Soggetti eccentrici

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Soggetti eccentrici

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Per Si.

Introduzione

I saggi qui raccolti, scritti in occasioni diverse tra il 1987 e il 1998, hanno in comune una tematica -i rapporti tra corpo, genere, sessualità e soggetto - e una problematica: in che termini parlarne oggi, dopo quasi trent'anni di ricerche, dibattiti, proposte, interventi, revisioni e neologismi tramite i quali si è venuto costituendo un nuovo campo del sapere, quello che oggi, in Europa, è detto studi sul genere o gender. Anche in questi saggi dunque si tratta, si parva licet, "di mettere in luce i principi e le conseguenze di una trasformazione autoctona che si sta realizzando nel campo del sapere storico", 1 sia pure in un periodo di tempo molto più limitato. Traendo esempio da Foucault, anch'io tento "di definire lo spazio bianco da cui parlo e che lentamente prende forma in un discorso che sento ancora tanto precario, incerto". 2 Accomuna questi saggi, quindi, anche un bisogno di chiarire, di raccontare, di fare memoria. Due di essi - il primo e il terzo - lo assecondano, ripercorrendo testi e contesti con una carrellata, uno sguardo d'insieme retrospettivo. Il secondo e il quarto mettono in primo piano una questione particolare o un caso specifico. I primi due riguardano direttamente il femminismo, gli ultimi due il genere, ovvero quel nodo semantico e concettuale che sotto il nome, spesso eufemistico, di genere permette 1

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M. Foucault I 980, p. 22. lvi, p. 24.

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di parlare del sesso, della sessualità e del corpo in ambito accademico, letterario e filosofico. Eufemismo peraltro risibile a fronte del carnevale massmediatico e dei talk• show televisivi. La disposizione dei quattro capitoli rispecchia l'ordine cronologico di scrittura dei saggi. Soggetti eccentrici, scrit• to nel 1987, fu pubblicato nella versione americana nel 1990. Ho deciso di fame una versione italiana, dopo tanti anni, perché me ne hanno fatto richiesta più persone che lo hanno letto in inglese o in traduzioni parziali oppure ne hanno avuto riassunti alcuni brani da altre. Il saggio riat• traversa i testi portanti del femminismo angloamericano per identificare i momenti di rottura, di impasse e di svolta nella coscienza politica delle donne, momenti che hanno segnato il passaggio da una critica femminista, impe• gnata e attiva in tutti i campi del sapere, al costituirsi di una teoria femminista con un proprio campo discorsivo ed epistemologico. Chi parla in esso, ossia il soggetto del1'enunciazione nel discorso teorico femminista, è un sog• getto eccentrico. O cosl mi è piaciuto immaginarlo. Eccentrico rispetto al campo sociale, ai dispositivi istituzionali, al simbolico, allo stesso linguaggio, è un sogget• to che contemporaneamente risponde e resiste ai discorsi che lo interpellano, e al medesimo tempo soggiace e sfugge alle proprie determinazioni sociali. Un soggetto capace di disaffiliarsi dalle sue stesse appartenenze e conoscenze acquisite, dunque disidentificato dalle formazioni culturali dominanti ma anche critico e autodislocato rispetto a quelle minoritarie con pretese egemoniche, tra le quali includerei un certo femminismo omologato o accomodan• te, razzista o perbenista. Un soggetto che sa di costituirsi nel corso di una storia sempre in fìeri, in un processo di interpretazione e di riscrittura di sé a partire da un'altra cognizione del sociale, della cultura, della soggettività. È questa posizione mobile, multipla, precaria, inevitabilmente compromessa ma assolutamente nuova nel pensie• ro occidentale, cui do il nome di soggetto eccentrico, che 8

vedo articolarsi nei testi presi in esame nel primo capitolo, inscritta in figure concettuali diverse. Il secondo capitolo è un intervento nel dibattito femminista in Italia. Anche questo saggio, scritto nel 1996, in modo analogo al primo attraversa testi a mio parere esemplari, che rappresentano posizioni emergenti e svolte impreviste nel femminismo italiano degli anni novanta. Jrriducibilità del desiderio e cognizione del limite riprende alcuni temi di Soggetti eccentrici ripensandoli nel confronto con le recenti derive della teoria femminista in Italia. Il confronto verte sui nessi tra genere e differenza sessuale, identità e politica, sessualità e desiderio. Due questioni, in particolare, vengono messe a fuoco: quella dell'eterosessualità come istituzione sociale, e del modo in cui debba essere distinta sul piano teorico dal desiderio e dal comportamento sessuale dei singoli individui; e quella de11a soggettività, ovvero se il desiderio, portatore di negatività e di non coerenza, non costituisca il limite, piuttosto che il trionfo, de11a soggettività e della politica delle donne. Il terzo capitolo traccia per sommi capi l'emergere nelle università nordamericane, dagli anni settanta in poi, di pratiche di ricerca e di insegnamento che, sotto la spinta di istanze politiche ed epistemologiche, hanno dato vita non solo a nuovi oggetti ma anche a nuovi soggetti del sapere. Il saggio s'intitola La nemesi di Freud perché la costel1azione di studi interdisciplinari cosi costituitasi, con vicende alterne nell'arco degli ultimi trent'anni, è contrassegnata da una forte e continua ambivalenza nei confronti di Freud. La psicoanalisi ha svolto un ruolo fondamentale, vuoi di protagonista vuoi di antagonista, nei primi womens studies e in particolar modo nella critica femminista de1la rappresentazione visiva e nella teoria del cinema. Per quanto osteggiata poi, negli anni ottanta, da quei settori dei gender studies nordamericani vicini alle metodologie quantitative delle scienze sociali, e ancora negli anni novanta, dall'entusiasmo tecnicistico per le biotecnologie, le teorie di Freud non hanno mai cessato di attrarre, intrigandolo e/o irritandolo, il pensiero critico. Anzi, in quest'ultimo decennio 9

hanno avuto una specie di rinascita in due campi di ricerca che se ne erano tenuti a distanza, l'uno polemicamente, quel1o dei lesbian and gay studies, e l'altro per la presunta incompatibilità del1a psicoanalisi con il proprio progetto critico, l'analisi del (post)colonialismo. Ma è proprio in quest'ultimo campo, i postcolonial studies o diaspora studies, che la rilettura dell'opera di Frantz Fanon negli anni novanta ha portato la teoria dell'inconscio e della produzione fantasmatica all'attenzione di una nuova generazione di lettori e di lettrici. Il quarto capitolo tratta degli attuali sviluppi nel discorso sul genere, tra cui il termine di nuovo conio transgender e il rapporto tra genere, sesso e corpo. Quest'ultimo, in particolare, viene analizzato in un caso di transessualità mettendo a confronto due diverse prospettive teoriche e analitiche, quella fenomenologica e quella semiotica. In Sintomatologia dei generi riprendo l'ipotesi avanzata in Pratica d'amore (l 997) che la teoria semiotica degli interpretanti di C.S. Peirce serva da ponte concettuale tra la visione metapsicologica del mondo interiore dataci da Freud e l'analisi foucaultiana delle pratiche discorsive e dei meccanismi istituzionali che insediano la sessualità nel soggetto sociale. Qui, sovrapponendo i concetti peirciani di interpretante e di abitudine a un'analisi fenomenologica del rapporto tra corpo e genere, ho voluto fare un esempio concreto di come si insedia il genere nel corpo, producendo per il soggetto un corpo ingenerato. L'analisi mostra che il corpo non è, come generalmente si suppone, l'origine o ]a causa deU'appartenenza di genere, ma ne è invece un sintomo. Tra corpo e genere, in altre parole, non c'è un rapporto semplice o lineare di causa a effetto o di origine a telos, bensl una rete di passaggi, traduzioni, illazioni e influenze reciproche. Cautoattrihuzione di genere, quindi, è un accumulo di abitudini, inclinazioni, rimozioni e fantasmi che non si attaccano a un corpo originario, già dotato per natura di una sessualità e di un genere sessuale, ma producono al medesimo tempo sia un corpo per il soggetto sia un soggetto per quel corpo.

1. Soggetti eccentrici*

Nel pensiero femminista il termine "coscienza" è in bilico sul confine che congiunge e allo stesso tempo distingue tennini opposti in diversi campi teorici: soggetto e oggetto, sé e altro/altra, privato e pubblico, oppressione e resistenza, dominazione e capacità di agire, e così via. Nei primi anni settanta, al suo primo tentativo di autodefinirsi, il femminismo pose la domanda: "Chi o che cosa è una donna? Chi o che cosa sono io?". E nel porre questa domanda il femminismo - un movimento sociale delle donne per le donne - scopri l'inesistenza della donna; owero, il paradosso di un essere che è allo stesso tempo assente e prigioniero nel discorso, di cui continuamente si discute pur rimanendo esso, di per sé, non esprimibile; un essere spettacolarmente esibito eppure non rappresentato o addirittura irrappresentabile, invisibile e tuttavia costituito come oggetto e garanzia della visione: un essere la cui esistenza e specificità vengono a un tempo affermate e negate, messe in dubbio e controllate. 1 • Questo saggio è la versione italiana, da me tradotta e in parte riscritta, di un mio saggio dal titolo Eccentric Subiects, scritto in inglese nel 1987 e pubblicato sulla rivista statunitense "Feminist Studies", 16, 1990, pp. 115-150. Sono grata a Liana Borghi per averlo diffuso in Italia nella versione americana e a Ilaria Sborgi per una prima bozza di traduzione circolata in manoscritto. 1 Per la distinzione tra "donna" (o Donna) e "donne" - distinzione cruciale ai fini di comprendere lo statuto delle donne nei discorsi dominanti della cultura occidentale - si veda il mio libro Alice Doesn ~: Feminism, Semiotics, Cinema [T. de Lauretis 1994], pp. 5-6), due capitoli del quale sono ora tradotti in Sui generis. Scritti di teoria femminista (T. de Lauretis Il

In un secondo momento di autori.flessione, nel porsi questa stessa domanda, il femminismo si è reso conto di come una teoria femminista debba partire da questo paradosso e affrontarlo direttamente. Poiché se la costituzione del soggetto sociale dipende dal nesso linguaggio/soggettività/coscienza - se, in altre parole, ciò che è personale è politico, dato che il politico diventa personale attraverso i suoi effetti soggettivi nell'esperienza del soggetto - allora l'ambito del sapere femminista, l'oggetto teorico, il metodo critico e le modalità di conoscenza che vogliamo rivendicare come femministi, sono essi stessi intrappolati nel paradosso "donna". Sono, cioè, esclusi dal discorso teorico ufficiale e tuttavia imprigionati al suo interno, oppure relegati in una stanza tutta per loro ma non riconosciuti nella propria specificità. In ciò precisamente consistono la peculiarità del discorso teorico e il portato epistemologico del femminismo: il suo stare contemporaneamente dentro e fuori, ovvero eccedere, le proprie determinazioni sociali e discorsive. La consapevolezza di questa sua particolare natura segna un terzo momento per la teoria femminista. Nelle pagine che seguono individuerò quattro punti che a mio avviso costituiscono lo stadio attuale di ripensamento ed elaborazione di nuovi termini: 1) la riarticolazione del soggetto, ora concepito come mobile o molteplice, ossia organizzato attraverso coordinate variabili di differenza; 2) il riesame delle relazioni tra forme di oppressione e modalità di conoscenza formale, cioè del fare teoria; 3) l'emergere di una concezione della marginalità come posizione politica e dell'identità come disidentificazione; 4) l'ipotesi di un autodislocamento, al tempo stesso sociale e soggettivo, esterno e interno, politico e personale, 1996a). In uno di questi, Semiotica ed esperie11za, vengono introdotti e discussi i concetti di esperienza, soggettività e (auto}coscienza che sono di particolare rilevanza tanto per questo saggio quanto per la teoria femminista. 12

che caratterizza il movimento e la teoria di un soggetto eccentrico. Tali elaborazioni dovrebbero dissipare la visione di un femminismo al singolare, unificato o nelle sue strategie retoriche e politiche o nei suoi termini di analisi concettuale. Eppure questa visione è ancora prevalente in ambito accademico nonostante l'enfasi attualmente posta sulle differenze, enfasi che produce un numero indefinito di femminismi ibridi o variamente aggettivati (femminismo bianco, nero, terzomondista, ebreo, socialista, marxista, liberale, culturale, poststrutturalista, psicoanalitico, e cosi via). Qui, tuttavia, userò il termine "teoria femminista", cosi come i termini "coscienza" o "soggetto", al singolare per indicare non una prospettiva singola e unificata bensl un processo di conoscenza che si modifica a seconda della specificità storica ed è segnato dalla presenza simultanea, e spesso contraddittoria, di quelle differenze in ciascuna delle sue istanze e delle sue pratiche. Un processo di conoscenza che, di volta in volta, cerca di dar conto del proprio posizionamento ideologico.

Il paradosso "donna" "L'umanità è maschile," scriveva Simone de Beauvoir in li secondo sesso (1949), "e l'uomo definisce la donna non in quanto tale ma in relazione a se stesso; non è considerata un essere autonomo. [... ] Egli è il Soggetto, l'Assoluto: lei è l'Altro." 2 E per sottolineare ulteriormente questo punto, Beauvoir citava Emmanuel Lévinas: "Calterità si compie nel femminile, un termine di pari livello ma di senso opposto alla coscienza. [... ] Non potrebbe darsi allora una situazione in cui l'alterità segnasse inconfondibilmente la natura di un essere, come se fosse la sua essenza, un'istanza di alterità che non consistesse puramente e sempli2 S. de Beauvoir 1984, p. 16. I successivi riferimenti a quest'opera saranno inclusi nel testo.

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cemente nell'opposizione di due specie dello stesso genere? Penso che il femminile rappresenti iJ contrario nel suo senso assoluto" (p. 28 nota). Viene da chiedersi: come è possibile che la donna, da un lato definita in relazione all'uomo, sebbene come essere inferiore o come "uomo imperfetto", sia allo stesso tempo considerata la rappre• sentazione deH'alterità in senso assoluto? Per Beauvoir "la categoria dell'Altro ha origini remote quanto la coscienza stessa", o, in altre parole, "l'Alterità è una categoria fondamentale del pensiero umano". È nel pensiero di Hegel che Beau~oir trova il senso di una "osti· lità" della coscienza nei confronti dell'altro/altra: "Il sog• getto si pone solo opponendosi - vuole affermarsi come essenziale e costituire l'Altro in inessenziale, in oggetto" (p. 17). Quindi, continua Beauvoir, nel tentativo di negare qualsiasi reciprocità fra soggetto e oggetto, il soggetto {maschile) della coscienza pone la donna come oggetto in una dimensione di alterità radicale; ma poiché continua ad avere bisogno di lei come "sesso", owero come fonte di desideri sessuali oltre che di prole, il soggetto maschi• le rimane legato o vicino alla donna, e cosl pure lei a lui, per un bisogno reciproco non dissimile a quello tra padrone e servo. Da qui la definizione paradossale della don• na come essere umano fondamentalmente essenziale per l'uomo e allo stesso tempo oggetto inessenziale e radical• mente altro. 3 Allora Beauvoir si chiede: perché la donna accetta lo status di oggetto? Da dove viene la sottomissione o la com• plicità che la rende "incapace di rivendicare lo status di soggetto" e che le fa abbandonare ogni aspirazione a una 1 Ugualmente paradossale è la definizione della donna data da LéviStrauss in Le stnmure elemelltari della parentela, in origine, pubblicato anch'esso nel 1949, come Il secondo sesso: le donne sono sia soggetti umani sia oggetti di scambio tra gli uomini, sono sia parlanti che segni del linguaggio (la parentela) con cui gli uomini comunicano gli uni con gli altri attraverso le generazioni, creando la cultura. Beauvoir infatti ringrazia Lévi-Strauss per averle permesso di leggere quest'opera in bozze e dice di averla usata "liberalmente" nella seconda parte di Jf secondo sesso.

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coscienza propria? Anche se il bisogno reciproco è "ugualmente urgente" sia per l'uomo sia per la donna, come afferma Beauvoir del bisogno del padrone e del servo, tale bisogno torna sempre "a favore dell'oppressore contro l'oppresso" (p. 19). A questa domanda Beauvoir risponde che il vincolo che unisce la donna al suo oppressore non è paragonabile ad alcun altro legame (come per esempio quello tra proletariato e borghesia, o quello tra lo schiavo negro in America e il suo padrone bianco) in quanto non può mai essere spezzato, perché "la divisione dei sessi è un dato biologico, non un momento nella storia umana [ ... ] nessuna frattura della società in sessi è possibile" (pp. 18-19). In questo consiste, per Beauvoir, "il dramma della donna, [il] conflitto tra la rivendicazione fondamentale di ogni soggetto che si pone sempre come essenziale e le esigenze di una situazione che fa di lei un'inessenziale" (p. 27). Per chi legge oggi questo testo sorgono varie domande: chi conferisce a Beauvoir il ruolo di soggetto nel suo discorso sulla donna? Che tipo di coscienza può rivendicare Beauvoir nella prospettiva di un umanesimo esistenzialista se non la stessa coscienza che oppone il soggetto all'oggetto, a meno che la donna non possa essere recuperata dalla parte del soggetto e riconosciuta a pieno titolo come "membro della razza umana", mentre l'alterità radicale è dislocata altrove? È sufficiente che lei e poche altre donne, "che hanno avuto la fortuna di vedersi restituite le prerogative dell'essere umano", possano permettersi "il lusso dell'imparzialità" (p. 26) e siano quindi "capaci di spiegare la situazione della donna" con un atteggiamento "obiettivo" e "distaccato"? In una prospettiva femminista contemporanea distacco e imparzialità non hanno più senso, eppure queste domande sono ancora valide. Da un lato, la risposta data dalla storia non è a favore di Beauvoir: la storia del femminismo, con i suoi compromessi, la sua arroganza razziale, le sue zone d'ombra sia concettuali sia ideologiche, ha reso le risposte a tali domande dolorosamente esplicite. Dall'altro lato, però, una teoria fem15

minista cosciente di sé e della storia non può ignorare il paradosso né prescindere dalla contraddizione che queste domande rivelano in quello che è diventato uno dei testi classici del femminismo. Per le donne il paradosso della donna non è una contraddizione apparente o illusoria ma una contraddizione vera e propria. Come sostiene Catharine MacKinnon, in quella che sembrerebbe una risposta diretta a Beauvoir, il femminismo è una critica deUa dominazione e del punto di vista maschile che "si è imposto sul mondo e che continua a imporsi sul mondo come sua modalità di sapere". 11 genere stesso, prosegue MacKinnon, non è tanto una questione di differenza (sessuale) quanto un esempio di tale dominazione; e fare appello al1a biologia come "dato di fatto" che determina la specificità sessuale della donna è conseguenza ideologica di una modalità del sapere maschile, la cui posizione epistemologica di obiettività riflette non solo l'abitudine del soggetto occidentale di controllare attraverso l'oggettivazione ()"'ostilità" de11a coscienza di Beauvoir), ma anche di erotizzare l'atto stesso del controllo. In questo senso, "erotizzare la dominazione e la sottomissione crea il genere. [ ...] Sotto il dominio delJa supremazia maschile, l'erotico è ciò che definisce il sesso come diseguaglianza, quindi come differenza significativa. I.:'oggettivazione sessualizzata è ciò che definisce le donne in quanto, e soltanto, sessuali". 4 In un altro saggio MacKinnon cita la descrizione dell'oggettivazione sessuale data da John Berger in Ways of Seeing, e non a caso estende l'analisi al campo della visione. Una donna deve costantemente guardarsi. È quasi costantemente accompagnata dalla propria immagine di sé. [... ] fino a considerare la parte di sé che osserva e quella che si sente osservata come i due elementi costitutivi, sebbene sempre distinti, della propria identità di donna. [... ] Gli uomini guardano le donne. Le donne si guardano essere guardate. Ciò 4 C. MacKinnon 1987, p. 50. La traduzione di questi passi e di tutti quelli successivi citati da opere in inglese è mia.

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determina non solo la maggior parte dei rapporti tra uomini e donne ma anche il rapporto tra le donne e se stesse. La parte della donna che si osserva è maschile: la parte che si sente osservata è femminile. Cosi la donna si trasforma in oggetto e più precisamente in un oggetto di visione: una veduta. 5

È l'oggettivazione, dunque, che costituisce la donna come essere sessuale, instaurando la sessualità al centro della realtà materiale della vita delle donne, diversamente da quanto afferma il determinismo biologico, per il quale è la differenza sessuale che definisce la donna e causa la sua oggettivazione. Ma anche diversamente da quanto sostiene un certo culturalismo femminista, per il quale è la rappresentazione culturale di quella differenza sessuale, o specificità sessuale, della donna a causarne l'oggettivazione in una cultura dominata dal maschile. È invece il fatto di erotizzare la dominazione e la sottomissione, dice MacKinnon, che contemporaneamente costituisce quella specificità sessuale come "differenza" e come qualcosa di erotico. In altre parole, l'oggettivazione, l'atto del controllo, definisce la differenza della donna (la donna come oggetto, come altro); allo stesso tempo, l'erotizzazione dell'atto del controllo definisce quella differenza come differenza sessuale (erotica), e quindi "le donne in quanto, e soltanto, sessuali". È in questa presenza materiale, costitutiva, della sessualità come oggettivazione e auto-oggettivazione ("la donna si trasforma in oggetto - e più precisamente in un oggetto di visione") che MacKinnon individua la specificità della soggettività e della coscienza femminile. lo aggiungerei, però, che proprio questo continuo trasformarsi della donna da soggetto in oggetto in soggetto è ciò che pone le basi, per le donne, di un diverso rapporto con l'erotismo, la coscienza e il sapere. Le relazioni tra dominazione, sessualità e oggettivazione nella "modalità del sapere" maschile, e la possibile configurazione di un punto di vista epistemologico e ontologi5 J.

Berger 1972, citato in C. MacKinnon 1982, p. 26. 17

co femminile sono poste da Nancy Hartsock in termini a prima vista simili a quelli di MacKinnon, ma di fatto divergenti. Entrambe le scrittrici partono da Marx, considerando i concetti marxisti di lavoro e sfruttamento, di oppressione di classe, e di prospettiva di dasse (proletariato) come direttamente pertinenti alla teoria femminista. Per Hartsock, "cosl come la cognizione del mondo dal punto di vista del proletariato ha permesso a Marx di scavare a fondo nell'ideologia borghese, un punto di vista femminista (feminist standpoint) ci può aiutare a comprendere le istituzioni e le~ ideologie patriarcali come inversioni perverse di rapporti sociali più umani". 6 Secondo MacKinnon "il marxismo e il femminismo sono teorie del potere e della sua distribuzione ineguale. Descrivono come delle situazioni sociali di disparità strutturata possano essere internamente razionali eppure ingiuste". Tuttavia, mentre Hartsock assume la posizione metateorica di Marx (ovvero che solo la prospettiva della classe oppressa può rivelare i veri rapporti sociali e quindi portare a cambiarli) e cerca di tradurre la nozione di punto di vista del proletariato in un punto di vista femminista basato sulla "divisione sessuale del lavoro", MacKinnon pone un parallelismo metateorico tra le due teorie basato sui termini che inscrivono le relazioni del soggetto con il potere e con la coscienza: "La sessualità sta al femminismo come il lavoro sta al marxismo: ciò che è più proprio e tuttavia maggiormente espropriato".7 Da queste premesse i percorsi delle due studiose divergono. L'analisi di Hartsock della divisione sessuale del lavoro, in cui "le donne sono istituzionalmente responsabili della produzione sia di beni materiali sia di esseri umani", è accompagnata da un esame dello sviluppo psicologico umano mutuato a grandi linee dalla teoria delle relazioni d'oggetto. Questo la porta a dichiarare che le donne sono come i lavoratori, anzi meglio o di più: "Le donne e i lavo6

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N.C.M. Hartsock 1983, p. 284. C. MacKinnon 1982, p. 12.

ratori vivono in un mondo in cui il cambiamento ha più rilievo della stasi, un mondo caratterizzato più dall'interazione con sostanze naturali che non dalla separatezza dalla natura, un mondo in cui la qualità è più importante della quantità, un mondo in cui l'unione di mente e corpo è inerente alle attività svolte". Tuttavia, poiché le donne (ri)producono anche gli esseri umani, tale attività pennette loro un'esperienza più intensa, specificamente femminile "di continuità e relazione tra corpo e mente, sia con gli altri sia con il mondo naturale"; e tale esperienza fornirebbe la "base ontologica per sviluppare una sintesi sociale non-problematica". Lo scenario di Hartsock fa intravedere un lieto fine, nonostante il suo percorso passi per un sentiero inesplorato verso un'utopia traballante: "Generalizzare l'attività delle donne all'intero sistema sociale farebbe sorgere, per la prima volta nella storia umana, la possibilità di una comunità completamente umana, una comunità strutturata dalla connessione piuttosto che dalla separazione e dall'opposizione". 8 Hartsock termina citando Marx, emendato dall'inserimento delle donne al posto degli uomini. Il percorso di MacKinnon, invece, finisce nel postmarxismo, ripiegando la critica marxista su se stessa in uno scenario di lotta continua da parte di quello che si potrebbe definire un soggetto-in-processo nel qui e ora. Il femminismo stà al marxismo come il marxismo sta all'economia politica classica: ne è la conclusione e la critica definitiva. Rispetto al marxismo, il posto del pensiero e quello delle cose vengono capovolti sia nel metodo sia nella realtà, in una presa di potere che penetra il soggetto con l'oggetto, la teoria con la pratica. In un doppio movimento, il femminismo mette il marxismo sottosopra e alla rovescia. 9

Nel punto in cui questi due percorsi divergono sta la sessualità e il suo rapporto con la coscienza. Sebbene 8 9

N.C.M. Hartsock 1983, pp. 291,290,303,305. C. MacKinnon I 982, p. 30. 19

Hartsock non usi la parola "sessualità" nel saggio citato, dice tuttavia che la specificità delle donne in quanto esseri sociali consiste nel loro lavoro riproduttivo, nella maternità, che rende "l'esperienza femminile" sensuale, relazionale, in contatto con la concretezza dei valori d'uso e le necessità materiali, in un rapporto di continuità e connessione con gli altri e con il mondo naturale, e quindi si contrappone all"'esperienza maschile" che è invece quella di una "mascolinità astratta". 10 "L'unione profonda tra lavoro mentale e manuale, tra il moqdo sociale e quello naturale" che caratterizza il lavoro delle donne e "la costruzione femminile del sé in relazione agli altri" (e quindi la prospettiva femminista che ne deriva) "viene dal fatto che i corpi delle donne, a differenza di quelli degli uomini, pos10 Una versione riveduta di questo saggio del 1983 è ristampata nel capitolo 10 del libro di Hartsock, Mone_Y, Sex, Power (1985). Qui la sessualità viene definita in senso lato come "una serie dì pratiche e di significati culturali e sociali che strutturano e sono a loro volta strutturati dai rapporti sociali". I.:autrice elenca gli studi sulla sessualità del sociologo Jeffrey Weeks, dello psicologo Robert Stoller, delle antropologhe Sherry Ortner e Harriet Whitehead, e il dibattito tra Adrienne Rich e Ann Ferguson sull'eterosessualità obbligatoria (dì cui parlerò più avanti) e si ritiene cosl esonerata dal definire cosa intenda per sessualità; non le pare necessario entrare nei dettagli della "posizione" sostenuta da questi teorici in contesti diversi e si limita a fare riferimento ai loro lavori "per indicare che sottoscrivo le loro argomentazioni in linea di massima" (p. 156). Ma è evidente che l'unica "posizionen che tali fonti eterogenee hanno in comune è il loro minimo denominatore, ossia l'idea - ormai un luogo comune - che la sessualità sia costruzione culturale. Dalle pagine che seguono si capisce, però, che per Hartsock la sessualità è definita e imposta da un eros maschile e negativo che è condiviso sia dagli uomini sia dalle donne in una società in cui "la sessualità è strutturata dalla violenza, dalla dominazione e dalla morten (p. 178). A questa, dunque, Hartsock oppone il potenziale per ''una comunità pienamente umana" intrinseco all'esperienza femminile di una sessualità materna (p. 256) e di fusione erotica con il partner sessuale (p. 257), e alla "capacità di intrattenere relazioni con gli altri che proviene dall'esperienza di essere siate allevate da una donna" (p. 158). Insomma, la mascolinità sta al matemage come l'astratto al concreto, la violenza al nutrire, la morte alla vita, in una serie di opposizioni binarie costruite sulla coppia primaria: sessualità maschile/non riproduttiva vs. sessualità femminile/riproduttiva.

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sono essere essi stessi strumenti di produzione". Ciò che permette alle donne un punto di vista vero, e il potenziale per una comunità "completamente umana" in un mondo di relazioni socio-sessuali "perverse", afferma Hartsock, è jJ fatto che esse sono culturalmente costruite come madri in base alla produttività specifica dei loro corpi, alla loro sessualità biologica. Similmente, sebbene la parola "coscienza" non appaia nel saggio, è implicita nella nozione di punto di vista (feminist standpoint) come visione impegnata, una visione raggiungibile (solo) dagli oppressi ma che va conquistata con la lotta. Scrive Hartsock: "Uso qui il termine 'femminista' invece di 'femminile' per indicare sia che un punto di vista deve essere conquistato, sia che un punto di vista, per definizione, comporta un potenziale liberatorio" . 11 Nella visione di questa studiosa, quindi, la sessualità e l'autocoscienza delle donne stanno in un rapporto diretto, non contraddittorio di quasi sinonimia. Entrambe sono incluse nell'attività del fare la madre (matemage), ed entrambe sono in tale attività sfruttate. Cosa trasformi l'esperienza femminile in coscienza femminista, cosa produca tale coscienza, non viene spiegato. MacKinnon, invece, mette in rilievo proprio la coscienza come prodotto e forma della pratica femminista, origine della prospettiva o del metodo femminista e punto di divergenza tra femminismo e marxismo. "Cautocoscienza è la principale tecnica analitica, struttura organizzativa, modalità di pratica, e teoria del cambiamento sociale del movimento delle donne." Attraverso la presa di coscienza, ovvero mediante "la ricostruzione critica collettiva del significato dell'esperienza sociale delle donne, cosl come le donne la vivono", il femminismo ha dato alle donne la possibilità di vedere come la propria identità sociale e sessuale sia insieme qualcosa di costruito dall'esterno e qualcosa di interiorizzato. Per poter rendere conto della coscienza delle donne (e a maggior ragione per diffonderla) il femminismo deve comprende11

N.C.M. Hartsock 1983, pp. 299,289. 21

re che il potere maschile produce il mondo prima di stravolgerlo. [ ...] Prendere coscienza vuol dire guardare in faccia il potere maschile in questa dualità: totale da un lato, illusorio dall'altro. Nel creare coscienza, le donne apprendono di aver imparato che gli uomini sono tutto, che le donne sono la loro negazione, ma che i sessi hanno uguale valore. li contenuto del messaggio si rivela allo stesso tempo vero e falso. [ ...] Le loro catene diventano visibili, la loro inferiorità - la loro diseguaglianza - si rivela essere un prodotto della sottomissione e uno dei modi in cui tale sottomissione viene loro imposta. 12

Se il prendere coscienza è vìsto come metodo femminista, la differenza di tale metodo da quello del materialismo dialettico costituisce una divergenza fondamentale tra le due teorie poiché è "il metodo [che] forma la visione della realtà sociale" proposta dall'una e dall'altra teoria. A differenza del materialismo dialettico che "pone e si riferisce a una realtà al di fuori del pensiero" e che separa la teoria come scienza "pura" dal pensiero situato, in quanto quest'ultimo non è mai immune dall'ideologia, la coscienza femminista pone e si riferisce a una realtà, l'esistenza socio-sessuale delle donne, che è "un misto di pensiero e materialità", e cerca di conoscerla "attraverso un processo che condivide la sua determinazione: la coscienza delle donne, non come idee individuali o soggettive, ma come entità sociale collettiva". In altre parole, il metodo femminista "sta dentro le proprie determinazioni per svelarle, e le critica appunto per valutarle nei propri termini, anzi, le critica proprio per definire i propri termini". Ne consegue che la teoria femminista non è volta all'esterno, verso (l'analisi di) una realtà oggettiva, ma si rivolge all'interno, verso "la ricerca di coscienza"; e in questo modo "diventa una forma di pratica politica" (p. 13). Infine, scrive MacKinnon, se "il creare coscienza ha dimostrato che le relazioni di genere sono un fatto collettivo e non semplicemente personale, tanto quanto lo sono le relazioni di classe", questo può allora dimostrare che "anche le relazioni 12

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C. MacK.innon 1982, pp. 5, 29, 28.

di classe possono essere personali, senza esserlo di meno per il fatto di essere allo stesso tempo collettive". 13 Quest'ultima osservazione è particolarmente significativa in vista dei tentativi fatti dalla teoria marxista per stabilire il legame tra ideologia e coscienza nel campo della soggettività. Lo stesso Althusser, nel proporre la costruzione del soggetto da parte degli apparati ideologici di stato, rilancia la scommessa di una possibile integrazione di marxismo e psicoanalisi e apre uno spazio speculativo in cui le relazioni sociali di classe possono essere ripensate in concomitanza con le relazioni di genere e di razza. Purtroppo questo aprirsi della teoria marxista alla questione del soggetto, definito da Althusser in termini lacaniani, si è risolto nella riaffermazione di un sapere scientifico (teoria) non toccato dall'ideologia o dalle pratiche, con la conseguente espulsione della soggettività dal sapere, da cui il contenimento del soggetto nell'ideologia e della coscienza nella falsa coscienza. 14 Il suggerimento di MacKinnon secondo cui la coscienza femminista può cogliere gli effetti soggettivi o individuali delle relazioni di classe o di razza, cosl come coglie gli effetti individuali e tuttavia collettivi delle relazioni di genere, mi sembra più promettente e consono alla posizione del soggetto femminista in relazione all'ideologia del genere, di cui ho scritto in un altro saggio. 15 Mentre MacKinnon prende le distanze dalla psicoanalisi, Hartsock trae la tesi che "le donne si definiscono ed esperiscono se stesse in modo relazionale mentre gli uomini no" dalla teoria psicoanalitica delle relazioni d'oggetto, nell'interpretazione datane dalla sociologa Nancy Chodorow.16 Però è la nozione di sessualità di MacKinnon che u Ivi, pp. 13, 29. Per Althusser, si vedano Freud a11d lAca11 e ldeology and the Ideologica/ State Apparatuses, in A1thusser 1971; per il dibattito postalthusseriano sulla teoria del discorso si vedano J. Henriques et al. 1984 e il lavoro della rivista inglese "Ideology and Consciousness". 15 T. de Lauretis, La tec11ologia del genere, in de Lauretis 1996a. 16 N.C.M. Hartsock 1983, p. 295. 14

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affronta, o almeno mette in campo, problemi quali identità e identificazione, le relazioni tra soggettività e sottomissione, tra oggettificazione e immagine (interiorizzata) di sé, il conflitto tra rappresentazione e autorappresentazione, le contraddizioni tra coscienza femminista e complicità ideologica (preconscia). Porre problemi come questi, che sono stati al centro della critica femminista della rappresentazione nel cinema, nella letteratura, nei mass media e nelle arti, ha dato alla teoria femminista gran part~ del suo spessore, specialmente per quanto riguarda la comprensione del ruolo centrale della sessualità sia nei processi di soggettivazione femminile sia nella formazione di identità sociale delle donne. Per esempio, ha contribuito a slegare la sessualità (per non dire il piacere) femminile dal letto di Procuste della riproduzione in cui era confinata, o in nome della maternità o in nome del lavoro, dai fini del patriarcato. Interrogarsi sulla sessualità femminile e sull'identità psico-socio-sessuale delle donne ha voluto dire interrogare, in primis, la psicoanalisi neofreudiana, che era l'unico discorso teorico che si prestasse ad articolare i termini di una sessualità femminile indipendente dalla riproduzione o dal destino biologico. Il fatto che la teoria psicoanalitica di per sé rimanga incapace di immaginare - tanto più descrivere - le modalità e i processi di una sessualità femminile autonoma da quella maschile, è reso esplicito negli scritti di femministe neofreudiane o lacaniane 17 cosl come in quelli basati sulla teoria delle relazioni d'oggetto. 18 Ciò nonostante, se la fragilità concettuale e il conservatorismo politico delle nozioni di sessualità e soggettività femminili proposte da questi ultimi fanno crollare la teoria del punto di vista femminista (feminist standpoint) di Hartsock, anche l'argomentazione di MacKinnon che il ruolo della sessualità è determinante nell'esistenza materiale delle 17 Per esempio, L. Irigaray 1974; J. Milchell 1976; J. Rose 1986; J. Gallop 1982; K. Silverman 1983; M. A. Doane 1987. 18 Per esempio J. Flax 1983; J. Benjamin 1986; N. Chodorow 1991.

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donne e nella loro definizione di sé, manca dello spessore teorico che le potrebbe provenire dal progetto psicoanalitico femminista di comprendere in che modo norme sociali oppressive vengano interiorizzate, permangano e si riproducano nella soggettività femminile. Il contributo specifico della psicoanalisi neofreudiana a tale comprensione risiede, come sottolinea Juliet Mitchell, nel concetto di inconscio:

n modo in cui noi percepiamo come "idee" le leggi necessarie alla società umana non è tanto conscio, quanto piuttosto inconscio; il compito specifico della psicoanalisi è quello di decifrare il modo in cui acquisiamo nel nostro inconscio il patrimonio ereditano delle idee e delle leggi della società umana; o, per dirla in altro modo, la mente inconscia è il modo in cui acquisiamo tali leggi. 19

Commentando questo passo nel contesto della storia conflittuale di femminismo, psicoanalisi e marxismo, Jacqueline Rose sostiene che, se la psicoanalisi può essere vista "come l'unico modo per spiegare i meccanismi esatti per mezzo dei quali i processi ideologici sono trasformati, attraverso i soggetti individuali, in azioni e convinzioni umane", è perché la psicoanalisi, come il marxismo, vede quei meccanismi determinanti, sl, ma tali da lasciare sempre un di più, qualcosa che li eccede. La ragione politica a favore della psicoanalisi poggia su questa doppia concezione, altrimenti sarebbe indistinguibile da una descrizione funzionalista dell'interiorizzazione delle norme. [ ... ] La difficoltà sta nello spingere la psicoanalisi in entrambe le direzioni: verso il riconoscimento che identità e norme sono socialmente costruite, per poi tornare a quel punto di tensione tra Io e inconscio in cui esse vengono incessantemente rimodellate e incessantemente si infrangono.

Quando le femministe e i marxisti o le marxiste insistono sul fatto che i concetti di dinamica psichica o di conflit19 J,

Mitchell 1976, p. x. 25

to interno sono nocivi alla politica perché l'attenzione rivolta alla fantasia nega "una denuncia inequivocabile del reale", afferma Rose, si attengono a una dicotomia mal concepita tra eventi esterni (oppressione), visti come reali, ed eventi interni (le manifestazioni psichiche delle norme oppressive interiorizzate, come per esempio le fantasie inconsce o la coazione a ripetere), che invece sono visti come irreali. Direi che l'importanza della psicoanalisi consiste precisamente nel modo in cui mette in crisi la dicotomia sulla quale, chiaramente, si basa l'appello alla realtà dell'evento. Forse per noi donne è particolarmente importante trovare un linguaggio che ci permetta di riconoscere la nostra partecipazione a strutture intollerabili, ma in modo tale da non renderci né le pure vittime, né tanto meno le sole artefici della nostra sofferenza.2°

Da parte sua, MacKinnon riconosce la partecipazione delle donne a queste "strutture intollerabili" e il loro carattere interiore e conflittuale. Credo che nelle donne, almeno in questa cultura, il desiderio sessuale sia costruito socialmente come ciò per cui arriviamo a desiderare il nostro stesso autoannienlamento. Ovvero, la nostra subordinazione è erotizzata proprio in quanto femminile. [ ...] Questa è la posta che abbiamo in gioco in questo sistema che non fa i nostri interessi, in questo sistema che ci sta uccidendo. Sto dicendo che la femminilità, come la conosciamo, è il modo in cui arriviamo a desiderare la dominazione maschile, il che non è assolutamente nei nostri interessi. 21

Ma mettendo l'accento sulla realtà dell'evento - la realtà dell'oppressione come evento-la griglia analitica di MacKinnon non permette di comprendere la resistenza in termini psichici (per esempio attraverso processi di identificazione o processi fantasmatici) e quindi configura la 20 21

26

J. Rose 1986, pp. 7, 14. C. MacK.innon 1987, p. 54.

capacità di agire so]o nel senso di que11a che Rose chiama "una politica della sessualità basata su11'asserzione e sul]a volontà". D'altra parte, capire l'inconscio come il luogo di una resistenza e prendere atto della sua specifica capacità di eccedere i meccanismi della determinazione sociale può portare a11a comprensione di un altro aspetto cruciale de11a capacità di agire e de] suo potenziale per ]a politica femminista. Questo, a mio parere, è un assunto particolarmente rilevante per la teoria femminista. Ma non può essere posto in termini di "creare coscienza", ossia de] metodo di autocoscienza definito da MacK.innon che ignora la teoria de11'inconscio elaborata da11a psicoanalisi neofreudiana e si avvale, invece, di una nozione di coscienza mutuata in parte daJ]a psicologia dell'Io americana e in parte da11a nozione di coscienza di classe di Gyorgy Lukacs. Rifiutando Freud, MacK.innon limita Ja sua teoria de11a coscienza femminista a una visione funzionalista de11'interiorizzazione, e non permette l'analisi dei meccanismi psichici attraverso i quali l'oggettivazione non solo viene interiorizzata ma può anche divenire fonte di resistenza. D'altra parte, però, neanche l'argomentazione di Rose a favore di un Freud ]etto attraverso Lacan riesce ad andare oltre la descrizione istituzionale di quei meccanismi. "Se la psicoanalisi può rendere conto di come le donne esperiscono il cammino verso la femminilità," afferma Rose, "essa ci dice anche, in forza del concetto di inconscio, che la femminilità non è mai semplicemente raggiunta né mai completa."22 E sia pure. Ma affinché quella resistenza de11'inconscio sia qualcosa di più di una pura negatività, affinché sia effettivamente capacità di agire e non semplicemente femminilità incompleta o mai raggiunta, bisogna poter pensare al di là della strettoia concettuale imposta dal termine "femminilità" e dal suo opposto, "mascolinità". Ed è proprio qui, secondo me, che Ja nozione dell'inconscio come eccesso può essere molto produttiva. Non si 22

J. Rose 1986, p. 7. 27

potrebbe pensare questo eccesso, per esempio, come una resistenza all'identificazione piuttosto che un'identificazione non raggiunta? O una disidentificazione dalla femminilità che non dà luogo necessariamente al suo opposto, non diventa una identificazione con ]a mascolinità, ma si traduce in una forma di soggettività femminile che eccede la definizione fallica? Queste domande non sono state poste da alcun filone del femminismo psicoanalitico, ma sono nondimeno compatibili con una teoria deU'inconscio come eccesso. Qui non posso fai:e altro che indicarle come un'area di lavoro cruciale per la teoria femminista. Prive di un'elaborazione in questo senso, le diverse prospettive di Rose e di MacKinnon hanno entrambe uno stesso limite: l'equazione tra donna e femminilità, e la pressione esercitata dal secondo termine (femminilità) per annullare ]a distanza critica tra "donna" e donne. Cos} com'è, suUa base di questa equazione, la perorazione di Rose sulla rilevanza della psicoanalisi per la teoria femminista non fa che riaffermare l'idea di "una soggettività in contrasto con se stessa",23 che è soltanto il punto di partenza, ]a premessa che troviamo negli scritti di Freud sulla sessualità femminile, piuttosto che lo sviluppo di una teoria psicoanalitica femminista. Dal canto suo, l'enfasi assiomatica di MacKinnon sul monopolio (etero)sessua]e del "potere maschile" ("l'eterosessualità è la struttura dell'oppressione delle donne"), 24 priva di qualsiasi possibilità di resistenza o capacità di agire attraverso fonne di sessualità non normative o autonome da] maschio - pratiche sessuali eccessive, sovversive, perverse, invertite o lesbiche contribuisce a ricollocare sia ]a coscienza femminista sia la sessualità femminile nel circolo vizioso del paradosso "donna". Ritengo invece che in questo momento storico sia necessario al femminismo un punto di vista eccentrico rispetto al monopolio maschile eterosessuale del potere/sapere, una posizione discorsiva in eccesso, ossia non 23 24

28

Ivi, p. IS. C. MacKinnon 1987, p. 60.

riassimilabile dall'istituzione socio-culturale dell'eterosessualità. Ritengo inoltre che una tale posizione esista già, in effetti, nella coscienza femminista come pratica personale-politica e possa essere riscontrata in certi testi critici femministi. E ritengo infine che proprio questa posizione eccentrica abbia fornito l'impulso, il contesto e la direzione del lavoro teorico femminista, incluso quelJo di MacKinnon, fin dall'inizio. A prescindere dall'enfasi sulla sessualità, che è un concetto molto più inclusivo e articolato nel pensiero contemporaneo di quanto non lo fosse per Beauvoir, che parla solo di "desiderio sessuale e desiderio di prole", l'analisi che MacKinnon fa della condizione della donna è ancora simile in modo sorprendente a quella di Il secondo sesso, di cui sembrerebbe quasi la rivalutazione storica oltre che la critica. "Il femminismo non ha cambiato la condizione delle donne," scrive MacK.innon nell'introduzione al suo libro Feminism Unmodified, scritto quarant'anni dopo la molto più ottimistica introduzione di Beauvoir al Secondo sesso. E se ci chiediamo "perché le analisi femministe siano spesso accusate di replicare l'ideologia maschile [cosa di cui è stata accusata Beauvoir]; perché si dica che le femministe sono 'accondiscendenti verso le donne' [e lo si può certo dire del Secondo sesso], quando ciò che facciamo non è altro che esprimere e smascherare il modo in cui le donne sono trattate con accondiscendenza", MacKinnon risponde: è "perché il potere maschile ha creato nelJa realtà il mondo cui si riferiscono le intuizioni femministe quando sono esatte". 25 Ovvero, come afferma Beauvoir, "l'umanità è maschile". Tuttavia, dopo quarant'anni e diversi movimenti sociali, le cose sono alquanto cambiate, ed è mutata l'analisi dei rapporti sociali che costituiscono quell'umanità. Qualcosa di questo cambiamento si intravede nella struttura parallela delle due note in cui Beauvoir e MacKinnon spiegano le loro rispettive ragioni, prima citando frasi di scrittori 25

Ivi, pp. 2, 59.

29

uomini per ]a ]oro chiarezza, poi criticandone i Jimiti dovuti aUa prospettiva androcentrica. Beauvoir critica Lévinas dicendo che ]a sua descrizione del "mistero" della donna, "che vuole essere oggettiva, è di fatto un'affermazione del privi]egio maschiJe". 26 MacKinnon critica Berger perché non riconosce che l'(auto)oggettivazione delle donne "esprime una diseguaglianza rispetto al potere sociale", e a sostegno di questo fa riferimento a uno scritto femminista di movimento dal tito]o The Nonnative Status of Heterosexuality [Lo statuto normativo deU'eterosessualità].27 ~ Nei quarant' anni intercorsi si sono venute elaborando sia la critica deU'oggettività scientifica, con la conseguente messa in questione del destino bio]ogico cui Beauvoir attribuiva la condizione della donna, sia la cognizione che il sapere e il pensiero stesso, in quanto prodotti storico-culturali, sono sempre situati. 28 Queste posizioni epistemologiche si sono sviluppate nel contesto di un'analisi del potere: non solo potere nei rapporti economici di (ri)produzione bensi in tutti i rapporti sociali prodotti, articolati e rego]ati dai discorsi e dal1e istituzioni del sapere/potere. Tra essi fondamentali sono il concetto foucaultiano di bio-potere (bio-pottvoir; rego]amentazione della vita umana, costruzione della sessualità come dispositivo di controUo sociale) e il concetto femminista del1a normativa eterosessua]e. La fede nell'oggettività come base epistemologica di tutti gli ambiti del sapere, caratteristica del pensiero occidentale moderno, è stata scossa da un ripensamento critico del carattere situato o "tendenzioso" di tutti i discorsi e di tutte le pratiche, una tendenziosità che non è determinata solo dalla classe, come nell'analisi marxiana, ma da tutte le principali divisioni di potere, tutte le coordinate lungo le quali sono organizzate e distribuite le differenze di potere, 26

S. de Beauvoir 1984, p. 44. Purple September Staff 1975, citato da C. MacKinnon 1982, p. 26. 28 In ambito fomminista, si vedano E. F. Keller 1984; R. Bleier 1984; W. Breines-L. Gordon 1983 ; D. Haraway 1984-1985; S. Harding 1986. 27

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per esempio razza e genere. Da cui la rivalutazione dei discorsi minoritari e l'affermarsi di quelli che Foucault chiama saperi soggiogati nell'ambito della critica al discorso coloniale e nella critica femminista alla cultura occidentale e allo stesso femminismo occidentale (bianco). Visto in questa prospettiva, ciò che a Beauvoir pareva il privilegio maschile del filosofo ci appare ora come un rapporto differenziale rispetto al potere sociale, mantenuto e legittimato dagli apparati ideologici. Sono questi che costn1isco110 il soggetto, che quindi non è più soggetto trascendentale, ma soggetto di relazioni sociali materiali. Se, come ho cercato di dimostrare altrove tramite una lettura di Althusser con Foucault,29 il genere è uno di questi apparati, un apparato ideologico cui il corpo sessuato serve da sostegno materiale, allora ciò che (ri)produce e regola mediante il genere una specifica differenza di potere tra donne e uomini - quali che siano le altre differenze che esistono simultaneamente per quelle stesse donne e uomini, differenze appunto di classe o di razza, per esempio non è un dato biologico bensì l'istituzione sociale dell'eterosessualità. In questa luce il privilegio maschile non è qualcosa cui uno possa rinunciare con un atto di buona volontà o abbracciando un'etica più umana, ma è costitutivo del soggetto in-generato dal contratto sociale eterosessuale, ossia un soggetto sociale che è fin dall'inizio diversificato in due generi complementari che si escludono e si implicano a vicenda. Con l'espressione contratto sociale eterosessuale o contratto edipico voglio mettere in luce l'omologia semiotica di diverse griglie concettuali: il contratto sociale di Rousseau con la distinzione dei generi maschile e femminile; il linguaggio inteso da Saussure come contratto sociale tra parlanti; il contratto psicosociale che è il complesso edipico di Freud, struttura psichica che orienta sia il desiderio sia le identificazioni di genere del soggetto; il contratto 19

T. de L:mretis,

Ùl

tecnologia del ge11ere, in T. de Lauretis 1996a,

pp. 131-163. 31

cinematografico che stipula le condizioni della v1S1one codificando particolari relazioni tra immagine, suono e significato per la spettatrice e lo spettatore; e infine il concetto di "contratto eterosessuale" proposto da Monique Wittig, ossia l'accordo tra sistemi teorici o epistemologie moderne di non mettere in questione l'a priori del genere e di presumere che l'opposizione sociosessuale tra "uomo" e "donna" sia il momento necessario e fondante di ogni cultura. 30 Canalisi dell'eterosessualità come istituzione è uno sviluppo relativamente recente nella teoria femminista, 31 e neanche unanimemente accettato tra le stesse femministe.32 Cuso comune del termine "eterosessualità" per denotare pratiche sessuali tra una femmina e un maschio, in contrapposizione a quelle tra persone dello stesso sesso (omosessualità) presenta le prime come atti "naturali" e le seconde come "devianti" o "innaturali". Perciò il termine stesso tende a oscurare l'innaturalità dell'eterosessualità medesima, ovvero il suo essere costruzione sociale, il suo dipendere dalla costruzione semiotico-ideologica del genere piuttosto che dall'esistenza fisica (naturale) di due sessi. Inoltre la tenace abitudine mentale di pensare la sessualità come atti sessuali tra persone e di associarla con la sfera privata o la privacy individuale anche quando si è costantemente circondate da rappresentazioni della sessualità (immagini visive e verbali di atti sessuali, o immagini che alludono ad atti sessuali tra persone), tende a negare l'ovvio; cioè il carattere assolutamente pubblico dei discorsi sulla sessualità e ciò che Foucault ha chiamato "la tecnologia del sesso": gli apparati o dispositivi sociali (dal sistema educativo alla giurisprudenza, dalla medicina ai 30 M. Wittig, The S1raigl11 Mind (1980), in Wittig 1992, pp. 21-32. La traduzione italiana, di questo saggio, di R. Fiocchetto, pubblicata con il titolo T11e Straiglll Mind, in "Bollettino del cu" (febbraio 1990), è stata ristampata in "I Quaderni Viola", 4, 1995, pp. 69-72. 31 Oltre a M. Wittig 1992, si vedano C. MacKinnon 1979 e A. Rich 1985. 32 Per esempio A. Ferguson 1981.

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media, e cosi via) che non solo regolano la sessualità ma effettivamente la impongono, anzi, la regolano e la impongono come eterosessualità. Gli effetti profondi e duraturi del significato di tali rovesciamenti ideologici si estendono, oltre l'uso comune del termine sessualità, al pensiero critico e alla riflessione teorica sulla cultura, inclusi il pensiero e la riflessione femminista, e ostacolano la piena comprensione delle implicazioni di nozioni altrimenti accettate: non soltanto il concetto basilare femminista che il personale è politico, ma anche l'influente riconcettualizzazione foucaultiana del sesso come tecnologia sociale; oppure la concezione lacaniana del soggetto secondo la quale il linguaggio è "causa" del soggetto, è l'ordine simbolico (dunque eminentemente sociale) che struttura la soggettività, tanto la coscienza quanto l'inconscio, di ciascun soggetto. Corollario inevitabile di questa concezione è che la sessualità si colloca all'intersezione di soggettività e socialità, e si costituisce nel nome del Padre. Il che vale a dire, con MacKinnon, che la sessualità è esattamente "ciò che è più proprio e tuttavia maggiormente espropriato".33 La traiettoria seguita dal pensiero femminista per quanto riguarda l'analisi dell'eterosessualità, vista dapprima come pratica sessuale privata, poi come istituzione civile, e il continuo slittare del termine dal personale al politico al personale, ha un'interessante analogia con le trasformazioni semantiche del termine inglese institution riportate da Raymond Williams. Istituzione è un esempio tra tanti (cfr. cultura, società, educazione) di un sostantivo riferito a una azione o a un processo che, a un certo punto, divenne un nome astratto riferito a qualcosa di oggettivo e sistematico come lo è istituzione nel senso moderno. Viene usato in inglese fin dal quattordicesimo secolo, derivato dall'antico francese institution, dal latino institutionem, dalla radice statuere: stabilire, fondare, assegnare. Dapprima aveva il senso di atto originario - qualcosa 31

C. MacKinnon 1982, p. I.

33

che veniva istituito in un particolare momento - ma già nel sedicesimo secolo cominciava a svilupparsi il senso generale di pratiche stabilite in determinati modi [ ...] sebbene mantenesse, nel contesto dato, un forte senso di usanza, come nell'espressione odierna "una delle istituzioni del luogo". Non è facile datare l'emergere del senso pienamente astratto, ma questo compare sempre in concomitanza con l'affermarsi dell'astrazione nel termine società. Verso la metà del diciottesimo secolo il senso astratto è del tutto evidente e gli esempi si moltiplicano nel diciannovesimo e ventesimo secolo. [... ] Nel ventesimo secolo istituzione è divenuto il termine usuale per qualsiasi elemento organizzato di una società.34

Potrebbe essere interessante chiedersi se, nella stessa maniera in cui istituzione si affermò nel senso astratto contemporaneamente a società, di cui era una delle condizioni di esistenza, il senso astratto di eterosessualità come istituzione sia pervenuto al femminismo con l'awento di una teoria femminista, una modalità di conoscenza formale, critica e politica, la cui esistenza è condizionata da quella istituzione stessa. Ma anche se cosl fosse, l'ambiguità del termine eterosessualità permane, e ne provoca il continuo slittamento tra i due sensi di pratica privata e istituzione civile. Il senso di "usanza", di pratica circoscritta, locale, derivato dall'uso comune del termine eterosessualità ne allontana la comprensione dal senso astratto di istituzione, ossia di qualcosa di "oggettivo e sistematico" (Williams), indirizzandola verso il significato ristretto di atto o rapporto personale tra due individui. Ne vediamo un esempio nell'obiezione di Ann Ferguson al famoso saggio di Adrienne' Rich, Eterosessualità obbligatoria ed esistenza lesbica, alla cui tesi viene obiettato di non rendere conto di 34 R. Williams 1976, pp. 139-140. Noto con rammarico che il libro di Williams non contiene i termini gender (genere), femminismo o sessualità, la cui storia semantica potrebbe essere altrettanto utile e interessante di quella degli altri termini ivi analizzati.

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"alcune coppie eterosessuali in cui donne femministe mantengono un rapporto egualitario con gli uomini". Cidea che l'eterosessualità sia alla base dell'oppressione delle donne è plausibile solo se si presume che ciò che permette agli uomini di controllare il corpo delle donne come strumento per i propri scopi sia la dipendenza emotiva delle donne dagli uomini come loro amanti, che si aggiunge ad altri meccanismi di dominazione maschile (quali il matrimonio, la maternità, la dipendenza economica). Ma le madri nubili, le donne nere e le donne economicamente indipendenti, per esempio, possono sfuggire o evitare questi meccanismi nelle loro relazioni eterosessuali con gli uomini. [...] Se il femminismo come movimento è veramente rivoluzionario, non può dare priorità a una forma di dominazione maschile (l'eterosessismo) a esclusione delle altre. 35

Sfugge a Ferguson il fatto che quelle donne eterosessuali che riescono individualmente a evitare, in casa propria, la dominazione sessuale o economica da parte di singoli uomini sono comunque soggette, nella sfera pubblica, agli effetti oggettivi e sistematici dell'istituzione che le definisce, per tutti gli uomini e anche per loro stesse, donne, anzi, più esattamente, donne eterosessuali. Questo risulta evidente in casi di discriminazione sul lavoro, molestie sessuali, stupro, incesto ecc. Cistituzione dell'eterosessualità non è semplicemente uno tra i vari "meccanismi di dominazione maschile" ma è intimamente implicata in ciascuno di essi; è struttura portante del patto sociale e fondamento delle norme culturali. Il fatto stesso che nella maggior parte dei saperi disciplinari il genere sia invisibile, un punto cieco, oppure dato per scontato, un a priori, riflette la presunzione di eterosessualità su cui poggia ogni conoscenza formale: che l'opposizione sociosessuale tra "donna" e "uomo" sia il momento necessario e fondante della cultura, come scrive Wittig. 15

A. Ferguson 1981, p. 171. 35

E sebbene sia stato riconosciuto in anni recenti che la natura non esiste, che tutto è cultura, rimane all'interno di quella cultura un nucleo di natura che resiste a ogni esame, un rapporto escluso dal sociale nell'analisi, un rapporto la cui caratteristica è la sua ineluttabilità tanto nella natura quanto nella cultura, cioè il rapporto eterosessuale.36

Non si tratta quindi di privilegiare l'eterosessismo sugli altri sistemi di oppressione quali il capitalismo, il razzismo o il colonialismo, ma di capire il carattere istituzionale e ]a specificità di ciascuno, e--poi di analizzarne le reciproche complicità o contraddizioni.

Il soggetto eccentrico La teoria femminista in quanto tale è divenuta possibile in un'ottica postcoloniale, quando da critica femminista ad altri oggetti teorici o campi di sapere si è trasformata in riflessione teorica sul femminismo. Con questo intendo dire che il pensiero femminista è divenuto teorico nella misura in cui si è interrogato sulle interrelazioni tra soggetti, discorsi e pratiche sociali, e sulla molteplicità di posizioni esistenti al medesimo tempo nel campo sociale inteso, con Foucault, come campo di forze: non un singolo sistema di potere che domina i senza potere, ma un groviglio di relazioni di potere e punti di resistenza distinti e variabili. 37 Per quanto riguarda il femminismo, la comprensione del sociale come campo diversificato di relazioni di potere si è consolidata verso la metà degli anni ottanta, quando gli scritti di alcune donne di colore e donne lesbiche, che si presentavano appunto come forma di pratica politica "alla ricerca di coscienza", si sono costituiti esplicitamente come critiche femministe al femminismo. Questi interventi hanno interrotto un discorso femminista 36 J1

36

M. Wittig 1992, p. 107. M. Foucault 1988.

ancorato al singolo asse del genere come differenza sessuale tra uomo e donna, e che si trovava a ristagnare nel para dosso "donna " . Sulla nozione di differenza sessuale come opposizione tra donna e uomo, o donne e uomini, o femminile e maschile, opposizione basata sull'asse del genere, si era fondata l'analisi femminista delle relazioni di potere come rapporto a senso unico tra oppressore e oppressa, o tra colonizzatori e colonizzati. Abbiamo parlato di noi stesse come popolazione colonizzata, abbiamo concepito il corpo femminile mappato dal desiderio fallico e territorializzato dal discorso edipico. Ci siamo viste guardare soltanto attraverso occhi maschili. Abbiamo pensato che il nostro parlare fosse sintomatico o non autorizzato, e che la nostra scrittura, nel migliore dei casi, potesse esprimere il silenzio delle donne nel linguaggio degli uomini. 38 Le strategie di resistenza e di lotta nate da tale analisi si sono sviluppate principalmente in due direzioni. Una era orientata verso l'eguaglianza: si accettava la definizione della donna come biologicamente, emotivamente e socialmente diversa ma complementare all'uomo, rivendicando cosl gli stessi diritti, senza considerare come "i diritti dell'uomo" varino con le relazioni sociali di razza e classe che determinano l'esistenza degli uomini reali. Questo progetto mirava, quindi, all'omologazione, a creare un posto per le donne all'interno del discorso egemonico o, detto con Luce lrigaray, dell"'ideologia del medesimo". Calternativa era il separatismo radicale, che prendeva una posizione di netta opposizione nei confronti degli uomini e si prefiggeva di creare un controdiscorso, come nelle nozioni anglofone di "linguaggio delle donne" e "cultura delle donne", o rivendicava un linguaggio sintomatico del corpo, come nella nozione francofona di écritttre féminine, che si presumeva sovversiva dell'ordine "fallologocentrico" della cultura. 38 Su questo punto si veda Genealogie femmi11isle, in T. de Lauretis 1996a.

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Entrambe queste strategie, distinte sebbene intersecantisi, erano e continuano a essere importanti in contesti particolari o locali, ma ricadevano nei parametri dei discorsi culturali dominanti. Poste come erano in termini di pluralismo liberale, umanesimo socialista e modernismo estetico, entrambe rimanevano a modo loro, anche se involontariamente, invischiate nel razzismo, colonialismo ed eterosessismo a essi connessi. Per quanto riguarda la seconda strategia, la questione del separatismo è complessa, e si potrebbe certamente sostenere che il separatismo è inevitabile, desiderabile, o pers1no essenziale al femminismo; ma sta di fatto che gran parte del primo separatismo radicale si fondava interamente su un senso di indignazione morale.39 Privo di una teoria specifica e imperniato sulla condanna etica al "patriarcato", il separatismo radicale finiva per assumere la definizione del mondo data dal nemico, adottandone o rovesciandone i termini, termini che erano dati, quindi riconoscibili, e permettevano l'accesso a certe istituzioni, per esempio la giurisprudenza e gli studi accademici sulle donne (womens studies). In questi ultimi, infatti, il separatismo ha comportato la ricerca di uno spazio che la critica femminista di quegli anni descriveva come un territorio da occupare: una terra incognita, incolta e selvaggia da colonizzare (Showalter), una natura fatta a immagine di donna (Griffin), una "gin/ecologia" o etica di "pura libidine" (Daly). 40 Il modo in cui questa critica femminista ha colluso con l'ideologia del medesimo è sottolineato da Audre Lorde nella sua "lettera aperta" a Mary Daly: TI chiedo di renderti conto di come la convinzione che la storia [herstory, storia-di-lei] e i miti delle donne bianche siano il 39 Nel femminismo statunitense il separatismo era inizialmente separatismo dagli uomini, poi però il termine è stato usato per ogni forma di separatismo anche tra donne, per esempio separatismo delle donne lesbiche dalle donne eterosessuali o delle donne di colore dalle donne bianche. Si veda M. Frye I 995. 40 E. Showalter 1982; S. Griffin 1978; M. Daly 1978 e 1984.

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solo legittimo modo, per tutte le donne, su cui fondare il proprio potere e la propria appartenenza, e che le donne non bianche e le nostre storie [11erstories] valgano solo da decorazione o da esempi di vittimizzazione femminile, serva le forze distruttive del razzismo e la separazione tra le donne. TI chiedo di renderti conto dell'effetto che tale mancanza di riconoscimento ha sulla comunità delle donne nere e delle altre donne di colore, e di quanto essa svaluti le tue stesse parole. [ ... ] Quando il patriarcato ci mette da parte, incoraggia i nostri assassini. Quando la teoria femminista lesbica radicale ci mette da parte, incoraggia la propria fine:"

La contestazione interna da parte tanto di donne di colore al razzismo quanto di donne ebree all'antisemitismo, nonché di donne lesbiche di ogni colore all'eterosessismo, ha costretto il femminismo a fare i conti, emotivamente e concettualmente, con la presenza di relazioni di potere alla cui comprensione non bastavano, anzi erano di ostacolo, i concetti di genere e differenza sessuale. Non soltanto quest'ultima, con il suo investimento più o meno esplicito nell'eterosessualità, ma anche l'analoga nozione di differenza omosessuale proposta dal femminismo radicale - cioè che il lesbismo politico era il primo requisito per far parte di un'utopica collettività di donne - si sono dimostrate inadeguate a rendere conto di relazioni di potere che si (ri)producevano e si (ri)producono anche nei luoghi delle donne; relazioni che generano oppressione tra donne o tra categorie di donne, e relazioni che nascondono o reprimono le differenze interne a un gruppo di donne o anche a ciascuna di esse. Ora, tali accuse di razzismo, eterosessismo, classismo e privilegio sociale sono state per la maggior parte recepite dal pensiero femminista, ma forse sono state accolte troppo in fretta o troppo facilmente. La rivendicazione di altri interessi e la presenza di altre discriminanti sociali quali razza o colore, appartenenza etnica, sessualità ecc. - altri assi secondo cui sono organizzate e gerarchizzate le "diffe~, A. Lorde, Open letter to Mary Da(v, in A. Lorde 1984, p. 69.

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renze" e, quindi, l'oppressione, l'identità e la soggettivitàsono state accolte nel discorso femminista e poste sullo stesso piano. Questi assi sono dunque considerati paralleli o di pari portata, sebbene con "priorità" diverse a seconda delle singole donne. Per alcune, l'asse razziale può avere priorità sull'asse sessuale nel definire l'identità e la base materiale della soggettività; per altre donne può avere priorità l'asse sessuale; per altre ancora può essere l'asse etnico-culturale ad avere priorità in un dato momento. Da cui la frase che adesso si sente cosl spesso in ambiti filofemministi: "genere, razza e classe", con la variante locale "genere, razza, classe e preferenza sessuale". La frase, che delinea una serie di modi di oppressione articolata in assi paralleli di "differenza", non coglie però il carattere specifico e complesso dell'oppressione sociale; vale a dire l'implicazione reciproca di quegli assi e come ciascuno di essi abbia effetto sugli altri: per esempio, in che modo il genere incida sull'oppressione razziale e sui suoi effetti di soggettivazione. Nel saggio dal titolo Toward a Black Feminist Criticism (Verso una critica femminista nera), scritto nel 1977 e più volte ristampato, la femminista lesbica militante afroamericana Barbara Smith osservava che i critici neri "sono naturalmente in difficoltà nel comprendere l'esperienza delle donne nere in tennini sessuali e razziali nel contempo". 42 L'esperienza, sostiene Smith, si articola non solo in termini sessuali, cosa che per una femminista è facilmente comprensibile, ma anche in termini razziali, così che, per esempio, gli uomini neri, non comprendendo l'esperienza delle donne nere in termini sessuali, non la comprendono neanche in termini razziali; ovvero, non comprendono l'esperienza che le donne nere hanno del razzismo. Questo non è un concetto facile da capire per una donna bianca, perché, da una posizione che si presume razzialmente neutra, si può pensare semplicemente che tutte le persone nere abbiano la stessa esperienza del razzismo e che le donne 42

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B. Smith 1982, p. 162; corsivo mio.

nere, in più, vivano anche l'esperienza del sessismo. Invece, afferma Smith - e sembra quasi una tautologia, eppure in quante l'avevamo veramente capito? - le donne nere esperiscono il razzismo non in quanto persone nere ma in quanto donne nere. La stessa sottile ma fondamentale distinzione era scandita nel titolo ironico della prima antologia di studi delle donne nere, Al[ the Women Are White, Ali the Blacks Are Men, but Some of Us Are Brave (Tutte le donne sono bianche, tutti i neri sono uomini, ma alcune di noi sono coraggiose). Il termine "neri" non comprende le donne nere più di quanto il termine "uomo" (bianco) non comprenda le donne (bianche). La teoria della simultaneità delle oppressioni, elaborata da Barbara Smith con altre femministe afroamericane, 43 significa che gli assi di "differenza" e i modi di oppressione che ne derivano non sono allineati o paralleli ma sovrapposti o imbricati gli uni negli altri; i sistemi di oppressione sono interconnessi e si determinano reciprocamente. I.:affermazione di Smith, quindi, in primo luogo conferma che il genere è elemento base della soggettività; non a caso Smith si autodefinisce una femminista nera, una donna nera e una lesbica nera. 44 In secondo luogo, però, ci impone un'ulteriore riflessione: se l'esperienza del razzismo, e quindi della propria appartenenza razziale, dà forma all'esperienza che ciascuna fa del genere e della sessualità, ossia ai significati che essi acquistano nella vita di ciascuna, allora una donna bianca non è necessariamente più atta a comprendere l'esperienza di una donna nera in termini sessuali - la sua esperienza del43 Nel volume collettaneo Home Girls: A Black Femi11ist Amliology, a cura di Barbara Smith (1983), pp. 272-282. 44 Negli anni settanta e ottanta i termini Black [nero/nera] e AfroAmerican (afroamericano/afroamericana), con cui si autodesignavano le persone di origine africana negli Stati Uniti, avevano sostituito il precedente Negro, termine usato per esempio durante le lotte per i diritti civili negli anni sessanta. Oggi viene di preferenza usato "African American'', che però in italiano mi pare sia meglio tradurre con "afroamericano/ afroamericana".

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la sessualità, del genere e dell'eterosessismo, insomma, il suo senso di sé come soggetto sociale - di quanto non lo sia un uomo nero. Ma se è vero che l'esperienza del genere, l'esperienza di sé in quanto donna, è sovradeterminata dalle relazioni razziali, questo deve valere per tutte le donne, anche per le donne bianche. Un resoconto particolare di come le determinazioni razziali operino nell'identità di una donna bianca, e di come possano essere analizzate e decostruite attraverso la scrittura di una "storia personale", si trova nel saggio-racconto autobiografico di Minnie Bruc~ Pratt, Identity: Skin Blood Heart (Identità: pelle sangue cuore)45 e nella lettura che ne danno Biddy Martin e Chandra Mohanty. Il saggio, sostengono le due studiose, è una messa in atto del processo di autocoscienza: muove dal senso viscerale, puramente personale, dell'identità espresso dal titolo verso "una complessa elaborazione del rapporto tra casa, identità e comunità, che mette in questione la nozione di un'identità coerente, stabile e storicamente continua", rivelando "le esclusioni e le rimozioni che sostengono l'apparente omogeneità, stabilità e ovvietà dell'identità bianca". 46 Perciò quest'ultima si rivela costituita proprio in base alla marginalizzazione delle differenze che esistono sia dentro sia fuori i confini tracciati a delimitare ogni entità omogenea o unitaria, sia essa l'Io, la casa, la razza o la comunità etnica. La narrativa autobiografica di Pratt si configura come un passaggio non lineare attraverso le diverse identità della scrittrice (bianca, di ceto medio, di educazione cristiana, del Sud degli Stati Uniti, lesbica) e le città, i quartieri o le comunità che le sono state "casa" in vari periodi della sua vita. La scrittura della storia personale procede di pari passo alla messa in questione delle specifiche storie geografiche, demografiche, architettoniche e sociali di quelle comunità, portando alla luce storie locali di sfruttamento 45 46

M. B. Pratt 1984.

B. Martin-Ch. Mohanty 1986, pp. 195, 193. I successivi riferimenti a quest'opera sono inclusi nel testo. 42

e di lotta, "storie di persone non come lei", che non erano state mai menzionate nella storia raccontata dalla sua famiglia; e di volta in volta si verifica una tensione tra "l'essere a casa" e "il non essere a casa". Ogni tappa del racconto diventa luogo di lotte allo stesso tempo personali e sociali, fino a giungere al riconoscimento che "casa era un'illusione di coerenza e sicurezza basata sull'esclusione di specifiche storie di oppressione e di resistenza [e sulla] repressione delle differenze all'interno della singola persona" (p. 196). Per cui, anche se il fatto di narrare àncora nuovamente il sé in ognuna delle posizioni discorsive e delle situazioni storiche concrete in cui Pratt si colloca come scrittrice e soggetto narrante, ciò nonostante l'esistenza contraddittoria di quel soggetto dovunque si trovi, il suo essere e non essere "a casa" in ogni luogo, e il continuo dislocarsi del sé da ciascuna forma di identità, dopo aver preso coscienza delle differenze soppresse, minano il concetto di identità come qualcosa di singolare, coerente, unitario o determinato una volta per tutte. Ma se il ritorno al passato fornisce la cognizione critica che l'idea di un Io immutabile e di una stabile identità sia ottenuta a prezzo di esclusioni e mantenuta nel terrore dell'ostracismo sociale, d'altra parte non c'è una facile via di fuga verso la liberazione, non c'è un modo semplice di disfarsi della paura del padre e della sua legge simbolica; e la dimensione di una libertà totale non si raggiunge mai. La storia personale di Pratt rivela una serie di spostamenti di ottica dai quali ciascuna configurazione dell'identità è esaminata nella sua contraddittorietà e quindi decostruita. Ma non per questo è scartata, anzi, è assunta coscientemente in quella che Martin e Mohanty chiamano "una riscrittura di sé in relazione a contesti interpersonali e politici mutevoli". Se c'è un punto d'identificazione privilegiato, che dà impeto al lavoro di auto-(de)costruzione, esso è l'essere lesbica, ma ciò non comporta un'identità più vera o priva di contraddizioni; è invece il punto nevralgico che favorisce la comprensione e la presa di coscienza. 43

È ciò che rende impossibile una casa e rende il sé non identico. Il suo essere lesbica è ciò che le dà l'esperienza più immediata delle limitazioni impostele dalla famiglia, dalla cultura, dalla razza e dalla classe che le hanno procurato privilegi e agiatezza a caro prezzo. Imparare a quale prezzo si comprino i privilegi, l'agiatezza, la casa e un'idea rassicurante di sé - a quale prezzo per lei e in ultima analisi per gli altri - è ciò che rende il lesbismo una motivazione politica oltre che un'esperienza personale. [ ...] Nel racconto di Pratt l'essere lesbica è ciò che rivela il limite ultimo di'quello che viene rappresentato come l'essere umano nella sua universalità, non limitato da una particolare identità, ovvero la figura dell'individuo bianco di ceto medio (p. 203).

Alla fine del racconto, è il concetto stesso di casa che viene abbandonato, non soltanto la casa della sua infanzia e la famiglia, ma ogni altra "casa", per esempio un gruppo di donne, che ne replicasse le condizioni e desse luogo alla "soppressione delle differenze che assicura l'identità del nucleo familiare" (p. 205). D concetto di casa viene sostituito da quello di comunità nel senso di qualcosa di intrinsecamente instabile e contestuale, non basata sull'identità delle sue componenti o su legami naturali, ma una comunità che è frutto di lavoro, di lotta, di interpretazione, "interpretazione basata sull'attenzione alla storia, al concreto, a ciò che Foucault ha chiamato 'saperi soggiogati'" (p. 210). La lettura di Martin e Mohanty è essa stessa un'interpretazione, un intervento critico nel terreno contestato della teoria femminista: Quello che abbiamo voluto fare emergere da questo testo è il modo in cui esso sconvolge non solo l'idea che il femminismo sia una casa sempre accogliente, ma anche quella che esistano identità discrete, coerenti e totalmente separate - case all'interno del femminismo, per così dire - basate su divisioni nette tra identità sessuali, razziali o etniche (p. 192).

Canalisi critica, e autocritica, delle nozioni convenzionali di esperienza e identità che troviamo in questo e altri 44

testi di teoria femminista degli anni ottanta contraddice lo stereotipo di un femminismo singolo, totalizzante, "occidentale" che sarebbe necessariamente oppressivo o, nel migliore dei casi, irrilevante per le donne di colore nel resto del mondo. Stereotipo che, oltre a non rappresentare il femminismo né la situazione delle donne bianche in Occidente, perpetua un'opposizione tra Occidente e Oriente, tra bianco e non bianco; opposizione che lascia intatta la finzione ideologica delle loro rispettive identità e in questo modo contribuisce all'immagine di una (falsa) omogeneità dell'"Occidente". Teorizzare il femminismo come comunità dai confini labili, in cui le identità e le differenze vengano espresse e rinegoziate attraverso rapporti sia interpersonali sia politici, si accorda con la ridefinizione di esperienza (individuale) come processo continuo di scambio e mediazione tra pressioni esterne e resistenze interne. In questo senso identità viene a significare un'autocollocazione, una scelta - sempre sovradeterminata dall'esperienza - tra le possibili posizioni accessibili nel campo sociale, ossia che possono essere assunte dal soggetto involontariamente (ideologicamente) oppure sotto forma di coscienza politica. 47 47 I.:assunzione dell'identità di "donne di colore" (women of color) negli Stati Uniti (o "donne nere" [black women] nel Regno Unito) da par• te di donne che appartengono a gruppi etnici e a culture diversissime tra loro (asiatiche, native americane, afroamericane, caraibiche, chicanas, latino-americane, e cosl via) è un esempio di coscienza personale-politica che non si basa semplicemente su differenze etniche o culturali rispetto alla cultura bianca dominante; una coscienza personale-politica che non è affatto l'opposizione di valori culturali stabili in una data minoranza etnica a valori culturali della magaioranza, pensati come altrettanto stabili. I.:identità di donna di colore è emersa ed è stata elaborata dalla specifica esperienza storica del razzismo nella società anglo-americana, dominata dagli interessi economici e culturali dei bianchi. Si è sviluppata dalla consapevolezza della necessità politica e personale di costruire comunità attraverso, nonostante, in tensione o perfino in contraddizione con i valori culturali del proprio gruppo etnico, della propria famiglia, della propria "casa". Si vedano Ch. Moraga, Loving in tl1e War léars; M. Quintanales, / Paid Very Hard {or My lmmigrant lg11orance; M. Kaye• Kantrowitz, Some Notes on Jewish Lesbian /dentity; Ch. Clark, Lesbiani•

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Il soggetto di tale coscienza femminista non è più quello inizialmente definito in base al solo asse del genere, dal1'opposizione uomo-donna, e costituito puramente dall'oppressione, repressione o negazione della propria differenza sessuale. In primo luogo, tale soggetto è assai meno puro. Anzi, è con più probabilità ideologicamente complice dell"'oppressore" di cui può occupare il posto in certe relazioni socio-sessuali, anche se non in altre. In secondo luogo non è un soggetto unitario, sempre uguale a se stesso, dotato di identità stabile; né un soggetto unicamente diviso tra mascolinità e femminilità. È inveèe un soggetto che occupa posizioni molteplici, distribuite su vari assi di differenza, e attraversato da discorsi e pratiche che possono essere, e spesso lo sono, reciprocamente contraddittorie. È costituito, come il soggetto postmoderno, marginale, immaginato da Samuel Delany, di "frammenti i cui aspetti costitutivi includono sempre altri oggetti, altri soggetti, altri sedimenti, per cui la nozione di 'altro' [altro da sé] si sgretola sotto il peso stesso dell'analisi che il 'sé' applica per localizzarlo".48 Infine, e ciò è forse ancor più significativo, il soggetto nella teoria femminista ha la capacità di agire, di muoversi o dislocarsi in modo autodeterminato, di prendere coscienza politica e responsabilità sociale, pur nella sua contraddittorietà o non coerenza. Ho detto più sopra che la teoria femminista si è affermata e resa autonoma in un'ottica postcoloniale. Voglio adesso ripeterlo in un altro modo: se si può dire che la storia del secondo femminismo sia cominciata "quando sono venuti a convergere testi femministi scritti da donne e un movimento femminista cosciente di sé",49 si può poi aggiungere che una teoria femminista in quanto tale comincia quando la critica femminista delle formazioni socioculturali (discorsi, forme di rappresentazione, ideologie) sni: An Act of Resistance; M. Woo, Letter to Ma, tutti in Ch. Moraga e G. Anzaldua 1983. 48 S. R. Delany 1986. 49 E. Marks-1. de Courtivron I 980, p. 3. 46

diventa consapevole di sé e si volge al proprio interno per interrogare la propria complicità con quelle ideologie: per interrogare il suo stesso corpo eterogeneo di scritture e di interpretazioni, i loro presupposti concettuali, le pratiche cui danno luogo e dalle quali emergono. Comincia dunque, la teoria femminista, con il "riconoscere il nostro posizionamento, il dare un nome alla terra dalla quale proveniamo, le condizioni che abbiamo dato per scontate", come scrive Adrienne Rich in un saggio del 1984, Notes Toward a Politics of Location (Politica del posizionamento). so Quindi passa a esaminare il carattere situato, storico e politico del proprio pensiero. Ma poi, per poter andare avanti con il lavoro di trasformazione sociale e soggettiva, per poter sostenere il movimento, deve di nuovo dis-locarsi, dis-identificarsi da quei presupposti e da quelle condizioni. Questa teoria femminista, che ora è appena all'inizio, non solo allarga e riconfigura i precedenti confini discorsivi con l'inclusione di nuove categorie, ma insieme rappresenta e mette in atto una trasformazione della coscienza storica. A mio parere, la trasformazione comporta uno spostamento, un vero e proprio dis-locamento: lasciare o rinun• ciare a un posto che è sicuro, che è "casa" in tutti i sensi - socio-geografico, affettivo, linguistico, epistemologico per un altro posto, sconosciuto, in cui si è non solo affettivamente ma anche concettualmente a rischio; un posto dal quale parlare e pensare sono incerti, insicuri, non garantiti (ma andarsene non è una scelta perché Il, so Il saggio, pubblicato in Blood, Bread, and Poetry (cfr. A. Rich 1986), pp. 210-231, è parzialmente tradotto in italiano con il titolo Politica del posizionamento ( 1996), pp. 15-22. La traduzione dei brani citati in questo testo è mia. A Rich non piace il termine "teoria", le pare troppo occiden· tale e troppo centrato sugli interessi dei bianchi, astratto dalle azioni umane e poi "rifilato alla gente sotto forma di slogan" (p, 213). La teoria del femminismo bianco occidentale non ha ancora preso in considerazione il femminismo delle donne di colore, Rich giustamente contesta nel 1984. Oggi però il termine "teoria femminista" e le diverse pratiche critiche che ne fanno parte sono accolti da molte scrittrici di colore, soprattutto in ambito universitario (si veda, per esempio, beli hooks 1984).

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comunque, non si poteva più vivere). Sia dal lato affettivo sia da quello epistemologico lo spostamento è doloroso, è fare teoria sulla propria pelle, "una teoria in carne e ossa" (Moraga).51 È un continuo attraversamento di frontiere (Borderlines/La Frontera è il titolo del libro di Gloria Anzaldua sulla "nuova mestiza"), anzi un ridisegnare la mappa dei confini tra corpi e discorsi, identità e comunità, il che, forse, spiega perché sono state principalmente le femministe di colore e lesbiche ad affrontare il rischio. Tale dis-locamento, tale dis-identificazione da un gruppo, una famiglia, un sé, una "casà," diciamo pure anche da un femminismo tenuti insieme dalle esclusioni e dalla repressione che sottendono ogni ideologia del medesimo, è altresl un dislocamento del proprio modo di pensare; comporta nuovi saperi e nuove modalità di conoscenza che permettono di rivedere sia la teoria femminista sia la realtà sociale da un punto di vista allo stesso tempo interno ed esterno alle loro determinazioni. A mio avviso tale punto di vista o posizione discorsiva eccentrica è necessaria al pensiero femminista; necessaria tanto a sostenere la capacità di movimento del soggetto quanto a sostenere il movimento femminista stesso. È una posizione raggiunta sia concettualmente sia nelle altre dimensioni della soggettività; è fonte di resistenza e di una capacità di agire e di pensare in modo eccentrico rispetto agli apparati socioculturali dell'eterosessualità, attraverso un processo di "conoscenza insolita" (Frye), una "pratica cognitiva" (Wittig) che non è solo personale e politica ma anche testuale, una pratica di linguaggio nel senso più lato. Una figura testuale di tale soggettività eccentrica è il titolo di un saggio di Monique Wittig, One Js Not Born a Woman (Donna non si nasce, cfr. M. Wittig 1992, pp. 9-20). La frase, tratta da Il secondo sesso di Beauvoir, è riproposta con sottolineatura ironica dall'autrice di Il corpo lesbico. Ripetendo la frase, ma spostando l'enfasi dalla parola "nasce" alla parola "donna", Wittig richiama la definizione 51

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Ch. Moraga in Ch. Moraga-G. Anzaldua 1983, p. 23.

convenzionale (eterosessuale) della donna data da Beauvoir e la dis-loca; la nega, ma senza cancellarla; ne sposta il significato riscrivendola o inserendola in una prospettiva eccentrica. 52 Spostamento di enfasi in un testo critico, dunque una pratica testuale, che non a caso ci rimanda al soggetto scrivente e al dis-locamento geografico e culturale della stessa Wittig dalla Francia agli Stati Uniti, dove attualmente vive e lavora. Nelle pagine seguenti userò questo testo, straordinariamente ricco di suggerimenti teorici, per riunire le tracce di un disegno che ho inseguito nel mio girovagare intertestuale attraverso lo spazio discorsivo di scritti di donne lontane (o vicine) tra loro quanto lo sono la Francia del 1949 e la frontera Messico-Stati Uniti nell'anno domini 1987. Come Beauvoir, Hartsock e MacKinnon, anche Wittig parte dalla premessa che le donne non siano "un gruppo naturale" con delle caratteristiche biologiche comuni, la cui oppressione sarebbe dovuta a quella stessa "natura", ma siano invece una categoria sociale: il prodotto di rapporti economici di sfruttamento e di una costruzione ideologica. Per cui (ma qui già Wittig lascia Beauvoir per seguire invece l'analisi femminista materialista di Christine Delphy), le donne sono una classe sociale con interessi comuni basati sulla loro condizione specifica di sfruttamento e dominazione, cioè l'oppressione di genere, la quale offre loro una prospettiva, una posizione di conoscenza e di lotta, analoga (come sostiene Hartsock, che però, come si è visto, va in una direzione assai diversa) a quella del proletariato. Le donne, quindi, possono prendere coscienza di sé in quanto classe, e questa presa di coscienza in un movimento politico è ciò che rappresenta il femminismo. "La condizione delle donne," scrive Delphy, "è diventata 'politica' nel momento in cui ha dato inizio a una lotta, e quando, contemporaneamente, si è cominciato a pensarla come oppressione." L'oppressione del proletariato era la 52

M. Wittig, One /s Not Born a Woman, in M. Wìttig 1992, pp. 9-20. 49

premessa necessaria per la teoria marxiana del capitale, e la concettualizzazione di quella oppressione era possibile soltanto dalla particolare posizione degli oppressi; allo stesso modo "è soltanto dal punto di vista e dal1'esperienza di vita delle donne che la loro condizione può essere vista come oppressione". Il movimento delle donne e la concettualizzazione femminista dell'esperienza delle donne come oppressione esercitata e articolata in base a1 loro sesso o genere, fanno della sessualità uno dei massimi luoghi della lotta di classe. Questo arricchisce l'analisi storica materialista di una nuova dimensione di esperienza, e dà luogo a una nuova comprensione della sfera politica che "potrebbe rovesciarla completamente. Ovvero si potrebbe dire che la consapevolezza delle donne di essere oppresse cambi la definizione stessa di oppressione".53 Tale ridefinizione dell'oppressione come categoria politica e soggettiva, alla quale si arriva solo dal punto di vista delle oppresse, attraverso una lotta e come forma di coscienza, va distinta dalla categoria economica dello sfruttamento, che è una categoria oggettiva; e si riallaccia invece alla definizione di oppressione formulata già alla metà degli anni settanta dal collettivo femminista afroamericano Combahee River Collective, che per primo ha teorizzato una politica identitaria (identity politics ). Le femministe nere e molte altre donne nere che non si definiscono femministe hanno tutte vissuto l'oppressione sessuale come un fattore costante della nostra vita quotidiana, [ ... ] Tuttavia, non avevamo modo di concettualizzare ciò che per noi era cosi evidente, quello che sapevamo che stava realmente succedendo [ ...] prima di acquisire i concetti di politica sessuale, dominio patriarcale e, più importante ancora, femminismo, ossia l'analisi e la pratica che noi donne usiamo per lottare contro la nostra oppressione. [ ... ] Questo rivolgere l'attenzione alla nostra oppressione è incorporato nel concetto di politica identitaria. Noi crediamo che la politica più profonda e potenzialmente più radicale pro53

50

Ch. Delphy 1984, pp. 217,218.

venga direttamente dalla nostra identità. [...] Sebbene siamo femministe e lesbiche, ci sentiamo solidali con gli uomini neri progressisti e non auspichiamo il frazionamento preteso dalle separatiste bianche. [ ...] Lottiamo insieme agli uomini neri contro il razzismo, mentre lottiamo contro gli uomini neri per quanto riguarda il sessismo. [ ...] È necessario articolare la vera situazione di classe di persone che non sono semplicemente lavoratori/lavoratrici prive di razza e di sesso, bensl persone per cui l'oppressione razziale e sessuale sono fattori determinanti nella loro vita lavorativa ed economica. Sebbene siamo essenzialmente d'accordo con la teoria di Marx, nella misura in cui si applicava alle specifiche relazioni economiche da lui analizzate, sappiamo anche che la sua analisi deve essere estesa ulteriormente affinché comprendiamo la nostra specifica condizione economica di donne nere. 54

L'analisi dell'oppressione economica e sociale si articola sui vari assi secondo cui sono organizzate e gerarchizzate le differenze di classe, razza o colore, genere e sessualità, appartenenza etnica ecc.; e si articola, da una parte, in relazione alla soggettività e all'identità, e, dall'altra, in relazione alla capacità di resistenza e di azione da parte del soggetto. È tale analisi che rappresenta la nozione di coscienza che ho cercato di delineare come storicamente specifica del femminismo occidentale odierno. Non a caso, quindi, l'analisi di Delphy ha vari punti in comune anche con quella postmarxista di MacKinnon. "La sinistra rifiuta un'analisi materialista [solo in relazione all'oppressione delle donne], perché ciò potrebbe condurre alla conclusione che sono gli uomini a beneficiare dello sfruttamento patriarcale, e non il capitale," scrive Delphy in risposta alle femministe marxiste inglesi Michèle Barrett e Mary Maclntosh, dal momento .che "gli uomini sono la classe che opprime e sfrutta le donne." Se le femministe socialiste insistono nel vedere l'oppressione delle donne come "conseguenza secondaria dell'antagonismo di classe tra uomini", e se tanto desiderano esimere 54

B. Smith 1983, pp. 274-278. 51

gli uomini dalla responsabilità dell'oppressione delle donne, ciò può solo derivare dalla convinzione "che ci debbano essere necessariamente, tra la maggior parte degli uomini e delle donne, dei rapporti stretti e permanenti in ogni momento", convinzione fondata sull'ideologia dell'eterosessualità (e fermamente asserita da Beauvoir nel brano sopra citato). Delphy conclude con quella che vorrebbe essere una profezia: "Credo che questo sarà il prossimo dibattito nel movimento [... ] la rottura dell'ultima barriera ideologica e la via di uscita dal tunnel sulla questione del rapporto tra lesbismo e femminismo". 55 Ma nel saggio citato sopra, One Is Not Bom a Woman (scritto negli Stati Uniti ma approssimativamente nello stesso periodo e nello stesso contesto politico, cioè il lavoro della rivista "Questions féministes", cui era stata vicina prima di lasciare la Francia), Wittig ha già oltrepassato quella barriera e portato l'analisi di Delphy molto più lontano. In effetti, la via d'uscita dal tunnel porta a un bivio per la teoria femminista: una strada (se le donne non sono una classe di per sé) porta di nuovo al paradosso della donna, alla differenza sessuale, alla filastrocca di genere, razza e classe, al dibattito sulle priorità, e cosi via; l'altra strada (se le donne sono una classe oppressa che lotta per la scomparsa di tutte le classi) porta alla scomparsa delle donne in quanto classe, ossia la scomparsa delle donne in quanto donne. La divergenza di quest'ultima strada, quella presa da Wittig, dagli scenari di un futuro femminista cui ho accennato nella prima parte, diviene drastica quando Wittig immagina come sarebbero le persone oggi chiamate donne in tale società senza donne. Il suggerimento le viene dalla presenza, nel mondo di oggi, di una "società lesbica" che, per quanto marginale, funziona per certi versi autonomamente dall'istituzione eterosessuale. Poiché, sostiene Wittig, le lesbiche non sono donne: "Il rifiuto di diventare (o rimanere) eterosessuali ha sempre voluto dire 55 Ch. Delphy,A Materialist Femi11ism /s Possible, in Ch. Dclphy 1984, pp. 178-179, 180, 181.

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rifiutare di diventare un uomo o una donna, consciamente oppure no. Per una lesbica questo va oltre il rifiuto del ruolo 'donna'. È il rifiuto del potere economico, ideologico e politico dell'uomo". 56 Tornerò su questo punto dopo aver riassunto la tesi di Wittig. Situandosi nell'ambito del femminismo materialista che qui ho chiamato postmarxista, anche Wittig mette in campo il materialismo storico e il femminismo liberale, e con mossa strategica li pone l'uno contro l'altro e ciascuno contro se stesso, dimostrando che sono entrambi inadeguati per definire il soggetto in termini materialisti. Prima mobilita i concetti marxisti di ideologia, classe e relazioni sociali per criticare il femminismo dell'omologazione: i termini dell'equazione genere = differenza sessuale, sostiene Wittig, costruiscono la donna come una "formazione immaginaria" in base al valore biologico-erotico delle donne per gli uomini; ciò rende impossibile capire come gli stessi termini "donna" e "uomo" siano "categorie politiche e non dati naturali", e quindi porre in questione le vere relazioni socio-economiche istaurate e mantenute dal genere. Poi, però, rivendicando la nozione femminista del sé, di una soggettività che, sebbene prodotta socialmente, è percepita e vissuta dall'individuo nella sua singolarità concreta, corporea, Wittig usa questa nozione contro il marxismo, il quale, da parte sua, nega una soggettività individuale ai membri delle classi oppresse. Sebbene "materialismo e soggettività si siano sempre esclusi a vicenda", coscienza di classe e soggettività individuale vanno tenute in conto entrambe: senza quest'ultima, scrive, "non ci può essere alcuna lotta o trasformazione reale. Ma è vero anche l'opposto: senza il concetto di classe e la coscienza di classe non esistono soggetti reali, esistono solo individui alienati". Ciò che unisce le due concezioni, materialismo e femminismo, e permette di ridefinire sia la coscienza di classe sia la soggettività individuale come storia personale, o 56

M. Wittig, 011e ls Not Boma Woman, in M. Wittig 1992, p. 13.

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riscrittura di sé nel senso individuato poc'anzi a proposito del saggio politico-autobiografico di Pratt, è il concetto di oppressione che, si è visto, si è venuto elaborando nella teoria femminista dagli anni ottanta in poi. Quando scopriamo che le donne sono oggetti di oppressione e di appropriazione, nel momento stesso in cui siamo capaci di percepire ciò, diventiamo soggetti nel senso di soggetti cognitivi, tramite un'operazione di astrazione. La coscienza dell'oppressione non è solo una reazione (per combattere) contro l'oppressione. È anche I~ completa rivalutazione concettuale del mondo sociale, la sua completa riorganizzazione per mezzo di nuovi concetti, dal punto di vista dell'oppressione [ ... ] chiamiamola una pratica cognitiva soggettiva. L'andirivieni tra i livelli della realtà (la realtà concettuale e la realtà materiale dell'oppressione, che sono entrambe realtà sociali) è conseguito attraverso il linguaggio. 57

La "pratica cognitiva soggettiva" di Wittig è una riconcettualizzazione del soggetto, del rapporto tra soggettività e socialità, e della conoscenza stessa, da una posizione che viene esperita come autonoma dall'eterosessualità istituzionale e quindi eccede i limiti del suo orizzonte discorsivo-concettuale. Lesbica è il solo concetto che io conosca che sia al di là delle categorie del sesso (donna e uomo), perché il soggetto designato (lesbica) non è una donna né economicamente né politicamente né ideologicamente. Perché ciò che costituisce una donna è una specifica relazione sociale con un uomo, una relazione che precedentemente abbiamo chiamato servitù, una relazione che implica un obbligo personale e fisico, cosi come economico (residenza forzata, lavoro domestico non retribuito, doveri coniugali, produzione illimitata di prole ecc.), una relazione cui le lesbiche sfuggono, rifiutando di diventare o di rimanere eterosessuali.58 57 58

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Ivi, pp. 18-19. Ivi, p. 20.

Ecco quindi in che senso Wittig propone la scomparsa delle donne come obiettivo del femminismo. La lotta contro gli apparati ideologici e le istituzioni socio-economiche dell'oppressione delle donne consiste nel rifiutare i termini del contratto eterosessuale, non solo nella pratica del vivere ma anche nella pratica del conoscere. Consiste nel concepire il soggetto sociale in modo eccentrico, in termini autonomi o eccedenti le categorie del genere. "Lesbica" è uno di questi. La difficoltà di capire o definire un termine che non fa parte di un dato sistema concettuale, sostiene Ma1ilyn Frye, sta nel fatto che il linguaggio su cui si basa quel sistema non è adatto a definirlo. Come mai, si chiede Frye, "quando cerco di nominarmi e spiegare come o chi sono, la mia lingua madre mi offre una parola [...] che vuol dire 'un'abitante di Lesbo'?". Il termine "lesbica" dimostra di essere straordinariamente resistente alle procedure standard di analisi semantica, perché le lesbiche non sono contemplate dallo schema concettuale dominante, cosl come sono assenti dal lessico ufficiale della lingua inglese; a tal punto che anche il tentativo di arrivare a una definizione del termine "lesbica" con una serie di riferimenti incrociati presi da vari dizionari è "un flirt con il non senso, una danza attraverso una regione di lacune cognitive e spazi semantici negativi". Tuttavia, aggiunge Frye, l'essere fuori del sistema concettuale ci mette "nella posizione di vedere cose che non possono essere viste dall'interno"; consente "un riorientamento dell'attenzione [e] delle proprie capacità percettive", e quindi la messa in questione della realtà sociale data. 59 In altre parole, se questa posizione è fuori dal sistema concettuale, assumerla o occuparla significa dissociarsi, dis-identificarsi, dis-locarsi e acquisire un punto di vista eccentrico al sistema. Come la donna bianca "infedele alla civiltà" di cui scrive Rich in Disloyal to Civiliz.ation, 60 come la "nuova mestiM. Frye 1983, pp. 160, 154, 171. In A. Rich 1979, pp. 275-310. Questo saggio non è tradotto nella edizione italiana. 59 60

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za" di Anzaldua e le "donne di casa mia" di Smith, la lesbi. ca di Frye "infedele alla realtà fallocratica" è il soggetto di un "conoscere insolito", una pratica cognitiva, una forma di coscienza che non è primordiale, universale o connatu. rata al pensiero umano, come credeva Beauvoir, ma è sto. ricamente determinata e tuttavia assunta soggettivamente, politicamente. Come loro, la lesbica di Wittig non è sem. plicemente una persona con una particolare "preferenza sessuale", tanto meno una femminista con una "priorità politica"; è un soggetto eccentrico al campo sociale, costi• tuito in un processo di interpretàzione e di lotta, di riscrit• tura di sé in relazione a un'altra cognizione del sociale, della storia, della cultura. Credo sia questa la "società lesbica" di cui parla Wittig: non un termine che designa un tipo di organizzazione sociale (non tradizionale), né il programma per una società futuristica, utopica o distopica, come quelle imma. ginate in The Female Man di Joanna Russ o come la comu. nità di amazzoni in Les guérillères della stessa Wittig. Mi pare invece un termine teorico, la figura di uno spazio concettuale ed esperienziale ritagliato dal campo sociale, uno spazio di contraddizioni, nel "qui e ora", che devono essere affermate ma non risolte; spazio in cui l"'Altro/a inappropriato/a", come l'immagina T. Minh•ha Trinh, "si muove sempre con almeno due/quattro gesti: quello di affermare 'io sono come te' mentre indica insistentemente la differenza; e quello del ricordare 'io sono diversa' men• tre sconvolge qualsiasi definizione di alterità si sia rag• giunta".61 I termini "lesbica" e "società lesbica" sostengono la ten• sione di questo gesto multiplo e contraddittorio. Nel mentre asserisce che le lesbiche non sono donne, Wittig ci mette in guardia contro gli scritti delle "lesbofemministe" in America e altrove, che ci vorrebbero di nuovo intrappolate nel mito della donna. Però rifiutare di essere una donna non ci fa diventare uomo. Infine, dunque, "una lesbica 6 1 Trinh

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T. Minh-ha 1986-1987, p. 9.

deve essere qualcos'altro, non-donna e non-uomo". 62 Perciò, quando Wittig conclude "siamo noi che storicamente dobbiamo accollarci il compito di definire il soggetto individuale in termini materialisti", quel noi è una figura concettuale: il punto di vista eccentrico dal quale riscrivere sia il marxismo sia il femminismo, ricollegando la critica del sistema sesso/genere con !'"economia politica del sesso", come auspicava tempo fa Gayle Rubin. 63 Insisto. Il "noi" di Wittig non si riferisce a donne privilegiate, "qualificate per spiegare la condizione della donna", come pensava Beauvoir. La "società lesbica" non si riferisce a una qualche collettività di donne omosessuali, cosi come il termine "lesbica" non si riferisce semplicemente a una donna lesbica. Sono invece i termini concettuali, teorici, di una forma di coscienza femminista che può esistere storicamente soltanto nel "qui e ora" come coscienza di qualcos'altro. Noi, lesbica, mestiza e altra inappropriata sono tutte figure di quella posizione critica che ho cercato di fare emergere e di riarticolare da vari testi del femminismo contemporaneo: una posizione raggiunta attraverso pratiche di dislocamento politico e personale, attraversando i confini tra identità e comunità socio-sessuali, tra corpi e discorsi. La posizione di un soggetto eccentrico.

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M. Wittig, One /s Not Born a Woman, in M. Wittig 1992, p. 13. G. Rubin 1976, tradotto in italiano con il titolo l.D scambio delle donne. Di questo parlerò nei capitoli successivi. 63

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2. Irriducibilità del desiderio e cognizione del limite*

Il mio lavoro sulla soggettività femminile, una ricerca interdisciplinare che si è svolta lungo un arco di oltre ven• ti anni, principalmente negli Stati Uniti, è radicato nelle pratiche del femminismo nordamericano, ma si awale di apporti teorici e prospettive epistemologiche di provenienza europea. Vorrei qui riprendere e riflettere su alcuni concetti o termini che a mio avviso costituiscono i grossi nodi, i punti di articolazione, de] pensiero lesbico e femminista sulla soggettività. Su questi cercherò un confronto con il pensiero italiano attuale. I termini che ho scelto, nell'ordine di una mia personale cronologia, sono: genere e differenza sessuale, identità e politica, sessualità e desiderio. Il mio discorso potrà risultare in parte schematico nel tradurli o trasportarli nel contesto italiano, ma a volte la traduzione (che, si sa, è sempre anche un tradimento) può produrre uno scarto, un salto concettuale, un di più di senso che spinge avanti il pensiero e lo scardina dai concetti reificati e dalle frasi fatte.

* Questo saggio è una versione ampliata della relazione presentata all'incontro 1A soggettività femminile. Tra gender studies e pensiero della differenza, tenutosi al Salone del Libro di Torino il 17 maggio 1996 e poi pubblicata, con il titolo lA soggettività femminile, in "Lapis~, 31, settembre 1996, pp. 56-58. 58

Genere e differenza sessuale

Il concetto di genere nel senso di gender è di recente acquisizione nel pensiero critico italiano, e per lo più in quello europeo, mentre negli Stati Uniti e in altri paesi anglofoni è nato con il movimento delle donne negli anni settanta, ed è stato elaborato dalla critica femminista nel contesto dei womens studies. Tant'è vero che gli odierni gender studies, in Nordamerica, sono sorti molto dopo e proprio in opposizione al femminismo radicale e a una ricerca che privilegia la produzione culturale femminile e gli studi delle donne. Negli anni settanta, dunque, genere, differenza sessuale e sessualità erano praticamente sinonimi nel discorso femminista, per poi scindersi - grosso modo, negli anni ottanta - in due categorie antitetiche: da un lato sessualità o sesso, pensati come dati naturali, biologici, anche se non in senso eterononnativo; dall'altro lato gender o differenza sessuale, visti come costruzioni sociali e ideologiche del patriarcato, a tutto svantaggio delle donne (e di certi uomini). Rimanevano comunque fermi il principio etico di integrità o coerenza tra vita e pensiero politico ("il personale è politico"), che tuttora costituisce una premessa fondante del femminismo, e l'idea di una sessualità femminile naturale su cui la società patriarcale sovraimponeva il genere come struttura istituzionale dell'oppressione delle donne. 1 1 Il primo e il più influente lavoro femminista sul genere, Lo scambio delle do1111e di Gayle Rubin (cfr. Rubin 1976), usava il termine sexlgender system (sistema sesso/genere) per designare l'insieme "dei dispositivi tra• mite i quali una società trasforma l'istinto sessuale biologico in prodotto dell'attività umana e attraverso cui i bisogni sessuali, cosl trasformati, sono soddisfatti" (pp. 24-25). E dimostrando ulteriormente la sinonimia di sesso e genere tipica del pensiero femminista degli anni settanta, Rubin riassumeva le teorie di Freud sulla sessualità femminile con una frase oggi sorprendente: "La psicoanalisi è una teoria del genere" (p. 55). Una decina di anni dopo, però, la stessa Rubin, in un saggio altrettanto influente, Thi11ki11g Sex (cft-. Rubin 1993), sosteneva la necessità di elaborare una teoria e una politica del sesso a11to11ome dalla critica femminista

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In tale contesto il mio lavoro sulle "tecnologie del genere" (di cui un capitolo è tradotto in Sui generi$ [cfr. de Lauretis 1996a]) analizzava la costruzione sociale del genere e la sua introiezione o assunzione da parte dei singoli individui come effetto di discorsi e rappresentazioni che, insegna Foucault, si ancorano a dispositivi di potere, ossia a istituzioni sociali quali la famiglia, la scuola, la medicina, il diritto, il linguaggio, i mass media, ma anche a pratiche culturali (la letteratura, l'arte, il cinema) e a saperi disciplinari-disciplinati, quali la filosofia o la teoria. Il soggetto sociale, sostenevo, non è dotato di una sessualità naturale, innata o originaria, ma si costituisce - e si costituisce sessuato - come effetto delle rappresentazioni del genere, nell'identificarsi in esse, nel farle proprie; il soggetto quindi è costruito o meglio in-generato in una continua interazione - in una soggezione interattiva, potremmo dire oggi, nel linguaggio dei videogame - con le tecnologie del genere. La presa di coscienza derivante da questa analisi, e dall'analisi della macroistituzione che sottende tutte le tecnologie del genere, cioè l'istituzione dell'eterosessualità, fa si che il soggetto del femminismo - e non dico il soggetto femminile - si ponga in posizione critica, distanziata, eccentrica rispetto all'ideologia del genere. Per questo l'ho chiamato un soggetto eccentrico, vale a dire non immune o esterno al genere, ma autocritico, distanziato, ironico, eccedente, insomma eccentrico. E alla luce dell'attuale ripresa del dibattito italiano sulla questione dell'eterosessualità obbligata, di cui dirò tra poco, è forse bene ricordare che senza un'analisi di tale macroistituzione del potere maschile sulle donne, il femminismo non può andare oltre le strategie emancipazioniste e si limita al momento utopico o visionario, che è sempre necessario ma non sufficiente. Senza tale analisi, a mio parere, non si possono gestire quelle possibilità di contrattazione che le donne effettivamente hanno all'interdel genere. Dell'ingarbugliato nesso semantico tra genere, sesso e sessualità dirò di più nel capitolo 3.

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no del1e strutture di potere quando queste vengano concepite, con Foucault, come un campo di forze in cui poteri e resistenze sono esercitati da punti mobili e variabili. Non c'è bisogno di portare a esempio Lisistrata, basta pensare ai cambiamenti o agli spostamenti awenuti nelle società occidentali tardocapitaliste negli ultimi venti o trenta anni, nel periodo che corrisponde al secondo femminismo; e dico spostamenti in un campo di forze, piuttosto che vittorie, perché tali cambiamenti non hanno segnato un semplice progresso nel1a lotta delle donne contro il patriarcato, ma hanno riconfigurato le rispettive posizioni e modalità sia di resistenza che di potere. A1 momento attuale, in Nordamerica, sesso, sessualità e genere sono tornati a essere quasi sinonimi, per esempio nel discorso cosiddetto postgender, nella cui ottica postmoderna, funzionalista e volontarista sia sesso/sessualità sia genere sono visti come costrutti discorsivi che, pertanto, possono essere risignificati tramite pratiche di performance o addirittura rifatti chirurgicamente. Mentre i1 termine differenza sessuale, concepita esclusivamente come differenza tra uomo e donna (ossia differenza che raggruppa i soggetti umani in due categorie antitetiche escludentisi a vicenda - tutti gli uomini in una, tutte le donne neH'altra a prescindere dai tanti altri fattori che partecipano alJa costituzione del soggetto, quali cultura, classe, "razza", disposizione o scelta sessuale, religione, e cosl via), è caduto in disuso anche nel pensiero teorico e nel1e pratiche del femminismo radicale, ed è stato invece sostituito dal plurale, differenze sessuali, owero differenze tra vari tipi di disposizione sessuale devianti o meno rispetto alla sessualità eterononnativa, i quali contribuiscono alla (tras)formazione della soggettività, ma non ne sono l'unica determinante. Per soggettività intendo i modi e le diverse modalità del mio essere soggetto che in Sui generiS ho articolato nel concetto di esperienza ma nei miei lavori in corso sto ripensando come autotraduzione. Soggetto lo intendo ne1 doppio senso di (a) essere, individuo, persona soggetta 61

sottoposta, assoggettata - a regole, costrizioni, norme sociali più o meno rigide (per esempio, le regole assai rigide del sistema di parentela; le costrizioni, un po' meno rigide, che definiscono le classi sociali; le norme che regolano i comportamenti e le aspettative del generelgender; i discorsi pseudoscientifici, nonché ideologici, su razza, etnia ecc.); ma anche (b) soggetto nel senso di soggetto grammaticale: chi esiste, agisce, compie le azioni descritte dal predicato, ossia soggetto o "Io" dotato di esistenza, capacità di agire, di volere ecc. Il termine soggettività, dunque, ha due valenze. Una è quella di assoggettamento o soggezione a determinate costrizioni sociali (ma non solo sociali). Caltra è quella di capacità di autodeterminazione, autodifesa, resistenza all'oppressione, alle forze del mondo esterno, ma anche resistenza e autodifesa da forze che agiscono nel mondo interno, ciò che Freud chiama l'Es e il Super-Io. Basti pensare ai meccanismi psichici di difesa dell'Io: rimozione, diniego, proiezione ecc. Poco fa ho detto "ma non solo sociali" perché il soggetto sociale è sempre anche soggetto psichico, e quindi attraversato da desideri, pulsioni, fantasie o fantasmi consci e inconsci che costituiscono un'altra modalità di costrizione. E spesso queste due modalità sono in contraddizione tra loro. Per esempio: "Ho delle corde della mia sensibilità che non coincidono con la mia volontà di essere femminista e con la pratica che ho fatto nel femminismo", afferma Adriana Cavarero durante un dialogo con Rosi Braidotti tenutosi al Filo di Arianna di Verona e pubblicato su "DWF" con il titolo Il tramonto del soggetto e l'alba della soggettività femminile. 2 Diversamente dall'affermazione di ambivalenza di Cavarero, che riguarda la contraddizione all'interno del soggetto nella sua singolarità, il titolo esplicita una contraddizione sul piano discorsivo-teorico, in quanto pare voler sganciare la soggettività femminile dal soggetto (presumibilmente cartesiano) ormai al tramonto, per poi rico2

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R. Braidotti-A. Cavarero 1993, p. 75.

stituirla ex novo, agli albori di quello che Braidotti chiama "questo periodo del dopodonna". 3 Ma quale soggettività femminile venga cosi ricostituita rimane ambiguo e contraddittorio. Spiegano infatti le organizzatrici, citando Braidotti, che "l'io è solo una necessità grammaticale", ma poi aggiungono: "Si è femministe perché lo si vuole fortemente, con tutta 1'energia e la passione che un soggetto è in grado di esprimere" .4 Dunque questo io che vuole fortemente non può essere solo una necessità grammaticale, e anzi esprime ancora una soggettività in positivo, un soggetto senza divisioni o ambivalenze, arricchito di una corporeità potenziata tecnologicamente e agito solo - sembrerebbe - dalla volontà. Questo esempio recente, tratto dal contesto italiano, riconferma una contraddizione che avevo individuato come caratteristica del femminismo nordamericano già negli anni ottanta: "Una duplice tensione in direzioni opposte - la negatività critica della sua teoria, e la positività affermativa della sua politica - è al tempo stesso la condizione storica di esistenza del femminismo e la sua condizione teorica di possibilità" .5 La contraddizione che deriva da questa duplice tensione non può essere dunque risolta, ma va messa in luce e analizzata poiché, se vivere la contraddizione è condizione di esistenza di una soggettività femminista, analizzarla è condizione di una politica femminista. Mi spiego: possiamo essere tutte d'accordo con Braidotti che l'Io, come il genere, come il corpo, è una costruzione sociale, linguistica, un effetto del discorso, e non un dato naturale, a priori, preesistente al sociale o alla semiosi. Eppure l'Io è anche una necessità politica, una necessità di sopravvivenza sia fisica che psichica, e quindi anche epistemologica. È un lo corporeo, come dice Freud, magari immaginario (dice Lacan), ma tale che quanto più 3 Ivi, p. 73. "Ivi, p. 71. 3 T. de Lauretis 1996a, p. 163.

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lo si estende operando sui dati fisici del corpo, ricostruendogli parti, organi, genitali, potenziandolo o modificandolo con protesi, insomma quanto più si fa cyborg, tanto più questo corpo deve far riferimento a un Io, soggetto desiderante e soggetto politico: soggetto preso in una duplice tensione, erotica ed etica, che a volte lo immobilizza, altre volte gli apre le porte e le finestre dell'impensabile. In certi casi il soggetto oppone resistenza all'ottimismo della volontà: "Quello che cercavo di dire sulla corporeità singolare è dal punto di vista politico un punto di resistenza. È ciò che voglio opporre alÌ'invasione tecnologica [... ] bisogna anche misurarsi con le negazioni e le limitazioni del proprio corpo".6 In altri casi il soggetto avanza pretese, istanze e diritti, primo fra tutti il diritto al riconoscimento sociale. Per esempio, il Manifesto Cyborg di Donna Haraway rivendica, nei primi anni ottanta, il riconoscimento sociale di un soggetto femminile allora insorgente negli Stati Uniti, la donna di colore; e negli anni novanta un analogo manifesto di Sandy Stone chiede il riconoscimento sociale del soggetto transessuale. 7 Ancora negli anni novanta, l'affermazione di una identità lesbica in Italia è un esempio di soggettività politica femminista che, rivolgen6

R. Braidotti•A, Cavarero 1993, pp. 83-84. D. J. Haraway, 1995; S. Stone 1991. Il libro di Judith Butler, Co,pi che contano (cfr. Butler 1996), fornisce un ulteriore esempio di contraddizione tra negatività della teoria e positività della politica: per un verso sostiene che il soggetto non esiste se non come effetto della citazionalità stessa del potere, che l'Io acquista esistenza solo citando, reiterando la legge tramite una "pratica ripetitiva o riarticolatorla, immanente al potere" (p. 15), per cui l'Io è sempre interno al potere e in complicità con esso. D'altro canto, però, Butler ci dice che le pratiche queer effettuano una "riconversione dell'abiezione in azione politica" (p. 20), una politica che vuole dare legittimità ai corpi abietti, esclusi dal corpo sociale, vale a dire ai corpi omosessuali, e trasformarli in "corpi che contano", ossia corpi riconosciuti socialmente come "vite [••. ] preziose e degne di sostegno". Ma come questa politica della risignificazione possa aver luogo se non ci sono soggetti che la praticano {dato che, Butler sostiene, il soggetto non esiste), rimane una questione irrisolta che crea contraddizione all'interno del suo stesso discorso teorico. 7

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dosi alle altre donne, chiede, anzi esige, il riconoscimento della propria esistenza e della propria specifica differenza al fine di articolare un progetto politico comune.

Identità e politica Ma perché è tanto difficile intendersi, a volte, su cosa possa costituire un progetto politico comune? È inevitabile che l'istanza di riconoscimento espressa in termini di identità porti a una politica identitaria? Che rapporto c'è tra soggettività e politica? A questo proposito mi pare esemplare il testo delle discussioni tra il gruppo milanese dei "Quaderni Viola" e il "Laboratorio di critica lesbica", discussioni basate su materiale fornito dal "Laboratorio" e svoltesi durante tre incontri (l'ultimo dei quali è riportato nel testo) che le redattrici definiscono "viaggio di alcuni mesi nella politica lesbica". 8 Motivato da un"'ostinata volontà di intendersi, al di là dei linguaggi e delle impostazioni diverse" (p. 18), e inteso come l'inizio di un dialogo tra il movimento femminista e quello lesbico, che in Italia non era ancora avvenuto - in parte, paradossalmente, impedito da categorie politiche specifiche del femminismo italiano, quali la cosiddetta "pratica delle relazioni tra donne" 9 - il testo dei "Quaderni Viola" è esemplare in quanto mette in evidenza sia le ragioni politiche dell'uno e dell'altro gruppo nel tentativo di convergere verso un progetto comune (un femminismo forte nella lotta contro il patriarcato per la trasformazione delle strutture di potere), sia, d'altro canto, un'incomprensione di fondo circa il significato e la valenza affettiva di certi termini. Partendo da un confronto sui termini identità e diffe• renza, identità e politica, su cui non paiono esserci diver8 Una, due, tre discussioni ... tanto per cominciare, in "I Quaderni Viola", 1996, pp. 18-32. 9 Sui difficili rapporti tra lesbismo e femminismo si vedano S. Spinelli 1986 e B. Pomeranzi 1985.

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genze irrimediabili, la discussione va poi a focalizzarsi e ad arenarsi sulla questione dell'eterosessualità obbligatoria. Da un lato si riconosce il valore politico del lesbismo per tutte le donne e l'importanza vitale di un'identità lesbica per le donne lesbiche: Il lesbismo è reso invisibile perché esprime libertà e indipen. denza femminili, che sono intollerabili in quella trama di rap. porti che relega le donne nel ruolo di "riproduttrici". Questo dovrebbe essere il legame ovvio tra lesbiche e femministe. Ecco quindi che io non conc~isco un femminismo che non veda il valore politico del lesbismo; mi pare un femminismo debole, che non sa bene di cosa parla quando parla di patriar. cato (e appunto può permettersi di darlo per terminato e non parlarne più!). [ ...} La visibilità lesbica è fondamentale perché crea immaginario per tutte le donne, non solo per le lesbiche (Giulia, "Quaderni Vìola", 1996, p. 27). La questione dell'identità è stata importante per i soggetti oppressi o segregati o discriminati, che hanno dovuto rico. struire la propria immagine prima di tutto dinanzi a se stessi, perché spesso avevano interiorizzato la svalorizzazione e il disprezzo degli altri. Nel caso delle lesbiche l'identità può coincidere con la stessa possibilità di esistenza: si può non sapere di esistere perché il silenzio assoluto che ha tradizio. nalmente circondato il lesbismo priva della stessa possibilità di riconoscersi, trasformando l'esistenza in un indefinito malessere.[...] Bisogni-identità-progetto io li vedo come articolazioni della soggettività politica (Lidia, "Quaderni Viola", 1996, p. 20).

Dall'altro si richiede di riconoscere alla sessualità la capacità di strutturare non solo la soggettività ma anche i rapporti sociali, e quindi di accettare il concetto di eterosessualità obbligatoria come categoria politica del femminismo. Che cosa vuol dire [ ...} mediazione tra le lesbiche e le eterosessuali? Trovare dei punti in comune? Quali sono questi obiettivi che possiamo condividere? Sicuramente riconoscere nelle dinamiche del mondo le regole di negazione e sopraffa66

zione sociale e simbolica operate nei confronti delle donne e delle lesbiche può considerarsi punto di partenza per entram• bi i soggetti. Ciò non basta, è solo il punto di partenza da cui deve svilupparsi una progettualità radicale di trasformazione delle strutture di potere. Una di queste strutture è [ ••. ] l'eterosessualità obbligatoria (Antonia, del gruppo Laboratorio di critica lesbica, LCL, "Quaderni viola", 1996, p. 26). Quando noi veniamo a chiedeIVi di constatare un evidente obbligo all'eterosessualità, che va a tutto vantaggio del genere umano maschile, non vi stiamo proponendo di diventare lesbiche, ma di acquisire l'eterosessualità obbligatoria come criterio di intelligibilità politica, utile a una migliore definizione dei problemi. Vi stiamo chiedendo di notare che l'obbligo all'eterosessualità è costantemente espunto dalla riflessione politica, nonostante sia cosl importante da interferire con la nostra felicità, con la nostra libertà (Cristina, LCL, "Quaderni viola", 1996, p. 31).

E qui cominciano le incomprensioni. Pur ammettendo che "la critica lesbica dell'eterosessualità amplia anche il mio orizzonte di eterosessuale" (Rosa, p. 24), che "se si può scegliere, cambia il senso stesso della scelta eterosessuale" (Nadia, p. 25), e che "mettere in questione l'ovvietà dell'eterosessualità può avere un significato politico" in quanto il patriarcato se ne serve per perpetuarsi (Francesca, p. 29), le donne dei "Quaderni Viola" affermano di non capire: "Non ho capito dal punto di vista del metodo politico; non ho capito nel merito e non ho capito quali implicazioni pratiche potrebbe avere la critica all'eterosessualità obbligatoria" (Lidia, p. 31 ). Ciò che non viene capito, mi pare, è il doppio registro in cui opera questo termine, slittando insensibilmente dall'uno all'altro campo semantico: in uno eterosessualità sta per "scelta" o comportamento sessuale, nell'altro eterosessualità equivale a istituzione sociale. 10 Il fatto stesso che il 10 Questo è un problema analogo allo slittamento del termine omosessualità dal significato "sessualità lesbica" o "sessualità gay'' - ossia due diversi tipi di sessualità - al significato che si può indicare con la grafia

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termine istituzione eterosessuale o istituzione dell'eterosessualità, ora usato comunemente nel discorso femminista anglo-americano, non compare mai in questo testo, dove si parla piuttosto di "critica lesbica dell'eterosessualità" o di un "accanito attacco lesbico all'eterosessualità obbligatoria" (p. 28, corsivo mio), è indice dello spostamento di enfasi dalla categoria politica di istituzione a quella privata di comportamento sessuale. Qualcosa di simile è avvenuto negli Stati Uniti all'inizio degli anni ottanta, di cui ho scritto nel capitolo precedente. Riassumo quindi per sommi capi. Si obiettò che l'eterosessualità obbligatoria era una categoria pertinente all'oppressione delle donne solo nel caso di donne legate agli uomini da vincoli di dipendenza economica, sociale o affettiva che danno agli uomini il controllo del corpo femminile, quali il lavoro, il matrimonio o la maternità. Si disse, per esempio, che le donne economicamente indipendenti, le ragazze madri o le donne nere (cui il ruolo economico e affettivo di capofamiglia viene conferito dalla frequente assenza del padre e altre particolarità della cultura afroamericana) potevano evitare tali vincoli pur avendo rapporti sessuali con uomini. Ma è risultato evidente che anche quelle donne che individualmente riescono a evitare la dipendenza economica o affettiva dai propri partner sessuali in casa propria, nella sfera pubblica sono ugualmente soggette agli effetti sistematici di un simbolico e un immaginario sociale che le definiscono donne agli occhi di tutti gli uomini e ai loro stessi occhi; e più esattamente le definiscono, come definiscono tutte le donne, eterosessuali: per esempio sul lavoro o per quanto concerne la possibilità di molestie sessuali, stupro, incesto ecc. Questo dimostra che la presunzione di eterosessualità è comunque implicita non solo nelle istituzioni civili (ii)omosessualità, cioè omosessualità pensata come semplice variante dell'eterosessualità istituzionalizzata (vale a dire la sessualità riprodutti• va in cui maschio e femmina sono entrambi necessari e complementari), variante in quanto è agita da due persone dello stesso sesso, Ho analizza. to l'ambiguità concettuale di questo tennine in T. de Lauretis 1989. 68

famiglia, lavoro, maternità - ma anche in tutti gli altri meccanismi del dominio maschile; è un asse portante della struttura sociale e un apriori ideologico, non detto, occultato o inconscio, di tutte le formazioni culturali dominanti. È in questo senso che l'eterosessualità è obbligatoria: è istituzionalizzata, ha assunto il carattere normativo, sistematico e astratto (ossia astraibile dall'agire dei singoli individui) proprio delle istituzioni. Può dunque essere analizzata come istituzione, anzi come macroistituzione che sottende e su cui si fondano altre istituzioni e tecnologie sociali. 11 Se nelle discussioni dei "Quaderni Viola" la critica del1'eterosessualità viene recepita in ultima istanza come una critica delle donne lesbiche alle femministe eterosessuali, come ressentiment o rivendicazione settaria (p. 21), è in parte perché lo slittamento del termine da un registro all'altro avviene nei discorsi di ambedue i gruppi. Si legge in uno dei materiali proposti dal "Laboratorio": Una parte del movimento politico delle donne ci ha fatto scoprire figure di libertà femminile il cui tratto distintivo è la sottrazione di sé al patto sessuale con gli uomini. Le sante, le monache, le cosiddette eretiche sono gli esempi di libertà. Perché? Queste donne hanno scelto per sé l'unica possibilità che una donna ha di essere veramente libera: spostare il proprio desiderio sessuale dagli uomini. Sottrarsi alla materialità del rapporto con gli uomini è la forma primordiale, è la condizione primaria di un progetto di libertà. Bisogna assumere la sessualità non come mero comportamento, né tantomeno come scelta che può distinguere le nostre preferenze sessuali ma come codice che significa in maniera originaria i soggetti e l'ordine dei discorsi e dei significati.1 2 11

Nel discorso femminista angloamericano il concetto di istituzione eterosessuale è entrato, non senza resistenze da parte anche di donne lesbiche, con un testo di movimento scritto dal collettivo Purple September Staff, The Nonnative Status of Heterosexuality, ma il testo più noto, il cui titolo è passato nel discorso italiano, è Eterosessualità obbligatoria ed esistenza lesbica di Adrienne Rich (cfr. A. Rich 1985). Sull'apporto del pensiero lesbico al femminismo nordamericano si veda il capitolo precedente. 12 A. Ciavarella 1995, p. 43.

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Anche se il senso dell'ultima proposizione è chiaro e riassume perfettamente il concetto teorico su cui fa perno la posizione del "Laboratorio", la costruzione retorica e l'argomentazione del passo che ho citato tendono a confondere le acque. Non è solo il tono magistrale o il carattere assiomatico di queste affermazioni a provocare l'impressione di settarismo, ma anche lo slittare concettuale del discorso dal particolare al generale: dai singoli individui (sante, monache, eretiche, di cui si presume una scelta che a me pare basata soprattutto nella mitologia di un certo femminismo) al loro stàtus di exempla ("figure di libertà femminile"), dai soggetti concreti (le donne che hanno scelto di "spostare il proprio desiderio sessuale dagli uomini") all'astrazione di una forma primordiale ("Sottrarsi alla materialità del rapporto con gli uomini è la forma primordiale, è la condizione primaria di un progetto di libertà"); e infine dall'eterosessualità come comportamento sessuale ("Sottrarsi alla materialità del rapporto con gli uomini") all'eterosessualità come macrocodice semiotico, ossia come istituzione ("Bisogna assumere la sessualità non come mero comportamento... "). Una possibile spiegazione dell'ambiguità teorica di questo passo, e forse anche delle incomprensioni da parte delle interlocutrici, è da ricercarsi nei testi proposti dal "Laboratorio" come base per la discussione e ristampati nella sezione "Documenti" del quarto "Quaderno Viola". Tra di essi, oltre a cose recenti, vi sono due scritti degli ultimi anni settanta, The Straiglit Mind (1980) di Monique Wittig e Riflessioni su separatismo e potere (1983) di Marilyn Frye, che rappresentano due posizioni teoriche e politiche storicamente importantissime per lo sviluppo del pensiero lesbico e del femminismo radicale in Nordamerica, ma datate ai dibattiti di quegli anni. In essi, come pure nel famoso saggio di Adrienne Rich dello stesso periodo (cfr. nota 11), la sessualità veniva concepita principalmente come il terreno, il luogo e il mezzo dell'oppressione di genere, ed era del tutto assente il discorso sul desiderio. È mia impressione che quelle idee sulla sessualità, contenu70

te nei testi riproposti dal "Laboratorio" nel contesto italiano odierno, e riprese assieme alle tematiche del pensiero della differenza (libertà femminile), producano lo slittamento concettuale per cui dalla critica dell'istituzione eterosessuale si passa alla prescrizione di sottrarsi al rapporto eterosessuale. È dunque a proposito che Lidia risponde, mettendo a fuoco il problema di fondo: So benissimo che il desiderio sessuale può mutare per ragioni ideologiche, culturali, sociali. Ma so anche che questo non avviene a comando, né per uno sviluppo coerente e intransigente della critica alla società patriarcale. [ ...] Certo, una femminista eterosessuale vive contraddizioni e lacerazioni anche gravi, ma dov'è scritto che una lesbica è poi cosi serena e conciliata con sé o che, se ha contraddizioni, sono tutte legate al tabù sociale? A me sembra che la letteratura lesbica dica tutt'altro ("Quaderni viola", 1996, p. 21).

Il desiderio sessuale, che era stato espulso dalla formulazione della soggettività politica ("bisogni-identità-progetto"), rimosso o accantonato dall'esigenza di coerenza ideologica, ora rientra dalla finestra, o meglio irrompe sintomaticamente nell'accalorarsi della discussione. E fa ripensare all'osservazione di Silvia, purtroppo ignorata dalle altre: "Se l'imposizione sociale funziona vuol dire che incontra nell'individuo un fantasma che lo [sic] asseconda. La cultura eterosessuale ha tanto potere perché incontra dentro di noi il nostro destino di figlie e di figli, il fantasma della filiazione. [... ] I:uomo è una tentazione narcisistica formidabile per la donna" (p. 28). Se dunque è cosi difficile intendersi sulla critica all'eterosessualità obbligatoria come categoria fondante di una progettualità politica comune, non è tanto perché non se ne veda, da entrambe le parti, la validità politica di critica radicale al patriarcato, che finito ancora purtroppo non è, quanto perché, come afferma Lidia (e diciamocelo tutte una buona volta), al desiderio non si comanda. È questa irriducibilità o refrattarietà del desiderio che fa slittare il 71

termine eterosessualità obbligatoria da categoria di intelligibilità politica a scenario pulsionale o fantasmatico, e questo è vero, con valenza diversa, sia per le donne lesbiche sia per le donne eterosessuali. Appare allora un'altra dimensione della soggettività: non più semplicemente politica ma appunto soggettiva, singolare, legata al desiderio, ai fantasmi, all'esperienza e al sapere di un corpo, a investimenti pulsionali e narcisistici che possono contrastare con la volontà politica e opporre resistenza alla stessa comprensione concettuale. E questa dimensione della soggettività non porta identità Ìna divisione. Sessualità e desiderio

Sul fantasma della filiazione e sulla tentazione narcisistica del rapporto amoroso ha raccolto testimonianze illuminanti Lea Melandri in una serie di articoli sulle scritture femminili (memorie, riflessioni, pensieri e fantasie di donne), usciti sulla rivista "Noi Donne" tra il 1989 e il 1992. In questi frammenti di scrittura privata Melandri legge il rapporto d'amore eterosessuale come fantasia (o fantasma, nell'accezione psicoanalitica) di plenitudine corporea, l'illusione di ritrovare una unità o completezza perduta con la nascita e con la separazione dal corpo materno. Per una delle scriventi il fantasma si manifesta quando rimane incinta, poiché solo nel diventare madre si sente di nuovo "degna del corpo di mia madre [... ] all'altezza del mio corpo femminile. [ ... ] Ero 'piena di grazia'" . 13 Per un'altra si manifesta nel voler trattenere "dentro di lei, sulla sua pelle, dentro al suo sesso [ ... ] il ricordo dell'uomo che l'ha posseduta, desiderata, stuprata". Melandri commenta: La solitudine, che risorge ogni volta a raccogliere il pianto di una bambina o di una donna, si mostra allora nella sua 13

72

L. Melandri 1996, pp. 62-63.

duplice funzione: testimonianza di una perdita irreparabile e ostinata riaffermazione del desiderio di possesso assoluto, come ritorno nell'involucro caldo di una madre o trattenimento presso di sé dell'uomo figlio, perché nel suo ergersi separato ed estraneo non segnali il principio della storia, di ogni storia. 14

La solitudine, il senso di separatezza e divisione che costituisce l'Io corporeo e segna l'inizio di ogni storia e la possibilità stessa della storia - storia personale, storia collettiva, storia nel senso di racconto, scrittura, narrazione si configura in varie forme nel pensiero novecentesco, prendendo i nomi di separazione dal corpo materno, divisione del soggetto nel linguaggio, différance, alienazione, alterità ecc. Da lì nascono il desiderio, le illusioni che lo sorreggono, i fantasmi in cui si articola la sessualità e con essa la dimensione corporea e psichica della soggettività; ma da lì nascono anche la progettualità politica, il bisogno di identità e riconoscimento, di individualità e collettività, di singolarità e appartenenza. Dall'esperienza di separazione, vissuta contemporaneamente nel senso soggettivo, nel senso sociale e in quello politico che alcune ancora chiamano separatismo, può provenire la spinta a immaginare, costruire, teorizzare e vivere una soggettività al tempo stesso politica e sessuata, un corpo erotico che si dà rappresentazione, invece di elidersi, in un corpo sociale, un soggetto che si reinterpreta e si ridefinisce in una storia in fieri. Come scrive Liana Borghi: È un luogo comune ormai tra noi che la sessualità sia il cuore dell'identità lesbica; che la lesbica sia per antonomasia l'amante [ ... ] che l'identità lesbica molto dipenda dall'attraversamento del corpo dell'amante e quindi dal riconoscimento, che ne consegue, del mutamento di percezione rispetto agli schemi eterosessuali. [ ... ] Se il rapporto amante-amata ha come scopo la riappropriazione del corpo erotico, il rapporto 14

Ivi, p. 60. 73

lesbica-comunità si configura come il luogo della riappropriazione del corpo sociale, come lo spazio della volontà e della progettualità, come il terreno dove la costruzione di un linguaggio comune attualizza il nuovo sé. È anche il luogo dove il soggetto si rappresenta come soggetto storico interpretando un passato individuale e collettivo come tradizione, come storia. 15

Ma nella dimensione della soggettività che ho detto corporea e psichica, la quale è attraversata da pulsioni di vita e di morte, da rimozioni, ambivalenze e compromessi, il desiderio si configura in fantasmi di unità e di divisione: si articola nella parola che crea spazio simbolico, autorappresentazione, progettualità, teoria, politica, ma si manifesta anche nel gesto sintomatico, nella ripetizione di schemi affettivi e scenari fantasmatici che impediscono la parola affermativa, inceppano i progetti, interpongono negatività, resistono all'incedere sicuro della storia. È utile rileggere dei testi in cui questa negatività o refrattarietà del desiderio veniva presa in considerazione, analizzata o almeno tematizzata, testi in un certo senso "originari" del pensiero femminista italiano perché legati a una delle sue prime pratiche, la pratica dell'inconscio. È utile, direi anzi necessario, come fa Ida Dominijanni nella sua introduzione a La politica del desiderio di Lia Cigarini, ri-presentare le figure dell'estraneità, della "donna muta", del "non-politico": Il ritorno del rimosso minaccia ogni mio progetto di lavoro, di ricerca, di politica. Minaccia, o è la cosa realmente politica di me, cui dare sollievo, spazio? [ ...J C'è stato un cambiamento, ho preso la parola, però in questi giorni ho capito che la parte affermativa di me stava occupando di nuovo tutto lo spazio. Mi sono convinta che la donna muta è l'obiezione più

15

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L. Borghi, Apertura del Convegno, in AA.W. 1987, p. 9.

feconda alla nostra politica. Il "non-politico" scava gallerie che non dobbiamo riempire di terra. 16

Più che un'introduzione, il saggio di Dominijanni è una rilettura ragionata, attenta alla voce di Cigarini e al suo particolare contributo a scritti collettivi, corredata di riferimenti ad altre autrici e scritti più recenti, di movimento e non, in un dialogo critico che dà misura concreta di quel rapporto di scambio, contrattazione e mediazione femminile su cui appunto insiste Cigarini. Rilettura, necessariamente parziale e propriamente soggettiva, che traccia un percorso proprio, una traiettoria di pensiero indicata dal titolo stesso di Dominijanni, Il desiderio di politica, che rovescia quello di Cigarini, La politica del desiderio. È per questo rovesciamento di prospettiva che, mentre a me la bellissima metafora di Cigarini, "il 'non-politico' scava gallerie che non dobbiamo riempire di terra", suggerisce una profonda consapevolezza dell'importanza della negatività nel teorizzare la soggettività (anche politica) femminile, a Dominijanni suggerisce un'assoluta positività: "la figura della donna muta apre la porta a una soggettività affrancata dalla dialettica servo-padrone e a una politica mossa non più dal vittimismo reattivo ma dal desiderio attivo".17 Rileggendo quel "Sottosopra" del 1976 assieme al "Sottosopra" rosso del 1996 appare chiaro che la traiettoria indicata da Dominijanni è parallela a quella seguita dalla Libreria delle donne di Milano nei venti anni trascorsi. Nel "Sottosopra" rosso si parla, infatti, di un desiderio femminile attivo, "un agire [ ... ] fatto per conquistare il mondo", che si esplicita tramite la parola performativa, che lo asserisce, lo nomina, e cosl lo crea, lo "mette al mondo". 18 A questo desiderio alacre e vincente, che investe, guadagna e si porta al mercato, viene contrapposta una "patologia del 16

L. Cigarini 1976, citato da I. Dominijanni 1995, p. 12. I. Dominijanni 1995, p. 12. 18 I. Dominijanni 1996, pp. 4-5.

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desiderio femminile impedito di parola", le cui figure appartengono ancora alla patologia classica, prefreudiana, della sessualità: l'isterica, la malinconica, la depressa, e perché no - se continuiamo a declinare la tipologia - perché no la lesbica? Ma di lei le numerose autrici di questo "Sottosopra" non parlano, convinte che la differenza sessuale è sempre solo quella biologica tra uomo e donna, è "irriducibile, perché è del corpo nella sua insormontabile opacità". Talché, avendo fatto la "scoperta" che c'è anche "la differenza maschile", devono per coerenza concludere che entrambe le differenze étl entrambe le sessualità, maschile e femminile, sono categorie in sé unitarie, compatte, e rigorosamente determinate ciascuna da uno stato di natura, precedente a ogni simbolico: il rispettivo corpo opaco che fonda la differenza tra le due differenze. Questa concezione della sessualità e del rapporto corpo-soggettività, però, non è (più) compatibile con una pratica dell'inconscio perché non è compatibile con la teoria freudiana dell'inconscio, dell'Io-corpo o dell'isterica che, nel somatizzare, dimostra appunto la non-opacità del corpo, la sua continua permeabilità al simbolico. Vengono a mancare quindi le premesse teoriche necessarie per una politica "materiale", come auspica Dominijanni - e io con lei - che rimetta in circolo "il rimosso del legame sociale [:] corpo, desiderio, sessualità, fantasie, paure, processi inconsci" .19 Inoltre, se l'isterica degli anni settanta era figura emblematica cui spettava il compito cruciale di permettere l'accesso alla madre simbolica e alla libertà femminile, come scrive Dominijanni (ma su questa interpretazione dell'isterica io non sono d'accordo), negli anni novanta "alla figura dell'isterica è subentrata [... ] la figura della depressa". 20 E la depressa di oggi non è l'isterica di ieri. La depressa del "Sottosopra" rosso non è più la donna muta, non fa obiezione, non apporta niente alla politica I. Dominijanni 1995, p. 10. I. Dominijanni 1996, p. 3; i successivi riferimenti a quest'opera saranno inclusi nel testo. 19 20

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delle donne; è figura perdente e basta. Non ti curar di lei ma guarda e passa. Solo cosi è possibile scommettere sulla fine del patriarcato, dichiarare finito il suo "controllo del corpo femminile fecondo e dei suoi frutti" (p. 1) e qualche pagina dopo fare un riferimento en passant alla "'strana guerra' che ha infestato l'ex Iugoslavia" e alla "concomitanza di silenzio femminile con un guerreggiare maschile feroce e notevolmente stupido" (p. 4). Dal 1976 al J996, nella topografia politica dei due "Sottosopra", in cui all'isterica corrisponde la depressa e all'obiezione feconda della donna muta corrisponde il silenzio perdente della donna bosniaca, è accaduto un rovesciamento di prospettiva, un'inversione di valori. Non per caso, quindi, il desiderio, definito come "precedente ogni storia e ogni appartenenza, anche quella di genere" (p. 3), ridiventa neutro, asessuato. In tale visione "politica" del desiderio e della soggettività femminile si è persa la cognizione del non politico, vale a dire dei limiti della politica. E si è perso il senso psicoanalitico del desiderio come limite interno dell'Io, vale a dire del desiderio come negatività, dis-identificazione, frana, disgregazione, dispersione della coerenza (per non dire della volontà) dell'Io: momento estatico di esplosione/implosione, in cui l'Io si scolla, si sfalda, non tiene più. Anche questo momento estatico di eclissi, di rischio, di perdita di sé nel desiderio dell'altro o dell'altra è parte della soggettività, la parte che più pertiene alla sessualità. Ed è questa che disturba la positività, la funzionalità, la performatività di una politica del desiderio trionfante. È per questo suo far problema che la sessualità difficilmente rientra nei discorsi sulla soggettività femminile, al punto che il desiderio stesso, per essere sempre vincente, deve venir de-sessualizzato e depurato della sua negatività? Io insisto sulla refrattarietà del desiderio, e sul quoziente di negatività che rimane attivo nell'esperienza di ogni soggetto sessuato. Questo non significa che io voglia opporre o sostituire semplicemente la negatività del desiderio alla positività del1a politica. Significa piuttosto che 77

alla doppia valenza del soggetto femminile nel discorso filosofico-politico femminista - negatività della teoria, positività della politica - vedo corrispondere una doppia valenza della soggettività per quanto riguarda desiderio e sessualità, che sono entrambi portatori di attività e passività, parola e silenzio, fantasmi di unità e divisione, unione e aggressione. Anche questa doppia valenza, o più precisamente ambivalenza, non va risolta ideologicamente in una direzione o nell'altra, né va negata o minimizzata, ma va tenuta in conto, affrontata di volta in volta e, se è possibile, contrattata. ~ A chi interessi articolare un comune progetto di politica delle donne attraverso le nostre tante e molteplici differenze, propongo quindi di ripensare la soggettività in una dimensione materiale in senso lato, di cui la sessualità è il nodo centrale, il luogo in cui le istanze del corporeo, dello psichico e del sociale si intrecciano a costituire la soggettività e i limiti dell'Io. Detto altrimenti, parafrasando Simonetta Spinelli, propongo di ripensare la soggettività femminile tenendo conto di che pratiche comporti e che necessità sottenda il desiderio agito da un corpo di donna. Da un rapporto di materialità nasce il segno di un'intelligenza che si riflette nelle nostre pratiche di rapporto e quindi nelle nostre praliche sociali. [ ... ] A me l'intelligenza si è aperta quando ho avuto un incontro di materialità con un'altra donna. Poi l'ho rimossa perché mi dava fastidio. Quando ho cominciato nel femminismo insieme alle donne una presa di coscienza, la base è stata questo rimosso che avevo lasciato perdere. Io dico che la conoscenza, l'intelligenza di una donna lesbica si apre quando c'è questo primo incontro di materialità con un'altra. 21

Se la teoria della soggettività che sto qui delineando si riflette nelle parole di una donna lesbica, non è solo per la felice pratica intellettuale femminile del partire da sé, ma 21

128. 78

S. Spinelli 1986, pp. 27-29. La citazione èda AA.W. 1987, pp. 125-

anche perché, come confermano altre donne citate sopra, la sessualità è il "luogo comune" dell'esistenza lesbica. Il luogo in cui avviene un "attraversamento del corpo" erotico dell'altra e del proprio, con conseguente, e spesso sorprendente, "mutamento di percezione rispetto agli schemi eterosessuali" (Borghi) - tanto rispetto agli schemi del corpo femminile e maschile prodotti dalle figurazioni dell'immaginario sociale quanto rispetto all'immagine dell'Iocorpo che ciascun soggetto si costruisce e (ri)elabora in relazione a essi. Il luogo, quindi, di una pratica d'amore da cui "si apre un'intelligenza", un sapere corporeo e una forma di conoscenza di sé e del mondo - in breve, una soggettività - che porta a un'altra produzione di senso, un'altra cognizione del rapporto sociale, altre modalità di agire nel mondo. 22 Altre, cioè, rispetto a quelle di una soggettività che si costituisce in relazione all'eterosessualità. Poiché è certo che per ogni donna, ogni soggettività femminile, la sessualità è il luogo da cui il soggetto (ri)elabora l'immagine di sé e del corpo erotico nell'incontro con l'altro o l'altra, (ri)elabora il proprio sapere corporeo e la propria conoscenza, i modi di rapportarsi e di agire nel mondo. Vale a dire, la sessualità è il "luogo comune" di ogni soggettività, ma è luogo di solito non segnato nelle topografie dei luoghi e dei mezzi della politica delle donne. Le ragioni di questa elisione sono certamente molte, alcune di esse sono già state suggerite: la difficoltà di vivere contraddizioni e lacerazioni tra volontà e affettività; la resistenza a misurarsi con le limitazioni del proprio corpo; la consapevolezza del rischio che la sessualità sempre comporta per chi è definito donna in un sistema sociale retto dall'istituzione eterosessuale; il ricatto della svalorizzazione sociale che il femminile, identificato con l'ambito angusto del corporeo, subisce rispetto allo spazio illimita22 Ho sviluppato la tesi che la sessualità è il luogo in cui la soggettività si produce in rapporto alla significazione sociale e alla realtà materiale in T. de Lauretis 1997. In particolare si veda il capitolo 7, Sessualità esemiosi.

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to dello spirito o del pensiero attribuito al maschile; il bisogno, vitale oltre che politico, di appartenenza di genere e di riconoscimento dalle altre donne. Queste e altre ancora sono ragioni, ambivalenze, che tutte conosciamo di persona ma raramente ci diciamo nel confronto politico tra noi. E il non politico non ha più luogo nella pretesa di universale positività di una politica delle donne. Evitando di guardar dentro quel luogo di solitudine e desiderio, di fantasmi, ambivalenze e necessità in cui si plasma la soggettività, si perdono di vista le ragioni stesse di tale politica, ossia le donne che ne sono i soggetti concreti. A me sembra che, oggi, una teoria o progettualità politica femminista non possa non tener conto, non solo delle differenze tra donne, ma anche delle costrizioni esterne e interne al soggetto, dei limiti dell'Io e delle necessità che lo sostengono, della produttività e insieme della refrattarietà del desiderio.

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3. La nemesi di Freud Per un'archeologia degli studi su genere, sessualità e cultura*

"L'America è un errore gigantesco," avrebbe detto Freud al ritorno dal suo primo e unico viaggio negli Stati Uniti. Racconta Emest Jones nella sua monumentale biografia del maestro che nell'agosto del 1909, invitato da Stanley Hall. fondatore della psicologia sperimentale e a quel tempo rettore della Clark University di Worcester, Massachusetts, Freud si imbarcò sul piroscafo George Washington che salpava per il nuovo mondo. Lo accompagnavano Sandor Ferenczi e Karl Gustav Jung, e durante i sette giorni della traversata atlantica i tre psicoanalisti si intrattennero piacevolmente analizzando i sogni l'uno dell'altro. Si racconta inoltre che, all'arrivo nel porto di New York, in vista della Statua della libertà, il padre della psicoanalisi avrebbe detto a Jung una frase fatidica: "Non sanno [gli americani] che portiamo loro la peste". L'espressione, diffusa da Jacques Lacan che sostiene di averla sentita direttamente da Jung, si trova in La chose freudienne, conferenza tenuta da Lacan a Vienna nel 1955 e pubblicata nel 1956 in "L'Évolution psychiatrique". Le parole di * Questo saggio è la versione italiana, riveduta e ampliata, della relazione presentata al convegno Gender and Sexuality in Criticai Studies, tenutosi a Bologna, marzo l 996, sotto gli auspici del Centro Studi Università di California e del Centro di Documentazione delle Donne di Bologna. Una versione in inglese dal titolo American Freud è pubblicata sulla rivista tedesca "Amerikastudien/American Studies", 41, 1996, pp. 163-179. 81

Freud, commenta Lacan, gli tornarono indietro come una lettera rinviata al mittente (le mot de Freud [ ... ] lui est renvoyé a punirlo del1a sua ybris. Per prendere in trappola il suo autore, la Nemesi non ha dovuto far altro che prenderlo in parola. Potremmo temere che ci abbia aggiunto un biglietto di ritorno di prima classe. In verità, se è successa una cosa del genere non abbiamo che da prendercela con noi. Infatti l'Europa sembra essersi tolta di mente le preoccupazioni, lo stile, se non addirittura la memoria, di coloro che ne sono usciti, con la rimozione dei loro cattivi ricordi. 1

Qui, nella maniera che gli è caratteristica, Lacan prende due piccioni con una fava: rimprovera alla psicologia americana (quella ego psychology contro la cui influenza, ricordiamo, Lacan stava appunto combattendo negli anni cinquanta) di aver respinto "la peste" di Freud, ossia la teoria dell'inconscio e delle pulsioni; e al tempo stesso rimprovera all'Europa del dopoguerra di aver rimosso tanto il lavoro di Freud quanto la memoria della persecuzione antisemita (i suoi "cattivi ricordi"). In tal modo "la peste" che Freud credeva di portare in America, la psicoanalisi, viene rispedita in Europa con un biglietto di prima classe sotto le vesti dell'influente psicologia dell'Io di marca americana. Anche l'Europa, perciò, seguendo l'esempio dell'America, si toglie di mente l'idea che esista l'inconscio e cosl azzera le implicazioni radicali della concezione freudiana della psiche. Ma torniamo a Freud in America. A New York gli piacque solo il Metropolitan Museum, soprattutto la collezione di antichità greche. Vide il suo primo film, che Jones descrive come "uno dei film primitivi di quei giorni con tanto di corse folli", ma pare che Freud si divertisse poco.2 E l'unica cosa che lo entusiasmò furono le cascate del Niagara. 1 J. 2

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Lacan 1972, p. 183. E. Jones 1961. pp. 266-267.

Alla Clark University tenne cinque lezioni introduttive sulla psicoanalisi, in tedesco e senza appunti, a un pubblico che reagi con grande ammirazione e altrettanta indignazione. Ammirazione, che Freud caldamente contraccambiava, da parte di persone quali Emma Goldman, anarchica, femminista e promotrice del libero amore, o William James, il filosofo pragmatista; e ammirazione ufficiale sotto forma di una laurea ad honorem che lo ricompensò in parte del mancato riconoscimento e dei lunghi anni di ostracismo subiti nella natia Vienna. Contemporaneamente però gran parte dell'uditorio rimase indignato di ciò che interpretò come un'esortazione al libero amore, una visione scandalosa, corrotta e corruttrice dell'innocenza infantile, un insulto agli ideali di altruismo e di autocontrollo che gli americani veneravano nell'immagine dell'individuo che si fa da sé, il self-made man. Immagine che la teoria freudiana dell'inconscio stravolgeva irreparabilmente. Non mi pare scorretto dire che entrambe le reazioni, ammirazione e indignazione, permangono tuttora e sono tipiche dell'atteggiamento nordamericano nei confronti di Freud. Come vedremo tra breve. Perché Freud non amasse l'America non è difficile da indovinare. Jones opina che il disamore fosse dovuto al fastidio fisico provocatogli dal viaggio, che acul i disturbi cronici intestinali e prostatici del cinquantatreenne Freud, oltre che alla difficile comprensione dell'inglese americano e a ciò che Jones eufemisticamente chiama "i modi semplici e liberi del Nuovo Mondo" (non per niente Jones era canadese).3 Dalla corrispondenza dello stesso Freud emergono però ragioni meno contingenti: l'antipatia per il puritanesimo nordamericano, per il funzionalismo di una società votata al successo commerciale, e per le maniere spicce, informali di una cultura giovane che, a un europeo, poteva certo dar l'impressione di privilegiare la gioventù in modo eccessivo. Gli parve che il desiderio di far soldi, di accumulare capitale, prendesse il sopravvento su qualun1

lvi, p. 270.

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que altro desiderio, e tale forma di sublimazione era, a suo parere, di gran lunga inferiore alla produzione artistica, letteraria o scientifica. Disprezzava specialmente il moralismo nordamericano in ambito sessuale e in particolare nei confronti dell'omosessualità. Come scrisse a James Putnam, un analista di Harvard con cui Freud tenne una lunga corrispondenza dopo il loro incontro alla Clark University, "la moralità sessuale cos} come la definisce la società - e sopra ogni altra la società americana - mi pare degna di disprezzo. lo sono per una vita sessuale molto più~libera".4 Putnam, a quanto pare, non rispose all'obiezione, né la raccolse l'Associazione psicoanalitica americana; ma queste parole di Freud sarebbero poi tornate a disturbare la pace delle loro rispettive case, cioè il campus universitario e la stanza d'analisi. Per spiegare questo secondo atto della nemesi, passo ora a tracciare a grandi linee la fortuna e i destini della psicoanalisi nel mondo accademico statunitense e in particolare in quella costellazione di studi interdisciplinari sorti negli ultimi venticinque anni, cui viene dato il nome generico di studi culturali. Essi includono gli studi delle donne (womens studies), quelli sul cinema (film. studies) e altri media, gli studi postcoloniali su razza, etnia e nazionalità, detti anche diaspora studies, e gli studi su genere e sessualità (gender studies) fino alla loro propaggine più recente, queer theory. Tutti questi diversi campi di studio hanno trasformato la pratica della ricerca e dell'insegnamento accademico in meglio e in peggio al tempo stesso. Per il meglio, hanno dato vita non solo a nuovi concetti, ma anche a nuovi siti, nuovi oggetti e nuovi soggetti del sapere, generando inoltre una concezione dell'insegnamento più democratica, ma che si presta anche a critiche fondate. t:insegnamento degli studi culturali viene frequentemente inteso come elaborazione di un rapporto intersoggettivo tra docente e studente basato su un obiettivo politico-e-personale da essi 4

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S. Freud, citato in H. Abelove 1993, p. 386.

condiviso; a questo rapporto, che spesso assume un carattere quasi terapeutico di appoggio reciproco, viene data 1a precedenza rispetto aH'insegnamento/apprendimento delle discipline tradizionali e a quella "riflessione control1ata sulla formazione del metodo" che, secondo il teorico della letteratura Paul de Man, costituisce l'apice dell'insegnamento a livello universitario. L'insegnamento non è principalmente un rapporto tra individui ma un processo cognitivo in cui l'io e l'altro/l'altra sono coinvolti solo tangenzialmente e contiguamente. L'unico insegnamento degno del suo nome è quello tra studiosi, non tra persone; le analogie tra l'insegnamento e svariate forme di spettacolo o assistenza socio-psicologica sono il più delle volte scuse per aver abdicato al ruolo.5

Per giusta che sia questa obiezione, e per quanto ci si possa trovare d'accordo con de Man che troppo spesso gli studi interdisciplinari soffrono di una carenza di metodo e di un eccesso di opinioni personali, mi pare che lo schierare in campi opposti lo studioso e la persona implichi una concezione del processo cognitivo altrettanto schematica e in fondo riduttiva quanto 1o è attribuire all'uno il solo metodo critico e all'altra la sola domanda di appoggio terapeutico. Insegnando teoria, io stessa ho verificato che la compartecipazione dichiarata del(la) docente a un progetto critico, al quale sono finalizzati e l'insegnamento e l'apprendimento di determinati discorsi teorici, è una strategia pedagogica di grande efficacia. Il riconoscimento della posta in gioco e della domanda soggettiva, personale che guida la ricerca sia dell'insegnante sia degli autori studiati, unito alla contestualizzazione socioculturale e storica delle metodologie critiche che si vogliono sottoporre a "riflessione controllata", sono forse il modo più efficace di combattere "la resistenza alla teoria" tipica non solo degli studenti ma di tutto il mondo accademico nordamericano. E forse l'unico modo di dare loro accesso e motivazione 5

P, de Man 1986, p. 4. 85

alla riflessione critica sul metodo. Le alterne vicende della teoria freudiana e del suo contributo ai campi del sapere che costituiscono gli odierni studi culturali ne forniscono una dimostrazione. Come si è detto, tali studi manifestano nei confronti del pensiero psicoanalitico la stessa ambivalenza che contrassegnò la sua entrata negli Stati Uniti all'inizio del secolo. A questo proposito sono degni di nota due fatti che accaddero durante il viaggio americano di Freud. A New York Freud vide il suo primo film ~ venne a conoscenza del cinema, ma non ne fu particolarmente colpito. Più tardi, invitato da Samuel Goldwyn a Hollywood a fare un film che rappresentasse il procedimento psicoanalitico, Freud rifiutò categoricamente, nonostante l'entusiasmo che l'idea suscitò nei suoi discepoli Karl Abraham e Hanns Sachs, i quali poi riuscirono a fare un "film psicoanalitico" collaborando con Pabst in Geheimnisse einer Seele (Segreti di un'anima,1926). Il secondo fatto di rilievo accadde dopo una delle lezioni di Freud alla Clark University: una signora dalla platea gli chiese ulteriori chiarimenti circa le sue idee sulla sessualità e Freud rispose: "In Bezug auf die Sexualitat lasse ich mich weder ab- noch zubringen" (sull'argomento sessualità non mi lascio né spingere né distogliere).6 Quello che Freud non poteva prevedere, forse neppure immaginare, era che sessant'anni più tardi sarebbero state proprio le donne - per giunta femministe! - e coloro che studiavano il cinema a rivolgersi a lui, e in molti casi contro di lui, attirate precisamente dalle sue teorie della sessualità, dell'inconscio, del lavoro del sogno. E così, nel mondo accademico nordamericano, la sua "peste" sarebbe stata diagnosticata e avrebbe contagiato in primis gli studi femministi e quelli sul cinema, anch'essi in gran parte di tendenza femminista. Ciò avvenne negli anni settanta, al tempo dei movimenti di liberazione, delle proteste studentesche e di una gene6

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E. Jones 1961, p. 267.

raie messa in questione della moralità sessuale, dei ruoli di genere e di quella spinta all'accumulazione di capitale, all'imperialismo economico e politico, che Freud aveva tanto disprezzato. Oggi, per la maggior parte degli studenti universitari nordamericani, gli anni settanta sono storia antica, vagamente nota dai film che passano in televisione alle ore piccole e dalle canzoni della loro infanzia. Per loro sia la psicoanalisi sia il femminismo sono "teorie" o "discorsi" allo stesso rango del poststrutturalismo o del postmodernismo, sono strumenti utili a conseguire la laurea e fare carriera nell'istituzione accademica, ma solo raramente risvegliano passioni e accendono l'intelletto come lo fecero per la mia generazione negli anni settanta. Studi delle donne e teoria fémminista A quell'epoca il primo attacco frontale venne con il libro Sexual Politics (La politica del sesso) di Kate Millett ( 1969), che per primo formulò i punti principali della critica femminista a Freud e alle sue idee sulla femminilità e sulla sessualità femminile. Lo fece sottolineando alcune frasi - invidia del pene, l'anatomia è destino, la libido è maschile - che instantaneamente divennero striscioni nella marcia femminista verso la "liberazione sessuale". Il libro di Millett, la sua tesi di dottorato, chiaramente frutto di rigorosa ricerca e analisi letteraria, era insieme tendenzioso ed erudito, passionalmente di parte ma non superficiale. L'inizio del capitolo su Freud (le cui opere ancora oggi, negli Stati Uniti, vengono lette principalmente nei dipartimenti di letteratura) riflette perfettamente quell'atteggiamento tipicamente americano, misto di ammirazione e indignazione, che ebbe inizio con le lezioni di Freud alla Clark University sessant'anni prima, si riverberò sulle opere di psicoanaliste quali Karen Homey e Clara Thompson, e continua fino ai giorni nostri, per esempio tra le mie allieve dottorande. 87

Per una tragica ironia, le importanti scoperte di un grande pioniere sull'inconscio e sulla sessualità infantile che dovevano portare a una maggiore comprensione dell'uomo, vennero successivamente invocate per convalidare un punto di vista essenzialmente conservatore. E per quanto concerne lo scopo della rivoluzione sessuale, quello cioè di liberare l'umanità femminile dalla sua tradizionale subordinazione, la posizione freudiana fini per essere messa al servizio di un atteggiamento fortemente controrivoluzionario. Anche se le conseguenze più deplorevoli della volgarizzazione delle teorie freudiane superarono di gran lunga le intenzioni dello stesso Freud, il loro antifemminismo trovava nella sua opera un reale fondamento.7

In queste righe Milieu riconosce il merito di ciò che chiama "le scoperte di un grande pioniere" (la metafora stessa, in bocca a un'americana, è segno indubbio di ammirazione) e ammette che il danno maggiore che la psicoanalisi arreca alle donne non viene da Freud ma dai suoi divulgatori. Ciò nonostante per tutto il resto del saggio si dedica a setacciare dagli scritti di Freud affermazioni e frasi che, insieme, configurano una visione oppressiva, prescrittiva e "controrivoluzionaria" della sessualità femminile. Eppure, anche se mal volentieri, Millett dà a Freud quello che è di Freud. Nella stragrande maggioranza degli scritti femministi successivi a La politica del sesso - scritti di psicologia, sociologia, storia, critica letteraria e altro, che coprono l'intera gamma degli studi delle donne "Freud" venne a significare essenzialmente ciò che si diceva Freud avesse detto a proposito delle donne, spesso senza averne letto una sola riga, mentre i concetti di inconscio, di sessualità infantile e soprattutto la teoria delle pulsioni venivano accantonati in quanto antiquati e "biologistici", nella migliore delle ipotesi; nella peggiore erano denigrati come pretestuosi in quanto appartenenti al com7

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K. Millett 1971, pp. 224-225.

plotto patriarcale e utili solo a giustificare e a perpetuare l'oppressione sociale e sessuale del1e donne. Tutto sommato, dunque, ]a psicoanalisi che ha esercitato la massima influenza sugli studi delle donne non è quella di Freud ma la teoria delle relazioni d'oggetto di Melanie K1ein, riveduta e divulgata dalla sociologa Nancy Chodorow in The Reproduction of Mothering (La funzione materna, 1978), i1 cui punto focale è la figura materna e il significato della maternità per la sessualità femminile. 8 Dove questa versione americana diverge dalla teoria di Klein è ancora una volta il concetto freudiano di inconscio, che tale posizione femminista rifiuta privando cosi la teoria del "grande pioniere" della sua struttura portante. Cosl nella maggioranza degli scritti femministi. Tuttavia, una parte di essi, numericamente più piccola ma più influente a livello accademico, fu attratta dalla psicoanalisi precisamente in virtù del suo porre la sessualità in rapporto con l'inconscio, la sfera della fantasia e la produzione fantasmatica. Il testo canonico di questo filone del pensiero femminista era Psychoanalysis and Feminism di Juliet Mitchell. Apparso in Inghilterra nel 1974, quasi subito attraversò l'Atlantico portando - cosi molte e molti pensaronoun'altra peste: il Freud francese, ovvero la psicoanalisi neofreudiana di Lacan. Mitchell argomentò con forza di convinzione che, per le donne, rifiutare la psicoanalisi era un tragico errore: "Qualunque sia l'uso che è stato fatto della psicoanalisi, essa non è in favore di una società patriarcale, ma si limita ad analizzarne una". 9 La lotta delle donne contro la discriminazione sessuale e il loro sforzo di ridefinire i ruoli sessuali e di genere non potevano permettersi di ignorare quell'analisi, e ancor meno di ignorare la funzione dell'inconscio nell'interiorizzazione individuale di norme • Per una discussione dei pro e dei contro di questa posizione femminista, rimando al mio saggio Salve Regina. Immaginario materna/e e sessualità, in T. de Lauretis 1996a. 9 J. Mitchell 1976, p. IX. 89

sociali oppressive, che quindi si riproducono anche nella stessa soggettività femminile. Il modo in cui noi percepiamo come "idee" le leggi necessarie alla società umana non è tanto conscio, quanto piuttosto inconscio; il compito specifico della psicoanalisi è queUo di decifrare il modo in cui acquisiamo nel nostro inconscio il patrimonio ereditario delle idee e delle leggi della società umana o, per dirla in altro modo, la mente inconscia è il modo in cui acquisiamo tali leggi. 10

La difesa di Freud da parte~di Mitchell e il riconoscimento dell'importanza dei meccanismi inconsci per la teoria femminista furono portati avanti da quelle femministe che, conoscendo il francese o l'italiano, avevano accesso al pensiero in seguito definito poststrutturalista (che comprendeva psicoanalisi, semiotica e anche, anacronisticamente, lo strutturalismo, ossia linguistica, poetica e antropologia strutturale) nelle opere di Lévi-Strauss, Barthes, Eco, Metz, Saussure, Benveniste, Derrida e il primo Foucault, oltre a Lacan, Kristeva e Irigaray, autori che per lo più non erano ancora stati tradotti in inglese. Per esempio, la critica femminista a Freud di Irigaray in Speculum de l'autre (emme (Speculum. L'altra donna) fu pubblicata in Francia nel 1974, il medesimo anno in cui apparve il libro di Mitchell, ma non fu tradotta in inglese fino al 1985. Quindi, all'inizio degli anni ottanta, la gamma delle posizioni critiche femministe si estendeva da, diciamo cosi, una destra antifreudiana rappresentata da Kate Millett a una sinistra neofreudiana, rappresentata da Juliet Mitchell. Secondo quest'ultima la psicoanalisi non prescriveva affatto una definizione normalizzante della sessualità femminile ma, al contrario, metteva in risalto proprio l'instabilità, finanche l'impossibilità di un'identità sessuale femminile. Indice di tale posizione a favore di un Freud americano è il libro di Jane Gallop, The Daughter's Seduction (La seduzione della figlia, 1982), il cui sottotitolo, IO

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Ivi, p. X.

Feminism and Psychoanalysis, invertiva il titolo del libro di Mitchell mettendo in primo piano il femminismo. Va aggiunto che le femministe marxiste o socialiste, e quelle che si definivano femministe di colore o anche femministe del Terzo Mondo americano, rimasero per la maggior parte fuori dal dibattito sulla psicoanalisi, rispettivamente indignate e disinteressate, e non vi entrarono che parecchi anni dopo. Un impatto molto più forte la psicoanalisi lo ebbe invece su un altro settore di studi universitari che emerse verso la metà degli anni settanta in concomitanza con gli studi delle donne, ai quali apportò un contributo fondamentale, e cioè la teoria del cinema. Studi sul cinema e teoria del cinema Quando tenni le prime lezioni sul cinema all'Università del Wisconsin nel 1971 non esistevano corsi di laurea in film studies, e nemmeno si insegnava quella materia; il mio corso sul cinema italiano era una assoluta novità. Si iscrissero ben duecentosettanta studenti, numero di gran lunga superiore a quello delle frequenze nei corsi di lingua e letteratura italiana. Nel sistema universitario statale statunitense, governato dalla domanda di mercato e dal tasso di produttività, come di regola nell'economia del paese, i fondi per l'istruzione pubblica sono assegnati in base al numero degli iscritti. Il fatto che gli studenti affollassero le aule dei corsi di cinema (cosa che, del resto, continuano a fare anche oggi) fu il fattore più determinante nello sviluppo degli studi sul cinema. Sebbene alla fine degli anni quaranta ci fossero cinque università con insegnamenti di cinema, i corsi erano dedicati alla cinematografia e talvolta alla sceneggiatura, ma la storia, la critica, l'analisi testuale e la teoria del cinema non erano mai state materie di studio universitario. Come ebbe a dire Robert Gessner della New York University, uno dei fondatori della Society for Cinema Studies nel 1969, "il cinema e il sapere non erano considerati matri91

moniabili nelle aule venerande dell'accademia" .11 Fu solo verso la fine degli anni settanta che quel matrimonio si poté fare e gli studi sul cinema vennero legittimati in regolari corsi di laurea. Coloro che, come me, cominciarono a insegnare e a studiare il cinema nei primi anni settanta, e il cui ambito di ricerca era la letteratura, ricordano l'emozione che destava la consapevolezza di imbarcarsi per un'awentura intellettuale. Il nuovo mondo che ci si apriva alla conoscenza con la storia, la critica, la teoria e la pedagogia del cinema non aveva confini poiché-non c'erano né tradizioni da seguire, né regole metodologiche né costrizioni disciplinari; le rotte non erano segnate e per via ogni sorta di incontro era possibile. Il primo, in quegli anni di contestazione generale, non poteva che essere l'incontro con la politica, sempre in cima all'agenda studentesca in ogni sede universitaria e a maggior ragione nei nuovi campi di studio che stavano sorgendo su insistente richiesta degli stessi studenti: studi delle donne, studi afroamericani, studi etnici, in cui una qualche forma di politica d' opposizione era integrata nel curriculum fin dall'inizio. Da cui la presenza significativa, anzi, formativa del femminismo nello studio del cinema. Il secondo incontro fu con "la teoria", o piuttosto con ciò che oggi viene designato con questo termine. Anch'esso fu reso possibile, paradossalmente, dal basso rango accademico dei nascenti film studies, nei quali si potevano applicare in modo eclettico metodi analitici e schemi concettuali, sia nostrani sia importati dall'estero, dato che non c'era nessuno in grado di dettare il curriculum o di imporre protocolli critici coerenti con canoni inesistenti. Nessuno poté sostenere - come si affermava per i testi letterari - che la psicoanalisi era un modello inaccettabile per l'analisi del testo filmico, che lo strutturalismo e la semiotica erano inconciliabili con il giudizio estetico o che Il capitale di Marx non poteva servire a capire l'arte cine11

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Citato in R. Cuny 1986, p. 44.

matografica. E cosl, guardandoci attorno in cerca di modelli di come insegnare il cinema, ci buttammo, in tutta innocenza, a capofitto nella "teoria". La necessità di comprendere la complessità dell"'effetto cinema", 12 ossia la molteplicità dei codici semiotici e tecnici, specifici e non specifici messi in gioco sia nella produzione sia nella ricezione dei film, ci rese consapevoli che il cinema era una forma simbolica di grande potenza e, per quanto disprezzata dai custodi della "cultura alta", di portata pari a quella della letteratura. Le pratiche dell'esegesi testuale e le nozioni di genere letterario, periodizzazione, stile, convenzioni narrative, figure retoriche e cosi via ci erano note, facevano già parte del nostro bagaglio professionale di studiosi e docenti di letteratura, ma erano tutte da ripensare. La semplice trasposizione al testo filmico non bastava, bisognava riformularle di sana pianta in rapporto a forme di rappresentazione audiovisive. Questo ci spinse a investigare altri universi di discorso e modalità del sapere non letterarie bensì artistiche, tecniche o scientifiche. Come gli altri nuovi campi di studio, dunque, e per analoghe ragioni istituzionali, lo studio del cinema fu subito teorico e interdisciplinare; e paradossalmente - lo diciamo con il senno di poi - doveva essere interdisciplinare per potersi costituire in disciplina accademica. Il prestigio accademico e intellettuale oggi raggiunto dai film studies si può misurare dal numero di college e università dotati di dipartimenti di cinema, oltre che di cinematografia, in cui si seguono regolari corsi di laurea e di dottorato in storia, critica e teoria del cinema. Questi si avvalgono di sofisticati strumenti critici, di un apparato di ricerca bibliografica e filmografica estesissimo, e di una struttura concettuale o teorica spesso ripresa da studiosi di altri campi disciplinari. (Per esempio, il concetto di funzione 12 Prendo questa espressione dal titolo di una serie di videocassette prodotte come manuale audiovisivo per l'insegnamento del cinema presso l'istituto Dams dell'Università di Bologna.

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spettato rial e [spectatorship] elaborato dalla teoria del cine• ma a partire dalla critica femminista e con particolare atti• nenza al cinema delle donne, è stato adottato sia nello stu• dio del teatro e della performance art sia in quel filone di critica letteraria che va sotto il nome di reader•response theory.) La pertinenza della semiotica e della psicoanalisi ali'a• nalisi filmica e alla comprensione dell'effetto cinema fu dimostrata da Christian Metz in Francia. I suoi scritti dagli Essais sur la signification au cinéma (1968) a Le. signifiant imaginaire ( 1977) furtmo tradotti sulla rivista inglese "Screen", che contemporaneamente introduceva anche all'opera di Brecht e alla critica marxista gli studio• si di cinema anglofoni. Metz mise in evidenza la sorpren• dente analogia tra gli elementi e i meccanismi del "lavoro del sogno" (il Traumarbeit di Freud) e quelli di ciò che, appunto, si può chiamare il lavoro del film, ossia l'effetto che ha sullo spettatore la successione di immagini in movimento e la loro combinazione per mezzo del montag• gio visivo e sonoro. Si considerino, in primo luogo, il carattere percettivo dell'immagine filmica e la sua idoneità alla "condensazio• ne" metaforica (Verdichtung), e come il movimento filmi• co, il susseguirsi metonimico delle inquadrature effettuato dal montaggio, produca "spostamenti" (Verschiebung) di senso e di affetto (Affekt) in tutto simili a quelli che si veri• ficano nel sogno. La produzione di senso attraverso le immagini inquadrate (con particolari angolazioni, punti di vista, tecniche di illuminazione ecc.), che nel film proiettato si costituiscono in movimento e messa in scena, trova precise analogie nel "riguardo per la raffigurabilità" di Freud (Rilcksicht auf Darstellbarkeit), mentre la costru• zione di senso narrativo o narratività, ottenuta tramite il montaggio delle immagini filmate secondo la grammatica e la sintassi specifiche del linguaggio cinematografico, ben corrisponde alla nozione freudiana di "elaborazione secondaria" (sekundiire Bearbeitung). In secondo luogo, si pensi alla straordinaria somiglian• 94

za tra lo spettatore al cinema, da un Iato, e il sognatore o ]'analizzando dall'altro. Seduto davanti allo schermo illuminato, nella sala buia e silenziosa a parte i suoni che sembrano provenire dallo schermo, lo spettatore si trova in una condizione di elevata ricettività visiva e uditiva ma di virtuale incapacità motoria. Incapace, inoltre, di intervenire nello spettacolo fantastico che ha luogo sullo schermo e gli si offre, lo invita, lo attira a sé irresistibilmente, lo spettatore si trova in una situazione analoga a quella di chi sta sognando nonché a quella dell'analizzando adulto che, sdraiato sul lettino analitico, rievoca il proprio io infantile e lo riporta in vita sulla scena del ricordo. C'è non poca ironia nel fatto che Freud, che non amava il cinema, abbia trovato i suoi ammiratori più devoti tra coloro che il cinema amano. Ma, dopo tutto, è stato lui che per primo ha tracciato analogie tra la psiche e la visione, sia nel paragonare l'apparato mentale all'apparecchio fotografico o al sistema di lenti nel telescopio, sia nell'asserire che il registro visivo è quello privilegiato dai processi primari, vale a dire che l'inconscio si esprime per immagini. Non ci sorprenda dunque che la teoria del cinema si sia appropriata di alcune formulazioni freudiane, di particolare rilievo per il proprio oggetto di studio, quali il lavoro del sogno e l'attività fantasmatica, che comprende tutte le forme del fantasticare, dalle fantasie inconsce, o fantasmi, a quelle dette comunemente sogni a occhi aperti. Tanto più che esse si ripresentano con grande regolarità, film dopo film, nelle tematiche e nelle soluzioni formali del cinema internazionale, passato e presente. Basti osservare quanto spesso la fantasia edipica o la scena primaria (Urszene) vengano riproposte più o meno esplicitamente nei film di successo, compresi quelli fantascientifici ambientati in mondi futuri o extraterrestri (la sequela dei tre Ritorno al futuro di Zemeckis, dei due Jurassic Park di Spielberg o dei due, quasi tre, Tenninator di Cameron). Difatti una delle problematiche più interessanti per l'attuale riflessione teorica sulla comunicazione audiovisiva è il rapporto tra fantasie private e fantasie pubbliche, 95

vale a dire, in che modo nella odierna società di massa, la soggettività e l'identità sociosessuale siano sovradeterminate dal continuo rovescio di immagini cinematografiche, televisive, computerizzate e via dicendo che permeano il tessuto dell'esistenza quotidiana. Il predominio dei media elettronici e audiovisivi su quelli a stampa nella vita non solo degli studenti ma anche delle nuove generazioni di docenti può dar ragione del configurarsi, in questo decennio, di un nuovo orientamento, lo studio dei media o della cultura visiva (studies in visual culture). A differenza degli studi sul cinema, ormai istltuzionalizzati e diciamo pure disciplinati, questo è un campo di ricerca e di insegnamento dai confini labili e indeterminati. Qualcosa di simile è awenuto agli studi delle donne cui, nelJo stesso arco di tempo, dagli anni settanta agli anni novanta, si sono aggiunti, dapprima, e poi de facto sostituiti, gli studi sul genere. Dagli studi delle donne agli studi sul genere

Negli anni settanta e fino ai primi anni ottanta la riflessione critica e politica sul genere era l'asse portante dell'intervento femminista in ambito universitario; e dalla ricerca storica, letteraria, artistica, antropologica, sociologica e linguistica sui ruoli sessuali e sociali, che ogni società definisce e prescrive per tutti gli individui che la compongono a seconda del loro sesso, nacquero gli studi delle donne. Questi si svilupparono, come dice il nome, in stretto rapporto con il movimento delle donne e si configurarono dapprima come una costellazione di attività dichiaratamente politiche che andavano dal lavoro accademico (ricerca, insegnamento, programmazione ecc.) alla costituzione di gruppi di studio e di autocoscienza, spesso non distinguibili. La tematica comune a tutte queste attività era la critica del patriarcato e l'analisi politica del genere ne costituiva la problematica più urgente. Insomma, il genere era esclusivamente una faccenda di 96

donne. Gli uomini, eterosessuali o gay, allora non se ne occupavano; i primi scritti di studiosi gay nell'ambito universitario erano opere di sociologia e storia dell'omosessualità maschile. Genere e differenza sessuale - in un primo momento di breve durata sinonimi - erano i termini usati dalle donne per discutere, analizzare e combattere la concezione vigente della Donna definita in rapporto a uno standard universale detto "l'uomo". Con il passar degli anni e l'approfondirsi della discussione, dell'analisi e della ricerca, i termini vennero elaborati in concetti; il concetto di genere divenne un vero e proprio oggetto teorico del pensiero femminista e si arricchi di valenze epistemologiche e di aspetti inizialmente ignorati, come l'incidenza della diversità razziale e/o sessuale sul formarsi dell'identità o dell'appartenenza di genere. Ma nella sua prima concezione il genere era il marchio della donna, il segno della sua differenza: una differenza sessuale che sottendeva un insieme di tratti caratteriali derivanti dal sesso anatomico e dal destino biologico, e comportava la subordinazione all'uomo. Il genere era la somma di quei tratti, sia che li si pensasse innati, forniti dalla natura, o imposti dalla cultura e frutto di condizionamento sociale. Per esempio, il più citato e influente saggio sul genere degli anni settanta è un saggio di Gayle Rubin, subito tradotto in italiano da "nuova DWF" con il titolo Lo scambio delle donne, ma il cui titolo originale ne mostra l'appartenenza al pensiero critico marxista-femminista di quel tempo: The Traffic in Women: Notes toward a Politica/ Economy o( Sex (Il traffico di donne. Note per un'economia politica del sesso) apparve nel 1975 in un volume dal titolo Toward an Anthropology o( Women (Per un'antropologia delle donne). Rubin dimostra la reciproca implicazione di sesso e genere elaborando il concetto di sex/gender system: un sistema sesso/genere è l'insieme "dei dispositivi tramite i quali una società trasforma l'istinto sessuale biologico in prodotto dell'attività umana e attraverso cui i bisogni ses97

suali, cosi trasformati, sono soddisfatti" . 13 Dopo una critica incisiva a Lévi-Strauss, Lacan, e al Freud degli scritti sulla sessualità femminile, Rubin conclude con un'affermazione, oggi alquanto sorprendente, che dimostra la sinonimia di sesso e genere tipica del pensiero femminista di quegli anni: "La psicoanalisi è una teoria del genere" . 14 Affermazione tanto più sorprendente se si pensa che la stessa Rubin, in un saggio di dieci anni posteriore e a suo modo altrettanto influente, Thinking Sex: Notes (or a Radical Theory o( the Politics of Sexuality (Pensare il sesso: note per una teoria radicale della politica della sessualità), propose di disgiungere drasticamente il genere dalla sessualità, asserendo la necessità di elaborare una politica del sesso e una teoria della sessualità autonome dalla critica femminista del genere, ora inteso come struttura dell'oppressione sociale delle donne. Fu in quel contesto di dibattito femminista che scrissi o forse che si scrisse da sé - un libro sulle tecnologie del genere. 15 Il genere, vi sostenevo, non è un semplice derivato del sesso anatomico o biologico ma una costruzione simbolica, una rappresentazione o, meglio, l'effetto combinato di innumerevoli rappresentazioni visive e discorsive che provengono dai diversi apparati istituzionali dello stato, quali la famiglia, la scuola, la giurisprudenza, la medicina ecc. (qui il riferimento è a Foucault e Althusser), ma anche dalle forme stesse della cultura (il linguaggio, le arti, la letteratura, la religione, la filosofia, il cinema, i media), che descrivevo appunto come tecnologie del genere. La natura artificiale del genere, il suo essere rappresentazione o costruzione discorsiva, però, non significa che esso non abbia effetti concreti nella vita materiale, sociale e psichica degli individui. Al contrario, la realtà del genere sta precisamente negli effetti di realtà prodotti dalla sua 13

G. Rubin 1976, pp. 24-25. Ivi, p. 55. 15 T. de Lauretis 1987. Il capitolo introduttivo di quel libro è tradotto in T. de Lauretis 1996a con il titolo La tecnologia del genere. 14

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rappresentazione: il genere si realizza, diviene realtà concreta quando la rappresentazione diviene autorappresentazione, ossia viene assunta dal soggetto quale componente della propria identità. Per questo ho proposto il neologismo en-gender, che rendo in italiano con ingenerarsi: il soggetto si ingenera, vale a dire si produce in quanto soggetto nell'assumere, nel fare proprie o nell'identificarsi con gli effetti di senso e le posizioni specificate dal sistema sesso/genere di una data società. Detto altrimenti, il soggetto è prodotto o ingenerato nella misura in cui è soggetto attivamente alle tecnologie del genere. Scrivendo en-gender con il trattino giocavo con il verbo inglese to engender (produrre, generare) che non ha connotazioni di genere, maschile o femminile, e con il sostantivo gender nell'accezione comune messa in evidenza dal discorso femminista. In italiano il senso di quel gioco di parole può essere reso dall'aggiunta del prefisso in alle forme del verbo generare: ingenerato è il soggetto prodotto o generato nel genere, ossia costituito in quanto donna o in quanto uomo; e viceversa il genere è inscritto, inserito, innestato nel soggetto dal suo primo formarsi, dai momenti iniziali della soggettività che precedono l'appercezione della differenza sessuale. Se anch'io, come Rubin, distinguevo il genere dal sesso e dalla sessualità, per me la distinzione era necessaria teoricamente, a fini analitici, non in senso assoluto. Mi pareva, e mi pare, fuori dubbio che nell'esistenza materiale-sociale, psichica e corporeadi ogni individuo, genere e sessualità siano inevitabilmente interconnessi. Indipendentemente dalle diverse formulazioni dell'oggetto teorico genere nell'ambito del femminismo, mi preme sottolineare che l'elaborazione del concetto di genere nelle sue valenze analitiche, politiche ed epistemologiche è dovuta al pensiero femminista e si è verificata prima dello .slittamento, in ambito accademico, dagli studi delle donne agli studi sul genere. Insisto perché questo pezzo di storia culturale o storia del pensiero è già in via di sparizione; tra una decina d'anni o poco più, forse nessuno ricorderà che 99

i concetti di genere e di soggetto ingenerato non esistevano prima che il femminismo li elaborasse, li analizzasse, li teorizzasse e soprattutto li nominasse. J.:istituzionalizzarsi degli studi delle donne nei curricula accademici, in corsi di laurea e in dipartimenti di womens studies ebbe luogo negli anni settanta e ottanta sotto la spinta delle agitazioni studentesche e con il lavoro straordinario non remunerato di alcune docenti. (Ricordo il tempo in cui le studentesse chiedevano classi di sole donne e le studiose esigevano spazi d'incontro separati ai convegni nazionali, pratiche di cui rimane ancora vestigio nel Women's Caucus della Modem Language Association, la massima organizzazione internazionale per lo studio delle lingue e delle letterature del mondo, che ha sede a New York.) Ma l'istituzionalizzazione ha portato con sé delle restrizioni: l'imperativo di mantenere alto il numero delle iscrizioni, l'imposizione programmatica di sequenzialità nei corsi, e quindi la formazione di una specie di canone o corpus di testi che nella metodologia e nei contenuti rappresentassero quel campo di studio: lo studio delle donne. E portò quindi anche un odore di stantio, di chiusura ideologica e intellettuale. Nell'acquistare legittimità accademica, il campo si dovette autodelimitare. Cominciò, per cosi dire, a chiudere le frontiere e a vietare l'accesso a testi o posizioni che venivano considerate offensive per le donne. Nella mia stessa università, per esempio, Freud fu messo al bando come esemplare di misoginia e di "teoria maschile"; ma lo fu pure, di conseguenza, Speculwn. L'altra donna di lrigaray che era non solo su Freud ma anche su Platone, Aristotele e altri "filosofi maschi europei". E non importa che lrigaray li leggesse contropelo. Leggere Irigaray presupponeva leggere anche loro, e questo andava contro il progetto multiculturale di quel programma di studi. Due furono le soluzioni trovate da coloro che per diverse ragioni non si adeguarono ai dettami istituzionali o ideologici. La soluzione di chi era femminista ma mal disposta a mettersi una cintura di castità intellettuale fu di 100

integrare la prospettiva critica femminista nei suoi corsi regolari, ossia nell'insegnamento disciplinare. I:altra soluzione, adottata da coloro ai quali il femminismo o l'etichetta di femminista provocavano un certo imbarazzo, fu di prendere le distanze dall'oggetto di studio donne e di rivolgersi invece ai rapporti tra donne e uomini, alla costruzione sociale della mascolinità, ai modelli dei due generi offerti agli adolescenti, o a concezioni alternative del rapporto sesso-genere. Quest'ultima soluzione aprl la strada agli studi sul genere. Genere e sessualità

Ora che gli studi delle donne sono contenuti e disciplinati in un curriculum multidisciplinare e multiculturale in pressoché tutti i college e le università del Nordamerica, l'espressione gender studies serve praticamente da jolly. Può riferirsi a una varietà di tematiche e argomenti che vanno da quelli più conservatori, come la famiglia e i rapporti sociali tra uomini e donne, a quelli più provocanti, come il travestitismo, il drag, il transgender e le cosiddette neosessualità, ossia la bisessualità praticata, il sadomasochismo omosessuale, il transessualismo e altre varietà sessuali meno comuni; ma si può estendere fino alle pratiche di modificazione corporea come il tatuaggio, il piercing o il body building, le quali vengono considerate modi di "decostruire" il genere e di dissolvere i confini delle identità di genere o sessuali tradizionali (si noti che "tradizionali" qui comprende sia l'identità eterosessuale sia quella omosessuale, e che la distinzione tra genere e sessualità è di nuovo caduta). Agli scritti più criticamente agguerriti o intellettualmente ambiziosi di questo filone viene dato il nome di queer theory, dove la parola teoria sta a indicare un livello concettuale più elevato, o quanto meno l'aspirazione a esso. Retrospettivamente, dunque, possiamo dire che il rapporto tra genere e sessualità in questo tipo di studi è pas101

sato dalla quasi sinonimia nei primi scritti femministi a una distinzione categorica in quei lavori che considerano il genere una forma simbolica costruita in base al dato naturale, biologico che è il sesso; e ancora, nell'ultimo decennio, all'indistinzione o intercambiabilità di sesso e genere, entrambi intesi come costruzioni discorsive e funzioni di performance. Non, pertanto, dati dalla natura, ma nemmeno fissi o stabili nel singolo individuo, in questa ottica sesso e genere sarebbero passibili di modificazione tramite la cosmesi, gli ormoni, la palestra, la chirurgia o la performance stessa. Cindistinzione, fors'anche l'indifferenza, di genere e sessualità si può constatare nella recente voga del termine transgender. Diversamente da transessuale, che implica essere di un sesso diverso da quello assegnato alla nascita, transgender pare voglia significare identificarsi con un sesso diverso da quello assegnato alla nascita. Benché contenga un riferimento al sessuale (suggerito dall'evidente analogia con transessuale), transgender veicola il senso di una trasformazione che non è il passaggio - lungo, difficile, pieno di ostacoli e socialmente regolato -dall'uno all'altro sesso anatomico, bensl la metamorfosi subitanea, indolore e autogestita in un essere al di là dei due generi (maschile e femminile), al di là dei due sessi (maschio e femmina) e al di là delle due forme, ora considerate "tradizionali", di organizzazione sessuale (eterosessuale e omosessuale). Quindi, nel fare riferimento al sesso e alla sessualità, in effetti il termine transgender li elide, li cancella, ne evacua il peso specifico e gli effetti nella soggettività. È pura figura di discorso che non allude a un genere né a un sesso né a una sessualità né a un corpo; non si riferisce a nulla se non alla propria natura di figura di discorso. La concezione meccanicistica e volontaristica del sesso e dell'identità di genere che sottende l'uso sempre più diffuso del termine transgender è lontanissima da Freud e dalla sua ben più cupa visione di una sessualità dominata da un inconscio tanto intrattabile quanto imprevedibile. In questo filone, che andrebbe propriamente detto post102

gender studies o studi del dopogenere, la sessualità non è che la tipologia dei possibili comportamenti sessuali e delle posizioni scelte di volta in volta dall'individuo; l'inconscio rimane in ombra, è un concetto inerte che non tempera )a fiducia nel diritto alla felicità sancito dalla costituzione americana e non intacca la mitologia del self-made man, qui riproposta nella figura dell'individuo che da sé si fa transgender, come la/il protagonista del popolare romanzo autobiografico di Leslie Feinberg, varcando i confini del sesso biologico femminile senza però approdare alla riva dell'altro sesso biologico o del genere maschile. Sebbene la gran parte di questi studi sia di carattere confessionale e si avvalga di una tematica della redenzione più consona al funzionalismo della psicologia dell'Io che alla psicoanalisi di Freud e di Lacan, ciò nonostante anche quest'ultima ha avuto una sorta di rinascita in due campi di ricerca che fino agli anni novanta se ne erano tenuti a distanza, anzi uno di essi l'aveva apertamente osteggiata. È questo il campo degli studi lesbici e gay (lesbian and gay studies), la cui ostilità trova ragioni inoppugnabili nella storia di pratiche mediche repressive e punitive dell'omosessualità, dall'internamento all'elettroshock, che si appigliano pretestuosamente a un Freud volgarizzato. Ma la resistenza alla psicoanalisi si è venuta incrinando con la (ri)lettura critica dell'opera di Freud, in particolare la metapsicologia, in relazione alle teorie poststrutturaliste e in ambito universitario. Si è cosl cominciato a capire che il Freud americano è assai più conservatore del Freud viennese, il quale infatti disprezzava il moralismo sessuale degli americani. Si è potuto vedere cosi che le opinioni attribuite a Freud sull'omosessualità - l'essere essa condizione patologica di mancato sviluppo psichico o di devianza morale e sociale - non erano le sue, bensl quelle propagate, sottoscritte e messe in pratica dall'istituzione psicoanalitica nei suoi diversi apparati clinici, pedagogici e organizzativi (a questo proposito si vedano Abelove [1993] per gli Stati Uniti e O'Connor-Ryan [1993] per la Gran Bretagna). 103

Freud scrisse esplicitamente, in una lettera alla madre di un giovane omosessuale americano che gli si era rivolta per consiglio, che secondo lui l'omosessualità in sé non era una malattia né una condizione patogenica né un motivo di vergogna. 16 Anche in questo, perciò, come sulla questione dell'analisi laica o quella dell'ammissione di omosessuali al training psicoanalitico, Freud era molto più illuminato e progressista dei suoi eredi e discepoli a noi contemporanei. Se a questo punto vi state chiedendo, lettrici e lettori, che differenza ci sia tra studi lesbici e gay, studi sul genere e queer theory, posso solo rispondere che non lo so. Tutte queste espressioni vengono usate sia nelle università sia nell'editoria con referenti labili e imprecisi, per lo più a fini propagandistici, per attirare studenti o incrementare le vendite di libri. Questo, per un verso, favorisce la flessibilità del curriculum e lo studio di fenomeni culturali nel loro emergere, ma per un altro verso comporta un adeguamento della ricerca universitaria al mercato editoriale, o a quel settore di esso che si regge sui libri di testo, e lega la ricerca nel campo umanistico a interessi commerciali cosi come la ricerca scientifica è legata a interessi politici e militari. Prendiamo il caso seguente. Quando coniai l'espressione queer theory per un convegno sull'omosessualità tenutosi presso la mia sede universitaria nel 1990, il termine queer (strano, strambo, bislacco) era da più di un secolo usato in senso spregiativo per designare una persona omosessuale, ma era già stato ripreso e riscattato dal movimento di liberazione gay e veniva usato con orgoglio da uomini e donne dichiaratamente o apertamente omosessuali. Nel definire il tema dell'incontro che stavo organizzando con quelle parole invece di, per esempio, "sessualità lesbica e gay", volevo aprire una vertenza e mettere in discussione, per prima cosa, l'idea che l'omosessualità maschile e quella femminile fossero, indipendentemente 16

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Si veda H. Abelove 1993, p. 381.

dal genere, una medesima forma di sessualità e, in secondo luogo, che questa fosse identificabile solo per contrasto con l'eterosessualità (che però gli studi femministi avevano abbondantemente dimostrato distinta in maschile e femminile). In altre parole, volevo coniare un'espressione nuova che spingesse i partecipanti a considerare le due forme di omosessualità - lesbica e gay - nelle rispettive condizioni di esistenza storica, materiale, sociosimbolica e a farne oggetto di riflessione teorica. Questa teoria sarebbe stata strana, stramba- pensavo, giocando sul primo significato del termine qaeer - non in quanto prodotta da individui omosessuali, ma proprio nel progetto di rimettere in discussione nozioni e idee acquisite: in primo luogo, dunque, sospendere l'uso automatico dell'aggettivo "gay-e-lesbico" o "lesbico-e-gay" (per comodità abbreviato in ''lesbigay"), ormai divenuto il cliché più ripetuto nei talk show televisivi, e usato indifferentemente con riferimento a sessualità, identità, comunità, stile di vita eccetera; ma anche, di conseguenza, affrontare con coraggio il problema della disparità tra donne lesbiche e uomini gay. Questa ipotesi di ricerca, speravo, avrebbe cancellato il trattino omologante tra loro, esplorando sia il terreno comune sia quello specifico alle rispettive pratiche, concezioni, narrazioni culturali e autorappresentazioni dell'omosessualità; tenendo presenti le diverse istanze delle appartenenze di genere, di classe, razziali, etniche, generazionali, sociogeografiche, religiose, politiche. In tal modo avremmo misurato i limiti e le possibilità di un'effettiva alleanza pur nelle differenze, invece di adattarci a una scomoda coabitazione sotto la medesima etichetta. Saremo, auspicavo, pronti a esaminare, esplicitare, confrontare e confrontarci sulle rispettive storie e strutture concettuali che hanno caratterizzato l'autorappresentazione delle donne lesbiche e degli uomini gay, sia bianche/bianchi sia di colore, nel Nordamerica fino a ora; da Il saremo in grado di andare avanti a reinventare i termini delle nostre sessualità, a 105

delineare un altro universo di discorso, un altro modo di pensare il sessuale.17

Era questo il progetto per queer theory come lo immaginavo. Ora non posso che registrare la disseminazione di quel termine e gli usi e gli abusi che se ne sono fatti. Non molti mesi fa, per esempio, in una delle maggiori librerie alternative di San Francisco, A Different Light, sullo scaffale con la dicitura "queer theory" mi sono trovata insieme con Miche] Foucault, Samuel Delany e Judith Butler, ma anche con Gilles Deleuze, Julia~Kristeva, Umberto Eco e beli hooks. Indubbiamente motivata da ragioni commerciali, tale sistemazione di libri riflette la banalità e la superficialità con cui il termine è stato mobilitato nel mercato editoriale, nel mondo accademico e nei cosiddetti media altemativi. 18 Rimane il fatto, però, che gli studenti universitari fanno grande consumo di libri etichettati "queer theory" o "studi lesbici e gay". Secondo Cleis Press, una piccola casa editrice della West Coast - che ha da poco pubblicato la terza edizione di una guida ai cinquecento e passa editori, giornali, riviste ecc. che producono o immettono sul mercato pubblicazioni di contenuto gay o lesbico - più di mille titoli nuovi vengono pubblicati ogni anno. 19 Rimane dunque da chiedersi: quale significato ha questo vivace e 17 La citazione è tratta dalla mia introduzione al convegno Queer Theory: Lesbian and Gay Saualities pubblicata nel numero speciale della rivista "differences" che contiene anche altri intenrenti e relazioni presentate al convegno (cfr. T. de Lauretis 1991). 18 Noto tuttavia con sollievo che il valore politico e teorico del mio antico progetto di queer theory è stato recepito in Giappone, dove il movi• mento gay e lesbico, fondato nel 1986 con l'associazione Occur. è attiva• mente impegnato nella ricerca e nel dialogo critico con gli studi gay e lesbici americani ed europei (soprattutto olandesi) e si è adoperato per pubblicarne in traduzione giapponese alcuni scritti, considerati fonda• mentali. 1ra essi è la mia introduzione al numero speciale di ''differen• ces" su Queer l11eory (cfr. T. de Lauretis 1991), tradotto in Kuia seori (T. de Lauretis 1996b). 19 Si vedaJ. Noble 1994-1995, p. 21.

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diffuso interesse per la sessualità e la teoria? La reazione dell'establishment medico, come pure quella dei media e del paese in generale, alfa crisi nazionale provocata dall'Aids ha dimostrato il fallimento della cosiddetta liberazione sessuale degli anni sessanta e settanta, ossia quanto poco essa abbia in realtà inciso sul moralismo sessuale che Freud aveva diagnosticato all'inizio del secolo nella società americana. Allo scoppio dell'epidemia, l'immediata condanna pubblica degli omosessuali si basava sul presupposto, solitamente implicito, che l'Aids fosse una malattia immorale perché trasmessa sessualmente. Deriva da questo presupposto, tuttora attivo nella grande maggioranza degli americani, l'idea che a causare la malattia nota come Aids sia l'immoralità dell'omosessualità in quanto tale, e non particolari forme di comportamento o contatto sessuale tra due (o più) persone di qualsiasi sesso. Il fallimento della rivoluzione sessuale auspicata da Kate Millett e tanti altri, a quel tempo, ossia il suo rivelarsi incapace di alterare permanentemente la moralità sessuale in Nordamerica, può dare in parte ragione della rinnovata preoccupazione degli studenti universitari circa la propria identità sessuale. D'altra parte viene fatto di pensare all'analisi foucaultiana del dispiegamento della sessualità nel tardo capitalismo, epoca in cui "lo sfruttamento del lavoro salariato non esige le stesse coercizioni violente e fisiche del diciannovesimo secolo e in cui la politica del corpo non richiede più l'eliminazione del sesso o la sua limitazione al solo ruolo riproduttivo, ma passa piuttosto per la sua canalizzazione multiforme nei circuiti controllati dall'economia". 20 In altre parole la continua produzione discorsiva di "eterogeneità sessuali", la moltiplicazione e proliferazione di identità sessuali in questa fine di secolo rovesciano il quadro ottocentesco di "una sessualità repressa per ragioni economiche", mettendo in luce una sessualità che invece è prodotta per ragioni economiche. 20

M. Foucault 1988, pp. 101-102. 107

Per Foucault la psicoanalisi costitul un ultimo vano tentativo di rifondare la sessualità nella Legge del padre, del tabù dell'incesto, della famiglia. Lo sforzo di Freud sarebbe stato motivato dalla reazione all'ondata di razzismo che minacciava direttamente l'uomo Freud, i suoi parenti stretti e la sua comunità in senso lato, la diaspora ebraica. Nonostante la posizione progressista della psicoanalisi, antifascista fino in fondo, l'obiettivo di Freud, secondo Foucault, era una "retro-versione" storica, il ritorno a una concezione del desiderio e del potere già sorpassata all'inizio del secolo. 21 Dal punto di vista del suo studio storico-genealogico, Foucault aveva ragione. Ma perché, allora, il rinato interesse per Freud nell'ultimo decennio di questo secolo? Credo abbia a che fare con un altro aspetto della psicoanalisi che Foucault qui tralascia, vale a dire la teorizzazione dell'inconscio e della pulsione, quella "pressione recalcitrante" (poussée rétive) che Foucault vorrebbe dissolvere in "relazioni di potere". 22 Sarebbe interessante esaminare più da vicino la differenza tra le loro rispettive concezioni della sessualità, a mio avviso solo in apparenza antitetiche, e tracciarne i punti d'intersezione, se ciò non esulasse dal presente saggio. 23 Dirò soltanto che negli Stati Uniti, in un contesto intellettuale fortemente avverso al concetto di inconscio, il primo volume della Storia della sessualità di Foucault è stato accolto a braccia aperte come l'antitesi della teoria freudiana, e ciò ha promosso una facile e falsa opposizione tra due vedute sul genere e sulla sessualità che vanno 21

Ivi, p. 133. "Non bisogna descrivere la sessualità come una pressione recalcitrante, estranea per natura e ribelle per necessità a un potere che, dal canto suo, si consuma nel tentativo di sottometterla e spesso non riesce a controllarla completamente. Essa appare piuttosto come un punto di passaggio particolarmente denso per le relazioni di potere: fra uomini e donne, fra giovani e vecchi, fra genitori e figli, fra educatori e alunni, fra sacerdoti e laici, fra un'amministrazione e una popolazione" (ivi, pp. 91-92). 23 A questo proposito si veda T. de Lauretis 1998. 22

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sotto i nomi di essenzialismo e costruzionismo. La prima, che si fa risalire a Freud, dichiara la sessualità innata. La seconda, mutuata dall'analisi foucaultiana della "tecnologia del sesso", dichiara la sessualità una costruzione sociale. Ma la fonnula, tanto più riduttiva quanto più ampiamente divulgata, che mette fronte a fronte una sessualità innata (essenzialismo), attribuendola a Freud, e una sessualità socialmente costruita (costruzionismo), attribuendola a Foucault, si basa su un doppio malinteso: primo, ciò che è innato in Freud non è la sessualità ma, semmai, la pulsione (e anche questo andrebbe messo in discussione), mentre la sessualità altro non è che costruzione fantasmatica; secondo, ciò che Foucault intende per sessualità - tecnologia sociale, insieme di dispositivi di potere elaborati in tempi lunghi da società complesse - non è qualcosa di cui l'individuo possa riappropriarsi o che possa sovvertire e trasformare né con la chirurgia né con la performance. Insomma, la nemesi di Freud continua a colpire. Eppure, insieme con la tradizionale ostilità al suo pensiero, anche da parte di ex discepoli che ora accusano il padre-maestro, si verifica il fenomeno opposto: la teoria dell'inconscio continua inaspettatamente ad attrarre. Il secondo campo in cui, di recente, è entrata ad animare il dibattito intellettuale, teorico e politico è quello degli studi postcoloniali, detti anche diaspora studies con riferimento ai diversi popoli dell'Africa, dell'Asia e dell'America Latina dislocati e rilocati nei paesi del "primo mondo" dal colonialismo, prima, e poi dalla globalizzazione del capitale e del lavoro. LA psicoanalisi e gli studi postcoloniali Ai teorici della cultura postcoloniale una forte spinta verso la metapsicologia freudiana è pervenuta attraverso l'opera di Frantz Fanon (1925-1961), lo psichiatra nato in Martinica e laureato in Francia, che fu primario dell'ospedale di Blida-Jonville in AJgeria durante l'occupazione fran109

cese, prese parte attivamente alla lotta di liberazione e mori di leucemia a soli 36 anni. Sebbene alcuni scritti di Fanon tra i quali, in primo luogo, I dannati della terra abbiano avuto grande influenza sul pensiero politico afroamericano e di altri critici di opposizione negli Stati Uniti fin dagli anni sessanta, il suo primo libro, scritto in Francia prima del trasferimento in Algeria, era rimasto nell'ombra. È proprio questo, invece, che negli anni novanta ha attratto l'attenzione di una nuova generazione di lettori. Di taglio autobiografico e d'hppostazione psicoanalitica, Peau noire, masques blancs (Pelle nera maschere bianche, 1952) mette a fuoco il nesso tra sessualità e appartenenza razziale nei processi di soggettivazione e insiste sulla natura corporea del soggetto sociale: è il corpo che si costituisce a terreno di formazione di un'identità che è insieme psichica, sessuale e sociale. "Cuomo," scrive Fanon, "scava nella sua carne per trovare un senso in se stesso."24 Ma per coloro che hanno subito "il furto del corpo" e altro non sono più che carne (come dice Hortense Spillers a proposito della schiava africana in America e dei suoi discendenti) il senso delle cose, della vita stessa vacilla o viene meno con l'impossibilità di soggettivazione. O come dice un'altra teorica femminista postcoloniale, Cherrfe Moraga, riflettere e scrivere su di sé è fare teoria dalla carne, sulla propria pelle, "una teoria in carne e ossa". 25 Nel prendere in esame i vari teorici terzomondisti che si richiamano a Fanon nel contesto del pensiero poststrutturalista, tra cui Edward Said, Gayatri Spivak e Homi Bhabha, il critico afroamericano Henry Louis Gates, Jr. li accusa di elevare Fanon al rango di icona, di fame un poststrutturalista ante litteram, l'antesignano dell'ibridità postmoderna, il teorico di un globalismo transculturale. E tutto questo ai fini di un progetto più loro che suo, cioè la costruzione di una teoria unificata 24

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F. Fanon 1996, p. 9. Si vedano H. Spillers 1997 e C. Moraga-G. Anzaldua 1983, p. 23.

dell'oppressione, una "teoria imperiale", astorica e totalizzante. 26 Io non credo che Gates colga nel segno quando attribuisce a Bhabha, soprattutto, tale progetto. Credo piuttosto che ciò che suscita i sospetti di Gates e ne fa scattare l'ostilità sia l'impalcatura concettuale filosoficopsicoanalitica di Bhabha e il necessario riferimento alla concezione lacaniana di un soggetto radicalmente diviso nel linguaggio; questo è infatti il punto di partenza della teoria dell'ibridità che Bhabha articola in gran parte tramite la lettura di Fanon.27 Pur concordando con Gates sulla necessità di "ristoricizzare" Fanon e di leggere Pelle nera maschere bianche nel contesto intellettuale della Francia del dopoguerra - quindi di Sartre, certamente, ma anche, non si dimentichi, di Lacan e della psicoanalisi freudiana di Marie Bonaparte e Melanie Klein - direi però che è Bhabha, e non Gates, colui che coglie nell'opera di Fanon gli aspetti di maggiore rilevanza per il pensiero postcoloniale. Cruciale tra essi è la cognizione profonda, vissuta nel proprio corpo e sulla propria pelle, della irriducibile difficoltà, se non addirittura dell'impossibilità, di un'identità coerente - nazionale, razziale e sessuale - per il soggetto colonizzato o postcoloniale. È questo appunto il limite che ci addita il Fanon di Pelle nera maschere bianche, il limite di ogni sogno di decolonizzazione. Può sembrare paradossale che proprio questo libro abbia istigato un ripensamento della psicoanalisi freudiana dato che in esso Fanon nega esplicitamente che la teoria dell'inconscio sia pertinente all'uomo di colore. Il complesso edipico non esiste tra i negri, ci dice: "Nelle Antille francesi, il 97 per cento delle famiglie non possono dare origine a una nevrosi edipica". "Poiché il dramma sociale si svolge alla luce del giorno, il Nero non ha il tempo di farlo sprofondare nell'inconscio."28 Ma a dispetto di tali affer26

H. L. Gates Jr. 1991, p. 470. H. Bhabha 1994. Si vedano in particolare i saggi lnterrogating Jdenlity e The Otlier Question. 21 F. Fanon 1996, pp. 133 e 132. 27

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mazioni le tracce dell'inconscio sono chiaramente visibili nel testo di Fanon, nell'ambivalenza delle sue identificazioni, nelle fantasie sessuali esasperate, nelle tirate contro le donne e gli omosessuali che fanno di Pelle nera maschere bianche uno spazio fobico ad alta tensione. La carica di negatività psichica che questi fantasmi immettono nel testo fornisce la verifica di una radicale divisione dell'io narrante e narrato, e mette in luce quelli che sono, per dirlo con la bella frase di Kobena Mercer, "i limiti interiori della decolonizzazione": "Leggendo Fanon oggi, un'intera generazione dopo l'avvento delÌa decolonizzazione 'esterna', si ha la netta impressione che la marcia verso la liberazione si sia arrestata precisamente attorno agli spazi 'interni' della sessualità".29 Anche Mercer, un giovane studioso formatosi alla Birmingham School di Stuart Hall, contesta l'assunzione di Fanon nell'empireo dei grandi che hanno rivelato la verità dell'oppressione. Diversamente da Gates, però, Mercer vede nel Fanon di Pelle nera maschere bianche l'affermazione della fantasia in quanto elemento costitutivo della realtà psichica di ciascuno, e pertanto soggetta alle esigenze dell'inconscio. È per questo, sostiene Mercer, che diversi scrittori e artisti della diaspora postcoloniale si rifanno a Fanon, non come maestro bensi come "risorsa" per esplorare i modi in cui le fantasie inconsce agiscono da collante psichico nella vita sociale. Mentre la confutazione realistica degli stereotipi razzisti ha spesso finito per creare una visione idealizzata dell'identità nera, non degradata da immagini avvilenti dell'alterità, un filone del repertorio postmoderno di appropriazioni ibride e di ripetizioni parodiche da parte di esponenti neri delle arti visive propone che tali stereotipi, per quanto disconosciuti, possano tuttavia agire da "oggetti estranei interni" riguardo ai quali la percezione è sempre "alienata" dal modo in cui uno è percepito dagli altri come l'Altro. Questo dilemma è al 29

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K. Mercer 1995, pp. 21 e 35.

centro dell'analisi che Fanon fa del soggetto interpellato nell'appartenenza razziale. 30

In altre parole, tanto riconoscere l'agire degli stereotipi razziali nelle proprie fantasie quanto riconoscere la presenza di "oggetti estranei interni" nell'inconscio permette di comprendere che la soggettività è costituita di alterità e negatività, che io sono anche quello che non è me. Questa è la lezione di Freud. E questa, secondo Mercer, è anche la lezione che apprendiamo da Fanon, o per lo meno dal testo di Pelle nera maschere bianche: che sempre la ricerca di un'identità nazionalista, di un'autenticità etnica o di una purezza della razza va a finire, come il sogno di liberazione totale, in un incubo di violenze e antagonismi. Ciò che nel testo di Fanon già si prospetta, quindi, è l'ibridità costitutiva del soggetto postcoloniale. Ritorniamo, infine, alla questione del genere. L'autore di Pelle nera maschere bianche era un antillano nero trapiantato in Francia; pensava, scriveva e viveva con le strutture e le forme della lingua francese permeate, come le pratiche del vivere quotidiano, da un razzismo che colorava anche le più elementari nozioni concernenti il genere e la sessualità. Da cui la sua ambivalenza e resistenza nei confronti di saperi, pratiche e formazioni discorsive, le cui strutture concettuali era pur costretto a far proprie, poiché altre non ne aveva a disposizione. E cosi legge Sartre, Freud, Lacan, Marie Bonaparte, si confronta con quelle che allora erano le concezioni più radicali o democratiche JO Ivi, p. 28. Quest'ultima frase nel testo inglese è "This dilemma is at the heart of Fanon's analysis of racialising interpellation". Ho reso l'espressione "racialising interpellation" con "il soggetto interpellato nell'appartenenza razziale" per evitare la traduzione letterale "interpellazione razzializzanle" che potrebbe risultare oscura, oltre a essere pessimo italiano. Ma i termini inglesi racia/isi11g e racia/ised ("razzializzante" e "razzializzato"), come pure il verbo /o racialise o racialize ("razzializza. re") sono neologismi importanti in quanto comunicano l'idea che la razza non è un fatto genetico o una proprietà naturale dei corpi bensl una costruzione culturale imposta dall'Occidente.

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del soggetto sociale, l'esistenzialismo marxista e la psicoanalisi; in parte ci si ritrova, ma in parte no. Da questo confronto, che assume i toni ora del dialogo ora dell'accusa nel tentativo di riattraversare la psicoanalisi e la filosofia sartriana dalla particolare posizione in cui si trova, Fanon sta cercando di definire una nuova posizione di soggetto, ossia sta cercando i termini in cui pensare l'uomo di colore come soggetto sociale. Il progetto verrà poi ripreso da altri, tra cui Bhabha che, infatti, ispirandosi a Fanon giunge a delineare la figura di un soggetto ibrido. Ma attenzione: un progetto~ molto simile, mirato alla costruzione discorsiva del soggetto donna, ha animato il pensiero teorico femminista negli anni settanta e ottanta, e ha portato alla concezione di quello che ho chiamato il soggetto eccentrico. Nel primo saggio riportato in questo volume (scritto alla fine degli anni ottanta) ho tracciato una sorta di genealogia del soggetto nella teoria femminista individuandone tre momenti o punti di snodo. Un primo momento di autocoscienza, sostenuto dalla domanda "Chi o che cosa è una donna?" giunge alla realizzazione che la donna, contrassegnata dal marchio del genere, è una rappresentazione o costruzione sociale, la figura di un paradosso. Qui si colloca anche la lettura di Il secondo sesso di Simone de Beauvoir nel contesto del movimento femminista angloamericano degli anni settanta. Un secondo momento di autoriflessione, segnato dalla comprensione che lo stesso pensiero femminista è intrappolato nel paradosso "donna", è coinciso con la critica dell'eterosessualità obbligatoria e l'intervento delle donne di colore nel discorso femminista occidentale, a cominciare dai primi anni ottanta. Esso a sua volta ha reso possibile il passaggio a un terzo momento di autocostituzione della teoria femminista, caratterizzato dalla consapevolezza che il soggetto del femminismo eccede - ossia è contemporaneamente dentro e fuori - le sue determinazioni sociali e discorsive. Questo è coinciso con l'entrata del femminismo occidentale in un'ottica postcoloniale. 114

Nel primo momento il soggetto donna è negato, non è soggetto ma solamente oggetto e rappresentazione ("l'Altr0" di Beauvoir). Nel secondo, è un soggetto sdoppiato, contraddetto, attraversato da differenze incommensurabili e incompatibili di classe, razza e sessualità. Nel terzo, è un soggetto eccentrico, multiplo e mobile, capace di molteplici identificazioni e appartenenze ma anche di disidentificazione e autodislocamento. La prima contraddizione che il pensiero femminista incontra nel tentativo di definire il soggetto donna è, dunque, un paradosso: la donna è un essere umano essenziale alla società dell'uomo e al1a sua vita materiale e psichica, ma allo stesso tempo è un oggetto inessenziale, qualcosa di radicalmente altro dall'uomo. Beauvoir lo descrive cosi: "L'uomo definisce la donna non in quanto tale ma in relazione a se stesso; non è considerata un essere autonomo. [...] Egli è il Soggetto, l'Assoluto: lei è l'Altro". 31 Non diversamente Fanon a proposito del paradosso in cui si imbatte l'uomo di colore: "Facevo ingresso nel mondo, preoccupato di trovare un senso alle cose, con l'animo pieno del desiderio di essere all'origine del mondo, ed ecco che mi scoprivo oggetto in mezzo ad altri oggetti. [... ] Il Nero non ha esistenza ontologica agli occhi del Bianco".32 Peau noi,; masques blancs usd a Parigi nel 1952, Le Dew:ième sexe nel 1949. Benché Fanon conoscesse Beauvoir, come conosceva Sartre, che cita puntualmente e con il quale discute a lungo in questo suo primo libro, a Il secondo sesso non fa riferimento alcuno. Eppure ne avrebbe motivo: la formulazione di Beauvoir, "la donna è l'Altro", è direttamente parallela a quella di Fanon, "il Negro è l'Altro".33 Entrambe sono mutuate da Sartre, ma ciò che le distingue dall'Altro sartriano (o hegeliano) è una specifica31

S. de Beauvoir 1984, p. 16. F. Fanon 1996, pp. 97-98. Anche il titolo del quinto capitolo di Peau noire, masques bla11cs, L'expérie11ce vécue du Noir, riprende il titolo del secondo volume di Le Deuxième sexe, L'expérience véc11e. 32 33

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zione - di genere in Beauvoir, razziale in Fanon - che è assente in Sartre e in tutto il pensiero filosofico che gli sta a monte. Tale specificazione, che inscrive un punto di vista inedito e rivela la posizione di soggetto di un io scrivente ingenerato e (mi si permetta un altro brutto ma necessario neologismo) razzializzato, 34 accomuna Beauvoir e Fanon nei loro rispettivi progetti proprio nella misura in cui li distingue dal progetto filosofico di Sartre: tutti e due i loro testi delineano un soggetto dell'enunciazione che non è il soggetto indiviso del cogito cartesiano e neppure il soggetto lacaniano diviso nel linguaggio, ma un soggetto diviso dall'imposizione di un'appartenenza di genere o di razza che lo rende eccentrico rispetto non solo al linguaggio ma alla civiltà e al pensiero stesso. Non voglio dire che le costruzioni sociali della razza e del genere procedano parallelamente, tant'è vero che si intersecano, convergono, divergono, si accavallano e si escludono a vicenda; né voglio dire che esse producano gli stessi effetti nei diversi soggetti costruiti e interpellati nelle rispettive appartenenze razziali e di genere. Per esempio, il soggetto maschile razzializzato di Fanon è assolutamente diverso dal soggetto femminile (bianco) di Beauvoir, il quale è ingenerato all'interno di un sistema, quello della differenza sessuale, in cui la differenza razziale non viene presa in considerazione come tratto pertinente, ma anzi è rimossa e resa insignificante. E ancora, il soggetto femminile razzializzato di giovani teoriche postcoloniali quali Rey Chow o Emma Pérez non è il soggetto gay, diasporico e postnazionale di Kobena Mercer. 35 E cosl via. Quello che voglio dire, invece, è che le contraddizioni e le ambivalenze in cui versa Fanon sono analoghe a quelle messe in luce dal pensiero critico femminista a cominciare da Il secondo sesso di Beauvoir. In entrambi i casi quelle contraddizioni e ambivalenze, pur nella loro diversità, 34

Si veda la nota 30 qui sopra. Di Chow, Pérez e Mercer si vedano le opere citate in Bibliografìa a fine volume. 35

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banno dato luogo alla produzione di figure e concezioni del soggetto postcoloniale molto simili tra loro. Mi pare, infatti, che la posizione di un soggetto eccentrico, che vedo articolarsi in diverse figure concettuali inscritte nei testi femministi presi in esame nel primo capitolo, sia consona a quel1a del soggetto ibrido elaborata da Bhabha. In un citatissimo saggio del 1989 dal titolo The Commitment to Theory (I.:'impegno a teorizzare), Bhabha delinea una teoria del soggetto postcoloniale immerso in un campo sociale nel quale è continuamente e necessariamente coinvolto in una pratica di analisi culturale intesa come "negoziato invece che negazione, una dialettica da cui non emerge nessuna Storia teleologica o trascendente". La serie interminabile di negoziati definisce uno spazio in cui opposizioni e contraddizioni non vengono risolte, bensl risignificate e "tradotte" in altri termini e altre forme. È questo lo spazio dell'"ibridità". In esso il teorico prende posizione "ai margini slittanti del dislocamento culturale, che frattura ogni profondo o 'autentico' senso di cultura 'nazionale' o di intellettuale 'organico"' .36 Se per teorico intendiamo colui o colei che cerca di comprendere e (ri)fonnulare i processi della storia, della cultura, del pensiero, della soggettività, penso che il teorico di Bhabha, sempre precariamente in bilico sul terreno semovente del cambiamento culturale, economico, sociale, politico che in tutto il mondo caratterizza la postmodemità, sia un'altra figura di soggetto eccentrico. Comunque lo si voglia chiamare - soggetto ibrido, diasporico, postcoloniale, postnazionale o qualcos'altro - questa figura è imparentata con quelle che ho tratto dagli scritti delle teoriche femministe: la nuova mestiza di Anzaldua, la lesbica di Wittig, l'altra inappropriata di Trinh, la donna bianca di Rich, infedele alla civiltà, tutte figurazioni di un soggetto eccentrico. Ma ancora una volta la storia si ripete. Cosl come Fanon pare ignorare la ricerca di Beauvoir, quasi mezzo 36

H. Bhabha 1994, pp. 26 e 21. 117

secolo dopo Bhabha non fa riferimento a questi scritti, pur alludendo vagamente al "grande salto di qualità nel linguaggio della sessualità, del sé e della comunità culturale effettuato dalle femministe negli anni settanta e dalla comunità gay negli anni ottanta". 37 Anche Mercer, il cui saggio è del 1995, accenna di passaggio all'influenza che sulla teoria postcoloniale ha avuto "la svolta femminista verso la psicoanalisi negli anni settanta". ma niente di più.38 D'altro canto, bisogna dire che né Bhabha né Fanon sono menzionati nell'ambito della teoria femminista. Come mai, ci si deve chiedere; questi discorsi, sollecitati da progetti politicamente e intellettualmente molto vicini, si sono venuti elaborando fianco a fianco ma senza mai incrociarsi? Tanto più che tutti insistono sulla necessità di ripensare il nesso genere, sessualità e razza come un'unica problematica. Da dove proviene la resistenza al reciproco riconoscimento? Metto qui la domanda e qui la lascio in sospeso, a mo' di promemoria. Affinché non si dimentichi che l'eccentricità psicosociale, l'ibridità, la negatività e l'alterità non possono essere ricondotte al centrismo di una politica identitaria né possono essere neutralizzate dall'ottimismo omologante di un progresso sociale che oggi si presenta nelle vesti del postgender e del postfemminismo. Se l'inconscio permane restio e intrattabile, non è perché l'ha detto Freud.

37 38

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Ivi, p. 175. K. Mercer I 995, p. 50.

4. Sintomatologia dei generi*

Con poche, ragguardevoli eccezioni, la semiotica non si è occupata né del genere né del corpo, che sono invece,

con la sessualità, un nodo tematico fondamentale del pensiero psicoanalitico. Anni fa, nel corso di una lunga ricerca sulla rappresentazione e autorappresentazione delle donne nel cinema, mi resi conto che per affrontare la questione del genere in quanto costruzione sociale e soggettiva a un tempo erano necessarie sia la semiotica sia la psicoanalisi: la prima per comprendere le modalità di costruzione e i codici di trasmissione del genere come forma simbolica; la seconda per comprenderne gli effetti di soggettivazione nei singoli individui. Mi sembrò che il punto di aggancio del sociale alla soggettività si potesse localizzare precisamente nella zona di confine tra semiotica e psicoanalisi, zona che credetti di delineare per mezzo della teoria semiotica degli interpretanti di C.S. Peirce, in particolare del concetto di abitudine (habit), inteso come il risultato di una particolare catena di effetti di significato prodotti nel processo di semiosi. Mi fu cosi possibile pensare la soggettività costituita da un processo continuo di semiosi (cui davo il nome di espe• rienza) e da un insieme di abitudini, percezioni, associazioni, disposizioni e aspettative derivanti dall'interazione * Una versione di questo saggio in inglese, con il titolo Ge11der Symptoms, or Peeing Uke a Man, è in corso di stampa sulla rivista australiana "Socia) Semiotics". 119

tra il mondo esterno e il mondo interno al soggetto, ossia dal coinvolgimento del soggetto nella realtà sociale. La teoria peirciana aveva anche un altro vantaggio: offriva la possibilità di restituire il corpo al soggetto della semiosi. Poiché il luogo in cui per il soggetto si realizzano gli effetti di significato dei segni è proprio il corpo (l'Iocorpo di Freud), che è a sua volta prodotto in quanto segno per il soggetto: "Il concetto di abitudine come atteggiamento 'energetico', una disposizione somatica insieme astratta e concreta, la forma cristallizzata di sforzi muscolar-mentali passati, ha il potere di evocare un soggetto toccato dalla pratica dei segni, un soggetto coinvolto fisicamente, corporalmente nella produzione di significato, rappresentazione e autorappresentazione" . 1 Più recentemente, in un lavoro sulla sessualità e sul corpo lesbico, ho ripreso la teoria peirciana degli interpretanti per descrivere i processi tramite i quali l'individuo è costituito contemporaneamente in soggetto sociale e soggetto sessuale. Ho quindi considerato la sessualità un aspetto particolare di quel processo continuo di semiosi che costituisce il soggetto in relazione alla significazione sociale e lo costituisce soggetto sessuato e ingenerato in virtù di una realtà psichica, corporale e fantasmatica, che il soggetto immagina essere la propria. Ho cercato cosi di pensare la sessualità con Freud e con Foucault allo stesso tempo, di collegare tra loro due discorsi e due oggetti teorici distinti, benché entrambi designati dal termine sessualità, ossia di interfacciare la visione metapsicologica di Freud con quella storico-tecnologica di Foucault per creare un'immagine del percorso semiosico con cui la sessualità si insedia e prende corpo in un soggetto, un Io corporeo.2 Nel presente saggio ritorno ancora al concetto peirciano di abitudine per mostrare come essa operi nel processo 1

T. de Lauretis, Semiotica ed esperienza, in T. de Lauretis 1996a,

p. 127. 2

Si veda T. de Lauretis, Sessualità e semiosi, in T. de Lauretis 1997,

pp. 275-294.

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di formazione e (auto)attribuzione del genere, ossia nella (auto)costituzione di un soggetto ingenerato. Ritorno quindi anche al complesso nesso semantico di genere e sesso, già tracciato per sommi capi nei capitoli precedenti, per poi verificare in che modo l'identificazione e l'autoattribuzione di genere producano sia un corpo per il soggetto sia un soggetto per quel corpo. In altre parole, intendo dimostrare che se il genere è una costruzione sociale che si concretizza o prende corpo, variamente, nei singoli individui, non solo il genere non è una proprietà intrinseca dei corpi o una qualità a essi connaturata, ma al contrario è proprio il genere, assunto e fatto proprio dal soggetto, che ne definisce il corpo. Il corpo, in questo senso, è un sintomo del genere. Niente di nuovo in ciò dal punto di vista della psicoanalisi, nella quale il corpo è appunto il teatro di una produzione sintomatica, il luogo in cui si formano e si rappresentano i sintomi, espressione di fantasie inconsce e contenuti rimossi. Nella metapsicologia freudiana i1 corpo è l'organo di un linguaggio inconscio, la pulsione con le sue vicissitudini. Oggi, in seguito alla divulgazione dei concetti psicoanalitici nella cultura occidentale, il corpo parla anche un linguaggio più accessibi1e, preconscio (come si può appurare daU'uso comune di frasi del tipo "il mio corpo mi sta dicendo qualcosa"), che quindi si presta a un'analisi semiotica. Come il corpo sia effettivamente un sintomo del genere si può vedere nel lavoro di una giovane sociologa tedesca, Gesa Lindemann, autrice di un libro sulla transessualità dal titolo Das Paradoxe Geschlecht. Diversamente dall'inglese, che fa una precisa distinzione lessicale tra sesso e genere (sex, anatomico-biologico, dato in natura; gender, acquisito con la cultura), il tedesco ha una sola parola, Geschlecht, che veicola entrambi i significati. 3 Das Para3 Cosl era anche in italiano fino a dieci o quindici anni fa, prima dell'introduzione del neologismo genere nel senso dell'inglese gender, a opera degli studi delle donne; prima si usava la parola sesso in senso traslato (il

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doxe Geschlecht, quindi, documenta la transessualità come differenza sia di sesso sia di genere (Geschleclzterdifferenz), e il termine mantiene tanto il senso di un rapporto stretto, senza soluzione di continuità tra sesso e genere, quanto il senso di una contiguità tra genere e corpo. Riassumendo la ricerca presentata nel libro in un saggio tradotto in inglese, Lindemann lo intitola The Body of Gender Difference (Il corpo della differenza di genere), facendo cosi una scelta significativa tra le due possibili traduzioni inglesi di Geschlecht (gender e sex). Di conseguenza il titolo mette in primo piano la contiguità di corpo e genere, che spesso rimane in ombra nei discorsi attuali sul genere, e inoltre scardina la nozione acquisita che il genere che un individuo assume dipenda dal corpo che la natura gli ha dato. Questo lavoro, per la sua analisi sottile e modulata, in prospettiva fenomenologica, e per la sua novità rispetto all'attuale discorso sul genere negli studi americani, merita uno sguardo ravvicinato. Il genere che i corpi assumono, sostiene Lindemann, è il risultato di pratiche sociali: "Le condizioni materiali del corpo vanno intese come una realtà creata interamente dal sociale". Ma ciò non significa che genere e corpo siano unicamente effetti di una astratta performatività del sociale. Poiché, se per un verso "è insostenibile presumere un corpo per natura dotato di genere", d'altro canto -è questo il paradosso - bisogna riconoscere l'esistenza di "una logica intrinseca del corpo, e il riferirsi dei corpi all'ambiente per mezzo dell'apparato sensoriale". 4 Vista in prospettiva fenomenologica, la differenza di genere è una "forma sociale" storicamente variabile che impone una distinzione tra corpi nella misura in cui essi vengono esperiti soggettivamente e trattati dagli altri come corpi dotati di genere. Ne consegue che l'assunzione del genere, ossia la particolare realizzazione della distinzione di sesso forte, il sesso debole), e certamente con minore estensione semantica di quanto non ne abbia il concetto femminista di genere. 4 G. Lindemann 1996, p. 341. 122

genere in ciascun corpo, può essere interrotta o disturbata dalla particolare "logica intrinseca a ciò che è fisico o sensoriale". Tale logica è di due tipi: una è intrinseca alla percezione visiva della forma o Gestalt, l'altra intrinseca alle sensazioni. Quest'ultima distinzione, particolarmente importante perché tiene in conto non solo la dimensione di materialità del corpo ma anche la specificità dei diversi registri sensoriali con cui il corpo reagisce al mondo circostante, è in parte dovuta a un'altra peculiarità lessicale della lingua tedesca, che per designare il corpo si avvale di due termini, [(jjrper e Leib. Il primo si riferisce al corpo in quanto Gestalt, forma visibile e concreta, mentre il secondo è il corpo nel suo esperire il mondo esterno attraverso i sensi e nel suo essere esperito o percepito dal soggetto stesso in quanto sede di sensazioni. In altre parole, Korper è il corpo come viene raffigurato nell'iconografia e nei discorsi culturali, o come ce lo raffiguriamo mentalmente; Leib è il corpo con cui sentiamo o di cui abbiamo sensazione: potremmo dire che Leib è il corpo che (ci si) sente. Nella traduzione inglese, Korper è reso con "corpo oggettificato", Leib con "corpo vivente", e questo a sua volta è ulteriormente distinto in "corpo che sente" e "corpo che ci si sente". 5 Senza addentrarmi oltre in sottigliezze lessicali, aggiungo soltanto che il corpo oggettificato e il corpo vivente stanno in una relazione di riflessività reciproca, che è anche una relazione di senso normativa, tale che "un corpo vivente moderno è disciplinato dalla forma pittorica del corpo oggettificato". 6 In determinate situazioni, il corpo oggettificato diviene dominante, vale a dire che l'immagine del corpo, la sua rappresentazione in quanto forma compiuta o Gestalt (come quella che secondo Lacan appare al soggetto nello stadio dello specchio), prende il sopravvento sulle percezioni che appartengono al corpo 5 lvi,

p. 349. I termini ing)esi sono, nell'ordine, objecti(ìed body, living

body, experiencing body, experienced body. 6

Ivi, p. 353.

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vivente, e l'immagine mentale del corpo si sovrappone alla percezione del corpo che ci si sente. In questo modo la percezione stessa viene ingenerata, o forse sarebbe più esatto dire che viene ingenerata e sessuata. L'esempio che fa Lindemann è il seguente. Una donna transessuale [transessuale da maschio a femmina] che chiamerò Verena, la quale all'epoca non si era ancora sottoposta all'intervento chirurgico sui genitali, racconta cosa le accadde in un gabinetto pubblico per donne. VE.RENA: Ero seduta sul water. Mi stavo rilassando e stavo per fare pipl... e poi è entrata un'altra donna e ho fatto un soprassalto: cosa succederà se si accorge di qualcosa? La donna è entrata nel cesso vicino al mio e faceva abbastanza rumore nel fare la pipl, cosl mi sono sentita sollevata [tranquillizzata]. Be', meno male, e poi mi sono messa a far pipl anch'io.

Lindemann commenta: Verena è seduta in una delle toilette di un gabinetto pubblico. Non può essere vista dalla persona che entra, presumibilmente una donna [Verena non vede mai la persona, ma dopo tutto si trova in un gabinetto per donne]. Verena ha un soprassalto. La sua reazione è immediata e non proviene dalla paura di essere "smascherata come uomo" all'uscita. Questa reazione implica che una relazione si deve essere stabilita tra Verena e la persona che è entrata tale che a Verena è immediatamente chiaro il suo essere fuori posto in quanto a genere. Per analizzare questa relazione bisogna capire cosa significhi stare seduti sul water in modo rilassato: ti rilassi, hai nell'addome la sensazione che si stia sviluppando una regione del corpo che ti senti [experienced body] la cui posizione relativa coincide pressappoco con l'area urogenitale del corpo oggettificato. Per effetto dell'educazione, il corpo che ti senti esiste in una relazione di senso riflessiva con questa parte del corpo oggettificato. [Ma, ricordiamo, a questo punto la relazione non è ancora attivata: fintanto che è sola nel gabinetto pubblico, Verena non si sente fuori posto.] Non appena un'altra persona/donna entra nel gabinetto la situazione cambia fondamentalmente. Verena percepisce - ode l'altra persona ed evidentemente si sente udita, poiché si 124

chiede se l'altra persona si possa accorgere di qualcosa, vale a dire se l'altra persona percepisca Verena come uomo.7

Ciò accade, spiega Lindemann, perché nel momento in cui Verena si sente udita, quella particolare regione del suo corpo vivente di scatto si collega con il corpo oggettificato e assume un senso in relazione a esso. La forma genitale maschile del corpo oggettificato, che Verena sa di avere (ricordiamo che Verena non è ancora stata operata), si impone suUe sensazioni localizzate neUa particolare regione del corpo vivente e ne diventa la realtà percepita. Quindi, se Verena teme di essere percepita come uomo, è perché lei stessa percepisce la propria differenza di sesso/ genere rispetto all'altra persona (si noti, però, che più tardi, nell'intervista con Lindemann, Verena descrive quella persona come "un 'I a tra d onna ") . Fenomenologicamente il processo si svolge grosso modo cosi: la reazione di soprassalto produce una tensione nel corpo vivente. La regione del corpo che Verena sentiva rilassata cessa di esistere ed è sostituita dall'immagine mentale del corpo oggettificato con la sua forma genitale maschile. In altri termini, come ho scritto altrove, il genere è rappresentazione e autorappresentazione, affermazione che ora può essere ampliata e riformulata cosi: la rappresentazione culturale normativa del corpo (Korper), con la sua intrinseca logica binaria - corpo maschile o corpo femminile - disciplina il corpo vivente (Leib) inscrivendo il genere nei registri sensoriali e ingenerando la percezione stessa, e insediando cosi il genere nel corpo che ci sentiamo e con cui viviamo. Perciò il corpo è un sintomo del genere: lo porta inscritto dentro di sé e lo parla attraverso l'apparato sensoriale del corpo vivente, l'apparato percettivo che costituisce l'Io corporeo. Vorrei prevenire un'obiezione che potrebbe sorgere. Portare a esempio l'esperienza e l'analisi di una transessuale per dimostrare l'ingenerarsi del corpo, ovvero l'inse7

Ivi, pp. 353-354.

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diamento del genere nel corpo, può sembrare pretestuoso, quasi un voler fare dell'eccezione regola. Ma non lo è. La transessualità, in questo caso, non fa che rendere più cospicuo il processo di soggettivazione in virtù della singolare attenzione che dedica al genere; singolare nel senso che la regolazione medico-giuridica della transessualità, ciò che Lindemann chiama "la coreografia del cambiamento di genere transessuale", richiede e comporta più di qualsiasi altra istituzione sociale "una messa a fuoco ossessiva della distinzione tra i generi" (pp. 345-346). Comporta e richiede un'attenziòne singolare, rivolta a una singola componente dell'identità sociale e soggettiva, cioè alla forma normativa dell'identità di genere, a esclusione di ogni altra. Un'attenzione che in altre situazioni potrebbe venire dirottata o sopita dalla pressione esercitata da altre forme sociali quali l'appartenenza di classe, razziale, etnica, religiosa eccetera. Ma voglio fare, comunque, un altro esempio, tratto da una conversazione tra cinque persone, donne e uomini, tenutasi al Center for Cultura! Studies dell'Università di Leeds e poi stampata dalla rivista inglese "Parallax". La conversazione verte sul tema della materialità del corpo e prende spunto dal libro Corpi che contano di Judith Butler. Riporto qui sotto le parole di Griselda Pollock, teorica femminista e studiosa di arti visive: A me il termine corpo suona delimitato, mentre corporeità è più come la parola corporeo, qualcosa che ha a che fare con un registro di sensazioni e possibilità. Mi sento sempre più attratta da quelle tesi femministe che sostengono che vi sia una irriducibile specificità corporea femminile. [ ...] È un deposito, accumulatosi storicamente, dei modi in cui hai fatto esperienza di certe cose con l'aiuto della specificità di quel corpo. [ ... ] Come si può parlare di esperienze tanto incommensurate [la mestruazione], se non si è mai provato qualcosa di simile al sangue che ti esce a fiumana dal corpo, se non come di una sorta di ferita? [ ...) Non sto dicendo che un tale accadimento determina quello che provi, ma che mette in gioco un registro di esperienza radicalmente diverso, cioè il 126

materiale da cui si ingenera la rappresentazione e che nella rappresentazione si inscrive ... Quindi non posso ritornare a una materialità indifferenziata e non posso andare avanti con una differenziazione semplicemente costruita. 8

Sottolineo alcune osservazioni che hanno una sorprendente risonanza con quanto ho scritto fin qui. Dice Pollock: "A me il termine corpo suona delimitato, mentre corporeità è più come 1a parola corporeo, qualcosa che ha a che fare con un registro di sensazioni e possibilità". La persona che parla nel passo appena citato è di lingua madre inglese, eppure sente una distinzione che il lessico inglese non rende esplicita, come invece fa il tedesco, tra le due valenze del corpo descritte da Lindemann: il corporaffigurazione o corpo-Gestalt e il corpo vivente, apparato percettivo e sede di sensazioni. Anche l'ultima frase di Pollock nel brano citato, "non posso ritornare a una materialità indifferenziata e non posso andare avanti con una differenziazione semplicemente costruita" fa eco all'affermazione di Lindemann che "le diverse logiche intrinseche al corpo oggettificato e al corpo vivente non si possono ridurre a forme sociali". 9 Qui Pollock rifiuta tanto l'idea prefemminista di una materialità indifferenziata del corpo, ossia un corpo non ingenerato, un corpo che esisterebbe prima dell'attribuzione di genere, quanto l'idea che la differenziazione, ossia l'ingenerarsi dei corpi, avvenga (come sostiene Butler) per pura costruzione discorsiva. Similmente Lindemann, seppur con un altro tipo di ragionamento, rifiuta l'idea che il genere sia solo una forma sociale astratta, che agisce indipendentemente dalle logiche del corpo. Pollock e Lindemann, dunque, contestano entrambe la nozione di genere come processo astratto, che si riproduce discorsivamente nella maniera che Butler designa con il termine "citazionalità", senza l'intervento di un soggetto, un Io corporeo. 10 8

G. Pollock 1995, pp. 157-158. G. Lindemann 1996, p. 358. 10 J. Butler 1996, p. 13.

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Nel descrivere la corporeità come "un registro di esperienza radicalmente diverso, cioè il materiale da cui si ingenera la rappresentazione", Pollock riprende il concetto di esperienza che riformulai anni fa con riferimento alla teoria peirciana degli interpretanti. Per Peirce il soggetto si forma in un processo continuo di attribuzione di senso al mondo esterno e a sé in rapporto al mondo esterno, processo che Peirce chiama semiosi. Ciò che collega il mondo esterno al mondo interno del soggetto è una serie illimitata di catene di segni e di interpretanti, a loro volta segni, che producono effetti di significato per il soggetto. Il soggetto, che in Peirce si configura come soggetto corporeo, è dunque il luogo in cui - il corpo in cui - fa presa e si realizza l'effetto di significato dei segni. Ripensando da questo punto di vista semiotico l'analisi fenomenologica di Lindemann, di come il corpo vivente porta inscritto dentro di sé il genere e lo parla attraverso l'apparato sensoriale, costituendo quindi il materiale da cui si ingenera l'autorappresentazione, voglio ora mostrare che ciò che accade a Verena nello studio di Lindemann è precisamente una catena di interpretanti. Con interpretante Peirce designa la struttura dinamica che lega tra loro oggetto, segno e significato. Una serie di interpretanti o "effetti di significato" (insisto su questo termine che mette in rilievo la natura processuale e aperta della significazione) sostiene ogni singola operazione di semiosi, ogni passaggio o momento del processo continuo di mediazioni o contrattazioni tra l'Io e il mondo. Detto altrimenti, ogni momento di ciò che, per il soggetto, è un passaggio impercettibile dall'oggetto (evento nel mondo esterno) al segno (rappresentazione mentale o fisica) all'effetto di significato (nel mondo interno) è inteso da Peirce come un interpretante. Gli interpretanti non sono solo rappresentazioni mentali. Ci sono sl interpretanti "intellettuali" (concetti), ma anche interpretanti "emozionali" o "energetici". Per esempio, l'effetto di significato prodotto da un segno come un brano musicale (eseguito) può essere nien128

te più che una sensazione; tale sensazione è l'interpretante emotivo di quel segno. Però, attraverso la mediazione di un interpretante emotivo, si può produrre un ulteriore effetto di significato, che può essere uno "sforzo", dice Peirce, muscolare o mentale; questo è detto interpretante energetico, poiché comporta uno sforzo, sia esso mentale o fisico. Il terzo tipo di effetto che può essere prodotto dal segno è un'abitudine o un cambiamento di abitudine, cioè "una modificazione delle tendenze ad agire di una persona che risulta da esperienze o sforzi precedenti". Questo è l'effetto di significato ultimo o finale del segno, scrive Peirce, definendolo l'interpretante logico: "La conclusione logica reale e vivente [della serie di mediazioni che costituisce una particolare operazione di semiosi] è quell'abitudine". Ma subito specifica cosa intende per "logico": Il concetto, pur essendo un interpretante logico, lo è solo imperfettamente: partecipando in certa misura della natura di definizione verbale, è inferiore all'abitudine esattamente come una definizione verbale è inferiore alla definizione reale. L'abitudine deliberatamente formata, autoanalizzantesi autoanalizzantesi perché formata con l'aiuto dell'analisi degli esercizi che l'hanno nutrita - è la definizione vivente, il vero e finale interpretante logico. 11

È importante tener presente, ai fini dell'analisi che segue, che l'interpretante finale non è logico nel senso in cui è logico un sillogismo, o perché è il risultato di un'operazione intellettuale come il ragionamento deduttivo, bensl perché conferisce un senso ali' emozione e allo sforzo muscolare o mentale che l'hanno preceduto, dandone una rappresentazione concettuale. 12 11 12

C. S. Peirce 1931, 5.491. Questo paragrafo e i due che lo precedono sono riportati, con qualche variazione, da Sessualità e semiosi, in T. De Lauretis J997, pp. 277-278, in cui riassumo brevemente la mia lettura di Peirce, che si trova in forma più estesa nel saggio Semiotica ed esperienza, in T. De Lauretis 1996a. 129

Ora, pensate a Verena seduta sul water, rilassata e in procinto di fare pipl. Poi: 1. Verena ode un'altra persona/donna entrare nel gabinetto e ha un soprassalto. 2. Mentre Verena si chiede: cosa succederà se si accorge di qualcosa? la regione del corpo che Verena si sentiva rilassata improvvisamente cessa di esistere ed è sostituita dalla percezione inaspettata di un corpo con forma genitale maschile. 3. Verena non riesce a fare pipi, almeno temporaneamente, ossia fino a che il rumorè fatto dall'altra persona non le toglie la paura di essere udita far pipi come un uomo. Allora la percezione spaesante di avere un corpo dal genere inadatto al luogo in cui si trova, un gabinetto pubblico per donne (ossia di avere un corpo di uomo), si dilegua e Verena riesce a rilassarsi e a fare pipi. E ora, l'analisi semiotica: 1. Un evento nel mondo esterno, l'entrata di un'altra persona/donna, produce un interpretante emozionale, una sensazione, nel mondo interno: Verena ha un soprassalto e diventa apprensiva. 2. La reazione di soprassalto causa uno sforzo muscolare nel corpo che Verena si sente, ovvero produce un interpretante energetico che comporta sforzo fisico e mentale: il corpo si contrae e Verena non riesce a fare pipi. 3. Questo, in un batter d'occhio, conduce a un terzo interpretante nel1a catena: Verena percepisce il proprio corpo - se lo sente - in forma genitale maschile. Questo è un interpretante logico poiché conferisce un senso all'emozione e allo sforzo muscolare/mentale che l'hanno preceduto e ne dà una rappresentazione concettuale o, meglio, dà un'immagine mentale di quello che Lindemann chiama il corpo oggettificato. Ma l'interpretante logico, in questo caso, non è l'interpretante finale. 13 Siccome Verena si con13 Vincent Colapietro, filosofo e studioso peirciano, la cui lettura di Peirce con Freud (cl'r. V. Colapietro 1995) converge in parte con la mia lettura di Freud con Peirce (si vedano le note I e 2 qui sopra), propone un

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sidera una donna (era infatti entrata nel gabinetto pubblico per donne e in seguito, durante l'intervista, dice che poi è entrata un 'altra donna), la percezione del proprio corpo in forma genitale maschile è un interpretante logico temporaneo e tale che non costituisce un cambiamento d'abitudine. Ben presto, infatti, è rimpiazzato da quello che Peirce chiama "la definizione vivente, il vero e finale interpretante logico", ossia "l'abitudine deliberatamente formata, autoanalizzantesi" (io sono una donna). È questa abitudine vivente che restituisce a Verena l'abilità di agire e il normale funzionamento del corpo vivente. In maniera analoga, si può immaginare, l'esperienza della mestruazione produce una catena effetti di significato - interpretanti emozionali, energetici, logici - che risultano in un'abitudine. Questa, poiché la mestruazione, nei discorsi e nelle rappresentazioni culturali del mondo occidentale moderno, è prova irrefutabile di un corpo anatomicamente e fisiologicamente femminile, inscrive nel corpo vivente l'immagine mentale del corpo oggettificato femminile e provoca la percezione della forma genitale femminile, ingenerando cosl il soggetto che con quel corpo sente e vive. Il ripetersi del processo di semiosi con la ricorrenza ciclica del mestruo riconferma l'abitudine al punto di naturalizzarla; sicché il corpo che ci si sente addosso è percepito come corpo femminile e appartenente a un soggetto nata donna. Si tengano però presenti le diverse implicazioni che tale percezione del proprio corpo può avere per il soggetto a seconda della sua posizione socioculturale, che non è necessariamente fissa o immutabile; anzi, è più frequentemente instabile e variabile nel tempo, certamente con l'età, ma anche con le altre, molteplici contingenze dell'esnuovo termine, interpretante q11asi-fì11a/e, per designare un tipo di abitudine che non si forma deliberatamente o in seguito ad autoanalisi, bensl per caso o involontariamente (in V. Colapietro in corso di stampa). Pur nutrendo qualche dubbio sui presupposti teorici del termine proposto da Colapietro, devo dire che il termine calza perfettamente con la situazione qui descritta.

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sere nel mondo. Tra queste, forse le più significative per l'ingenerarsi del soggetto sono le identificazioni psichiche e le fantasie, inconsce o consapevoli. Da cui 1a possibilità di cambiamenti d'abitudine nonostante la ricorrenza men• sile del fenomeno mestruazione, e viceversa, la possibilità che tali cambiamenti di abitudine, istigati da una diversa identificazione di genere, si riflettano sul funzionamento del corpo stesso, per esempio impedendo la ricorrenza del mestruo. Insomma, gli effetti di significato dell'essere ingenerata donna, la percezione che il corpo che ci si sen• te addosso sia un corpo "naturale" di donna, sono sia sovradeterminati sia passibili di cambiamento per tutte, non solo per Verena. Tornando infine al rapporto tra semiotica e psicoanalisi, è bene ripetere che l'abitudine di Peirce non è il risultato di un processo puramente mentale, intellettuale o razio• nale. È sl un segno o una rappresentazione mentale, ma nel senso in cui Freud concepisce la realtà psichica come un luogo in cui i fatti mentali hanno sempre risvolti soma• tici e viceversa. Si può pertanto dire che l'abitudine o il cambiamento di abitudine sono l'interpretante finale di un processo somatico.mentale (semiosi) analogo a quello in cui la pulsione, che nella teoria freudiana è un fatto soma• tico, energetico, si rende percepibile e significabile attra• verso i suoi rappresentanti psichici o mentali. Nella teoria della semiosi peirciana la soggettività sta al sociale in un rapporto di materialità, in primo luogo la materialità del corpo. Perciò vedo un'affinità concettuale profonda tra il soggetto della semiosi e il soggetto nella psicoanalisi. Per entrambi la soggettivazione e, quindi, la soggettività, com• portano dimensioni materiali, somatiche e storiche. In questa prospettiva teorica, tanto l'autoattribuzione di genere quanto la scelta sessuale risultano da una serie ininterrotta di processi semiosici, di catene di interpretanti che si intersecano, si sovrappongono, si combinano e si scombinano. Altrove, leggendo Freud con Peirce, ho considerato la sessualità un caso particolare di semiosi in cui oggetti e 132

corpi della realtà esterna sono tradotti e trasformati in realtà interna, ossia divengono parte della realtà psichica del soggetto, per mezzo di una catena di effetti significanti, interpretanti, abitudini o cambiamenti di abitudine. Il concetto di abitudine mette in particolare rilievo l'aspetto materiale, corporeo del desiderio, attività psichica i cui effetti nel soggetto costituiscono una sorta di sapere del corpo, ciò che il corpo sa o viene a sapere circa le sue mete pulsionali. Le dimensioni materiali, somatiche e storiche che la nozione peirciana di abitudine iscrive nel soggetto riconfigurano la sessualità come un processo di sessualizzazione o strutturazione sessuale; processo che, come l'autoattribuzione di genere, è sovradeterminato da forze sia esterne sia interne, le quali producono il soggetto nel punto contingente in cui di volta in volta s'incontrano. Al momento descritto nell'intervista da Lindemann, Verena si trova in un tal punto, un momento di instabilità del genere. Qual è dunque il rapporto tra genere, corpo e soggetto? Il genere non è dato in natura, connaturato al corpo umano, ma è una costruzione sociale, una forma simbolica astratta che si concretizza e prende corpo nei singoli individui in quanto soggetti sociali. Anche il corpo, rappresentato e oggettificato nei discorsi e nelle immagini culturali come differenziato in natura, bio-fisiologicamente, in due sessi opposti e complementari ai fini della riproduzione della specie, è una fonna sociale astratta che si concretizza nei singoli individui quando essi, in quanto soggetti sociali, assumono o aderiscono a quella rappresentazione. Tra corpo e genere non c'è un rapporto semplice o lineare di origine a telos o di causa a effetto, c'è invece un complesso di passaggi, traduzioni, interpretazioni, illazioni e influenze reciproche. Questi avvengono non per natura ma per effetto del vivere sociale, ossia presuppongono nell'individuo-corpo e nell'individuo ingenerato i processi di significazione, socializzazione e soggettivazione che ne fanno, appunto, un soggetto sociale. La soggettivazione, quindi, come la sessualizzazione e l'autoattribuzione di genere, è un accumularsi di effetti di 133

significato - abitudini, disposizioni, rimozioni e fantasmi - che non si attaccano a un soggetto preesistente o a un corpo originario, naturale o per natura ingenerato, ma, al contrario, producono quel corpo e quel soggetto l'uno per l'altro. Tale produzione avviene tramite quello che Freud chiama l'Io-corpo o Io corporeo. !:Io è anzitutto un'entità corporea, non è soltanto un'entità superficiale, ma anche la proiezione di una superficie. [ ... ] Cioè l'Io è in definitiva derivato da sensazioni corporee, soprattutto dalle sensazioni provenienti dalla superficie del corpo. Esso può dunque venir considerato come una proiezione psichica della superficie del corpo. 14

Clo corporeo non è identico al soggetto, poiché parte del soggetto è costituita dall'inconscio. :E. però quella parte del soggetto, lo spazio psichico e il sostrato materiale, in cui fanno presa gli effetti di significato e senza il quale non potrebbe aver luogo la soggettivazione. Clo-corpo, confine percettivo proiettato, non serve solo a delimitare o a contenere la morfologia di un sé immaginario, ma è anche quella parte dell'Io che permette l'accesso al mondo esterno, al simbolico o alla significazione sociale. È un confine permeabile, una frontiera aperta (per cosi dire) tra il mondo esterno, il reale, gli altri, le istituzioni sociali, da un lato, e dall'altro il mondo interno della psiche, le pulsioni, l'inconscio, i meccanismi di difesa. In breve, possiamo divenire soggetti solo in quanto siamo corpi, ma se ci sentiamo un corpo ingenerato è solo in quanto siamo soggetti.

14 S. Freud, L'Io e l'Es, in S. Freud 1989, voi. 9, pp. 488-489. La seconda parte della citazione, dopo l'ellissi, è in una nota aggiunta nella traduzione inglese del 1927 autorizzata da Freud.

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Indice

Pag. 7 Introduzione 11

/. Soggetti eccentrici

58 2. Irriducibilità del desiderio e cognizione del limite 81 3. La nemesi di Freud Per un 'archeologia degli studi su genere, sessualità e cultura 119 4. Sintomatologia dei generi 135 Bibliografì.a