcuno una volta mi ha raccontato la storia di una donna che si era appena sposata. Lei e il marito si trovavano nella cuccetta di un vagone letto di un treno sparato nel buio. Hanno fatto l’amore, era la prima notte di nozze, ma certo non la prima volta che lo facevano, e quando hanno finito e sono rimasti lí sdraiati in silenzio a farsi sballottare sulla cuccetta dai sussulti della carrozza, alla luce della luna che entrava dai finestrini, la donna lo ha guardato, quell’uomo che da poche ore era diventato suo marito, l’ha guardato e si è detta, ma chi cazzo è questo? Chi sei? E io, che ci faccio qui? La mattina dopo, a destinazione raggiunta, ha ripreso il treno nella direzione opposta. Mi sono sbagliata, gli ha detto, su di te, su di noi. Ti chiedo scusa. Non si sono mai piú rivisti. È finita cosí. Non credo di aver dormito, quella notte. Sono rimasta distesa sul tuo letto, immobile sulla mia porzione di materasso, alla tua sinistra. Avrei voluto scappare. Andarmene e non farmi piú vedere. E invece sono rimasta. Ho aspettato l’alba. Ho ascoltato il tuo respiro che lentamente si faceva piú fondo e scuro. Il tuo corpo addormentato attraversato da scosse elettriche violentissime. È solo un momento, ho pensato. Succede, non si può sempre essere coincidenti, nelle emozioni, nei pensieri. Capita. Capita anche a me di provare moti di rabbia improvvisi, lotte interne che si scatenano senza motivi apparenti e che mi rendono odioso tutto quello che ho attorno. Domani mattina, ho pensato ancora, si sveglierà, e sarà riposato, e tranquillo, faremo il caffè, metteremo su un disco di musica brasiliana e lui canterà davanti alla finestra, o forse si sarà già svegliato quando mi sveglierò io, e sarà uscito, avrà fatto la sua passeggiata, comprato le paste, e i giornali, e il sole splenderà e dalla finestra, in lontananza, siccome il cielo sarà limpido e l’aria fresca, riuscirò a vedere il profilo dei colli. Tutto sarà di nuovo normale. Non ricordo com’è stata quella mattina. So solo che niente è stato piú come prima.

Il Pantheon è il monumento meglio conservato della Roma antica, ha attraversato quasi indenne secoli di Storia. Prova a immaginare i capomastri e i loro operai: schiere di liberti, e schiavi, che lavorano fianco a fianco a quelle altezze vertiginose. Sette anni di lavori. E la rotonda, che un anello dopo l’altro, un contrafforte dopo l’altro, come ruotando sale misteriosamente verso il cielo. E infine la cupola, enorme, fatta di scaglie di tufo, frammenti di mattoni, scorie vulcaniche di poco piú pesanti dell’aria. E nonostante la fragilità dei materiali, la resistenza. È il progetto a contare, la costruzione, come i materiali poggiano gli uni sugli altri, come si amalgamano. Forse, vale la stessa cosa anche per i rapporti d’amore. Cosa c’è di piú fragile dei sentimenti? Perché durino è il progetto a contare, la costruzione, non i materiali iniziali; anzi la genialità sta proprio nel riuscire a inventare un progetto capace di supplire alle mancanze basilari. Noi non siamo stati capaci neanche di costruire un’impalcatura. Ci siamo arresi subito: i mattoni ancora allineati da una parte, e le nostre minuscole e taglienti scaglie di tufo sulla lingua. Ma il Noi, amore mio, non è mai stato, mai esistito. Non esiste un Noi, solo un Me + Te, un Io + Tu. Noi è una fusione impossibile. Tra Me + Te, Io + Tu, c’è un corpo a corpo e un testa a testa.

Da dove viene questo freddo? Questo filo d’aria sottile che mi avvolge le spalle come un abbraccio e non mi lascia, gelido nei venti gradi di questa notte di novembre, a Roma, l’autunno piú caldo dal 1886, cosí dicono i telegiornali, come l’anno scorso, a luglio, dicevano che era l’estate piú calda dal 1756. Oggi camminavo per le strade avvolta dai fumi pestilenziali dei gas di scarico, urtata di continuo dai passanti, turisti ubriachi di vetrine, di prêt-àporter italiano, di pellami e cuoio morbido, di Storia, architettura, nauseati da quintali di arte fagocitata insieme alle pizze al taglio, ai gelati, agli spaghetti alla bolognese – ma cosa sono gli spaghetti alla bolognese? – e sudavo, le cosce roventi dentro i pantaloni leggeri, un filo d’acqua che mi scivolava lungo la schiena. Fa caldo anche adesso, ma io ugualmente avverto un gelo invisibile stringermi le ossa. Ripenso all’ultima volta che ci siamo abbracciati. È stato davanti alla stazione della mia città. Mattina di un giorno feriale, freddo, cielo piatto e bianco, neve in arrivo. Macchina parcheggiata in terza fila, nervi a fior di pelle per un orribile litigio. Te ne stavi andando e io forse già sapevo che non ci saremmo piú rivisti. Mi hai abbracciata, mi hai detto: non è niente, mentre le lacrime rabbiose che avrei voluto vomitarti addosso sono scivolate sulle mie guance e si sono sciolte. Non è bastato quell’abbraccio, amore mio, a cancellare le cose orribili che ci eravamo dette quella mattina. Non è bastata quella dolcezza improvvisa, l’odore della tua pelle, il colore dei tuoi occhi che per un istante si è scaldato, a farmi tornare indietro. Dopo una settimana sono partita ed è come se non fossi piú tornata da quel viaggio. Ti avevo promesso che sarei stata con te molto presto, che non appena avessi potuto sarei corsa a raggiungerti nella città dove andavi per concludere un lavoro e che ti sarei stata vicina in quella che per te era un’occasione importante: il risultato di uno sforzo durato mesi, una cosa cui tenevi moltissimo. E invece. Invece ho buttato il biglietto aereo prepagato che avrebbe dovuto portarmi da te, e quella mattina in cui il mio volo da Parigi doveva raggiungere la città in cui ti trovavi, sono rimasta a letto nella mia stanza di un hotel del 14° Arrondissement a guardare i vetri rigati di pioggia e la Tour Montparnasse avvolta dal vento violentissimo di un temporale di fine

marzo. Quando la tempesta si è placata, sono uscita e sono andata a camminare al cimitero di Montparnasse. Mi sono fermata davanti alla tomba di Marguerite Duras, semplice pietra grigia, piccoli sassi posati dai visitatori, qualche fiore secco. Ho cercato, senza trovarla, la tomba di Samuel Beckett, e ho pensato che era giusto cosí, che Beckett, anche in vita, certo non era uno che voleva essere trovato, ho inseguito un bambino che giocava tra le lapidi e rincorreva una palla tra gli sguardi severi di donne anziane con le braccia cariche di fiori. Un uomo mi ha sorriso, ho capito che avrebbe voluto parlarmi ma io ho abbassato lo sguardo e ho continuato a camminare. Tra i viali bianchi e le tombe bianche e i fiori bianchi, stretta nella mia giacca troppo leggera, ho pianto, perché sapevo che un amore come il nostro non l’avrei avuto mai piú nella vita, e nonostante questo, ero incapace di abbassare la testa e accettarlo, di assumermene il peso. Quanto è piú facile vivere al fianco di qualcuno che non si ama di un amore cosí disperato, quanto è piú facile sopportare le mancanze, la noia, la prevedibilità di altri amori. A te, non ho potuto perdonare niente. O forse, non si può mai perdonare niente a nessuno che dica d’amarci.

E cosí sono tornata qui. Il posto è questo. È sempre stato questo: un bar vicino alla Stazione Termini, sotto un portico, con i tavoli abbastanza lontani gli uni dagli altri da permettere agli avventori di parlare con il proprio interlocutore senza la paura di essere ascoltati. Qui c’è uno specchio che ancora conserva il mio riflesso di un tardo pomeriggio d’inverno, i capelli scompigliati dal vento e gli occhi rossi. Sotto questo porticato dalle colonne quadrate, grigie, sotto lampioni di vetro rotondi come lune piene. Tavolini di metallo pieni di ditate e sedie di plastica gialla. Adesso, solo tavolini affollati di turisti, famiglie nordiche con bambini tutti uguali che mangiano pizza e gelati, signore di mezza età che bevono cappuccino. Nessuno di loro sa niente di noi. Di me. Di te. Nessuno, a parte lo specchio, sa niente delle mie lacrime di un tardo pomeriggio di inizio dicembre, quando ci siamo ritrovati dopo mesi di silenzio e tu le hai asciugate con un dito mentre ti confessavo che ero tornata con l’uomo che avevo prima di te. Non ho niente da perdonarti, mi hai detto. Anche tu, probabilmente, eri tornato con quella che c’era prima di me. Non ha nessuna importanza adesso, hai detto ancora. Gli uccelli – limatura di ferro su un foglio spostata da sotto con una calamita – volavano in nuvole nere sopra la Stazione Termini. Il mio treno sarebbe partito tra poco e tu saresti rimasto. È stata quella l’ultima volta che ci siamo incontrati a Roma. Ti ho chiesto di non accompagnarmi al binario e tu mi hai baciata senza dire niente, poi ti sei allontanato da me senza piú voltarti indietro.

Se non avessi avuto questo amore, non avrei mai conosciuto l’amore, mi dico. Ma se non avessi avuto questo amore, non avrei nessun rimpianto, non ci sarebbe nessun ricordo capace di ferirmi cosí in profondità. Se non avessi conosciuto questo amore, e dunque te, sarei piú libera, oppure lo sarei meno? Forse semplicemente continuerei a non sapere niente dell’amore. E invece, qualcosa lo so. So che passa. So che finisce. Che si delude. Illude. Corrode. Che evapora. Che è una pozzanghera d’acqua limpida, e poi sporca. Che è un liquido fatto di umori corporei. Che è cattiveria. Dolcezza. Che credi sia finito e poi torna. Che è indistruttibile. Anche se si sfibra ogni secondo che passa. So che è imprendibile. E che non si può dire.

L’unica finestra aperta al quarto piano dell’albergo Nazionale oggi pomeriggio era quella della 411. La tenda grigio perla, pesante, si muoveva al soffio del vento. Tutte le altre persiane erano serrate. Mi sono seduta su un gradino sotto l’obelisco, e sono rimasta lí a lungo, a guardare. Due turisti americani – una coppia sulla trentina, tutti e due biondi e grassi, sudati, con le facce lisce, rosse di caldo, annoiate – si sono seduti di fianco a me. Mangiavano il gelato. Zaffate di pistacchio e cioccolata sciolti. Sopra il tetto dell’albergo, un cielo sfumato di nuvole azzurre con strisce color sangue. Da quella porta di legno lucidato siamo entrati e usciti insieme. Cerco di ricordare quanto tempo esattamente sia passato dall’ultima volta, ma non riesco a concentrarmi, persino il ricordo del tuo viso sta sbiadendo nella memoria. I due americani continuano a mangiare il gelato e il suono della cialda morsicata masticata e inghiottita mi irrita, mi distrae. Penso a cosa si diranno questa sera quando rientreranno nella loro stanza d’hotel, distrutti dalle ore di cammino, dalla quantità di cose viste e sentite, dalla pesantezza di una giornata a due quando non si ha piú niente da dirsi. Cerco di immaginare come si spoglieranno, vedo i loro corpi grassi e bianchi distesi sulle lenzuola fresche di bucato di un letto matrimoniale. I gesti che faranno. Se si avvicineranno l’uno all’altra oppure resteranno distesi a pancia in su, le dita dei piedi gonfie puntate verso il soffitto. Nessun desiderio a scuoterli. Nessun pensiero diverso dalla cena e dagli impegni della giornata successiva. Immagino la noia. La delusione. La pena. E forse sbaglio tutto. Il mondo – suoni, presenze, movimenti, luce, storie – continua a esistere. Non c’è modo di annullarlo. Perfino qui, dentro questa stanza blindata di un albergo, doppi vetri alle finestre, porta chiusa a chiave, silenzio notturno di corridoi e stanze piene di gente addormentata, le voci là fuori continuano a parlare. A raccontare storie che io non posso non ascoltare. Penso a quello che ci siamo lasciati scivolare di mano. Come tutti gli avari avremmo voluto di piú poi di piú e ancora di piú, abbiamo voluto cosí tanto che il tanto si è trasformato in troppo e siamo rimasti a mani vuote.

Mi affaccio alla finestra. Quarto piano. Piazza deserta. Le solite guardie armate. Penso: voglio restare chiusa dentro questa stanza fino alla fine dei miei giorni. Guardare il mondo, ascoltare le sue voci, le voci dei passanti, dei turisti, voci di ubriachi che passano battendo i tacchi sui sampietrini e inciampano, bestemmiano, ridono tra le urla, alzano il medio alle guardie armate, gli fanno le boccacce. Turisti americani, francesi, inglesi, giapponesi, turiste con i sacchetti di Prada appesi agli avambracci. E io qui. Affacciata a questa finestra, per sempre. Al centro esatto di questa città immensa, sfibrata, corrosa, finita. Indistruttibile.

Ti aspetto. Ti ho aspettato per anni. Ogni volta sei entrato da quella porta, un’altra porta, la stessa. Sempre porte con il numero tatuato sul dorso, cardini oliati o cigolanti, battiscopa lucidati, zigrinati, pieni di polvere. Sei entrato senza bussare, hai bussato, hai sfondato il legno, l’hai preso a calci, picchiettato con le nocche. Ti ho aperto, hai aperto da solo. Eri diverso. Lo stesso. Un altro ancora. Sempre un uomo. Eri alto, eri basso. Avevi gli occhi azzurri, gli occhi scuri, la bocca carnosa, i denti bianchi, avevi la dentiera, avevi venticinque anni, ne avevi cinquanta, trentasette. I tuoi capelli erano grigi, a volte biondi, castani, avevi il cranio rasato a zero. Eri un uomo. E io ti amavo. Ti aspettavo, ti telefonavo, ti imploravo, ti mentivo. Ridevo di te. Ti prendevo per il culo in segreto. Contavo i tuoi difetti sulla punta delle dita, non ci stavano sulle mani tutte le tue imperfezioni. Eri sempre sbagliato. Sempre giusto. Avevi ragione e avevi torto. Ogni volta, hai voluto mettermi in ginocchio e giocare al marito e alla moglie. Mi hai martoriata con le tue richieste mute, mi hai voluta diversa, uguale a un’altra, simile a un sogno, ragazza da pubblicità, donna in carriera, mi hai voluta piú magra, con piú tette, piú grassa, mi hai voluta con l’abbronzatura, mi hai voluta pallida, santa o vestita da puttana. Mi hai travestita. Sporcata. Ripulita. Mi hai stancata. Ora basta, esco da questa stanza, butto per terra l’accappatoio bianco, infilo gli stivali, afferro la giacca, la borsa. Mi chiudo la porta della 411 alle spalle. Stivali, giacca e borsa. Tutto il resto lo lascio. Si può fare a meno di tante cose, ormai questo lo so: senza qualcosa, senza molto, senza moltissimo, lo stesso si può sopravvivere. Le funzioni essenziali continuano a compiersi, come nei corpi, che sopravvivono anche mutilati. Mutilati dal di dentro. Mutilati fuori. Il cuore, in qualche modo, continua lo stesso a battere. Il portiere di notte mi guarda con un sopracciglio alzato, ma prima ancora

che abbia la possibilità di separare le labbra, io alzo una mano verso di lui, buonasera, gli dico, e mi infilo nella porta girevole. Cammino per piazza di Montecitorio deserta e mi specchio in una pozzanghera. È una pozzanghera rotonda, la stessa forma della luna. Non mi ero neppure accorta che stesse piovendo, e infatti non piove, deve aver smesso da poco, una pioggia breve, improvvisa. Le guardie davanti al portone del Palazzo si scambiano segni agitati, poi uno dei due scuote la testa. Sí, sono inoffensiva, sono solo una donna che cammina spedita per le strade di una Roma spettrale poco prima che arrivi l’alba. Il Pantheon è lí. Immobile. Il portone sbarrato. Il pronao avvolto nell’ombra. Le colonne grigie ancora piú immense e spaventose, nel buio. L’ultima volta che ci sono entrata stavano facendo dei lavori di restauro. C’era un’impalcatura enorme, tutta bianca, che copriva per metà l’oculus, lo accecava. Il tempio era mutilato, la magia sospesa.

Vedi come sono le lettere: avanzano in cerchi concentrici, eludono la trama, mescolano i tempi. Sono appunti di guerra. Schemi di battaglia scarabocchiati su un pezzo di carta. Sono irritanti le lettere, ma che male possono fare, alla fine? Sono solo parole.

Questa storia è già finita. Ti ho amato piú di quanto abbia mai amato chiunque, ti ho amato piú di tutto. Ho amato un uomo che non esiste. L’altro che tutti aspettiamo da sempre e che non può arrivare.

Elenco dei testi citati. François-René de Chateaubriand, Amore e vecchiaia, a cura di Ludovica Cirrincione D’Amelio, Biblioteca del Vascello, Roma 1993. Rainer Werner Fassbinder, I film liberano la testa, trad. di Roberto Menin, Ubulibri, Roma 1998. Jean Genet, L’atelier di Alberto Giacometti, trad. di Massimo Raffaeli, il melangolo, Genova 1992. Philip Larkin, Finestre alte, a cura di Enrico Testa, Einaudi, Torino 2002. Ovidio, Lettere di eroine, a cura di Gianpiero Rosati, Rizzoli, Milano 1989. José Ortega y Gasset, La scelta in amore, trad. di Elena Carpi Schirone, Se, Milano 1997. Georges Simenon, Tre camere a Manhattan, trad. di Laura Frausin Guarino, Adelphi, Milano 1998. Wisława Szymborska, Taccuino d’amore, a cura di Pietro Marchesani, Scheiwiller, Milano 2002. Ludwig Wittgenstein, Movimenti del pensiero. Diari 1930-32 / 1936-37, a cura di Michele Ranchetti e Francesca Tognina, Quodlibet, Macerata 1999.

Il libro

D

ENTRO LA STANZA

411 CI SONO POCHE COSE.

Una valigia. La mia. Il tuo zaino nero. Gli abiti che indossavamo oggi appesi nell’armadio e sulla spalliera di

una sedia. Siamo in due. Tu sei un uomo. E io sono una donna. È la prima volta che lo penso. Degli altri, quelli che sono venuti prima di te, pensavo: ragazzi. Di me davanti a loro, pensavo: bambina. Una donna si guarda allo specchio, nuda in una stanza d’albergo, al centro esatto della città di Roma, a pochi passi dal Pantheon. Come la Shahrazād delle Mille e una notte, inizia a raccontare una storia, rivolgendosi a un uomo. Racconta la storia di un amore, il loro, ma potrebbe essere benissimo un altro. La storia viene ripercorsa in tutti i suoi momenti, nella nascita della passione, nella voglia di lei di abdicare a sé stessa donandosi a lui, nella scoperta della violenza e del rifiuto. Una storia che somiglia a una confessione, ma è misteriosa come l’architettura di un tempio pagano. Dalla vincitrice del Premio Campiello 2016, un’educazione sentimentale per l’età che aveva rinunciato ai sentimenti. Due esseri umani si incontrano, si desiderano, provano a mettere insieme le loro vite contro ogni logica e convenienza. E come molti falliscono. È la voce di lei – scarnificata, precisa, sincera – a raccontare una storia d’amore che è anche la storia delle nostre paure, delle nostre aspettative, della manipolazione che cova in ogni rapporto, dell’impossibilità di conoscersi davvero fino in fondo, e del bisogno ostinato di crederci, nonostante tutto.

L’autrice SIMONA VINCI

è nata a Milano nel 1970 e vive a Bologna. Il suo primo romanzo,

Dei bambini non si sa niente (Einaudi Stile Libero 1997), ha riscosso un grande successo: caso letterario dell’anno, è stato tradotto in numerosi Paesi, tra i quali gli Stati Uniti. Sempre per Einaudi Stile Libero sono usciti In tutti i sensi come l’amore (1999), Come prima delle madri (2003), Brother and Sister (2004), Stanza 411 (2006), Strada Provinciale Tre (2007), La prima verità (Premio Campiello 2016) e Parla, mia paura (2017).

Della stessa autrice Dei bambini non si sa niente In tutti i sensi come l’amore Come prima delle madri Brother and Sister Strada Provinciale Tre La prima verità Parla, mia paura

© 2006 Simona Vinci. Published by arrangement with Agenzia Santachiara © 2006 e 2018 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino Progetto grafico di Riccardo Falcinelli. In copertina: illustrazione di Elisa Talentino. Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo cosí come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche. Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo. www.einaudi.it Ebook ISBN 9788858429075