Sicuri da morire. La violenza nell’epoca della globalizzazione 9788883538841

Come mai il processo di globalizzazione non ha spalancato le porte a un mondo più giusto e pacifico, ma sembra piuttosto

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Sicuri da morire. La violenza nell’epoca della globalizzazione
 9788883538841

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Table of contents :
Indice......Page 154
Frontespizio......Page 3
Introduzione: Scindere la differenza: le dimensioni culturali della violenza......Page 5
Parte prima......Page 15
Capitolo primo: Globalizzazione e violenza......Page 16
Capitolo secondo: Sicuri da morire: la violenza etnica nell’epoca della globalizzazione......Page 29
Parte seconda......Page 55
Capitolo terzo: La civiltà degli scontri......Page 56
Capitolo quarto: I nostri terroristi, noi stessi: note sull’epistemologia dell’insicurezza......Page 71
Capitolo quinto: La globalizzazione dal basso nell’epoca dell’ideocidio......Page 89
Parte terza......Page 108
Capitolo sesto: La paura dei piccoli numeri......Page 109
Postfazione: Il pericolo della purezza: Appadurai e la violenza etnica......Page 139
Bibliografia......Page 149

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Meltemi editore

www.meltemieditore.it [email protected] Traduzione di Piero Vereni (introduzione e capitoli

primo, secondo, quinto, sesto), Giovanni Picker (capitolo terzo) e Viviana de Luca (capitolo quarto). Revisione della traduzione di Piero Vereni. eISBN: 9788883538841 © 2017 – MELTEMI PRESS SRL Sede legale:

via Ruggero Boscovich, 31 – 20124 Milano Sede operativa:

via Risorgimento, 33 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Phone: +39 02 24861657 / 24416383

Fax: +39 02 89403935

Arjun Appadurai SICURI DA MORIRE La violenza nell’epoca della globalizzazione a cura di Piero Vereni

Capitolo primo: Globalization and Violence, pubblicato come The New Logics of Violence, «Seminar», Special Issue on Globalization, n. 503, New Delhi, luglio 2001. Capitolo secondo: Dead Certainty: Ethnic Violence in the Era of Globalization, «Public Culture», 10, 2, pp. 225247, 1998. Capitolo terzo: The Civilization of Clashes, Teen Murti Lecture, New Delhi, 5 febbraio 2002. Capitolo quarto: Our Terrorists, Ourselves: notes on the epistemology of insecurity, Teen Murti Lecture, New Delhi, 6 febbraio 2002. Capitolo quinto: Grassroots Globalization in the Era of Ideocide, Teen Murti Lecture, New Delhi, 7 febbraio 2002.

Introduzione Scindere la differenza: le dimensioni culturali della violenza

Questo volume tratta della violenza su larga scala e motivata da ragioni culturali cui assistiamo nel nostro presente. I capitoli che lo compongono sono stati stilati nelle loro prime versioni tra il 1998 e il 2004, e quindi le questioni essenziali che affrontano sono germinate all’ombra di due tipi principali di violenza. Il primo, che abbiamo visto all’opera in Europa orientale, in Ruanda e in India all’inizio degli anni Novanta, ci ha posti di fronte all’evidenza che dopo il 1989 il mondo non stava necessariamente evolvendosi in forme progressive, e che la globalizzazione poteva portare alla luce gravi patologie incistate nelle sacre ideologie dell’appartenenza nazionale. Per il secondo tipo di violenza, classificato ufficialmente a livello mondiale sotto l’etichetta “guerra al terrorismo”, si può indicare come data di nascita lo spaventoso attacco alle torri del World Trade Center di New York dell’11 settembre 2001. Quell’attentato, in effetti, ha segnato il culmine di un decennio caratterizzato da livelli eccezionali di violenza e da una crescita costante dell’attività bellica (inter- e intrastatale) come tratto della vita quotidiana in diverse società. Attualmente, viviamo in un mondo – declinato in forme diverse dagli Stati e dai mezzi di comunicazione di massa a seconda dei differenti contesti nazionali e regionali – in cui la paura spesso si dimostra insieme la fonte e il fondamento di intense campagne di violenza collettiva, che possono variare per ampiezza dalle sommosse locali ai pogrom di vaste dimensioni.

Durante gli anni Quaranta del Novecento, e per alcuni anni in seguito, molti studiosi avevano iniziato a presupporre che le forme estreme di violenza collettiva, soprattutto quelle in cui gli omicidi di massa si accompagnano a diverse forme di degradazione pianificata del corpo e della dignità umana, fossero una diretta conseguenza del totalitarismo, soprattutto del fascismo, pur se riscontrabili anche nella Cina di Mao, nell’Unione Sovietica e in altre società totalitarie di più ridotte dimensioni. Purtroppo, gli anni Novanta ci hanno dimostrato oltre ogni dubbio che anche le società liberaldemocratiche – oltre a varie forme intermedie di organizzazione statale – possono diventare preda di forze maggioritarie1 e di violenza etnocida di ampie dimensioni. Ci troviamo quindi costretti a porre una domanda (e a trovare una risposta): perché gli anni Novanta, e cioè il periodo di quella che oggi chiamiamo la “tarda globalizzazione”, sono diventati l’epoca della violenza su vasta scala in diverse società e regimi politici? Quando parlo di “tarda globalizzazione” (con più di un’allusione al “tardo modernismo”) faccio riferimento a una serie di prospettive e progetti utopistici che hanno assunto credibilità in molti paesi, Stati e sfere pubbliche dopo la fine della guerra fredda. Queste prospettive trovavano espressione in una serie di dottrine, collegate tra loro, sull’apertura dei mercati e il libero commercio, sulla diffusione delle istituzioni democratiche e delle costituzioni liberali, e sugli effetti benefici di internet (e delle relative tecnologie cibernetiche) per attenuare le ineguaglianze sia entro che tra le società, e per accrescere le quote di libertà, trasparenza e buon governo anche nei paesi più poveri e più isolati. Oggi, a parte i più fanatici sostenitori di una sfrenata globalizzazione economica, nessuno crede più che il libero mercato ed elevati livelli di integrazione economica e finanziaria internazionale producano necessariamente effetti a catena positivi. Questo libro, allora, è un ulteriore tentativo di rispondere alla seguente domanda: perché un decennio caratterizzato dal sostegno generalizzato per l’apertura dei mercati, la libertà di movimento dei capitali finanziari e le idee liberali di regime costituzionale, buon governo e libera espansione dei diritti umani ha prodotto da un lato così tanti esempi di pulizia etnica e dall’altro forme così estreme di violenza politica contro le popolazioni civili (un buon modo per definire

la tattica terrorista)? Nei capitoli che seguono, di tanto in tanto mi troverò a criticare severamente alcuni dei tentativi più noti di affrontare la questione. In queste pagine, invece, mi limito a dichiarare in termini semplici gli ingredienti per elaborare una risposta di natura diversa, che trovi fondamento nell’attenzione per le dimensioni culturali della globalizzazione. Alcuni commentatori hanno giudicato il mio precedente tentativo di descrivere l’allora emergente mondo della globalizzazione (Appadurai 1996) come forse un po’ troppo severo nel criticare il moderno Stato nazionale, e ingenuamente ottimista per quanto riguarda gli aspetti positivi dei flussi globali. Con questo libro, intendo fare i conti senza mezzi termini con i versanti più cupi della globalizzazione. Per riuscire a comprendere in modo più articolato come la globalizzazione si intersechi con la pulizia etnica e il terrore, ritengo utile partire da una serie di idee interrelate. Il primo passo consiste nel riconoscere che dietro l’idea stessa di Stato nazionale si nasconde un concetto essenziale e pericoloso: quello di ethnos nazionale. Nessuna nazione moderna, per quanto benevolo possa essere il suo sistema politico e per quanto nette siano le sue dichiarazioni pubbliche sui valori della tolleranza, del multiculturalismo e dell’inclusione, si sottrae completamente alla convinzione che la sua sovranità nazionale si basi su una qualche forma di genio etnico. Un’istanza di questa prospettiva è stata recentemente espressa con disarmante franchezza da Samuel Huntington (2004), nel suo pubblico e allarmato appello sul modo in cui gli ispanici degli Stati Uniti starebbero rischiando di recedere dallo stile di vita “americano”, concepito evidentemente come una dottrina culturale rigidamente euro-protestante. È quindi impossibile sostenere ancora l’idea che le tesi etnonazionaliste riguarderebbero esclusivamente oscuri Stati baltici, farneticanti demagoghi africani o gruppuscoli nazisti in Inghilterra e in Europa settentrionale. Diversi studi hanno posto in evidenza come l’idea di un ethos nazionale specifico, lungi dall’essere espressione naturale di questo o quel luogo, venga invece generata e naturalizzata con grande sforzo, grazie alla retorica della guerra e del sacrificio, attraverso discipline vessatorie di uniformazione educativa e linguistica, e attraverso la soppressione di una miriade di tradizioni locali e regionali, al fine di

produrre indiani, francesi, bretoni o indonesiani (Anderson 1991; Scott 1998; Weber 1976). Alcuni dei nostri maggiori teorici della politica, in modo particolare Hannah Arendt (1951), hanno inoltre fatto notare che l’idea di popolo nazionale costituisce il tallone d’Achille delle moderne società liberali. Nell’argomentazione che sviluppo in questo volume, prendo lo spunto dalle idee di Mary Douglas (e di molti altri antropologi) per suggerire che la strada che conduce dal genio etnico a una cosmologia totalizzante della sacralità nazionale, fino alla purezza e alla pulizia etnica, è sostanzialmente un percorso in linea retta. Alcuni sostengono che un simile rischio riguarderebbe solo quelle comunità moderne che, erroneamente, hanno posto il sangue al centro della loro ideologia nazionale, ma a ciò si può ribattere che nazione e sangue, in tutto il mondo, sembrano intrecciarsi in un abbraccio ben più saldo e generalizzato. Tutte le nazioni, in determinate condizioni, pretendono corpose trasfusioni, esigendo solitamente il versamento di una parte del loro stesso sangue. Questa tendenza intrinsecamente etnicista presente in tutte le ideologie del nazionalismo non spiega come mai solo alcune entità nazionali finiscano per divenire teatro di violenze su larga scala, guerra civile o pulizia etnica. È necessario, a questo punto, fare riferimento al ruolo dell’incertezza nella vita sociale. Nel capitolo titolato Sicuri da morire, sviluppo in modo articolato la mia interpretazione sui modi in cui l’incertezza sociale possa suscitare progetti di pulizia etnica che, nella prassi, sono assieme vivisezionisti e verificazionisti: vanno cioè alla caccia dell’incertezza smembrando il corpo ambiguo, il corpo del sospetto. Sostengo inoltre che questa specie di incertezza sia intimamente legata al dato di fatto che i gruppi etnici odierni si contano a centinaia di migliaia, e che i loro spostamenti, le commistioni, gli stili culturali e le rappresentazioni dei media suscitano profondi dubbi su chi esattamente possa essere conteggiato nel “noi” e chi invece nel “loro”. In questo quadro, alcuni principi e pratiche del moderno Stato nazionale – l’idea di un territorio sovrano e certo, di una popolazione contenibile e quantificabile, di un censimento attendibile, e il sogno di categorie di appartenenza stabili e trasparenti – vengono messi in discussione nei modi più svariati nell’epoca della globalizzazione, per ragioni che vengono esplorate

nei prossimi capitoli. Soprattutto, la fluidità globale della ricchezza, degli armamenti, degli individui e delle immagini – fluidità che ho descritto nel mio libro precedente, Modernità in polvere (Appadurai 1996) – pone radicalmente in discussione la certezza che popoli distinti e riconoscibili si sviluppino su territori nazionali ben definiti da essi controllati. In parole semplici, anche se nel corso della storia umana la linea tra “noi” e “loro” è sempre stata sfumata lungo i confini e confusa in caso di vasti territori e grandi numeri, la globalizzazione esaspera queste incertezze e produce un nuovo impulso alla purificazione culturale, mano a mano che un numero crescente di nazioni perde l’illusione della sovranità economica nazionale o del benessere. Questo punto ci ricorda inoltre che la violenza su larga scala non è semplicemente la conseguenza di una contrapposizione tra identità diverse, ma è essa stessa uno dei modi in cui viene prodotta l’illusione di identità univocamente definitive ed emotivamente coinvolgenti, in parte per attenuare le incertezze sull’identità che i flussi globali producono continuamente. Valutati in questa prospettiva, il fondamentalismo islamico o cristiano, e molte altre forme regionali e locali di fondamentalismo culturale, possono essere considerati parte di un quadro in evoluzione costituito dai tentativi di produrre nuovi livelli di certezza – di cui fino a tempi recenti non si sentiva l’esigenza – su temi come l’identità sociale, i valori, la sopravvivenza e la dignità. La violenza, soprattutto quella estrema e “spettacolare”, è un modo per produrre quel che altrove ho definito “adesione totale” (Appadurai 1998), specialmente quando le ragioni dell’incertezza sociale si uniscono ad altre paure sulla crescita dell’ineguaglianza o sulla perdita della sovranità nazionale, oppure a minacce alla sicurezza locale e alla vita stessa. In questo senso, per usare la spietata definizione di Philip Gourevitch (1998, p. 95) a proposito del Ruanda, “il genocidio, dopo tutto, è una pratica di costituzione della comunità”, come mi troverò a ripetere spesso nel corso di questo volume. Il fatto che la ferocia “produca comunità” di per sé non spiega le forme peculiari in cui si è rinnovata, nel corso degli anni Novanta, la violenza contro le cosiddette minoranze, dagli Stati Uniti all’Indonesia, dalla Norvegia alla Nigeria. Si potrebbe sostenere che l’Unione Europea che si va formando sia, per molti aspetti, la formazione

politica più illuminata nel quadro postnazionale. Ma oggi sembrano emergere due Europe: quella dell’inclusione e del multiculturalismo in un gruppo di società europee, e quella di un’apprensiva xenofobia in quel che potremmo chiamare l’Europa di Pim Fortuyn (Austria, Romania, Olanda, Francia). Per spiegare come mai alcuni Stati per altri versi inclusivisti, democratici e secolari covino al contempo ideologie basate sul nazionalismo maggioritario e sulla razza, dobbiamo sondare più in profondità il cuore del liberalismo, come faccio nel sesto capitolo. L’analisi lì condotta mi spinge a sostenere che la deriva etnonazionalista e perfino etnocida delle società democratiche dipenda in larga misura dalla singolare e profonda reciprocità che sussiste nel pensiero sociale liberale tra le categorie di “maggioranza” e “minoranza”, reciprocità che produce quella che io chiamo l’ansia da incompletezza. Le maggioranze numeriche possono diventare “predatrici” ed etnocide nei confronti dei “piccoli numeri” proprio quando alcune minoranze (e le loro ridotte dimensioni) evidenziano quanto potrebbe essere breve il salto che separa la condizione di maggioranza dalla prospettiva di una totalità nazionale incontaminata, un ethnos nazionale puro e senza macchia. In determinate condizioni, un tale senso di incompletezza può spingere le maggioranze verso forme parossistiche di violenza contro le minoranze. In questo volume, analizzo a più riprese queste condizioni con particolare riferimento al caso dei musulmani dell’India. La globalizzazione, intesa come la forma specifica in cui sono venuti a organizzarsi gli Stati, i mercati e le idee di commercio e governo, acuisce le condizioni in cui si manifesta la violenza su larga scala perché apre una potenziale rotta di collisione tra la logica dell’incertezza e quella dell’incompletezza, ognuna delle quali ha la sua forma e la sua forza. In quanto contesto generale del quadro mondiale durante gli anni Novanta, le forze della globalizzazione producono le condizioni per una diffusione praticamente planetaria dell’incertezza sociale (tema esaminato nel secondo capitolo). L’ansia da incompletezza (entro il progetto della totale purezza nazionale) e il senso di incertezza sociale sulla disponibilità di categorie etnorazziali sufficientemente ampie possono produrre una

forma inconsulta di rinforzo reciproco, che apre la strada al genocidio. Questo approccio alla diffusione della violenza di natura culturale su larga scala a partire dagli anni Novanta – approccio che tiene assieme l’incertezza e l’incompletezza – può inoltre fornire una prospettiva (non certo un modello, né una spiegazione) da cui studiare il problema del perché questa forma di violenza esploda in un numero relativamente contenuto di casi, soprattutto se l’unità di misura su cui condurre il confronto è il numero attuale di Stati nazionali. L’argomento presentato in questo libro – che ruota attorno alla relazione tra globalizzazione, incertezza e incompletezza – ci consente di riconoscere in quali casi l’ansia da incompletezza e livelli insostenibili di incertezza si combinano secondo modalità che danno vita a mobilitazioni etnocide su larga scala. Si potrebbe sostenere che la compresenza di livelli elevati di entrambi gli stati d’animo sia una condizione necessaria perché possa esplodere la violenza su larga scala. Che cosa costituisca invece un criterio sufficiente è tutt’altro problema. In alcuni casi, questo criterio può essere garantito dall’esistenza di uno “Stato canaglia” (l’Iraq nel suo rapporto con i curdi); in altri casi, da una struttura coloniale razzista (Ruanda); in altri, da un processo costituzionale tragicamente connotato in senso etnico (la Iugoslavia del dopo Tito); in altri ancora, da leader criminali che agiscono su impulso delle loro bramosie personali o di reti che coordinano traffici illeciti (Liberia e Sudan). Nel caso dell’India, che rimane un esempio centrale in tutto il volume, sembra che la condizione di sufficienza abbia a che fare con una peculiarità specifica, che collega una profonda divisione politica a una serie di fratture interne di ordine legale e culturale. In questa breve rassegna degli argomenti trattati nei capitoli che seguono, è necessario un ulteriore chiarimento. Uno degli aspetti caratterizzanti della violenza su larga scala degli anni Novanta sembra essere un surplus di rabbia, un eccesso d’odio che produce forme inedite di degradazione e violenza, che si accaniscono sia contro il corpo fisico sia contro la dignità spirituale della vittima: corpi martoriati e torturati, individui violentati e bruciati, donne sventrate, bambini squarciati e mutilati, umiliazioni sessuali di tutti i generi. Come dobbiamo interpretare questo surplus, che si manifesta di frequente in azioni pubbliche, spesso tra amici e vicini, e non si limita più a quei

modi occulti che caratterizzavano in passato la degradazione della guerra? Soprattutto nel secondo capitolo, che affronta la relazione tra incertezza e violenza estrema, cerco di affrontare questo punto critico. Tenendo in considerazione i molti elementi che potrebbero far parte di una risposta plausibile, ipotizzo che questo eccesso abbia in qualche misura a che fare con il modo in cui la globalizzazione ha deformato il “narcisismo delle piccole differenze”, un tema che affronto nelle conclusioni del sesto capitolo. Il nucleo della mia argomentazione sul surplus di rabbia e l’impulso alla degradazione è che il “narcisismo delle piccole differenze” è oggi di gran lunga più pericoloso che in passato, per via della nuova relazione deteriorata e mutevole che caratterizza il rapporto tra identità e poteri “di maggioranza” e “di minoranza”. Dato che le due categorie possono facilmente invertirsi di posto – a causa della duttilità dei censimenti e delle costituzioni, e dei mutamenti ideologici dei concetti di inclusione e equità –, le “piccole” differenze non sono più solamente elementi preziosi per la costituzione di una soggettività incerta, e quindi tratti da salvaguardare con particolare attenzione, come potrebbe suggerire l’originaria formulazione freudiana. In effetti, le piccole differenze possono diventare del tutto inaccettabili, dato che rendono ancora più ambiguo e insidioso il contatto e il confine tra le due categorie. La brutalità, la degradazione e il livello di disumanizzazione che spesso accompagnano la violenza etnicizzata degli ultimi quindici anni sono un segnale del grado di incertezza cui è giunta la linea stessa che dovrebbe dividere le differenze “piccole” da quelle di maggiori dimensioni. In questo quadro, la rabbia e la paura prodotte simultaneamente dall’incertezza non possono più essere risolte facendo ricorso all’estinzione meccanica o all’estrusione delle minoranze indesiderate. Nel contesto attuale la minoranza è quindi la condizione sistematica, ma è la differenza in sé che costituisce il problema di fondo. A questo punto, il tratto caratterizzante dei narcisismi predatori su larga scala del giorno d’oggi diventa l’eliminazione della differenza in quanto tale, e non più un esasperato attaccamento alle “piccole” differenze. Dato che un simile progetto è di fatto impossibile in un mondo di confini sfumati, matrimoni misti, lingue condivise e altre forme di connessione profonda, è destinato a produrre un livello di frustrazione così elevato che può dar conto,

almeno inizialmente, dell’eccesso sistematico di cui siamo testimoni dalle notizie dei mass media. Gli aspetti psicodinamici e psicosociali di questo filone d’indagine necessitano di ulteriori approfondimenti, e si collocano ben al di là delle mie competenze, ma questo è il massimo livello cui sono in grado di condurre la discussione su temi così complessi. Come ultimo tassello di questa breve guida introduttiva ai capitoli che seguono, vorrei far osservare che le riflessioni che propongo sull’incertezza, l’incompletezza, le minoranze e la produttività della violenza nell’epoca della globalizzazione forse ci consentono di riconsiderare il rapporto tra il mondo della guerra unilaterale e della democratizzazione a lunga distanza evocato dagli Stati Uniti in Afghanistan e in Iraq dopo l’11 settembre, e il mondo di terrore a lunga distanza che Al Qaeda e altri hanno scatenato contro l’Occidente nello stesso periodo. Il terzo, quarto e quinto capitolo del volume sono stati scritti alla luce degli eventi dell’11 settembre, e sono stati elaborati e presentati in Europa e India nell’arco dei sei mesi successivi all’attacco al World Trade Center di New York. Da allora, alcune cose sono cambiate, ma non così tante. I nuovi tipi di organizzazione politica strutturata in forma cellulare (ed esemplificati da Al Qaeda), la crescente facilità con cui ci si affida alla guerra asimmetrica che esercita la violenza contro le popolazioni civili, la sempre più diffusa tattica dell’attentato suicida e, più di recente, la pratica di filmare e trasmettere la decapitazione di partecipanti più o meno casuali sulla scena di scontri violenti: tutto ciò ci costringe a rispondere a una serie di nuove domande, che riguardano le radici del risentimento globale contro le forze del mercato, la forma peculiare assunta dall’antiamericanismo in diverse parti del mondo e l’imprevisto ritorno del corpo del patriota, del martire e della vittima sacrificale entro la scena della violenza di massa. Alcune di queste problematiche sono affrontate nei capitoli seguenti, in particolar modo nel terzo, quarto e quinto capitolo, esplicitamente dedicati alle condizioni del mondo dopo l’11 settembre 2001. Ma voglio concludere la mia panoramica concentrando l’attenzione sulla forma più recente di choc pubblico e mediatico, un dramma violento che si compie in nome della religione, della nazionalità, della libertà e dell’identità, e cioè la registrazione su video

del rapimento e, in alcuni casi, della decapitazione delle vittime come uno strumento mediatico per esercitare una pressione asimmetrica su vari Stati – recentemente anche sull’India – da parte di gruppi associati all’Islam militante. In un certo senso, assistiamo in questo caso a un ritorno alla forma più semplice della violenza religiosa, il sacrificio, su cui René Girard (1972) ha scritto con grande profondità. Sin dal caso della decapitazione filmata di Daniel Pearl in Pakistan poco dopo l’11 settembre, e ora in forme che sempre più si configurano come strumento sistematico di espressione politica, le persone rapite che vengono decapitate o tenute sotto minaccia di decapitazione non sono necessariamente benestanti, potenti o famose. In un caso recente, i sequestrati erano un gruppo di lavoratori poveri e disperati emigrati in Iraq dall’India, dal Kuwait e da altri paesi. Questi poveri migranti, essi stessi foraggio del traffico della globalizzazione, sembrano essere il contraltare alle morti impersonali prodotte dalle forze aeree americane in Iraq o da Al Qaeda a New York, a Nairobi e in Arabia Saudita negli ultimi anni. La decapitazione in video stabilisce un forte richiamo simbolico con forme più intime e personali di sacrificio, associando vittime riconoscibili e identificabili a una cerimonia graduale e organizzata di morte violenta, a un quadro maestoso della natura teatrale dei poteri armati “sotto la maschera”. Queste vittime tragiche sono la controparte involontaria degli attentatori suicidi. In entrambi i casi, le ideologie che si innestano su varie forme di disperazione causata dall’asimmetria producono vittime e martiri come strumenti di libertà. Questi corpi individuati rappresentano il disperato tentativo di reintrodurre un elemento religioso entro spazi di morte e distruzione divenuti così astratti da essere quasi inimmaginabili. Possono inoltre essere visti come una risposta morale, per quanto sconvolgente, ai corpi torturati, incatenati, umiliati, fotografati e filmati degli uomini musulmani che oggi si trovano sotto custodia americana in Iraq. 1

Come verrà spiegato nell’ultimo capitolo, per Appadurai le identità maggioritarie “(…) si basano sulla convinzione e sulla dichiarazione di essere una maggioranza minacciata. (…) Un’identità può essere descritta come ‘maggioritaria’ non solo o non tanto quando a essa fa appello il gruppo oggettivamente più consistente entro una comunità nazionale, ma quando si sforza di colmare lo iato tra la maggioranza e la purezza dell’intera entità nazionale” (pp. 139140) (N.d.C.).

Parte prima

Capitolo primo Globalizzazione e violenza

La globalizzazione continua a essere, ovunque, un argomento di discussione. Con questo termine si indica una nuova rivoluzione industriale appena agli esordi, che riceve il suo impulso dalle più recenti e prodigiose tecnologie dell’informazione e della comunicazione. A causa della sua novità, mette alla prova le risorse politiche e linguistiche a nostra disposizione per comprenderla e per poterla maneggiare. Per chi vive negli Stati Uniti o in uno degli altri dieci Stati circa più ricchi del mondo, la globalizzazione è certamente un termine positivo, di moda tra le élite delle multinazionali e tra i loro alleati politici, ma per i migranti, la gente di colore e altri marginali (i cosiddetti “Sud nel Nord”) è fonte di preoccupazione su questioni come l’inclusione sociale, l’occupazione e l’ulteriore emarginazione, e si sa che le paure dei marginali, come sempre nella storia, infastidiscono le élite. Negli altri paesi del mondo, quelli sottosviluppati e quelli veramente in miseria, si fa spazio una duplice angoscia: paura di venire inclusi solo a prezzo di misure draconiane, e paura di essere esclusi da quello che sembra essere il corso stesso della Storia. Che ci si trovi al Nord o al Sud, la globalizzazione mette inoltre in crisi lo strumento più potente a nostra disposizione per affrontare la novità, e cioè l’uso della storia. Possiamo insistere quanto vogliamo nell’interpretare la globalizzazione come null’altro che una nuova fase (e un nuovo volto) del capitalismo, dell’imperialismo, del neocolonialismo, della modernizzazione o del progresso, e di certo ha un suo fascino questa

caccia all’analogia che dovrebbe consentirci di addomesticare la belva della globalizzazione entro la gabbia del linguaggio. Ma questa mossa storicizzante (per quanto legittima dal punto di vista tecnico) conduce inevitabilmente all’impossibilità di esaminare proprio quegli aspetti della globalizzazione che sono destabilizzanti per la loro originalità. Se facciamo ricorso alla documentazione storica sui sistemimondo precedenti, sui vecchi imperi e le forme conosciute di potere e capitale, riusciamo forse a rassicurarci, ma fino a un certo punto, oltre il quale dobbiamo fare i conti con il giudizio intuitivo di molti poveri (e di quanti li sostengono), per i quali la globalizzazione pone alcune sfide inedite che non possono essere affrontate con il conforto della storia, neppure di quella storia che tratta di uomini malvagi e di biechi conquistatori del mondo. Questa intuizione non articolata è al cuore delle precarie coalizioni e dei dialoghi insicuri che circondano la globalizzazione nelle strade di Seattle, Praga, Washington, ma anche in contesti meno eclatanti. Ma dove si colloca, precisamente, questa novità, e come mai così tanti intellettuali critici vogliono comprenderla meglio? È mia opinione che vi siano tre fattori tra loro collegati che rendono difficile una rappresentazione della globalizzazione nei termini delle classiche concezioni storiche dello Stato e del mercato. Il primo è dato dal ruolo del capitale finanziario (soprattutto nelle sue forme legate alla speculazione) nell’odierna economia mondiale: è più veloce, si moltiplica più in fretta, è più astratto e penetra nelle economie nazionali più in profondità di quanto non abbia fatto in tutta la sua storia precedente. Dato inoltre il suo tenue legame con la classica produzione industriale o con altre forme di ricchezza produttiva, il capitale finanziario sembra quasi un cavallo privo di un fantino strutturale. La seconda ragione ha a che fare con lo specifico potere della rivoluzione dell’informazione nelle sue forme elettroniche. Le tecnologie informatiche sono parte integrante dei nuovi strumenti finanziari, molti dei quali hanno a disposizione forme tecnologiche di potere che travalicano chiaramente i protocolli attuali per la loro regolamentazione. Così, a prescindere dal fatto se lo Stato nazionale stia effettivamente scomparendo, nessuno può più affermare che l’idea di un’“economia nazionale” (nel senso elaborato per primo dal

geografo tedesco Friedrich List) sia un progetto facilmente sostenibile. Quindi, per estensione, la sovranità nazionale è oggi un progetto destabilizzato per ragioni di ordine tecnico di un nuovo tipo e di un nuovo ordine di grandezza. Terzo, le nuove, misteriose e quasi magiche forme di ricchezza generate dai mercati finanziari elettronici sembrano essere responsabili in modo diretto della crescente divaricazione tra ricchi e poveri, anche nei paesi più ricchi del mondo. Ma è ancora più importante notare che i misteriosi spostamenti del capitale finanziario avvengono in parallelo a nuovi tipi di migrazione, insieme elitaria e proletaria, che crea tensioni mai viste tra le identità da un lato, e dall’altro le origini, la residenza e le aspirazioni di molti migranti nel mercato mondiale del lavoro. Frontiere finanziarie permeabili, identità mobili e tecnologie rapide di comunicazione e transazione producono nel complesso una serie di dibattiti, entro e attraverso i confini nazionali, che costituiscono un nuovo potenziale di violenza, il tema principale della mia riflessione. Ci sono diversi modi in cui possiamo affrontare i problemi della globalizzazione e della violenza. Si potrebbe prendere il caso degli Stati Uniti e chiedersi se l’espansione dell’industria carceraria (e di quello che a volte viene indicato come “stato carcerario”) sia collegata alle dinamiche che estromettono le economie regionali da forme più umane di impiego e di creazione di ricchezza. Si potrebbe prendere l’Indonesia, e chiedersi perché vi sia stata una crescita letale di violenza intrastatale condotta nel nome delle popolazioni indigene e rivolta contro la migrazione promossa dallo Stato. Si potrebbe studiare lo Sri Lanka, e chiedersi se esistano dei veri legami tra l’inesorabilità della guerra civile in quel paese e la diaspora globale dei tamil, con conseguenze come il caso di eelam.com1, un caso di secessione virtuale. Ci si potrebbe interrogare sui movimenti secessionisti di tipo classico, dalla Cecenia al Kashmir ai Paesi Baschi, a molte zone dell’Africa, e chiedersi se la violenza in quei casi sia rigorosamente endogena. Si potrebbe guardare alla Palestina, e domandarsi se la violenza intima del colonialismo interno si sia ora così profondamente radicata nel sistema globale dei mass media e dell’intervento umanitario da essere condannata a istituzionalizzarsi in forma permanente. Ci si potrebbe collocare in Kosovo o in Iraq, e chiedersi

se l’umanitarismo violento degli attacchi aerei della NATO sia la forma più recente di punizione divina elargita dagli dei armati dei nostri giorni. O si potrebbe prendere in considerazione l’Africa subsahariana, come ha suggerito il mio collega Achille Mbembe (2003), e chiedersi cosa significhi guerra come stato permanente, condizione quotidiana per molte persone di quel subcontinente, non semplicemente un’interruzione, un’eccezione o un disordine. Ci si potrebbe ancora identificare con il punto di vista delle minoranze terrorizzate che risiedono in molti spazi nazionali come Israele, Darfur o Sierra Leone, spesso costrette a vivere in campi di detenzione spacciati per centri abitati o campi profughi, e chiedersi quale forma assuma la violenza associata alla fuga e alla ricerca di un posto dove stare. Tutte queste forme e tutti questi contesti di violenza sono percorsi trasversalmente da alcune dimensioni globali basilari. L’aumento della violenza sistematica contro le donne, per cui era famoso il regime talebano, è comunque altrettanto evidente in molte altre società pronte a scagliare la prima pietra, come gli Stati Uniti, dove le statistiche sulla violenza domestica ogni mese raggiungono nuovi e terribili massimi. La piaga degli eserciti costituiti da bambini, soprattutto in Africa ma anche in molte altre aree funestate da guerre civili, sta producendo una generazione di reduci che hanno a stento visto l’età adulta, e tanto meno la pace. Il lavoro minorile è di per sé un flagello terribile quanto a forma globalizzata di violenza contro i più piccoli, ma l’obbligo di combattere nelle milizie civili o nelle bande dell’esercito è una forma particolarmente perniciosa di esposizione alla violenza in età precoce. Vi sono poi le modalità più subdole di violenza subite dai numerosi poveri che devono affrontare trasferimenti forzosi a causa della costruzione di dighe o della demolizione delle baraccopoli in cui vivono. In questi casi i poveri subiscono gli effetti delle politiche globali sulla sicurezza, e diventano vittime di sanzioni economiche, violenza politica, mobilitazione etnica e disoccupazione in nome, ad esempio, di una politica dell’ambiente. La recente chiusura di alcune piccole manifatture di Delhi è un esempio lampante dello stretto legame che collega un certo ambientalismo moralista, la corruzione politica nei centri urbani e la lotta disperata per il lavoro e la sopravvivenza. In

questo intreccio possiamo trovare almeno in parte il motivo per cui a volte sembra che i poveri accettino la violenza intimamente fisica di vendere parti del loro corpo sul mercato globale degli organi, o di cedere tutto il loro corpo al lavoro domestico in paesi inospitali, e di offrire le loro figlie e i loro figli sul mercato del sesso e in altre occupazioni che segnano la vita in modo permanente. Fermiamoci un attimo, per affrontare alcune obiezioni alla linea argomentativa che stiamo sostenendo. Una di queste critiche si chiede che cosa mai questa lista di orrori avrebbe a che fare con la globalizzazione in quanto tale, dato che l’elenco presentato altro non sarebbe che l’ennesimo capitolo di quella storia dell’umanità fatta di potere, avidità, corruzione ed emarginazione che possiamo percorrere a ritroso fin quando ne abbiamo voglia. Ma io credo invece sia sensato sostenere che molti degli esempi citati sono legati in modo specifico alle trasformazioni dell’economia mondiale inaugurate negli anni Settanta, alle battaglie per l’indigenismo e la sovranità nazionale che derivano proprio dallo scontro tra universalismi in competizione come quelli della libertà, del mercato, della democrazia e dei diritti, che in epoche precedenti semplicemente non funzionavano come funzionano oggi. Soprattutto, i molti esempi che ho citato confermano il fatto empirico di maggior rilievo della macro-violenza degli ultimi due decenni, e cioè l’aumento (sia proporzionale, sia in termini assoluti) della violenza intrastatale rispetto a quella interstatale, così che se sovrapponiamo la mappa politica degli stati a quella sanguinosa dei conflitti, non ritroviamo più quella corrispondenza che caratterizzava il vecchio modello della geografia politica realista. Quando a questo si aggiungono il traffico globale di armamenti, droga, mercenari, mafiosi e altri fattori di violenza, risulta difficile considerare “locali” – quanto a rilevanza – le questioni che chiamiamo locali. Tra tutti questi contesti di violenza, che spaziano dal più intimo (come lo stupro o la mutilazione fisica) al più astratto (come la migrazione forzata e la riduzione legale allo status di minoranza), il più problematico è costituito dall’attacco generalizzato alle minoranze di qualunque tipo. Su questo punto, qualunque Stato (come qualunque famiglia) spartisce le proprie responsabilità. Ma come mai siamo testimoni di una pulsione genocida verso le minoranze che colpisce praticamente

tutto il mondo, si tratti di minoranze numeriche, culturali o politiche, e indipendentemente dal fatto che la minoranza sia stata categorizzata come tale perché i suoi tratti non corrispondono a quelli dell’etnicità considerata “giusta”, oppure per una carenza documentaria, oppure ancora per il fatto che rappresenta l’incarnazione di una qualche storia di reciproca violenza? Questo schema globale richiede una qualche risposta globale, che è quello che tenterò di fare nelle prossime pagine di questo volume, a partire da questo capitolo. Le risposte disponibili non ci portano lontano. Si tratta di uno “scontro di civiltà”? Improbabile, dato che molte di queste forme di violenza hanno luogo entro la medesima civilizzazione. Si tratta allora di un’incapacità degli Stati di rispettare il dettato weberiano del monopolio della violenza? Solo in parte, ma questa incapacità richiede in sé un’ulteriore spiegazione, così come bisogna trovare una ragione plausibile per la speculare diffusione a livello planetario di eserciti “privati”, zone di sicurezza, consulenti militari e guardie del corpo. Si tratta forse del fatto che abbiamo smarrito a livello planetario la nostra capacità di provare compassione (come forse suggerisce Michael Ignatieff ), a causa dell’eccessiva esposizione mediatica a immagini di guerre ed etnocidi in località remote? Forse, ma il modo in cui crescono e si diffondono su scala mondiale le alleanze tra le associazioni di base che si battono per il cambiamento, la giustizia e la salute sembra indicare che la capacità umana di solidarizzare a distanza non sia ancora estinta. Allora dev’essere l’enorme crescita globale del traffico d’armi che spiega il legame tra l’uso di pistole, fucili e kalashnikov da un lato e il grande commercio interstatale di razzi, carri armati e sistemi radar dall’altro, il tutto entro un quadro alquanto complesso di misteriosi accordi commerciali (di recente portato alla luce in India da Tehelka.com e tempo fa con lo scandalo Bofors)2? Certamente, ma questo aspetto riguarda solo le condizioni necessarie della violenza globale, e non quelle sufficienti. Dovremmo allora credere di essere al centro di una riforma globale di stampo malthusiano, che utilizza in modo strumentale la retorica delle minoranze e delle etnie, ma che in realtà sta facendo emergere un mondo tagliato su misura per i vincitori della globalizzazione, con gli sconfitti ridotti a fare da flebile rumore di fondo? Forse quella cui assistiamo è una forma generalizzata di qualcosa che potremmo

chiamare econocidio, cioè la tendenza mondiale (imperfetta nella sua realizzazione quanto lo è il mercato) a far scomparire gli sconfitti dal grande palcoscenico della globalizzazione? Si tratta di una prospettiva agghiacciante, che fortunatamente pecca di plausibilità, in parte perché anche i peggiori criminali e tiranni del mondo hanno imparato a maneggiare il linguaggio della democrazia, della dignità e dei diritti. Quali sono quindi le caratteristiche delle minoranze che in buona parte del mondo scatenano la violenza in forme e gradi sempre nuovi? Il primo passo verso una risposta è riconoscere che sia le “minoranze” sia le “maggioranze” sono i prodotti del mondo – moderno a tutto tondo – delle statistiche, dei censimenti, delle mappe demologiche e di altri strumenti statali, creati in buona parte solo dal XVII secolo in poi. “Minoranze” e “maggioranze” sono la conseguenza diretta di quel processo storico che ha sedimentato le idee di numero, rappresentanza e diritto di voto nelle aree influenzate dalle rivoluzioni democratiche del XVIII secolo, comprese le zone satellite del mondo coloniale. Le minoranze sono quindi una categoria sociale e demografica recente, gruppi che oggi sollevano nuove questioni su diritti (umani e di altro genere), cittadinanza, appartenenza e autoctonia, e sulle garanzie che loro spettano da parte dello Stato (o dei suoi residui fantasmatici). Le minoranze ci spingono inoltre a riconsiderare i doveri dello Stato e la definizione di umanità in senso politico, dato che si trovano a occupare quell’incerta zona grigia che si colloca tra cittadinanza vera e propria e umanità in generale. Non sorprende quindi che gli esseri umani “insufficienti” (come ad esempio i disabili, gli anziani e i malati) siano spesso i primi obiettivi dell’emarginazione e delle epurazioni, e vale la pena di tenere a mente che furono i nazisti i primi che cercarono di eliminare tutte queste categorie (incarnate nella figura dell’ebreo). Ma le minoranze non giungono a noi già formate, e sono invece prodotte in base alle specifiche caratteristiche di ogni nazione e di ogni nazionalismo. Spesso su di loro grava la memoria negata delle azioni violente che hanno prodotto gli Stati come li conosciamo, il ricordo nascosto di coscrizioni forzate o di espulsioni violente che hanno portato alla nascita dei nuovi Stati. Per di più, in quanto

soggetti deboli nelle richieste di diritti o dello sfruttamento di risorse nazionali reclamate da diversi settori, le minoranze sono un assillante promemoria del fallimento di diversi progetti statali (socialista, sviluppista e capitalista), il simbolo vivente della sconfitta di un modello e della coercizione da cui è nato. Sono uno scandalo per qualunque immagine avallata dallo Stato di purezza nazionale e equità statale. Sono quindi capri espiatori nel senso più classico. Ma qual è la specificità di questi capri espiatori nell’epoca della globalizzazione? Dopo tutto, stranieri, malati, nomadi, dissidenti religiosi e gruppi sociali “minori” del medesimo tipo sono sempre stati l’obiettivo di pregiudizi e xenofobia. Per il caso attuale, suggerisco un’unica e semplice ipotesi. Dato che la logica della globalizzazione si fonda essenzialmente su di un compromesso sistemico che limita la sovranità economica nazionale, e dato che proprio questo compromesso spinge gli Stati a legittimare la loro posizione presentandosi come garanti degli interessi di un “popolo” definito e delimitato in senso territoriale, le minoranze diventano il luogo privilegiato su cui molti Stati possono trasferire i loro timori (veri o presunti) di essere minoritari e marginali in un mondo di pochi megaStati, di flussi economici incontrollati e di sovranità messe a repentaglio. Le minoranze, in breve, sono metafore del tradimento del progetto nazionale classico, ed è questo tradimento – che ha in realtà le sue radici nell’incapacità da parte dello Stato nazionale di mantenere la sua promessa di essere garante della sovranità nazionale – che sta alla base dell’impulso mondiale a espellere o eliminare le minoranze. Lo stesso tipo di incapacità spiega inoltre come mai le forze militari regolari siano spesso coinvolte in casi di etnocidio intrastatale. Com’è ovvio, ogni caso di violenza interna contro le minoranze si presenta anche secondo una sua dimensione analizzabile con i vecchi parametri della sociologia realista e fatta di aspettative crescenti, mercati spietati, istituzioni statali corrotte, arroganti interventi dall’esterno, e lunghe storie di odio intestino e di sospetto che attendono solo di essere messe in moto. Ma tutto questo spiega solo i personaggi: per capire la trama dobbiamo rivolgerci altrove. E la trama – globale quanto a intensità – è una conseguenza del giustificato timore che la vera partita mondiale stia sfuggendo al controllo della

sovranità statale e della diplomazia tra gli Stati. Ma rimane la domanda: perché sono le minoranze a costituire l’obiettivo di questo sistema mondiale? Possiamo forse riprendere il classico argomento antropologico di Mary Douglas (1966), secondo cui “lo sporco è ciò che è fuori posto”, e che tutte le tassonomie morali e sociali considerano repellenti quegli elementi che ne violano i confini. Le minoranze del tipo qui descritto – i malati, i devianti dal punto di vista religioso, i disabili, i nomadi, gli illegali e quanti non sono benvenuti nello spazio dello Stato nazionale – sovvertono i confini tra “noi” e “loro”, qui e altrove, dentro e fuori, puro e impuro, fidato e infido, necessario ma sgradito. Quest’ultima opposizione costituisce la chiave del rompicapo. In un modo o nell’altro, abbiamo bisogno di gruppi “minori” entro i nostri spazi nazionali, se non altro per pulire le nostre latrine e combattere le nostre guerre. Ma questi gruppi sono al contempo espressamente malvisti per via dell’anomalia delle loro identità e delle loro fedi. In questa duplice veste sono per molti Stati nazionali l’incarnazione perfetta del dilemma fondamentale della globalizzazione, il fatto cioè di essere necessaria (o almeno inevitabile) ma sgradita. La globalizzazione è allo stesso tempo “noi” (possiamo padroneggiarla, controllarla e usarla, secondo la versione ottimista) e “non noi” (dobbiamo evitarla, rifiutarla, farne a meno, negarla, eliminarla, secondo la versione pessimista). Così, da questo punto di vista, la globalizzazione della violenza contro le minoranze raffigura in forma drammatica la profonda insicurezza rispetto al progetto nazionale e il suo ambiguo rapporto con la globalizzazione. Questa infatti, essendo una forza priva di volto, non può essere oggetto di etnocidio. Le minoranze invece sì. In termini più generali – ma questo è un argomento che riprendo con maggior compiutezza nel prossimo capitolo – le minoranze sono il punto critico di una serie di incertezze che mediano tra la vita quotidiana e il suo retroterra globale in rapido mutamento. Suscitano incertezze sul soggetto nazionale e sulla cittadinanza a causa della loro condizione “intermedia”: il loro ambiguo status sociale crea tensioni di tipo costituzionale e legale; i loro spostamenti minacciano la gestione dei confini; le loro transazioni finanziarie rendono ambigua la distinzione tra le diverse economie nazionali e tra legalità e

criminalità; le loro lingue esasperano i timori per la coerenza culturale della nazione; i loro stili di vita sono funzionali al processo collettivo di rimozione e transfert di tensioni diffuse nella società, soprattutto in contesti urbani; le loro strategie politiche tendono a essere multi-focali, così da suscitare timori costanti per la sicurezza degli Stati. Quando sono ricche, risvegliano lo spettro della globalizzazione, agendo come suoi mediatori fuori casta. E quando invece sono povere sono comodi simboli del fallimento di diverse forme di sviluppo e benessere. Soprattutto, dato che quasi tutte le concezioni di nazione e popolo si basano su una qualche idea di purezza o esclusivismo etnico e sulla repressione della memoria della pluralità preesistente, le minoranze etniche scompigliano i confini dell’appartenenza nazionale. Questa incertezza, esacerbata dall’incapacità di molti Stati di garantire la sovranità economica nazionale nell’era della globalizzazione, può tracimare in una mancanza di tolleranza per qualunque forma collettiva di alterità. Va inoltre tenuto presente che è difficile sapere a priori quale minoranza costituisca il potenziale obiettivo, lo straniero infausto. In qualche caso è ovvio, ma in altri meno, perché – dal punto di vista storico – le minoranze non nascono spontaneamente, ma vengono prodotte. Detto in modo estremamente stringato, è attraverso specifiche scelte e strategie, spesso opera di élite statali o capi politici, che determinati gruppi, fino a quel momento invisibili, si palesano in quanto “minoranze” contro cui diviene possibile rivolgere campagne denigratorie che conducono ad attacchi etnocidi. Quindi, invece di sostenere che le minoranze producano violenza, potremmo dire che è la violenza, soprattutto quella di stampo nazionale, che ha bisogno delle minoranze. E questa produzione di minoranze richiede l’evocazione di alcune storie e l’occultamento di altre, un processo che dà conto dei modi complessi in cui le questioni e gli scontri globali poco alla volta “implodano” a livello nazionale e locale, spesso in forma di violenza parossistica esercitata in nome di qualche maggioranza. Un caso classico è il processo con cui i sikh dell’India sono stati gradualmente trasformati in una minoranza problematica (Axel 2001). Non si è trattato della conseguenza automatica delle pratiche di rilevamento statistico, ma di un lento lavorio di politiche regionali e

nazionali condotto nel corso del XX secolo e che ha prodotto alla fine gli episodi violenti del 1984: l’operazione Bluestar, l’assassinio di Indira Gandhi, e il massacro degli scontri di piazza a Delhi e altrove3. Si potrebbe in effetti sostenere che sia stata la tremenda esplosione di violenza contro i sikh da parte dello Stato e delle masse nel 1984 che ha prodotto i sikh in quanto minoranza culturale e politica, conferendo alla piccola componente terroristica di quel gruppo, dopo quegli eventi, un’aura di sacralità. In questo modo, nel corso di un secolo (qualcuno direbbe nel corso di un decennio) un gruppo a lungo considerato il braccio destro militare del mondo indù si è rivelato uno dei suoi peggiori nemici interni, almeno per il decennio successivo al 1984. Concludo con un’ultima riflessione sui legami tra globalizzazione e violenza contro le minoranze. Si tratta di legami che ci costringono al più laborioso degli esercizi analitici, che consiste nel mettere in luce come forze dotate di grande velocità, dimensioni e copertura (cioè le forze della globalizzazione) – che d’altra parte sono anche estremamente astratte – possano essere collegate alla violenza fisica nelle sue espressioni più intime e concrete, violenza che si esplica nella familiarità delle relazioni quotidiane, nell’ovvietà dei rapporti di vicinato e nei vincoli dell’intimità. Come può l’amico uccidere l’amico, il vicino il vicino, addirittura il parente il parente? Queste nuove forme di violenza intima sembrano particolarmente sconcertanti in un’epoca di rapidità tecnologica, strumenti finanziari astratti, manifestazione di potere a distanza e flussi su larga scala di tecnologie e ideologie. Un modo per affrontare positivamente il senso di orrore prodotto dalla crescita mondiale di violenza fisica intima nel contesto della crescente astrazione e circolazione di immagini e tecnologie consiste nell’ipotizzare che questa relazione non sia affatto paradossale. Il corpo, infatti, soprattutto il corpo della minoranza, può contemporaneamente essere lo specchio e lo strumento di quelle astrazioni che più temiamo, e le minoranze e i loro corpi sono dopo tutto il prodotto di operazioni alquanto astratte di conteggio, classificazione e analisi delle popolazioni. Attraverso il corpo delle minoranze prodotte storicamente confluiscono quindi nella vita sociale le seduzioni del familiare e le riduzioni dell’astratto. Questa duplicità consente quindi al timore del globale di assumere una forma materiale

e – quando specifiche situazioni si sovraccaricano di inquietudini – autorizza la distruzione fisica di quel corpo. In tutta onestà, dobbiamo ancora comprendere una grande quantità di eventi e processi specifici per riuscire a passare dai vertiginosi vortici del globale all’intima frenesia della violenza locale, ma rimane plausibile l’ipotesi che uno dei modi per rallentare il turbine del globale e la sua portata apparentemente incontrollabile sia quello di afferrarlo saldamente e renderlo in qualche modo “maneggevole” nel corpo della minoranza offesa. Questa violenza, in tale prospettiva, non riguarda odi antichi e timori primordiali, ed è invece un tentativo di esorcizzare il nuovo, l’imminente e l’incerto: ciò che oggi si presenta a volte con il nome di globalizzazione. Ma ci sono anche altre storie, meno deprimenti e più utopiche di quella che ho qui raccontato. Sono storie che parlano della capacità di organizzarsi politicamente, di mobilitarsi e di avanzare critiche, storie che ora fanno la loro comparsa in diversi luoghi e attraverso molti confini nazionali. I movimenti sociali che vivono queste narrazioni alternative portano in sé i germogli di molte prospettive di controglobalizzazione. L’India, in particolare, è ricca di queste visioni, che devono però ancora affrontare molti nemici e molti fattori negativi. Uno di questi fattori – che non può essere relegato alla sfera del primordialismo o della follia – è la recente intensificazione su scala planetaria dell’intima violenza di gruppo. Il percorso che consente di esplorare il potenziale democratico della globalizzazione deve quindi passare attraverso le sue peculiari forme di violenza, se vuole comprenderla per superarla. 1

Si tratta di un sito che, in nome del diritto all’autodeterminazione, propugna l’indipendenza della porzione dello Sri Lanka a maggioranza tamil (N.d.C). 2 Con un’inchiesta che fece scalpore, il sito www.tehelka.com rivelò agli inizi del 2001 gli intrecci illeciti tra funzionari amministrativi indiani, politici di vertice e mercanti d’armi. Lo scandalo Bofors (dal nome del fabbricante d’armi svedese A. B. Bofors) risale alla metà degli anni Ottanta, e anche in quel caso coinvolse alcuni politici indiani che avevano accettato o richiesto tangenti per favorire alcuni fornitori per le commesse militari (N.d.C.). 3 Operation Blustar fu un’operazione dell’esercito indiano lanciata il 6 giugno 1984 per reprimere le pressanti richieste di un gruppo sikh oltranzista del Punjab, che mirava a costituire uno Stato autonomo (denominato Khalistan). L’operazione portò all’attacco del Tempio Dorato di Amritsar, luogo sacro a tutti i sikh e divenuto quartier generale di Jarnail Singh Bhindranwale, leader dei separatisti che venne ucciso durante gli scontri. Indira Gandhi, allora primo ministro indiano, fu ritenuta la principale responsabile di un attacco considerato sacrilego anche da molti sikh moderati e venne assassinata dalla sua guardia del corpo (composta da sikh) il 31 ottobre dello stesso anno. Seguirono quattro giorni di una

terribile caccia all’uomo in tutto il paese, che si concluse con diverse migliaia di morti, in grandissima parte sikh (N.d.C.).

Capitolo secondo Sicuri da morire: la violenza etnica nell’epoca della globalizzazione

Quali sono le condizioni per cui la violenza collettiva tra persone che hanno condiviso un’intimità sociale si associa ad alcune forme di incertezza sull’identità etnica? Cercando di rispondere a questo interrogativo, faccio riferimento a un argomento contro il primordialismo che ho sviluppato in un mio lavoro precedente (Appadurai 1996), in cui articolavo le premesse per questo studio più approfondito della violenza etnica della quale siamo testimoni in questi anni. Secondo un punto di vista largamente condiviso, la violenza etnica come forma di violenza collettiva è, almeno in parte, la conseguenza di propaganda, voci, pregiudizi e ricordi, tutte forme di conoscenza solitamente associate a un forte senso di certezza, grazie a cui sarebbe possibile raggiungere livelli disumani di violenza. Esiste però un approccio alternativo alla violenza etnica, le cui premesse si possono far risalire al lavoro di Durkheim (1897) sull’anomia, e alle riflessioni di Simmel (1908) sullo straniero. Questa tradizione di pensiero – che pone l’accento sul dubbio, l’incertezza e l’indeterminazione – sembra essere riemersa di recente in diversi ambiti di studio. Sta al centro del lavoro che Zygmunt Bauman (1997) sta sviluppando sui ruoli dello straniero, del consumatore, del parvenu e del vagabondo come archetipi sociali del mondo postmoderno. Appare anche nell’opera di Piotr Hoffman (1986, 1989) sul dubbio, il tempo e la violenza. Anche il lavoro di Julia Kristeva (1988) sugli

stranieri (una riflessione filosofica chiaramente stimolata dai nuovi timori xenofobi che hanno investito la Francia) si richiama a questa tradizione, cui fanno pure appello, almeno in modo implicito, diversi lavori antropologici recenti dedicati alla violenza etnica. Questi studi hanno in comune la chiara intuizione che, a causa della crescente molteplicità, contingenza e apparente intercambiabilità delle identità a disposizione degli individui nel mondo contemporaneo, si stia diffondendo un senso di radicale insicurezza sociale sulle persone, le situazioni, gli eventi, le norme e perfino le concezioni del mondo. Alcuni di questi studi discutono le politiche del corpo in questo mondo disegnato dall’incertezza, altri riconoscono che la novità costituita da questi dubbi abbia in qualche modo a che fare con le forze della globalizzazione: Stati più deboli, profughi, deregolamentazione economica e nuove forme sistematiche di impoverimento e criminalizzazione. Bauman (1997) soprattutto insiste in modo stimolante su quest’ultima serie di connessioni. Eppure, non mi risulta esistere un solo studio che cerchi di analizzare precisamente i modi in cui il corpo etnico può divenire il luogo dove è possibile rappresentare e incontrare quella specifica forma di incertezza che è dovuta alla globalizzazione. Questo collegamento costituisce invece un aspetto rilevante dell’analisi che qui presento. Un primo approccio utile a queste tematiche si può individuare nella bibliografia costantemente in espansione dedicata all’analisi antropologica della violenza etnica (Daniel 1996; Das 1990, 1995; Desjarlais, Kleinman 1994; Devisch 1995; Hayden 1996; Herzfeld 1997; Jeganathan 1997; Malkki 1995; Nordstrom 1997; Tambiah 1996). Da questi lavori emerge un consenso almeno parziale sul fatto che le etichette etniche e le categorie implicate nella violenza etnica attuale siano spesso la conseguenza di recenti pratiche e tecniche statali come censimenti, partizioni e costituzioni. Etichette come “iugoslavo”, “sikh”, “curdo” e “musulmano”, che sembrano indicare gli stessi antichi nomi e termini etnici, sono spesso trasformazioni di nomi esistenti, impiegate entro quadri di riferimento sostanzialmente nuovi sull’identità, i diritti e la sovranità territoriale. Dato l’uso a molteplici livelli che si fa di questi nomi e termini, ne derivano tre conseguenze. Per prima cosa, a causa della crescente permeabilità dei confini tra Stati nazionali per quanto riguarda gli

armamenti, i profughi, il commercio e i mezzi di comunicazione di massa1, questi nomi e termini etnici tendono sempre più a subire perturbazioni di carattere transnazionale. Secondo, mentre le identità e le identificazioni locali erano solitamente assai più importanti delle etichette di ordine superiore, i moderni poteri di livello statale tendono a dar vita a identità di dimensioni più vaste (come quelle di “latino”, “casta classificata” e “serbo”), che divengono affiliazioni immaginate significative per gruppi numerosi di persone, molte delle quali si collocano all’incrocio di grandi divisioni sociali, spaziali e politiche. Terzo, per estensione, la rabbia, le frustrazioni e i conflitti delle comunità di piccola scala (basate sull’interazione faccia a faccia) e quelli dei grandi raggruppamenti mega-etnici tendono a influenzarsi reciprocamente in modo diretto e dirompente, così che alcune comunità, per usare la definizione provocatoria di Robert Hayden (1996, p. 783), diventano “inimmaginabili”. Dato che il tema della violenza etnica è vastissimo, nonché terrificante per la varietà delle sue forme, questo capitolo si limita a indagare la violenza esercitata tra vicini, amici e parenti; persone e gruppi, cioè, che condividono in qualche misura una familiarità sociale pregressa. Non discuteremo quindi in questa sede la violenza organizzata della polizia, degli squadristi armati, dei torturatori, degli investigatori professionisti e delle milizie mercenarie, a meno che non riguardi il problema della violenza tra persone prossime dal punto di vista sociale2. Inoltre, piuttosto che estendersi attraverso tutte le forme di scontro violento, la discussione si concentrerà su quelle associate alla violenza fisica più eclatante e alla degradazione estrema, che implicano mutilazioni, cannibalismo, stupro, abuso sessuale e violenza contro gli spazi e le popolazioni civili. Detto semplicemente, porremo l’attenzione sulla brutalità fisica perpetrata da persone “normali” contro altre persone con cui in precedenza hanno vissuto – o potrebbero aver vissuto – in condizioni di relativa concordia. Questa delimitazione dell’oggetto ci consente di esaminare fattori limitanti e casi eccezionali utili all’analisi del ruolo dell’incertezza nella violenza etnica estrema. Concentrarsi sulla violenza esercitata sul corpo tra attori sociali che in passato si conoscevano reciprocamente e pacificamente è anche un modo per individuare i fattori scatenanti e i punti di ingresso, i casi cioè in cui un conflitto sociale sotto controllo o

endemico evolve improvvisamente verso forme violente come quelle descritte. Anche se i contatti transregionali e i processi transnazionali hanno avuto nel corso dei secoli antecedenti e anticipazioni (Abu-Lughod 1993; Wallerstein 1974) in quelli che chiamiamo sistemi-mondo, si è ormai affermata la convinzione che negli ultimi decenni questi processi e questi sistemi presentino caratteristiche nuove. La parola globalizzazione (come formazione socioeconomica e come termine del senso comune impiegato nel giornalismo e nel mondo dell’impresa) denota una serie di transizioni nell’economia politica globale iniziate durante gli anni Settanta, in cui le forme multinazionali dell’organizzazione capitalista iniziarono a essere sostituite da modalità di organizzazione transnazionale (Rouse 1995), flessibile (Harvey 1989) e irregolare (Lash, Urry 1987, 1994) man mano che forza lavoro, finanza, tecnologia e capitale tecnologico iniziarono a essere assemblati secondo modalità che consideravano i confini nazionali nulla più che delle limitazioni o delle finzioni. Diversamente dalle multinazionali attive attorno alla metà del secolo, che cercavano di superare i confini statali continuando a funzionare entro i sistemi nazionali esistenti per quanto riguardava il diritto, il commercio e la sovranità, le compagnie transnazionali attive negli ultimi tre decenni del ventesimo secolo hanno iniziato sempre più distintamente a produrre nuove combinazioni di forza lavoro, capitale e competenze tecniche che producono nuove forme di diritto, gestione e distribuzione. In entrambi i periodi, il capitale globale e gli Stati nazionali hanno cercato di sfruttarsi a vicenda, ma negli ultimi decenni abbiamo potuto assistere al declino secolare della sovranità degli Stati nazionali di fronte all’intraprendenza del capitale globale. Questo cambiamento – con i corrispondenti mutamenti giuridici, amministrativi, nella gestione dei brevetti e in altre tecnologie gestionali – ha dato vita a “nuovi mercati delle appartenenze” (Price 1994), ponendo in questione i modelli esistenti di sovranità territoriale. Non è difficile verificare come la velocità e l’intensità con cui oggi circolano attraverso i confini nazionali gli elementi materiali e quelli ideologici abbiano creato un nuovo ordine di incertezza della vita sociale. Qualunque sia il modo in cui cerchiamo di descrivere questo nuovo tipo di incertezza, non si accorda molto con la nota profezia

weberiana sulla modernità, secondo cui le forme sociali del passato caratterizzate dall’intimità avrebbero dovuto svanire, per essere rimpiazzate da ordinamenti burocratico-legali rigidamente strutturati, sottoposti a un incremento delle attività normalizzate e della prevedibilità. I legami tra queste forme di incertezza – un tratto distintivo dell’era della globalizzazione – e l’intensificazione a livello planetario della violenza etnocida costituiscono il fulcro analitico di questo capitolo, e verranno affrontati in modo diretto nelle conclusioni3. Le forme di questa incertezza sono certamente molteplici. Una sua variante è il riflesso diretto di tematiche legate ai censimenti: quante persone di questo o quel tipo esistono veramente in un dato territorio? Oppure, in un contesto di rapide migrazioni e movimenti di profughi, quanti di “loro” ci sono tra di “noi”4? Un altro tipo di incertezza riguarda il reale significato di alcune di queste mega-identità: quali sono le caratteristiche normative di quello che la costituzione indiana definisce un membro di una ACA (Altra Casta Arretrata)? Un’ulteriore incertezza riguarda il fatto se uno specifico individuo sia veramente quel che dice di essere, o sembra essere, o è stato un tempo. Infine, questi diversi tipi di incertezza generano un’intollerabile apprensione riguardo al rapporto che molti individui hanno con i beni forniti dallo Stato – dall’edilizia alla salute, dalla sicurezza all’igiene – dato che il diritto di usufruirne è spesso legato alla definizione dei beneficiari e, quindi, di “noi” e “loro”. Ciascuna di queste incertezze si rafforza ogniqualvolta assistiamo a movimenti consistenti di persone (qualunque ne sia la ragione); quando le mega-identità vengono associate a nuovi vantaggi o rischi; o quando le reti esistenti del sapere sociale si lacerano a forza di dicerie, atti di terrorismo o sommovimenti sociali. Lì dove una o più di queste forme di incertezza sociale fanno la loro comparsa, la violenza costituisce potenzialmente una macabra forma di certezza e può diventare una tecnica brutale (o una procedura folk di scoperta) da applicare a “loro” e che quindi riguarda anche il “noi”. Quest’ipotesi può rivelarsi particolarmente significativa nell’epoca della globalizzazione. Il primo passo verso un’elaborazione in questo senso deve per forza riguardare il tratto più ovvio e più impressionante di questa

violenza, e cioè il suo obiettivo e il luogo dove viene esercitata: il corpo. È sufficiente una rapida scorsa della vasta bibliografia sull’argomento per comprendere che il corpo umano è la sede delle azioni più terrificanti di violenza etnica. Potrebbe sembrare banale affermare che sia il corpo (e non la proprietà o altri beni) a essere il ricettacolo delle forme peggiori di dolore, terrore, degradazione e sofferenza, ma va tenuto conto che la violenza che viene inflitta sul corpo umano in contesti etnici non è mai del tutto casuale o priva di una sua forma culturale. Quando le testimonianze sono sufficientemente accurate dal punto di vista descrittivo (Das 1990; Feldman 1991; Malkki 1995; Sutton 1995), risulta evidente che anche i peggiori atti di degradazione – quelli che fanno uso di feci, urine, e parti del corpo, o azioni come decapitare, impalare, sventrare, segare, violentare, bruciare, impiccare e strozzare – si accordano a macabri modelli di conformazione culturale e di violenta prevedibilità. La descrizione antropologica più nitida di questo influsso culturale è quella fornita da Liisa Malkki (1995), che riporta i racconti dei rifugiati hutu in Tanzania negli anni Ottanta sulla violenza genocida da loro subita soprattutto agli inizi degli anni Settanta in Burundi. Questo lavoro, che nel suo tentativo di interpretare la violenza genocida si occupa di esilio, morale, memoria, spazio e nazionalismo, ha molti punti di contatto con la tesi principale sostenuta in questo capitolo, ma sono due le tematiche poste da Malkki che riguardano direttamente la mia ipotesi: le forme della violenza esercitata sul corpo e il rapporto tra purezza e identità. Malkki si basa sui racconti – riportati dai profughi hutu in Tanzania e in parte già standardizzati (quindi mito-storici) – della violenza etnocida da loro subita in Burundi a partire dagli anni Sessanta, ma soprattutto nel bagno di sangue del 1972 contro la maggioranza hutu. In questo modo, Malkki ci mostra che alla radice delle terribili violenze di quell’epoca vi erano questioni di identificazione e di conoscenza del corpo etnico. Analizzando una dettagliata risposta alla sua domanda (“Com’era possibile conoscere l’identità di una persona con certezza sufficiente da uccidere?”), Malkki evidenzia come i precedenti tentativi coloniali di ridurre le complesse differenze sociali tra i gruppi etnici locali a una semplice tassonomia di segni fisico-razziali avessero finito

per essere ulteriormente elaborati nel corso degli anni Settanta e Ottanta. Queste mappe “necrografiche” costituivano la base per orientarsi con precisione e in dettaglio sui modi in cui si doveva somministrare la morte secondo modalità specifiche, degradanti e per quanto possibile differite. Seguendo l’interpretazione di Feldman (1991), Malkki ipotizza che queste rappresentazioni schematiche delle differenze fisiche si collochino precariamente al confine tra la conoscenza acquisita e le tecniche euristiche, “contribuendo a costruire e immaginare la differenza etnica”, così che “attraverso la violenza, i corpi degli individui si trasformino in esemplari di quella categoria etnica che dovrebbero rappresentare” (Malkki 1995, p. 88). In questo capitolo avanzo un approccio leggermente diverso al rapporto tra “corpi”, “persone” e “identità”. Nel resoconto di Malkki delle narrazioni mito-storiche di come gli assassini tutsi usassero mappe condivise delle differenze fisiche per identificare gli hutu, è evidente che questa pratica è segnata da precarietà e incertezza (perfino i sopravvissuti riconoscono il dubbio affrontato dai loro assalitori), così che diventa necessario ripetere più e più volte l’esperimento della verifica fisica. Malkki fornisce un’interpretazione ardita del modo specifico in cui gli uomini e le donne hutu vennero uccisi (spesso con affilati bastoni di bambù, usando un rigido schema di riferimento costituito da ano, vagina e testa; spesso asportando il feto integro dalle donne incinte e costringendole poi a mangiarlo): conclude infatti sostenendo che queste pratiche, applicate sulla mappa necrografica del corpo etnico hutu, “sono state probabilmente esercitate facendo uso di alcuni schemi simbolici consuetudinari, pur se di crudeltà inaudita” (p. 92). Si tratta ora di delineare il collegamento tra il corpo mappato dell’altro etnico e la brutalità peculiare associata specificamente all’assassinio etnico. Anche se considero gran parte dell’analisi di Malkki estremamente persuasiva, quel che va posto in evidenza per la tesi che qui sostengo è il legame tra indeterminatezza e brutalità, nelle ipotesi che riguardano il corpo etnico5. Anche se è difficile esserne certi (soprattutto visto che le nostre informazioni sono mediate, rispetto all’immediatezza dei resoconti raccolti da Malkki), sembrano esserci prove sufficienti per ipotizzare che ci troviamo in questo caso di fronte a una complicata variazione sui classici temi di “purezza e

pericolo” (Douglas 1966) e del corpo come mappa simbolica del cosmo (Douglas 1970). Nel suo classico studio sulle cose “fuori posto” (tema affrontato anche da Malkki), Douglas ha evidenziato un legame simbolico-strutturale tra la commistione categoriale, l’angoscia cognitiva che essa suscita, e la conseguente avversione per le tassonomie spurie che si manifesta in tutti gli universi morali e sociali. Nel suo lavoro successivo dedicato al simbolismo del corpo, Douglas ha mostrato come e perché il corpo serva a condensare e porre in pratica vaste concezioni cosmologiche sulle categorie sociali e sulle classificazioni. Diverse analisi recenti si sono avvantaggiate delle idee di Douglas sulla purezza e sulla commistione categoriale (Hayden 1996; Herzfeld 1992, 1997) per affrontare tematiche legate alla pulizia etnica in Europa. La tesi di questo capitolo ha un debito diretto con quelle di Mary Douglas, fatte salve alcune distinzioni che vanno segnalate. Mentre Douglas considera le cosmologie (sistemi di distinzioni categoriali) come date dal punto di vista culturale – il che produce tabù contro le “cose fuori posto” – la violenza etnica sottrae necessità a questa logica, dato che i contesti di cui stiamo discutendo riguardano esplicitamente cosmologie in evoluzione, categorie in crisi, e idee che devono battersi per apparire scontate. Inoltre, il tipo di prove presentate da Malkki (confermato da resoconti simili per l’Irlanda, l’India e l’Europa orientale) suggerisce un’inversione della logica dell’indeterminatezza, della commistione categoriale e del pericolo identificata da Douglas. Nel caso studiato da Malkki, per esempio, il corpo è contemporaneamente la matrice e l’obiettivo della violenza. L’incertezza categoriale sugli hutu e i tutsi non ha luogo entro la rassicurante certezza delle “mappe del corpo” condivise da entrambe le parti, ma nella precarietà dei segni della differenza fisica: non tutti i tutsi sono alti; non tutti gli hutu hanno le gengive rossastre; non tutte le forme di naso sono utili a identificare i tutsi, e non tutti i modi di camminare servono a riconoscere gli hutu. In breve, i reali corpi storici vengono meno a quelle stesse cosmologie che dovrebbero rappresentare, e quindi il corpo etnico, delle vittime come degli assassini, è in sé potenzialmente ingannevole. Lungi dal fornire la mappa per una cosmologia certa, il corpo etnico si rivela a sua volta instabile e bugiardo. È questo

ribaltamento del principio cosmologico di Douglas che forse può spiegare meglio di altri fattori i macabri modelli di violenza rivolti contro il corpo dell’altro etnico. Il peculiare rigore formale di questa violenza (il suo caratteristico insistere su specifiche parti del corpo) costituisce un tentativo di stabilizzare il corpo dell’altro etnico; di eliminare l’oscillazione dovuta alla variazione somatica, alla commistione e ai matrimoni misti; e di rimuovere l’eventualità di ulteriori mutamenti o slittamenti somatici. È difficile stabilire con certezza se questa alterazione del ruolo del corpo nella violenza etnica sia un tratto qualitativamente originale dovuto alla modernità o agli ultimi decenni della globalizzazione, oppure se rappresenti semplicemente l’intensificazione di tendenze precedenti. Tornerò più avanti su questo aspetto interpretativo controverso. Questo tipo di efferatezze appartiene allo stesso campo d’azione della divinazione, del sortilegio e della stregoneria, dato che ribalta letteralmente l’interno e l’esterno del corpo, per individuare la prova del suo tradimento, dei suoi inganni, della sua alterità assoluta, in una sorta di autopsia pre mortem (cfr. anche Feldman 1991, pp. 110-115) che piuttosto che provocare la morte per via di una precedente incertezza produce certezza categoriale attraverso la morte e lo smembramento. Nella sua recente e magistrale analisi della stregoneria in Africa occidentale, con particolare riferimento alla variante regionale del Camerun, Peter Geschiere (1995) ci ricorda in modo estremamente efficace che la stregoneria e i sortilegi non sono assolutamente forme culturali statiche, ma discorsi morali sostanzialmente elastici e flessibili che consentono di “calcolare” nuove forme di ricchezza, ineguaglianza e potere. Le pratiche magiche si nutrono e sono nutrite da informazioni sulla politica nazionale, sui flussi globali di merci, e sulle voci che circolano sui traffici illegali di persone e cose. Sviluppandosi su un terreno di coltura fatto di indiscrezioni, inganni e dubbi, questi discorsi collocano le incertezze politiche ed economiche di grandi dimensioni entro mappe parentali costituite da discorsi locali di equità e morale. Tra i maka del Camerun la stregoneria si accentra sulla temibile figura del djambe, una piccola creatura che si insedia nel corpo della vittima inducendola a sacrificare un suo parente, a partecipare a banchetti cannibaleschi notturni e quindi a “introdurre il tradimento nello spazio ritenuto più

affidabile della società maka” (p. 40), lo spazio cioè della parentela e dell’aggregato domestico. Torneremo fra poco su questi aspetti del tradimento, del cannibalismo e della morale. Per ora, anche se questo non costituisce l’interesse principale di Geschiere, notiamo che nei molteplici studi antropologici dedicati alla stregoneria e alla magia nell’Africa subsahariana – a partire dal classico lavoro di EvansPritchard (1937) sulla stregoneria tra gli azande – alla base della stregoneria e della magia vi è spesso la presenza di forze e creature che si introducono nel corpo della vittima o del perpetratore, e che l’individuazione della colpa e della responsabilità presuppone spesso tecniche di investigazione fisica, realizzata su corpi animali o umani. Da ultimo, Geschiere riesce a mettere in evidenza il fatto che la stregoneria in Camerun collega il mondo della parentela a quello dell’etnicità e della politica, ed è ritenuta responsabile del recente arricchimento e rafforzamento politico di grandi gruppi etnici. Questa espansione da un idioletto malriuscito dell’intimità al sospetto generalizzato per gruppi etnici avversari è un punto che tra poco prenderemo nuovamente in esame. Per ora è sufficiente notare che la regolarità macabra e prevedibile della violenza etnocida non può essere considerata semplicemente la prova di un bieco “calcolo” o di un riflesso automatico della “cultura”6. Si tratta invece di forme orrende di scoperta fisica, di vivisezione: tecniche che si mettono a punto per esplorare, contrassegnare, classificare e archiviare i corpi di quanti potrebbero costituire il nemico etnico. Ovviamente, queste azioni brutali non danno vita ad alcun senso effettivo o fittizio di sapere inconfutabile, esasperando piuttosto la frustrazione dei perpetratori, e creano quindi – il che è peggio – le condizioni per episodi di violenza preventiva tra quelli che si sentono vittime potenziali. Questo circolo vizioso tra violenza reale e aspettative di violenza si sviluppa in determinate condizioni spaziali di flussi informativi, spostamenti di popolazioni e interventi statali. L’antropologia ha individuato da tempo i modi in cui il corpo può divenire lo spazio scenico per rappresentazioni e produzioni sociali (Bourdieu 1972; Comaroff 1985; Douglas 1966; Martin 1992; Mauss 1936; van Gennep 1909). Se uniamo i dati di Malkki sulla violenza etnica in Burundi all’analisi di Geschiere sulla stregoneria in Camerun,

sullo sfondo del fondamentale lavoro di Douglas sul disordine categoriale, il potere e il tabù, ci possiamo rendere conto che gli omicidi, le torture e gli stupri associati alla violenza etnocida non riguardano solo il problema di eliminare l’altro etnico, ma implicano l’uso del corpo per stabilire i parametri di quell’alterità, facendo a pezzi i corpi per divinare – se possiamo dire così – il nemico al loro interno. In questa prospettiva, i rimarchevoli studi sulla logica della stregoneria in Africa potrebbero assumere una rilevanza interpretativa assai più vasta. Il ruolo del corpo come sito di un esito violento in situazioni di incertezza classificatoria ha stretti legami con un tema già accennato, quello dell’inganno. La bibliografia sulla violenza etnica è costellata di riferimenti all’inganno, al tradimento, all’impostura e al segreto. Sono molte le fonti che confermano in modo chiaro questa concezione del sospetto, dell’incertezza e della paranoia cognitiva sull’identità del nemico etnico. Benedict Anderson ha dimostrato quanta importanza abbia avuto la paura dei nazisti per le “attività segrete” degli ebrei di Germania, e il furibondo impiego di qualunque mezzo per isolare i “veri” ebrei, molti dei quali sembravano “ariani” e “tedeschi” in tutto e per tutto (Anderson 1991). Il massacro degli ebrei sotto Hitler costituisce un settore di ricerca ancora dibattuto che travalica i limiti di questo saggio, ma sembra indiscutibile il ruolo centrale delle concezioni naziste di purezza razziale (ariano-germanica) per comprendere l’inusitata violenza etnocida diretta contro gli ebrei. L’idea degli ebrei come “impostori” – collaborazionisti, un cancro del corpo sociale tedesco – ci fa rivolgere l’attenzione su un punto essenziale per cui il trattamento nazista del corpo ebreo travalica di gran lunga la logica del capro espiatorio, degli stereotipi e così via. Il modello nazista ci dimostra come questi bisogni, in determinate circostanze, evolvano in pratiche di sterminio di massa dell’altro etnico. Questo fatto tremendamente moderno, che costituisce il tratto specificamente raccapricciante dell’Olocausto (assieme alla sua totalità, alla burocratizzazione, alla sua “banalità” e al suo obiettivo di una totale purificazione etnonazionale), è reso sicuramente più complesso dalla storia peculiare dell’antisemitismo in Europa7, ma nel suo impeto purificatore attraverso l’etnocidio e nella sua “concezione sanitaria dell’antisemitismo” (Proctor 1995, p. 172) pone perlomeno le

basi per le pulizie etniche dell’Europa orientale, del Ruanda-Burundi e della Cambogia che hanno avuto luogo negli ultimi decenni, nell’era della globalizzazione. Nel caso dell’ideologia razziale nazista, la concezione dell’ebreo come agente segreto racchiude in sé l’ambivalenza dei nazisti tedeschi verso i concetti di razza, religione ed economia. Gli ebrei erano il luogo perfetto per esplorare le incertezze naziste sul cristianesimo e sul capitalismo. Come gli hutu per i tutsi, gli ebrei erano il “nemico interno”, minaccia potenziale costante alla purezza nazionale e razziale della Germania, agenti segreti della corruzione razziale e del capitale internazionale (e, paradossalmente, del comunismo). Come evidenza Malkki, il tema della segretezza e dell’inganno permeava l’idea che gli hutu avevano dell’élite tutsi che governava il Ruanda. Considerati dal punto di vista delle vittime, gli oppressori appaiono come “ladri che hanno sottratto il paese agli hutu nativi”, uomini versati per natura nell’arte dell’inganno (Malkki 1995, p. 68). I tutsi erano considerati degli stranieri che tenevano nascoste le loro origini, malvagi imbroglioni che “occultavano la loro vera identità” (p. 72). L’immagine retorica dell’inganno, dell’identità fittizia e del tradimento trova ulteriore conferma nel quadro della violenza esplosa nell’India settentrionale nel corso degli anni Ottanta tra indù e sikh, lotta che ha finito per articolarsi attorno all’esplicita richiesta della costituzione di uno Stato sikh autonomo (il Khalistan). Nel discorso dei militanti sikh dell’India, Veena Das (1995) ha posto in evidenza quanto fosse importante la costante preoccupazione per eventuali dichiarazioni “fasulle” di identità sikh, anche quando riguardavano forme identitarie solitamente non centrali per il sikhismo. In un capitolo dedicato alla retorica militante sikh, Das mostra come, nel periodo cruciale dei primi anni Ottanta, emerse nel Punjab uno stile militante sikh che identificava lo Stato con l’induismo, e gli indù con un pericoloso elemento femminile che minacciava la comunità dei sikh concepita come maschile. Questa retorica identificò in maniera selettiva alcuni elementi chiave del passato e del presente sikh, in modo da attenuare le tensioni radicali tra sikh e musulmani a favore della nuova opposizione tra sikh e indù. Das dice cose estremamente importanti su storia e memoria, linguaggio e violenza, genere

sessuale e Stato, ma il suo interesse verte principalmente sui modi in cui il discorso militante rappresenta e allo stesso tempo induce la possibilità della violenza attraverso l’utilizzo in forma visiva di immagini, racconti e discorsi di natura sessuale, personale e politica. In modi diversi, Das chiarisce come i discorsi pubblici dei militanti sikh, ad esempio quelli di Bhindranwale, trasformino le esperienze di singoli individui nella vergogna di tutta la comunità, così che ogni violenza commessa nel nome dei sikh trovi una sua giustificazione in quanto azione rivolta contro l’ingiustizia collettiva, come un passo in direzione del martirio. Non è possibile discutere in questa sede i molteplici dettagli dell’analisi di Das della retorica militante sikh, ma ci sono due aspetti dell’identità da lei affrontati che ritengo assolutamente rilevanti. In modo particolarmente evidente nei discorsi di Bhindranwale riportati da Das, un tema ricorrente è quello di chi siano veramente i sikh. Un aspetto essenziale che rende pertinente il ruolo dell’incertezza su cosa significhi essere sikh riguarda un gruppo separatista interno chiamato nirankari. Ecco cosa Das dice a proposito della violenza dei militanti sikh contro i nirankari nel corso degli anni Settanta e Ottanta del Novecento: Sussiste un’enorme diffidenza nei confronti di definizioni alternative della comunità sikh, che diviene palese nel rapporto tra militanti sikh e comunità che si situano ai margini del sikhismo. Una di queste comunità è quella dei nirankari, che possiamo considerare uno sviluppo settario interno al sikhismo. Dato che i seguaci di questa setta venerano un guru vivente – pratica contraria alla dottrina sikh ortodossa – nel 1973 furono dichiarati nemici del panth dai sacerdoti del Tempio Dorato. Nell’aprile 1978 alcuni seguaci di Bhindranwale si scontrarono violentemente con i nirankari. (…) Anche se si ammette che erano una setta con forti legami con i sikh, le loro attuali pratiche di culto sono considerate inaccettabili; sono definiti “nirankari fasulli”. (…) Si afferma che i nirankari sono agenti del governo indù, e che il loro unico scopo è la distruzione dei sikh (Das 1995, pp. 133-134).

Ecco quindi un chiaro esempio della necessità di dover ammazzare “nei pressi di casa”, se si vuole chiarire chi siano i veri sikh e cosa significhi effettivamente l’etichetta “sikh”. Si notino le idee di “nirankari fasulli” e di “agenti” del gruppo ostile (indù), assieme alla convinzione che i nirankari nutrano un odio assoluto contro i sikh “puri”. Siamo tornati al tema della purezza, evidenziato per prima da Douglas (1966), poi elaborato da Malkki (1995), Hayden (1996) e Herzfeld (1997) in diverse direzioni. Nell’analisi di Malkki, quest’ideologia della purezza e della contraffazione è alla base della

paradossale convinzione espressa dagli hutu che vivono nei campi profughi della Tanzania che sia proprio l’esilio il sigillo della loro purezza in quanto “hutu”, e anticipa le riflessioni di Bauman (1997) sulla purezza, lo straniero e l’alterità. Mentre il caso dei nazisti evidenzia il potere della retorica della purezza per la maggioranza dominante (che spesso usa l’immagine della minoranza come “cancro” all’interno del corpo sociale), il caso dei sikh evidenzia l’effetto domino che deriva dalle pratiche violente di “ripulitura” del gruppo, dato che queste pratiche, proprio mentre colpiscono il gruppo delle vittime, producono l’esigenza di ripulire ulteriori aree grigie, così da poter raggiungere la chiarezza totale e la perfetta purezza. Ovviamente, chiarezza e purezza non dipendono dallo stesso atteggiamento, né presuppongono forme simili di motivazione e interesse. Mentre la chiarezza riguarda gli aspetti cognitivi, la purezza è una questione di coerenza morale. Queste due dimensioni sembrano sovrapporsi nelle esplosioni collettive di furia etnocida, in cui la logica della pulizia sembra essere contemporaneamente dialettica e circolare, dato che un’azione di “purificazione” suscita una reazione da parte ma anche entro l’“altro” etnico. In modo simile, anche i processi produttivi della purezza e della chiarezza si trovano in relazione insieme dialettica e di reciproco rinforzo. Il terrore dovuto alla purificazione e le tendenze vivisezioniste che emergono in situazioni di violenza di massa rendono inoltre indistinto il confine tra etnicità e politica. In effetti, come l’etnocidio è il caso limite della violenza politica, così alcune forme di isteria politica conducono a un interesse pseudo-etnico per strategie diagnostiche di tipo somatico. Questa rilettura in chiave somatica delle identità politiche offre un’altra prospettiva da cui considerare il tema della maschera, della contraffazione e del tradimento. Un buon esempio di questa dinamica può essere individuato nel caso cinese – analizzato nel suo significato da Donald Sutton (1995) – dei frequenti episodi di cannibalismo nella provincia del Guanxi nel 1968, verso la fine della fase più cruenta della Rivoluzione Culturale. Anche in questo caso siamo di fronte a un saggio complesso, che affronta una serie di affascinanti questioni che spaziano dal cannibalismo nella storia culturale di quella provincia, alla sua riattivazione entro le violente condizioni della Rivoluzione Culturale, alle complesse relazioni tra

politica regionale e politica di Pechino, e così via. L’aspetto più impressionante dell’analisi di Sutton per i fini di questo capitolo è il tema della violenza tra persone che vivono in stretta vicinanza sociale. Prendiamo ad esempio la raccapricciante descrizione della forma generale di quel che Sutton chiama “cannibalismo politico”: gli assassini e i mangiatori erano esponenti legati alle istituzioni legittime, e non ribelli controrivoluzionari, e inoltre le forme del consumo cannibalesco potevano variare entro una gamma ristretta di possibilità. Le persone concordavano su quali fossero le parti migliori del corpo, e insistevano perché fossero quelle a essere cucinate, e la selezione, l’uccisione e il consumo delle vittime seguivano un modello relativamente sistematico (Sutton 1995, p. 142). Esaminando da vicino quelli che nel Wuxuan venivano chiamati “banchetti di carne umana” e quelle che all’epoca erano conosciute come “lotte” (eventi ritualizzati che comprendevano l’accusa, la confessione e l’abuso fisico di coloro che erano sospettati di essere nemici di classe), Sutton è in grado di dimostrare in modo convincente che seppure questi episodi implicavano l’uso esplicito di categorie politiche per classificare le persone, la loro logica sembra del tutto compatibile con quel tipo di violenza che solitamente definiamo etnica. Analizzando un caso di questo tipo a Mengshan, Sutton ci mostra come la semplice categorizzazione di un uomo come “proprietario terriero” lo avesse trasformato di punto in bianco in un “cattivo” talmente indubitabile che un suo vicino non si preoccupò di informarlo che un gruppo di miliziani di lì a poco l’avrebbe ammazzato. Sutton dimostra inoltre come le etichette politiche assumessero una fortissima dimensione somatica: un giovane citato tra le sue fonti dice, a proposito degli ex proprietari terrieri: “Sentivo che nel loro animo volevano ancora sovvertire il potere e ucciderci tutti. Nei film avevano delle facce orrende, e quando li vedevo al villaggio avevo paura di loro, e pensavo che fossero veramente ripugnanti a vedersi. Credo che la bruttezza sia una questione di atteggiamento” (p. 161). Questa citazione estremamente interessante ci offre l’opportunità di considerare brevemente come le etichette politiche (del tipo: “proprietario terriero”, “nemico di classe” e “controrivoluzionario”) esprimano stati d’animo estremamente profondi e come, almeno in

alcuni casi, la propaganda verbale e le immagini trasmesse dai mass media possano letteralmente trasformare dei visi normali in mostruosità che devono essere annientate8. In un ultimo e fondamentale passaggio citato nel saggio di Sutton, un ex leader politico, espulso dal partito all’inizio degli anni Ottanta con l’accusa di aver praticato il cannibalismo, rispose indignato: “Cannibalismo?! Ma se era la carne di un proprietario, di una spia!” (p. 162). Con questo esempio, siamo tornati al problema dell’identificazione e dell’incertezza, alla trasformazione dei vicini e degli amici in mostri, e alla convinzione che le apparenze sociali siano in effetti delle maschere (Fitzpatrick 1991, 1995) sotto le quali si celano forme identitarie più vere, più profonde, e più agghiaccianti. Le “attività segrete” si ritrovano in moltissime fonti dedicate alla violenza etnica, e sono un indicatore di quel fattore cruciale costituito dalla sensazione di essere stati traditi e ingannati, che sembra situarsi alla base delle forme più drammatiche di questa violenza. Il saggio di Sutton sul cannibalismo politico cinese solleva nuove e inquietanti ipotesi interpretative sui racconti dei campi di concentramento in Bosnia, in cui gli uomini erano costretti a mordere i genitali dei loro amici o di compagni di prigionia, e su simili allusioni al cannibalismo forzato in altri contesti. Com’è evidente, la violenza etnocida attiva una sorta di furia ambientale che si accanisce sul corpo come teatro di inganno, tradimento e di falsa solidarietà. Ogniqualvolta si rende plausibile l’accusa di tradimento categoriale, quando cioè vengono smascherati degli agenti segreti, o vengono portate alla luce delle etnicità impure, attribuendo identità pericolosamente cancerogene a quel che potremmo chiamare il “corpo interno”, allora si rendono concepibili diverse forme collettive di vivisezione, che trovano tra i loro perpetratori le persone più “normali”. In molti casi del genere, la violenza raggiunge terrificanti livelli di intimità. Sicuramente è vero che le forme più estreme di violenza etnica implicano un’esplicita volontà di manifestare anche scenograficamente il potere, la degradazione, la violazione e il dolore fisico ed emotivo. Come è vero che ciò si può spiegare in parte come l’effetto di una spirale di reminiscenze speculari, per cui il ricordo di un’atrocità subita diventa lo spunto per perpetrarne una nuova, e così

via. Ma c’è un altro aspetto presente perlomeno in alcune di queste situazioni, e cioè che la violenza costituisce un orribile tentativo di esporre, penetrare e occupare la forma materiale – cioè il corpo – dell’altro etnico, il che tra l’altro ci permette di comprendere meglio le ragioni per cui la sessualità viene spesso messa in gioco a molteplici livelli nelle più recenti forme globali di violenza etnica. Mangiare il fegato o il cuore del “nemico di classe” appena scoperto è senz’altro una forma terribile di intimità, e non è necessario fare ricorso a più profonde teorie strutturali sul cannibalismo “comunitario” per riconoscere che mangiarsi il nemico è un modo per ripristinare una macabra intimità con colui che fino a poco prima era un amico9. Obbligare però un prigioniero a strappare a morsi i genitali di un altro è un atto che sconfina nel grottesco, dato che oltre a infliggere un danno e un dolore fisico profondo e umiliare pesantemente le vittime, costringe i corpi nemici a una sorta di intimità infamante. In base a queste premesse, possiamo forse ora notare brevemente che lo stupro in questi casi non dipende unicamente da una specifica concezione dell’onore e della vergogna, né è soltanto un tentativo di abusare degli organi effettivi della riproduzione sessuale (e quindi etnica). La violenza sessuale è anche la forma più violenta di penetrazione, investigazione ed esplorazione del corpo del nemico. Questo punto può aiutarci a spiegare come mai lo stupro abbia nuovamente assunto una dimensione centrale nella violenza etnica. L’abuso sessuale, da questo punto di vista, costituisce il corrispettivo della pratica di ispezionare i maschi sospettati di essere musulmani (in posti come Mumbai) per controllare che non siano circoncisi. Come il bastone di legno conficcato nell’ano del nemico etnico su fino al cranio (nel caso dell’etnocidio tra hutu e tutsi studiato da Malkki), il pene nello stupro etnico è allo stesso tempo uno strumento di umiliazione, di purificazione e di grottesca intimità con l’altro etnico. Con questo non intendo sostenere che la violenza sessuale contro gli uomini e quella contro le donne si equivalgano per quantità o qualità. È un dato di fatto che nella storia della guerra in generale, e in quella della violenza etnica più di recente, è sulle donne che grava il ruolo principale di vittime di violenze sessuali10. Resta comunque da sondare il legame che sembra sussistere tra la violenza dello stupro etnocida e altre forme violente con cui si penetra nel corpo del nemico

per potersene poi sbarazzare. Alla fine, quando si sono lette tutte le terribili descrizioni, e quando si sono presi in considerazione tutti i fattori politici, sociali ed economici di larga scala, il corpo rimane il luogo dell’intimità, e nelle molteplici e differenti forme che la violenza fisica assume in diversi contesti permane una traccia comune di intimità sfigurata11. Se consideriamo il tema dell’incertezza e della vivisezione dalla prospettiva dell’intimità, siamo costretti a ritornare alla questione del numero e dell’astrazione – e quindi a quella della globalizzazione – già affrontata all’inizio di questo capitolo. Per ribadire il concetto, due aspetti fondamentali delle nuove categorie etniche sono la loro struttura altamente formalizzata e le loro consistenti dimensioni. In nessuno dei casi a noi noti di etnocidio si può dimostrare che questi due tratti non dipendano in buona misura da pratiche statali (di solito attraverso i censimenti e spesso grazie all’applicazione elementare della coppia ricompensa-punizione). Ecco quindi la domanda: come possono forme di identità e identificazione così vaste (etichette etniche che sono contenitori astratti per l’identità di migliaia e spesso milioni di persone) trasformarsi in strumenti delle forme più brutalmente intime e concrete di violenza? Un indicatore del modo in cui queste grandi astrazioni numeriche ispirano espressioni addirittura grottesche di violenza fisica è il fatto che queste forme di violenza – che ho definito vivisezioniste – forniscono temporaneamente un modo per rendere concepibili quelle astrazioni; per far diventare concreti i grandi numeri; per rendere, almeno per un momento, personali le etichette apparentemente onnicomprensive12. Provando a esprime il concetto in modo asettico, possiamo dire che le forme più orribili di violenza etnocida sono dispositivi per produrre persone a partire da quelle che altrimenti non sono altro che etichette che hanno sì delle conseguenze, ma non contesti di applicazione13. Questo è il motivo per cui le forme peggiori di violenza etnica sembrano costringere quanti le analizzano a fare ricorso a termini come “rituale” o “ritualizzato”. In questi casi non si tratta solamente degli aspetti strettamente simbolici, della sequenza, delle convenzioni o anche pure della tradizione di forme particolari di violenza, ma di un qualcosa ancora più profondo che caratterizza tutti i rituali del corpo, che riguardano sempre la produzione, la crescita e il

mantenimento di persone. Questa dimensione legata al “ciclo vitale” dei rituali corporali (messa in evidenza da van Gennep e dai molti antropologi capaci che ne hanno raccolto l’eredità) trova la sua inversione più mostruosa in quello che potremmo chiamare il “ciclo mortale” dei rituali di etnocidio di massa. Queste orrende controrappresentazioni mantengono un tratto in comune con i loro opposti consacrati allo sviluppo vitale: sono strumenti per creare persone a partire dai corpi14. Può sembrare strano parlare in questo contesto di produzione di persone partendo dai corpi, dato che l’oggetto che qui ci riguarda presuppone una pregressa intimità sociale (o perlomeno una sua possibilità) tra vittime e carnefici. Ma è proprio in quelle situazioni in cui il dubbio diviene endemico e le pressioni sono insopportabili che le persone normali iniziano a vedere delle maschere al posto delle facce. Valutata in questa luce, la violenza fisica estrema può essere considerata una tecnologia degenerata di riproduzione di quell’intimità che si crede violata dal segreto e dal tradimento. Attraverso questa modalità ritualizzata di concretizzazione possiamo comprendere come la violenza fisica dell’etnocidio sia uno strumento per la produzione di persone nel quadro di un sistema di identità etniche di grandi dimensioni che – per qualunque motivo – siano divenute ostili una all’altra. Può sembrare assurdo sostenere che questa violenza produca persone, di fronte all’evidenza che buona parte di quella violenza non solo è umiliante e mortale, ma sembra letteralmente intenta alla decostruzione dei corpi attraverso varie forme di mutilazione e macellazione. Si tratta, ovviamente, di una tecnica di produzione di persone altrettanto macabra quanto peculiare. Tuttavia, proprio nel loro complicato e intimo interesse per le parti e il tutto dei corpi, per la penetrazione e il consumo, per gli accessi e le vie d’uscita, queste forme di violenza sono metodi per garantire che alcuni corpi sono, dopo tutto, persone vere. La dimensione orrendamente negativa di una simile tecnologia è costituita dal fatto che questa produzione di persone “vere” a partire dai corpi dei traditori, delle spie e dei gruppi dei nemici disprezzati sembra implicare necessariamente la loro vivisezione. Ecco, di nuovo, il legame tra intimità e incertezza. Quando il timore dell’infiltrazione e dello spionaggio del corpo etnico si

fa plausibile, la produzione selettiva di “veri” nemici etnici a partire dal dubbio provocato dalle migliaia di potenziali agenti segreti sembra suscitare livelli del tutto eccezionali di rabbia, brutalità e sistematicità. Il problema delle false identità sembra pretendere l’efferata creazione di persone vere attraverso la violenza. È questa la modifica che io propongo all’ipotesi di Allen Feldman (1991), ripresa da Malkki (1995), che la violenza etnica produca casi astratti di etnicità a partire dai corpi di persone reali. Esempi di questo tipo si potrebbero moltiplicare, a testimonianza di un fatto importante: quanto più popolazioni di vaste dimensioni si trovano a occupare spazi sociali complessi, e quanto più i tratti culturali primari (abbigliamento, stili linguistici, modelli residenziali) si rivelano indicatori inadeguati dell’appartenenza etnica, tanto più si assiste a un aumento della ricerca di segnali “interni” o “nascosti” della “vera” identità delle persone. Lo storpiamento e la mutilazione dei corpi etnicizzati rappresenta un disperato tentativo di ristabilire la validità dei marcatori somatici dell’“alterità” di fronte alle incertezze poste dalle etichette dei censimenti, dei mutamenti demografici e di quelli linguistici, ognuno dei quali rende l’affiliazione etnica meno somatica e fisica, e più sociale ed elettiva. I matrimoni misti, come quelli che avvengono da tempo in molte aree cosmopolite e nelle città, sono il maggiore ostacolo per una verifica immediata dell’“alterità” etnica (Hayden 1996). Sono pratiche di questo tipo che pongono le premesse a che il corpo divenga il luogo per risolvere l’incertezza attraverso forme brutali di violazione, investigazione, decostruzione e distruzione. Questa mia interpretazione – che collega l’incertezza categoriale alle violenze corporali dell’etnocidio – si basa su altri aspetti di una teoria generale della violenza etnica, molti dei quali già attivi: le pratiche classificatorie di molti Stati coloniali; le grandi migrazioni forzate volute da Stati come l’Unione Sovietica di Stalin; il caos categoriale prodotto da pratiche contro la discriminazione che vengono applicate da costituzioni democratiche a forme di classificazione “quasi etniche”, come le “caste classificate” create dalla costituzione indiana; la tendenza delle popolazioni diasporiche a sostenere militarmente, economicamente e politicamente i gruppi di provenienza, con la conseguente creazione di quel che Benedict

Anderson (1994) ha chiamato il “nazionalismo a lunga distanza”; la velocità della circolazione delle immagini dovuta alle reti televisive via cavo, a internet, ai fax, al telefono, e ad altri mezzi di comunicazione che espongono le popolazioni di una data località ai più sanguinosi dettagli della violenza esplosa in un’altra; i principali sommovimenti sociali avvenuti in Europa orientale e altrove a partire dal 1989, che hanno suscitato enormi timori su chi siano i vincitori e gli sconfitti del nuovo mercato aperto, creando così nuovi capri espiatori, come nel caso degli ebrei e degli zingari in Romania (Verdery 1991). Queste forze di vaste dimensioni – mass media globali, aumento delle migrazioni volontarie e forzate, profondi mutamenti delle economie nazionali, cesura dei legami tra territorio, cittadinanza e affiliazione etnica – ci riportano al tema della globalizzazione, entro cui avevo tratteggiato la mia ipotesi. Non è difficile identificare le modalità generali con cui le forze transnazionali fanno pressione sulle instabilità locali di tipo etnico. L’analisi di Hayden (1996) delle nazionalità, dei censimenti e delle costituzioni nella ex Iugoslavia, che ha rilevato l’impulso a eliminare l’“inimmaginabile” nelle nuove formazioni nazionali, è una dimostrazione evidente del percorso che conduce dalle politiche (e storie) globali ed europee alla frantumazione imperiale e al collasso etnico, soprattutto in quelle zone caratterizzate dai più alti livelli di commistione etnica attraverso i matrimoni misti. Ma il percorso che va dai mandati costituzionali alla brutalità corporale non può essere compreso nella sua interezza secondo la chiave interpretativa della contraddizione categoriale. Le forme specifiche e orrende di vivisezione che hanno caratterizzato la recente violenza etnocida (in Europa orientale e altrove) evidenziano un eccesso di accanimento che richiede un quadro interpretativo addizionale, entro cui sia possibile collegare tra loro incertezza, purezza, tradimento e violenza corporale. Questo eccesso o surplus dà conto di quelle iperrazionalizzazioni – notate nel corso di questo capitolo – che accompagnano l’apparente isteria di questi episodi: l’ordine di tipo quasi rituale, la cura del dettaglio, la specificità delle violazioni fisiche, la sistematicità delle forme di degradazione. Eppure la globalizzazione non produce un unico cammino verso l’incertezza, il terrore o la violenza. In questo capitolo ho identificato una logica per la produzione di “persone vere” che collega incertezza,

purezza, tradimento e vivisezione, ma ci sono sicuramente altri “immaginari etnocidi”15 in cui le forze del capitale globale, il potere relativo degli Stati, le alterne vicende della razza e della classe e il diverso potere dei vari mass media producono tipi differenti di incertezza e differenti forme di etnocidio. Gli esempi su cui ho basato la mia argomentazione – la Repubblica popolare cinese della fine degli anni Sessanta, l’Africa centrale degli anni Settanta, l’India settentrionale agli inizi degli anni Ottanta e l’Europa centrale tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta – non condividono uno stesso rapporto temporale o spaziale con il processo di globalizzazione. In ciascuno dei casi presentati, il livello di apertura al capitale globale e di legittimazione dello Stato, i movimenti interni ed esterni dei gruppi etnici e la specificità delle lotte politiche condotte per i diritti dei singoli gruppi avevano chiaramente delle connotazioni peculiari. Sebbene quindi l’ipotesi vivisezionista che ho qui proposto forse non sia applicabile a questi casi in maniera completamente uniforme, i suoi elementi essenziali – purezza, chiarezza, tradimento e attività segrete – possono fornire gli ingredienti di base, da ricombinare in modo creativo così da gettare nuova luce su questi e altri esempi. In un mio precedente tentativo di analizzare il legame tra identità collettive di vaste dimensioni, astrazione dei grandi numeri e teatro del corpo, ho sostenuto l’utilità di considerare i vincoli globali come forze che implodono sulle località, deformandone il sistema delle regole, riconfigurandone le politiche, e raffigurando il loro carattere contingente e la loro forma come casi specifici della più ampia retorica del tradimento e della fedeltà (Appadurai, 1996, pp. 192-203). Nel nostro caso, il concetto di implosione potrebbe dar conto delle azioni perpetrate sul più locale dei siti globali, il corpo etnicizzato che, secondo modalità alquanto confuse e contraddittorie, può divenire il sito più naturale, più intimo e quindi più terrificante per individuare i segni somatici del nemico interno. Nella violenza etnocida, si è alla ricerca proprio di quella stabilizzazione somatica che la globalizzazione – per diverse ragioni – rende intrinsecamente impossibile. Quasi fossero la versione deforme dei principi popperiani di validazione scientifica, le congetture paranoidi producono confutazioni ridotte fisicamente in pezzi. La prospettiva che qui ho indicato sulla violenza etnocida tra intimi

non è limitata all’incertezza nei confronti dell’“altro”, dato che queste azioni segnalano una profonda e drammatica incertezza sul sé etnico, e si manifestano in circostanze in cui l’esperienza vissuta di grandi categorizzazioni diviene instabile, indeterminata ed esplosiva dal punto di vista sociale, così che l’azione violenta può diventare un mezzo per soddisfare l’esigenza di una propria soggettività categoriale. Ma, com’è ovvio, l’epistemologia feroce della violenza corporale (il “teatro del corpo” su cui questa violenza si esercita) non è mai realmente catartica, soddisfacente o conclusiva, e porta solamente all’acutizzazione delle ferite sociali, alla moltiplicazione delle umiliazioni, alla collusione del silenzio, e a un violento bisogno di dimenticare. Tutti questi effetti non fanno che aumentare la predisposizione a nuovi casi di ferocia, e dipendono in parte dalla natura pregiudiziale di questo tipo di violenza: è meglio che ti uccida prima che tu uccida me. L’incertezza classificatoria e la violenza possono condurre ad azioni, reazioni, complicità e anticipazioni che non fanno che moltiplicare le precedenti incertezze sulle classificazioni. Tutte assieme, queste forme di incertezza pretendono come compensazione la forma peggiore di certezza, quella certezza che ci fa sentire “sicuri da morire”. 1

Praticamente tutti i confini, per quanto controllati in modo rigido, sono in qualche misura permeabili. Non intendo sostenere che tutti i confini siano permeabili allo stesso modo, o che qualunque gruppo possa attraversare qualunque confine a proprio piacimento. L’idea di un mondo senza confini è ben distante dal mio pensiero. Intendo piuttosto suggerire che i confini siano sempre più luoghi di conflitto tra gli Stati e i diversi tipi di istituzioni e interessi non statali, e che è solo in rapporto a specifici gruppi, beni e progetti ideologici che gli Stati sono in grado di conservare l’impenetrabilità dei loro confini. Inoltre, il movimento (più o meno forzato) di gruppi etnici attraverso i confini è spesso un fattore scatenante di conflitti etnici intranazionali. 2 Non voglio tuttavia sostenere che queste forme e questi livelli differenti di violenza siano isolati uno dall’altro dal punto di vista analitico o empirico. In realtà, Carlo Lomnitz (comunicazione personale) ha suggerito diversi modi in cui è possibile collegare la violenza vivisezionista tra intimi e la violenza “banale” dei torturatori professionisti (soprattutto in America latina) attraverso la politica dell’identità e dello Stato, cioè della globalizzazione. Spero di poter approfondire il suo suggerimento in un prossimo lavoro dedicato a questo tema. 3 È difficile avanzare stime plausibili dal punto di vista quantitativo sulle variazioni d’incidenza della violenza etnica nel corso di periodi storici sufficientemente lunghi. Ci sono indicazioni che i conflitti intrastatali (compresa la violenza etnica) siano oggi più frequenti dei conflitti interstatali. Sembra quindi vi sia un aumento secolare delle forme estreme di violenza corporale tra gruppi etnici, anche se molte società sono note per il loro ragguardevole livello di

armonia etnica e di generale ordine sociale. Non vi è dubbio che l’amplificazione della percezione della violenza etnica dovuta ai mass media crei effettivamente il rischio di sovrastimarne i numeri reali. 4 Una stimolante discussione della diffusa incertezza sull’identità di persone, categorie sociali, villaggi e persino sul rapporto tra religione e nazionalità durante il processo di Partizione dell’India nel 1947 si trova nel testo inedito – verso il quale sono in debito – di Gyanendra Pandey, È possibile per un musulmano essere indiano?, presentato all’Università di Chicago nell’aprile 1997. Un’incertezza del tutto simile, effetto della politica coloniale e tardo-coloniale, è stata identificata da Qadri Ismail (1995) a proposito dell’autorappresentazione dell’identità da parte dei musulmani dello Sri Lanka. 5 Questa è l’occasione adatta per riconoscere al lavoro di Allen Feldman (1991) dedicato alla violenza etnoreligiosa in Irlanda il merito di aver aperto un settore di studi. Gran parte delle successive analisi antropologiche della violenza, incluse molte citate in questo saggio, sono in debito con quest’autore. La sua brillante disamina della logica che intreccia spazio, tortura, paura e narrazione in Irlanda del Nord fa sì che una serie di toccanti osservazioni etnografiche sul terrore etnico militarizzato siano interpretate secondo una prospettiva radicalmente foucaultiana. Sono molteplici i modi in cui le posizioni di Feldman anticipano le mie, e tra questi vorrei ricordare: le sue osservazioni sugli interrogatori come cerimonie di verifica (p. 115); la tortura come tecnica di produzione del potere dal corpo della vittima (ib.); la dimensione “sanitaria” implicita negli interrogatori (pp. 122-123); e il ruolo dei cadaveri come luogo in cui vaste mappe spaziali vengono trasferite sulla mappa del corpo nemico (p. 73). Il mio tentativo è quello di spostare il centro dell’attenzione dalla violenza promossa dallo Stato alle forme e agli attori “ordinari”, e di elaborare il legame tra chiarificazione e purificazione. 6 Forse questo è il contesto adatto per segnalare la specifica relazione che intercorre tra spontaneità e calcolo nella violenza etnica collettiva, e l’accento posto da questo capitolo sull’incertezza e la vivisezione può gettare nuova luce su un argomento tanto complesso. Gli approcci attuali tendono a individuare un anello mancante tra le forze pianificate (solitamente da motivazioni politiche) che stanno dietro la violenza etnica, e una sua innegabile dimensione spontanea. L’approccio che qui assumo ipotizza che, almeno in determinate condizioni, la risposta vivisezionista all’incertezza possa mimare le moderne metodologie scientifiche di verifica proprio come gli aspetti pianificati della violenza etnica possono imitare altre forme legittime di pratica politica che pongono l’accento sulle procedure, gli aspetti tecnici e quelli formali. Esiste quindi forse un’intima affinità tra spontaneità e calcolo nella moderna violenza etnica che necessita di ulteriori approfondimenti (cfr. Tambiah 1996). 7 Esiste un’enorme bibliografia sul rapporto tra nazionalismo tedesco, identità ebraica e le dinamiche dell’Olocausto. Parte di questa bibliografia, inclusi alcuni studi condotti dalla Scuola di Francoforte, riconosce il rapporto tra modernità, irrazionalismo, e timore del cosmopolitismo internazionale che si configura nell’antisemitismo nazista. È inoltre evidente che la banalizzazione e la produzione industriale di morte della Germania nazista avevano un legame profondo con la concezione del corpo ebreo come sito in cui si localizzava il timore delle forme astratte di capitale e di identità. Il recente dibattito che ha circondato il lavoro di Daniel Goldhagen (1996) sul coinvolgimento dei comuni cittadini tedeschi nello sterminio degli ebrei nella Germania nazista ha riaperto molte di tali questioni. Le dimensioni di questa bibliografia rendono impossibile una sua analisi serrata in questa sede. Basterà quindi dire che le pratiche naziste verso gli ebrei sollevano questioni di purezza e di chiarezza che riguardano i progetti etnonazionali, questioni strettamente collegate all’ipotesi centrale di questo capitolo. 8 L’intera questione delle identità duplici e dei soggetti sdoppiati è stata affrontata in forme

estremamente suggestive da Slavoj Žižek (1989) attraverso la sua originale rilettura lacaniana delle tesi hegeliane. Come parte di questa interpretazione, Žižek fa notare che il disagio dovuto alla somiglianza tra ebrei e tedeschi costituisce un tratto essenziale dell’antisemitismo. Nota inoltre il modo peculiare secondo cui il terrore stalinista pretendeva che le sue vittime confessassero durante i processi politici il loro “tradimento” proprio perché, da un certo punto di vista, erano anche “bravi” comunisti che riconoscevano che il partito aveva bisogno di epurazioni ed espulsioni. In entrambi i casi, le vittime dovevano sopportare il destino di essere contemporaneamente parte del “noi” e del “loro” nel quadro di un’ideologia totalitaria. Sheila Fitzpatrick è stata la prima a farmi notare l’importanza dei processi stalinisti contro i “traditori di classe” per la logica generale della mia argomentazione. Nel suo breve saggio sui racconti autobiografici e sui processi politici nella Russia stalinista (Fitzpatrick 1995), l’autrice ci mostra come l’incertezza della propria storia di classe fosse una fonte costante di timore per molti cittadini sovietici dell’epoca, dato che da questo punto di vista nessuno poteva sentirsi perfettamente garantito: “Allora le loro maschere sovietiche sarebbero cadute, sarebbero stati scoperti come doppiogiochisti e ipocriti, nemici che andavano rimossi dalla società sovietica. In un batter d’occhio, come in una fiaba, Gaffner il pioniere del kolchoz sarebbe diventato Haffner il kulak mennonita. In un battibaleno il volto allo specchio di Ulianova si sarebbe trasformato in quello della strega Buber, nemica del popolo sovietico” (1995, p. 232; cfr. anche Fitzpatrick 1991). 9 Si può considerare questa forma brutale di intimità come una mostruosa deformazione di quel tipo di “intimità culturale” che Herzfeld (1997) definisce come il sentimento di familiarità, prossimità, fiducia e conoscenza profonda che le comunità locali mantengono di fronte alle classificazioni, alle pratiche e agli stereotipi dello Stato. Dato che Herzfeld nella sua analisi mette in evidenza il fatto che le pratiche essenzializzanti di tipo folk sono separate da quelle ufficiali dello Stato da un confine assai labile, forse non è azzardato ipotizzare che un qualche tipo di intimità – del tutto perverso, ovviamente – sia un tratto costitutivo della natura vivisezionista di molta violenza etnica attuale. 10 Diversi colleghi mi hanno fatto notare che negli Stati Uniti e nelle società industriali avanzate dell’Europa occidentale molti degli aspetti che ho individuato a proposito della violenza etnica globale hanno una loro impressionante corrispondenza nella violenza domestica subita dalle donne. Questa suggestione comparativa apre le porte al tema più ampio del legame che intercorre tra la violenza etnica e quella sessuale, e del rapporto strutturale tra queste due forme di violenza nelle società più o meno ricche. Nel contesto di questo capitolo, un tale legame deve farci ricordare che i casi di violenza intima ed estesa non sono certo confinati ai paesi non europei o a quelli meno sviluppati. 11 Questo punto trova un’eco nella provocatoria analisi del potere e dell’oscenità nel mondo postcoloniale avanzata da Achille Mbembe, in cui l’autore discute le dinamiche dell’“intimità della tirannide” (1992, p. 22). In questo caso il corpo appare tra le classi dominanti come la sede dell’ingordigia, dell’eccesso, e del potere fallocratico, e quindi come oggetto di intimità scatologica nel discorso popolare. Un’analisi del rapporto tra questo tipo di oscenità politica e la logica della vivisezione che esploro qui dovrà attendere un’altra occasione (cfr. inoltre Mbembe, Roitman 1995). 12 Com’è ovvio, non tutte le forme di astrazione nella vita sociale conducono alla violenza, né si può sostenere che le forme potenzialmente violente dell’astrazione rappresentate dalle mappe, dai censimenti e dai modelli di sviluppo economico conducano inevitabilmente alla repressione o al conflitto. In questo come in altri casi, bisogna esaminare i molteplici vettori della modernità e i modi specifici in cui convergono e divergono nell’epoca della globalizzazione. Negli anni più recenti della fase globale, questi strumenti di astrazione si stanno unendo ad altre forze, come quelle della migrazione, dei mass media, o della secessione, per rafforzare ulteriormente il quadro di incertezza. Ma ciò non costituisce un

aspetto intrinseco di tipo quantitativo o strutturale di queste astrazioni. 13 Qui e altrove, nel corso di questo capitolo, ho preferito l’uso del termine persona a quello di soggetto, anche se la concezione hegeliana del soggetto, nonché la sua versione foucaultiana riguardo la violenza e l’azione, siano estremamente rilevanti per la mia analisi. Mentre la concezione del soggetto è legata in modo più immediato ed esplicito alla dialettica della modernità, non esiste un collegamento univoco tra questa concezione e la categoria di persona che continua a essere essenziale per l’antropologia del corpo e del rituale. Spero di affrontare in modo più compiuto la questione delle implicazioni discorsive di questi termini chiave in un futuro studio dedicato a questo argomento. Per ora, mi limito a dichiarare che l’uso che faccio del termine persona non intende escludere quel tipo di interpretazione che per alcuni deriverebbe in modo più naturale da una sostituzione di persona con il concetto di soggetto. 14 Questo punto della mia analisi trova riscontro in molti aspetti dell’interpretazione che Feldman (1991) fornisce della tessitura cerimoniale – addirittura sacrificale – degli interrogatori e della reclusione dei prigionieri politici da parte di funzionari statali in Irlanda del Nord, nonché nella sua analisi della trasformazione di queste pratiche escatologiche da parte delle vittime. 15 Sono grato a Dipesh Chakrabarty (comunicazione personale) per questa folgorante definizione, e per avermi messo in guardia contro il pericolo di passare da questioni globali a risposte globalizzanti.

Parte seconda

Capitolo terzo La civiltà degli scontri

Nel modo in cui pensiamo la pace a livello politico, e l’ordine a livello sociale, riposiamo – come abbiamo sempre fatto – su alcuni assodati modelli concettuali. Mi riferisco in particolare ai seguenti tre luoghi comuni: che lo Stato nazionale moderno sia l’unico attore legittimato a prendere decisioni su larga scala per condurre una guerra e disporre durevoli accordi di pace; che l’ordine sociale nella vita quotidiana sia una condizione “normale”, garantita dalla semplice assenza di guerra; e che vi sia una profonda e naturale distinzione tra il disordine sociale all’interno delle società e la guerra tra società. Sia nel mondo dopo l’11 settembre, che nell’Asia meridionale dopo il 13 dicembre – quando un gruppo di terroristi ha fatto irruzione nel Parlamento indiano1 – ciascuna di queste verità ha subito un duro colpo, ponendoci così, nell’intervallo di quei pochi mesi, di fronte al fatto che la guerra si è svincolata dal contesto dello Stato nazionale, travalicando qualunque logica “realista”. In modo analogo, stiamo assistendo a forme di conflitto etnico che somigliano sempre più a guerre a bassa intensità, e che costituiscono una sorta di routine o condizione standard in molte società, così che le vecchie battute sull’“esplosione della pace” diventano oggi un serissimo fatto sociale. Da ultimo, la metastasi di ciò che chiamiamo terrorismo, e la precipitosa diffusione dell’etichetta “terrorismo” per nominare ogni genere di attività antistatale, hanno completamente confuso le linee di distinzione tra le guerre della nazione, e le guerre nella nazione. La messa in discussione di questi luoghi comuni, com’è ovvio, non

è giunta senza preavvisi, anche se la portata della loro enigmaticità è stata insolita. Infatti, secondo diverse stime, da qualche decennio le guerre intestine hanno superato in numero quelle rivolte all’esterno. Abbiamo ormai una lunga esperienza di guerre condotte in zone abitate da civili, quasi a voler eliminare l’idea che la guerra sia un’attività regolata tra combattenti armati. Sempre negli ultimi decenni, le stragi di civili, forse messe in atto per la prima volta in modo sistematico e ufficiale dal regime nazista, sono divenute una prassi comune nel corso delle guerre etniche, e in molte regioni del mondo, infine, la diffusione di truppe irregolari della più diversa natura, specialmente in società caratterizzate da Stati deboli o subalterni, ha svincolato la bandiera, l’uniforme e il fucile automatico dall’immagine ufficiale dello Stato nazionale. Tuttavia, l’11 settembre 2001 è accaduto certamente qualcosa che ha accelerato lo sviluppo graduale di questi fenomeni, e ci ha costretti a ridiscutere le nostre ferme certezze sulla guerra, sulla pace, e sul sistema di sicurezza fornito dallo Stato. L’attacco al World Trade Center è stato analizzato con altrettante diversità di vedute, e più in dettaglio, dell’Ulisse di James Joyce, ma pochi negherebbero il fatto che un nuovo tipo di guerra sia stato dichiarato colpendo il ventre della bestia, introducendosi furtivamente nel cuore di luce, e abbattendo i Buddha di Wall Street. La sua vera novità non è stata l’asimmetria tecnologica (sebbene quell’attacco intendesse porla in luce) né il suo audace tentativo di terrorizzare un’intera megalopoli e provocare il caos nel frenetico apparato produttivo del capitale globale, e neanche l’intento di generare terrore mediante una forma di catastrofe tecnologica. La sua novità, piuttosto, è consistita nella volontà di dare vita a una guerra solo in nome dell’esistenza di un nemico, in questo caso gli Stati Uniti d’America. In quanto atto di guerra senza rivendicazioni – quasi un incubo dadaista o una specie di mostruosa rivincita per tutti quegli scenari creati dal cinema hollywoodiano di terrorismo urbano, attentatori arabi, attacchi di forze aliene, o altre scene del genere – l’11 settembre ha posto la questione della guerra senza autore a un impensabile livello di gravità. Ma non si deve con ciò pensare che si sia trattato di un’azione intrapresa da una forza anonima: si tratta di una guerra scatenata da un nuovo tipo di soggettività, che non è

interessata a fondare uno Stato, né a opporsi a uno Stato in particolare né, tanto meno, alle relazioni interstatali. È una guerra diretta contro l’America, ma anche contro l’idea che gli Stati siano gli unici attori legittimati a giocarsi la partita della politica globale. L’attacco al World Trade Center è stato un poderoso atto di punizione sociale, una sorta di esecuzione pubblica di massa: un rogo, una lapidazione che intendeva punire l’America per le sue parodie morali esportate in tutto il mondo, e nei paesi islamici in particolare. È proprio il carattere morale, punitivo e pedagogico di quell’attacco che ha portato alcuni osservatori a rifarsi al famoso modello dello “scontro delle civiltà” proposto da Samuel Huntington, anche se un numero ben maggiore ne ha posto in dubbio la consistenza. Prima di mettere in discussione quel modello, però, vale la pena di sottolinearne un aspetto dotato di una certa rilevanza dopo l’11 settembre. Huntington mette in luce come nel mondo sia oggi diffuso un nuovo tipo di sdegno morale, una nuova propensione a compiere atti estremi di guerra nel nome di precise concezioni dell’integrità morale e della rettitudine sociale. Naturalmente sarebbe assurdo negare che vi sia un solido legame tra le forze sociali nel mondo islamico e gli eventi dell’11 settembre ma, detto questo, vi sono diverse ragioni tutt’altro che banali per andare oltre il modello huntingtoniano, come vedremo nell’ultimo capitolo di questo libro. Per ora mi limito ad avanzare alcune osservazioni. Innanzitutto, il mondo islamico è attraversato in ogni direzione da discussioni interne, non ultima quella relativa a quali Stati islamici siano effettivamente considerati tali dai propri cittadini, e quali no. Inoltre, sembra essere in aumento il numero di Stati islamici giudicati illegittimi da coalizioni che vogliono attaccare Stati non islamici, in particolare gli Stati Uniti e il Regno Unito. Ancora, nella misura in cui Al Qaeda è stata il principale responsabile dell’attentato dell’11 settembre, e Osama bin Laden la mente di quella rete, sembra evidente che, all’interno del mondo islamico, e perfino del mondo arabo, saudita e sunnita, Osama incarni una variante molto peculiare della dissidenza morale ed escatologica. Forse si tratta di una guerra in nome dell’Islam, ma la sua legittimazione proviene da fonti estremamente idiosincratiche all’interno del mondo islamico. Tornerò più avanti sulle ragioni per cui preferisco ritenere che

stiamo vivendo in una “civiltà degli scontri” a livello planetario, piuttosto che in uno “scontro delle civiltà” ma ora, per preparare il terreno a questa discussione, vorrei porre l’attenzione sulla reazione americana agli eventi dell’11 settembre. La reazione americana Con un ritardo quasi paradossale, è stato solamente nel momento in cui il governo americano ha reagito, e cioè dopo circa una settimana trascorsa a riprendersi dallo choc degli attentati, che abbiamo potuto assistere a qualcosa di morfologicamente simile a quella che ho chiamato “nuova guerra”, e a quel modello di scontro adottato per rappresentarla. Molto è stato scritto su come i media e gli organi di Stato americani si siano sforzati di trovare locuzioni e termini adeguati a descrivere il nemico sconosciuto e invisibile. Ora, guardando indietro, possiamo apprezzare lo sforzo iniziale di non cadere in un linguaggio esplicitamente razzista, e l’impegno a non fomentare sentimenti anti-arabi e a resistere alla tentazione di definire “nemico” l’intero mondo islamico. In effetti, Condoleeza Rice, allora consigliere per la sicurezza nazionale, dichiarò fin da subito che non si trattava di uno “scontro di civiltà”, ripudiando così esplicitamente la tesi di Huntington. Il presidente Bush e alcuni alti esponenti della sua amministrazione si unirono nel disperato tentativo di dare un nome al nemico, e lentamente il processo di denominazione ha preso forma. In questo modo, nel giro di due settimane sono emersi i nomi Al Qaeda, Afghanistan e Osama bin Laden come i più idonei per raccontare la storia dell’oltraggio perpetrato ai danni del popolo americano, costruendo così la giustificazione per la possente reazione militare che si sarebbe scatenata di lì a poco. Dal momento che è stato scritto molto a proposito di quell’insolito umanitarismo per cui bombe e casse di viveri venivano sganciate simultaneamente, non è questa la sede per analizzare la clamorosa guerra aerea condotta da Stati Uniti e Gran Bretagna contro l’Afghanistan, i talebani, e i vertici di Al Qaeda. Molto è stato anche scritto sul paradosso di aver polverizzato un paese già ridotto in cocci, e sull’aver diffuso un intenso sentimento di terrore tra una popolazione civile già psicologicamente stremata dai talebani. E ancora, il resto del mondo ha giustamente fatto notare come la controffensiva in Afghanistan abbia consentito a una macchina da guerra ormai ferma

da tempo di rimettersi in moto, nonché a un presidente eletto a fatica di indossare i panni del salvatore del mondo civilizzato, oltre a consentire a vari personaggi di replicare i drammi morali di Suez, della guerra fredda e della guerra del Golfo, condensati in un’unica rappresentazione con protagonista un Gulliver furioso. Il mondo si è trovato così a essere una volta di più diviso in una lista di buoni e cattivi, tra “sissignore” e “nossignore”, simpatizzanti e oppositori di quelli che sono diventati i nomi di un sinistro nemico globale: terrore, terrorismo, terroristi. La guerra contro l’Afghanistan, non ancora risolta, è stata ciò che potremmo chiamare una guerra diagnostica, o addirittura “istruttoria”, ossia programmata per fare delle scoperte. La diagnosi più importante che la guerra si proponeva era quella di individuare chi fosse esattamente il nemico: cos’era Al Qaeda? Chi era Osama bin Laden? Chi erano veramente i talebani? Ma è stata una guerra diagnostica anche in un altro senso: ha cercato di identificare i sostenitori degli Stati Uniti e della Gran Bretagna, ha costretto Europa e Giappone a dichiarare le proprie fedeltà, e ha fatto sì che molti paesi incerti abbiano optato per gli Stati Uniti, quali che fossero le loro perplessità. È stato un plebiscito indetto dalla poderosa macchina bellica statunitense, senza che fosse possibile astenersi. Dal momento che il nemico è stato definito come una rete terroristica globale (con a sua volta ramificazioni tentacolari diffuse in tutto il mondo, e collegata da oscuri meccanismi ad altre simili reti anonime) molti Stati hanno potuto identificare con quell’espressione i dissidenti interni, gli attivisti anti-statali e le proprie minoranze violente. L’etichetta “rete terroristica globale” ha un campo di applicazione sterminato, e moltissimi Stati si sono resi conto che esistevano infinite possibilità di manipolarla a livello locale. L’India non ha fatto eccezione da questo punto di vista, e nel prossimo capitolo esaminerò le ripercussioni di questo problema sulla regione indiana. Eppure, la ragione principale di questa travolgente dimostrazione di sostegno agli Stati Uniti da parte dei governi di tutto il mondo si deve all’ammissione che la guerra scatenata l’11 settembre sia prima di tutto una guerra tra due sistemi diversi, entrambi di portata globale: il primo sistema può essere definito vertebrato, e il secondo cellulare. Gli Stati nazionali moderni, come argomenterò oltre, hanno

riconosciuto la loro comune appartenenza al mondo vertebrato e, come gli ultimi dinosauri, si sono resi conto di dover combattere una lotta all’ultimo sangue per la sopravvivenza in quanto conformazione politica legittimata su scala planetaria. L’antitesi tra sistema cellulare e sistema vertebrato Per comprendere la differenza tra sistemi-mondo vertebrati e sistemi-mondo cellulari dobbiamo fare un passo indietro e riflettere sul processo che abbiamo designato con il termine globalizzazione. Sebbene il dibattito sia ancora acceso a proposito di quanto la globalizzazione abbia eroso i contorni del sistema degli Stati nazionali, nessuno studioso che abbia indagato seriamente l’economia globale degli ultimi trent’anni può negare che, qualunque siano state le loro iniziali illusioni e contraddizioni, gli Stati nazionali – soprattutto dopo il 1989 – hanno subito la sempre più intensa pressione dell’integrazione dei mercati e la vasta diffusione delle ideologie mercantili su scala mondiale. E non si è trattato semplicemente di riaggiustare gli scambi commerciali in rapporto al PIL, ma piuttosto di una questione istituzionale. Molti studiosi hanno dimostrato come il passaggio abbia implicato profondi mutamenti nella struttura di istituzioni nazionali come le banche centrali, che di fatto in molte società perseguono politiche globali all’interno di contesti nazionali. Sono emersi interi settori trasversali ai confini statali (norme giuridiche, revisioni contabili, protocolli informatici) per governare forme complesse di attività economiche a livello globale, molti dei quali sconosciuti o inaccessibili al di fuori delle élite tecnocratiche specializzate. L’idea di economia nazionale – una prospettiva che ha sempre fatto acqua, letteralmente, e che comunque non è più vecchia del geografo Friedrich List – sembra oggi sempre più al servizio delle idee correlate di collaborazione commerciale e facilitazione degli scambi, piuttosto che fondarsi sui concetti di autodeterminazione o di autonomia. Solo le economie più potenti possono essere considerate in qualche modo nazionali, e perfino la più grande del mondo, l’economia degli Stati Uniti, non sarebbe nulla se non fosse globale. In Europa vi è un largo consenso sul fatto che la principale motivazione dell’aver costituito l’Unione Europea è l’assoluta necessità di partecipare alla partita globale, per non esserne tagliati fuori completamente. I giapponesi, non ancora abbastanza preparati per

inserirsi nel nuovo ordine globale, si ritrovano da un giorno all’altro con un’economia anestetizzata, insensibile persino a diversi elettroshock macroeconomici. C’è meno accordo, invece, sulla politica e sulla cultura che stanno emergendo in questo mondo globalizzato, e sono in corso dibattiti tra diversi pensatori sulla crisi dello Stato nazionale, sul futuro della sovranità, e su quanto uno Stato possa sopravvivere se non fa parte di qualche forte coalizione regionale. Questi dibattiti specialistici, che si riflettono in tutto il mondo nei discorsi politici e nei movimenti di massa, assumono spesso la forma di nuove grida d’allarme per le merci straniere (per esempio il panico creato da prodotti cinesi lanciati sul mercato indiano), o per la minaccia di lingue straniere, immigrati stranieri o investimenti stranieri. Molti Stati si trovano stretti tra la necessità di inscenare rappresentazioni di sovranità nazionale e l’impegno ad aprirsi per attirare le benedizioni del capitale occidentale e del commercio multilaterale. La scomparsa praticamente totale perfino della retorica di un’economia nazionale – che aveva manifestato qualche prova della sua esistenza nell’epoca degli Stati socialisti forti e della pianificazione centralizza – rende quello della cultura il principale campo dove possono attecchire fantasie di purezza, autenticità, confini e sicurezza. Non può quindi stupire il fatto che nei paesi in via di sviluppo la scomparsa o l’implosione di potenti economie nazionali (grazie all’aumento di investimenti stranieri a brevissimo termine, alla diffusione di forme e processi economici transnazionali, e grazie anche alla crescita di imperi economici offshore che si sottraggono a qualunque forma di controllo nazionale) sia avvenuta contestualmente alla nascita di nuovi e numerosi fondamentalismi, maggioritarismi e di indigenismi, spesso carichi di pulsioni etnocide. Lo stato nazionale si è via via ridotto alla dimensione fittizia del suo ethnos, l’ultima risorsa culturale su cui esercitare un dominio assoluto. Naturalmente, vi è un ulteriore aspetto caratteristico dell’attuale dinamica della globalizzazione, notato da una lunga serie di osservatori: la produzione di una crescente disuguaglianza tra le nazioni, le classi e le regioni. Al di là dei dibattiti specialistici sui suoi precisi collegamenti con l’apertura dei mercati e con i flussi ultrarapidi di capitale globale, in molti paesi il senso comune interpreta questo

aumento della disuguaglianza come una diretta conseguenza del potere sfrenato del capitalismo globale e del suo indiscusso timoniere nazionale, gli Stati Uniti. È indubbiamente questo evidente legame tra l’implosione delle economie nazionali, il capitale nazionale in fuga, e il ruolo degli Stati Uniti come principali propugnatori delle ideologie del commercio, del mercato e del profitto, che ha creato quasi una nuova guerra fredda emotiva tra coloro che nel nuovo sistema si identificano con i perdenti, e coloro che si identificano con il piccolo gruppo dei vincitori, in particolare con gli Stati Uniti. L’opinione comune – spesso evidenziata e condivisa persino da coloro che più sono rimasti sconvolti dalla tragedia dell’11 settembre – secondo cui è stata fatta una qualche sorta di giustizia nei confronti degli Stati Uniti, trova senza dubbio le sue radici in un risentimento di tipo morale causato dalla logica dell’esclusione economica. La crescita mondiale del risentimento verso gli Stati Uniti dipende ovviamente anche da altri fattori, e ne discuterò più avanti nel corso di questo libro. Quel che vale ora la pena di rilevare a proposito dei nuovi flussi transnazionali di denaro, armamenti, informazione, persone, e ideologie è che hanno prodotto forme di solidarietà che si collocano sul medesimo piano politico di quelle tradizionalmente monopolizzate dallo Stato nazionale. Così, vi sono comunità diasporiche di diverso tipo che controllano le forme basilari dell’appartenenza di popolazioni che si trovano a loro volta incluse entro diversi confini nazionali. Ancora, dibattiti su questioni cardinali come la guerra, la pace, l’identità e il progresso, imperversano in comunità virtuali che sono attive attraverso i confini nazionali, e rappresentano varie forme di solidarietà, alcune culturali, altre professionali, altre ancora contestuali od opportunistiche. Inoltre, forme virulente di nazionalismo riescono a prosperare anche nello spazio virtuale, ma proprio per questo non possono evitare di rendere ancora più fragile il legame tra spazio, luogo e identità. Esiste ad esempio una “vera” community chiamata eelam.com (Jeganathan 1997) che raccoglie i tamil sfuggiti alla violenza dello Sri Lanka a partire dagli anni Settanta. In quest’epoca di tecnologie cyber, le immagini collettive e le collettività immaginate non sono più solamente due facce della stessa medaglia, ma tendono spesso a verificarsi e contestarsi a vicenda.

Per riuscire a descrivere le forme sociali e politiche di questo mondo interconnesso e governato dalla tecnologia è stata più volte invocata con forza l’immagine della “rete”, in particolare da Manuel Castells (1996), ma anche da molti guru delle multinazionali, futurologi, e altri ancora. E in effetti il mondo ora si trova a essere attraversato da diversi circuiti nei quali il denaro, le informazioni, le persone e le idee circolano, si incontrano, convergono, per poi disperdersi a loro volta. Quella della rete appare tuttavia un’immagine leggermente fuori fuoco rispetto alla realtà che cerca di rappresentare. A me pare che l’idea di un mondo “cellulare” colga maggiormente nel segno, anche se l’opposizione, ripresa dalla biologia, tra forme cellulari e forme vertebrate, come tutte le analogie non ha pretese di perfezione o completezza. Il sistema moderno degli Stati nazionali è il caso più evidente di struttura vertebrata, dato che – per quanto le nazioni emergano dal convincimento di essere ognuna differente e peculiare – come sistema funziona solamente se presuppone un ordine internazionale garantito da una serie di norme, non ultime quelle relative alla guerra stessa. Oggi questo ordine vertebrato è rappresentato non solamente dall’ONU, ma da una lunga serie di protocolli, istituzioni, trattati e accordi, stipulati a garanzia del fatto che tutte le nazioni possano agire una nei confronti delle altre sulla base di principi simmetrici, quali che siano i loro rapporti gerarchici in termini di potere o ricchezza. Fin dalle sue origini, il sistema degli Stati nazionali si è basato su una struttura di riconoscimento e comunicazione di tipo semiotico costituita di semplici elementi come le bandiere, i francobolli, e le compagnie aeree, nonché da sistemi molto più complessi come quelli dei consolati, delle ambasciate e di altre forme di riconoscimento reciproco. I sistemi vertebrati di questo tipo, tra i quali lo Stato nazionale pare essere il maggiore e il più esteso, non sono necessariamente centralizzati o gerarchici, ma si basano comunque su un insieme ristretto di coordinate, di norme regolative e di segnali. Non è quindi un caso che il trattato di Westfalia e gli scritti di Kant sulla reciprocità morale e la simmetria siano così prossimi storicamente e geograficamente. Il sistema capitalista globale non trova una collocazione netta all’interno dell’opposizione tra sistema vertebrato e sistema cellulare: da un lato, è infatti chiaramente vertebrato, dato che dipende da un

articolato sistema nervoso di comunicazioni, trasporti, crediti a lunga distanza, e transazioni fiscali coordinate. Quella della coordinazione è una caratteristica che ha sempre fatto parte della storia del capitalismo industriale, che esige come minimo un qualche sistema affidabile di scambio monetario e creditizio. Ma il moderno capitalismo è vertebrato anche nel senso che ha bisogno di poter applicare in modo sistematico alcune procedure legali, di rendicontazione, di strutturazione sociale, di tassazione e di sicurezza, per le quali si è sostanzialmente affidato ai patti siglati tra Stati sovrani, garantiti a loro volta da vari accordi e trattati. In questo senso le strutture vertebrate del sistema degli Stati nazionali e quelle del moderno capitale industriale sono in parte sovrapposte e hanno storie interconnesse. Questo sistema di strutture comuni, naturalmente, non è mai stato immune da tensioni e contraddizioni, ma è comunque presente nell’economia politica globale già a partire dal sedicesimo e diciassettesimo secolo tra gli imperi marittimi che emersero nell’Europa occidentale e meridionale. Ma a partire dall’evoluzione iniziata nel diciannovesimo secolo – quando il capitalismo si è fatto più complesso ed esportabile, con tecnologie via via più mobili e componibili, e la sua componente finanziaria si è progressivamente separata e resa autonoma da quella industriale e manifatturiera – il sistema produttivo ha iniziato gradualmente a sviluppare alcune fondamentali caratteristiche cellulari. Questa dimensione si è fatta sempre più visibile con l’emergere del capitalismo che è stato variamente definito come postfordista, disorganizzato, o ancora flessibile o postindustriale. In quest’epoca, caratterizzata dal passaggio dalle compagnie multinazionali a quelle transnazionali, l’elevata velocità con cui si sono riorganizzati i fattori produttivi ha modificato la geografia del capitale e ha reso difficile una valutazione dei suoi movimenti e dei suoi assetti nazionali. Tali caratteristiche, particolarmente evidenti a partire dagli anni Settanta, hanno trovato un loro precipitato in diverse parole d’ordine o modelli, tutti tesi a cercare di definire la natura mobile, cangiante, opportunistica e de-nazionalizzata di molte compagnie globali. Negli ultimi decenni, pressappoco a partire dalla metà degli anni Ottanta, la dimensione cellulare del capitalismo ha subito un’ulteriore accelerazione grazie al contestuale e correlato sviluppo

delle nuove tecnologie informatiche, e alla sbalorditiva velocità e ampiezza delle transazioni finanziarie, che hanno esposto i mercati nazionali a crisi improvvise ed eclatanti. Questa successione di crisi si è spostata dal Messico all’Asia meridionale e ora, più recentemente, all’Argentina, dove un paese straordinariamente ricco è stato ridotto all’anarchia economica nel giro di poche settimane. Paesi come l’India hanno pubblicamente ammesso che la loro relativa immunità da queste crisi dipende, almeno in parte, da una debole integrazione nell’economia globale. Ma tenersi fuori dalla partita può essere estremamente rischioso, come sappiamo verificando in molti paesi dell’Africa subsahariana le disastrose conseguenze dovute a un’eccessiva marginalità rispetto ai processi del capitale globale. Queste osservazioni ci permettono di comprendere che, in diversi modi, lo stato attuale delle compagnie globali e dei mercati nei quali operano evidenzia una specie di schizofrenia, che se da un lato rispecchia e al contempo si fonda sulla natura vertebrata del sistema degli Stati nazionali, dall’altro costituisce un laboratorio per nuove forme di cellularità, di deconnessione e autonomia locale. L’ambivalenza del capitalismo globale nell’epoca di internet ci permette di comprendere meglio la natura cellulare o reticolare delle nuove “reti terroristiche”: connesse e al contempo non gestite in modo gerarchico, coordinate ma pur sempre sostanzialmente indipendenti, in grado di riprodursi senza strutture centrali di coordinamento dei messaggi, opache quanto a caratteristiche organizzative centrali, ma cristalline nelle loro strategie cellulari e nei loro effetti, queste organizzazioni si appoggiano chiaramente agli strumenti essenziali che caratterizzano le attività di molti settori del mondo capitalista, come i trasferimenti di capitale, l’organizzazione occulta, i paradisi fiscali, e strumenti non ufficiali di formazione e mobilitazione. Per essere più precisi, i settori più “grigi” del mondo bancario e finanziario sono palesemente coinvolti nelle manovre delle organizzazioni terroristiche internazionali: le grandi campagne lanciate soprattutto negli Stati Uniti per individuare e bloccare i beni di queste organizzazioni con gli strumenti dell’indagine bancaria, della tassazione e della legge sono un indice chiaro di quanto terribilmente serio sia questo legame di complicità. In fondo vi è qualche affinità tra le transazioni fuori bilancio di un colosso societario come Enron – che

ha defraudato migliaia di lavoratori e di investitori – e le relazioni fuori controllo delle varie reti terroristiche di cui sentiamo spesso parlare. In linea generale, i flussi globali di armamenti, forza lavoro, droga e pietre preziose dipendono spesso da apparati comunicativi ad alta tecnologia, nonché da strumenti non statali di violenza. Si tratta quindi di un settore in cui convergono la violenza messa in atto dal terrorismo e l’indipendenza di numerosi flussi globali illegali. Certamente, la dimensione cellulare che caratterizza sia il capitale sia il terrorismo internazionale presenta altri aspetti, ai quali farò riferimento nel prossimo capitolo. In particolare, discuterò dei modi in cui anche una notevole varietà di organizzazioni non statali sta facendo uso della modalità cellulare per dare vita a forme nuove di solidarietà, e a nuove strategie di opposizione al potere degli Stati nazionali e delle compagnie globali. Si tratta di formazioni cellulari utopistiche, protese verso traguardi di giustizia, trasparenza e inclusione. Rappresentano quanto di più distante possa esistere dall’ethos del terrore, ma sono anch’esse casi specifici di questa nuova logica della cellularità. Parlare della fine dello Stato nazionale è senza dubbio un’assurdità dal punto di vista empirico, ma se provassimo a esaminare con cura la proliferazione delle forme cellulari che incrinano e pongono in discussione la morale vertebrata del sistema classico degli stati nazionali, ci renderemmo conto che stiamo assistendo alle prime schermaglie di un profondo conflitto tra due concezioni radicalmente divergenti dell’idea di appartenenza e organizzazione politica di larga scala. La differenza tra sistemi vertebrati e sistemi cellulari, oltre a metterci a disposizione una chiave di lettura strutturale per analizzare la crisi dello Stato nazionale nell’epoca della globalizzazione, ci obbliga a riconoscere che le forme del terrorismo globale di cui abbiamo assunto piena consapevolezza dopo l’11 settembre 2001 non sono altro che casi particolari di una trasformazione molto più ampia e profonda nella morfologia dell’economia e della politica globali. Questa vasta trasformazione, della quale il terrorismo globale rappresenta l’estremità violenta e asimmetrica, può essere considerata come una “crisi di circolazione”, cioè come una crisi generata da quelle che in un mio precedente lavoro ho chiamato

“disgiunture” tra i diversi flussi – di immagini, ideologie, prodotti, persone e ricchezza – che sembrano caratteristici dell’epoca della globalizzazione. Queste disgiunture sono prodotte in larga misura da modi e mezzi di circolazione che operano a ritmo diverso nelle loro transazioni spaziali e temporali. Tali flussi globali disgiunti producono a livello locale contraddizioni e tensioni di varia natura, e in virtù del fatto che queste tensioni sono in qualche modo legate proprio alla mancanza di sincronizzazione e di coerenza dei processi che producono i flussi globali, possiamo a ragione definirle crisi di circolazione. Quest’espressione ci consente di non dimenticare che la globalizzazione è strettamente legata ai movimenti del capitale finanziario e, inoltre, che Karl Marx fu tra i primi a rendersi conto che la circolazione, in particolare quella del denaro negli scambi commerciali, è un aspetto fondamentale della vitalità e delle contraddizioni del capitale. Oggi, sulla scorta dell’analisi marxiana, possiamo renderci conto che la logica della circolazione si è fatta ancora più mutevole e disgiunta, nella sua configurazione spaziale, nella possibilità di essere decodificata, nella velocità e andatura, e nei percorsi attraverso cui si dipana o che crea direttamente con il proprio movimento. Se ritorniamo alla classica idea (da sempre fragile nella sua consistenza) di un mondo fatto di economie nazionali, possiamo definire l’epoca attuale della globalizzazione – mossa dal triplice motore costituito da capitale lucrativo, nuovi strumenti finanziari, e tecnologie informatiche ad alta velocità – come la fase in cui si attiva un nuovo livello di conflittualità tra l’impulso sfrenato del capitale globale di spostarsi senza autorizzazioni o limitazioni, e l’illusione tuttora dominante che lo Stato nazionale garantisca uno spazio economico sovrano. Questa nuova crisi di circolazione (più esattamente, crisi delle relazioni disgiunte tra forme e percorsi diversi di circolazione) rappresenta lo sfondo generale sul quale si sta ora affacciando il conflitto tra forme vertebrate e forme cellulari. In un mio altro lavoro, ho messo in luce come questo conflitto possa essere individuato anche nelle tensioni tra le forme di circolazione e la circolazione delle forme nell’epoca della globalizzazione. Dunque, per riassumere, stiamo certamente assistendo a uno scontro, ma non si tratta di uno scontro di dottrine, culture o civiltà,

quanto piuttosto tra due modalità profondamente differenti di organizzazione su larga scala – che ho qui chiamato sistemi cellulari e sistemi vertebrati – ognuna delle quali cerca di imporsi come vincitrice nell’attuale crisi di circolazione. Osama bin Laden e Al Qaeda sono la versione terrificante di questo scontro tettonico, che però comprende in sé molto più del problema del terrorismo. La guerra come ordine Per questa specifica parte della mia argomentazione, faccio riferimento a diversi lavori del mio amico e collega Achille Mbembe relativi alla natura della guerra, della pace, e della violenza quotidiana nell’Africa subsahariana (Mbembe 2003). Il punto centrale della sua analisi è che nelle società dove la vita è caratterizzata dalla quotidianità della violenza fisica, del conflitto armato, e di ogni genere di brutalità fisica esercitata in nome delle identità collettive, non possiamo più pensare che vi sia un’opposizione automatica tra la natura e la guerra da un lato, e la vita sociale e la pace dall’altro. L’autore ci induce a immaginare uno scenario più spaventoso, nel quale l’ordine – in termini di regolarità, prevedibilità, routine e quotidianità stessa – si struttura attorno alla pratica o alla prospettiva della violenza. La politica globale che fa da cornice all’immagine della paura e del terrorismo dopo l’11 settembre ci costringe a considerare questo invito in un modo leggermente diverso, per una serie di ragioni: paura e terrorismo hanno cancellato la divisione tra spazio civile e spazio militare; le azioni di varie reti e attori terroristici cercano di instillare la paura in tutti gli ambiti della vita civile, fino a prefigurare un mondo in cui i civili in quanto tali non esistano più. Non si tratta più semplicemente di guerra totale, simile a quelle intraprese da Stati potenti in diverse epoche storiche, ma piuttosto di guerra quotidiana, la guerra come pratica ordinaria, condotta proprio per indebolire l’idea che possa esistere una qualunque quotidianità al di fuori del tempo e dello spazio della guerra. A questo il terrorismo aggiunge l’elemento dell’imprevedibilità, il fattore che può generare un’angoscia costante. È quindi giusto considerare gli Stati coinvolti in questa specifica strategia nei confronti della propria o di altre popolazioni come implicati a pieno titolo in pratiche terroristiche. Il terrore produce i suoi effetti oscurando in modo sistematico i

confini tra gli spazi e i tempi della guerra e quelli della pace. Inoltre, agisce camuffando i propri principi di organizzazione e mobilitazione e, soprattutto, è rivolto allo smantellamento dell’ordine inteso come pace, o libertà dalla violenza. Il terrore, quale che sia la retorica di equità, libertà o giustizia in nome della quale agisce, mira a fare della violenza il principio regolatore centrale della vita quotidiana. Ed è proprio questo l’aspetto terrificante del terrore, ancor più dei traumi fisici, della promiscuità spaziale, dei drammatici gesti di martirio, e del rifiuto di un vicendevole umanesimo. Terrore è il nome corretto per qualunque tentativo di sostituire la pace con la violenza come perno irrinunciabile della vita quotidiana. Trasforma l’emergenza in ordinaria amministrazione, e assume come sua norma forme straordinarie di violenza e violazione. Quel tipo di rete terroristica globalizzata che adesso riscontriamo in organizzazioni come Al Qaeda aggiunge a questa logica la capacità di estendersi a livello globale tramite una strutturazione cellulare. Possiamo quindi dire che queste reti producano una duplice sensazione di nausea e incertezza: cercano di invertire il rapporto tra pace e vita quotidiana, e lo fanno senza avere bisogno o considerazione di quei principi di coordinazione vertebrata su cui si è sempre basato lo Stato nazionale. Ciò costituisce un vero e proprio attentato epistemologico nei confronti di tutti noi, dal momento che mette in crisi le nostre due maggiori certezze: che la pace sia la condizione naturale dell’ordine sociale, e che lo Stato nazionale sia il garante naturale – oltre che il contenitore legittimo – di quell’ordine. Il terrore è dunque l’aspetto più angoscioso della globalizzazione, e abbiamo bisogno di sondarne i meccanismi più in profondità. Per ora dobbiamo constatare che, nell’epoca della globalizzazione, non può essere tenuto distinto da alcune più profonde crisi e contraddizioni entro le quali si dibatte lo Stato nazionale. 1

Nove persone morirono il 13 dicembre 2001 quando cinque uomini armati entrarono nell’edificio del Parlamento indiano a Delhi. I cinque terroristi (secondo Delhi appoggiati dal governo pachistano, che ha sempre respinto l’addebito) morirono tutti nello scontro a fuoco. Un anno dopo, tre uomini accusati di aver appoggiato l’azione sono stati condannati a morte da un tribunale indiano che applicava per la prima volta la sentenza capitale in base a una recente legge antiterrorismo (N.d.C.).

Capitolo quarto I nostri terroristi, noi stessi: note sull’epistemologia dell’insicurezza

Nel capitolo precedente ho cercato di dimostrare come lo scontro tettonico in corso da qualche tempo nel nostro mondo sia in effetti una lotta tra sistemi vertebrati e cellulari per il controllo generalizzato di persone, risorse e appartenenze. Il terrorismo contemporaneo, che agisce con azioni violente contro lo spazio pubblico e le popolazioni civili in nome di una politica antistatale, è sicuramente organizzato a livello globale in forme cellulari, e questa convinzione si è impressa a forza nella nostra coscienza con gli attentati dell’11 settembre 2001 contro il World Trade Center di New York. Ho inoltre ipotizzato che questa lotta tettonica sia la cornice e il sintomo dell’attuale crisi del sistema degli Stati nazionali. Mi propongo ora di analizzare più a fondo gli eventi che hanno avuto luogo dopo l’11 settembre nel subcontinente indiano, dato che in questa regione sembra evidenziarsi una ripercussione frattale degli eventi dell’11 settembre e del successivo attacco americano in Afghanistan. Questa ripercussione sembra riprodurre in modo inquietante la battaglia tra terroristi e Stati, tra forme di violenza cellulari e vertebrate, tra lotte per un’identità politica locale e la diplomazia realista degli Stati costituiti. In questo movimento frattale, il nodo Israele-Palestina costituisce l’elemento mediatore, che permette alla politica di New York di fondersi con la politica del Kashmir. Questi eventi sono sia ripercussioni sia repliche, e una delle molte questioni che sollevano è quella del significato che il terrorismo assume nella sua versione

“domestica”. Terrore e incertezza Se un’azione terroristica viene portata a termine con successo (come nel caso dell’11 settembre 2001 a New York e del 13 dicembre a Nuova Delhi, quando terroristi armati hanno attaccato il Parlamento) crea un clima di incertezza su molteplici livelli. Innanzitutto, l’incertezza riguarda gli autori di tale violenza. Chi sono? Che volti si nascondono dietro le maschere? Quali nomi usano? Da chi sono armati e appoggiati? Quanti sono? Dove si nascondono? Cosa vogliono? Nel secondo capitolo, discutendo del rapporto tra incertezza e violenza etnica su larga scala durante gli anni Novanta, ho suggerito che tale violenza (in posti come Serbia, Ruanda, Timor, Delhi nel 1984 e Mumbai nel 1991-92) si possa interpretare come una reazione complessa a intollerabili livelli di incertezza riguardo le identità collettive. In quel caso ho sostenuto che l’interazione tra i moderni tentativi di enumerare e denominare le popolazioni e l’inquietudine per la nazionalità, i diritti acquisiti e la mobilità geografica, abbia dato luogo a situazioni in cui numerose persone sono diventate improvvisamente sospettose riguardo alla “vera” identità dei propri vicini di etnie diverse. Quelle persone, cioè, hanno iniziato a sospettare che le etichette contrastive con cui avevano convissuto quotidianamente (in quelle che ho definito relazioni benigne) nascondessero pericolose identità collettive, contenibili solo attraverso un etnocidio o qualche altra forma estrema di morte sociale per l’altro etnico. In questo quadro, una o entrambe le diverse identità hanno finito per essere percepite come reciprocamente “predatrici”. Ovvero, un gruppo ha iniziato a sentire che la semplice esistenza dell’altro rappresentava un pericolo per la propria sopravvivenza. La propaganda di Stato, l’insicurezza economica e la turbolenza migratoria nutrono direttamente questo tipo di sospetto e spesso spingono verso l’etnocidio. In Africa, per esempio, l’etnocidio è strettamente legato ai movimenti per quella che viene chiamata “autoctonia”, che implica rivendicazioni basilari sulla nazionalità, il territorio e la cittadinanza da parte di coloro che possono dimostrare di “essere” di un certo posto, al contrario di altri che sono “arrivati” come immigrati o stranieri. In un contesto sociale dove tutte le aree abitate

sono state costituite da migrazioni di lungo termine e su larga scala, si tratta di una distinzione ovviamente nefasta. Essendo inoltre difficile da tracciare, la violenza fisica su larga scala diventa un modo per stabilire l’identità nascosta dietro la maschera del potenziale nemico. La violenza fisica in nome dell’etnicità diventa uno strumento di vivisezione per stabilire la realtà dietro la maschera. Com’è ovvio, questa violenza conferma invariabilmente le sue congetture, poiché il corpo morto, smembrato e decomposto del sospettato conferma sempre il sospetto del suo tradimento. Molte delle migliori fonti etnografiche sulla violenza etnica di massa, anche risalendo al periodo nazista, sono piene di riferimenti a termini come maschera, imbroglio, tradimento e rivelazione. La violenza è parte della letale epistemologia dell’etnocidio. È inevitabile che tale violenza nutra la propria contro-violenza, che assume forme altrettanto vivisezioniste. Nella violenza mascherata di Belfast, Nablus, dei Paesi Baschi o del Kashmir, per citare solo qualche esempio, la maschera del terrorista armato in pratica riflette e conferma i sospetti di molti gruppi etnici dominanti, e cioè che i terroristi indossano delle maschere, e anche quando non le indossano, il loro modo di comportarsi viene considerato una maschera fisica che occulta le loro vere identità, le loro intenzioni violente, la loro proditoria fedeltà, il loro segreto tradimento. Quindi ogni volta che un poliziotto strappa la maschera a un terrorista morto o catturato, sotto non troverà che un’altra maschera, quella dell’uomo qualunque musulmano, palestinese, afgano o ceceno, una maschera di normalità che, a posteriori, viene letta come l’alibi di un malefico nemico etnico. L’estrema violenza fisica tra diversi gruppi etnici, in modo particolare quella contro le minoranze etniche a cui abbiamo assistito in varie parti del mondo durante gli anni Novanta, non è quindi l’ennesima riprova della perenne bestialità dell’uomo, o della nostra tendenza evolutiva a cancellare i “loro” per la sopravvivenza dei “noi”. E non si tratta nemmeno della medesima violenza religiosa ed etnica dei secoli passati. La violenza brutale degli anni Novanta è plasmata in profondità da fattori che rimandano a un tipo di modernità altamente specifica: il passaporto come criterio di identità nazionale; idee di maggioranza e minoranza basate sui censimenti; rappresentazioni mediatiche di noi stessi e degli altri; costituzioni che sovrappongono

cittadinanza e etnicità; e, più recentemente, idee sulla democrazia e il libero mercato che hanno prodotto, in molte società, nuove e violente battaglie per la libertà e i diritti. Questi e altri fattori ci impediscono di considerare la violenza di gruppo su larga scala degli ultimi decenni semplicemente come un ulteriore capitolo nella storia dell’umana tendenza a intraprendere guerre religiose e etnocide. Uno degli aspetti più significativi di queste nuove forme di violenza vivisezionista è il modo del tutto specifico con cui vengono attivate l’incertezza sociale e la certezza ideologica. La propaganda di Stato e le ideologie fondamentaliste di vario genere diffondono certezze disastrose sull’altro etnico – le sue caratteristiche fisiche, i suoi piani, i suoi metodi, la sua ambiguità – e sulla necessità di eliminarlo. L’infame “Protocollo dei savi di Sion” è forse l’archetipo dei testi propagandistici di questo tipo, ma nessun panico indotto dalla politica e nessun convincimento prodotto dalla “scienza” sarebbero di per sé sufficienti a scatenare nella gente comune quel tipo di violenza estrema contro gruppi consistenti di amici e vicini di cui abbiamo letto in modo dettagliato riguardo al Ruanda agli inizi degli anni Novanta. Perché possano esplodere simili episodi di violenza, deve sussistere una profonda incertezza sociale, che trasformi la certezza dottrinale in violenza contro amici e vicini. Si tratta dell’incertezza della maschera, la paura che le facce normali della vita quotidiana, i cui nomi, costumi e fedi si distinguono dai nostri, siano in realtà travestimenti dietro cui si nascondono le vere identità, non di altri etnici ma di traditori della nazione intesa come ethnos. È questa la combinazione letale che genera la logica della purificazione etnica, pur se va aggiunto che questa incertezza è a sua volta indotta socialmente e istigata politicamente. Anch’essa quindi dipende parzialmente dalla propaganda, ma deriva anche da altre fonti, spesso molto più vicine alla realtà locale e alle piccole ferite della vita quotidiana, nella quale gruppi etnicamente differenti accumulano sottili dubbi, piccoli rancori e impercettibili sospetti. Quando il dubbio locale viene inquadrato entro retoriche più ampie di certezza e incertezza, queste piccole storie confluiscono in un discorso dall’impeto etnocida. Le voci e le chiacchiere locali alimentano tale impeto, ma solo nella misura in cui sono collocate entro cornici narrative più ampie, che solitamente provengono dagli

Stati o da forze politiche influenti e ben organizzate. Questi poteri non sono mai in grado di produrre il contesto specifico di ricezione della loro struttura retorica (e proprio qui sta il limite di molte teorie sulla propaganda), ma senza di loro molte scintille si estinguerebbero in silenzio, molto prima di diventare fuochi. Qual è quindi il rapporto tra incertezza sociale e terrorismo? Il legame consiste nel fatto che il terrorismo opera attraverso lo strumento dell’incertezza, che si manifesta in diverse forme. Prima di tutto, quando i terroristi attaccano senza essere catturati, non sappiamo chi siano esattamente. A volte non sappiamo cosa vogliano o chi precisamente intendessero attaccare o uccidere. Quando sono particolarmente audaci, giungendo fino al suicidio, le loro motivazioni ci disorientano, generando nuova incertezza. Un’ulteriore fonte di incertezza è il pensiero di ciò che potrebbe ancora accadere: il terrore è, prima di tutto, terrore del prossimo attacco. Si pone poi il problema di quali siano i confini rispettati dai terroristi. Gli attentatori prima di tutto offuscano la distinzione tra spazio militare e civile, e rendono incerti proprio quei confini che per noi dovrebbero delimitare la sovranità della società civile. Il terrore è una specie di metastasi della guerra, che può espandersi senza limiti di spazio o di tempo. In particolare, il terrore separa la guerra dall’idea della nazione, e rende plausibile l’eventualità che chiunque possa essere un soldato in incognito, un “dormiente” in mezzo a noi, che aspetta di colpire al cuore del nostro assopimento sociale. Il terrorista possiede entrambe le qualità del soldato e della spia, offuscando un’altra distinzione su cui si è in gran parte basata la politica moderna. Risposte e ripercussioni Questo capitolo è stato scritto prima degli incontri SAARC1 tenutisi a Katmandu nel 2002 tra i capi di Stato dei paesi dell’Asia meridionale, e a parte formali strette di mano, indiscrezioni a latere, incontri di cortesia e scambi di note, si sa ben poco degli sviluppi futuri di quei meeting. India e Pakistan si tengono pronti allo scontro lungo la Linea di Controllo e, se non bastasse, a incrociare anche le rispettive forze navali e aeree. Dietro questa continua minaccia di guerra ci sono gli arsenali nucleari di entrambe le nazioni, la tentazione di affermare una virilità nazionale ma anche la consapevolezza che ogni mossa azzardata sarebbe disastrosa.

L’opinione pubblica in entrambi i paesi rimane all’erta senza essere unanime. In India, i falchi della coalizione BJP-RSS2 stanno invocando con forza una guerra aperta lungo la Linea di Controllo, e nuovi poteri di detenzione e indagine in accordo con la recente legge sulla prevenzione del terrorismo (Prevention Of Terrorism Act, POTO)3. È difficile per la coalizione guidata dal BJP negare che, come si legge sul titolo di un giornale, “il terrore sostituisce il tempio” nel contesto delle importanti elezioni in Uttar Pradesh, alle quali la coalizione rischia di perdere il potere. E l’Uttar Pradesh è ovviamente la terra di Rama, dove le frange estreme del Sangh Parivar4 insistono nelle loro richieste di costruire un nuovo Ram Mandir5. Esiste dunque una faglia sismica che collega Ayodhya a Delhi, poi al distretto di Srinagar e, attraverso la Linea di Controllo, a Karachi e Lahore. Per la destra indù, ora più che mai, è fondamentale confondere la linea di distinzione tra i continui attacchi alle voci e agli spazi musulmani in tutta l’India e il feroce dibattito sul terrorismo in Kashmir, l’attacco al Parlamento e la necessità di eliminare del tutto il Pakistan, così da invertire il processo di Partizione per ricostituire un’India unita a guida indù. Se interpretiamo i dibattiti sul POTO, l’assurda persecuzione subita dai giornalisti e finanziatori del sito Tehelka.com6, la minaccia di un ritiro dall’Indus Water Treaty 7, e il tentativo di collegare il 6 dicembre 1992 – giorno in cui ad Ayodhya fu distrutta la Babri Masjid – e il 13 dicembre 2001 in una singola cronologia della perfidia musulmana e della rettitudine indù, è difficile evitare l’impressione che non solo la guerra sia un’eventualità legittima, ma anche che una serie di libertà civiche siano minacciate come non lo sono mai state in passato. La sfacciataggine con cui il NCERT8 ha cercato di far riscrivere i manuali di storia, con il diretto sostegno del Ministero per lo Sviluppo delle Risorse Umane, evidenzia come i tentativi di purificare la cronologia e la geografia dell’India da qualunque riferimento all’Islam, ai musulmani e al Pakistan siano aspetti strettamente collegati di una singola strategia. Al contempo, l’esaltazione della cultura indù e dei suoi gloriosi ideali viene quotidianamente screditata da scandali finanziari di dimensioni veramente gigantesche (il crollo dell’UTI9, gli stanziamenti per la difesa durante la guerra in Kargil10 e l’affare ENRON11 sono solo tre esempi che dimostrano come

l’approccio del governo indiano alla sovranità economica del paese non sia in alcun modo originale e come l’apertura ai mercati internazionali abbia comportato saccheggi alle casse pubbliche almeno quanto ha significato nuove forme di equità, accesso e partecipazione per i più poveri). A Mumbai questa politica nazionale si è espressa secondo modalità peculiari, come del resto succede anche in altri Stati e regioni. In questa grande città commerciale, la questione della purezza nazionale e dell’allarme militare passa da sempre in secondo piano rispetto alle ultime notizie su Bollywood o sul cricket (o su entrambi allo stesso tempo, quando sugli schermi del paese furoreggiava Lagaan)12. Questa è la città delle produzioni sfarzose, e le notizie sulla morte di Harshad “Big Bull” Mehta (un faccendiere poco raccomandabile), sugli affari dei Bachchan (la più importante famiglia del cinema indiano), sulla riapertura dal processo contro Bharat Shah (un importante produttore di film e mercante di diamanti accusato di avere rapporti con la mafia), ci ricordano che a Mumbai tutto il resto deve inchinarsi di fronte a un sistema che ruota attorno ai soldi, allo sfarzo, alla moda e allo stile. Ciò nonostante, Mumbai esprime a modo suo la preoccupazione per il Pakistan e il nervosismo per le numerose comunità musulmane presenti in città. Gli abitanti dei quartieri poveri sono sotto una sempre più serrata sorveglianza della polizia, in particolar modo le persone che vivono vicino a importanti strutture militari o di trasporto. L’arresto di Afroz Khan, residente in uno dei più vecchi slum di Mumbai, Cheta Camp, e legato alla rete terroristica internazionale responsabile, tra gli altri, degli attacchi a New York, Delhi e Sydney, ha arruolato a pieno titolo Mumbai e le sue forze di polizia nella caccia globale ai terroristi. A Mumbai, il discorso che implicitamente collega i musulmani, le baraccopoli, e i “rifugi” dei terroristi è particolarmente articolato, e città di frontiera come Mumbra, dove i mandati municipali e della polizia hanno un potere limitato, vengono ora segnalate dalle forze dell’ordine e dai media come naturali vie di fuga e zone sicure per i terroristi, specialmente per quelli legati a gruppi accusati di avere sede e supporto in Pakistan. Il caso più recente che collega il problema degli alloggi (forse la questione più drammatica nell’ordinaria

amministrazione di Mumbai) al terrorismo è l’incredibile decreto del commissario di polizia di Mumbai, M. N. Singh, che obbliga i proprietari di immobili a registrare le generalità complete di tutti i nuovi affittuari, subaffittuari o residenti degli edifici in loro possesso. Questo incredibile tentativo panottico non può che fallire in una città di 12-15 milioni di abitanti, ma sicuramente fornirà alla polizia un ulteriore strumento per violare la privacy in aree a predominanza musulmana. Questo nuovo disagio risente senza dubbio degli eventi del 1992 – che portarono ai terribili scontri occorsi tra dicembre 1992 e gennaio 1993 – e degli attentati che si susseguirono nei mesi seguenti (a detta di molti, la risposta di gruppi musulmani, supportati della malavita di Mumbai). In questa città il legame tra le questioni di sicurezza nazionale e la preoccupazione per il terrorismo e la criminalità è sempre associato a immagini straniere, a posti come Dubai, Karachi e ora Katmandu, Bangkok e Manila. Esiste una fitta trama di storie locali che parlano di criminali cresciuti a Mumbai e ora attivi nelle periferie di Karachi o, ancora più spesso, di Dubai; di legami con i servizi segreti pachistani; di covi nei paesi confinanti con l’India; di delinquenti attivi a Mumbai (e in altre città dell’India) che obbediscono a queste figure potentissime. In città il discorso ufficiale sul terrorismo, articolato sostanzialmente dalla polizia, si aggancia quindi sempre a vecchie storie sulla malavita spesso sceneggiate nei film, al contrabbando e agli “incontri” sempre più frequenti tra polizia e criminali, che nelle aree più affollate di Mumbai si trasformano in una vera e propria guerra con cadenza settimanale se non quotidiana. Un altro elemento che rifrange sul territorio locale di Mumbai le questioni regionali e nazionali è la recente campagna contro i venditori ambulanti, a sua volta parte di una battaglia di lunga durata tra lo Stato e certi esponenti del ceto medio da un lato, e i più miseri venditori ambulanti dall’altro. Un funzionario municipale particolarmente zelante ha dichiarato nei primi mesi del 2002 una guerra personale contro i venditori itineranti, fino al punto di vedersi sconfessato da qualche ordine ufficiale. Anche questa battaglia ha avuto una forte connotazione religiosa, visto che molti tra gli ambulanti sono musulmani o legati a elementi musulmani della malavita o del sistema di protezione illegale di Mumbai. La battaglia contro i venditori ambulanti, che oggi ha perduto vigore, è

parte di un’antica disputa sulla gestione degli spazi, il “decoro”, l’appropriazione illecita e l’ordine pubblico a Mumbai, ma è a sua volta collegata alla latente apprensione riguardo il crimine, la legalità, la sicurezza e l’ordine. Il partito “nativista” di destra Shiva Sena, il più attivo da tempo a Mumbai nell’organizzare attività e fomentare sentimenti antimusulmani, incarna il tentativo più esplicito di collegare le questioni civiche alle provocazioni antimusulmane. Recentemente, con un incredibile gesto di audacia politica, Shiva Sena ha organizzato una serie di maha-arati 13 in molti templi e luoghi pubblici di Mumbai, spacciandole per occasioni rituali utili a “portare la pace” nella città e nel mondo. L’aspetto scandaloso di una simile pretesa è che nel 1992-93 quegli stessi rituali furono il principale strumento per organizzare raduni antimusulmani, per pronunciare discorsi bellicosi e per associare gli spettacolari riti indù con l’intimidazione diretta alle comunità e ai quartieri musulmani. Riproporre le maha-arati oggi significa alimentare la deleteria propaganda che associa i musulmani al Pakistan, proponendo al contempo un’immagine dell’induismo come forza pacificatrice. Gli scontri nell’area rurale di Malegaon14 dell’ottobre 2001, studiati ormai in dettaglio da giornalisti e ricercatori, ci ricordano che la politica di Mumbai e quella nazionale sono mediate anche dalla politica dello Stato rurale del Maharashtra. Questa regione ha avuto durante il periodo precoloniale una storia particolarmente intricata di lotte tra capi e signori della guerra indù e musulmani, e ancora oggi in Maharashtra vive una numerosa popolazione musulmana. Gli scontri a Malegaon dimostrano come contesti rurali e relativamente piccoli possano diventare importanti pedine nella politica di Stato e in quella nazionale; e come piccole cittadine e i loro dintorni rurali possano diventare siti decisivi per etnopolitiche urbane e nazionali. Infine, con una progressione sistematica che ha preso il via nei primi anni Novanta, la Marina indiana è divenuta a Mumbai una presenza statale e rituale consistente. La Marina, che è sempre stata per Mumbai il principale organismo di difesa, ha organizzato negli ultimi anni una serie di parate di forte impatto di fronte alle coste della città, nel corso delle quali ha offerto ospitalità ai corpi navali di paesi alleati e ha fatto bella mostra delle sue nuove attrezzature militari,

prefigurando il suo ruolo fondamentale in un eventuale confronto con il Pakistan. Quindi le coste di Mumbai, che nel 1992-93 si pensò potessero costituire zone di attracco per i sottomarini pachistani, sono ora considerate a pieno titolo parte dei confini armati dell’India, versione acquatica della Linea di Controllo. La Marina e i mass media hanno quindi letteralmente “spostato” Mumbai più vicino al fronte di quanto la città non lo fosse mai stata. Il mare Arabico è ora più che mai una zona strategica all’interno dell’oceano Indiano, e tutti sembrano consapevoli della “vicinanza oceanica” tra Karachi e Mumbai. Le distanze sono sempre in parte una questione di sensazioni e sensibilità, e la Marina indiana ha fatto un buon lavoro nel ridurre l’ampiezza del tratto di mare tra India e Pakistan. Quel che la Marina sta facendo per le coste e i porti di Mumbai, il partito Shiva Sena e la polizia – anche se non sempre in perfetto accordo tra loro – fanno nei palazzi, nei quartieri e nelle strade della città. L’effetto congiunto di queste azioni è la creazione di una mappa mentale in cui guerra, sicurezza, crimine e terrore si sovrappongono alla geografia del commercio, dei trasporti, del lavoro e dei consumi. Non è un’argomentazione ovvia o facilmente documentabile, ma la tendenza generale sembra essere piuttosto evidente. Questa mia presentazione dei discorsi sulla guerra, il terrore e l’incertezza intende avvalorare due ipotesi. La prima è che, in un mondo caratterizzato da una lotta globale tra forme politiche cellulari e vertebrate, regioni, nazioni e città diverse possono rifrangere versioni frattali complesse di conflitti più generali. Pertanto, le tensioni tra India e Pakistan si manifestano secondo forme frattali e mutevoli a vari livelli e su diverse scale: globale, nazionale, regionale e urbana. Su tutti questi piani, le figure del terrorista, della nazione pura, del traditore mascherato e del nemico nascosto giocano un ruolo cruciale. Ma le forme specifiche che questi tratti comuni assumono e le precise trame a cui danno origine sono frattali di più ampie prospettive e immagini, e non semplici repliche in scala. La seconda ipotesi che possiamo formulare in base agli esempi riportati è che l’incertezza nella vita quotidiana e l’insicurezza negli affari di Stato sono oggi legate da un nuovo e saldissimo vincolo. Ci sono molti fattori che influenzano sia i modi in cui i drammi globali della guerra, della pace e del terrore si calano in diverse

nazioni o regioni, sia le particolari connessioni sinaptiche che questi temi attivano con i timori e le rappresentazioni locali del “globale”. Tra questi fattori, i mass media rivestono un ruolo centrale in termini di forza, interazione reciproca, fonti di controllo e portata globale. Come ben sappiamo, i mezzi di comunicazione di massa – a stampa ed elettronici – sono essenziali in ogni parte del mondo per la costituzione di quella che chiamiamo opinione pubblica. Ma sappiamo altrettanto bene che anche ai massimi livelli di controllo e di circolazione mondiale nessuno detiene un monopolio assoluto. L’impressionante successo come rivale di CNN e BBC della rete globale di lingua araba Al-Jazeera è forse la prova più eclatante di come la battaglia per l’informazione e l’opinione globale sia sempre aperta. Considerazioni simili valgono anche a livello di circoli più ristretti di mediazione e diffusione, in cui giornali, riviste, emittenti via cavo, film e discorsi politici forniscono canali estremamente diversificati attraverso cui le notizie e le opinioni possono filtrare e riecheggiare. In India, ad esempio, la lotta tra una serie di network televisivi, sia indiani che multinazionali; il potere del Ministero dell’Informazione e delle Trasmissioni; la capacità degli operatori delle trasmissioni via cavo di dirottare e sfruttare illegalmente qualunque tipo di prodotto mediatico controllandone la distribuzione locale; l’enorme quantità di pubblicazioni a stampa in molte lingue, che modifica la ricezione dell’opinione pubblica occidentale/inglese; e l’accesso diretto di molti indiani alle notizie d’oltreoceano attraverso il lavoro, i rapporti familiari e quelli commerciali, creano un sistema di circolazione estremamente complesso che forma l’opinione pubblica e media le diverse versioni della paura, del panico e del senso di emergenza. A questo groviglio si deve forse aggiungere il nuovo catalizzatore costituito dal flusso di notizie e opinioni che transitano via e-mail e internet, che consente a numerosi e variegati gruppi d’interesse di diffondere i loro punti di vista e le loro notizie, rendendoli così in grado di reclutare ciascuno i propri membri senza doversi preoccupare dei diversi confini nazionali. Esiste poi ovviamente l’economia globale – la globalizzazione in senso stretto – quel regime cioè di apertura dei mercati, progressiva integrazione delle economie locali e rapida circolazione di capitale finanziario nel quale stiamo vivendo da almeno trent’anni. Come è

stato più volte evidenziato, non esistono più gruppi umani di una qualche consistenza che vivano al di fuori dei parametri di questa economia globale, di cui oggi si stanno delineando in modo significativo i protocolli, i meccanismi e i regolamenti. L’aspetto essenziale di questi più ampi processi – ovviamente e giustamente già segnalato da molti commentatori – è il tipo di legame che unisce gli sconfitti del regime della globalizzazione a quel risentimento che ha mosso gli attacchi contro le sedi principali del potere mondiale a cui abbiamo assistito prima e dopo l’11 settembre. Sappiamo ormai per certo che il serbatoio di ciò che è stato chiamato a ragione odio contro gli Stati Uniti (lo Stato) e contro l’America (il paese) ha fondamenta e immissari ramificati. Tra questi vi è la lunga lista di violenze militari americane perpetrate nel secolo scorso, l’arroganza della politica estera americana e, non da ultimo, il chiaro legame tra il capitalismo mondiale, il benessere americano, il potere delle multinazionali e le politiche delle istituzioni nate dagli accordi di Bretton Woods, e cioè la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale. Thomas Friedman, una delle firme più prestigiose del «New York Times», che neanche con uno sforzo titanico di immaginazione potremmo considerare marxista, è stato forse il più esplicito nel sostenere la tesi, alcuni anni fa, secondo cui gli Stati Uniti debbano agire come forza di polizia su scala planetaria (in posti come il Kosovo) dato che, in tutta evidenza, sono sia il motore del sistema economico mondiale, sia i suoi maggiori beneficiari (Friedman 1999). Si può contestare questa posizione, ma contiene un’importante dose di verità. Su questo aspetto, e cioè sul complesso passaggio che dal dominio americano dell’economia globale – economia che continua a produrre maggiore benessere e maggiore miseria a una velocità allarmante – porta alla diffusione di una cultura antiamericana, ci sarebbe molto altro da dire. Affronterò la questione in modo più dettagliato nel prossimo capitolo, ma i collegamenti tra questi due estremi esistono, anche se a volte sono poco visibili, multiformi o addirittura nascosti. Possiamo ora tornare al nuovo e complesso circuito che collega l’incertezza nella vita sociale all’insicurezza tra i diversi Stati e al loro interno. Questo nuovo frangente può essere visto come una condizione di insicurezza globale, che crea un crescente numero di

quelli che possiamo definire stati di insicurezza. Il dibattito sul rapporto tra sicurezza e insicurezza si è fatto sempre più articolato tra gli studiosi provenienti dal subcontinente indiano, come dimostra una recente raccolta edita da R. M. Basrur (si veda in particolare l’eccellente saggio di Jayadeva Uyangoda, il cui uso dell’idea di insicurezza corrisponde in modo interessante al mio; Basrur, a cura, 2001). Nel mondo realista che sembra ormai essere alle nostre spalle, sussisteva una distinzione alquanto precisa tra la preoccupazione degli Stati per la loro sicurezza da un lato e le incertezze quotidiane dei cittadini (o civili, nel mio linguaggio) dall’altro. La prima riguardava la guerra e la pace, la diplomazia e le frontiere, il bilancio della difesa e la politica mondiale. Le seconde avevano a che fare con le leggi e l’ordine locali, la regolarità e la prevedibilità della vita sociale, la fiducia nei rapporti con amici e vicini, un qualche sentimento di possesso dello spazio e della sfera pubblica locale e un certo affidamento sul fatto che il futuro sarebbe stato, nel complesso, simile al presente. Oggi, le insicurezze degli Stati e le incertezze spaziali e identitarie dei civili si sono fuse in modo inquietante e terrore, terrorismo e terroristi sono i punti in cui questa nuova mescolanza è più evidente. Questo incrocio prende forma ovviamente lungo una strada a doppio senso, come si può vedere con chiarezza nel caso dell’Asia meridionale. Da una parte, le lotte tra diverse fazioni, le competizioni elettorali, il brusio delle voci e il rumore dei conflitti locali diventano fonti di incertezza quotidiana, in particolar modo sull’identità dei propri vicini e concittadini locali. L’identità etnica funziona spesso come un potente innesco per questo tipo di incertezza, che tuttavia può assumere anche altre forme somatiche, più attente alla lingua, all’abbigliamento, al genere sessuale, alle abitudini alimentari o alla razza. Quando questa incertezza si inscrive in processi più ampi di mutamento demografico, insicurezza economica e movimenti migratori, per essere poi esacerbata dagli eccessi del sistema mediatico e della propaganda statale o istituzionale, la miscela di incertezza e insicurezza sociale diventa esplosiva, aprendo così le porte al cancro della violenza. Di converso, l’insicurezza dello Stato può infiltrarsi nei capillari della società civile attraverso tentativi orchestrati di mobilitazione delle masse, coinvolgimento politico totale

o parziale delle forze armate, imposizione selettiva di politiche detentive e repressive, sorveglianza di particolari comunità etniche e discriminazione legale contro le minoranze, gli immigrati o altre fasce deboli. Questa insicurezza di Stato trova più ampi spazi di infiltrazione nei casi in cui le istituzioni abbiano perduto il contatto diretto con la politica di massa; si adottino pratiche economiche ambigue o sperequative in nome di interessi e poteri globali; e gli Stati abbiano iniziato a sostituire le politiche basate sullo sviluppo con politiche di impianto culturalista. L’India è un caso particolarmente interessante a questo proposito, dato che per quasi vent’anni le politiche della coalizione guidata dal BJP sono state uno strano miscuglio di retorica ultraliberista (come nella creazione di un Ministero per il “disinvestimento”), culto modaiolo per la tecnologia e l’informatica (su cui si fondano molte comunità di indiani residenti all’estero) e fondamentalismo culturale. La formula che riassume il tutto potrebbe essere: “mercati aperti, culture chiuse”. I rapporti tra i dirigenti del BJP da un lato e quelli dell’RSS e delle frange più radicali della destra indù dall’altro si fanno tesi soprattutto quando si tratta di rispondere alla seguente domanda: qual è il punto di mediazione e di incrocio tra sovranità economica e sovranità culturale? E anche se il BJP affida sempre più la sua credibilità a un’immagine di sé come baluardo del patrimonio culturale e della corretta lettura della storia dal punto di vista indù, la sua politica si è fatta sempre più aggressiva, soprattutto dopo l’introduzione ufficiale delle armi atomiche nell’arsenale delle forze armate indiane. Da quel momento, e sull’onda dell’importante vittoria sul Pakistan in Kargil qualche anno fa, il BJP e i suoi alleati hanno fatto il possibile per identificare da un lato la modernità con la tecnologia (specialmente la tecnologia informatica) e dall’altro la tradizione con l’induismo, accampando la pretesa di essere i migliori garanti dell’una e dell’altra. Questa duplice strategia ha prodotto come conseguenze fondamentali un drammatico incremento nella produzione di armi – incluse quelle nucleari –, un generale irrigidimento sulla questione del Kashmir e il tentativo sistematico di collegare le minacce esterne che il Pakistan porta alla sicurezza del paese alle minacce interne che l’Islam in particolare (ma anche altre religioni “straniere”) starebbero apportando alla purezza indiana. Pertanto, il culto delle tecnologie

informatiche e militari procede di pari passo con il progetto, sempre più contraddittorio, di rendere pienamente e completamente indù la società civile indiana. Le attività dei gruppi “cellulari” che in Kashmir si oppongono con le armi allo Stato indiano – e che ora penetrano attraverso il confine sempre più in profondità nelle città e nelle strutture del paese – offrono allo Stato una nuova opportunità di violare gli spazi della società civile in nome della sua insicurezza sui confini, sui sabotaggi e sul terrorismo interno. Non intendo negare che vi siano effettivi interessi transnazionali che agiscono all’interno del territorio indiano, a volte con una forte propensione per l’azione violenta, ma voglio evidenziare come questa violenza abbia rafforzato enormemente coloro che mirano a spingere la metafora della guerra ancora più in profondità nelle crepe della vita quotidiana. Molti settori della classe media e del proletariato urbano e rurale percepiscono oggi la loro vita quotidiana attraverso il filtro inevitabile di una battaglia culturale che collega senza soluzione di continuità la guerra e la politica lungo i margini della nazione con la vigilanza e la purificazione da esercitare al centro. Wagah e Ayodhya15 sono quindi percepite come campi di battaglia diversi di un’unica guerra, che lega in un unico intreccio il Pakistan, i suoi terroristi, gli indiani musulmani e il loro implicito tradimento. Al successo del recente tentativo della polizia di Mumbai di impedire la messa in scena di uno spettacolo in lingua marathi su Nathuram Godse (l’assassino indù del Mahatma Gandhi) ha senza dubbio contribuito implicitamente la percezione comune di essere (quasi) in guerra con il Pakistan. Queste prese di posizione da parte delle istituzioni statali confluiscono nelle incertezze della vita quotidiana, e a ogni dato momento in una città come Mumbai si intrecciano con articoli di giornale che raccontano di terroristi musulmani che si nascondono all’interno dei quartieri più poveri in dimore suntuose (che si dice siano pagate da Al Qaeda o reti simili) e più in generale con gli appelli all’urgenza di “ripulire” le baraccopoli, in modo particolare quelle abitate da musulmani e considerate rifugi ideali per i terroristi che vengono dal Kashmir o da altre regioni. In casi come questi vengono in mente le metafore usate dai nazisti, per esempio a Varsavia, sulla caccia ai parassiti (come venivano chiamati gli ebrei

della Polonia) e quelle usate da molti gruppi per descrivere le aree povere e musulmane intorno al Red Fort dopo l’attacco terroristico del dicembre 200016. Nell’era del terrorismo globale, le insicurezze di Stato e l’incertezza sociale per quanti sono considerati diversi dal punto di vista etnico si alimentano a vicenda in una spaventosa spirale. Una volta, infatti, che si dimostra – come effettivamente è il caso – che il terrorismo attraversa i confini nazionali e che lavora furtivamente e sotto mentite spoglie, diventa facile stabilire e generalizzare la relazione tra insicurezza statale (i terroristi) e incertezza sociale (i musulmani). Se riprendiamo la metafora della vivisezione che ho già utilizzato, la violenza dispiegata dallo Stato contro i terroristi e quella messa in atto a livello locale contro i vicini etnicizzati si muovono in parallelo nell’esporre il corpo del nemico catturato, ferito e umiliato come prova di quel tradimento che si erano proposte di combattere. Nella staticità della morte o nell’immobilità della resa, i corpi dei terroristi diventano testimonianze silenziose del nemico interno, prove del tradimento che si nasconde proprio dietro la sua patetica normalità. Il terrore nella capitale del capitale A partire dall’11 settembre 2001, gli Stati Uniti sono sempre più coinvolti in una serie di nuove battaglie sulla sicurezza statale e l’incertezza sociale e anche in questo caso, proprio come in India, gli attentati hanno incanalato verso una piattaforma politica omogenea le incertezze della vita sociale quotidiana su “noi” e “loro” e le insicurezze di una superpotenza colma d’ira. Così, mentre Gulliver rompeva i lacci dei numerosi lillipuziani che lo tormentano da così tanto tempo scatenando la sua furia sull’Afghanistan e sull’Iraq, una serie parallela di furiose battaglie veniva lanciata contro gli immigrati clandestini, i visitatori sospetti e qualunque tipo di dissenso. Si è quindi aperto un nuovo dibattito sui limiti del controllo statale, sulla necessità di proteggere le minoranze di colore dall’odio criminogeno nato proprio dagli eventi dell’11 settembre, e sulla costituzionalità delle corti marziali che hanno giudicato le persone arrestate dalle forze di sicurezza subito dopo gli attacchi al World Trade Center. La questione del terrore nella sfera pubblica americana ha ovviamente una logica molto diversa da quella che può avere in una regione come il subcontinente indiano. Negli Stati Uniti solleva

questioni di tipo nuovo sull’immigrazione – un tema che costituisce probabilmente l’aspetto più complesso della politica sociale americana degli ultimi cinquant’anni – e ridesta in forme impreviste la questione dei diritti civili, in modo particolare il diritto alla privacy e alla libertà di movimento. Il dibattito sul terrorismo ha reso inoltre difficilmente praticabile qualunque seria critica all’aumento sistematico e generalizzato degli investimenti per la difesa, ma ha seminato un dubbio peggiore, il timore che pochi osano anche solo formulare esplicitamente, e cioè l’eventualità che vi sia un legame tra l’attentato al palazzo federale di Oklahoma City del 19 aprile 1995 (portato a termine da Timothy McVeigh, recentemente giustiziato sulla sedia elettrica), il primo attentato al World Trade Center del 26 febbraio 1993, e quello dell’11 settembre 2001. È questo lo snodo finale che ricollega tutte le rifrazioni del terrorismo in aree per altro assai diverse dell’economia globale. Che si manifesti in America o in India, il terrore organizzato secondo reti cellulari sconvolge le strutture vertebrate dello Stato e oscura la distinzione tra nemici interni e nemici esterni. I terroristi, pertanto, ovunque nel mondo, rendono oscenamente manifesti i nostri timori più riposti sull’identità nazionale, il potere dello Stato e la purezza etnica, da cui dipendono in qualche misura tutte le nazioni. I nostri terroristi, negli Stati Uniti, in India o altrove, sono quindi fonte di un duplice orrore: sono sicuramente un male in sé, esterno a noi, ma sembrano anche essere i sintomi viventi di un malessere più profondo che si annida nei nostri corpi politici e sociali. Non possono quindi essere esorcizzati facilmente come spiriti maligni o amputati di netto come membra malsane. Ci costringono invece a un confronto più serrato con le nostre istituzioni statali, con il nostro mondo, e con noi stessi. 1

South Asian Association for Regional Cooperation. Durante gli incontri cui si fa riferimento le autorità indiane e pachistane rifiutarono di incontrarsi e di discutere la crisi militare lungo i loro confini. 2 Il Bharatiya Janata Party (BJP) era a capo della coalizione di maggioranza in India fino alle elezioni del maggio 2004. Il Rashtriya Swayam-Sevak Sangh (RSS) è un’organizzazione paramilitare strettamente collegata al BJP. Entrambi fanno parte di una rete di organizzazioni nazionaliste indù. 3 La legge nota come POTO limita notevolmente i diritti dei detenuti e, al contrario delle misure precedenti, si applica “a tutta l’India” (1.2) e quindi anche nello Stato conteso del Kashmir. 4 Sangh Parivar è il nome di riferimento di un’ampia coalizione di nazionalisti indù che include BJP, RSS, World Hindu Council ecc.

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Questo nonostante un’ingiunzione della Corte Suprema che vieta la costruzione di un Mandir (tempio) sopra le rovine della moschea di Babri, che fu distrutta da una banda indù. 6 Tehelka.com è il sito che ha svelato la corruzione di funzionari di alto livello in relazione al commercio di armi. 7 L’Indus Water Treaty è un accordo del 1948 tra India e Pakistan per la condivisione delle acque. Un eventuale ritiro dell’India dal trattato porterebbe al disastro il sistema di irrigazione in Pakistan. 8 Il National Council of Educational Research and Training (NCERT) è un’organizzazione di vertice che fornisce consulenza al governo centrale e ai governi statali su questioni accademiche relative all’educazione scolastica. Di recente, il personale è stato rimpiazzato con l’intento di procedere a una revisione dei libri di storia consona alla prospettiva nazionalista indù. 9 Il più grande fondo comune di investimento in India, di proprietà dell’Unit Trust of India, crollò nel 2001 quando il suo presidente fu accusato di corruzione. I registri telefonici riportano inoltre una serie di chiamate fatte dal presidente del fondo al primo ministro nel periodo precedente al crollo. 10 In seguito al conflitto in Kargil del 1999, fu scoperto che il governo indiano aveva acquistato le bare per i soldati pagandole un prezzo molte volte superiore a quello di mercato. 11 Prima dello scandalo americano, ENRON fece un accordo con il governo del Maharashtra per la costruzione di una centrale elettrica. In seguito al passaggio di amministrazione dal Congresso alla coalizione BJP-Shiv Sena l’accordo decadde, per essere poi rinegoziato poco dopo. Il prezzo dell’elettricità era troppo alto e la centrale fu chiusa alla fine del 2001. 12 Film uscito nel 2001 e diretto da Ashutosh Gowariker. Ambientato nell’India vittoriana, racconta di un villaggio che deve conquistarsi con una vittoria a cricket il diritto a non pagare un’esosa tassa sulla terra, detta appunto Lagaan (N.d.C.). 13 Una maha-arati è una grande preghiera pubblica; in anni recenti è diventata simbolo della forza e della solidarietà indù. 14 Malegaon è una cittadina a maggioranza musulmana dove gli scontri durante la campagna per le elezioni municipali, trasformatasi in una specie di censimento etnico, provocarono la morte di almeno tredici persone. 15 Wagah è una postazione di confine tra India e Pakistan. Ayodhya è la città dove fu demolita la moschea di Babri. 16 Il 22 dicembre 2000 il Forte Rosso (un’importante attrazione turistica di Delhi e luogo della proclamazione d’indipendenza dell’India) venne attaccato da due militanti del gruppo separatista Lashkar-e-Tayiba che uccisero tre guardie riuscendo a dileguarsi (N.d.C.).

Capitolo quinto La globalizzazione dal basso nell’epoca dell’ideocidio

L’epoca dell’ideocidio Nel terzo capitolo ho sostenuto che il modello proposto da Samuel Huntington dello scontro di civiltà sia fondamentalmente errato. Bisogna però ammettere che quella prospettiva è dotata di un qualche fascino intuitivo nel mondo in cui siamo stati costretti a entrare dopo l’11 settembre 2001. Collocando la cultura al centro della sua formulazione, il modello di Huntington è riuscito apparentemente a cogliere con buon anticipo parte di quel sentimento di guerra generalizzata contro l’“Occidente” – in modo particolare contro gli Stati Uniti – che sembra pervadere il mondo islamico, soprattutto nelle sue frange terroristiche. Possiamo quindi dire che il modello ha qualcosa di giusto e qualcosa di sbagliato. La parte errata – in effetti errata in modo assoluto – è costituita dall’immagine stessa delle civiltà, concepite secondo criteri in parte razziali, geografici e legati all’affiliazione religiosa, ma che in generale vengono poste come i bastioni fisici della cultura. Si tratta insomma di un caso di primordialismo di stampo macro-geografico, che non tiene in alcuna considerazione l’elevato livello di interazione complessiva tra le diverse aree di civiltà, che appiattisce le discussioni e i dibattiti che hanno luogo all’interno di ciascuna regione geografica e che cancella le sovrapposizioni e le ibridazioni. In breve, è un modello che espunge la storia dalla cultura, lasciando solo la geografia. Il mondo così

somiglia a un grande assembramento di ghiacciai culturali che si muovono lentamente, con aspri contrasti lungo i confini e variazioni minime al loro interno. Questa riduzione in termini esclusivamente spaziali della cultura, delineata a grandi pennellate secondo il traslato della “civiltà”, spiana inoltre la strada, nel modello di Huntington, a una pericolosa sovrapposizione tra religione, cultura e razza. Questi aspetti sono già stati evidenziati dalle numerose e aspre critiche rivolte al modello dello scontro di civiltà fin dalla sua formulazione originaria, diversi anni fa. Ma, ripeto, Huntington aveva anche ragione, in qualche modo. Ragione perché è stato in grado di capire che – lungi dall’essere alla “fine dell’ideologia”, come pensava Daniel Bell negli anni Cinquanta, o alla “fine della storia” come sosteneva alcuni decenni dopo Fukuyama – siamo entrati in una nuova fase, caratterizzata dalla guerra condotta esclusivamente in nome dell’ideologia. L’errore di Huntington è stato quello di confondere il messaggio con il messaggero, e di raffigurare l’attuale complessità del reale secondo un quadro di realismo geografico fatto di masse terrestri effettive, concrete, concepite come le sedi di civilizzazioni antagoniste. Soprattutto per quanto riguarda l’Islam, si tratta di un errore che può costare caro, dato che alimenta, forse senza volerlo, le illusioni di controllo dello spazio che hanno spinto George Bush e i suoi consiglieri a cercare di localizzare Al Qaeda in Afghanistan e a distruggerla distruggendo un’intera porzione di territorio. Eppure, persino Bush e il suo entourage hanno dovuto riconoscere fin da subito la natura globale, sfuggente e delocalizzata – addirittura virtuale – del nuovo nemico. Questa specificità è esattamente quel che ho cercato di cogliere con la distinzione tra organizzazioni “vertebrate” e “cellulari” che ho avanzato nel capitolo terzo. Da questa prospettiva, anche il modello di Huntington (a parte le sue numerose limitazioni concettuali) è un modello vertebrato per un mondo cellulare. Ma Huntington ha avuto ragione nel comprendere che nel mondo si stava facendo spazio un nuovo tipo di assolutismo ideologico, soprattutto per quanto riguarda l’odio nei confronti degli Stati Uniti. È a questo punto che entra in gioco l’idea di “ideocidio”, cui ho già fatto riferimento in questo volume. Ideocidio e civicidio

Ideocidio è un termine che si riferisce a un fenomeno diffuso, addirittura globale. Un fenomeno recente e particolarmente grave, per cui intere popolazioni, interi paesi e stili di vita sono considerati deleteri ed estranei al consesso dell’umanità, e quindi legittimi bersagli di quella che Orlando Patterson (1982) ha chiamato “morte sociale” nella sua analisi della schiavitù, e che Daniel Goldhagen (1996) ha considerato come il primo passo verso l’etnocidio/genocidio nazista rivolto allo sterminio degli ebrei in tutto il mondo. Si tratta di un sentimento troppo intenso per essere definito uno “scontro di civiltà”. Sembra più appropriato chiamarlo uno scontro di ideocidi, o di civicidi. La politica implicata da questo sentimento è più che “etnocida” o anche “genocida”, dato che questi termini sono radicati nell’odio rivolto alle minoranze “interne”. L’ideocidio o civicidio si rivolgono invece verso l’esterno, e puntano a intere ideologie, a vaste regioni e a modelli di vita considerati al di là del limite umano della comprensione etica. Inoltre, diversamente dai loro precursori come il manicheismo della guerra fredda – in cui il comunismo, ad esempio, era considerato dagli americani come un oggetto di disprezzo totale – l’obiettivo in questi casi non è più limitato a Stati o regimi politici, ma a interi sistemi ideologici e a specifiche idee di civiltà. Questa impostazione della mia riflessione potrebbe sembrare null’altro che una riformulazione del modello di Huntington, ma non è così. Spostando il livello dallo “scontrarsi” al “fare piazza pulita” si supera un confine qualitativo essenziale, che ci consente tra l’altro di comprendere come sia possibile considerare intere popolazioni – e non semplicemente i loro regimi – come obiettivi legittimi, secondo quella che potremmo chiamare “la deriva binladiana”. Inoltre, ponendo l’attenzione sulle “idee” di civiltà piuttosto che sulle civiltà in quanto tali, ammettiamo che queste battaglie assolutizzanti possono avere luogo entro le grandi tradizioni e regioni del mondo, e non solamente tra civiltà, evitando quindi di cadere nell’errore principale del modello di Huntington. Così, la lunga e terribile guerra tra Iran e Iraq – oggi in gran parte dimenticata dai media occidentali – costituisce un esempio della grande battaglia tra la concezione sciita e quella sunnita di civilizzazione, lotta per di più rafforzata dalle macchinazioni dei due regimi dopo l’ascesa al potere dell’ayatollah Khomeini. Per cogliere sotto la giusta luce le nuove logiche dell’ideocidio e del civicidio, le

indicazioni più interessanti vanno individuate nell’aumento a livello mondiale dei casi di pulizia etnica delle minoranze. Hitler fu il primo a collegare una questione interna (gli ebrei di Germania) a un progetto globale (lo sterminio degli ebrei del pianeta). Possiamo trovare elementi di questo processo di globalizzazione dei capri espiatori “interni” in numerosi esempi dell’ultimo decennio. Di converso, è riconoscibile una crescente tendenza a considerare i nemici esterni come indistinguibili, dal punto di vista morale, dai nemici locali o interni. Questa duplice mossa – globalizzare gli oppositori morali interni e localizzare i nemici morali fisicamente distanti – è il cardine della logica dell’ideocidio e del civicidio, dato che aggiunge un potente fattore globalizzante alle forme disponibili di etnocidio e genocidio. L’odio a lunga distanza Un secondo aspetto, più complesso, per elaborare un modello alternativo allo scontro di civiltà deve tenere in considerazione nel suo insieme la vita culturale statunitense e nordamericana. È impossibile mettere in discussione il fatto che in molte parti del mondo, e in vari settori sociali, in gruppi religiosi e intellettuali, nonché tra la gente comune, l’odio generalizzato per il governo americano, e per gli statunitensi in quanto popolo, sia più diffuso di quanto a volte non ci curiamo di riconoscere. Questo odio deve trovare una qualche spiegazione. Ha diverse radici e prende forme mutevoli, senz’altro non tutte limitate al mondo islamico. La prima, che ha assunto le sembianze dell’ugly American, l’americano cafone e sprezzante, ha trovato nutrimento nell’arroganza quotidiana degli americani di ogni sorta in giro per il mondo dopo il 1945: come turisti, modernizzatori, funzionari della Banca Mondiale, missionari, ricercatori, benefattori e filantropi, soprattutto nel contesto della lotta all’Impero del Male, gli americani in quella fase rendevano praticamente impossibile una qualunque distinzione tra loro, in quanto popolo, e il loro governo. Gli americani si presentavano sempre come “ambasciatori culturali”: in un certo senso, ogni americano che si trovasse in un punto qualunque del mondo non europeo veniva visto come un carico ambulante di privilegi di tipo tecnologico, militare, culturale ed educativo, che sfoggiava il suo ben di Dio, al contempo controllandone gelosamente l’accesso da parte degli altri. A partire dal 1945, qualunque

mendicante che si sia messo sull’uscio di qualche grande albergo del mondo, in attesa che una grassa coppia di americani gli gettasse qualche spicciolo o qualche briciola di attenzione, non era altro che un piccolo mujaheddin potenziale. E tutti gli americani che hanno sopportato l’assalto dei miseri postulanti in un punto qualunque dell’Asia, dell’Africa o del Medio Oriente sanno bene che ogni gesto di supplica nasconde una segreta minaccia e una qualche profonda avversione. Gunga Din è morto. Alla diffusione dell’antiamericanismo contribuisce certamente una dimensione culturale. Un tedesco o un giapponese che si comportassero in modo arrogante non verrebbero considerati “ambasciatori” dei loro regimi politici, mentre gli americani vengono quasi sempre giudicati in questo modo. Perché ciò accade? La ragione va individuata nel fatto che gli americani incarnano – nel loro abbigliamento, nello stile, negli oggetti che possiedono e nelle loro pratiche (come quella di fare jogging attorno ai loro alberghi nel terzo mondo) – uno specifico modello corporeo delle strutture culturali che rappresentano l’America sugli schermi televisivi di tutto il mondo: gli splendidi corpi di Baywatch; la possanza fisica di uno Schwarzenegger o di un Sylvester Stallone; il vigore e la forza dei poliziotti di NYPD Blue; l’umorismo alla buona di I love Lucy e l’aura protettiva di Oprah Winfrey (tutti personaggi e spettacoli popolari a livello mondiale). Incarnando quindi le grandi strutture culturali della loro società, gli americani comuni evocano il potere e l’arroganza dello Stato americano, dato che gli stili di vita sono diventati emblemi fondamentali degli stili morali, che oggi in tutto il mondo sono percepiti come imposizioni di interessi e costrizioni statali. Così, si è stabilita una curiosa tendenza a considerare in qualche modo intercambiabili tra loro i corpi americani, il fascino culturale americano e il potere riconoscibile dello Stato americano. Agli occhi di quegli ideologi che, ovunque si trovino, hanno fatto della moralità corporea un tratto sostanziale per la stabilità dello Stato, gli americani sembrano essere contemporaneamente un simbolo vivente delle scarpe Nike che portano ai piedi e dei missili Nike che si trovano ospitati nei silos del loro paese. Dato il candore e il narcisismo che li caratterizzano in modo così peculiare, è inutile aggiungere che gran parte degli americani che hanno vissuto, lavorato o viaggiato nelle

aree più povere del mondo rimarrebbero scioccati da questa interpretazione di ciò che essi possono rappresentare. In molte parti del mondo, questa equazione è stata costantemente rafforzata dai massicci attacchi militari statunitensi contro i paesi più poveri (potremmo forse cominciare da Hiroshima e Nagasaki, passando per Corea e Vietnam, e proseguendo poi per Cuba, Cile, Panama, Iran, Iraq e Afghanistan, oltre che Somalia e Haiti) e dall’innegabile marchio americano impresso su alcune delle più severe politiche economiche imposte dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale. L’aspetto più indecifrabile è che gran parte degli esseri umani sembrano avere un desiderio incontenibile di venire negli Stati Uniti, per condividerne le libertà e le opportunità imprenditoriali, per godere dei servizi lì disponibili e per poter vedere il mondo dalla cabina di pilotaggio, e non dall’ultimo sedile della classe economica. Per la maggior parte degli americani, questa ambivalenza è del tutto incomprensibile. Com’è possibile che così tanta gente ci odi proprio per quelle stesse cose cui aspirano con tanta bramosia, e che cercano di ottenere quando violano i nostri confini e pretendono i visti d’ingresso per volare, guidare, navigare o nuotare verso le nostre coste? Perché investono così tante energie per giungere su una terra che detestano? Perché distruggono quegli stessi piaceri che sperano di poter provare? Non troveremo indicazioni per una risposta a queste domande nella devastazione dell’Afghanistan dopo la guerra contro i sovietici e nel piano anti-Marshall lanciato dagli USA quando l’Unione Sovietica lasciò il paese. Né le troveremo nei campi profughi palestinesi situati in Libano o altrove. Neppure in quelle oscure madrasse pachistane che hanno visto l’ascesa e il declino dei talebani. Le potremo invece trovare parlando ai tassisti di qualunque città degli Stati Uniti, persone di modesta condizione e di estrazione medio-bassa, spesso istruite, mobili e capaci, che hanno scelto di entrare in quel paese sotto l’egida dello Yellow Cab, il taxi americano. Molti di questi tassisti (che provengono quasi tutti dal subcontinente indiano o dall’Africa, quando non sono afroamericani o ispanici) sono americani sfegatati, che si fanno vanto della loro capacità di lavorare autonomamente, di essere gli unici

padroni di se stessi, di far studiare i loro figli o di essere loro stessi degli studenti negli USA. Almeno un tassista su tre tra quelli che ho incontrato studiava per ottenere un Microsoft Certification, e sognava il cyber-paradiso. Alcuni hanno obiettivi più terreni: qualche altro taxi, una pompa di benzina, forse la gestione di un 7-eleven. Ma altri parlano degli americani con incredibile disprezzo, della criminalità tra i neri, della scostumatezza dei bianchi, dell’immoralità generalizzata, dell’ipocrisia dei poliziotti e dei funzionari dell’amministrazione, del razzismo che subiscono ogni giorno. Queste manifestazioni di disdegno morale stanno a indicare qualcosa, e non si tratta di ipocrisia. Questi fustigatori dell’America ordinaria, che si sentono come dei sopravvissuti entro un bozzolo di moralità nel ventre della bestia, hanno trovato il modo di tenere distinta la vita americana (che stimano e preservano) dallo “stile di vita” americano, che nella versione che se ne fanno trovano repellente, soprattutto per quanto riguarda la morale sessuale. Non è facile concepire questa dicotomia, dato che deve attraversare la rete compatta delle ideologie culturali che costituiscono gli Stati Uniti odierni. Gli sventurati che da tutto il mondo vengono in America per guadagnarsi da vivere devono affrontare un curioso sdoppiamento. Come americani, sentono molto forte il loro senso dei diritti e della libertà, che perseguono e di cui godono per quanto è possibile. Ma come non americani mantengono quel senso di ripulsa, di alienazione e di distanza che forse hanno da sempre. Per questi immigrati (legali o no che siano) in molti casi il patriottismo civico si è scisso da quello politico, ed è proprio questo iato che cercano di colmare nel profluvio di bandiere e altri gadget che reclamizzano con tanto fervore nelle strade di New York e di altre città americane. Un altro esempio proviene da gradini più elevati nella scala globale delle classi. Quasi tutti i membri istruiti dell’élite indiana della mia generazione (tra i 45 e i 55 anni d’età) hanno parenti e amici negli Stati Uniti, di solito professionisti di alto livello in diversi settori: medicina, tecnologia, informatica, credito e finanza. I più giovani tra loro sono dei veri campioni di questo universo migratorio: sono amministratori d’azienda, consiglieri di sindaci e amministrazioni, direttori di importanti giornali e case editrici, oppure registrano con i loro marchi nuovi prodotti informatici e biotecnologici, e insegnano in

quasi tutte le migliori università americane. In molti casi, questi indiani privilegiati mandano i loro figli a studiare nei più prestigiosi college degli Stati Uniti, o sperano di poterceli mandare, o ancora si danno da fare per trovar loro un impiego dopo la laurea. Questa è l’America che vogliono e inseguono, lavorando duramente, tenendosi in contatto tra loro, pianificando e creando strategie con grande passione. E ciò è ancor più vero per quei rappresentanti dell’élite indiana che hanno scelto di rimanere a lavorare in India. Ma neanche in questo caso possiamo parlare di ipocrisia. Come possiamo spiegare il fatto che molti esponenti di queste élite (indiane o di altri paesi) amino come nient’altro al mondo criticare duramente gli Stati Uniti (a volte il governo, altre volte l’industria culturale, in alcuni casi gli americani in quanto tali) mentre perseguono la realizzazione del sogno americano per se stessi e i loro figli? Si tratta in ogni caso di persone estremamente raffinate, tra cui ci sono vere e proprie star dell’industria e dell’accademia, con un inglese fluente, navigati conoscitori dei media, brillanti nell’argomentare, moderati nei dibattiti, restii alle polemiche. Insomma, ben distanti dagli apologeti di Osama. Ma quanto sono diversi da loro? E perché anch’essi mordono la mano che li nutre? La risposta a questo enigma si trova in un’altra porzione di quel processo che chiamiamo globalizzazione. Gran parte delle prospettive professionali, si tratti di informatica, matematica, scienze sociali o diritti umani, si sviluppa sulla base di procedure che sono elaborate e realizzate all’interno di organizzazioni, reti e istituzioni statunitensi. In altre parole, il successo in qualunque professione non statale nei paesi più poveri del mondo viene quasi sistematicamente valutato sulla base di parametri americani, oppure da cittadini americani che hanno il compito di applicare quei parametri. La cosa non sarebbe particolarmente rilevante, se non fosse che – a forza di repressione o corruzione – moltissimi paesi e regioni povere hanno reso ingestibili i loro centri urbani, indebolito le istituzioni accademiche, reso impossibile qualunque forma di ricerca e insegnamento degna di questo nome, e tradotto in possedimenti coloniali dello Stato tutti gli accessi professionali. Succede così che le élite culturali e professionali di questi paesi vivano, dal punto di vista lavorativo, in un vuoto pneumatico che le risucchia, come

un’irresistibile sirena, verso l’America. Date le premesse, questi gruppi vanno alla ricerca di prospettive lavorative, benessere per i figli e riferimenti professionali negli Stati Uniti (e in certa misura in altri paesi del primo mondo). Al contempo, proprio come i tassisti provenienti dal terzo mondo, preservano il diritto di essere antiamericani per quanto riguarda la cultura, la politica e persino lo stile di vita, arrivando così in America come immigrati dal punto di vista civico, ed esiliati dal punto di vista morale. Anche quando rimangono nei loro paesi di origine, sviluppano questa relazione ambivalente, che fornisce ulteriore nutrimento alle forze complessive che aspirano al civicidio degli Stati Uniti. Purtroppo, quindi, coloro che sognano e coloro che odiano gli Stati Uniti non costituiscono due gruppi separati. Spesso si tratta delle stesse identiche persone. Nella fase attuale, proprio a causa del ruolo centrale degli Stati Uniti come potenza mondiale a partire dal 1945 (e in modo particolare dopo il 1989), questa ambivalenza rivela tutta la sua drammaticità. Così, l’odio per l’America è inestricabilmente legato al desiderio di farne parte. Provate a passare una settimana ai cancelli di qualunque consolato americano, cercando di ottenere un visto d’ingresso, compilando centinaia di moduli, mentre venite spintonati nelle code, insultati da meschini funzionari locali e poi controesaminati da un esausto funzionario addetto ai visti. Provateci, e anche in voi si paleserà il gene dell’odio. La stampa americana racconta di continuo storie di questo tipo, vivide testimonianze di come si possa coltivare questo sentimento. Ma gli esempi si possono moltiplicare: attivisti delle ONG che devono supplicare la Banca Mondiale per finanziamenti da poche migliaia di dollari; medici che non riescono a superare gli esami richiesti dall’American Medical Association per poter praticare negli Stati Uniti; studenti costretti a tornare a casa dopo il corso perché il lavoro promesso è svanito o cambiato; manager di multinazionali controllate dagli Stati Uniti che vedono i loro settori regionali gestiti da colleghi americani (o europei) con quindici anni meno di loro; studiosi che stanno cercando da decenni di farsi pubblicare almeno un articolo su una rivista statunitense e che si trovano a fare da informatori indigeni per qualche laureando americano. Chi l’ha detto che solo nelle madrasse si può coltivare l’odio?

Per questo gruppo ristretto di professionisti, dotati di prospettive e aspirazioni di tipo cosmopolita, “libertà” e “opportunità” non sono articoli di fede culturale o simboli dell’America, secondo lo stereotipo ripetuto senza sosta da George Bush e dal suo entourage ristretto. Libertà e opportunità sono invece questioni concrete, che si collegano all’America in quanto sistema civico, più che politico. In un certo senso, quel che gli stranieri di questo tipo ricercano è la società americana, non la politica americana. Cercano le opportunità come fatti concreti, non come modelli normativi. È in questo passaggio che si individua il vero e proprio chiasmo tra il patriottismo indigeno o ufficiale e il più pragmatico desiderio di una buona vita espresso dai molti potenziali migranti verso gli Stati Uniti. Ed è sempre qui che il godimento concreto di una vita negli Stati Uniti (e l’aspirazione a entrare nel paese) può essere coerente con un profondo risentimento morale verso la politica americana e verso il governo americano come forze globali. Dal punto di vista sociologico, sono due gli elementi che si incrociano per nutrire le radici profonde e i canali di trasmissione del sentimento antiamericano nel mondo. La prima è costituita dall’ambivalenza delle élite globali, ostili alle discipline americane che influenzano le loro vite e le loro prospettive professionali, giungendo a volte a escluderle o a svilirle. La seconda è la rabbia senza controllo degli eserciti di miserabili, che immaginano gli Stati Uniti attraverso la lente della loro servitù feudale, della depravazione morale, dei bombardamenti diretti, della violenza a distanza e dei disastri economici imposti dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale. Il contributo islamico a questa combinazione esplosiva di fattori (nella forma di un impiego del tutto nuovo del concetto di jihad contro gli Stati Uniti, concepiti come l’incarnazione di Satana) aggiunge uno specifico vettore regionale. Altri ne esistono, di diversa natura geografica: in buona parte dell’America Latina, dove gli Stati Uniti sono considerati un’estensione della CIA e delle grandi multinazionali; in Giappone, dove è difficile dimenticare l’umiliazione della seconda guerra mondiale e gli orrori di Hiroshima e Nagasaki; in India, dove i nazionalisti indù associano gli USA ai concorsi di bellezza, al consumismo rampante e all’edonismo immorale; in gran parte dell’Africa, dove gli Stati Uniti sono concepiti da alcuni come i

prosecutori delle nefandezze del colonialismo europeo, e da altri come la forza egemone planetaria troppo indaffarata per darsi cura del loro continente. Gli esempi si potrebbero moltiplicare, e tutti aggiungono una specifica connotazione storica e regionale alla miscela esplosiva costituita dall’ambivalenza delle élite e dall’intreccio di paura e rabbia che attanaglia le masse più povere. Possiamo a questo punto affrontare la questione dell’“odio a lunga distanza”, un tratto probabilmente specifico della seconda metà del XX secolo, per quanto più recente della già breve storia dell’empatia a distanza, di cui parla con tanta precisione Michael Ignatieff (1997) quando ci spiega che anche nell’Occidente cristianizzato non era affatto naturale preoccuparsi per le sofferenze di coloro che sono lontani, e che questa capacità di provare compassione a distanza è un prodotto dell’immaginazione liberale e umanista, che si oppone a qualunque sofferenza in nome di un’umanità sentita come universale. Che dire invece di emozioni meno raffinate, come l’invidia, l’odio e la paura? In che modo diventano plausibili senza un contatto faccia a faccia, un risentimento personalizzato, un’esperienza di tipo locale? Come possono diventare sentimenti astratti e “portatili”? In questo caso, la storia recente degli etnocidi “interni” in luoghi come la Iugoslavia, il Ruanda, l’Indonesia, l’India e la Cambogia può aiutarci solo in parte, dato che queste orribili campagne di pulizia implicavano forme distorte di intimità, attraverso cui il vicino uccide il vicino, e le persone familiari vengono trasformate in abominevoli stranieri. Del resto, anche la capacità dei nazisti di mobilitare campagne per sterminare gli ebrei nel resto dell’Europa e infine in Russia fu preceduta dal successo domestico nel trasformare gli ebrei tedeschi in “cadaveri sociali”. Ma l’odio attuale, quel tipo di odio manifestato da alcuni pensatori, movimenti e militanti islamici nei confronti degli americani – e da molti americani nei confronti delle popolazioni islamiche (concepite come arabe, musulmane o terroriste) – è di un tipo più astratto, un odio che non trova il suo fondamento in quelli che Clifford Geertz ha chiamato concetti “vicini all’esperienza”. Si tratta di un odio “lontano dall’esperienza”, almeno per alcuni. Per altri, vittime dirette di bombardamenti, devastazione economica, guerra e abbandono (come i mujaheddin afgani abbandonati dagli USA dopo la sconfitta dei

sovietici), l’odio per gli Stati Uniti è in effetti ancorato a esperienze dirette di sofferenza sociale. Ma per molti è invece una vittoria dell’immagine e del messaggio, dei mass media e della propaganda. Attraverso i film, la televisione e internet, i mezzi di comunicazione di massa veicolano un’immagine dell’America fatta di ricchezza, fiacchezza morale e potere globale. La propaganda si trasmette attraverso le élite locali, che individuano negli Stati Uniti la fonte e il fulcro delle loro teorie sui mali del mondo. La domanda che si affaccia è quindi la seguente: cosa rende plausibili quei messaggi e irresistibili quelle immagini? Come possono messaggi e immagini spingere a quel livello di odio che ho chiamato civicida? Il passaggio da forme estremamente domestiche di risentimento all’odio generalizzato per interi paesi, popoli e società di cui spesso si ha una scarsissima conoscenza diretta ci impone di comprendere il nucleo morale di quell’odio. I riferimenti al male sono sempre più frequenti nel discorso più estremizzato del mondo islamico, e hanno prodotto inevitabilmente il loro reciproco “altro” nelle immagini del demonio e del male cui fanno ricorso i leader statunitensi, dato che l’odio a lunga distanza ha bisogno di due termini per potersi realizzare. Si tratta di una teodicea di stampo manicheo, che cerca di comprendere in un’unica spiegazione totalizzante il decadimento morale di tutto il mondo. Ma quel discorso si articola al contempo in un insieme di immagini e messaggi che possano radicare nel contesto locale quella teodicea, rendendola plausibile. L’odio a lunga distanza crea un’immagine morale di male totale, e le fornisce le sembianze di un’intera società, popolazione o regione. Questo costituisce il nutrimento dell’ideocidio e della sua ricaduta politica, il civicidio. Il civicidio, oggi, prospera in un nuovo mondo che non corrisponde più a quello che abbiamo conosciuto per secoli dopo la pace di Westfalia. Certamente il sistema degli Stati nazionali non è morto: nascono nuovi Stati, alcuni muoiono, tutti condividono l’illusione di essere eterni. Ma l’attacco al World Trade Center è un segnale inequivocabile del fatto che il mondo della politica globale, della diplomazia, della guerra, del flusso delle risorse, delle alleanze e delle mobilitazioni si sovrappone ormai solo in parte alla mappa degli Stati nazionali e della politica degli accordi e degli scambi internazionali. Potremmo descrivere quel mondo westfaliano come un progetto realista, basato su strutture di

reciprocità e riconoscimento in cui gli attori e le attività non statali altro non erano che seccature di secondaria importanza, di solito relegate alla politica interna o, nel caso in cui varcassero i confini nazionali, da trattare come questioni criminali. In questo vecchio modello, i flussi interconfinari erano garantiti dagli Stati, altrimenti erano considerati illegali. Ma come ho sostenuto nel terzo capitolo, a partire dalla seconda metà del XX secolo un nuovo mondo ha iniziato a farsi strada. Non si tratta di un mondo vertebrato, organizzato lungo la spina dorsale degli equilibri internazionali di potere, dei trattati militari, delle alleanze economiche e degli istituti di cooperazione. È invece un mondo cellulare, le cui partizioni si moltiplicano opportunisticamente per associazione, piuttosto che per legislazione o strutturazione. È anch’esso un prodotto della globalizzazione, conseguenza delle nuove tecnologie dell’informazione, della rapidità acquisita dai sistemi finanziari e dai media, del movimento di capitali e degli spostamenti di profughi. Questo mondo cellulare che sta prendendo piede ha due volti. Il volto oscuro di questa politica cellulare è stato, per tutto questo volume, l’oggetto della mia indagine. È la faccia che ormai chiamiamo “terrorismo”, in cui gruppi eterogenei come l’IRA e altre formazioni antistatali in Europa si collegano a gruppi simili in Medio Oriente, Asia e altrove per produrre violenza su vasta scala che va a colpire la nostra vita quotidiana, nei bar, durante le manifestazioni sportive, nei centri finanziari, nelle stazioni ferroviarie o degli autobus. Queste organizzazioni cellulari non si limitano a minacciare lo Stato nazionale attaccando questo o quel regime, in questa regione o in quell’altra. Minacciano invece il sistema stesso degli Stati nazionali erodendo il loro generale monopolio dei mezzi di devastazione su vasta scala della vita umana. Inoltre, articolando sistematicamente le loro attività all’esterno delle strutture esistenti di sovranità, territorialità e patriottismo nazionale, minano le fondamenta morali dello Stato nazionale come forma e sistema globale. È in questa prospettiva che va collocata la vera natura del panico che trapela dai pronunciamenti della classe dirigente politica e militare di Washington. Cosa possiamo fare, se quel che ci si prospetta è la nascita e la diffusione di un nuovo sistema globale di potere, politica e

violenza completamente estraneo alla struttura del sistema internazionale? Non stiamo parlando di cellule o reti terroristiche singole, e neppure di “Stati canaglia” o delle loro alleanze, ma di un sistema politico globale totalmente alternativo, in grado di accedere ai massimi livelli alle tecnologie di comunicazione, pianificazione e devastazione. Cosa possiamo fare, se questo sistemamondo alternativo si pone come suo obiettivo principale il raggiungimento dei mezzi di gestione della violenza oggi ancora in gran parte controllati dal sistema degli Stati? Questo fosco scenario sembra puntare non solo verso la fine della società civile, bensì verso la morte dell’idea stessa di vita come convivenza civile. Ma la pratica politica a lunga distanza, per fortuna, non è monopolio esclusivo di manigoldi capitalisti o di terroristi politici, dato che costituisce lo stile organizzativo dei movimenti progressisti più interessanti nel panorama sociale globale, quei movimenti che cercano di aprire un terzo spazio di circolazione, indipendente da quello degli Stati e dei mercati, e che potremmo chiamare movimenti per la globalizzazione dal basso. È a tali movimenti che mi rivolgo, per concludere questo capitolo. Globalizzazione dal basso La globalizzazione cellulare offre in effetti un volto meno truce. Questo versante più luminoso è stato a volte indicato come società civile internazionale: quella rete di attivisti che si occupano di diritti umani, povertà, diritti delle popolazioni indigene, aiuti d’emergenza, giustizia ecologica, eguaglianza tra i sessi e altri fondamentali obiettivi di stampo umanista, grazie alla creazione di reti non statali e gruppi di pressione che travalicano i confini nazionali. Da Greenpeace a Medici senza Frontiere, da Narmada Bachao Andolan1 a The Public Eye on Davos, si tratta di movimenti eterogenei, il cui numero complessivo è in costante ascesa. Gli scienziati sociali stanno iniziando a evidenziare una complessa convergenza tra quelle che finora erano analizzate separatamente come istituzioni della società civile, organizzazioni transnazionali e movimenti sociali di tipo popolare. In linea generale, possono tutte essere considerate delle ONG, organizzazioni non governative, eventualmente transnazionali, ma si tratta di una categoria vastissima, che spazia dalle Chiese alle grandi organizzazioni filantropiche, dai

corpi multilaterali alle società scientifiche. Restringendo il campo, vorrei riferirmi in questo contesto a quelle che Keck e Sikkink (1997) hanno chiamato Reti di Attivisti Transnazionali (Trasnational Activist Networks, TAN), oggi attive in tutti i settori del diritto e del welfare: dalla salute all’ambiente, dai diritti umani al diritto alla casa, ai diritti delle donne e dei popoli indigeni. A volte si tratta di reti sostanzialmente locali e regionali quanto a campo d’azione, altre volte veramente globali per impatto e obiettivi. A un’estremità di questa scala si collocano quindi le reti più ampie, ben finanziate e note in tutto il mondo. All’altro estremo troviamo invece reti piccole e fluide, essenziali, che lavorano nell’ombra, spesso in modo quasi invisibile, ma sempre attraverso confini politici o di altra natura. Lo studio di queste reti si è fatto sempre più vivace, soprattutto tra quegli scienziati politici interessati alle nuove forme di trattativa internazionale, all’approfondimento dello studio dei movimenti sociali e del terzo spazio che si apre tra Stati e mercati. Molte di queste reti di attivisti transnazionali sono soggetti dinamici nel dibattito sulla globalizzazione, e alcune hanno acquisito una notevole visibilità grazie alle rumorose proteste organizzate nelle strade di Seattle, Genova, Praga, Washington, Davos e altrove, sia in Europa che negli Stati Uniti. Ma la porzione più consistente di questi movimenti è impegnata in forme molto meno pubblicizzate e molto più mirate di iniziativa e coordinamento, alla ricerca di specifici mutamenti politici a livello locale, nazionale e globale. Queste reti sono spesso in grado di contrastare iniziative ufficiali di grande impatto volte a mettere a punto politiche globali sul commercio, l’ambiente, il debito, e solitamente raggiungono i loro obiettivi pretendendo trasparenza, esercitando pressioni su specifici Stati, e facendo circolare rapidamente attraverso i confini statali le informazioni che raccolgono su decisioni politiche in via di definizione, grazie all’impiego di risorse elettroniche finalizzate a mobilitare la protesta. Ma “protesta” non è la parola chiave per molti di questi movimenti, che spesso esplorano forme di collaborazione con istituzioni multilaterali, con gli Stati dove hanno sede, con i maggiori finanziatori a livello mondiale e con altre forze che fanno parte, a livello locale o globale, della società civile. Finora, gli scienziati sociali non hanno

studiato in modo sufficientemente approfondito le collaborazioni di tale genere, che costituiscono invece una parte essenziale dell’immagine “Davide contro Golia” attraverso cui queste reti riescono a risultare efficaci. Io stesso sono impegnato in uno studio di lungo termine dedicato a uno di questi movimenti, l’Internazionale degli Abitanti di Baracche e Stamberghe (Slum/Shackdwellers International, SDI), e soprattutto del suo nodo indiano, costituito da un’alleanza di tre diversi corpi attivisti: la Società per la Promozione di Centri di Risorsa d’Area (Society for Promotion of Area Resource Centres, SPARC, che è un’organizzazione non governativa), Mahila Milan (un’organizzazione che riunisce le donne povere urbanizzate, radicata a Mumbai e che si impegna soprattutto a favore del piccolo risparmio e di questioni abitative) e la Federazione Nazionale dei Baraccati (National Slum Dwellers’ Federation), un’importante organizzazione di baraccati maschi, attiva da anni in India in più di trenta città. Il terzetto, di per sé una costellazione insolita, agisce come alleanza in India dalla metà degli anni Ottanta, ed è un membro cardine della SDI da circa un decennio. La SDI è attiva in una dozzina di paesi in Asia e Africa, ed è già riuscita a incidere in misura significativa su diverse questioni: accrescere il potere dei movimenti che lavorano con il piccolo risparmio, in modo da far ottenere loro finanziamenti ponte dai colossi che sovvenzionano i progetti a favore dei poveri; stabilire delle normative uniformi con cui migliorare la qualità dei suoli e delle abitazioni per i baraccati e i senza tetto; contribuire al movimento globale – guidato da paesi come la Cina – che spinge per fare dell’accesso ai servizi sanitari un obiettivo centrale delle politiche statali. Lavorando attorno a questi temi, quel che la SDI ha fatto (Appadurai 2000) è trovare nuove forme di organizzazione per i poveri in contesti urbani, secondo quella che altrove ho definito “democrazia dal basso” (Appadurai 2002), per superare i modelli esistenti che si basano essenzialmente sulla politica di protesta sistematica, sull’allocazione verso il basso dei flussi finanziari disponibili grazie a sovvenzioni e donazioni, o sulla semplice riconversione attorno a strutture non statali di funzioni tradizionalmente demandate allo Stato, tutte strategie che molte ONG continuano a perseguire in modo sistematico. La SDI, invece, si sta impegnando a sviluppare la

capacità dei poveri nelle città di esplorare e realizzare metodi specifici di governo urbano tenendo conto in modo particolare della loro stessa attitudine a stabilire gli obiettivi, sviluppare competenze specifiche, condividere conoscenze e produrre un coinvolgimento diretto. Nel realizzare tutto questo, gli attivisti della SDI impiegano in modo alternativo pratiche come il prestito quotidiano, utilizzato non per inculcare uno spirito imprenditoriale al fine di trasformare i poveri delle città in microcapitalisti, ma per stabilire alcuni protocolli e principi finalizzati alla realizzazione di un effettivo autogoverno. In effetti, i poveri urbani che l’alleanza è riuscita a “federare” e il loro specifico lessico politico sono stati in grado di sviluppare i germi di un’“amministrazione ombra” in molte città, soprattutto a Mumbai, dove hanno fondato una serie di servizi funzionali, per garantire a se stessi le infrastrutture di base e un accesso perlomeno minimo alla sicurezza legale e politica. L’aspetto più interessante di questa pratica di costruzione effettiva delle competenze (che si organizza anche attraverso lo scambio ormai decennale tra federazioni di diversi paesi) è che implica la necessità di prospettare e costruire nuove collaborazioni con i membri dei governi locali, statali e centrali in paesi come India, Sudafrica, Thailandia, Cambogia e, più di recente, Nepal, Zimbabwe, Kenya e altri ancora. Sono stati individuati anche i modi per porre le basi per cooperare con le organizzazioni dipendenti dalle Nazioni Unite (in modo particolare con l’UNCHS) e addirittura con la Banca Mondiale e altre istituzioni burocratiche statali o parastatali che si occupano di sviluppo in Europa, Asia e Africa. Nel corso di questo processo, l’alleanza ha reso possibile un sostanziale miglioramento delle terribili condizioni di vita dei poveri in molte città indiane e in altri paesi. I collegamenti su scala planetaria, le interconnessioni, gli scambi e le diverse prospettive sono elementi essenziali, che consentono alle singole federazioni locali di rendere più efficace il loro lavoro e più intensa la partecipazione dei loro membri. L’alleanza, quindi, non si è limitata a incrementare la capacità dei suoi membri di intervenire in forme materiali, su questioni come ad esempio il reinsediamento dei baraccati, la costruzione di servizi igienici e la costituzione tra i poveri di molte città di cooperative dedite al piccolo risparmio.

Oltre a tutto ciò, è stata in grado di incanalare queste pratiche globali al fine di dare vita a nuove capacità: quelle dei più poveri tra i poveri di essere gli architetti senza mediazioni dei loro mondi politici locali. Finora, l’alleanza è riuscita a realizzare tutto ciò senza diventare un semplice strumento delle organizzazioni statali, dei finanziatori internazionali, dei partiti politici o di altri settori più meno occultamente interessati a vario titolo. Si tratta di un caso di democratizzazione cellulare in piena attività. Il caso della SDI e di altri movimenti transnazionali per il diritto alla casa non è ovviamente un esempio isolato. Sono attive molte altre formazioni cellulari di questo tipo, alcune più sviluppate di altre. Certe sono più visibili, dato che si interessano di questioni drammatiche di impatto globale, come ad esempio il futuro delle grandi dighe. Altre, che invece lavorano su questioni meno appariscenti come la casa e il risparmio, sono meno visibili. Ma tutte sono impegnate nel dare forma a un terzo spazio, in cui i mercati e gli Stati non siano solo costretti a riconoscere la loro rilevanza, ma debbano in questo processo di riconoscimento concedere un effettivo spazio politico a queste voci e a questi attori, quando si tratta di prendere decisioni globali su temi essenziali. Com’è ovvio, il mio racconto non è una favola e quindi non sappiamo come andrà a finire. Si tratta di una battaglia campale, piena di rischi, imprevisti, contraddizioni, delusioni e ostacoli. Ma questi movimenti sono, nelle loro più profonde aspirazioni, democratici sia nella forma che nel fine, e sempre più vanno costruendo la nuova dimensione globale non tramite il linguaggio generale dei problemi, dei diritti o delle norme concepiti come universali, ma tramite un problema, un’alleanza, una vittoria alla volta. I grandi movimenti degli ultimi secoli, in particolar modo i movimenti delle classi lavoratrici che hanno caratterizzato il XIX e il XX secolo, hanno sempre agito sulla base dei principi di solidarietà, identità e interesse sentiti come universali, al fine di realizzare obiettivi e di opporsi ad avversari concepiti secondo forme altrettanto universaliste e generiche. I nuovi attivismi transnazionali hanno a disposizione un margine di manovra più ampio per produrre la solidarietà a partire da convergenze d’interesse più ristrette, e per quanto possano appellarsi a categorie di vaste dimensioni, come “i poveri delle aree urbane”, per articolare le

loro politiche, costituiscono le loro forme effettive di solidarietà in modi più specifici, induttivi e contestuali, e stanno quindi sviluppando una nuova dinamica in cui l’interconnessione globale si pone al servizio di forme locali di immaginazione del potere. Molto ancora si potrebbe dire di questi movimenti, della loro forma e funzione, del loro significato, ma devo tornare ai temi centrali di questo capitolo. Ho segnalato questi movimenti perché con il loro carattere transnazionale anch’essi lavorano secondo il principio cellulare, coordinandosi senza una centralizzazione eccessiva, riproducendosi senza un esplicito mandato centrale, lavorando a volte sotto lo sguardo dell’opinione pubblica, ma spesso restando nell’ombra, raccogliendo dallo Stato e dal mercato risorse che vengono utilizzate per i loro fini e prospettando concezioni dell’equità e dell’accesso che in molti casi non si conformano ai modelli di sviluppo o democrazia tipici del XX secolo. Dobbiamo prestare la dovuta attenzione a questi movimenti, perché forse la crisi futura dello Stato nazionale non dipenderà dalla cupa conformazione cellulare del terrorismo, ma dalla cellularità utopica di queste nuove forme di organizzazione transnazionale. È in questi movimenti che possiamo trovare il vero antidoto alla pulsione mondiale all’etnocidio e all’ideocidio, e sempre lì dovremo cercare per trovare la risposta – per quanto provvisoria e malcerta – al problema della tensione che intercorre tra giustizia e pace nel mondo in cui viviamo. Comunque sia, speriamo che questa utopica forma di cellularità costituisca lo spazio delle nostre lotte a venire. Altrimenti, possiamo dire addio sia ai civili che alla civiltà. 1

Narmada Bachao Andolan è un’organizzazione (prima indiana e divenuta presto transnazionale) formata da attivisti dell’ecologia e dei diritti umani, scienziati, studiosi e persone comuni che si battono per fermare diversi progetti di costruzione di dighe nella valle del fiume Narmada, nello Stato indiano del Gujarat (N.d.C.).

Parte terza

Capitolo sesto La paura dei piccoli numeri*

Paura del debole Da sempre, un mistero circonda quei casi di violenza in cui le minoranze diventano oggetto della furia collettiva. Il mistero riguarda le ragioni per cui i numeri relativamente piccoli che danno alla parola “minoranza” il suo primo significato, e che solitamente implicano debolezza politica e militare, non impediscono alle minoranze di diventare oggetto di paura e rabbia violenta. Che senso ha uccidere, torturare o ghettizzare chi è debole? Può darsi che la questione abbia una sua rilevanza in tutti i casi storici di violenza etnica contro gruppi di ridotte dimensioni, ma in questa sede cerco di affrontare il tema riferendomi in modo particolare all’epoca cosiddetta della globalizzazione, e soprattutto al periodo che va dalla fine degli anni Ottanta ai giorni nostri. Comunque sia, un’eventuale comparazione non potrebbe riguardare l’intero arco della storia umana, dato che “minoranze” e “maggioranze” sono invenzioni cronologicamente recenti, legate in modo essenziale alle concezioni di nazione, popolazione, rappresentatività ed enumerazione per come si sono sviluppate nei secoli più vicini al nostro. Oggi queste concezioni sono universali, dato che le tecniche di conteggio, classificazione e partecipazione politica che stanno alla base delle idee di maggioranza e minoranza si accompagnano ovunque al moderno Stato nazionale. L’idea di maggioranza non precede né è indipendente da quella di minoranza, soprattutto nelle elaborazioni discorsive della politica

moderna. Le minoranze sono il prodotto dell’enumerazione e della denominazione politica quanto lo sono le maggioranze. In realtà, le maggioranze hanno bisogno delle minoranze per potere esistere in quanto tali, anche più di quanto non sia vero il contrario. Di conseguenza, per affrontare la questione del perché, in così tanti contesti etnonazionali, si sviluppi la paura verso i deboli, il primo passo è quello di tornare all’opposizione “noi/loro” nella teoria sociologica elementare. In questa teoria, la creazione delle configurazioni collettive dell’altro, cioè “i loro” è un requisito necessario, attraverso i processi di stereotipizzazione e contrasto identitario, per contribuire alla delimitazione dei confini e alla messa in evidenza delle dinamiche del “noi”. Questo aspetto della teoria del capro espiatorio, dello stereotipo e dell’altro deriva da quella versione dell’interazionismo simbolico che ha preso forma nell’opera di Cooley e di Mead, ma è altresì centrale nell’interpretazione freudiana delle dinamiche di gruppo, compreso il suo classico saggio sul narcisismo delle piccole differenze (su cui tornerò alla fine). Entro questa tradizione sociologica, la comprensione del processo di “costruzione del noi” risulta limitata, dato che tale processo viene considerato una conseguenza meccanica di quello tramite cui vengono creati “i loro”, per cui richiede dei contrasti essenziali e dei confini nitidi, che contribuiscano al consolidamento delle identità collettive (“noi”). La creazione dei diversi “noi”, dei soggetti collettivi, è quindi risolta in modo sbrigativo entro questa tradizione di pensiero, dato che viene considerata una pratica sociologicamente naturale, che non necessita di alcuna ulteriore riflessione specifica. La teoria sociologica classica, soprattutto per quanto riguarda la formazione dei gruppi, in effetti tiene in considerazione il ruolo del conflitto (come nella tradizione di Simmel), della religione (come nella tradizione di Durkheim) o degli interessi antagonisti (come nella tradizione di Marx) nella costruzione delle identità collettive. Ma anche se queste tradizioni in qualche misura rendono comprensibile la formazione delle identità del “noi” come un processo in parte indipendente, che non fa riferimento alla dialettica “noi/loro”, tuttavia non riflettono in modo particolarmente efficace sulla formazione di quelle che in un altro contesto ho definito le “identità predatrici”. Identità predatrici

Definisco “predatrici” quelle identità la cui costruzione e mobilitazione sociale richiede l’estinzione di altre categorie sociali prossime, definite come minacce all’esistenza stessa di un qualche gruppo, a sua volta definito come “noi”. Le identità predatrici sorgono periodicamente da coppie identitarie – a volte da raggruppamenti con un numero maggiore di entità – che condividono una lunga storia di contatti ravvicinati e mescolanze, oltre a un qualche livello di reciproca stereotipizzazione. Di questa storia possono far parte (anche se non necessariamente) episodi di violenza, ma un certo grado di identificazione contrastiva è sempre presente. Spesso un estremo della coppia (o una parte del raggruppamento complessivo) diviene predatore quando rende attiva una rappresentazione di sé come maggioranza minacciata. Questo tipo di mobilitazione è il passo essenziale che trasforma un’identità sociale di tipo benigno in un’identità predatrice. La formazione di una nazione moderna a partire da un ethnos fornisce spesso le basi per l’emergere di identità predatrici, identità che sostengono la necessità di estinguere un’altra collettività per poter sopravvivere. Le identità predatrici sono quasi sempre identità maggioritarie, il che significa che si basano sulla convinzione e sulla dichiarazione di essere una maggioranza minacciata. In effetti, in molti casi queste dichiarazioni riguardano maggioranze culturali che pretendono di essere legate all’identità della nazione in modo esclusivo o esaustivo. A volte queste pretese sono avanzate in quanto espressione di maggioranze di tipo religioso (come nel caso di indù, cristiani o ebrei), altre volte di maggioranze linguistiche, razziali o di altro tipo (come nel caso di tedeschi, indiani o serbi). Il discorso di queste maggioranze mobilitate spesso include la convinzione che potrebbero diventare minoranze se non si provvede a far sparire un’altra minoranza, ed è per questo che i gruppi predatori usano di frequente argomentazioni pseudo-demografiche sul tasso di fertilità in ascesa tra la minoranza nemica individuata come bersaglio. Le identità predatrici nascono quindi in quelle circostanze in cui diventa plausibile la pericolosa prospettiva che maggioranze e minoranze possano invertirsi di ruolo. Questa intrinseca reciprocità è un aspetto fondamentale della mia analisi, e ne riprenderò la discussione nelle conclusioni.

Le identità predatrici trovano quindi un loro spazio nella tensione che si apre tra identità maggioritarie e identità nazionali. Un’identità può essere descritta come “maggioritaria” non solo o non tanto quando a essa fa appello il gruppo oggettivamente più consistente entro una comunità nazionale, ma quando si sforza di colmare lo iato tra la maggioranza e la purezza dell’intera entità nazionale. Si tratta di un punto essenziale per comprendere le condizioni in base alle quali un’identità diviene predatrice. Le identità maggioritarie che riescono a rendere politicamente spendibile quella che possiamo chiamare l’ansia da incompletezza riguardo la loro sovranità possono diventare predatrici. L’incompletezza, da questo punto di vista, non riguarda tanto il controllo effettivo o la sovranità in senso concreto, quanto piuttosto – e in modo più rilevante – la purezza e la sua relazione con l’identità. Per comprendere meglio questa sensazione asintotica di incompletezza possiamo affidarci all’opera seminale di Mary Douglas, elaborata sulla scia della tradizione durkheimiana, che per prima ha avanzato una riflessione sistematica sul rapporto tra purezza, potere e pericolo (Douglas 1966). Il punto qualificante di quel lavoro è l’elaborazione dell’ipotesi che la commistione di alcune categorie distinte possa suscitare il timore di confusione morale, e quindi di pericolo sociale. Douglas ha avuto il merito di cogliere il nesso profondo – per quanto riguarda le categorie sociali – tra una cosmologia della totalità (cioè il nesso tra purezza e totalità) e l’abominio generato da qualunque violazione del rapporto che pone in reciproca definizione la purezza, la totalità e un confine sociale inviolato. L’autrice ha sviluppato queste idee entro un vasto quadro antropologico e comparativo, e anche se non ha prestato particolare attenzione alla rilevanza che le sue riflessioni avrebbero potuto avere se applicate al caso delle popolazioni nel contesto dei moderni Stati nazionali, altri autori hanno colto questa relazione (Herzfeld 1997; Malkki 1995). Senza dubbio, Douglas ha individuato il legame essenziale tra separazione categoriale, purezza e cosmologie della totalità e dell’ordine nei suoi due principali contributi a questo tema (Douglas 1966, 1970). Possiamo espandere ulteriormente il senso di questi contributi al tema della purezza e dell’identità categoriale per notare che le identità

predatrici, soprattutto quando sono associate al maggioritarismo, prosperano entro lo spazio che separa la percezione di essere una maggioranza numerica dall’illusione della purezza e della totalità nazionale. Le identità predatrici, in altri termini, sorgono in contesti in cui si riesce a ridurre l’idea di nazione al principio della singolarità etnica, così che persino l’esistenza della più piccola minoranza all’interno dei confini nazionali è considerata una macchia insopportabile per la purezza della totalità nazionale. In queste circostanze, la percezione stessa di essere una maggioranza diventa frustrante, visto che implica una sorta di dispersione etnica della nazione. Le minoranze, dato che obbligano a una costante consapevolezza di questo piccolo ma insopportabile difetto, possono facilmente suscitare l’esplosione di istanze purificatrici. Questo aspetto è fondamentale se vogliamo comprendere perché i piccoli numeri possano suscitare così tanta rabbia. I piccoli numeri rappresentano un minuscolo ostacolo che si frappone tra maggioranza e totalità, o purezza totale. In un certo senso, più il numero è piccolo e più la minoranza è debole, più profonda sarà la rabbia per la sua capacità di far sentire una maggioranza una semplice maggioranza, e non un ethnos totale e indisputabile. Tra i casi del XX secolo, l’esempio più citato di questo sentimento di purezza frustrata è ovviamente quello della mobilitazione della “germanicità” come identità predatrice da parte dei nazisti, orientata in modo particolare, anche se non esclusivo, contro gli ebrei. Molti studiosi hanno argomentato in modo inconfutabile che – soprattutto nel caso degli ebrei assimilati della borghesia tedesca – ancora diversi anni dopo l’ascesa al potere di Hitler era possibile sentirsi ebrei in senso del tutto secondario, e considerarsi invece pienamente tedeschi per quanto riguarda tutti gli aspetti rilevanti della propria vita. Simmetricamente, è possibile sostenere che l’antisemitismo – lungi dall’essere una semplice attivazione politica andata a buon fine di un tratto persistente, immutato e codificato in senso nazionale del popolo tedesco – dovesse essere mantenuto costantemente attivo e risvegliato grazie a poderose campagne di propaganda politica e razziale, tramite cui era possibile vedere gli ebrei come non tedeschi e anti-tedeschi. Alcuni importanti studiosi hanno identificato il contributo specifico del nazismo alla complessa tradizione dall’antisemitismo

europeo nell’innesto su precedenti forme di stereotipizzazione religiosa e sociale del razzismo scientifico e delle ideologie eugenetiche e demografiche che ne derivarono. Anche Daniel Goldhagen (1996), che per il resto ricostruisce un quadro fortemente connotato in senso razziale delle identità dei “tedeschi comuni”, ammette che i nazisti contribuirono in modo fondamentalmente nuovo alla definizione e alla mobilitazione della “germanicità” intesa come identità di una maggioranza in pericolo, minacciata soprattutto dal cancro razziale (un’altra metafora tipica del nazismo) costituito dagli ebrei. Qualunque sia il valore della riflessione di Goldhagen su quello che ha definito “antisemitismo eliminazionista”, e la sua attivazione presso la grande maggioranza dei “tedeschi comuni”, il punto in cui il suo libro rivela la maggiore debolezza concettuale è il rifiuto di riconoscere le numerosissime prove non tanto di una forma profonda, primordiale e solida di antisemitismo presente tra tutti i tedeschi (di cui si appropriarono in modo efficace i nazisti per realizzare il loro progetto di eliminare gli ebrei dalla faccia della terra), quanto dell’incredibile quantità di energia che fu necessario mettere in atto per trasformare molti membri della comunità nazionale tedesca in strumenti della Soluzione Finale. L’enorme apparato mediatico nazista, la circolazione inarrestabile di propaganda razziale e di voci infondate messe in giro a bella posta dalle istituzioni, le azioni finalizzate a dimostrare il teorema nazista nel momento in cui di fatto lo realizzavano (per cui le umiliazioni inflitte agli ebrei venivano considerate la prova della natura subumana di quel popolo) costituirono un caso estremamente efficace di ingegneria ideologica e politica. In se stesse, queste pratiche potrebbero essere considerate prove dell’impegno necessario a costruire un effettivo consenso nazionale in favore della campagna contro gli ebrei e come una piattaforma fondamentale per il Terzo Reich. Si potrebbe inoltre dire che gli stessi civili, coinvolti a vario titolo nei corpi di polizia, nei campi di sterminio e nelle marce forzate (tutti anelli dell’ingranaggio complessivo della Soluzione Finale), fossero a loro volta parte integrante della pratica politica generalizzata attraverso cui gli ebrei furono trasformati in esseri subumani, e quei tedeschi che furono direttamente coinvolti si trovarono immersi, tramite la violenza, nella produzione del consenso sugli ebrei come feccia della nazione. In

questo caso, come in molti altri, le teorie sociali prevalenti tendono a prestare un interesse veramente minimo al ruolo della violenza nella produzione della comunità e dell’identità, e a indagare invece con eccessiva attenzione le precondizioni che hanno reso possibile la partecipazione a qualunque forma di violenza etnica. Riprendendo l’efficace aforisma che Philip Gourevitch ha coniato parlando del massacro dei tutsi da parte degli assassini hutu all’inizio degli anni Novanta: “Il genocidio, dopo tutto, è una pratica di costituzione della comunità”. Molto altro si potrebbe dire dell’antisemitismo nazista e del più generale progetto politico del Nazionalsocialismo. Per gli scopi di questo lavoro, il punto rilevante è che non appena il progetto della germanicità venne definito in termini etnorazziali, aprendo quindi lo spazio alla logica della purezza, una serie di minoranze divennero il bersaglio diretto della rabbia suscitata dalla purezza incompleta: omosessuali, anziani e malati, zingari e, soprattutto, ebrei. Questi ultimi vennero dipinti dalla propaganda nazista come l’incarnazione di diverse forme di minaccia sociale, politica ed economica, ma prima di tutto vennero raffigurati come un cancro, come un problema per la purezza ariana del sangue germanico, per il progetto quasi giunto a perfezione di un ethnos puro e incontaminato dal punto di vista nazionale. L’identità tedesca, per come venne attivata dal nazismo, richiedeva l’eliminazione totale degli ebrei dal corpo sociale tedesco e – dato che il nazismo aspirava a conquistare il mondo – pretendeva il loro sterminio totale e mondiale. Il progetto nazista di eliminare dalla faccia della terra diverse minoranze tra cui i disabili, gli omosessuali, gli zingari e soprattutto gli ebrei getta inoltre luce su un altro aspetto del modo in cui si attivano le identità predatrici. In questo caso, forse per la prima volta nella storia dell’umanità, vennero mobilitati nel progetto genocida due impulsi contraddittori. Il primo riguardava la dimensione meccanica, tecnologica e burocratica del piano, di cui Hannah Arendt ci ha così bene trasmesso il senso con l’espressione “banalità del male”. Ma il secondo impulso fu dato dalle umiliazioni, dagli abusi e dalle terrificanti violenze intime inflitte dai soldati tedeschi, dai coscritti, dalle guardie dei campi, dalle truppe irregolari e dai comuni cittadini ad ogni livello e in qualunque contesto della Soluzione Finale. È questa

l’intimità contraddittoria prodotta dalle identità predatrici. Una possibile interpretazione di questa contraddizione ci dice che ridurre in condizioni subumane le popolazioni vittime di persecuzione facilita la realizzazione dello sterminio, dato che crea distanza tra vittime e carnefici e produce nel suo farsi la prova della tesi ideologica secondo cui le vittime sarebbe subumane, parassiti, insetti, feccia, spazzatura, e quindi un’appendice cancerosa del prezioso corpo nazionale. Ma si può ipotizzare un’interpretazione diversa per le umiliazioni che spesso accompagnano i casi di violenza etnocida di larga scala. Avanzo l’ipotesi che sia proprio la ristrettezza dello scarto che separa la totalità nazionale dalla presenza della minoranza che produce l’ansia da incompletezza e crea la frustrazione e il furore che suscitano quelle forme di umiliazione più sconvolgenti, dalla Germania nazista al Ruanda, dal Kosovo a Mumbai. Anche in questo caso siamo costretti a rivedere alcune riflessioni sul “narcisismo delle piccole differenze”, sul quale tornerò alla fine. Il nazismo potrebbe sembrare un caso estremo, che ha ben poco in comune con le forme recenti del maggioritarismo liberale come quelle dell’India, del Pakistan, della Gran Bretagna o della Norvegia (per nominarne alcuni), tutti casi ben più aperti verso la differenza sociale di quanto non lo fossero i nazisti. L’ideologia Hindutva in India, ad esempio, o l’ideologia dei “figli della terra” in Malesia, o diverse ideologie della cittadinanza in Europa, potrebbero quindi essere considerate come forme di maggioritarismo liberale, un maggioritarismo cioè che cerca di essere inclusivo. Ma davvero questi maggioritarismi sono sostanzialmente diversi da quelli più “totalitari”, del tipo di quello nazista attivo in Germania negli anni Trenta e Quaranta? Io sostengo che tutti i maggioritarismi recano in sé il seme del genocidio, dato che tutti sono invariabilmente collegati a qualche concezione dell’ethnos nazionale come univoco e orientato alla completezza. La questione spinosa da risolvere è stabilire come e a quali condizioni i maggioritarismi liberali possano trasformarsi in illiberali e potenzialmente genocidi. Quando l’incompleta purezza nazionale si presta a essere tradotta e attivata politicamente ai fini della costruzione di un’identità predatrice? Ci sono due modi principali per rispondere a queste domande senza entrare nel complesso dettaglio di una casistica accurata fatta di condizioni e comparazioni. Il

primo consiste nel suggerire che il pensiero liberale soffra di una sostanziale ambiguità riguardo la legittimità delle collettività come soggetti politici e, di conseguenza, sia sempre incline a essere manipolato con argomenti di natura qualitativa che si travestono da considerazioni di tipo quantitativo. Questo è il filone di indagine che intendo sondare nelle pagine seguenti. Il secondo approccio è costituito da un tentativo di risposta su basi storiche, volto a individuare le condizioni per cui una purezza incompleta diviene la miccia del genocidio. Gli ingredienti storici di questa trasformazione, o perlomeno le sue caratteristiche salienti, sembrano includere i seguenti aspetti: la presa del potere statale da parte di partiti o altri gruppi che hanno investito massicciamente su qualche tipo di ideologia nazionalista connotata in senso razziale; la disponibilità di strumenti e tecniche di rilevazione statistica che facilitano la delimitazione di “comunità enumerate” come paradigmi dell’idea stessa di comunità tout court; la percezione di una certa inadeguatezza dei confini politici rispetto alla disposizione delle popolazioni (migranti o stanziali), che suscita nuove forme di preoccupata attenzione per i sodali etnici esclusi dall’ecumene politico-nazionale o per gli stranieri che pretendono di affratellarsi; e una riuscita campagna allarmistica rivolta alle maggioranze numeriche, che le convince di essere a rischio di estinzione per colpa di qualche minoranza che sa come far uso a proprio vantaggio della legge (e dell’intero apparato della politica liberaldemocratica). A questi elementi, la globalizzazione aggiunge la sua energia specifica, come discuterò nelle conclusioni. Questo insieme di fattori non pretende di essere esaustivo, ma vuole suggerire che il progetto nazista fu forse eccezionale in quanto a coerenza e estensione della sua immaginazione genocida, ma in quanto ideologia del maggioritarismo divenuto predatore non ci consente di sostenere con certezza che il liberalismo sia immune dalle condizioni che provocano i genocidi di stampo maggioritario. L’India dell’ultimo ventennio è un caso evidente di questa eventualità. L’esempio del nazismo certamente ci spinge a verificare come si formino le identità predatrici, e ad ammettere al contempo la meccanicità e parzialità della teoria riflessiva dell’“altro”, in cui un capro espiatorio (spesso qualche minoranza) è considerato come un

requisito funzionale per la costruzione del senso di appartenenza a un “noi”. L’attivazione di questo sentimento, soprattutto in quella variante forte che ho chiamato “predatrice”, dipende dalla tensione tra due idee: quella della sacra totalità del demos nazionale e quella statistica di maggioranza. Il maggioritarismo prospera lì dove le maggioranze si lasciano conquistare dalla fantasia delirante della purezza nazionale, in quella zona dove la quantità incontra – senza definirla completamente – la qualità. Questo punto rivela un’ulteriore dimensione del problema dei piccoli numeri, che possiamo definire come il legame tra numero, quantità e voce politica. Il numero nell’immaginazione liberale I numeri occupano uno spazio ambivalente nella teoria sociale liberale e il rapporto tra numeri e categorie costituisce oggi il nervo scoperto di alcune delle frizioni più evidenti tra teoria sociale liberale e norme democratiche. La questione delle maggioranze entro i moderni Stati nazionali ci consente di esaminare queste frizioni in modo produttivo. Da un certo punto di vista, il numero fondamentale per la teoria sociale liberale è l’uno, “1”, che è il segno numerico dell’individuo. Nella misura in cui l’individuo si colloca al centro normativo del liberalismo e costituisce il terreno comune tra sue versioni alternative, il numero “1” possiede diverse proprietà interessanti per i matematici, ma per la teoria sociale liberale è in un certo qual modo l’unico numero importante oltre lo zero. Il numero zero è quasi altrettanto importante, perché è la chiave che consente di moltiplicare i numeri interi in centinaia, migliaia, milioni e così via. Detto altrimenti, lo zero rappresenta la chiave numerica dell’idea di “masse”, che è una delle categorie attorno alle quali il pensiero liberale e quello democratico prendono strade diverse. Una citazione di Lenin (che riprendo da Social Science Quotations, di Merton e Sills) può chiarire il punto: “La politica esiste dove ci sono le masse. Non a migliaia, ma a milioni: è lì che la politica inizia seriamente”. Gran parte del pensiero liberale concepisce i gruppi di vaste dimensioni come aggregati di individui (cioè di infinite combinazioni del numero uno). Una porzione rilevante della tradizione utilitarista del pensiero liberale, da Bentham a Rawls, cerca di concepire la vita collettiva in quanto organizzata attorno a forme aggregative di

selezione delle decisioni che privilegiano l’individuo, o un numero di persone non maggiore di uno. In questo modo, il pensiero liberale (inteso come teoria della rappresentazione, del bene collettivo e delle scienze sociali) immagina gli aggregati di individui come costituiti dalla somma di grandi agglomerati di “1”. Detto altrimenti, la comparsa delle collettività, secondo le prospettive dominanti del pensiero liberale, si deve all’aggregazione di interessi e attori singoli, che cercano di trovare una soluzione al fatto che sono obbligati a interagire tra di loro. Com’è ovvio, questa non è altro che una riformulazione delle tipiche qualificazioni del modello del mercato dell’economia neoclassica e delle concezioni della vita collettiva che ne sono alla base. In questo senso, il pensiero liberale concepisce le collettività come forme sociali di cui è sempre possibile inferire logica, motivazioni e dinamiche applicando qualche metodo per comprendere l’aggregazione di individui con specifici interessi. Per il pensiero liberale, fin dai suoi esordi, l’aspetto critico della democrazia è costituito dall’eventualità che possa favorire la legittimità politica dei grandi numeri. Il nettissimo contrasto tra le “persone” e le “masse” si articola nel pensiero liberale attorno a quel che succede al numero uno quando gli si affiancano molti zeri. L’idea di “masse” (come nel classico saggio di Ortega y Gasset La ribellione delle masse) si associa nel pensiero liberale ai grandi numeri che hanno perduto la razionalità insita nell’individuo, nel numero “1”. Le masse sono quindi concepite inevitabilmente come la base e il prodotto del fascismo e del totalitarismo, sia in quanto composte da non individui (o individui che hanno perso la capacità intellettuale di perseguire i loro interessi razionali), sia in quanto collettività orchestrate da forze esterne, come uno Stato, un dittatore o un mito non prodotto dall’interazione decisionale tra individui. La citazione da Lenin coglie esattamente quel che il pensiero liberale più teme a proposito dei grandi numeri. È a causa di questa potenziale affinità tra grandi numeri e ascesa delle masse che il pensiero liberale si caratterizza generalmente per la paura dei grandi numeri. Ma se tutto questo sembra chiaro da comprendere, da dove giunge la paura del piccoli numeri? A parte il caso speciale del numero “1”, i piccoli numeri sono problematici entro il pensiero sociale liberale per una serie di ragioni. Per prima cosa, sono associati agli oligopoli, alle élite e alle tirannie.

Suggeriscono l’eventualità di quella che oggi si chiama “intercettazione elitaria” (elite capture) delle risorse, dei privilegi e della stessa capacità di mediare. I piccoli numeri destano sospetto anche perché segnalano il rischio di complotto, cellule, spie, traditori, dissidenti e rivoluzionari. Fanno spazio all’intrusione del privato nella sfera pubblica, e con ciò ai susseguenti pericoli di nepotismo, collusione, sovversione e occultamento della verità. Nutrono in sé un potenziale di segretezza e riservatezza, pratiche orripilanti per gli ideali di chiarezza pubblica e trasparenza che sono vitali per la concezione liberale della comunicazione razionale e della deliberazione pubblica. Più in generale, i piccoli numeri recano sempre con sé il rischio di quelli che il gergo liberale negli Stati Uniti definisce “interessi particolari”, e quindi minacciano quell’idea di “interesse generale” che si crede venga meglio servita quando gli individui decidono e contrattano con tutti gli altri individui della società attraverso qualche chiaro meccanismo di rappresentazione. Le minoranze sono l’unico caso evidente di piccoli numeri che suscitano simpatia invece di sospetto nell’immaginazione liberale, e ciò è dovuto al fatto che incarnano quell’esiguità numerica di cui il caso principe è il numero uno, l’individuo. Così, non appena il pensiero liberale si salda intimamente alla democrazia elettorale e a procedure legislative di tipo deliberativo, l’idea di minoranza acquisisce una notevole valenza, come nel caso della grande attenzione prestata alle opinioni delle minoranze da parte della Corte Suprema degli Stati Uniti. In effetti, dal punto di vista politico l’idea di minoranza si radica storicamente entro una concezione procedurale, e non etica o culturale, dato che riguardava le opinioni dissenzienti nei contesti deliberativi o legislativi di un consesso democratico. Nella storia del pensiero liberale, quindi, l’interesse attivo per le minoranze e le loro opinioni dipende in gran parte dall’idea di dissenso, e molto poco da quella di differenza. Questa distinzione è essenziale per comprendere l’attuale timore verso le minoranze, e ha bisogno di un’analisi particolareggiata. Dissenso e differenza nelle società contemporane Inizialmente, il valore positivo attribuito alle minoranze nel pensiero liberale occidentale era di natura essenzialmente procedurale.

Riguardava il rispetto per il dibattito razionale, il diritto al dissenso, il valore di quest’ultimo come segno del più generale valore della libertà di parola e di opinione, e la libertà di esprimere opinioni dissenzienti su questioni di rilevanza pubblica senza temere ritorsioni. La Costituzione degli Stati Uniti è forse il documento più rappresentativo per esaminare l’importanza del dissenso per l’idea stessa di libertà. Ma se non poniamo la dovuta attenzione, rischiamo di rovesciare il corso degli eventi e far derivare uno sviluppo relativamente recente, che possiamo chiamare dissenso “sostanziale” (per esempio, il diritto di esprimere anche opinioni mostruose dal punto di vista morale, o il diritto di criticare la politica statale, o di mettere in discussione le opinioni religiose della maggioranza) da quel che potremmo chiamare dissenso “procedurale”, che costituisce il contesto originale di sviluppo del valore positivo attribuito alle minoranze, e specialmente all’opinione di minoranza. In questo contesto la parola chiave è opinione, dato che le minoranze procedurali non sono culturali o sociali, ma minoranze temporanee, solo a causa e in ragione di un’opinione. Le minoranze sociali e culturali, quelle che potremmo definire sostanziali, sono invece di tipo permanente, minoranze che sono divenute sociali, e non più solo procedurali. Se guardiamo alla storia del diritto occidentale moderno, vedremo che le idee sulle minoranze hanno raggiunto la loro piena connotazione liberale in buona misura dopo la nascita delle Nazioni Unite e nelle varie conferenze sui diritti umani tenutesi dopo quella data. Ovviamente, erano state elaborate idee frammentarie sulla protezione delle minoranze già prima della fondazione delle Nazioni Unite, ma è stato solo nella seconda metà del XX secolo – quando i diritti umani divennero la principale moneta di scambio negli accordi internazionali sui diritti basilari del genere umano – che le minoranze sociali sostanziali divennero oggetto di enorme attenzione dal punto di vista costituzionale e politico in molte democrazie del mondo. I diritti delle minoranze, considerati alla luce della più vasta tematica dei diritti umani, hanno acquisito in quel periodo una diffusa credibilità e, in molti contesti nazionali differenti, hanno costituito la base per le grandi lotte giuridiche e costituzionali sui temi della cittadinanza, della giustizia, della partecipazione politica e dell’eguaglianza.

Questo processo, per cui le minoranze sociali e culturali hanno finito per essere universalmente considerate portatrici di diritti effettivi o potenziali, nasconde un trasferimento (largamente imprevisto e ben poco analizzato) di valore normativo dalle minoranze procedurali di tipo temporaneo alle minoranze sostanziali, che spesso divengono collettività sociali e culturali di tipo permanente. Questa riallocazione imprevista dell’intento liberale di proteggere le opinioni delle minoranze procedurali (come quelle che si manifestano nelle corti, nei concili, nei Parlamenti e in altri corpi deliberativi), che si è trasformato nei diritti di minoranze culturali permanenti, è una delle ragioni principali dell’attuale profonda ambivalenza nei confronti delle minoranze che si evidenzia nelle più diverse democrazie. I molteplici dibattiti sul multiculturalismo negli Stati Uniti e in Europa, sulle “nazionalità” subordinate in molte aree dell’ex Unione Sovietica, sul “secolarismo” in India, sui “figli della terra” in molti paesi dell’Asia, sull’“autoctonia” in molte regioni dell’Africa, e sui diritti dei “popoli indigeni” in tutta l’America latina e in aree distanti tra loro come la Nuova Zelanda, il Canada, l’Australia e Hawaii, sono diversi per molti aspetti, ma hanno in comune l’attenzione per i diritti delle minoranze culturali in rapporto agli stati nazionali e a varie maggioranze culturali, e implicano sempre qualche forma di battaglia sui diritti culturali quando si rapportano ai temi dell’appartenenza e della cittadinanza in senso nazionale. In molti casi, queste battaglie sono in rapporto diretto con l’emergere di identità etniche predatrici e con i susseguenti sforzi di coinvolgere le maggioranze in progetti di pulizia etnica o di etnocidio. I conflitti di questo tipo sono incrementati nel corso degli anni Ottanta e Novanta, durante i quali molti Stati nazionali hanno dovuto affrontare una duplice pressione: quella ad “aprire” i mercati agli investimenti, ai beni e alle immagini provenienti dall’esterno; e la pressione a gestire la capacità delle minoranze culturali interne di usare il linguaggio globalizzato dei diritti umani per sostenere le loro richieste di rispetto e riconoscimento culturale. Questa duplice pressione ha suscitato in molti paesi una percezione critica dei confini nazionali, della sovranità e della purezza dell’ethnos nazionale, ed è direttamente responsabile della crescita dei razzismi maggioritari in paesi diversi tra loro come la Svezia e l’Indonesia, per non parlare della Romania, del Ruanda o

dell’India. Tornerò nelle conclusioni su queste interconnessioni tra globalizzazione e furia violenta contro le minoranze. Musulmani in India: indulgenza e purezza Il caso dell’India è particolarmente indicativo per la riflessione analitica su minoranze sostanziali e procedurali che cerco di sviluppare. Lo Stato nazionale indiano si costituì nel 1947 con una Partizione politica che produsse, come altra entità statale, il Pakistan, concepito come un rifugio politico per i musulmani che vivevano entro i confini dell’Impero Indiano Britannico. La storia della Partizione ha prodotto una letteratura vastissima e contrastata, che sonda gli aspetti politici della sua realizzazione e la curiosa geografia che ne derivò, con il Pakistan Occidentale e quello Orientale inframezzati dall’India dal 1947 al 1973, quando il Pakistan Orientale realizzò la sua secessione, dando vita al Bangladesh, una nuova nazione posta sul confine orientale indiano. Non affronterò qui gli aspetti politici della questione, tranne che per evidenziare come tutto ciò abbia prodotto uno stato di guerra permanente tra India e Pakistan, sollevando la disputa apparentemente senza soluzione per il Kashmir, concedendo inoltre un alibi all’identificazione dei cittadini indiani di religione musulmana con il principale nemico dell’India oltre confine, e cioè il Pakistan, e ponendo infine le basi per l’attuale crisi indiana attorno alla questione del “secolarismo”. La storia di questa crisi è troppo complessa per essere riassunta in queste pagine. Basti dire in proposito che se da un lato l’induismo, tramite i suoi referenti politici, si era evoluto in una vera politica culturale nel corso del XIX e XX secolo, la nascita del Pakistan creò un nuovo legame tra la rappresentazione indù del senso del “noi”, l’interesse costituzionale per i diritti delle minoranze e l’ascesa di una potente coalizione politica indù alle redini del paese nel corso degli anni Novanta. Questa coalizione, formata da partiti politici e da diversi movimenti sociali affiliati (a volte chiamata Sangh Parivar) si è sviluppata con una tempistica praticamente parallela alle fasi dell’esposizione indiana alle pressioni della globalizzazione, e ha avuto come eventi focali due tra i più terribili massacri perpetrati contro i musulmani dell’India fin dai tempi degli scontri feroci che sfociarono nella Partizione: si tratta della distruzione del 1992 di Babri Masjid, la moschea musulmana di Ayodhya, nell’India settentrionale,

preceduta e seguita da un’ondata di furia etnocida contro le popolazioni musulmane in tutta l’India; e il sanguinoso pogrom lanciato conto i musulmani nello Stato del Gujarat nel 2002. Il decennio segnato agli estremi da questi due eventi ha visto inoltre il consolidamento nazionale di una corposa opinione pubblica indiana (che comprende anche gli esponenti colti della sua classe borghese, un tempo di orientamento liberale) contraria alle concezioni inclusive, pluraliste e secolariste tipiche della costituzione indiana e di Nehru, il suo primo, e più carismatico, primo ministro. A sostituzione di queste concezioni, la coalizione di movimenti e partiti guidata dal Partito Popolare Indiano (Bharatiya Janata Party, BJP) è riuscita a imporre un legame profondo tra il ricordo delle umiliazioni subite dagli indù per mano dei reggenti musulmani dell’India precoloniale, il dubbio amor di patria dei cittadini indiani di religione musulmana, la risaputa intenzione del Pakistan di distruggere l’India dal punto di vista militare e il diffondersi di azioni militanti condotte da terroristi musulmani che sostengono le aspirazioni anti-indiane nello Stato conteso del Kashmir. La stampa e la pubblicistica scientifica hanno dedicato molta attenzione a questa situazione in cui la più grande democrazia del mondo, figlia di una costituzione che presta particolare cura all’inclusione religiosa e alla tolleranza laica per la differenza di fede, e che in generale offre notevoli garanzie di protezione per i “settori più deboli” della società, possa essersi trasformata, nel corso di quattro decenni, in una società che esprime e inculca l’appartenenza religiosa indù in modo aggressivo, guidata da un partito ferocemente nazionalista, che cerca ripetutamente e sistematicamente di identificare l’India con gli indù e il patriottismo con l’Hindutva (“l’essere indù”). Questa specifica evoluzione del caso indiano inquadra il tema della paura per le minoranze in una prospettiva che vale la pena di essere analizzata ulteriormente. Per poter proseguire la mia argomentazione, ho bisogno di riconoscere una cesura storica ben precisa nella sequenza degli eventi politici. Tra la stesura della prima versione di questo capitolo (nell’ottobre 2003) e la presente revisione (agosto 2004) in India è accaduto un evento elettorale di portata eccezionale, oltre che del tutto inaspettato. La coalizione induista di destra, guidata dal BJP, è

stata sonoramente sconfitta alle ultime elezioni, cedendo il potere a una nuova coalizione retta dal Partito del Congresso dei seguaci di Nehru. Questa straordinaria rivoluzione democratica – che non è la prima nella storia dell’India indipendente – ha lasciato esterrefatti anche i più navigati esperti di analisi politica, in modo simile a quel che successe con il crollo dell’Unione Sovietica nel 1989. Per quanto il senso pieno di questo enorme mutamento debba ancora essere elaborato dagli specialisti, gli analisti concordano in generale sul fatto che la disfatta della coalizione del BJP veicoli due messaggi: il primo è che l’elettorato indiano (rurale e urbano senza distinzioni) non ne poteva più della retorica dell’Hindutva e non la considerava più un valido sostituto per la carenza di pianificazione e progettazione politica sui temi dell’economia e della politica ordinaria a livello locale; il secondo è che la metà inferiore dell’elettorato indiano (di nuovo, rurale e urbano) era soprattutto stanca di vedere i benefici della globalizzazione accentrarsi nelle mani di un piccolo gruppo che armeggia tra corruzione politica e lusso elitario, senza ricavarne per sé alcun beneficio. In altre parole, la globalizzazione senza freni e la cinica mobilitazione antimusulmana non costituivano più una piattaforma solida per una coalizione nazionale. Assistiamo quindi in questo periodo alla nascita di una nuova fase della politica indiana, in cui il Partito del Congresso e i suoi alleati devono muoversi con cautela tra giustizia politica e mercati globali, tra politiche locali basate sul sistema delle caste e una politica di più ampie dimensioni, postetnica e pluralista. Il verdetto sul nuovo regime politico deve ancora farsi attendere. Rimane comunque indispensabile chiedersi perché molti partiti politici indiani, una parte consistente della popolazione e un numero sconvolgente di intellettuali un tempo cosmopoliti e liberali abbiano accettato di buon grado la retorica dell’Hindutva tra il 1985 e il 2004, un periodo che copre praticamente un terzo della storia dell’India indipendente. Non si tratta di un quesito meramente storico o accademico. Le forze del maggioritarismo indù non sono scomparse di punto in bianco, e i suoi metodi, i suoi valori e le sue tecniche sono ancora ben vive nella pratica sociale indiana. Siamo in una fase di remissione, ma per poter essere certi che l’induizzazione della politica

indiana rimanga un ricordo abbiamo bisogno di pensare al ventennio appena concluso con tutta l’intensità di cui siamo capaci. L’ascesa della destra indù come coalizione politica maggiore e maggioritaria dell’India, e la sua capacità negli anni Ottanta di attrarre le simpatie del senso comune nazionale, dopo decenni in cui era sopravvissuta come un coacervo frammentario e marginale di movimenti politici, sono legate a quattro sviluppi principali della questione dei numeri e delle minoranze. Ognuno di questi sviluppi può suggerire parallelismi istruttivi con altre nazioni e con altri contesti. Il primo sviluppo riguarda quelle minoranze che sono collegate ai movimenti, alle identità e alle reti globali. I musulmani dell’India hanno sempre dovuto subire l’accusa di orientare la loro fedeltà più verso il mondo musulmano in generale che verso l’India, e i loro supposti legami con il Pakistan (spesso vivacemente negati dai musulmani indiani) sono sempre stati letti nel quadro delle risorse e delle aspirazioni politiche dell’Islam globale. Durante gli anni Ottanta la destra indù indiana era particolarmente attenta al flusso di risorse che si muoveva dal Medio Oriente musulmano verso le istituzioni religiose e scolastiche indiane, sostenendo che questa forma di sussidio dei musulmani indiani dovesse essere controllata e contenuta, e che giustificasse la controversa pratica delle riconversioni messa in atto dalla destra indù soprattutto tra le popolazioni rurali e tribali più povere, che sarebbero state convertite con l’inganno dalle forze dell’Islam globale. Queste pratiche di ri-conversione furono applicate anche alle comunità cristiane dell’India, e sono tuttora una base sostanziale della violenza collettiva e della strategia politica della destra indù. Quando iniziò a prendere forma negli anni Ottanta, questa battaglia per le conversioni faceva costantemente riferimento alle dimensioni, alla forza e all’influenza degli interessi dei poteri islamici globali, considerati la testa di ponte occultata nei numeri relativamente modesti dei musulmani presenti nelle comunità indiane. Così, per dirla tutta, il numero sostanzialmente piccolo dei musulmani in India veniva considerato come una maschera del numero enorme di musulmani nel mondo. Oggi questa raffigurazione dell’Islam come militante e transnazionale è divenuta del tutto scontata nel discorso attorno al terrorismo, soprattutto dopo gli attentati dell’11 settembre.

Nel caso indiano, questa raffigurazione dei musulmani indiani come strumenti (e oggetti) dei movimenti islamici globali (solitamente rappresentati come violenti, anti-nazionali e antiindù) è stata rafforzata dal costante impegno dei musulmani dell’India nell’intraprendere il Haj (il pellegrinaggio rituale alla Mecca, considerato come una pratica di devozione che ogni buon musulmano dovrebbe compiere almeno una volta nella vita) e dal crescente movimento, a partire dagli anni Ottanta, di lavoratori indiani (di tutti i generi e di tutte le classi sociali) verso gli emirati petroliferi del Medio Oriente, in particolare verso Arabia Saudita, Dubai, Kuwait e Bahrain. Tra gli emigranti verso l’area del Golfo vi è stato un numero significativo di indiani musulmani, anche se non ci sono prove che le loro motivazioni fossero diverse da quelle di ordine strettamente economico. Tuttavia, il traffico tra India e Golfo Persico è diventato oggetto di una profonda preoccupazione di ordine morale e politico, che si è espressa in innovazioni burocratiche come la creazione dell’ufficio del “Protettore degli emigranti”, un’agenzia governativa concepita per garantire che lo spostamento dei lavoratori indiani nel Golfo non sia finalizzato a scopi immorali o illeciti. Con un sussulto morale di natura simile, si è prestata notevole attenzione alla pratica in aumento dei matrimoni combinati tra arabi ricchi dei paesi del Golfo (spesso avanti con gli anni) e donne musulmane (spesso molto giovani) provenienti dalle famiglie meno abbienti delle comunità musulmane impoverite di città come Hyderabad, Lucknow e Agra. L’immagine del maschio musulmano depravato e poliginico che mette gli occhi sulla comunità già alquanto sfruttata delle donne musulmane ha fatto il giro della stampa popolare ed è apparsa anche in pellicole commerciali come Baazaar, intese proprio a dare corpo ai peggiori stereotipi di questo mercato dei matrimoni. È molto probabile che queste rappresentazioni commerciali e popolari della degradazione delle povere donne indiane da parte del denaro e di arabi decadenti abbia costituito il terreno di coltura per la famosa controversia legale riguardo una donna musulmana di nome Shah Bano, che ha citato in giudizio il marito chiedendo gli alimenti dopo che lui aveva divorziato abbandonandola, secondo la “legge personale” musulmana (cioè un sottogruppo del corpus di leggi speciali applicabili a diversi aspetti della vita familiare e civile per differenti comunità religiose in India). Il caso Shah Bano, che è

divenuto uno dei casi giudiziari più noti dell’India dopo l’indipendenza, ha visto contrapporsi lo Stato al sistema giudiziario, gli indù ai musulmani, le femministe a se stesse, e i secolaristi ai tradizionalisti, creando inoltre una profonda e dannosa opposizione tra gli interessi delle donne e quelli delle minoranze (dato che la richiesta di Shah Bano contraddiceva le leggi del diritto famigliare tradizionale della sua comunità). Il caso giunse in sostanza a minare la stabilità del regime di Rajiv Gandhi, allora primo ministro, che rappresentava la tradizione nehruviana, laica ed equa nei confronti di tutte le comunità religiose. La destra indù, guidata da un BJP allora in ascesa, sfruttò al massimo il caso Shah Bano, presentandosi come la vera protettrice della bistrattata donna musulmana, e addirittura dei diritti delle donne in generale, approfittando dell’attenzione dell’opinione pubblica per veicolare indiscriminatamente messaggi pesantissimi sul potere autoritario della comunità musulmana nei confronti della sua componente femminile e sulla generale immoralità sessuale e irresponsabilità degli uomini musulmani. Il caso alla fine si risolse in una serie di compromessi legali e politici, ma instillò un dubbio sostanziale sui benefici del secolarismo, offrendo addirittura l’opportunità di sostenere l’assurda idea che la destra indù fosse in assoluto la miglior protettrice dei diritti delle donne. Il processo pose inoltre le premesse al dibattito – tuttora in corso – sull’opportunità di un Codice Civile Uniforme (Uniform Civile Code, UCC), oggi considerato improponibile dalla maggioranza dei partiti politici e delle associazioni di donne progressiste, ma che è invece fortemente voluto dalla destra indù, dato che costituirebbe uno strumento essenziale per induizzare le leggi personali di tutte le minoranze. Il caso Shah Bano evidenzia prima di tutto i modi in cui le dispute che riguardano le minoranze, in una complessa democrazia multireligiosa come l’India, possono innescare dibattiti sostanziali sulla disuguaglianza sessuale, sull’equità, la legalità, i limiti del potere statale e la capacità delle comunità religiose di gestirsi autonomamente. Il punto essenziale è che i piccoli numeri possono scatenare grandi questioni, soprattutto in paesi come l’India, dove i diritti delle minoranze sono legati direttamente ai dibattiti più generali sul ruolo dello Stato, i limiti della religione e la natura dei diritti civili come oggetti di legittima differenziazione culturale. In un contesto

sostanzialmente diverso, la lunga storia indiana di azioni legali e processi sul tema della discriminazione positiva (affirmative action) o della legislazione compensativa nel quadro delle caste registrate ha prodotto i noti sommovimenti nazionali sul Rapporto della Commissione Mandal del 1980, che cercava di rendere incisiva una politica di selezione privilegiata dei posti di lavoro per i membri delle caste considerate vittime storiche della discriminazione. La destra indù riconobbe i rischi impliciti nell’ascesa sociale delle caste inferiori – rischi già segnalati dal Rapporto – e si accinse a sfruttare a suo vantaggio il risentimento delle caste superiori indù, che si sentivano minacciate dalle aspirazioni politiche dei loro correligionari di casta inferiore. Molti studiosi hanno posto in evidenza il fatto che la destra indù, nel corso degli anni Ottanta, ha mobilitato la politica di Babri Masjid (cioè contro le moschee) contro quella della Commissione Mandal (cioè la battaglia interna al mondo indù sui posti di lavoro riservati alle caste inferiori). È stato inoltre rilevato che lo sforzo di creare un fronte unificato delle caste indù in opposizione alle lotte di casta sollevate dal Rapporto Mandal fece sì che la minoranza musulmana venisse concepita come un perfetto “altro” nel percorso di mobilitazione di una maggioranza indù. Ancora più rilevante per la questione numerica che stiamo affrontando è l’osservazione di Amrita Basu, insigne studiosa della politica della violenza tra comunità religiose nell’India settentrionale. La ricercatrice ha fatto notare che l’idea di una maggioranza indù di fatto occulta la minoranza numerica di cui dispone la fascia superiore, un raggruppamento di caste indù terriere che hanno molto di più da temere dall’ascesa delle caste inferiori che non dai musulmani delle loro regioni di insediamento (Basu 1994). Se si colloca questo timore specifico nel contesto della generale politicizzazione e mobilitazione delle caste inferiori nella sfera pubblica indiana complessiva – movimento che costituisce certamente la maggiore trasformazione del panorama politico indiano dell’ultimo cinquantennio (Jaffrelot 2003) – ci si rende conto che la paura dei piccoli numeri viene declinata in modo peculiare dalla minoranza interna alla maggioranza, che in realtà risulta essere la maggior beneficiaria di una legittimazione della finzione culturale di una maggioranza indù. Il fatto è quindi che l’idea di “maggioranza indù” costituisce una

finzione nell’India odierna per un duplice motivo. Per prima cosa la categoria “indù” non sarebbe concepibile nella politica attuale se non fosse stata prodotta dalle etnografie coloniali e dalle categorie dei censimenti. In secondo luogo, la profonda divisione tra caste superiori e inferiori, un tratto comune e costante dell’India agraria, è finita per diventare una delle principali linee di cesura nella politica dell’India settentrionale degli ultimi due decenni. Di conseguenza, si può dimostrare che la maggioranza indù è un progetto, non un dato di fatto, e come tutte le categorizzazioni su base razziale, e come tutte le identità “predatrici”, ha bisogno di essere attivata attraverso l’appello a uno stato di crisi e attraverso pratiche violente. L’esistenza di minoranze come quella musulmana è un aspetto importante di queste crisi e di queste pratiche ma, come ho già sostenuto, non si tratta di una semplice relazione contrastiva e reciprocamente stereotipizzante. Il rapporto tra la politica indù delle caste e la propaganda antimusulmana della destra indù si intreccia inoltre, soprattutto durante gli anni Ottanta, con un aspetto che ha caratterizzato la politica elettorale indiana sin dall’indipendenza, aspetto cui ci si riferisce con l’espressione “banca di voti”. Soprattutto a livello rurale e locale, le elezioni indiane sono spesso considerate una lotta che ruota attorno alla capacità di questo o quel partito o candidato di conquistare l’intero bacino di voti disponibili presso una specifica casta o comunità religiosa, bacino che i politici acquistano direttamente dalle rispettive élite e che costituisce la vera e propria “banca di voti”. Unendo in sé l’idea di competizione elettorale collettivizzata e manipolata dai gruppi egemoni e quella di voto corrotto, l’immagine della banca di voti – usata come accusa che tutti i politici indiani si rinfacciano con estrema leggerezza – riassume la storia profonda dei legami tra i censimenti e le concezioni coloniali britanniche di “comunità” ed “elettorato”, tragicamente istituzionalizzate negli elettorati separati creati all’inizio del XX secolo per gli indù e i musulmani nelle elezioni locali che si tenevano sotto il governo coloniale. Queste “comunità enumerate” (Kaviraj 1993) costituiscono tuttora un vero incubo per il pensiero liberale indiano, dato che incarnano sia l’orrore liberale per la politica delle masse e le sue speciali forme di corruzione, sia le conseguenze deleterie dei legami parentali e di

affiliazione forzata in una democrazia votata alla modernizzazione. Attualmente, l’importanza delle banche di voti viene messa almeno parzialmente in discussione dalla forza crescente dei movimenti indipendenti di base, che resistono alle grossolane manipolazioni dei politici e al cinismo con cui questi fanno e disfano le loro alleanze. Tuttavia, la destra indù non ha mai perso occasione di sollevare lo spettro della banca di voti musulmani, spesso accusando il suo maggior rivale, cioè il Partito del Congresso recente vincitore, di assecondare le richieste dei musulmani nel tentativo di conquistarne la banca di voti nelle competizioni elettorali locali e, di conseguenza, nelle elezioni statali e nazionali. La sorprendente sconfitta del BJP nella recente tornata elettorale ha dimostrato come questo spauracchio non sia più sufficiente per guadagnarsi la fiducia dell’elettorato indiano a maggioranza rurale. Questo punto ci conduce al quarto e ultimo tratto specifico della paura delle minoranze in India, tratto che ha implicazioni alquanto estese. La destra indù, soprattutto tramite i suoi partiti politici dominanti, ha accusato insistentemente il Congresso (partito storicamente associato alla politica nehruviana di secolarismo, pluralismo e tolleranza attiva dei musulmani come minoranza culturale) di “indulgenza” verso le richieste, le lamentele e le pretese che i musulmani rivolgono alle istituzioni. Questo richiamo all’indulgenza è particolarmente interessante, perché è strettamente legato all’indebito passaggio, già discusso in precedenza, dal sentirsi maggioranza alla frustrazione dell’identificazione incompleta con l’ethnos indiviso della società. Quando la destra indù provoca i partiti e i movimenti laici con l’accusa di “essere indulgenti” verso i musulmani, l’intento è duplice: da un lato si carica il secolarismo di una buona dose di opportunismo e vigliaccheria, e dall’altro si rende plausibile l’immagine della china inarrestabile che condurrebbe dal rischio di cedere a questa o quella richiesta delle comunità musulmane locali al cedere in toto nella guerra militarizzata e ora nuclearizzata con il Pakistan, paese che in India costituisce lo sfondo generale di tutta la propaganda militante indù. Il discorso dell’indulgenza garantisce il legame tra le richieste delle minoranze entro i confini nazionali e la lotta con i nemici dello Stato oltre frontiera, in questo caso il Pakistan. L’indulgenza, quindi, è un ulteriore artificio retorico che consente di

gonfiare i piccoli numeri dei musulmani indiani imbevendoli della minaccia pachistana e, oltre questa, delle moltitudini militanti del mondo dell’Islam globale. Nel periodo immediatamente successivo agli attentati contro gli Stati Uniti dell’11 settembre, come ho sostenuto altrove in questo volume, questi collegamenti sono stati rievocati e nuovamente immaginati attraverso il prisma del terrorismo islamico globale. Per concludere mi rivolgo ora alla figura dell’attentatore suicida (nata nel corso delle lotte tra tamil e singalesi nello Sri Lanka durante gli anni Settanta) e al rapporto tra questa figura solitaria e i temi dei numeri, delle minoranze e del terrore. Quanto sono piccoli i piccoli numeri? Minoranze, diaspore e terrore L’attentatore suicida, si trovi in Israele, nello Sri Lanka, a New York o Bali, incarna la versione più tetra del valore liberale attribuito all’individuo, al numero uno. L’attentatore suicida costituisce oggi l’idealtipo del terrorista, in cui si condensano ossessioni e angosce di varia natura. Per iniziare, l’attentatore (o attentatrice) salda qualunque soluzione di continuità tra corpo e arma del terrore. Che si sia fasciato di materiale esplosivo o che abbia nascosto altrimenti le sue armi, l’attentatore suicida è un corpo deflagrante, che si promette di sparpagliare i suoi stessi frammenti e mischiarli alle membra sparse e sanguinanti delle popolazioni civili che intende sterminare. In questo modo, non solo sfugge all’identificazione ma produce anche un terribile miscuglio di sangue e corpi tra i nemici, violando così non solo il suolo della nazione ma gli stessi corpi delle vittime, infettandoli con il sangue del “martire”. In secondo luogo, l’attentatore suicida costituisce una versione rivoltante dell’idea del martire, cara al cristianesimo e all’Islam, dato che invece di essere passivo, è un martire attivo, pericoloso, esplosivo: un martire omicida. In terzo luogo, l’attentatore suicida, come l’agente che ha subito il lavaggio del cervello in Va’ e uccidi, viene sistematicamente raffigurato, alla vigilia dell’attentato suicida, in un qualche stato di convincimento paranormale, di estasi e mania, stati d’animo spesso indotti tramite tecniche di sapore religioso come l’isolamento, l’indottrinamento e l’allucinazione da droghe. Quest’immagine rappresenta l’antitesi totale dell’individuo liberale che agisce nel suo interesse, dato che l’idea di

un corpo che esplode volontariamente non rientra facilmente nella maggior parte dei modelli di scelta razionale. Quarto, l’attentatore suicida, concepito come un automa, se da un lato costituisce un esempio terrificante dell’individuo, del numero “1”, di fatto è sempre visto come un’istanza singola della folla impazzita o della massa, vittima della propaganda e di convinzioni irrazionali, un esempio perfetto di come le masse possano essere irreggimentate, e della pericolosa imprevedibilità della folla. Con tutte queste specificazioni, l’attentatore suicida è la forma pura e più astratta del terrorista, e in questo senso riesce anche a cogliere alcuni dei timori essenziali che circondano il terrorismo. In quanto figura che deve necessariamente avvicinarsi al luogo dell’attacco fingendo d’essere un normale cittadino, l’attentatore suicida porta all’estremo il problema dell’incertezza che ho esplorato nel secondo capitolo. In un caso accaduto in Israele, un attentatore suicida si è travestito da rabbino, ribaltando quindi il nucleo centrale dell’ordine morale visibile della società ebraica israeliana. Parallelamente, gli attentatori suicidi prosperano negli interstizi della guerra civile, producendo così una forma di emergenza permanente che richiede inoltre un nuovo approccio alla questione dei civili e della vita civile nell’epoca del terrorismo globalizzato. Questo ci conduce a un aspetto ulteriore del problema dei piccoli numeri in un’epoca di reti terroristiche mondiali, come quella che abbiamo finito per conoscere dopo l’11 settembre 2001. Piccoli numeri e reti globali Gli eventi dell’11 settembre sono ora abbastanza lontani, per noi che prendiamo parte alla sfera pubblica statunitense, che possiamo iniziare a soppesare la xenofobia, la tempesta emotiva e lo sgomento prodotti dalla distruzione delle Torri Gemelle, per riflettere con più cognizione di causa sulle immagini più persistenti di quell’evento, ora da valutare attraverso il cupo filtro della guerra irachena. Saddam Hussein è stato trovato dopo mesi dall’inizio delle ostilità, Osama bin Laden è quasi sicuramente vivo, i talebani si stanno riorganizzando in Afghanistan e in Pakistan, numerosi signori della guerra tengono l’Afghanistan in un profondo stato di dipendenza economica e militare dal denaro estero. Sembra che gli iracheni, soggiogati inizialmente dalla campagna shock and awe, siano arrivati a odiare gli americani

quanto odiavano Saddam, e le armi di distruzione di massa sembrano essere state solo un alibi per le armi di costruzione delle masse, in gran parte nelle mani di Bechtel e Halliburton. Sia in Afghanistan sia in Iraq (ma soprattutto in quest’ultimo paese) gli Stati Uniti sembrano praticare in via sperimentale una nuova forma politica, che potremmo chiamare “democrazia a lunga distanza”, uno strano tipo di federalismo imperiale per cui l’Iraq viene trattato come fosse il cinquantaduesimo Stato dell’Unione, operativo sotto la giurisdizione della Guardia Nazionale e di diverse altre forze federali dirette da Washington per far fronte a quello che appare come un disastro (prodotto in questo caso dalla decapitazione del regime di Saddam). Il problema dei numeri, delle minoranze e del terrorismo è ben presente e attivo in Iraq, e si articola nella questione se un “popolo” iracheno possa mai emergere dalle caotiche mega-politiche degli sciiti, dei curdi e di altre minoranze di rilevanti dimensioni. Da una parte l’amministrazione americana in Iraq fronteggia la spinosa questione delle minoranze, come quella sciita – che in termini strettamente numerici è estremamente consistente e ben collegata al regime iraniano – o quella curda, disposta a cavallo dei confini tra Iran, Iraq e Turchia, e le cui dimensioni sono assolutamente considerevoli. Mentre gli Stati Uniti completano le loro operazioni di non-uscita dal paese (dove hanno importato in fretta e furia squadre di esperti per stendere da un giorno all’altro una costituzione irachena, come hanno già fatto in Afghanistan), si crea un ingorgo concettuale fatto di minoranze numericamente consistenti, insistenza da parte della maggioranza degli iracheni a che la nuova conformazione sociale sia “islamica” e la percezione che una vera democrazia non possa essere islamica, se non in senso estremamente flebile. Tutte le discussioni e le battaglie sulla natura di concetti fondamentali come costituzionalismo, elezioni, democrazia e rappresentatività in Iraq hanno luogo all’ombra di battaglie non metaforiche, e di scenari di guerra in luoghi come Najaf e Falluja. Due aspetti della caotica situazione irachena attuale sono rilevanti per la questione dei piccoli numeri e della paura delle minoranze, temi centrali di questo capitolo. Il primo è che anche dopo la fine politica di un despota veramente spietato, sicuramente temuto e odiato da molti iracheni, l’esercito degli Stati Uniti è ancora assillato dalla paura dei

piccoli numeri, quei piccoli gruppi di guerriglieri o civili che conducono attacchi a sorpresa alle forze americane e a volte lanciano azioni suicide per gettare scompiglio e morte tra i soldati USA. Dato che sono totalmente mimetizzati tra la popolazione civile, individuare questi “terroristi” richiede improbabili qualità divinatorie da parte delle forze americane, che si aspettavano la resa totale dell’Iraq non appena un singolo individuo – Saddam Hussein – fosse stato scalzato dal potere. Gli Stati Uniti quindi, in quanto forza di occupazione, affrontano il timore che i piccoli numeri che continuano a tormentare e uccidere i loro soldati costituiscano una rappresentazione fedele del popolo iracheno, che nella versione originaria della sceneggiatura avrebbe dovuto accogliere gli americani come liberatori, e portare alla luce, sotto la carcassa del dittatore, una smagliante società civile. L’Iraq, inoltre, incarna una sfida più astratta: come produrre un “popolo” nazionale a partire da quelle che sembrano solo grandi minoranze etniche o religiose? In Iraq e in Afghanistan il progetto americano di costruzione di democrazie a lunga distanza si trova ad affrontare un dilemma insanabile: o gli USA consentono a questi paesi di costituirsi come repubbliche islamiche, dovendo quindi ammettere che l’unico modo di creare i rispettivi “popoli” è quello di porre al centro della definizione di nazione proprio quella religione che l’America teme più di ogni altra; oppure devono trovare il modo di assemblare coalizioni di minoranze numericamente consistenti, riconoscendo in questo caso che la società civile in Iraq, e in molti posti come l’Iraq, dev’essere costruita nel lungo periodo, e che l’unico interlocutore vero oggi sono le minoranze. Ma si tratta di minoranze con connessioni globali e legate a popolazioni numerose. Dovendo comunque scegliere tra opzioni così difficili, dopo aver dato il via a una guerra che rifiuta di concludersi, gli Stati Uniti devono impegnarsi in questioni di minoranze, incertezza, terrore e violenza etnica che tormentano molte società nell’epoca della globalizzazione. Sembrano esserci segnali che alcuni iracheni stiano già impegnandosi in quella che potremmo chiamare pulizia etnica “a secco”, in attesa di passare a forme più brutali di pulizia etnica al momento opportuno. Se un simile scenario si realizzasse, avremmo più che mai bisogno di trovare nuovi modi per tenere sotto controllo la distanza che separa i piccoli numeri dall’odio che suscitano nelle maggioranze politicizzate,

quei grandi numeri che Lenin giustamente aveva previsto essere gli indicatori dell’inizio di ogni “politica seria”. Conclusioni: globalizzazione, numeri e differenza Torno ora a due temi importanti: uno è la questione delle piccole differenze e l’altro è lo speciale legame tra la globalizzazione e l’odio crescente verso le minoranze. A quel che posso vedere, non si tratta di due aspetti scollegati tra loro. Michael Ignatieff (1997) è forse l’analista che con maggior precisione ha fatto riferimento al famoso saggio di Freud sul “narcisismo delle piccole differenze” per aiutarci a comprendere meglio i conflitti etnici degli anni Novanta, in particolar modo quelli dell’Europa orientale. Grazie alla sua profonda conoscenza della regione, Ignatieff utilizza la definizione freudiana sulla psicodinamica del narcisismo per gettare nuova luce sulle ragioni per cui gruppi come i serbi e i croati siano giunti a produrre livelli così elevati di odio reciproco, dato il complesso intreccio di storia, lingua e identità che hanno sviluppato nel corso dei secoli. Si tratta di un’osservazione senz’altro utile, che può essere estesa e approfondita in riferimento ad alcuni degli argomenti trattati in questo capitolo. In particolare, ho ipotizzato che la radice dell’odio assoluto contro l’“altro” etnico si situi in quello spazio ridotto che separa la condizione di maggioranza dall’idea di completa o totale purezza etnonazionale. Questa ipotesi – che ho riassunto nella formula “ansia da incompletezza” – ci offre un’ulteriore base d’appoggio per estendere la formulazione freudiana alle forme pubbliche, complesse e di larga scala della violenza, dato che ci consente di comprendere come le ferite narcisistiche, trasferite a livello di ideologie pubbliche sull’identità collettiva, possono trovare uno sbocco esterno e diventare uno stimolo alla formazione di quelle che ho definito “identità predatrici”. La dinamica sottostante è costituita dalla reciproca dipendenza tra la categoria di “maggioranza” e quella di “minoranza”. In quanto astrazioni prodotte dalla pratica standardizzata dei censimenti e dalle procedure del liberalismo, le maggioranze possono sempre essere mobilitate a pensarsi come entità a rischio di diventare minori (in senso culturale o numerico) e a temere, di converso, che le minoranze possano facilmente diventare maggiori (attraverso un brusco incremento demografico o tramite subdole strategie legali o politiche). Questi timori tra loro collegati sono la conseguenza specificamente

moderna dell’intima reciprocità tra queste categorie, che pone inoltre le basi all’ulteriore timore che possano mutarsi una nell’altra. È proprio a questo livello che si situa l’intervento della dimensione globale. Con le più diverse modalità, la globalizzazione intensifica le potenzialità di questa mutazione esplosiva, così che la base naturale che tutte le identità collettive perseguono e presuppongono viene costantemente minacciata dall’astratta affinità che lega le categorie di “maggioranza” e “minoranza”. Le migrazioni planetarie attraverso e all’interno dei confini nazionali intaccano in modo costante il collante che tiene unite le persone alle ideologie del suolo e del territorio. I flussi globali delle immagini mediatiche e a volte mercificate del sé e dell’altro incrementano un archivio costituito da ibridi che rendono sempre più sfumate le linee nette che dovrebbero delimitare le identità su larga scala. Gli Stati moderni spesso manipolano e alterano la natura delle categorie in base alle quali raccolgono i censimenti e gli strumenti statistici tramite cui enumerano le diverse popolazioni entro i gruppi nazionali. La diffusione su scala planetaria di versioni improvvisate del costituzionalismo, con elementi presi dagli Stati Uniti, dalla Francia e dalla Gran Bretagna, suscita nuovi dibattiti globali sull’etnicità, sulle minoranze e sulla legittimità elettorale, di cui l’ultimo esempio è costituito dal caso iracheno. Infine, le modalità multiformi, rapide e in gran parte invisibili con cui le risorse finanziarie si muovono attraverso i canali ufficiali interstatali, le reti commerciali paralegali e i canali del tutto illegali dipendenti da reti come quella di Al Qaeda sono inestricabilmente intrecciate alle istituzioni globalizzate che si occupano di riciclaggio del denaro, trasferimenti finanziari in forma elettronica, nuove forme di controllo e regolamentazione internazionale; tutte dimensioni del capitale finanziario che in sostanza definiscono l’epoca della globalizzazione. Questi movimenti di denaro – sempre rapidi, spesso invisibili e molte volte illeciti – attraverso i confini nazionali sono considerati da molti e a ragione i produttori dei mezzi attraverso cui le minoranze di oggi possono diventare le maggioranze di domani. Ognuna di queste condizioni può contribuire a esacerbare l’incertezza sociale – oggetto di analisi specifica nel secondo capitolo di questo libro – e quindi a creare le condizioni che spingono a superare la soglia tra ansia della maggioranza e predazione su larga scala, fino al genocidio.

La paura dei piccoli numeri, quindi, è intimamente legata alle tensioni che le forze della globalizzazione inducono nella teoria sociale liberale e nelle sue istituzioni. Le minoranze in un mondo che si globalizza sono un evocatore costante dell’incompletezza della purezza nazionale. Quando poi le condizioni – in modo particolare quelle che circondano l’incertezza sociale – entro una specifica comunità nazionale sono mature per trasformare politicamente questa incompletezza in una carenza esplosiva, può infine tracimare la furia genocida, soprattutto in quelle società liberali in cui l’idea di minoranza è giunta a essere, in qualche misura, un valore politico condiviso che influenza tutti i numeri, grandi e piccoli. *

Ho avuto il privilegio di presentare precedenti versioni di questo saggio in tre occasioni: allo Swarthmore College nell’ottobre 2003, all’Amherst College il mese successivo, e all’Università di Chicago nell’aprile 2004. In tutti i casi, ho ricevuto apprezzabili commenti da molti amici e colleghi. Sono particolarmente in debito con Faisal Devji, la cui analisi accurata e i cui suggerimenti su una versione precedente mi hanno aiutato a chiarire diversi punti della mia esposizione. Gli elaborati commenti di Uday Mehta sui miei riferimenti alla teoria sociale liberale richiederanno da parte mia un ulteriore sforzo di elaborazione.

Postfazione Il pericolo della purezza: Appadurai e la violenza etnica Piero Vereni

Riassunto delle puntate precedenti Con questo suo nuovo e lungamente atteso lavoro, Appadurai cerca di rispondere ad alcuni rilievi critici suscitati dall’uscita di Modernità in polvere (Appadurai 1996). In quel volume (che raccoglieva la riflessione critica elaborata nella prima metà degli anni Novanta) Appadurai si sforzava di dare un senso alla agency dei soggetti (individuali e collettivi) nel quadro della globalizzazione, e si era per questo attirato le critiche di quanti avevano visto in quella mossa un’implicita accettazione della globalizzazione economica o, perlomeno, un eccesso di ottimismo nei confronti della capacità del locale di reagire alle pressioni del globale. In realtà, già in quel volume l’antropologo indiano si era sforzato, con un saggio inedito (“Sopravvivere al primordialismo”, in Appadurai 1996, pp. 179-204), di indagare il rapporto tra globalizzazione e violenza, dando quindi prova della capacità di riflettere in modo originale su uno dei temi più drammatici della nostra epoca, e cioè la crescita apparentemente incontrollabile della violenza collettiva (“comunitaria”, cioè a base religiosa; “etnica”, cioè a base culturale; o ancora strettamente politica) nel corso degli ultimi anni. In “Sopravvivere al primordialismo” Appadurai si era posto il compito di confermare la natura moderna delle recenti esplosioni di

brutalità, con l’intento di sottrarre la violenza etnica al naturalismo. Oggi – diceva in quel saggio – la violenza è la risultante sul piano locale (tanto locale da incarnarsi nel corpo delle vittime) di cascate di eventi globali che si rifrangono in vere implosioni etniche. Per chi conosce “Disgiuntura e differenza nell’economia culturale globale” (Appadurai 1996, pp. 45-70), l’immagine delle cascate e delle implosioni del mondo multicentrico corrisponde a una prospettiva “oggettiva”, di progressivo avvicinamento in piano sequenza, di quella visione in soggettiva presentata negli -orami (-scapes), con la rilevante differenza, rispetto a un piano sequenza classico, che la prospettiva non è univoca ma data dalla congiunzione di diverse inquadrature, come in certe riprese tipiche dei film di John Woo e popolarizzate nelle scene di combattimento di film come Matrix. Appadurai propone evidentemente di ribaltare anche visivamente l’interpretazione primordialista per cui quel che succede all’esterno (espressione violenta) altro non sarebbe che la fuoriuscita di liquami che gonfiano i gruppi dall’interno: “(…) non cedere alla dialettica interno-esterno che ci viene intimata dall’impostazione primordialista e pensare invece alle dinamiche dell’etnicità moderna come fondate sulla specifica dialettica di implosione ed esplosione [cioè esternointernoesterno] nel corso del tempo” (p. 203). Anche se nel saggio in questione il tema viene affrontato esplicitamente solo nel paragrafo dedicato alla “politica delle emozioni”, questa prospettiva ribaltata rispetto a quella primordialista si ritrova non solo a livello collettivo (i gruppi politici) ma interessa i singoli individui, ed è un po’ la cifra del pensiero di Appadurai e un cardine della sua metodologia analitica. Mescolando in modo estremamente creativo diverse tradizioni di pensiero, praticamente in tutto il suo lavoro Appadurai si sofferma almeno di sfuggita sul corpo come “ricettacolo” dinamico di politiche e pratiche culturali: luogo poroso per eccellenza, nel corpo e nelle pratiche del corpo possiamo vedere incarnati l’ideologia e il potere, che non si limitano a usare il soma come contenitore nel quale insediarsi, ma lo plasmano in senso letterale per poter vivere al di là di qualunque piano fantasmatico. Com’è evidente, c’è un parallelismo tra ribaltamento della prospettiva primordialista per quanto riguarda le etnie e ribaltamento della prospettiva naturalista per quanto riguarda i corpi: in tutti e due i

casi Appadurai pone l’oggetto come la risultante (e non la premessa) di pratiche implosive, insistendo sulla natura in progress dei presunti oggetti della riflessione delle scienze sociali. Sicuri da morire Anche in Sicuri da morire Appadurai si sofferma sul corpo come ricettacolo, ma lo fa in modo sensibilmente diverso, puntando a indagare le forme in cui “il corpo etnico può divenire il luogo dove è possibile rappresentare e incontrare quella specifica forma di incertezza che è dovuta alla globalizzazione” (p. 38). Nel capitolo che dà anche il titolo all’intero volume Appadurai propone infatti un’ipotesi di lavoro estremamente stimolante: la violenza che lui chiama “etnica” (e che fra poco definiremo culturale) è la conseguenza di un’incertezza identitaria dovuta alla condizione postmoderna, in cui le appartenenze sembrano molteplici, gestibili e flessibili. In queste condizioni, l’esercizio della violenza fisica sul corpo dell’altro assume una duplice valenza, cognitiva e morale, configurandosi da un lato come un atto “scientifico” di verifica del diverso, e dall’altro come un’azione politica di necessario ripristino delle differenze (il richiamo a Purezza e pericolo di Mary Douglas è esplicito). Nel prosieguo del volume, Appadurai si sforza di produrre una teoria sistematica delle ragioni e delle forme della violenza odierna. Particolarmente rilevante nella sua riflessione è il rapporto tra maggioranze e minoranze entro e attraverso i moderni Stati nazionali, riconosciute come entità sociali e culturali la cui attivazione politica può essere garantita proprio dal quadro dello Stato nazionale. Detto altrimenti, anche per Appadurai, come per molti autori che riflettono su questi temi da una prospettiva socio-culturale, le minoranze sono un effetto collaterale della produzione di maggioranze messa in atto dal sistema uniformante del processo di nation building. Ma su questa linea interpretativa Appadurai si spinge oltre (dal punto di vista politico, oltre che analitico) quando arriva a sostenere che qualunque sia l’impegno “democratico” dello Stato che costituisce la sua maggioranza, è il sistema liberaldemocratico in quanto tale a porre alle proprie basi un’entità in qualche modo “etnica”, dove per etnica dobbiamo intendere quella forma identitaria che pretende di stabilire in modo “naturale” il criterio che legittima per alcuni soggetti la priorità d’accesso alla fruizione e gestione delle risorse e della cosa pubblica.

Superando quindi definitivamente la fasulla opposizione tra nazionalismo civico (che sarebbe patrimonio occidentale) ed etnico (che invece sarebbe retaggio “orientale”) Appadurai ha il coraggio di ammettere che qualunque forma (anche la più “civile”) di appartenenza collettiva organizzata secondo i principi del moderno Stato nazionale produce (quando non vi si basa direttamente) un nucleo etnicista che pretende di essere il legittimo proprietario e rappresentante della nazione. La recente posizione di Samuel Huntington (2004) contro l’ispanizzazione degli Stati Uniti sembrerebbe una conferma precisa di questa teoria. Secondo Appadurai questa pregiudiziale etnicista, oltre a produrre minoranze (ma su questo si vedano anche le raffinate elaborazioni di Herzfeld 1997) produce “ansia da incompletezza”. Il gruppo maggioritario reagisce alla presenza delle minoranze con la stizza tipica di chi riconosce che tra essere maggioranza e essere la pienezza etnica – cioè la purezza totale – lo scarto è minimo. Ecco quindi che la minoranza interna, paradossalmente, diviene tanto più osteggiata e tanto più nemica quanto più è piccola, perché quanto più è piccola tanto è minore la distanza dalla perfezione nazionale. L’ansia da incompletezza, dice Appadurai, produce identità predatrici, identità che cioè hanno bisogno di attivarsi come istanze purificatrici, che quindi non si pongono solo “contrastivamente” nei confronti dell’altro (con il che Appadurai sembra fare i conti con l’ottimismo di un certo approccio interazionista all’identità) ma ne pretendono la cancellazione totale e violenta. Questa interpretazione della violenza etnica e del disagio verso le minoranze viene ulteriormente elaborata alla luce di una rilettura sociale e culturale del freudiano “narcisismo delle piccole differenze”. Il soggetto per Freud costruisce la propria identità (cioè la propria unicità) creando separazione tra sé e l’oggetto del suo desiderio (l’amato) con il quale rischierebbe di con-fondersi, e lo fa individuando dettagli minimi, particolari apparentemente insignificanti che producono invece fastidio, irritazione, separazione in senso letterale. Appadurai (anche alla luce delle riflessioni di Michael Ignatieff sulle guerre iugoslave) individua un nesso tra la trasposizione sul piano collettivo di questa pratica distintiva e le dinamiche “disgiuntive” della globalizzazione. La messa in circolazione della differenza e la proposizione del “mercato della memoria” nelle forme

stivate dalla tecnologia rendono le differenze particolarmente importanti per la definizione delle appartenenze collettive, e le piccole differenze particolarmente irritanti. L’ansia da incompletezza, per così dire, fa sistema con l’ansia da identificazione, producendo esiti a volte esplosivi. La natura culturale della violenza Inutile dire che l’intento fortemente “teorico” che permea questo lavoro è non solo benemerito, ma assolutamente necessario. Cercare di capire cosa provochi la violenza è senz’altro un’esigenza legittima e oggi forse doverosa della ricerca antropologica. Particolarmente chiara risulta l’urgenza di un’analisi che provi a superare le evidenti limitazioni degli approcci realisti, che vedono nella violenza etnica, religiosa, nazionale (o qualunque altra aggettivazione “culturalista” si usi porre) null’altro che un’espressione oggettivamente distorta e analiticamente fuorviante di soggiacenti conflitti di natura più “materiale” ed economica. Questo approccio realista alla violenza su base culturale, oltre a essere estremamente rassicurante, gode di una lunga e dignitosissima storia, che possiamo far risalire all’epoca in cui August Bebel diceva che l’antisemitismo è il “socialismo degli idioti”, che confondono la classe borghese con la sua macchietta etnicizzata (e forse non è un caso che questa definizione abbia paradossalmente riacquistato un suo senso proprio ai giorni nostri). Ma applicato pedissequamente all’attuale situazione di violenza diffusa e globalizzata, l’approccio realista dice che tutto quel che è successo di violento dall’11 settembre 2001 (qualcuno dice dal gennaio 1991, altri dal 1989 o 1980, altri dal 1945, ma si può risalire il corso della storia finché si vuole) sarebbe solo un colossale tentativo di – a seconda delle ipotesi – accaparrarsi le riserve mondiali di energia, oppure contrastare l’espansione economica di qualche potenza emergente (l’ultima versione dice la Cina), oppure le due cose insieme. La teoria realista, ancorata al modello classico del conflitto politico i cui soggetti assolutamente dominanti sono gli Stati nazionali, dice insomma che la catena di violenza e guerre nella quale il mondo sembra sempre più ingolfato altro non sarebbe che una normale conseguenza della predisposizione degli Stati al proprio tornaconto (nella versione di destra) oppure alla sopraffazione degli oppressi per la conquista di un potere egemonico (nella versione liberal). In quest’ottica, anche

Osama bin Laden diventa lo “sceicco virtuale” che sta provando a diventare uno “sceicco reale”, dato che il suo vero obiettivo sarebbe quello di scalzare la monarchia saudita e prendere possesso di un suo Stato nazionale. Ora, se credessimo veramente a questa teoria (che posso riassumere così: quando la gente ammazza o si fa ammazzare in nome di un qualunque valore riconoscibilmente morale – dio, giustizia, democrazia – in realtà sta mascherando le proprie vere intenzioni e i propri fini, che sono di tutt’altro ordine; oppure, se non è in malafede, è comunque manipolata da poteri esterni) non si capisce cosa l’antropologia potrebbe dire di sensato sull’argomento. Dato che Appadurai continua a ritenersi un antropologo (per quanto “contaminato”, come dirò) e a lavorare utilizzando categorie antropologiche, voglio credere che chi ha deciso di leggere questo libro avesse perlomeno il sospetto che la spiegazione delle ragioni della violenza non spetti in esclusiva agli economisti e agli esperti di geopolitica, ma che sia possibile individuare qualche dimensione più chiaramente culturale nelle motivazioni che mettono in movimento un machete, un mitra, una bomba intelligente o una carica esplosiva. Del resto, è prassi comune dell’analisi di questo tipo (anche di quelle che si vogliono più fredde e spassionate) legittimare una parte in causa in nome della motivazione morale dell’uso della violenza, e simmetricamente svilire la posizione rivale come dettata dalle più bieche ragioni di potere. Così, gli attentatori suicidi sono, a seconda delle prospettive predilette, pupazzi nelle mani degli sceicchi virtuali oppure resistenti in nome di una morale rigorosa quanto dolorosa, e i torturatori di Abu Ghraib sono dei pazzi criminali comunque al servizio delle multinazionali del petrolio oppure gente che sta esportando (con qualche eccesso, of course) la democrazia e i suoi sani rituali goliardici. Con questo libro viene fornito invece un serio strumento per individuare la specificità “culturale” della violenza odierna, cercando cioè ancora una volta di rispettare il mandato antropologico di dare un senso al “punto di vista dei nativi”, siano essi attentatori o torturatori, senso che qualunque approccio realista rende assolutamente irrecuperabile o riduce alla patologia individuale. È ovvio che, proprio nell’ottica genericamente foucaultiana che fa da sfondo a buona parte della riflessione di Appadurai, la prospettiva

di distinguere in modo univoco e “scientifico” tra violenza culturale e altre forme è semplicemente assurda, ma se si accetta una versione meno rigida della nostra scienza, ci si può concentrare con un qualche agio su quelle forme di violenza che prendono perlomeno la loro ragione d’essere e la loro giustificazione in quello che Appadurai altrove chiama culturalismo, e cioè quella forma della politica in cui i movimenti (nazionali o etnici) “(…) assumono consapevolmente le differenze culturali come loro oggetto” (Appadurai 1996, p. 189). C’è in questo approccio una chiara valutazione della dimensione simbolica “emica” che consente di individuare con una certa precisione la violenza culturale. La violenza è di tipo culturale se i perpetratori e le vittime dichiarano di colpire o essere colpiti per via della loro identità, e in questa chiave culturalista è possibile recuperare al suo valore anche la dimensione morale della violenza odierna: l’intento punitivo e pedagogico del terrorismo di organizzazioni “cellulari” come Al Qaeda, e lo speculare intento modernizzatore della guerra neocon alleata al complesso di superiorità morale dell’evangelismo americano sono, nell’uso che ne fa Appadurai in questo contesto, dimensioni decisamente culturali della violenza odierna. Il punto su cui vale comunque la pena di insistere è che non si tratta di orpelli sovrastrutturali, ma di fattori determinanti della condizione attuale. Di conseguenza, diventa essenziale provare a individuarne le ragioni. Godzilla vs. L’invasione degli ultracorpi Per motivi che qui è impossibile anche solo riassumere schematicamente, negli ultimi duecento anni la lotta per il dominio della sfera politica combattuta da quelle identità che chiamiamo collettive ha fatto un uso sempre più sistematico della memoria, cioè del legame con il passato: si è quel che si era, o si è quel che erano i nostri progenitori. I grandi movimenti nazionali del XIX e XX secolo, e i più ridotti (per dimensioni, più che per intensità) movimenti etnici sorti a cavallo del nuovo millennio da questo punto di vista possono essere interpretati come grandi macchine simboliche il cui obiettivo è quello di rassicurare i propri membri rispetto alla continuità e immutabilità storica della loro identità. Se l’obiettivo è la certezza identitaria, la conseguenza di questo tipo di modello è la separazione netta tra gruppi attraverso la costituzione di confini certi: se so dove finisce il

Noi, non avrò problemi a definire il Loro. Considerata in questa luce, l’ipotesi di fondo di Sicuri da morire (e cioè il legame tra violenza e bisogno di essere rassicurati sulla propria identità vivisezionando l’altro, magari similissimo a noi) ci spinge a considerare l’incertezza che porta alla violenza come la conseguenza più devastante di un’ovvia incapacità del Reale (inteso proprio in senso lacaniano, come quella parte che comunque sfugge al nostro tentativo di integrazione simbolica della “realtà”) di conformarsi alle certezze identitarie del culturalismo fondato sulla memoria. Si potrebbe dire che l’incertezza identitaria e l’ansia da incompletezza di cui parla Appadurai sono la conseguenza dell’eccesso di aspettative con le quali l’ipermnesia delle identità legate allo Stato nazionale moderno ha caricato il concetto di identità. La certezza apparentemente instillata – ma di fatto solo pretesa – dalla dottrina nazionalista-etnicista-culturalista delle appartenenze ha prodotto un’escalation delle aspettative la cui minima frustrazione genera un’incertezza di proporzioni comparabili alla certezza di cui è la disillusione. L’innesco della violenza culturalista sarebbe quindi non tanto l’incertezza cognitiva di fronte all’altro, ma una dialettica insoluta tra certezza instillata “teoricamente” dalla memoria identitaria del proprio gruppo e le inevitabili incertezze identitarie cui ci sottopone il reale. Queste incertezze sono tanto più forti e evidenti quanto più lo Stato nazionale come soggetto della politica mondiale ha perso il monopolio della gestione dell’immaginario dei propri cittadini, dovendo cedere necessariamente spazio ai flussi mediatici che sfuggono al controllo e al “filtro” statale. Questa raffigurazione del movimento che dal piano globale dei grandi processi economici e mediatici conduce alla violenza etnica locale, che fa a pezzi il vicino di casa o che tortura prigionieri inermi, ci consente di superare definitivamente l’unica alternativa finora avanzata in modo sistematico rispetto al modello realista della violenza come espressione della “solita” lotta per il potere, e cioè il paradigma primordialista. Questo modello alternativo, che ha avuto il suo momento di gloria all’apice delle guerre iugoslave, si può definire come paradigma Godzilla: come il mostro giapponese cova sotto la crosta terrestre la sua furia, nell’attesa che una qualche catastrofe lo faccia riemergere

dagli abissi, così la violenza tra popoli “antichi”, repressa dal coperchio dell’apparente uniformazione politica durante la guerra fredda, sarebbe tornata a riemergere una volta venute a cadere le ragioni del suo contenimento coatto. Questo modello (espresso in diverse varianti: il ghiacciaio che si scioglie liberando identità a lungo congelate ma sostanzialmente immutate; la pentola a pressione che a un certo punto esplode, rovesciando il magma incandescente che covava sotto l’apparente tranquillità della routine quotidiana) cerca di spiegare il nuovo (il crollo violentissimo della Iugoslavia, le orrende stragi del Ruanda nel 1994) con il vecchio, addossando a un cupo medioevo delle identità – che si perde al di là della nostra capacità di recuperarlo storicamente – la responsabilità del sangue che percorre oggi le strade del mondo. L’analisi di Appadurai è tutta rivolta invece a dimostrare l’opposto: l’estrema novità delle forme e delle ragioni della violenza nell’epoca attuale. Senza riprodurre per intero il modello dell’antropologo indiano, di cui comunque abbiamo dato qualche elemento nelle pagine precedenti, possiamo provare a condensarlo in un paradigma alternativo, che potremmo chiamare paradigma L’invasione degli ultracorpi, dal mitico film del 1956 (due anni dopo l’uscita del primo Godzilla) in cui gli abitanti di una sonnolenta cittadina americana vengono lentamente sostituiti da replicanti alieni. Come nell’Invasione degli ultracorpi, la violenza raccontata e analizzata da Appadurai viene da molto lontano, si impossessa delle persone come progetto purificatore e assolutizzante assumendone però le forme, dovendo cioè fare i conti con le specificità della condizione locale, per esplodere all’esterno solo dopo essersi incistata attraverso un lungo periodo di incubazione culturale (e in questo ricorda Alien). Non ha, ovviamente, bisogno di un motivo “concreto” (gli alieni spesso non ne hanno), ma di certo non viene dalla storia o dal retaggio di quella cittadina, anche se ovviamente vi si incrocia e presto ne diventa parte integrante. Superando quindi il modello realista (gli Stati e i grandi centri del potere economico sono i veri burattinai; gli idealisti, i moralisti e i terroristi sono al più degli utili idioti) e quello primordialista (i gruppi si scannano perché l’hanno sempre fatto, tranne quando un potere più forte riesce a reprimere la loro violenza) Appadurai apre la strada a un oggetto di ricerca completamente nuovo, a un progetto cioè che si

sforza di individuare nel “culturale” uno snodo centrale della violenza odierna. Inseguendo una biologia sociale destrutturata (le reti cellulari) e metafore organiche inconsuete (le identità predatrici, che ricordano i grandi felini, o i rapaci) Appadurai prova a dare forma a una vera “antropologia del caos”, che si sforza di non ridurre la disgiuntura inquinante dei flussi globali a un cristallino fiume causale di cui è possibile ricostruire il corso lineare. In questa operazione epistemologica è verosimile individuare una pratica della sua stessa metodologia analitica: come le identità predatrici tendono a ridurre attraverso la violenza la complessità del reale sociale alla semplicità della purezza delle appartenenze, così il paradigma realista e quello primordialista pretendono di ridurre il complesso e contorto movimento di idee, tecnologie e individui che provoca la violenza etnica a un fascio di linee rette (si noti l’implicazione morale di quella rettitudine) che possiamo in qualche modo capire e gestire. Il desiderio di purezza che muove il machete o che carica un’autobomba è quindi di natura simile a ciò che ci spinge, come analisti, a eliminare dal nostro esame quel che non rientra nel sistema categoriale che abbiamo adottato. In questo senso la proposta di Appadurai rimane saldamente impura, nei principi e nel metodo: mescolando teoria sociologica, studi d’area, scienza politica, psicoanalisi e passione etnografica per l’“inessenziale” (Herzfeld 1997) Appadurai ci dice che l’unico modo per fare i conti con la violenza di cui il mondo sembra oggi preda è rifiutarne l’istanza essenzializzante e purificatrice sia in quanto portatori di identità, sia in quanto studiosi dell’identità. Fare ricerca senza operatori totemici chiari cui affidarsi (il metodo, le cause, l’osservazione partecipante) può suscitare una crisi della presenza (come studiosi ed esperti di scienze sociali) sicuramente difficile da gestire, ma nondimeno benefica perché può invogliare almeno i più arditi a battere sentieri nuovi. Come apripista, il lavoro di Appadurai non può che stimolare a seguirne le tracce, per quanto poco lineari, o forse proprio per questo.

Bibliografia

Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici secondo il sistema autore-data è sempre quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi ai numeri di pagina si riferiscono sempre alla traduzione italiana, qualora negli estremi bibliografici qui sotto riportati vi si faccia esplicito riferimento. Abu-Lughod, J. L., 1993, The World System in the Thirteenth Century: Dead-End or Precursor?, Washington (DC), American Historical Association. Anderson, B., 1991, Imagined Communities: Reflections on the Origin and Spread of Nationalism, London, Verso; trad. it. 1996, Comunità immaginate. Origine e diffusione dei nazionalismi, Roma, manifestolibri. Anderson, B., 1994, Exodus, «Critical Inquiry», 20, 2, pp. 314-327. Appadurai, A., 1996, Modernity at Large: Cultural Dimensions of Globalization, Minneapolis (MN), University of Minnesota Press; trad. it. 2001, Modernità in polvere. Dimensioni culturali della globalizzazione, Roma, Meltemi. Appadurai, A., 1998, Full Attachment, «Public Culture», 10, 2. Appadurai, A., 2000, “The grounds of the nation-state: Identity, Violence and Territory”, in K. Goldmann, U. Hannerz, Ch. Westin, a cura, Nationalism and Internationalism in the Post-Cold War Era, London, Routledge, pp. 129-142. Appadurai, A., 2002, Deep Democracy: Urban Governability and the Horizon of Politics, «Public Culture», 14, 1, pp. 21-47. Arendt, H., 1951, The Origins of Totalitarianism; rist. 1968, New York, Harcourt; trad. it. 1967, Le origini del totalitarismo, Milano, Edizioni di Comunità. Axel, B. K., 2001, The Nation’s Tortured Body: Violence, Representation, and the Formation of a Sikh “Diaspora”, Durham-London, Duke University Press. Basrur, R. M., a cura, 2001, Security In The New Millennium; views from South Asia, New Delhi, India Research Press. Basu, A., 1994, When Local Riots Are Not Merely Local: Bringing the State Back In, Bijnor 1988-92, «Economic and Political Weekly», pp. 2605-2621. Bauman, Z., 1997, Postmodernity and Its Discontents, Cambridge, Polity Press. Bourdieu, P., 1972, Esquisse d’une théorie de la pratique précédé de Trois études d’ethnologie Kabyle; rist. 2000, Paris, Éditions du Seuil; trad. it. 2003, Per una teoria della pratica con Tre studi di etnologia cabila, Milano, Raffaello Cortina Editore. Castells, M., 1996, The Rise of the Network Society, Cambridge, Blackwell; trad. it. 2002, La nascita della società in rete, Milano, Bocconi. Comaroff, J., 1985, Body of Power, Spirit and Resistance: The Culture and History of a South African People, Chicago (IL), University of Chicago Press.

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Melusine 1 Massimo Ilardi In nome della strada 2 Teresa Macrì Postculture 3 Francesco Alter 8 Macarone Palmieri Free party 4 Massimo Canevacci PJ 5 François Heisbourg Iperterrorismo 6 Slavoj Žižek Benvenuti nel deserto del reale 7 Antonio Bisaccia Punctum fluens 8 Fulvio Carmagnola La triste scienza 9 Marco Senaldi Enjoy 10 Iain Chambers, Paesaggi migratori 11 Paul Gilroy The Black Atlantic 12 Giuseppe O. Longo Il simbionte 13 Massimo Canevacci Culture eXtreme 14 Pippo Russo Pallonate 15 Patrizia Calefato Lusso 16 Fulvio Carmagnola, Telmo Pievani Pulp times 17 Rey Chow Il sogno di butterfly 18 Luisa Valeriani Dentro la trasfigurazione 19 Anna Camaiti Hostert Metix 20 Marco Senaldi Van Gogh a Hollywood 21 Federico Boni Men’s Help 22 Judith Butler Vite precarie 23 James Clifford Ai margini dell’antropologia 24 Nicholas Mirzoeff Guardare la guerra 25 Giovanni Fiorentino L’occhio che uccide 26 Paola Zaccaria La lingua che ospita 27 Lorenzo Taiuti Multimedia 28 Valerie Steele Fetish 29 Bruce Ackerman La costituzione di emergenza 30 Consuelo Corradi Il nemico intimo 31 Robert J. C. Young Introduzione al postcolonialismo 32 Arjun Appadurai Sicuri da morire

Indice

Introduzione Scindere la differenza: le dimensioni culturali della violenza Parte prima Capitolo primo Globalizzazione e violenza Capitolo secondo Sicuri da morire: la violenza etnica nell’epoca della globalizzazione Parte seconda Capitolo terzo La civiltà degli scontri Capitolo quarto I nostri terroristi, noi stessi: note sull’epistemologia dell’insicurezza Capitolo quinto La globalizzazione dal basso nell’epoca dell’ideocidio Parte terza Capitolo sesto La paura dei piccoli numeri Postfazione Il pericolo della purezza: Appadurai e la violenza etnica Piero Vereni Bibliografia