Sociologia delle cornici. Il concetto di frame nella teoria sociale di Erving Goffman
 9788881012657

Table of contents :
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Frontespizio......Page 3
Il Libro......Page 161
L’interazionismo simbolico di Erving Goffman - Nota introduttiva di Michele Borrelli......Page 9
Presentazione di Paolo Jedlowski......Page 17
Introduzione......Page 21
1.1 La vita......Page 23
1.2 Le opere......Page 29
2. Sfere di realtà
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2.1 Frame Analysis: influenze e caratteristiche generali......Page 44
2.2 Frame, framework e key......Page 52
2.3 Complotti e fabbricazioni......Page 63
2.4 La cornice teatrale......Page 70
2.5 Problemi strutturali nelle fabbricazioni......Page 77
3. Attraverso lo specchio
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3.1 Attività fuori frame......Page 84
3.2 L’ancoraggio di attività......Page 88
3.3 Guai ordinari......Page 94
3.4 Quando il frame si rompe......Page 98
3.5 La creazione dell’esperienza negativa......Page 101
3.6 Le vulnerabilità dell’esperienza......Page 104
4. Piccola antologia di cornici
......Page 111
4.1 Franz Kafka......Page 112
4.2 Ernst Bloch......Page 113
4.3 Georg Simmel......Page 116
4.4 Don Chisciotte e il problema della realtà......Page 121
4.5 Frames teatrali: Pirandello e Sofocl......Page 128
4.6 Frames e A.I.: Minsky e la società della mente......Page 132
4.7 Frames e psicologia: Gardner e le intelligenze multipl......Page 135
4.8 Frames cinematografici......Page 136
5.1 Il problema della definizione del framework......Page 141
5.2 Vita e teatro......Page 149
5.3 Il “costruttivismo temperato”......Page 153
Bibliografia
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Citation preview

Collana METODOLOGIA DELLE SCIENZE SOCIALI

Massimo Cerulo

METODOLOGIA DELLE SCIENZE SOCIALI

D irettore della Collana:

Michele Borrelli D irettori delle singole aree scientifiche:

Franco Bianco III Università di Roma. Area scientifica: Ermeneutica Filosofica

Michele Borrelli Università degli Studi della Calabria. Area scientifica: Pedagogia Generale

Michele Cometa Università di Palermo. Area scientifica: Letteratura Tedesca

Stefano Crespi Università di Milano. Area scientifica: Sociologia Generale

Franco Crispini Università degli Studi della Calabria. Area scientifica: Storia della Cultura e delle Idee

Daniele Gambarara Università degli Studi della Calabria. Area scientifica: Filosofia del Linguaggio

Giacomo Marramao III Università di Roma. Area scientifica: Filosofia Politica

Elio Matassi III Università di Roma. Area scientifica: Filosofia della Storia

Eligio Resta Università Federico II di Napoli. Area scientifica: Sociologia Generale

Marcello Zanatta Università degli Studi della Calabria. Area scientifica: Storia della Filosofia Antica

METODOLOGIA DELLE SCIENZE SOCIALI

Massimo Cerulo

SOCIOLOGIA DELLE CORNICI Il concetto di frame nella teoria sociale di Erving Goffman

LUIGI PELLEGRINI EDITORE

Si ringraziano Giuseppina Pellegrino e Ettore De Franco per aver letto il testo e per i loro preziosi suggerimenti. Un grazie particolare all’editore, Walter Pellegrini, per la fiducia dimostrata nei miei confronti. Un grazie profondo al prof. Paolo Jedlowski, mio maestro, per i suoi insegnamenti quotidiani.

Proprietà letteraria riservata © by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy

Stampato in Italia nel mese di maggio 2005 per conto di Pellegrini Editore Via De Rada, 67/c - 87100 Cosenza - Tel. 0984 795065 - Fax 0984 792672 Sito internet, www.pellegrinieditore.it E-mail: [email protected] I diritti di traduzione, mem orizzazione elettronica, riproduzione e adatta­ mento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

A mio zio

INDICE

L’interazionismo simbolico di Erving Goffman Nota introduttiva di Michele Borrelli.....................

pag. 9

Presentazione di Paolo Jedlowski.............................

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Introduzione................................................................

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1 - Erving Goffman.................................................... 1.1 La v ita................................................................... 1.2 Le opere................................................................

» 23 » 23 » 29

2 - Sfere di realtà........................................................ 2.1 Frame Analysis: influenze e caratteristiche generali............................................... 2.2 Frame, framework e k e y ..................................... 2.3 Complotti e fabbricazioni................................... 2.4 La cornice teatrale................................................ 2.5 Problemi strutturali nelle fabbricazioni .............

» 43 » 44 » 52 » 63 » 70 » 77

3 - Attraverso lo specchio.......................................... 3.1 Attività fuori fra m e .............................................. 3.2 L’ancoraggio di attività........................................ 3.3 Guai ordinari......................................................... 3.4 Quando il frame si rom pe................................... 3.5 La creazione dell’esperienza negativa.......... 3.6 Le vulnerabilità dell’esperienza..........................

» 83 » 84 » 88 » 94 » 98 » 101 »104

4 - Piccola antologia di cornici.................................

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4.1 Franz Kafka......................................................... 4.2 Ernst Bloch............................................................ 4.3 Georg Simmel...................................................... 4.4 Don Chisciotte e il problema della realtà...... 4.5 Frames teatrali: Pirandello e Sofocle................. 4.6 Frames e A.I.: Minsky e la società della mente............................................ 4.7 Frames e psicologia: Gardner e le intelligenze multiple................... 4.8 Frames cinematografici....................................... 5 - Commenti e discussioni........................................ 5.1 Il problema della definizione del framework . 5.2 Vita e teatro........................................................... 5.3 Il “costruttivismo temperato”.............................. Bibliografia............................................................

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L’interazionismo simbolico di Erving Goffman Nota introduttiva

Erving Goffman occupa un posto speciale all’interno del discorso non solo della sociologia in generale, ma anche della nuova scuola di Chicago, considerato che accanto all’im­ postazione di Herbert Blumer, il cui oggetto di studio è la contestualità del significato, e all’impostazione di Manfred Kuhn che ha come oggetto di riflessione gli aspetti strutturati della vita sociale, egli ha teorizzato soprattutto la dimensione drammaturgica legata ai processi di interazione e comunicazio­ ne interpersonale a partire dalla vita quotidiana1. Osservatore acuto, apparentemente in antitesi alle spiegazioni globalizzanti della realtà, descrive e analizza la socialità concretamente vissuta, appunto la quotidianità o normalità, le particolarità dell’interagire a partire da un doppio originale e fondamentale interrogativo. In Goffman, siamo per un verso di fronte alla domanda sull’origine di un ordinamento sociale significativa­ mente interpretabile nell’agire dell’uomo; per altro verso di fronte alla domanda sulle condizioni che rendono possibile il mantenimento di un tale ordinamento sociale. Questo dop­ pio interrogativo sposta l’oggetto dell’analisi sociologica sul terreno della situazione comunicativa12 o dell’interazione, o

1In Frame Analysis - L ’organizzazione dell’esperienza (trad. it. di I. Matteucci), Armando, Roma 2001, p. 163, Goffman scrive: “Poiché il linguaggio del teatro è profondamente legato alla sociologia, dalla quale questo studio deriva, ha senso provare sin dall’inizio a rivolgerci alla materia del palcoscenico. Ha senso anche perché vi si trovano tutti i generi di difficoltà. Tutto il mondo è come un palco­ scenico, noi ci sosteniamo e ci sospendiamo ogni momento in esso, e questo per tutto il tempo che abbiamo”. 2 Nell’ambito della riflessione sui problemi inerenti la comunicazione le risposte

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METODOLOGIA DELLE SCIENZE SOCIALI

meglio sui rapporti sintattici tra le azioni di persone interagenti. Motivo centrale della prospettiva simbolico-interazionista di Goffman sono, dunque, le condizioni di possibilità dell’intera­ zione e dell’agire nello scambio sociale dello spazio di gioco tra gli attori dell’interazione Face-to-Face in cui quest’ultimi si giocano l’un l’altro i “territori del proprio sé”3. Siccome per Goffman non è possibile pensare in termini di un’immagine di attore sociale organicamente strutturata, diventa centrale la nelle varie scienze sociali sono abbastanza diversificate: per es. Luhmann teo­ rizza l’azione sociale in funzione del sistema e l’oggettivizzazione della società che così si crea non lascia più posto al principio di intersoggettività; Adorno denuncia la soppressione della soggettività all’interno di processi sociali reificati proponendo il congedo dalla ragione identificante di provenienza hegeliana a favore della ragione dialettica della non identità; Habermas, sulla scia dell’interazionismo simbolico e sullo sfondo del programma fenomenologico delle scienze sociali di Alfred Schutz, pone l’intersoggettività al centro della comprensione del mondo sociale dal momento che l’Io non è isolato, ma un Io sociale, per cui proprio sulla categoria dell’intersoggettività basa il modello dell’agire comu­ nicativo ove si esperirebbe la strutturazione dell’identità dell’individuo sociale. Rinvio per un approfondimento su queste tematiche ad alcuni miei scritti: M. Borrelli, Teoria sistemica - Cenni introduttivi al discorso sociologico di Niklas Luhmann, in Id. (a cura di), Teoria sistemica - Ermeneutica fenomenologica Ermeneutica trascendentale, Collana Quaderni Interdisciplinari. Metodologia delle scienze sociali, vol. 1, Pellegrini, Cosenza, pp. 149-156; M. Borrelli, La dialettica negativa: apertura a ll’ontologia pedagogica, in Id., Pedagogia come ontologia dialettica della società, Pellegrini, Cosenza 3a ed. riv. e ampl. 2002, pp. 329-341; M. Borrelli, La pragmatica universale: Jurgen Habermas, ivi, pp. 287-303; M. Borrelli, La pragmatica universale e la struttura emancipativa del discorso in Jurgen Habermas, in “Qualeducazione” fasc. 64, n. 1/2, Pellegrini, Cosenza 2003, pp. 27-42. Cfr. anche F. Caputo, Scienza pedagogica comunica­ tiva: Jurgen Habermas, Pellegrini, Cosenza 2003, soprattutto capp. 2 e 7, pp. 61-97; pp. 165-183. 3 Cfr. E. Goffman, L ’interazione strategica (trad. it. di D. Cabrini e V. Mortara), Il Mulino, Bologna 1971. Nell’Introduzione all’opera, p. 7, Goffman puntualizza: “Ciò che a me veramente interessa è studiare l’interazione faccia-a-faccia quale campo dotato di confini naturali e analiticamente coerente, quale cioè sub-area della sociologia”; cfr. anche Id., Modelli di interazione (trad. it. di D. Cabrini, A. Evangelisti, V. Mortara), Il Mulino, Bologna 1969, soprattutto cap. 1., pp. 7-47, nonché i seguenti lavori: R. Hettlage, K. Lenz (a cura di), Erving Goffman. Ein soziologischer Klassiker der zweiten Generation, Bern/Stuttgart 1991; J. Ditton (ed.), The View from Goffman, London 1980.

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L'interazionismo simbolico di Erving Goffman - Nota introduttiva

nozione di self, l’identità che deriva tra l ’immagine che ognu­ no assegna a se stesso e quella che si stabilisce con i partner dell’interazione4. Fondamentali sono qui le analisi relative al concetto di ruolo, inteso da Goffman, diversamente dalla sociologia strutturale o funzionalistica, come un sistema di modi di apparire in pubblico con cui l ’attore gioca e che può ovviamente anche modificare5. L’attore sociale è inteso come colui che agisce e al tempo stesso come colui che recita un determinato ruolo. Il piano di rigoroso atteggiamento osservativo porta Goffman nelle vicinanze delle descrizioni dell’etnologia, se non addirit­ tura dell’etologia umana. Il suo modo premuroso di accostarsi all’oggetto di studio, spesso frainteso come atteggiamento neutrale rispetto all’oggetto, mira a cogliere, da prospettiva dell’osservatore esterno, i princìpi interni dell’organizzazione dell’agire per elaborarli poi analiticamente6. Già questi pochi spunti dovrebbero essere sufficienti a mettere in evidenza che col presente volume si spera di offrire a studenti, cultori e docenti delle varie scienze sociali, e an­ che a lettori non specialisti, una possibilità in più di accedere all’approfondimento di una delle prospettive sociologiche contemporanee, apparentemente marginali, ma in verità forse una delle più originali riguardo all’ambito specifico di ricerca che ruota intorno all’“interazionismo simbolico” della nuova scuola di Chicago, i cui punti di riferimento vanno dalla prima Chicago School (E. C. Hughes, G. H. Mead) all’etnologia orien­

4 Cfr. E. Goffman, Asylums. Le istituzioni totali: la condizione sociale dei malati di mente e di altri internati (trad. it. di F. Basaglia), Einaudi, Torino 1974; cfr. anche Id , La vita quotidiana come rappresentazione (trad. it. di M. Ciacci), Il Mulino, Bologna 1969. 5 Sul concetto di ruolo, vedi E. Goffman, Espressione e identità (trad. it. di P. Maranini), Mondadori, Milano 1979, pp. 83 sgg.. 6 Cfr. H.-G. Soeffner, in Metzler Philosophen Lexikon (a cura di B. Lutz), 2a ed. Stuttgart 1995, pp. 318 sgg..

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tata strutturalfunzionalisticamente di Alfred Radcliffe-Brown, al pragmatismo di Charles Cooley e Georg Herbert Mead e alla fenomenologia di Edmund Husserl e Alfred Schutz. L’interazionismo simbolico, corrente di pensiero sorta a Chicago negli anni 1900-1930, in aperto contrasto con lo scien­ tismo positivista nelle scienze sociali, assegna fondamentale rilievo al linguaggio nella creazione di significati e simboli, ponendo la ricerca relativa agli ambiti sociali su un piano di interpretazione piuttosto che di rigore nomologico. Con interazionismo simbolico dobbiamo intendere anche una varietà di lavori che interessano direttamente lo studio della vita quoti­ diana, della cultura e del senso comune. Come abbiamo sopra rilevato, per l’interazionismo simbolico sono di fondamentale importanza tanto gli aspetti soggettivi dell’azione umana, quale parte indissolubile del processo di formazione e mante­ nimento della società, quanto la capacità dell’attore sociale di interpretare il mondo sociale ed agire in esso, non da ultimo la stessa natura simbolica della vita sociale. L’interazionismo simbolico presume che gli individui agiscano riguardo alle cose sulla base dei significati che hanno per loro; questi significati sorgono dall’interazione che un individuo stabilisce con gli altri attori e sono usati come un processo di interpretazione, quindi ermeneutico, nella relazione interpersonale e con le cose. Non meno rilevante è il fatto che l’interazionismo simbolico di Goffman offre anche una prospettiva teoreticamente signifi­ cativa per l’analisi dell’esclusione sociale e delle ineguaglianze. Prospettiva da prendere in seria considerazione se si pensa che i sistemi di esclusione e l’ineguaglianza appaiono concretamente e simbolicamente nella vita di ogni giorno7. Sotto questo pro­ filo, carico di implicazioni anche pedagogiche, la prospettiva offerta da Goffman si mostra come un approccio significativo e fecondo per avanzare nell’indagine teo-retica sui problemi

7 Si veda, su questo assunto, in particolare di E. Goffman, Asylums, op. cit.

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L'interazionismo simbolico di Erving Goffman - Nota introduttiva

dell’identità e della comunicazione. A livello metodologico, Goffman analizza nel suo lavoro sociologico (molto prossimo, tra l’altro, alla psicologia sociale) la categoria dell’altro e la sua identità sociale tramite processi di stigmatizzazione8. Lo stigma stesso nasce da una discrepanza fra l’identità virtuale e quella vera. Il problema è soprattutto interpretativo e di negoziazione simbolica. Ermeneutica e semiotica sono diventate, non a caso, parti costitutive del discorso intorno alle logiche delle scienze sociali e sono dimensioni ampiamente presenti nella teoretizzazione goffmaniana. Dalla radicalizzazione ermeneutico-ontologica di Heidegger all’ermeneutica filosofica di Gadamer9, dalla semiotica di Peirce, via Kant, all’ermeneu­ tica trascendentalpragmatica di Apel101e al linguitic turn in generale, è ormai un luogo comune non solo la centralità del linguaggio o dei symbols (Peirce)11, ma anche il fatto che il comprendere è sempre legato alla nostra pre-comprensione del mondo e inaggirabilmente sempre anche alla linguisticità come prestruttura a partire dalla quale simboli, significati e interpre­ tazioni sono possibili. Ciò spiega perché ciò che noi chiamiamo realtà è ormai pensabile solo in termini di costruzione sociale che è definita sempre e comunque intersoggettivamente, come mediazione cioè discorsiva. In tale prospettiva ben si collocano gli studi e i risultati dell’approccio metodologico

8Cfr. E. Goffman, Stigma: l ’identità negata (trad. it. di R. Giammanco), Giuffré, Milano 1983. 9 Cfr. M. Borrelli, L ’ontologia postontologica fenomenologico-ermeneutica, in Id., Pedagogia come ontologia dialettica della società, op. cit., pp. 117-193. 10 Cfr. K.-O. Apel, Lezioni di Aachen e altri scritti, a cura, traduzione e presenta­ zione di M. Borrelli, Collana Metodologia delle scienze sociali, vol. 7, Pellegrini, Cosenza 2004. 11 Cfr. K.-O. Apel, Cambiamento di paradigma. La ricostruzione trascendentalermeneutica della filosofia moderna, a cura, traduzione e presentazione di M. Borrelli, Collana Metodologia delle scienze sociali, vol. 10, Pellegrini, Cosenza 2005.

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goffmaniano. Sono prova di ciò categorie come normalità e devianza quali definizioni soggettive che variano da contesto sociale a contesto sociale e che caratterizzano il fatto che la nostra autenticità non è che quella maschera che noi finiamo per costruire12, come dire una costruzione che noi riflettiamo sugli altri. Goffman incentra il suo interesse, quindi non a caso, sulle implicazioni dei comportamenti negli attori sociali; sul modo come l’individuo in situazioni di vita quotidiana si pone di fronte agli altri e sui modi attraverso cui guida e controlla l’impressione che gli altri hanno di lui. Fondamentale è qui il problema sopra menzionato dell’identità, ovverosia la discre­ panza tra l’identità di un individuo sociale vero e l’identità virtuale, discrepanza che può venire alla luce nel momento in cui entriamo in contatto con lui. Un’identità virtuale esiste, ma differisce dalla vera identità dell’individuo, per cui la facciata sociale dell’individuo non trova mai corrispondenza rigida con la sua vera identità. Proprio in relazione all’identità sociale Goffman studia il processo di percezione dell’altro a partire dal concetto di “interazione sociale” 13, dedicando a quest’ultima tutta la sua investigazione sociologica. Che noi possiamo percepirci come un “io” o un “noi” dipende, in ultima analisi, dalla nostra capa­ cità di vedere l’altro14. Col che la costituzione del sé comincia dall’interazione con gli altri e con la società in generale. Ma in che cosa consiste l’interazione? Per Goffman esistono una serie di elementi che permettono di definire l’interazione. Questi elementi sono, secondo la prospettiva teorizzata da Goffman, le “situazioni sociali”, le “occasioni sociali” e gli

12 Cfr. E. Goffman, L ’interazione strategica, op. cit. 13 “L’interazione sociale può essere definita in senso stretto come ciò che traspira unicamente nelle situazioni sociali, cioè in ambiti nei quali due o più individui sono fisicamente l’uno alla presenza della risposta dell’altro” (E. Goffman, L ’ordine dell’interazione (trad. it. di M. Giglioli), Armando, Roma 1998, p. 43). 14 Cfr., soprattutto, E. Goffman, Modelli di interazione, op. cit.

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L'interazionismo simbolico di Erving Goffman - Nota introduttiva

“incontri sociali”. La situazione sociale è l’ambiente spa­ ziale nel quale “una persona si trovi a diventare membro di un raggruppamento che sta avendo o sta per avere corso”15; l’occasione sociale è un evento, per esempio, un party socia­ le, una giornata di lavoro in ufficio, un picnic o una serata all’opera, ed è contemplata retrospettivamente come un’unità che può essere di due tipi: persone che entrano in contatto per intrattenere una conversazione per un periodo di tempo definito; incontro fortuito fra persone16. Lincontro sociale è un’occasione di interazione che comincia quando gli individui riconoscono di essere stati messi in presenza immediata alcuni di fronte ad altri “allo scopo di mantenere un unico punto focale di attenzione conoscitiva e visiva” ed include la partecipazione reciproca17. La situazione, l’occasione e l’incontro sociale sono gli elementi di fondo che Goffman privilegia per analizzare l’inte­ razione; si tratta di microsistemi in quanto lavorano come una società a scala ridotta e molta rilevanza hanno in essi le regole. Se, da un lato, è fondamentale un ordine e delle regole che permettano le interazioni, dall’altro è altrettanto fondamentale che gli individui, che partecipano all’interazione, siano disposti ad accettare e mantenere tali regole18. L’esperienza dell’identità, prospettiva teorica di alto rilievo in Goffman, è data dunque dalla struttura sociale che l’avvol­ ge. Effettivamente, l’identità della persona è condizionata dai diversi contesti nei quali ci si trova ad essere agiti per via della negoziazione strategica che in definitiva condiziona tutte le interazioni che hanno luogo nella vita quotidiana.

15 E. Goffman, Il comportamento in pubblico. L ’interazione sociale nei luoghi di riunione (trad. it. di F. e E. Basaglia), Einaudi, Torino 1971, p. 19. 16 Cfr. ivi, p. 20. 17 Cfr. ivi, pp. 90-91. 18 Cfr. E. Goffman, L ’ordine dell’interazione, op. cit., p. 53.

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Originale è qui l’approccio metodologico adottato. Infatti, come evidenziano i pochi accenni iniziali, Goffman rileva il metodo drammaturgico quale punto chiave per interpretare il nostro comportamento all’interno della sua particolare visione dell’interazionismo simbolico. In questa sede non si poteva offrire se non qualche accenno schematico ad alcune delle categorie centrali della sociologia goffmaniana allo scopo di offrire al lettore il quadro minimo generale della vasta contestualità che abbraccia la prospettiva sociologica qui discussa. Il lavoro di Massimo Cerulo, presentato dal sociologo Paolo Jedlowski specialista di storia della sociologia e non solo, ha come oggetto principale di trattazione Frame Analysis, rico­ nosciuto come lo studio più importante di Goffman, incentrato sull’organizzazione dell’esperienza, e in cui i soggetti sociali confrontano percezioni e interpretazioni della vita sociale all’interno di una serie mobile di “cornici”. Non c’è, infatti, comunicazione se non all’interno di un contesto o frame in cui, come Cerulo mette in rilievo nel suo lavoro di ricostruzione dell’approccio goffmaniano, il contenuto della comunicazione deve pur essere interpretato. Il curatore della collana Metodologia delle scienze sociali è lieto di accogliere il lavoro di Massimo Cerulo che riporta il discorso socialscientifico, a distanza di sette anni (dal primo volume, uscito nel 1998, a cui ha collaborato Niklas Luhmann) nuovamente sul piano della ricerca sociologica. Mic h e l e B o r r el li

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Presentazione

Frame Analysis è il libro più complesso di Erving Goffman. È probabilmente anche il suo libro meno studiato (non solo in Italia, dove per altro è stato tradotto solo recentemente). È tuttavia centrale, sia per comprendere e valutare l’opera di Goffman, sia per riflettere su alcuni nodi cruciali della socio­ logia. Ben venga dunque questo lavoro di Massimo Cerulo: un aiuto alla lettura del testo di Goffman e un’indicazione della strada che ancora resta da compiere per valutare pienamente il suo contributo teorico. Chi sia Erving Goffman, è ciò che sa ogni studente di socio­ logia. A trent’anni dalla sua morte, appartiene oramai al novero dei “classici” della disciplina. Un “classico” scomodo, però: citatissimo per le sue osservazioni sulla vita quotidiana, per la sua capacità di illuminare le forme e la complessità delle inte­ razioni ordinarie, da tutti ritenuto affascinante, ma letto spesso per frammenti o limitandosi a singole opere, e, così, difficile da collocare. Apparentemente, si tratta di un sociologo dei microcosmi: uno che rifugge dai grandi problemi. Non è così: Goffman è stato un grande innovatore della sociologia anche e soprattutto perché si è collocato all’interno di un mutamento di paradigma che ha avuto effetti profondi su tutte le scienze sociali, e ha saputo articolarne acutamente le conseguenze metodologiche. Tale mutamento di paradigma può essere inteso, in breve, come la nascita del paradigma della costruzione sociale della realtà. Che la realtà sia una “costruzione sociale” corrisponde al titolo di un celeberrimo libro di Peter Berger e Thomas Luckmann degli anni sessanta, ma l’idea appartiene a una 17

METODOLOGIA DELLE SCIENZE SOCIALI

schiera di autori ben più ampia. Non significa, ovviamente, che la realtà non ha alcunché di “oggettivo”: significa che i modi con cui noi la interpretiamo dipendono dai risultati del nostro agire e del nostro pensare, necessariamente situati in contesti sociali, pratici e linguistici, determinati. Al di là della sociologia, si tratta di ciò che nel corso del Novecento hanno insegnato l’ermeneutica filosofica e la fenomenologia, la filo­ sofia analitica e la psicologia sociale. È un paradigma che ci allontana definitivamente dagli assunti ingenui del positivismo, e che richiede ancora tuttavia, per dispiegarsi pienamente, di accurate indagini che mettano capo a quello che opportuna­ mente dovrebbe chiamarsi un “realismo critico” o - per usare l’espressione di Luciano Gallino su cui si chiude il libro di Cerulo - un “costruttivismo ben temperato”. Entro lo sviluppo di questo paradigma, la riflessione goffmaniana sui frames è rilevante. Il frame è una “cornice”: è lo schema interpretativo grazie a cui le situazioni in cui ci veniamo a trovare ricevono una definizione. In se stessa, la realtà è ambigua: può essere interpretata in molti modi diversi; incorniciandone dei tratti in un modo o in un altro - e dunque stabilendo che cosa è saliente, scegliendo una disposizione adeguata, decidendo, insomma, “di che cosa si tratta” - noi la rendiamo significativa e siamo in grado di agire al suo interno. Il frame, insomma, è uno degli elementi costitutivi della “costruzione” della realtà, e di conseguenza uno dei tasselli necessari alla sua comprensione teorica. Il lavoro di Cerulo ci conduce entro i meandri della riflessione goffmaniana in pro­ posito. Ma non tutto, nel pensiero di Goffman, è pienamento risolto. Ed è bene che Cerulo lo sottolinei. Tuttavia, va sotto­ lineato anche che i punti dove il pensiero di Goffman resta in sospeso sono ancora quelli intorno a cui le scienze sociali si affannano oggi. A mio modo di vedere, si tratta in fin dei conti del problema di comprendere l’esatta dose di responsabilità che individui e gruppi portano riguardo al proprio modo di interpretare il 18

Presentazione

reale. La nostra conformazione naturale ci spinge a inquadrare la realtà secondo certe regole base; le nostre determinazioni sociali ci spingono poi a sviluppare e dare per scontate certe interpretazioni ulteriori; ma che cosa fa sì che noi possiamo scegliere fra interpretazioni diverse, e quanto - o a quali condizioni, e con quali effetti concreti - siamo liberi di farlo? Anche ogni discorso scientifico è, in ultima analisi, un modo di “inquadrare” la realtà: ma cosa può far sì che le cornici di senso che esso utilizza siano più valide di altre? Non è facile rispondere, e tuttavia il problema deve restarci di fronte. Se uno dei meriti di Goffman è quello di condurci fino alle soglie di questo problema con una strumentazione adeguata (o almeno con una parte importante di questa strumentazione), quello di Cerulo è di aiutarci a leggere un’opera complessa e, a tratti, labirintica. Ma fra i momenti più interessanti del suo libro vi è anche la scoperta di quanto la nozione di frame possieda in effetti una storia assai lunga entro le scienze sociali, dalle intuizioni di Simmel fino a quelle, contemporanee a Goffman, di Bateson. E di quanto, in verità, la nozione sia presente e sia usata riflessivamente in diverse correnti della narrativa (lettera­ ria, teatrale, cinematografica). I frames infatti non sono stabili; se è vero che non possiamo farne a meno per interpretare la realtà in cui siamo immersi, è vero anche, però, che possiamo slittare da un frame all’altro, e lo facciamo spesso: questo è ciò che la narrativa mette in scena, affacciando così il suo pubblico al sospetto che la realtà sia un caleidoscopio, la cui forma muta al mutare del nostro atteggiamento. Tale sospetto viene spesso tacitato dal pensiero quotidiano, ma proprio ripensare a quanto già sappiamo sui frames e sull’ambiguità del reale grazie al nostro essere lettori o spettatori di cinema o di teatro aiuta a considerare le intuizioni di Goffman molto meno astratte di quanto possano apparire: è un aiuto a comprenderlo meglio e, in fondo, a farlo più nostro. Pa o l o Je d l o w sk i 19

Introduzione

Nel 1970 un giovane studente dell’Università della Penn­ sylvania, laureando in sociologia, chiese al docente Erving Goffman dei suggerimenti per una tesi di laurea su di lui. La risposta del sociologo originario del Canada, che lasciò senza parole il giovane laureando, fu: “Dovresti trovare uno scrittore ben più importante...”. Questo semplice aneddoto, riferitoci dalla Trifiletti1, serve a far capire che personalità particolare e intrigante caratterizzasse colui al quale è rivolto il mio libro: Erving Goffman. Personalmente ritengo il sociologo canadese un esploratore: egli, infatti, ha considerato la pratica delle scienze sociali come un processo di scoperta. Con ciò non significa che abbia portato alla luce fatti nuovi o che abbia rivelato informazioni fino ad allora sconosciute, ma significa che egli ha chiarificato ciò che in precedenza era oscuro, ha mostrato il significato di cose che venivano considerate di poca o nessuna importanza, e ha cercato di sbrogliare quella che fino ad allora era considerata una matassa intricata e confusa: l’organizzazione dell’esperienza. Nel libro mi propongo principalmente di analizzare il con­ cetto goffmaniano di frame e tutte le implicazioni che esso comporta, soffermandomi in particolare su quegli aspetti che maggiormente hanno colpito il mio spirito critico. Dopo il primo capitolo, dedicato alla biografia dello scrit­ tore, mi concentrerò nell’analisi dell’opera del sociologo cana­ dese oggetto del mio studio: Frame Analysis; nel secondo e nel1

1Trifiletti R., L ’identità controversa. L ’itinerario di Erving Goffman nella socio­ logia contemporanea, CEDAM, Padova, 1991.

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terzo capitolo, infatti, cercherò di analizzare i vari argomenti e le diverse idee che egli ha descritto nella sua opera più com­ plessa, cercando di mantenermi quanto più possibile vicino ai suoi schemi metodologici. Nel quarto capitolo, invece, proporrò una piccola anto­ logia di cornici che, oltre ad analizzare il concetto di frame così com’è stato usato in altri campi culturali, ha lo scopo di alleggerire lo sforzo interpretativo del lettore guidandolo in un piccolo viaggio “all’interno delle cornici”. Frame Analysis è il libro più lungo e complesso di Goffman e, come tale, di non facile comprensione; cercherò, tuttavia, nel quinto e ultimo capitolo, di analizzare gli aspetti a mio parere più significativi e nello stesso tempo controversi dell’opera, soffermandomi su quelle idee che, a mio parere, meritano ulteriore approfondimento. Scrivere un libro come Frame Analysis non è impresa facile, studiare l’organizzazione dell’esperienza è una delle attività più complicate da intraprendere; lo stile con cui il sociologo canadese ha sviluppato la sua opera suscita ammirazione. A oltre due decenni dalla sua scomparsa, la statura intel­ lettuale di Goffman è oggi pienamente riconosciuta. Tutti i maggiori teorici contemporanei non hanno potuto fare a meno di confrontarsi con la sua opera e c’è addirittura qualcuno, come Collins, che lo considera il più grande sociologo della seconda metà del ventesimo secolo. La sua straordinaria delicatezza di tocco e precisione descrit­ tiva, l’abilità virtuosa con cui la sua opera getta una luce nuova (e talvolta inquietante) sui più familiari paesaggi sociali, la sua capacità di temperare l’empatia col distacco sono elementi di cui l’analisi dell’interazione è stata irrimediabilmente privata dalla sua scomparsa. Personalmente non so se Goffman sia stato un genio, certo è che il segno della sua classe, eleganza e grandezza rimarrà per sempre nella mente dei suoi lettori e nella storia della sociologia. 22

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Erving Goffman

Altra materia da romanzo...

Honoré de Balzac

1.1 La vita Erving Goffman, si sa, era considerato persona molto schiva che si defilava spesso dietro la sua opera, proiettando, secondo la definizione di Nahavandi, una costante “immagi­ ne di impersonalità” 1. Troviamo, infatti, pochi dati riguardo l’aspetto biografico dell’autore, i quali diventano sempre più scarni nei vari libri mano a mano che la curiosità del pubblico aumenta. Nonostante ciò proverò a costruire un quadro bio­ grafico abbastanza completo. Erving Goffman nasce il giorno 11 giugno del 1922 in Canada nella piccolissima cittadina di Manville, situata nella regione dell’Alberta. La sua famiglia è di ebrei ucraini, immigrata pochi anni prima durante la grande immigrazione russa e cresce bilingue, parlando correttamente anche l’yiddish, cosa che, come c ’informa Hymes, lo fa sen­ tire un diverso12. Cresce a Dauphin, vicino Winnipeg, dove il padre dirige una sartoria e qui il giovane Erving frequenta l’highschool. In seguito s’iscrive una prima volta all’Univer-

1Nahavandi F., Introduction à la sociologie de E. Goffman, in “Cahiers durkheimiens” n. 4, éditions de l’Université de Bruxelles, Bruxelles, 1979. 2 Hymes D., On Erving Goffman, “Theory and Society” 13, n. 5, trad.it. Erving Goffman sulla sociolinguistica, in “Rassegna italiana di sociologia”, n. 3, a. XXV, 1984.

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sità di Manitoba per studiare chimica, ma lascia quasi subito per dedicarsi al cinema e lavora, nel 1943 e ’44, al National Film Board di Ottawa fondato da John Grierson. Iscrittosi nuovamente all’Università, questa volta a Toronto in compa­ gnia dell’amico Dennis Wrong, riesce a laurearsi nel 1945 in antropologia sociale sotto la guida di docenti del calibro di C. W. Hart, un antropologo seguace di Radcliffe-Brown, e Ray Birdwhistell che gli indicano le nuove possibilità che si stava­ no aprendo in sociologia e nell’antropologia sociale. Proprio quest’ultimo lo indirizza a proseguire gli studi all’Università di Chicago3dove Goffman s’iscrive per conseguire il dottorato. Negli anni di studio a Chicago ha l’opportunità di entrare in rapporto con una generazione di scienziati sociali con cui si sarebbe stabilito un importante e durevole scambio di stimoli, interessi, indicazioni di ricerca e reciproco adattamento delle prospettive. Fra i docenti con cui lavora, quelli che maggior­ mente lo influenzano sono Everett Hughes, nei cui seminari di sociologia del lavoro e delle professioni Goffman incontra per la prima volta il concetto di istituzione totale, che diverrà fondamentale in Asylums4, e Lloyd Warner, relatore della sua tesi, antropologo e sociologo di formazione dichiaratamente durkheimiana e pioniere dello studio antropologico delle società contemporanee5. Nella scuola di Chicago la sociolo­ gia e l’antropologia sociale sono legate molto strettamente e Goffman indirizza i suoi studi in ambedue le direzioni; per questo motivo non v’è alcun dubbio che gli anni trascorsi lì, sebbene non può dirsi che “programmeranno” la sua opera

3A quel tempo a Chicago esisteva il miglior dipartimento di sociologia degli Stati Uniti, l’altro grande centro era quello della Columbia University. 4 Tutte le opere nominate di Goffman sono riportate in bibliografia. 5Warner aveva partecipato ai famosi studi Hawthorne di sociologia industriale e aveva diretto la celebre serie Yankee city, un insieme di ricerche su stratificazione sociale e simbolismo nelle città americane.

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successiva, saranno sine dubio fondamentali per il tipo di scienziato sociale che egli diventerà. Nel 1949 Goffman ottiene il Master e, grazie allo stesso Warner6, si trasferisce dal 1949 al 1951 al dipartimento di antropologia sociale dell’Università di Edimburgo come Assistant Lecturer e, durante questo soggiorno inglese, trascorre due periodi di diversi mesi di ricerca sul campo, basata sull’os­ servazione partecipante7, in un villaggio di piccoli coltivatori delle isole Shetland che, nella migliore tradizione delle grandi ricerche di comunità americane, battezza col nome fittizio di “Dixon”. Attraverso questa ricerca sul campo deve raccoglie­ re dati etnografici per la sua dissertazione di dottorato ed il suo supervisor Warner lo invita ad un’analisi della struttura sociale della comunità isolana che lascerebbe poco spazio all’iniziativa personale, ma Goffman, gradualmente, cambia argomento e usa il materiale raccolto per abbozzare una teoria dell’interazione faccia a faccia. Durante questo periodo inoltre, Goffman, poiché non dispone di una vera e propria borsa di studio ma viene saltuariamente pagato con teaching fees per esercitazioni agli studenti nel museo etnografico, svolge anche lavori saltuari8 e, durante il secondo periodo trascorso nelle Shetland, s’impiega anche come sguattero nel piccolo albergo dove aveva precedentemente soggiornato9, esperienza questa che gli sarà fondamentale per la stesura delle sue successive opere che si baseranno sullo studio dell’interazione faccia a faccia. Nel maggio del 1951 si reca a Parigi dove, oltre a fare per

6 Warner, avendo compiuto degli studi etnografici sugli aborigeni australiani, conosceva Ralph Piddington, uno studioso australiano che era direttore del Di­ partimento di antropologia sociale dell’università di Edimburgo. 7 Tecnica di ricerca empirica che caratterizza la Scuola di Chicago. 8 Secondo il costume statunitense. 9In verità, più che per reale necessità economica, Goffman lo fece per l’adesione al già citato metodo della scuola di Chicago dell’osservazione partecipante.

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un po’ vita agiata e lussuosa dopo quella fortemente austera britannica, scrive una prima stesura della dissertazione di dot­ torato. L’anno successivo torna a Chicago e sposa Angelica Choate, una studentessa ventitreenne appartenente ad una delle grandi famiglie di Boston. Dal 1952 al 1953 occupa la posizione di Research Assistant in una vasta ricerca sulla stratificazione sociale diretta da Edward Shils, sociologo vicino a Parsons, finanziata dalla Ford Foundation. Di questo periodo è anche una sua ricerca mai pubblicata, sui benzinai, commissionatagli dalla A.P.I. attraverso la mediazione dello stesso Warner. Tale ricerca è testimonianza evidente del suo interesse per lo studio delle professioni che vengono analizzate dall’interno delle loro specifiche rilevanze: la situazione del distributore di benzina, infatti, è descritta come la gestione di una “piccola città aperta ai maschi”, che non dispone di un vero e proprio retroscena101. Nel 1953 ottiene il dottorato in sociologia con una dis­ sertazione intitolata Communication Conduct in an Island Community, frutto dei periodi di studio nelle isole Shetland. Dopo il conseguimento del dottorato, Goffman è ancora Research Associate in una ricerca del dipartimento di sociologia di Chicago sulle pratiche sociali diretta da Banfield. Nel 1954 si trasferisce a Washington nelle vesti di visiting scientist presso il National Institute of Mental Health; qui studia prima, per un breve periodo, in una piccola clinica per malattie mentali di Bethesda e poi, per circa 18 mesi, analizza il comportamento di pazienti e personale medico nel grande ospedale psichiatrico di St. Elizabeth11 a Washington. Goffman riveste la qualifica ufficiale di assistente dell’istruttore di ginnastica12e, in quanto

10Termine che sarà fondamentale ne La vita quotidiana come rappresentazione. 11 Dove, tra l’altro, era forzosamente ricoverato in quel periodo il grande poeta Ezra Pound. 12 L’unica persona che conosce il suo vero ruolo è il direttore dell’ospedale.

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tale, ha accesso libero a tutti i reparti; i dati raccolti con questo lungo lavoro sul campo rappresenteranno la base empirica per Asylums. Dopo questa lunga e sofferta esperienza presso il St. Eli­ zabeth le presenze “sul campo” di Goffman saranno molto più sporadiche e meno coinvolgenti: si limiteranno a brevi periodi di osservazione in camere operatorie e ad un periodo di osservazione partecipante sul gioco d’azzardo a Las Vegas, dove lavora nelle vesti di croupier allo Station Plaza Casino13. Nel 1957 Goffman è assunto come Assistant Professor nel dipartimento di sociologia dell’università di Berkeley in California, che in quel periodo è diretto da Herbert Blumer e rappresenta un punto d ’incontro di molte correnti della nuova sociologia. Nel 1962 consolida la sua posizione accademica di­ ventando professore ordinario nella stessa università. Goffman resterà in loco, nonostante diversi problemi riguardanti la sfera privata14, fino al 1968, cioè proprio negli anni di maggiore effervescenza di stimoli culturali ma anche di protesta sociale e di difficile rapporti con gli studenti. In questi anni tuttavia raggiungerà un grande successo: infatti, oltre all’uscita dei suoi libri più famosi, egli viene consacrato a tutti gli effetti come sociologo di primo piano e ottiene anche riconoscimenti pubblici alquanto prestigiosi come il Mac Iver Award, alla cui giuria di quell’anno partecipano sociologi come Faris, Merton, Riesman e Hughes15. Questo riconoscimento è importante anche perché contribuisce a dissolvere le nubi che si erano formate sulla questione della piena ed effettiva appartenenza di Goffman alla sociologia; nei primi anni, infatti, egli veniva

13 Parte del materiale raccolto durante questo periodo sarà utilizzato successiva­ mente nel saggio Where the action is. 14 II più grave dei quali fu la perdita della moglie che, dopo un lungo periodo di disturbi mentali, muore suicida nel 1964. 15 “American Sociologica! Review”, 1961.

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identificato come una figura mista a cavallo dei confini di­ sciplinari con l’antropologia e la psicologia sociale16. Questa sua ambiguità, tuttavia, continua anche negli anni seguenti tanto che, quando nel 1968 diventa titolare di una cattedra di prestigio all’università della Pennsylvania, non viene accolto dal dipartimento di sociologia poiché il suo titolo ufficiale è “Benjamin Franklin Professor of Anthropology and Psychology”. In seguito Goffman, a proposito di questo posto di prestigio, commenterà con la sua originale irriverenza di averlo accettato “per 30 mila dollari e un solo seminario all’anno”17. Questa frase, oltre a dimostrare la vena sarcastica che ricorre in tutte le opere goffmaniane, fa capire quanto schivo fosse il sociologo canadese, caratterizzato da un’elevata discrezione e da un onnipresente antipresenzialismo che viene messo da parte solo nelle occasioni che riguardano la didattica universitaria e in pochi, importanti congressi. Durante la permanenza in Pennsylvania sviluppa il suo crescente interesse per il comportamento linguistico in stretto contatto con studiosi come Dell Hymes e William Labov. In questo periodo non si sa quasi nulla della sua vita privata, a parte che si sposa in seconde nozze con la linguista Gillian Sankoff dall’unione con la quale nasce, nel 1982, la piccola Alice18. Un grande riconoscimento dall’interno della disciplina so­ ciologica gli giunge al termine della sua carriera, precisamente nel 1982, quando gli viene conferita la Presidenza dell’Ame­ rican Sociological Association. È però impossibilitato a pro­ nunciare il discorso presidenziale al Congresso di settembre a

16 Si ricordi che nessuna sua opera è menzionata nei Sociological Abstract fino al 1958, mentre i suoi primi lavori compaiono nei Psychological Abstracts fin dal 1953. 17 Berger B.M., A fa n letter on Erving Goffman, in “Dissent”, 1953. 18 Goffman aveva avuto un altro figlio, Tom Edwards, nato dal suo primo ma­ trimonio.

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San Francisco per gravi motivi di salute19 che lo portano alla morte nel novembre di quell’anno.

1.2 Le opere Goffman, durante i suoi sessant’anni di vita, ha scritto molti libri e articoli. Quasi tutti gli articoli sono stati ristampati in quattro raccolte di saggi: Asylums, Il rituale dell’interazione, Relazioni in pubblico e Forme del parlare. Altri due libri che apparvero in versione modificata rispetto alla prima edizione e con un nuovo titolo sono: Espressione e identità e L ’inte­ razione strategica. Esistono poi cinque monografie che sono state pubblicate per la prima volta sotto forma di libro: La vita quotidiana come rappresentazione, Stigma, Il comportamento in pubblico, Frame Analysis e Gender Advertisements. Questi undici libri compongono un corpo di scritti che senza dubbio è molto compatto e che è caratterizzato dalla trattazione di argomenti e temi strettamente connessi, da una metodologia comune, da uno stile inconfondibile e da un medesimo angolo visuale. I cambiamenti più evidenti hanno invece luogo nella terminologia che Goffman elaborava in funzione dell’analisi del tema che di volta in volta sceglieva di affrontare. Ciascuno dei suoi scritti pubblicati era, in realtà, il frutto di una prospettiva o di un’analisi sistematica di qualche aspetto dei tipi di comportamento sociale o d’interazione sociale che a suo parere erano prevalenti nella società americana del tempo. Tuttavia, nonostante il suo interesse principale fosse rivolto alla microsociologia dell’interazione sociale, egli dedicò molta attenzione non solo a numerosi aspetti del sel/dell’individuo ma anche a certe caratteristiche dell’ordine sociale, della struttura e dell’organizzazione sociale che erano direttamente attinenti

19 Soffre di un incurabile tumore allo stomaco.

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al suo tema principale. Sono questi tre temi, l’interazione sociale, il self e l’ordine sociale, che, oltre a lasciarsi definire più chiaramente, rappresentano le categorie di base nella pro­ duzione goffmaniana. Elemento fondamentale nella sua produzione sono le fon­ ti20, che usava al fine di esemplificare quanto andava dicendo e lo faceva in maniera magistrale grazie ad uno stile che non lasciava indifferenti. Come scrive Tom Burns: “il suo modo di maneggiare le parole, l’ironia compita e sorniona del suo stile, le folgoranti illuminazi oni che scatu­ riscono dall’accostamento di aspetti tra loro incongruenti, la “pesantezza” del paragrafo iniziale, che ha quasi l’effetto di un pugno nello stomaco, il motto di spirito lasciato cadere senza battere ciglio, l’aforisma buttato là con studiata noncuranza, e persino i passi piuttosto inquietanti con cui impartisce so­ lenni lezioni morali, sono tutti elementi molto più in sintonia con la prosa accuratissima che si poteva trovare nei migliori contributi al “New Yorker” che con lo stile di qualsiasi altro testo accademico21”. Tuttavia molti critici ritengono il suo lavoro come un’opera originale e piena di fascino, ma marginale e di scarso rilievo per la grande sociologia: un Goffman acuto e brillante osser­ vatore, ma concentrato in modo esasperante su problemi del tutto secondari, è un topos ricorrente. Personalmente ritengo che Goffman non lasci indifferente neanche il lettore occasionale che, confrontandosi con le opere del sociologo canadese, non può non restare colpito dalla sua

20 Costituite da: studi sociologici sulle occupazioni, libri di etichetta, ricordi di diplomatici, descrizioni di modi e consuetudini in Gran Bretagna e altrove, memorie e autobiografie, articoli di giornali e simili. 21 Burns T., Erving Goffman, London and New York, Routledge,1992, trad. it. Erving Goffman, p. 20, Il Mulino, Bologna, 1997.

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impressionante capacità di lucidità e penetrazione. Analizzando brevemente le sue opere bisogna partire da due saggi che rappresentano l’inizio della sua produzione: Symbol o f Class Status e La vita quotidiana come rappresentazione. Symbol o f Class Status, del 1951, è un articolo in cui viene messa in discussione la funzione originaria del concetto di simbolo di status nell’ambito del funzionalismo, cioè quella di categorizzazione tangibile, simbolica e immediata della collocazione oggettiva di un individuo nella scala sociale. Il punto realmente innovativo del discorso di Goffman è che ciò che usualmente consideriamo un simbolo di status non è tale perché serve realmente a connotare la posizione di classe di chi lo detiene, quanto piuttosto ad influenzare in una dire­ zione desiderata il giudizio di altri su di essa; è più adatto in definitiva ad un uso strumentale di rappresentazione. Non si può certo dire che questo articolo abbia avuto grande risonan­ za, e nemmeno che lo stesso autore lo abbia mai considerato nulla di più che come un lavoro scolastico; tutto il contrario dell’altra “opera prima”, l’articolo On Cooling the Mark Out, che fu pubblicato nel 1952, ancor prima del completamento della sua tesi di dottorato, sull’autorevole rivista Psychiatry22. L’articolo in questione tratta di una descrizione e un’analisi dei procedimenti intesi a far superare alle persone il loro insuccesso. Il titolo stesso è preso dal gergo dei truffatori, in cui mark significa la loro vittima e cooling out sta ad indica­ re la necessità di calmarla per evitare complicazioni. Viene presentato il caso di una truffa assai comune in cui membri di una banda si guadagnano la fiducia di un povero ingenuo fingendo relazioni informali di amicizia con lui fino a quando gli propongono d’investire in una rischiosa operazione che naturalmente viene manovrata per dare esiti positivi, di modo che il malcapitato finisce per lasciarsi convincere ad investire

22Rivista della Scuola di Washington.

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tutto in un successivo tentativo che, ovviamente, fallirà. Al centro dell’attenzione di Goffman è ciò che succederà dopo: se l’ingenua persona accetterà di andarsene senza creare problemi o se sarà necessario calmarla. Questo saggio, infatti, è impor­ tante in quanto analizza gli stratagemmi usati dai truffatori per calmare la loro vittima usandoli come modello per mettere in luce in tutta la società la diffusione di analoghi procedimenti che hanno lo scopo di limitare i danni. In altre parole, occorre che nella società alcune persone compiano un certo lavoro di riparazione al fine di restaurare quell’ordine che ci consente di vivere normalmente, ordine che consiste in un sistema di diritti e doveri, di obblighi e privilegi, di credenze e idee in cui abbiamo investito la nostra vita e nel quale sono radicate le nostre relazioni, il nostro status, i nostri ruoli, il nostro lavoro e la nostra sopravvivenza. Goffman affronta in questo saggio per la prima volta il nucleo del tema della disorganizzazione del self che verrà poi sistematicamente sviluppato in La vita quotidiana come rappresentazione e soprattutto in Asylums. La vita quotidiana come rappresentazione23 fu pubblicata per la prima volta nel 1956 ed è un’opera di facile e gradevole lettura. La caratteristica che la rende speciale è il modo con il quale Goffman analizza le interazioni faccia a faccia, quelle cioè che avvengono normalmente nella vita quotidiana. Per questo primo e fondamentale studio della condotta individua­ le egli utilizza una metafora drammaturgica, usando cioè il modello teatrale per analizzare le interazioni fra gli individui. L’elemento chiave goffmaniano è costituito dall’introduzione nell’intero schema dell’opera di due nozioni prese a prestito dall’ambiente teatrale: la prima è che deve esserci un pubblico al quale siano destinate le rappresentazioni, e la parte svolta da quest’ultimo è fondamentale per l’interazione; la seconda23

23 The Presentation o f Self in Everyday Life, Edinburgh, University Press, 1956, trad.it. La vita quotidiana come rappresentazione, Il Mulino, Bologna, 1986.

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nozione è l’uso dei concetti, prettamente teatrali, di “ribalta” e “retroscena” per indicare, rispettivamente, il luogo e i tempi in cui le azioni dei soggetti sono manifeste e quelli, presenti in ogni rappresentazione, necessari per la preparazione delle procedure , dei travestimenti o dei materiali essenziali per la rappresentazione, o per l’occultamento di aspetti della rap­ presentazione che potrebbero screditarla o essere in qualche modo discordanti con essa24. Con questo accorgimento analitico Goffman divide lo schema drammaturgico due volte: una volta tra attori e pubblico (entrambi cooperanti alla rappresentazione ed alla definizione della situazione), un‘altra tra “ribalta” e “retroscena”. In tal modo il sociologo canadese riunisce una straordinaria molteplicità di routine comportamentali, di osser­ vazioni quotidiane e di caratteristiche facilmente riconoscibili mettendole in una luce nuova e significativa. Nonostante l’idea che “tutto il mondo è un palcoscenico” fosse alquanto radicata25 e venisse considerato un cliché il guardare all’esistenza e alla condotta degli uomini attraverso la metafora teatrale, bisogna fare attenzione a non confondere il pensiero di Goffman con quello di altri: egli, infatti, non ha mai detto che la vita sia un teatro, sostiene invece che attraverso il teatro e il suo modello drammaturgico è più facile analizzare ciò che avviene nella vita quotidiana.

24Goffman, utilizzando la terminologia teatrale al fine di leggere il comportamento sociale in termini “drammaturgici”, dovrebbe essersi ispirato a Kenneth Burke, in particolare al suo libro Grammar o f motives pubblicato nel 1945. Tuttavia Tom Burns c’informa che prima di Burke, Marcel Mauss aveva dato suggerimenti in una direzione simile istituendo un legame tra il teatro e il rito. Egli infatti, in una conferenza del 1938 tenuta al Royal Anthropological Institute, . ipotizzò che, nelle società urbane, moderne e industrializzate il self sociale (personne morale) è in grado di esprimersi nella sua interezza solo attraverso una molteplicità di ruoli e di situazioni, che di solito, però, non sono affatto connessi reciprocamente” [Burns, 157, 1992]. 25 Platone e Shakespeare sono due massimi esempi a proposito dell’idea del theatrum mundi.

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In questo periodo iniziano ad essere pubblicati una serie di saggi che vanno ad arricchire l’opera goffmaniana. Il primo, pubblicato nel 1955, è II rituale dell ’interazione in cui Goffman continua a interessarsi alla cosiddetta “interazione sociale”, dove con tale termine s’intende il modo in cui gli individui si comportano gli uni nei confronti degli altri e, in questo con­ testo, ciò che conta sono i movimenti e gli aggiustamenti che noi facciamo al fine di amplificare, adattare, perfezionare e consolidare il funzionamento di base delle capacità fisiche di cui disponiamo. L’interazione sociale include, quindi, il com­ portamento in luoghi pubblici come pure gli incontri sociali, le riunioni pubbliche e le rappresentazioni teatrali, ma anche le conversazioni, gli atti di violenza fisica e il furto, il portare a termine una transazione, il guidare un’auto in città o avere un rapporto sentimentale con una persona. In questo e nei saggi successivi, circa dodici che occupano una posizione centrale nel corpo degli scritti di Goffman, egli continuerà ad analizzare le interazioni nell’ambito della vita quotidiana arricchendo di volta in volta la sua minuziosa analisi con delle intuizioni maturate attraverso le esperienze vissute. Nel 1961 scrive Asylums che, oltre ad essere probabilmente il libro più conosciuto dell’autore canadese, è quello che più degli altri ha suscitato numerose polemiche ed è stato, pro­ babilmente, erroneamente interpretato da alcuni studiosi26. Il libro si basa sulla ricerca empirica che Goffman fece nel periodo che trascorse all’ospedale psichiatrico del St.Elizabeth dove si fece assumere come infermiere. Egli analizza il fun­ zionamento interno del manicomio seguendo passo passo 26 La Trifiletti, ad esempio, sostiene che quest’opera sia stata oggetto di “ ... critiche tecniche alla costruzione del concetto di istituzione totale ... un concetto che è stato investito da una immensa popolarità negli anni ’60, entro il movimento di opinione della critica alle istituzioni, in modo del tutto scollegato dalle intenzioni teoriche di Goffman; un abbraccio un po’ soffocante, ben simboleggiato in Italia dalla lettura fortemente biaseddi Asylums da parte di Franco e Franca B a sa g lia .” [Trifiletti, 207, 1991].

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l’ingresso degli internati nell’istituzione totale e raccogliendo il repertorio completo dei complicati rituali di mortificazione e disorganizzazione a cui il neofita viene sottoposto. Il suo in­ teresse si focalizza proprio sul concetto di “istituzione totale”, cioè un’istituzione che ha le basi del suo carattere inglobante nella frattura dicotomica che si crea tra membri dello staff e internati e nella sua abnorme collocazione in uno spazio e in un tempo che esistono in una dimensione a sé, separata cioè da quella della normale vita quotidiana. E questa caratterizzazione paradossale del tempo e dello spazio estraniati, trova una sua corrispondenza all’interno dell’istituzione nel percorso del singolo “malato di mente” che si vede in rapida successione privato del suo tempo biografico. Nell’istituzione totale si ve­ rifica la rottura di quelle barriere che abitualmente separano gli ambiti di vita del quotidiano come lavoro, riposo e svago, per cui tutti gli aspetti della vita si svolgono nello stesso luogo e sotto la medesima autorità, a stretto contatto con un gruppo di persone che si trova nella stessa situazione e secondo un ritmo prestabilito. Se ne La vita quotidiana come rappresentazione troviamo una serie di self, uno dentro l’altro come le scatole cinesi, che corrispondono ai diversi ruoli che il soggetto può trovarsi ad interpretare nell’interazione quotidiana, in Asylums il self va a perdersi, ad annullarsi nella monotonia della vita ospedaliera, dissolvendosi contro l’invalicabile muro dell’i­ stituzione totale. Lo studio sulle istituzioni totali va ad inserirsi come un corollario teorico al modello drammaturgico, per questo anche Asylums entra a far parte del filone di studi di livello micro, riguardanti l’interazione faccia a faccia27.

27 Lasch coglie pienamente il fatto che per Goffman le persone si rivelano più pienamente negli eventi non certo eroici dell’interscambio quotidiano che non in imprese in cui dimostrino straordinario coraggio e impavidità [Lasch C., The minimal self, W.W. Norton & Co., New York, 1984].

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Nel 1961 viene pubblicata un’altra raccolta di saggi dal titolo Espressione e identità in cui Goffman compie un arti­ colato excursus che va ad esplorare, in due tentativi costruiti con caratteristiche contrapposte, l’intima ambivalenza che caratterizza la dimensione del coinvolgimento del soggetto nella propria rappresentazione; egli analizza cioè, quanto i soggetti si diano o si neghino all’interazione. Da un lato, in­ fatti, Goffman studia le trasformazioni dell’interazione in un quadro di particolare assorbimento nei ruoli come nel gioco; dall’altro, parallelamente, nell’importante saggio Distanza dal ruolo, egli ricerca e classifica le possibilità del soggetto di agire diminuendo tale assorbimento nell’interazione normale. Goffman in questi saggi studia il massimo ed il minimo pen­ sabili di coinvolgimento in una interazione, sostenendo che essi non costituiscono i due estremi di una stessa scala, ma che entrambi possono verificarsi contemporaneamente a precise condizioni. Nel secondo saggio che ho citato, egli considera il prendere distanza da un ruolo come un comportamento che è innanzitutto di comunicazione, rappresenta cioè un modo tipico di segnalare agli altri che vogliamo separarci dal nostro attuale comportamento, che il significato che da esso sembra derivarne non ci appartiene e che l’identità che da esso può discendere non ci definisce. Prendere distanza dal ruolo, in­ somma, è un modo non solo di precisare i termini del proprio coinvolgimento nella situazione in relazione ad uno specifico self, ma rimanda alla ben più complessa questione dell’identità, cercando di chiarire i suoi limiti. Nel 1963 vede la luce il saggio più lungo di questo primo gruppo di scritti, Il comportamento in pubblico. In quest’o­ pera l’interesse principale di Goffman è volto alle interazioni non focalizzate ed ai coinvolgimenti spontanei che costitu­ iscono la vita sociale quotidiana: una conversazione téte à téte, la seduta di un comitato o di una riunione politica, una conferenza, un party, le conversazioni al ristorante, ecc. Egli ha come oggetto di studio, quindi, gli incontri quotidiani, l’or­ 36

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dine pubblico che predomina nei raggruppamenti sociali (cioè in un insieme di due o più persone) e l’interazione sociale che avviene al loro interno, non prendendo in considerazione quello che viene chiamato il “comportamento collettivo” (comportamento delle folle, i moti di piazza, le esplosioni di panico, le sommosse e simili). Analizza il comportamento appropriato alla situazione, giungendo alla conclusione che ciò che costituisce il contegno e la condotta appropriati in differenti tipi di raggruppamento è un qualcosa che viene deciso soprattutto dal tipo di occasione sociale che in essi si presenta. Lo studio delle regole di comportamento è, quindi, alla base di questo saggio, ma il problema a cui esso si rivolge è un altro: è quello riguardante il self e l’identità personale28. Assorbire un ruolo, infatti, significa anche perdersi in esso, e ciò che è perduto cos’altro è se non la propria identità perso­ nale ed il proprio io? Non è questo il luogo per soffermarmi ad analizzare specificamente la questione, mi limito solamente a dire che il “problema” del self e dell’identità caratterizzerà tutta l’opera goffmaniana. Stigma, saggio pubblicato nel 1963, riprende lo spirito della denuncia che già caratterizzava Asylums; si occupa di aspetti della tendenza, apparentemente irresistibile e quasi universale, a classificare gli altri e a tenere un comportamento diverso nei

28 Indubbiamente l’analisi goffmaniana del self è influenzata dalle teorie di G. H. Mead; ma oltre che al sociologo americano, penso che egli, nell’analisi del self e dell’identità personale, guardi anche all’esistenzialismo di Jean-Paul Sartre e in particolare alla divisione che il filosofo francese teorizza per l ’essere: ”L’essere ci è dato in due maniere fondamentali: come essere in sé e come essere per sé. Il primo tipo di essere s’identifica con tutto ciò che non è coscienza ma con cui la coscienza entra in rapporto: ossia, in definitiva, con le cose del mondo. Il secondo tipo di essere s’identifica con la coscienza stessa, la quale ha la prerogativa di essere presente a se stessa e alle cose. Di conseguenza, l’in sé è il dato che la coscienza trova davanti a se medesima, come qualcosa di opaco, che è ciò che è. Invece il per sé è la coscienza che, essendo presenza alle cose, ha la capacità di attribuire loro dei significati” [Sartre J. P, L'essere e il niente, 1943, trad. it. Mondatori, Milano, 1956].

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loro confronti a seconda della categoria sociale in cui li abbia­ mo messi. È abitudine consolidata, infatti, trattare una persona a seconda di alcuni particolari che la caratterizzano: attributi fisici, convinzioni religiose, istruzione, fisionomia, colore della pelle ed altre caratteristiche che di solito discendono dal caso o dalla propria origine. Egli distingue le stimmate in tre tipi oggettivi: le deformità fisiche, i difetti del carattere e le diffe­ renze di razza, nazionalità e religione. Più che le regole che governano l’interazione, in questo libro viene quindi messo a fuoco il modo in cui la classificazione differenziale imposta dalla società sulle persone si manifesta proprio all’interno della stessa interazione. Goffman sostiene che uno stigma non è un qualcosa che appartiene intrinsecamente al soggetto, quanto un significato sociale che è stato collegato, o meglio si è deposi­ tato, in una caratteristica del corpo e, come tale, non può che imporsi all’attenzione propria e altrui e, di conseguenza, non può essere lasciato fuori dalla scena dell’interazione. Il corpo infatti costituisce il primo dato certo in base al quale si orga­ nizza l’interazione; la prima caratteristica necessaria affinché questa sia possibile è, prima che i ruoli o i valori, l’esistenza di un idioma del corpo29 comprensibile e condiviso. Analizzando lo stigma egli distingue tra lo “screditato”, persona la cui caratteristica stigmatizzante è di per sé evidente o nota in anticipo, e lo “screditabile”, persona che anche se non ha una discrepanza ben nota e visibile, questa può sempre essere in qualunque momento e, quindi, rappresenta una minaccia che incombe costantemente. Così per Goffman chiunque abbia uno stigma è un “uomo a metà”, nel senso che le sue opportunità di vita, tramite l’esercizio delle pratiche discriminatorie, sono effettivamente ridotte.

29 Termine onnicomprensivo usato da Goffman con il quale indica il modo di vestirsi, il portamento, il movimento e la posizione, il volume della voce, gesti fisici come salutare con la mano, il trucco del volto o l’espressione generale delle proprie emozioni.

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In quest’opera, inoltre, egli riprende un’analisi del self già avviata nel saggio Distanza dal ruolo ed arriva a tematizzare la differenza tra due aspetti del self quali “l’identità sociale virtuale” e “l’identità sociale effettiva”. Col primo termine s’in­ tende l’immagine che cerchiamo di proiettare all’altra persona nel momento in cui la conosciamo, affinché egli possa avere una buona impressione di noi. Col secondo termine s’intende la nostra identità “effettiva”, cioè come siamo realmente; è un qualcosa che si basa sull’evidenza oggettiva30. A conclusione del saggio, Goffman ritiene tutti i membri della società giocatori del gioco dello stigma; egli scrive che ciascuno di noi ha un suo stigma, l’unica questione riguarda i diversi tipi che abbiamo sperimentato personalmente. Nel 1967 viene pubblicato Where the action is, saggio frutto della ricerca sul campo che Goffman intraprese quando andò a Berkeley, in particolare del periodo trascorso nei casinò del Nevada. Egli studia il gioco d’azzardo inteso come un modo emblematico di correre il rischio, e si sofferma in particolare sulle condizioni che precedono l’ingresso nel gioco. I giochi d’azzardo si distinguono dalle innumerevoli occasioni della vita quotidiana in cui le persone si assumono dei rischi e scommet­ tono su una decisione, per il fatto che i giochi sono praticati in sequenza: vale a dire che non si può passare al successivo se prima non si conclude il precedente. Il punto centrale del saggio è proprio la transizione dalla consequenzialità alla fatidicità, intesa come il segno della soglia tra il conservare un certo controllo sulle conseguenze delle proprie azioni e l’andare fuori controllo. Attraverso questo passaggio Goffman studia il self dell’individuo intendendo quest’ultimo come un soggetto, dotato di un proprio carattere, che liberamente si autodetermina.

30 Burns tenta di riassumere i concetti goffmaniani tirando in causa anche il pensiero meadiano. Per un approfondimento di queste tematiche però, data la complessità dell’argomento trattato, penso sia necessaria un’attenta lettura del libro in questione.

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Due anni dopo Where the action is, viene pubblicata la raccolta di saggi L ’interazione strategica, alla quale Goffman lavora per più di un anno durante la sua permanenza al Center for Internationals Affairs di Harvard31. In quest’opera il socio­ logo canadese descrive, analizza e classifica, da un parte, tutti i modi in cui le informazioni comunicate attraverso il linguaggio verbale o tramite il comportamento espressivo possono essere manipolate; dall’altra, i modi in cui esse possono essere sma­ scherate o fraintese. Goffman giunge a tre conclusioni sulle modalità dell’interazione: primo, nell’interazione faccia a faccia l’informazione che i partecipanti vogliono espressamente comunicare non è mai tutta quella che viene effettivamente trasmessa. Alcune espressioni, infatti, possono contenere delle informazioni tacite, la comprensione delle quali dipende dalla capacità interpretativa dell’altra persona. Secondo, quando si vuole comunicare delle informazioni lo si fa soprattutto nell’interazione faccia a faccia tra le persone. Terzo, i canali tramite i quali l’informazione viene trasmessa sono determi­ nati dagli assetti sociali. Per Goffman quindi, negli incontri, la valutazione dei motivi e delle intenzioni delle persone deve giocare una parte fondamentale. Nel 1971 viene pubblicato Relazioni in pubblico, libro avvertito da tutti i critici come una seria svolta teorica di Goffman, anche se non un suo definitivo gettare la maschera. Egli, attraverso la metafora etologica, studia la distribuzione e l’organizzazione ecologica sul territorio degli individui nel caotico e conflittuale ambiente urbano; analizza, come suo costume, le loro mosse, il loro contrassegnarsi dei territori, il loro affrontarsi ostile e i loro segnali di presentazione. Il materiale empirico su cui egli si basa sono le sue note “dal campo” raccolte in totale libertà uscendo da casa, le sue osservazioni colte sulla scena di una qualsiasi grande città

31 Dove lavora con Schelling con il quale nasce una reciproca influenza.

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contemporanea, il tutto integrato da materiali di vario tipo tra cui prevalgono le notizie di cronaca. Il sociologo canadese, con la sua etologia urbana dell’interazione, prende nettamen­ te le distanze dalla prospettiva dei funzionalisti che usavano l’interazione come illustrazione del funzionamento sistemico; egli invece, osservando fenomenologicamente i comportamenti nei luoghi pubblici, stila un catalogo di regole uniformi che disciplinano il comportamento di tutti i giorni e, con grande acume e spirito di profonda osservazione, individua l’esistenza di precisi rituali mediante i quali ci rassicuriamo continuamente sul nostro comportamento. Effettua, infine, una distinzione tra ordine normativo, caratterizzato dal suo vincolare al rispetto dei principi, e ordine dell’interazione che vincola invece al rispetto formale e rituale della regola d’indicare che si stanno rispettando le norme. Il 1975 è l’anno in cui vede la luce Frame Analysis, il libro più lungo e ambizioso di Goffman, sul quale concentrerò la mia attenzione nei capitoli seguenti. Con Gender Advertisements, opera del 1979, egli riprende l’analisi già condotta in Stigma ed esamina il modo in cui il sistema normativo della società, attraverso la classificazione differenziale che questa impone, opera nell’interazione sociale tra le persone. La sua analisi si concentra in maniera specifica sulla discriminazione di genere e, dopo aver passato in rassegna (e scartato) i soliti argomenti semplicistici che vedono nelle differenze biologiche una spiegazione sufficiente della discri­ minazione sessuale, arriva a sostenere che l’unico elemento che sostiene quest’ultima è costituito dai fattori strutturali. Le questioni riguardanti la discriminazione sessuale si radicano, quindi, in una vasta trama di espressioni ritualizzate che deno­ tano subordinazione. Goffman analizza le tematiche del gender attraverso: 1) la ritualizzazione del comportamento animale; 2) lo studio del complesso culturale che nasce nella vita delle corti europee e si caratterizza in varie forme di etichetta e codici d’o­ nore; 3) il rapporto genitore-figlio inteso come esperienza che 41

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ciascuno ha vissuto in maniera del tutto indipendente dal sesso. Le ultime due opere goffmaniane, datate primi anni ’80, sono: la raccolta di saggi Forme del parlare (1981), in cui vengono esaminati tutti gli scopi che si possono raggiungere attraverso il linguaggio e le diverse sfaccettature che questo può assumere, partendo dal presupposto che il parlare non è un esperire o un percepire gli avvenimenti e gli oggetti circostanti, ma è un fare, è una performance, una forma d’interazione e di azione a carattere sociale su ciò che si trova e che succede intorno a noi32; L ’ordine dell’interazione (1982), il discorso pubblicato postumo che Goffman doveva pronunciare durante il suo insediamento alla Presidenza dell’American Sociological Association e che invece fu impossibilitato a declamare per i problemi fisici che lo porteranno alla morte. QueU’aUocuzione, divenuta saggio, ha il pregio di essere l’unica opera in cui Goffman, notoriamente restio a commentare i propri scritti, “... effettua una ricognizi one del territorio sociologico che aveva scoperto, delinea quello che considerava il tema uni­ ficante della sua opera e ne esplora le connessioni con altre aree più tradizionali della sociologia3233”.

32 Nel suo studio sulle “forme del parlare” Goffman parte dalla filosofia del lin­ guaggio di Wittgenstein, ma anche dalla lettura delle opere di Austin. 33 Giglioli P P, Introduzione, in Goffman E., The Interaction Order, trad. it. L ’ordine dell’interazione, Armando editore, Roma, 1998.

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Dalla finestra verificò che tutto fosse a posto; il cielo e la terra. Manuel Vazquez Montalban

Chiunque abbia letto anche solo occasionalmente le opere di Goffman non può non aver avuto quella marcata impres­ sione di lucidità e penetrazione che è caratteristica dello stile del sociologo canadese, qualunque sia l’ambito della società che egli va ad analizzare. Fine acume, tagliente ironia, distinta eleganza, brillante capacità di penetrazione, sono senza dubbio alcune caratteristiche precipue dell’opera goffmaniana ma, come Lyman1, mi chiedo: “capiamo davvero la sua opera?”. Queste qualità stilistiche sono il sol pregio che caratterizza la sua opera, o c’è di più? I suoi libri sono stati utilizzati e analizzati da studiosi di diversi ambiti accademici: di solito gli economisti e i politologi si sono concentrati su L ’intera­ zione strategica; i critici verso gli scritti sulle istituzioni e gli psichiatri hanno avuto occhi solo per Asylums e Stigma; gli psicologi sociali hanno analizzato soprattutto La vita quo­ tidiana come rappresentazione o Il rituale dell’interazione, mentre Relazioni in pubblico è stato il libro preso in esame dagli studiosi della città. Così facendo, però, si corre il rischio di considerare Goffman un autore minore o comunque uno

1 Lyman S.M., Civilization: Contents, Discontents, Malcontents, in “Contemporary Sociology “, n. 2, pp. 360-366, 1973.

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studioso che, avendo “toccato” molti temi durante la sua vita, non si è mai concentrato su uno in particolare. L’accusa2 di essere uno studioso che si occupa di cose di poca importan­ za, sia per quanto riguarda l’esistenza individuale che per la struttura della società stessa, ha rischiato di classificare il sociologo canadese come autore minore o, cosa ancor più grave, superficiale e poco incisivo. Tale critica non ha potuto lasciare impassibile Goffman il quale, pur non rinunciando al suo metodo di analisi e al suo classico stile, ha deciso, a mio parere quasi come a voler dimostrare di poter insegnare l’arte a chiunque, di lanciarsi in un’opera ambiziosa e senza precedenti: lo studio dell’organizzazione dell’esperienza. Nasce così Frame Analysis.

2.1 Frame Analysis: influenze e caratteristiche generali In Frame Analysis, Goffman si è cimentato nuovamente, ma con un rinnovato impegno, col tema principale dell’interazione sociale. Il libro risente dell’influsso esercitato sul sociologo canadese da due nuovi interessi, la fenomenologia e l’etologia, e dalla rinascita di un’antica passione, quella che egli ha sempre dimostrato per la linguistica. Per quanto riguarda la fenomenologia è indubbio che il pensiero di Alfred Schutz, concernente lo studio del compor­ tamento in termini del suo significato e del suo senso, piuttosto che dei suoi meccanismi causali, colpì gli psicologi sociali e in generale tutti quei sociologi che gravitavano nell’orbita dell’interazionismo simbolico.

2 Nel 1971, durante la sua conferenza al Royal Institute of Philosophy, Frank Cioffi fu il primo a prendere di mira l ’opera goffmaniana accusandola di essere di scarsa importanza ed utilità poiché non rappresenta altro che un insieme di note ed osservazioni su argomenti di tutti i giorni che si conoscono alquanto bene. Molti, dopo di lui, criticheranno su queste basi le opere del sociologo canadese.

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Il secondo interesse, cioè l’etologia, pervase Goffman grazie agli studi sul comportamento animale che Gregory Bateson stava conducendo quando egli approdò a Berkeley; il sociologo canadese, infatti, cita chiaramente come fonte d’ispirazione il saggio batesoniano Una teoria del gioco e della fantasia, in cui l’autore solleva direttamente la questione della serietà e della non serietà, evidenziando quanto sorprendente sia l’esperienza, che molte volte non ci permette di distinguere con facilità cosa sia finzione e cosa realtà, di ciò che accade, e sostenendo l’ipo­ tesi che gli individui possono produrre confusione di framing intenzionalmente in coloro con cui stanno trattando. Inoltre, Goffman era affascinato dal modo letterario che Bateson aveva nel costruire i suoi libri, attingendo liberamente a frammenti, dialoghi, apologhi, con convergenze fulminanti ed inaspettate: è lecito pensare che Goffman abbia assimilato da Bateson la lezione che spesso conta più l’audacia dell’impresa conoscitiva che l’eventuale frammentarietà del risultato. Per quanto riguarda la linguistica, invece, dopo l’inte­ resse che Goffman aveva nutrito per questa materia durante il periodo trascorso ad Edimburgo, questa passione lo colse nuovamente grazie all’impatto rivoluzionario che ebbero le idee di Chomsky sulla “grammatica trasformazionale” e, nel caso di Goffman, questo interesse si consolidò grazie anche alla presenza a Berkeley di due studiosi del calibro di John Searle e H. P. Grice che coltivavano un ramo della scuola di filosofia linguistica di Oxford. Inoltre, egli cita chiaramente, come sua fonte d’ispirazione, il lavoro di John Austin, Senso e sensibilia, in cui viene analizzato il problema della realtà e dei diversi mondi che caratterizzano l’esperienza, e le Ricerche filosofiche di Wittgenstein. Frame Analysis è inoltre influenzato: dallo studio di uno studente di Austin, D.S.Schwayder, e dal suo libro La stra­ tificazione del comportamento; dal saggio di Barney Glaser e Anselm Strauss Contesti di consapevolezza e interazione sociale; e infine: 45

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“...dallo sforzo di quelli che studiano (o almeno pubblicano su) la frode, l’inganno, la misidentificazione ed altri effetti ottici, e il lavoro di quelli che studiano l’interazione strategica includendo il modo in cui il nascondere e lo svelare influiscono sulle definizioni della situazione” (p. 51)3. Il libro più lungo e ambizioso di Goffman, quindi, è carat­ terizzato da alcune particolarità alle quali l’autore non ci aveva abituato nelle sue precedenti opere. Egli, nell’introduzione a Frame Analysis, elenca in maniera abbastanza esplicita e dettagliata ogni influenza ispiratrice subita nello scrivere il libro: scrive esplicitamente, ad esempio, di percorrere il me­ desimo sentiero fenomenologico di Husserl, James e Schutz. Una esplicita ammissione delle influenze ispiratrici, questa, che sembra una reazione esasperata alle numerose critiche di chi lo accusava di non collocarsi nel dibattito, di essere restio nell’uso delle citazioni e, a volte, di non ammettere le proprie fonti. I suoi scritti precedenti, infatti, quelli in cui egli si occupava di analizzare il modo in cui noi stiamo attenti al nostro modo di vestirci o comportarci a secondo dei posti, delle occasioni e delle persone in mezzo a cui di volta in volta ci troviamo, si basavano sul metodo dell’osservazione diretta e gli scritti degli altri scienziati sociali venivano citati per lo più come semplici fonti di informazioni supplementari che egli era riuscito a scovare nelle loro relazioni di ricerca. È come se il sociologo canadese, alquanto irritato da un atteggiamento stolidamente indistruttibile della critica nel non volerlo capire nei propri termini, si lasciasse andare scrivendo un’introdu­ zione orientativa nella quale va ad elencare tutte le influenze subite, disparate e diseguali4 così come gli si sono presentate

3 Questa e le seguenti citazioni, dove non ulteriormente specificato, sono tratte da Goffman E., Frame Analysis, trad. it. Armando, Roma, 2001. 4 Bisogna comunque notare che l’elenco che ci viene fornito non è poi lunghis­ simo, come a voler dimostrare che ogni libro è in fondo costruito su pochissime

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nella realtà. Sciorinando i suoi ispiratori diretti ed indiretti mette a fuoco il tema dell’opera, esplicita il metodo con cui ha intenzione di condurre l’analisi, scavando così un solco dalle sue precedenti “classiche” introduzioni: mi riferisco a quelle brevissime, intense, in perfetto stile simmeliano, scritte con quell’atteggiamento tipicamente goffmaniano che dava ben poca importanza alle premesse di un’introduzione, concen­ trandosi invece sui contributi effettivi dell’opera. Ciò deve far riflettere, perché se Goffman accetta di “scen­ dere a compromessi” con le abitudini accademiche del tempo, è per dimostrare di essere capace di scrivere una grande opera secondo gli usi della letteratura vigente. Ritengo che da queste piccole cose sia più facile analizzare in profondità l’autore in questione, cogliendo a poco a poco le varie sfumature che il suo stile ci presenta, per arrivare ad intuirne la grandezza. Grandezza che è chiaramente manifesta nelle due splendide pagine conclusive dell’introduzione in cui Goffman, parodiando i più comuni rituali accademici, com­ menta la propria introduzione, i commenti all’introduzione, i commenti ai commenti e così via, mostrando ciò di cui parla il libro; in pratica ci offre una perfetta illustrazione del modo di procedere della stessa frame analysis, porgendoci nello stesso tempo il primo insegnamento: l ’autoriflessività non può essere infinita, ha un limite anch’essa; l ’introduzione, infatti, può essere reframed molte volte, ma non all’infinito. Come detto in precedenza, quindi, l’oggetto dell’attenzione di Goffman è mutato, non è più l’analisi dell’organizzazione della società, bensì, quella dell’organizzazione dell’esperienza; non solo le forme e i meccanismi dell’interazione sociale, ma anche e soprattutto le credenze, le categorie mentali, l’attivo riflettere

idee e su una decina di reali influenze; fra queste, i classici possono avere un discreto peso, ma possono tranquillamente venir accostati al contributo di un autore secondario nel quale ci si sia imbattuti per caso, o alla frase che ci può aver detto un amico.

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con cui ci rappresentiamo come la società lavora e mediante cui ci è possibile attribuire un senso al mondo. Frame Analysis è un libro difficile, dalla non facile lettura (a differenza delle altre opere goffmaniane); è un libro in cui in molte parti è la prolissità a farla da padrone; è un libro che parla di psicologia cognitiva, di sociologia o di antropologia; è un libro che, come detto, trae le sue basi dalle teorie e dagli interessi di studiosi come Brentano, Husserl, Wittgenstein, Austin e, soprattutto, William James e Alfred Schutz. Ma nello stesso tempo è un libro bellissimo. È come se l’autore dipin­ gesse un quadro che ha per oggetto l’esperienza e, prendendoci per mano, ce lo mostrasse un po’ per volta, dandoci chiavi di lettura sempre diverse. Il tutto prende inizio da una semplice domanda - “In quali circostanze pensiamo che le cose siano reali?” - che lo stesso James si era posto nel suo saggio del 1869, La percezione della realtà5, e alla quale aveva risposto (enfatizzando fattori come l’attenzione selettiva, il coinvolgimento intimo e la non contraddizione), tentando di differenziare i diversi mondi che la nostra attenzione e il nostro interesse possono rendere reali per noi, i possibili sotto-universi cioè, in ognuno dei quali un oggetto di un determinato tipo può avere il suo proprio essere: esistono così il mondo dei sensi, il mondo degli og­ getti scientifici, il mondo delle verità filosofiche astratte, il mondo del mito e delle credenze soprannaturali, il mondo dei pazzi, ecc. In altre parole, come dice Aron Gurwitsch, James aveva avanzato la possibilità che vi fossero diversi “ordini di realtà”, ognuno dei quali ha il suo separato e specifico stile di esistenza e ogni mondo, nel momento in cui gli si presta attenzione, è reale a modo suo, solo che questa realtà decade insieme all’at-5

5James W., La percezione della realtà, in “Principi di psicologia”, Società editrice Libraria, Milano, 1909.

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tenzione. In seguito James aveva riconosciuto come principale, dotato di un suo “status speciale”, il mondo dei sensi, essendo quello in cui noi consideriamo la realtà come più reale, quello in cui crediamo di più, quello a cui gli altri mondi devono cedere il passo. A questo punto però, Goffman muove a James l’accusa di non compromettersi utilizzando l’espediente di giocare scandalosamente con la parola “mondo” (o “realtà”); infatti, secondo il sociologo canadese: “Ciò che egli [James] voleva intendere non era il mondo in generale ma il mondo attuale di una particolare persona - e, in realtà, come si sosterrà, nemmeno quello” (p. 48). La medesima critica Goffman muove a Schutz che, nel suo saggio del 1945 intitolato Sulle realtà multiple6, considerava prioritaria nell’esperienza una particolare sfera, questa volta il “mondo del lavorare”. Ad entrambi il sociologo canadese rimprovera: “... di essere poco convincenti nel fornire spiegazioni riguardo a quanti diversi “mondi” ci sono, e se la vita quotidiana, perfet­ tamente conscia, può essere vista come un livello dell’essere prodotto dalle regole, oppure no” (p. 50). Resta l’idea che vi siano alcuni mondi diversi, che vanno dal mondo quotidiano al mondo dell’inusione o della finzio­ ne che noi esperiamo in qualche modo come reali essendo strutturalmente simili, ma non abbiamo nessun modo di usare questa somiglianza strutturale per gettare più luce su ciò che pensiamo sia la realtà quotidiana. I due autori quindi non rispondono in maniera esauriente alla questione in pre­ cedenza citata.

6 Schutz A., Sulle realtà multiple, in “Saggi sociologici”, Utet, Torino, 1979.

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Per la prima volta quindi, Goffman entra sistematicamente in un dibattito in cui ha molte obiezioni da fare a tutti coloro che in sociologia ritengono di essere i veri depositari dell’analisi fenomenologica. Il sociologo canadese, allora, s’impegna a elaborare una risposta alla domanda di James, pur sapendo che più che una, di risposte a questo interrogativo ce ne sarebbero a iosa: basti pensare che la risposta data da un particolare individuo coinvolto in una particolare situazione può essere diversa da quella di qualcun altro, e questo perché è diverso il suo “senso comune”, per dirla con Schutz7. Quando, però, Goffman afferma che il suo obiettivo pri­ mario è quello di descrivere le cose così come esse sono in se stesse, sembra avvicinarsi più che ad un’analisi del senso comune alla fenomenologia, allo studio cioè di come le cose appaiono, di come si mostrano. Più che discernere la natura del­ la realtà ultima delle cose così come appaiono, però, egli cerca il significato che esse hanno per noi, o meglio quello che noi diamo loro nel contesto in cui con queste abbiamo a che fare: “...sia che venga chiesto esplicitamente, come in momenti di confusione e dubbio, sia tacitamente, durante occasioni di consuetudinaria certezza, la risposta è desunta dal modo in cui gli individui procedono con le azioni in quel momento. Il mio fine è provare a isolare alcune delle strutture basilari della comprensione disponibili nella nostra società per dare un senso agli eventi, e analizzare le particolari vulnerabilità a cui questi frames di riferimento sono soggetti” (pp. 52-53). Il tentativo di Goffman, insomma, è quello di non pensare il

7 Burns c’informa che questa tesi è meglio conosciuta come il problema Rashomon che è il titolo di un celebre film di Kurosawa del 1950 in cui un determinato episodio veniva raccontato, reinterpretato e riconsiderato in modo diverso dai vari personaggi che lo avevano vissuto. (Burns, p. 333, 1997).

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reale come qualità intrinseca dei nostri oggetti di attenzione, ma di isolare un numero finito e ricorrente di contesti di compren­ sione, quelli che egli chiama frames, che incorniciano le varie situazioni sociali dando loro senso. Contesti di comprensione che ci permettono di esperire il mondo che ci circonda e gli eventi e le attività che intraprendiamo, a cui prendiamo parte e che osserviamo. Goffman affronta questo problema senza cercare un signi­ ficato che stia al di sotto della superficie di come appaiono le cose, ma esaminando invece i differenti modi in cui l’esperienza del mondo arriva sino a noi e, nello stesso tempo, le diverse maniere in cui il mondo sembra “tenersi insieme”, esaminando anche i modi in cui questo si sgretola o può essere fatto cadere a pezzi. In quest’ analisi Goffman usa tutte le metafore che aveva in precedenza escogitato per studiare aspetti dell’interazione, dal teatro al gioco, al rituale, alla manipolazione strategica, ma in Frame Analysis muta la prospettiva attraverso la quale egli si riferisce a queste metafore: se si guarda ad esempio al teatro, alla fine dell’analisi c ’è una netta inversione della prospettiva. Se nelle precedenti opere il teatro era infatti usato come meta­ fora della vita quotidiana perché nella realtà ci comportiamo come se fossimo su un palcoscenico, ora l’interesse è studiare con quali metafore funziona il teatro vero. Operando con il concetto di ruolo anziché con quello di self situazionale, Goffman distingue i molti aspetti coinvolti nel nostro andare a teatro, il nostro poter essere un semplice utente oppure uno spettatore e soprattutto, la nostra possibilità di mutare il senso del nostro farci coinvolgere a diversi gradi di consapevolezza. In Frame Analysis Goffman, utilizzando differenti materiali (ritagli di quotidiani e fumetti, romanzi, film e opere teatrali), si propone di parlare dell’organizzazione dell’esperienza e non dell’organizzazione della società. Scrive chiaramente di voler trattare la struttura dell’esperienza che gli individui applicano 51

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in qualsiasi momento della loro vita sociale. Nello stesso tempo prende nettamente le distanze da ogni eventuale lettura politica sostenendo che la sua analisi non riguarda le differenze tra classi avvantaggiate e svantaggiate ma, anzi, distoglie l’interesse da tali questioni. Con la sua analisi del frame non ha nessuna intenzione di influenzare la gente, “addormentandola” con le sue teorie, ma: “.. .semplicemente introdurmi furtivamente e osservare come russa la gente” (p. 56).

2.2 Frame, framework e key Goffman inizia la sua analisi dell’organizzazione dell’e­ sperienza basandosi sugli studi condotti da Gregory Bateson sulle scimmie allo zoo di San Francisco; l’antropologo inglese, infatti, aveva condotto una serie di studi sul comportamento delle scimmie, delle lontre e dei delfini al fine di determinare se gli animali fossero capaci di riconoscere la natura simbolica dei segni che emettevano e ricevevano. Poiché questi animali s’impegnavano in azioni giocose che erano praticamente identiche a quelle del combattimento, come facevano essi a capire che quello era un gioco e non una vera lotta? L’unica spiegazione che diede Bateson era che gli animali erano capaci di scambiarsi segnali che veicolavano il messaggio “questo è un gioco”. Ciò conduce Bateson alla discussione del frame: cosa s’intende per frame? Egli risponde che il frame è ciò che dà significato alle parole: c ’è bisogno di inquadrare, incorni­ ciare una parola o una frase, altrimenti diventa difficile, se non impossibile, la comprensione. Nei rapporti di comunicazione il fraintendimento e l’incomprensione (per esempio non co­ gliere l’aspetto ironico di una frase) possono essere spiegati come l’incapacità di percepire la cornice al cui interno una frase è detta, dunque, come incapacità di apprendere il conte­

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sto. Per contesto Bateson intende un segnale portatore di un messaggio che, come lui stesso dice, è “metacomunicativo”, dove per “metacomunicazione” s’intende la “comunicazione sulla comunicazione”, un qualcosa che racchiude tutti quegli elementi e affermazioni sulla codificazione scambiati tra coloro che comunicano. Così nell’analizzare la comunicazione tra due persone e la verità che ognuno percepisce, bisogna tener conto sia del con­ tenuto della comunicazione sia dei messaggi che definiscono il contesto o frame in cui tale messaggio deve essere interpretato. Alcuni esempi possono essere i segni di punteggiatura che incorniciano una pausa o una citazione in una pagina scritta. Goffman, pur elaborando il concetto di frame ben al di là di quanto ha fatto Bateson nei suoi saggi, alla fine non si discosta molto dalla nozione originaria; il frame di Goffman contiene gran parte di ciò che gli psicologi intendono con il concetto di “set mentale”, cioè la risposta preordinata in base alle espe­ rienze passate di un individuo che è orientata a interpretare e a valutare la situazione in modo da guidare le sue azioni. Sia nel concetto di frame che in quello di “set mentale” è chiara­ mente insita l’idea che la percezione sia un’esplorazione ed un controllo attivo dell’ambiente. I frames di Goffman, è bene precisarlo, non sono rigidi, bensì mobili ed incerti ed imparare a maneggiarli è un’arte decisiva per la nostra esistenza, proprio perché facendolo riusciamo a “muoverci” nella quotidianità organizzando di conseguenza la nostra esperienza. Dal concetto di frame a quello di frameworks il passo è breve, e Goffman descrive il concetto di strutture primarie o frameworks in maniera chiarissima all’inizio del secondo capitolo di Frame Analysis: “Quando l’individuo della nostra società occidentale riconosce un particolare evento, tende [...] a implicare in questa risposta una o più strutture o schemi d’interpretazione di un certo tipo

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che può essere definito primario. Dico primario perché l’ap­ plicazione di tale struttura o prospettiva interpretativa è vista da quelli che la applicano come non dipendente da o riferibile ad alcuna interpretazione precedente o “originale”; infatti una struttura primaria è considerata capace di tradurre ciò che altrimenti rappresenterebbe un aspetto senza significato della situazione, in qualcosa di significativo” (p. 65, corsivo mio). Con questa definizione il sociologo canadese ci fa capire che le strutture primarie sono fondamentali per riuscire a vivere quotidianamente, riconoscendo la maggior parte delle situazioni in cui ci troviamo coinvolti, e permettendoci così di organizzare la nostra esperienza. I frameworks primari, quindi, rappresentano il primo passo per “capire” una situazione e, di conseguenza, per poterci destreggiare con cognizione al suo in­ terno; essi rappresentano per Goffman il principio organizzatore tramite il quale il mondo della “realtà quotidiana” è sostenuto dalla comprensione intersoggettiva. Senza l’applicazione delle strutture primarie saremmo impossibilitati a “muoverci” nel quotidiano poiché non saremmo in grado di capire “dove” ci troviamo. Sono coinvolte delle premesse organizzative e queste, si badi bene, sono qualcosa a cui si arriva con cognizione, non qualcosa che la cognizione crea o genera. Data la comprensione di ciò che sta succedendo, gli individui adattano le loro azioni a questa comprensione e simultaneamente si accorgono che il mondo circostante sostiene questo adattamento. Attraverso il framework compiamo quel “lavoro d’inqua­ dramento” attraverso il quale rendiamo intelligibile l’evento che ci troviamo ad affrontare: di solito, inizialmente, vengono attivati prototipi e schemi generalizzati, costruiti in base all’e­ sperienza precedente, che servono come prime approssimazio­ ni, che vengono poi rifinite o corrette man mano che aumenta l’informazione disponibile. Di conseguenza il nostro “lavoro di inquadramento” consiste in una serie di sforzi reiterati di riconoscere che cosa si trova o sta succedendo in un particolare contesto. L’individuo compie questa operazione ordinando 54

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in modo essenziale ciò che percepisce o esperisce e così, in qualche modo, dà ad esso un significato. I frameworks primari si dividono in due tipi: quelli naturali e quelli sociali. Del primo tipo fanno parte i frameworks che sono determinati dal mondo fisico che è organizzato dalle inter­ pretazioni che ne danno le scienze naturali. Tutti gli eventi visti come non indirizzati, non orientati, inanimati, non guidati sono interpretati come dovuti interamente a determinanti naturali. Goffman osserva che “nessuna forza di volontà interferisce causalmente e intenzionalmente, che nessun attore guida ininterrottamente il risultato”. Egli ci porta il chiaro esempio dato dalle condizioni del tempo in un bollettino meteorologico. I frameworks sociali, d’altra parte, vanno concepiti es­ senzialmente come un patrimonio di conoscenze che sono fondamentali per la nostra interpretazione dei motivi e delle intenzioni degli altri. Le strutture sociali “forniscono una com­ prensione di sfondo per gli eventi che includono la volontà, lo scopo e lo sforzo di controllo di un’intelligenza, una entità agente viva di cui la più importante è l’essere umano”(p. 66). L’imputazione di specifici motivi e intenzioni entra a far parte del processo volto a selezionare tra i parecchi frameworks sociali quello che di volta in volta è applicabile e, inoltre, introduce la valutazione delle azioni dal punto di vista della loro “onestà, economia, sicurezza, tatto, buon gusto e così via”(p. 66). Questa distinzione tuttavia, non impedisce ai frameworks primari di essere in qualche modo integrati in modo tale da formare un”framework di frameworks” poiché: “... sebbene gli eventi naturali si verificano senza l’intervento dell’intelligenza, le azioni intelligenti non possono essere effettuate efficacemente senza entrare nell’ordine naturale. Perciò ogni segmento di un’azione socialmente guidata può essere parzialmente analizzato all’interno di uno schema naturale” (p. 67).

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Questo “schema di schemi” allora, va a fornire un framework comune per l ’organizzazione della percezione e dell’esperienza. Quindi noi tendiamo a percepire gli eventi in termini di frameworks primari e il tipo di framework che impieghiamo fornisce un modo di descrivere l’evento al quale è applicato. Tuttavia, nonostante l’importanza che rivestono per una sicura conduzione della nostra vita, i frameworks primari possono essere sfidati e sovvertiti o messi in dubbio in determinate situazioni. Goffman, riportando ritagli di articoli giornalistici, fa un elenco di circostanze in cui ciò si può verificare: - quando si verifica un evento che porta gli osservatori a dubitare del loro approccio complessivo alle situazioni, poi­ ché sembra che per spiegare l’avvenimento dovranno essere considerati nuovi tipi di forze naturali o nuovi tipi di “capacità di guida”. Si tratta di quello che Goffman chiama “complesso stupefacente” e che riguarda tutti quei casi incredibili di “visite e comunicazioni dallo spazio, miracolose guarigioni religiose, avvistamenti di mostri marini, levitazioni, contatti con i morti e così via”(p. 83). Sono eventi stupefacenti che implicano l’esistenza di forze naturali straordinarie; - quando c’è l’esibizione di “imprese rischiose” o “bra­ vate”, cioè dei casi in cui il mantenimento della guida e del controllo da parte di un agente che ha volontà, è visto come quasi impossibile. In questo ambito rientrano le azioni di prestigiatori, equilibristi, cavallerizzi, surfisti, sciatori, lanciatori di coltelli, ecc. Oltre a questi esempi elencati, rientrano nell’insieme delle “bravate” anche gli spettacoli degli animali che si vedono ai circhi; - i “pasticci”, cioè quelle occasioni in cui “il corpo o un altro oggetto che si credeva fosse sotto una direzione sicura, inaspettatamente si libera, devia dal proprio corso o altrimenti sfugge al controllo, diventando completamente soggetto a forze naturali, con la conseguente interruzione della vita ordinaria” (p. 56

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84). Rientrano in questa categoria le “cantonate”, i “granchi” e le “gaffe”. Bisogna evidenziare che la differenza tra una bravata ed un pasticcio consiste nel fatto che la prima si verifica nei casi in cui noi potremmo aspettarci o passare sopra ad una perdita di controllo, il secondo, invece, accade quando nonostante non si ritenga necessario uno sforzo esemplare per mantenere il controllo, questo viene comunque perso; - eventi significativi che, alla fine, possono essere consi­ derati come prodotti dal caso. Caso, coincidenza, fortuna, tutti fattori casuali che influenzano o guidano gli eventi, ma poiché non è implicata nessuna responsabilità, si ha qualcosa come una struttura naturale, con la sola eccezione che “gli ingredienti sui quali operano le forze naturali sono qui azioni socialmente guidate”(p. 84); - eventi scherzosi che, però, essendo difficile da distinguere da quelli reali, creano tensione e disturbo fino a quando non sia definitivamente chiarita la loro natura. Poiché noi crediamo che il mondo possa essere totalmente percepito in termini di eventi naturali o azioni guidate, e che ogni evento possa appartenere ad una di queste categorie, sembra evidente che è necessario un mezzo per affrontare cedi­ menti e imprecisioni. Questa funzione è espletata proprio dalle nozioni culturali di “pasticcio” e casualità, che ci permettono di trovare un accordo con gli eventi che, altrimenti, sarebbero d’imbarazzo al nostro sistema di analisi. Goffman tiene a precisare un punto: le prospettive pri­ marie, sia quelle naturali che quelle sociali, influenzano più persone che quelle coinvolte nell’attività stessa; anche gli spettatori che semplicemente osservano sono profondamente coinvolti. Difficilmente, infatti, possiamo guardare qualcosa senza applicare una struttura primaria che ci consenta d’in­ quadrare la situazione e fornirci una chiave di lettura adeguata alla circostanza. Non a caso, nella precedente proposizione, ho usato la pa­ rola chiave. Key, infatti, traduzione inglese di “chiave”, è per 57

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Goffman concetto di fondamentale importanza nell’analisi del frame. Per lui il key è: “... quell’insieme di convenzioni sulla base delle quali una data attività, già significativa in termini di una qualche struttura primaria, viene trasformata in qualcosa modellato su questa attività, ma visto dai partecipanti come qualcos’altro” (p. 84). Cercherò di chiarire meglio il concetto. Attraverso il key abbiamo la possibilità di trasformare l’attività che stiamo esperendo in un altro tipo di attività dalle implicazioni diffe­ renti. Ad esempio, quando ci travestiamo o usiamo la mimica per fare di una sequenza innocua una sequenza minacciosa, o di un combattimento un gioco. Pensiamo ai giochi che fanno i bambini: quando giocano a fare gli “indiani” basta un urlo o un particolare tipo di abbigliamento perché si sentano real­ mente nell’antico West a dare la caccia ai bisonti. Sappiamo benissimo che non è la realtà ma si tratta semplicemente di un gioco, eppure, quando partecipiamo ai loro giochi, prestandoci ad essere loro “prigionieri” o “compagni”, altro non facciamo che applicare un key a quella situazione: abbiamo cioè “messo in chiave” quella situazione. Un altro esempio, riportato da Goffman, ci viene fornito dall’analisi batesoniana del comportamento delle lontre: quan­ do queste si rincorrono e sembrano aggredirsi a vicenda non lo fanno realmente, le loro azioni si fermano prima dell’aggres­ sione vera e propria, “si verifica un comportamento simile al mordere, ma nessuno viene morso sul serio”(p. 86). Sorge spontanea la domanda che già si era posto Bateson: come distinguere la lotta dal gioco? Come fanno i partecipanti alla situazione ad essere pienamente consapevoli della distin­ zione? Goffman risponde che ciò è possibile grazie all’uso di “marcatori”, ovvero di prove che mostrano che l’attività è trasformata: i partecipanti si astengono dall’impiego della propria totale forza e competenza; l’espressività di certi atti

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viene esagerata; c’è una buona dose di ripetizione, interruzioni e riprese degli atti. Ci sono, inoltre, dei segni che solitamente, ma non sempre, demarcano l’inizio e la fine della sequenza di gioco: ad esempio un bambino che prende in mano una freccia di plastica puntandola minacciosamente verso il suo coetaneo è come se dicesse “giochiamo agli indiani”, mettendo quindi “in chiave” la situazione; lo stesso bambino che getta via la freccia abbracciando il compagno di giochi ritorna alla vita “reale” eliminando la precedente chiave giocosa. Questi limiti così segnalati vengono chiamati brackets o parentesi dal sociologo canadese. Il key, quindi, è un elemento del frameworks: mentre la struttura primaria ci permette d’incorniciare la situazione, di capire dove ci troviamo, il key ci permette di “entrare dentro” la situazione, di “metterla in chiave” e cogliere le implicazioni e le sfumature implicite in essa. Il key allora gioca un ruolo cruciale nel determinare cos’è che pensiamo stia realmente accadendo. Chiaramente non tutte le azioni hanno obbligatoriamente un key da applicare: quelle incorniciate interamente nei termini di una struttura primaria si definiscono reali o effettive, si dice cioè che esse stanno accadendo realmente; la “messa in chiave” o keying di queste azioni, invece, ci indica qualcosa che non è reale allo stesso modo, che non sta effettivamente accaden­ do. I bambini che giocano agli indiani, non stanno realmente tirandosi le frecce o facendosi male, stanno solo giocando; le lontre non si attaccano per farsi realmente del male, stanno solo giocando. A questo punto Goffman ritiene opportuno effettuare un tentativo per esaminare alcuni dei keys fondamentali impiegati all’interno della nostra società. Cinque sono gli ambiti presi in considerazione: finzione, competizioni, cerimoniali, prove tecniche e rifondamenti. 1) Finzione. Con questo termine si indicano quei passatempi o intrattenimenti che consistono nell’imitazione dichiarata ed 59

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evidente di un’attività reale. La ragione che causa la messa in atto delle finzioni è data dalla soddisfazione immediata, che questo tipo di operazione procura. Il gioco o giocosità, del quale ho analizzato alcune forme in precedenza, è un tipo di finzione. Un’altra è la fantasia o il sogno ad occhi aperti, voli della mente di solito brevi e non ben organizzati anche se un individuo può passare molto tempo occupato in tal modo. Altri esempi di finzione sono dati dai cosiddetti “copioni dramma­ tici”, termine che abbraccia non solo il teatro (da cui Goffman trae innumerevoli esempi), la radio e la televisione ma anche i libri, i giornali e le riviste. 2) Competizioni. Gli sport come il pugilato, la corsa dei cavalli, i tornei, la caccia alla volpe sono alcuni esempi. In questi casi al modello originario, che sembra essere quello del combattimento selvaggio e della pura sopravvivenza, le regole dello sport applicano un key che fornisce restrizioni del livello e del modo di aggressione e che stabilisce un limite oltre il quale non ci si può spingere. 3) Cerimoniali. In essi accade qualcosa di diverso dall’atti­ vità ordinaria che viene pianificato in tutti i particolari. Esempi sono i matrimoni, i funerali e altre attività ritualizzate; in questi casi, un’intera rete di azioni viene progettata in anticipo, si pos­ sono disporre prove di ciò che deve essere svolto distinguendo, chiaramente, tra prova e rappresentazione effettiva. Anch’esse sono “copioni drammatici”, ma la differenza tra una cerimonia e una rappresentazione teatrale, però, è che la seconda “fornisce una chiave alla vita”, mentre la prima “fornisce una chiave ad un evento”. L’attore, che nelle rappresentazioni teatrali appare come un altro da sé, nei cerimoniali “mette in chiave” l’evento e si comporta di conseguenza assumendosi il compito di rappresentare e di riassumere se stesso in uno dei suoi ruoli centrali: genitore, sposo, cittadino, ecc. 4) Prove tecniche. Sono delle sequenze di attività ordinaria che vengono però eseguite al di fuori del loro abituale contesto per fini utilitaristici diversi da quelli della rappresentazione 60

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originale. Sono delle “prove” che hanno lo scopo di migliorare l’esecuzione della prestazione “reale” in senso stretto. Quando un rituale sociale o una rappresentazione teatrale deve essere eseguita alla perfezione, infatti, si provano tutte le parti per riuscire a creare un’anticipazione completa di ciò che avverrà in circostanze reali. Vanno considerate come prove tecniche anche: le “dimostrazioni” o “le esibizioni”, che permettono di ottenere un’immagine fedele di come viene svolta una particolare attività; le registrazioni ripetitive di eventi, come testimonianze scritte o fotografie che testimoniano di qualcosa che è avvenuto in passato; gli esperimenti e i giochi di ruolo come quelli impiegati da qualche psicoterapeuta con lo scopo di far “mettere in chiave” a un attore una qualche esperienza passata e coglierne così particolari aspetti. È importante sottolineare che per applicare senza problemi il termine key è necessario che tutti i partecipanti condivida­ no la stessa valutazione di ciò che sta accadendo mentre sta accadendo. 5) Rifondamenti. Ci si riferisce ad attività che ribaltano alcuni degli assunti di base degli attori ordinari. Si tratta di attività in cui le intenzioni o i motivi di uno o più partecipanti possono essere molto differenti da quelli che normalmente ci si aspetterebbe. Un esempio può essere rappresentato da una persona benestante8 che fa la commessa a una vendita di be­ neficenza, o da certi impiegati di casinò che si fanno passare per membri del pubblico per fare in modo che tutto vada per il verso giusto. È chiaro che tutte queste “trasformazioni-chiave”, cioè si­ tuazioni, attività ed esperienze situate a vari gradi di distanza

8Goffman, a tal proposito, riporta il simpatico esempio della principessa d’Inghil­ terra Margherita che vendeva per beneficenza calze in un mercatino; il dialogo che avviene tra un giovane ragazzo del popolo (nonostante egli sia imbarazzatissimo nelle vesti di cliente) e il giovane membro della famiglia reale indica benissimo la forza del key.

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dai frameworks primari della realtà, tendono ad essere limitate dal grado della loro appropriatezza, da standard di buon gusto e così via. La riproduzione di eventi della realtà nei giornali, nei film e in altre forme di registrazione è limitata, dai diritti della persona o delle persone interessate. Si ricordi che attraverso un’operazione di “messa in chiave” possiamo tradurre solo ciò che è già dotato di senso in termini di un framework primario. Inoltre: “I keyings sembrano variare secondo il livello di trasforma­ zione che producono. Quando un romanzo è trasposto in una rappresentazione teatrale, si può dire che la trasformazione cambi in svariate direzioni dall’impreciso (o distante) al fedele (o vicino), e questo dipende dal grado di libertà assunto rispetto al testo originale. Un secondo problema riguarderà il frame in sé: una storia presentata in un romanzo sembra apparire in forma più completa di quando è presentata in uno spettacolo di burattini” (p. 112). A loro volta le trasformazioni in “chiave” possono essere oggetto di un’ulteriore trasformazione in “chiave”: in questo caso si parla di rekeying. Esso non opera semplicemente su qualcosa che è definito nei termini di un framework primario, ma piuttosto su una “messa in chiave” di quelle definizioni. È necessario che la struttura primaria rimanga, altrimenti non ci sarebbe contenuto, ma è la “messa in chiave” di quella strut­ tura, il suo keying, a costruire il materiale che viene trasposto. A questo punto Goffman inserisce nella sua analisi un’utile chiarificazione; ci dice infatti che, data la possibilità che ogni frame incorpori un rekeying, diventa conveniente pensare a ogni trasformazione come l’aggiunta di uno “strato” o “lamina” dell’attività: una è la stratificazione più profonda in cui l’attività drammatica può entrare in gioco per assorbire il partecipante; l’altra è la lamina più esterna, il margine o rim del frame, che c’informa sul genere di stato che ha l’attività nel mondo reale, a prescindere dalla complessità delle lamine interne. 62

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E’ importante notare che nel caso in cui non ci sia un keying dell’attività e questa venga definita soltanto nei termini di strut­ tura primaria, “il margine e il centro più profondo si possono considerare la stessa cosa.” Una trasformazione può quindi contenerne un’altra e un’al­ tra ancora e questo gioco ad incastro è potenzialmente senza fine; più che a una sorta di “cipolla cognitiva”9, l’immagine della realtà che Goffman ci propone ricorda le scatole cinesi in cui la più grande ne contiene una più piccola e così via fino ad arrivare alla scatola più piccola, e ciò fa capire che anche nella vita sociale vi sono dei limiti alle trasformazioni della realtà. Il primo è biologico: oltre un certo livello infatti, la capacità cognitiva umana non è più in grado di processare ul­ teriori trasformazioni del significato di un’attività; il secondo limite è funzionale: se non esistesse una fiducia diffusa nelle apparenze normali infatti, non sarebbe possibile la società nella quale viviamo tutti i giorni.

2.3 Complotti e fabbricazioni Con il capitolo 4 si entra in quello che possiamo definire “il mondo di Goffman”, vale a dire il mondo della simulazione, dell’inganno, delle false facciate e dell’arte di spiazzare l’av­ versario, campo in cui il sociologo canadese è maestro. Come nel suo primo saggio On cooling on the mark out, egli dimostra come la nostra vita quotidiana, le nostre espe­ rienze e le nostre percezioni siano spesso intrise di falsità,

9 È la Trifiletti ad usare questa metafora per rappresentare l ’idea goffmaniana delle laminazioni nella realtà. Penso però che sia più adatta l ’iimmagine delle scatole cinesi perché credo che Goffman intenda le laminazioni a “doppio senso”: anche dalla laminazione più profonda si può sempre tornare indietro, e questo concetto, spiegato con l ’immagine degli “strati della cipolla” , non viene reso pienamente. [Trifiletti, 353, 1991].

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simulazione e inganno anche se quasi sempre noi ne siamo consapevoli. Nel precedente paragrafo ho parlato di trasformazioni “in chiave”, spiegando che l’attività può essere trasformata in un tipo assolutamente diverso di esperienza soggettivamente vissuta o percepita. Detto in modo diverso, la trasformazione “in chiave” rappresenta un modo basilare in cui l’attività è vulnerabile. Ora Goffman c’informa che un tipo di trasformazione può essere costituita dalle “fabbricazioni”, i modi, cioè, con i quali s’inducono gli altri a nutrire convinzioni errate su ciò che sta accadendo: “È implicito un progetto malvagio, un complotto o un piano ingannevole che porta - quando si realizza - a una falsificazione di una parte del mondo. Sembrerebbe dunque che un segmento di attività può essere presente nel mondo in due modi, può servire come modello dal cui disegno si possono produrre due tipi di rielaborazione: il keying o la fabbricazione” (p. 125). Nel caso di una trasformazione “in chiave”di un’attività o di un comportamento, tutti coloro che sono presenti o che partecipano condividono la medesima veduta su ciò che sta succedendo; quando, invece, si ha una fabbricazione occorre distinguere tra coloro che sono a conoscenza dell’inganno e coloro che ne sono vittime: i primi sono gli operatori, i fabbri­ catori o gli ingannatori, mentre i secondi sono gli incastrati o “contenuti”, cioè quelli contenuti in una fabbricazione. Bisogna osservare che per quelli che sono complici in un inganno, ciò che sta accadendo è fabbricazione; mentre per quelli che sono ingannati ciò che sta succedendo è realtà. Un’altra importante considerazione riguarda il “margine” del frame: esso è visibile solo a coloro che sanno della sua co­ struzione e, quando l’inganno viene alla fine rivelato a coloro che sono stati incastrati, ciò che prima sembrava “reale” ora viene ad essere del tutto screditato. 64

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Le fabbricazioni possono essere analiticamente classificate in diversi modi: a seconda del tempo di durata e del numero di persone coinvolte; a seconda dei materiali che vengono usati; a seconda se siano innocui o fatti a scapito di qualcuno. Le prime, le fabbricazioni benigne, si distinguono in diverse varietà: • I cosiddetti “inganni scherzosi”, cioè il contenimento di uno o più individui con lo scopo dichiarato del di­ vertimento che di solito è innocuo, non serio e di breve durata. In questo caso l’inganno viene presto svelato alla vittima e si conta sul fatto che questa lo prenderà con 10 spirito giusto o, in altre parole, “che sosterrà che i suoi interessi non sono stati danneggiati e che lui stesso avrebbe fatto quello scherzo”. Per assicurarsi che le cose vengano comprese nella giusta maniera l’organizzatore dello scherzo può avvalersi di un complice che ha il compito di testimoniare la “buona fede” dello scherzo. Questi “inganni”, a loro volta, differiscono per il grado di organizzazione e per la natura del bersaglio: quello più semplice è la “burla”, che dura per un brevissimo arco di tempo, mentre di durata superiore è la “presa in giro” che obbliga la vittima a prendere sul serio non lo scherzo, bensì il fatto che coloro che lo hanno progettato pensavano che il farlo fosse accettabile. Salendo nella scala graduale degli “inganni scherzosi” troviamo il “tiro mancino”, fabbricazione più elaborata, e la “beffa correttiva” che di solito coinvolge un pubblico ampio e contiene una morale. • La “beffa sperimentale”, cioè la consuetudine di con­ durre esperimenti umani che richiedono che il soggetto non sia a conoscenza dell’oggetto d’analisi e anche del fatto che si sta svolgendo un esperimento di qualsiasi tipo. Quando l’esperimento è finito è consuetudine informare 11 soggetto sui reali contenuti dell’esperimento al fine di ottenere il suo appoggio retrospettivo. 65

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• La “beffa di formazione”, usata soprattutto nelle situazio­ ni di formazione al lavoro, in cui il neofita è trattato come se stesse affrontando una situazione “reale” mentre, in realtà, è solo messo alla prova. Il segreto gli viene rivelato solo più tardi e un esempio di questo “inganno” è facile individuarlo nella preparazione a cui vengono sottoposti gli aspiranti agenti segreti o militari di “corpi” speciali. • I “test vitali”, inganni molto simili alle beffe di forma­ zione, con i quali viene ingannato un individuo che non sospetta di nulla al fine di verificare la sua fedeltà e il suo carattere. Goffman ci riporta l’esempio biblico di Giobbe nelle mani di Satana per volere di Dio: nonostante le ca­ lamità che furono provocate su di lui dal demonio, egli rimase fermo nella sua fede e fu premiato dal Signore con il doppio del suo investimento originale. Chiara­ mente, affinché il test funzioni, non bisogna comunicare alla persona oggetto del test che quest’ultimo è in corso. Manovre del genere sono molto usate dalle organizzazioni commerciali e negli ambienti dello spionaggio. • Le “costruzioni paternalistiche”, una categoria piuttosto grande d’inganni e fabbricazioni che vengono fatti in quello che si crede sia l’interesse della vittima ma che egli, almeno inizialmente, potrebbe rifiutare se dovesse scoprire cosa stava veramente accadendo. In questi casi si costruisce la falsità per confortare il soggetto, quindi esclusivamente nel suo interesse. L’esempio più comune da riportare è quello del tatto: spesso nascondiamo ad una persona l’evidenza o un episodio accaduto di cui non è a conoscenza per tutelarlo ed evitare di farlo stare male senza motivo. • Le “fabbricazioni strategiche”, che implicano due elementi: uno morale, riguardante la rispettabilità dell’in­ gannatore, ed uno strategico riguardante la perdita di orientamento della vittima e di conseguenza la sua rea­ zione. In alcuni casi, come nelle competizioni sportive, è 66

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necessario l’uso d’indicazioni sbagliate, di finte, di bluff che hanno uno scopo puramente strategico nel senso che è in gioco solo la praticabilità di dare indicazioni errate e non certo il carattere morale di chi le dà. Penso sia importante riportare, a questo punto, la chiarifi­ cazione che Goffman fornisce: “Le fabbricazioni di tipo scherzoso hanno un limite ovvio, il cui superamento potrebbe portare a mettere in dubbio il carattere morale e la salute mentale dell’organizzatore della fabbricazione, accusato di avere mostrato “giudizio molto cattivo”: in ogni caso, ordinariamente, la legge è specifica­ mente esclusa dallo stabilire il limite e dal penalizzare quelli che superano questo limite” (p. 131). Un altro tipo di fabbricazioni sono quelle cosiddette “stru­ mentali”, le quali esprimono un’ostilità evidente nei confronti dei soggetti a cui si rivolgono. L’esempio evidente che si rin­ traccia nella vita sociale è costituito dalla “truffa”: in questi casi infatti , si agisce in maniera strumentale, in modo chiaramente ostile, nei confronti di un’altra persona che si cerca d’ingannare per il proprio tornaconto personale. Nel caso delle fabbricazioni strumentali, però, Goffman, invece che elencare le varie categorie in cui quest’ultime si dividono, è interessato ad elaborare una distinzione più perti­ nente allo sviluppo del suo schema analitico: cioè la differenza tra fabbricazione diretta e fabbricazione indiretta. Nella primo caso, di solito, ci sono due parti in gioco: il contraffattore e la vittima. È il modello più semplice e comune e in alcune di queste, come la pubblicità sleale, la contraffazione di etichette o il barare al gioco, è possibile adire le vie legali o intraprendere un’azione civile come mezzo di difesa. Nelle fabbricazioni indirette, invece, c’è una terza parte che entra in gioco e che viene “abbindolata” dalla prima a proposito di un qualcosa che riguarda la seconda parte:

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“Un fabbricatore può progettare una definizione di un secondo soggetto, per essere in una posizione tale da far credere ad una terza persona cose false che riguardano la seconda persona. Il secondo soggetto - la vittima - non è necessario che sia ingannato, infatti è difficile che lo sia. Ciò che si richiede è che la persona che è stata messa in cattiva luce sia impossibilitata per qualche motivo a convincere dei fatti il terzo soggetto” (p. 144). L’esempio classico è il “tranello”, con il quale si crea una situazione che “invita”a tenere una condotta disonorevole (come nei casi di falsa testimonianza, l’occultamento di prove o anche lo schema del pettegolezzo). Goffman, quindi, è interessato a mettere in risalto l’identica natura di pratiche sociali che si situano sia al di qua che al di là del sipario della morale e della legalità. Inoltre egli, attraverso l’analisi delle fabbricazioni indirette, arriva a coniare una de­ finizione interessante dell’uomo, che è per lui essenzialmente Homo Fabricator (d’inganni): “.. .la ragione per cui l ’individuo può confidare di continuare tranquillamente a presupporre che gli altri pensino che lui stia agendo in modo sincero, non è che lui è sincero - anche se lo fosse - ma è che nessuno è motivato a raccogliere informazioni contro di lui per diffamarlo” (p. 147). È questo presunto “buonismo” che pervade la società e guida la maggior parte delle persone ad agire in buona fede, che permette alla fabbricazioni di esistere all’infinito o, almeno, fino a quando non viene strappato il “velo di Maya” dal quale sono protette. Oltre a questi particolari tipi di fabbricazioni, Goffman si sofferma su quei particolari casi in cui il soggetto si “autoinganna”: si ostina cioè in una falsa interpretazione della situa­ zione ch’egli stesso ha creato. Consideriamo alcune forme di “autoinganni”: 68

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• Il sogno, in cui l’individuo è, da solo, il suo stesso in­ gannatore. I sogni sono speciali perché solo il sognatore può capirli mentre si stanno svolgendo e può cercare di ricordarli più tardi. Chiaramente, per trattarsi di un sogno, il soggetto deve essere realmente addormentato e, per uscire da esso e nello stesso tempo riconoscerlo come tale, deve svegliarsi. • Dal sogno la via è breve per passare agli “stati disso­ ciati”: fughe, atti di sonnambulismo e cose simili. In questi casi si ritiene che l’individuo agisce senza essere consapevole di ciò che sta facendo e, di conseguenza, non può essere ritenuto responsabile per i suoi atti. L’e­ sempio che Goffman riporta è quello dei casi di omici­ dio eseguito durante il sonno: chi agisce è chiaramente “sotto un’illusione”. • Le “fabbricazioni psicotiche”, particolare forma di autoinganno in cui l’individuo illude se stesso non all’in­ terno di un sogno, ma all’interno di un mondo sostenuto da altre persone. È il caso delle forme patologiche di “paranoia”, in cui il soggetto non può essere svegliato dalla sua costruzione proprio perché non sta sognando. Se l’individuo non riesce a prendere coscienza della situa­ zione in cui si trova (grazie all’aiuto della psicoterapia), non riesce ad individuare il frame della situazione, il suo stato di “malato” potrebbe durare all’infinito. • I “sintomi isterici”, in cui l’individuo simula un disturbo fisico, ma una parte di se stesso sta prendendo in giro un’altra parte. • L’ipnosi, anche se in questo caso l’intervento dell’ipno­ tizzatore gioca un ruolo predominante. Tutte queste forme di fabbricazione sollevano una domanda: in che modo esse sono in relazione col flusso corrente dell’at­ tività sociale più ampia in cui avvengono? Goffman sostiene che è possibile che le persone a cui capita di essere presenti (come operai e bidelli) in determinate situa­ 69

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zioni sappiano cosa sta realmente succedendo, ma non occorre che essi si coinvolgano, e, nel caso in cui essi lo facciano, il loro sarà un coinvolgimento sempre equilibrato e mai “sopra le righe”. Goffman riporta l’esempio del direttore di un negozio che sorride “di cortesia” ai suoi clienti i quali, pur coscienti che quello non è altro che un sorriso “di circostanza”, ci fanno l’abitudine considerandolo come qualcosa di non oltraggioso o screditante, ma che riguarda l’ordinaria interazione sociale quotidiana. Ciò non toglie che gli individui mantengono, di solito, un certo grado di vigilanza sull’attività quotidiana e basta poco a far nascere nelle loro menti due sentimenti differenti: sospetto e dubbio. Il primo è: “ciò che una persona prova quando comincia, correttamente o no, a pensare che il segmento di attività in cui è coinvolto è stato costruito a sua insaputa, e non gli è stata permessa una visione sostenibile di ciò da cui lui stesso è stato incastrato” (p. 155). Il secondo sentimento, invece, il dubbio, non è generato dalla preoccupazione di essere stati ingannati, ma da ansia ri­ guardo al key che si applica alla situazione. Sospetto e dubbio, dunque, sono due sentimenti centrali generati dal modo in cui l’esperienza è incorniciata e, poiché è difficile immaginare persone che non nutrano tali sentimenti, è difficile immaginare un’esperienza non organizzata in termini di framing.

2.4 La cornice teatrale Nel capitolo 5 Goffman affronta il tema della rappresen­ tazione teatrale, spiegando che ciò che distingue quest’ultima dall’attività quotidiana ordinaria è la differenza relativa al frame. Quando siamo di fronte ad una rappresentazione teatrale, infatti, questa richiede che il pubblico escluda qualsiasi altra 70

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cornice d’inquadramento che non sia quella che indica che si sta assistendo ad una rappresentazione. Gli attori che sono sul palcoscenico vengono distinti in due parti: “persona”, termine che si riferisce alla loro vita “reale”, e “parte” o “personaggio” che sta a significare, invece, una versione teatralizzata di ciò. Quando, cioè, un attore recita sul palcoscenico egli viene considerato per il personaggio che sta interpretando e non per ciò che è o fa nella vita “reale”. Un esempio può essere rappresentato da Kenneth Branagh10 per­ sona, o egli stesso che recita la parte di Amleto: le azioni che compie nella vita “reale” saranno prese per vere a differenza di quelle compiute sul palcoscenico che non rappresentano altro che finzione. A questo proposito Goffman precisa che, nonostante si usi la stessa parola, “ruolo”, per descrivere atti­ vità sul palcoscenico e attività fuori dal palcoscenico, non si hanno difficoltà a distinguere le circostanze in cui si tratta di un ruolo reale o solo della sua mera rappresentazione teatrale. Si evidenziano tre fattori fondamentali riguardanti la diffe­ renza tra rappresentazione teatrale e altri tipi di azione: il primo è la sospensione di quel “rispetto visivo” che proibisce di fissare con lo sguardo i protagonisti che recitano sul palcoscenico e la possibilità di soffermarsi ad esaminare i loro comportamenti nei minimi particolari; il secondo consiste nella possibilità che ha il pubblico (chiaramente fondamentale perché “se non c’è pubblico non c’è rappresentazione”) di manifestare le proprie emozioni rispetto a ciò che sta accadendo sul palco attraverso applausi, risate, grida di incoraggiamento, ecc, ma, nello stesso tempo, vi è il divieto per gli spettatori di entrare sul palco o comunque nell’area in cui gli attori recitano, area protetta sia da strutture fisiche evidenti che da norme sociali; il terzo fattore è che vi sono chiare e nette “parentesi”, come l’applauso iniziale contestuale all’apertura del sipario, o le chiamate alla ribalta che pongono fine alla finzione, che demarcano chiaramente il

10 Famoso attore inglese, con la passione e il talento per l’interpretazione di personaggi shakesperiani.

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tempo della rappresentazione teatrale. Goffman c’informa che la stessa cornice “teatrale” si applica di solito anche ad altre specie di rappresentazioni sceniche, nonostante quest’ultime non abbiano la purezza11 della rap­ presentazione che si svolge sul palcoscenico e che segue un copione precedentemente stabilito. Tra le competizioni “pure”, oltre alle rappresentazioni teatrali, egli include i numeri di va­ rietà, le apparizioni personali di vario genere, il balletto e gran parte della musica d’orchestra. Altri tipi di rappresentazioni, elencate in ordine di purezza decrescente, sono: 1) Le competizioni o gare, quando queste sono presentate per essere viste da un pubblico. In questo caso il grado d’impu­ rità si riferisce alla misura in cui i contendenti agiscono come se a spingerli fosse l’esito dell’incontro e non l’occasione sociale o il prezzo del biglietto. L’azione si svolge su un campo o su un ring e i contendenti devono comportarsi in modo convincente come se fosse in palio qualcosa di più oltre all’intrattenimento di quelli che li stanno guardando. L’esistenza di campionati, classifiche, trofei e simili, sostiene la “purezza” di queste competizioni. 2) Le cerimonie private, come i matrimoni e i funerali, che sono meno pure delle precedenti e “si potrebbe aggiungere che mentre il significato più ampio del risultato di gara è spesso visto come parte della vita ricreativa e in un senso non serio, le cerimonie tendono a fornire una ratifica rituale di un qualcosa che è esso stesso definito come parte del mondo serio.” 3) Le conferenze e i discorsi in pubblico, che costituiscono una categoria più eterogenea riguardo alla purezza della rap­ presentazione, poiché formate da un miscuglio di spiegazioni e intrattenimento. 4) Le rappresentazioni in ambito di lavoro, ritenute quelle maggiormente impure perché gli spettatori guardano aperta-1

11 In questo caso, quando egli sostiene che le rappresentazioni possono essere distinte per purezza, con quest’ultimo termine intende l’esclusività della rivendicazione degli spettatori sull’attività che essi guardano” (p. 163).

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mente le persone al lavoro (Goffman consiglia di pensare a ciò che avviene in un cantiere), non mostrando alcun interesse o partecipazione per la loro fatica. Oltre a queste categorie ci sono anche dei casi limite che: “...sono quelle esibizioni ad hoc che avvengono in ambito privato, quando un ospite della festa si esibisce al piano o alla chitarra per il coinvolgimento facoltativo di altri ospiti che si trovano vicino, o il narratore racconta una storia piuttosto lunga agli amici, o un genitore legge una storia ai figli quando vanno a letto. Il termine “privato” è usato qui perché l’attore di solito fornisce il proprio scenario e arredi scenici, e nessun ordine del giorno è necessario per obbligare l’individuo alla rappresentazione” (p. 164). Comunque, la differenza principale che esiste tra rappre­ sentazione teatrale e vita “reale” è che nella prima tutto viene pianificato in anticipo. Tutti i partecipanti alla messa in scena della rappresentazione: regista, attori, drammaturghi, assistenti di scena e così via, sanno benissimo come dovrà svolgersi il tutto e l’imprevisto o il “non conosciuto” è ridotto al minimo, l’unico ad essere “incastrato” è il pubblico12. Nella vita “reale”, invece, bisogna convenire che gli “intoppi” sono sempre dietro l’angolo: per quanto si possano pianificare i propri programmi in modo da cercare di evitare gli imprevisti, è veramente dif­ ficile pensare di poter vivere secondo uno schema prestabilito scevro da incognite. E le relazioni interpersonali sono le attività più problematiche. A proposito della rappresentazione teatrale, quindi:

12 Anche se bisogna fare alcune precisazioni: affinché l’azione sul palcoscenico sia credibile infatti, occorre che gli attori agiscano come se le loro informazioni fossero differenti e meno complete; il pubblico inoltre, è a conoscenza di alcune informazioni che gli servono come base per l ’inquadramento della situazione scenica a prescindere se abbiano già assistito all’opera in questione: “Essere parte di un pubblico di un teatro ci obbliga ad agire come se la nostra conoscenza, allo stesso modo di quella di alcuni personaggi, fosse parziale” (p. 170).

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“Si potrebbe dire.. .che una produzione teatrale è una specie di fabbricazione benigna, sostenuta da tutti volontariamente, poiché il pubblico tratta la rivelazione finale un po’ come tratterebbe la rivelazione che pone fine ad una presa in giro, fatta con gusto e per divertimento. Ma la presa in giro com­ prende la finzione di un’attività reale, mentre il palcoscenico usa materiali che sono apertamente keyings - imitazioni ma­ nifeste di azioni umane drammatiche - e in nessun momento il pubblico è convinto che quella sul palcoscenico sia la vita vera” (p. 172). E quindi: “. è perfettamente ovvio per ognuno fuori e dentro il palco­ scenico che i personaggi e le loro azioni sono irreali, ma è anche vero che il pubblico tiene da parte questa consapevo­ lezza, e in quanto spettatore dimostra tutta la simpatia per e l’interesse a rispettare l’apparente ignoranza dei personaggi e di quello che accadrà loro, e ad aspettare di vedere come le cose si evolveranno” (p. 172). Goffman, quindi, sposa la tesi che il frame teatrale sia qualcosa di meno che costruzione benigna e qualcosa di più che un semplice keying e ne approfitta per elencare alcune convenzioni caratteristiche del teatro a cavallo tra la fine del diciannovesimo e l’inizio del ventesimo secolo: 1. Un confine arbitrario, una linea di separazione, che de­ marca chiaramente il mondo della rappresentazione in cui la parte anteriore del palcoscenico non costituisce altro che una quarta parete immaginaria. 2. L’uso convenzionale di stanze aperte, prive di soffitto e parete, per introdurre il pubblico all’interno della rappresen­ tazione. I personaggi si situano contemporaneamente sia di fronte al pubblico che di fronte agli altri attori. 3. L’interazione verbale avviene apertamente, di solito par­ lando a turno e senza interrompere le battute degli altri, anche se a volte si possono prevedere “interruzioni” come discorsi che si accavallano, ecc. 74

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4. Di solito una persona tende ad essere al centro del pal­ coscenico per attirare l’attenzione sul punto focale dell’azione, mentre gli altri si muovono sulla periferia del palco interve­ nendo di volta in volta. 5. Vanno rispettati i propri turni nel parlare e, di solito, la risposta del pubblico è attesa prima che venga intrapreso il turno di risposta. 6. Si forniscono al pubblico, apparentemente in modo ca­ suale, tutte le informazioni che si ritengono necessarie affinché quest’ultimo possa seguire l’azione e non essere, altrimenti, presto perduto. 7. Si parla con tono elevato e in maniera oratoria per farsi meglio udire dal pubblico e le battute sono solitamente più lunghe e magniloquenti di quanto lo siano nella conversazione ordinaria; ciò avviene proprio perché le battute sono preparate in anticipo da autori teatrali che si presumono essere dotati di ricchezza lessicale, padronanza di linguaggio e competenza stilistica. 8. Il pubblico non deve fare una selezione di quello a cui deve prestare attenzione: qualunque cosa è presente e avviene sul palco deve essere considerata degna di attenzione13; tuttavia, anche se il pubblico prenderà in considerazione l’intero palco­ scenico, i personaggi potranno agire come se non prestassero attenzione l’uno all’altro. Goffman a questo punto passa a considerare alcune differen­ ze tra il frame del romanzo e della radio e quello del teatro. Per quanto riguarda il primo, sembrerebbe teoricamente possibile trasformare una commedia in un romanzo usando la regola che ogni cosa che viene udita o vista dal pubblico può essere ripor­ tata in forma scritta come voce impersonale dell’autore poiché il frame del romanzo offre a quest’ultimo dei privilegi non disponibili a un drammaturgo. Questi ultimi, ad esempio, sono

13 È interessante qui riportare la differenza di Goffman tra teatro e cinema: “Il palcoscenico permette a un individuo di porsi al centro e di attirare così la prima attenzione del pubblico; ma tutto di lui sarà più o meno messo di fronte

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obbligati a raccontare la storia attraverso le parole e le azioni fi­ siche dei personaggi che si susseguono nel corso dell’opera; gli scrittori, invece, possono scegliere un proprio “punto di vista” attraverso cui raccontare la loro storia, talvolta costruendo un personaggio speciale per questo scopo; possono cambiare più volte questo “punto di vista” all’interno del romanzo, e perfino impiegarne diversi nello stesso segmento d’azione. Un “punto di vista” può avere differenti aspetti: quello spaziale, quando viene descritta la scena fisica così come appare agli occhi del personaggio mentre si muove; quello temporale, dove l’auto­ re si limita a informare sulle conoscenze che il personaggio possiede a proposito della situazione che si va sviluppando; quello culturale, in cui lo scrittore fa i suoi commenti in uno stile e in un tono particolare che di solito sono caratteristici di un ben definito personaggio. Un altro elemento a favore degli scrittori è che essi, a diffe­ renza degli autori teatrali, possono utilizzare informazioni che non derivano dalla scena che si sta svolgendo. Inoltre: “Eventi passati e previsioni future possono essere introdotti senza entrare nel discorso parlato o nelle azioni fisiche di un personaggio. I pensieri inespressi dei personaggi e i loro sen­ timenti possono essere detti direttamente senza artifici come il soliloquio” (p. 183). Per quanto riguarda il frame della radio, una sua caratte­ ristica è che, a differenza del teatro, i suoni trasmessi nel suo segmento di attività non possono essere ignorati: ogni suono percepito dall’ascoltatore viene da quest’ultimo considerato importante. Alla radio quindi si stabiliscono delle convenzioni per fornire degli equivalenti funzionali di tutto ciò che altrimen­

agli spettatori. Nel cinema i limiti del frame spaziale sono molto più flessibili; ci sono campi lunghi, medi e primi piani. Variando l’angolatura e la chiusura dell’obiettivo della telecamera, un piccolo gesto di una piccola parte del corpo dell’attore può riempire per un momento l’intero campo visivo, assicurando così che le implicazioni espressive del gesto non vengano perse” (p. 177).

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ti non potrebbe essere trasmesso. Ciò che la vista non coglie, deve essere reso attraverso dei sostituti sonori. La musica, inoltre, può essere usata come “sipario”, a segnalare che la scena sta cambiando, come una specie di collegamento tra una scena e l’altra; o può essere usata come mezzo per sottolineare l’importanza di una situazione, per creare suspense. Differenze notevoli, quindi, tra teatro e romanzo o musica che ci fanno capire quanti particolari bisogna considerare nel passare da unframe all’altro.

2.5 Problemi strutturali nelle fabbricazioni A questo punto dell’analisi di Goffman, abbiamo chiaro che i due inquadramenti primari, quelli naturali e quelli so­ ciali, costituiscono il fondamento concettuale del suo studio. Queste due strutture non sono soltanto una questione mentale, ma corrispondono in un certo senso al modo in cui un aspetto dell’attività stessa viene organizzato. Abbiamo, inoltre, due tipi di trasformazione: il keying, cioè la “messa in chiave” di un’attività di cui tutti sono consapevoli, e le “fabbricazioni”, cioè la trasformazione di un’attività della quale solo alcuni degli interessati sono a conoscenza e gli altri sono solitamente quelli che vengono ingannati da o in tale trasformazione. Ora bisogna considerare il fatto che ciò che è stato già “messo in chiave” o “fabbricato” può essere ancora oggetto di ulteriori trasformazioni. Ma c’è di più: infatti, ciò che è stato già trasformato e “messo in chiave” può essere a sua volta mutato in fabbricazione e, viceversa, ciò ch’è una fabbricazione può essere trasformato in un keying. Come si possono applicare keys alle fabbricazioni, così possono anche essere fabbricati keys. Leggiamo gli esempi riportati da Goffman: “Ci si deve aspettare ogni possibile genere di stratificazione. Il tagliare in due un tronco è un atto d’uso non - trasforma­ to; fare questo a una donna di fronte a un pubblico è una 77

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fabbricazione dell’evento; il mago, da solo, provando il suo equipaggiamento nuovo, sta applicando un key a una costru­ zione, come lui stesso fornisce l’indicazione per il trucco in un libro di magia, come faccio io nel discutere le questioni in termini di analisi del frame. Una ragazza dell’Avis che serve un cliente, genera un semplice pezzo di vera realtà sociale; quando un agente della compagnia viene inviato in incognito per vedere se si stanno mantenendo gli standard del servizio (...) avviene un test vitale, una trasformazione di ciò che altri contribuiscono a trasformare da un’attività schietta in una fabbricazione” (p. 192). E inoltre: “... non è difficile trovare esempi che aggiungono uno strato a questa struttura diframe ma non cambiano lo status dell’orlo. Così, se un gioco di carte come il poker comprende la licenza di bluffare - una fabbricazione benigna - poi truffare nella distribuzione delle carte è ovviamente una trasformazione nel genere strumentale di questa trasformazione benigna, dal momento che l’insieme del gioco viene ad essere qualche cosa nel quale il giocatore è ingannato. Il distributore di carte, a casa, provando i suoi movimenti . s t a applicando un key alla fabbricazione strumentale di una fabbricazione benigna, come quando dimostra privatamente la sua “azione” ad un eventuale datore di lavoro” (p. 194). Goffman ci dice che ogni trasformazione, sia essa un keying o una fabbricazione, costituisce uno strato o “laminazione” di quell’ipotetico edificio rappresentante l’attività ordinaria e che conserva al suo centro una qualche realtà non trasformata; lo strato più esterno, che stabilisce lo status di realtà dell’intera attività, costituisce il margine o rim dell’edificio e, di conse­ guenza, il trait d ’union con la “vita reale”. A questo punto il sociologo canadese elenca tre forme standard di ricontenimento, cioè forme di trasformazioni che comportano più strati:

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• Il monitoraggio segreto, che consiste nel sorvegliare (monitorare) un soggetto che si ritiene essere implicato di nascosto in qualche azione scorretta. Attraverso questo monitoraggio è molto probabile che ci sarà un luogo e un’occasione in cui le sue azioni potranno essere sco­ perte ed egli sarà screditato. Goffman riporta l’esempio standard delle intrercettazioni telefoniche di coloro che sono sospettati di crimine da parte della polizia e di altre agenzie governative, ma altri esempi possono essere rappresentati dalle indagini che si compiono su coloro che richiedono assistenza o sui giocatori d’azzardo nei casinò. Il sociologo canadese, inoltre, c ’informa che alla base della vita sociale vi è un accordo basato sul rispetto dell’integrità personale e della privacy, di cui il monitoraggio segreto costituisce una violazione. Il punto principale d’interesse quindi, non è l’attività che viene monitorata, ma l’attività successiva che da quella viene screditata; da questa azione consegue che: in primo luogo, sarà screditata la relazione che c’era tra persona monitorante e persona monitorata qualsiasi essa fosse; in secondo luogo, gli attori coinvolti nel monitoraggio sa­ ranno colti da inquietudini ed angosce e si comporteranno inevitabilmente in maniera agitata e timida. • La “penetrazione”, un processo attraverso il quale un membro di una squadra sfrutta questa sua appartenenza per carpire segreti strategici celati negli ambienti sociali del team. Questa “penetrazione” può avvenire inducendo a tradire un membro della squadra o attraverso l’infiltra­ zione. Come esempio si pensi ai giornalisti che, pur di fare uno scoop, s’infiltrano nell’ambiente al quale sono interessati, o anche a quei sociologi che, con il metodo dell’osservazione partecipante, penetrano in toto nell’am­ biente oggetto della loro analisi. I film polizieschi che si vedono quotidianamente in tv sono pieni di altri esempi a tal proposito. Inoltre, anche i semplici pettegolezzi della vita quotidiana e la rivelazione di faccende che la famiglia, l’organizzazione o il gruppo ritengono stretta­ 79

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mente private, possono essere interpretate come casi di tradimento. • L’intrappolamento, un’attività “attraverso cui un atto screditante è causato da un provocatore col pretesto che egli è la persona giusta con cui condividere il mondo se­ greto”. L’intrappolamento rappresenta una forma attiva di penetrazione poiché viene provocata l’attività vulnerabile invece di aspettare il naturale verificarsi degli avvenimenti incriminanti. Goffman sostiene che anche se queste tecniche d’intrappolamento sono di solito considerate accettabili, se non lodevoli quando “sponsorizzate” da istituzioni governative, sono tutta­ via soggette a limiti morali e legali se non altro perché, come d’altronde sostiene anche Burns, “senza la licenza, pretesa o presunta dell’obiettivo ultimo di far rispettare la legge, alcune azioni proprie di certi agenti sarebbero illegali, e tutte quan­ tomeno sleali” 14 La licenza morale e legale che viene rivendicata per queste pratiche che hanno come fine “l’incastramento” di qualcuno, deriva dalle convenzioni dell’inquadramento, le quali dovreb­ bero “isolare un travisatore dall’immoralità del travisamento”. Inoltre, se l’operazione volta ad incastrare qualcuno viene scoperta da quest’ultimo come deve egli comportarsi? Non certo denunciando il fatto, risponde Goffman, ma tenendo il gioco: cioè comportandosi normalmente, senza suscitare alcun sospetto e volgendo così a proprio favore la situazione. Perché, come c ’informa il sociologo canadese, “il frame può essere sempre rovesciato”. Goffman cita quindi altre forme di ricontenimento: il “con­ tenimento in serie”, in cui il cospiratore originale viene ingan­ nato da altre persone diverse da quelle contro cui egli aveva congiurato; il “contenimento reciproco” o “competizione del

14 Burns T., Erving Goffman, London and New York, Routledge, 1992, trad. it. Erving Goffman, Il Mulino, Bologna, 1997.

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contenimento”, in cui entrambe le parti tentano d’imbrogliarsi a vicenda, pur sapendo quali sono le reali intenzioni dell’al­ tra, ma tentando di superarsi in imbrogli; il “contenimento sequenziale”, in cui la vittima viene messa al corrente del suo contenimento mentre questo processo di rivelazione viene gestito in modo da contenerlo ulteriormente. Nasce qui la questione riguardante quanti siano gli strati o “la­ minazioni” che una sequenza d’attività può sostenere. Goffman non risponde in modo chiarissimo, scrive lapalissianamente che l’ultimo strato si crea quando nessuno delle persone coin­ volte si fida più degli altri e viene meno, quindi, quella mutua intesa essenziale per ogni tipo di negoziazione. In altri casi di trasformazione, quelli in cui l’orlo del frame è un keying o una fabbricazione innocua, la stratificazione può diventare complessa come nell’esempio classico, citato da Goffman, della “rappre­ sentazione nella rappresentazione” in Amleto15. Tuttavia il numero degli strati è irrilevante, poiché ciò che è veramente importante, in conclusione, è che il pubblico possa seguire e capire ciò che sta avvenendo, inquadrandolo nella giusta cornice. Non è importante quanti strati ci siano, ma che questi siano comprensibili. In fin di capitolo poi, Goffman si sofferma su come varia il ruolo degli attori nelle strutture naturali e in quelle sociali: “Nel caso di prospettive naturali, gli individui non hanno nessun status speciale, essendo soggetti al medesimo modo di essere, deterministico, senza volontà, non morale, come qualsiasi altra parte della scena. Nel caso di strutture sociali, gli individui figurano in maniera diversa. Essi sono definiti come agenti autodeterminati, giuridicamente competenti ad agire e moral­ mente responsabili di farlo in maniera appropriata” (p. 216). Egli sostiene, inoltre, che nella vita di tutti i giorni l’indivi­ duo di consueto tratta gli altri in base a prospettive sia sociali

15 Tragedia di William Shakespeare del 1601.

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che naturali, intrecciando senza sforzo i due tipi di struttura. Un esempio viene dal lavoro dei medici, i quali sanno che possono ottenere due tipi d’informazione da un paziente: i segnali, che rappresentano indicatori oggettivi biologici, e i sintomi, che indicano rapporti soggettivi. Nonostante questa convenzione, però, ci sono delle occasioni in cui si prevede di trattare una persona secondo un frame naturale, ma problemi psico-fisici (come quando ci troviamo di fronte ad una persona ubriaca, o in collera, o che soffre di sonnambulismo, ecc.) suggeriscono l’applicazione di un frame sociale. Inoltre, ci sono delle situazioni in cui può generarsi disac­ cordo sul tipo di frame da applicare, a causa dell’inadeguatezza delle strutture stesse. Ciò si verifica quando alcuni membri della società credono nella validità di una struttura che noi, al contrario, consideriamo non valida. L’esempio che riporta Goffman è quello della “comunicazione” con l’aldilà, con il regno dei morti. Non c’è dubbio che molte persone credano in questa possibilità e che gli individui, visti come coloro che hanno questa speciale capacità comunicativa, acquisiscono un vero ruolo sociale; tuttavia, questi ultimi stanno facendo qualcosa che non è “reale”, poiché “qualsiasi cosa abbia luogo quando le persone vive comunicano tra loro, certamente non accade quando uno dei due è morto”. Ma il problema della validità della struttura resta e neanche un genio come Goffman riesce a sciogliere il nodo gordiano: “Il delicato problema è che in alcune questioni, spesso quelle socialmente importanti, nessun controllo veramente effettivo può essere disponibile nella società riguardo alla validità o non validità di una struttura. Una credenza particolare potrebbe non essere decisiva e un confronto specifico di frames in competizione potrebbe non essere possibile. Oppure ci può essere poco interesse nell’insistere su spiegazioni alternative o poca attenzione prestata alle alternative che vengono presentate " (p. 225).

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Attraverso lo specchio Meglio accendere un cero che maledire l’oscurità. Jean Paul Sartre

Come abbiamo visto nel precedente capitolo, nella prima metà di Frame Analysis Goffman ha analizzato le differenti sfere di realtà in cui dividiamo il mondo che esperiamo e degli artifici che abitualmente impieghiamo al fine di ordinare queste diverse sfere. Nella seconda metà del libro, alla quale è dedicato questo capitolo, il sociologo canadese concentra la sua attenzione sui vari modi in cui le differenti sfere di realtà sono legate al durevole mondo delle attività e delle cose che ci circondano: il mondo quotidiano, ordinario, che noi possiamo spesso ab­ bandonare, in parte o temporaneamente, ma al quale facciamo sempre ritorno. Inoltre, Goffman analizza la nostra capacità di manipolare le diverse sfere di realtà nelle quali ci troviamo notando come quest’ultima sia spesso soggetta a illusioni, macchinazioni, simulazioni e inganni. Accanto a queste analisi, comunque, egli sviluppa gradual­ mente anche un’altra argomentazione: il fatto stesso che tali vicissitudini avvengano è sfruttato dal sociologo canadese per mostrare che il mondo da noi considerato come reale non è più reale di uno qualsiasi dei mondi irreali che noi stessi costruiamo a partire dai suoi elementi.

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3.1 Attività fuori frame Nel capitolo 7 di Frame Analysis, con il quale si apre la seconda metà del libro, Goffman inizia a relazionare l’attività incorniciata con ciò che si trova al di fuori del fram e. È chiaro che oltre a ciò che accade all’interno della nostra cornice, una grande quantità di azioni ha luogo all’esterno di questa; azioni che possono essere ignorate dai partecipanti, ma non certo eliminate. Così si pone il problema della disat­ tenzione: quali sono quei gesti o quelle azioni che possono essere ignorate perché non importanti? E in quali circostanze può avvenire ciò? Goffman, come esempio, pone due casi estremi: le ceri­ monie formali e i giochi da tavolo. Nel primo caso spesso i partecipanti non fanno fatica a concedere agli attori principali delle libertà specifiche, catalogando le loro azioni come fuori dal frame e quindi non degne di attenzione. Ad esempio, quan­ do un oratore provvede, all’inizio del suo discorso, a salutare silenziosamente un amico presente tra il pubblico, o a bere un sorso d’acqua o a pulirsi gli occhiali, gli altri presenti non ci fanno caso perché sanno che le azioni dell’oratore sono fuori cornice. Corrispondentemente egli sarà in grado di sostenere certi coinvolgimenti fuori frame come giocherellare con la penna o mettere a posto gli oggetti sul leggio. Nel secondo caso preso in considerazione dal sociologo canadese, cioè nei giochi da tavolo, è permessa ogni sorta di coinvolgimento secondario proprio perché gli stessi giochi sono ideati per generare coinvolgimento e ogni persona, quindi, una volta fatta la sua mossa strategica, potrà sostenere un’ampia gamma di attività secondarie e subordinate1.1

1 Su questo punto mi permetto di dissentire con Goffman: egli, nel libro, riporta come esempio di gioco da tavolo la dama, ma se penso agli scacchi, altro gioco simile, mi sento di sostenere che è praticamente impensabile una distrazione una volta fatta la propria mossa. Gli scacchi sono un gioco che ti coinvolge intera­

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Egli mette in relazione, contrapponendoli, questi due casi estremi alla rappresentazione teatrale: “Il teatro ancora più delle cerimonie formali, obbliga l’attore a trattenersi da ogni sfogo di bisogni umani momentaneamente motivato e da altri coinvolgimenti secondari, ma lo fa in relazio­ ne al fatto che nel teatro queste interruzioni hanno uno speciale valore sintattico. Sul palcoscenico è proiettata una persona integra “naturale”, una piena identità, qualunque siano gli speciali requisiti di ruolo di una particolare scena” (p. 239). Nelle rappresentazioni sceniche quindi, gli attori sono obbligati a tenere a freno tutti i coinvolgimenti laterali, e ad ignorare rumori e movimenti che possono essere fonte di di­ strazione. Così non avviene in altre situazioni che non siano rappresentazioni teatrali: Goffman riporta l’esempio degli agricoltori scozzesi per i quali anche la più piccola distrazione - “un uccello, un cane, una turista che passa” - rappresentava un motivo valido per fermarsi. Comunque, tali “piste” a cui non si presta attenzione sono molteplici e varie, ed alcune di esse sono estremamente conse­ quenziali riguardo alle diverse componenti e fasi dell’attività che si svolge nel frame: “Nelle azioni che implicano una partecipazione congiunta, si trova un flusso di segni che è esso stesso escluso dal contenuto dell’attività ma che serve come mezzo per regolarla, delimitan­ do, articolando e qualificando le sue varie componenti e fasi. Si potrebbe parlare qui di segnali direzionali e, per estensione metaforica, della pista che li contiene” (p. 243).

mente dall’inizio alla fine della partita e una semplice distrazione, una semplice fugace occhiata fuori dal frame, può costare cara al buon esito del gioco. Penso quindi che bisognerebbe distinguere tra giochi e giochi.

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L’esempio più ovvio di questi segnali direzionali è rap­ presentato dalla punteggiatura letteraria in quanto comprende un “corpo di convenzioni” appreso consapevolmente e che dimostrano molto bene la speciale caratteristica del flusso dire­ zionale: la qualità cioè di non ricevere attenzione come aspetto principale, pur organizzando quello a cui si presta attenzione. Un’altra parte del flusso direzionale è rappresentata dai cosiddetti “connettivi”, che ci permettono di localizzare chi sta facendo ciò che viene fatto in quel momento, e dai cosiddetti “regolatori”, segnali cinetici e paralinguistici come gesti, mor­ morii, cenni col capo, cenni di diniego, ecc., che organizzano i turni del discorso, permettono il riconoscimento del parlante, gli segnalano se gli viene prestata attenzione, e così via. Bisogna tenere presente che i segnali direzionali non pos­ sono essere cancellati poiché hanno una funzione di framing: organizzano, cioè, ciò che viene prima e ciò che viene dopo. Diversi dai segnali direzionali sono quei messaggi che si possono leggere o ascoltare senza però distogliere l’interesse dalla trama centrale; esempi sono rappresentati dalla pubblicità sui cartelloni autostradali o dalle scritte che scorrono sulla parte marginale dello schermo televisivo o di quello del cinema; sono esempi di come l’attenzione possa benissimo essere divisa in due: una parte maggiore viene dedicata alla trama centrale, mentre una minore la si dedica a questi messaggi: . gli individui possiedono una buona capacità di non fornire alcun segnale esterno di attenzione, e di mostrare poca premura per qualcosa che, dopo tutto, è all’interno della loro portata conoscitiva.. .Il punto.. .non è che l’individuo in qualsiasi dato momento fingerà interesse per la trama, ma che egli si pone nella situazione e si pone in modo tale che in ogni momento, se ci fosse bisogno, porterà avanti tranquillamente il suo coinvolgimento ufficiale in presenza di qualcosa che distrae che ha iniziato a verificarsi.. .Questa capacità di affrontare una gamma di interruzioni prestando loro la minima attenzione apparente è, certamente, una caratteristica basilare della com­ 86

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petenza interattiva, destinata a svilupparsi con l’”esperienza”. Il più naturale e convincente coinvolgimento in una trama, dunque, è sempre qualcosa di più disciplinato di quanto possa apparire. Non dovrebbe sorprenderci, perciò, vedere come un oratore politico ignori bene lo sforzo dello chairman di regolare il microfono o non dia importanza a una serie di flash di un fotografo della stampa” (p. 249). Una persona comunque, incontra dei limiti alla sua per­ cezione: egli può, infatti, partecipare all’attività che è in fieri rendendosi conto, nello stesso tempo, di ciò che avviene all’in­ terno della trama principale e nell’attività fuori frame, ma non può essere a conoscenza di tutto, troverà delle barriere alla sua percezione, troverà dei “limiti testimoniali”. Tale idea è chiaramente affine all’idea di “retroscena” che Goffman aveva illustrato ne La vita quotidiana come rappresentazione2, ma in questo caso l’atto del nascondere si riferisce anche a quello che avviene dentro l’attore. La sua mimica facciale e il suo corpo in generale, infatti, fungono da barriera protettiva, o “pista di occultamento”, nei confronti dei suoi sentimenti, delle sue emozioni, in generale di tutto ciò che egli prova dentro di sé e che ritiene non sia il caso di manifestare; in tutte quelle occasioni ad esempio, in cui nell’interazione sociale si richiede di agire con tatto. Nell’interazione sociale ordinaria, comunque, coloro che sono i riceventi del comportamento di un’altra persona possono fornire il loro giudizio a proposito, proprio attraverso l’uso di segnali direzionali (un comportamento, un gesto, una smorfia, ecc.); attraverso l’uso di questi, i riceventi riescono ad esternare un ritratto del loro atteggiamento nei confronti dell’evento senza bisogno di parlare. 2 Il palcoscenico è infatti uno dei limiti testimoniali per eccellenza. Esso infatti: .esclude da quasi tutti gli angoli della percezione ogni cosa che succede prima che il sipario si alzi e dopo che scenda e anche ciò che accade dietro il palcoscenico durante uno sp e tta c o lo .” (p. 248).

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A questo punto Goffman si sofferma sulle funzioni di natura redazionale, che servono, cioè, a mediare tra attori e pubblico: vi sono i soliloqui, quelle convenzioni per cui un attore, solo sul palcoscenico, parla ad alta voce mettendo il pubblico al corrente dei suoi pensieri. Sono possibili due diversi tipi di soliloquio: “un tipo di declamazione o oratoria, il genere di cosa in cui una persona nella vita comune non si cimenterebbe mai, a meno che non stia provando un discorso; e un secondo tipo identifi­ cabile come meditazione, cioè quel modo di parlare a se stessi che potrebbe verificarsi nella vita comune, ma qui è prodotto a voce abbastanza alta da essere sentito dal pubblico” (p. 280). Vi è poi il cosiddetto “rivolgimento diretto”, che si distin­ gue dal soliloquio poiché accade quando un personaggio esce leggermente fuori frame per rivolgere al pubblico alcuni com­ menti intesi come affermazioni dirette e non come declamazioni indirette o confessioni. Si può così rivolgersi direttamente al pubblico per tenerlo “sveglio”, per esporre una questione mo­ rale, per spiegare una parte complessa della trama, per spiegare ciò che è successo o ciò che succederà, ecc. Un altro caso è rappresentato dalle digressioni o parole dette a parte e dalla collusione: le prime si verificano quando un individuo si dissocia dai propri compagni e dà sfogo ai suoi “reali” sentimenti attraverso gesti e commenti sottovoce; in modo simile, un partecipante potrebbe coinvolgere un altro nel­ la comunicazione collusiva, “facendo attenzione a nascondere la sua azione a quelli che sono tagliati fuori da essa.” Così le digressioni e le collusioni sono all’ordine del giorno, ma essi sono attentamente nascosti per dare l’impressione che tutti i partecipanti si stanno dedicando in modo uguale alle vicende in cui si trovano coinvolti.

3.2 L’ancoraggio di attività A questo punto Goffman ritorna alla domanda di William 88

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James dalla quale era partito: “In quali circostanze pensiamo che le cose siano reali?”. Egli non riesce ancora a trovare una risposta esauriente ma sente di poter dire che i principi di persuasività, ovvero “tutto ciò che è importante”, sui quali contava James, sono inadeguati semplicemente perché essi stessi, poiché dovrebbero generare sicurezza, saranno utilizzati da coloro che vogliono ingannarci. Secondo il sociologo canadese, si verificano molte circo­ stanze in cui possiamo ritenere che le cose siano reali, ma non ve n’è una nella quale possiamo essere certi che lo siano per davvero; infatti, quando andiamo ad incorniciare un “pezzo” di realtà, non possiamo inquadrarlo nel nulla, ma dobbiamo “ancorarlo” a ciò che è accaduto prima, a ciò che sta accadendo intorno a noi, e a ciò che pensiamo potrà accadere nell’immi­ nente futuro. Chiaramente, per poter effettuare questa opera­ zione, l’arma di cui abbiamo bisogno è la coerenza, ma il fatto che tutti gli elementi siano tra loro coerenti non è sinonimo di realtà poiché il processo d’inquadramento, sostiene Goffman, ha una carattere “ricorsivo”, prende dal mondo circostante tutto ciò di cui abbiamo bisogno al fine di organizzare ciò che sta accadendo in quella determinata circostanza e a cui rivolgiamo la nostra attenzione. Goffman considera come esempio una partita a scacchi, e fa notare come “all’interno” di essa vi siano delle risorse esterne (il tempo, lo spazio, l’illuminazione della stanza) e dei diritti riguardanti le altre persone non coinvolte direttamente nell’attività, ma delle quali non si può non tenere conto: il diritto di assistere alla partita, quello di parlare con i giocatori o, in certe circostanze, il diritto d’interrompere la partita. Per Goffman: “I punti proprio dove l’attività interna finisce e l’attività esterna prende piede - il margine del frame stesso - vengo­ no generalizzati dall’individuo e assunti nella sua struttura d’interpretazione, diventando così, ricorsivamente, una parte supplementare del frame” (p. 281, corsivo mio).

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Bisogna perciò osservare più da vicino i modi in cui l’attività che si svolge all’interno della cornice è “ancorata” a quella che si svolge attorno ad essa. D’altra parte le connessioni tra l’atti­ vità “inquadrata” e il mondo degli eventi esterni vengono create automaticamente senza prestarci poi molta attenzione; solo in rare circostanze ci rendiamo conto che il margine dell’attività inquadrata è stato superato in direzione del mondo degli eventi e degli oggetti esterni. A questo proposito, Goffman distingue cinque diversi tipi di connessione tra la cornice dell’attività e il mondo circostante delle cose e degli eventi: 1) Le convenzioni per delimitare episodi, cioè quell’in­ sieme speciale di “marcatori di confine” o parentesi che distinguono chiaramente l’attività incorniciata dal mondo esterno. Un esempio classico è dato dalla cornice di un quadro: essa è una parentesi spaziale, non è parte del contenuto del quadro, né parte del mondo esterno ma va a situarsi dentro e fuori, rappresenta una specie di anello di congiunzione. Altri esempi di convenzioni possono essere l’abbassamento delle luci e l’apertura del sipario in una rappresentazione teatrale, il calcio d’inizio in una partita di calcio, il suono della campanella che sancisce l’inizio delle lezioni scolastiche. È come se usassimo delle parentesi per preservare e mettere ben in evidenza la nostra attività incorniciata; e questo mettere tra paren­ tesi è cosa ovvia quando l’attività che deve accadere è fragile rispetto alla sua definizione e probabilmente pro­ durrà una tensione di struttura. A tal proposito Goffman riporta l’esempio del corpo femminile nudo che viene preso come modello da studenti di una scuola d’arte: in questo caso le parentesi saranno ben marcate affinché le questioni che riguardano la ragazza-modella siano chiare (il riserbo dato all’atto di vestirsi e spogliarsi, l’uso di un accappatoio per nascondere il corpo durante le pause, ecc.). Bisogna ricordare che, oltre alle parentesi usate per segnalare l’inizio e la fine dell’attività incorniciata che 90

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solitamente vengono chiamate “esterne”, in molte attività sopraggiungono quelle “interne”, ovvero parentesi che segnano brevi pause all’interno di un’attività in corso, pause da considerare come tempo “fuori dal frame”. L’e­ sempio classico, riportato da Goffman, sono i momenti tra le scene o gli atti in una commedia, i turni di battuta, le riprese, l’interruzione tra primo e secondo tempo e così via. A volte le parentesi esterne possono essere viste come parentesi interne; ad esempio il saluto rituale che conclude un giorno in ufficio può essere considerato come parentesi esterna dal punto di vista del lavoro di quel particolare giorno, ma come parentesi interna dal punto di vista dell’esecuzione settimanale del ruolo lavorativo che è interrotto solo a fine settimana o nelle vacanze. 2) Le formule dell’apparire, si riferiscono alla con­ nessione-distinzione che viene fatta in un’attività tra la persona, l’individuo, l’attore, vale a dire colui che partecipa e il particolare ruolo, capacità, funzione che egli realizza durante quella partecipazione. C ’è chiara­ mente un collegamento tra questi due elementi, c ’è una formula “persona-ruolo”. Non ci si può mai aspettare totale libertà tra individuo e ruolo, infatti, quando as­ sume un ruolo, un individuo non assume una differente identità, con un diverso passato biografico o un nuovo carattere, ma soltanto un’identità sociale. Il ruolo, quindi, non è indipendente dalle caratteristiche che apparentemente potrebbero sembrare irrilevanti delle persone che lo proiettano: le parti verranno assegnate a persone che si ritiene abbiano delle qualifiche sociali inerenti al ruolo da interpretare. Inoltre, vi sono quelli che Goffman chiama “diritti fuori del ruolo”, che entrano in scena quando un individuo esagera nella recitazione del suo ruolo o addirittura prende in giro la parte che sta interpretando. In questi casi il ruolo lascia spazio alla persona. L’esempio riportato è quello della moda 91

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dell’informalità, in cui gli attributi convenzionali di un ruolo sono messi in ombra da quelli dell’identità per­ sonale, il carattere dell’individuo prende il sopravvento sulla parte da interpretare. 3) La continuità delle risorse, il fatto cioè che “qualunque cosa avvenga all’interno di un flusso interpretato e orga­ nizzato di attività, essa ricorre al materiale che proviene dal mondo e deve ritornare nel mondo”. È una credenza secondo la quale il mondo che ci circonda sarebbe qual­ cosa che permane. Riprendendo l’esempio degli scacchi, quando il gioco è finito i pezzi devono essere riposti nell’apposito contenitore. La continuità delle risorse sta a significare che qualsiasi evento venga incorniciato, esso fa parte del mondo e in esso può essere rintracciato: una volta che un evento accade, infatti, si presume che lascerà una traccia permanente che potrà sempre essere richiama­ ta come prova per testimoniare l’effettivo verificarsi di quell’evento. Un disorientamento sconvolgente, invece, avviene quando un individuo crede che un evento sia accaduto ma non può provarlo agli altri. In questi casi, esempi dei quali sono frequentissimi nelle sceneggiature cinematografiche e nelle trame di romanzi, coloro i quali sostengono di aver veduto il verificarsi di un determinato evento passano agli occhi della maggior parte delle perso­ ne per visionari o sognatori. Un’espressione interessante della continuità della risorsa è quella che è stata chiamata “stile” e che concerne il mantenimento dell’identificabilità espressiva: è quel qualcosa che permette agli altri di riconoscerci e, nello stesso tempo, ci rende unici; quando un individuo prende parte ad un’attività, il fatto che sia lui e non qualcun altro ad essere partecipe, ovvero il suo “marchio di fabbrica”, sarà garantito attraverso gli aspetti “espressivi” del suo comportamento: “...lo stile è qualcosa che l’attore porta nel suo atto e anche 92

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qualcosa che noi siamo molto pronti a pensare che abbiamo percepito. Lo stile, allora, può essere visto come una proprietà di qualsiasi particolare attività, una proprietà che il produttore dell’attività porta in tutte quelle produzioni, la proprietà stessa che in qualche modo continua in lui” (p. 312). 4) L’idea di non connessione, che riguarda la supposizione che ogni attività accadrà in un ambiente vicino dove si verificheranno altri eventi che però saranno visti e consi­ derati come non correlati all’evento in questione. Come sostiene Goffman: “una relazione che noi abbiamo col nostro ambiente immediato è che alcuni dei suoi elementi non hanno alcuna relazione con noi”. Quando, tuttavia, avvenimenti non previsti influiscono su di noi in maniera positiva o negativa utilizziamo rispettivamente i termini “fortuna” e “incidente”. Usiamo invece il termine “negli­ genza” per riferirci a quelle interferenze non programmate che hanno un’influenza negativa e che noi potevamo benissimo evitare perché ne eravamo a conoscenza: sia­ mo quindi responsabili. Parliamo di “coincidenza” per indicare il verificarsi di un evento imprevisto e un po’ “strano”, come nel caso di due persone con precedenti relazioni che s’incontrano senza averlo previsto. Infine, col termine “caso” ci si riferisce ad un evento che non era stato in alcun modo programmato e che però segna l’inizio di un qualche cosa, una specie di punto di partenza: due persone che s’incontrano senza conoscersi e, a causa di quest’incontro “casuale”, entrano in relazione. 5) L’essere umano o s e lf , la garanzia, cioè, che ciò che le persone fanno e gli eventi che a loro capitano sono ancorati al mondo che li circonda. Gli atti di una persona sono espressione e conseguenza del suo self e quest’ulti­ mo sarà presente dietro a tutti i ruoli che egli interpreterà nella sua carriera. In una rappresentazione teatrale o in un film, la “personalità” dell’attore si può intravedere dietro

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i diversi ruoli che interpreta. Qualunque sia la “parte” che ci troviamo a recitare (in una rappresentazione teatrale, in un film o nella vita di tutti i giorni), il fatto che dietro di essa ci sia sempre il nostro self è una sicurezza che ci consente di tenerci ancorati al mondo che ci circonda.

3.3 Guai ordinari Dopo essersi soffermato sul modo in cui le nostre esperienze incorniciate sono ancorate al mondo circostante, Goffman con­ centra la sua analisi su quella speciale categoria di situazioni caratterizzate da “errori nel framing”; situazioni in cui pur non essendo vittima di un inganno, l’individuo sviluppa una percezione della situazione che è in contrasto con l’assunto di sapere davvero cosa sta succedendo. Gli errori nel framing sono caratterizzati “dall’innocenza presa in prestito dalle azio­ ni schiette e dalla possibilità di crollo presa in prestito dalle fabbricazioni”. Andiamo ad analizzare questa categoria più nel dettaglio: • Ambiguità. S’intende il dubbio che può sorgere in ogni individuo riguardo alla definizione della situazione. “Un dubbio che può propriamente essere chiamato perplessità perché ci si aspetta che il mondo non dovrebbe essere opaco riguardo a questo”. L’ambiguità si distingue in due tipi: uno, in cui ci si domanda che cosa è possibile che stia succedendo; l’altro in cui ci si chiede quale di due o più cose chiaramente possibili stia accadendo. Una differenza, cioè, tra indeterminatezza ed incertezza. Si possono, inol­ tre, distinguere diverse ambiguità a seconda dell’elemento del framing a cui questa si collega. Ci sono le ambiguità che riguardano le strutture primarie: ad esempio quando un individuo sente qualcosa che striscia alla porta non sa se si tratta di un evento naturale, come lo strisciare di un ramo di un albero, o se si tratta di un evento sociale e 94

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cioè qualcuno che sta effettivamente bussando alla porta. Un altro esempio può essere quello di un automobilista che improvvisamente agita la mano fuori dal finestrino causando ambiguità negli altri autisti che non sanno se egli stia salutando qualcuno o se stia segnalando una svolta. In questi esempi è ambiguo il significato di un evento e c’è perplessità sul tipo di struttura primaria da applicare. Di solito comunque, le ambiguità che riguar­ dano le strutture primarie hanno breve durata perché quest’ultime sono fondamentali per l ’organizzazione dell’attività. Ci sono poi le ambiguità che riguardano le trasformazioni: ad esempio quando si sente squillare il telefono e c’è la televisione accesa potrebbe crearsi il dubbio se l’apparecchio che squilla sia il nostro o quello in tv. Più spesso sembra che sia implicita una questione di fabbricazione che genera sospetto: ad esempio quando due piloti siriani atterrano su una pista israeliana con i loro aerei da combattimento si crea incertezza di fronte all’evento fino a che non viene chiarito che essi non sono disertori ma semplici piloti mediocri. Ci sono poi ambi­ guità in relazione all’ancoraggio del frame: ad esempio quando si risponde al telefono e si viene salutati da una voce estranea che si rivolge a noi con affetto aspettandosi di essere riconosciuta. • Errori nel f r a m in g . In questi casi, invece di fermarsi a capire cosa stia effettivamente succedendo, l’individuo persevera nella sua convinzione sulla base di premesse errate e così sbaglia il frame degli eventi. Come le am­ biguità, anche gli errori si caratterizzano a seconda della loro influenza sul frame: quelli che riguardano le strutture primarie sono i più gravi poiché causano le conseguenze più imbarazzanti. La difficoltà può raggiungere il suo apice quando gli individui si rendono conto di aver sba­ gliato framework, quando ad esempio si ritiene morto qualcosa o qualcuno che in realtà è vivo, e così via. Ci 95

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sono poi gli errori rispetto al key, o “errori di chiave” e possono essere di due tipi: il primo si ha quando si eccede nel keying della propria esperienze e si attribuiscono più laminazioni agli eventi di quante ce ne siano realmente, ad esempio quando si prende per vera una scena che invece fa parte di un film; in questo caso si parla di upkeying. Il secondo tipo di errore si ha quando non si applica il key al segmento di attività che invece lo richiederebbe, ad esempio quando si prende per uno scherzo un evento che invece è molto serio o minaccioso; in questo caso si parla di difetto di keying o downkeying. Altri errori riguardano l’identificazione biografica dei materiali nella scena, quando ad esempio si condanna una persona al posto di un’altra per uno scambio d’identità. Altri errori sono quelli “di pista” o tracking ed hanno a che fare con l’organizzazione dell’attività in piste principali e in piste sussidiarie. Un esempio può essere dato dalle segretarie che, nello stenografare, registrano come parte del testo ciò che invece era un semplice commento riguardo ad esso; scambiano cioè una “pista” minore per una principale. Bisogna comunque precisare che presumibilmente gli errori saranno meno comuni della ambiguità “se non altro perché è probabile che l’azione che l’individuo introduce sulla base di false presupposizioni, creerà a sua volta contraddizioni e accrescerà la possibilità che egli scopra che (e come) ha sbagliato”. • Dispute di f r a m e . Queste avvengono quando le parti coinvolte in un’attività entrano in contrasto tra loro su come definire ciò che è accaduto o sta accadendo. Alcu­ ne di queste dispute sono abbastanza facili da dirimere perché presto una delle parti in questione ammetterà il proprio errore d’inquadramento e il tutto si risolverà con un accordo informale; altre dispute si risolvono grazie all’“ufficialità” di una delle versioni in campo che si pone come garante sul giusto inquadramento; 96

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altre ancora nascono da fallimenti di frame dei quali si è già parlato come errori, ambiguità, sospetto di essere tratti in inganno, connessioni casuali, ecc. Quando una delle parti ammette il suo errore per giustificare la sua colpa o il suo sospetto non giustificato, di solito l’altra accetta le spiegazioni minimizzando l ’errore altrui; nasce così un nuovo dibattito sul frame ma questa volta di un ordine più alto poiché “ora le parti sono d’accor­ do su come avrebbero dovuto essere percepite le cose, differenziandosi solo nelle loro opinioni sul perché non sono state percepite in quel modo”. In quest’ultimo caso, tuttavia, possono nascere ulteriori problemi perché colui che dichiara l’errore potrebbe essere sospettato di averlo fatto per evitare la condanna, e colui che utilizza scuse di frame potrebbe essere sospettato di usare sotterfugi, sia che l’abbia fatto o meno. Queste possibilità sono ende­ miche al framing e, a causa della sua stessa natura, “gli eventi hanno una caratteristica essenzialmente elastica, soggetta al dubbio, un’elasticità che interessa sia l’attore e le sue affermazioni che il testimone e le sue”. Dietro ai dibattiti di frame, inoltre, si possono trovare quelle che Goffman chiama “circostanze compromettenti”, cioè contingenze in cui gli eventi disponibili forniscono agli osservatori ordinari delle impressioni scorrette sul flusso dell’attività, diffamando così coloro che sono coinvolti in quell’attività i quali si vedono obbligati a dover fornire spiegazioni e scuse. I dibattiti sul frame, poi, sorgono spesso in connessione alle “dichiarazioni di distrazione”, le quali, sebbene fanno sembrare che il sospettato sia stato effettivamente coinvolto in un’azione colpevole, così non è, poiché egli ha solo subito “un’innocente perdita di controllo”. In tutte queste situazioni che ho appena esaminato un in­ dividuo si trova in errore o perlomeno nel dubbio riguardo a ciò che sta effettivamente accadendo. Per dissolvere le nuvole 97

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che offuscano la “realtà” egli potrà effettuare un attento esame dell’ambiente circostante al fine di comprendere come stanno effettivamente le cose; oppure altre persone gli forniranno delle spiegazioni per “tranquillizzarlo” sulla definizione della situazione. Sia nel primo che nel secondo caso si dirà che il frame è chiaro, cioè che tutti i partecipanti all’attività hanno una relazione chiara con la situazione: “Dire che un frame è chiaro, non significa solo dire che ogni partecipante ha una visione corretta di cosa sta succedendo, ma anche, di solito, una visione discretamente corretta delle visioni degli altri, che include la loro visione della sua visio­ ne” (p. 361). Riguardo a questioni di frame, dunque, ciò che ci salva, nonostante la complessità e la sottigliezza che gli inquadra­ menti possono avere, sembra essere la nostra considerevole capacità di discriminazione percettiva, unita alla cura che gli altri (si presume) si prendono nel comportarsi in modo chiaro e definitivo3.

3.4 Quando il frame si rompe Dopo le considerazioni precedenti, dovrebbe essere chiaro che nel momento in cui la cornice si “rompe”, cioè quando un evento che accade fuori dal frame e che non può essere ignorato disturba i partecipanti sconvolgendo il loro equilibrio, si creano situazioni dominate dallo smarrimento e dal disagio.

3 E se ciò ancora non dovesse bastare, a chiarirci una volta per tutte il frame ci penseranno “l’autorità della scienza e della visione del mondo generalmente accettata, a cui si accompagna tutta quella schiera d ’intermediari che agiscono da guardiani del sistema educativo, della religione organizzata e della pubblica opinione” (p. 385).

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Quando un individuo partecipa ad una definizione della situazione, le circostanze possono improvvisamente fargli perdere di vista il frame in cui si trova, anche se l’attività stessa può continuare; questo “disimpegno accidentale” può mani­ festarsi sotto due forme: attraverso l’uso di parentesi interne, ad esempio quando un oratore si ferma per bere un bicchiere d’acqua, (di solito, alla fine di questi congedi, si ritorna nel contesto adeguatamente coinvolti), mentre la seconda forma di disimpegno riguarda le espressioni del volto e comporta una rottura nel rappresentare il coinvolgimento adeguato. Quando si rompe il frame del volto un individuo può ritrovarsi a scop­ piare a ridere, a sciogliersi in lacrime, ad andare su tutte le furie, a scappare da una situazione perché in preda al panico o allo spavento, ecc. In tutte queste situazioni Goffman parla di “straripamento verso l’esterno” e un’importante osservazione è da tenere presente: .quando un individuo straripa verso l’esterno, spesso farà un tentativo rituale per nascondere quello che gli è successo, la forma più comune è quella di coprirsi il volto con le mani, si tratta di un semplice gesto inutile dal punto di vista stru­ mentale che pare abbia una diffusione culturale abbastanza ampia” (p. 379). A questo punto viene spontanea la domanda: in quali cir­ costanze si straripa verso l’esterno? Pronta è la risposta del sociologo canadese, e cioè nei casi in cui gli individui sono obbligati a recitare un ruolo che essi pensano non appartenga loro e in cui non si sentono affatto a loro agio. In questi casi l’individuo trova preferibile proiettare un self “artefatto” e prendersi gioco di questo, piuttosto che svolgere un ruolo inadatto davanti ad un pubblico esigente. In altre occasioni, quando ad esempio ci si ascolta per la prima volta al registratore o ci vediamo in un film, l’individuo, trovandosi di fronte ad un duplicato di sé, straripa verso l’esterno “fuggendo” dalla situazione che è diventata incontrollabile; ciò 99

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può avvenire attraverso una risata o una smorfia. Estendendo le precedenti considerazioni sulla rottura di frame causata da uno straripamento verso l’esterno, bisogna notare anche i casi in cui si ha uno “straripamento verso l’in­ terno”. Ciò si verifica quando qualcuno che non ha apparente­ mente nulla a che fare con l’attività in corso e che, quindi, si trova fuori dal frame, improvvisamente perde il controllo del suo apparente non coinvolgimento nell’attività, inondando apertamente la stessa. La conclusione è che, quando un individuo rompe il frame sono possibili “straripamenti” o “inondazioni”. C ’è poi un’al­ tra possibilità da considerare che riguarda la “chiave” con la quale si rendono intelligibili le situazioni. Possono verificarsi casi in cui non si attribuisce una “chiave” ad una situazione che invece la possiede: in questi casi si parla di delaminazione (downkeying) e gli esempi più comuni sono quelli associati alle rappresentazioni drammatiche in cui attori, così tanto immede­ simati nella parte, hanno alla fine scambiato il key teatrale per la realtà; oppure, come accadeva nel teatro del diciannovesimo secolo, quando i membri del pubblico cercavano di partecipare direttamente ed attivamente alla rappresentazione. In altre situazioni al contrario, si attribuisce una “chiave” ad un’attività che invece non la possiede. In questi casi si parla di sovralaminazione (upkeying) e un esempio comune è rappre­ sentato dal pubblico teatrale che scoppia a ridere nel bel mezzo di una scena seria della rappresentazione. È bene sottolineare che delaminazione e sovralaminazione non sono intenzionali, accade piuttosto che gli individui vengono a trovarsi “altrove” rispetto al frame non riuscendo più ad individuare le giuste misure della cornice.

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3.5 La creazione dell’esperienza negativa Il coinvolgimento in una data attività è, secondo Goffman, variabile. A seconda delle varie attività esso può rasentare la noia o avvicinarsi ad un assorbimento quasi totale. Non si verifica mai però un assorbimento assoluto, vi sono dei coinvol-gimenti laterali infatti, che debbono essere sostenuti accanto al coinvolgimento principale. Di conseguenza, c’è una certa consapevolezza marginale delle cose e delle attività che si svolgono fuori cornice e, in un certo senso, il coinvol­ gimento che non giunge ad essere totale è il giusto segno della conservazione del controllo su ciò che stiamo facendo e ciò che stiamo guardando. Tutto questo, però, può cambiare e il coinvolgimento può diventare pressoché totale quando l’in­ dividuo si accorge, improvvisamente, di trovarsi di fronte ad una rottura di frame ed è, perciò, completamente preso dalla scoperta, e di conseguenza dalla preoccupazione, di non aver tenuto il comportamento appropriato o di aver percepito le cose in modo sbagliato. Egli: “Perde qualsiasi distanza e riserva che aveva nei riguardi di eventi precedenti,..., insieme a una parte del controllo con­ sapevole su ciò che stava accadendo. L’individuo è spinto immediatamente all’interno della situazione difficile senza le solite difese. Mentre attende di posizionarsi in un ambito ben incorniciato, si rende conto che nessun frame è applica­ bile all’istante, oppure che il frame considerato tale sembra non esserlo più, o che non può legare se stesso al frame che evidentemente applica. Perde il controllo di una risposta praticabile. Annaspa” (p. 405). A questo punto, quindi, l’individuo perde qualsiasi con­ trollo cosciente su ciò che sta accadendo e, di conseguenza, l’esperienza perde qualsiasi forma avesse avuto in precedenza: “è negata”, per dirla con le parole di Goffman. L’esperienza negativa quindi, è caratterizzata dall’assenza di “una risposta 101

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organizzata e programmaticamente affermata”. Sebbene le esperienze negative sembrano più frequenti nelle interazioni faccia a faccia4, la medesima specie di vulnerabilità la si trova soprattutto in un’altra categoria di attività: le rappresentazioni teatrali. Nel loro ambito, infatti, il coinvolgimento è precisa­ mente ciò che gli attori offrono e ciò che il pubblico si aspetta, e in queste situazioni l’esperienza negativa può svilupparsi attra­ verso dei dispositivi teatrali atti ad indurla. Maestro nell’usare questi ultimi è senza dubbio Pirandello che, attraverso la sua arte drammaturgica, riesce a scuotere i membri del pubblico in modo da coinvolgerli più profondamente di quanto fossero effettivamente preparati. Gli artifici per generare esperienza negativa esaminati da Goffman ed usati da Pirandello sono tre: 1. Il primo riguarda le parentesi, che separano nettamente la rappresentazione dal resto della situazione, e consiste nel trattarle come se fossero inesistenti. L’esempio che riporta Goffman è ripreso dalla commedia pirallendiana Questa sera si recita a soggetto in cui il pubblico partecipa alla rappresentazione eliminando, di fatto, la parentesi formata dalla linea divisoria del palcoscenico5. 2. Il secondo strumento per generare esperienza negativa riguarda la linea personaggio-pubblico. In questo caso un personaggio si rivolge direttamente al pubblico ol­

4 Negli incontri faccia a faccia vi sono alcuni modi tipici per indurre l’esperienza negativa come stuzzicare o provocare qualcuno finché non perda il controllo, oppure alcune forme di “persuasione coatta” che caratterizzano gli interrogatori di polizia o le tecniche degli psicoterapeuti. È anche possibile che coloro che sono in qualche modo “controllati” inducano esperienze negative nei confronti di coloro che si presume abbiano il potere di controllo: è il caso dei bambini, i quali sono dei veri maestri nel mettere alla prova i presunti limiti del controllo a cui sono soggetti da parte degli adulti. 5 Un altro esempio ci viene fornito dall’ultima opera teatrale di Paolo Rossi del 2002, Romeo and Juliet, in cui la partecipazione del pubblico è massima poiché gli stessi spettatori vengono chiamati in causa per interpretare della parti e durante tutto il corso della rappresentazione l’interazione con il pubblico è continua.

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trepassando, anche questa volta, la linea divisoria che divide gli attori dal pubblico medesimo. 3. Il terzo strumento è quello più comune e riguarda la formula ruolo-personaggio. In questo caso un attore prende le distanze dal personaggio che sta interpretando e si mette a fare commenti su se stesso, sul proprio ruolo o sugli altri attori suoi colleghi. Risulta così una rottura di cornice riflessiva, si crea cioè un “mescolamento dei livelli dell’essere”. Un esempio della rottura del ruolo-personaggio si trova nei sofisticati spettacoli dei ventriloqui: al fantoccio si fa sviluppare un personaggio nell’interazione con il ventriloquo e poi viene portato a rivoltarsi contro se stesso come un mero e povero fantoccio e a discutere col pubblico l’irrealtà della sua personalità, (cosa che sarebbe chiaramente impossibile per un vero fantoccio). Tutti questi dispositivi o artifici atti a generare esperienza negativa, mantengono in vigore la cornice teatrale, anche se essa viene manipolata fino al punto di violarla completamente. Tutto ciò, però, come sostiene con forza Goffman, è ancora teatro e questi strumenti sono stati largamente utilizzati nel cosiddetto Teatro dell’assurdo durante gli anni ’60, che non a caso egli chiama “teatro delle cornici”. In seguito, sembra che questa tendenza a forzare i vincoli teatrali abbia preso sempre più piede, come esempio basti pensare allo sfruttamento dell’insulto e dell’imbarazzo da parte dei comici o alle scene di sesso e di violenza ricorrenti nei film che non fanno altro che contribuire ad uno smarrimento del senso del limite. E la medesima tendenza è rintracciabile in alcune compe­ tizioni sportive come il wrestling in cui, attraverso lo sfrut­ tamento del loro allestimento o attraverso la manipolazione della linea divisoria tra attività “incorniciata” e azione reale, è fin troppo evidente il voler a tutti i costi evadere dai classici vincoli della cornice “teatrale”. 103

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Tutti questi strumenti e artifici, che contribuiscono a ge­ nerare esperienza negativa, vengono impiegati da coloro che organizzano le attività al fine di aumentare quanto più possibile il coinvolgimento del pubblico.

3.6 Le vulnerabilità dell’esperienza Il senso di ciò che accade può essere, come abbiamo visto nel precedente paragrafo, soggetto ad essere falsificato e ciò comporta una mutazione improvvisa e radicale del nostro coin­ volgimento. A causa di supposizioni erronee e d’interpretazioni sbagliate, quindi, l’esperienza diventa vulnerabile; comunque, sebbene errori di questo tipo siano frequenti, la maggior parte di essi viene corretta quasi istantaneamente situando semplicemente l’oggetto o l’episodio o l’enunciato nel contesto adatto. Ma cos’è il contesto? Leggiamo la risposta di Goffman: “Il contesto può essere definito come gli eventi immediatamen­ te disponibili che sono compatibili con una certa definizione del frame e incompatibili con altre. E quando il contesto potrebbe non essere sufficiente, i partecipanti s’impegnano a far vedere le prove necessarie, qui, come dire, aiutando la natura ad essere se stessa. Anche quando succede qualcosa che è profondamente ambiguo o erroneamente definito ed è destinato a rimanere così per tutto il tempo, ancora si crede che, se si facessero degli sforzi, i “fatti” potrebbero essere scoperti e le cose sistemate. L’inspiegato non è l ’inspiegabile” (p. 464, corsivo mio).Il Il contesto quindi non fa altro che escludere la nostra defini­ zione della situazione sbagliata ed ammettere quella giusta; ma se l’inspiegato non è l’inspiegabile, come sostiene il sociologo canadese, allora è sbagliato considerare tutte le “sfere di realtà” e tutto ciò che in esse accade con lo stesso occhio scettico, al­ trimenti si corre il rischio di non vedere le vulnerabilità che di 104

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fatto esistono, nonché le condizioni che le rendono possibili. E ci sono parecchi modi per effettuare questo processo di verifica, un esempio comune è rappresentato dal linguaggio parlato e dalla scrittura. Mi spiego meglio: nonostante una parola possa avere differenti significati, di solito la riduciamo a uno solo, cioè a quello che riteniamo più adatto al contesto nel quale ci troviamo. Questo è ancora più vero nel caso della scrittura; infatti, l’operazione di chiarire ciò che scriviamo è parte in­ tegrante del lungo processo tramite il quale apprendiamo (o almeno così dovrebbe essere) a padroneggiare la nostra lingua madre. E questa stessa padronanza del linguaggio è ciò che consente a chi parla o a chi scrive di sovvertire i mezzi ordinari di cui disponiamo per verificare quella che noi consideriamo la realtà e per liberarci dalle ambiguità. Ad esempio chi scrive o chi parla può produrre giochi di parole, enigmi, storie con un finale a sorpresa, indovinelli, ecc. A questo punto Goffman considera alcune fonti generali di vulnerabilità a cui le nostre pratiche di framing ci espongono. Vi sono le occasioni in cui scopriamo di essere stati ingannati o illusi e che ciò che scambiavamo per realtà non era altro che un mascheramento dei veri intenti; ad esempio, si pensi a quelle persone che fanno in modo di arrivare “per caso” in un luogo in cui è probabile che incontrino la persona che hanno intenzione di vedere, oppure si pensi a quegli oratori che organizzano il proprio discorso in modo tale da provocare determinate reazioni o far nascere determinate domande a cui desiderano rispondere. Un’altra vulnerabilità più specifica è costituita dalla rile­ vanza di certi tipi di potere. Ad esempio, un uomo che rapina un negozio con una pistola in pugno ha il potere di portare a termine la scena precedente dominata dalla calma e dalla tran­ quillità, e dare inizio ad una nuova scena in cui la situazione è definita in maniera completamente diversa. Per Goffman:

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“Determinante è la possibilità che ogni definizione della situazione, ogni applicazione prolungata di un frame con­ sueto, sembra presupporre e dipendere da una gamma di forze motivazionali, e ogni equilibrio di questo tipo sembra che possa essere infranto attraverso certe misure estreme. Essere in grado di alterare questo equilibrio in modo signi­ ficativo in base alla propria volontà, significa esercitare un potere” (p. 470). Un’altra fonte di vulnerabilità è costituita dai sistemi di credenze. Alcune di queste, in particolare quelle religiose, sono estremamente durevoli, vengono rafforzate da istituzioni e organizzazioni consolidate, e sono capaci di esercitare potere nel senso che ho prima menzionato. Dopo aver brevemente trattato le fonti di vulnerabilità, Goffman descrive i differenti tipi di condizioni che favori­ scono l’imbroglio e l’illusione e c ’informa che esistono due gruppi principali di situazioni che c ’inducono a sbagliare giudizio su ciò che sta accadendo: il primo gruppo si riferisce alle informazioni di cui disponiamo per capire come stanno effettivamente le cose; il secondo gruppo riguarda il frame che adoperiamo. Per quanto riguarda il primo gruppo, c’è da dire che le attività la cui natura deve essere determinata in base a scarse informazioni sono particolarmente soggette ad essere incorni­ ciate in modo erroneo. Le informazioni insufficienti possono essere costituite da: voci isolate, informazioni che provengono dal passato, informazioni che provengono da una sola persona, informazioni ritrasmesse da un singolo individuo, registrazioni magnetiche, filmati o fotografie, le informazioni cosiddette “commerciabili”, cioè quelle gestite dalle imprese, dagli istituti di ricerca, dai dipartimenti del governo, ecc., le informazioni riguardanti i sentimenti che un individuo può manifestare nei confronti di un altro. Il secondo gruppo di possibilità che mostrano come l’espe­ rienza degli individui sia soggetta ad andare incontro a tutta 106

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una serie di smentite, riguarda gli inganni e le illusioni generate direttamente da un erroneo framing: • Complotti di sostegno. Quando un individuo mette in dubbio l’attività in cui è coinvolto, egli intraprenderà dei tentativi volti a dissipare i sospetti e risolvere l’ambiguità, cercando delle prove per dissipare i sospetti o dissolverli. Così, però, egli diviene particolarmente vulnerabile alla falsificazione di queste prove, dato che sarà fiducioso in queste e molto dipendente da esse; e c’è una varietà di questi complotti: dal predisporre ad arte testimoni “in­ dipendenti”; a disporre oggetti apparentemente banali che saranno sicuramente scoperti attraverso un’attenta indagine; a disseminare falsi indizi che sembrano conva­ lidare, al di là di ogni possibile dubbio, l’interpretazione sbagliata; a costruire in anticipo delle “coperture”, cioè ragioni apparentemente buone per essere in un certo luogo o per fare una certa cosa; ecc. • Uso di parentesi. Molta attività sociale è suddivisa in episodi dalle parentesi, e per questo motivo diventa possi­ bile che, al di fuori di tali episodi così “parentesizzati”, le persone siano, sia prima che inizi l’episodio in questione, ma anche dopo, in una certa misura “fuori del ruolo” e, pertanto, con la guardia abbassata. Tragici esempi sono costituti dalle lettere-bombe, dagli attacchi terroristici, dalle guerre, attraverso cui la politica, in particolar modo quella internazionale, è diventata, per Goffman, “spiace­ volmente creativa” 6. • Inganni delle piste. Poiché l’attenzione si concentra sulla pista principale dell’attività e tratta in modo nettamente diverso ciò che si verifica nelle piste subordinate, la

6 Goffman scriveva queste parole nel 1974, purtroppo, attraverso una rapida analisi dell’attuale situazione politica internazionale, possiamo capire come nulla sia cambiato.

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manipolazione intenzionale di queste ultime può effet­ tivamente rendere un frame vulnerabile. Ad esempio, le persone che vogliono nascondere, disturbare o fare altre “improprietà”, possono sfruttare queste aree. La possi­ bilità di usarle, al fine d ’ingannare, deriva dall’assunto che tutti gli elementi fuori dalla cornice saranno ignorati. Goffman chiama questa disposizione “follia dell’informa­ tore”, intendendo con ciò il fatto che l’individuo spesso presuppone che agli elementi fuori dal frame presenti nei canali subordinati non sarà data importanza. Tuttavia, spesso, non è così, e la follia deriva dal fatto che, “sebbene l’informatore possa sospettare o temere questo riferire in profondità, e tentare di controllare la sua condotta in modo appropriato, raramente riesce a farlo”. • Follia del membro interno. Quando una costruzione viene screditata e un frame apparentemente chiarito, la situazione delle persone scoperte tende ad essere accettata con poca riserva, molto spesso con meno riserva rispetto a quella relativa al frame iniziale. Tutte le persone coinvolte nella situazione - la vittima, chi inganna, gli informatori - trovandosi in possesso d ’informazioni confidenziali, considerano questa rivelazione come la base più salda possibile per credere in ciò che sta accadendo. L’uso più comune della follia del membro interno si trova nel dispo­ sitivo teatrale della commedia all’interno della commedia, in cui l’intento è quello di privare il pubblico, attraverso l’inganno, dell’intensità del suo coinvolgimento e della sua disponibilità a fingere7. Nella vita reale, invece, l’esempio più chiaro della follia del membro interno è riscontrabile nelle frodi. Ad esempio, nella truffa all’a­

7 I drammaturghi, da Sofocle a Shakespeare, a Pirandello, si sono serviti egre­ giamente di questo mezzo per indurre credenze e, con esso, il coinvolgimento del pubblico.

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mericana, una caratteristica centrale è che la vittima deve essere portata a pensare che sta partecipando alla frode nei confronti di qualcun altro. • Falsi connettivi. Questo tipo di vulnerabilità riguarda la falsificazione della fonte dalla quale arrivano gli atti e le parole che percepiamo nella nostra esperienza. Fal­ sificando la fonte, che rappresenta il nostro ancoraggio all’attività, si rende vulnerabile l’esperienza. • Trappole difr a m e . Quando un individuo viene frainteso ed altri travisano il senso delle sue parole o delle sue azioni, è probabile che egli fornisca una spiegazione correttiva. In questo modo, secondo Goffman, “il mondo può essere organizzato in modo che le visioni errate sono confermate da ogni piccola nuova evidenza o ogni sforzo per correggere i fatti, così che in realtà l’individuo trova che è intrappolato e niente può penetrare”. Alla fine di questo notevole catalogo dei tipi di vulnerabilità, Goffman tiene a sottolineare che il suo obiettivo non è quello d’indicare la molteplicità dei modi in cui le persone possono essere raggirate, ma vuole piuttosto sottolineare quanto fragili siano la nostra presa e la nostra comprensione della realtà: “Noi diamo peso ai segni di colpa di un individuo o a segni che rivelano che è appena in grado di sopprimere la risata o a segni d’imbarazzo e segretezza; e questo lo facciamo non solo per la possibile sconvenienza di queste stesse espressioni, ma poiché questi segni sono testimonianze che qualcuno nel nostro mondo si trova lì in modo insicuro, forse perché è in un altro mondo o perché teme che in un altro mondo ci siamo anche noi” (p. 501). Così, alla fine di un capitolo pieno d’inganni, mascheramen­ ti, sotterfugi e imbrogli, il sociologo canadese ci prende per mano e, tranquillizzandoci, c ’informa che basta comportarsi con naturalezza per evitare tutti i problemi d’inquadramento 109

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da lui citati. E “agire con naturalezza”, per Goffman, significa comportarsi in modo tale da rassicurare gli altri che quello che sembra essere la cornice di ciò che sta succedendo lo è vera­ mente. Questo, inoltre, è anche ciò che s’intende con sincerità: quest’ultima cioè, non è altro che il frutto della competenza comportamentale. In conclusione, penso si possa dire senza paura di essere smentiti che, per il sociologo canadese, sapersi comportare significa saper inquadrare la vita, ma senza prendersi troppo sul serio; l’unico imprevisto, però, che Goffman mi sembra non abbia considerato, è che spesso è la vita ad inquadrare noi e allora penso non ci sia niente di più bello e più giusto che vi­ vere ogni giorno come se fosse l’ultimo, senza paura d’inganni, mascheramenti o fabbricazioni, ma solo con la consapevolezza di essere fortunati di esistere.

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Piccola antologia di cornici

Preferisco una vita di paradossi ad una vita di pregiudizi... J. J. Rousseau

Penso sia interessante, a questo punto, proporre una piccola antologia di cornici, cioè riportare degli esempi in cui diversi autori hanno usato il concetto di frame e confrontarlo con quello di Goffman, cogliendo differenze e similitudini. Saranno riportati prima degli esempi tratti dalla letteratura e poi altri tratti dalla sociologia: lo scopo di questa divisione è dimostrare come, sia nel campo letterario che in quello sociologico, ci sono esempi di tematizzazioni del frame che fanno emergere una sorta di tradizione latente o un canale di comunicazione tra i due ambiti riguardante il problema della realtà e della definizione della situazione. Se già nel 1600 Miguel de Cervantes raccontava le varie forme che la realtà può assumere e circa tre secoli dopo Georg Simmel e Franz Kafka, seguiti anni dopo da Ernst Bloch e Alfred Schutz1, si sono concentrati sul medesimo dilemma, soffermandosi su cosa s’intenda per realtà e in quali circostanze questa possa effettivamente essere colta, significa che il proble­ ma della definizione della realtà affascina da sempre due ambiti differenti tra loro, eppure simili per le problematiche affrontate.1

1Gli autori citati interessano da vicino la mia antologia di cornici, ma è bene ricor­ dare che ce ne sono molti altri, sia in campo letterario che in campo sociologico, che si sono soffermati con le loro opere sul problema della realtà.

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Il capitolo si concluderà con una serie di frames cinema­ tografici che rappresentano prova tangibile dell’interesse che anche il mondo sognante del cinema prova da sempre a riguardo delle tematiche del reale.

4.1 Franz Kafka Leggiamo un passo, scritto dal grande autore ceco, dal titolo Delle allegorie2: “Molti si lamentano che le parole dei saggi siano sempre sol­ tanto delle allegorie, ma non applicabili alla vita quotidiana che è la sola che possediamo. Quando il saggio dice: “Vai nell’al di là”, non vuol dire che dobbiamo andare dall’altra parte, cosa che potremmo sempre fare se il risultato ne valesse la pena; ma intende un leggendario al di là, qualcosa che noi non conosciamo, che neppure egli può chiaramente indicare, e che perciò non ci è di nessun soccorso quaggiù. Tutte queste allegorie in fondo vogliono soltanto dire che l’inafferrabile è inafferrabile, e questo lo sapevamo già. Ma quelle che ci travagliano ogni giorno sono altre cose. Allora uno disse: “Perché resistete? Se voi seguiste le allego­ rie, diverreste allegorie voi stessi e sareste liberi dal quotidiano travaglio”. Un altro disse: “Scommetto che anche questa è un’allegoria”. Il primo disse: “Hai vinto”. Il secondo disse: “Ma purtroppo soltanto in allegoria”. Il primo disse: “No, nella realtà. Nella allegoria hai perso”. Il breve passo kafkiano è utile per far capire come, in poche righe, possano essere utilizzati più frames; il primo è

2 Kafka F., Delle allegorie, in Il messaggio dell’imperatore, vol. 2, p. 287, Adelphi, Milano, 1981.

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quello che applichiamo quando ci prepariamo ad ascoltare il racconto e quindi siamo a conoscenza che non è vita reale; il secondo si applica alle parole del saggio “vai nell’al di là”, che devono essere intese in maniera metaforica; il terzo si applica al dialogo che inizia tra due persone e che rappresenta quindi un framework di frameworks, per dirla con Goffman; mentre il quarto frame va applicato per comprendere l’allegoria insita nella spiegazione che il personaggio dà del concetto stesso di allegoria. Quello riportato quindi, è un perfetto esempio di frames sovrapposti, come delle scatole cinesi, dove la più grande ne contiene sempre una più piccola e da quest’ultima però, si può sempre tornare indietro a quella originaria. È evidente che se non riuscissimo ad applicare correttamente i frames necessari alla comprensione delle varie sfumature che il testo presenta, cadremmo in quegli errori d’inquadramento che il sociologo canadese ci ha magistralmente descritto e che non ci permette­ rebbero di comprendere pienamente il significato del racconto.

4.2 Ernst Bloch Un altro interessante esempio d’interpenetrazione del frame è reso nel racconto di Ernst Bloch, dal titolo La cornice che scompare due volte3, che, nonostante sia un po’ lungo, penso valga la pena riportare per intero: “Un giovane tornava a casa dall’Università per parlare con la sua fidanzata, che non amava più alla follia. Dopo il pranzo, sedeva solo nella stanza dei genitori, guardando davanti a sé. La fidanzata chiamava da fuori, tutti erano pronti a partire,3

3 Bloch E., La cornice che scompare due volte, in “Tracce”, trad. di Laura Boella, Coliseum, Milano, 1989; pp. 156-159, Garzanti, Milano, 1994.

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lui che faceva? Ma lui non aveva alcuna voglia della gita in campagna, oggi meno che mai. Furiosa, la ragazza sbatte la porta. Ma Rudolf non sentì alcun rumore, poiché, per la prima volta da tanto tempo, dalla sua fanciullezza, osservava con attenzione il vecchio quadro sulla credenza. C’era un parco rococò, con dame e cavalieri che passeggiavano, e sullo sfondo, seminascosta dalle cime degli alberi, una residenza di campagna, con alte finestre che arrivavano a terra e un can­ cello dorato. A un incrocio delle vie del parco stava una dama tutta sola, teneva in mano un foglio o un fazzoletto bianco. Fin da bambino, Rudolf non aveva capito se la donna stesse leggendo una lettera oppure tenesse in mano un fazzoletto per asciugare le lacrime. Adesso si avvicina al quadro, e mentre s’immerge nei colori e nelle linee i signori e le dame cominciano, d’un tratto, a muoversi piano piano davanti a lui ; lui stesso muove dei passi, sente la ghiaia fine della strada e va verso la dama che sta immobile guardando verso di lui. E ora, di colpo, lo sa: lei sta leggendo una lettera, una lettera che lui le aveva scritto molto tempo prima. “Finalmente sei venuto, amore” lei grida, facendo cadere la lettera. ‘Ti ho atteso senza posa, scrivevi che saresti venuto; ma ora sei con me e tutto va bene”. Si baciarono e si persero nel folto del bosco. Quando venne la sera tornarono al castello dov’era imbandito un sontuoso banchetto. Dame e cavalieri salutarono il ritorno dei castellani e presto gli amanti riposarono in una stanza tutta adorna. Il canto degli uccelli risuonava nei loro sogni mattutini, e così trascorsero molti giorni e molte notti illuminate dalla luna cangiante. Giochi, banchetti, giornate di caccia, conversazioni pensose facevano scorrere velocemente il tempo; gioia e festosità giovanile erano finalmente tornate a rallegrare quelle stanze rimaste a lungo silenziose e deserte. “Tutto ti appartiene” gli aveva detto la bella dama. “Solo, non puoi aprire una porta se non vuoi perdere tutto, se non vuoi che io perda tutto”. Ma in un silenzioso pomeriggio il castellano stava appoggiato alla finestra, nel corridoio, e guardava giù in giardino, dove il fogliame cominciava a cambiare colore; d’improvviso gli sembrò di essere chiamato, chiamato con un nome che oscuramente conosceva e che però non era il suo. 114

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La voce sembrava venire da una camera in cui non era ancora stato. Aprì la porta, la stanza era completamente vuota, ma la voce sembrava uscire dalla parete, da un ritratto appeso alla parete. Il castellano si avvicinò e vide una camera dipinta, come la voce che lo chiamava, aveva qualcosa di oscuramente noto. I mobili lo guardavano come da tempi lontani. Il quadro mostrava sullo sfondo, sulla parete della camera che vi era dipinta, un altro quadro; il vocìo, però, proveniva dalla porta dipinta. Rudolf ascolta sempre più stupito: ed ecco che si trova in mezzo alla stanza dei genitori, le porta non più dipinta si spalanca e la fidanzata grida: “Rudolf, quando vieni, quanto devo ancora aspettarti? La carrozza è già pronta! Vuoi farmi perdere tutto il giorno per colpa dei tuoi capricci?”. L’uomo ebbe solo un lieve trasalimento, poi prese la mano della fidanzata e insieme con lei si avvicinò al vecchio quadro. “Taci! Non vedi che piange? Quello è un fazzoletto, non una lettera”. La fidanzata non ha certo compreso il senso di questa esclamazione, la passeggiata in carrozza del sognatore deve essere stata indubbiamente strana”. Il racconto fiabesco che Bloch riporta è chiaramente a “dop­ pia porta”, cioè è presente una cornice che, proprio come recita il titolo, scompare due volte; infatti, la prima cornice è quella del quadro con il castello, nella stanza dei genitori; la seconda è quella del quadro con la stanza dei genitori nel castello. Quindi l’entrata nel quadro viene prima compiuta e poi revocata, fa­ cendo pensare a una sorta di “sindrome di Stendhal4”, per cui la cornice, sparendo due volte, finisce per trasformarsi in una sorta di porta girevole. E questa porta dove conduce? È la stessa domanda che si era posto Goffman nel suo Frame Analysis e,

4 Sindrome che colpisce chi guarda un quadro, portandolo ad immedesimarsi e a “vivere” fortemente la situazione descritta nel dipinto fino ad abbandonarsi a comportamenti e ad azioni non calcolate ma compiute in preda ad una sorta di “possessione pittorica”.

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come lui, sembra che Bloch dia la stessa risposta e cioè, che per quanto questa porta possa farci entrare in svariati mondi, per quanto possano esserci innumerevoli frames che vanno a comporsi l’uno sull’altro, alla fine il margine della cornice ci riporta sempre e comunque al punto di partenza e cioè alla vita quotidiana. Rudolf, il personaggio del racconto, resta sempli­ cemente sfiorato dal sogno, alla fine è respinto indietro e viene ripreso dalla vita quotidiana.

4.3 Georg Simmel In un brano dal titolo La cornice5, il grande sociologo tedesco Simmel si sofferma ad analizzare nello specifico le caratteristiche della cornice nell’opera d’arte. Egli, a tal pro­ posito, sostiene che: “La prestazione della cornice nell’opera d’arte è di simboleg­ giare assoluta chiusura e difesa nei confronti dell’esterno, ma anche sintesi unificante nei confronti dell’interno. Essa esclude ogni elemento esterno e quindi anche il fruitore dell’opera d’arte, contribuendo a porlo a quella distanza in cui soltanto l’opera è fruibile esteticamente. La distanza di un’essenza da noi significa in ogni ambito spirituale l’unità di questa essenza in se stessa. Perché solo nella misura in cui un’essenza è in sé conchiusa, possiede quel cerchio in cui nessuno può penetrare, quell’essere-per-sé con il quale mantiene il proprio riserbo nei confronti di qualsiasi altro ambito. Perciò la cornice non può mai presentare nella sua configu­ razione una breccia o un ponte, attraverso i quali il mondo possa, per così dire, penetrare nel quadro, o il quadro possa uscire nel mondo, come accade, per esempio, quando il

5 Simmel G., La cornice, in “Il volto e il ritratto. Saggi sull’arte” (1902), pp. 101-110, Il Mulino, Bologna, 1985.

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contenuto del quadro continua nella cornice; un’aberrazione rara, per fortuna, che nega l’essere per sé dell’opera d’arte e, proprio in questo modo, smentisce completamente il senso della cornice”. Per Simmel quindi, la cornice deve rappresentare una specie di muro, di confine invalicabile, che tuteli l ’opera d’arte dal resto della realtà. È evidente la contrapposizione di pensiero con l’idea di frame di Goffman: per il sociologo canadese in­ fatti, come è facile ricordare, la cornice e più precisamente il suo margine (rim) non è altro che l’anello di congiunzione tra l’attività incorniciata e la realtà ordinaria; la cornice rappresenta il trait d ’union che ci permette di non restare “intrappolati” all’interno dell’attività in questione ma di tenerci ancorati alla vita quotidiana. È anche vero che Simmel, nella sua analisi della cornice, sembra riferirsi all’opera d’arte in quanto tale, ma penso che non sia un’eresia traslare il suo pensiero all’attività quotidiana per effettuare un paragone con Goffman. D’altra parte, anche se il sociologo tedesco sembra restìo a voler analizzare l’attività ordinaria e l’organizzazione dell’esperienza in termini di frame, non posso non notare l’estrema somiglianza col concetto di cornice goffmaniano in uno dei concetti cardine della sua so­ ciologia. Nell’opera Il conflitto della cultura moderna6infatti, analizza la “tragedia” della cultura, sostenendo che la vita reale sia un fluire incessante e nello stesso tempo una produzione di forme in cui questo fluire si fissa e quindi, nonostante la vita scavalchi le forme, solo in forme di volta in volta determinate essa può essere colta. E in questa teoria, cosa fa Simmel se non utilizzare il concetto di frame presentato sotto mentite spoglie? Mi spiego meglio. Per Simmel la vita è un fluire incessante ma essa può essere colta solo attraverso le forme che essa stessa 6 Simmel G., trad. it. Il conflitto della cultura moderna e altri saggi, Bulzoni, Roma, 1976.

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produce; e queste forme (costituite da istituzioni, simboli, idee, prodotti della vita economica, ecc.), cos’altro sono se non delle cornici che si aprono sul fiume perenne della vita? Se non riuscissimo a incorniciare, a cogliere quelle forme che, di volta in volta, il fluire incessante della vita produce, saremmo impossibilitati a cogliere la sua stessa essenza; quindi, anche se il sociologo tedesco non usa direttamente il termine frame, mi sembra che i concetti di cornice e inquadramento siano quelli migliori per descrivere la sua “tragedia della cultura”. Ritornando all’opera La cornice prima citata, un altro passo interessante è il seguente: “In particolare, l’opera d’arte pittorica appesa nella nostra stanza non s’intromette nelle nostre cerehie di attività, per­ ché ha una cornice, ossia perché è nel mondo come un’isola, che attende il nostro arrivo, ma davanti al quale si può anche passare oltre” (p.109). Simmel insiste quindi sull’autonomia della cornice, so­ stenendo che essa, con tutto ciò che è presente al suo interno, rappresenta “un’isola che attende il nostro arrivo”. È come se la cornice racchiudesse qualcosa che spetta a noi interpretare e cogliere, ma della quale si può anche fare a meno. Il punto fondamentale però, sul quale il sociologo tedesco non transige, è che tutto ciò che è all’interno della cornice è a sé, ha cioè un suo preciso significato separato dalla vita reale; non intromet­ tendosi nelle nostre cerchie di attività infatti, esso rappresenta la realtà ma non è realtà. Un concetto, quest’ultimo, che ricorda molto da vicino i seducenti giochi di cornice di alcune avanguardie artistiche del Novecento. Facciamo un esempio, osserviamo questo famoso dipinto:

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Cécì n etffiO A m & fd fìe. È la famosa opera del pittore belga René Magritte7e sembra riprendere molto da vicino l’idea di Simmel. La didascalia che il pittore ha introdotto nel suo quadro sta infatti a significare che quello che vediamo nel dipinto non è una pipa, bensì ne è solo una rappresentazione. Per dirla con Foucault: “La cornice racchiude un disegno che “mostra” la forma di una pipa. Questa non è una pipa ma soltanto la rappresentazione di una pipa. La frase “questa non è una pipa” non è una pipa. La cornice, il dipinto, la frase, tutto ciò non fa una pipa, ma soltanto una sua rappresentazione... Niente di tutto ciò è una pipa: c’è un testo che simula un testo, un disegno di una pipa che simula il disegno di una pipa, una pipa che è il simulacro di una pipa”8. La cornice quindi, delimita senza possibilità di errore (il testo nel dipinto serve a fugare ogni dubbio), il dipinto dalla realtà; ciò che si vede all’interno della cornice non può in nessun modo

7 René Magritte, 1898-1967, pittore belga tra i massimi esponenti del surrealismo, corrente artistica della prima metà del Novecento che vide tra i suoi maggiori interpreti Salvador Dalì e Juan Mirò. 8 Foucault M., Ceci n ’estpas unepipe, in “Fata Morgana”, 1973.

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essere confuso con la realtà, al massimo può esserne solo una rappresentazione; in questo caso molto realistica, d’accordo, ma comunque resta solo una rappresentazione. Per dirla con le parole di Plinio il vecchio: “L’arte è una menzogna”9. E se nell’esempio di Magritte l’osservatore può confondersi e considerare realtà ciò che si trova all’interno della cornice, l’opposto può avvenire se andiamo a considerare le opere dei pittori cubisti e quelle di Picasso in particolare10, in cui la prima cosa che balza agli occhi, osservandole, è il linguaggio formale duro e spigoloso. L’osservatore può trovarsi a disagio, non riuscire a capire cosa sta realmente osservando: dipende dal punto di vista, dalla posizione anamorfica che si assume, da come si vuole definire la situazione dipinta e dalla capacità dell’osservatore di andare “oltre” le semplici linee disegnate. Tuttavia il punto è sempre lo stesso: ciò che è all’interno della cornice è una mera rappresentazione della realtà, in questo caso per niente realistica forse, ma pur sempre una rappresen­ tazione che non va per nulla confusa con ciò che si trova al di fuori del quadro. E una definizione ulteriormente chiarificatrice di questo concetto la fornisce lo stesso Bateson: “La cornice attorno a un quadro...dice “bada a ciò che è all’interno e non badare a ciò che è all’esterno”. La cornice di

9 Nella sua opera più famosa, la Naturalis Historia, lo scrittore latino riporta un interessante aneddoto suH’abilità del pittore romano Zeusi: quest’ultimo aveva dipinto dell’uva in modo così perfetto che gli uccelli si avvicinavano per beccarla. In questo caso, che ricorda quello della pipa di Magritte, arte e realtà si mescolano: uccelli veri volevano mangiare dell’uva dipinta. Plinio il Vecchio (23-79 d.C.), Naturalis Historia, libri 33-37 Mineralogia e storia dell’arte, Ei­ naudi, Torino, 2000. 10Mi riferisco in particolare all’opera La baignade o Bagnanti con barchetta, del pittore spagnolo Pablo Picasso (1881-1973), il maggiore esponente del cubismo e uno fra i più grandi pittori della storia, in cui non si riesce a capir bene cosa si stia realmente osservando: se un insieme di figure ovoidali unite fra di loro senza un senso logico o due bagnanti che giocano con una barchetta o ancora due figure dietro un muro blu alla sommità del quale spunta una minacciosa figura.

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un quadro dice all’osservatore che nell’interpretare il quadro egli non deve impiegare lo stesso tipo di ragionamento che potrebbe impiegare per interpretare la carta da parati esterna alla cornice” u. Mi sembra evidente come, nel passare dagli esempi simmeliani o pittorici di cornice fin qui riportati, alle idee di Goffman, il concetto di frame abbia perso la sua struttura rigida e ossificata per assumere forti connotazioni di mobilità e paradossalità. La cornice goffmaniana serve, sì, a delimitare una partico­ lare sfera di attività e a consentire di classificare i messaggi che appaiono all’interno di essa ma, a differenza di Bateson, più che da vincolo o da sbarramento nei confronti della vita reale, il frame di Goffman rappresenta il “ponte” tra attività incorniciata e realtà ordinaria.

4.4 Don Chisciotte e il problema della realtà Un esempio di “errore di fram e” è evidente nel famosis­ simo romanzo Don Chisciotte de la Mancia dello scrittore spagnolo Miguel de Cervantes. Il protagonista, Don Chisciot­ te, vaga per le terre spagnole con il suo destriero Ronzinante ed il suo fido aiutante Sancho Panza, pronto a difendere la povera gente dalle sopraffazioni. Il tutto, però, avviene in un’atmosfera tra il surreale e il ridicolo poiché Don Chisciotte non si rende conto di lottare contro nemici immaginari, dato che non c ’è nessun pericolo incombente ma è la sua fantasia a creare dei “mostri”. Riporto qui la parte del racconto dove si narra la storia del1

11 Bateson G., Una teoria del gioco e della fantasia, p. 228, trad. it. Adelphi, Milano, 1976.

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burattinaio Mastro Pietro che mette in scena il suo spettacolo delle marionette con la sua scimmia indovina, e il comporta­ mento di Don Chisciotte che, nell’occasione, è tra il pubblico: “Durante lo spettacolo dei burattini, mentre veniva rappre­ sentata la fuga di Don Gaiferos e di Melisenda inseguiti dalla cavalleria dei mori, vedendo e sentendo tutto quel frastuono, Don Chischiotte credette che fosse il caso di dare una mano ai fuggitivi e alzatosi in piedi, disse a voce alta:‘“Io non potrò mai permettere che in vita mia, e al mio cospetto, si faccia torto a un così ardimentoso cavaliere e ardimentoso amante come Don Gaiferos. Fermatevi, malnata canaglia, guardatevi dal seguirlo e perseguitarlo, o dovrete battervi con me.” E detto fatto, sguainò la spada e d’un balzo fu presso il tea­ trino e con furioso e incredibile crescendo lasciò piovere una gragnola di colpi sopra il moresco burattiname, buttando giù questo, decapitando quello, storpiandone uno, schiacciandone altri, tirò un tal fendente, che se Mastro Pietro non si fosse abbassato, curvato e rannicchiato, gli avrebbe scorciato la testa meglio che se fosse stata di pasta di marzapane”12. Don Chisciotte, dunque, assiste allo spettacolo di Mastro Pietro e prende i burattini per uomini reali, estrae la spada e comincia ad attaccare e a decapitare tutti i burattini finché non viene fermato; ciò però, accade solo dopo che egli ha devastato irrimediabilmente il teatro di Mastro Pietro. Che spiegazione dare di questa confusione di Don Chi­ sciotte? Perché egli scambia dei semplici burattini per uomini reali? È evidente in questo caso l’errore di frame di Don Chisciotte che non riesce ad inquadrare a dovere la situazione. Inoltre egli sbaglia anche key: infatti, in questo episodio, siamo di fronte

12 Cervantes M., Don Chisciotte della Mancia, pp. 804-806, trad. it. Einaudi, Torino, 1977.

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ad un caso di downkeying, cioè egli non “mette” la chiave dove invece dovrebbe; nel senso che non riesce a capire che tutto ciò che vede è una semplice rappresentazione teatrale, nulla è reale, il tutto avviene in chiave ludica. Il tema dominante del Don Chisciotte è proprio la realtà; ma, come c ’insegna Schutz in un suo saggio13 che analizza il tema in questione, esistono molti tipi di realtà: dal sogno alla politica, dal fantasticare al raziocinare. L’elemento da prendere in considerazione quindi, mi sem­ bra la capacità di saper entrare e uscire dai molti universi di significato che ci troviamo a vivere. Quotidianamente passiamo da una situazione ad un’altra e, di conseguenza, da un universo di significato ad un altro ma, nonostante i diversi passaggi a cui siamo soggetti, siamo di solito in grado di dare un senso ai confini e padroneggiare i molteplici frames che ci fronteggiano e ci circondano. Così non è per Don Chisciotte, infatti, la confusione in­ contrata dal “cavaliere dalla triste figura” tra burattini e per­ sone potrebbe essere interpretata come la conseguenza di una difficoltà nel saper padroneggiare la differenza di contesti, di differenti universi di significato. E lo stesso Schutz, a proposito della storia di Mastro Pietro, ha osservato che: “Don Chisciotte qui tocca il profondo e irrisolto problema della realtà dell’opera d’arte, in special modo del teatro. Anche noi, i Sancho Panza del senso comune, quando ci sediamo fra il pubblico siamo pronti a spostare il nostro accento di realtà dal mondo circostante della vita quotidiana a quello della scena, non appena il sipario si alza. Anche noi viviamo in regni differenti quando lo spettacolo è in corso e durante gli intervalli” (p. 46).

13 Schutz A., Don Chisciotte e il problema della realtà, trad. it. Armando, Roma, 1996.

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Schutz tocca qui un punto molto importante che, come si ricorderà, è anche stato alla base dell’analisi goffmaniana del frame, e cioè il coinvolgimento degli spettatori nel teatro e, più in generale, nell’arte. Quando Don Chisciotte pensa che il Don Gaiferos della scena sia una persona in carne ed ossa, non distingue tra la realtà degli eventi sulla scena e la realtà degli eventi della vita. Per dirla con Goffman, Don Chisciotte non riesce a distinguere la “cornice teatrale”; infatti, come scrive lo stesso Schutz, c ’è una differenza fondamentale tra la realtà degli eventi sulla scena e la realtà degli eventi della vita. La seconda realtà corrisponde “a quel sotto universo nel quale possiamo compiere le nostre azioni, su cui possiamo intervenire e che possiamo mutare, all’interno del quale pos­ siamo stabilire una forma di comunicazione con i nostri simili.” Nella realtà degli eventi sulla scena, al contrario, gli spet­ tatori stanno al di qua della scena e non possono interferire sul corso degli eventi. Il problema di Don Chisciotte rispetto ai burattini di Mastro Pietro è proprio quello di non riuscire a cogliere questa diffe­ renza: egli pretende d’intervenire e interferire là dove non lo si deve né lo si può fare. Egli prende alla lettera ciò che alla lettera non è, e questo ha delle conseguenze sul suo coinvol­ gimento nella scena. Mentre ciascuno di noi di solito, proprio quando è coinvolto in una scena e piange, soffre, ride o si diverte, non perde per tale ragione la propria identità e la consapevolezza di trovarsi solo in una bellissima illusione: sappiamo di essere all’interno di un gioco illusorio eppure proviamo emozioni quasi che non 10 sapessimo. Don Chisciotte, di fronte ai burattini, sembra proprio perdere tale consapevolezza. Egli perde quella condizione di coinvolgimento/non coinvolgimento che, come c ’insegna Goffman, è 11 segreto del nostro rapporto con la scena. L’episodio narrato dei burattini di Mastro Pietro termina 124

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con il raggiungimento della piena consapevolezza da parte del cavaliere che, essendosi reso conto dell’equivoco, attribuisce il fraintendimento dei contesti a dei misteriosi incantatori che lo perseguiterebbero: “Ora mi convinco più che mai - dice Don Chisciotte a questo punto - di ciò che molte altre volte ho creduto: che quegli incantatori che mi perseguitano non fanno che mettermi da­ vanti agli occhi le figure com’esse realmente sono, e poi me le cambiano e me le trasformano come vogliono loro. Ve lo dico in verità e realtà, signori che mi udite, che tutto quanto qui è avvenuto a me è parso che effettivamente avvenisse; che Melisenda fosse Melisenda; don Gaiferos, don Gaiferos; Marsilio, Marsilio, e Carlomagno, Carlomagno; per questo fui turbato dall’ira e per fare il mio dovere di cavaliere errante vol­ li dare aiuto e protezione ai fuggitivi, ed è con questa lodevole intenzione che feci ciò che avete visto; se mi è sembrato tutto a rovescio, non è colpa mia, ma dei cattivi che mi perseguitano: ciò nonostante, da questo mio errore, benché non sia derivato da malizia, mi condannerò io stesso a pagar le spese: veda un po’ Mastro Pietro che cosa vuole per i burattini rotti, che io sono pronto a pagarglieli subito in buona e corrente moneta castigliana” (ibidem). Bisogna fare attenzione però: Don Chisciotte, infatti, non è vittima di alcuna fabbricazione o presa in giro goffmaniana perché questi famigerati incantatori di cui lui parla, e che avrebbero dovuto organizzare il tutto per trarlo in inganno, in realtà non esistono, sono solo una sua mera illusione. I cattivi incantatori quindi, non sembrano altro che la per­ sonificazione della difficoltà di Don Chisciotte nel saper pa­ droneggiare quella che Bateson chiama “metacomunicazione”, cioè la definizione del contesto nel quale avviene l’azione e i significati contenuti al suo interno. Secondo Bateson infatti, l’uomo deve classificare i messaggi e i metamessaggi che emette e che a sua volta riceve, il più delle volte vi riesce ma di tanto in tanto, come in questo caso, commette degli errori 125

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nella classificazione dando così origine a paradossi insolubili. Un esempio di questa confusione nella classificazione dei messaggi e metamessaggi strutturanti il contesto è il doppio vincolo14, in cui una persona si trova davanti due ingiunzioni contraddittorie, fra le quali non riesce ad orientarsi. Tant’è che l’esito possibile di questa situazione è la schizofrenia, uno stato patologico in cui non si distinguono i propri messaggi e non si è in grado di dire in che senso si parla15.

14 Per “doppio vincolo” o “doppio legame” Bateson intende quel tipo di comu­ nicazione nel contesto di una relazione importante dal punto di vista emotivo, in cui è presente una contraddizione non riconosciuta fra messaggi situati a livelli logici diversi. Ad esempio, nel rapporto madre-figlio, quando la prima dice al bambino “se non fai così ti punirò” e subito dopo aggiunge “non sottostare ai miei divieti” oppure “non mettere in dubbio il mio amore” rende il figlio prigioniero di un contesto in cui la comunicazione è piena di ambiguità, poiché l’ingiunzio­ ne secondaria detta dalla madre è in aperto conflitto con la prima. Il bambino, in questo caso, si trova nella condizione di non essere in grado di analizzare la contraddizione e discriminare a quale ordine di messaggio debba rispondere: egli è punito se discrimina correttamente i messaggi della madre, ed è punito se li discrimina erroneamente. È preso dunque in un doppio vincolo. Nato come un’ipotesi di eziologia per la schizofrenia, in realtà il doppio vincolo costituisce una condizione che supera i confini della patologia e caratterizza ogni interazione fra gli esseri viventi, dal momento che essa non può darsi se non come comunica­ zione transcontestuale. Messaggi e metamessaggi non sono semplicemente delle ingiunzioni contraddittorie, fra le quali si possa scegliere, con una ragionevole speranza di riuscita. Assumono piuttosto un aspetto paradossale, nel senso che qualunque scelta facciamo, siamo immediatamente ricondotti alla sua opzione contraria. Così ad esempio, nel caso dell’ingiunzione: “Sii spontaneo!”. Se lo sono, ho obbedito ma sono stato costretto a farlo; se invece non sono spontaneo, disobbedendo ho salvaguardato la mia spontaneità. Se sono spontaneo, non sono spontaneo: ricado sempre in un paradosso. A tal proposito Bateson riprende la teoria dei tipi logici di Russell e Whitehead applicandola all’analisi della comunicazione.[Bateson, Verso una teoria della schizofrenia, in Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano, 1976]. 15 Questa posizione di Bateson tuttavia, pur ricevendo grandi riscontri, fu anche duramente attaccata, in particolare da quei medici o psichiatri che sostenevano che all’origine della schizofrenia c’erano cause fisiche piuttosto che relazionali e comunicative. Per ulteriori approfondimenti si rimanda al saggio La teoria del doppio vincolo: un fraintendimento? in Una sacra unità, Adelphi, Milano, 1997.

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Il punto fondamentale è che, secondo Bateson, le relazioni fra i vari livelli della comunicazione sono gerarchiche, i metamessaggi si situano a un tipo logico diverso rispetto ai messaggi che qualificano: una cosa sono i messaggi, un’altra i contesti e le cornici16 in cui sono inquadrati. Il carattere paradossale della comunicazione è legato proprio a questa diversità di li­ velli: io non posso mai sottrarmi a un’ingiunzione di un livello più elevato. L’importante è classificare sempre con estrema precisione il livello logico a cui ci si riferisce, il che, riportato al mondo concreto della comunicazione fra gli esseri viventi, significa distinguere sempre, in ogni interazione, le varie cornici strutturate dai metamessaggi. La stabilità culturale infatti dipende da regole e cornici con­ divise, se queste ultime non lo sono non potrà esservi alcuna comunicazione. Analisi, questa, che Don Chisciotte non riesce a compiere cadendo in una totale confusione di realtà. Come sostiene Alfonso M. Iacono in un suo articolo17 a tal proposito: “E come se Don Chisciotte, nel pieno gioco barocco dell’illu­ sione, cadesse nella trappola del trompe-l’oeil e confondesse una finestra o una cornice dipinte su un muro con la tecnica della prospettiva, con una finestra o una cornice realmente esistenti”.

16Bateson definisce la nozione di cornice nel seguente modo:”la cornice determina il sottoinsieme di segnali nell’ambito dei quali sussistono determinate regole; in altre parole è sempre possibile dire di quale cornice stiamo parlando elencando le regole che essa delimita, e viceversa, se può essere indicata la cornice, essa può essere utilizzata per riferirsi alle regole che essa delimita”. (Bateson G., Una teoria del gioco e della fantasia, trad. it. Adelphi, Milano, 1976). Tra cornice e regole dunque, c’è un rapporto strettissimo:per Bateson la cornice rappresenta il confine fra ambiti in cui valgono determinate regole e quelli in cui ne vigono altre. 17 Iacono A. M., Questo è un gioco? Metacomunicazione e attraversamento di contesti, in Gregory Bateson, p. 188, Bruno Mondatori, Milano, 2000.

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Ed è proprio questo il punto: Don Chisciotte compie un errore di frame, non riesce ad inquadrare la situazione, non riesce a distinguere il confine che permette di distinguere un universo di significato da un altro, in questo caso l’universo della storia rappresentata dai burattini da quello “reale” dei cavalieri. Don Chisciotte, in breve, compie l’errore dal quale ci aveva ben messo in guardia René Magritte a proposito del suo dipinto Ceci n ’est pas une pipe: è come se egli considerasse la pipa come un oggetto reale, tangibile, e non come una semplice rappresentazione di esso. In conclusione quindi, la morale che ci fornisce la storia di Don Chisciotte è che, chi non riesce a percepire quei confini al cui interno ciascuno di noi viene a trovarsi e dà significato agli eventi e alle cose, rischia di essere come il famigerato cavaliere che, confondendo le differenti realtà dei burattini e dei cavalieri, appare diverso agli occhi delle altre persone. Quando non si percepiscono i confini tra le differenti realtà e i diversi contesti di significato si rischia di essere come i prigionieri della caverna di Platone18, i quali vedono ombre e pensano che siano cose, non sapendo che esistono mondi al di fuori della loro caverna e uomini che vivono senza catene. Essi sono prigionieri della loro illusione.

4.5 Frames teatrali: Pirandello e Sofocle Luigi Pirandello19, uno dei massimi scrittori e drammatur­ ghi del Novecento europeo, non può non essere citato nella

18 Mi riferisco al mito della caverna di Platone che rappresenta una delle colon­ ne portanti della storia della filosofia. Per approfondimenti rimando all’ottimo libro di Abbagnano e Fornero Protagonisti e testi della filosofia, vol.1, Paravia, Torino, 1996. 19 1867-1936. Fra i massimi poeti e drammaturghi mondiali, premio Nobel nel 1934 per la letteratura.

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mia piccola antologia di cornici. Il punto culminante della sua attività drammatica è costituito dalla trilogia del “teatro nel teatro” formata dalle seguenti opere: Sei personaggi in cerca di autore (1921), Ciascuno a suo modo (1924) e Questa sera si recita a soggetto (1930). Leggiamo brevemente la trama della prima opera, che è forse quella più rappresentativa: cinque personaggi si presen­ tano ad un Capocomico, mentre sul palcoscenico si svolgono le prove de II gioco delle parti , e gli raccontano di essere stati inventati da un Autore che li ha abbandonati senza risolvere la loro storia nelle forme dell’arte. Creature vive e autonome quali oramai sono, essi soffrono il fatto di dover imprigionare negli schemi generici e convenzionali del linguaggio scenico le proprie vicende che sono ossessivamente presenti nella loro memoria. In quanto “personaggi” tuttavia, la finzione teatrale a cui grossolanamente il Capocomico li avvia rappresenta l’unica fonte di salvezza. La loro tragedia si manifesta a due livelli: il primo, quello più esplicito, riguarda il confuso pro­ tendersi dei personaggi incompiuti verso una forma d’arte per sempre realizzata, che li sottragga alla condanna del labile e dell’informe; il secondo, quello più profondo a cui il primo allude, riguarda la disperata aspirazione di ogni uomo verso un valore certo e immutabile che, salvandolo dal flusso delle mille cangianti forme in cui è trascinato e disperso, dia un senso definitivo alla sua vita. Il dramma investe quindi il contrasto tra arte e vita, tra finzio­ ne e realtà; qui, al di là delle vicende, dei drammi esistenziali che dovrebbero essere rappresentati, ma la cui realizzazione scenica si rivelerà impossibile lasciando il posto alla rappresentazione di questa impossibilità, l’autore affronta il problema del teatro in quanto tale: quello del rapporto tra l’autore e i personaggi (problema della creazione artistica), tra i personaggi e gli attori e il Direttore Capocomico (problema della “traducibilità del dramma nella forma tradizionale del teatro), tra gli attori e gli spettatori, tra il testo scritto e la traduzione scenica, ecc. Problemi 129

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che analizzano i modi stessi della rappresentazione teatrale e che riguardano molto da vicino la cornice teatrale goffmaniana poi­ ché vanno a configurare queste opere facenti parte della trilogia come un insieme di fra m e s sovrapposti e nello stesso tempo comunicanti l’uno con l’altro. È proprio questa l’innovazione principale del genio siciliano: il suo fare “metateatro”, il parlare di teatro all’interno di una rappresentazione teatrale. Come scrive il critico D’Amico20: “egli era l’apportatore di una rivoluzione radicale: parlava un linguaggio nuovo, fino ad allora sconosciuto agli ascoltatori ... noi usi ai tradizionali procedimenti del teatro ottocentesco chiedevamo, attendevamo una cosa, mentre il poeta ce ne of­ friva un’altra.. .Come tutti i creatori Pirandello aveva precorso i tempi: per dirci qualcosa che gli premeva ce lo proponeva in uno stile a noi sconosciuto”. Un innovatore quindi, forse un genio; un poeta capace di irrompere negli schemi classici del teatro e crearne dei nuovi. È come se, in questa trilogia, applicasse all’arte teatrale la teoria dei fra m e s che Erving Goffman formulerà nei dettagli solo 50 anni dopo. Molto tempo prima di Pirandello, Sofocle, uno dei massimi drammaturghi greci, scrive l ’E dipo re, tragedia che rappre­ senterà un punto di riferimento e un indice di paragone per tutti coloro che si cimenteranno nell’arte teatrale e non solo21. Pietra miliare nella storia del teatro, in questa tragedia viene raccontata la storia di Edipo e del suo triste destino:

20 D’Amico S., Prefazione in Pirandello L., Maschere nude, pp.18-19, Mondadori, Milano, 1961. 21 Basti pensare al famoso “complesso di Edipo” e all’interpretazione in chiave psicoanalitica che ne darà Sigmund Freud mella sua opera L ’interpretazione dei sogni.

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L’opera inizia con il re di Tebe, Laio, che ha un figlio dalla moglie Giocasta. Il bambino però è segnato sin dalla nascita da un orribile destino, è condannato infatti ad uccidere il padre e sposare la madre; per questo motivo il re Laio decide di elimi­ narlo. Il sicario incaricato dell’omicidio però, s’impietosisce e consegna il bambino ad un pastore che a sua volta lo dà al re di Corinto Polibo, il quale lo adotta imponendogli il nome di Edipo a causa dei piedi gonfi per i ceppi. Edipo cresce finché un giorno un indovino non gli svela la sua terribile sorte; egli allora, pensando che suo padre fosse Polibo scappa da Corinto ma nella fuga uccide, durante un lite e per legittima difesa, Laio. Raggiunge, poi, Tebe, che libera dal flagello della Sfinge (mostro che sottoponeva un enigma ai passanti e divorava tutti coloro i quali non riuscivano a scioglierlo, e viene perciò acclamato dalla città e spinto a sposare la vedova di Laio, cioè sua madre Giocasta. A questo punto egli non sa, è incosciente, ma il suo tragico destino è già compiuto. In seguito, dopo varie peripezie, scopre la verità interrogando l’indovino Tiresia e il pastore che lo raccolse bambino e, in preda ad una sofferenza atroce (accentuata dalla morte della madre-moglie Giocasta), si rende cieco e va in esilio22. Ho citato questa tragedia di Sofocle proprio perché è un chiaro esempio di quella che Goffman chiama “fabbricazione incosciente”: Edipo infatti vive senza conoscere come stanno realmente i fatti, è come se vivesse una realtà parallela, è vittima di una fabbricazione creata dal destino: la trama ordita alle sue spalle da quest’ultimo è più reale della realtà. Nel suo caso è come se avesse applicato alla sua vita unfra m e sociale che solo dopo anni scoprirà essere quello sbagliato. Quando ciò accade Edipo è perso: non ha più un’ancora alla quale appigliarsi, un porto sicuro nel quale rientrare, un rap­ porto fiduciario su cui contare; egli viene preso da un senso di

22 Sofocle, Edipo re, Edipo a Colono, Antigone, trad. it. Rizzoli, Milano, 2004.

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smarrimento e da una disperazione tale che decide di chiudere gli occhi alla realtà, di rendersi letteralmente cieco ad essa e andare in esilio. È quello che Goffman chiama “ancoraggio alla realtà” e che in questa circostanza è assente: il problema di Edipo è che per lui questo ancoraggio non c ’è mai stato, o meglio pensava di essere saldamente con i piedi per terra (la cornice che applicava era tale che per lui la situazione era del tutto reale), invece era vittima di una interminabile fabbricazione. Un errore di frame continuato, una beffarda fabbricazione e la bussola che ci permette di navigare nella vita quotidiana viene completamente smarrita. La storia di Edipo dimostra in maniera inequivocabile l ’estrema importanza di una corretta definizione della realtà e, nello stesso tempo, di come sia spesso difficile arrivare ad averla23; d ’altronde, come osser­ va Goffman, il modo in cui si produce ogni giorno il nostro senso della realtà, è il medesimo attraverso il quale esso viene manipolato e ingannato...

4.6 Frames e A.1.24: Minsky e la società della mente Matematico, ma con profonde conoscenze filosofiche e lin­ guistiche, Marvin Minsky è famoso soprattutto per aver dato, insieme a John McCarthy, il via al progetto sull’Intelligenza Artificiale del quale viene considerato il “padre teorico”. U n’idea dominante nel pensiero di Minsky è quella di

23 Estremamente interessanti a tal proposito sono i racconti di Philip k. Dick, in particolare il suo Ubik nel quale vengono affrontati temi come l’illusione della realtà unica e unificata o la mancanza di un tessuto connettivo e di un principio unificatore al di sotto dell’apparenza delle cose. La realtà è quindi polimorfa: può assumere diverse forme a seconda del punto di vista dell’osservatore. 24Artificial Intelligence: settore di ricerca che si propone di far fare alle macchine cose che, secondo l’opinione comune, richiedono intelligenza.

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rendere un calcolatore capace di manipolare non solo dati numerici, ma anche simboli di tipo linguistico per la compren­ sione di forme di ragionamento basate su analogia e sul senso comune. Da diverse esperienze infatti, Minsky era giunto alla conclusione che la logica, usata nei calcolatori, non è adatta a descrivere i processi di pensiero che gli uomini utilizzano nelle comuni situazioni quotidiane. A questo scopo egli ricorre proprio al concetto di fra m e, inteso come un quadro di riferimento capace di fornire al pro­ gramma una gamma di informazioni che trattano una classe di oggetti o di situazioni. Quando si trova di fronte a un problema da risolvere, il programma seleziona unfra m e da applicare alla soluzione dello stesso problema; se l’esito è negativo, prova con un altro fra m e e così via. Gli sforzi per tentare di adattare il funzionamento del computer alle diverse situazioni della vita reale sono confluiti nell’opera L a s o c ie tà d ella m ente; un’opera dalla struttura particolare, formata da 31 capitoli, in cui ogni singolo capitolo tratta un solo argomento, in modo che la lettura possa segui­ re anche un ordine diverso rispetto a quello in cui le pagine vengono presentate. Minsky sostiene che tale organizzazione è necessaria poiché: “.. .nessuna storia lineare potrebbe mai descrivere una strut­ tura vasta come la mente umana, così come non sarebbe possibile cogliere il carattere di una cattedrale, di una città o di una civiltà osservandone un solo aspetto o seguendo un solo itinerario”25. Il concetto posto alla base del funzionamento del cervello è quello di decentramento: la mente, secondo Minsky, funziona in modo simile ad una società di agenti altamente specializzati

25 Minsky M., La società della mente, trad. it. Adelphi, Milano, p. 20, 1989.

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dove ognuno di essi ha un suo specifico compito. L’esempio riportato è quello della collaborazione tra unità mentali per compiere un gesto molto semplice come quello di bere una tazzina di caffè. Tale azione richiede l’intervento di numerosi agenti o, per dirla à la Goffm an, l’applicazione di numerosi fra m e s : - quelli relativi alla PRESA, che reggono la tazzina; - quelli dell’EQUILIBRIO, che impediscono che il caffè venga versato; - quelli del GUSTO, che vogliono che il caffè venga bevuto; - quelli del MOVIMENTO, che portano la tazzina alle labbra. Questi fra m es non occupano la mente per intero, infatti, come sostiene Minsky, mentre beviamo il caffè possiamo pas­ seggiare per la stanza o parlare con un amico, proprio perché la mente non è formata da un unico agente ma da una società di agenti (Goffman direbbe che si applicano diversi fra m es nello stesso momento: è il cosiddetto “fra m ew o rk di fra m ew o rk s”). Quando però una persona compie più azioni nello stesso istante, possono aver luogo conflitti fra gli agenti (errori di fra m e), e questi ultimi generalmente fanno sì che un agente prevalga sugli altri. A tensioni eccessive può tuttavia corrispon­ dere un blocco dell’intero sistema, un caos totale. Una delle conclusioni alle quali arriva Minsky alla fine della sua opera è che la differenza fondamentale tra gli uomini e le macchine è che a queste ultime manca la conoscenza del senso comune, ossia quel tipo di conoscenza formata da un incredibile numero di nozioni pratiche, di regole ed eccezioni, disposizioni e tendenze, acquisite faticosamente dagli esseri umani attraverso l’esperienza quotidiana e che ci permettono, come sostiene Goffman, di restare ancorati al mondo circostante senza precipitare nel caos cognitivo.

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4.7 F ram es e psicologia: Gardner e le intelligenze multiple Howard Gardner, psicologo americano, è famoso per es­ sere considerato il principale rappresentante della teoria delle intelligenze multiple. Il punto di partenza della concezione di Gardner è la con­ vinzione che la teoria classica dell’intelligenza, basata sul pre­ supposto che esista un fattore unitario, misurabile in quoziente intellettivo, sia errata. Dopo aver effettuato indagini sull’intelligenza dei bambini e su adulti colpiti da ictus, giunge alla conclusione che gli esseri umani non sono dotati di un determinato grado di intelligenza generale, che si esprime in certe forme piuttosto che in altre, quanto piuttosto che esiste un numero variabile di facoltà re­ lativamente indipendente da loro. Arriva così ad identificare almeno sette differenti tipologie di intelligenza (sette fra m es intellettivi da applicare a differenti situazioni): - intelligenza logico-matematica, abilità implicata nel confronto e nella valutazione di oggetti concreti o astratti, nell’individuare relazioni e principi; - intelligenza linguistica, abilità che si esprime nell’uso del linguaggio e delle parole, nella padronanza dei termini linguistici e nella capacità di adattarli alla natura del compito; - intelligenza spaziale, abilità che consiste nel percepire e rappresentare gli oggetti visivi, manipolandoli idealmente, anche in loro assenza; - intelligenza musicale, abilità che si rivela nella compo­ sizione e nell’analisi di brani nonché nella capacità di discri­ minare con precisione altezza dei suoni, timbri e ritmi; - intelligenza cinestetica, abilità che si rivela nel controllo e nel coordinamento dei movimenti del corpo e nella manipo­ lazione degli oggetti per fini funzionali o espressivi; - intelligenza interpersonale, abilità di interpretare le emozioni, le motivazioni e gli stati d’animo degli altri; - intelligenza intrapersonale, abilità di comprendere 135

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le proprie emozioni e di incanalarle in forme socialmente accettabili. Successivamente, a questi sette tipi di intelligenza, Gardner ha aggiunto l’intelligenza naturalistica, relativa al riconosci­ mento e alla classificazione di oggetti naturali, e ha ipotizzato l’esistenza dell’intelligenza esistenziale, che riguarderebbe la capacità di riflettere sulle questioni fondamentali riguardanti l’esistenza e l’attitudine al ragionamento astratto per categorie concettuali universali. Con la formulazione della teoria delle intelligenze multiple Gardner sostiene che i diversi tipi di intelligenza siano presenti in tutti gli esseri umani; la differenza tra le diverse prestazioni di questi ultimi va ricercata unicamente nelle diverse combina­ zioni delle caratteristiche intellettive. Ciò che fa la differenza quindi è, per usare una terminologia goffmaniana, come viene attuato il lavoro d’inquadramento, come cioè vengono definiti e utilizzati i diversi fra m e s intellettivi. Non i singoli fra m es quindi, ma il fra m ew o rk nel suo complesso è ciò che definisce la situazione e differenzia gli esseri umani.

4.8 F ram es cinematografici Altri interessanti esempi dell’applicazione del fra m e ven­ gono dal mondo cinematografico, in cui diversi registi hanno girato film usando particolari forme d’inquadramento della situazione che hanno influenzato sia lo svolgimento della trama che l’impatto propriamente “visivo”. Prenderò come esempio tre film che, a mio parere, rap­ presentano delle interessanti prove di applicazione del fram e. Il titolo del primo è I so liti s o s p e tti 26, un film basato esclu­

26 I soliti sospetti, titolo originale The usuals suspects, regia di Bryan Singer, Stati Uniti, 1995.

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sivamente sui dialoghi, con pochissima azione, per cui lo svi­ luppo può risultare a tratti lento, ma la sceneggiatura è quanto di più intrigante sia stato scritto negli ultimi anni; inoltre ha la particolarità di guidare lo spettatore in una direzione ben chiara sin dall’inizio del film fino a un punto in cui egli stesso si rende conto, con grande sorpresa, di essere stato vittima di una beffa. Diamo uno sguardo alla trama: Cinque criminali, o presunti tali, si trovano a passare la notte nella stessa cella quando uno sconosciuto avvocato, rappresentante degl’interessi di un boss della malavita fa­ migerato per le sue capacità delinquenziali, propone loro un “gran colpo”. Questo ha a che fare con delle “partite” di droga e potrebbe far diventare i cinque ricchi. Dopo qualche esitazione, soprattutto da parte di uno dei cinque che aveva deciso di mettersi sulla “retta via” abbandonando per sempre il mondo della delinquenza, tutti accettano soprattutto perché affascinati da questo fantomatico boss committente del colpo, dal nome “Kaiser Soze”. Il film continua concentrandosi sui preparativi del colpo, sulle divergenze tra i componenti della banda, fino ad arrivare al momento clou, quando cioè il tutto dovrebbe essere portato a termine e invece qualcosa va male e ben quattro componenti della malnata banda trovano la morte. L’unico a salvarsi è colui che avrebbe dovuto fare il “palo”, il più ingenuo del gruppo, uno storpio che per tutto il film appare terrorizzato dalla situazione in cui si è venuto a trovare. Quando quest’ultimo viene interrogato dalla polizia, si cerca di capire (il commissario e gli spettatori con lui), cosa fosse andato storto e soprattutto chi fosse il misterioso mandante, finché, due minuti prima della fine, lo storpio, con una classe degna di Lupin, esce dalla centrale di polizia, cammina nor­ malmente e, fumandosi tranquillamente la più classica delle sigarette esclama: “La beffa più grande che il diavolo abbia fatto è far creder che egli non esista...”. È proprio l’ultima affermazione del falso storpio che c’il­ lumina sulla bravura del regista e dello sceneggiatore; tutto il 137

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film, infatti, non è che una beffa goffmaniana. Una presa in giro nella quale cadono, indifferentemente, poliziotti, investigatori, i compagni che avrebbero dovuto fare il colpo e tutte le altre persone che, a poco a poco, appaiono nel lungometraggio e che quindi sono “contenuti” nella fabbricazione. Siamo di fronte ad una situazione in cui tutti applicano un fra m e sbagliato, nessuno riesce ad inquadrare la situazione per come è realmente e inoltre, tutti sono sicuri di essere nel giusto, neanche lonta­ namente si pensa di essere vittime di un imbroglio. Le uniche due persone ad essere a conoscenza della realtà dei fatti invece, sono lo “storpio” e il suo misterioso avvocato che si pongono quindi come gli artefici della grande fabbricazione che viene portata avanti per tutto il film. È, quest’ultimo, una perfetta rappresentazione del mondo della simulazione, dell’inganno, dell’arte di spiazzare lo spettatore di cui Goffman è stato sommo maestro. Il secondo lungometraggio che porto come esempio è M e ­ m ento 27, un film abbastanza recente che si segnala per il suo particolare svolgimento che rappresenta un classico esempi di “scatole cinesi”. Ma leggiamo prima la trama: Il protagonista del film, Leonard, conduce una vita alquanto agiata: indossa abiti molto costosi, guida auto dell’ultimo modello, ma vive in un economico ed anonimo alberghetto, pagando i suoi conti in contanti. Nonostante sembri un ma­ nager di successo, il suo unico pensiero è la ricerca di come realizzare la sua vendetta: trovare e uccidere l’uomo che ha violentato e messo fine alla vita di sua moglie. Fino a questo punto sembrerebbe un normalissimo film d’azione se non fosse per un piccolo particolare: Leonard, infatti, soffre di una rara e incurabile forma di perdita della memoria. Egli, nonostante riesca a ricordare tutta la sua vita prima della perdita della mo­

27 Memento, regia di Christopher Nolan, Stati Uniti, 2000.

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Piccola antologia di cornici

glie, non riesce a ricordarsi ciò che è accaduto quindici minuti prima: dove si trova, dove sta andando e perché. Egli, tuttavia, è molto cosciente del suo problema e, tormentato dal ricordo di ciò che ha perso, tenta di ricostruire la sua vita attraverso l’uso di schedari, fotografie, cartelline, tabelle, tatuaggi sparsi per il corpo ed ossessive consuetudini che hanno il compito di sostituire la sua memoria, permettendogli così di fissare spazio e tempo e di rimanere collegato alla sua missione. La particolarità del film è che, dopo quindici minuti, Leonard dimentica tutto ed è quindi come se ricominciasse, ogni volta, una nuova vita. Lo spettatore, quindi, si trova co­ stretto a dover svolgere ogni quindici minuti un nuovo lavoro d’inquadramento, poiché ogni volta vengono a galla nuovi particolari del passato che mescolano le carte in tavola. Per dirla con Goffman, siamo di fronte a dei continui “fra m ew o rk di fra m e w o rk s”, l’azione si sviluppa secondo lo schema delle scatole cinesi: aperta la più grande se ne trova sempre una più piccola che nasconde qualcos’altro al suo interno e, se il continuo lavoro d’inquadramento non viene svolto con atten­ zione, considerando anche i più piccoli particolari, si rischia di arrivare alla fine del film in una confusione totale dovuta proprio al continuo sovrapporsi di fra m e s . L’ultimo film che voglio prendere in considerazione è R iccard o III 28. Come si può capire è la trasposizione cine­ matografica di un’opera teatrale di William Shakespeare29 e infatti la trama non si discosta per nulla dall’originale. La particolarità che però m’interessa far notare è che il regista conduce lo spettatore all’interno del se t cinematografico: gli mostra i preparativi delle scene, le prove degli attori, i consigli

28 Riccardo III, titolo originale A looking fo r Richard, regia di Al Pacino, Stati Uniti, 1996. 29 Shakespeare W., The Tragedy o f King Richard The Third, trad. it. Riccardo III, Rizzoli, Milano, 1986.

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che egli stesso suggerisce loro, le varie prove che vengono compiute, ecc. Il tutto rappresenta, per dirla sempre con le parole del sociologo canadese, una creazione di esperienza negativa30 ed un superamento di quella linea di demarcazione che normalmente si trova tra attori e pubblico; in questo caso, infatti, il pubblico “partecipa” alle riprese del film violando la cornice cinematografica ed “entrando” nel film.

30 Si veda a tal proposito Cap. 3, par. 3.5.

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L ’etica del pensiero è il più grande fra tutti ipoteri. Publio Cornelio Tacito

5.1 Il problema della definizione del framework A conclusione del mio lavoro mi sembra giusto commentare alcune idee che caratterizzano l’analisi goffmaniana del frame. Innanzitutto vorrei fare una puntualizzazione sul concetto di framework del sociologo canadese. Quando egli sostiene che attraverso i frameworks primari (in questo caso mi riferisco soprattutto a quelli sociali), inquadriamo la situazione in cui ci troviamo e riusciamo a vivere la quotidianità e a muoverci al suo interno sembra che per lui questa capacità sia innata dell’individuo. Non penso sia così, perché la capacità di ma­ neggiare la complessità degli strumenti d’inquadramento e la competenza a svolgere queste operazioni non mi sembra qual­ cosa che tutti i membri della società possiedono dal momento della loro nascita, bensì qualcosa che va appreso attraverso l’esperienza, cioè attraverso l’autoaddestramento. Per rendere più comprensibile l’idea che Goffman propone riguardo al lavoro d’inquadramento primario, penso possano aiutare le idee di Ryle, e in particolare la sua thick description \ cioè descrizione densa, con la quale s’intende una “piramide” 1 Ryle G., The Thinking o f thoughts, in “Collected Papers”, Hutchinson, vol. II, London, 1971.

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di livelli di capacità e competenze sempre più complesse che vengono costruite nel corso della socializzazione primaria, cioè nel processo di educazione, addestramento e apprendimento in cui ha luogo la formazione di membri della società in senso pieno. E anche Wittgenstein sembra seguire la stessa linea quando sostiene: “Quello che noi facciamo, quello che noi percepiamo, e quello che noi pensiamo e in cui crediamo, è il frutto di ciò che ab­ biamo imparato da altri (o che loro ci hanno insegnato) e di alcune disposizioni innate, o istinti [...] La nostra immagine del mondo è l’immagine che ci è stata tramandata2”. Mi sembra evidente come queste idee siano particolarmente rilevanti anche per la fra m e a n a lysis del sociologo canadese e, in particolar modo, per aiutare a rendere più comprensibile il concetto di fra m ew o rk . Il lavoro d’inquadramento primario di cui parla Goffman parla non è una capacità innata, ma è reso possibile solo grazie all’applicazione di quei sistemi di “regole decisionali” che acquisiamo nel corso della nostra cre­ scita, della nostra educazione, del nostro addestramento e che impariamo attraverso l’esperienza. Penso che per Goffman il fra m ew o rk , l’applicazione della giusta cornice, sia soprattutto una pratica di pensiero, cioè un esercizio, un allenamento per la nostra mente; e in quanto tale diventa un’etica: imparare ad applicare il giusto fra m ew o rk infatti, significa imparare ad entrare ed uscire dalle cornici della nostra esperienza senza volerle bloccare una volta per tutte. Sempre a proposito del lavoro d’inquadramento primario e della fra m e an alysis in generale, penso sia importante riportare delle osservazioni a riguardo; come fa notare Giglioli3, nella

2Wittgenstein L., Ricerchefilosofiche, p. 1, sez. 404, trad. it. Einaudi, Torino, 1967. 3 Giglioli P.P., Rituale, interazione, vita quotidiana. Saggi su Goffman e Garfinkel, Clueb, Bologna, 1990.

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prospettiva dell’analisi goffmaniana, l’ordine sociale com­ plessivo, nelle sue proprietà macrosistemiche strutturali, non è mai troppo precario, poiché esso viene considerato come dato, durkheimianamente esterno o indipendente dagli individui. Giglioli sostiene che Goffman, alla pari di Durkheim, ritiene che il significato sociale dell’azione abbia scarsi rapporti con la soggettività dell’attore, ma emerga piuttosto dall’analisi contrastiva delle forme, dei fra m es sottostanti all’infinita varietà delle situazioni empiriche. Secondo Giglioli: “Al suo durkheimismo appare insensata l’idea che gli individui possano definire a piacere una situazione, che non esista niente di preordinato.. .secondo Goffman, quindi, la realtà sociale è influenzata solo marginalmente dalle definizioni dei singoli attori, non viene costantemente rinegoziata in ogni nuova situazione, è tutt’altro che fragile”4. Giglioli sostiene che Goffman sia convinto che, nella mag­ gior parte dei casi, la gente abbia un’idea perfettamente chiara di ciò che sta accadendo; ciò deriva da una sorta di “riflessività istituzionale”, in virtù della quale la società incorpora e con­ ferma in svariati modi la comprensione che abbiamo di essa e, nello stesso tempo, rafforza la coerenza tra ordine sociale e ordine simbolico. Al contrario però, sul medesimo argomento, De Biasi5 sostiene che l’ordine cognitivo delle interazioni sia molto più vulnerabile di quanto lasci intendere Goffman e: “Se l’esperienza degli individui appare “ancorata” alle strut­ ture del mondo sociale, spesso quest’ancora può trovarsi fuori

4 Giglioli PP., Una lettura durkheimiana di Goffman, in “Rassegna italiana di sociologia”, n. 3, 1984. 5De Biasi R., Cornici, in “Aut Aut”, n. 269, p. 12, La Nuova Italia, Firenze, 1995.

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posto, o rivelarsi troppo flebile. Quindi l’esperienza è vulne­ rabile. E l’unica cosa che ci preserva dal caos cognitivo è la fiducia nei confronti di ciò che viene percepito socialmente come “reale”, e non già la “realtà” sociale in quanto tale”. Gli individui, quindi, andrebbero ad incidere sull’ordine sociale complessivo in maniera molto più profonda di quanto sostenuto dal sociologo canadese; una teoria, quest’ultima, che ricorda molto da vicino quelle degli interazionisti sim­ bolici con i quali spesso, in maniera errata, Goffman è stato confuso. Gli interazionisti, infatti, ritenevano che il punto di partenza nell’analisi della definizione della realtà consiste sempre nell’individuo concreto e nella definizione che egli dà alla situazione che si trova a vivere. La situazione vissuta viene intesa in maniera empirica come unica e irripetibile e l’ordine sociale è il risultato di questa definizione individuale e dal comportamento che ne deriva. La realtà sociale, di conseguenza, è continuamente negoziata e quindi instabile e fragile. Penso che Goffman occupi una posizione opposta a quella degli interazionisti simbolici per quanto riguarda la F ram e A nalysis, e sono d’accordo con Giglioli nel considerare l’ottica durkheimiana come quella che gli renda più giustizia; inoltre le considerazioni e i dubbi espressi da De Biasi erano ben presenti al sociologo canadese, il quale non ha mai scritto che l’esperien­ za non sia vulnerabile, ma l’esatto contrario. L’unico modo per evitare di cadere nel caos cognitivo consiste nell’applicazione di schemi interpretativi, ognuno dei quali definito in base alle proprie regole di operazione, che guidano la nostra percezione delle forme della realtà sociale, individuando le forme sotto­ stanti alle attività; poiché ogni schema, ogni fra m e, è composto da un insieme finito di elementi, è possibile rintracciare delle regole di trasformazione che ci permettono di passare da un fra m e all’altro senza perdere sicurezza. Sempre a proposito dei fra m ew o rk s primari, è interessante

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riportare le annotazioni di Alessandro Dal Lago, il quale cerca di approfondire l’oscuro concetto di “schema primario”: “La definizione di schema interpretativo primario incorpora una fondamentale distinzione tra schemi naturali e schemi sociali. I primi sono visti come inintenzionali, inanimati, ecc., mentre i secondi offrono una “comprensione di sfondo” per eventi che comportano sforzo, intenzionalità, intelligenza, e così via. Altrimenti detto, gli schemi naturali presuppon­ gono quasi sempre una valutazione di ciò che “è accaduto” in termini di necessità o fatalità, mentre gli schemi sociali finiscono per determinare moralmente gli eventi (in termini di volontà o responsabilità umana). Per fare un esempio ovvio, l’evento “alluvione” può essere incorniciato in uno schema naturale (“piogge torrenziali sul Piemonte”) e/o sociale (“la cementificazione della valle del Po e la mancanza di una vera politica dell’ambiente sono responsabili della recente alluvione”)”6. Il sociologo italiano quindi, oltre a cercare di dare una più chiara definizione di fra m ew o rk primario, riporta Fintelligente esempio dell’alluvione in Piemonte con il fine di far capire che questi schemi primari, in quanto percettivi, relativi cioè all’esperienza fisica degli attori, sono a loro volta interpretabili (e quindi anche violabili). Detto in altri termini, anche il fatto di applicare prevalentemente uno schema naturale oppure uno sociale a un evento è il risultato di un lavoro sociale, di un’interazione complessa tra attori e significati. Leggiamo l’altro esempio riportato da Dal Lago, riguardante l’epidemia del virus Ebola: “Concludendo un’inchiesta sulla diffusione dei virus endemici

6 Dal Lago A., Il “fram e" oscuro, in “Aut Aut”, n. 269, p. 58, La Nuova Italia, Firenze, 1995.

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nella foresta pluviale africana, l’autore, un divulgatore scien­ tifico, si chiede se la facilità con cui Ebola può diffondersi non dipenda anche dalla violenza con cui l’uomo ha distrutto gli ecosistemi. E giunge alla conclusione che in effetti la dif­ fusione di virus come HIV e Ebola è anche una risposta della natura ai pericoli suscitati dall’invadenza tecnologica, dalla diffusione del trasporto aereo, dalla costruzione di autostrade nella foresta, ecc.”7. Quest’ultimo rappresenta un esempio quasi perfetto di applicazione di uno schema sociale e morale a un evento inat­ teso, che in altre circostanze avrebbe potuto essere spiegato in termini esclusivamente naturali. E sempre a proposito degli schemi primari d’interpretazio­ ne, Giolo Fele fa notare come queste strutture ci orientino nei confronti dell’attività in svolgimento, ma non determinano in nessuno modo il corso di quell’attività, cioè come quell’attività si svolgerà in seguito, in quanto non possono in alcun caso rappresentare tutte le circostanze che formano le contingenze dell’ambiente in cui l’attività ha luogo, e che i dettagli rilevanti nella loro concreta presenza non possono essere pre-identificati. Per chiarire la sua idea, Fele8 riporta l’esempio di un arram­ picatore che, prima di arrampicarsi su una parete, osservi attentamente dal basso la via che sta per affrontare. È chiaro che l’inquadramento primario che egli compie è quello di un’ar­ rampicata in montagna, e cerca così di costruirsi mentalmente il percorso da seguire; il punto è che, per quanto lo schema primario possa essere adeguato all’attività, nel momento in cui egli inizia ad arrampicarsi si trova immerso nelle contingenze dei suoi gesti, della sua tecnica, del suo corpo. Il fra m ew o rk primario quindi, rappresenta un punto di par­

7 Ibidem, p. 59. 8 Fele G., “Frames" e attività, in “Aut Aut” , n. 269, La Nuova Italia, Firenze, 1995.

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tenza, “l’ingresso” nell’attività, ma non può prevedere come quest’ultima si evolverà. L’esempio della televisione può essere ulteriormente chiarificatore a tal proposito: quando siamo di fronte lo schermo televisivo applichiamo un fra m e ben defi­ nito e cioè quello che corrisponde a “guardare la televisione”, tuttavia non sappiamo da quali programmi la nostra attenzione sarà di volta in volta attratta e quindi saremo costretti ad usare nelle diverse circostanze la ch iave adeguata. Mi spiego meglio: quando guardiamo un film e ad un certo punto quest’ultimo viene interrotto dalla pubblicità non modifichiamo il nostro fra m ew o rk primario che corrisponde al guardare la televisione, bensì applichiamo una chiave differente che ci permette di capire che il film è momentaneamente sospeso. Quando invece accade qualcosa di inatteso, come ad esempio una mancanza di corrente che fa spegnere la televisione, allora in quel caso siamo costretti a cambiare inquadramento primario: lo spegni­ mento dell’apparecchio televisivo c’insinua automaticamente il dubbio che il fra m e finora applicato ora non è più quello giusto. Goffman è stato anche catalogato da alcuni studiosi9 come un interazionista simbolico per il fatto di concentrarsi quasi unicamente su fra m e w o rk s e istruzioni, senza prendere in considerazione tutto ciò che accade al di fuori di essi; una delle critiche mosse al sociologo canadese come ho scritto, è che, dal suo punto di vista, l’ordine prevedibile dell’interazione rituale è sotto la frequente minaccia di degenerare in aperto conflitto, caos o anomia. Con la sua attenzione analitica sui più piccoli dettagli dell’interazione, Goffman spesso sembrava escludere dalla sua considerazione l’impatto di forze e variabili situate al di fuori del fra m e della situazione considerata e, per questo motivo, sembrava suggerire, come molti interazionisti faceva­ no, che la situazione poteva essere pienamente compresa come

9 In particolare B.M.Berger con la sua Prefazione, in Frame Analysis, Armando, Roma, 2001.

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un’unità di analisi autonoma senza dover ricorrere a elementi fuori del suo fram e. Personalmente, ritengo che con F ram e A n alysis e in parti­ colare con il capitolo dal titolo “Attività fuori fra m e ”, Goffman abbia accolto le critiche rispondendo loro con un’attenta analisi alle attività che accadono fuori dagli schemi primari ma che possono influenzarli. Un ulteriore appunto al concetto di fra m ew o rk di Goffman viene da Matteucci che, nell’ introduzione a F ram e A nalysis, scrive: “Una struttura primaria può essere definita come uno schema di interpretazione, ovvero Punita di rappresentazi one della realtà, ma appare così il rischio di un riduzionismo cogniti­ vo a un modello rappresentazionalista basato sull’idea che ogni atto sociale fa parte di uno schema esplicito o implicito corrispondente al modo in cui gli attori si rappresentano la loro comprensione più o meno parziale del mondo sociale”10. Ritengo a tal proposito che il rischio intravisto dalla Mat­ teucci, di ridurre il tutto a un modello rappresentazionalista, non si pone poiché, leggendo attentamente F ram e A nalysis, risulta alquanto chiaro che il lavoro goffmaniano abbraccia un tipo di conoscenza che è pratico-operativa e non teorico-dichiarativa; l’intento del sociologo canadese, infatti, è proprio quello di for­ nire un modello che riesca a descrivere come vengono definite le situazioni nella vita quotidiana e come, di conseguenza, si organizza l’esperienza, senza badare troppo a cercare di capire perché questo avviene; la sua preoccupazione principale è, più che capire p e rc h é questo avviene, descrivere com e il tutto è organizzato e definito.

10 Matteucci I., Introduzione, in Frame Analysis, p. 52, Armando, Roma, 2001.

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5.2 Vita e teatro Un’altra notazione che mi sento di portare all’analisi del libro goffmaniano, riguarda il discorso della cornice teatrale e del teatro in generale poiché, nell’analisi svolta dal sociologo canadese, mi sembra mancare il rapporto tra vita “reale” e vita rappresentata. Il teatro, infatti, non può essere considerato come semplice arte, scevra da ogni legame con la vita sociale, poiché esso è un fatto sociale. E a dar sostegno a questa tesi contribuiscono le parole di Adorno: “Il teatro diventa fatto sociale per via della sua contrapposi­ zione alla società, e quella contrapposizione essa la ricopre soltanto come arte autonoma. Cristallizzandosi in sé come fatto a sé stante invece di accondiscendere a norme sociali esistenti e di qualificarsi come “socialmente necessaria”, essa critica la società mediante il suo semplice esistere” u. È proprio questo concetto che mi sembra mancare nell’ana­ lisi goffmaniana; il teatro, infatti, con la sua semplice esistenza critica la società o comunque la influenza. Lo stesso Pirandello scriveva a tal proposito: “Teatro serio, il mio. Vuole tutta la partecipazione dell’entità morale-uomo. Non è teatro comodo. Teatro difficile, diciamo teatro pericoloso. Nietzsche diceva che i greci alzavano bian­ che statue contro il nero abisso, per nasconderlo. Sono finiti quei tempi. Io le scrollo, invece, per rivelarlo...” 12. Non so se sia teatro pericoloso, certo è che quel che avvie­ ne sul palcoscenico non può non essere uno stimolo per farci riflettere sulla realtà e su ciò che avviene nella vita quotidiana.

11Adorno T.W., Teoria estetica, Einaudi, Torino, 1977. 12 Pirandello L., Maschere nude, Mondatori, 1930.

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Goffman invece, è come se considerasse l’arte teatrale fine a se stessa, un qualcosa di ludico che non va minimamente ad influenzare la vita “reale”. È come se per il sociologo canadese, una volta che il sipario si chiude e la rappresentazione termina, tutto ciò che è stato detto, fatto o interpretato resti dietro a quel sipario senza oltrepassare la linea di demarcazione tra palcosce­ nico e pubblico e penetrare in ogni spettatore. Il fatto che du­ rante una rappresentazione teatrale si applichi una determinata cornice che ci consente di capire che ciò che stiamo vedendo non è reale, ma è appunto una rappresentazione della realtà13, non significa che le attività messe in scena non possano farci riflettere o insegnarci qualcosa sulle reali attività quotidiane. Come scrive Barbara Myerhoff a tal proposito: “Le performance teatrali sono riflettenti nel senso che mo­ strano noi stessi a noi stessi. Sono anche in grado di essere riflessive, risvegliando in noi la coscienza di come vediamo noi stessi. Come gli eroi dei nostri drammi, diventiamo con­ sapevoli di noi stessi, coscienti della nostra coscienza. Attori e pubblico insieme, possiamo allora raggiungere la pienezza delle capacità umane, e forse del desiderio umano di auto­ osservazione e di provare il piacere che procura il sapere di sapere”14. Il teatro quindi, come mezzo per incrementare quella che potremmo definire la riflessività sociale o collettiva, come “specchio” attraverso il quale un gruppo cerca di esaminarsi, di rappresentarsi, di comprendersi e quindi di agire su se stesso. Proprio perché il teatro imita e riflette la vita quindi, l’attore non recita in modo straniato, bensì s’immedesima, completa­

13 Si pensi, a tal proposito, alla “pipa” di Magritte ed alle considerazioni fatte nel precedente capitolo sulla “irrealtà” delle opere d ’arte. 14 Myerhoff B., Life History among the Elderly. Performance, Visibility and Remembering, p. 5, New York, 1978.

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mente nella parte; d’altronde, l’imitazione della vita di tutti i giorni sul palcoscenico teatrale pretende proprio quella che Goffman definisce “quarta parete”: gli attori cioè recitano come se il pubblico non esistesse e lo spazio vuoto che divide loro dagli spettatori viene considerato dai primi proprio come una parete, la quarta, visto che le altre tre (fondale, quinta di sini­ stra e quinta di destra) sul palcoscenico già esistono. Si recita quindi come se non si stesse recitando, come se ci si trovasse nella vita di tutti i giorni. L’attività teatrale, allora, diventa una sorta di pratica di ri­ flessione sugli aspetti della vita quotidiana; la cornice teatrale racchiude uno “specchio” nel quale noi spettatori ci osserviamo, risvegliando la nostra coscienza e interrogandoci su come noi vediamo noi stessi. Inoltre uno studioso dell’arte teatrale come Victor Turner sostiene che la rappresentazione teatrale può essere analizzata proprio per la funzione che assume nella vita quotidiana, in quanto etichettatrice di ruoli sociali, e anche nei contorni dello spettacolo, del gioco e dello svago. Per lui la “finzione” del teatro si rivela come momento di riflessione, di contatto e di scontro fra attori e pubblico, come un laboratorio di rottura di quelle routines sociali date per acquisite15. E sempre Turner, nell’analizzare la rappresentazione teatrale, sostiene che essa non è solo un mero insieme di regole e rubriche, poiché: “Le regole “incorniciano” il processo teatrale, ma quest’ul­ timo trascende la sua cornice. Un fiume ha bisogno di argini per evitare le sue pericolose inondazioni, ma gli argini senza un fiume sono l’immagine stessa dell’aridità. Il termine

15Turner V., Dal rito al teatro, p. 145, Il Mulino, Bologna, 1986. Sul rapporto tra vita reale e vita rappresentata si veda l ’idea di Schutz riportata nel capitolo 4 e la teoria elaborata da R.Schechner sulla relazione tra dramma sociale e dramma scenico; Schechner R., Essays on Performance Theory, Drama Book Specialist, New York, 1977.

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“performance” deriva dal francese parfournir, che significa letteralmente “fornire completamente o esaurientemente”. To perform significa quindi produrre qualcosa, portare a compimento qualcosa o eseguire un dramma. Ma secondo me, nel corso della “esecuzione” si può generare qualcosa di nuovo. Laperformance trasforma se stessa. Le regole possono incorniciare la rappresentazione, ma il flusso dell’azione e dell’interazione entro questa cornice può portare a intuizi oni senza precedenti. È possibile che in questo caso le cornici teatrali tradizionali vadano sostituite: nuove bottiglie per il vino nuovo” 16. Il teatro, quindi, assume un’importanza riflessiva: una società rappresenta un dramma su se stessa applicando così non solo una lettura della propria esistenza, ma una nuova rappresentazione interpretativa della medesima. La rappre­ sentazione teatrale non si esaurisce alla chiusura del sipario, ma continua “dentro” ogni spettatore che, interiorizzando ciò che ha appena visto svolgersi sul palcoscenico, non può non effettuare un paragone tra la vita reale, quella cioè di tutti i giorni e la vita rappresentata. Leggiamo la più esauriente spiegazione di Turner: “La rappresentazione teatrale, quando si propone qualcosa di più che di divertire (benché il divertimento resti sempre uno dei suoi scopi vitali) è un metacommento, esplicito o implicito, consapevole o inconsapevole, dei principali drammi sociali del suo contesto sociale (guerre, rivoluzioni, scandali, mutamenti istituzionali). La vita stessa diventa uno specchio posto di fron­ te all’arte, e i viventi fanno delle loro vite una performance. [...] Nessuno di questi due rispecchiamenti reciproci, della vita da parte dell’arte e dell’arte da parte della vita, è esattamente fedele, perché entrambi non sono specchi piani ma specchi a matrice; ad ogni scambio si aggiunge qualcosa di nuovo, e

16 Turner V., Dal rito al teatro, p. 145, trad. it. Il Mulino, Bologna, 1986.

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qualcosa di vecchio viene perduto o scartato. Gli esseri umani imparano attraverso l’esperienza.. . ”17. È proprio questo rapporto biunivoco tra vita e arte teatrale che sembra latitare nell’analisi goffmaniana; è come se il sociologo canadese si fermasse a considerare ciò che avviene sul palcoscenico e la cornice adatta che deve essere usata nelle diverse rappresentazioni, senza soffermarsi su come ciò che viene messo in scena influenza il comportamento di coloro che sono spettatori.

5.3 Il “costruttivismo temperato” Un’ultima considerazione sull’analisi goffmaniana del fra m e riguarda la domanda dalla quale il sociologo canadese era partito nello scrivere il suo libro più complesso. La domanda, che come sappiamo egli aveva ripreso da William James, era: “In quali circostanze crediamo che le cose siano reali?”. Ora mi chiedo: Goffman, alla fine del suo lavoro, ha trovato una risposta alla suddetta questione? Probabilmente no è la mia risposta, poiché in tutto il libro egli compie una dettagliata analisi tecnica a proposito della definizione della situazione che ogni giorno, nella vita quotidiana, ci troviamo ad affrontare senza però rispondere alla domanda. Penso che nel definire la realtà egli adotti un atteggiamento antirealista che sfocia in un costruttivismo sociale, per il quale la nostra visione della realtà non è un’immagine di ciò che si trova fuori di noi, ma viene inevitabilmente formata dai processi attraverso i quali noi siamo giunti a determinare tale realtà. Questo concetto, che rimanda alla distinzione tra realismo

17 Ibidem, p. 147.

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e costruttivismo, viene esplicitato molto bene da Luciano Gallino in un suo recente articolo sull’etica cognitiva; egli scrive: “Parlare di etica cognitiva significa avanzare un’ipotesi spe­ cifica. È l’ipotesi che tutti, noi come osservatori, come ricer­ catori, siamo responsabili dei modelli mentali che utilizziamo per conoscere il mondo, per inquadrarlo, per interpretarlo, ovvero per produrre qualche forma di conoscenza intorno ad esso18. Questo vale per il mondo in generale, come vale per quella parte di mondo che è la società, i fenomeni sociali, i fatti sociali. Simile ipotesi è molto impegnativa; è un’ipotesi che si espone subito ad obiezioni di grande peso. Essa presuppone infatti che nel produrre conoscenza un osservatore utilizzi, anzi non possa fare a meno in ogni caso di utilizzare dei modelli mentali. In secondo luogo, l’ipotesi della responsabilità cognitiva lascia in­ tendere che i modelli impiegati per capire, interpretare il mondo, la società, i processi sociali, siano suscettibili di scelta. Cioè prospetta la possibilità che essi non siano suggeriti, o dettati, o imposti dalla realtà. In altre parole l’ipotesi della responsabilità cognitiva del ricercatore, dell’osservatore, sembra implicare da subito un’opzione antirealistica .. .”19. È proprio questo ciò che Goffman sostiene nella sua opera: cioè che noi siamo responsabili delle modalità con le quali procediamo a conoscere il mondo, siamo responsabili cogni­ tivamente, ossia siamo responsabili del modo in cui scegliamo le intelaiature concettuali, i fra m e s attraverso i quali vediamo la realtà, dopodiché procediamo a interpretarla, a coordinarla, a giudicarla.

18 Sull’argomento si riveda anche la teoria di Simmel sul rapporto tra vita e forme, cap. 4, par. 4.3. 19 Gallino L., Etica cognitiva e sociologia del possibile, in “Quaderni di socio­ logia”, p. 25, 2002.

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Commenti e discussioni

Ma è possibile rappresentare la realtà nella sua interezza attraverso i fra m e s goffmaniani? Probabilmente no è la mia risposta, poiché nonostante la realtà sia fondamentalmene una costruzione sociale, essa stessa è caratterizzata da una scon­ certante complessità che la rende polimorfa: la realtà cioè può assumere forme differenti a seconda del punto di vista che si assume. A tal proposito Gallino, mettendoci in guardia dal consi­ derare la realtà come un’unica costruzione sociale, parla di un “costruttivismo temperato”: l ’idea che nessun modello possa pretendere di rappre­ sentare la realtà nella sua interezza, deriva evidentemente dal costruttivismo; non da quello radicale, bensì da quello che chiamerei temperato. È una posizione, quella del co­ struttivismo temperato, che [...] a mio avviso presenta il merito di stabilire che si può serenamente credere in una realtà oggettivamente data, ovvero si può credere che esiste una condizione che davvero sta “là fuori”, come dicono gli anglosassoni, senza per questo essere costretti ad adottare in modo definitivo, perentorio, magari dogmatico, un determi­ nato modello della società”20. Goffman quindi, a mio parere, tenta di definire la realtà secondo un costruttivismo temperato: egli crede che esista ef­ fettivamente una realtà oggettivamente data, un qualcosa che, come scrive Gallino, stia “là fuori”, ma questa può essere colta solo attraverso il lavoro d’inquadramento svolto dal fram e. La realtà è pre-esistente, esterna e coercitiva rispetto agli individui e viene definita attraverso i fra m e s presenti in una data cultura. Il costruttivismo di Goffman è “temperato” dal fatto che egli non crede che i fr a m e s siano una struttura simbolica meramente riducibile alle invarianti dello spirito umano, ma 20 Ibidem, p. 29.

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METODOLOGIA DELLE SCIENZE SOCIALI

corrispondono ad alcune forme reali di organizzazione sociale. Egli insiste sulla coerenza e sulla stretta interpenetrazione tra ordine sociale e ordine cognitivo: se non c ’è organizzazione sociale non può esistere esperienza. Tuttavia, ritornando alla questione iniziale, non mi sembra che il sociologo canadese risponda direttamente alla domanda di William James, preferisce piuttosto girarle intorno in maniera elegante e intelligente; il libro mi appare come un virtuoso esempio di maieutica: è come se Erving Goffman, nei panni di discepolo socratico, ci fornisse tutti gli elementi necessari per arrivare alla risposta senza però fornircela; quasi come a voler dire: ecco, ora sapete tutto a proposito dellafra m e an alysis e di tutti gli argomenti ad essa collegata - l’organizzazione dell’e­ sperienza, le diverse sfere di realtà che c ’inglobano nella vita di tutti i giorni e i trucchi nei quali quotidianamente possiamo imbatterci - ora potete rispondere alla domanda dalla quale sono partito: in quali circostanze le cose sono reali? È forse proprio questo il cou p de théatre finale che ci riserva lo studioso di Manville: condurci per mano attraverso la con­ torta strada dell’attività quotidiana e, una volta giunti alla fine del viaggio, lasciarci camminare da soli poiché, ormai, siamo diventati grandi. Ma lo siamo diventati davvero? Siamo sicuri di saper distinguere con chiarezza quando le cose che ci appaiono sono reali? O di poter dire con certezza: questa cosa è reale? Senza dubbio Frame A nalysis ci fornisce importanti strumenti per migliorare la nostra capacità di entrare e uscire dai molti universi di significato che ci troviamo a vivere quotidianamen­ te; tuttavia, se è men male l’agitarsi nel dubbio che il riposar sull’errore, più che fornirci certezze, l’opera goffmaniana sem­ bra infonderci nuovi dubbi e forse, il più grande insegnamento lasciatoci in eredità dal sociologo canadese consiste proprio nel non adagiarci sulle nostre convinzioni ma nell’essere sempre pronti e capaci di nuove scoperte e nuove riflessioni. Se il sonno della ragione genera mostri, Erving Goffman sta bene attento a non farci addormentare. 156

Bibliografia Opere di Erving Gojfman: 1951 Symbols oj Class Status, in “British Journal of Sociology”, vol. 11. 1952 On Cooling the Mark Out: Some Aspects of Adaptation to Failure, in “Psychiatry”, vol. 15. 1959 La vita quotidiana come rappresentazione, trad. it. Il Mulino, Bologna, 1969. 1961a Asylums, trad. it. Einaudi, Torino, 1968. 1961b Espressione e identità, trad. it. Bruno Mondatori, Milano, 1979. 1963a Il comportamento in pubblico, trad. it. Einaudi, Torino, 1971. 1963b Stigma: l’identità negata, trad. it. Giuffré, Milano, 1983. 1967 Il rituale dell’interazione, trad. it. Il Mulino, Bologna, 1988. 1967-69 Modelli di interazione, trad. it. Il Mulino, Bologna, 1971. 1969 L’interazione strategica, trad. it. Il Mulino, Bologna, 1988. 1971 Relazioni in pubblico, trad. it. Bompiani, Milano, 1981. 1974 Frame Analysis, trad. it. Armando, Roma, 2001. 1979 Gender Advertisements, Harper & Row, New York. 1981 Forms ojTalk, University of Pennsylvania Press, trad. it. parziale Forme del parlare, Il Mulino, Bologna, 1987. 1983 L’ordine dell’interazione, trad. it. Armando, Roma, 1998. Altri riferimenti bibliografici: AA.VV. 1991 Dizionario delle scienze sociali, Il Saggiatore, Milano. AA.VV. 1996 Protagonisti e testi della filosofia, vol. I, Paravia, Torino. AA.VV. 2000 Gregory Bateson, introduzione e cura di Marco Deriu, Bruno Mondatori, Milano. Adorno T. W. 1970 Teoria estetica, Einaudi, Torino, 1977. Bateson G. 1955 Una teoria del gioco e della fantasia, trad. it. Adelphi, Milano, 1976. - 1972 Verso un’ecologia della mente, trad. it. Adelphi, Milano, 1976. - 1977 Gioco e paradigma, trad. it. in “Aut Aut”, n°269, 1995. - 1978 La teoria del doppio vincolo:unfraintendimento?, in Una sacra unità, trad. it. Adelphi, Milano, 1997. 157

METODOLOGIA DELLE SCIENZE SOCIALI

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Bibliografia

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Stampa: Pellegrini Editore - Cosenza

Erving G offm an occupa un posto speciale a ll'in te rn o del discorso non solo della sociologia in generale, ma anche della nuova scuola di Chicago, considerato che accanto all'impostazione di Herbert Blumer, il cui oggetto di studio è la contestualità del significato, e aH'impostazione di Manfred Kuhn che ha come oggetto di riflessione gli aspetti strutturati della vita sociale, egli ha teorizzato soprattutto la dimensione drammaturgica legata ai processi di interazione e comunicazione interpersonale a partire dalla vita quotidiana. Osservatore acuto, apparentemente in an­ titesi alle spiegazioni globalizzanti della realtà, descrive e ana­ lizza la socialità concretamente vissuta, appunto la quotidianità o normalità, le particolarità dell'interagire a partire da un doppio originale e fondamentale interrogativo. In Goffman, siamo per un verso di fronte alla dom anda sull'origine di un ordinam ento sociale significativamente interpretabile nell'agire dell'uomo; per altro verso di fronte alla domanda sulle condizioni che rendono possibile il mantenimento di un tale ordinamento sociale. Questo doppio interrogativo sposta l'oggetto dell'analisi sociologica sul terreno della situazione comunicativa o dell'interazione, o meglio sui rapporti sintattici tra le azioni di persone interagenti. Il lavoro di Massimo Cenilo, presentato dal sociologo Paolo Jedlowski specialista di storia della sociologia e non solo, ha come oggetto principale di trattazione Frame Analysis, riconosciuto co­ me lo studio più importante di Goffman, incentrato sull'organiz­ zazione dell'esperienza, e in cui i soggetti sociali confrontano percezioni e interpretazioni della vita sociale all'interno di una serie mobile di «cornici». Non c'è, infatti, comunicazione se non all'interno di un contesto o frame in cui, come Cenilo mette in ri­ lievo nel suo lavoro di ricostruzione dell'approccio goffmaniano, il contenuto della comunicazione deve pur essere interpretato. M assim o Cerulo (Rossano Calabro 1980), laureato in Scienze Politiche indirizzo Sociologico, è dotto­ rando di ricerca in “Politica, società e cultura" presso il Dipartimento di Sociologia e di Scienza Politica dell’Università della Calabria.

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Frontespizio Il Libro L’interazionismo simbolico di Erving Goffman - Nota introduttiva di Michele Borrelli Presentazione di Paolo Jedlowski Introduzione 1. Erving Goffman 1.1 La vita 1.2 Le opere

3 161 9 17 21 23 23 29

2. Sfere di realtà

43

3. Attraverso lo specchio

83

2.1 Frame Analysis: influenze e caratteristiche generali 2.2 Frame, framework e key 2.3 Complotti e fabbricazioni 2.4 La cornice teatrale 2.5 Problemi strutturali nelle fabbricazioni 3.1 Attività fuori frame 3.2 L’ancoraggio di attività 3.3 Guai ordinari 3.4 Quando il frame si rompe 3.5 La creazione dell’esperienza negativa 3.6 Le vulnerabilità dell’esperienza

44 52 63 70 77 84 88 94 98 101 104

4. Piccola antologia di cornici

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5. Commenti e discussioni

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Bibliografia

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4.1 Franz Kafka 4.2 Ernst Bloch 4.3 Georg Simmel 4.4 Don Chisciotte e il problema della realtà 4.5 Frames teatrali: Pirandello e Sofocl 4.6 Frames e A.I.: Minsky e la società della mente 4.7 Frames e psicologia: Gardner e le intelligenze multipl 4.8 Frames cinematografici 5.1 Il problema della definizione del framework 5.2 Vita e teatro 5.3 Il “costruttivismo temperato”

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